LIBERA la voce #5

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Pisa, 12 Dicembre 2013

la voce

Presidio Libera Pisa “Giancarlo Siani”

Cosa c’entra l’Italia con il Messico?

Giancarlo Siani, (Napoli, 19 settembre 1959 Napoli, 23 settembre 1985) Giornalista presso “Il Mattino” fu assassinato in seguito alle sue inchieste sul clan camorristico dei Nuvoletta.

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I meno giovani probabilmente ripenseranno alla finale dei mondiali di calcio che l‟Italia ha disputato contro il Brasile in Messico nel 1970, ma purtroppo non è questo soltanto che lega il nostro Belpaese alla terra dei narcos, quanto piuttosto il commercio di cocaina. E‟ infatti nel porto di Gioia Tauro, con i suoi 3500 chilometri di banchine, che arrivano le navi della cocaina; ne arrivano così tante che qualcuno ha iniziato a chiamarla Coca-Tauro. A differenza del Messico non ci sono soldati né cadaveri per le strade della Piana eppure è la „ndrangheta il nuovo sodale dei cartelli messicani della droga. Il traffico internazionale di cocaina, che in Messico miete 1400 vittime al mese, in Calabria ha trovato spazio in un gioco di quote e spartizioni territoriali tra „ndrine rivali. Questo perché il commercio di cocaina non ha rivali in termini di guadagni; basti pensare che un chilo di cocaina, comprata dai gruppi criminali a 1500€ al chilo, può fruttare fino a 225000€ una volta lavorata ed immensa nel mercato dello spaccio locale. Più di 100mila persone, ad oggi, hanno perso la vita in questa sanguinosa guerra per la polvere bianca e l‟Italia, sopra la media europea per consumo di cocaina, ha le sue colpe in questo dal momento che a maggior consumo corrispondono maggiori guadagni. Gioia Tauro, con i

suoi 3,5 milioni di container l‟anno che arrivano sulle sue banchine, è la principale porta di ingresso della cocaina in Europa; e la „ndrangheta, economicamente e logisticamente imbattibile tra tutte le mafie, ne è la regina, coprendo, da sola, circa l‟80% dell‟intero traffico di cocaina nel Vecchio Continente con guadagni annuali dell‟ordine dei 20 miliardi di euro. Globalmente il traffico di stupefacenti fa arrivare nelle tasche della criminalità organizzata 350 miliardi di dollari l‟anno; i narco-dollari, o coca-euro per quanto ci riguarda, vengono riciclati nell‟economia legale, grazie ad appoggi all‟interno dell‟istituzioni e degli istituti di credito, andando a corrompere irreparabilmente il sistema economico degli Stati importatori. Gli elevatissimi guadagni derivanti dal narcotraffico permettono, infatti, alle mafie di insinuarsi nelle attività produttive del Paese, andando a stroncare, in un periodo di crisi come quello attuale, la concorrenza imprenditoriale grazie alla pressoché infinita disponibilità di liquidità. Dall‟analisi dei dati emerge come i narco-dollari siano diventati ormai un cardine del sistema finanziario globale. Ogni anno che passa il quantitativo di droga intercettato aumenta sempre di più, ma, come hanno svelato le inchieste, solo il 10% della cocaina viene

intercettato, perciò è facile capire come all‟aumento di droga sequestrata corrisponda un aumento della droga importata, e quindi venduta. Con la fine dell‟egemonia colombiana nel traffico di cocaina, la „ndrangheta è riuscita a capire prima delle altre mafie le possibilità economiche di un accordo con i narcos messicani e così, dal 2008, iniziano a emergere dalle investigazioni i primi contatti criminali tra Italia e Messico. E‟ necessario, a questo punto, chiedersi chi fornisce alla „ndrangheta la droga destinata ai mercati europei. A gestire il commercio di cocaina è il cartello messicano dei Los Zetas, responsabili negli ultimi anni d‟innumerevoli sequestri di migranti centroamericani – se ne contano più di 20mila l‟anno torturati e poi rivenduti, come moderni schiavi, nei mercati del sesso, degli organi e della pedofilia; un mercato da decine di milioni di dollari l‟anno. E‟ dalle loro mani che arriva la polvere bianca che fa sballare giovani, e non solo, di tutta Europa; ed è a loro che questi ultimi pagano il prezzo del loro divertimento. Una cocaina che quindi, più che bianca, appare rosso sangue. I dati sono presi dal libro “Coca Rosso Sangue” di Lucia Capuzzi edito da Edizioni San Paolo.

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Alessandro Giubilei


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Lacrime di coccodrillo

Danni causati dall’alluvione

18 novembre 2013. Morti e dispersi. E' emergenza. Precipitazioni molto intense hanno colpito la Sardegna per oltre venti ore. Segnalati accumuli record, anche superiori ai 300 millimetri. Si contano i danni. Ponti crollati, viabilità in tilt. Persone soccorse e salvate dai soccorritori. Le precipitazioni si sono scatenate nel tardo pomeriggio con particolare violenza tra Nuoro e Olbia. Alla fine si conteranno 17 vittime accertate. Purtroppo questo film già visto infinite volte è così sempre uguale a se stesso da far suonare rituali, quasi accademiche, anche le parole di chi non ha mai smesso di denunciare l'Italia colabrodo. Malgrado tutto però noi tutti dobbiamo insistere. E' vero: in poche ore sull'Ogliastra e sul Nuorese è caduta tanta pioggia quanta in genere ne arriva in un anno: più o meno 400 millimetri. Ma non è la prima volta che succede. Come ha ricordato il meteorologo Luca Mercalli, soltanto negli ultimi dieci anni è capitato in altre due occasioni, 2008 e 2004; andò peggio solo nell'ottobre 1951. Si è trattato sì un fenomeno eccezionale, probabilmente inasprito dai cambiamenti climatici globali che stanno investendo il Mediterraneo, ma non è stato un fenomeno inedito. E allora, pesantemente, piomba la oramai ricorrente e arcinota domanda leniniana: che fare?

Si può, si deve, sicuramente, rendere il "pronto soccorso" della protezione civile più efficace: anche se oggi funziona bene nel suo snodo centrale di coordinamento, troppo spesso perde rapidità ed efficienza quanto più ci si allontana da Roma e ci si avvicina ai luoghi fisici, laddove ci sono da gestire emergenze improvvise e gravi. E poi, imprescindibilmente, si deve fare il contrario di ciò che in Italia si fa da decenni: consumo scriteriato del suolo e scarsi investimenti nella messa in sicurezza e nella manutenzione ordinaria del territorio. A fronte di un costo complessivo per la messa in sicurezza del nostro territorio stimato in circa 40 miliardi, tutti gli ultimi governi - da Berlusconi a Monti a Letta - hanno previsto a tale scopo risorse irrilevanti, fino all'obolo di 30 milioni messo a bilancio con l'attuale Legge di Stabilità. I governi italiani non hanno mai problemi a trovare miliardi per grandi opere, costosissime o di dubbia utilità, o per mega acquisti che interessano solo a qualche lobby potente come i famigerati F35, invece davanti all'esigenza veramente vitale per il Paese di trovare non diciamo miliardi ma almeno qualche centinaio di milioni da destinare alla difesa del suolo, alzano le braccia. Cemento ovunque, comprese quelle zone in cui non si dovrebbe costruire un metro

cubo, come ad esempio le fasce golenali di fiumi e torrenti. Abusivismo edilizio tollerato e spesso incoraggiato a forza di condoni: dobbiamo cambiare mentalità. La filosofia del condono ci porta a credere che il denaro estingua il rischio, che se uno paga l'ammenda per un abuso si mette per sempre in regola: mentre l'alluvione sarda ci deve insegnare che la precarietà non si mette a norma, che finché non si risolve il problema che si è creato sul territorio, la minaccia, in caso di alluvione, resta sempre dietro l'angolo. Fra le tante cifre che ci ballano davanti agli occhi, fra le tante cifre che si ricordano, ce n'è una che ci deve far riflettere, e che andrebbe scolpita, anche nei fumosi discorsi dei responsabili istituzionali: per ogni miliardo di euro speso in prevenzione, in questo Paese, ne spendiamo due e mezzo di emergenza. Si chiedano più investimenti sul futuro, si metta a norma tutto quello che si può e si deve, e per favore, smettiamola di piangere lacrime di coccodrillo, prima che ci venga presentato di nuovo il conto di tutto ciò sotto forma dell‟ennesima tragedia. Niccolò Batini


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Terremoto L’Aquila: l’Unione Europea e il malaffare post sisma Il 4 novembre scorso viene presentato un rapporto dell‟Unione Europea in cui si critica il modo in cui l‟Italia ha gestito i fondi europei per la ricostruzione dell‟Aquila dopo il terremoto. Nel dossier, redatto dall‟europarlamentare Søren Bo Søndergaard, deputato della Sinistra unitaria, si parla della scarsa qualità dei materiali usati per la costruzione degli edifici, dei prezzi gonfiati dovuti ad un complesso gioco di appalti e subappalti, del fatto che molte aziende coinvolte nella ricostruzione fossero prive del certificato antimafia, quindi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Al centro di tutto la critica ai progetti CASE (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) e MAP (Moduli Abitativi Provvisori). Oltre alle autorità italiane, anche quelle comunitarie vengono accusate di negligenza. Søndergaard cita l‟ispezione di una delegazione dell‟UE in Abruzzo nel 2010 e ricorda di come questa non abbia tenuto conto, nella relazione successivamente redatta, dei problemi sollevati da molti deputati. La Commissione bilancio dell‟Unione, inoltre, ha valutato i costi della ricostruzione senza diffonderne i dati. Il documento è stato presentato al Parlamento Europeo il 7 novembre e, per il momento, sembra scongiurato il pericolo per l‟Italia della restituzione all‟Europa di 350 milioni di euro dei 493,7 ricevuti dopo il sisma. La Commissione Europea ha rispedito le accuse al mittente affermando che “il denaro del Fondo UE di solidarietà dato

all‟Abruzzo non è andato perso e i soldi dei contribuenti non sono stati sprecati”. Shirin Wheeler, la portavoce responsabile per le Politiche regionali della Commissione Europea, ha dichiarato che l‟Italia non dovrà restituire i fondi perché “i finanziamenti sono stati usati per progetti puliti”. Questo dossier dell‟Unione, presentato quasi cinque anni dopo il sisma del 6 aprile del 2009, rivela fatti eclatanti solo per i professionisti della negazione dell‟evidenza e fa riflettere su quanto inascoltate siano state le voci degli addetti ai lavori sui pericoli di infiltrazioni criminali dopo una simile situazione d‟emergenza. Il 25 gennaio del 2010, ai microfoni del tg3 regionale, Olga Capasso, il Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, dichiara: “Non ci sono solo i casalesi, ma anche mafia e „ndrangheta. Mi sembra che tra i problemi legati alla lotta alla criminalità organizzata quello dell‟Aquila sia uno dei nodi più grossi a livello nazionale”. Nel dicembre del 2010 il Presidio Libera Abruzzo pubblica un dossier sul malaffare intorno al terremoto dal titolo emblematico: Crepe. 6 aprile 2009 ore 3.32. La fine dell’isola felice. Il rapporto, dettagliatissimo, si compone di 16 pagine, ma sono sufficienti le parole scritte nella prima a dare un sussulto di indignazione: “Il sisma del 6 aprile rappresenta un evento traumatico che ha segnato e segnerà la storia della regione per i prossimi decenni. E segnerà in maniera marcata la storia

criminale e del malaffare. La scossa che alle 3.32 ha devastato L‟Aquila non ha prodotto solo lutti e macerie. Ha spazzato via anche quel velo di ipocrisia che copriva chi si ostinava a parlare ancora di Abruzzo isola felice. […] Una cosa però è chiara: il territorio sarò investito da ulteriori assalti che non possono più essere affrontati solo come un problema di polizia. La situazione è talmente grave che la società civile dovrà decidersi a scendere in campo e concertare un‟azione comune”. Le presenze della criminalità organizzata in Abruzzo sono precedenti al terremoto. Tutto ciò che è accaduto dopo la scossa del 6 aprile ha rivelato quello che la regione rappresenta per la criminalità organizzata: una lavanderia. Come sempre accade in queste situazioni, la società civile diventa l‟unica forza in grado di impedire che sulle istituzioni sventoli bandiera bianca. Tra decreti d‟emergenza, militarizzazione del territorio e sospensione dello stato di diritto, la gestione del post terremoto si va ad aggiungere alle tante storie italiane da cui avremmo molto da imparare, una sorta di modello matematico da tenere bene a mente e da non applicare più. Tuttavia, si preferisce ancora agire negando il passato piuttosto che imparare da esso per porre le basi di un futuro diverso. Marika Pezzolla

Progetto C.A.S.E. L’aquila


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La Carta di Pisa Prima esperienza italiana di Codice Etico per amministratori locali Il 27 febbraio 2012 è stata presentata alla sala stampa della Camera dei deputati la “Carta di Pisa”: codice di comportamento predisposto dall‟associazione Avviso Pubblico. Enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie e rivolto ad amministratori pubblici politicamente eletti e nominati. Strumento giuridico di soft law fondato sul principio di autoregolamentazione - per il quale coloro che stabiliscono le regole sono anche i soggetti tenuti a rispettarle - il codice etico è pensato come una strategia di prevenzione della corruzione basata su un approccio bottom-up, proveniente cioè dal basso. Va precisato che l‟intento di Avviso Pubblico è stato quello di dar vita ad un modello di codice di comportamento che le singole amministrazioni sono libere di modificare ed integrare al fine di renderlo il più adatto possibile alle particolari esigenze di ognuna di esse. Il primo Ente a sottoscrivere la Carta è stato, simbolicamente, la Provincia di Pisa: a distanza di quasi due anni dall‟introduzione del Codice sono 24 gli Enti territoriali locali che lo hanno adottato tra i quali figurano 22 Comuni e 2 Province. Il

Carta di Pisa fatto che - in diversi casi di adozione - il Codice non sia stato automaticamente recepito denota l‟interesse rivolto a tale strumento che è stato infatti oggetto di attenzione in tutte le sue parti, preso quindi “sul serio” dai singoli Enti e non come una serie di previsioni semplicemente da “copiare e incollare”. Molti si sono preoccupati degli effetti delle disposizioni enunciate e si sono attivati per emendarle, ostacolando - non di rado l‟adozione della Carta da parte di Giunte e Consigli di varie amministrazioni. il Codice prevede anche la possibilità di sottoscrizione volontaria da parte del singolo amministratore, come una sorta di sfida lanciata ai restanti rappresentanti politici a fare altrettanto e ad assumere la medesima responsabilità a fronte di un rinnovamento in senso etico dell‟organo

politico dell‟amministrazione. Venendo ai contenuti, la Carta è costituita da regole di condotta che agiscono su quelle situazioni “propedeutiche” alla corruzione, che mirano cioè a far sì che i rappresentanti politici siano al di sopra di ogni sospetto evitando di compiere quelle azioni che potrebbero generare anche la mera apparenza di scorrettezza (o d‟illecito vero e proprio). In questo senso, un esempio rappresentativo è costituito dalla norma della Carta che vieta di accettare regali - per un valore superiore a 100 euro annui provenienti da quelle fonti interne ed esterne alla pubblica amministrazione i cui interessi potrebbero essere influenzati dalla decisione pubblica all‟adozione della quale il rappresentante politico destinatario del dono partecipa. Sono inoltre previsti degli obblighi di astensione per i quali, a fronte del palesarsi di situazioni di conflitto d‟interesse, l‟amministratore è tenuto ad astenersi dal procedimento decisionale che potrebbe influenzare i suoi interessi personali, quelli del coniuge e di soggetti con i quali egli ha un rapporto di parentela entro il quarto grado. C‟è poi una sezione del Codice che

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disciplina i rapporti tra l‟amministratore e l‟autorità giudiziaria verso la quale egli è chiamato a prestare la massima collaborazione fornendo tutte le informazioni richieste al fine di favorire un eventuale svolgimento d‟indagini. In questo quadro s‟inserisce una delle disposizioni più significative enunciate dalla Carta: in caso di rinvio a giudizio per reati di corruzione, concussione, associazione di stampo mafioso, peculato, riciclaggio, traffico illecito di rifiuti e tutte le altre fattispecie citate all‟articolo 1 del codice di autoregolamentazione approvato nel 2010 dalla Commissione parlamentare antimafia, l‟amministratore è tenuto a dimettersi o a rimettere il mandato nelle mani dell‟organo politico dell‟ente che - in virtù degli impegni presi sottoscrivendo il Codice – è tenuto a revocare l‟incarico del rappresentante politico inquisito. Giacomo Poeta


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