La Maiellade

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P a u l o

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Pubblicazioni dello stesso autore I Canti (18) del trovatore Arnaldo Daniello - trad. dal provenzale Del Colloquio - La scoliosi idiopatica - Agopuntura cinese orig.le - Scritti di scienza - La neurosaltazione per l’emiplegico adulto. Il Pilastro (Pidauro e Codice di Mohari) La Bùccina e il mare (Conchilia) - poesie - nona edizione Il principe delle onde - Racconti: Sogni rusticani - Le meraviglie della Ninfa Aveja - Petali (nuovi racconti) Herbarium Compositum - Trattato di Fitoterapia Medica - in Codice La Comedianza - Poema - Nuova edizione in dieci canti Discorso al Congresso Unione Induista Italiana - Registrato in CD - Milano 1998 - Comizi - Interventi civili Il Lago di Kama - Romanzo - in preparazione Trattato di anatomia umana - disegni Omaggio al divino Michelangelo - disegni Maschere italiane dell’arte e AA. - disegni Momenti della mia vita - autobiografia - (in preparazione) Teatro: La Morte e il chiodo - Sybilia - Ciano La Luna si fermò di camminare - poesie Arie di Roma andalusa (primi canti - Amate sponde, Blu celeste blu, Ballata per Meredith, Amarcantando) Centauro sogna (Il Fauno e la Ninfa - musica e satira) - poesie Isole tutte d’oro - poesie Melania - polidramma in un atto e tre momenti - testo e musica Il Gherardesco - opera lirica in tre atti - testo e musica - ispirata alla vita del Conte Ugolino della Gherardesca Vita e morte del centauro Chirone - balletto - testo e musica Paulo recita Garçia Lorca - CD


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Prefazione del redattore

In un’intervista di Paulo Varo su “L’AquilaNOI”, il poeta dichiarava di voler comporre un poema, patriottico, dal titolo, allora momentaneo: “La Majellade”. E questo è avvenuto, non ha mancato di parola. Il titolo è confermato e la stesura compiuta. Il poema comprende centosessanta stanze di otto versi ciascuna, cioè un’ottava, sulla scia di quelle classiche e insuperabili dell’Ariosto e del Tasso. La storia la rassumiamo brevemente per chi non ricordasse l’intervista riportata sopra. È la vicenda di tre donne: Morgana, Magalda e Malinda, che assistono, durante un assedio al proprio paese montano, che il poeta ha voluto chiamare “Filetto”*, alla totale distruzione dello stesso. Nascoste dietro degli alberi caduti, osservano il rapimento di Assuero, il figlioletto di Morgana, da parte di una tedesca (Fraula) e di un’italiana, (Lanzara). Le tre donne si danno alla macchia, combattendo, guidate dal leggendario comandante Ettore Troilo, per ricongiungersi con i patrioti della brigata Majella. Conquistando, liberando città, da Teramo in poi, giungono, dopo molte avventure, a Gorizia, dopo aver trovato Assuero, il bambino di Morgana. Quello di Paulo non vuol essere solo un’opera poetica ma uno spunto per dare, a suo modo e parere, una visione nuova della vita basata su insegnamenti completamente diversi da quelli della tradizione occidentale. Si resta sconcertati, nel sentire che tante soluzioni del vivere quotidiano sono, in realtà, l’applicazione del più normale buonsenso. Dall’Aveja rinnovata il 23/01/2018 Ezio Gallerani

*In memoria della strage vera, perpetrata da tedeschi e fascisti insieme, nel 1944.


Morgana Le Trionie

Magalda Malinda Orbadio

Pastore gigante, monocolo, indovino.

Troilo

Capo, generale della piccola armata

La Cincia

Donna anziana che alleva animali, soprattutto maiali, ma non li uccide

La Fraula SS tedesca

La Lanzara SS italiana

Assuero

Figlio di Morgana

Orsobruno Vivandiere

Ecuba ed Algia Staffette partigiane

La Sibylla dell’Appennino Indovina

Moribaldo

nemico calvo, spia tedesca

Jonny Smith

maggiore inglese


Ergo etiam cum me supremus adeberit ignis vivam, parsque mei multa superstet erit. E allora anch’io quando l’ultima fiamma consumato mi avrà io sarò vivo e molta parte di me mi sopravviverà. Trad. Paolo Varo Ovidio Amori X, p. 139-42

Prologo

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Venere Madre, Tu che sei prima forza tra di quelle che furono create, io dico, di animali e di piante, ed uomini, e di laghi, e con i fiumi e con i pesci ameni, aiutami, ti prego, a raccontar la storia di tre donne, giĂ scampate al gherminar di Vandali e Moreschi*, e son: Morgana, Magalda e Malinda.

* Vandali e Moreschi sono, per l’Autore, rispettivamente i tedeschi e i fascisti loro alleati. Con quegli appellattivi saranno chiamati per tutto il poema. (n.d.r.)

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Canto I

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Insegnami a cantar del figlioletto, Assuero, di Morgana, ch’è rapito da Fraula trista e l’itala Lanzara, che vanno di soppiatto verso il Nord. E sempre, genitrice, ché sei tu, di vita, proteggi il bimbo Assuero d’insidiosa guerra, poiché i Fati lo voller preservare qual testimone d’un’oppressa terra. 2

Allora “le Trionie”, addolorate, fra le Morte cose, a seppellire, i cari lor si misero, defunti. Oh, quell’orrore! Ch’eran morti da poco e di già il vento il manto di squallor lui seminò tra le sventrate case, a quel paese ch’io chiamai Filetto, sacro oramai a quei pietosi Dei. Lungi dal

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tetto eran partiti i Vandali nemici, e il figlioletto Assuero facea temer di quelle belve immani, ché la Morte, per loro, era un regal del vivere ed accese in lor la voglia a principiar di nuovo una partita. Ora il nemico s’era posto avanti, sopra di quelle crode, ch’era ordita. 4

Saliron su pei monti dell’Arischia, ove cantava il vento della sera quella nostalgica preghiera della futura Libertà. Era la fonte di San Franco, quasi una chimera, era il ristoro per chi avea le mani dilaniate a disserrar le fosse degli umani. Ed eran lì i pastori pel ristoro.

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«- O pastor generoso, dicci, su, se mai vedeste sopra queste balze salir due donne armate e un citoletto seco. Eran nemiche, quelle, infami, e quel bambino, quello m’è figlio, e fa’ di nome Assuero. Oh, se sai il vero, dillo, noi ti preghiamo, sii sincero, ché si va alla lotta.» «-Quella è la strada, e 6

questo è il mio sentiero.» E dondolando, sparve, portando tra le braccia l’ultimo agnello. Badami, o figlio: la guerra muta il cuore del leone e prende le sembianze del coniglio. E allora, su, in cammino, in mezzo ai boschi, fino a veder quell’Interamnie mura, ove la Libertà covava sotto il

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Fuoco la sua arsura. E tra quei monti passò un barroccio pien di legna e d’armi, ch’era un patriota, il legnaiuolo audace, andante verso il lago Campotosto, nell’ azzurro e nel verde del mattino. Dolce una barca oscilla sotto il sole e dentro tre nemici a riposare. 8

Ma da un poggio, sotto un cannocchiale, l’arme muoveva a scegliere la mira. E la lor morte venne, e l’ebber di tra l’acque dal color del mare. Ma poi pensando che il nemico ne traesse offesa, un pescator con grosse pietre la colmò e con l’ascia di tra l’onde la calò.

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Prese dunque le armi dei nemici e riassettato il sito principiorno il cammino verso la Majella, ove stavan le forze in libertà , in attesa di una forte ripartita. Ma nel salir senza una meta piÚ precisa giunsero all’antro del pastore Orbadio, un gran gigante, che diede lor conforto e piÚ ricetto.

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Canto II

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«- Narraci dunque, pastor, che l’hai visto, il male della guerra e il suo rimedio, se ve n’è, chè l’Uomo come pianta ne coltiva istinto». «- Devi saper che guerra è man d’Eterno. E guai se non vi fosse, perché la morte non darebbe vita. Fa’ il tuo dovere senza alcun

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guadagno. E chi fà per predare, o una ragione, si troverà nei giri dell’inferno, ove il suo karma, dopo il giudicare, avrà per premio un’eterna prigione. Il mondo è un dare e un avere ma se tu “vuoi” un giorno avrai anche tu da riemendare. Sii giusto e sii benigno anche nel male.

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ché nella guerra è il karma di ciascun, che quando somma, esplode senza fine, e ognun di noi, non chiederti perché, abbia una sorte più tremenda. Vi fu la Grande Guerra, di tra neve e fango, e la fame e la morte. Ed io, dietro a un mio figlio, più di tutto amato, cercai il suo corpo in ogni anfratto, ed oggi

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ancor ne piango. Perché lui, e non io? È sol nel karma, come dice un Dio, che si ritrova il lume di ragione.» «-Pastore Orbadio, grande pena per te provo sol io, perché il mio figlio, il piccolo Assuero, mi fu rapito or ora dal nemico, ma il cuor mi dice che sia ancora vivo.

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Che ne sarà di lui, se non lo trovo? E i nostri furon morti, e a malapena noi, noi li seppellimmo, ma noi saprem di vendicarli, seppur siam donne, ché del riscatto ci sentiam colonne. Forse di qui saran passate. E quai paesi stanno su di noi, sì che si possano attaccar, con l’arme che prendemmo?»

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- Molto impervia e ferale è la Regione e andar bisogna cauti, ché il nemico s’è barricato all’ombra del Castone. Disse Malinda allora a quel pastore: - Se strologo tu sei, come si dice, metti quell’arte tua per divinare in qual dimora si saran nascosti i traditori nel fatale andare.

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- Disse il pastore - cosa è ben che fatta. Prese dal fuoco un carbonetto e su pelle di pecora polita, lui tracciò dei segni, di quei paesi che eran d’altipiano, e circondò col segno del sospetto su quelle case ch’ei sapeva il detto. Poi un filo e un tubero pesante, ben legato, usò a mò di

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pendolo sagace. Tutti a guardare del responso il fatto, quando il pendolo vibrò con largo andare, come un’ aquila che vede la sua preda ed è certa di poterla conquistare. - È qui, ecco dov’è la casa in cui passâr tanti nemici. Su su dunque, apprestiamoci a partire per la lotta.

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Morgana, Magalda e Malinda, preser l’armi ed il sacco pien di vettovaglie, da quel gigante buono ch’era Orbadio, ma più la mappa era importante, onde saper d’andar sicuri a soddisfar l’impresa. Su per i boschi il trio saliva trepidante, in armi era già pronto, temendo non dover colpir

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l’infante. E morte e fumo li colpì violenti, allor che apparve la radura e la grande aia. I corpi messi lì giacean scomposti come una scena antica di teatro. In gran silenzio, motteggia il lupo e stride la ghiandaia. Quatte quatte quelle donne armate vanno alla casa a porte dissestate.

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Canto III

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Vedon quattro nemici, uccisi, intorno al tavolino, e dei boccali pieni ancor di vino, e là, dintorno, a un fuoco del camino una borraccia, ancor di latte piena e panni di donnesca traccia. La Fraula e la Lanzara e il pargoletto eran spariti, regolando ognuno il suo futuro, in una fuga amara.

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Così, dopo una pausa di riposo dall’ atroce quadro, tenendo la sinistra, sotto un poggio, vider le mura di Città Turrita. Era Interamnia, dunque; ed ora non più sole, ora il Comando, che ragione vuol non aspettare… - «mani in alto!!» Fu una brusca voce, a raggelare l’attimo a sorpresa.

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- «Buona gente - Melinda cominciò - tre donne sole, non vedeste? siam partigiane, e combattenti; dal monte dell’Arischia qui venute, ché il nemico sterminò la gente nostra. Il figlio di Morgana, qui presente, di due anni appena, ci fu rapito da due donne infami, Fraula e Lanzara.»

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- «Giù le mani, sorelle, siate benvenute. Noi le vedemmo gattonar di mezzo agli orti, e mai pensammo fossero nemiche. Il citolello gli pendeva avanti, ad una, vestite entrambe all’uso delle nostre. Ora si trovan prese tra due fuochi e il piccolo è un ostaggio, non possiam colpire.»

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Magalda disse al bravo comandante: - «dicci il tuo scopo e illustra la ragione, e dì le mosse, onde si possa contrastare il piano scellerato del nemico e averne una ragione.» - «La zona è molto dura, molte le mine, e sentinelle e agguati, e la vallata è lunga assai, e sul monte, di fronte, un nugolo di armati.

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Tutte le forze si raduneranno per l’assalto finale, a liberar la via per conquistar le mura e la città, ch’è Castronuovo. Una porta è minata, la minai io stesso. All’ ora consacrata, su, senza paura, sgomineremo il lurco dal suo covo.» E intanto il cielo brontolando

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annotta. Pareva quasi un tetto, quella balza, ove poggiati s’eran per la notte, e attendêr l’alba. Chi sfinito dormiva, chi ben riparato accese per fumar, pensando al poi, pensando ai figli, alla sua casa, in preda all’aggressore, mentre in silenzio, lì, passavan l’ore.

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Forte l’aspettazione dei perigli, il tempo è disumano, quando l’orecchio induce il tuo pensier verso l’azione, che imminente l’attende. Comincia con un pallido colore in ciel l’aurora dall’eterne dita; era quella di sempre, in carro d’oro uscita, lenta, più lenta, attende il principiar

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della partita. Un tocco secco li destò come dal nulla. Era la sveglia in seno al grande Troilo, era l’azione. Boato, e fuoco dentro immensa fiamma. Tutto tremò, fu pien di calcinacci sparsi intorno. E un urlo si levò. Da sotto d’una balza eran postati altri gloriosi giovin partigiani. Avanti!!!

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Canto IV

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Qui c’è la gloria! C’è la libertà! Balzaron tra le nuvole di fumo, crepitando le armi, e più le bombe. Ora il nemico, preso all’impronta, senza un’avvisaglia batteva in ogni dove, col ritmico scandir della mitraglia. «Avanti! Sulla porta!!!» Il Comandante urlava a squarciagola, e gli uomini da basso, come fiere,

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saltano innanzi nello squarcio ardito, verso le case ignare del quartiere. Assai caduti videro all’istante. Dormivan nella morte come fiere ammansite, il teutonico mal con le Brigate Nere. Fratelli lor di sangue, antica razza longobarda, mai sopita, scelsero il karma di un’eterna ferita.

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Le Trionie intanto presero il plauso e il giubiular delle genti, che accorser poi a por fine alla battaglia, pel valore e l’impeto impiegato. E mentre altri eran pronti a coglier prigionieri, le tre donne scesero a una corte, piena di animali, per saper se le nemiche oscene

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col piccoletto Assuero, eran passate. Sull’aia, qui, la brava donna, Cincia si nomava, allevava animali da cortile, ma piÚ teneva come cagnolini dei piccoli natelli di maiali che, disse all’istante, li teneva a caro sol per far del concime, e mai sarebbero passati a far da mensa all’uom corsaro.

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Cincia le disse che eran state lì, donne vestite ormai nell’uso contadino, e circospette assai, perché eran diventate disertore, manifeste a tutti, e prenderle perciò, per il nemico, era come se fosse un punto nell’onore. Disse la Cincia in petto alla Morgana: Sei tu la mamma, vero?

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Quel bimbo, che chiamavano già Fritz, ma non sarà poi vero il nome suo - «Si chiama Assuero - disse Morgana. - stava bene? Aveva un po’ di latte? - Io gliene diedi assai, un po’ di pane e frutta che ho nell’orto. Ma una cosa ti dico, poiché io mi ero accorta che non di loro era il quatrano, in bella mostra esposto.

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Allora, se col tempo e nella furia si mutasse aspetto, e più non conoscessi il tuo bambino gli tatuai, con picciol ago e succo di ciliegia, sotto la gamba destra, nell’incavo, un dolce cuoricino. E non ebbe a patire, ch’io lo coccolavo. Spero gli Dei ti siano sempre amici e un giorno tu lo possa ritrovare, sia lui sopra d’un monte o sia che fosse andato verso il mare.»

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Morgana, lacrimando, stringendo più il fucile, rese grazie alla Cincia, ch’era una vera maga nell’amore - «È nella guerra che più vedi, figliolo che mi ascolti, come l’umanità ti differenzia da specie d’uomini chiamati “senza cuore”: ch’io ho sentito un benestante, in cambio un po’ di pane aver preso le scarpe a un soldato smarrito,

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Senza meta, lui lacero e affamato. » Piangendo, le tre donne a Cincia grate s’allontanorno giù pel canalone coperto d’alberi e d’abeti. E mentre discutevan di trovar la meta e insieme unirsi in fondo al bosco, per assaltar la cima, di cui quel monte nascondeva un avamposto, videro alta passar con

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un ronzio di fil di ferro, e pencolante in vuoto, una gran teleferica, da forma tutta sagomata, al pari di grand’aquila ferrata. Guardaron sopra lor, restando senza fiato, che eran le donne e il piccolo fasciato, e stretto al collo una di loro. Istinto folle fece lor puntare l’armi, ma poi capiron grave situazione. Stetter così, pensando ove restasse la stazione.

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Canto V

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Ma la stazione ormai era lontana e non avrebber mai potuto riafferrare il nemico sfuggente alla sua tana. Scesero in giù per quell’orribil costa tra alberi assai alti e senza alcun sentiero, ma non v’erano tracce di passaggio che non fosse il loro. Secondo le istruzioni ricevute il Comandante, in

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fondo al canalone le aspettava, con alcuna mitraglia che al nemico prese, ed un picciol cannone antico, ch’era di mostra in un giardino, ma utile ancora alla bisogna. Entro le mura c’è la casamatta, con polvere adatta all’incombenza, ché una volta l’anno lui sparava, a ricordare il tempo della guerra.

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Erano giunte lì da quelle terre intorno genti assai, più contadini, e donne di famiglia, ché l’impresa a conquistar quel monte, irto solenne, e nero sulla cima, dava a pensar gli desser tanti guai. Ma c’eran, per fortuna, donne e ragazzi, con somarelli dai legnuti basti a confortar con armi e munizioni

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per render la pariglia a Vandali e Moreschi. Il tempo era sotteso alla calura, udivasi il ronzar di tafani e mosconi. La consegna al silenzio era assoluta; i Combattenti, con le insegne pronte e ben nascoste si divisero in due schiere, assai lontane, e al centro la mitraglia col cannone. Ma lo scopo era quello,

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di far credere al nemico il risalire il monte sul davanti. E per saggiar la scena, rotolorno di bombe, quelle a mano, che dettero principio alla battaglia. Lampi e scoppi in quà e in là, lungo la costa, e all’urlo audace i patrioti si dettero a salir, rassicurati dal provvido scandir

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della mitraglia. Urlò Troilo. Levaronsi in gran lena entrambi i lati come se fosser dati a gara a chi arrivasse per primo sulla cima. Qualcuno cadde e non frenò di marcia la caduta. Videsi levar dai combattenti il vivandier, ch’era Orsobruno, in mano aveva un’asta e appesa la figura

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a Garibaldi, il sempre amato, e un grido si levò sul nome, alto e possente, e propagò per le vallate, quasi scossa fatal per quegli eroi. Ora parevan genti nemiche disperate, ché i Patrioti quasi raggiunto avean la cima: neanche un pugno di minuti prima pareva quell’impresa senza punto, sol coraggio e fatica.

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Quando la cima fosse presa e assicurata, era la via spianata alla città detta dei fiori. E dopo il martellar d’ultimi fuochi l’avamposto fu preso e fu distrutto. Ed era quasi sera, tra lo zirlio dei grilli in mezzo all’erbe, e un po’ di nostalgia e di duol pei nostri morti. La man che ricopriva

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il nostro viso, e sulle labbra ardeva una preghiera. Poi fu per il nemico: quelle fronti, che prima eran superbe, giacevan tra i narcisi, tra gladioli e menta. La malva sulla sera gettava su quei corpi dilaniati, quasi un saluto, per tempi che ancora non pensavan disperati. Eran trentacinque, fûr contati. Noi non lo dicemmo,

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ché anche la Gloria vuole compassione. Non infierir su un corpo che dell’anima ha fatto il monumento. Seguiamo del Maestro il fior del suo immortale insegnamento, ch’è penetrato dentro i nostri cuori. Son nelle selve, dico, le tragiche fazion monoteiste, use all’oltraggio dell’onore altrui. Nessuna verità da lor, tane da belve.

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Canto VI

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Or che la regione era stata prefissata dal comando supremo, con Albione a guida, era del tutto stata liberata, la marcia seguitò verso d’un’altra meta. Furon tanti anche i nostri, di Caduti, ma dai borghi e dai piani una novella gioventù, nata dal sangue degli eroi, fatti li aveva

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baldi ed avveduti. Furon le Trionie ancora festeggiate dai compagni e dal fior delle genti lì apparite. Chiesero al capo lor, Troilo, ch’era fiero di lor, di potersi assentare, onde veder se alcuno avea saputo delle due disertore, e del bambino ch’era un ostaggio, lui anche, ormai, dell’odio e del rancore.

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Or era in marcia ormai per altre mete, fuor dalla regione, il picciol gloriosissimo esercito della Liberazione. Era la Marca, ormai, la meta designata dal comando delle armate partigiane. Alta sembrò nel colle la città, sì bella sotto il piano, cinta di verde ed alberi fioriti. Una staffetta in moto e un sidecar, ma di mitraglia armata,

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si palesò lungo un sentier da spie venute da un sottocomando, e appena videro fêr cenno di fermarci. Ci fûr le credenziali, i riconoscimenti, ed all’appello due delle Trionie, Magalda e Malinda, fûr chiamate a rapporto in separata sede. Il relator, dopo chiesta conferma nella Fede, disse alle armate un mostro si aggirava nella valle, ma umano era, ahimé, sol nell’aspetto.

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Il suo nome era quel di Moribaldo. Assai feroce era la fama sua per le contrade; narravasi d’aver preso un fanciullo di dieci anni, a sinagoga, poi giurò di scommessa che d’un colpo l’avrebbe dimezzato. E così fu, davanti al suo plotone. Or era giunto al turno di furfante. Magalda si appressava ad ispiccar la testa ed il turbante.

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Infatti le fu chiara la missione. Su quella testa odiosa e calva si celava un terribil segreto, che solo loro due, Magalda e Malinda, potevan scongiurare, col trafugar la testa e disvelare il disegno di un’arma micidiale, di cui da tempo il volgo si beava. A notte appena fatta, col paniere di frutta e d’altre mercanzie, di pomi

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e funghi e sparagi selvaggi, fecero finta di smarrir la via del bosco impenetrabile, giungendo nei paraggi dell’immensa grotta, ove viveva libero ma pronto a tutte nefandezze del suo caso. Le sentì lamentarsi fuor dell’uscio e, incuriosito, uscitosi fu con gran bastone, sospetto d’una gran sperequazione.

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Le donne fûr con lui gentili assai offrendogli dei fiori e della frutta, e sperse disser, che s’erano sul far della sera. E lui si mise, comodo, di sopra una poltrona, e Magalda a fianco le si pose, con gran naturalezza, parlando un po’ del viver tra la guerra, tra caldi afosi e i sogni della brezza. Intanto la Malinda di

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presso al foco, lì, che s’armeggiava alfin di preparare un po’ di cena, e intanto traccheggiava il suo momento del mortale agguato. Non poteva sbagliare un sol istante, un colpo solo, secco e breve da quella daga romana sotto la sua veste. Un gran paniere intanto preparava, onde frodare

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il misero, che tutti dicevano peggiore della peste. E quando il vino ormai levò i suoi ormeggi, come una barca in preda all’aquilone, assai furtiva le si fu alle spalle, e con le mani entrambe sopra l’elsa, in ampio gesto, e misurato assai, vibrò quel colpo secco, e il capo gli spiccò.

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Canto VII

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Nella gran cesta posero la testa e con un secchio, ben colmo d’acqua, lo lavorno. Ormai la sua ferocia era finita, ma dai suoi occhi, ancora accesi, parevan ricordar che nell’eterno ancor non fosse gita. E sbirciaron, Magalda e Malinda, piano, quasi paresse vivo, il cuoio capelluto, e qui, davvero, vider tante

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formule, segnate d’un bulino sulla creta. Ricoversero assai con molta cura, come se si perdessero quei segni sconosciuti, sacri, però, al contempo, se un Comando era pronto a impedir che un’arma assai feroce fosse pronta a coprire il mondo intero con la croce. Zitte zitte, in gran circospezione, usciron dalla tana, con un

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legno bruciato, la Magalda, e col cesto coperto la Malinda. Da appena fuori, nella notte scura, la Magalda scagliò con tutta forza il legno rinfocato, che con l’aria più rosso si fe’ nel suo tragitto. Era il segnale dai compagni aspettato e infatti, dopo un po’ sopra d’un mulo Troilo il Capo, in gran circospezione

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prese il prezioso capo, oggetto della nobile missione, poi scomparve. Di lì a poco una grossa bicicletta, da Orsobruno in persona manovrata, portò le patriote in seno al lor comando provvisorio. E lì dopo le feste e abbracci meritati, si convenne a ridursi alla battaglia, non appena si fosser palesate le drammatiche scene della morte.

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Tutto taceva nella notte scura, illune, riprovata, ma nell’aria era come un presagio, come una preghiera, immotivata. Era l’aspettazion vendetta del nemico cui si apponeva la calma e la ragione, di chi aveva agito per un ben superno. Ognun di loro si faceva cura sbarrar la foia dell’antico ossesso, entro la sua

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Magione. Chi dormendo e chi pensando a che venisse l’alba mattutina, e chi pregando. Come sorgesse da fonte infinita, un tocco di rosea luce, scaturì dal limitar del cielo più lontano. Ecco. Ecco pigliar con sé nel suo viaggio le rosee forme immerse nel paesaggio. E i piccol voli leva come a prova, d’allodole di merli, e d’usignoli.

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Il Partigiano Troilo al cannocchiale, era pronto ad udir, lungo la strada sotto la collina, il più picciol rumore onde il nemico si manifestasse. Un debolissimo rombo udì, come di camionetta, assai però lontano, allor rapido, schioccò una mano e tutti fûr sul ciglio preparati al fiero scontro, e l’armi eran lì

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a pronta-mano. Era necessità d’aver ricambi dal nemico stesso. Il Capo attorno a sé chiamò tre Patrioti e disse lor d’andare avanti, in modo che il Vandalo assassino ed il Moresco si trovassero immersi tra due fuochi, catturando quell’armi assai pesanti, onde avvalersi a conquistar, sempre marciando.

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E avanti a lor c’era città turrita grande assai per storia ed importanza. Per liberare lei c’era bisogno tutta la costanza, i Patrioti, e il Popol, che per l’arme ricorreva, tal quale i Padri lor, nei tempi bui. Un secolar servaggio ancor passava su quella terra della Patria nostra: le vili razze serve della guerra.

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Arrancavan su strada dietro un blindato, ed altri innanzi, i miliziani, in armi, assai sicuri di quella tronfia sicumera che la ferocia fa, quando alla sera incute la paura. Allorché si trovaron, con la marcia, ad un’egual distanza, dal centro dell’agguato. Il Generale

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Canto VIII

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Troilo cominciò la sua mattanza, urlando a piena voce, ed invitando gli altri combattenti, ad altrettanto fare. La mitraglia più grande era occupata più sopra, dietro una pianta dalle tre donne, che a tutti erano care. E fûr così precise che cadeva il nemico ad uno ad uno, tal che 70

pareva che la morte rîse. Allor, come in gabbia una fiera insofferente va di canna in canna, legata alla perduta libertà, più che a temer la morte, il nemico cercava di scampare arrampicando la balza scoscesa, onde uscire dal basso della via, ma il fuoco gli donò la sorte ria.

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Andaron, dopo, appena fu finita la battaglia, e più non singhiozzava la mitraglia, a vedere chi fossero coloro. Eran giovani, ed erano anche belli, e quegli occhi, alcuni ancora aperti, con gesto di pietà le Trionie, serravano solerti. Ma poi pensavan che pel Fato potevano restare al posto loro.

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Oh, quanto sangue, quanta ambizione che per la via trascini un uomo solo! Che pel suo ben, l’orgoglio e il suo trionfo debba coprir di strage intero suolo. Ma l’illusione, Maya, non li paga, ché ogni vittoria un general la vive come un tonfo. E se ognun di lor guardasse nella fronte un suo soldato

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forse si pentirebbe avergli armato le man, se non per riportar nel mondo la Giustizia. Intanto il Comandante non perdeva d’occhio la strada; assai lontan portava dritta al Paese di Mestizia per poter bloccare in tempo il mal ritorno del Vandalo e il Moresco. S’accorse a piedi una staffetta andare pel villaggio. Allora subito chiamò

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le Trionie, Orsobruno e Verbadio e li spedì d’urgenza a sollevar le genti del Paese e che si rifuggiasser entro le grotte dello Spazzavento, adatte che fûro alla bisogna della Resistenza dal Troilo stesso. Così fûr sulla piazza e strepitôrno tanto e con le trombe, ad uso delle Poste, allertaron le genti,

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e cercaron i vecchi e i bimbi e le donne, e le vedove, e le spinser di corsa verso la foresta. Intanto i patrioti entravano di fretta nel paese e preser posizione dietro i cantoni, nei pozzi, nei fienili, e cataste di legno, e carri pien di balle a fieno caricate. Pronte eran le torce onde infiammar la scena dell’assedio.

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E dopo un po’, con sferragliar di cingoli mortale cominciorno a sparare all’impazzata, su porte e su finestre, ma dai tetti i fermi Patrioti lanciaron delle bombe. Dietro un comignolo, nascosta una mitraglia, spazzava a tutto spiano, fin sulla piazza. I carri pien di paglia e fieno furon scagliati, uranti verso gli oppressori, cosÏ che la risposta

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si calmava. Secco s’udì lo squillo militare e subito il nemico indietreggiò da ogni dove, ed eran così tanti che sembrò un’impresa aver tenuto testa e allontanati quei Vandali e Moreschi contro un destino tutto insanguinato. Su per la strada detta “Nazionale” lasciavan la Regione per il Nord. Ormai la guerra, come un bruco orrendo,

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levava le sue tende serpentine, senza canti o clamor di belle imprese. Pareva che ridesse la pianura sotto il sole d’oro e le genti e i Patrioti, con mani tese al viso li videro levar con un sorriso, fin che non sparvero all’ultimo orizzonte. Pareva cosa fatta: era un picciol tassello a completar la fine d’una grande impresa.

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Canto IX

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Ora la boria s’attestò bel bello sopra quel lago Grande, alla Region contigua. Così le spie ci diedero le fisse di avamposti, e il numero dei carri, e vettovaglie, onde l’azion dei Patrioti fosse più ancor precisa. Come un’immensa luce, e tiepida fu l’aria, il lago apparve in tutto il suo splendore. Sentivasi nei cuori come un sogno, azzurro,

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gentil, di nuovo amore. Oh, la natura benedetta, paziente e regolata! che nell’orrore uman mantiene la contezza di una incalcolabil volontà tesa alla vita, sempiterna, che noi umani, noi diciam che sia infinita. E il Male passerà, questo trastullo d’animo cattivo, senza senso, se non quello d’invidia, che fe’ dell’uomo

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il suo più grande offenso. Ora il plotone s’era nascosto in alto, in un’anfratto ben protetto, ove di sotto vedevasi quel lago un po’ più aperto. La caserma il nemico dava proprio sul lago, a lui diviso in strada principale; e proprio in fronte al porto, avanti, v’era sull’acque, sopra palafitte un lungo molo, al

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fin del quale galleggian barche luminose e pinte, ed un barcone, seminascosto al par d’un porticciolo, che ognun dovea ignorare. Il capitano Troilo, su, ritenuti in gran segreto, manifestò agli astanti il proprio piano, ch’ebbe l’avallo del Comando Supremo, in dignità sovrana; e lui, come si

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seppe, fu nominato, per fama e per scaltrura, il “nuovo Ulisse”: lui doveva del mal duro al nemico, onde evitar delle inutili morti e prigionieri, mettendo in moto di sua lucida mente, tutto il sale. Disse così: In cima al molo è una barca seminascosta e ben coperta, ond’io la misi insieme ai miei compagni. Ed entro c’è

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gran bomba che non fu esplosa. Di notte noi andremo in questa notte stessa, Magalda, Malinda, Morgana, più Orsobruno, e me, noi sotto scenderem, dico, nell’acque, ché la notte è illune, e annoderem la miccia intorno ai pali, fin sulla strada, fin sull’ultimo palo, quasi a pelo d’acqua. Il capo della miccia con la torcia

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entro un canotto, un Patriota, con un suon stabilito, dava fuoco a quel filo, non appena le truppe ch’eran nel palazzo, non si fossero mosse, perché spinte, tutte verso il molo. Tante barchette, di nascosto, furon come di foglie mosse da un pregevol vento, amico della notte, ambasciator di duolo.

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L’ora fu stabilita, il Comandante, anche da sopra, preparò con cura l’imboscata. Molti sassi fûr posti sopra quel crinale che guardava giù in basso, e le mitraglie, due, per l’occasione, ed un mortaio, che dovevano servire pel nemico, ed eran tanti, sopra quel lago, e sopra di quel molo, e quelle barche vuote dondolanti.

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Tutto taceva. Ora si aspetta che la sveglia batta quell’ora fissa sulle tre. Nessun dal sonno mai fu preso, in quella notte, tanta l’ambascia della riuscita. In guerra ormai è noto, nessuno sà chi vinca la partita. Il destin, sia esso crudele oppure gaio, comunque agisca, non nasconde il guaio di vivere una vita non voluta dentro il vuoto.

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Secco il suon della sveglia, accese i cuori ai patrioti, ai loro posti. Cominciò l’azione un colpo di mortaio sopra il tetto, e le tre donne alla mitraglia, a tiro basso, onde facilitar da dentro la sortita. Orbadio e Orsobruno, alti e solenni come dei ciclopi, ai sassi miser mano. Strepitando sul tetto la sassaglia.

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Canto X

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Fuori il nemico si gettò da quelle porte e più dalle finestre, infilando sul molo gli oppressori. Ora una luce d’una camionetta gli indicò la via di fuga. Eran il molo e le barche la salvezza. Non un sol colpo si levò dall’imboscata, tanta la furia di partir da quel romito che indicava nell’acqua la contezza.

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Appena si riempì quel sito di salvezza un colpo fluorescente si levò per l’aria. Era il segnale convenuto. Da sù, la fiaccola si vide che ondeggiava e che la miccia imprese a dileguare. Forse un minuto, forse due ché non giungeva mai alla fine, e fu un boato! Tanto grande! Sembrava che cadesse tutto l’intiero mondo pien di spine.

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L’alba si levò tinta di sangue e trascinò pel cielo quell’aurora, lasciando sbigottiti tutti quanti. Non un sol vivo. Eran nell’acqua sparsi, come dei cenci dopo una bonaccia. E orrore ricoprì ciascun di noi che pur giuraron di portar la Libertà, da tutti attesa. Non aspettavan, con questo quell’“età dell’oro”, ma dignità da chi l’aveva offesa.

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Com’era fiero, “Ulisse”, al suo caval di Troia! Un moto ebbe di rabbia e si contorse. Poi si coprì la bocca, e pel dolor si morse quella man. Poi stette ed ebbe di veder, entro il Paese, pender dalle porte, quei miseri villan col laccio al collo, e una madre ai lor piedi, inorridita, e forte. Dicevansi “fratelli” ed erano dei servi della morte.

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Vider riunirsi ad altre genti, i capi al cannocchiale, arrancando in fila indiana, all’erta via che sale e passa per la prossima regione. L’Umbria verde e la Marca s’eran liberate, a mano nostra, e molti giacquero per sempre, per la storia. Alta nel sole come una fanfara ecco Fiorenza che di canti e di fiori s’era incoronata, al tripudiar di genti. Ed anche noi sfilammo, il petto in

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fuori. Baci ed abbracci, tra fratelli veri, sembrò il Risorgimento del passato. Anche il vessillo, il grande Garibaldi, al comparire, urlò la folla al nome suo, ed una tromba sonò: che si levano i morti, e che i martiri nostri son tutti risorti, le spade nel pugno… và fuori, o stranier. Cantava quel popolo tutto, al suo nome, e col pugno si cinse

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le chiome. Andammo ancora, verso Ravenna, all’insidiose paludi tristemente note dalla storia, ma si aveva il sentor della vittoria, e l’inimico, piÚ saliva innanzi il patrio suolo, era come se andasse in riluttante duolo, ma da fidarsi nessuno lo pensava. Il barbaro ostentava, sicuro, la ferocia, solo.

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Su per un monte, affacciato al porticciolo, fu il Comando ben celato alla vista, una gran grotta aveva della paglia e vettovaglie in loco. S’aspettan degli ordini cifrati che le donne, staffette partigiane, a rischio della vita, portavano ai lor fratelli armati convenuti e che in attesa il nemico si raunasse dai luoghi sparsi, intorno rianimati.

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Di notte eran di guardia uomini soli. Allontanado, dalla postazione, una villetta, e un prato rifiorito, trovaron, con tendine. Un fioco lumeggiare traspariva nella notte scura. Come gatti felpati alla finestra spiavan chi vi fosse addormentato, e qual sorpresa tutti se li vinse allorchÊ vider donne bellissime e discinte. Che cos’era?

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un bordello di lusso! In quella terra, ed occasione, austera! Nemmen la guerra aveva spento impulso della vita. Pareva un sogno ed era realtĂ . Poi presi tra dovere e rimorsi, per le donne che in attesa temevan che di lor non si perdesser le tracce del sentiero, furon discreti. Dentro, accolti come eroi, madri, sorelle e figlie,

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Canto XI

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Donaron quel che avevano di sé, quel di più vero. Tal che pareva che lì volean restare, ebbri di vino e sazi del mangiare, ma Troilo ch’era pur sobrio, il solo incorruttibile, non predicò né fece il “superiore”, ma una corda alla vita gli passò, onde tirarli fuori da quel luogo, e riportò.

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Tornaron nella tana ove dormivan gli eroi, delle battaglie, ove sognavan color ch’erano morti, amici, compagni e sodali, e pregavano in cuor lor che loro esempio gli facesse regali. Domani chi lo sà? Forse il Signore della Morte avrebbe presi e posti tra le stelle rilucenti, come un tempo gli

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eroi, da un dio pietoso, i suoi più grandi complimenti. Capivan che la fine di tutto non poteva tardare. Intanto Troilo, il Comandante, insonne a vigilare, col cannocchiale spiava in ogni dove, e soprattutto, lo specchio placidissimo del mare. Ma udì un rumore intorno a lui,

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come di sterpi secchi calpestati. Lì lì pensò che un animale si aggirasse insonne, poi puntò il fucile contro un’ombra china verso terra, e a piana voce disse: Alt! E gli rispose la parola ch’era stabilita. Fuor dallo scuro v’eran due donne, due staffette, che portavano gli ordini. E ristette.

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Dicvan gli ordini, tradotti dall’addetto che l’indomani, a mezzodì spaccato, il nemjco movesse in direzion del porto, onde, via mare, di sorpresa, arrivassero a Venezia baipassando il nemico lungo l’Appennino. Ma questo disegno andava a tutti i costi riprovato. Intervenne perciò il

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britannico comando, con l’eroico maggiore Jonny Spith, ed un nutrito numero di armati, ma lasciò, visti i successi ed il gran valore dimostrati, al Gran Prode Troilo di spiegare il piano, onde impedirne l’arduo disegno, di portare l’attacco per via mare per la costa, alla Regina dei Mar, Venezia nostra.

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Troilo, il “novo Ulisse”, come Alleato lo chiamò, su pei paesi a visitar le genti, che del nemico avevano sofferto, e chiese loro aiuto a preparar battaglia, a mezzodì. Così, coi sacchi ch’erano del grano, caricaron di sabbia ben due carri, assai ben ricoperti con dei teli. Una gran croce rossa v’era su dipinta,

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onde paresser vettovaglie ed altri aiuti, pronti a carcar su d’una nave. Poi prese un altro carro, tutto ricoperto, e v’erano almen quindici armati fino ai denti. I Patrioti e il carro fece porre in fondo al molo, a pochi metri dall’acqua, onde, se male fosse andata quell’impresa, il

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mar li avrebbe accolti a sua difesa. Guardando il mar da su, il Prode Troilo s’avvide sulla destra d’un vascel da pesca; placido viveva senza un equipaggio, e lì studiò di porre Orbadio, quel gigante buono, dalla forza immane, con degli enormi sassi, che da sopra il natante, in caso che il nemico latitasse, coi pesi li fermasse.

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Intanto le tre donne, tre eroine vere, Magalda, Morgana e Malinda, colloquiar con patriote ch’eran giunte, se sapesser di donne nemiche e un fanciulletto, ch’eran dispersi dalla loro vista, e che Morgana fosse madre vera di costui, che fu rapito in quel paese che chiamà Filetto, e vider che correvan

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Canto XII

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sopra una teleferica, che d’un’Aquila aveva un bel profilo. - “Ma sì che li vedemmo! Ché quell’arnese era di famiglia, e alla cascina di mio padre, aveva fine”. Si fermorno. E noi eravamo intente a districar le trine, prima che si partisse ad un dover più grande, e tra le braccia ci piovorno addosso.

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Noi ci astenemmo a domandar donde venisser, perchè in guerra «men che ne sai e men di guai tu avrai». - «E del bambino che dici? Che ne fu? Com’era?». - «Oh, stava bene assai, quel caro Fritz che io rifocillai!» «No no! Non Fritz si chiama, quello è mio figlio, Assuero che il nemico rapì quando il villaggio nostro fu distrutto.»

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«O madre affettuosa! Voglia quel dio che pensa a tutti i cuori che possa un dì ridarti quel che speri.» E si commosser tutte quante; le nuove si chiamavano Ècuba e Algìa e volevano arrivar verso il confine, ove la madre lor, con i parenti anziani, s’eran ridotte, onde scampar la truce rappresaglia di quei turchi, bonturi e lurchi disumani.

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«Quel bimbo io lo lavai nella tinozza e fu con meraviglia che notai dietro il polpaccio, alla gambina destra, un cuoricino, lì, ben tatuato, in un color di fragole mature» Morgana emise un grido per la gioia: confermava, senza alcun bsogno, ch’era lui proprio quel che la Cincia generosa aveva fatto, in caso si smarrisse negli eventi; era lì che il dimostrava.

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Tutto tornava eppure il cruccio che al pensier potea patire, per l’odioso pericol della guerra le faceva tristi. Le due si dileguaron di mattina, ancor che l’alba, ignara, non spargesse quell’ eterea luce, di cui gli uman tenevano più cara. Le videro salir, le genti di collina, su per i boschi ombrosi. Ormai la loro storia si narrava in giro e v’era pericol che il nemico approfittasse per

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spostare il tiro, ché la lor diserzione, per loro era una macchia che dovean lavare, e dare esempio a chi pensava di dover lasciare, quel vero, assurdo mondo, ove tutto apparve senza una ragione. Ma la guerra era quella, ché la Patria Nostra, tricolore, era invasa, razza barbara e vil, in cui natura ha posto nel cervello la tara della mala

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svinatura. Nemmeno nella morte erano umani. Morivan come cani, senza di un’ombra, senza increscimento, senza lode od infamia, oggetti, come ciottoli dei prati. Da ben duemila anni eran d’attesa di varcar quelle frontiere che il grande Maggior Druso sigillò col sangue e alla latina stirpe consegnò.

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O Teutoni! O popol, vituperio della terra! Che l’occhio secolare aveva un nome, ed era Invidia. Non col sangue e il sopruso arriverete a quella civiltà d’intelligenza, a cui si giunge in studio e discussione. Val tanto la razzia? E la smodata presa della terra!? Oh, ricordiamo, quando quel tempo in cui la primavera era per altri

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tempo di svago e sogno di bellezza, i campi e i prati a rinnovar sementi, ed acque e boschi, e mirabil fontane, da nostra terra benedetta e madre umana. Ma gli antenati nostri, a celar su colline e sui monti il frutto del lavoro. Il selvaggio teutonico, lo slavo e l’austro ed il magiaro, il franco, ed il sarmata,

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tutti di ferro rivestiti, dai confini battevan le pianure, il misero latino ad ammazzare quante più prede possan riportare. «O gente infame! Che una rossa croce insanguinata portavate addosso, a simular pietà, quando pietà, un brutto giorno fu scambiata, con la Giustizia, come se fosse l’ultima trovata. Questo era quel che portavate alla giornata!»

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Canto XIII

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Dio grande, quanto la memoria sia ben corta! Il Tempo passa e tutto quel che vale via se ne va e niente resta. La finta bontà e tolleranza entra a far parte della vita al popol tutto. Colui che ha fatto sceglier tra conversione e morte, oggi lo portan mille in processione, e lo chiaman “martire”, ma a che? Per aver disobbedito alla Legge, agli

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altri dà la sorte; ma il mondo è questo e non lo puoi cambiare, se non facendo entrare nella tua cultura quel mare d’India che t’han celato in ben duemila anni, e inchiavardato. E giunsero al quarto a mezzodì, e il capitano Troilo, ispezionò col cannocchiale che ogni cosa fosse stata a posto, poi segnalò al maggiore Jonny Smith, ch’erano

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pronti, ma prima volle che tre Patrioti, dentro l’acqua, accostassero le barche, intorno al molo onde invogliar la fuga del nemico per via d’acqua, ed altre, ben nascoste sotto le benedette palafitte, in caso della malariuscita, il passo estremo. Ma a Troilo parve che tutto fosse andato pel suo piano. Ora i sacchi di sabbia, ad uno

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ad uno li fecero calare dietro il carro in modo che nessuno li vedesse, e presto uno sull’altro, fino ad un metro e mezzo per altezza. Intanto i patrioti armati dentro il carro ricoperto attendon che l’Eroe desse il segno d’attacco alla caserma ignara. I Patrioti si divisero in due gruppi, uno a destra e un altro alla

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sinistra. Poi puntuale gli scoccò la sveglia e all’improvviso fu tutto un riscoppiar d’armi pesanti. Un obice sparava sopra il tetto e la mitraglia verso la finestra, ma la risposta lor fu sì immediata che la sortita fece danni assai, a chi davanti combatteva. Da dietro quella casa, intanto si

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faceano avanti. I patrioti, invece, arretraron più indietro, così da spinger l’inimico verso il molo e verso il mare, che sembrò loro l’ultima difesa. Ora batteva l’obice sul retro della casa, onde stanar per sempre gli occupanti. Il fuoco incessante, spinse il nemico nell’andare avanti ed imboccò l’unica strada che

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portava al mare. Era il lor sogno quello di scappare, quando si capì che per lor non v’era via d’uscita. E giunti verso un terzo della strada i carri si scostarono, ed apparvero i sacchi di difesa che verso i derelitti, che ormai, quasi impazziti, di sorpresa, sparavan senza prendere la mira. Ma ecco dietro

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quel carro, aperte le segrete sponde, i patrioti urlavan lor di arrendersi ed innalzar le mani, onde si dichiarasser prigionieri, ma lor gettaron l’armi. Tuffaronsi nell’onde e sulle barche preser rifugio. V’erano i remi, al fondo, e andaron verso il peschereccio dondolante, ma Orbadio, come un ver ciclope, li

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segnò di morte. Un sol sasso e la barca andava a fondo, ma eran tante, e non faceva a tempo, ché per l’alto mare fuggivano, oramai fuori di mira. Oh, caso strano, che gli occorse! Come arrivò dal nulla un bel veliero e colse tutti i naufraghi mal nati, e verso il peschereccio, sparò un sol colpo

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di cannone, poi scomparve. O caso strano! Chè dal Comando Supremo non vi fu segnalazione di alcunché sul mare. E forse si pensò ch’era un privato, amico lor, che li volea salvare. Così del tutto fu finita la battaglia e si contò la morte e i suoi fedeli. Centoventi i nemici e ventisette i Patrioti che avevano seguito la lor sorte.

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Canto XIV

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Raccolse tutti i prodi combattenti, invitto il Troilo, e tutti li lodò pel gran valore; sol si recriminò che non fosser presi alcuni prigionieri, come il Comando aveva stabilito, per iscambiarli col nemico, che dalle case tolse delle donne coi figli pargoletti. Così fu rimandata l’occasione di rapir qualcuno, al nemico con una nuova

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azione. Fûro i nemici spinti di tra l’onde, coperti al mar come un pietoso manto, entro quell’acque che un tempo fûr la vita e che nessuno mai li ritrovasse. Gli Eroi furon portati innanzi a una spiaggetta e gli abitanti si offessero a prestarsi ad iscavar la fossa. Un telo e una coperta li avvolse, e sulle salme, Orbadio, con il

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Troilo d’una torcia armato, li segnò con tre cerchi, che significavan l’ieri, l’oggi e il domani; e quando fûr calzati nella terra, un picciol ramo d’ulivo poser sulla tomba, nella pace eterna. Poi un villano arrivò con del fil spinato e tutto intorno agli avelli, recintò, perché si allontnasser gli animali

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da quel sito consacrato. Ora il nemico per sempre n’era andato, e più prendeano corpo e avean contezza che v’eran città ch’erano insorte senza l’aiuto di nessuno, se non del popolo padrone di se stesso. Ormai poche eran le città cinte d’assedio. Il Vandalo e il Moresco, asserragliati, credevan che il terrore li salvasse da una giusta morte.

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Ora il vincitore di battaglie sanguinose saliva verso la sorella Lombardia, ove si diceva che per imperio del Comando Partigiano, tutte ormai le città s’eran levate, ma il nemico vandalo, senza colpo ferir stava fuggendo. Eran questi quei patti che furono firmati, per porre fine alla guerra. Anche la Madre Terra ne provò vergogna, ma la fame era tanta,

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tante privazioni ci fecero distoglier da tante umiliazioni, che sol con l’arme si pagano alla Storia. Quando entrammo, il plotone, con la gran bandiera tricolore, e con l’effige a Garibaldi, il condottiero, un urlo si levò da quella folla che poco prima, senz’armi e con i sassi, il nemico scacciò dal suolo sacro della Patria nostra, ai nuovi passi.

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Il nemico imperial giaceva senza storia. Nel vil ludibrio aveva speso tutta la sua boria. Non aveva emulato Roma antica e i padri nostri, di cui noi fummo sangue e figli audaci. Non Varo, il Duce che la polve consumava, seppe emulare, come vuol l’onore di pagana educazione. Il legionario, anche alla disfatta, ha la bandiera, senza

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croce intatta. Parea che rievocasse nella sua albagia, il tribuno che fu Cola di Rienzo, quel tragico pagliaccio insanguinato che come lui fu preso dentro un teutonico pastrano, e a una trave sventrato, a testa in giù. Ora quel tempo è il nulla, ché le illusioni non pagano mai più. La Storia e il Tempo segnan disistima per ciò

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ch’è stato fatto, sotto l’impeto feroce di fazioni. D’ora in poi la Storia, per molt’anni, avrà di che parlare, ognuno con la propria verità. Ma quel ploton, detto di eroi, doveva ancora andare avanti, a dimostrare ai popoli la gioia dell’impegno partigiano. E poi si dovean trovare le due inimiche, pria che varcassero il confine, derubando d’un figlio

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come fan le Parche. Così lasciaron tutto quel tripudio tricolore, genti immerse di gioia. Passaron fiumi e piani e posti ov’erano ancor dei focolai, di chi non s’arrendeva all’armi ed alla Storia. Ma la boria lasciò sopra la terra le macerie sue e l’odio, inguaribil, dell’odiata guerra.

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Canto XV

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Passaron lì dei Patrioti combattenti: «Andiamo a Padova, fratelli, sù salite». E furon feste fraterne ma di lor, anche se il ricordo dei lor morti tutti rattristava, la Jole, il Matto il Lupo, Arnaldo, la Mamma, il Bimbo, ognuno di lor li celebrava col pianto al ciglio; poi fu la stanca

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e il provvido sbadiglio. La città di Giotto, di Mantegna, e il suo gran Santo, apparve tutta piena di rovine. Ad ognuno di lor si strinse il petto. Tutta la sua cultura se ne andava tra la polvere e i carri cigolanti, quelle misere cose che uscivan dalle mura, ma la gente fiera in man alta teneva

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la bandiera. I padri lor, chissà nei secoli passati quanti di lor questi giorni avran contati! Ma l’amor della Patria alla sorte ria, tempra più i cuori e li fa certi ad una nuova via. C’era una sacca di nemici che in un vechio mulino s’eran rimpiattati, e la morte li colse di sorpresa in un agguato e nessuno di lor si consegnò alla sorte.

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N’approfittorno i Patrioti per passar la notte. Intanto le tre donne con le altre della Compagnia, misersi a interrogar circa il bambino Assuero, e le nemiche, Fraula e la Lanzara, che al lor Paese, dopo aver distrutto tutti i vivi, tutte le lor case, presero per loro l’unico sentiero verso il Nord.

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Ma niuna di lor l’aveva visti e sentiti. Nel tempo della guerra si passavan le notizie bocca-a-bocca ed un tal fatto così grave certamente non avrebbe lasciato che niun di lor ne fosse tocca. Ma una brava sorella partigiana a loro disse: «Sotto una grotta, in fondo alla Marciana, c’è una famosissima indovina, detta la

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Sibylla d’Appennino. Andate avanti, lei vi dirà dove li troverete e seguite i consigli, o gli ordini, se pare, lei non falla». Così l’accompagnò verso un sentiero, senza dar nell’occhio e dentro un’antico rudere che niun potea pensar che altro vi fosse, lì li lasciò, indicando delle scale, disconnesse alquanto, e sceser

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claudicando. Dopo parecchio una gran porta si aprì, senza che niun dì lor le avesse intese, e fûr dentro un salone ch’era tutto di pietra consumato, e fiaccole, sui muri, e un odore acre di cera e sego, che dopo un po’ si dileguava, e una corrente d’aria silenziosa, che aveva senso e il bello di una rosa.

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Lei, la Sibylla, su uno scranno di pietra tutto di fiori ornato, ed un gran libro davanti, le guardava. Le tre donne piene di emozione, non avean la forza di parlare. La Sibylla, grande di statura, parve immensa, alta i capelli sulla testa, e gli occhi orlati al nero. La parola Sibylla, a lei si confaceva

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per l’aspetto, e una fascia di seta, accesa, le bandava il grande petto. E allor, sorridendo, indicò lo scranno avanti a lei. «Tu Morgana, e tu che sei Magalda, e tu che tu Malinda sei, siate le benvenute nella mia dimora. Io vi rivelerò di quel bambino che chiamate Assuero. Ecco le mie istruzioni:

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Andando, c’è una casa blu, entro un cortile e contro un muro, placida distesa, bianca una scrofa, intenta ad allattar sedici piccoli natelli. Il luogo è quello. Andrai con armi bianche, un arco e delle frecce a sorprenderli in sonno della morte. Il piccol tuo, nel piano superiore dormirà e non vedrà quel male che la

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Canto XVI

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Legge del Karma ha stabilito. Hai tu capito quel ch’io ti dissi? Non rumori, né spari, nulla che alcun vi senta. Le due nemiche hanno lasciato il sito per sfuggire al castigo che le spetta, quali disertor di quell’esercito abbruttito che non conobbe gloria né grandezza, e nell’istoria intera il ricordo ne avrà

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quel di monnezza, e poi qual mondo tanto pieno d’ignoranza e di ferocia ha ignorato per ben duemila anni, le regole che il Vedico Sapere aveva dato qual di cavalleria senza cavallo, che un guerriero non poteva necar chi per paura fuggiva dal nemico, desolato, chi cadeva dal carro ed era disarmato.

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Chi per paura era noto d’esser grande Devoto del Signore, non potrà superar degli inferi la via, e sol chi era a pari evitava la fama di vigliaccheria. Ché a quei tempi la Fede non permetteva che dentro un cuore barbaro e selvaggio, non entrasse un sol modo di ragione. Anche se in mano veglia un aquilone e lo rimira al ciel, l’uomo è pur sempre

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appeso a una ragione. Poi, una volta uscite, insieme al pargoletto ve ne andate entro quel bosco che guardando in alto nasconde un buon sentiero. Lì i vostri amatissimi compagni vi daran ricetto, e vi difenderanno. Il pericolo esiste, è che la guerra ancor non è cessata. Prima però di compier

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la missione che vi ho data, dovete saper ch’io voglio che voi andiate alla Venezia nostra, e lì una navicella troverete che vi traghetterà fino a Trieste, ch’è la Patria nostra! A tutto il Popolo Italiano, e omaggio le rendete con un fuoco acceso per ripagar quel che vi fu di eccesso, l’abominio dell’uomo che vi fu di tanto spesso.

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Poi ai commilitoni lasci il tuo bambino e andando avanti fino alla città ove lo Slavo infame anche peggiore del nemico antico. Era Gorizia. State attente, vi prego, siate molto armate. Le due donne un po’ più avanti giaceranno ai piedi a un monumento, onde passar la notte. E tu, Malinda, che sovrana sei dell’oltretomba, con un colpo di daga

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la decaperai. E lì, senz’altro oltraggio voi le lascerete. Un giorno, il dio più grande, darà per la trasmigrazione un altro corpo, ove continuar la propria espiazione. Il mondo è eterno, e passeremo noi di vita in vita, tra piante ed animali piccoli e grandi. Addio sorelle un dì ci troveremo. Andate su pel mar, per le castella.» 156

E quì ci apparve una città tutta fiorita. Salve, o Trieste, patria delle patrie, coronata che sei dal sole invitto. Per un italo cuor sei la più bella, incastonata a un limpido mar, come nel firmamento la più amata stella. Furon tante le ambasce, i fraterni rancori, i sogni disviando da stranieri. Ma vinse poi la calma,

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sopportando… posammo l’armi, e ai nostri bei badili man ponemmo, a quella terra che non muore mai, e gettammo alle ortiche tutti i nostri guai. Salve o Trieste, serenata del ciel, che ci sei madre, al popolo latino e che passar vedesti senza alcun colpo ferire, le teutoniche orde e i loro servi, senza che alcuno gli servisse l’ultimo respiro. 158

E così fecer, le tre patriote, la Malinda Magalda e la Morgana, e dopo aver lasciato il bimbo a cura dei compagni, e delle donne, amorevoli, del gruppo, s’apparecchiaron per completare la feral missione, come la Sibylla aveva decretato. Tutte armate si mossero nell’ombra con circospezione.

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Epilogo

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Giunte che furon nella zona indicata aspettavan che l’alba rinvenisse dall’immenso cielo pien di stelle luccicanti. Malinda con un sasso rifilò la lama della daga, “la romana” che fu dei nostri padri la ragione e l’aurora gentil compare appena. Furon pronte. Sopra la scalinata eran guardinghe. Un duro colpo e il Karma si compì. Erano sole. La morte le coprì come sorelle, sotto l’ultime stelle.

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Alla nobile Brigata Maiella il Poeta dedicò in omaggio alla loro dedizione, per la difesa e riconquista della Patria.

Aveja, 2 giugno 2018 - ore 24



Indice

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INDICE

Prefazione del redattore.................................................... 5 Prologo.............................................................................7 Canto I............................................................................11 Canto II.......................................................................... 19 Canto III......................................................................... 27 Canto IV......................................................................... 35 Canto V.......................................................................... 43 Canto VI......................................................................... 51 Canto VII........................................................................ 59 Canto VIII....................................................................... 67 Canto IX......................................................................... 75 Cano X........................................................................... 83 Canto XI......................................................................... 91 Canto XII........................................................................ 99 Canto XIII......................................................................107 Canto XIV......................................................................115 Canto XV...................................................................... 123 Canto XVI..................................................................... 131 Epilogo......................................................................... 139 Dedica............................................................................ 71



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