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L’incontro tra culture per una pace positiva e uno sviluppo sostenibile

di Riccardo Redaelli*1

In un mondo così confuso, in cui le dinamiche politiche, socio-economiche, culturali, demografiche e ambientali inducono cambiamenti sempre più repentini all’interno del sistema internazionale, il ruolo della trasmissione della conoscenza e le sfide educative possono sembrare meno prioritarie rispetto a quelle securitarie o economiche.

In fondo, dinanzi al desolante panorama di guerre civili e proxy wars, ai conflitti dichiarati o minacciati, ai colpi inferti dal terrorismo jihadista, alla redistribuzione del potere in corso a livello globale, alle sofferenze di decine di milioni di migranti – vuoi spinti dalle violenze vuoi dal bisogno –, alla pandemia che ci ha fatto riscoprire così vulnerabili, ebbene dinanzi a tutto ciò potremmo pensare che la comunità internazionale dovrebbe concentrare i suoi sforzi sulla sicurezza globale, sul peacebuilding g e sulla promozione dello sviluppo e dei diritti umani. Obiettivi certo cruciali ma che non possono essere raggiunti senza un impegno molto più incisivo per rafforzare il volano educativo negli strumenti della cooperazione internazionale.

La trasmissione della conoscenza e lo sforzo educativo rappresentano infatti un pilastro, forse poco visibile, ma davvero portante di ogni progetto di lungo periodo che voglia favorire il raggiungimento di una pace positiva e di uno sviluppo sostenibile. Una semina costante e lenta, i cui effetti si vedono attraverso le generazioni ma che permette concretamente di far crescere dall’interno di ogni comunità un modo diverso di guardare al rapporto Noi/Altro, di lenire le ferite della storia, di promuovere uno sviluppo più bilanciato e maturo.

Da molti anni, ormai, le agenzie internazionali dello sviluppo e i Paesi occidentali promuovono programmi educativi e di “knowledge transfer”, come spesso vengono chiamati. Per quanto utili e importanti, celano talora una visione dei meccanismi di cooperazione che può suonare paternalistica, allorché venga enfatizzato il “trasferimento” della conoscenza specialistica da noi alle regioni più povere. Al contrario, i frutti migliori che possono germogliare dall’impegno per l’istruzione e la diffusione della conoscenza sono sempre biunivoci. Il primo, forse il più importante, è quello di promuovere e favorire la conoscenza reciproca. Un obiettivo ancora molto lontano dall’essere raggiunto: basti pensare a quanto poco si conoscano reciprocamente le comunità che vivono lungo le due sponde del Mediterraneo, nonostante i lunghi secoli di scambi, contatti e scontri. Ma, e sembra ancor più grave, assistiamo a una scarsa conoscenza e addirittura alla mancanza di voglia di conoscersi, fra le comunità etno-religiose che convivono sullo stesso territorio. E che incredibilmente sono legate a visioni stereotipate dell’Altro.

Da qui l’importanza di promuovere una riforma dei percorsi educativi e dei meccanismi di cooperazione in questo settore, che favorisca l’emergere di una conoscenza reciproca più consapevole e matura e che – accanto al “bagaglio” della conoscenza specialistica – diffonda una cultura del rispetto, della solidarietà, dello scambio che arricchisce e fa crescere reciprocamente. Imparando l’uno dall’altro. Da questo punto di vista, la chiesa cattolica, con il suo

Docente di Geopolitica alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica, dirige il Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo Allargato (Crissma) dell’Ateneo

patrimonio unico di scuole e centri educativi sparsi per tutto il globo, rispettati anche – e forse ancor di più – da milioni di frequentatori di altre religioni, può e deve essere parte integrante di questo sforzo mondiale. Con un’azione che si innesta da sempre nelle diverse culture, senza volerle prevaricare, ma favorendo la promozione di progetto educativo aperto all’interculturalità e al rispetto reciproco. Consapevoli che, per quanto lenta, la messa a dimora attenta di buoni semi darà sempre ottimi frutti.

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