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Occhio alla sindrome di Dahl

Stefano Tomasoni

Più che la ragione, potè la regina. Pare che sia servito un intervento diretto di Camilla, la consorte di re Carlo d’Inghilterra, per convincere l’editore dei romanzi di Roald Dahl a fare un passo indietro nella decisione di “ripulire” i libri del celebre autore da parole come “grasso” “nano”, “piccolo” e “brutto”, percepite oggi come non inclusive e discriminanti. Nei giorni scorsi la notizia della volontà di “correggere” i testi di Dahl aveva sollevato un vespaio di critiche e di polemiche, montate fino a provocare addirittura la reazione della Corona.

SchioMese

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E in effetti viene da chiedersi se non si stia un po’ esagerando con questa cosa del politicamente e socialmente corretto. Se non si stia inseguendo anche qui in Europa il fenomeno della “cancel culture” partito in terra americana, dove sono arrivati a mettere in discussione un padre della patria come Thomas Jefferson - uno degli autori di quel documento eterno che è la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Unitiper il fatto che all’epoca (la sua epoca) nulla aveva fatto per combattere la schiavitù. Qualche tempo fa, nel numero di gennaio dello scorso anno, avevamo provato anche noi a “prendercela” con il nostro padre della patria, Alessandro Rossi, producendoci in un esercizio di stile che ne dissacrava la figura in punta di ironia e arrivava a chiedere la rimozione di tutte le “dediche” a suo nome presenti in città, dal monumento alla piazza.

Ora questo dell’intervenire “a posteriori” perfino sull’eredità artistica e creativa di chi ci ha preceduto può sembrare un problema secondario, ma occhio a sottovalutarlo. Perché se prendesse piede una sorta di “clausola Dahl” in senso più esteso, si potrebbe finire con il rimettere in discussione decine, centinaia di creazioni artistiche del passato. Anche di quello recente, visto che basta risalire di una generazione per trovare sensibilità collettive ben diverse da quelle di oggi.

Prendiamo la musica leggera di casa no - stra. Un esempio per tutti: la canzone “Ancora”, presentata nel 1981 al Festival di Sanremo da Eduardo De Crescenzo e vincitrice del Superpremio della critica. Una canzone che è tuttora considerata un cult, tra le più belle di quegli anni. A un certo punto dice: “Mi fa smaniare questa voglia, che prima o poi farò lo sbaglio di fare il pazzo e venir sotto casa, tirare sassi alla finestra accesa, prendere a calci la tua porta chiusa”. Come la mettiamo? Oggi ci sarebbero gli estremi di una denuncia per stalking, e anche le avvisaglie di un comportamento ossessivo foriero di rischi seri per l’incolumità della malcapitata. Lo lasciamo girare indisturbato, questo De Crescenzo e la sua canzone, o applichiamo la “clausola Dahl” e lo togliamo dai palinsesti radiofonici?

Oppure prendiamo un libro celeberrimo come “Tre uomini in barca” di Jerome K. Jerome? I tre protagonisti sono tutti autentici WASP (white anglo-saxon protestant), inglesi bianchi e borghesi: sono ancora credibili o non sarebbe il caso di rivedere la composizione etnica del terzetto per renderla più coerente con le sensibilità nel frattempo maturate?

Risaliamo più indietro nel tempo, al capolavoro della letteratura italiana per antonomasia, i Promessi Sposi. È ancora opportuno veicolare un don Abbondio che si lascia intimorire da un mafioso come l’Innominato, oggi che si celebra invece il grande valore civile di certi preti eroi che hanno sacrificato la loro vita per lottare contro la criminalità organizzata?

E chissà, magari potrebbe andarci di mezzo anche un insospettabile come Luigi Meneghello, che nel suo “Libera nos a Malo” descrive suo fratello come un bambino che “aveva mani carine e grassottelle”, e il buon don Tarcisio come “lustro, grasso”.

Ora, questi sono esempi volutamente ironici e paradossali, ma la questione è sul tappeto. Perché a far rotolare qualche sassetto lungo questa china, è un niente a ritrovarsi una valanga a fondo valle. Si sa come si comincia e non si sa dove si finisce. In definitiva, la domanda da farsi è: possiamo ritenerci in diritto, noi qui negli anni

Venti del Ventunesimo secolo, di appiattire secoli di creatività altrui – espressa in qualsiasi forma artistica, dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla scultura – applicando i nostri attuali criteri di giudizio alle epoche passate, e in questo modo giudicando le opere di ingegno di chi è venuto prima di noi con il metro delle nostre sensibilità, assolvendo alcuni e condannando altri? O non si tratta invece di conservare quelle opere come sono nate, limitandosiquesto sì - a contestualizzarle e a inserirle nello spirito del tempo in cui sono nate? Perché alla fine è proprio questa la parola magica: tempo. Ognuno è figlio del suo tempo e ne vive le contraddizioni, i cambiamenti, i contrasti. E ognuno, nel suo tempo, deve fare i conti con i tempi che lo hanno preceduto. Sapendo anche che ne verranno altri, di tempi. E che se fra 50 anni si applicasse una “clausola Dahl” aggiornata ai canoni e alle sensibilità del 2073, potrebbe essere che, in un’Italia diventata per qualche motivo 100% vegana, si decida di correggere tutti i libri di Camilleri, non potendo più tollerare che quel commissario Montalbano stia sempre a mangiare succulenti piatti di pesce.

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