N.7 – Luglio 2017
La soluzione ipotizzata allora dai ricercatori prevedeva la necessità di realizzare al più presto un punto di equilibrio attraverso il controllo di due dei cinque parametri studiati, ovvero la popolazione mondiale e il capitale industriale.
Cambiamenti climatici: che fare? di Paolo Salvatore Polizzi
Il clima terrestre è in perenne mutazione a causa di innumerevoli fattori naturali ma negli ultimi due secoli la presenza umana sta contribuendo a realizzare modifiche radicali le cui conseguenze sono al momento difficili da prevedere in dettaglio. Diversi studi realizzati negli ultimi decenni da qualificati esperti del clima hanno cercato di comprenderne i meccanismi e le crescenti alterazioni collegabili alle attività umane, proponendo nel tempo soluzioni diverse per queste ultime. Negli anni ’70 i primi dati sul problema dell’inquinamento del pianeta e le sue conseguenze sul clima ebbero scarsa attenzione di pubblico dato il contesto storico impregnato di ottimismo e fiducia nella crescita economica e tecnologica, e del resto le alterazioni climatiche in fondo erano ancora relativamente poco visibili come intensità e frequenza. Nel 1968 un gruppo di politici e scienziati riuniti nel “Club di Roma” chiese ai ricercatori del M.I.T. di Boston di elaborare un modello generale utile alla comprensione di questo problema. Il risultato venne riportato nel libro “The Limits to growth”, pubblicato in Italia dalla Mondadori nel 1972 con il titolo “I limiti dello sviluppo”. Gli autori, Donella e Dennis Meadows, Jorgen Randers e William Behrens III, proposero un modello generale del sistema in cui cinque fattori critici (industrializzazione, popolazione, nutrizione, risorse energetiche non rinnovabili e deterioramento ambientale) venivano collegati tra loro in maniera tale da permettere simulazioni e differenti scenari a seconda degli aumenti o delle riduzioni di valori per ciascuno di essi.
In pratica, se la proposta fosse stata accolta negli scorsi decenni, si sarebbe potuto intervenire a livello globale con politiche sul controllo delle nascite, in analogia con la politica cinese del figlio unico per coppia, attuando inoltre dei meccanismi di limitazione sull’aumento progressivo del capitale industriale, realizzando così il cosiddetto “sviluppo senza crescita”, in contrapposizione al mito della crescita costante (tuttora imperante). Secondo l’ipotesi di Meadows e dei colleghi del M.I.T. le possibili alternative teoriche come la scoperta di nuovi fonti energetiche non rinnovabili (ad esempio l’individuazione di nuovi giacimenti petroliferi nel mare artico) o la messa a punto di tecnologie antiinquinamento, in presenza del progressivo aumento della popolazione non sarebbero stati sufficienti a evitare il collasso del pianeta ma semplicemente a spostare in avanti la sua manifestazione a causa della ridotta disponibilità delle terre coltivabili e della produzione del cibo e altre complicanze collegate. Questo modello, da più parti frainteso e criticato, rimane per molti un utile strumento idoneo a inquadrare la complessa interazione tra l’ambiente e le attività umane; gli stessi autori sottolineano nel terzo capitolo del libro come i grafici riportati “non sono previsioni esatte dei valori delle variabili in un dato anno futuro. Sono semplici indicazioni di tendenze di comportamento del sistema”. Nel sito “clubofrome.org” alla sezione “reports” è possibile scaricare gratuitamente una copia in lingua inglese di questo studio.