Roma, 20.11.2012 Casa dell’Architettura LA CITTA’ PERDUTA Un dibattito sulla periferia
a cura di Massimo Muciaccia
Vorrei aprire questo intervento ringraziando tutti voi presenti e coloro che mi hanno sostenuto e incoraggiato nella preparazione di questo convegno, il presidente dell’Ordine degli Architetti di Roma, il Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale della Sapienza, tutti i relatori, i collaboratori, le associazioni e le Istituzioni che hanno concesso il patrocinio morale: il Consiglio Regionale del Lazio e il Municipio XII Eur di Roma Capitale. Un particolare saluto va inoltre a Pietro Barucci che presiede il dibattito con la sua prestigiosa presenza. Dedico questo evento alla memoria di Renato Nicolini che sarebbe dovuto essere tra noi per dare il suo prezioso contributo sugli argomenti che si tratteranno, in particolare quelli relativi all’eccessivo consumo di suolo in Italia. Relazione di introduzione al convegno
Lo sviluppo soprattutto residenziale della cosiddetta non-città è previsto e realizzato come “insediamento”, come urbanizzazione e popolamento di vasti comprensori e i caratteri sociali, funzionali ed architettonici finiscono con il risentire più delle procedure tecnico-amministrative utilizzate per la loro progettazione che non della specificità dei luoghi, degli abitanti e della regola di accrescimento storico della singola parte di città. Il territorio dovrebbe essere il risultato di un dialogo, una relazione fra entità viventi, l'uomo stesso e la natura, nel tempo lungo la storia. La nostra civilizzazione tecnologica intenta a costruire una natura artificiale, si è progressivamente liberata di queste relazioni, trattando il territorio come superficie insignificante, seppellendolo di manufatti, oggetti e scarti. La “forma metropoli”, nella sua attitudine divoratrice di risorse ambientali, nei processi di urbanizzazione accelerata che ha indotto, è tra i principali responsabili del degrado e delle nuove povertà presenti soprattutto nelle periferie dei paesi del sud del mondo. Lo sviluppo basato sulla crescita illimitata e sul modello produttivo fordista, piega i diritti dei cittadini alle esigenze dell’industria edilizia; sinteticamente si potrebbe dire che il suolo diviene materia prima e l’alloggio il prodotto finito. Il 25 maggio 1916 Henry Ford disse al corrispondente del “Chicago Tribune”: “La storia è pressoché una bubbola. Noi non vogliamo la tradizione. Vogliamo vivere nel presente, e la sola storia che valga qualcosa è quella che creiamo oggi”. Quindi la metropoli o postmetropoli è descrivibile come “semplice opposizione di elementi” generati appunto semplicemente dalle leggi della crescita economica. Il carattere della periferia a bassa o bassissima densità risulta fortemente dissipativo creando il cosiddetto sprawl urbano senza limiti alla
crescita edilizia, spesso priva di qualsiasi qualità progettuale, con un risultato definibile eco-catastrofico. Il territorio è stato utilizzato nel tempo quindi come puro supporto tecnico di attività e funzioni economiche, che sono localizzate secondo razionalità interne al contesto speculativo e tecnologico, e sempre più indipendenti dalle relazioni con il luogo e dalle sue tradizioni. Questa sorta di “marmellata del costruito” si diffonde dunque senza ostacoli e pervade con le proprie regole intere aree, occupandole, sfruttandole e creando i cosiddetti “non-luoghi”. Così facendo viene meno l’ “organismo città”, cioè il presupposto antropologico della nostra civilizzazione. Il totale sganciamento dalle regole costitutive dell'identità di un luogo, adottando una regola insediativa astratta basata sul rapporto uomo-macchinario-funzioni e non più sul rapporto uomo-ambiente-natura, porta all’indifferenza verso il territorio come “bene comune” su cui la città pubblica si è sempre , pur in forme diverse, modellata: perfino la città imperiale di colonizzazione romana si misurava attentamente con forme culturali e peculiarità ambientali. Questi “non-luoghi” così come costituiti scoraggiano l’idea di insediarvisi, rendendo la colonizzazione dello spazio pubblico praticamente impossibile; unico destino è l’attraversamento veloce. E’ naturalmente consentito “sentirsi” a casa propria, ma nessuno deve “comportarsi” come a casa propria. Il “non-luogo” è uno spazio privo delle espressioni simboliche di identità, relazione e storia: zone residenziali o quartieri dormitorio (per poveri ghettizzati e per ricchi blindati); zone industriali, strade mercato, zone commerciali, direzionali, ipermercati, multisale, urbanizzazioni diffuse di villette "democratiche", conurbazioni caotiche, zone e centri per vacanze, favelas, baraccopoli e così via. Nessuna di queste funzioni ha una sua distinta identità. Inoltre gli spazi vuoti di cui è fin troppo ricca la periferia, sono soprattutto vuoti di “significato”. Non a caso Marcello Vittorini nella progettazione consigliava, ribaltando il luogo comune, di concentrarsi principalmente sui vuoti pubblici perchè li reputava sicuramente più importanti. Nel processo creativo lo studio dei pieni deve essere consequenziale ai vuoti. La distruzione della memoria e della biografia di un territorio ci fa vivere in un sito indifferente, ridotto a supporto di funzioni di una società liquida e istantanea, che ha interrotto bruscamente ogni relazione con le sue proprie vocazioni. La "liberazione" consiste dunque nel non edificare più l'insediamento come rapporto durevole, sinergico tra la società insediata e l'ambiente: che è insieme sottosuolo, suolo, vegetazione, acqua, clima, luce, colori, sapori che interagiscono con i materiali da costruzione, gli stili di vita, le economie, le culture in modo concreto e costante. “La società non esiste”, dichiarò Margaret Thatcher. Esiste l’individuo che guardando dentro se stesso dovrebbe trovare talento, capacità, forza di volontà e questa è la società moderna e contemporanea in cui ognuno affronta e combatte in solitudine i problemi che gli si pongono. “L’individuo è il peggior nemico del cittadino” (Tocqueville). Il cittadino è una persona incline a ricercare
il proprio benessere attraverso il benessere della città, mentre l’individuo è scettico, egoista e indifferente verso il “bene comune”. Si determina una sorta di "topofagia", la metropoli inghiotte i luoghi, che viene curata con crescenti protesi telematiche per viaggi in paesaggi immaginari. I residenti della periferia sono dislocati a caso, si genera una sorta di dittatura dell'oblio e la perifericità, con tutti i suoi disagi, diviene la condizione dominante di chi la abita. L'espropriazione è inesorabile e la conseguenza è povertà di decisioni, di informazioni, di relazioni comunitarie, di qualità estetica, di servizi, di rappresentazione civile, in una sola parola di democrazia. La riduzione a semplici funzioni dei luoghi di comunicazione sociale nella città, ha comportato la marginalizzazione dello “spazio pubblico”, in particolare della piazza pedonale: essa non è prevista pienamente nel progetto urbanistico, nel migliore dei casi è ridotta quindi a parcheggio, attraversamento, nodo di traffico. Se l'abitante è dissolto e frammentato spazialmente nei siti del lavoro, dello svago, della fruizione della natura, del consumo, della città, della riproduzione, e quindi non ha più "luoghi compositi" da abitare nei quali integrare e socializzare tutte queste attività, esso non ha più relazione di scambio e identificazione con il proprio ambiente di vita, che gli appare solcato da flussi di oggetti e dinamiche a lui imposti, estranei e degradanti. I due problemi si intrecciano: la sparizione fisica dello “spazio pubblico” a favore dello “spazio privato”, corrisponde alla progressiva perdita della “sfera pubblica” da parte della comunità locale. Lo spazio aperto, il “vuoto” diviene spazio di risulta, non è più preventivamente pensato, esso è ridotto a tessuto connettivo di elementi non troppo definibili e sicuramente non sociali. La sparizione di senso dello “spazio aggregativo” è stata risolta concettualmente con il trasferimento della socialità nella "piazza telematica", nella comunità di rete e nel "villaggio globale". Le tecnologie industriali "liberano" l'edificazione dalla schiavitù della natura; la serialità e l'omologazione delle tipologie "liberano" la produzione degli edifici dai vincoli degli stili specifici dell'abitare, subordinandoli allo stile omologato del produrre, inducendo pian piano la distruzione delle forme originarie e tradizionali delle città e l’indifferenza verso le “tradizioni storiche”. L'abitazione, il capannone, il supermercato, l'infrastruttura sono innanzitutto merci in vendita; la mercificazione diviene una regola fissa costitutiva dell'organizzazione capitalista neoliberista. La subordinazione alle leggi della produzione, del mercato e del capitale finanziario del processo di edificazione contrae la cultura progettuale e la riduce a modesti standard riproduttivi, alla prassi tecnico-burocratica, funzionali al puro profitto e ancora peggio alla speculazione privata.
La città invece è un evento complesso culturale dotato di stratificazione e identità storica, che risiede in atti costitutivi dettati dal mito, dalle idee, dal progetto sociale, dagli eventi simbolici, dagli archetipi, dalla costruzione di spazio collettivo concepito come vero bene di tutti. Le periferie sono stampate a macchina, in serie, come i frigoriferi, la metropoli di oggi perde progressivamente i connotativi di rappresentazione sociale. Prima nel corso della rivoluzione meccanica, la scomposizione funzionale mette in scena la rappresentazione del ciclo produttivo; successivamente, nell’epoca del cyberspazio, attraverso il processo di astrazione di molti aspetti della vita relazionale dello spazio concreto, si atrofizza la stessa funzione simbolica e di rappresentazione concreta dei luoghi, si perde la “memoria urbana”. L’ex abitante della “città vera” nel suo cottage telematico, in un condominio di periferia o in una villetta anonima della città diffusa, realizzato il suo avatar, apre la sua navigazione in un mondo di libertà e di relazioni che fanno da contrappeso alla povertà e alla miseria estetica di relazioni e di vita sociale dello spazio materiale che lo circonda. La piazza concreta, degradata a “pseudopiazza”, non serve più a facilitare scambi tra esseri umani, trasferiti appunto nella piazza telematica, e diviene spesso un parcheggio per automobili o un incrocio. Tutto ciò accelera il degrado ed evidenzia ancor più gli effetti negativi sull’ambiente; in particolare la rottura degli equilibri dovuta alla perdita di sapienza e all’abbandono della cura dell’ambiente da parte della comunità insediata che non lo riconosce più come proprio. Se per Giancarlo De Carlo “la periferia è la città del nostro tempo”, io dico arrivati a questo punto che la periferia è “la città perduta” del nostro tempo. E allora cosa fare, cosa proporre per tentare un cambiamento, una inversione di tendenza, dovendo passare da una cultura del “fare in assenza di limiti” a una cultura del “fare in un mondo limitato” che richiede un cambiamento “sostenibile” immediato, profondo e capillare, possibilmente coinvolgendo i cittadini in un ambito di democrazia partecipativa? Penso siano ancora attuali le riflessioni di Ludovico Quaroni sulla cultura del progetto e sulla sua applicazione alla città. Quaroni indicava come necessario e possibile il controllo della forma nella composizione attraverso un “braccio di ferro” con il potere. Una contrapposizione, ma anche un confronto, tra lo spazio fisico della città che si va costituendo e le forze sociali, economiche, politiche e religiose, mantenendo però saldo il controllo della progettazione. Di fronte alla diffusione urbana proponeva ancora con più forza l’esigenza di ricercare e proporre una “idea di città”, una struttura spaziale definita per le nuove espansioni. Diceva appunto che la necessità della città fisica e della forma urbana, elaborate attraverso il disegno che “non si limita alla rappresentazione grafica d’una idea, ma è l’idea stessa”, sono le condizioni di base, forse le uniche, per l’esistenza dell’architetto e della città bella e a misura d’uomo. La degenerazione del Movimento Moderno verso l’accademia funzionalista, per la quale il progetto urbanistico o architettonico, sarebbe dovuto nascere da una
accurata e metodica analisi delle funzioni, ha aperto la strada alle aberrazioni della periferia che tutti conosciamo. Principale responsabile della bruttezza della metropoli moderna è quindi la “zonizzazione”, che ha imposto una rigidezza delle tipologie edilizie, bloccando la ricchezza di invenzione per nuovi tipi architettonici, e soprattutto ha eluso il problema delle relazioni create tra le parti. Quaroni definisce la città come un organismo complesso, non una semplice combinazione di elementi. Allo zoning chi progetta la città cerca forse rimedio contrapponendo il planivolumetrico, strumento che Quaroni critica per la sua inefficacia. Questo strumento si preoccupa di costruire semplicemente un bel disegno, ma dimentica che il disegno è appunto l’idea, deve fornire quindi le intenzioni progettuali, le dimensioni degli spazi e le tipologie edilizie. La metropoli moderna è vista come “sviluppo ultimo di una città che già ha un suo passato ed è dunque un organismo unitario non omogeneo, formato di diverse parti sovrapposte, accostate, ma inseparabili. Riferendosi sempre alla realtà italiana come luogo privilegiato di indagine, la metropoli viene studiata nelle sue quattro parti principali: le grandi infrastrutture, le grandi attrezzature e servizi, la residenza, le attività terziarie. Fondamentale per la stesura del piano è il riferimento ai Master Plans, intendendo tale elaborato come uno strumento schematico, ma sufficientemente dettagliato per fornire l’idea formatrice (disegno-idea) e la struttura organizzatrice del progetto urbano tornando ad un equilibrio tra urbanistica e architettura. Come un cristallo la metropoli è scomponibile in parti più piccole che contengono le stesse leggi della struttura più grande. Queste parti per Quaroni sono delle unità differenti da quelle considerate dall’urbanistica moderna, non sono la singola cellula residenziale, né l’isolato dello zoning. L’unità di piano è definita sicuramente dalla complessità di funzioni che convivono tra loro trovando reciproco equilibrio. Deve esistere un legame fra le varie parti del progetto, fra l’urbanistica e l’architettura, fra la città e gli edifici, tra morfologia urbana e tipologia edilizia. “Solo un organismo architettonico che sia tale ha la possibilità di contribuire a formare e realizzare, insieme ad altri, simili e diversi organismi della stessa natura, quell’insieme strutturale valido che chiamiamo nucleo urbano o villaggio, quartiere o paese, settore urbano o città, metropoli o sistema di città. L’armonia dell’insieme è necessaria all’armonia della singola struttura architettonica e viceversa” (Quaroni). In conclusione: se l’interpretazione di Le Corbusier dello spirito del XX secolo fu la “Città Radiosa”, la macchina urbana per abitare, se a fine millennio si è imposta la “Città Generica”, enorme serbatoio di non-luoghi destinati al consumo acritico delle merci e della vita, credo che nel XXI secolo, una volta riconosciuto il fallimento della cosiddetta città funzionalista, si debba iniziare da subito a studiare e proporre nuove visioni sostenibili, nuovi metodi compositivi, per un ritorno a quella “qualità urbana” di cui le persone hanno veramente bisogno, con la speranza che un giorno quel sogno che sembrava utopistico di una “città meravigliosa” si avveri concretamente. arch.massimo.muciaccia@email.it