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L'ARBITRO \u00C8 DONNA

FOCUS di Alice Pedrazzi

SILVIA MARZIALI È UNA LUMINOSA RAPPRESENTANTE DELLA CLASSE ARBITRALE NOSTRANA. PRIMA ITALIANA A DIVENTARE ARBITRO FIBA. MEDICO. UNA DONNA DETERMINATA E PREPARATA, CHE AMA STARE IN CAMPO SENZA MA E SENZA SE.

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Partiamo dall’ABC: senza l’arbitro non si gioca. Scontato, banale, lapalissiano. Eppure da molti troppo spesso dimenticato. Il ruolo strategico del direttore di gara, però, non si ferma qui, non si limita a permettere lo svolgimento di ogni singola gara, di ogni categoria, di ogni campionato, di ogni regione, di ogni livello. Il che sarebbe già sufficiente per comprenderne (e rispettarne) l’essenzialità. Va ben oltre ed è strettamente connesso alla crescita, anche tecnica, del nostro gioco. E per chi ha la passione per questo movimento, tanto bello quanto, a volte, maledetto e masochista, questo è probabilmente l’aspetto più intrigante e strategico.

“Vogliamo avere arbitri altamente competenti dal punto di vista tecnico ed allenatori molto preparati a livello regolamentare”, ha detto qualche tempo fa in un clinic per giovanissimi fischietti Maurizio Biggi, istruttore nazionale del settore giovanile arbitri ed arbitro di serie A1 con più di 300 partite fischiate, centrando perfettamente punto e questione. La crescita del movimento, anche e forse soprattutto quella tecnica, passa dal dialogo e dalla virtuosa contaminazione reciproca di tutte le competenti che sul campo giocano ruoli essenziali. Arbitri inclusi, e forse in testa. Che devono sentire e portare il peso di una responsabilità non indifferente, gestendola con serietà, rispetto e professionalità e che, per effetto proprio di questa stessa professionalità, devono trovare le condizioni base per poter svolgere il proprio ruolo. Dialogo e collaborazione, confronto e apertura, a tutti i livelli del sistema sono le chiavi per una crescita che non può che essere non sinergica e congiunta. Strada da fare ne abbiamo, eccome, ma il percorso può essere entusiasmante e gratificante per l’intero movimento e, perché no, per il nostro piccolo grande spazio a tinte rosa.

“L’arbitro è un po’ magistrato e un po’ sacerdote”, scriveva Gianni Brera. Oppure donna e medico. Aggiungiamo noi. Come Silvia Marziali, classe 1988, nata ad Edolo e cresciuta nelle silenziose ed operose Marche, tra Porto San Giorgio e Fermo, luminosa rappresentante della classe arbitrale nostrana, al suo sesto anno in A1 femminile e primo in A2 maschile, prima donna italiana a diventare arbitro Fiba e a dirigere competizioni come Euroleague Women.

“L’arbitraggio è uno sport bellissimo ed affascinante - va dritta al punto Silvia, sintetizzando in due parole un concetto grande e grosso: arbitrare è una disciplina sportiva, su questo non ci siano discussioni di sorta -, che aiuta fortemente a formare il proprio carattere: devi imparare, da subito, ad accettare ed affrontare i tuoi errori, ad essere responsabile delle tue azioni e soprattutto delle tue scelte e a rivestire un ruolo per il quale occorre un grande rispetto. Un ruolo che non ti consente di sgarrare. Anche perchè – aggiunge Silvia con una inflessione ancora più dolce nella voce, che svela come dietro a successi e traguardi raggiunti non c’è solo determinazione e preparazione tecnica, ma anche un grande ed approfondito lavoro su se stessi – l’arbitro conosce, vive e convive con la propria solitudine. Attorno a sé non c’è alcuna squadra in cui rifugiarsi, si è soli: e questo è indubbiamente molto formativo, soprattutto da piccoli”.

Ecco, appunto, come hai iniziato e perché? “Da bambina, a Porto San Giorgio, mi sono innamorata della pallacanestro e ho iniziato a giocare. Poiché ero sempre in palestra, la mia allenatrice ha iniziato a farmi arbitrare le partite del minibasket. Così ho fatto anche il corso. A quell’epoca fischiare mi piaceva, certo, ma quanto basta…”

QB, come si dice in cucina. Quando, dunque, questa “quantità” è diventata l’ingrediente principale del tuo stare sul parquet? “E’ successo dopo, all’università. Quando mi sono trasferita a Roma per studiare medicina alla Cattolica, giocare era diventato troppo complicato organizzativamente, anche perché la mia facoltà prevedeva l’obbligo di frequenza. Ma lasciare il campo del tutto era impensabile, così mi sono dedicata con maggiore assiduità all’arbitraggio, attività che in quel periodo mi permetteva di conciliare maggiormente i tempi palestra/università, rispetto all’essere atleta.”

Così tra un 30 ad un esame ed una promozione sul campo, sei arrivata alla laurea in medicina (con tesi in cardiologia, ndr) e alla serie A sul campo… “Un passo dopo l’altro ho cercato di raggiungere i miei obiettivi, certamente i risultati incoraggianti aiutano a proseguire con determinazione, ma non sono tutto. La passione conta più di ogni cosa: amo stare in campo, senza se e senza ma. Sono convinta che ognuno di noi abbia il proprio massimo e che non per tutti questo coincida necessariamente con la serie A. Ciò che conta – ancor più se si è un arbitro – è saper fare autocritica e riconoscere quali sono i propri limiti e, di conseguenza, i traguardi raggiungibili. E lavorare, ogni giorno, per quelli, senza pensare al fatto che dovesse o meno arrivare una promozione, perché gli avanzamenti non dipendono solo dal tuo operato, ma anche dal contesto e dall’annata. Se in una stagione ci sono molti arbitri forti, la competizione è elevata e la promozione non arriva, anche se in astratto uno potrebbe pensare di meritarla. In questo vedo una grande analogia con il destino di tutti gli atleti, pensiamo, ad esempio, alle convocazioni nelle nazionali, anche giovanili: se l’annata è ottima, la competizione è più serrata e può capitare che resti “fuori” qualcuno che in altre annate avrebbe invece avuto la maglia.”

Medico e arbitro, anche qui, a ben guardare, c’è una bella analogia: quella di una vita legata al prendere decisioni rapide ed importanti per gli altri? “Già, è proprio un bel parallelismo. In effetti in entrambi i campi occorre fare scelte immediate ed istantanee, istintive però solo fino ad un certo punto, perché in realtà sono fortemente basate sulla propria preparazione: tecnica e fisica quando si tratta di fare un fischio, scientifica quando si deve invece fare una diagnosi o scegliere una terapia. La grande contrapposizione – aggiunge Silvia – è riconvertirsi poi alla vita quotidiana, nella quale non si può portare la velocità del campo o del pronto soccorso, perché spesso, nel quotidiano, occorrono scelte molto più ponderate ed alle volte sedimentate. Lì, mi accorgo, che spesso devo fare delle belle frenate, per rallentare la mia velocità di scelta.”

Quasi un testa-coda, dunque, come quello di emozioni che contraddistinguono un arbitro, chiamato ad esercitare un ruolo di responsabilità e apparente impassibilità, ma non per questo immune alle emozioni? “Certamente quando si entra sul campo le sensazioni sono forti, inutile negarlo: anche se le partite fischiate sono tante, l’emozione è sempre la stessa. Ciò che si acquisisce con l’esperienza è, però, la capacità di gestire le proprie sensazioni: così, quando si alza la palla a due, ci si “setta” immediatamente sul lavoro e sulla tecnica per eseguirlo al meglio.”

Sveliamo qualche piccolo grande mito: è vero che l’arbitro è così concentrato sulle singole azioni e sui gesti tecnici che non vede la partita nel suo insieme? “Beh, se si parla con un giovanissimo arbitro, probabilmente risponderà di sì: perché all’inizio la concentrazione sul dettaglio è più importante di ogni cosa e assorbe quasi totalmente la visione. Ma col tempo matura anche la capacità di vedere la partita nel suo complesso, anzi, per arrivare in alto è necessario avere il film della gara davanti agli occhi. La valutazione viene fatta azione per azione, ovviamente, ma per farla al meglio, occorre avere la capacità di leggere integralmente e tecnicamente la gara che si sta dirigendo.”

Gli arbitri sono una componente fondamentale per la crescita tecnica del movimento: quanto pesa questa responsabilità? “Il nostro dovere primario, senza dubbio, è quello di applicare correttamente il regolamento. Ma non ci possiamo, né vogliamo, limitare a questo: dobbiamo conoscere e amare la pallacanestro. Ecco perché reputo essenziale che l’arbitro abbia un bagaglio tecnico e non soltanto regolamentare (e la differenza è sostanziale, ndr) adeguato alla categoria. Importante è guardare partite e allenamenti, capire cosa insegnano gli allenatori e quello che i giocatori sono in grado di fare poi in campo…così riesco ad entrare negli aspetti più profondi della tecnica di gioco e amplio visione e conoscenza, aspetti basilari per valutazioni corrette e contestualizzate.”

A proposito di tecnica: il passo zero è stato un grande cambiamento. Positivo? “Per me sì, è stato un bel cambiamento, i cui effetti più positivi si vedono, credo, da quest’anno. Perché nella passata stagione c’è stata forse un po’ troppa “deregulation” ed alle volte, nel nome del passo zero, non venivano più fischiate nemmeno le violazioni di passi in partenza. Anche per noi, infatti, il cambio di visione non è stato semplicissimo: in questa stagione, però, l’abbiamo tutti metabolizzato meglio. Credo quindi che la nuova regola stia producendo gli effetti sperati, senza però sacrificare il rispetto delle norme che non sono cambiate.”

C’è differenza tra femminile e maschile, in riferimento all’interpretazione di questa nuova regola? “Direi proprio di no. Anzi, se devo fare una statistica della mia stagione, posso dire di aver fischiato più ‘passi’ nei campionati maschili che in quelli femminili.”

Essere arbitro ed essere donna: com’è la gestione del rapporto con l’ambiente? “Indubbiamente è un ambiente maschile. Ed è per questo che sono convinta che la differenza la facciano sempre professionalità e modo di comportarsi. E’ quello che spiego anche alle ragazze che si avvicinano al mondo dei fischietti: se il comportamento è adeguato, non ci sono problemi di accettazione.”

Nemmeno col pubblico? “Non si può negare che con un arbitro donna, quando il pubblico trascende, utilizza spesso insulti che con gli uomini non si permette e scadere nella questione di genere è abbastanza - e forse troppo - facile. Ma dal punto di vista personale, dopo aver avuto un impatto molto forte con una tifoseria durante una partita al mio primo anno di B, ho iniziato ad elaborare un distacco tale con le componenti esterne che ora mi permette di essere serena e lucida in qualsiasi condizione.”

Perché non ci sono donne che arbitrano la A1 maschile: colpa del rinomato “soffitto di vetro”? “Io credo, molto schiettamente, che se ancora non ci sono donne che arbitrano la massima serie maschile è perché non se lo meritano. Ma altrettanto sinceramente dico che sono fiduciosa: siamo aumentate nel numero, oggi ci sono molte donne che arbitrano e lo stanno facendo bene, io e Chiara (Maschietto, ndr) facciamo la A2 maschile... Arriverà presto anche il momento di vedere un arbitro donna fra gli uomini della serie A. Ne sono certa.”

E noi te lo auguriamo, Silvia.

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