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Il talento del giovane Marco (e quella vecchia Punto)

Un giovane fotografo scledense si è fatto notare al prestigioso concorso annuale indetto dalla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Marco Reghellin, 21 anni, studente di arti multimediali allo Iuav, si è aggiudicato il secondo premio alla 105° edizione della “Collettiva Giovani Artisti”.

lità. Ma l’automobile si è dovuta spostare per raggiungere un garage o l’altro, per essere ospitata e quindi per diventare l’ospite. Lo spostamento/movimento, dunque, non è presente nelle immagini, ma nel pensiero di chi le guarda. Questo avviene solo se lo spettatore stesso svolge questa operazione di spostamento, che non è visibile, ma concettuale”.

E riguardo la macchina?

“Ad oggi non considero ‘l’Ospite’ un lavoro compiuto e chiuso. Per questo mi servirebbero molti scatti e un importante lavoro di selezione. Peccato che la Punto non ci sia più. La mia famiglia ha deciso di farla rottamare per acquistarne una nuova. Quindi se deciderò di portare a termine la serie dovrò farlo con un’automobile diversa. E questo influirà sullo sviluppo dell’opera in quanto il taglio del finestrino, così caratteristico, rappresenta un elemento della composizione fotografica”.

Un artista concettuale, insomma, deve affrontare anche questioni molto pratiche e concrete. Il suo obiettivo è quello di continuare a fare questo per tutta la vita: l’artista?

“Sarei presuntuoso se rispondessi di sì. Intanto il mio obiettivo è quello di proseguire gli studi, di sviluppare le mie idee e di metterle alla prova. Credo che l’arte sia una grande responsabilità per chi la realizza”. In che senso?

“Il pubblico investe tempo per fruire di un’opera, quindi la responsabilità dell’artista, a mio parere, è quella di riuscire a dare valore a questo tempo. Un compito che, però, non è per niente facile. Riguardo il mio futuro, quindi, bisognerà vedere se ne sarò all’altezza”.

Quando ha cominciato a fotografare?

“A 14 anni, con il cellulare. Le mie prime foto le ho fatte per pubblicarle sui profili social miei e dei miei amici. La svolta però è arrivata con il liceo artistico ‘Martini’. Non so bene perché ho scelto quel percor- so - ero indeciso fra quello e l’Itis - però ricordo che ero molto convinto. Lì ho avuto modo di studiare in particolare con il professor Giampiero Valente, che insegna pittura, ma che ci ha dato l’opportunità di confrontarci anche con la fotografia e il video, e, più in generale, con tante situazioni e contesti il cui significato e la cui importanza sto capendo solo ora”. Ad esempio?

“Il rapporto tra l’arte e le parole, che ha molto influenzato la mia ricerca fino ad ora. Ma anche situazioni molto concrete, come quando ha invitato in classe una persona malata di neurofibromatosi, patologia che sfigura completamente chi ne è affetto, per metterci di fronte a un soggetto che supera ogni rappresentazione. Il professor Valente è diventato un mio punto di riferimento anche per quanto riguarda la realizzazione de l’Ospite: mentre lo realizzavo infatti gli mostravo i miei progressi e ne parlavamo. Una dialettica che mi ha certamente aiutato a dare una direzione al lavoro”.

Un maestro, insomma. Quanto sono importanti figure come questa per chi vuole portare avanti un percorso come il suo?

“Sono essenziali. Naturalmente non c’è soltanto lui: tra i miei punti di riferimento vo- glio ricordare anche la mia professoressa di lettere, Maria Addolorata Ritti, e il mio professore di educazione artistica delle scuole medie, Franco Ruaro. Oggi, inoltre sto intrattenendo un rapporto con Guido Guidi, noto fotografo cesenate pioniere della nuova fotografia italiana di paesaggio, che mi sta insegnando, tra le altre cose, che anche l’occhio ‘pensa’ e non c’è sempre bisogno del cervello per sapere quando catturare un’immagine. Un approccio che rappresenta una delle direzioni di evoluzione della mia ricerca. In ogni caso, bisogna saper conoscere e riconoscere queste persone che possiamo considerare maestri: quello del ‘farcela da soli’, per me, è un mito che non porta da nessuna parte”. Non essere soli significa anche trovare un humus culturale fertile per sviluppare e far circolare le idee. Come giudica, sotto questo aspetto, Schio?

“Povera. O meglio: troppo povera rispetto alle sue possibilità. Ci sono tante persone che stanno realizzando cose di valore e anche alcuni luoghi di ritrovo. Ad esempio la galleria Casa Capra, che sicuramente è quello che sta vivendo lo sviluppo più interessante, la libreria Quivirgola, il centro sociale Arcadia, i festival “Underwool” e “Line”. Un’altra opportunità importante è il bando annuale promosso dal Comune, grazie al quale all’ultimo anno di liceo ho potuto realizzare la mia prima mostra personale al Faber Box. Tuttavia non mi sembra che chi sta ‘nelle alte sferÈ abbia un grande interesse per la cultura. E questo è un peccato. Perché senza una regia il contesto cittadino resta frammentario e dispersivo”.

Quindi, quali sono le azioni necessarie?

“Una sicuramente sarebbe quella di creare le condizioni perché chi ha realizzato un percorso fuori da Schio possa ritrovare nella propria città spazi e occasioni per condividere le sue esperienze”. ◆

Mirella Dal Zotto

Tante volte il teatro civile viene promosso “per non dimenticare”, ma non basta: bisogna aggiungere anche “per portare avanti idee di democrazia, giustizia e libertà”. È quanto ha fatto, al Civico, il bravo Maurizio Donadoni, con il suo “Matteotti Medley”, che ha debuttato nell’ottobre scorso, proprio mentre si ricordava la marcia su Roma. Donadoni è capace e versatile, recita per il teatro ma anche per il cinema e per la televisione (è stato scelto e diretto, fra gli altri, da Lavia, Ronconi, Ferreri, Bellocchio, Giordana), spaziando con naturalezza da Shakespeare alla drammaturgia contemporanea. In questo documentario teatrale trapuntato di canzoni d’epoca scelte da Stefano Indino e ben suonate dalla fisarmonicista Katerina Haidukova, Donadoni ha raccontato fatti storici legati a Matteotti, ma anche aneddoti, ricordi politici e familiari, muovendosi con scioltezza, e cantando all’occorrenza, in uno spazio scenico minimalista, dove ogni oggetto aveva un preciso significato. Indubbiamente è un ottimo attore, ma forse in questo lavoro, che ha curato con meticolosità e convinzione, poteva operare qualche taglio, per renderlo ancor più incisivo: giustamente, non c’è un vero e proprio finale, perché le idee di Giacomo Matteotti devono trovare la strada per continuare e non si devono certo fermare. Scopo del lavoro era stimolare una riflessione sul significato di democrazia: è importante farlo a teatro, certo non è abbastanza, ma di sicuro chi, come Donadoni, ci prova, sparge semi destinati a fiorire. Semi e fiori, si sa, si moltiplicano.

La raffinata ironia di Fullin

Essere gay e saperlo raccontare con naturalezza, ironia, intelligenza, smontando a suon di battute liberatorie gli stereotipi, valorizzando la persona che ha il diritto di vivere la sua vita: Alessandro Fullin, al Civico in “Fullin legge Fullin”, è stato un mattatore sul palco e ha raccolto entusiastici consensi da parte del numeroso pubblico presente, che per oltre un’ora ha riso e sorriso della sua comicità surreale, irresistibile e imprevedibile. Era accompagnato in scena da pochissimi elementi: Charles, un cagnolone di pelouche adagiato poco dopo l’inizio dello spettacolo su una poltroncina, un leggio, le pinze georgette per asciugare l’insalata con stile. Non si sa mai cosa tira fuori “dopo” dal cappello delle sue trovate; la sua voce, unita a frasi intelligenti e mai

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