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SPREA ON FIRE
from Pink Basket N.36
by Pink Basket
COVER STORY di Simone Fulciniti
FISICO, CLASSE, ESPERIENZA E GENEROSITÀ DA VENDERE. DOPO UN PERIODO COMPLESSO, A COSTA HA RITROVATO L’EQUILIBRIO PERFETTO, INANELLANDO UNA SERIE DI PRESTAZIONI CHE HANNO RIACCESO I RIFLETTORI SU UN PATRIMONIO DEL BASKET FEMMINILE ITALIANO.
La carriera di Laura Spreafico parla da sola. Sedici anni di massima serie, tanti alti e qualche basso. Un’esterna potente, dotata di cuore, coraggio e una mano letale dalla lunga distanza. Partendo da Como ha fatto praticamente il giro d’Italia, indossando maglie di squadre di primissima fascia, così come quelle di minore portata, sempre con la medesima classe cristallina. A Costa Masnaga vive un momento di forma straripante e mentre scriviamo sta inseguendo il sogno-playoff.
Laura, finalmente sembri tornata quella dei giorni migliori...
A Costa ho ritrovato quell’equilibrio che mancava da qualche tempo, ho ritrovato il piacere di stare in campo, divertirmi, giocare con la mente libera e serena. Arrivavo da un momento complesso, e tornare a casa mi ha dato la possibilità di stare vicino alla mia famiglia. Ciò di cui avevo bisogno. Ed ecco spiegate le belle prestazioni in campo. Questa è la chiave di volta. La serenità ritrovata su entrambi i piatti della bilancia: dentro e fuori dal campo.
Arrivata a trent’anni ti senti una giocatrice compiuta o ancora incompiuta?
Sono soddisfatta. Tante stagioni nella pallacanestro mi hanno formata come persona e come cestista. Non ho rimpianti. Alcune cose potevano andare diversamente, certo, ma tutte le esperienze che ho fatto sono servite; non butto via niente. Qualsiasi cosa può tornare utile. Se un anno fa volevo tagliare con la pallacanestro, oggi ho imparato che attraverso questo sport posso fare molto anche in altri ambiti.
Ricordi il tuo primo allenamento?
Piangevo come una disperata. Così come alla prima partita di minibasket. Abbiamo fatto di tutto per incastrarla con quella di mio fratello. Avendo una sola macchina mio padre aveva accompagnato lui, mentre io andai con mia mamma. Arrivati alla palestra il coach raggiunse mia madre dicendole che tutti erano in campo mentre “Laura è in spogliatoio che piange”: lei arrivò, mi prese per i codini e disse: “o vai a giocare o non ti porto mai più”. Scesi in campo: fu una partita tiratissima vinta 6-4 da noi e feci 4 punti. E quella fu la spinta ad abbracciare questo bellissimo sport.
C’è stato un momento “della svolta”?
Non c’è stato. Il basket l’ho sempre concepito come un divertimento, la possibilità di instaurare rapporti umani. Un aspetto per me basilare. Un processo compiuto naturalmente: ho avuto la fortuna di fare le giovanili nella Comense ed è stato normale arrivare in serie A1. Un percorso lento che rispetta la mia filosofia.
Dopo Como arriva Lucca...
Un primo salto importante anche fuori dal campo. A Como ero nella comfort zone. A Lucca sono diventata grande, vivendo l’esperienza lontano da casa. Ho avuto la fortuna di condividere quell’anno con persone ancora oggi amiche. Lo ricordo volentieri. Mantenne alto il mio percorso di crescita.
Ti allenava un certo Diamanti...
L’avevo avuto come coach nel mio primo europeo con la nazionale Under 18. Fu un motivo che mi spinse nella scelta. Riponeva in me tanta fiducia. Lui non ha bisogno di presentazioni, inutile dire che fu importante.
È vero che i suoi allenamenti sono particolarmente faticosi?
Non ricordo allenamenti così duri. C’era il piacere di stare in palestra. Ricordo invece gli esercizi sulla difesa, il suo marchio di fabbrica e della Lucca dei tempi.
Poi arrivi a Schio...
Personalmente non mi sentivo pronta per una società del genere, avevo 21 anni. Mi sarebbe piaciuto arrivarci più esperta. Non ci furono le condizioni. Schio aveva già comprato il mio cartellino. Quei due anni non mi hanno lasciato amaro in bocca: mi hanno formata, dandomi l’impostazione mentale giusta. Imparai cosa significa confrontarsi con giocatrici di grande calibro. Non ho avuto minutaggi importanti, ma solo fare allenamento con quell’intensità ti aiuta a crescere velocemente. Mi è dispiaciuto non avere l’occasione per far vedere qualcosa in più, ma ho capito come si lavora in un certo modo.
Successivamente Parma. E quella fu una stagione bomba. Concordi?
Certo. Il banco di prova. Poter dimostrare quello che avevo imparato a Schio. Mi sono presa grandi responsabilità, giocando palloni decisivi: una stagione che mi è servita molto, anche in chiave di autostima. La rinascita e l’occasione per poter dire “Ok, posso prendermi responsabilità”. La frase della quale avevo bisogno. Mi spiace solo per come è finita.
Un pezzo di cuore è rimasto in Sicilia?
A Ragusa sono arrivata per merito di Gianni Lambruschi, col quale ho un rapporto super. Basti pensare che in estate lavoro costantemente con lui, in individuale. Devo ringraziarlo per avermi fatto giocare partite di grande livello, in Eurocup, nelle semifinali scudetto. Se a Schio mi sentivo ai margini delle rotazioni, per età e come ultima arrivata, a Ragusa ho avuto la possibilità di giocare minuti pesanti… Avevo piani per stare molto tempo, ma il secondo anno una polmonite mi ha tenuta a lungo fuori, e, alla fine, le nostre strade si sono divise. Ogni estate ci torno, ho amicizie che resistono a distanza di anni.
Ma non sei la sola ad aver amato quella destinazione...
Mia madre quando sentiva parlare di offerte di Ragusa si metteva a piangere per la paura di non vedermi più. Ma è stata quella che mi ha aiutato a fare il trasloco e che ha pianto di nuovo quando ha chiuso definitivamente la porta. Ogni tanto la vedo sui siti immobiliari che cerca casa lì. I ragusani e la società hanno fatto la differenza, ero una di famiglia.
Una tifoseria eccezionale...
Mi ricordo le sfide quando arrivavo con Schio. Palazzetto sempre pieno, i fischi, una rivalità sentita, qualcosa di bello e sano che fa bene a questo sport e ne alza il livello di competitività. Non senti la fatica di giocare 5 partite in dieci giorni.
Anche Broni per te ha significato tanto. Perchè?
Sicuramente mi ha ridato la possibilità di giocare, dopo un anno in cui avevo giocato poco ed avevo perso il ritmo. Loro hanno puntato tanto su Spreafico. Avevo due offerte, Napoli e Broni, e il mio istinto mi fece optare per Broni, il pensiero mi dava serenità. Fu la scelta ideale. Lavorare con coach Fontana, che reputo insieme a Barbiero il miglior coach che ho avuto, mi ha dato molto. Ho ripreso ritmo, consapevolezza nei miei mezzi. E poi giocare per i Viking, è una cosa bella. È incredibile vedere quel piccolo palazzetto pieno di tifosi che cantano tutta la partita, e che ti seguono nelle trasferte impossibili. Difficile trovare nel nostro ambiente tante emozioni. Ricordo ad esempio il derby contro il Geas il primo anno: durante il riscaldamento volarono 300 rotoli di carta igienica. Una bella carica.
E adesso arriviamo alle dolenti note. Il ritorno a Lucca. Cosa non funzionò?
Motivazioni personali importanti, non mi trovavo bene sul campo con l’allenatore e già a ottobre gli avevo manifestato le mie sensazioni: non mi divertivo, facevo fatica ad andare in palestra. Non sono una che molla, non lascio le cose a metà, volevo portare a termine l’anno in qualunque modo. Ma a novembre c’è stata una mazzata personale importante che mi ha stravolto la vita, andare avanti significava andare incontro ad una possibile depressione. Chi mi conosce ha avuto il coraggio di chiamarmi al telefono. Ma ad altri è bastato poco per giudicare una persona, senza sapere le cose fino in fondo. E sono tutti bravi a sputare sentenze dietro ad una tastiera, così, come se non ci fosse un domani. Non rimpiango nulla perché era il momento di mettere davanti me stessa. Il basket è solo un capitolo, la vita è ben altro. Ho preso una decisione difficile, ho passato due brutte settimane prima di Natale, ma l’ho dovuta prendere per una questione di sopravvivenza. Chi mi conosce ha capito, gli altri possono pensare quello che vogliono. Non voglio dare spiegazioni. Non ne vale la pena.
Con la Nazionale che rapporti ci sono?
La Nazionale è un sogno. Io e lei viaggiamo su due linee parallele. Negli anni ho sempre fatto qualificazioni, mai un europeo. E questo è un obiettivo da raggiungere prima di finire la carriera. So che la cosa non dipende da me, dalle mie prestazioni, ci sono tanti fattori che non posso controllare. So solo che io posso dare il mio meglio, ed ogni volta che arriva la chiamata azzurra è sempre un motivo di orgoglio che fa piacere. Ma se non arriva continuo a fare il mio, lavorare sempre più forte senza rimanerci troppo male. Ho imparato negli anni a farlo diventare uno stimolo e non un macigno da tenere sulle spalle. La vivo serenamente. I risultati si trovano e si raccolgono. Vedremo.
Una partita che vorresti rigiocare?
A Ragusa la finale di Supercoppa del primo anno, rigiocherei l’azione decisiva. Mancammo l’ultimo rimbalzo, e la palla finì a Jolene Anderson che segnò. La prima partita con in palio un trofeo dove ho potuto dare un vero contributo.
Uno sportivo di riferimento?
Da piccola, in Comense, avevo come idoli Masciadri e Macchi. Arrivare a giocarci insieme a Schio è stato qualcosa di irreale. Le ammiravo i miei primi anni nelle giovanili quando erano in serie A, lontane, inarrivabili. Sette anni dopo trovarle compagne di squadra è stato particolare.
L’ avversaria più forte incontrata?
Diana Taurasi. Lei giocava ad Ekaterinburg e io a Schio. Difendevo su di lei, un fenomeno.
La compagna più forte?
Chicca Macchi, per il talento e la creatività che aveva in campo. Basti pensare a quel famoso canestro in gara 5 contro Ragusa, che valse uno scudetto. A rivederlo è poesia in movimento. Sarà stata fortuna? Di sicuro classe. Lei risolveva cose impossibili con una facilità disarmante.
Qual è la parte migliore del basket?
La possibilità di migliorarsi subito dopo un errore, di riscattarsi e fare qualcosa di utile nell’immediato. Una filosofia di vita: gli errori accadono ma è importante la velocità con la quale affrontiamo le cose e ripartiamo.
Una cosa che non hai mai fatto e che vorresti fare?
Soffro di vertigini, ma dico lo stesso bungee jumping. Contro natura, superare la paura di buttarsi nel vuoto, potrebbe essere una pazzia, estrema, solo al pensiero muoio.
Matilde Villa, la tua compagna di squadra, è davvero così forte?
Sì. Ho la fortuna di vederla in allenamento e nonostante abbia solo 17 anni, sfodera un talento incredibile. Ogni tanto mi chiedo come fa ad andar dentro con una facilità disarmante, regge i contatti con gente tre volte più grossa. Ha la testa giusta. Umile, e con i piedi per terra. Si impegna e migliora giorno dopo giorno. Quello che riesce a fare alla sua età è difficile da vedere. Le auguro di diventare una giocatrice importante, con la semplicità che la contraddistingue.
Com’è il tuo extra-basket?
Mi mancano due esami alla fine della triennale in psicologia. Statistica uno e due. Gli ho lasciati per ultimi perché non mi piacciono. Poi inizierò un tirocinio di sei settimane presso una comunità madre-bambino. Una sfida che mi spaventa, ma sono contenta di averla accettata. Penso che ognuno di noi debba conoscere tanti ambiti nella vita. Nel post carriera non so se proseguirò nel mondo del basket. Mi piacerebbe lavorare coi bambini piccoli, dai 5 ai 10 anni. Non si deve mai smettere di imparare ed essere curiosi verso la vita.
Concludiamo con la classica domanda: comandassi tu, cosa cambieresti nell’universo basket femminile?
La cosa che mi dà più fastidio è non essere considerate uguali ai maschi. Per me è inconcepibile constatare che quando smetterò di giocare, con magari 20 anni di carriera alle spalle, avrò zero anni di lavoro, essendo considerata dilettante. Nel 2022 essere su piani diversi dai maschi è inaccettabile, dato che l’impegno è lo stesso. C’è da lavorare tanto. Io non vedrò i risultati: ma spero che le generazioni future possono raccogliere qualcosa.