Intervista del direttore Valerio Zolito di www.eur.roma.it a Massimo Muciaccia architetto, curatore del convegno: “La città perduta. Un dibattito sulla periferia”.
Perché questo convegno, come nasce? Premetto che a questa domanda ben precisa che lei gentilmente mi pone e la ringrazio, risponderò opportunamente con un linguaggio il più chiaro e discorsivo possibile perchè anche i lettori meno preparati, ma sensibili a questi argomenti, possano “aprire gli occhi”, vedere la situazione in cui ci troviamo e metterci l’impegno civile necessario per cercare tutti assieme di voltare pagina. Il convegno che sto preparando “La città perduta” ha ottenuto diversi patrocini morali dalle Istituzioni che interverranno all’evento e nasce dallo scambio intellettuale e dall’incoraggiamento di alcuni docenti della “Sapienza” come Franco Purini della facoltà di Architettura e Ruggero Lenci della facoltà di Ingegneria, impegnati nella progettazione architettonica e urbana, ma anche grazie alla solidarietà di tante persone, associazioni, comitati, abitanti del Municipio XII Roma Eur, che stanchi del consumo di suolo,“In Italia si consuma più suolo che nel resto d’Europa” (Istat) e scoraggiati dalla cosiddetta “cementificazione”, mi hanno chiesto di stimolare un dibattito costruttivo e pacato sui temi legati al territorio per individuare concetti e modi diversi di pianificazione. Da noi il consumo di questo “bene comune” che è il territorio è arrivato a livelli di sfruttamento e speculazione selvaggia insopportabili. “Il consumo di suolo non giustificato da un reale e dimostrato fabbisogno sociale è un danno per l’umanità”. (E. Salzano) Mi sembra di capire che lei sia curioso di sapere chi sono i miei “padri spirituali”? Naturalmente il grande urbanista Italo Insolera, ma anche Leonardo Benevolo, Ludovico Quaroni ed Edoardo Salzano, tanto per citare i più noti. Lo sa qual è la cosa che più mi piace? Quella di far sedere allo stesso tavolo “personaggi” che provengono diciamo così da contesti diversi e farli guardare negli occhi, senza naturalmente avere la presunzione di voler esaurire il dibattito nella sede del convegno. Questo mi aspetto, non certo un incontro accademico, magari interessante, ma dove per l’ennesima volta si analizzano soltanto le dinamiche di trasformazione urbana e territoriale della periferia. Vede in Italia i discorsi che stiamo affrontando sono diventati addirittura monotoni, perché all’alternarsi di governi di diverso colore, i problemi sono rimasti non solo gli stessi, ma addirittura si sono acuiti. Se continuiamo con la mentalità corrente che equivale a dire: “ chi possiede un appezzamento di terreno ha anche il diritto sacrosanto all’edificazione”, allora non ne usciamo. Per colpa anche di questa “forma mentis” tipicamente italiana ci troviamo di fronte a qualcosa di cui non possiamo certo essere orgogliosi. Quando c’è un progetto urbanistico redatto da professionisti (urbanisti, architetti, ingegneri), questi forse non avendo acquisito una cultura progettuale adeguata neanche ai tempi dell’università, o per motivi legati alla committenza privata o per altri “misteriosi” scopi non comprensibili, o ancora per indici di fabbricabilità che favoriscono una bassissima densità e un dispendio di territorio, pianificano periferie dormitori. I quartieri così realizzati non assomigliano neanche lontanamente alla “ Città”, cioè a quel complesso urbanistico-architettonico omogeneo con caratteristiche proprie, con una giusta densità, con una morfologia sensata, ma nel migliore dei casi a una caricatura dei postulati del Movimento Moderno. Quindi si potrebbe dire: “ la città è morta”, bene allora proviamo a farla risorgere: possibilmente comune, solidale, sostenibile! Le diverse forme di città che abbiamo dimenticato erano figlie di “un progetto politico e sociale capace di interpretare e dare spazio alla frontiera più avanzata della società del proprio tempo” (B. Secchi).
Noi tutti ci aggiriamo allora frustrati in queste desolanti periferie uniformi perdendo l’orientamento. Queste sono caratterizzate dallo “sprawl “ , cioè dalla dispersione delle costruzioni sul territorio in modo disordinato, con la conseguente disgregazione della città e stampate come le scatole di latta, con le stesse carenze e i luoghi di socializzazione neanche lontanamente previsti, ma ampiamente dotate di parcheggi, rotatorie e svincoli. Marc Augé li chiama “non luoghi”, io sono più drastico, parlerei addirittura di “deserti” di “confino” fisico e psicologico dove domina una sorta di nuova “dittatura dell’oblio”. Sto certo parlando di casi estremi, dei quartieri ghetto del sud del mondo. In queste periferie la presenza umana è relegata al solo spazio privato del proprio alloggio o condominio e l’automobile è ancora oggi l’unico mezzo previsto per gli spostamenti, gli attraversamenti lunghi e monotoni, con tutti i problemi di traffico che si conoscono, ma che nessuno è intenzionato a risolvere attraverso politiche diverse di mobilità. Valanghe di auto di pendolari vanno ad intasare le strade nella stessa ora dirette verso sedi lavorative, per poi fare ritorno in questi cosiddetti quartieri “monoculturali” cioè pensati solo per quella specifica classe sociale o categoria di persone. Si tende dunque a separare le diversità e a unire le somiglianze. Da una parte i pensionati, dall’altra i giovani attivi. In alcuni contesti è impossibile accedere in alcuni settori urbani senza essere invitati, senza essere identificati creando così sorta di “beata segregazione”.
Che cambiamenti dovrebbero essere stimolati? Prima dovremmo chiederci: è necessario costruire ancora? Come va fatto un quartiere sostenibile che si avvicini al quel concetto di città dove gli spazi pubblici sono considerati luoghi della partecipazione? Quanto dovrebbe essere grande, che caratteristiche dovrebbe avere, che rapporti dovrebbero avere gli spazi pubblici con quelli privati… Cerchiamo di avere per una volta delle idee chiare, delle soluzioni accettabili. Lo so che non è facile cambiare, oppure aspettiamo che si faccia come negli Stati Uniti, si chiamano a progettare gli architetti della Walt Disney Corporation e allora viene fuori la città giocattolo. Il caso noto nel nostro Municipio, possibilmente da non replicare, è il quartiere di iniziativa privata (perché esiste ancora l’iniziativa pubblica?) di Mezzocammino: 200 ettari c.a per 15.000 abitanti, definibile il “nonpiano della non-città”. I costi di urbanizzazione primaria sono stati straordinari, dotato anche di servizi sufficienti, accettabile sul piano tecnico-burocratico, tutto a misura di trasporto su gomma, autostrada urbana, parcheggi, incroci e tra gli edifici sparsi alla rinfusa caratterizzati dalle più variegate tipologie, il solito vuoto banalizzato nell’insediamento diffuso e generico. Le piazze e i luoghi aggregativi dove sono finiti? “…la piazza è il campo dove le diversità si incontrano e comunicano pur restando tali” (G. Amendola) E le persone dove stanno? Nei loro giardinetti privati, negli spazi condomìniali, negli appartamenti blindati per paura. Di quale nemico? Quartieri di questo tipo, mi piace chiamarli (col termine inedito?) di “decostruttivismo urbanistico” e non credo sia avventato. Che descrive bene la scelta per il rifiuto, ancora peggio il rigetto di ogni forma d’interesse per la storia di qualsiasi tipo. La morale non può che essere la seguente: trarre il massimo (del profitto), col minimo sforzo. “La diffusione planetaria di questo modello produce in egual misura sviluppo e distruzione…” . (P. Perulli) “C’è un’idea di città diversa rispetto al modello neoliberista e speculativo che domina ormai la pianificazione urbana e ha portato ad un consumo di territorio abnorme, producendo la periferia spersonalizzata ad uniforme che tutti abbiamo davanti agli occhi?” In altre parole cosa vogliamo: “la grande metropoli che si espande sempre più, o una città più umana e solidale?” Questo precisa domanda dovremmo farci… Poi nel nostro paese c’è il ricorrente balletto delle responsabilità e non solo nel campo che stiamo analizzando, qualcuno dice che è colpa della committenza, qualcun altro dice che è colpa dei tecnici o
progettisti, altri dicono che non ci sono leggi che vietano questo o quello, altri che è colta degli strumenti pianificatori, altri ancora che è colpa dell’amministrazione di turno. Insomma alla fine si cade nel chiacchiericcio e non si capisce nulla; finisce che hanno tutti torto e quindi quando è così: “Tana libera tutti”. Fatto sta che si continua a realizzare quello che purtroppo tutti conosciamo e che ormai è del tutto fuori misura, fuori controllo, fuori pianificazione sensata. Paolo Berdini ha suggerito ad esempio una “ moratoria delle costruzioni” . Arrivati a questo punto penso che non abbia tutti i torti, si dovrà fare il punto della situazione anche in vista delle prossime Amministrative di Roma e ragionare sui programmi delle varie coalizioni, sperando che si voglia arrivare ad un confronto vero con la società civile (democrazia partecipativa). Insomma come ti giri vedi ancora e di nuovo cemento, per fare cassa con gli oneri edificatori “…incentivando la produzione di prime case, da un lato aumentava le entrate comunali, ma dall’altro contrastava una seria politica di moderazione della crescita edilizia” (G. Campos Venuti) e allora avanti col “pianificar facendo” cioè la prassi di definire l’uso del suolo di volta in volta, slegata da una visione complessiva, in deroga a leggi e piani urbanistici, coi trasferimenti di cubature da una parte all’altra del territorio e premi di cubatura… Sempre orientati alla quantità e mai alla qualità. Siamo arrivati in questo stato di cose fino ai giorni nostri, ancora non basta? Facciamo uno sforzo di immaginazione, ripensiamo i nostri luoghi di vita e le nuove relazioni umane che in essi potrebbero, se lo vogliamo veramente, rifiorire.
Appendice all’intervista… Chi progetta la città e in particolare le periferia si è “dimenticato” inoltre dei bambini e delle loro necessità. Lo spazio in cui ci muoviamo è pensato e realizzato per l’uomo medio produttivo. Lewis Mumford nel ’45 sottolinea come le città non abbiano preso in considerazione i suoi abitanti più deboli, appunto bambini, anziani… invece di garantire una dimensione più umana per l’intera società durante il ciclo della vita, dalla nascita alla morte. “Nelle città italiane ci sono almeno un milione di bambini che vivono in condizioni disagiate e che crescono in situazioni di difficoltà. Un numero altrettanto grande di bambini vive altre forme di disagio ed emarginazione: la solitudine in famiglie monoparentali, l’isolamento dovuto al tipo di abitazione, e alla insostenibile organizzazione di tempi e di spazi nella città, la mancanza di luoghi di incontro e socializzazione (soprattutto pubblici)”. (UNICEF) Il bambino spesso nel contesto della periferia è trascinato dall’adulto in una corsa in automobile finalizzata alla meta e non al percorso. Se riesce a coprire a piedi brevi distanze per recarsi in improbabili campetti, cortili o aree di gioco, invece di essere l’opportunità per l’incontro con amici e per una bella passeggiata, diventa una “corsa ad ostacoli”. Il percorso può spesso evidenziare barriere fisiche che possono trasformarsi in problemi psicologici per i più piccoli. Le ricadute sullo sviluppo socio-cognitivo dei bambini, provocata dalle barriere urbanistico-architettoniche quali ad esempio attraversamenti pedonali pericolosi o in ogni caso non facilmente superabili senza l’aiuto di un adulto, sarebbero da approfondire accuratamente. Si rifletta a tale riguardo sul problema concreto dell’attraversamento degli studenti, in entrata e in uscita dalla scuola Orsa Maggiore del Torrino, della trafficata arteria di via della Grande Muraglia, percorsa dalle automobili a velocità sostenuta. Per risolvere questo reale pericolo , nonostante
le petizioni dei cittadini e delle associazioni alle Istituzioni locali, nulla o quasi è stato fatto in un anno per l’incolumità degli studenti e per i loro diritti elementari, anche soltanto con lo spostamento di un semaforo. La burocrazia è tale che risulta evidentemente più facile e più conveniente dare una concessione ad un privato per sbancare un giardino pubblico e far realizzare nel sottosuolo dei parcheggi da vendere, che installare quattro (dico quattro!) lampioncini intorno ad un’area gioco pubblica, che tra l’altro, è stata fatta intestare ad una maestra e pedagogista (Adelaide Coari), ma evidentemente non importa nulla a nessuno se non si è provveduto ad apporre neanche una targa. La città, quella vera, più sarà “amica” dei bambini, adatta al loro sano sviluppo, più sarà maggiormente vivibile per tutti. Necessita dunque un risveglio delle coscienze e un progetto di risanamento graduale e costante delle periferie anonime e prive di presenze architettoniche e indicatori che possano dare un senso ai luoghi e arricchirle anche dal punto di vista estetico; la periferia brutta provoca negli abitanti patologie psicologiche oltre che sociali. “Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione”. (J. Hillman) Diamo quindi una speranza anche ai nostri figli…
Roma, settembre 2012