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UN TESORO DI NOME WOJTA

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RUSH FINALE

RUSH FINALE

COVER STORY di GIULIA ARTURI

LO SCUDETTO A LUCCA, DUE GRANDI STAGIONI A BRONI: CONOSCIAMO MEGLIO LA GIOCATRICE IDEALE, COME LA DEFINISCONO COMPAGNE E ADDETTI AI LAVORI. QUELLA CHE SI PORTA LA SQUADRA DENTRO. “SÌ, ADESSO IN ITALIA MI SENTO A CASA”

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A un certo punto di questa intervista troverete un’espressione di Julie Wojta: “feeling of a team”, sentirsi la squadra dentro. È la chiave per capire una giocatrice e un personaggio fra i più positivi che il nostro campionato abbia mai incontrato. L’equilibrio perfetto fra individualità e collettivo è la pietra filosofale del basket, come di ogni sport di squadra: l’americana del Wisconsin, di poche ma profonde parole, l’incarna alla perfezione. Lo si vede in campo, dove sa fare tutto, comprese le piccole cose che non danno gloria ma fanno vincere le partite, lo si percepisce al volo fuori. Per spiegarlo meglio, sentirete anche le voci di chi ha imparato a conoscerla da vicino. Ma prima entriamo con lei in presa diretta.

Julie, qual è il bilancio della stagione che per voi si è appena conclusa?

“Guardando indietro vedo molte cose positive. Ovviamente non è finita come avremmo voluto. Come squadra e società, Broni ha fatto un ulteriore salto di qualità. Ma il modo in cui sono finiti i playoff non è stato positivo. Nei quarti di finale contro San Martino siamo sempre state lì vicino e sia in gara 1 che in gara 3 ci eravamo costruite la possibilità di vincere: finire la stagione così è stato un brutto colpo per noi. Volevamo fare meglio per Broni, una società che fa tutto il possibile per mettere nelle migliori condizioni le giocatrici. È davvero speciale fare parte di questa realtà. Per questo è stato tosto vedere finire tutto così. Da quando Broni ha vinto la serie A2 ed è stata promossa, ogni anno ha fatto un miglioramento da tutti i punti di vista. A me personalmente hanno dato l’opportunità di avere un ruolo importante nella squadra. Sono grata al club e ad Alessandro (Fontana, il coach ndr) che mi ha spinto ad assumere un ruolo sempre più di responsabilità. Francesca Zara, preparatrice atletica, è un elemento dello staff fondamentale per noi: ci trasmette la mentalità, il modo giusto di approcciarsi a tutto, oltre che prepararci dal punto di vista fisico. Ed eravamo seguite al meglio anche da fisioterapisti e medici: tutte queste cose, piccoli pezzi, contribuiscono ai risultati della squadra”.

In campo sei una di quelle giocatrici che fanno da collante per la squadra. Ti riconosci in questa definizione?

“Da sempre, fin da quando ero piccola, trovo soddisfazione quando tutti si sentono parte integrante della squadra. Mi piace passare la palla tanto quanto segnare o catturare un rimbalzo in un momento chiave. Penso sia più importante ‘the feeling of a team”, sentirsi la squadra dentro, il vincere tutti insieme, che non banalmente le voci statistiche (ma non si fa mancare neanche quelle: è la terza giocatrice di tutto il campionato con 20,1 di valutazione media, a pochi decimali dalle prime due che sono Lavender e Harmon, ndr). Amo giocare in questo modo, sentendomi parte di un gruppo. Io non sono più di tanto una leader che usa la voce per farsi sentire, non parlo troppo. Ma dal mio modo di giocare voglio che si percepisca che sto dando tutto, dell’energia che voglio portare alla squadra: cerco di contribuire con tutti quei gesti che fanno la differenza tra vincere e perdere, a partire dalla difesa. Per me è preziosa qualsiasi piccola cosa che conduce alla vittoria. Una partita è fatta da una moltitudine di azioni, e il suo sviluppo dipende interamente da quelle”.

Anche vista da fuori è esattamente così. Sentite Ashley Ravelli, sua compagna a Broni: “Dietro ad una grande giocatrice c’è sempre una grande persona e Julie è grande in tutto. La sua umiltà è quello che più mi ha colpito: lavora come poche, è sempre pronta ad aiutare le compagne, non si tira mai indietro. Agisce più che tenere discorsi, ma quando comunica sa esattamente cosa dire e di cosa ha bisogno la squadra in quel momento. L’ho vista ‘distrutta’ in campo ma senza mai mollare mezzo centimetro: ha l’istinto di sopravvivenza. Semplicemente è la compagna che tutti vorrebbero”.

Torniamo alla protagonista: Julie, che cosa pensi del campionato italiano? Ti piace giocarci?

“È il mio quinto anno in Italia e adoro la vita che faccio qua. Stare bene è una questione di equilibrio. Il mix tra un campionato di buon livello e la qualità della vita personale, al di fuori del campo da basket, deve essere ben bilanciato. Sono arrivata al punto in cui ho vissuto da voi abbastanza per crearmi dei veri legami di amicizia. Ho davvero iniziato a sentirmi a casa. Non è una questione di soldi: fare la giocatrice professionista significa stare otto mesi lontano dalla famiglia e da tutto quello che conosci. Per farlo, io personalmente ho bisogno di stare dove mi sento bene, circondata da brave persone, in un posto che posso considerare come una seconda casa”.

Ed è quello che hai trovato a Lucca, alla tua prima esperienza italiana?

“C’era sempre stata nella mia testa l’idea di giocare in Italia ad un certo punto della mia carriera. La mia prima esperienza da professionista è stata in Belgio e una mia compagna era stata allenata da Mirco (Diamanti, suo coach a Lucca, ndr). Quella fu la connes- sione. Mirco è un grande allenatore, ha tanto rispetto per le sue giocatrici, sono stata fortunata a trovarmi con lui in quella circostanza. Tanto intenso sul campo quando si tratta di allenarsi, quanto disponibile e sereno fuori”.

Dall’infortunio nel precampionato della tua prima stagione, allo scudetto tre stagioni più tardi. Una storia a lieto fine, te lo saresti mai aspettato?

“Mi sono rotta il legamento crociato dopo poche settimane dall’inizio della preparazione, ma la società si è comportata benissimo con me. Ho firmato per l’anno successivo e si sono presi cura di me in maniera perfetta. Da quel momento ho capito che quello era un contesto ottimale per me. Nei due campionati successivi siamo cresciute tutte insieme fino poi ad arrivare allo scudetto del 2017, che ovviamente è stato qualcosa di stupendo. Persa la finale dell’anno precedente, in società hanno cercato il più possibile di mantenere lo stesso gruppo, per ripartire da quanto di buono era stato fatto, facendo qualche innesto per allungare le rotazioni. Si era formato un gruppo che stava bene insieme: sulla carta potevamo non essere la squadra migliore, ma avevamo la forza di una famiglia. Questo fattore fa la differenza anche rispetto al talento. Amavo quella squadra”.

E a Lucca hanno amato lei, naturalmente, a partire dalla capitana Martina Crippa che la ricorda così: “Una trascinatrice sempre col sorriso sulle labbra, capace di buttarsi a terra su ogni pallone, una persona generosa e una lavoratrice instancabile: Julie non si tira indietro mai e non si lamenta mai. Penso che quel canestro allo scadere per il pareggio durante gara 3 di finale scudetto a Lucca sia l’emblema del suo cuore immenso e della sua voglia di non mollare mai”. Un’azione che passerà alla storia del campionato: Lucca sotto di tre a 2 secondi dalla fine: Harmon in lunetta mette il primo tiro libero, sbaglia il secondo e sul rimbalzo spuntano le braccia di Wojta per i due punti-miracolo, a cui forse solo lei credeva: da quel supplementare conquistato le toscane prenderanno la spinta per vincere la partita e poi il titolo.

E qual è il tuo posto preferito in Italia?

“Complicato rispondere: mi sono piaciute tutte le regioni dove sono stata. C’è una cosa in particolare che mi affascina di questo Paese: ogni zona, ogni località ha le sue peculiarità: dal cibo tipico, al paesaggio, all’architettura. C’è varietà e diversità. Soprattutto questo rende l’Italia un posto così intrigante da esplorare viaggiando. Ovunque ti giri trovi qualcosa di nuovo e speciale. Prendi il cibo: tanto buono che è impossibile decidere quale sia il mio piatto preferito. Ogni anno a fine stagione mi fermo qualche settimana per andare un po’ in giro”.

Da quale zona degli Stati Uniti arrivi? Cosa fai quando sei a casa, durante l’off season?

“Sono del Wisconsin, a tre ore di macchina da Chicago. A casa faccio soprattutto la zia! Uno dei miei fratelli ha cinque figli, passo tanto tempo con loro. Il più grande ha dieci anni, vi lascio immaginare quanto sia impegnativo: dopo tre ore con loro sono a pezzi, è più faticoso di un allenamento (risata). Un altro fratello vive in California, vado a trovarlo per due o tre settimane tutte le estati, e continuo ad allenarmi. Vivo vicino a dove sono andata al college e sfrutto le strutture per tenermi in forma”.

Dove ti vedi fra dieci anni?

“Ogni tanto mi chiedono se nel futuro mi vorrei fermare a vivere qua in Italia. E’ qualcosa a cui potrei pensare, sì. Mi piace qua: la lingua, le diverse culture. Mi ritengo fortunata ad essere stata esposta a diversi modi di vivere. Non so dove finirò, ma sicuramente in quel momento mi sarò ritirata dalla pallacanestro (risata)! Le mie lontane origini sono tedesche e polacche: siamo americani da quattro generazioni. Ho provato ad avere il passaporto di quei Paesi ma niente da fare (risata). Ora ci scherzo su: ancora cinque anni qua e potrò avere quello italiano!”

Cosa c’è al di fuori della pallacanestro per te?

“Mi piace fare nuove esperienze, provare tutto quello che posso almeno una volta nella vita, conoscere. Sono curiosa riguardo a tutto quindi amo sperimentare . Mi piace camminare e muovermi, stare sempre attiva”.

Come sul campo, del resto: movimento perpetuo e intelligente. Quasi una colonna sonora “ambient” per le sue squadre: ti accompagna sempre, mettendoti a tuo agio. Diamo la conclusione a Mario Castelli, un giornalista che la conosce molto bene: “E’ spettacolare: secondo me la Mvp del campionato. La giocatrice ideale: è capace di farti vincere anche segnando una manciata di punti, perché ci mette tutto il resto. Quest’anno in 2-3 occasioni ha sfiorato la tripla doppia, cosa straordinaria a livello femminile. E come persona dimostra spessore e cultura per come ha voluto calarsi nella realtà italiana”.

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