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SOCRATE HA PERSO? Riflessioni sul ruolo degli intellettuali

Le voci dell’Università Cattolica


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Sommario

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Prefazione di Alberto Quadrio Curzio

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Chierici, cortigiani, battitori liberi di Giuseppe Lupo

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No, il dibattito sugli intellettuali no di Silvano Petrosino

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Voci che gridano nel deserto di Andrea Kerbarker

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Vincere la tentazione di salire in cattedra di Gabrio Forti

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Né primedonne né maggiordomi di Giovanni Gobber

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I filosofi e l’ingiusta accusa di diserzione di Ingrid Basso

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Non esiste spettatore innocente di Enrico Reggiani

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Idee contro la desertificazione di Aldo Carera

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Se il re è nudo di Lorenzo Fossati

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Né apocalittici né integrati di Antonio Calabrò

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Gli intellettuali e la trahison des Clercs di don Tonino Bello

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Socrate ha perso, la sfida al potere procede di Antonietta Porro

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Prefazione di Alberto Quadrio Curzio

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el rapporto tra intellettuali e potere occorre tenere conto del contesto in cui si svolge la vita sociale e la sua proiezione politico-istituzionale. Questo è attualmente segnato dal tramonto, o almeno dall’indebolimento severo, delle grandi culture di massa e delle ideologie che, al prezzo di omologarla, aiutavano però le persone a filtrare gli apporti culturali e a leggerli e discernerli nella loro chiave interpretativa e nei loro orizzonti “valoriali” di fondo. L’affievolimento di questa funzione di mediazione svolta dalle grandi architetture di pensiero, che vantavano comunque forte radicamento popolare, ha rafforzato la distanza tra le sedi del potere e la cultura popolare. In questo quadro, la funzione preminente dell’intellettuale, al di là del compito di rigore e di onestà culturale che sempre lo deve contraddistinguere, può connotarsi per un compito paziente di cucitura tra la dimensione istituzionale e la cultura popolare. La dimensione istituzionale è più che mai esposta al rischio della spregiudicatezza e della precarietà della comunicazione politica, che cattura opinioni volatili mediante sondaggi più che orientamenti culturali solidi così assecondando anche istanze (se non addirittura istinti) apparentemente rigorosi ma nella sostanza rancorosi. Di fronte a questo rischio, l’intellettuale deve resistere alla tentazione della cortigianeria e cioè di mettere le proprie competenze al servizio del potere e recuperare piuttosto una dimensione profetica che tenga conto della dimensione storica e che richiami costantemente il potere alla sua responsabilità e denunci i suoi tradimenti, spesso condensati in parole d’ordine, con i pericoli che essi comportano. Ma, nell’esercitare questa funzione, l’intellettuale stesso deve rinnovare il suo stile, accantonando un mero stile provocatorio e destrutturante, utile quando la società era irrigidita nelle sue cristallizzazioni. L’intellettuale deve volgersi piuttosto alla problematizzazione, aiutando così a leggere le poste in gioco e la complessità delle vicende, riaffermando il ruolo critico della cultura e il valore gradualistico e relativo delle soluzioni. Le modalità applicative di questo metodo sono svariate e di recente, soprattutto per iniziativa di Filippo Pizzolato, abbiamo considerato in un volume edito dal Mulino (“il Mostro Effimero”) il fenomeno della “disintermediazione” (economica, sociale, politica, etc.) dove dinamiche globali aggrediscono le strutture del politico e del giuridico a cui siamo adusi. Di fronte a tali forze abbiamo valutato l’importanza dei corpi intermedi e il loro ruolo, soprattutto nelle democrazie dell’Unione europea come luogo di maturazione e di espressione del pluralismo sociale. Si arriva qui a scelte di fondo ideali e valoriali che in una buona democrazia possono essere variegate ma che mai dovrebbero essere offensive della libertà di opinione, di proposta e di dissenso. Ma nello stesso tempo sempre vigili ad affer-

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mare ideali e valori tra i quali noi abbiamo sempre propugnato quelli del solidarismo creativo e del liberalismo sociale, della sussidiarietà verticale, orizzontale e diagonale. Tutti modelli che emergono chiari anche dalla Costituzione Italiana e dai Trattati europei. Trattasi della Civiltà Europea. In conclusione. Siamo in un momento storico in cui il dileguarsi delle grandi visioni (ideologiche) del mondo è travolto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che induce ad un’eccessiva semplificazione della realtà e ne restituisce un’immagine, potremmo dire, bidimensionale di presentazione (non oggettiva) e di interpretazione (distorsiva). Il compito dell’intellettuale dovrebbe essere, allora, quello di scorgere e mostrare, grazie al “privilegio della riflessione” la “terza dimensione” della realtà: quel punto di appoggio esteriore rispetto al quale è possibile leggerla al riparo dalla spregiudicatezza dei cacciatori di facili consensi. In questo senso, possiamo dire che l’intellettuale deve giocare un ruolo ricostruttivo, non però dal versante del potere, ma più su quello della cultura civile e del dialogo tra parti, a favore dei quali egli deve contribuire a ricostruire criteri di discernimento e di giudizio critico.

Professore emerito di Economia politica, presidente del Consiglio scientifico del Cranec (Centro di ricerche in Analisi economica) e presidente emerito dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

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Chierici, cortigiani, battitori liberi di Giuseppe Lupo

Il professor Giuseppe Lupo, in occasione del convegno Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali? – promosso dal centro di ricerca Letteratura e cultura dell’Italia unita, lo scorso 30 ottobre presso l’Università Cattolica di Milano – ha lanciato un dibattito al quale hanno aderito alcuni docenti della Cattolica.

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iamo tutti consapevoli di vivere dopo la caduta del Muro di Berlino, in un’e poca che da quell’avvenimento ha preso spunto per autodefinirsi post-ideologica, eppure talvolta continua a sentirsi orfana di quelle ideologie. Può sembrare una contraddizione e forse lo è, ma sempre più frequentemente si avverte un alone di nostalgia non tanto nei confronti di un mondo diviso in parti uguali e dominato da rigide divisioni politiche, com’era prima dei fatti berlinesi di trent’anni fa, ma di cercare un rimedio a quel senso di vuoto che la fine delle ideologie ha portato in dote in coincidenza certo con la stagione che da lì a poco sarebbe cominciata e sotto il dominio di una condizione anomala: quella di disorientamento (o spaesamento). Nessuno rimpiange i decenni della Guerra Fredda o la contrapposizione tra modello occidentale e sistema sovietico. Nessuno vorrebbe restaurarne il dominio. Ciò che manca però sono le idee (non le ideologie): quei processi di pensiero che mirano a costruire il domani o almeno a fare luce sulle zone d’ombra che assediano l’oggi. Mancano, in ultima analisi, gli intellettuali, per quanto il loro operato, nel corso del Novecento, sia stato costellato da insuccessi e su di essi abbia gravato l’accusa che Julien Benda, rifacendosi alle questioni sollevate al tempo di Dreyfus in un celebre saggio del 1927, ha radunato sotto il sospetto del “tradimento”. La trahison des clercs, questo il titolo del saggio, ha seminato il dubbio sulla natura infida dell’intellettuale in età contemporanea, ma ha avuto anche il merito di riaccendere un discorso che covava sotto la cenere da secoli: il rapporto controverso tra cultura e potere, il pericoloso cortocircuito fra chi manovra le parole e chi detiene le chiavi della città. Gran parte del secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stato disegnato da quel titolo così eloquente. E se in questo momento è pressoché unanime il bisogno di idee, lo è in relazione alla sensazione di assenza o di latitanza che grava sugli ultimi decenni dopo la spericolata scorribanda che la casta degli intellettuali ha percorso a partire dal secondo dopoguerra. È difficile affermare quanto di utile e di necessario rimanga di quel periodo complicato e di quale ruolo in particolare oggi si avverte l’urgenza. Di sicuro però occorre rivederne lo statuto, ripensarne la funzione, ristabilire un contatto in ragione non tanto di un progetto culturale che ne invochi il ritorno – finalizzato a cosa? –, piut-

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tosto che si interroghi su un’idea di mondo che non appaga più nessuno e su cui tutti alzano la scure senza fornire una soluzione alternativa o almeno una chiave interpretativa.

Scrittore e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, facoltà di Lettere e Filosofia, campus di Brescia e di Milano.

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No, il dibattito sugli intellettuali no di Silvano Petrosino

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l più delle volte sono gli intellettuali a interrogarsi sul “ruolo degli intellettuali “; agli altri, a dire il vero, non gliene importa granché. E in effetti un simile interesse – quello degli intellettuali per il “ruolo degli intellettuali” – ha, in un certo senso, uno strano “sapore”, visto che l’intellettuale – ammesso e non concesso ch’esso esista – non fa l’intellettuale, non svolge il lavoro di intellettuale, ma è un professore di questa o di quest’altra materia, insegna in questa o quest’altra università e/o istituzione culturale, scrive su questa o quest’altra rivista, e se è un intellettuale lo è sempre e solo in e attraverso quell’insegnamento o quella pratica di scrittura. Nessuno può definirsi intellettuale e nessuno fa il lavoro dell’intellettuale, e per fortuna, visto che non a caso il termine assume spesso il significato di “astratto”, “fumoso”, “inutile”. In quel magnifico testo che è Lezione (Einaudi 1981) Roland Barthes scrive: «L’“innocenza” moderna parla del potere come se esso fosse uno solo e indivisibile (...) E se invece il potere, come i demoni, fosse plurimo? Esso potrebbe allora dire: “Il mio nome è Legione”; ovunque, in ogni dove, vi sono capi, centri di potere, siano questi imponenti o minuscoli, gruppi di oppressione o di pressione; ovunque si odono voci “autorizzate”, che si autorizzano a farsi portavoce del discorso di ogni potere: il discorso dell’arroganza (...) Certuni si aspettano che noi intellettuali ci si mobiliti a ogni occasione contro il Potere; ma la nostra vera battaglia è altrove; essa si svolge contro i poteri, e non si tratta di una battaglia facile». Non si sarebbe potuto dire meglio; ecco un testo, tra molti altri, che attende solo di essere letto, riletto e magari anche meditato. In effetti l’intellettuale, se e quando è tale, non contribuisce alla vita culturale di un Paese quando va in televisione o quanto marcia alla testa di un corteo o quando firma un manifesto in difesa di questa o quest’altra minoranza, ma quando lotta contro la “microfisica del potere” in quei luoghi feriali costituiti da un’aula universitaria (lezione) o da una sala in un centro culturale alla periferia di una città (conferenza). È nel modo di parlare, di insegnare e scrivere, ogni giorno e non solo alla domenica, in “ogni dove” e soprattutto al di fuori di ogni visibilità mediatica, che un intellettuale lotta contro il “discorso dell’arroganza” e gli infiniti capi e capetti che affollano le nostre giornate, dimostrandosi proprio per questa ragione, quasi sempre suo malgrado e in verità senza minimamente volerlo, un autentico intellettuale. C’è della grossolanità nel concepirsi un “intellettuale” e nel rivendicare con insistenza il valore del proprio contributo che si è pronti, fin troppo pronti, ad offrire; un vero intellettuale non attende il consenso dei media e non cerca il riconoscimento del “grande pubblico” per dimostrarsi ed essere tale, anche perché egli non sente

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la necessità di tradurre o di divulgare un sapere che non ha alcun bisogno di essere attualizzato. In una delle sue ultime interviste Derrida affermava: «Se ci si vuole interessare agli “intellettuali“, non bisogna limitarsi a chiedere loro dei rapporti inutili, ma è necessario anche leggerli, tenendone conto. Inoltre – sto sognando – qualche volta bisognerebbe pure partecipare ai loro seminari, ascoltando ciò di cui in essi si tratta!». Anche in questo caso, non si sarebbe potuto essere più chiari; ecco, dunque, un altro testo – siamo nel 2004 – che attende solo di essere letto, riletto e magari anche meditato. Diciamo la verità: occuparsi degli intellettuali non è un dovere morale; si può vivere benissimo anche senza interrogarsi sul “ruolo degli intellettuali”, e infatti la maggior parte delle persone non si alza certo al mattino con questa preoccupazione (lo ripeto: per fortuna). Tuttavia, se è proprio di questo che ci si vuole occupare, allora non bisogna far altro che leggere ciò che è scritto, che è già stato scritto, interessandosi a ciò che non pochi studiosi, con serietà e dedizione, continuano a pensare e a rendere a tutti disponibile attraverso quelle che non a caso si chiamano “pubblicazioni”. Leggere, ascoltare, confrontarsi, partecipare, riflettere; Derrida aveva ragione: «ma qui si sta sognando!».

Docente di Antropologia filosofica, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano.

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Voci che gridano nel deserto di Andrea Kerbarker

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aro Lupo, ho letto con il consueto interesse le tue considerazioni sulle idee nell’epoca postideologica che stiamo attraversando, e per una volta non sono troppo d’accordo. Non mi pare infatti che oggi in Italia le idee degli intellettuali latitino in maniera particolare. Anzi, mi sembra che le molte tribune più o meno improvvisate offerte dalla rete permettano oggi anche agli intellettuali di esprimersi su tutto con grande frequenza. Per cui delle opinioni degli intellettuali è pieno il Paese, incluse le prime pagine dei giornali. E se così non fosse, in fondo avrebbe ragione Silvano Petrosino: è una questione che potrebbe interessare gli stessi intellettuali, ma il resto del mondo lo archivierebbe volentieri nella indimenticata rubrica “E chi se ne frega” lanciata dall’intellettualissimo settimanale Cuore. Il problema, piuttosto, è che di queste idee in Italia non importa nulla a nessuno. Gli intellettuali italiani parlano, si riuniscono, dibattono, e non c’è persona che ascolti. Sono, insomma, voces clamantis in deserto, molto più di un tempo. Perché quando noi eravamo ragazzi, ce le ricordiamo bene le reazioni alle parole degli intellettuali: se Sciascia diceva dei “Professionisti dell’antimafia” o Pasolini si inventava il concetto di “Palazzo” tutti sentivano il bisogno di intervenire, partecipare, esserci. Oggi, niente. Un silenzio che di per sé è già un giudizio: di indifferenza. Su questo atteggiamento di solito vengono espresse due spiegazioni. Da un lato si dice che è un fenomeno internazionale, e non riguarda solo noi. Mica tanto. Se all’estero parla un Peter Handke (che, nell’esprimere idee aberranti, rivendica proprio un ruolo intellettuale e artistico: di scrittore, non giornalista, e la differenza conta), un McEwan o un Houellebecq, le idee suscitano subito grande dibattito e senso di partecipazione. Da noi, come detto, no. In questo, credo, la contemporanea diminuzione delle ideologie e dell’audience ha contato moltissimo: perché soprattutto in Italia gli intellettuali spesso si sono spesi al servizio delle diverse ideologie – oggi che le idee vengono formate sulle sensazioni e non sulla profondità l’intellettuale interessa poco, per non dire nulla. La seconda spiegazione ha a che fare con il clima più generale. C’è in giro un’avversione alle élites che non può non comprendere gli intellettuali: d’altronde, nell’opinione pubblica che ragiona in termini di “Uno vale uno” non si capisce bene che valore possano avere gli studi, o la cultura in generale (almeno non c’è nessuno che quando sente la parola carica la pistola – ma temo che sia perché in fondo non ne vale la pena, per qualcosa che così pochi ascoltano). E questo è un problema più serio, che non riguarda solo chi studia, ma la classe dirigente in generale. Con almeno due certezze: che solo un Paese che riscopra il significato di una leadership vera e carismatica può ritrovare lo slancio perduto da tempo; e che in questo scenario gli intellettuali hanno un ruolo centrale, non fosse altro perché tutte le statistiche ci dicono

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che alla crescita del livello culturale corrisponde un’equivalente crescita economica. Certo, tutti gli indicatori inducono al pessimismo, a cultiver son jardin, come paiono suggerire alcuni degli interventi successivi alla tua provocazione iniziale. E tuttavia credo che proprio l’essere intellettuali ci permetta anche di essere ottimisti. Come persone abituate ad avere a che fare con il passato, infatti, sappiamo meglio di chiunque altro che anche le fasi più buie sono destinate a essere superate, sempre. E quindi armiamoci di santa pazienza, lavoriamo seriamente nell’attesa di nuove generazioni pronte a riascoltare le riflessioni che arrivano dalle nostre voci. Speriamo solo, per allora, di essere ancora vivi...

Docente di Istituzioni e politiche culturali, interfacoltà Economia-Lettere e filosofia, campus di Milano.

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Vincere la tentazione di salire in cattedra di Gabrio Forti

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a parola ‘intellettuale’ (prima ancora di chi impersoni la categoria) non gode di buona fama (e di buona stampa). E ciò ben prima dell’odierna “era dell’incompetenza”, per dirla con Tom Nichols. Le ragioni sono molte e note. Tra esse, non v’è dubbio, gli esempi di “cortigianeria” che la storia, antica e recente, ci ha restituito a profusione: la soggezione al Potere, certo, e all’ambigua fascinazione esercitata su certi ‘intellettuali’ di rango dalla forza e dalla violenza di Stato, ma anche a ben precise militanze ideologiche. Non ha aiutato, poi, la pervicace incapacità di scendere dal piedistallo e comunicare, se non con la proverbiale casalinga di Voghera, con un pubblico appena più ampio di quello dei salotti bene o dei convegni accademici. Forse però, più che della condizione degli intellettuali, sarebbe meglio preoccuparsi, come faceva il Manzoni nella Storia della colonna infame, dell’«effetto» e dell’«intento del lavoro intellettuale», specie nelle materie «più importanti e necessarie all’umanità», tra le quali lo scrittore annoverava le questioni di giustizia. Proprio per tale preoccupazione il premio Nobel Paul Krugman, «dopo l’anno così sconfortante» che aveva visto l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, raccomandava agli accademici di professione di vincere la tentazione di «prendersela comoda e non fare la fatica di tradurre astrazioni in cose più concrete, che la gente possa comprendere»: «la cosa peggiore di tutte è quando si sale in cattedra, quando si sostiene qualcosa facendo leva sulla propria autorevolezza». Sottolineava, in particolare, l’importanza di «individualizzare, focalizzare l’attenzione sulle storie di singole persone», perché questo «è il modo in cui si relaziona la maggior parte delle persone. Bisogna andare sul personale, ed è una cosa che anche gli intellettuali pubblici devono trovare il modo di fare». Ciò anche perché «le persone hanno poco tempo e un intervallo di attenzione limitato e si distraggono facilmente se partite per la tangente»: «dobbiamo impegnarci a dire la verità e nient’altro che la verità, ma non necessariamente tutta la verità. A volte è una distrazione». Il problema del «poco tempo», della «distrazione», resta il terreno su cui oggi, a parere di chi scrive, il lavoro intellettuale è chiamato a ingaggiare la battaglia della vita (per sé e per tutti noi), il cui esito dipenderà dalla sua capacità di esercitare con l’esempio quella che Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli, ha chiamato la «propedeutica prima alla spiritualità»: il «non reagire subito a uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono e precludono», l’«imparare a vedere, abituare l’occhio alla pacatezza, alla pazienza, al lasciar venire-a-sé le cose; rimandare il giudizio, imparare a circoscrivere e abbracciare il caso particolare da tutti i lati». L’autonomia dal flusso turbinoso dei tweet e dei click, dei like, l’esercizio assiduo di pacatezza e pazienza, è la sfida di oggi; soprattutto per le università, chiamate

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a difendere la cittadella assediata della ricerca pura, disinteressata, resistente alle sirene della spendibilità immediata per il mercato o le professioni, facendo esercizio di una giusta misura di distacco dai vortici dell’effimero, e offrendo protezione dalla pressione degli «istinti» a tutti coloro che trovino accoglienza nel suo recinto di pensiero. Ma, al contempo, tenute a sviluppare e manifestare quella piena consapevolezza per i problemi dell’oggi senza la quale quel distacco perderebbe autorevolezza, oltre a porsi in contraddizione con l’idea di «una «società aperta in tantissimi sensi», ossia «più benevola verso gli sfortunati, che conforti gli afflitti e affligga gli agiati, invece del contrario». Una società, aggiungerei a questi auspici di Krugman, che consideri il lavoro intellettuale aperto a tutti i «capaci e meritevoli», come recita la nostra Costituzione, e in quanto tale portatore con fierezza della pretesa che tutti debbano prestarvi l’attenzione degna dell’impegno richiesto per conquistarsene l’esercizio. Questa è la via obbligata per «continuare a promuovere la vita della mente» per condurre a «un possibile miglioramento della vita in generale», come raccomandava conclusivamente Krugman, visto che «per tutti noi la giustificazione ultima di quello che facciamo è fare qualcosa che cambierà il mondo, che migliorerà le cose».

Docente di Diritto Penale, facoltà di Giurisprudenza, direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla giustizia penale, campus di Milano.

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Né primedonne né maggiordomi di Giovanni Gobber

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oce non bella, ma ve n’è di più brutte, direbbe Tommaseo: ad alcuni, la parola intellettuale ricorda un borioso individuo che ha letto qualche libro e si incarica di spiegare le cose alla massa ignorante. A chi invece indaghi l’etimo per comprendere i punti di vista degli antichi e confrontarli con gli esiti moderni, intellettuale sembra denotare, per lo più, chi “ha intelligenza”. La matrice è il verbo latino intelligere, che è un intus legere, un “cogliere” (legere) quanto è “dentro” (intus) alle cose del mondo. Un tempo, anche gli intellettuali guardavano al mondo ben sapendo che la vita era breve e bisognava osservare senza perdersi in chiacchiere. Del resto, il mondo era chiamato saeculum (forse con il significato di “tempo di una generazione”), che nell’inglese antico si tradusse werold cioè “l’età (old) dell’uomo (wer)”, continuato nel nome odierno world. Da un punto di vista antico e, forse, per questo sempre attuale, un intellettuale è chi “intuisce” cose profonde che riguardano ciascuno di noi e non le tiene per sé, ma le comunica agli altri: egli dice qualcosa d’importante per la nostra breve esistenza. Un intellettuale è testimone e guida nell’esperienza umana. Non pochi ribatteranno che, forse, gli intellettuali più attivi nelle piazze e nei salotti sono interessati ad altro che al destino degli esseri umani. Giusta osservazione: molti intellettuali d’oggi agiscono per sé o per i loro padroni. Gli uni si agitano per farsi notare, perché la notorietà dà loro “visibilità” e guadagni. Gli altri sono maggiordomi addetti (pagati) alla promozione di un’agenda decisa chissà dove. Diverso era il caso degli intellettuali organici al proletariato: credevano nel Partito, il quale era “intelletto, onore e coscienza della nostra epoca”. Ma quell’epoca – almeno in Occidente – è passata. E con essa è passato il disinteresse e la passione per il destino delle masse. Le quali, tuttavia, hanno – sembra – fatto tesoro di un detto famoso di Abraham Lincoln: “You can fool all the people some of the time, and some of the people all the time, but you cannot fool all the people all the time”. Come dire: vuoi essere un intellettuale? Allora sii sincero con te e con gli altri. E sii pronto a pagare, non a essere pagato. Vaste programme.

Docente di Linguistica generale, preside della facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano.

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I filosofi e l’ingiusta accusa di diserzione di Ingrid Basso

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e è vero che la filosofia “lascia tutto com’è”, secondo la celebre affermazione di Wittgenstein, se è vero che non è nella sua natura il mutare o addirittura il poter mutare gli stati d’essere, ma soltanto descriverli, o descrivere il linguaggio stesso che li esplicita, allora l’accusa di diserzione nei confronti dell’impegno politico ai danni dei filosofi – gli “intellettuali” per antonomasia – non avrebbe ragion d’essere. Questo per ragioni strutturali intrinseche alla natura stessa del filosofare in primis, e poi per ragioni etiche, nella misura in cui a chi spetta di leggere la realtà non dovrebbe competere di intervenirvi, pena una sorta di “conflitto d’interessi”. La seconda ragione è quella che sembra fondare la cosiddetta trahison des clercs di Jules Benda. Non a caso, tra i modelli di intellettuale propugnati da Benda troviamo Kant, secondo il quale «non c’è da attendersi che i re filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione». D’altronde già Plutarco, nel raccontare la vita di Pericle, commentava che la vita di un filosofo dedito alla speculazione e di un uomo politico non sono la stessa cosa: «Il filosofo muove la sua mente verso nobili fini, senza bisogno, per far ciò, di strumenti e materiali esterni; invece l’uomo politico deve mettere le proprie virtù a contatto con le basse esigenze dell’uomo comune». E se ci si chiede, in tutto ciò, che ne sia stato della radicale proposta platonica che vedeva coincidenti la figura del sovrano reggitore della polis e quella del filosofo, si può rispondere che quello platonico era uno stato ideale, giammai reale. Abbiamo dunque due piani, quello del pensiero e quello della prassi, quello della cultura e quello della politica, e se ci ritroviamo a porre l’interrogativo del loro rapporto è soltanto perché la condizione nella quale viviamo non ci soddisfa. Ecco allora il perché, dinanzi alle situazioni di crisi, dell’accusa agli intellettuali di volta in volta di silenzio o di sterile lamentosità, di opportunismo o di diserzione, se non di disagio, disorientamento o di decadenza. Tali accuse si fonderebbero però, notava Bobbio – che sulla relazione tra intellettuali e potere fu interpellato in occasioni innumerevoli – sull’equivoco di un’ingiustificata antinomia tra le posizioni estreme e unilaterali della politica intesa come pura potenza (posizione incarnata da Machiavelli), da cui la scissione netta tra politica e cultura, e quella della politica come pura eticità (posizione resa emblematica da Hegel), in cui politica e cultura coincidono. Due posizioni in cui il rapporto mezzi-fini è distorto: nel primo caso il mezzo – la politica – è elevato a fine in se stesso, nel secondo caso è invece scambiato con il fine. Con la consueta pacatezza, è Aristotele che può aiutarci a dirimere la questione, spiegando che la politica ha un valore solo strumentale, è una tecnica che consente

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il raggiungimento dei veri fini attraverso una necessaria convivenza pacifica tra gli uomini (che per definizione sono “animali politici”, perché per loro natura non possono vivere soli): l’esercizio della coazione che contraddistingue la politica non è dunque essenzialmente intrinseco alla politica, ma è dovuto agli uomini stessi e al loro vivere secondo passione e non secondo ragione. Certo, è una concezione forte di ragione quella di Aristotele: qual è dunque il ruolo del filosofo, dell’intellettuale, in tutto questo? Come mantenere la posizione universalista della ragione in un mondo dominato dalle passioni? In fondo, di Socrate ne nasce forse uno ogni duemila anni... Come galleggiare sui flutti del mare in tempesta (l’immagine è ancora di Bobbio) evitando di finire respinti, senza accorgersene, in un’isola disabitata? Forse, rispettando la natura descrittiva che è propria del discorso filosofico, lo dicevamo inizialmente, evitando di cadere in un prescrittivismo che è inevitabilmente votato alla parzialità, il filosofo, l’intellettuale, può esercitare la funzione che gli è propria semplicemente dicendo la verità, dicendo la verità al potere, esercitando quindi la parresia. «Che un re o un popolo sovrano non lascino ridurre al silenzio la classe dei filosofi, ma la lascino pubblicamente parlare, è indispensabile agli uni e agli altri per avere luce sui loro affari» concludeva Kant in Per la pace perpetua.

Ricercatrice di Filosofia teoretica, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Brescia e Milano.

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Non esiste spettatore innocente di Enrico Reggiani

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hierici, cortigiani, battitori liberi: quale ruolo per gli intellettuali? Rispondo citando il poeta irlandese Seamus Heaney (1939-2013; Premio Nobel per la Letteratura 1995): “No such thing / as innocent / bystanding” (“Non esiste spettatore innocente” ndr) (1996). Per amor di chiarezza – con una qualche inevitabile approssimazione e per stimolare il confronto – dico in estrema sintesi come interpreto le figure in questione. Colloco, in primo luogo, il chierico nel territorio antico della dominanza culturale di un paradigma sovrumano che lo trascende; in secondo luogo, il cortigiano nella sfera di influenza di un essere umano che lo sovrasta gerarchicamente (sovrano) e il cui spazio vitale (corte) ambisce a coltivare; infine, il battitore libero (o, più semplicemente, libero) non nella cornice di un’esperienza individualistica e anarchica (come troppo spesso si pensa), ma – come insegna la cultura calcistica da cui questa espressione proviene – nell’esperienza olisticamente orientata di una squadra in cui egli, pur non dovendo necessariamente arginare una specifica iniziativa ostile, nondimeno vi assolve più compiti di differente e complessa natura, sia difensivi sia di impostazione della strategia operativa del gruppo. Ora, proprio perché concordo con Silvano Petrosino sul fatto che “nessuno può definirsi intellettuale e nessuno fa il mestiere dell’intellettuale”, non posso non esplicitare una mia profonda convinzione che riguarda tutti coloro ai quali la “merciful providence”, menzionata da James Joyce (1882-1941) in Ulysses, ha concesso il privilegio di un lavoro prestato intellettualmente. A tutti costoro, ovvero a tutti noi, toccano l’impegno e la responsabilità di rivestire da liberi e forti ruoli e funzioni di chierico, cortigiano, battitore libero e molti altri ancora, nonché di rivestirli senza il difetto di cui scrisse Denis Diderot (1713-1784) in una sorta di “operetta morale narrativa” dal titolo curioso di Ceci n’est pas un conte (Questo non è un racconto, 1772): “Il fatto è, che ci piaccia o no, ci adeguiamo all’atmosfera che percepiamo. Quando entriamo in un salotto, fin dalla soglia adattiamo persino la nostra espressione a quella del gruppo [...]; nessuno vuole essere diverso da chiunque [...]; piuttosto che ascoltare o almeno tacere, ognuno blatera di cose che ignora, e tutti si annoiano, per stolta vanità o per gentilezza”. Inoltre, giacché “l’orizzonte delle sfide della nostra controversa contemporaneità [...] chiede di avere uno sguardo lungo, verso l’utopia e, insieme, un’attitudine concreta a lavorare di precisione e dettaglio nella quotidianità” (Antonio Calabrò), a chi “presta opera intellettuale” (per dirla in burocratese) accade di non poter mai rivestire ruoli e funzioni di chierico, cortigiano, battitore libero, e molti altri ancora comodamente e/o “allo stato puro”. Al contrario, se costu/ei vuole essere fedele al compito che si prefigge, gli/le è sempre richiesto di non venir meno al dovere,

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costante e paziente, di “leggere ciò che è già stato scritto” (Silvano Petrosino) nel senso più lato possibile, accettando il rischio della “relazione pericolosa” con la realtà senza soccombere all’“inaridimento” (Antonietta Porro) e declinando con coraggio e fantasia l’ineludibile rapporto tra “due piani, quello del pensiero e quello della prassi, quello della cultura e quello della politica” (Ingrid Basso). È sempre questa, in conclusione, la sfida più impegnativa per coloro che sbrigativamente ricomprendiamo sotto l’ambigua definizione di “intellettuali”: il radicale e integrale “intus legere, un ‘cogliere’ (legere) quanto è ‘dentro’ (intus) alle cose del mondo” (Giovanni Gobber), ma senza “leggere al servizio di un’ideologia [che] significa [...] non leggere affatto” (Harold Bloom, 1930-2019). Ovvero, meglio ancora, la sfida di esercitare e condividere tale lettura intelligente (nei pochi o tanti casi fortunati in cui si manifesti davvero) evitando di imitare “i lettori peggiori”, “che si comportano come soldati che saccheggiano: arraffano certe cose di cui possono avere bisogno, insudiciano, e gettano per aria il resto, e bestemmiano su tutto” (Friedrich Nietzsche, 1844-1900). Forse così gli intellettuali dei nostri giorni potranno dare risposta all’esigente interrogativo di Benjamin Rush (1745-1813), uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776): “When shall we cease to be mere scholars, and become wise philosophers, well-informed citizens, and useful men?”.

Docente di Lingua e letteratura inglese, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano.

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Idee contro la desertificazione di Aldo Carera

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ittorio Bachelet, Giuseppe De Rita, Renzo De Felice, Gino Giugni, Giovanni Marongiu, Ettore Massacesi, Mario Romani, Pasquale Saraceno, Enzo Scotti, Paolo Sylos Labini: giuristi, economisti, letterati, sociologi e storici che si sono distinti nel mondo degli studi e nel campo delle responsabilità politiche e sociali del nostro paese. Nonostante le differenze di impostazione culturale, convinzioni e discipline professate, tutti loro hanno messo a disposizione le proprie competenze (con diverse tipologie di impegno e di continuità) di uno stesso ministro. Nello specifico, il ministro del Mezzogiorno e delle aree depresse Giulio Pastore che a inizio del suo mandato (1958-1968) si è avvalso anche di una rivista, «Il nuovo osservatore», per dar vita a un dibattito culturale aperto a molti altri intellettuali di diversi schieramenti politici ed ecclesiali (era il tempo del Concilio Vaticano II: tra gli autori anche Joseph Ratzinger). Pochi anni dopo, a Milano e in differente contesto, un sindacalista dei metalmeccanici (Pierre Carniti) fondava la rivista «Dibattito sindacale», palestra di sociologi e giuristi di una generazione più giovane: Gian Primo Cella, Bruno Manghi, Mario Napoli, Tiziano Treu. Non è difficile riconoscere nei nomi fatti, qui e sopra, i tanti frequentatori dei chiostri di Largo Gemelli. Si tratta solo di due esempi, tra i meno noti, della casistica ben più ampia di una stagione di vivaci dibattiti mossi, in fondo, dalla comune volontà di contribuire al consolidamento democratico, culturale ed economico della giovane Repubblica. Esprimevano tutti una medesima convinzione: in un paese in cui ampi segmenti della popolazione, per limiti culturali e per condizioni economiche, faticavano a realizzarsi come cittadini a parità di diritti e di opportunità, era indispensabile una coraggiosa elaborazione culturale in grado di produrre discontinuità soprattutto lì ove le distorsioni del capitalismo industriale erano più radicate. Tale orientamento presupponeva uno stretto rapporto con decisori politici intelligenti e intuitivi – pur anche autodidatti, come i due indicati – ben determinati a perseguire il controverso equilibrio tra i vari possibili livelli d’azione, tra centro e periferie, tra iniziativa pubblica e privata, tra le logiche del mercato e la tensione per la giustizia sociale. L’intesa tra policy maker e intellettuali era alimentata dalla condivisione di mondi vitali omogenei e da un ordine di valori che, per i primi, ridimensionava le smanie personali del potere e, per i secondi, dava respiro alle ambizioni accademiche individuali e alle rispettive autoreferenzialità disciplinari. I comuni radicamenti vennero poi interpretati con sensibilità e con formule differenti, comunque innovative nelle teorizzazioni e nelle sintesi politico-operative. Il punto d’attacco era quello che Pastore chiamava la «desertificazione» civile e

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sociale di metà anni Venti quando, spinto dal disagio economico, lo «spirito della reazione» alterava ogni prospettiva, tanto che «ciò che ieri si vedeva come un incubo, oggi si vede come una liberazione». Processo replicabile, temeva, negli squilibri di una modernizzazione industriale priva di riferimenti morali e non sufficientemente aperta all’apporto della pluralità degli attori sociali. Per gli uni e per gli altri i risultati corrisposero solo in parte alle attese, come accade a chi si pone nella prospettiva di salvaguardare le logiche comunitarie e sociali della convivenza all’incalzare degli eventi che fanno forza sull’autonomia e sulla dignità delle persone umane. Ma la loro parte l’hanno fatta. La loro voce è risuonata non invano. Oggi come allora il contrasto alla desertificazione è affidato alle mani e alle intelligenze che cooperano nelle officine dell’agire politico e sociale. Un tempo si trattava di rompere l’immobilismo e le fragilità segnate dai processi storici. Oggi di non cedere imbelli a quel che sta già accadendo in un capitalismo sempre più sorvegliato da gotici metadati capaci di manipolare cinicamente il nostro libero arbitrio (come denuncia Shoshanna Zuboff ) e di mettere in croce il pluralismo sociale, fiducioso luogo umano di buona convivenza.

Docente di Storia economica e direttore dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia “Mario Romani” dell’Università Cattolica, campus di Milano.

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Se il re è nudo di Lorenzo Fossati

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n un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire». Questo il quadro desolante schizzato da Nietzsche, intellettuale «dinamitardo» se mai ce ne fu uno, che in un sol colpo faceva così saltare le presunzioni degli uomini e del loro intelletto e, più specificamente, quella degli uomini che all’intelletto si sono consacrati. A quasi tutti loro si addice quanto metteva in bocca Oscar Wilde al razzo eccezionale dell’omonimo racconto: «Provo molto piacere ad ascoltarmi: è uno dei miei piaceri più intensi». Se le dispute tendono ad appassionare solo chi vi è direttamente coinvolto (meglio poi quando parla lui) e l’autoreferenzialità è più di un rischio, nel caso di intellettuali che si interrogano sulla figura dell’intellettuale non si vede quasi come si possa uscirne. In effetti, paiono finiti i tempi in cui l’intellettuale era organico a un partito o a una causa e, in assenza di qualcosa cui appellarsi, sul tappeto è rimasta la soluzione di votarsi al proprio partito e alla propria causa: gli intellettuali sembrano spesso per lo più difendere se stessi e il proprio ruolo, e non raramente sono invisi agli altri, che per vari motivi intellettuali non sono o non si ritengono. A chi non è capitato di sentire più o meno a sproposito espressioni come radical chic, gauche caviar, professorone... sempre usate come termini spregiativi contro l’interlocutore che accamperebbe il maggior valore della propria opinione perché meglio articolata o più compitamente espressa. D’altro lato, è ormai arcinota la famigerata università della vita, scuola sui generis frequentata da chi invece intellettuale non è, sbandierata come motivo d’orgoglio in spregio appunto a un sapere che la vita non conosce, ha scordato o non mai praticato. La questione della verità di quanto si afferma, passa drammaticamente in secondo piano, essendo essa parimenti pretesa da tutti. Ahimè, esattamente come un po’ tutti, l’intellettuale vive in una bolla e, in particolare nel suo caso, questo è vero specialmente nel nostro Paese, dove coloro che leggono i libri sono in larga parte anche quelli che li scrivono, in una serie infinita di ammiccamenti, sgambetti e pacche sulle spalle. E tuttavia la vocazione dell’intellettuale è quella di parlare agli altri, di elevare le masse incolte, salvo appunto levare alti lai quando quelli se ne infischiano delle profonde e inedite prospettive che graziosamente gli vengono elargite. Perle ai porci! A questo proposito, però, Voltaire già per tempo ci ha ammonito: «Da Talete sino ai professori delle nostre università, ai più chimerici ragionatori e ai loro stessi plagiari, nessun filosofo influì nemmeno sui costumi del quartiere dove abitava. Perché? Perché a condurre gli uomini non

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è la metafisica, ma il costume. Un uomo solo, eloquente, abile e accreditato, molto può sugli uomini, mentre cento filosofi nulla possono, se sono solamente filosofi». Ovviamente il discorso può estendersi agli intellettuali in genere. Ma se oggi ci si interroga, ancora una volta, sul ruolo degli intellettuali nella società e sulla loro presa sulla realtà, questo non è solo in seguito alla crisi delle grandi ideologie del Novecento, ma anche in relazione ad avvenimenti più recenti, come per esempio la vittoria di Trump o l’esito del referendum sulla Brexit (per parlare di cose non troppo prossime e quindi opportunamente incruente). Si tratta di eventi che le cosiddette élites non solo non avevano previsto, ma che in qualche modo le hanno confermate di quanto le cose non vadano come dovrebbero. E come dovrebbero? Come loro sanno dovrebbero andare. Così è quindi è invalso l’uso di un termine ugualmente spregiativo, speculare a quelli summenzionati: populismo, che poi è la versione appena più sofisticata di popolo bue. Ora, vorrei specificare che personalmente penso il peggio possibile di Trump, della Brexit e del populismo, così come della presunta università della vita; tuttavia quello che noto è la guerra a linguacce tra tifoserie contrapposte, l’uso di etichette e slogan che hanno la funzione di autoassolvere e dispensare dall’effettivo confronto e dall’analisi concreta della realtà e dei punti di vista diversi dal nostro. Alle cose di cui penso il peggio devo senz’altro aggiungere quel grossolano relativismo per cui sarebbe parimenti legittimo ogni punto di vista, e però occorre notare come non per forza quello dell’intellettuale o dell’esperto sia migliore o più vero solo in virtù di chi lo esprime: l’autorità, come si dice, non va considerata una fonte automatica di verità. Questa è in effetti una lezione che gli intellettuali fanno propria, anzi di più: sono loro che la impartiscono, identificando se stessi col bimbo che finalmente grida: «Il re è nudo!». Ma si capisce: lo dicono perché l’autorità vera sarebbe la loro. Siccome chi scrive svolge una professione intellettuale, tutto questo rischia di suonare come un ridicolo caso di Selbsthass, di un odio di sé paradossale. Il punto è che capita – in alcuni contesti o certe congiunture – che proprio l’intellettuale sia il re di cui va denunciata la nudità. Che poi a farlo non possa essere se non un altro intellettuale, temo sia nell’ordine delle cose e, del resto, a incriminare l’intellettuale Socrate, modello dello sbeffeggiatore molesto, non fu certo il popolo (eventualmente bue, che però si limitò a condannarlo), ma altri intellettuali, presunti monarchi da lui smascherati. Il paradosso pare sia davvero una sorta di idiosincrasia tipica della tribù. Se insomma l’intellettuale si vede votato alla verità e al disinnesco del potere, appunto come l’innocente bimbo che spernacchia il re che se ne va in parata in mutande, penso sia utile che passi quanto più tempo possibile allo specchio non solo per perfezionare la tecnica, ma soprattutto per non scordare il primo necessario bersaglio delle sue critiche: se stesso.

Docente di Storia della filosofia, facoltà di Scienze della formazione, Università Cattolica, campus di Milano.

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Né apocalittici né integrati di Antonio Calabrò

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é apocalittici né integrati. Critici, semmai, con conoscenza dei problemi e con competenza nelle scelte. Per coloro che fanno un lavoro intellettuale come professione sono queste, oggi, le condizioni che ne connotano impegno e responsabilità. L’orizzonte delle sfide della nostra controversa contemporaneità, infatti, chiede di avere uno sguardo lungo, verso l’utopia e, insieme, un’attitudine concreta a lavorare di precisione e dettaglio nella quotidianità. Utopia e riformismo, per dirla in sintesi. Ricordando, tra le tante possibili, la lezione filosofica di Ernst Cassirer (“La grande missione dell’utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo”), ma anche l’ambizione coraggiosa verso la “società aperta” di Karl Popper e la spregiudicata capacità di rinnovare radicalmente il pensiero economico della tradizione liberale di John Maynard Keynes, in nome d’un lungimirante intervento anti-crisi degli investimenti pubblici produttivi e d’una rideterminazione di poteri: un liberalismo democratico con forte valenza sociale. Intellettuali chierici o cortigiani o battitori liberi? Ci sono altre indicazioni di ruolo possibili. Intellettuali come persone capaci di sintesi originali tra pensiero umanistico e saperi scientifici, nella costruzione di una “cultura politecnica” in grado di provare a dare risposte alle inedite questioni di senso poste dalle nuove tecnologie, dagli incroci conflittuali tra dinamiche della globalizzazione e ripresa delle identità locali, dalle crisi che lacerano politica, mercati, equilibri sociali. Gli intellettuali italiani hanno mostrato, soprattutto dalla seconda metà del Novecento a oggi, un difficile rapporto con la modernità, rimpiangendo civiltà contadine tramontate (e trascurandone le dimensioni di povertà estrema, degrado, violenza, appannamento dei diritti fondamentali di uomini e soprattutto donne) o progettando palingenesi, divagando, dunque, tra conservazione e giacobinismo. Oggi, invece, vale la pena provare a cambiare paradigma e ragionare, come coscienza critica, sulla scrittura di nuove mappe della conoscenza, tra scienza e filosofia, memoria e futuro, diritti e responsabilità. Rileggere Max Weber. Usare come metodo la severità analitica dell’illuminismo di Leonardo Sciascia (tornato finalmente all’attenzione dei lettori, a trent’anni dalla morte). Ma anche dare attualità di scelte concrete alle domande di sostenibilità, ambientale e sociale, per uno sviluppo equilibrato, stando ben attenti a che proprio questa parola, sostenibilità, così carica di valori, non finisca mortificata nella banalizzazione dei discorsi pubblici e nei mascheramenti del green washing delle cattive abitudini.

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Fuori, appunto, dalla fuorviante dicotomia “apocalittici o integrati”, c’è un tema che chiede un massimo di attenzione: quello dell’intelligenza artificiale, della coabitazione tra macchine capaci di pensiero e intelligenza umana. “Dominio e sottomissione”, ha appena scritto Remo Bodei per Il Mulino, analizzando oggi “i due termini di un rapporto di potere fortemente asimmetrico che innerva la storia dell’umanità e che nella civiltà occidentale ha conosciuto numerose metamorfosi”. Quei rapporti sono oggi sotto particolare stress e investono la conoscenza, l’economia, gli assetti politici e sociali, la produzione e il consumo, i nuovi squilibri e i possibili riequilibri. È necessario imparare a farvi i conti. Senza tecnofobie. Ma con la consapevolezza, comunque, che i nuovi orizzonti dell’Intelligenza Artificiale non sono affatto una qualunque evoluzione della tecnologia. Saranno gli umani a dominare i robot o i meccanismi di auto-apprendimento delle macchine e la loro stupefacente capacità di calcolo combinatorio determineranno nuove gerarchie di potere, dei robot su di noi umani? Fuori dai confini della fantascienza, la domanda supera le tecnicalità tecnologiche per chiamare direttamente in causa il senso dell’umano, i sistemi di valore d’una persona e d’una comunità. Lavoro intellettuale fondamentale. C’è chi suggerisce che “è tempo di pensare a una algor-etica, cioè un’etica degli algoritmi”, come sostiene Paolo Benanti, frate francescano, studioso di bioetica ed evoluzione tecnologica, insistendo: “Se vogliamo che la macchina sia di supporto all’uomo, allora gli algoritmi devono includere valori etici e non solo numerici”. La responsabilità è dunque di chi costruisce, programma, aggiorna, ridefinisce la macchina, nella consapevolezza che il momento delle scelte è sempre della persona umana. Il valore del lavoro intellettuale sta appunto qui. E nella definizione costantemente mobile, resiliente, critica, dei rapporti tra tecnologia, condizioni sociali (evitando le disuguaglianze dei devide da partecipazione o esclusione dai processi hi tech), conoscenze, democrazia. Un insieme di relazioni che si tengono insieme, tra memoria e metamorfosi e che sfidano, appunto, la ricerca di senso tipica del lavoro intellettuale. “Le democrazie sono fragili di fronte ai domini tecnologici”, ammonisce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, analizzando con lucidità, davanti a una platea di giovani (lo scorso ottobre a Bergamo), le questioni poste dalla concentrazione dei poteri digitali e insistendo sulla necessità di rafforzare, con la formazione e la crescita della coscienza critica, la consapevolezza delle mutazioni in corso. Tutt’altro che un compito da chierici o cortigiani. L’innovazione, insomma, è una delle condizioni di una contemporanea filosofia dell’umano. Priva di certezze invadenti e di risposte facili. Tutt’altro che nostalgica. Aperta, semmai. E sempre memore, comunque, della consapevolezza d’un altro dei grandi riformatori del Novecento, Gustav Mahler: “La tradizione non è custodia delle ceneri ma è culto del fuoco”.

Presidente di Museimpresa e direttore della Fondazione Pirelli.

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Gli intellettuali e la trahison des Clercs Sono passati più di trent’anni dal vibrante “j’accuse” di don Tonino Bello agli uomini di cultura di don Tonino Bello

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ari intellettuali, se do a questa lettera un titolo esotico, la ragione è duplice. Anzitutto, perché i poveri (voglio dire gli abituali lettori di questo foglio), vedendo in cima una misteriosa frase francese, passeranno oltre, non leggeranno il “pezzo”, e voi potrete così salvarvi la faccia, almeno davanti a loro. In secondo luogo, perché, scegliendo una frase volutamente ambigua, pago in anticipo l’insolenza di incriminarvi di tradimento col prezzo di far fraintendere, a più d’uno, che “clercs” significhi chierici come uomini di Chiesa, e non chierici come uomini di cultura. Un modo forse ingenuo per farmi perdonare il mio “j’accuse” contro di voi, visto che, almeno sul piano lessicale, accenno a una certa spartizione di responsabilità in fatto di tradimento. Spartizione, che poi è anche giusta. Non sono tanto digiuno di storia, passata e recente, da ignorare i tradimenti consumati dalla Chiesa contro di voi, i suoi sospetti sul vostro modo di inseguire la verità, le sue paure sulla vostra autonomia intellettuale, le sue preoccupazioni sul vostro modo di intendere la libertà, la sua durezza nel recepire non solo i vostri metodi di ricerca ma anche la lettura da voi data delle realtà terrestri. A un certo punto vi “ha mollati” (verbo volgarissimo corrispondente al latino “tràdere”), e ora sconta pesantemente la pena di un recupero che diventa sempre più difficile. Io, però, voglio oggi parlarvi del vostro tradimento. E non di quello da voi messo in atto come ritorsione nei confronti della Chiesa, ma di quello ben più grave da voi operato nei confronti della città. Ci state lasciando soli. Vi siete ritirati nelle vostre torri d’avorio, non si sa bene se a meditare vendetta, o a ruminare sterili supplementi di analisi, o a contemplare dalle vostre aride specole i fasti di una dietrologia senza speranza. Siete latitanti dall’agorà. È più facile trovarvi nelle gallerie che nei luoghi dove si esprime l’impeto partecipativo che costruisce il futuro. State disertando la strada. Per scarnificare la storia di ieri, state abbandonando la cronaca di oggi che, senza di voi, è destinata a diventare solo cronaca nera. Sul vostro labbro si coglie uno sconcertante abuso di ironia, che mentre esprime lucidità di memoria, appanna la lucidità dei progetti. Manca nel vostro linguaggio quel sarcasmo appassionato che è indice di solidarietà con la storia degli uomini. Vi siete staccati dal popolo, così che, per la vostra diserzione, stanno cedendo nell’organismo dei poveri anche quelle difese immunologiche che li hanno preservati finora dalle più tragiche epidemie morali. Vittime del privatismo, il male oscuro del secolo che voi per vocazione avreste dovuto debellare, avete abbandonato i laboratori della sintesi dove la poesia si mescola col giornale, il sogno con la realtà,

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la tensione assiologica con le fredde esigenze della tecnica, gli spartiti musicali della vita con gli arrangiamenti banali dei rumori quotidiani. E intanto la città muore. Col vostro nulla osta. La città benestante, consapevole dei suoi mezzi ma cieca nei suoi fini, corre verso un degrado di felicità mai conosciuto finora; mentre la città diseredata vive in simbiosi con la disperazione più nera e langue per asfissia da futuro. Cari amici, non sto prendendo in prestito nulla dalla letteratura apocalittica corrente, né mi va di fare del moralismo di maniera. Anzi se c’è qualcosa che mi ripugna come Vescovo è quello di essere considerato funzionario del buon costume. Ma non posso chiudere gli occhi di fronte alle situazioni pesantissime di miseria, di disoccupazione, di violenza, di ingiustizia, di violazione dei diritti umani, di affossamento dei valori, di degenerazione della qualità della vita e di cento altri fenomeni patologici, di fronte ai quali viene chiamata in causa la vostra correità di intellettuali che, pur essendo vestali della luce e sentinelle della città, scorgete la barbarie andare in metastasi nel tessuto della nostra convivenza e continuate a star zitti. Ci state lasciando soli a tamponare emorragie e a fasciare piaghe sulle trincee. E anche quando sembrate gratificarci col dire che stiamo combattendo battaglie d’avanguardia, sotto sotto ci pare di leggere nei vostri giudizi il compatimento per chi si sta solo estenuando in scaramucce di retrovia. Cari amici, perdonatemi lo sfogo. Se un chierico come me, più propenso per antiche deformazioni ad attaccare vizi privati e a blandire pubbliche virtù, stavolta ha sentito il bisogno di aggredire i vizi pubblici di chierici come voi, è perché sa di poter fare affidamento sulle vostre tantissime virtù private. Tra queste mi pare che ancora ci sia la speranza. E allora, da essa guidati per mano, intraprendiamo insieme la strada dell’esodo. Che è la strada della misericordia. Divenuti pellegrini, usciremo sulla Gerusalemme-Gerico. Forse insieme riscatteremo la freddezza del sacerdote, chierico del sacro, e l’apatia del levita, chierico del sapere. Insieme, fatti prossimo, ridaremo la mezza vita all’uomo mezzo morto boccheggiante sulla strada. E le stelle non staranno più a guardare, come nei romanzi di Cronin. Vi voglio bene.

UNA VOCE PROFETICA DI

AGOSTINO PICICCO

Lo scritto pubblicato nell’ambito del dibattito sul ruolo degli intellettuali nella società è una riflessione di monsignor Antonio Bello, vescovo di Molfetta negli anni Ottanta, in una lettera – con toni di esortazione – rivolta agli uomini di cultura delle sue città. Monsignor Bello (meglio conosciuto come “don Tonino”) ha rappresentato una delle voci profetiche dell’episcopato italiano e ora è in corso il processo di beatificazione. Ha anticipato stili di vita e magistero di papa Francesco, che due anni fa in occasione del 25° della scomparsa si recò pellegrino a Molfetta e alla tomba nella città natale di Alessano. La lettera di don Tonino Bello, a lungo meditata e pubblicata nel gennaio 1987, si intitola Trahison des clercs, mutuando il titolo da un pamphlet

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di Julien Benda pubblicato nel 1927, testo fondamentale sul tema della posizione degli intellettuali nella società. Papa Giovanni Paolo II nei suoi viaggi di quegli anni di solito incontrava il cosiddetto mondo della cultura in qualche teatro o aula magna di Università. Lo stesso faceva don Tonino durante le visite pastorali, in qualche biblioteca di quartiere. Ma l’intuizione, come vescovo diocesano, di scrivere una lettera agli intellettuali della sua città, risulta originale. Come originale è il contenuto, perché non è un’occasione per parlare agli uomini di cultura dei problemi contemporanei, delle comuni sinergie, dei loro meriti scientifici, ma, con il fascino di un titolo ad effetto in francese, diventa una precisa accusa di tradimento. L’accusa è soprattutto per il loro atteggiamento verso la città. Sostanzialmente si chiama abbandono. “Vi siete ritirati nelle vostre torri d’avorio”, disertando i luoghi della partecipazione, non offrendo supporto concettuale alla vita sociale, abbondando invece in giudizi caustici e fumosità. Il vescovo non si aspetta dagli intellettuali un contributo astratto, ma li pone in relazione con il contesto di degrado, di povertà, di miseria, di ingiustizia, di disoccupazione, insomma di degenerazione della qualità della vita, che toccava con mano durante i quotidiani incontri con i poveri della città, che presso di lui trovavano rifugio e sostegno. Se il ruolo degli intellettuali è quello di essere “sentinelle della notte” e di fatto non si sono adoperati per eliminare il degrado della città, il tradimento è palese. Ecco allora l’invito alla speranza per un impegno tangibile a vantaggio e a servizio della città e delle sue necessità.

Vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi (1935-1993), la lettera agli intellettuali fu pubblicata il 25 gennaio 1987 sul Settimanale diocesano “Luce e vita”.

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Socrate ha perso, la sfida al potere procede di Antonietta Porro

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el suo intervento su CattolicaNews (16 ottobre 2019) Giuseppe Lupo stigmatizza lucidamente la crisi del rapporto fra intellettuali e potere nel nostro tempo parlando di «pericoloso cortocircuito fra chi manovra le parole e chi detiene le chiavi della città». È mia convinzione che a generare il “corto” sia una relazione sbagliata, frutto di una progressiva confusione di ruoli. Se intellettuale è una persona di solida cultura, in grado di leggere la realtà con lucidità e disincanto e di mettere a parte della propria interpretazione (con la quale identifico ciò che Lupo chiama “idee”) i contemporanei, è inevitabile che egli entri in relazione con le diverse forme di potere, politico, economico-sociale, della comunicazione: può accadere infatti, come accade oggi con frequenza, che il potere cerchi negli intellettuali una legittimazione ideale delle proprie scelte e che gli intellettuali fondino il proprio prestigio sul riconoscimento pubblico di questo ruolo. Da una simile “relazione pericolosa” deriva un sostanziale inaridimento della funzione degli intellettuali, coincidente con la rinuncia all’elaborazione di visioni di respiro a favore di riflessioni connesse con l’occasione e dotate di carattere effimero. In altri termini, quella dell’intellettuale si trasforma fatalmente da funzione in mestiere. Già nella Grecia antica poeti come Pindaro forniscono ai potenti, attraverso l’encomio poetico, la giustificazione ideale delle loro scelte contingenti e promettono la gloria imperitura, chiedendo in cambio, a volte senza mezzi termini, il sostegno economico del mecenate. La qualità della poesia non ne risulta peraltro mortificata, né le più alte riflessioni sull’uomo e sul mondo ne vengono inficiate, ma certo non si può chiedere un giudizio veritiero e disincantato dell’artista sul suo patrono, anche se a Pindaro non manca la capacità di esprimere critiche, dove ritiene di poterlo fare. La funzione di celebrazione del potere costituito e addirittura della persona del sovrano si radicalizza nell’Alessandria tolemaica del III sec. a.C., dove poeti come Callimaco o Teocrito pongono talora la loro penna al servizio del re e ottengono in cambio protezione e sostentamento, ciò che garantisce loro di continuare ad esercitare il proprio mestiere di studiosi e di artisti. La libertà di giudizio non abita qui. L’aspirazione a rivestire il ruolo di educatore di sovrani illuminati induce, d’altro canto, Platone – come egli stesso ci racconta nella Lettera VII – a intraprendere la funzione di consigliere dei potenti di Siracusa, in particolare di Dionisio II, ma la sua esperienza si rivela alla fine fallimentare: i suoi interlocutori non sono disposti ad ascoltarlo e Platone, diversamente da altri, non sembra incline al compromesso: «Quando un uomo è ammalato e segue un regime di vita che non giova alla sua salute, per prima cosa bisogna consigliarlo di cambiar vita; e se dà ascolto, si

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possono aggiungere altri suggerimenti. [...] Lo stesso vale per una città. [...] Solo a queste condizioni io potrei darvi dei consigli» (330 c – 331 d; trad. Ciani). Platone è discepolo di uno dei maggiori intellettuali dell’Atene del V sec. a.C., la cui figura storica non è a tutt’oggi univocamente interpretata. Nella rappresentazione che ce ne dà Platone si impongono tratti peculiari del modo il cui il suo maestro Socrate interpretò la propria funzione di intellettuale al servizio della città. In particolare dall’Apologia, il discorso di difesa dalle accuse dei concittadini, si ricavano alcune precise indicazioni: il suo ideale di vita si traduce in una condizione di perenne ricerca («una vita senza ricerca non è per l’uomo degna di essere vissuta», 38a); il suo compito di intellettuale nei confronti della città – della quale si sente parte integrante – è quello di pungolarla continuamente, come un tafano stuzzica un cavallo di razza impigrito dalla sua mole (30e), a curarsi «dell’anima, perché sia la migliore possibile» (30b); e tutto ciò senza chiedere compensi. Il comportamento di Socrate incappa tuttavia in una vistosa controindicazione: i suoi concittadini lo mettono a morte. Non v’è dunque speranza – oggi come ieri – per una figura di intellettuale che aspiri ad essere libero da compromessi e cedimenti nei confronti dei poteri? Socrate non vinse la sua personale battaglia nell’Atene del V sec., ma la civiltà occidentale si misura tuttora, più o meno consapevolmente, con le sue dottrine e i suoi insegnamenti. Forse si tratta solo di non accontentarsi del ruolo di sponsorizzazione del potere – in qualunque forma si manifesti –, di concepirsi in perenne ricerca, rinunziando alle gratificazioni immediate riservate a un intellettuale prêt-à-porter, di avere il coraggio dell’onestà intellettuale, sentendosi “dentro” la città, ma senza far coincidere il successo delle proprie idee con il plauso sociale.

Docente di Lingua e letteratura greca, facoltà di Lettere e filosofia; direttore del Dipartimento di Filologia classica, Papirologia e Linguistica storica, campus di Milano.

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