Writing for Comics

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A L A N

M O O R E

W R I T I N G F O R C O M I C S

P R O G L O

E D I Z I O N I


Collana «Prospettive» 2

Testi: Alan Moore Traduzione dall’inglese: Gianluca Aicardi Supervisione editoriale e redazionali: Gianluca Aicardi Assistenza supervisione e ricerche iconografiche: Luca Ventimiglia Contatti internazionali: Stefano Priarone Supervisione testi: Gianluca Aicardi Revisioni: Giovanni Scanzo e Maurizio Villotta Progetto grafico e impaginazione: Andrea Gellato Copertina e illustrazioni: Massimiliano Padelli Ringraziamenti per l’edizione italiana: a Roarin’ Rick Veitch, per il supporto; a William A. Christensen della Avatar Press, for being really a good guy; e ad Alan Moore, la cui voce continua sempre a insegnarci qualcosa, anche quando proviene dal passato. Titolo originale: Alan Moore’s Writing for Comics, Avatar Press, Urbana (IL), 2003 Per l’edizione originale: © 2003 Avatar Press Per l’edizione italiana: © 2007 Prospettiva Globale Edizioni Prima edizione: ottobre 2007 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta senza autorizzazione scritta, salvo per motivi di recensione o citazione critica. I primi quattro capitoli del testo di Moore sono originariamente apparsi a puntate su Fantasy Advertiser nn. 92-95, dall’agosto 1985 al febbraio 1986. Per tutte le immagini: © degli aventi diritto Rare Bit Fiends © Rick Veitch

Prospettiva Globale Edizioni Stradone di Sant’Agostino 29/7 16123 Genova (GE) www.progloedizioni.com info@progloedizioni.com Presidente: Luca Ventimiglia luca.ventimiglia@progloedizioni.com Ufficio stampa: Eleonora Buffagni ufficiostampa@progloedizioni.com Stampa: Arti Grafiche BCD Via San Felice 37d rosso 16138 Genova (GE) www.bicidi.it bicidi@bicidi.it

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Prefazione. I segreti del cervello di Alan

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Capitolo 1. L’ idea come base: la concezione del fumetto

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Capitolo 2. Raggiungere il lettore: struttura, passo, storytelling

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Capitolo 3. La costruzione del mondo: luoghi e personaggi

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Capitolo 4. I dettagli: trama e sceneggiatura

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Postfazione

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Nota biografica

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I segreti del cervello di Alan di Rick Veitch

uardiamo in faccia la realtà. La probabilità che chiunque stia tenendo in mano questo libro abbia realmente bisogno di un qualsivoglia tipo d’introduzione alla figura di Alan Moore è assolutamente fantasmatica. Si può supporre piuttosto seriamente che voi abbiate già divorato ogni fumetto di Alan su cui siete riusciti a mettere le mani, e questo presumibilmente ha cambiato la vostra vita in misura non insignificante. Siete rimasti ammaliati dalla sua prosa romanzesca, mesmerizzati dalle parole declamate nei suoi CD, ed elettrizzati all’idea di vederlo comparire in un prossimo episodio de I Simpson1. E sicuramente avrete sputato la vostra dose di veleno e maledizioni per l’ottuso e grossolano utilizzo che Hollywood ha fatto di alcune delle sue opere migliori. Ciò a cui probabilmente siete più interessati è capire come realmente operi la mente che ha concepito Marvelman, Swamp Thing, Watchmen, From Hell, Promethea, Lost Girls e tutti quegli altri capolavori. È assai facile che vi siate portati a casa questo essenziale volume, in cui Alan condivide il suo approccio alla scrittura dei fumetti, in cerca di qualche indizio sul suo effettivo funzionamento. Avendo avuto la fortuna di collaborare con il nostro uomo per ben venticinque anni, mi sento rivolgere continuamente queste domande dagli appassionati di fumetto. E come conseguenza di tali costanti richieste, ho sviluppato una mia teoria su questo argomento, teoria che per lo più si riduce alla convinzione che la mente di Alan Moore semplicemente non funziona come quella della maggior parte delle altre persone. Sono convinto che, dopo molti altri decenni creativi e produttivi, quando Alan finalmente abbandonerà la carne mortale e si unirà alla trasmigrazione delle anime nel reame delle idee, un attento studio dei suoi resti rivelerà che certe aree del cervello mooriano, specialmente le zone associate all’immaginazione, all’intuizione, alla memoria e al linguaggio, sono molto più grandi di quanto ci si aspetterebbe in un normale essere umano. Forse gli scienziati scopriranno delle arterie supplementari che pompano un flusso sanguigno potenziato alle suddette regioni craniche, o qualche enzima che favorisce un’ampia crescita neuronale. Non mi sorprenderebbe affatto se arrivassero a identificare qualche tipo di nuova e bizzarra mutazione nella forma dei suoi lobi. Tutto questo discorso non è poi così faceto come sembra; o almeno, non lo è nel momento in cui si sta parlando di una mente creativa altamente sviluppata come quella di Alan. Mozart, che relativamente a musica e matematica si ritiene possedesse funzioni cerebrali che confinavano con l’autismo, diede al mondo alcuni dei più sublimi brani musicali mai creati. E dopo la sua morte, il cervello di Albert Einstein fu sezionato e distribuito fra scienziati che cercavano un legame tra i centri analitici e intuitivi a cui dobbiamo la teoria della relatività. Io includo Alan in questo augusto gruppo con un certo grado di sicurezza, basandomi su un paio di decadi di conversazioni telefoniche. Alan ama parlare, e si premunisce sempre di stabilire personalmente un contatto con i disegnatori con cui collabora. (Sospetto anche che in realtà lui odi il telefono, ma che lo trovi un sistema così pratico per indagare nei ricordi, nei sogni e nelle riflessioni degli artisti che disegnano le sue sceneggiature, da spingerlo a soprassedere sulle continue richieste e interruzioni a cui il telefono è soggetto). In questi anni, Alan e io abbiamo avuto un considerevole numero di sessioni telefoniche creative a ruota libera, molte delle quali hanno assolutamente attentato alle nostre vesciche a causa della loro epica lunghezza, estensione e profondità. E poiché la maggior parte di queste chiacchierate nascevano con lo scopo di aiutare l’Alan scrittore 1 Mentre scriviamo, è annunciata la presenza di Moore come ospite speciale nella parte di se stesso in un episodio della diciannovesima stagione de I Simpson intitolato Husbands and Knives (codice JABF17), e la cui data di messa in onda non è stata ancora resa nota. Accanto a Moore appariranno Art Spiegelman e Daniel Clowes, doppiando anch’essi le proprie controparti animate. Moore, che è stato contattato dalla produzione attraverso sua moglie Melinda Gebbie durante una tournée americana di quest’ultima, è da sempre un fan dichiarato della serie creata da Matt Groening.

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a focalizzare i suoi pensieri riguardo a una qualunque storia su cui stessimo lavorando, sono stato in grado di testimoniare di prima mano la straordinaria maniera in cui talvolta Alan sembra ricevere le sue idee direttamente dalla sua immaginazione. Ora, dato che anch’io sono uno scrittore, ho una certa familiarità con i processi all’interno dei quali molti creativi si dibattono per dare alla propria ispirazione iniziale una forma compiuta. Di solito (spesso) è necessaria una vasta quantità di elaborazioni e ritocchi prima che una buona idea venga forgiata in un solido pezzo di scrittura. Ma non nel caso di Alan. La sua mente è capace di estrarre dalla sua immaginazione idee già pienamente formate e realizzate. Innumerevoli volte, mentre stava soppesando varie possibilità per una storia, Alan mi ha spiazzato esclamando all’improvviso «Ho trovato!», e procedendo snocciolandomi sequenze del tutto complete, già includenti le didascalie descrittive e i dialoghi definitivi. Lui li chiama i suoi “frammenti”, e sembra impiegarli come blocchi fondanti delle sue sceneggiature. Credo se li raffiguri come frutti maturi appesi all’albero della conoscenza in attesa del suo arrivo durante le sue spedizioni di caccia creativa. Come ogni altro scrittore di fumetti del mondo, posso soltanto sospirare di fronte al fatto, citato da Alan in una recente intervista, che praticamente ogni singola sceneggiatura da lui scritta ha richiesto una sola ed unica stesura. Possedere una potente immaginazione è di certo un talento importante per uno scrittore, ma forse non costituisce una prova sufficiente per la mia teoria del cervello mutante. C’è un altro aspetto di Alan che mi fa pensare a quei bambini iperattivi a cui devono essere somministrate anfetamine per calmarli. Philip K. Dick è un buon esempio storico di questa tipologia umana: una persona il cui sistema nervoso è così differente dalla norma che risponde agli stimolanti come se fossero depressivi. Ora, Alan è tutto fuorché un tipo nervoso, e non toccherebbe una qualunque orribile mistura chimica industriale neanche con un palo lungo tre metri. Ma non penso di dire niente di sorprendente menzionando una sua certa ben nota passione per la cannabis. La ragione per cui lo faccio è che, come conseguenza di una giovinezza scapestrata, io stesso ho avuto alcune, ehm, piccole esperienze con varie forme di marijuana, e conosco molti creativi che ne fanno uso regolarmente. E mi sembra che uno dei suoi effetti più evidenti per chi la impiega sia la confusione degli abituali schemi di pensiero lineare. Non una confusione spiacevole, a dire il vero, ma una in cui la mente comincia a vagare e la lingua incespica su se stessa, mentre le parole assumono una qualità caliginosa e surreale. Per me, come praticamente per qualunque altra persona di mia conoscenza che fumi erba, essere fatti significa finire, diciamo, fuori dal mondo. Ma non nel caso di Alan. Se nel corso del nostro lavoro su una storia, lo avessi colto prima che avesse avuto modo di farsi una delle sue famose canne, lo avrei trovato stranamente lento e fuori bersaglio. Sarebbe stato poco caratteristicamente a corto di parole. Ma basta un tiro del cannello di Buddha e Alan si trasforma, e all’improvviso si mette a pronunciare lucide frasi dalla grammatica perfetta, esponendo idee complesse e densi concetti in paragrafi completi. Ben distante dall’essere fuori dal mondo, la mente di un Moore strafatto diventa una potente macchina raziocinante, che per sostenere i suoi argomenti sarà capace di dar forma a un’oratoria inattaccabile e completamente improvvisata. La prossima volta che vi capiterà di leggere una delle lunghissime interviste di Alan data alle stampe o pubblicata su un sito, e vi meraviglierete di sentirlo discorrere a tambur battente con la stessa facilità con cui Herman Melville avrebbe potuto scrivere romanzi nei suoi giorni migliori, potete star certi che con ogni probabilità l’intervista è stata condotta sotto l’influenza di una dose di fumo sufficiente a far finire Cheech & Chong2 sotto a un tavolo. E poi c’è la faccenda della memoria. Alan Moore possiede l’incredibile capacità di ricordare ogni minimo dettaglio di qualunque fumetto abbia letto nella sua vita. E non si limita solo ai fumetti migliori, e nemmeno si ferma al materiale semplicemente mediocre. Nella testa di Alan risiede persino la serie completa di ROM Spaceknight3, insieme ad ogni altro esemplare di trash-pop pulp che gli sia passato davanti agli occhi nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Se gli viene richiesto, può fornire i nomi di tutti i personaggi, principali e secondari, illustrare i loro poteri, le loro missioni e le loro idiosincrasie; ricordare i trofei esposti nelle loro basi segrete; e recitare a memoria i loro dialoghi e persino descrivere i colori delle tavole. Quando Alan fruga nella sua memoria, si avverte una pausa distinta mentre interroga le sue banche dati. È difficile valutare come avvenga questo processo, specialmente stando all’altro capo di una linea telefonica, ma il senso che ottengo è che lui attenda di veder scaturire un’immagine visiva e che una volta che l’abbia “caricata” gli basti leggerla direttamente come se ce l’avesse davanti. Insomma, la mente di Moore semplicemente non corrisponde ai nostri comuni standard operativi. Se questo sia il prodotto di un flusso sanguigno supplementare, di una mutazione genetica, di qualche strana forma di disordine da deficit d’attenzione, o se sia stato morso da un ragno radioattivo della canapa, lo sapremo probabilmente solo dopo che sarà stato effettuato un attento esame del suo cervello sotto vetro in qualche laboratorio di 2 Richard “Cheech” Marin e Tommy Chong, coppia comica degli anni Settanta e Ottanta basata su due personaggi di hippie strafatti, dediti all’amore libero e alle droghe, e in parte autobiografici. Marin è rimasto celebre anche ai nostri giorni soprattutto per le sue apparizioni nei film dell’amico Robert Rodriguez. 3 Serie supereroistica Marvel basata su un robot giocattolo, nota per essere uno dei punti più bassi della casa editrice americana.

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un lontano futuro. Nel frattempo, dovremo accontentarci di essere i principali beneficiari della superiore abilità di Alan Moore di convogliare memoria, linguaggio, intuizione e immaginazione nella forma di un’arte affascinante. Perché i fumetti che Alan Moore finora ci ha dato restano tra i più profondi e appassionanti che siano mai stati realizzati. Rick Veitch

Windham Hill, Vermont, settembre 2007

Mentre Alan Moore rifondava da zero i supereroi americani, Rick Veitch l’aveva già fatto. L’allievo di Joe Kubert disegna per lo stregone britannico fin da quando riesce a ricordare di aver disegnato per qualcuno (a parte che per suo fratello Tom), ed è oggi uno dei pochi amici sinceri che Moore può vantare nell’ambiente del fumetto. Ma il suo The One, geniale parabola spiritual-surrealista di supereroi mostruosi in epoca di Guerra Fredda, ha battuto Watchmen di due anni buoni. Da allora Rick ha navigato magistralmente fra mainstream e underground, ha narrato i suoi sogni a fumetti, ha fondato una casa editrice (la King Hell), una convention permanente online (www.comicon.com) e ha regalato ironia, suggestioni e inquietudini a molte

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

Capitolo 1

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L’idea come base: la concezione del fumetto

apete, viviamo in un vecchio, strano mondo. L’anno scorso1 su Mad Dog2 mi avevano chiamato «il Che Guevara dell’industria del fumetto». La settimana scorsa, Dave Gibbons3 mi ha fatto sapere che adesso sono diventato «il Terry Wogan4 dei comics». Benché non abbia idea di come sia potuta avvenire questa stupefacente metamorfosi, devo ammettere con riluttanza che possiede una sua sobria verità, e attendo con terrore l’inevitabile trasformazione finale in Pete Murray5. Ciò detto, mi rimane il timore che sia per me del tutto impossibile tenere a freno le mie innate tendenze all’autopromozione, quindi preparatevi a vedere ancora una volta l’uomo più sovraesposto del mondo dei funnybook che impartisce le sue lezioni. La più grande difficoltà nello scrivere o parlare di una qualunque attività creativa, dalla scrittura in sé alle esibizioni degli artisti da luna park, è che in molti casi i risultanti articoli o interviste non sembrano essere in grado di andare oltre le pure informazioni tecniche o le elencazioni degli strumenti preferiti. Non ho intenzione di calcare lo stesso vecchio sentiero qui, dicendovi che tipo di macchina da scrivere uso, o quale carta copiativa ritengo sia la migliore, dal momento che queste informazioni non farebbero la minima differenza per le vostre abilità scrittorie. Allo stesso modo, non penso che un resoconto dettagliato del mio metodo di lavoro sarebbe di grande utilità, anche perché ho notato che tale metodo tende a variare enormemente da storia a storia, e che tutti gli scrittori hanno la tendenza a sviluppare il proprio approccio in risposta alle circostanze in cui si trovano a lavorare. Più di ogni altra cosa, non ho intenzione di produrre nulla di anche solo lontanamente vicino a un «Come scrivere fumetti alla maniera di Alan Moore». Insegnare a una generazione di disegnatori o sceneggiatori emergenti come copiare la generazione che è venuta prima di 1 Moore sta scrivendo tra l’estate del 1985 e l’inizio del 1986. 2 Mad Dog (Dogma), rivista inglese indipendente pubblicata sotto il marchio Oddmags, e su cui Moore nel 1985 ha pubblicato la storia Captain Airstrip One (nel n. 10, per i disegni di Chris Brasted). 3 Collaboratore storico di Moore, conosciuto ai tempi della militanza sulla rivista britannica 2000 A.D., e a cui in seguito presterà i disegni per la storica miniserie Watchmen (DC Comics, 1986). Tra le sue altre opere, Give Me Liberty (Dark Horse, 1990), su testi di Frank Miller. 4 Sir Michael Terence Wogan, classe 1938, presentatore e intervistatore radiofonico e televisivo irlandese. Vera e propria istituzione popolare in Gran Bretagna, è uno dei nomi più noti nella storia della BBC. 5 Storico disc-jockey radiofonico e presentatore televisivo britannico, classe 1925. Di area conservatrice, è sicuramente un punto di riferimento meno prestigioso di Wogan.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

loro era già un’idea stupida quando la Marvel propose il suo manuale «How to Draw…»6, e sarebbe ugualmente irresponsabile da parte mia istruire scrittori che si affacciano sulla soglia della professione a scrivere didascalie stravaganti e malate quali «L’alba trasformò il cielo in un mattatoio», e cose del genere. John Buscema è sicuramente un grande artista, ma l’industria non ha bisogno di cinquanta tizi che disegnano come lui, non più di quanto non abbia bisogno di gente che scrive come me. Con tutto questo in mente, quel che amerei provare a mettere insieme è qualcosa che affronti la più vasta questione di come realmente possiamo concepire la scrittura del fumetto, piuttosto che una dettagliata lista di tecniche specifiche. Mi piacerebbe parlare degli approcci e dei processi mentali che soggiacciono alla scrittura vista nel suo insieme, piuttosto che dei metodi con cui questi processi vengono alla fine messi su carta. Per come la vedo io, il modo in cui ci accostiamo all’atto dello scrivere inevitabilmente influenzerà la forma delle opere che produrremo. E a giudicare dalla maggior parte dell’attuale produzione delle più importanti case editrici di fumetto, mi sembra che un vasto fattore che contribuisce alla sua generale mancanza di vitalità derivi proprio dagli stagnanti processi mentali con cui viene generata. Di sicuro, parlando dei generici standard di scrittura per fumetti, al momento attuale ho l’impressione di veder riutilizzare allo sfinimento le stesse strutture narrative automatiche e lo stesso approccio funzionale alla caratterizzazione, al punto che la gente trova sempre più difficile immaginare che possa esistere anche un modo diverso di fare le cose. Via via che le nostre concezioni basilari su questo mestiere diventano sempre più obsolete, ci accorgiamo che diviene a sua volta sempre più problematico creare qualcosa che abbia una qualche rilevanza per quel mondo in rapida trasformazione nel quale l’industria e i lettori che la supportano esistono realmente. E, per inciso, con “rilevanza” non intendo semplicemente storie che parlino di rapporti interrazziali o inquinamento, sebbene questo genere di cose costituiscano indubbiamente un aspetto importante della questione. Io parlo di storie che possiedano un qualche tipo di significato concreto in relazione al mondo che ci circonda, storie che riflettano la natura e la forma della vita in quest’ultimo scorcio del XX secolo. Storie che siano in qualche modo utili. Per ammissione generale, non sarebbe poi così difficile per l’industria del fumetto sopravvivere confortevolmente per un discreto ammontare di tempo facendo leva sulla nostalgia di gruppi specifici di lettori o sul semplice escapismo; ma un’industria che si demandi interamente a questo genere di settori è, a mio modo di vedere, del tutto impotente, e degna di una considerazione e di un interesse appena superiori al business delle cartoline d’auguri. Nel bene e nel male, la società come noi la conosciamo attraverserà vari incomprensibili cambiamenti nell’arco dei prossimi quarant’anni. Ammesso che si possa sopravvivere a questi cambiamenti (e non sarebbe granché utile ipotizzare altrimenti), e ammesso quindi che noi avremo un futuro, allora si dà il caso che alla fine saremo chiamati a venire a patti con esso. Per quanto mi riguarda, la scelta è piuttosto chiara: o cavalcheremo l’onda del cambiamento, o ne saremo travolti. Ciò si applica al mondo in generale, ma ovviamente, per quelli che sono 6 How to Draw Comics the Marvel Way (Simon & Schuster, New York, 1978), celebre libro scritto da Stan Lee e John Buscema e nato con il proposito di esporre agli aspiranti fumettisti la ricetta tecnica della casa editrice di Spider-Man. Buscema (1927-2002) è stato uno dei più importanti e rispettati disegnatori nella storia della Marvel.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

i nostri scopi qui, lo applicheremo specificamente a quell’ambito su cui tutti noi, appassionati di fumetto professionisti o non, possiamo esercitare qualche misura di controllo. Se il fumetto intende sopravvivere, dovrà al tempo stesso assecondare il cambiamento in atto e diventare abbastanza flessibile da sopportare anche il processo di cambiamento successivo, che a quel punto diverrà pressoché costante. Non sarà sufficiente cambiar vestito all’industria del fumetto. Nuove tecniche di stampa, nuovi personaggi, nuove attrezzature per la computergrafica… nessuna di queste cose farà la benché minima differenza a meno che le concezioni fondamentali su cui si fonda questa stessa forma espressiva non vengano messe in questione e modificate, per adattarsi a epoche diverse da quella per cui erano state originariamente ideate. Puoi produrre un fumetto con personaggi nuovi, vividi e interessanti, farlo disegnare da un computer, pubblicarlo in una lussuosa confezione7 e colorarlo utilizzando le più sofisticate tecnologie di scansione laser disponibili, e ci sono buone possibilità che si riveli comunque un mucchio di stronzate fiacche e a malapena leggibili. La ragione per cui scrivere un fumetto può considerarsi una fonte di problemi superiore anche all’atto stesso di disegnarlo è il fatto che la scrittura di un fumetto si pone proprio all’inizio di tutto il processo creativo che lo genera. E se la concezione che sta a monte della scrittura è inadeguata, la sceneggiatura sarà anch’essa inadeguata. Di conseguenza, anche una volta passato nelle mani del miglior artista del mondo, al fumetto finito mancherà qualcosa che nessuna quantità di brillanti colori e nessuna sofisticazione di stampa potrà mai sperare di compensare. Per cambiare il fumetto, dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare mentre lo creiamo, e l’esplorazione che state per leggere va considerata soltanto come un primo grossolano passo in questa direzione. Se vogliamo trovare un miglior punto di partenza, potrà forse rivelarsi interessante cominciare applicando intanto una più ampia considerazione dei fumetti e delle loro potenzialità, per poi procedere a ritroso: per riflettere sulla vostra concezione di fumetto, dovrete per prima cosa formarvi qualche idea sulla natura dell’oggetto che state considerando. Qui è dove ci scontriamo con la nostra prima difficoltà: tentando di definire il fumetto, la maggior parte dei commentatori si è avventurata poco più in là del tracciare comparazioni tra questo medium e le altre, più ampiamente accettate, forme d’arte. Si discute di fumetto nei termini del cinema, e in effetti molto del lessico operativo che io stesso uso ogni giorno per dare indicazioni sulle vignette a qualunque artista con cui mi capiti di lavorare è derivato interamente dal cinema. Parlo sempre di primi piani, campi lunghi, carrelli e panoramiche. È un sistema pratico per comunicare precise istruzioni visive, ma al tempo stesso tende a definire nella nostra mente le qualità del fumetto come virtualmente indistinguibili da quelle del cinema. E sebbene un approccio cinematografico abbia indubbiamente prodotto molte delle migliori opere a fumetti degli ultimi trent’anni, se esso viene assunto come modello su cui basare il nostro medium, a mio parere risulterà in definitiva limitante e restrittivo. Per dirne una, ogni emulazione della tecnica filmica da parte del medium fumetto soffrirà inevitabilmente il confronto. Certo, potete usare una scansione cinematografica della tavola per rendere il vostro lavoro �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� In originale, «Baxter package», dal nome di una nota azienda farmaceutica americana all’avanguardia nel confezionamento sterile di sicurezza.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

più coinvolgente e vivido rispetto a quello dei fumettisti che non abbiano ancora imparato il trucco; ma in ultima analisi ciò che otterrete sarà solo un film senza movimento né colonna sonora. L’uso di tecniche cinematografiche può senz’altro migliorare gli standard del disegno e della scrittura dei fumetti, ma se queste tecniche saranno viste come il punto più alto a cui l’arte del fumetto può aspirare, allora il medium stesso è condannato per sempre a essere un parente povero dell’industria del cinema. E questo non ci basta affatto. I fumetti vengono anche analizzati in termini letterari, nello sforzo di tracciare comparazioni tra le sequenze del fumetto e le forme letterarie convenzionali. Così, le “storie brevi” dei fumetti sono rigidamente modellate sulla formula classica ideata da scrittori quali O. Henry e Saki8, con il capovolgimento inaspettato nell’ultima vignetta. Ancor più scioccamente, opere a fumetti di più di 40 pagine vengono automaticamente equiparate a un romanzo, perdendo una volta di più nel confronto. Pur con la miglior buona volontà del mondo, se tentate di descrivere la graphic novel di Dazzler9 negli stessi termini che usereste per Moby Dick, vi state semplicemente mettendo in cerca di guai; Quindi, se da un lato avevamo film immobili e senza sonoro, qui avremo romanzi privi di respiro, profondità o scopo. E anche questo non ci basta affatto. A peggiorare le cose, anche quando si adottano le tecniche di altri media, si nota da parte dei creatori di fumetti la tendenza a rimanere fermamente ancorati al passato. Se osserviamo con attenzione coloro che vengono descritti come autori di fumetti dalla forte influenza cinematografica, scopriamo che solitamente abbiamo di fronte qualcuno che ha derivato la sua idea di cinema quasi unicamente dalle opere di Will Eisner, e per lo più da quelle che Eisner faceva trenta o quarant’anni fa. Non certo un cattivo posto da cui iniziare una ricerca stilistica, questo va detto; se non fosse quello in cui la maggior parte degli autori sembra anche concluderla. Eisner, ai bei tempi di The Spirit, utilizzava le tecniche cinematografiche di gente come Orson Welles, ottenendo splendidi effetti. I suoi imitatori usano a loro volta le tecniche di Orson Welles, riciclate di seconda mano, dimenticandosi che Eisner stava semplicemente prendendo spunto dalla cultura che lo circondava al suo tempo. Il cinema nei fumetti significa tutt’ora Welles, Alfred Hitchcock e al massimo un paio di altri, tutti autori che diedero il loro meglio almeno trent’anni fa. Se quello che si sta cercando è un vero approccio cinematografico, perché allora non esiste nessun tentativo di comprendere e adattare l’opera di pionieri contemporanei come Nick Roeg10 o Altman o Coppola? (In realtà, a questo punto dovrei forse segnalare che lo stimato Bryan Talbot ha compiuto un piacevolissimo lavoro applicando alcune delle tecniche di Roeg nella sua saga di Luther Arkwright11, ma questa non è che l’ec8 Pseudonimi rispettivamente dell’americano William Sydney Porter (1862-1910) e dell’inglese Hector Hugh Munro (1870-1916), scrittori di racconti celebri per i finali “a sorpresa”. 9 Dazzler: The Movie, di Jim Shooter, Frank Springer e Vince Colletta, pubblicata nel 1984 come numero 12 della serie «Marvel Graphic Novel» (in Italia su Supercomics nn. 19-21, Max Bunker Press, 1992), che tentava di dare maggiore profondità ai personaggi delle testate regolari con albi fuori serie di grande formato. La frivola storia di ambizioni cinematografiche dell’ex supereroina mutante Dazzler resterà famigerata come esempio dei più insipidi e involontariamente comici. ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� Nicolas Roeg, inglese, classe 1928, grande direttore della fotografia e autore di memorabili film di ricerca visiva e montaggio anti-narrativo come A Venezia… un dicembre rosso shocking (Don’t Look Now, 1973), L’uomo che cadde sulla Terra (The Man Who Fell to Earth, 1976) e Il lenzuolo viola (Bad Timing, 1980). 11 The Adventures of Luther Arkwright nn. 1-9 (Valkyrie Press, 1987-1989; ristampati in volume dalla Dark Horse). In Italia, Le avventure di Luther Arkwright nn. 1-4 (Telemaco, 1992).

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

cezione che conferma la regola). E perché, poi, le qualità letterarie dei fumetti devono essere derivate dalla narrativa pulp di trenta o quarant’anni fa, a prescindere dai meriti che questa può comunque avere? Piuttosto che baloccarci con le superficiali similarità tra fumetto e cinema o tra fumetto e letteratura, nella speranza che un po’ della rispettabilità di questi media rimanga appiccicata alla nostra opera, non sarebbe più costruttivo focalizzare la nostra attenzione su quegli aspetti che rendono il medium fumetto speciale e unico? Piuttosto che andare in cerca di quelle tecniche cinematografiche che il fumetto può replicare, non dovremmo invece considerare quelle tecniche fumettistiche che il cinema non può replicare? Per illustrare il tipo di concezioni che intendo, citerò un film che personalmente non ho visto ma di cui ho solo sentito parlare. S’intitola The Draftsman’s Contract12 , e la maggior parte della gente di mia conoscenza che l’ha visto ha reagito nello stesso identico modo: tutti concordano che si tratta di un film eccellente, costruito in modo brillante, con alcuni dei dialoghi meglio scritti che sia mai capitato loro di ascoltare; dicono anche che alla fine hanno capito di doverlo rivedere altre due o tre volte prima di riuscire ad apprezzarlo in tutta la sua complessità. Battute casuali all’inizio del film rivelano echi significativi che riverberano alla luce di scene successive, ma a meno che non si riesca a ricordare ogni osservazione accidentale o frammento di dialogo, quasi certamente se ne mancheranno parecchi. A sentire questi discorsi, mi colpì l’idea che questo film dovesse essere stato scritto con uno sguardo alla costruzione complessiva molto più simile a quello dei romanzieri che a quello degli sceneggiatori di cinema. Come si sa, un romanzo può permettersi una maggiore complessità letteraria; ogni lettore la assorbirà seguendo i propri ritmi, e potrà sempre tornare indietro per riesaminare sequenze precedenti, scorrendo semplicemente le pagine. In questo modo, un romanzo può essere apprezzato nella sua piena consistenza, e può raggiungere quei livelli di profondità e suggestione che si riscontrano in molti buone opere letterarie, ma in pochissimi fumetti o film. Mentre teoricamente, alla mia attuale velocità di lettura, avrei potuto leggere L’arcobaleno della gravità13 di Thomas Pynchon in qualcosa meno di otto ore, ho scelto di metterci due mesi, leggendolo nel modo giusto e assicurandomi di perdere il meno possibile. In una sala cinematografica non sarei stato in grado di compiere questa scelta. Laddove una trasposizione letteraria di The Draftsman’s Contract potrebbe richiedermi sei settimane per assimilarla, mentre sto guardando un film sono intrappolato nel rigido riquadro temporale dettato dal tempo di proiezione. Devo immergermi nel flusso filmico e sperare di riuscire a cogliere una quantità sufficiente del costante fluire di dettagli, in modo da poter dare alla fine un senso coerente alla storia. E anche così, c’è sempre un limite a ciò che la mente umana può assorbire e capire in un periodo di tempo strettamente definito. In termini di effetto generato sul lettore o sullo spettatore, questo fatto sottopone il cinema a limitazioni che un libro non deve necessariamente patire. ������������� In Italia, Il mistero dei giardini di Compton House (1982), secondo lungometraggio dell’inglese Peter Greenaway, regista-pittore dalla fortissima personalità che infonde ai suoi film intricate strutture matematiche e iconografie barocche, e che proprio con questo film si sarebbe fatto conoscere. All’epoca in cui Moore scrive era però ancora poco noto, tanto che il titolo del film è riportato erroneamente: è in realtà The Draughtsman’s Contract. �������������������������� Gravity’s Rainbow, 1973.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

Ma certo tutto questo non va a senso unico. Ci sono molte cose che il cinema può fare e che un racconto o un romanzo non possono. Le informazioni possono essere presentate in forma visiva, con stile efficiente e calibrato, comunicando personaggi e ambientazioni in una maniera che usando solo le parole richiederebbe una quantità innumerevole di pesanti descrizioni e narrazioni. Inoltre, dal momento che la nostra società contemporanea è maggiormente orientata verso gli aspetti visivi che non verso quelli letterari, la presenza di un flusso narrativo visuale fornisce all’opera un impatto sensorio molto più immediato e coinvolgente, benché in molti casi si rinunci a una maggiore profondità emotiva ed evocativa. Il punto di tutta questa nebulosa filippica è che mi sono reso conto che una versione a fumetti di The Draftsman’s Contract attingerebbe in vari modi al meglio dei due mondi. Posta una sufficiente intelligenza da parte dei creativi coinvolti, non c’è ragione per cui un fumetto non debba avere tutta la profondità e la complessità di un libro, nonché il flusso visivo e le attrattive di un film, potendo al tempo stesso essere letto e apprezzato al ritmo che il lettore ritenga più consono. In termini di effetto intellettuale ed emozionale sul lettore, tutto questo sembra rappresentare un vantaggio che il fumetto farebbe bene a sfruttare. In fin dei conti, è l’effetto che determina il successo di un dato prodotto artistico così come di un’intera forma d’arte, e mentre considerazioni critiche astratte riguardanti l’intrinseca qualità di un’opera possono offrirci alcuni utili appigli grazie ai quali possiamo comprenderla e apprezzarla più pienamente, l’arte comunque avrà successo o fallirà in base ai reali effetti che genera sui singoli membri del suo pubblico. Se li stimolerà o li ecciterà, essi risponderanno. Altrimenti, andranno a cercare altrove qualcosa che lo faccia. Il fumetto possiede una capacità di generare effetti che non ha ancora nemmeno cominciato a sfruttare, e viene trattenuto da nozioni ristrette e sempre più superate su ciò che costituisce una storia a fumetti. Affinché tutto il fumetto come medium faccia un passo avanti, queste nozioni devono cambiare. Laddove un tempo nell’industria si credeva che concedere a disegnatori e scrittori più libertà creativa o una parziale proprietà commerciale della propria opera avrebbe prodotto una fenomenale ondata di creatività e inventiva, questo si è rivelato non essere vero. Con pochissime marcate eccezioni, molto del materiale creator-owned14 prodotto dalle case editrici indipendenti è risultato praticamente indistinguibile dai prodotti mainstream15 che lo avevano preceduto. A me sembra che ciò dimostri come il problema non risieda principalmente nelle condizioni di lavoro o negli incentivi; il problema è di tipo creativo, ed è solo al più basilare livello su cui si fonda la creatività che potrà trovare la sua soluzione. Ma non penso che questa soluzione arriverà senza un drastico miglioramento negli standard della scrittura a fumetti, poiché, come ho già sottolineato in precedenza, il ruolo dello sceneggiatore si situa all’inizio dell’intero processo creativo. Per giungere a questo fine, quindi, procederemo con la nostra analisi e io farò del mio meglio per mettere in evidenza alcuni dei problemi e delle ������������������������������������������������������������������������������������������������������� Il termine con cui si indicano le opere i cui diritti di sfruttamento sono di proprietà degli autori. ����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� Letteralmente, “flusso principale”. Soprattutto nel campo delle arti, indica quei prodotti concepiti e distribuiti per raggiungere le grandi masse dei fruitori, e che quindi risentono di questo criterio nelle loro caratteristiche estetiche, formali e di contenuto. L’opposto di “indipendente” o “alternativo”.

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potenzialità che recepisco in vari aspetti della scrittura dei fumetti. Ovviamente, molte di queste osservazioni sono tratte dalla mia esperienza personale e dovranno perciò essere considerate altamente soggettive; esistono senza dubbio modi migliori per gestire i vari e differenti elementi che esaminerò più avanti, ma questo è il modo con cui ho personalmente cercato di affrontarli, per quel che vale. M’interessa di più dare un’idea del livello di riflessione di cui il fumetto ha bisogno, piuttosto che dare a intendere di aver escogitato delle risposte concrete; ciò che spero è che le idee e le tecniche menzionate da qui in avanti possano offrire un evolutivo punto di svolta, a partire dal quale chiunque sia interessato può avanzare fino a trovare le proprie personali conclusioni e soluzioni. Ancora una volta, la difficoltà è sapere da dove cominciare. Estesa è la gamma di considerazioni che devono essere applicate anche alla più semplice delle storie a fumetti, e non avrà una vera rilevanza quale componente scegliamo di esaminare per prima. Sono tutte interconnesse, e tutte esercitano un’influenza l’una sull’altra. In tal modo, possiamo pure liberarci innanzitutto degli elementi più intangibili e astratti, per progredire poi verso i più raffinati e precisi aspetti dell’arte del fumetto. Un valido punto di partenza potrebbe forse essere quell’elemento che si annida nel cuore stesso di ogni processo creativo: l’idea. L’idea è ciò di cui una storia parla; non la trama, o lo svolgimento degli eventi all’interno di quella storia, ma ciò di cui essenzialmente la storia tratta. Per fare un esempio preso dal mio lavoro (non perché sia un esempio particolarmente buono, ma solo perché posso parlarne con più cognizione di quanto potrei nel caso del lavoro di altri), citerò il numero 40 di Swamp Thing, l’episodio intitolato La maledizione16. Questa storia tratta delle difficoltà patite dalle donne nelle società maschiliste, usando il comune tabù delle mestruazioni come motivo centrale. Ma ciò che ho appena esposto non è la trama della storia – la vera trama riguarda una giovane donna sposata che si trasferisce in una nuova casa costruita sul sito di un vecchio insediamento indiano e si ritrova posseduta dallo spirito dominante che lì ancora risiede, trasformandosi in una specie di licantropo. Spero che a questo punto risulti chiara la distinzione tra idea e trama, perché è una distinzione importante, ignorata da troppi scrittori. La maggioranza delle storie dei comic book17 hanno trame in cui ciò che unicamente conta è la lotta fra due o più antagonisti. La risoluzione della lotta, che di solito coinvolge una qualche manifestazione di superpoteri da deus ex machina, coincide anche con lo scioglimento della trama. Al di là di qualche vaga e insignificante banalità come «il Bene trionferà sempre sul Male», nella vasta maggioranza dei fumetti non c’è nessuna vera idea centrale, tranne l’idea del conflitto come elemento interessante di per se stesso. Naturalmente, l’idea non ha sempre bisogno di essere profonda e ricolma di senso e significato. Ci sono molti differenti tipi di idea, che spaziano dal «cosa succederebbe o sarebbe 16 The Curse, su Swamp Thing n. 40, DC Comics, settembre 1985. Pubblicato in Italia su Swamp Thing vol. 3: La maledizione Magic Press, 2006. Disegni di Stephen Bissette e John Totleben. �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� Con questo termine, Moore indica essenzialmente i fumetti pubblicati secondo il modello industriale americano, in albi a cadenza regolare che ripresentano di uscita in uscita gli stessi personaggi. Soprattutto dal punto di vista di un inglese, un comic book è anche strettamente associato al tipo di fumetto maggiormente in voga negli Stati Uniti del secondo dopoguerra al di fuori delle strisce dei quotidiani, ovvero il fumetto di tema supereroistico, a uso e consumo di un pubblico massificato di lettori preadolescenti.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

La maledizione, da Swamp Thing n. 40 Š DC Comics / Edizioni Magic Press


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successo se…?»18, concetto utilizzato da molta narrativa di fantascienza, allo sguardo sulla vita quotidiana vista come argomento in sé meritevole e affascinante, tipico delle opere di un Harvey Pekar o di un Eddie Campbell19. Le idee sulle realtà alternative sono state la base per molte storie brevi di fantascienza in stile future shock20 , come nel mio caso i raccontini di cinque pagine L’uomo reversibile (cosa succederebbe se la gente percepisse lo scorrere del tempo all’inverso?), Colpo di sole (cosa succederebbe se fosse possibile per gli esseri umani vivere sul Sole?), o I grokk che portano doni (cosa succederebbe se un branco di rozzi e volgari alieni facesse alla nostra società ciò che noi abbiamo fatto ai pellerossa e alle altre tribù aborigene?)21. La natura dell’idea non è veramente importante, ciò che conta è semplicemente che ci sia un’idea da qualche parte nella storia. Può essere sciocca e frivola, magari soltanto l’idea per una singola gag; oppure può essere complessa e profonda. L’unica qualità che l’idea dovrebbe sempre e assolutamente sforzarsi di avere è quella di essere, in qualche misura, interessante – sia che si tratti di un breve intrattenimento concepito per mantenere l’attenzione di chi lo legge per non più di cinque minuti, sia nel caso di un’opera più estesa e ponderata, ideata per continuare a stimolare la mente del lettore anche molto tempo dopo che il fumetto è stato messo via. A quanto pare, sapere da dove concretamente si originino le idee è una preoccupazione fondamentale per la maggior parte della gente desiderosa d’imparare a scrivere fumetti, ed è probabilmente la singola domanda che ciascun creativo si sente fare più spesso. Poco sorprendentemente, è anche la domanda che più spesso rimane priva di risposta. Se fossi costretto mediante minaccia o tortura a dare una risposta concisa, probabilmente direi che le idee sembrano sbocciare a un fertile punto d’incrocio tra le proprie influenze artistiche e le proprie esperienze personali. Studiare le opere altrui fornirà utili indicatori su come formulare un’idea, ma l’iniziale e crudo impeto che la genera potrà provenire soltanto dall’interno degli stessi scrittori o creativi, e sarà influenzato dalle loro opinioni, dai loro pregiudizi, da tutte le cose che sono loro capitate e da tutti gli elementi delle loro vite che hanno contribuito a fare di loro il tipo di persone che sono. Non esiste possibile sostituto all’esperienza pratica, e se è di persone reali che volete scrivere, dovrete posare quel fumetto e uscire a incontrarne qualcuna, piuttosto che mettervi a studiare il modo in cui Stan Lee o Chris Claremont descrivono le persone. Diventa questione di mettere a fuoco le vostre percezioni per notare piccole imperfezioni ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� In originale, «What if…?». Questo classico stratagemma narrativo ha dato vita a due note collane supereroistiche mainstream, l’omonima della Marvel (pubblicata in comic book dal 1977 al 1984, e poi dal 1989 al 2000, con brevi reprise più recenti) e i volumi Elseworlds della DC. ���������������������������������������������� Il primo, americano, è l’autore della serie American Splendor (1976-1993) e il primo grande alfiere dell’autobiografismo a fumetti. Il secondo, scozzese trasferitosi in Australia, ha al suo attivo una quantità di premiati volumi autobiografici o semi-autobiografici. ������������������������������������������������������������������������������������������������� Espressione originata dal titolo del libro omonimo scritto dal sociologo e futurologo Alvin Toffler ��������������������������� nel 1970, e che diede anche il nome alla serie di brevi fumetti (Tharg’s Future Shocks) pubblicati sulla rivista inglese 2000 A.D. negli anni Ottanta, alcuni dei quali sono di seguito citati da Moore. ��������������������������� Nell’ordine si tratta di The Reversible Man (disegni di Mike White, su 2000 A.D. n. 308, marzo 1983); Sunburn (ricordato da Moore con il titolo A Place in the Sun, disegni di Jesus Redondo, su 2000 A.D. n. 282, settembre 1982); e Grawks Bearing Gifts (disegni di Ian Gibson, su 2000 A.D. n. 203, marzo 1981). Queste e altre storie dalla stessa provenienza sono state raccolte in Italia nei volumi Futuri incredibili (Magic Press, 1999) e Tempi contorti (Magic Press, 2000).

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L’uomo reversibile, da 2000 A.D. n. 308 © Fleetway / IPC Media / Egmont / Edizioni Magic Press


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estemporanee che potrebbero altrimenti passare inosservate, e studiare il vostro stesso comportamento e il comportamento di persone ed eventi circostanti, finché non sentirete di aver sviluppato un punto di vista coerente sulla vita e sulla realtà, o almeno uno che vi fornisca una prospettiva in grado di suggerire idee per storie che risultino personali e originali. Eddie Campbell, per tornare a un autore che ho già citato in precedenza, ha sviluppato uno straordinario sguardo percettivo per le particolarità e curiosità dell’esistenza, ed è questo che gli permette di prendere elementi che avrebbero potuto altrimenti apparire ordinari e privi d’interesse e trasformarli in qualcosa al tempo stesso rivelatorio e appassionante. Ciò che voglio dire è che non si può insegnare alla gente ad avere intuizioni e idee nel modo in cui le ha Eddie; dovrete semplicemente fare in modo che la vostra mente si direzioni in una certa maniera, in rapporto al modo in cui voi vedete la vita, e alla fine scoprirete che le idee vi nasceranno spontaneamente, quasi senza alcun bisogno di stimolarle. Un punto di vista unico e nuovo porterà sempre con sé cose uniche e nuove da dire o di cui parlare. Se vista nel modo giusto, qualunque cosa può diventare una fonte d’idee. Aprite il giornale alla pagina finanziaria e leggete della crescente crisi del debito internazionale, un argomento che può sembrare incredibilmente arido e noioso in superficie, ma che in realtà cela una situazione meravigliosamente folle che con ogni probabilità influenzerà le vite di chiunque si trovi a vivere su questo pianeta nel corso dei prossimi due o tre decenni. C’è un modo in cui può essere reso interessante per il lettore medio? Forse in veste spiritosa, o forse in veste terrorizzante? E se raccontassimo tutto questo sotto forma di un’allegoria fantastica, ambientandolo su un pianeta alieno, con al posto dei soldi qualcosa di assurdo come pelli di topo? L’idea di un ammasso di alieni imbecilli che mandano irrevocabilmente in rovina il loro pianeta per un ammasso di pelli di topo potrebbe essere divertente? O che ne dite di farne invece una storia realistica assolutamente seria, sostituendo i grandi interessi nazionali con quelli dei singoli individui, così che il problema possa essere visto in termini umani più ristretti e individuali, forse per mezzo dell’impiegato di una società di prestiti che cerca di raccogliere i pagamenti nel brutale scenario di un condominio popolare abusivo? C’è qualcosa in questa idea capace di mantenere l’attenzione di un lettore per dieci o quindici minuti? In alternativa, forse potrebbe essere qualche evento del vostro passato a fornirvi il germe di un’idea. Per esempio, quand’ero bambino, se i miei genitori scoprivano qualche mio piccolo crimine di cui ero sicuro non potessero assolutamente essere a conoscenza, a volte mi veniva da pensare che gli adulti dovessero possedere qualche potere speciale che li rendeva in grado di sapere sempre tutto, e la cui esistenza veniva tenuta nascosta ai bambini. Di più, qualche volta mi convincevo che tutti quanti nel mondo avessero questa capacità tranne me, e che io fossi la sola persona esclusa da questa gigantesca cospirazione telepatica. (Se qualcuno continua ad avere questo genere di pensieri dopo i nove anni, o è un paranoico schizofrenico, o è uno scrittore di fumetti, ammesso che valga la pena fare una distinzione). Usando questo irrazionale timore infantile come punto di partenza, potrebbe essere possibile ricavarne una specie di fantasia alla Ray Bradbury sul mondo visto dagli occhi dei bambini, o forse un cupo horror psicologico sulla paranoia come fenomeno in sé, magari con il bambino sofferente di 19


Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

deliri persecutori che da grande diventa un disturbato agente segreto in incognito sul lato sbagliato del Muro di Berlino, intrappolato in un mondo in cui tutte le sue paure d’infanzia sono diventate reali e tangibili. Siete pregati però di tener presente che le idee che ho appena esposto non intendevano essere necessariamente buone idee. Sono solo esempi improvvisati dei passaggi con i quali si può arrivare a formulare idee di partenza per delle storie, su cui poi lavorare. Dovrei forse anche sottolineare il fatto che per costruire una storia, non è sempre necessario partire da un’idea. È ben possibile trovare l’ispirazione che conduce a una storia nel ricorso a procedimenti tecnici puramente astratti, o a una certa particolare progressione sequenziale delle vignette, e cose del genere. A un certo punto del processo creativo, però, dal lavoro deve cominciare a emergere un’idea coerente che vada al di là della semplice forma stilistica dei suoi meccanismi interni. Se vi capita di pensare a un’unica piccola sequenza di quattro vignette, slegata da ogni contesto, non è un problema; però a quel punto dovrete cercare di sviluppare il tipo di atmosfera o il tipo d’idea che quelle quattro vignette riescono a esprimere meglio. Per fare un esempio di questo approccio proveniente da una mia esperienza, i concetti originari sui quali ho poi costruito i miei primi quattro o cinque numeri di Swamp Thing presero vita come una manciata di idee slegate per sequenze che individualmente avevano poco significato. Un’idea verteva sul fatto che sarebbe stato carino sfruttare in qualche modo la capacità di Swamp Thing di mimetizzarsi; forse potevo fare in modo che una parte di una sua gamba o del suo corpo fossero visibili in primo piano da qualche parte in una vignetta, mentre il lettore e gli altri personaggi in scena di primo acchito non si rendevano conto che ciò che stavano guardando era la creatura della palude. Questo finì col dar luogo alle prime due pagine del numero 22, Impantanato22 . Un’altra idea che ebbi nello stesso periodo riguardava l’impiego dei vecchi cartelloni Burma Shave23, che un tempo correvano lungo tutte le statali americane, con quel lettering così regolare e in rima; volevo trovare il modo d’inserirne uno in una sequenza di didascalie in rima fatta in modo che l’ultimo verso «Burma Shave» fosse un vero cartellone visibile nella vignetta, e non un riquadro di didascalia. Questo concetto generò le ultime due pagine del numero 26, Il momento di correre...24, anche se quando pensai alla sequenza non avevo ancora idea della forma che alla fine avrebbe assunto o della parte che avrebbe giocato nella linea narrativa complessiva della storia in cui l’avrei utilizzata. Tenni semplicemente l’idea in sospeso finché non trovai lo spiraglio adatto per inserirla, e quando infine ebbi bisogno di qualcosa di drastico da far accadere al personaggio di Matt Cable, la tirai fuori, trasformandola in una scena d’incidente d’auto. Il punto è che non posso fare altro che tenere questo tipo di sequenze sotto ghiaccio, fino a quando non ho elaborato un’idea narrativa a cui 22 Swamped, su The Saga of the Swamp Thing n. 22, DC Comics, marzo 1984. Pubblicato in Italia su Swamp Thing vol. 1: La saga di Swamp Thing, Magic Press, 2003. Disegni di Stephen Bissette e John Totleben. ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� Celebre schiuma da barba famosa per i suoi grandi cartelloni pubblicitari stradali con slogan in rima. I cartelloni apparvero regolarmente ai bordi delle strade di quasi ogni parte degli Stati Uniti dal 1925 al 1963, diventando parte del folklore popolare. Purtroppo nell’edizione italiana la rima va persa. L’originale suonava così: «The night can make / a man more brave… / …but not more sober. / Burma Shave». 24 A Time of Running..., su The Saga of the Swamp Thing n. 26, DC Comics, luglio 1984. Pubblicato in Italia su Swamp Thing vol. 1: La saga di Swamp Thing, Magic Press, 2003. Disegni di Stephen Bissette e John Totleben.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

riescano a fare da complemento. Come ho detto, non è necessario partire per forza da un’idea, ma da qualche parte lungo la strada l’idea deve saltar fuori, se si vuole che la nostra opera abbia un minimo impatto.

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Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

Impantanato, da The Saga of the Swamp Thing n. 22 Š DC Comics / Edizioni Magic Press


Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

Impantanato, da The Saga of the Swamp Thing n. 22 Š DC Comics / Edizioni Magic Press


Capitolo 1. L’idea come base: la concezione del fumetto

Il momento di correre…, da The Saga of the Swamp Thing n. 26 © DC Comics / Edizioni Magic Press


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