Alla mia famiglia e ai sogni che si realizzano.
PREMESSA
Ho sempre sentito la necessità di raccontare la mia storia. Non per presunzione o perché credo sia più bella di qualsiasi altra, ma semplicemente per il forte desiderio di farlo. La mia storia non la definirei ordinaria. Racchiude famiglia, fede, altruismo, tanto amore e soprattutto destino. Proprio quello che più di qualunque altra cosa ha influenzato la mia vita e che ne ha deciso il senso e la direzione. Il principale o forse unico artefice degli eventi che mi hanno resa quella che sono oggi. Se mi guardo indietro, con gioia e consapevolezza e ripenso agli avvenimenti che hanno contrassegnato la mia vita, alcuni felici e altri davvero drammatici, non riesco ancora a darmi una spiegazione. Gli eventi che mi sono accaduti sono stati frutto di scelte che ho compiuto o sono solo un insieme di coincidenze che non potevo decidere di cambiare? Le mie scelte di vita sono state davvero “mie” oppure era tutto già scritto nel destino? Penso alle volte in cui avrei potuto scegliere diversamente da come poi ho fatto, allora perché non l’ho fatto?….
INTRODUZIONE
La vita ci accade o lasciamo semplicemente che accada? E’ possibile che tutto ciò che è capitato nella mia esistenza l’ho voluto io, l’ho scelto liberamente o sarebbe successo e basta? Provengo da una famiglia cattolica e grazie all’educazione ricevuta lo sono anch’io. Ho sempre creduto in Dio, ma è stato proprio nei momenti difficili che ho rafforzato la mia fede in lui. Gli eventi di cui sono stata protagonista, mi hanno portato alla personale convinzione che Dio esiste e che sia lui a decidere il nostro destino. Alcuni degli eventi che racconterò, li ho vissuti in prima persona e sebbene abbiano dell’incredibile, non hanno la pretesa di far credere in Dio o nei dogmi della Chiesa Cattolica. Ognuno di noi è libero di credere o di non credere per niente. Di credere nella religione cattolica o in qualunque altra religione. Ma l’idea del destino, del fato, del karma o comunque si chiami, che sia scritto o meno, è un pensiero che ci accomuna. Alla luce degli avvenimenti che hanno contrassegnato la mia vita e che narrerò in questa breve storia, per me il destino esiste.
CAPITOLO I L’INIZIO DEL VIAGGIO
Il mio viaggio inizia in Sicilia in una gelida mattina di Gennaio. Venni alla luce in una modesta casa di onesti lavoratori. Era il 1935 e naturalmente l’umanità ancora non immaginava che molto presto avrebbe conosciuto gli orrori di un conflitto mondiale. Sono nata in una città della Sicilia orientale, caratterizzata da un’economia prevalentemente agricola e rurale. La mia casa era piccola ma molto accogliente, l’arredamento era povero ed essenziale. Era situata in un quartiere del centro della città, abitato da gente umile, per lo più contadini e artigiani. La mia era una famiglia che oggi definiremmo numerosa, ma che a quell’epoca costituiva la normalità. In ordine di arrivo, io ero la nona figlia venuta a benedire quell’umile dimora. Ho usato il termine benedire non a caso, perché per mia madre, fervente cattolica, i figli erano doni del cielo. Maria, così si chiamava mia madre, era coraggiosa, tenace e molto determinata. Una donna spigliata e di carattere. Rimase orfana quando era poco più di una bambina. Era la più piccola dei fratelli e di lei si prese cura la sorella maggiore. A sedici anni lavorava già come operaia in fabbrica per la produzione dei tabacchi. Nella società dell’epoca era consuetudine che il matrimonio tra due giovani, fosse pianificato tra le famiglie dei futuri sposi per ragioni d’interesse o a volte solo di opportunità. In questo caso specifico il matrimonio fu deciso per ragioni di opportunità, perché una giovane donna, sebbene fosse indipendente economicamente, non poteva rimanere da sola. Non era conveniente per una donna vivere senza un uomo. Le donne si dividevano in due categorie: quelle sposate, o come si usava dire dalle mie parti “sistemate”, mogli e madri realizzate; e le “zitelle” donne “sfortunate” da commiserare.
La categoria della donna single per scelta o in carriera non era ancora contemplata per chi aveva la fortuna di nascere di sesso femminile. Infatti, Maria, appena diciottenne si ritrovò sposata con suo cugino Santo. Proprio così, i miei genitori erano cugini e per di più avevano lo stesso cognome. Che male c’è a chiamarsi nello stesso modo? Può sembrare un particolare privo di significato, ma non è stato così per me. Fin da quando ero bambina, sia a scuola sia con i compagni di giochi, mi sono ritrovata a dover spiegare che il cognome di mia madre da nubile, coincideva con quello da sposata per via del fatto che i miei genitori erano cugini di primo grado. Non ero io confusa o male informata, come pensavano che fossi. Il matrimonio fu celebrato in grande stile. La sposa arrivò in chiesa a bordo di una carrozza trainata da quattro cavalli bianchi. Fu condotta all’altare dal fratello maggiore e accompagnata dallo sguardo amorevole degli altri fratelli, felici che anche la piccolina si fosse “sistemata”. Nove mesi dopo, nacque la primogenita di Maria e Santo. Grazia, mia sorella maggiore, venne alla luce affetta da una grave malattia congenita. Nacque priva della vista. Qualche anno più tardi anche la seconda figlia, Lucia, venne alla luce con la stessa malattia congenita. La giovane Maria si dovette abituare presto alla sua nuova e faticosa vita matrimoniale. Si cimentò nell’impesa ardua del saper conciliare il lavoro e gli impegni familiari. Lavorava come operaia in fabbrica e si prendeva cura delle due figlie non vedenti, mentre il marito era al fronte impegnato a combattere nella grande guerra. Negli anni successivi ebbero altri sei figli prima che arrivassi io. In realtà, quattro fratelli morirono prima di compiere il primo anno di età per motivi di salute. Pertanto la famiglia che io trovai alla mia nascita e con la quale ho vissuto, era composta da genitori e cinque figli: quattro femmine e un maschio.
Nel 1940, quando l’Italia entrò in guerra, io avevo poco più di cinque anni. Non ho ricordi precedenti, non saprei dire come si vivesse la vita nella mia città, nel mio quartiere e nella mia famiglia, quando nel mondo regnava la pace. Certamente, ricordo bene la fine della guerra e il ritorno della pace. Ma sono convinta che per quanto si possa cercare di dimenticare e di ricominciare, le ferite che una guerra lascia nel cuore e nella mente di chi l’ha vissuta, nessuno le potrà mai cancellare. Ho trascorso la mia infanzia durante la guerra. Mio fratello Salvatore fu arruolato e partì per il fronte. Le mie due sorelle maggiori, che vivevano in un ospizio per ciechi gestito da suore, furono sfollate in un paesino della provincia. Eravamo rimasti solo io, mia sorella di qualche anno più grande di me, mia madre e mio padre. Ho imparato, come tutti del resto, a convivere con il suono delle sirene, col rumore assordante delle bombe e con la paura. In casa si cercava di vivere normalmente. Quotidianamente mia madre riordinava la casa, cucinava per noi e faceva il bucato. Scriveva delle lettere alle mie sorelle e attendeva con ansia le notizie dal fronte. Pregava tutti i giorni sostenuta da una fede granitica. Sebbene non avesse la certezza che le lettere fossero recapitate alle ragazze, continuava a scrivere con fiducia, perlomeno così sapevano che a quella data eravamo ancora vivi. La nostra vita quotidiana era interrotta dal suono delle sirene che ci urlavano di fuggire, di cercare riparo. Mentre correvo al riparo, tenuta per mano da mia madre, mi passavano per la mente tante immagini veloci, così rapide che si sovrapponevano. I pensieri erano talmente tanti da sembrare uno solo, ma il pensiero ricorrente, quello che ricordo in modo più chiaro e che si ripeteva tutte le volte, era solo uno: “Chissà se questa volta ce la caveremo, se riuscirò a tornare a casa, ma ci sarà ancora la nostra casa?”.
Ogni volta che le sirene urlavano annunciando un imminente bombardamento, abbandonavamo in un baleno la casa con tutto ciò che vi era custodito e che faceva parte della nostra vita e della nostra memoria. Non c’era tempo per pensare agli oggetti, bisognava correre al riparo per salvarsi la vita. Se solo anche oggi tutti dessimo lo stesso valore alla vita umana! Durante i bombardamenti ci riparavamo all’interno di un rifugio, ricavato vicino casa nostra. Era stato ricavato scavando una roccia di pietra lavica, tipica della mia terra che si trova alle pendici dell’Etna. Vi trovavano ricovero tutte le famiglie del quartiere. Era sotterraneo e per accedere si scendevano alcuni gradini. Ricordo come se fosse ieri quel luogo piccolo, buio e umido nel quale cercavamo riparo mentre fuori era solo distruzione e morte. Talmente umido e malsano che mi sono ammalata di polmonite e bronchite asmatica. Mio padre a volte rischiava la sua vita per procurare del cibo e portarlo a noi, quando la permanenza al ricovero durava per troppo tempo. Il sentimento prevalente di quel periodo, che è impresso con chiarezza nella mia memoria, è certamente la paura. Ma non dimentico neanche la fame e soprattutto il rumore assordante delle sirene. Mi sembra di sentirle ancora riecheggiare nelle mie orecchie. Tuttavia nonostante la guerra e la malattia, la mia vita scorreva con una “straordinaria normalità”. Tra bombardamenti e fughe nei ricoveri, ho frequentato la scuola fino alla seconda elementare. Quando frequentavo la prima elementare, venne a visitare la nostra scuola Benito Mussolini. Addirittura il “Duce” in persona. Ho un vago ricordo di noi bambini in divisa da balilla, con camicia bianca e mantello nero disposti in una fila ordinata, schierati per rendergli omaggio. Ci avevano detto di sorridere e alzare in alto il braccio destro al suo passaggio.
In quel momento ovviamente obbedì e mi sembrò solo un gioco. Molti anni più tardi avrei capito chi era quell’uomo non molto alto e senza capelli che mi sfilò davanti e cosa significava quel braccio sollevato. Nei momenti di tranquillità, di pausa dai bombardamenti, giocavo con mia sorella e altri bambini nostri coetanei, davanti all’uscio di casa. Trascorrevamo molto tempo insieme, ci bastava ripetere poesie a memoria o inventare sciocche filastrocche, per ridere e dimenticare il contesto in cui vivevamo. Nel 1943, i bombardamenti erano troppo intensi e ravvicinati, molte case accanto alla nostra furono colpite e distrutte. Alcuni abitanti del quartiere nostri conoscenti morirono e altri rimasero senza casa. Fu allora che mio padre, decise di andare a vivere in campagna. Mio padre era contadino, lavorava in campagna dall’alba al tramonto, in un terreno molto vasto e ricco di agrumeti, uliveti, vigneti e altri alberi da frutta. Ma non era lui il proprietario, lavorava a mezzadria. Così ci siamo trasferiti nella campagna di cui si prendeva cura, insieme ai suoi fratelli. Prima di lui suo padre, mezzadro anche lui, lavorava nello stesso terreno. A poche decine di metri, abitavano i miei nonni, i miei zii (due fratelli di mio padre) e quattro cugini, di cui due cugine mie coetanee e di mia sorella. In campagna, i tedeschi si erano impadroniti (non avevano bisogno di autorizzazioni) della casa del proprietario e vi abitavano tranquillamente, come fossero a casa loro. Mia madre, poiché non conosceva altre lingue oltre l’italiano e il dialetto siciliano, spiegò a gesti che la nostra casa era stata distrutta durante un bombardamento. In realtà, non era esattamente così, erano state distrutte molte case vicine, ma la nostra ancora resisteva. Ma mia madre pensò che dicendo che eravamo rimasti senza casa, avremmo avuto maggiori possibilità di essere “ospitati”. Infatti, fu così e iniziò questa breve convivenza.
Era senza dubbio una convivenza silenziosa. I miei genitori erano persone amabili e cordiali, ma soprattutto pacifiche e accondiscendenti. Mia madre di tanto in tanto stirava loro delle camicie, oppure offriva della frutta o del vino. Mio padre era un uomo tranquillo, di poche parole e usava un tono rilassato nel parlare. Incapace di arrabbiarsi e di portare rancore, non era mai arrogante. Poteva trascorrere molte ore seduto sotto un albero a fissare l’orizzonte e a fumare la sua adorata pipa, da cui non si separava mai. Nonostante fossi ancora piccola ricordo esattamente che era d’estate. Faceva molto caldo, e trascorrevamo la giornata all’aria aperta. I miei familiari trascorrevano all’aria aperta anche la notte, io invece per via della polmonite e bronchite asmatica, dormivo in una sorta di “ricovero” di mattoni creato dai tedeschi, una specie di trincea. Questo ricovero serviva da riparo notturno per me, ma fungeva da protezione per i miei familiari durante i bombardamenti. Abitare in campagna ci rendeva più fortunati di tanti altri nostri amici, vicini e concittadini. Non eravamo costretti a soffrire la fame. A differenza di molti in quel periodo, noi potevamo mangiare tutti i giorni e addirittura anche più di una vota al giorno. Si mangiava frutta appena raccolta dagli alberi, di solito pesche e fichi, ma non mancavano pomodori, patate e olive. Inoltre, ogni tanto i tedeschi ci regalavano le loro gallette. Ma sicuramente, l’alimento ricorrente era il frumento bollito. Quasi tutti i giorni mangiavamo un piatto di frumento, un alimento nutriente ma soprattutto economico. Il trasferimento in campagna ci aveva dato la possibilità di farci ritrovare con gli zii e i cugini.
- Fine Anteprima -