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In questo numero
HACHIKO - una storia d'amore A Christmas Carol La Principessa e il Ranocchio Cuccioli - Il Codice di Marco Polo
I n t e r v i s t e • Richa r d G e r e - s e r gi o e F r a n c e s c o Ma n fi o
Sommario 6
Hachiko: una storia d'amore
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La principessa e il ranocchio
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n°7 2008
A Christmas Carol
Cuccioli - Il Codice di Marco Polo
SCHEDE FILM SCUOLE SUPERIORI L a P r i m a L i n e a , I l v i ag g io d i J e a n n e , W e l c o m e , I l m io a m ic o E r ic , D o r i a n G r ay
3 I n t e r v i s t a a Richa r d G e r e Per abbonarsi a Primissima Scuola Periodico di informazioni cinematografiche per le scuole Anno 16 n. 7 dicembre 2009
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Intervista a Richard Gere Di Marco Spagnoli
Hachiko - Un Cane è per sempre “Questo è un film sul potere della forza della vita ed è dotato di una grande spiritualità. E’ una storia senza tempo e che, in qualche maniera, è senza fine. Volevamo che Hachiko diventasse una finestra nella possibilità di fare esperienza di quello che viene raccontato che diventa molto rapidamente parte di noi, entrando velocemente nella nostra anima.”
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opo aver letto la sceneggiatura Richard Gere non ha avuto il minimo dubbio, decidendo di interpretare e di produrre il film Hachiko, affidandone la regia al Premio Oscar, Lasse Hallstrom. Buddista praticante dall’età di venti anni, Gere ha individuato in questa storia una spiritualità e una interconnessione tra gli esseri viventi, che la rende universale. Hachiko, A Dog’s Story è la versione americana del film giapponese del 1987 diretto da Seijirô Kôyama ed è ispirato alla straordinaria e commovente storia vera del cane Hachi che per circa un decennio tra il 1925 e il 1935 ha atteso invano che il suo padrone, un professore universitario di Tokyo tornasse dal lavoro. Nel film, ogni giorno Hachi accompagna il professor Parker (Richard Gere) alla stazione e lo aspetta al suo ritorno per dargli il benvenuto. L’emozionante e complessa natura di ciò che accade quando questa routine viene bruscamente interrotta, rende la storia di Hachi una testimonianza del rapporto speciale tra esseri umani ed animali. L’assoluta dedizione di un cane nei confronti del suo padrone ci mostra lo straordinario potere dei sentimenti e come anche il più semplice fra i gesti possa diventare la più grande manifestazione di affetto mai ricevuta. “Quella che abbiamo raccontato nel nostro film è una storia molto semplice.” Spiega Gere “E la nostra sfida era quella di riuscire a mantenere questa semplicità attraverso tutta la pellicola, perché la forza di tutta l’operazione stava nella storia stessa. Ci piaceva immaginare che il nostro lavoro diventasse simile a quello dei narratori di storie intorno ai fuochi e che il calore delle emozioni che raccontavamo illuminasse i volti delle persone che vedranno il nostro film. Siamo stati ispirati da un modo di raccontare archetipico.” Il film offre un punto di vista spirituale su questa che resta una storia vera… Questo è un film sul potere della forza della vita ed è dotato di una grande spiritualità. E’ una storia senza tempo e che, in qualche maniera, è senza fine. Volevamo che Hachiko diventasse una finestra nella possibilità di fare esperienza di quello che viene raccontato che diventa molto rapidamente parte di noi, entrando velocemente nella nostra anima. Queste storie sono difficili da inventare, perché rischiano di scivolare al di fuori della propria struttura narrativa. E’ la loro verità a donare credibilità e forza alla narrazione. Quando ho letto la sceneggiatura io stesso ho avuto una reazione molto forte al punto di non trattenere le lacrime. Credo, dunque, che in questa storia si nasconda un misterioso potere cui sarebbe inutile provare a dare un nome. La sua forza appartiene allla sfera dell’accettazione, della pazienza, della lealtà, dell’amore e della compassione. Tutti elementi che fanno parte di ciò che siamo davvero, rispetto a quello che crediamo di essere quando ci vediamo in uno specchio. Noi non siamo i nostri lavori, i nostri tagli di capelli, i
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nostri vestiti, ma quella forza misteriosa animata dall’amore. Noi siamo qualcosa oltre i confini di quello che vediamo. Il film inizia in un monastero Zen… E’ uno dei suggerimenti che ho dato quando abbiamo iniziato a leggere la sceneggiatura. Anche se quella di Hachiko non è necessariamente una storia buddista, mi interessava potere creare una connessione diretta con quanto è accaduto davvero in Giappone. Per me era come costruire intorno alla trama un bozzolo spirituale, un orizzonte spirituale più vasto. Questo, però, non significa che anche altri film che ho interpretato non fossero animati da un’analoga volontà di raccontare una storia che avesse dei valori spirituali anche se, forse, in maniera meno evidente. Cosa ha significato recitare da solo con un cane? E’ stata un’esperienza molto interessante, perché Hachiko è una storia d’amore. Potremmo parlare di amicizia, ma è una storia d’amore nel senso più profondo di questa definizione. Trascende il genere e le specie e riguarda il nostro essere più profondo. In questo senso abbiamo operato una scelta molto cosciente nel non addestrare i cani a ‘recitare’. Abbiamo creato un ambiente confortevole per i cani e abbiamo girato in digitale così da non avere problemi di durata della pellicola. Così facendo abbiamo consentito che qualcosa di magico accadesse sul set. Alle volte le cose hanno funzionato, altre per niente, ma il risultato è che, alla fine, quello che si vede è veritiero. E’ stato difficile… Sì, ma al tempo stesso quello che ottieni è davvero ‘magico’ e non ‘artificioso’. Anni fa ho lavorato con Robert Altman ne Il Dottor T e le Donne. Ho visto che otteneva dai bambini sul set un’interpretazione molto spontanea e piacevole. Gli ho chiesto come facesse e lui mi ha risposto: “E’ semplice. Non dire loro quello che devono fare.” Noi siamo stati molto
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schede film fortunati a ‘catturare’ quello che si vede nel nostro film. Qualcosa di molto difficile da definire che, però, mi sembra molto evidente e tangibile nel film. Qual è il suo rapporto con i cani? Ho una foto del 1950: avevo meno di un anno e non camminavo ancora e, al mio fianco, c’era il nostro cocker spaniel di nome Chipper. Oggi, con mio figlio e mia moglie, abbiamo una cagnetta di nome Billie in onore di Billie Holliday. Una delle ragioni per cui ho accettato questo film è che ho un legame speciale con questi animali e con quest’ultima cagnolina in particolare. In un certo senso è come se avessi voluto girare questo film per mio figlio e per il mio cane. Il regno animale non è un posto semplice: ci sono molte paure, l’angoscia per la sopravvivenza, per il cibo, per trovarsi un posto caldo. Potenzialmente il mondo di noi umani è molto più sicuro. Sicuramente abbiamo meno paura
di quanto ne abbiano gli animali di lasciare le loro case. Noi uomini viviamo in un posto meraviglioso grazie all’intelligenza che ci deriva dai nostri cervelli più sviluppati ci poniamo domande riguardo all’esistenza nei cui confronti gli animali non hanno alcuna preoccupazione. Al tempo stesso anche noi proviamo sofferenze e dolori che ci spingono, però, a superare queste difficoltà. Essere umani è un’incarnazione straordinaria che porta con sé, a differenza dei cani, delle grandissime responsabilità. In questo senso per me è stata una scelta interessante interpretare un film destinato ai bambini che solo gli adulti possono capire fino in fondo e apprezzare. Lei ha compiuto sessant’anni lo scorso agosto: come guarda, oggi, al mondo? Sono sempre stato convinto che il meglio della vita ti arriva solo se sei un ottimista. La realtà della nostra vita continua a ripe-
terci quanto tutti noi siamo interconnessi. E’ un qualcosa che non possiamo evitare e la realtà del nostro legame è qualcosa che non possiamo rinnegare. L’unico modo per sopravvivere è comprendere questa connessione e proteggerci gli uni con gli altri. L’America, fino ad oggi, ha sfruttato il resto del mondo, ma se Obama riuscirà a cambiarci e far riemergere la buona volontà cui abbiamo sempre aspirato, allora, credo che cose straordinarie potranno davvero capitare. Resto ottimista: quando vedo come viene accolto il Dalai Lama in tutto il pianeta, a parte la Cina, allora, sono convinto che il nostro piccolo pianeta – villaggio potrà funzionare al meglio. Penso che noi ci stiamo tutti muovendo verso la vita e la verità. Parliamo del Dalai Lama? Ha avuto un’influenza enorme sulla mia vita anche se ero buddista già prima di conoscerlo, avendo studiato con dei maestri giapponesi. Il Dalai Lama ha non solo interiorizzato i principi di saggezza e compassione fondanti il buddismo, ma è diventato essi. Quando conosci un uomo capace di trasformarsi in un essere del genere, sai che quello è l’obiettivo che vorresti raggiungere, perché scopri che sia possibile arrivarci. La sua amicizia ti fa sentire di avere queste possibilità. Ogni giorno prego affinché la mia mente sia libera e possa funzionare in maniera trasparente per arrivare a conoscere la verità. Ci vuole coraggio per affrontare questo processo. Tutti quanti noi siamo, infatti, pieni di ‘schifezze’ di cui ci dobbiamo liberare. Una persona come il Dalai Lama è come uno specchio. I monaci tibetani sono così chiari che riflettono tutto quello che sei e che non ti piace di te stesso. Se vuoi cambiare la tua speranza è solo quella di trovarti in mezzo a persone sempre in grado di riflettere l’immagine di quello che sei davvero. E non è facile vedere la propria mente per quello che è. Ci vuole molto coraggio per trovare la propria libertà. Quanto? Quanto quello che hanno avuto Gandhi, Gesù, Buddha, il Dalai Lama: esseri in grado di guardare con profondità nella propria mente e nel proprio cuore ignorando ogni residuo di auto compiacenza e negandosi ogni forma di indulgenza. Questo è un grande coraggio che io non ho. Ne ho un po’, ma non così tanto da essere come loro e non credo che ne avrò mai. Come attore non si sente in qualche
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Scuole Medie e Superiori maniera limitato dal suo lavoro a Hollywood che notoriamente non è un luogo molto religioso? Assolutamente no. Io credo che avere a che fare quasi quotidianamente con i peggiori aspetti della realtà sia un ottimo modo per conoscere se stessi ed il mondo. Infatti, anche il nostro peggior nemico può diventare il migliore maestro. Vede, il lavoro di miglioramento è un’occupazione della mente. Ogni giorno, da quando avevo ventiquattro anni, per almeno quarantacinque minuti mi concentro in meditazione e tento così di limitare la mia ignoranza, aumentando la quantità di bene e di amore che è dentro di me. Forse per il fatto che io sono un attore e gli attori fanno cose che nella scala dei valori spirituali stanno molto in basso, la gente non si aspetta molto da me...eppure questo è un po’ come la storia di Milarepa che rinchiuso nella sua caverna con un gessetto nero segnava sulle pareti i pensieri negativi e con uno bianco quelli positivi. I primi giorni la caverna era interamente nera, ma dopo un po’ divenne completamente bianca. Per un buddista stare a Hollywood o nella caverna di Milarepa è esattamente la stessa cosa. Forse vivere nella caverna è ancora più difficile perché lì non si può conoscere la realtà che ci circonda e affrontandola, superarla. Del resto la stessa idea di cinema è profondamente connaturata all’esplorazione della mente e del cuore degli uomini. A proposito di Giappone cosa le è rimasto dell’incontro con Akira Kurosawa? Avevo seguito una retrospettiva a New York dei suoi film in versione restaurata e, in quell’occasione, avevo incontrato suo figlio. E’ stato lui a presentarmelo qualche tempo dopo e mi sono trovato dinanzi ad un uomo di così grande carisma, da sentirmi più basso e intimidito, mentre in realtà avevamo tutti e due la stessa altezza. Mi trovavo dinanzi ad un gigante: quando sei a contatto con tanto talento e genio, non puoi sentirti a tuo agio. Ti sembra di avere a che fare con un leone enorme. Kurosawa era così. Lei ha due figli: come si pone nei loro confronti? Vivere è una cosa molto difficile da imparare a fare, io sono sempre al loro fianco durante il processo di crescita che, ovviamente, è tutt’altro che semplice. Non ho una risposta precisa se non questa: ‘sto ancora imparando’...
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schede film
Claudio Lugi
“Durerà la razza che possiede il più elevato altruismo.” Jack London
La favola del cane che aspettava il treno… D
a qualche tempo a Roma, più precisamente a Ponte Milvio, le coppie di adolescenti suggellano il proprio amore incatenando un lucchetto a uno dei lampioni che mostra al Tevere il proprio oneroso disappunto. Diecimila chilometri più a est, alla stazione ferroviaria di Shibuya, nelle vicinanze di Tokyo, gli innamorati si ritrovano per un appuntamento, o per promettersi eterno amore e fedeltà, al cospetto della statua di un cane. Si tratta di Hachiko, la cui copia di bronzo è stata sistemata sulla banchina ad attendere lo scorrere del tempo. E a ricordare che alcuni dei sentimenti più nobili trovano la massima espressione negli animali prima ancora che negli uomini. La dedizione più completa, la nobiltà d’animo, l’amicizia costante e senza riserve del migliore amico dell’uomo, ci portano ad aderire senz’altro al celebre adagio di Socrate, che recitava: “Più gente conosco, e più apprezzo il mio cane.” Ma la storia di Hachico appartiene al nostro tempo. Meglio, agli anni Venti e Trenta, periodo in cui il bellissimo esemplare bianco di razza Akita venne regalato al Professor Hidesamuroh Uyeno, un docente di agronomia, il quale, da Shibuya, quotidianamente prendeva il treno per la capitale del Sol Levante per recarsi all’università, e ritornare nel primo pomeriggio, sempre accompagnato
dall’amico a quattro zampe. Il vero nome del cane era Hachi (il suffisso “ko” è usato come vezzeggiativo), che in giapponese sta per “otto”, un segno assai fortunato secondo la numerologia orientale in quanto la doppia forma circolare indica il collegamento tra il piano materiale e quello spirituale. Ebbene, anche dopo la morte del suo padrone, avvenuta nel 1925, Hachiko ha continuato a recarsi ogni giorno - per quasi dieci anni - ad aspettarlo, invano, alla stazione. La vicenda ebbe un’enorme risonanza nell’opinione pubblica dell’epoca e ben presto il cane divenne, in Giappone, un emblema di affetto e lealtà. Nel 1987 Seijirô Kôyama ne ha ricavato un film di grande successo in patria, Hachiko Monogatari, purtroppo mai distribuito in Italia. Ma finalmente, le prossime feste natalizie porteranno questa storia, intitolata semplicemente Hachiko, anche sugli schermi della penisola, grazie alla passione e all’ostinazione di Richard Gere, interprete principale, nonché produttore della pellicola, e all’intelligente trasposizione americana effettuata da Lasse Hallstrom (Chocolat, Buon compleanno Mr. Grape e Le regole della casa del sidro), non nuovo a regie “canine” (La mia vita a quattro zampe) e alla collaborazione con il fascinoso •
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divo “brizzolato” (L’imbroglio - The Hoax). In verità, il film in questione è già stato presentato in anteprima, fuori concorso, alla IV edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione “Alice nella città”, dedicata al pubblico dei ragazzi e degli studenti, riscuotendo una calorosa accoglienza. E i media hanno dato ampio risalto alla sfilata dell’attore americano in compagnia di un simpatico cagnolino bianco che ben risaltava sul tappeto rosso allestito all’Auditorium Parco della Musica. Tuttavia, Hachiko: A Dog’s Story ha commosso gli spettatori specialmente con la semplicità del racconto archetipo, e con la sincerità di una recitazione sobria e misurata. Richard Gere, infatti, consapevole che il cane gli avrebbe, inevitabilmente, “rubato la scena”, ha svolto con pazienza e amorevolezza il suo ruolo allo scopo di evidenziare la natura affettiva, e non solamente “professionale”, del proprio rapporto con l’animale. Nonostante l’universalità del messaggio divulgato non richieda necessariamente una precisa collocazione spazio-temporale, Hachiko: A Dog’s Story presenta solo qualche variazione rispetto all’edizione nipponica. In primo
luogo le vicende narrate avvengono ai nostri giorni nel Rhode Island, nord-est degli Stati Uniti; inoltre, l’insegnante di musica e compositore interpretato dal sessantenne attore di Philadelphia è sicuramente più giovane dell’agronomo di Shibuya. Richard Gere (Chicago, Ufficiale e gentiluomo, American Gigolò, Pretty Woman...) è Parker Wilson, un uomo benestante e tranquillo che ama la famiglia e il proprio lavoro. Il quotidiano pendolarismo tra la piccola città dove vive e l'università non gli pesa più di tanto. I suoi pensieri sono diretti alla moglie Cate (Joan Allen), che si occupa della conservazione dei beni storici, e verso sua figlia Andy (Sarah Roemer) in procinto di sposarsi. In una fredda serata d’inverno Parker s’imbatte in un cucciolo di razza Akita proveniente dal remoto Tibet, e casualmente smarrito sulla banchina della stazione. Ammaliato da quella piccola palla di pelo, e incoraggiato da Carl (Jason Alexander), l’affabile capostazione, decide di portare a casa il cagnolino, che l’ideogramma stampato sulla medaglietta nomina come Hachi, e affrontare la prevedibile contrarietà della consorte, vista la recente scomparsa del loro ultimo cagnetto Luke. Ma la naturale simpatia tra Hachi e il professore si trasforma immediatamente in un legame esclusivo, così evidente da cancellare ogni remora rispetto all’allargamento della famiglia. Hachi diventa il compagno inseparabile di Parker: è sempre pronto a carpire carezze e attenzioni, ne condivide la passione televisiva per il baseball, lo segue come un’ombra dappertutto, in casa e in giardino, dal divano alla vasca da bagno. E ogni mattina lo guida fino al binario, e la sera lo attende puntuale nel piazzale della stazione stimolando il compiaciuto stupore dello stesso ferroviere Carl, del venditore ambulante di panini e caffè,
Shabir (Erick Avari), e di Mary Anne (Davinia McFadden), la libraia, tutti testimoni della simbiosi tra il musicista e il suo scodinzolante compagno. Questa piacevole consuetudine prosegue per settimane, mesi, stagioni, fino alla prematura scomparsa di Parker, stroncato da un ictus durante una lezione all’università. L’improvvisa perdita sconvolge Cate e Andy, le quali continueranno a dispensare affetto al piccolo Hachi, che in cuor suo non ha perso la speranza di ritrovare l’inseparabile amico al solito posto, dopo il fischio che annuncia l’arrivo del treno delle cinque del pomeriggio: sarà lì tutti i santi giorni, che piova o tiri vento, che nevichi o splenda il sole, per tutto il tempo che gli rimarrà da vivere. Perché - e non è retorico ricordarlo - l’amore di un cane è per sempre… Esemplare, a proposito, la scena in cui il cane decide di raccogliere la pallina da baseball che si era sempre rifiutato di riportare al padrone ogniqualvolta questi l’aveva lanciata.
Ormai è troppo tardi, ma Hachi è disposto a tutto pur di compiacere l’uomo a cui è legato. Perciò è difficile per adulti, adolescenti e bambini non farsi travolgere dal diluvio di emozioni che una storia così lineare e priva di artifici procura. E non bisogna necessariamente possedere un cane per cogliere il messaggio di fedeltà e altruismo, lealtà e generosità che il film propone. Sono valori che purtroppo appaiono sempre più attinenti alle favole, e sempre meno presenti nella realtà che viviamo giorno dopo giorno. Ritrovarli, di tanto in tanto, nella sala buia di un cinema, vale la pena. Anche a costo di farsi coinvolgere. E magari, versare una lacrima.
Hachiko (titolo originale: Hachiko: A Dog’s Story) Regia: Lasse Hallstrom Con: Richard Gere, Joan Allen, Jason Alexander, Erick Avari, Hiroyuki Tagawa, Davenia MacFadden 98’, Lucky Red, drammatico
“Non c’è patto che non sia stato rotto, non c’è fedeltà che non sia stata tradita, fuorché quella di un cane veramente fedele.” Konrad Lorenz, L’anello di Re Salomone
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schede film
Claudio Lugi
“Eccomi qua, nella mia comoda dimora, aspettando che passi il Natale! Bah! Che stupida festa, in cui tutti si vogliono bene! Ma per me è diverso! Tutti mi odiano e io odio tutti! E tutti a comprare regali... Pare che si divertano! Non mi sono mai divertito, io!” (Paperon de’ Paperoni in Il Natale di Paperino sul Monte Orso)
Natale. Quale migliore occasione per cambiare? S
e c’è una qualità che va riconosciuta a Robert Zemeckis, perfettamente compresa dalle grandi case di produzione che con lui dietro la macchina da presa raggiungono sempre incassi favolosi, riguarda il fatto che le sue opere sono nella videoteca di qualunque famiglia, dal momento che gli spettatori non si fermano quasi mai alla mera visione sul grande schermo, ritornando a vedere, anche più volte, i suoi capolavori. Chi infatti non ha rivisto a casa, spalmato sul divano, film memorabili come Chi ha incastrato Roger Rabbit? o la trilogia di Ritorno al futuro, Forrest Gump (che gli ha fruttato un Oscar per la regia), oppure Cast Away?
Robert Zemeckis torna nelle vesti di regista, produttore e sceneggiatore del film portabandiera della produzione Disney del Natale 2009: A Christmas Carol, la terza prova consecutiva – e aggiungiamo, la più riuscita tra le pellicole in performance capture finora eseguite. Le precedenti realizzazioni, ossia La leggenda di Beowulf, ispirata a uno dei poemi anglosassoni più antichi, e The Polar Express, anch’essa un’incantevole strenna natalizia, hanno evidenziato le straordinarie capacità della suddetta tecnica di ripresa che consente di registrare nella memoria di un computer ogni movimento ed espressione degli attori al fine d’impiegarli nella costruzione di uno o più personaggi animati, come appunto accade nel film in esame, dove Jim Carrey (The Truman Show, Una settimana da Dio, Yes Man…), il protagonista, e una buona parte del cast, compare in spoglie differenti per recitare vari ruoli. Artista tra i più versatili di Hollywood, Carrey, stavolta, è uno e settuplo, cioè rappresenta Scrooge nelle •
varie fasi dell’esistenza, e anche i tre fantasmi che lo tormentano. La sua mimica facciale e la sua fisicità sono assolutamente uniche, a prescindere dalla fantasmagoria tecnica che in quest’occasione stupirà – ne siamo certi – pure il pubblico più scettico. In più, A Christmas Carol è presentato in 3D, perciò possiamo garantire che lo spettacolo è veramente un'esperienza fantastica che in 90 minuti trasporta gli spettatori in una dimensione magica dalla quale si fa fatica a uscire. Alla fine si ha quasi l’impressione di aver partecipato attivamente all’avventura che vede all’opera uno dei rappresentanti più emblematici dell'avarizia: Ebenezer Scrooge, protagonista di una delle novelle più conosciute sulla festa invernale più bella. Scritto da Charles Dickens nel 1843 (tra le varie edizioni del testo consigliamo quella appena uscita nel volume Racconti di Natale, a cura delle edizioni Newton Compton), e pubblicato proprio il 19 dicembre di quello stesso anno, Un Canto di Natale è una delle opere più frequentemente tradotte in immagini da quando è nato il cinematografo, e non sempre con risultati all’altezza. Citiamo, tra le migliori trasposizioni: Canto di Natale di Topolino, un divertentissimo corto del 1983 targato Disney e prodotto per la TV; Festa in casa Muppet del 1992, intelligente commistione tra i noti pupazzi di Brian Henson e attori in carne e ossa, in cui Michael Caine interpreta ottimamente il taccagno; Scrooge. La più bella storia di Dickens (1970), commedia musicale con Albert Finney protagonista; Looney Tunes - Canto Di Natale (2006), uno spassoso mediometraggio animato con Daffy Duck nel ruolo dello spilorcio;
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Per tutte le Scuole insensibilità. Lo Spirito del Natale Futuro (Carrey), prospetta la misera fine dell’avaro: alcuni uomini discettano sulla sorte dei beni del defunto, il Vecchio Joe (Hoskins) e la signora Dilber (Fionnula Flannigan) si spartiscono le lenzuola e le tende di Scrooge. Quindi, il fantasma catapulta l’usuraio al cospetto della propria lapide mortuaria, con tanto di nome inciso. Manca ancora, però, la data della morte. Scrooge sprofonda nel sepolcro, implorando. Se solo ci fosse un’altra possibilità... A chi ha conosciuto la verità non può essere preclusa la redenzione. Ecco la parabola di pace che il testo veicola. In una sola notte Scrooge fa i conti con la propria esistenza, riesce dopo una vita passata nell’aridità a liberarsi della gabbia dorata che gli incatenava l’animo. Grazie al viaggio (terapeutico?) di conoscenza che gli hanno apparecchiato gli spiriti. E grazie alla forza del Natale, che allieta i semplici e i poveri, i giusti e i puri di cuore, allontanando lo spettro delle loro paure e dell’inadeguatezza nei confronti del mondo. E può, così, riscattarsi. Un attimo prima che sia troppo tardi.
S.O.S. fantasmi, con Bill Murray, pellicola del 1988 che rivisita in chiave moderna l’avido dickensiano; e infine due curiosità nostrane, Non è mai troppo tardi (1953) con Paolo Stoppa arcigno misantropo, e Natale a casa Deejay (2004), recitato dai dj di Radio Deejay, primo film realizzato da un’emittente radiofonica... Un altro decisivo punto di forza del lungometraggio riguarda l’eccellente adattamento di Zemeckis, e l’assoluta fedeltà all’essenza del testo scritto. Ricordiamo brevemente la trama. Scrooge (Jim Carrey) si appresta alle feste natalizie con il solito disprezzo per lo sciupìo e l’inutile allegria che pervade l’intera umanità all’approssimarsi della ricorrenza. Vittime congeniali delle sue invettive sono: il contabile Bob Cratchit (Gary Oldman), al quale paga uno stipendio da fame, e il nipote Fred (Colin Firth), che lo invita, invano, a godersi il pranzo tradizionale in famiglia. Dopo una giornata di varie scontrosità elargite “gratuitamente” a tutti quelli che gli augurano il Buon Natale, lo sgradevole strozzino fa ritorno a casa. La frugale cena consumata davanti al focolare viene interrotta dall’arrivo di un terribile spettro: si tratta del socio e amico Joseph Marley (Oldman), defunto da sette anni, il
quale, mostrando a Scrooge le proprie catene, l’ammonisce a cambiar vita preannunciandogli la visita di tre fantasmi spaventosi nelle ore che precedono la “grande festa”. Puntuale come un orologio ecco lo Spirito del Natale Passato (Carrey) in sembianze di fiammella. Il fantasma scaraventa l'usuraio nel lontano passato, nelle immagini dell'infanzia, dell'adolescenza e dell'età matura. Scorrono davanti agli occhi del vecchio le scene della vita per le quali solo ora riesce a nutrire un certo rimpianto: la solitudine sui banchi di scuola, le premure di sua sorella Fanny, prematuramente scomparsa, l’impiego come apprendista contabile presso il benevolo Fezziwig (Bob Hoskins), l’amicizia con il collega Dick Wilkins (Cary Elwes), il ballo di Natale con Belle (Robin Wright Penn), e il triste abbandono della ragazza che avrebbe dovuto sposare. Scrooge, invece, aveva sposato il denaro. Disperato, tenta di spengere la luce dello spettro, ma ne rimane inondato… È la volta dello Spirito del Natale Presente (Carrey), un gigante rivestito di tuniche, che mostra a Scrooge la difficile situazione in casa Cratchit, e la grave malattia del piccolo Tiny Tim (Oldman). Poi una scena di festa a casa del nipote, dove Scrooge è fatto oggetto di scherno per via della sua irrimediabile
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Fiaba morale o racconto gotico, fantasy o satira, bozzetto vittoriano o novella realistica? Zemeckis e Dickens narrano la conversione del vecchio spilorcio: infine il bene che prevale sul male. Ma è Tiny Tim a pronunciare la battuta di commiato: “Dio ci benedica tutti”; e sui titoli di coda parte la voce di Andrea Bocelli con God Bless Us Everyone, pezzo composto da Alan Silvestri, autore della colonna sonora del film. La canzone è entrata a far parte della miscellanea natalizia in cd realizzata dal tenore toscano, e già disponibile in tutti i negozi di musica. A Christmas Carol Regia: Robert Zemeckis Con: Jim Carrey, Gary Oldman, Colin Firth, Bob Hoskins, Robin Wright Penn, Cary Elwes, Fionnula Flanagan Distribuzione: Walt Disney Pictures Durata: 96'
Un variegato campionario di… tirchieria!
C
repi l'avarizia? Meglio di no, vista la ricchezza e la varietà di tipi umani, avidi e spilorci, che affollano le letterature di ogni tempo e latitudine. In un'ideale galleria di personaggi accecati dalla cupidigia non si può che partire da Mida, il mitico sovrano anatolico investito da Dioniso del potere di trasformare in oro qualunque cosa toccasse. Ma è nel teatro greco e latino che viene spiegandosi una figura archetipa di avaro che diverrà ricorrente nella novella trecentesca e nella commedia dell'arte, e successivamente, nel romanzo del 1800, sia di stampo realistico che fantastico. Nell’Aulularia di Plauto, difatti, il vecchio Euclione trova una pentola piena di denaro e vive nel terrore che gli venga sottratta. La sua nevrosi è tale che finirà per provocargli la perdita delle ricchezze tanto gelosamente custodite. La commedia degli equivoci, nelle spoglie dell’astuto servo Strobilo, che ne sposerà la figlia, gli restituisce, alfine, il malloppo, in un epilogo piuttosto simile al Canto di Natale dickensiano, e a innumerevoli altri racconti. Tra le riduzioni per il cinema ispirate al capolavoro plautino la più spassosa rimane ancora 47 morto che parla (1950), farsa diretta da Carlo Ludovico Bragaglia da un soggetto di Ettore Petrolini, con Totò nelle vesti dell’avaro barone Antonio Peletti, del quale ricordiamo il proverbiale adagio: “E io pago... e io pago!”
Se, dunque, nel mndo classico la taccagneria è oggetto di scherno e mordace ironia, suscitando comicità e riso, il Cristianesimo ne drammatizza la valenza morale inserendola a pieno titolo nel settetto dei peccati capitali. Dante Alighieri colloca gli avari nel quarto cerchio dell’Inferno (canto VII) e nella quinta cornice del Purgatorio (canto XXI) specularmente ai prodighi, in quanto entrambi i gruppi sono stati mossi dall’irrefrenabile brama di accumulo delle ricchezze: gli uni per la mera tesaurizzazione, gli altri per il gusto dello sperpero. Sorprende la copiosa presenza, tra i peccatori, di papi, cardinali e uomini di Chiesa, alla quale, per mezzo dell’allegoria della lupa, Dante aveva più volte indirizzato le sue invettive più acute: “Maledetta sie tu, antica lupa, / che più che tutte le altre bestie hai preda / per la tua fame senza fine cupa!” (Purg. c. XX, vv. 10-12). Nel 1300 anche Boccaccio mira all’avidità come a uno dei bersagli preferiti dei suoi strali. Nel Decameron, assurto dalla critica letteraria a “epopea dei mercatanti” (Branca), il “tipo” del commerciante avaro, dedito al proprio tornaconto più che agli ideali etici e religiosi, si affaccia con prepotenza sul palcoscenico della storia. Ricordiamo, a proposito, la novella dedicata al facoltoso cittadino genovese Erminio de’ Grimaldi, meglio conosciuto come messer Erminio Avarizia, che lo scrittore di Certaldo così disprezza: “… E sì come egli di ricchezza
ogni altro avanzava che italico fosse, così d’avarizia e di miseria ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura”. Anche Shakespeare si serve di una cornice italiana per narrare la vicenda di uno degli usurai meglio riusciti della letteratura, l’ebreo Shylock, travagliato antieroe de Il mercante di Venezia, ove Antonio, ricco armatore, si fa prestare dallo strozzino tremila ducati offrendo in garanzia una libbra della propria carne, come richiesto dal giudeo. Sfortunatamente, le navi di Antonio, ricche di beni preziosissimi naufragheranno, così Shylock reclamerà quello sconveniente risarcimento davanti al Doge. Ma in tribunale il verdetto verrà capovolto giacché attentare alla vita di un mercante veneziano è un gravissimo reato punibile con la morte… Nel XVII secolo è Molière a disegnare con L’Avaro (1668) una figura esemplare di spilorcio. Nonostante la scarsa originalità della commedia, ispirata all’Aulularia di Plauto, da cui riprende alcune delle scene più famose, e aggiungendo, però, la rivalità amorosa tra padre e figlio, Molière mette in scena Arpagone, un ricco vedovo borghese in ansia per i diecimila scudi d’oro che conserva in casa, e che gli saranno sottratti al fine di realizzare due matrimoni d’amore. La pitoccheria del vecchio protagonista è tale da rinunciare a risposarsi con la giovane e bella Marianna pur di rientra-
“L’avarizia è un amore smodato di possedere” Cicerone, Tuscolane
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re in possesso del ben più adorato gruzzolo. Dell’opera di Moliere si ricorda l’omonima versione cinematografica di Tonino Cervi (1989), con Alberto Sordi nei panni dello strozzino Don Arpagone. Si tratta di una pellicola che si concede molte libertà rispetto al testo teatrale, ma che conserva ugualmente svariati momenti di comicità. Con Carlo Goldoni torniamo al teatro e all’ambiente borghese della città lagunare. La maschera di Pantalone, ispirata al modello del mercante veneziano avaro e lussurioso è una delle più longeve della commedia dell’arte, tuttavia, con la riforma goldoniana del Settecento il personaggio viene smussato assumendo i toni più rassicuranti di un padre burbero e conservatore, seppur taccagno, come possiamo osservare ne I Rusteghi, o nel celeberrimo Sior Todero brontolon. Honoré de Balzac introduce il grande romanzo realista ottocentesco. La sua monumentale Commedia Umana ha l’ambizione di descrivere compiutamente la società francese della prima metà del XIX secolo. Perciò non poteva mancare in questo vasto repertorio di caratteri il ritratto di uno spilorcio, anche stavolta un uomo maturo, protagonista di una storia intitolata alla propria figlia: Eugenia Grandet, suo malgrado costretta a vivere un’esistenza grama. Papà Grandet, infatti, un vecchio vignaiuolo arricchitosi grazie alla cospicua eredità paterna, e ai mirati investimenti finanziari, è refrattario a ogni tipo di spesa, al punto da condurre una vita miserabile e trascinando nel baratro della sua grottesca ossessione l’intera famiglia. Era tale il suo attaccamento all’oro che - racconta Balzac - “sembrava aver comunicato il suo colore al suo viso”. Anche il Canto di Natale, considerato Charles Dickens, attento osservatore della stratificazione della società vittoriana, e nonostante gli
evidenti richiami fantastici, può essere considerato come un’opera ascrivibile nella vasta corrente realistica europea dell’Ottocento, accanto ai grandi classici francesi e russi. In Italia bisognerà attendere la fine del secolo, Giovanni Verga e il “verismo” per ritrovare un vivo interesse per un’umanità bramosa e indigente, e una certa considerazione per il disagio sociale e individuale di quelli che lo scrittore siciliano aveva definito “i vinti”. Lo zio Crocifisso de I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo e Mazzarò, personaggio principale della novella La roba, rappresentano l’avidità materiale che si trasforma in mania, in vera e propria fissazione per i beni mobili e immobili, per il denaro, ma anche per le terre, il bestiame, il mobilio, fino al tormento di non poter portare con sé nell’aldilà tutte le proprie cose. Il motivo della “roba” finisce, così, per assumere i contorni della sacralità, per via della venerazione idolatra che induce negli avari, e della tragedia, a causa dell’inevitabilità del distacco fisico da essa. Il ritratto dell’avaro dal XX secolo fino ai nostri giorni si è evoluto al punto da essere incarnato in uomini di enorme popolarità e straordinaria ricchezza. I capitani d’industria e i grandi finanzieri, i petrolieri e gli imprenditori dell’informatica hanno scalzato dall’immaginario collettivo moderno la figura gretta e sparagnina del vecchio genitore attaccato ai propri beni, del bifolco sudicio e miserabile o del burocrate tirchio e trasandato. Ecco perché la letteratura non ha prodotto spilorci memorabili, eccezion fatta per il racconto animato, e a fumetti, dove, invece, si è imposto un personaggio moderno - con illustri ascendenze - e antico per quanto concerne il vizio di cui stiamo discorrendo. Si tratta del celeberrimo Paperon de’ Paperoni (Scrooge McDuck in lingua originale), “il papero più ricco del mondo” nonché zio stramiliardario di Paperino, ideato nel 1947. È uno dei personaggi del bestiario Disney
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che ha riscosso il maggior successo fino a essere considerato tra i più amati del mondo, malgrado la sua infinita spilorceria, ricalcata sul modello di Scrooge, lo abbia reso, agli inizi, tutt’altro che simpatico. La vita di Paperone è contrassegnata da azzeccati investimenti ed enormi successi economici in concorrenza con il rivale Rockerduck, dalla conta delle proprie infinite ricchezze custodite nel deposito di Paperopoli, e dalla sua inarrivabile tirchieria. Oltre all’antieroe del Canto di Natale la biografia di Paperone è stata probabilmente ispirata anche alla vita di Andrew Carnegie (1835-1919), un importante magnate - e filantropo - americano emigrato dalla Scozia, al quale dobbiamo una stilla di saggezza che adoperiamo volentieri a conclusione di questo breve viaggio nell’avarizia: “Non è una vergogna diventare ricchi. Ma è una vergogna morire ricchi”.
schede film
Claudio Lugi
Favole e Incantesimi sulle sponde del Mississipi
“Quando suono, penso a quei momenti del passato e dentro di me nasce una visione. Una città, una ragazza lontani nella memoria, un vecchio senza nome incontrato in un posto che non ricordo. I suoni che escono dalla tromba di un uomo, sono parte di lui.” Louis Armstrong Nella galleria delle eroine Disney di quest’ultimo decennio abbiamo ammirato un’orgogliosa pellerossa, Pochaontas, mostrare la simbiosi degli indiani d’America con la Madre Terra; la suadente gitana Esmeralda (ne Il gobbo di Notre Dame), insegnare a rispettare la diversità, intesa come un valore, una ricchezza del genere umano; l’esile cinesina Mulan, esempio della forza di volontà e della dedizione, della virtù e della dignità del genere femminile. Tiana, ultima in ordine di arrivo, ha l’onore di rappresentare la prima protagonista afro-americana di un lungometraggio animato della casa di Topolino: La Principessa e il Ranocchio. Un segno della coerenza della Walt Disney, oppure dell’influenza empatica della Presidenza Obama? Dal canto nostro riteniamo entrambe le opzioni altrettanto decisive. Ma ciò che maggiormente colpisce di questo quarantanovesimo “Classico” degli Studios di Paperino è il ritorno, dopo qualche anno, all’animazione disegnata a mano, con profluvio della gamma dei colori, forme tondeggianti e tratti stilizzati, in osservanza a una tradizione che non ha dimenticato, in tempi di strapotere digitale, i fasti e la bontà di produzioni come Biancaneve e i sette nani e Fantasia, Cenerentola e La Carica dei 101, Il re leone e La Bella e la Bestia…
(già registi de La sirenetta e Aladdin) poteva suggellare il recupero dell’atmosfera calda e sognante dei tanti cartoni tratti dalle storie più belle e popolari del mondo? La Principessa e il Ranocchio, in uscita sugli schermi italiani a partire dal 18 dicembre, si appresta, così, a rappresentare l’ennesima scommessa vincente della Disney. La vicenda descritta è basata sulla fiaba de Il principe ranocchio dei Fratelli Grimm, tuttavia, il racconto contiene pure alcune interessanti varianti tratte dal libro per bambini Incantesimi, baci, ranocchi & principesse (The Frog Princess), della scrittrice statunitense E. D. Baker. New Orleans e il bacino del Mississipi, l’età del proibizionismo (gli anni Venti) e la musica jazz contrassegnano l’ambientazione spazio temporale di questa emozionante favola musicale. Tra i balconi di ferro battuto e le caratteristiche strade del Quartiere Francese si aggira Tiana, una ragazza affascinante, dai sani principi e dal carattere saldo, che lavora duramente per realizzare un sogno che era già appartenuto al padre: aprire un ristorante di successo. Ma è appena giunto in città, accompagnato dal valletto Lawrence, il bel Principe della Maldonia, Naveen, una sorta di “giovin signore” di pariniana memoria: viziato e indolente, però attraente, e sinceramente incantato dalle calde sonorità della Louisiana.
Chi meglio di John Musker e Ron Clements
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Le prerogative e le ricchezze di questo rampollo della nobiltà finiscono per attirare il sordido Dottor Facilier, un malvagio stregone voodoo, il quale, lo trasforma in ranocchio. Naveen, seppure angustiato, è consapevole delle tradizioni fiabesche, e pertanto si mette alla ricerca di una principessa che possa affrancarlo dal maleficio. Trova Tania, alla quale implora il bacio salvifico. Ma qualcosa va storto e il bacio concesso produce l’immediata trasformazione della bellissima creola in una “verdissima rana”. Accomunati dalla medesima sorte i due anfibi cercheranno di liberarsi dell’incantesimo raggiungendo una misteriosa maga buona, Mama Odie, sacerdotessa voodoo di 197 anni. Però, nel golfo della Louisiana non è facile sfuggire neppure alle insidie dei cacciatori di rane. Per fortuna, in quest’avvincente odissea tra le paludi i due giovani saranno aiutati da una romantica lucciola cajun di nome Ray, e dal buffo alligatore trombettista Louis (un chiaro omaggio al mitico “Satchmo”, ossia, Louis Armstrong). L’avventura, costellata di ostacoli e imprevisti, limerà un poco alla volta le innegabili differenze sociali (Tania non è di sangue blu) e caratteriali della coppia, trasformandosi in una commedia sentimentale “colorata” dalle melodie delle canzoni, e dai ritmi del blues e del ragtime, del gospel e del jazz, tutti com-
Per tutte le Scuole posti dal grande Randy Newman, già autore di alcuni dei successi Pixar (Toy story, Cars…), di pellicole celebri come Ragtime di Milos Forman e Il migliore di Barry Levinson, nonché vincitore dell’Oscar 2002 per Monsters & Co. Il perfido Facilier, servendosi delle “forze ultraterrene”, tenterà d’impedire la soluzione dell’incantesimo, ma in un finale scoppiettante che si svolge durante il tradizionale martedì grasso di New Orleans, la vicenda troverà il suo scioglimento, che naturalmente ci asteniamo dal suggerire per non guastare la sorpresa agli spettatori, grandi e piccini, che affolleranno le sale per le prossime festività natalizie. Oltre alla novità della sceneggiatura, che stravolge la fiaba originale, che narrava la storia di una giovane incapace di mantenere le promesse e di rispettare il patto stabilito con un ranocchio, il film si giova di una messinscena che accentua sia le tinte notturne che la tavolozza carnevalesca, procurando un innegabile piacere visivo. Inoltre, i frequenti intermezzi musicali arricchiscono il racconto al punto da saldarsi indissolubilmente ai momenti divertenti, drammatici o sentimentali che si susseguono durante il cartone animato. Esemplare, a tale proposito, l’inno all’amore indirizzato da Ray a Evangelina, la lucciola più bella dell’universo, o gli assolo di tromba del simpatico coccodrillo sui vaporetti che
solcano il delta del Mississipi. Tra i personaggi che popolano la storia meritano una citazione i genitori di Tiana: James ed Eudora. Lui ha trasmesso alla figlia l’amore verso il buon cibo, mentre lei è madre esemplare, e sarta raffinata, che offre le sue prestazioni nella casa del ricco piantatore “Big Daddy”, e della figlia di questi, Charlotte, la migliore amica di Tiana. Comunque, il carattere più curioso del film è costituito dall’ultra centenaria Mama Odie, maga saggia e stravagante che vive su un vecchio battello legato a un albero gigantesco. Essendo cieca, viene assistita da Zuju, un serpente addomesticato che le permette di vedere e di soccorrere le persone bisognose dei suoi prodigi. Con il successo di Up, e con la recentissima uscita di A Christmas Carol, ecco La Principessa e il Ranocchio a completare un trittico di animazioni decisamente differenti tra loro dal punto di vista tecnico, ma unite da un medesimo intento: quello di continuare a fabbricare storie di qualità che costituiscono l’alimento principale dei sogni, soprattutto dei bambini e degli adolescenti. È quello che i Walt Disney Animation Studios fanno da diversi decenni. Stavolta l’identificazione con un personaggio positivo come Tania comprende l’adesione ai canoni di una donna più moderna, meno dipendente dai capricci del solito principe azzurro.
La ragazza lotta per realizzare i suoi desideri, con il lavoro e la determinazione, tenendo sì in gran conto la propria bellezza, ma al tempo stesso mantenendo il proprio orgoglio di appartenenza alla nazione afroamericana, che per nessuna ragione al mondo merita di essere posto in subordine. Ma questa sua indipendenza verrà poco a poco a vacillare a causa del mutato sentimento per Naveen, il quale, si rivelerà migliore di quello che era sembrato: è lui, difatti, che le insegna a rilassarsi, ad accettare gli altri così come sono, e a godersi la vita, nella sua semplicità e nella sua quotidiana meraviglia… con un personaggio positivo come Tania comprende l’adesione ai canoni di una donna più moderna, meno dipendente dai capricci del solito principe azzurro. La ragazza lotta per realizzare i suoi desideri, con il lavoro e la determinazione, tenendo sì in gran conto la propria bellezza, ma al tempo stesso mantenendo il proprio orgoglio di appartenenza alla nazione afroamericana, che per nessuna ragione al mondo merita di essere posto in subordine. Ma questa sua indipendenza verrà poco a poco a vacillare a causa del mutato sentimento per Naveen, il quale, si rivelerà migliore di quello che era sembrato: è lui, difatti, che le insegna a rilassarsi, ad accettare gli altri così come sono, e a godersi la vita, nella sua semplicità e nella sua quotidiana meraviglia…
La Principessa e il Ranocchio (titolo originale: The Princess and the Frog) Regia: John Musker e Ron Clements Distribuzione: Walt Disney Pictures Durata: 97'
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Claudio Lugi
“Sono nato lungo il fiume in una piccola tenda e proprio come il fiume sin d’allora non faccio che correre […]” Sam Cook, A change is gonna come
New Orleans, l’anima nera del jazz. E del cinema Il diluvio annunciato si è abbattuto su New Orleans come una nemesi. Una metropoli costruita in massima parte sotto il livello del mare, e circondata dalle acque: la palude, il lago Pontchartrain, il Mississippi, “grande fiume padre”. Tutti destinati a tracimare e sommergere intere regioni, come ha dimostrato nel 2005 il catastrofico uragano Katrina. La sorte benevola, e la collina sulla quale era stato edificato nel 1718, hanno risparmiato in buona parte il quartiere turistico, la vecchia anima francese della città, la vetrina, il salottino della dolce vita e degli stereotipi che ne hanno alimentato a lungo il mito. New Orleans è chiamata “The Big Easy”, città facile - con un pizzico d invidia mista a commiserazione - negli Stati Uniti. A causa delle sue origini latine e meticce, per il suo spirito straniero e ribelle derivato dagli schiavi neri e dalla comunità francofona (i Cajun, in primo luogo), per la sfrontatezza con cui esibisce templi e bordelli, santi e streghe, la cattedrale di San Luigi e il Museo Voodoo, per la magia che scaturisce dall’architettura vittoriana che sa di unto e pestilenze, e da quelle strade afose e promiscue, viziose e immorali, che hanno ispirato tutta la musica del ‘900, da Louis Armstrong, nato qui nel 1901, a Mahalia Jackson, da Fats Domino a Wynton Marsalis... Una rassegna della cinematografia USA su questa metropoli esotica e “straniera” che gli Americani accettano a fatica - e che forse hanno rinunciato a voler capire - richiederebbe lo spazio di un volume ponderoso. In questa sede, tuttavia, tenteremo una breve ricognizione su un’area e su ambientazioni congeniali tanto al noir d’autore che al poliziesco, al thriller giu-
diziario e a quello esoterico, al dramma storico sociale come alla spy-story, al lungometraggio musicale e alla commedia brillante, e ora, con La Principessa e il Ranocchio, alla fiaba animata. Non è infrequente in questo cinema il riferimento al folklore cittadino, arma decisiva, che se usata con giudizio può costituire uno sfondo di grande interesse per la riuscita di un film. Si pensi, ad esempio, ai cortei funebri in Bourbon Street a ritmo di musica in Agente 007-Vivi e lascia morire (Live and Let Die, 1973), il primo James Bond di Roger Moore, nobilitato anche da una eccezionale sequenza d inseguimento tra motoscafi (nulla di digitale!) tra le paludi che circondano la città, che riscatta la paccottiglia voodoo del finale, e dalla bella canzone di Paul McCartney che scorre sui titoli di testa e su quelli di coda. In tema di processioni, come non citare quelle sontuose in occasione del Capodanno, o del “Mardi Gras”, ultimo giorno di Carnevale, durante il quale splendide ragazze si affacciano ai balconi in ferro battuto del Quartiere Francese e scoprono il seno per il piacere dei festanti. Uno scenario ideale per un filmetto d’evasione - che naturalmente rinuncia a esibire le dette grazie femminili - a ritmo di danze e canzoni di Pat Boone: Martedì grasso (1958). Comunque, il lungometraggio che meglio rappresenta l’atmosfera festosa, e al tempo stesso cupa del Carnevale, è senz altro Il trapezio della vita (1958), un suggestivo melodramma di Douglas Sirk ispirato al romanzo Oggi si vola di William Faulkner. Ritratto di New Orleans nel periodo della Depressione, la storia è incentrata su un vecchio aviatore (Robert Stack) che vive con i guadagni di pericolose gare acrobatiche, e che
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non esita a spingere la moglie (Dorothy Malone), vinta a dadi (!), tra le braccia di un altro, pur di acquistare un nuovo aeroplano con cui riprendere a volare. L’epilogo, come s’intuisce, è tragico, ma il contrappunto tra dramma e avventura, ben sintetizzato dalle scene carnevalesche, costituisce un ammonimento contro le insidie dei falsi miti, una lettura malinconica e pessimista della società americana tra gli anni Venti e Trenta, ancor più significativa in quanto elaborata un trentennio più tardi, in un periodo di grande sviluppo economico, sociale e culturale. L’anima musicale di New Orleans è raccontata in diverse pellicole uscite fra la metà degli anni Quaranta e i primi anni del decennio successivo. Si tratta di film non particolarmente felici nella sceneggiatura, ma decisivi nel proporre immagini e suoni dell’età d’oro del jazz. Ecco allora Stella nel cielo (1942), ovvero la carriera del giovane trombettista bianco Jackie Cooper nel periodo in cui il jazz passò da New Orleans a Chicago, con una jam session finale straordinaria, e La città del jazz (1947) in cui la narrazione delle origini e dello sviluppo di questo genere musicale è assolutamente sovrastata dalla presenza e dalle performance di Louis Armstrong e di Woody Herman con le rispettive orchestre, nonché dalla voce sublime di Billie Holiday che esegue Do You Know What It Means to Miss New Orleans. Per il resto prevalgono le immagini stereotipate di una città alla deriva, una sorta di sordida frontiera popolata da pugili e marinai, pirati e prostitute, poliziotti corrotti e belle cameriere, giocatori di carte e artisti squattrinati, loschi sacerdoti voodoo e coltivatori schiavisti, intellettuali storditi dall’alcool e
dall’afa e caparbi investigatori… Tuttavia, val la pena nominare alcuni dei lungometraggi che hanno saputo cogliere lo spirito di questi luoghi magici. Diretto da Alan Parker, con un luciferino Robert De Niro e con Mickey Rourke nei panni di un detective impregnato di whisky, Angel Heart (1987) riesce a sedurre visivamente miscelando inquietanti riti voodoo ed erotismo, scene d’azione e musica sofisticata. Ben più ambizioso risulta Intervista col vampiro (1994), diretto da Neil Jordan, una trasposizione non perfettamente riuscita del romanzo omonimo di Anne Rice: ricco e ridondante nel cast artistico (Tom Cruise, Brad Pitt, Kirsten Dunst, Antonio Banderas…) e tecnico, come nella suggestione visiva, è un horror di vampiri condannati all’eterna giovinezza e a un tributo infinito di sangue, i quali incarnano la smania inarrestabile dell’americano conquistatore. Curioso ricordare che Sting, due anni prima dell’uscita del film, aveva composto la struggente Moon over Bourbon Street ispirata al medesimo libro. Anche Il grande peccato (1960) è tratto da uno dei libri più densi e tragici di quel “poeta delle anime primitive, oscure e dannate” come è stato definito da un critico Faulkner: Santuario (1931), che però non ha trovato ancora una degna riduzione cinematografica. Ben altro peso specifico possiedono La via del male (1958), in cui Michael Curtiz dirige un buon cast con l’ispirato Elvis Presley nei panni di un bus driver di New Orleans che grazie alla musica (buon assortimento di canzoni) dà un calcio alle sirene che sembravano portarlo alla delinquenza, e soprattutto, Cincinnati Kid (1965), ritratto della New Orleans degli anni Trenta (con annesse scene di un funerale musicale), con un cast stellare. La vicenda è imperniata sulla sfida tra due assi del poker scoperto, il giovane e il veterano (Steve McQueen ed Edward G. Robinson), ritratti in una partita memorabile, che è rimasta negli annali della cinematografia. Il blues malinconico della chitarra di Ry Cooder, invece, è il sottofondo ideale di un ottimo film di Walter Hill sul tragico fatalismo che resta appiccicato addosso agli emarginati e ai disperati di New Orleans: Johnny il bello (1989), la storia di un rapinatore dal volto deforme (l’ottimo Mickey Rourke), il quale, riacquistata la normalità grazie a un complicato intervento chirurgico, sceglie la strada della vendetta a quella di una nuova vita. Altrettanto raffinato per la messa in scena e per la forte vocazione letteraria dello script, farcito di citazioni da Carson McCullers, Flannery O’Connor o dai versi di Dylan Thomas, e impregnato di Twain e Faulkner, Una canzone per Bobby
Long (2004), diretto da Shainee Gabel; è una pellicola indipendente che parla di una famiglia spezzata, e del tentativo di creare una rete di affetti che in qualche misura la sostituisca. È anche la storia di una figlia (Scarlett Johansson) che torna nella casa di New Orleans dopo la morte della madre, e di un padre, Bobby Long (John Travolta), una sorta di alter ego della città, un uomo perso nel turbine dell’alcool e del rimpianto per il tempo trascorso. Uno scenario lirico, di canzoni, di note magiche e malinconiche, di lunghi meriggi caldi, di storie intime ed epiche al tempo stesso. Un elogio alla lentezza del profondo Sud. Infine, l’opera che, a nostro parere, fotografa meglio l’anima antica e moderna di una città che sopravvive in bilico tra il fatalismo epico e nostalgico del vecchio Sud e i falsi miti del sogno americano aggiornati alla realtà contemporanea: Daunbailò (Down By Law, 1986) di Jim Jarmusch, un lungometraggio “minore” in cui l’ironia e la vena spleen rievocano il tono dell’avventura picaresca. A New Orleans Zack, un dj vagabondo (Tom Waits), e Jack, un protettore da quattro soldi (John Lurie), finiti in una trappola, sono raggiunti in galera, la Parish Prison, da uno stralunato turista italiano (Roberto Benigni) con un bizzarro slang anglo-toscano, il quale ha commesso un omicidio con un palla da biliardo. I tre reclusi solidarizzano al punto da progettare un’audace evasione. Inseguiti per i boschi e le pericolose paludi che circondano la città, riusciranno a far perdere le proprie tracce e a ripararsi in una strana locanda abitata da una dolce fanciulla italiana (Nicoletta Braschi) che trattiene Roberto, e aiuta gli altri due a sconfinare. Un po’ fiaba surreale, un po’ commedia dark, Daunbailò è un inno alla libertà, non solo per il tema della fratellanza che nasce dal curioso sodalizio, ma per via di una scelta di regia che lascia agli interpreti uno spazio larghissimo per l’improvvisazione, che talvolta produce stralunati silenzi, ma più spesso - grazie a un Benigni in stato di grazia - regala momenti buffoneschi e ironici in cui anche il nonsenso acquista la dignità di un simpatico gioco che vale la pena tentare. Come nella memorabile s c e na t ra l e sbarre in cui Roberto dirige tutto il braccio della prigione al grido di “I scream, you scream, we all scream for ice cream” o quando descrive ai compagni di cella la dinamica del suo delitto involontario.
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Ma anche John Lurie, autore della musiche, e Tom Waits, roco interprete dello struggente blues d’apertura (Jockey full of bourbon), appaiono ispirati e felicemente trascinati nella divertita atmosfera innescata da Jarmush e accesa dal folletto di Castiglion Fiorentino... La luce è un altro dei protagonisti decisivi di questo film, girato in un bianco e nero magico, che evoca i mitici polizieschi di serie B degli anni ’40 e ’50 o i romanzetti a puntate usciti sui giornali della sera. Appena “colorato” da una musica sospesa tra il jazz e il blues, Daunbailò si culla in un’aria malinconica in cui gli uomini, naufraghi destinati a un’esistenza di solitudine, vagheggiano “un’età dell’oro” in una remota terra promessa, o sognano misteriose donne di confine in cui perdersi. Del resto, come dichiara Roberto a Zack: “Non è questo un mondo triste e bello?”
schede film
Nicoletta Gemmi
Diva
Olly
Cilindro
Portatile
Senzanome Pio
Cuccioli – Il Codice di Marco Polo Presentato recentemente alla Conferenza Generale dell’Unesco a Parigi, come esempio di progetto finalizzato a promuovere la coscienza ambientale fra i giovani, Cuccioli – Il Codice di Marco Polo è il primo lungometraggio d’animazione completamente italiano incentrato sulla salvaguardia del mondo in cui viviamo. Ce lo presentano i suoi autori: i fratelli Francesco e Sergio Manfio.
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rotagonisti i sei Cuccioli tanto amati dai bambini di tutto il mondo, nati dalla creatività di Francesco Manfio e Sergio Manfio, che firma anche la regia, e dalla matita del grande disegnatore Giorgio Cavazzano. I Cuccioli questa volta saranno impegnati in una difficile missione ambientalista: salvare Venezia dalle macchinazioni dell’implacabile Maga Cornacchia che vuole prosciugare la laguna per trasformarla in una città come tutte le altre, con le strade al posto dei canali e motorini e macchine a soppiantare gondole e barche. Il Codice di Marco Polo è l’ambita chiave per risolvere il mistero centrale del film, che procede tra avvincenti indagini, inseguimenti mozzafiato, viaggi intorno al mondo e colpi di scena per un emozionante racconto animato in cui non mancano divertenti citazioni cinematografiche dai Blues Brothers a 007, da Harry Potter a L’Era Glaciale. Una storia appassionante che affronta il tema della tutela dell’ambiente e dell’acqua coniugando la coscienza ecologista con i valori dell’amicizia e della solidarietà, lo spirito ambientalista con l’avventura. Un film che con le sue gag strizza l’occhio alla commedia senza perdere di vista l’attualità. Per affrontare que-
sta impegnativa sfida i Cuccioli, richiamati a Venezia dal cane Portatile e dal pulcino Senzanome, interrompono le loro attività: Diva, la papera sfrontata, sta calcando le passerelle delle sfilate di Parigi per inseguire il sogno di diventare una top model; il coniglio Cilindro ha trovato lavoro come bodyguard di una star di Hollywood; il ranocchio Pio, aspirante attore, sta facendo un provino per il reality “Il Grande Nasello” e la gattina Olly mette la sua abilità a disposizione della Polizia di Chicago. Cuccioli – Il Codice di Marco Polo è stato interamente realizzato presso la factory di animazione Gruppo Alcuni a Treviso, una delle realtà produttive più vitali e innovative nel mondo dell’animazione che, con uno studio di produzione di cartoni animati, un team che si occupa di trasmissioni televisive, un’attività editoriale e musicale, si colloca tra le maggiori strutture multimediali europee di produzione per l’infanzia. Il film – una produzione Gruppo Alcuni con gli spagnoli del Gruppo Edebé – è stato realizzato in 3D, venduto in 21 Paesi e uscirà nelle sale italiane il 22 gennaio 2010 distribuito da 01 Distribution. Ne abbiamo •
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parlato con il regista Sergio Manfio e con il fratello Francesco Manfio che ha partecipato alla sceneggiatura e si è occupato della produzione della pellicola. Come nasce questo film e che attinenza ha con la serie Cuccioli che va in onda su Rai2? Sergio Manfio: La sceneggiatura ha avuto una stesura che è durata circa un anno. Ovviamente il film ha un’attinenza con la serie televisiva, perché i personaggi sono gli stessi e avendo ottenuto un notevole successo sul piccolo schermo abbiamo pensato di rilanciare questi protagonisti anche in un lungometraggio con un diverso respiro narrativo. La sceneggiatura si è concentrata sull’idea di far vivere i Cuccioli all’interno di una lunga avventura che ha il suo svolgimento e la sua conclusione a Venezia, passando attraverso l’Himalaya e un’oasi nel deserto, luogo nel quale i Cuccioli troveranno una pietra – e questo è un riferimento che abbiamo preso da Il Milione di Marco Polo, dove lui racconta di una pietra ricevuta dal Gran Khan. Questo oggetto, inserito all’interno di un pavimento della più antica biblioteca di Venezia,
Scuole elementari - medie permetterà ai Cuccioli di trovare, appunto, Il Codice di Marco Polo, la chiave per risolvere i problemi a cui sta andando incontro Venezia a causa di Maga Cornacchia. E’ un film per bambini, ma per quale età è stato pensato e su quali aspetti avete maggiormente lavorato? Sergio Manfio: Il target della serie è un target che, originariamente, si colloca intorno all’età dei bambini delle scuole elementari. Il film per certi versi cerca di spostare l’età verso gli otto/ dieci anni, anche se rimane perfettamente leggibile per un bambino di cinque anni. Quindi diciamo che la fascia di età oscilla dai 5 ai 10 anni, loro sono il nostro riferimento. Siccome poi i Cuccioli, nonostante il nome, non vivono avventure così elementari, crediamo di avere sviluppato un racconto che possa essere tranquillamente recepito sia da un bambino piccolo che da uno più grandicello. Cuccioli non è soltanto un film per bambini nel senso etimologico, dato che è evidente che è fatto per loro, ma la cosa importante è che abbiamo cercato di scrivere tenendo ben presente la nostra esperienza che è quella di autori teatrali per bambini. Noi infatti abbiamo iniziato la nostra attività facendo spettacoli di teatro per i più piccoli, oramai abbiamo una esperienza trentennale in questo campo, abbiamo scritto oltre 100 spettacoli e li abbiamo rappresentati
in tutti i teatri d’Italia. Pertanto sappiamo per esperienza che nelle storie indirizzate ai più piccoli occorre stare molto attenti allo sviluppo narrativo perché il bambino si concentra sulla storia e accetta con qualche difficoltà tutte le divagazioni e le digressioni, che sono tipiche della comicità di alcuni film di animazione. In particolare ci riferiamo ai prodotti americani nei quali si perde un po’ di vista, in alcuni momenti, il senso della storia - o addirittura la storia rimane molto marginale rispetto a quello che vediamo – e si cerca di strizzare l’occhio al pubblico adulto, inserendo delle battute che un bambino - per esperienza – sappiamo non gradisce. Non le apprezza perché non le capisce, oppure, cosa più importante, lo allontanano dal senso di quello che gli si sta narrando. Ci siamo resi conto, provando anche a raccontare il film ai bambini, che erano molto più interessati a sapere quello che accadeva, evento dopo evento, che non a valutare se un personaggio fosse impiegato per una gag. In questo caso ottieni una risata ma allontani il tuo spettatore dallo storyline del racconto. Quale messaggio vi interessava maggiormente mettere in evidenza per il pubblico che vedrà Cuccioli? Ambiente, ecologia, amore per gli animali… Sergio Manfio: Il film recupera i valori
Francesco Manfio e Sergio Manfio
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Diva
Senzanome
proposti dalla serie televisiva, a cominciare dalla cooperazione tra i protagonisti che propongono una tipologia di caratteri facilmente abbinabili a quelli dei bambini. Olly è la gattina coraggiosa che identifica il coraggio che è presente in ogni bambino; Portatile, che è il cane, è un animale molto riflessivo al quale piace molto leggere e che interpreta la voglia di scoperta; Diva che è la papera vanitosa, rappresenta l’aspetto narcisistico delle bambine, molto attente alle mode, anche se questo aspetto viene visto con ironia, mentre con il coniglio Cilindro, abbiamo rappresentato quei tentativi dei bambini di mettersi in mostra, facendo anche delle figure barbine, e infine con Senzanome che è il pulcino che non parla, volevamo evidenziare l’intelligenza dei più piccoli che si manifesta anche senza dover comunicare. Francesco Manfio: Aggiungerei a questo proposito che Senzanome non parla ma alza solo dei cartelli fornendo delle soluzioni geniali e creative. Sergio Manfio: Quindi diciamo che sono tutte tipologie di animali nei quali i bambini riconoscono facilmente alcuni lati del loro carattere, sia in positivo che in negativo. Nella serie i Cuccioli hanno una antagonista che è Maga Cornacchia. Lei è la protagonista negativa del film, ed è importante sottolineare che gli scontri che avvengono fra di loro non sono basati sulla sopraffazione, sullo scontro fisico, ma sulla capacità creativa, sull’abilità e sull’astuzia che i Cuccioli mettono in atto per cercare di vincere questa sfida con il Male. Lo storyline del film – cioè il tentativo di Maga Cornacchia di prosciugare Venezia e trasformarla in una città uguale se non peg-
giore delle altre – può offrire due chiavi di lettura. La prima è il tentativo malvagio di trasformare il non convenzionale in qualcosa di convenzionale, ovvero la non accettazione della diversità in senso astratto. Il secondo aspetto è la sottolineatura dell’importanza dell’acqua, un bene di tutti che è fondamentale che rimanga tale. Infatti nel film Maga Cornacchia vuole prosciugare Venezia e arriva ad affermare: “Una volta che prosciugherò Venezia l’unica acqua che si troverà sarà quella minerale”. Un argomento anche molto attuale dato che è appena uscita la proposta di privatizzare l’acqua… Ecco noi non lo sapevamo quando abbiamo cominciato a scrivere la sceneggiatura ma questo rende ancora più forte l’importanza che ha invece questo elemento vitale nell’esistenza di ognuno di noi. Francesco Manfio: L’interesse per l’acqua per noi è sempre stato presente, dato che abbiamo anche un altro progetto televisivo che si chiama H2Ooooh! che nasce dalla voglia di sensibilizzare i bambini sul tema di una risorsa così importante per la vita. Sergio Manfio: Più sinteticamente il messaggio è un concetto di cooperazione e amicizia tra un gruppo di animali che, come abbiamo spiegato prima rappresentano le varie tipologie degli esseri umani, e il fatto di vivere assieme consente loro di risolvere un problema e trovare la soluzione osservando ciò che è accaduto e unendo le loro forze. Questa è la via giusta da parte dei Cuccioli per affrontare il mistero che li vede coinvolti, che devono interpretare, e per il quale devono trovare una soluzione. E Venezia, in •
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quanto città diversa che non viene accettata dal cattivo di turno, diventa metafora della non accettazione del diverso in senso più astratto, del rifiuto a priori di quello che non conosciamo proprio perché non ci riconosciamo. Ecco, questo aspetto del film sarà chiaramente molto interessante anche per i genitori che accompagneranno i bambini a vedere il film, perché sia adulti che bambini possono riflettere su questo problema, mai così attuale come di questi tempi, di tutto ciò che è “altro” da noi, Ho letto che siete particolarmente orgogliosi della colonna sonora, realizzata in collaborazione tra l’altro con l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, ci spiega meglio il perché e come ci avete lavorato? Francesco Manfio: Noi abbiamo cercato di fare un film che, per quanto con budget europei, non lesinasse però i costi su nulla. Abbiamo lavorato al massimo delle nostre possibilità tenendo sempre presente per prima cosa la qualità. Anche il discorso della colonna sonora rientra in questa ottica. Quindi abbiamo voluto per il nostro film solo musiche originali, tutte le canzoni sono state scritte appositamente per la pellicola e abbiamo fortemente voluto questa grandissima orchestra formata da strumentisti di eccelsa qualità che hanno lavorato al nostro fianco per parecchio tempo. Il risultato è straordinario, e molto attento ai particolari. Un’altra prestigiosa collaborazione è con gli Ska-j, un gruppo che nasce da una costola dei Pitura Freska. Quando i Cuccioli incontrano un vecchio gondoliere che gli racconta del Codice di Marco Polo la canzone è cantata da loro,
Scuole elementari - medie che essendo veneziani doc e avendo sempre cantato in dialetto, si rivelano perfetti per quella determinata scena. Gruppo Alcuni e la factory a Treviso. Ci raccontate chi siete e da dove venite? Francesco Manfio: Il gruppo nasce nel 1973 occupandosi principalmente di teatro: spettacoli teatrali per ragazzi ma non solo per loro. In seguito abbiamo iniziato ad occuparci di multimedialità, termine che negli anni settanta non era stato ancora coniato, ma per noi significava allargare i nostri orizzonti all’editoria, ai fumetti, alla televisione e per ultimo al cinema. C’è stato anche un momento nel quale i personaggi dei nostri spettacoli teatrali erano protagonisti anche di un fumetto sul Corriere dei Piccoli e poi su Topolino. Abbiamo cominciato a produrre un programma televisivo – e lo facciamo ancora – che si chiama Ciak Junior e che va in onda su Canale 5 tutte le domeniche, con storie scritte dai ragazzi e realizzate da varie equipe nel mondo, tanto che attualmente si realizza anche in Cina, in India e in Sudafrica. Una quindicina di anni fa abbiamo cominciato ad occuparci di cartoni animati fino ad arrivare ad oggi, che siamo presenti in 52 paesi del mondo, con programmi come Cuccioli che va su Rai2, poi Leonardo ed Eppur si muove. E devo dire che in quasi tutti i paesi in cui va in onda Cuccioli è la serie che ha più successo e non parlo solo di
ascolti ma proprio di gradimento da parte degli spettatori, tanto che questo ci ha spinto a realizzare il lungometraggio Cuccioli – Il Codice di Marco Polo che uscirà il 22 gennaio 2010. Stiamo preparando una nuova serie che si chiama Slash per i ragazzini un po’ più grandicelli, stiamo lavorando alla seconda serie di Leonardo, alla quarta serie di Eppur si muove. Sergio Manfio: Volevo solo aggiungere che abbiamo portato avanti la multimedialità perché reputiamo che ci sia una correlazione evidente tra comunicazione ed educazione. I messaggi che comunichiamo sono messaggi che formano e noi ne siamo consapevoli in ogni momento. Occorre molta attenzione, perché la responsabilità formativa, educativa è anche di chi si occupa di comunicazione.
Detto questo uno che mi piace moltissimo – e come si fa a non amarlo dato che è un Maestro - è Hayao Miyazaki. Lui mette poesia in tutte le cose che fa ed è quello che tentiamo, ogni volta, di fare anche noi.
Quali autori dell’animazione le piacciono? Sergio Manfio: Non mi piacciono quei cartoni animati studiati per allargare l’audience. Creare un contenitore che vada bene per nonni, bambini, mamme e papà, a mio avviso, sposta l’attenzione dal pubblico per eccellenza dei cartoni che sono i piccoli. Anche se Cuccioli – Il Codice di Marco Polo è realizzato in 3D non amo particolarmente quelli in stereoscopia perché mi pare che indossare gli occhiali formi una barriera tra le emozioni che lo schermo in quel momento mi sta cercando di dare.
“I Cuccioli” su MSC crociere.
Dal 19 dicembre 2009 al 31 gennaio 2010, il gioiello della flotta MSC, “Splendida”, in rotta tra i principali porti del Mediterraneo, navigherà tra la simpatia e l’entusiasmo de I cuccioli, l’evento cinematografico 01 distribution più atteso dai bambini. Saranno quattro le crociere MSC coinvolte in questo speciale evento che offriranno ai propri ospiti attività creative, feste e giochi a tema. Saranno tutte personalizzate con materiali originali del film e coinvolgeranno adulti e bambini in esclusive proiezioni pomeridiane (con speciali filmati del backstage), animazioni organizzate da professionisti, speciali allestimenti all’interno della nave, come ad esempio alberi di Natale, foto ricordo, concorsi fotografici a tema, merende tematizzate e mille altre attività che si svolgeranno nelle aree comuni della nave e nell’area miniclub dedicata ai bambini. Un modo ancora più unico di vivere la vacanza con MSC. L’attività “I Cuccioli in crociera con MSC” sarà un grande evento promozionale per l’attesissimo film di 01 Distribution, basato sulle storie dei 6 scatenati cuccioli protagonisti dei una delle serie TV di maggior successo dei cartoon.
Portatile
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Colora
i personaggi di
Cuccioli – Il Codice di Marco Polo
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SCHEDE FILM SCUOLE SUPERIORI
La Prima Linea
L
a domanda che sorge spontanea è la seguente: “Possono due volti così noti, due icone del nostro tempo come Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno, interpretare i terroristi Sergio Segio e Susanna Ronconi senza rischiare che il messaggio del film giunga agli studenti delle scuole superiori - cui riteniamo vada indirizzato, previa adeguata preparazione da parte dei docenti - in qualche misura condizionato, addolcito?” La risposta è sì. La Prima Linea, liberamente ispirato al “memoriale” Miccia Corta di Sergio Segio, diretto da Renato De Maria (Paz, Amatemi…) si propone, anzi, come il punto di partenza di una cinematografia che finalmente può tornare a interrogarsi sugli “anni di piombo” liberandosi delle polemiche sull’opportunità di presentare al pubblico giovanile il volto violento di una limitata parte politica, “fuorviata” da una sorta di delirio di onnipotenza, autoinvestitasi avanguardia di un proletariato tutt’altro che intenzionato alla logica dello scontro armato, e che iniziava proprio alla fine degli anni Settanta ad abbandonare le sirene dell’ideologia rivoluzionaria per aderire alla normalità del benessere a portata di mano. L’ordito principale, intercalato da svariati flashback, che hanno il compito di illustrare la biografia del protagonista nelle sue tappe salienti, descrive la lunga preparazione dell’assalto al carcere di Rovigo avvenuto il 3 gennaio 1982 per favorire l’evasione della Ronconi, e che provocò la morte di un pensionato, “colpevole” di transitare nei paraggi con il proprio cane nell’istante sbagliato. La messinscena, caratterizzata da una recitazione tutto sommato sobria, a parte “lo schieramento da battaglia” di certe inquadrature, che ricorda un po’ Quarto Stato di Pelizza da Volpedo e un po’ I magnifici sette, genera la giusta tensione per un film che non pretende di praticare troppo a lungo le strade del thriller. La Prima Linea analizza, senza alcuna giustificazione, l’humus in cui il movimento antagonista si è nutrito, trasformandosi in un gruppo di fuoco che ha lasciato sull’asfalto delle strade e il cemento dei marciapiedi una lunga scia di sangue: dall’agente di custodia Giuseppe Lo Russo all’ingegner Paolo Paletti, considerato tra i responsabili del disastro ambientale di Seveso del 10 luglio 1976, da Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica ad Alfredo Paolella, consulente del ministero di Grazia e Giustizia…
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I ragazzi pretenderanno molte più risposte di quelle che il film può fornire, vista la contingenza degli avvenimenti, e le immancabili polemiche su un’opera che riteniamo vada considerata come un primo utile tassello per ricomporre il complicato mosaico del terrorismo italiano degli anni ’70 e ‘80. Per ora posson bastare le parole dello stesso Segio: “Ci siamo allora induriti, senza riuscire a mantenere la capacità di tenerezza. In un’anestesia morale progressiva, che ha avuto ragione delle nostre ragioni. La logica delle armi ci ha preso non solo la mano ma anche il cuore e la testa”. La Prima Linea Regia: Renato De Maria Cast: Riccardo Scamarcio, Giovanna Mezzogiorno, Fabrizio Rongione 96', Distribuzione: Lucky Red
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Il viaggio di Jeanne
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Welcome
n’opera prima al femminile, semplice e delicata, in cui succede ben poco di eclatante, ma quel poco è così ricco di umanità e di sentimenti da farci uscire dalla sala buia soddisfatti e rinfrancati. Il viaggio di Jeanne è una storia di formazione che, evidentemente, dato il titolo originale, non riguarda solo Jeanne (la giovane e talentuosa Anais Demoustier), un’adolescente alle prese con le prime pulsioni verso l’altro sesso. Albert, il padre (il bravissimo Jean-Pierre Darroussin) è un uomo di mezz’età, separato, metodico, e un po’ bambinone, che trascorre le vacanze estive con la figlia, sulla quale riversa tutte le sue attenzioni. Ogni anno i due si spostano in luoghi differenti del vecchio continente: questa è la volta di una piccola isola svedese, Styrsö, che oltre alla tranquillità, conserverebbe preziosi reperti vichinghi. Laggiù hanno affittato una casa per due settimane, ma per un disguido della proprietaria, Annika, dovranno dividere l’alloggio con lei e la sua amica francese Christine per l’intero periodo. La storia si dipana all’insegna della leggerezza e dei toni pastello, con qualche punta di divertente comicità. L’uomo vaga per il villaggio con un ridicolo metal detector alla ricerca di un antico e mitico tesoro, e durante una perlustrazione in canoa su un isolotto vicino, perde l’imbarcazione e rimane per l’intera notte all’addiaccio, lasciando in ambasce la figlia e le ospiti della casa. Jeanne gira in lungo e in largo con una bicicletta, entrando in una comitiva di giovani locali tra i quali inizia a frequentare un biondino di cui s’invaghisce. Annika ritrova un vecchio amore di gioventù, e scopre che se ne era distaccata troppo rapidamente. Christine, tra una telefonata e l’altra, cerca di rilassarsi, senza riuscirvi appieno, illusa che il pittore con cui ha in piedi una storia sia più importante di quello che realmente crede e spera. Il viaggio di Jeanne (Les grandes persones) Con il procedere dei giorni la convivenza forzata costituirà un’opportunità Regia: Anna Novion per tutti e quattro i personaggi, i quali, si saluteranno fiduciosi, come Cast: Jean-Pierre Darroussin, Anais Demoustier, Judith Henry, Lia coloro che credono di stare per afferrare i propri sogni, mai prima di Boysen, Jakob Eklund allora, così vicini… 84', Bolero Film ndrebbe presentato in tutte le scuole Welcome, raro gioiello di cinema che possiede il dono del tempismo e della semplicità. Il tema dell’emigrazione clandestina è trattato con una tale lucidità da consigliarlo caldamente anche ai nostri legislatori. Vincitore morale del Festival di Berlino, in Francia ha già ottenuto il successo che merita (incasso da più di 10 milioni di euro), ma ha scatenato pure molte polemiche. Durante la visione ne comprendiamo i motivi. Innanzitutto scopriamo con stupore che le leggi francesi superano di gran lunga le nostre in quanto a severità, ma soprattutto vengono applicate con estremo rigore. In pratica non vengono penalizzati solo gli immigrati, ma possono incorrere in gravi sanzioni anche coloro che ospitano, aiutano o sostengono, a vario titolo, “i disperati” che entrano in Francia illegalmente. Perfino le organizzazioni di volontariato rischiano serie conseguenze penali. Welcome narra l’incontro di due solitudini, che si trasforma, a poco a poco, in un intenso rapporto di amicizia. Bilal (Firat Ayverdi), un diciassettenne curdo fuggito dall’Iraq, e avventurosamente giunto a Calais, chiede a Simon (Vincent Lindon), un istruttore di nuoto francese, di insegnargli lo stile libero. Perché è stato “beccato” su un tir mentre tentava l’espatrio in Inghilterra. Perché intende ritrovare la bella Mina, la fidanzata che vive a Londra con la famiglia. E perché vuole raggiungere a nuoto le coste britanniche, attraversando la Manica. Un’impresa mai riuscita a un immigrato. Simon, immalinconito dalla recente separazione, e dalla tendenza a subire gli eventi, è colpito dalla forza d’animo di quel giovane, e cerca, quantomeno, di prepararlo al folle tentativo… Se il sottotesto evoca un’intensa storia di redenzione, la trama principale ci riporta ai migliori esempi di cine-verità con le scene iniziali sui camion ricche di suspense, con l’eroismo inconsapevole e silenzioso di un uomo qualunque, e con quello disperato e struggente di un giovane innamorato (entrambe da applauso le performance) e fornisce la cifra di un’opera di grande forza politica e sociale costruita sulla sobrietà e sui numerosi
virtuosismi visivi. Intanto, come denunciano le associazioni contro il razzismo, si sta materializzando il progetto di costruzione di un centro di detenzione in territorio francese, ma sotto la giurisdizione britannica, possibile in base allo statuto di “zona di controllo” del porto di Calais: una nuova Guantanamo in Europa? Welcome Regia: Philippe Lioret Cast: Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana, Derya Ayverdi, Olivier Rabourdin 110', Teodora Film
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Dorian Gray
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ndicato ai maggiori di 14 anni per alcune scene di sesso, e altre sequenze raccapriccianti, che garantiscono alla pellicola un richiamo per il pubblico giovanile, Dorian Gray soccorre gli studenti che si apprestano all’esame di stato, e che solitamente si sobbarcano la lettura di questo classico di Oscar Wilde, già saccheggiato una decina di volte dal cinema. A patto che distinguano alcune libertà di sceneggiatura, presenti specialmente nella seconda parte del film. Alla fine del XIX secolo il giovane Dorian Gray (Ben Barnes, ovvero Il Principe Caspian dei Racconti di Narnia) giunge a Londra, dove il cinico sir Henry Wotton (Colin Firth) lo avvia alla trasgressione
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delle regole della società: chi è bello, ricco e aristocratico ha diritto a tutto ciò che desidera. Così ha inizio l’escalation all’onnipotenza dell’affascinante eroe, a cui non è estranea la sua faustiana adesione al demonio pronunciata davanti al ritratto confezionatogli dal pittore Basil Hallward (Ben Chaplin), che finirà assassinato brutalmente proprio da Dorian. Quest’ultimo, ormai, dedica il suo tempo completamente al piacere, ai salotti, alla seduzione e alle pratiche sessuali, in tutte le varianti possibili a una fantasia luciferina. La bellezza e la giovinezza non dureranno in eterno: il quadro che lo ritrae sta lì a ricordarglielo. Inoltre, il rimorso per i propri tragici errori lo angoscia al punto da obbligarlo ad allontanarsi da Londra per un buon ventennio. Tornerà più giovane e bello di prima, nello stupore e nell’inquietudine di tutti. Ma sarà il suo ritratto a portare in vece sua il fardello degli anni e i segni della depravazione… Nel finale compare la giovane figlia di sir Henry, Emily Wotton (Rebecca Hall), personaggio del tutto assente nel romanzo, così come manca - nel libro - l’accentuazione dell’elemento horror dell’epilogo, che finisce per spettacolarizzare oltremodo una messinscena che mantiene l’atmosfera elegante e raffinata dell’epoca vittoriana, e gli echi del decadentismo e del superomismo, che tuttavia i discenti faranno bene ad approfondire in sede scolastica. Dorian Gray Regia: Oliver Parker Cast: Ben Barnes, Colin Firth, Ben Chaplin, Rebecca Hall, Fiona Shaw 112', Eagle Pictures
Il mio amico Eric
ommedia e dramma s’intersecano in questo commovente omaggio al football e alla solidarietà in quel di Manchester, capitale industriale e calcistica del Regno Unito. Eric Bishop (Steve Evets) un postino che ha lasciato l’amata Lily appena dopo che lei ha messo al mondo la prima figlia, vive con i due figliastri lasciatigli dalla seconda moglie in un appartamento abbandonato al caos. La casa è un porto di mare dove i ragazzi ospitano chicchessia fumando, bevendo e tirando al mattino davanti a Youtube, videogame, trasmissioni sportive o pornografiche. Inoltre, il rapporto tra Eric e i due giovani è minato dal fatto che costoro fanno parte di una gang di delinquenti capitanata dal “Profeta”, un piccolo boss di quartiere, arrogante e violento. La predilezione per il Manchester United e l’apporto generoso dei compagni di lavoro non evitano al povero Eric la disperazione. Nel chiuso della sua stanza maledice la propria paura di incontrare Lily per chiarirsi, sprofondando ancor più nella depressione. Ma, come per incanto, si materializza la figura del suo idolo sportivo: Eric Cantona (che recita se stesso), il carismatico numero 7 del team di Ferguson degli anni scorsi, rimasto nel cuore di tutti i tifosi dell’Old Trafford, lo stadio dello United, e specialmente di Bishop. Il campione aiuterà il suo sostenitore a sconfiggere le proprie insicurezze fornendogli la chiave per la risoluzione di tutti i suoi problemi… Sullo sfondo congeniale dell’emarginazione e della crisi economica e sociale delle periferie urbane, Ken Loach elabora una storia corale di passioni: nei riguardi della donna amata, verso la squadra del cuore, riguardo “l’angelo custode” Cantona, e nei confronti dei colleghi, degli amici del pub e dei tifosi dei Red Devils. Insomma, ne Il mio amico Eric l’elemento realistico e quello surreale coesistono in perfetto equilibrio senza che questo pregiudichi la qualità offerta dallo spettacolo, divertente e intelligente, che consigliamo caldamente agli insegnanti ai fini del dialogo educativo.
Il mio amico Eric (Looking for Eric) Regia: Ken Loach Cast: Steve Evets, Eric Cantona, Stephanie Bishop, Gerard Kearns, Stefan Gumbs 119', BIM
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