PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Settembre 2011 • Numero 0 • Anno I

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pretesti Occasioni di letteratura digitale

La sedia a motore del vecchio di Joe R. Lansdale

Dalla biblioteca di Alessandria al Grande Fratello di Marco Belpoliti

L’anima non ha memoria di Colin Thubron

La donna che visse tre X di Andrea Carlo Cappi

SETTEMBRE 2011 NUMERO ZERO

SPECIALE FESTIVALETTERATURA DI MANTOVA



PreTesti nasce oggi chiedendo ai più importanti scrittori di confrontarsi sulle trasformazioni della letteratura che stanno toccando il mondo dell’editoria con il sempre più frequente utilizzo da parte del pubblico di nuovi strumenti di lettura. Le appendici digitali quali tablet e smartphone obbligano a una rimodulazione dei linguaggi, dei tempi narrativi delle trame, delle modalità di proposizione del pensiero. Così abbiamo voluto un magazine dove idee e storie possano prodursi consapevolmente in accordo con lo sviluppo delle nuove occasioni di lettura, perché non esiste messaggio che non dipenda dal mezzo che lo conduce. Buoni PreTesti a tutti. Roberto Murgia

Indice TESTI

IL MONDO DELL’EBOOK

RUBRICHE

02-07

16-18

22-23

08-11

19-21

Racconto La sedia a motore del vecchio di Joe R. Lansdale Saggio Dalla biblioteca di Alessandria al Grande Fratello di Marco Belpoliti 12-13

Anticipazione L’anima non ha memoria di Colin Thubron 14-15

Racconto La donna che visse tre X di Andrea Carlo Cappi

Via crucis di un novello Adamo tentato dalla Mela di Luca Masali Un ebook ci salverà (?) di Viola Venturelli

Buona la prima Jack Kerouac “On the road” (1957) di Francesco Baucia 24-25

Sulla punta della lingua Italiano 2011 di Nicoletta Maraschio e Marco Biffi per l’Accademia della Crusca 26

Anima del mondo La Valmarecchia e “I luoghi dell’anima” di Tonino Guerra 27-29

Alta cucina La crema al limone della signora Maigret di Francesco Baucia 30

Recensioni 31

Gli appuntamenti 32

Tweets / Bookbugs


Racconto

La sedia a motore del vecchio

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di Joe R. Lansdale

io nonno, Stubble Fine, un tempo lavorava per gli sbirri, ma non è che ci andasse tanto d’accordo e quindi smise di farlo. Aprì un’agenzia di investigazioni private, ma non è che la cosa gli piacesse particolarmente, per quanto ci sapesse fare. Be’, a dirla, tutta, era formidabile in quel lavoro. Ma non gli importava. Sotto sotto, è una persona pigra. Nessun uomo, che io mi ricordi, ha mai ambito al pensionamento quanto mio nonno. E andò a finire che, in buona sostanza, fu costretto ad andare in pensione. Gli cedettero le gambe e finì per passare i suoi giorni su una sedia a rotelle motorizzata, davanti al televisore. Sua moglie, mia nonna, lo lasciò molto presto, ben prima che andasse in pensione, e morì di una malattia non meglio identificata, in un posto non meglio identificato della Florida. Non ci siamo mai incontrati. Nel giorno di cui vi sto parlando, passavo da casa sua, un’abitazione con tre camere da letto in tutto e per tutto simile alle case da tre camere da letto di cui la sua strada è zeppa, in entrambi i sensi. Io e il nonno andiamo abbastanza d’accordo, considerato che a lui sostanzialmente non sta simpatico nessuno e che, in generale, odia il genere umano. Però, ci metto poco ad averne abbastanza di lui e credo che la cosa sia reciproca, per quanto dipenda più dalla sua personalità che da qualsiasi cosa io possa fare o dire. Stavo quasi per tagliare la corda, visto che era domenica e che volevo passare una bella giornata in città, magari andare al centro commerciale, vedere se c’era qualche bella donna in giro, ma il destino si mise di mezzo. Il nonno stava guardando il suo canale preferito, un canale su rettili, insetti e altre bestie.

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Adorava i documentari sugli alligatori e i leoni e, in particolare, quelli sui serpenti. Quelli dove certi avventurieri se ne andavano a zonzo nella natura selvaggia a stanare serpenti e te ne parlavano e li maneggiavano in maniera precaria e irresponsabile per farti vedere quanto la sapevano lunga. Il nonno li guardava, per lo più nella speranza che qualcuno si beccasse un morso davanti ai suoi occhi. Per cui, era comodo davanti al suo programma sui serpenti, in attesa che ne cominciasse un altro, perché era una specie di maratona dei serpenti o qualcosa del genere e, nel preciso istante in cui stavo per infilarmi il giubbotto e uscire nel freddo dell’inverno, suonò il campanello. Il nonno disse, “Porca puttana”. Mi avvicinai alla finestra della cucina e diedi un’occhiata. La macchina dello sceriffo era parcheggiata accanto al cordolo e, alle sue spalle, c’era un grosso SUV nero con le fiancate e le gomme inzaccherate di fango rosso. Andai alla porta e la aprii. Accanto a Jim c’era una giovane donna che, per usare un eufemismo, era una gran sventola. Sembrava proprio una stella del cinema, per quanto i suoi capelli fossero leggermente scarmigliati, come se si fosse appena alzata dal letto. Indossava jeans e stivali alti, di quelli dalla cui sommità spunta una peluria bianca, e portava un giubbotto scuro attillato che, intorno al colletto, aveva la stessa peluria bianca. Li invitai in casa e dissi, “Nonno, è lo sceriffo”. “Oh, dannazione”, disse il nonno. Jim mi guardò. “Luna storta, oggi?” “Tutti i giorni”, dissi. “Ho sentito quello che hai detto”, disse il nonno. “Ho l’apparecchio acustico negli orecchi.” Ci avvicinammo alla sua sedia. Il nonno disse, “Oggi è la giornata della maratona dei serpenti e non me la voglio perdere”. “Si tratta di una cosa importante...” disse Jim. “Anche la maratona dei serpenti lo è”, disse il nonno. “La replica andrà in onda fra sei mesi. Potrei non esserci più.” Pensai, questa sì che è bella. Se non sarai qui, non ti mancherà certo non poterla vedere. Il nonno girò leggermente la testa dalla mia parte, mi guardò e disse, “La voglio vedere ugualmente”. “Io non ho detto nulla”, dissi. “Già, però hai sorriso, come se quello che ho detto fosse sciocco.” “Lo è”, dissi. “Perché non la registri e non te la guardi quando ti pare?” “Non ce l’ho un registratore.” “Te ne ho regalato uno a Natale...” “È quell’aggeggio che sta nella scatola?” “Esatto. Te lo collego io.” “Non oggi.” “Be’, comunque resta una cosa sciocca”, dissi. “Non per me”, disse il nonno. Disattivò il sonoro, guardò Jim e disse, “Bene, procediamo...” “Signor Fine. Piacere vederla”, disse Jim, protendendosi verso di lui per stringergli la mano. Mentre lo faceva, il nonno tirò su col naso e sorrise. “Chiamami Stubble o Stubbs. Non che mi senta in rapporti stretti con voi, ma signor Fine mi fa sentire più vecchio di quanto mi piaccia. Inoltre, ogni tanto ti vedo in giro. Per cui, ci conosciamo.” “Molto bene, Stubbs…” “Aspetta un attimo”, disse il nonno. “Come non detto. Chiamami signor Fine. Detto da te, suona meglio...” “D’accordo, signor Stubbs.” “Che problema c’è?” disse il nonno. Lo disse come se il problema lo conoscesse già. Ma lui era fatto così, era un sapientone che, in genere, sembrava davvero sapere tutto. “Le presento Cindy Cornbluth”, disse Jim. “Suo marito è scomparso. Le ho detto di seguirmi qui per vedere se ci poteva dare una mano. So che lei è in grado di capire cose, di notare cose che noi altri non... Come quella volta... Be’, sa, quella volta di quegli omicidi nel vecchio teatro…” “E tutte le altre volte”, disse il nonno.

Regola numero uno: non scherzare con un serpente velenoso

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“Sì”, disse Jim, “e tutte le altre volte.” Cindy si sporse in avanti e fece un sorriso che avrebbe fatto precipitare un uccellino da una pianta e poi strinse la mano al nonno. Pensai che la sua stretta di mano stesse durando un po’ troppo. Prima di mollare la presa, la scrutò bene in faccia e, quando lei si ritrasse, la guardò bene da capo a piedi. Se pensava quello che pensavo anch’io, cioè che era una delle più belle donne che avessero mai calpestato il pianeta, non lo diede a vedere. Aveva la stessa espressione acida di sempre. “Mi esponga i fatti e la faccia breve”, disse il nonno. “Nel prossimo programma, che andrà in onda tra una quindicina di minuti, mettono insieme i dieci serpenti più velenosi...” “Jimmy... Sceriffo. È impossibile che possa darci una mano in soli quindici minuti”, disse Cindy. “È il tempo a vostra disposizione”, disse il nonno. “Mi avete già fatto perdere la parte in cui uno di quei tizi che cacciano serpenti viene morso in faccia.” “L’ha già visto?” gli chiese Jim. “L’ha già visto”, risposi io. “Solo che non lo registra mai. Non ne vuole sapere di collegare l’apparecchio. Gli piace, simbolicamente, catturare il programma nella natura.” “C’è un serpente”, disse il nonno, “che morde questo scemo che fa il furbo con lui e nessuno riesce a staccargli i denti. Il serpente non sente ragioni. Quell’uomo ti diventa sempre più verde, davanti agli occhi.” “La cosa la diverte?” disse Jim. “Oh, sì”, disse il nonno. “Regola numero uno: non scherzare con un serpente velenoso. Veniamo a noi: ditemi cos’è successo. Svelti svelti…” “Stamattina mi sono svegliata”, disse Cindy, “e Bert non c’era. Bert è mio marito. Non so dove sia finito. Non ci ho riflettuto su tanto. Ho pensato che magari mi volesse fare una sorpresa e portarmi delle frittelle...” “Frittelle?” La donna annuì. “Lo fa spesso?” chiese il nonno. “Di quando in quando”, rispose la donna. “Dunque, sabato è il suo giorno libero?” “In genere, no. Ma oggi ha deciso di non presentarsi al lavoro. Lo può fare quando vuole. Ha un lavoro suo, un’azienda edile.” “Ne ho sentito parlare”, disse il nonno. “La Cornbluth Costruzioni. Ha avuto grossi appalti ultimamente. L’ho letto sul giornale.” “Esatto”, disse Cindy. “Si sente di dire che è facoltoso?” le chiese il nonno. “Che voi due siete facoltosi?” “Ha avuto fortuna”, disse Cindy. “Bene, mi racconti il resto.” “Stamattina mi sono svegliata e lui non era in casa e così ho aspettato fino a mezzogiorno circa. Dopodiché, ho chiamato lo sceriffo. Iniziavo a essere preoccupata...” “Pensa che magari sia andato a lavorare?” “No. Non mi è nemmeno passato per la mente.” Il nonno posò gli occhi sui piedi di Cindy. “Begli stivali.” “Grazie”, disse Cindy, rivolgendo un’occhiata perplessa a Jim. Jim sorrise. Sapeva com’era fatto il nonno, sapeva che gli piaceva girare intorno alle cose, quando era dell’umore giusto per essere cooperativo. Il nonno mi chiamò e disse, “Prendi la tua macchina fotografica digitale e avvicinati alla macchina di questa donna...” Fece una pausa e guardò Cindy. “Se ho capito bene, lei ha seguito Jim fin qui...” “Esatto”, gli rispose, “ma cosa c’entra con questa faccenda?” “Forse non c’entra niente”, le disse il nonno. “Scatta qualche foto della macchina, da tutte le angolazioni.” Trovai la macchina fotografica, andai fuori e fotografai l’automobile. Al mio rientro in casa, mi sporsi sulla spalla del nonno, che guardò le foto digitali. Si tolse gli occhiali, si stropicciò gli occhi e poi sospirò. Se li rimise, scrutò il televisore e puntò il dito. “È un mamba nero”, disse il nonno. “Che cosa?” chiese Cindy. 4


“Il serpente”, disse il nonno, indicando il televisore con il sonoro disattivato. “Decisamente letale. Si nasconde nell’erba e poi, BAM! ti frega. Sei morto prima ancora di poter dire, ‘Dannazione, mi ha morso un serpente!’” Il nonno si rivolse a me. “Nipote, alza il riscaldamento.” Pensavo che facesse molto caldo, ma feci come mi aveva ordinato. “Dunque, voi due...” disse il nonno a Cindy e Jim, “…vi conoscevate prima d’oggi? “Sì”, disse Jim. “Fin dalle scuole superiori.” “Uscivate insieme?” “Una volta o due l’abbiamo fatto”, disse Jim. “Una cosa da adolescenti. La cosa non ha avuto seguito.” Guardò Cindy e lei sorrise da donna consapevole della sua bellezza e anche leggermente infastidita dalla stessa, ma... Be’, non esattamente. Il nonno annuì. “Sapete, il terriccio da queste parti è bianco. A parte la zona di Pine Ridge Hill. La compagnia petrolifera ci ha fatto qualche perforazione ed è stato un fallimento. L’hanno detto al telegiornale. Sono stati costretti a interrompere tutto. Dicono che il terreno lassù sia instabile, che stia slittando, che ne finisca parecchio giù nei buchi realizzati per la trivellazione. Quella lassù è una specie di dolina. Anzi, ce ne sono diverse. Anche quello l’ho visto al telegiornale.” “D’accordo”, disse Jim. “Però, signor Fine, che significa tutto ciò?” “È presto detto. Cindy ha una macchia ruvida su una mano. Me ne sono accorto quando gliel’ho stretta. Ma ci tornerò sopra. Ha anche della terra rossa sugli stivali. Su quello sinistro. Credo che se ne sia scrollata via un po’, ma ce n’è ancora un po’ sulla punta e un po’ l’ha lasciata sul pavimento. Per cui, è stata nel vecchio sito petrolifero. Scommetto che ha pure qualche anello di pino tra i capelli, attorcigliati sotto quell’onda, nel punto in cui sono finiti impigliati nel ramo di un albero.” Jim si sporse per dare un’occhiata. Anch’io la scrutai a fondo dal punto in cui stazionavo. Quel vecchio strambo non portava gli occhiali? Come diavolo aveva fatto a notarlo? “Ci sono andata in macchina l’altro giorno”, disse Cindy. “Cercavo pigne per fare delle decorazioni. È da allora che non me li lavo. Bazzicavo intorno a casa, non sapevo dove andare...” “A quelle pigne darà una spolverata di vernice d’argento?” chiese il nonno, senza staccare gli occhi dal televisore. “Non lo so”, disse la donna. “Qualcosa del genere.” “Sul lobo del suo orecchio c’è una macchia scura. L’ho notata quando ci siamo stretti la mano. Ci tornerò sopra.” Jim diede un’occhiata anche a quella e disse, “Già, la vedo.” Dopodiché, con l’aria perplessa, si slacciò la giacca, se la tolse e la lasciò cadere sullo schienale di una sedia. Il nonno sorrise. “Hai caldo, figliolo?” “Un po’”, disse Jim. “Sai una cosa, Jim?” disse il nonno. “Ti conosco da un sacco di tempo. Da quando eri un ragazzino.” “Sì, signore.” “Credo che tu sia un brav’uomo, ma questa donna non ti ha chiamato stamattina. Ha mentito e tu gliel’hai lasciato fare.” “Aspetti un attimo…” disse Jim. “Quando ci siamo stretti la mano, ho sentito il profumo della ragazza sul tuo giubbotto. Ce n’era in abbondanza. Non credo che sia un vezzo da sceriffi consolare donne a cui sia scomparso il marito, stringendole in abbracci così forti da impregnarsene il giubbotto e i capelli. E poi... ti ha chiamato Jimmy...” “Be’, ci conosciamo”, disse Jimmy. “E, in effetti, l’ho consolata.” “Un’altra cosa. Sul collo hai quello che un tempo si chiamava succhiotto.” Jim si diede una pacca sul collo, come se una zanzara lo avesse appena punto. “Non è vero, stavo solo scherzando. Ma sta’ a sentire come la penso. Penso che voi due abbiate una tresca. Se la ragazza avesse chiamato l’ufficio dello sceriffo per mettersi in contatto con te e voi due

Cindy si sporse in avanti e fece un sorriso che avrebbe fatto precipitare un uccellino da una pianta

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non faceste coppia, non sareste venuti subito da me. Speravate che fosse una faccenda semplice semplice e che io potessi risolverla senza coinvolgere il Dipartimento dello Sceriffo. Ecco perché le hai detto di seguirti con la sua macchina, in maniera che lei non dovesse viaggiare sulla tua. “E... signora Cornbluth... il sorriso che mi ha fatto, quello che avrebbe dovuto farmi tremare le ginocchia... mi è parso davvero inappropriato, date le circostanze.” “Ognuno ha reazioni diverse”, disse la donna. “Già, è vero”, disse il nonno. “Questo glielo riconosco... Vuole togliersi il cappotto?” “Sto bene così.” “No, non è vero. Sta sudando. In effetti, qua dentro fa troppo caldo. Nipote, ti spiace abbassare la stufa?” “Ma se mi hai appena detto di...” “Abbassala”, disse il nonno. Mi avvicinai alla stufa e feci come mi aveva detto. “Quando ci siamo stretti la mano”, disse il nonno, “la pelle del suo palmo presentava un’irregolarità fresca. È perché ha le mani delicate, mani che oggi hanno stretto un oggetto pesante, e quando ha usato quell’oggetto per colpire suo marito alla testa, di qualunque oggetto si tratti... Un attizzatoio, forse? Le si è girato in mano e le ha procurato quella lieve ferita.” “Ma è ridicolo...” disse Cindy. “Altro che se lo è”, disse Jim. “D’accordo, signor Fine. Io e Cindy avevamo una relazione, ma ciò non significa che lei abbia ucciso suo marito.” Il nonno disse, “Jim, sei passato da casa sua. Proprio come da programma. Non voglio dire che tu c’entri qualcosa con il signor Cornbluth, ma Cindy ti aspettava. Dovevate vedervi, perché Bert sarebbe dovuto essere al lavoro, solo che, quando ti sei presentato all’appuntamento, ti ha detto che era rimasto a casa e che non era riuscita a mettersi in contatto con te e che ora lui era scomparso e lei era preoccupata. Che non era da lui. Giusto?” “E lei come fa a saperlo?” disse Jim. “Un po’ ho tirato a indovinare, ma tutti gli altri fatti coincidono. Dopo aver colpito suo marito in testa con qualcosa, di qualunque cosa si tratti, ha ripulito tutto in fretta.” “Ma perché mai avrei dovuto ucciderlo?” chiese Cindy. “Questa è una faccenda che riguarda lei e suo marito, ma se voi due avevate una tresca, forse non gli era tanto affezionata e lui lo è venuto a sapere e lei non voleva perdere tutti quei soldi e ha pensato che, se nessuno avesse trovato il corpo, avrebbe intascato i soldi dell’assicurazione, senza farsi un giorno di galera. Ammazzarlo è stato un gesto facile e spontaneo, compiuto in un attacco d’ira, e

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in seguito, siccome Jim stava venendo da lei, ha dovuto escogitare un piano immediato e non è che abbia ragionato nel migliore dei modi. “Stamattina ha portato il cadavere in macchina a quel vecchio pozzo petrolifero, glielo ha gettato dentro, è tornata indietro e ha pulito la macchina, la casa, e magari si stava a sua volta pulendo quando si è presentato Jim. Si è dovuta dare una rapida ripassata. Ma quella macchiolina di sangue sull’orecchio... quella le è sfuggita. E un’altra cosa, signora Cornbluth. Stava sudando. Un sacco. Ecco perché ho alzato il riscaldamento. Per vedere se si sarebbe decisa a togliersi la giacca. Così non è stato. Il che mi ha fatto pensare che avesse qualcosa da nascondere. Magari il sangue che le era schizzato addosso durante l’omicidio non era una semplice goccia sul suo orecchio e lei non aveva avuto il tempo di cambiarsi prima che Jim si presentasse a casa sua. Così, magari, si è infilata il cappotto in fretta e furia, per nascondere tutto. Lo indossava in casa sua quando ti sei presentato da lei, Jim?” Jim annuì e guardò la donna. Disse, “Cindy, togliti il cappotto”. “Non mi va, Jim.” “Non te lo sta chiedendo Jim. Te lo sta chiedendo lo sceriffo. Toglietelo.” Cindy si sfilò lentamente il cappotto. Indossava un maglione di lana grigio attillato. Presentava qualche chiazza scura. Il nonno disse, “Queste chiazze umide sul suo maglione... Sono convinto che, se le fai analizzare, salterà fuori che è sangue. E, se andate a dare un’occhiata al vecchio sito petrolifero di Pine Ridge Hill, scoprirete suo marito in fondo a uno di quei buchi. Sai, in teoria avrebbero dovuto riempirli la settimana prossima. Se così fosse stato, con ogni probabilità il corpo non sarebbe mai stato trovato. Ed ecco come ti si è infilato tra i capelli il rametto di pino, giusto? Mentre trascinavi Bert dalla macchina alla sommità del colle, attraversando la pineta? Quanto a te, Jim, quando salta fuori che te la facevi con una donna sposata mentre eri in servizio... Be’, spero solo che tu mantenga il posto”. “Già, anch’io”, disse Jim, tirando fuori un paio di manette. “Metti le mani dietro la schiena, Cindy.” “Jim, non devi fare questo. Bert era venuto a sapere di noi...” “Chiudi quella bocca! Chiudi quella bocca e basta. E adesso, metti le mani dietro la schiena.” Obbedì. Lui la ammanettò. La donna guardò il nonno. “La odio, vecchio bastardo.” Mentre uscivano dalla porta principale, che io gli tenni aperta, il nonno disse, “Sono in molti a farlo.” Il nonno riattivò il sonoro del televisore. Appena in tempo. Il conto alla rovescia della classifica dei serpenti più velenosi del mondo stava giusto per cominciare.

Traduzione di Seba Pezzani

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Dalla biblioteca di Alessandria al Grande Fratello di Marco Belpoliti

Marshall McLuhan: un classico contemporaneo venuto dal futuro

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ella primavera del 1965, seduto nel giardino di un lussuoso ristorante francese di New York, Tom Wolfe guarda ipnotizzato la cravatta a scatto, con affari di plastica applicati, che indossa Marhall McLuhan. Un tipo di cravatta, aggiunge lo scrittore, da 89 cents, con il nodo già preparato: qualcosa di dozzinale e insieme involontariamente snob. Siamo alla vigilia dell’esplosione di celebrità del professore dell’Università di Toronto. Tra qualche mese sarà trasformato in un guru, e il suo nome diventerà di colpo noto ai lettori dei giornali e delle riviste illustrate di tutto il mondo. Puntualmente Wolfe, raccontando tre anni dopo la folgorante apparizione dell’astro autore di La galassia Gutenberg (1962), in un lungo articolo intitolato, non a caso, “E se avesse ragione?”, riporta una frase di McLuhan, a sua volta citata da un altro autore: “La celebrità è una persona nota per la sua notorietà”. Eccola, dunque, la celebrità nelle folgoranti e brillanti pagine di Wolfe, cronista mondano, il ritratto di Marshall. Lo scrittore americano – diventato a sua volta noto per aver inventato l’espressione “radical chic” e per aver dato un ritratto fulminante degli anni Ottanata del XX secolo, in Il falò delle vanità – racconta che Marhall e i suoi accompagnatori si recano in un Topless Lunch che Wolfe conosce. Entrando nel locale, dove si aggirano una dozzina di ragazze nude con cache-sexes color carne e tacchi alti,

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tutti ammutoliscono. Tutti tranne McLuhan: “Bene!”, disse. “Molto interessante!”. “Che cosa è interessante, Marshall?”. “Quelle ragazze portano noi”, disse, con una leggera scrollatina di spalle, come se avesse detto la cosa più ovvia di questo mondo. “Non capisco, Marshall”: “Siamo noi i loro vestiti”, disse lui. “Noi diventiamo il loro ambiente circostante. Diventiamo l’estensione della loro pelle. Portano noi”. Quest’anno – estate 2011 – cade il centenario della nascita di McLuhan nato, appunto, il 20 luglio 1911. I suoi libri sono tornati a circolare, o forse non hanno mai smesso di farlo. Molti li hanno acquistati, ma non è detto che li abbiano letti, e forse neppure capiti. Non è facile capire McLuhan. In tanti lo conoscono per averlo sentito nominare almeno una volta o per averlo voluto spiegare agli altri, come capita in Io e Annie di Woody Allen. Un presuntuoso professore della Columbia University, in coda per assistere a un film, continua a pontificare sull’opera dello studioso canadese, fino a che Allen, che l’ascolta involontariamente, stufo di tante false citazioni, fa intervenire McLuhan stesso. Indossando il suo abituale completo di tweed marrone, il massmediologo entra in scena tirato per la giacca da Allen e pronuncia una sua famosa battuta: “You mean my fallacy is all wrong?” (“Vuol dire che la mia utopia è utopica?”, secondo la versione italiana). Nel corso degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo McLuhan è stato l’intellettuale e lo studioso più citato al mondo, e dunque anche

Saggio


in Italia, anche se da noi i suoi libri sono stati tradotti in ritardo, o con titoli inadeguati, come Gli strumenti del comunicare (in originale Understanding Media); più spesso, sotto la spinta di critiche sovente ingiuste, sono stati collocati negli scaffali alti delle librerie di casa e rapidamente archiviati, mentre avevano ancora molto da dire ai lettori curiosi. Quando nel 1962 La galassia Gutenberg, il suo libro più famoso, apparve in Canada, dove McLuhan viveva e insegnava, e negli Stati Uniti, il suo impatto nel sonnacchioso mondo accademico, quello dei medievisti, degli studiosi della storia del libro e della comunicazione, fu dirompente. Il cinquantenne studioso raccontava in un modo molto poco usuale la vicenda dell’interazione tra l’uomo e il suo ambiente, in cui ogni “mezzo” o “artefatto” realizzato dall’uomo stesso costituisce una “estensione” del suo corpo o di una sua particolare facoltà: la parola estende il pensiero, la ruota il piede, l’abito la pelle, e così via, sino all’estensione delle tecnologie comunicative, di cui il libro a stampa con caratteri mobili, realizzato da Gutenberg nel 1454, diventa il veicolo principale del cambiamento sociale e intellettuale dei tre secoli seguenti. Come dice il sottotitolo del libro, McLuhan discute “il farsi dell’uomo tipografico”, partendo dall’introduzione dell’alfabeto fonetico sino alla grande rivoluzione della stampa che ha modificato, almeno in Occidente, il modo stesso di pensare lo spazio e il tempo. Due anni dopo, egli pubblica Understanding Media, in cui il tema viene sviluppato nell’ambito dei nuovi media elettrici ed elettronici creando alcune delle celebri frasi, come “il medium è il messaggio”. Si tratta di un’opera che McLuhan ha scritto quale rapporto commissionatogli sulla situazione dei nuovi media, e come tale reso accessibile agli esperti, ma poi subito dopo dato alle stampe per il grande pubblico. È l’altro grande libro del massmediologo canadese. Per McLuhan media non sono solo il libro o la radio, o la televisione, protagonista dell’ultima rivoluzione mediatica, negli anni in cui egli scrive, ma anche la parola scritta, l’orologio, la moneta, la pubblicità, i giochi e perfino le armi. Tra le cose che sono rimaste proverbiali della Galassia Gutenberg c’è la distinzione tra il mon-

do caldo dell’orecchio, quello della comunicazione orale, e il mondo freddo e neutro dell’occhio, prodotto dalla stampa e dal passaggio dalla lettura ad alta voce alla lettura silenziosa, da cui nasce una nuova e inedita percezione spaziale: la stessa prospettiva, pur essendo sorta prima, si afferma attraverso la diffusione dei libri a stampa. Da questo cambio di paesaggio mentale nasce per McLuhan l’individuo moderno, e di conseguenza l’individualismo e il sistema economico e sociale che si fonda su questo, ovvero il capitalismo. Ma la cosa più sorprendente del libro non sono solo, o tanto, le cose che dice (e non solo in questo straordinario libro, ma anche in tutti gli altri che pubblica inseguito), ma il modo in cui le dice. McLuhan costruisce un mosaico di citazioni, riferimenti, che non seguono affatto lo sviluppo logico, bensì quello analogico. Fa citazioni continue, compie salti logici, introduce osservazioni minime, gioca con il suo lettore fino a costruire un testo che è più orale che scritto, discontinuo più che continuo, cercan9


do, a suo modo, di ricomporre quella frattura che l’alfabeto fonetico e la stampa a caratteri mobili hanno prodotto tra “verbo” e “logica”. McLuhan, che è senza dubbio un conservatore – i conservatori sono i migliori descrittori dei mondi nascenti –, predilige la comunicazione orale a quella scritta. Convertito al cattolicesimo nel 1937, resterà legato a questa fede in tutti gli anni a seguire (muore nel 1980), e insegnerà sempre in università confessionali.

“Io sono un emisfero destro che parla a emisferi sinistri” Una delle cose che più colpiscono i suoi ascoltatori, riferiscono le biografie e i libri a lui dedicati, sono, non a caso, i suoi lunghi monologhi che travolgevano i suoi interlocutori sotto una pioggia di parole che non si arrestava mai. In questo del tutto simili ai libri: un succedersi di aforismi, racconti, segnalazioni, note, discorsi laterali, frasi a effetto, straordinarie osservazioni su dettagli minimi e illuminanti. Leggere McLuhan è ancora oggi un’esperienza. Lo è ancora nonostante il passaggio della pop art, delle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, delle innumerevoli mode culturali succedutesi dalla sua morte che hanno reso consuete molte delle sue tecniche di argomentazione e di scrittura. Prendiamo La galassia Gutenberg. Il modo migliore per noi oggi di leggerla è partire dalla fine, dagli indici, che costituiscono delle vere e proprie glosse ai singoli capitoli del libro, i quali ne sono a loro volta le note esplicative (McLuhan segue uno stile medievale, forme tradizionali eppure ancora innovative di esplicazione dei testi medesimi: metacritica). Ogni capitolo è aperto, come capitava nei libri anche narrativi sino all’Ottocento, da un titolo, che è il riassunto del capitolo stesso, compendiato in forma icastica e sommaria, ma sostanzialmente veritiera. Così, leggendo gli indici, uno di seguito all’altro, si capisce di cosa parla il libro, ma al tempo stesso ci s’impratichisce con lo stile-McLuhan. Ci sono titoli sconcertanti, che colpiscono, ma fanno anche riflettere. 10

Due a caso: “La schizofrenia è forse una conseguenza necessaria della alfabetizzazione”, oppure: “L’invenzione della tipografia confermò ed estese la nuova accentuazione visiva della conoscenza applicata, fornendo così la prima merce reperibile uniformante, la prima catena di montaggio e la prima produzione di merce”. Detta così, la cosa sembra piuttosto una boutade, un’affermazione roboante, ma leggendo con attenzione il capitolo corrispondente ci si accorge che McLuahn ha sì il talento di esagerare, però anche quello di farsi capire, d’attirare l’attenzione su una tesi macroscopica e di suggerire continuamente micro-osservazioni straordinariamente efficaci. Se si legge il libro con attenzione, e si possiede una certa consuetudine con libri del genere, opere di massmediologi e semiotici, studiosi della comunicazione e guru filosofici, si scoprono le fonti di molte tesi e teorie successive, si capisce da dove vengono le idee dei sociologi francesi di moda negli anni Sessanta e Settanta, o anche alcune verità fatte proprie da studiosi italiani e americani. McLuhan e il suo libro sono stati saccheggiati in lungo e in largo anche per lo scialo d’intelligenza che contengono. La cultura che sta dietro al libro è tuttavia quella della poesia inglese medievale, ma anche di Joyce, della scolastica e di San Tommaso, e delle avanguardie artistiche del Novecento. Leggere La galassia Gutenberg, come Understanding Media, è ancora oggi un’avventura intellettuale. Tom Wolfe, uno dei primi ad accorgersi della novità contenuta in questo libro, e a darne un ritratto, in cui lo paragona a Freud, ricorda una battuta dello studioso canadese che rispondeva a chi manifestava difficoltà a seguirlo nei suoi complessi ragionamenti: “Semplice. Io sono un emisfero destro che parla a emisferi sinistri”. McLuhan è un autore che usa la parte del cervello che comanda l’intuizione, la parte artistica dei nostri emisferi, per farsi capire dalla parte addetta invece alla razionalità, alla logica e alla sequenzialità: l’oralità che si rivolge alla scrittura. Insomma, un bell’esercizio per tenerci allenati e aiutarci ad afferrare un universo, il nostro, in cui non basta un solo emisfero o una qualità sola per comprendere il contemporaneo e anticipare il futuro, ma almeno due, opposte e contrarie. Per spiegare la particolarità del pensiero e della scrittura di McLuhan, oltre che del suo eloquio


straordinario, lo scrittore Douglas Coupland descrive in un suo libro biografico due avvenimenti che riguardano il cervello del massmediologo. E, prima ancora, un fatto che poteva impedire a McLuhan di diventare McLuhan. Nel 1960, poco prima di scrivere La galassia Gutenberg e Understanding Media, fu colpito da un infarto. Poi subito dopo la pubblicazione dei suoi due più celebri libri, e l’esplosione del suo successo, McLuhan cominciò a manifestare delle microcrisi. A lezione, o durante le conferenze, s’interrompeva a metà di una fase, restava muto a lungo, poi riprendeva improvvisamente a parlare. Nel novembre del 1967 la moglie Corinne e la famiglia riuscirono a convincerlo a operarsi: subì un’operazione al cervello e gli fu tolto un tumore. Tutti si aspettavano che seguisse una paralisi, o una qualche menomazione che ne riducesse le capacità intellettive. E invece, risvegliandosi dalla lunghissima operazione, quando il chirurgo gli chiese come si sentiva, Marshall rispose: “Dipende dalla definizione che si dà di ‘sentirsi’”. Nel 1971, poi, si scoprì una particolarità inusuale nel suo corpo, consueta tra i felini, raris-

“Invece di tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, il mondo è diventato un computer”

il suo cervello in bilico tra arresto e velocità di elaborazione supersonica. Tutto questo può dar conto della particolarità del suo pensiero: lucidità ma anche oscurità; intuizioni formidabili e farraginose spiegazioni; sintesi e ampie divagazioni. Un cervello diverso produce pensieri diversi? Difficile rispondere. Certo che questi aspetti della personalità biofisica di McLuhan lo rendono ancora più interessante e insieme enigmatico, aumentando la sua leggenda, se ce ne fosse ancora bisogno. Nelle prime pagine del suo saggio, Marshall McLuhan (2009), Coupland scrive che oggi le persone sembrano formulare pensieri più profondi e soprattutto “collegamenti con maggior intensità emotiva con altre persone in tutto il pianeta in ogni momento della giornata” (dato che differenzia la mia generazione, nata con la televisione, e arrivata già adulta al contatto virale con i new media), “eppure tutto è fugace e rarefatto. Il tempo accelera e poi comincia a restringersi. In pochi minuti passano anni”. Per questo McLuhan è importante: perché aveva capito tutto questo con largo anticipo. Un’ultima citazione per dire tutto questo in modo icastico, datata 1962: “Invece di tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello di un racconto di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori di noi, il Grande Fratello entra in noi”.

sima tra gli umani: la carotide esterna, l’arteria che irrora di sangue vivo la testa e la mandibola si era trasformata in una rete di canali. Il cervello di Marshall era irrorato da una struttura vascolare più ampia e vasta di tutti gli altri esseri umani. Questo, secondo Coupland, permette di capire come mai la massa cerebrale di McLuhan fosse in grado di stabilire connessioni così rapide e così veloci, e trovare idee così vorticose. Senza quella particolarità il suo cervello si sarebbe bruciato molto tempo prima di scrivere i suoi libri, questo perché nella famiglia di McLuhan era presente una predisposizione genetica all’ictus; quegli arresti nella parola e nella motilità erano infatti il segno di piccole apoplessie continue. Una spiegazione ulteriore della rara capacità che McLuhan aveva di usare 11


Anticipazione

L’anima non ha memoria di Colin Thubron

Un pellegrinaggio laico in Tibet, alle pendici del monte Kailash

I

l monte più sacro del pianeta – sacro a un quinto della popolazione mondiale – resta celato sul suo altopiano come una pia illusione. Per anni ne ho sentito parlare come se fosse solo un parto della fantasia. Isolato oltre i parapetti dell’Himalaya centrale, esso permeava i primi testi sacri induisti nelle sembianze del mistico monte Meru, le cui origini risalgono agli albori dell’epoca ariana. In questa incarnazione, il monte ruota come un fuso sull’asse di ogni creazione innalzandosi per un numero incommensurabile di miglia fino al palazzo di Brahmā, il più grande e remoto degli dèi, e spingendosi altrettanto in profondità sottoterra. Dai suoi piedi fluiscono i quattro fiumi che alimentano il mondo, e tutte le cose create – alberi, rocce, uomini – trovano qui il loro modello. Con l’andar del tempo, il mistico Meru e il Kailash terreno si fusero nella mente delle persone. I primi esploratori che andarono alla ricerca delle sorgenti dei quattro grandi fiumi indiani – l’Indo, il Gange, il Sutlej e il Brahmaputra – scoprirono con stupore che ognuno di essi nasceva vicino a un punto cardinale del Kailash.

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Così la gente scoprì il cuore del mondo. Era un luogo di bellezza celeste, separato come per volontà divina dai suoi compagni himalayani. Per i devoti, il monte irradia oro o rifrange la luce come un cristallo. È la sorgente dell’universo, creato dalle acque cosmiche e dalla mente di Brahmā, il quale tuttavia è egli stesso mortale e perirà. Il sole e i pianeti vi orbitano intorno. Sopra vi è sospesa, immutabile, la Stella polare. Dal suo centro si irraggiano i continenti del mondo come petali di loto su un mare prezioso (gli uomini occupano il petalo meridionale) e le sue pendici sono esaltate dai giardini del paradiso. Ma sul monte dimora il Dio della Morte. Niente è assoluto, niente è permanente, neppure lui. Tutto è in continuo mutamento. Negli oceani intorno al Kailash-Meru, oltre un circolo di montagne ferrose, innumerevoli incarnazioni di Meru, ognuna identica alla precedente, si moltiplicano e reiterano se stesse, morendo e risorgendo per l’eternità. […] Raggiungere la montagna era pericoloso, ma essa non fu mai del tutto inaccessibile. Solo nell’Ottocento il Tibet, controllato da una Cina xenofoba, divenne una terra proibita.


E il Kailash mantenne le proprie interdizioni. Le sue pendici sono inviolabili, e il monte non è mai stato scalato. Negli anni recenti, tuttavia, esso è stato protetto più dall’intolleranza politica che dalla propria sacralità. Nel 1962, quattro anni prima della Rivoluzione culturale, i cinesi proibirono tutti i pellegrinaggi nella zona (anche se i devoti continuarono a fare i loro giri intorno alla montagna di nascosto), e solo nel 1981 venne consentito ai primi tibetani e indiani di tornarvi. Dodici anni dopo, a titolo sperimentale alcuni trekker furono autorizzati ad attraversare i valichi di montagna tra il Nepal e il Tibet. Il mio piccolo viaggio rientra in questa casistica. La trattativa per ottenere i permessi – sto entrando in una zona militare – è stata condotta da un agente a Kathmandu; ma l’atteggiamento sospettoso dei cinesi nei confronti dei viaggiatori solitari mi costringe a unirmi a un gruppo di sette trekker britannici in prossimità del confine, dai quali mi separerò ai piedi del Kailash. Tale stratagemma serve a dissimulare il mio ingresso solitario nel Tibet occidentale. […] «E tu? Perché lo fai? Perché viaggi da solo?» Non posso rispondere. Lo faccio per i morti. A volte i viaggi iniziano molto prima che venga mosso il primo passo. Il mio comincia non molto tempo fa, a mia insaputa, in una corsia d’ospedale, quando muore l’ultimo componente della mia famiglia. Non c’è niente di strano nel fatto di rimanere soli. La morte dei genitori può arrecare una tristezza rassegnata, persino un colpevole senso di libertà. Io invece ho bisogno di lasciare un segno del loro passaggio. Mia madre è appena morta, e non nel modo che desiderava, pare; mio padre è morto prima di lei; mia sorella ancor

oltre la nostra portata. Gli occhi dello sherpa mi fissano muti, disorientati. Qui la solitudine è un pericolo non ricercato. «Nessuno è così stupido da viaggiare con me!» scherzo. È già sera. Le pietre ci grattugiano i piedi. Non si può espellere il proprio lutto camminando, lo so, né assolvere se stessi per essere sopravvissuti, né riportare in vita una persona. Resti con il solo desiderio che le cose non siano come sono. Così scegli un luogo significativo sulla faccia della Terra e programmi una sorta di pellegrinaggio laico, il cui senso tuttavia non ti appartiene. Poi parti per un viaggio (è il mio mestiere, dopotutto), cammini verso un posto completamente slegato dalla tua storia personale, accompagnato dal suono di un fiume che scorre nella direzione opposta. E alla fine ti fermi a un monte sacro ad altri. La ragione di tutto ciò non si può esprimere a parole. Un viaggio non è una cura. Ti dà solo un’illusione di cambiamento e diviene nel migliore dei casi una consolazione spartana. […] Chi mi chiede il perché di un viaggio non ascolta altro che il mio silenzio. È la domanda sbagliata (anche se non sembrano esservene altre). Mi tormento perché il mondo è mortale? A chi appartiene il dolore di cui voglio purgarmi? Non a loro. Un vecchio monaco tibetano mi dice che l’anima non ha memoria. I morti non soffrono per il proprio passato. Intanto il sole tramonta dietro di noi in un chiarore perverso.

Chi mi chiede il perché di un viaggio non ascolta altro che il mio silenzio prima, a ventun anni. Qui il tempo è un fattore instabile. A volte torno a essere un ragazzo che cerca di afferrare le parole «Mai, mai più». Si dice che gli uomini non riescano a comprendere l’eternità del tempo o dello spazio. Siamo meglio attrezzati per stimare la distanza percorsa dal suono di un tamburo proveniente da un villaggio. L’assolutezza del «mai» è

Questo brano è tratto da Verso la montagna sacra di Colin Thubron (2011) per gentile concessione dell’editore Ponte alle Grazie. Traduzione di Alessandro Peroni.

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Racconto

La donna che visse tre X di Andrea Carlo Cappi

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ary Lou Goldstein non si rivolgeva spesso al killer professionista di nome Carlo Medina: quando aveva bisogno di eliminare qualcuno, c’era chi provvedeva per lei. Nata a Hong Kong e trasferitasi a Milano, Mary Lou gestiva una casa di produzione di film XXX che copriva varie attività illecite, riciclaggio in testa. In passato tra lei e Medina c’era stata persino qualche rivalità, ma in quella torrida mattina d’estate Mary Lou era nei guai. Lo chiamò alle dieci e lo convocò nel loft che usava come studio cinematografico. “Devo capire cos’è successo” gli disse. “Morte naturale, suicidio, omicidio?” Medina, guardò il cadavere disteso nudo sul letto. Anche nella morte, Gennaro Scaccia in arte Johnny Sherlock ostentava la caratteristica anatomica che aveva fatto la sua fortuna nel porno. “Non sono né un detective né un medico legale.” “Ma ammazzi la gente in modo che non sembri ammazzata. Se Johnny è stato ucciso, voglio che trovi chi è stato e gliela faccia pagare. Che figura ci faccio nell’ambiente, se mi limito a far sparire il corpo?” Medina si tolse la giacca, allentò la cravatta, mise gli occhiali e si chinò sul morto. Lo sollevò: la schiena era violacea, ma alla pressione di un dito la pelle tornava bianca. “Intanto spiegami che cosa ci faceva Johnny qui nello studio mentre nessuno stava girando” chiese, lasciando ricadere il corpo irrigidito sul letto di scena. Guardò l’orologio: le 12.10. Poi sollevò un braccio del defunto e lo esaminò. “Lo ospitavo. Era di passaggio da Milano e sono riuscita a metterlo al volo nel cast di Kiss Kiss Gang Bang con Angela Kiss. Stamattina lei tornava a Budapest e lui doveva andare a Parigi per una nuova serie di film. Ieri abbiamo girato due scene con lui, poi abbiamo fatto la festa di fine riprese.” “Chi c’era alla festa?” Medina esaminò anche l’altro braccio. “Be’, tutti: Angela Kiss... in realtà si chiama Angyalka qualcosa, un cognome ungherese; Perry Mazzucco, l’altro protagonista del film; Giulietto, il regista...” Mentre lei elencava i presenti, Medina perlustrò lo studio e l’ufficio, guardando anche tra i rifiuti: niente, a parte un bicchierino di plastica; tutti i cestini erano stati svuotati alla fine della festa. La macchina del caffè era accesa; dentro c’erano tre capsule usate. “L’ho trovata così” disse Mary Lou. “Mi sono fatta un caffè un paio d’ore fa, dopo averti chiamato.” In bagno Medina notò tracce di polvere bianca sulla mensola sopra il lavabo. Nell’armadietto c’erano aspirina, nimesulide, triazolam e un termometro, di cui Medina si appropriò. Anche qui niente nel cestino dei rifiuti. “Sai se Johnny si bucasse?”

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“No, no! Sniffava coca, ma aveva il terrore degli aghi. Quando ha fatto il test dell’AIDS è svenuto.” “Qualcun altro dei tuoi?” Medina tornò al letto e, senza troppi riguardi, infilò il termometro nel cadavere. “Nessuno del mio staff. E gli attori... be’, io e la truccatrice ce ne saremmo accorte. È difficile nascondere i buchi, quando sei nudo.” “Infatti.” Medina indicò l’avambraccio destro del morto, su cui era appena visibile un puntino rosso. “Johnny sembra vittima di un’overdose di eroina. Qualcuno gli ha fatto un’iniezione e gliel’ha fatta pure bene; poi ha portato via la siringa. Se qui nessuno ne fa uso, l’assassino si è procurato l’eroina apposta. È un omicidio premeditato.” “Ma lui non si sarebbe mai fatto fare iniezioni da nessuno!” “La macchina del caffè è stata pulita, immagino dopo la festa.” Lei annuì, mentre Medina proseguiva. “Poi sono state consumate tre capsule. Ma nei rifiuti c’è solo il bicchierino che hai usato tu. Per cui Johnny ha bevuto un caffè con qualcuno che ha fatto sparire i loro due bicchierini: su uno c’era il DNA dell’assassino, nell’altro forse tracce di sonnifero. L’iniezione è stata fatta mentre Johnny dormiva.” Mary Lou strinse gli occhi, mettendo in luce le piccole rughe che tradivano l’età sul suo levigato viso orientale. “Perry! Il contratto a Parigi doveva essere suo, ma Johnny ha fatto un paio di telefonate e si è fatto scritturare al suo posto.” “Perry è rimasto qui da solo con lui, dopo la festa?” “No... Verso l’una Johnny ha litigato con Giulietto, per la vecchia storia dell’attrice messicana.” La donna si portò un dito a una narice. “Quando tirava, Johnny dava i numeri. Perry ha preso le parti di Giulietto. Stavano arrivando alle minacce. Allora ho ricordato a Johnny che stamattina aveva l’aereo alle sette. I ragazzi hanno fatto pulizia e lo abbiamo lasciato solo. In realtà ce ne siamo andati tutti a casa mia. C’era anche Perry con noi.” “Chi ha le chiavi dello studio?” “Io ho le mie, quelle di riserva le ho date a Johnny. Doveva lasciarle nella cassetta della posta quando usciva.” “Quindi l’unico modo per entrare era farsi aprire da lui?” “Sì. Sono uscita per ultima e ho sentito che chiudeva a chiave.” “Fino a che ora sono rimasti da te?” Mary Lou si strinse nelle spalle. “Le quattro, più o meno. Angela è andata direttamente all’aeroporto di Orio, gli altri a casa loro. Ma forse uno è tornato qui...” Medina recuperò il termometro dal cadavere. “35ºC... Sei tu l’assassina, Mary Lou?” “Cosa?” fece lei, allibita e spaventata al tempo stesso. “Di norma la temperatura di un cadavere scende di mezzo grado all’ora. Se ci basiamo solo su questo, Johnny risulta morto due ore fa, cioè dopo che sei

arrivata qui. Ma forse è ciò che spera l’assassino: che tu faccia sparire la salma per non essere incriminata, evitandogli così qualsiasi rischio di indagini e autopsie. In realtà la cocaina alza la temperatura e qui dentro fa molto caldo, con l’aria condizionata spenta. Quindi la morte può anche risalire a sei ore fa. Il che concorda con l’avanzato rigor mortis e il fatto che la lividezza del cadavere non è ancora definitiva. Considerato il tempo perché facesse effetto il sonnifero e Johnny entrasse in coma da overdose, l’iniezione dovrebbe risalire alle 4.30-5.00.” “Hai detto che non eri un medico legale.” “Ho letto molti gialli. Chi era l’attrice messicana di cui parlavi?” “Helena Varga. Una storia di dieci anni fa. Giulietto l’ha scoperta al Superstrip e l’ha portata sullo schermo con il nome di Salsa Hayek. Ma poi Johnny le ha rovinato la carriera: quando gli è venuta la paranoia dell’AIDS, si è messo in testa che lei era HIV-positiva. Anche se non era vero, nessuno l’ha più voluta in un film. È finita a lavorare in un localaccio, si è data alla droga ed è...” Mary Lou strinse di nuovo gli occhi “... morta di overdose! Allora l’assassino è Giulietto!” “Posso usare il pc?” chiese Medina. “E avere un caffè, già che ci siamo?” Mentre Mary Lou glielo preparava, lui telefonò alla sua assistente, Barbara: in ufficio avevano database su vari ambienti professionali, compreso il porno. Quando Mary Lou lo raggiunse, Medina aveva una domanda da farle. “Faresti entrare a bere un caffè qualcuno con cui hai appena litigato? Forse no, specie se hai fretta di prendere un aereo. Questo esclude Perry e Giulietto... ma non Angela Kiss. Il volo per Parigi di Johnny era alle 6.55, da Linate: un quarto d’ora in taxi da qui. Se voleva essere in aeroporto due ore prima, gli bastava uscire alle 4.40. Ma il volo da Orio per Budapest è alle 13.00. Angela ha mentito: non aveva ragione di correre all’aeroporto alle 4.00. Ma aveva fretta di tornare qui prima che se ne andasse Johnny.” “Angela? Cosa c’entra lei?” “Kiss non è uno pseudonimo, è un cognome ungherese. Angela si chiama davvero Angyalka Kiss e prima di lavorare nel porno ha fatto per un anno l’infermiera. Ma anche Varga è un cognome ungherese: Helena non era affatto messicana, fingeva solo di esserlo. E risulta che a sedici anni si sia sposata a Budapest con un certo Antal Kiss. A giudicare dalla data di nascita, direi che Angela sia la figlia di Helena Varga.” Medina mise lo zucchero nel caffè e lo mescolò. “Il suo volo sta partendo ora. Ma vuoi davvero che io vada a Budapest a uccidere una ragazza che si è vendicata del bastardo che ha rovinato sua madre?” © Andrea Carlo Cappi, 2011 Nomi, pseudonimi e situazioni sono puramente immaginari. Qualsiasi somiglianza con personaggi o fatti reali è puramente casuale.

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Il mondo dell’ebook

Via crucis

di un novello Adamo tentato dalla Mela di Luca Masali

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l Primo Mistero Doloroso: ok, dai, è deciso! È da un po’ che voglio un lettore di ebook strafigo. Io sono un lettore vorace e crapulone. Non sono certo un fine buongustaio, uno di quelli che prima di comprare un libro lo aprono per saggiarne la prosa e assicurarsi che soddisfi il loro nobile palato. Sono piuttosto un felice Gargantua che ruttando si ingozza di caviale con patate lesse, pernici in sarcophage con rape e marmellata, pasta e fagioli coi tartufi, anatra all’arancia con la maionese, poi innaffia tutto di coca cola light. Schermo da cinema o schermo da libro? Nulla mi frega dei saggi avvisi dei fini conoscitori dell’e-mondo, che mi dicono “attento, ci vuole il rigore francescano dei monitor in bianco e nero con l’inchiostro intelligente! Lettori ultraleggeri, uguali in tutto e per tutto alla pagina stampata. Stai alla larga dai volgari cristalli liquidi retroilluminati, rutilanti di colori ed effetti speciali, che stancano la vista e non hanno per nulla l’aspetto della carta”.

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“E che mi frega se stancano la vista”, mi rispondo mentalmente mentre sorridendo ringrazio con sussiego il colto amico dell’utile consiglio, “io per lo più leggo in metropolitana e nel cesso, che sono gli ultimi momenti liberi che mi restano; per stancarmi la vista, delle due l’una: o sono nel metrò, è crollata la galleria e la Tre è rimasta bloccata sottoterra tipo minatori cileni, oppure sono nel cesso e… no, non voglio neanche pensarci alla seconda possibilità. Quanto alla carta, ne vedo già abbastanza sulle bollette, le raccolte di soldi per i poveri di Cacatuma, le multe e le cartelle esattoriali: ormai solo i rompiscatole usano la posta col francobollo e la dannata carta”. Rinfrancato dalla finezza delle mie considerazioni, mi accingo dunque a comperare il più chiassoso, pacchiano e fighetto aggeggio per leggere libri che si possa desiderare. Un buon candidato indubbiamente è l’iPad della mela. Che nel suo lezioso design ultraminimal riesce a sembrare elegante, anche se si vede benissimo che è solo un iPhone che quan-


do è caduto sotto lo schiacciasassi si è allargato e gli si è scassata la parte voce del telefono. In metropolitana però fa la sua porca figura. Ti fa sembrare un sedicenne brufoloso un po’ nerd e un po’ tekno, finché non ci si accorge che invece che raccattare zucchine alla velocità del suono su effebì stai (ouch!) leggendo un libro. Il guaio è che io e la Mela non siamo mai andati d’accordo Io sono grosso, grezzo e ridanciano. Quelli fanno robetta leggera, cinguettante e minimale. Una volta, in un ristorante sul lago di Como, la mia amica Angiola mi disse con aria sognante che “il pesce di lago è così delicato”. Ecco, a me più che delicato mi sembra che non sa di un accidente. E non solo il pesce di lago, intendo. Le mie esperienze con la Mela sono poche e dolorose. L’unica volta che mi ero fatto tentare, come un Adamo fesso che non ha nemmeno la scusa di un’Eva nuda e seducente che gli offre il frutto avvelenato, risale a più di dieci anni fa; all’epoca convinsi la mia cara amica Angelina a comperare uno dei primi iMac, quelli colorati col tubo catodico… Oggi Angelina è mia moglie, segno che mi ha perdonato. Ma io non

Solo i rompiscatole usano la posta col francobollo e la dannata carta posso perdonare l’incubo di quella macchina inaffidabile, instabile, troppo scarsa di memoria, di processore, di hard disk per fare qualsiasi cosa che non fosse pigliare polvere e suscitare una furia omicida nel malcapitato che la doveva usare. Si impone un giro per trovare

un’alternativa. A leggere su Internet pare che ci sia un’intera legione di “alternative all’iPad”. Occhei, tutto ma un’altra mela no, vuoi vedere che trovo la macchina dei miei sogni senza che il torsolo mi vada di traverso? La tua anima mi appartiene Pieno di baldanza vado alla Fnac di via Torino. Che ha una bella fila di iPad in prova, celata dietro a una barriera di adolescenti, brufolosi e occhialuti, in adorazione alla Sacra Tavola. I corpi puzzolenti di sudore ed eccitazione dei giovinastri rendono molto difficile l’accesso, ma con (molta) pazienza lo riesco a prendere in mano il Venerabile Coso. Sarà suggestione, ma per un attimo mi è sembrato che sulla barra in alto apparissero due occhietti rossi, malvagi e sardonici. Vinco il disgusto e passo l’indice sullo schermo, talmente pieno di grasso di ditate dei nerd che ci si potrebbe friggere una trota. Le foto di un altro scorrono tra le mie dita, mi sembra di essere Tom Cruise in Minority Report. Ma dopo un po’ mi rompo le scatole di guardare foto di algide bellezze al bagno, in succinti bikini su paradisi tropicali; cerco disperatamente una via d’uscita dalla schermata, ma niente, sono prigioniero dei corpi perfetti delle statuarie fanciulle imperlate d’acqua salata che mi sorridono con professionale distacco. Arrivo a scuotere la tavola come se fosse una maracas, e inorridito il nerd più vicino sibila: “Ma che fa, signore? Il pulsante!” Con le orecchie paonazze, finalmente capisco cos’è l’unico bottone della tavoletta: io ingenuo pensavo fosse l’interruttore per accenderlo, invece pensa te, è il tasto per uscire dalle applicazioni. Seguito dalle occhiate cariche di malcelato disprezzo dei teknoboys, abbandono la postazione e con un brivido di piacere perverso chiedo al responsabile dell’area Mac della 17


grosso per telefonare, troppo caro per entrambe le cose. A qualcosa servirà, non dico di no. Ma quel qualcosa non serve a me. Scosso dal primo contatto, chiedo aiuto agli amici di Facebook per trovare un’alternativa, o magari un antidoto, alla mela. Il panorama mi appare sconfortante: macchine strambe, di dubbia efficacia e di dubbissima reperibilità. Proposte strampalate come l’imperdibile pad con Android “che costa la metà dell’Apple”. “Sì, ma non ha né il gps né il 3G” “Certo, per quello che costa poco”. Aaah, ecco. Grazie assai.

Fnac, un giovanotto che sembra esserci nato, in quella maglia nera con la mela, dov’è il Galaxy Tab di Samsung. Quello sorride come uno che la sa lunga, e mi dice: “Ah certo, lo deve proprio vedere. È giusto qui nel corridoio centrale. Vada, vada a vederlo”. Mi giro impettito e il caldo, il caos, le lucine mi giocano brutti scherzi: giuro di averlo sentito sussurrare: “Ci vediamo presto. La tua anima ormai mi appartiene”. O insomma, qualcosa di simile. Non fa per te, papà La risposta coreana alla tavola americana troneggia al centro del corridoio. Qui non ci sono orde di assatanati adoranti. Qui non ci sono code da superare. Qui non c’è nessuno. Il monolite di Samsung fa girare un triste salvaschermo di una galassia multicolore, un giochino che fa tanto Vic 20 degli anni ‘80. Vorrei prenderlo in mano, se non altro per non darla vinta a quello là con la mela sulla maglietta. Ma mi basta un’occhiata al cartellino del prezzo (stratosferico) e una alle dimensioni dello schermo per capire che posso lasciarlo lì dov’è: è troppo piccolo per leggerci un libro, troppo 18

Il dado è tratto. O quasi: prima di precipitare nel meloso girone, un fatidico sabato sera porto mio figlio Giacomino, 16 anni a gennaio, a toccare con mano l’aggeggio, per avere il conforto e la benedizione di un indigeno digitale. Il sabato il caos dei nerd affastellati attorno al monolite del desiderio è semplicemente allucinante. Ma grazie al Cielo, con un po’ di spintoni e grazie all’aiuto di un immane tivù treddì che sposta un poco di folla al piano di sotto, riusciamo a mettere le mani sull’arnese. Ci lanciamo in una forsennata partita al videogioco del biliardino con i piattini. Momenti di pura adrenalina, che finiscono bruscamente quando il mio piattino si inchioda, chissà perché, sulla linea di centrocampo. Un solerte ragazzone con la maglietta della mela ci toglie dalle mani la macchina bloccata, per farla sparire dietro al bancone. Un segno del destino? “Allora, che ne pensi?” chiedo a Giacomo, che ancora ha il fiato corto per l’eccitazione della battaglia a ditate. Lui mi guarda con aria perplessa. “Non fa per te, papà”.


Il mondo dell’ebook

Un ebook ci salverà (?) di Viola Venturelli

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el 2010 abbiamo speso quasi 300 euro a testa per acquistare online prodotti editoriali, musica e audiovisivi (E-Commerce Consumer Behaviour Report 2011, indagine condotta da ContactLab e Netcomm sui comportamenti di acquisto di 62.000 utenti internet). Dal canto loro, i merchant hanno visto crescere le vendite nel settore del 14% (i dati sono stati diffusi dall’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm - Politecnico di Milano). In una classifica (fonte ContactLab/Netcomm, Consumer Report 2011) dove nel 2010 a trainare l’e-commerce è la spesa per soggiorni e vacanze con oltre 800 € pro capite in un anno, i generi alimentari (quasi 650 €) e i pagamenti per i servizi per la casa (le bollette, che ci costano più di 450 € all’anno), libri, cd, dvd, ebook, quotidiani, riviste e file multimediali hanno un ruolo significativo nel determinare il paniere di spesa degli utenti del web. Il quadro generale dell’e-commerce in Italia riflette l’andamento positivo riscontrato nel settore appena analizzato. Nel 2010 (dati Osservatorio Netcomm - Politecnico) il mercato elettronico nella sua totalità valeva 6,5 miliardi di euro, con una previsione di crescita nel 2011 del 19% e un volume di vendite intorno agli 8 miliardi di euro. L’e-commerce in Italia è ripartito dopo una fase di stallo avuta nel 2009, chiuso in sostanziale pareggio con il 2008, e nella torta che rappresenta il totale delle vendite online del

2010, l’editoria, la musica e gli audiovisivi detengono il 3%. Lo stesso settore, se si analizza il peso dell’e-commerce sul totale delle vendite retail (quindi canali tradizionali più il web), occupa il 4,5%: una percentuale non trascurabile che senza dubbio gode del traino dei numerosi retailer nati in rete per vendere questi prodotti: Ibs, Bol, LaFeltrinelli e di recente Amazon, che ha fatto il suo ingresso in Italia nel maggio di quest’anno. Se cerchiamo poi di ‘scorporare’ il settore di riferimento, il nuovo mercato degli ebook, che ha fatto il suo ingresso ‘ufficiale’ nel nostro Paese alla fine del 2010, è un asset sul quale gli operatori hanno grandi aspettative. Nel presentare l’Osservatorio sull’e-commerce, il presidente della School of Management del Politecnico Umberto Bertelè e il professor Andrea Rangone affermavano infatti che insieme al gioco online, “il mercato della vendita dei contenuti digitali (musica, video, libri, abbonamenti premium alle testate)” è in fortissima crescita e “dopo anni di stallo, sta iniziando una nuova fase di sviluppo, grazie all’introduzione degli application store e dei nuovi device, come l’iPad, i tablet di nuova generazione, gli ebook”. Nell’ultimo trimestre del 2010 e durante tutto il 2011 i grandi editori e i principali retailer si sono attrezzati per la digitalizzazione dei libri, e altri merchant hanno fatto il loro ingresso nel settore. 19


Mondadori nell’ottobre dello scorso anno ha chiuso un accordo con Telecom per il lancio dello store online Biblet.it, cui poco dopo si sono aggiunte Bruno Editore e Giunti, e oggi i titoli in lingua italiana a disposizione in versione digitale hanno superato quota 9000. Prima ancora (era il maggio 2010) sbarcava nell’online Edigita, joint venture tra il gruppo Gems, Rcs e Feltrinelli che coinvolge a oggi 40 case editrici. Ai ‘big’ si affiancano BookRepublic, che raccoglie una cinquantina di piccoli editori e

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Simplicissimus Book Farm, che ha lanciato a fine 2009 una sorta di ‘metapiattaforma’ dove l’editore può gestire la distribuzione dei titoli elettronici a tutti gli store online con cui ha un accordo. Tra i retailer online che per primi si sono attrezzati nella vendita di ebook ci sono IBS (società di Giunti & Messaggerie), che oggi può contare su oltre 12.000 titoli in vendita e Feltrinelli, mentre di recente sono sbarcate Amazon dagli USA e l’italianissima Libraccio.it, nata dalla collaborazione tra Il Libraccio e la stessa IBS.


L’ebook è insomma la nuova ‘bolla’ dell’editoria e i numeri, almeno quelli dichiarati, sembrano dimostrarlo: a metà di quest’anno Bruno Editore parlava di 70.000 titoli venduti tra il 2010 e il primo trimestre 2011, a luglio Edigita dichiarava ben 100.000 ebook distribuiti e Bookrepublic addirittura 250.000; l’obiettivo di tutti è raggiungere, entro l’anno, l’1% del peso del mercato del libro tramite la vendita degli ebook. I dati però si basano solo sulle dichiarazioni degli editori; non ci sono ancora, a disposizione del mercato, dati ufficiali che consentano una reale percezione del fenomeno, al di là degli ‘strilli di copertina’. A essere meno contenti di come si sta muovendo il mercato degli ebook sono gli utenti, che non condividono la scelta della maggior parte degli editori italiani di proteggere i propri ebook con i DRM (Digital Restriction Management), algoritmi utilizzati per esercitare e amministrare il diritto d’autore nei formati digitali e che obbligano l’utente che acquista legalmente ad associare in modo univoco l’ebook a un solo dispositivo digitale, senza la possibilità di trasferirlo su altri lettori.

Il mercato degli ebook presenta diverse potenzialità di sviluppo, sia per quanto riguarda la narrativa contemporanea, sia per i ‘fuori catalogo’ Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana degli Editori, manifestava la sua posizione a favore di tali restrizioni dichiarando in un’intervista a Repubblica del 20 giugno 2011 che “bisogna difendersi dalla pirateria. La battaglia dell’Aie per la tutela del diritto d’autore va in questa direzione. Con il concetto che è a disposizione di tutti, si è diffusa l’idea che la rete debba essere gratis. Se il libro viene diffuso gratuitamente, l’editore deve cambiare lavoro, e lo scrittore come sopravvive?”. Si spingono addirittura oltre i responsabili dell’Osservato-

rio sull’e-commerce del Politecnico, Alessandro Perego e Riccardo Mangiaracina, secondo i quali i player (Amazon con il Kindle, ad esempio) che hanno legato la fruizione dei contenuti acquistati sul loro sito al proprio dispositivo “hanno un indubbio vantaggio competitivo”, dal momento che l’e-reader sembra essere il device in assoluto più utilizzato per la lettura degli ebook (lo confermava anche un’indagine tra gli utenti di Bookrepublic, pubblicata sul quotidiano online Affaritaliani a luglio di quest’anno, che nel 54% dei casi dichiaravano di utilizzare un tablet). Il secondo tasto dolente sono i prezzi: in Italia gli ebook costano appena il 25%-30% in meno rispetto ai propri ‘fratelli’ di carta. Si parte da un minimo di 4 € circa sino addirittura a 12-13 €. Un prezzo decisamente alto se confrontata con quello americano, dove i libri digitali non superano il dollaro, e se consideriamo l’abbattimento di tutti i costi di produzione e distribuzione. Per concludere, senza dubbio il mercato degli ebook presenta diverse potenzialità di sviluppo, sia per quanto riguarda la narrativa contemporanea, sia per i ‘fuori catalogo’: pensiamo a quanto possono essere preziosi per i ricercatori i libri antichi o fuori produzione, a volte disponibili in una sola biblioteca in tutta Italia, o i manuali tecnici in lingua originale. O quante possibilità un libro elettronico può dare agli scrittori o alle case editrici emergenti, che quasi a costo zero trovano una vetrina per i propri titoli (le case editrici) o gestiscono autonomamente la pubblicazione e diffusione della propria opera (gli autori tramite il self publishing). È un mercato però che deve trovare una giusta ‘chiave’, una quadratura del cerchio cui ancora nessuno è giunto, che ha numerosi nodi da sciogliere per accontentare tutti gli attori sul palcoscenico: editori, venditori, autori e soprattutto... i lettori.

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Buona la prima

Storie di libri ed edizioni

JACK KEROUAC

“ON THE ROAD” (1957)

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hi pensa, come Stéphane Mallarmé, che il mondo sia fatto per finire in un libro forse dovrebbe ricredersi. Esso infatti può adattarsi altrettanto opportunamente a forme diverse dalla ben nota costa rigida su cui si inseriscono fogli in sequenza. Possono essere tavole, pergamene, rotoli. È curioso che uno dei romanzi più famosi del secolo scorso sia stato concepito in una forma diversa da quella familiare del libro, grazie alla quale poi, del resto, si è imposto tra i cimeli irrinunciabili di un’intera generazione. Si tratta di On the road di Jack Kerouac (1922-1969), il manifesto in prosa dei beats, il testo a cui si sarebbero rivolti in seguito, come a una Bibbia, molti tra i protagonisti della musica rock e del cinema indipendente americano. Kerouac lo scrisse

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di Francesco Baucia

nel 1951, nella casa dei genitori, battendolo furiosamente a macchina su di un unico rullo di carta per telex che, quando l’autore vi appose la parola “fine”, misurava circa 36 metri. Truman Capote diceva polemicamente che il lavoro di Kerouac era tutto qui, battere a macchina furiosamente piuttosto che scrivere. Ma le sue lamentele non distraevano i fan di Kerouac i quali dal canto loro pensavano che l’importante per un artista è forse lo stile di vita più che lo stile di scrittura. E i personaggi di On the road in effetti sono tanti specchi nei quali si riflette in diverse prospettive il volto del loro autore. Essi sono vagabondi, mistici, insofferenti verso la vita preordinata che li attende, crudeli e teneri verso il prossimo. Amano il jazz, il sesso e la bellezza mozzafiato del continente americano come vie spontanee di accesso all’assoluto.


Il viaggio è la metafora perfetta della loro esistenza: Georges Simenon diceva di invidiare i tassisti perché non sanno mai dove saranno tra quindici minuti, e in fondo questa frase potrebbe essere un esempio spicciolo di filosofia beat. La vita infatti deve essere apertura all’imprevisto, accoglienza dell’altro, rifiuto di ogni legame. E questa etica può essere messa in atto solo da chi è sempre sulla strada. Pertanto, il testo che per primo raccontava le imprese di questi nuovi pionieri non poteva essere scritto su un supporto migliore che una lunga striscia ininterrotta di carta, una versione bonsai delle highways che Kerouac e compagni avevano a lungo calpestato attraversando l’America. Kerouac, che come ogni profeta era un ottimo costruttore del proprio mito, aveva lasciato diffondersi un “ritratto dell’artista da giovane” ad hoc che lo vedeva intento a girovagare per gli States con sulle spalle, a mo’ di sacco a pelo, il famoso rotolo sul quale era steso il suo romanzo. Allora non poteva immaginare, e forse neanche gli sarebbe importato, che quella striscia di carta sarebbe stata battuta all’asta, cinquant’anni dopo, per due milioni

di dollari. Non poteva nemmeno immaginare, d’altronde, che quel rotolo avrebbe mai assunto la forma di un libro, perché gli editori a cui lo sottoponeva lo rispedivano con sdegno al mittente. Soltanto grazie all’interessamento di Malcolm Cowley – lo scrittore e critico letterario che aveva contribuito in maniera decisiva alla consacrazione di William Faulkner – il dattiloscritto di Kerouac era giunto infine sulle scrivanie della Viking Press e, adeguatamente anche se non sostanzialmente emendato, era apparso in volume nel 1957. Da quel momento la storia editoriale di On the road racconta di un successo inaspettato e ininterrotto, e di una popolarità che è stata eguagliata forse soltanto da un altro romanzo americano degli anni Cinquanta, The Catcher in the Rye (Il giovane Holden) di J.D. Salinger. Dunque, guardando alla gestazione di un grande capolavoro come On the road, si può dire con certezza che il mondo non è fatto per finire per forza in un libro. Può finire benissimo in un rotolo, e con grande successo. Quello che è certo, è che è fatto per finire in una storia, qualunque forma essa assuma per essere conosciuta e amata.

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Sulla punta della lingua Come parliamo, come scriviamo

Italiano 2011

di Nicoletta Maraschio (presidente dell’Accademia della Crusca) e Marco Biffi (responsabile del sito web) Le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità hanno dato grande rilievo, e non avrebbero potuto fare altrimenti, al tema lingua italiana. Fin dal 2010 infatti molte iniziative di diverso tipo (convegni, mostre e pubblicazioni) si sono succedute a un ritmo intenso, e non solo in Italia, offrendo a un pubblico ampio e differenziato occasioni e stimoli interessanti di conoscenza e approfondimento. L’episodio più importante, anche per l’alto valore simbolico, è stato l’incontro del 21 febbraio 2011, organizzato dal Quirinale e concluso da un intervento del Presidente Napolitano, dal titolo eloquente: “La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale”. Limitandoci quindi agli ultimi centocinquanta anni, sarebbe azzardato stabilire una graduatoria tra i fattori che più hanno contato nel grandioso processo di italianizzazione, se non altro perché esso non è stato né semplice né lineare. Ma un dato è certo: è avvenuto un profondo mutamento linguistico in Italia – alcuni parlano di vera e propria rivoluzione – che ha riguardato sia l’architettura e quindi il rapporto fra le molte lingue (italiano, dialetti, lingue di minoranza) presenti da oltre un millennio sul nostro territorio, sia la norma e gli usi dell’italiano stesso. Oggi quasi tutti gli italiani sono italofoni, mentre nel 1861, a stare alle stime più ottimistiche, lo erano solo il 10%. Ma i diversi fattori che dopo l’Unità hanno contribuito alla diffusione dell’i24

taliano scritto e parlato nell’intera comunità nazionale hanno agito secondo tempi e modalità differenti e sono stati fortemente influenzati dalle condizioni culturali e linguistiche preesistenti, producendo quindi esiti assolutamente non omogenei. Se la nostra lingua in un secolo e mezzo di unità politica ha dimostrato grande vivacità e capacità di rinnovamento, le diseguaglianze tra gli italiani, per quanto riguarda la competenza e l’uso linguistico effettivo sono ancora oggi troppo forti. Ma occorre ricordare in proposito che il processo novecentesco di diffusione dell’italiano è stato in gran parte spontaneo, tanto che può essere arbitrario distinguere persino tra quelli che possiamo definire fattori «diretti», legati cioè alla costituzione dello Stato politico e alle sue istituzioni – come la scuola, l’esercito e la pubblica amministrazione – che avrebbero dovuto in qualche modo governare il cambiamento, ma l’hanno fatto in misura limitata e tutti gli altri «indiretti», di tipo socioeconomico, come l’industrializzazione, le migrazioni interne ed esterne, i mezzi di comunicazione di massa, che invece hanno agito ‘liberamente’ nel contesto postunitario. È comunque un fatto di straordinaria importanza che dopo il 1861 si sia determinata in Italia un’esigenza del tutto inedita: per ogni cittadino e per ogni cittadina è diventato necessario e urgente poter comunicare con tut-

Rubrica a cura dell’Accademia della Crusca


ti i propri connazionali in una stessa lingua, sia parlando che scrivendo. Si è trattato di una novità assoluta nella nostra storia linguistica, che è caratterizzata, come sappiamo, da una grande frammentazione e da una persistente separazione fra scrittura e oralità. Tale separazione, se certo è meno netta di quanto fino a pochi anni fa si è affermato, vede tuttavia per secoli da una parte prevalentemente l’italiano scritto (almeno dal Cinquecento in poi lingua tendenzialmente comune, codificata in grammatiche e vocabolari, e innanzi tutto dal grande Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1612-1923) e dall’altra prevalentemente i dialetti parlati, entrambi variamenti articolati al loro interno. La storia policentrica dell’Italia ha favorito il persistere, dal Medioevo in poi, di un accentuato multilinguismo, che certo è stato e continua ad essere una grande ricchezza culturale, ma d’altro canto non ha reso indispensabile per tutti gli italiani la condivisione di un unico, intero, strumento comunicativo. E la lingua italiana nei secoli è stata fatta soprattutto da chi sapeva scrivere e la letteratura ha avuto un ruolo centrale, anche dal punto di vista normativo. Nel Novecento invece la lingua italiana ha cominciato finalmente a essere fatta da tutti noi, dai milioni di donne e di uomini che hanno abitato e abitano questo Paese e, in tempi recenti, dai milioni di migranti che l’hanno scelto per ragioni soprattutto di lavoro. Ma non è possibile parlare dell’italiano del 2011 senza considerare che esso è calato nella odierna società della comunicazione ed è quindi strettamente legato all’interazione con i media. L’italiano trasmesso da radio e televisione è molto diverso dall’italiano parlato faccia a faccia. Inoltre la presenza crescente nel nuovo Millennio di internet e delle “scritture volatili” (SMS, chat, blog), spesso prodotte da giovani, risente fortemente dell’oralità, di tendenze effimere e alla moda e della pressione dell’inglese, la superlingua della comunicazione mondiale. Ed è interessante che nella veloce mescolanza linguistica cha caratterizza il presente, anche il dialetto venga recuperato soprattutto nella sfera dell’affettività e dell’espressività. Se allarghiamo poi lo sguardo all’intero sistema dei mezzi di comunicazione di massa, soffermandoci in particolare su radio e televisione, possiamo, è vero, vedere

in essi riflessa la lingua italiana nelle sue varietà e nella sua poliedricità, ma dobbiamo riconoscere che tale immagine mediatica è più o meno deformata, perché su di essa agiscono filtri specifici, selezionati ad arte per trattenere/intrattenere l’ascoltatore/spettatore. Eppure questa immagine modificata agisce a sua volta da modello e influenza la lingua reale dei parlanti, secondo un andamento circolare e di veloce e continuo riuso che è specifico del nostro tempo. In una fotografia è necessario tenere sempre un giusto equilibrio tra tempo dell’esposizione, che deve essere basso per cogliere le cose in movimento e diaframma per una buona profondità di campo. Dalle sintetiche osservazioni fatte fin qui emerge che per fotografare l’italiano del 2011 occorrerebbe potenziare al massimo entrambe le variabili. Da una parte cercare la massima profondità di campo per valorizzare tutte le varietà della nostra lingua, che ne rappresentano la ricchezza e la forte specificità, insieme ai dialetti ancora molto vitali. La fotografia dovrebbe mostrarci quindi il cambiare dell’italiano nello spazio (italiani regionali), nella società (italiano colto, italiano dell’uso medio, italiano popolare, italiano tecnico-scientifico), nel tempo (italiano delle generazioni vecchie e nuove), a seconda della situazione comunicativa (da un registro formale a uno informale) e del mezzo (italiano scritto, parlato, trasmesso e digitato). Dall’altra, occorrerebbe tenere un tempo di esposizione basso per fermare nell’istantanea il rapido movimento linguistico dell’oggi che è percepibile non solo nel lessico (si pensi al numero grandissimo di neologismi registrati da tutti i dizionari), ma anche nella grammatica. Le forme tipiche del parlato sono sempre più frequenti ed è evidente la tendenza alla semplificazione soprattutto del sistema verbale e di quello pronominale, che sono particolarmente articolati e complessi. Da quella fotografia dovrebbe in ogni caso risultare l’immagine essenziale dell’italiano del 2011, una lingua viva e in espansione, chiave d’accesso indispensabile a un patrimonio culturale, materiale e immateriale, di enorme valore nella storia della civiltà europea e mondiale.

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Anima del mondo

Paesaggi della letteratura

La Valmarecchia e “I luoghi dell’anima” di Tonino Guerra Nel pianeta Pennabilli e nell’Alta Valmarecchia, dove Tonino Guerra vive da un quarto di secolo, è cresciuto grazie alla sua creatività poetica un museo diffuso battezzato “I luoghi dell’anima”, sette musei all’aperto e non, ognuno con caratteristiche proprie, ma uniti dall’obiettivo di sollecitare l’anima e la fantasia del visitatore. Si tratta di un mosaico composto da tessere come “L’orto dei frutti dimenticati”, primo museo dei “Luoghi dell’anima”, che raccoglie le specie scomparse di alberi da frutto locali e molteplici opere d’arte realizzate da artisti della zona; “La strada delle meridiane” che percorre il centro storico del paese ed è impreziosita da sette meridiane raffiguranti celebri opere pittoriche; “Il giardino pietrificato”, nella frazione di Bascio, alla base di una torre millenaria, che ospita sette tappeti

di ceramica dedicati ad altrettanti personaggi storici passati nella valle; “L’angelo coi baffi”, un’opera multimediale posta nella Chiesetta dei Caduti, l’unico museo al mondo con un quadro solo; “Il santuario dei pensieri”, un giardino per la meditazione e per il dialogo interiore, impreziosito da sculture in pietra orientaleggianti; “Il rifugio delle madonne abbandonate” che comprende una raccolta di immagini sacre che adornavano le cellette agli incroci delle strade di campagna nell’Alta Valmarecchia; “La Madonna del rettangolo di neve”, una chiesetta situata in mezzo al bosco, costruita, si dice, grazie a un segno divino. Appositamente per la nostra rivista, l’ispiratore e cantore di queste meraviglie ha voluto spiegare come sono nati e cosa sono “I luoghi dell’anima”:

I luoghi dell’anima, ancora non so se è giusto chiamarli così, sono posti che ti invitano a stare con te stesso, con l’immensità degli spazi che abbiamo dentro di noi, coi sentieri tortuosi della memoria. Insegnare ad avere un godimento diverso e profondo. Provare a squagliarsi nella natura, provare a diventare il canto di un uccello e il rumore di una foglia; allontanarsi con gli scintillii di un filo d’acqua che cerca il mare. Non è un godimento che devono avere solo gli orientali. Imparare ad abitare il silenzio. Tonino Guerra P.S. Il dubbio è il momento più carico di religiosità.

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Alta cucina

Leggere di gusto

La crema al limone della signora Maigret

Delizie e delitti nel Pazzo di Bergerac di Georges Simenon

di Francesco Baucia “Se un vento propizio ti dovesse sospingere verso questa regione, ti raccomando, soprattutto, di venire a trovarmi. Ho una vecchia domestica che è contenta solo se ho degli ospiti. Comincia la stagione del salmone...” È una mattina d’inizio marzo a Parigi, una giornata che sa già di primavera, “con un sole chiaro, penetrante, tiepido”. Non è difficile immaginare, dietro una finestra del Quai des Orfèvres, il quartier generale della polizia giudiziaria, il profilo del commissario Jules Maigret avvolto nella nuvoletta di fumo azzurro che sale dalla sua pipa. Guarda oltre i vetri la nuova stagione farsi largo sulla città e pensa che è proprio nei momenti come quello che Parigi comincia a pesargli. Vorrebbe essere altrove. Così, quando più tardi il suo capo gli ricorda un caso poco urgente, per cui sono necessarie delle ricerche a Bordeaux, Maigret coglie la palla al balzo. Il giorno stesso ha ricevuto un biglietto da un vecchio collega, Leduc, che lo invita a passare qualche giorno da lui in Dordogna, dove si è trasferito dopo il pensionamento. Bordeaux e la Dordogna..., pensa Maigret, e questi nomi basterebbero già da soli a risvegliare i sensi di chi, come il commissario, è un inguaribile buongustaio. E poi nel biglietto c’è quella sapiente evocazione “comincia la stagione del salmone...”. Poche ore dopo Maigret è già sul treno, ignaro di stare per cacciarsi in uno dei casi più sorprendenti della sua carriera. Inizia così Il pazzo di Bergerac, sedicesima avventura del commissario Maigret, scritta da Georges

Simenon nel marzo del 1932. Fa parte di quel gruppo piuttosto consistente di romanzi in cui lo scrittore belga consente al suo investigatore di abbandonare il familiare ambiente parigino per godersi un po’ le dolcezze della provincia francese. Dolcezze di fatto gastronomiche, che Simenon amava non meno del commissario: la cucina e il fumo della pipa erano infatti i due punti di assoluta identità tra il creatore e la sua creatura. Nel Pazzo di Bergerac, suo malgrado, Maigret deve rimandare i piaceri del palato alla fine dell’inchiesta, innanzitutto perché si è beccato una pallottola in una spalla ed è costretto a letto nella prigione dorata dell’Hôtel d’Angleterre di Bergerac, nei cui corridoi si spandono celestiali effluvi provenienti dalle cucine. Profumo di tartufi, soprattutto, che emana dal pasticcio di fegato d’oca tartufato e dal pollo farcito con tartufi, entrambi specialità della casa. La signora Maigret, giunta in soccorso al marito, ne è quasi scandalizzata. “Inaudito!” esclama “Qui servono tartufi come altrove le patate fritte!” Ma conoscendo le sofferenze del marito si prodiga, per quanto possibile, per alleviargliele: prende possesso delle cucine dell’albergo e prepara a Maigret un crema al limone che il commissario giudica “un vero capolavoro”. O ancora delle cotolette d’agnello alla panna, una pietanza che, secondo Maigret, è l’ideale per chi è costretto a stare leggero. E intanto la signora, armata di grembiule per sentirsi come a casa sua, ne approfitta per barattare le proprie conoscenze culinarie con quelle dello chef loca27


Georges Simenon

le, “dà ricette al cuoco, ricopia quelle che lui le passa...”. Ma se l’appetito del commissario non è dei più prodigiosi è perché il suo spirito è occupato da un piacere forse più sottile: risolvere il caso che gli è piovuto tra i piedi, i delitti di un maniaco che strangola giovani donne e ne trafigge il cuore con uno spillone, e che potrebbe inoltre essere lo sconosciuto che gli ha sparato alla spalla. Il caso è tanto più interessante quanto sembra coinvolgere da subito i notabili della cittadina: il chirurgo Rivaud, il procuratore Douhourceau, il commissario della polizia locale, e perfino l’amico di Maigret, Leduc. Maigret prova un gusto quasi perverso nello scuotere la calma provinciale con i suoi interrogatori imbarazzanti, che di primo acchito non sembrano produrre nessuna prova concreta. E infatti, egli non ha il timone dell’inchiesta sempre saldo nelle mani. Fa domande non tanto perché ha degli obbiettivi, ma per smuovere le acque, per pescare qualche elemento che catturi la sua attenzione. In paese, c’è chi dubita della sua perspicacia: “È un uomo intelligente?” chiede il dottor Rivaud a Leduc, che risponde: “Molto intelligente! Non sempre lo sembra, ma...” Una notte, febbricitante e frustrato per uno stallo nel28

le indagini, Maigret sogna addirittura di essere una foca arenata sulla sabbia, lontana dal mare. Ma alla fine la foca riesce a muoversi e, inutile dirlo, il commissario risolve il caso senza spostarsi dall’albergo, come se si trattasse di un gio-

“Mia madre ci preparava il flan quando eravamo a letto ammalati” confessa Simenon co enigmistico: “Lunghe giornate da trascorrere a creare, costretto nel suo letto, una immagine di Bergerac che fosse il più possibile attinente alla realtà, con tutti i protagonisti al posto giusto”. Si alzerà dal letto solo nelle ultime pagine, per andare dal procuratore a ricapitolare la verità dei fatti. Il commissario è finalmente guarito, anche se non è ancora in piena forma, ma soprattutto la sua mente non è più ostaggio di quei misteri del cuore umano che egli è solito affrontare con il


CREMA AL LIMONE Ingredienti: 1 litro di latte 2 cucchiaini di estratto di limone 100 grammi di zucchero 6 tuorli d’uovo un cucchiaino di kirsch

metodo di un pittore di ritratti, o di un romanziere, più che di un poliziotto. L’animo gourmand si può così ridestare: è ormai una questione di principio per il commissario riappropriarsi almeno un po’ di quel piacere sospirato prima di partire, e accantonato durante l’inchiesta. Uscito dalla casa del procuratore, “raggiunse non senza fatica l’Hôtel d’Angleterre e, appena giunto, disse al padrone: ‘E finalmente, oggi, vorrei pasticcio d’oca e tartufi. Poi, il conto. Tagliamo la corda!’”. Niente salmone, almeno per questa volta. Robert J. Courtine, giornalista esperto di cucina e complice di Simenon nelle sortite gastronomiche per i ristoranti parigini, ha raccolto in un volume, A cena con Simenon e il commissario Maigret, le ricette dei piatti più apprezzati dal celebre commissario. L’amicizia con Simenon ha permesso a Courtine di scoprire le ragioni profonde dei gusti culinari dello scrittore, gusti che peraltro Simenon ha trasferito in blocco al suo doppio letterario. “Mia madre ci preparava il flan quando eravamo a letto ammalati” confessa Simenon a Courtine, il quale riconosce nella crema al limone preparata amorevolmente dal-

la signora Maigret un lontano riflesso di quelle ghiottonerie infantili. Conoscendo bene la predilezione di Simenon per le pietanze poco sofisticate, familiari, Courtine non esita a inserirla nella sua collezione di ricette. Gli ingredienti sono semplici: un litro di latte, due cucchiaini di estratto di limone, un etto di zucchero e sei tuorli d’uovo. Altrettanto lo è la preparazione: si fa bollire il latte con l’estratto di limone e lo zucchero, poi lo si lascia raffreddare. Una volta sbattuti i tuorli d’uovo, li si mescola al latte e si cuoce la crema a bagnomaria facendo attenzione, raccomanda Courtine, di non farla mai bollire. Quando la crema ha raggiunto la consistenza preferita, la si passa al setaccio e si fa raffreddare prima di gustarla. Un suggerimento di Courtine: prima di passare la crema al setaccio, aggiungere un cucchiaino da caffè di kirsch. Un “capolavoro” anche per chi non si deve rimettere da una ferita da arma da fuoco.

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Recensioni

L’evasione della letteratura

Il libro segreto di Dante di Francesco Fioretti

La leggenda legata alla biografia che Boccaccio scrive di Dante vuole che il poeta fiorentino avesse nascosto prima di morire gli ultimi tredici canti del Paradiso in un luogo segreto. Su questo fatto si articola il romanzo che il dantista Francesco Fioretti scrive per la collana della Nuova Narrativa Newton Compton che, negli ultimi tempi, sta riscuotendo ottimi risultati di pubblico con un altro titolo di Melissa Hill Un regalo da Tiffany, da diverse settimane ormai ai primi posti della classifica dei libri più venduti, incalzando perfino il recente Premio Strega di Edoardo Nesi Storia della mia gente. Anche Il libro segreto di Dante rappresenta un successo editoriale. Francesco Fioretti è un esordiente nella scrittura di romanzi e le oltre 120mila copie che questo libro sta vendendo in Italia sono indice del fatto che il futuro della letteratura, ebook o non ebook, sia nell’invenzione di storie, di personaggi, di luoghi ai quali affezionarsi e nei quali sognare e sperare. Fioretti incardina su una leggenda o un fatto presunto tale un romanzone a metà tra il giallo e il romanzo storico, con evidenti omaggi, più che a Dan Brown, al miglior Umberto Eco del Nome della rosa. E dal ritenere in mano solo i nomi delle cose, come si conclude il giallo di Eco, Fioretti riparte con il detto di Giustiniano per il quale “i nomi sono conseguenza delle cose”. Nel nome della moglie di Dante, Gemma, si nasconde la preziosità di una storia che scaturirà incrociando la poesia della Divina Commedia e la

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vita politica di Dante Alighieri, una preziosità che la fantasia e la penna infiammata di Francesco Fioretti ci fanno scoprire delineando per il lettore di oggi i tratti dei figli e della moglie del sommo poeta, che spesso la storia ha dimenticato, ricordando i più solo di quell’amore celeste per Beatrice. Come in un giallo riappare sulla scena della morte di Dante un figlio adottivo, Giovanni, che insieme alla figlia Antonia si metterà sulle tracce dei presunti assassini del poeta, dato che a un primo esame autoptico il cadavere mostra segni di avvelenamento. Perché uccidere il poeta? Perché sono scomparsi quei tredici canti? Chi aveva interesse a lasciare incompiuta la Divina Commedia? Templari del Regno d’Outremer, finti frati francescani, ricchi banchieri fiorentini sono tutti implicati a diverso titolo nell’inseguimento di un prezioso tesoro: l’arca dell’alleanza recuperata dal Tempio di Salomone dai Templari e occultata in un luogo sicuro. La storia di Fioretti, a volte zoppicante sia nella scrittura che nella rapidità dei passaggi logici tra un avvenimento e l’altro, ha il grande merito di aver destato l’attenzione dei lettori sulla vita del Dante segreto, quello più intimo, e sul dono o sulla pena di chi gli si trovò affianco. Tutti elementi che a scuola per ragioni di tempo vengono spesso tralasciati. Ma che in fondo ognuno di noi, leggendo la Divina Commedia, si sarà chiesto. Come avranno vissuto la moglie e i figli del poeta sapendo di tutto l’amore che lo stesso mise nelle sue opere per Beatrice? Il libro segreto di Dante può essere benissimo inteso come Il libro del Dante segreto e in questo forse si ritrovano i numerosi lettori, in quell’essere amati pur amando altri, nell’essere qui e altrove al quale il nostro tempo di crisi ci abbandona. Forse dunque nell’evasione della letteratura, la letteratura vive ancora.


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MOSCOW BOOK FAIR

FESTIVALFILOSOFIA

Ritorna, più ricco che mai, l’appuntamento principe nel panorama del divertimento culturale italiano, con reading, spettacoli, concerti e soprattutto autori provenienti da tutto il mondo. Nel magnifico scenario delle piazze di Mantova, incontreranno un pubblico sempre numeroso, attento ed eterogeneo scrittori affermati ed esordienti, tra cui Erri De Luca, Giorgio Faletti, Marco Malvaldi, Jonas Jonasson, solo per citarne alcuni. Da segnalare la serie di eventi “Tracce” promossa da Telecom Italia e Biblet ai quali parteciperanno, tra gli altri, Alessandro Barbero, Marco Belpoliti, Colin Thubron, Roger J. Ellory e Carlo Lucarelli. Una menzione particolare, in questa edizione, alla rassegna “Biblioteca di fantascienza”, un viaggio appassionato nel più visionario dei generi letterari, con una guida d’eccezione, lo scrittore best-seller Tullio Avoledo. Dal 7 all’11 settembre.

La ventiquattresima edizione della Fiera del Libro di Mosca ha per protagonista l’Italia, paese ospite d’onore della manifestazione. Molti gli autori italiani invitati a confrontarsi con il pubblico russo: si parlerà di filosofia con Adriano Dell’Asta e Maurizio Ferraris, di passioni ed emozioni con Andrea De Carlo e Sandro Veronesi, di storia con Franco Cardini e Valerio Massimo Manfredi. Dal 7 al 12 settembre.

Consueto appuntamento a Modena, Carpi e Sassuolo con il variegato universo del pensiero filosofico. Quest’anno il tema della manifestazione è la “Natura”. Ne parleranno, attraverso lezioni e letture, tra gli altri, Remo Bodei, Jean-Luc Nancy, Massimo Cacciari ed Emanuele Severino. Da segnalare, nei ristoranti della città, i “menù filosofici” ideati da Tullio Gregory. Dal 16 al 18 settembre.

PORDENONELEGGE

Al centro culturale San Gaetano di Padova la “crew” del sito sugarpulp.it, organizza il suo primo festival, dedicato agli amanti del noir e del thriller. Confermata la presenza di molti big del genere, tra cui Jeffery Deaver, Joe R. Lansdale, Victor Gischler e Massimo Carlotto. Dal 29 settembre al 2 ottobre, anteprima il 19 settembre.

Si rinnova anche quest’anno la “festa del libro con autori”, uno degli eventi più amati dai lettori italiani, giunto ormai al dodicesimo anno di vita. I 150 anni dell’Unità d’Italia sono il fil rouge che lega gli incontri con Paolo Mieli, Giancarlo De Cataldo e David Riondino. Tra gli altri ospiti Antonio Scurati, Pietrangelo Buttafuoco e il premio Nobel per la Letteratura 2001 V.S. Naipaul. Dal 14 al 18 settembre.

SUGARPULP FESTIVAL

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Tweets

@maurosandrini i Aumentano i prezzi dei libr no eva dov non Ma to. tes di essere in #ebook?

@Giampaolo1966 Stasera voglio comprare un ebook con l’ipad. Ci riuscirò ??

@Pianeta_eBook to: Amazon e gli #ebook di tes to ma for vo nuo un o tat sen pre ici last sco ok simil-PDF per eBo su #Kindle, il Print Replica

@Pianeta_eBook Voi come lo vedreste Facebo ok produttore e distributore di #eBook? Impossibile? Improbabile?

@Finzioni

@virgilio_it a Booktrack, arriva la colonn sonora per gli eBook

Bookbugs

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@gnacca i noi invece abbiamo editor e der ven cosĂŹ lungimiranti da eo tac car del zzo ebook al pre

Si parla sem pre delle copertine d ei libri. Ma le copertine d egli ebook?



pretesti Occasioni di letteratura digitale

PreTesti • Occasioni di letteratura digitale Settembre 2011 • Numero 0 • Anno I Telecom Italia S.p.A. Direttore responsabile: Roberto Murgia Coordinamento editoriale: Francesco Baucia Direzione creativa e progetto grafico: Fabio Zanino Alberto Nicoletta Redazione: Sergio Bassani Luca Bisin Patrizia Martino Francesco Picconi Progetto grafico ed editoriale: Hoplo s.r.l. • www.hoplo.com Stampato presso GrafArt • Officine Grafiche Artistiche s.r.l • Torino In copertina: Joe R. Lansdale • Corbis ® L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito. Per informazioni info@pretesti.net


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