Numero 0, anno 1973 - queste istituzioni

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Possibilità del riformismo Ipotesi sui partiti, e politica della sinistra: sui sindacati, sulla scuola un nuovo dibattito e l'industria culturale, è cominciato fra analisi sulla magistratura. parziali e autocritiche Cos'è la perdita di sovranità. ms ufficienti. Regioni anno terzo: Istituzioni e classi medie come uscire dal limbo Quali interlocutori per un Casa: che significa discorso sulle istituzioni? l'avvento del "profitto,,

sondaggio su un'ipotesi di lavoro


S c.N4N'lARI o

Estate-Autunno 1973

Sondaggio per una proposta di lavoro Note sui temi di un sondaggio

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Disfatta di una democrazia Il riformismo nel dibattito degli intellettuali Le riforme come oggetto d'analisi Ipotesi sulla grande impresa

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ipotesi di lavoro Promemoria n. 1: dopo la « contestazione » Promemoria n. 2: quali possibili interlocutori Tre opinioni

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interventi

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Profilo dell'intellettuale riformista Ancord sulla funzione dell'intellettuale partiti - L'accordo di comportamento del «bipartitismo imperfetto » sindacati - Forza e contraddizioni dei nuovi protagonisti sistema politico internazionale - Cos'è la perdita di sovranità magistratura Autogoverno e ruolo sociale dei giudici scuola - Tra de qualificazione pro grammata e progetti di un nuovo uso dell'istituzione industria culturale - Presa di coscienza e prospettive d'intervento territorio e regioni - La politica della casa: in attesa del «profitto i>?

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Nuova fisionomia delle grandi immobiliari

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FRANCO R0SITI GIOvANNI BECHELLONI ALBERTO BENZONI SERGIO RISTUCCIA MAssiMo BONANNI. ROMANO SEVERINI -MARINA GIGANT GIovANNI BECHELLONI FRANCESCO MERLONI PAOLO URBANI S. R.

ricerche e documenti Regioni anno terzo: assetto istituzionale e capacità operative Referendum sul divorzio e trappole neoconcordatarie Prima ricognizione delle spese per la « sicurezza pubblica »

105 ALBERTO PREDIREI 123 129 ENNIO COLASANTI

contraddittorio Dorigo, «una legge contro Venezia »: come riprendere il dibattito

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queste istituzioni Direttore: SERGIO RISTUCCIA - Condirettore responsabile: GIOVANNI BECHELLONI. Segreteria di Redazione: ENNIO COLASANTI, MARINA GIGANTE. Segreteria organizzativa: RoDoLFo DE ANGELIS. Redazione: GRUPPO DI STUOlO SU SOCIETÀ E ISTITUZIONI (casella postale 6199 - 00100 Roma Prati). I materiali non datati sono stati consegnati in redazione a fine maggio 1973. Il numero è stato chiuso in tipografia il 7 settembre 1973. La stesura dei documenti pubblicati nella sezione « ipotesi di lavoro » e delle « note sui temi di un sondaggio » è di Sergio Ristuccia. La pubblicazione del fascicolo è stata finanziata con i contributi dei soci del « Gruppo di studio su societù e istituzioni i> al quale la testata appartiene. Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972). Spedizione in abbonamento postale - IV gruppo (Perugia) - Anno 1° - 2° semestre 1973. TIRATURA: 5.000 cOpie. STAMPA: Stabilimento Tipografico Pliniana - Selci Umbro (Perugia)


EDITORIALE

sondaggio pèr una proposta di lavoro IL LAVORO DI CRITICA POLITICA che proponiamo con questo fascicolo può ben essere considerato un. lavoro con poche prospettive: un lavoro inutile ovvero una sorta di mero divertissement. È infatti difficile pensare che si possa ritrovare in giro, nella coscienza sociale, un qualche motivo credibile che sia in grado di sollecitare oggi, in positivio, un interesse politico intorno alle « istituzionni ». C'è tuttavia un diffuso atteggiamento inquirente nei confronti delle istituzioni. Atteggiamento che nasce da esperienze diverse: per molti dall'esperieaza comune dell'inefficienza e dell'inadeguatezza degli apparati pubblici e per alcuni dall'esperienza del riflusso o della stasi dei movimenti collettivi di protesta. Quali sono le ragioni e quale la consistenza delle disfunzioni delle istituzioni pubbliche? Qual è la realtà dei poteri, degli interessi e degli assetti di classe che stanno dietro le istituzioni e che fondano la loro capacità di resistere e di autoconservarsi? Sono queste le domande di un atteggiamento inquirente, minato e straolto spesso dalla emozione che il regredire della lotta politica verso l'impotenza, l'intrigo e la violenza terroristica solleva ormai di frequente ponendo in questione la sorte di quelle condizioni minime di vita democratica che l'attuale sistema politico consente. (Certo, si trattasse solo di siffatto stato emozionale, che ben altra risposta vuole - e questa dev'essere data - dalle forze politiche e dalla sinistra in particolare, in ciò troveremmo una ragione i

di più per considerare senza prospettive la nostra proposta). Abbiamo detto « coscienza sociale » e cioè abbiamo usato un'espressione indeterminata, mentre è chiaro (come si può leggere nei documenti preparatori dell'iniziativa che pubblichiamo nelle pagine seguenti) che gli interlocutori, di cui andiamo in cerca intendiamo siano ben definiti Ma intanto non ci si può sottrarre ad una ricognizione, sia pure generica, del clima di questa confusa stagione politica e delle impressioni che essa detta. Poniamoci allora alcuni interrogativi (a prescindere da questioni definitorie che rinviamo ad altre pagine del fascicolo). Di quali istituzioni parliamo? Di quelle sfatte sembianze di apparati pubblici che dovrebbero essere supporto di un'organizzazione sociale a carattere democratico e che a tal fine furono dalla Costituzione ribattezzate più, che rinnovate e mai più s'è avuto il modo di modificare seriamente? O tout court delle « istituzioni democratiche » come sinonimo del sistema politico delle libertà civili essenziali e del suffragio universale a presenza pluripartitica che per timore del peggio così come sono andrebbero conservate? O delle istituzioni «sociali » dalla famiglia alla organizzazione del lavoro che in quanto sono oggetto della pervasività totalitaria e oppressiva del si stema capitalistico sarebbero, al di là di ogni efficienza o inefficienza, da contestare, negare, distruggere.? E chi verso un qualsiasi


2 tipo di istituzione, secondo una qualsiasi delle accezioni possibili, nutre in positivo affidamenti che non siano mere aspettative clientelari o corporative? Pur ammettendo una dose di retorica, e magari di retòrica catastrofica, in questi interrogativi, è inutile fingere ottimismo, riformista o rivoluzionario che sia. Piuttosto si può prendere atto di un elemento di chiarezza: la democrazia che abbiamo vissuto in questi anni è stata appena un modus vivendi, cioè uno stato di tolleranza ed un pluralismo fatti della compresenza di aree sociali, ideologiche e di potere diverse ma conviventi entro rapporti di forza che sia pure dinamici mai mettessero in questione la configurazione di base dei ruoli dominanti quali s'erano definiti nel 1947-48, gli anni cruciali per la fondazione del nostro sistema politico-costituzionale nella sua realtà sostanziale. Questo stato di tolleranza e questo pluralismo si sono logorati: per le profonde modificazioni avvenute all'interno delle stesse for ze politiche, soprattutto quelle che del sistema di potere che ci governa sono parti fondamentali, ma prima di tutto per le modificazioni morfologiche e strutturali della società. E non reggono di fronte al conflitto sociale che si è riacceso negli anni '60 sollecitato dalle contraddizioni dello sviluppo economico e dall'assenza perdurànte d'ogni serio sviluppo civile. Al fondo, il fenomeno è più ampio e non riguarda solo la situazione italiana: è il disvelarsi dei limiti della democrazia storica dell'occidente. Che a metà degli anni '60, prima dell'epoca clamorosa della « contestazione », un personaggio scomodo nel quadro della politica e della cultura del nostro paese, tante volte (e magari a ragione) accusato di cultura politica superata, aveva visto con chiarezza. Diciamo di Ernesto Rossi che nel 1965, introducendo la riedizione di un suo vecchio testo, notava come le condizioni del sistema economico e la

natura dei suoi centri di potere - «che hannoil loro parallelo in quasi tutti i paesi del cosiddetto ' mondo libero ', e specialmente in quello che dovrebbe essere il 'paese guida ', gli Stati Uniti d'America ci lasciano ormai ben scarsa speranza nella possibilità di valerci delle istituzioni democratiche quali strumenti per riformare pacificamente e progressivamente i regimi capitalistici ». E difatti in una rapida progressione è giunto a realizzarsi appieno, in que sto periodo, l'imperialismo americano che dalla politica di poliziotto del mondo è passato ad una dichiarata politica di potenza, la più iattante possibile per un paese demòcratico. La guerra del Vietnam ne è stata esempio definitivo. Il Vietnam ci ha fatto vedere cioè, è stato detto giustamente, « come funziona Ia più grande democrazia del mondo, quale enorme somma di poteri, per la vita e per la morte, incondizionati ed incontrollati, si concentri nelle mani di un uomo solo; e come quest'uomo solo possa chiedere ed ottenere il massiccio conforto della complicità popolare ». E dunque è stata bruciata « l'illusione di due secoli di lotte per il suffragio universale, per la divisione dei poteri, per la sovranità popolare ». O quanto meno sono state bruciate la menzogna di una democrazia raggiunta e compiuta e la residua legittimità d'innalzare la democrazia storica della società capitalistica a modello di democrazia. Su questo sfondo è naturale, a parte gli incentivi che ne sono venuti alla riscoperta o all'allucinazione della « critica delle armi », la perdita ulteriore di credibilità delle prospettive riformistiche già estenuate nella vicenda storica più recente dalla verifica della loro esilità contenutistica e metodologica e dalla mancanza d'ogni strategia del consenso. Il quadro che abbiamo di fronte è quello di una società apparentemente dinamica in quanto conflittuale ma bloccata e fru-


3 strata in quanto è difficile costruirvi un'ege monia e soprattutto un'alternativa. È una società che consente pochi varchi ad una azione progressiva e che sospinge invece con forza ad immaginare soluzioni riduttive di vario tipo. E ciò mentre si definiscono con maggiore precisione sul piano mondiale i limiti storici e fisici dello sviluppo capitalistico - si è riparlato della sua « vocazione al suicidio » - e ingigantisce il surplus dei problemi irrisolti. Tenere le posizioni e contentarsi di tenerle non basta più, anzi significa regredire: ed è particolare necessità oggettiva delle forze politiche che ambiscano ad un'alternativa di sinistra moltiplicare le capacità di presa teorica e pratica. Su questa necessità si fonda la nostra proposta di lavoro. Quale che sia la modestia del nostro contributo sappiamo che essa potrà incidere su bis6gni reali di conoscenza e d'elaborazione politica. La nostra proposta di lavoro vuole qualificarsi, come si vedrà nelle pagine seguenti, per un metodo critico quanto più possibile rigoroso: per essere con ciò al di fuori dell'irrazionale che fu proprio del riformismo dello scorso decennio, l'irrazionale delle attese carismatiche (si pensi alle aspettative create agli inizi del '60 da figure storiche come Kennedy o Giovanni XXIII) o l'irrazionale della presa del potere comunque, anche se parziale e subalterna compartecipazione al potere (si pensi alla mitologia dell'entrata nella « stanza dei bottoni » risoltasi in così mediocre pantomina) e per essere fuori dall'irrazionale, costoso e per dente, del mero entusiasmo collettivo, della lotta espressiva e peggio del folklore delI 'esemplarità e dell'avanguardismo proprio della contestazione degli ultimi anni. La quale contestazione, sia chiaro, ha avuto o poteva avere fin troppe ragidni da vendere. Anzi, si potrebbe dire che aveva più ragioni di quelle che pensava e diceva. Eppure se nella società occidentale la coscienza sociale

è stata provocata a riconsiderare drasticamente e nel loro complesso i modi di vita ed i meccanismi di fondo della società capitalistica, il « sistema » insomma, con innovazioni nei modi di sollecitazione e di lotta che sarebbe sciocco sottovalutare, un limite è apparso fin dall'inizio grave (necessariamente scontato nei comportamenti collettivi): aver consumato la carica provocatoria nell'ideologia. È anche a questo errore che va imputata la dissipazione di energia. che oggi è possibile constatare e che non vale qui ricordare in dettaglio (basti pen-. sare alla pretesa non del tutto consumata. del neo-minoritarismo di sinistra, che è tale anche quando parla di masse, di ricominciare da capo e da soli). In sostanza, con l'assunto implicito che il più (l'ideologia della protesta) comprende il meno (la conoscenza della realtà e l'elaborazione di una politica) la cultura politica della contestazione ha mancato di tallonare il « nemico » nella concretezza dei suoi meccanismi più reali e segreti di sopravvivenza e di predo minio. Una dissacrazione drastica e magari doviziosa nei punti di partenza ma generica, non vale più ad impensierire ed infastidire il sistema. Nè vale una sorta di predicazione sui caratteri di crisi storica o epocale che presenta la condizione sociale e politica attuale (l'impossibilità di ogni stabilizzazione sociale di fronte alla forza dell'impatto operaio nell'organizzazione del lavoro, di fronte ai grandi mutamenti della scena internazionale dal Vietnam alla crisi monetaria) quando non si riesca a superare la soglia stessa ditali enunciati. Costruire a dimensione di massa una razionalità diversa da quella indotta dalla naturalità del sistema sociale capitalistico è stato il compito che nel dopoguerra fu avvertito dalla cultura di sinistra, in modo generico ma anche con generosità. L'insuccesso che c'è stato è sì dovuto in parte al fatto di essere stati battuti sul ritmo dall'indu-


4 stria culturale pubblico-privata che facilmente ha smagliato la difficile tela, ma per altrettanta parte è dovuto al carattere uni-direzionale, gregario ed alla fine corporativo che è andata assumendo l'organizzazione culturale via via realizzata dalla sinistra. Ne è derivata una grande vacanza critica: che, a parte tutto, ha significato perdita secca di capacità conoscitive ed analitiche. Capacità che non sono tutto in politica, ma sono molto se concernono, come alla fine concernono, gli strumenti previsionali e quindi direttivi deF fare politica. Le ragioni per le quali riteniamo che si debba fare un certo lavoro critico sulle istituzioni sono dette e discusse nelle pagine seguenti. Qui vale sottolineare due punti riguardo ai contenuti e riguardo al metodo. Il primo è che la nostra ipotesi •di lavoro non intende esaurirsi in un tallonamento analitico del funzionamento delle istituzioni per trarne motivi di un'elabora2ione politica di sinistra più approfondita, se vogliamo, o più articolata, ma vuole essere, in particolare, un contributo alla definizione della classe media nel nostro paese, e per comparazione nelle altre aree della società occidentale: per cercare di vedere in faccia, nei luoghi privilegiati del suo insediamento, quella base sociale il cui volto sconosciuto impedisce alla sinistra una seria politica di alleanze, o di rifiuto di alleanze, senza troppe indeterminazioni e compiacenze. Il secondo punto è che se riteniamo di non dover misurare le ragioni che giustificano l'impresa con il metro di un clima politico e delle reazioni emozionali pessimistiche ch'esso suscita in noi, non cadiamo tuttavia nella presunzione o meglio nell'inge nuità di una prospettiva neo-illuminista. Beninteso, nessuna timidezza nell'assumerci un compito eminentemente critico nella situazione di vacanza che abbiamo segnalato e nessun timore che ci diano sulla voce i

routiniers della sinistra o i residui cultori di una « pratica sociale » purchessia. Il fatto è che le « idee », se pure è con tale termine che può essere chiamato il nostro invito al rigore, non nascono nè camminano da sole. Nè del resto - l'aggiunta è necessaria c'interessano la logica e l'ideologia del « dixi et salvavi animam meam ». La questione è diversa. Sappiamo che un lavoro culturale è valido se s'inserisce o è in grado di costruire un « circuito culturale », cioè un flusso di scambi fra quanti operano o possono essere chiamati ad operare su uno stesso terreno teorico-pratico. Ebbene, nell'arco della sinistra riteniamo sia possibile attivare un circuito, significativo anche se limitato, non di cultori più o meno aggiornati di discipline scientifiche impossibiitate ad uscire dall'accademia ma di uomini che facendo politica per modificare la società non rinuncino ad altre più democratiche istituzioni. non c'è stato un ricambio di quadri politici nelle sedi tradizionali del fare politica e soprattutto nei partiti. Per la sinistra tuttavia negli anni post-68 alcune cose sono cambiate quanto a reclutamento di nuove generazioni e di nuove energie (anche se queste vengono spesso reclutate nel momento di stanca) e da ciò può essere stata accentuata una certa mobilità dei quadri ai livelli intermedi. Certo, pochi sbocchi organizzativi nuovi sono stati offerti alle generazioni emerse alla politica negli anni più recenti. Uno di questi è, in apparenza assai importante, quello sindacale. L'accentuata dinamica sindacale, la ristrutturazione stessa delle strutture sindacali, la maggior coscienza del ruolo politico del sindacato sono tutti aspetti di un fenomeno che ricomprende fra i suoi elementi caratterizzanti un leva nuova di personale politico. Questa, in particolare, può avere interesse a quell'investigazione e a quella elaborazione sulle istituzioni che cerchiamo di proporre. IN QUESTI ANNI


5 È necessaria comunque una verifica sulla csistenza delle condizioni minime per attivare questo circuito culturale. A questo scopo pubblichiamo i docw menti di uno scambio di idee svoltosi nel corso di un anno nell'ambito di un limitato gruppo di persone, nonchè le prime indicazioni di lavoro che ne sono scaturite. Inoltre diamo notizia di un'iniziativa editoriale che prende inizio in questi giorni in collaborazione con « Officina Edizioni » e che è il primo concreto risultato della nostra mi-

ziativa. A tutti coloro ai quali inviamo que sto fascicolo chiediamo di esprimersi sulla nostra proposta inviandoci un'opinione, sintetica o distesa, o anche, più semplicemente, comunicandoci l'interesse ad essere tenuti informati sullo sviluppo dell'iniziativa. Il che può esser fatto rispondendo al nostro questionario. Su questo sondaggio noi contiamo per valutare le possibilità di realizzare l'iniziativa che abbiamo proposto con questo fascicolo. E quindi per proseguire.


note sui temi di un sondaggio Disfatta di una democrazia

1) LA GUERRA NEL VIETNAM ha insomma scoperto la realtà della democrazia leader dell'Occidente. Si deve parlare di democrazia che è degenerata? Sarebbé questa una qualificazione esatta se, a parte la sua genericità, non presupponesse come buono e perfetto il modello, l'antico modello, di quella democrazia e la sua capacità di mantenersi tale al di sopra e al di là della trasformazione del potere e del ruolo mondiale della nazione americana. La sua capacità, insomma, di illimitato progresso e di illimitata perfezione. Non è solo il fatto che la critica storica ha da tempo ridimensionato, per il passato, o tout court negato una tale raffigurazione della democrazia americana. È piuttosto la cronaca politica che stiamo vivendo, cioè la crisi senza precedenti del sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti, che ne sta svelando la realtà di fronte ad una platea inusitatamente smisurata (la platea dei mass media). Parliamo del « caso Watergate» naturalmente. Che questa vicenda di dimensioni insospettate (e che impediscono oggi di fare previsioni) abbia legami stretti - e profondi con la crisi della società americana provocata dalla guerra nel Vietnam è a nostro parere difficile a negarsi. In breve, le necessità dell'organizzazione efficiente di un ruolo d'egemonia imperialista, la dislocazione del potere nei centri militari e dei servizi speciali, la scala gerarchica che presiede a questo settore dell'organizzazione statale sono tutti aspetti di un fenomeno di ristrutturazione del sistema politico che non poteva essere in alcun modo contenuto nell'ambito delle « relazioni esterne» della nazione americana sia pure all'insegna di una diffusa « doppia morale ». Tanto più che proprio dall'interno dell'assetto sociale nordamericano cioè dal suo capitalismo nascevano le principali e decisive spinte ad un nuovo ruolo mondiale degli Stati Uniti. La consapevolezza della natura iniperialistica di questo ruolo è oggi assai ampiamente diffusa: non appartiene più ai discorsi spesso rituali delle diverse lezioni leniniste, ma viene affermato e documentato anche da chi rivendica, per

esempio, la validità della migliore tradizione pragmatica americana. Ha scritto appunto uno dei maggiori storici americani: « Il mercantilismo classico aveva imposto la espansione e l'impero e la guerra dov'era necessario per ragioni di stato. Ora il mercantilismo ètornato al punto di partenza. Mentre l'espansione commerciale, le colonie, le alleanze erano intese a rafforzare lo stato, ora allo stato si chiede che fabbrichi armi, mantenga eserciti enormi, stringa alleanze, sovverta governi, corra avventure oltremare, si prepari alle guerre e se è il caso le combatta per sostenere l'economia e favorire le grandi società anonime che la dominano » (Henry Steele Commager). In questo contesto, la ridefinizione dei rapporti fra presidente e congresso che in termini scolastici si direbbero i rapporti fra esecutivo e legislativo, è proceduta non più in ragione di quel che si poteva ipotizzare come adeguamento delle istituzioni di una società agraria alle esigenze di una società già iper-industrializzata (le ragioni del « New Deal ») ma più propriamente come adeguamento delle istituzioni al ruolo di egemonia mondiale dell'imperialismo USA. È un processo che nella seconda guerra mondiale e poi nella guerra fredda degli anni '50 ha fasi di grande importanza, forse decisive. Il prologo del Watergate è lungo: una presidenza insieme prepotente e plebiscitata, goffa e meno spregiudicata di quanto sembri, ha fatto scoppiare un nddo di problemi centrali della democrazia americana. La sua importanza è nel fatto che metta in questione e dunque riproponga nella sua centralità la «forma di governo» degli Stati Uniti e i modi della sua trasformazione graduale. L'aspetto più emblematico è il modo come esso sia scoppiato: per iniziativa di una opinione 'liberal' che aveva a supporto gli strumenti di informazione più efficaci che l'organizzazione capitalistica consenta, cioè di una opinione che in questo modo fa anche scarico di coscienza per la responsabilità avuta nel processo di trasformazione del potere che si è detto, e nello stesso tempo ne tenta il recupero a proprio favore.


7 A fronte, la sfinge di una spoliticizzazione di massa: che è stanchezza, che è sbigottimento per i raggiri, che è gusto del grande spettacolo (succedaneo, come sempre, della partecipazione) fruibile giornalmente davanti alla televisione, che è, più realisticamente, segreto o consapevole senso di impotenza e insieme tout court consenso. Il consenso del rifiuto della politica. Ed è di fronte a questo comportamento che occorre misurare le possibili conseguenze del caso clamoroso. L'importanza delle libertà come «limitazioni del potere dei governanti » secondo le classiche formule del costituzionalismo liberale ha modo certo di riaffermarsi. E sarebbe prova di insensato rifiuto dell'esperienza respingere il problema con i veti dell'ideologia. Ma il problema va posto molto realisticamente: innanzitutto, constatando il fatto che si tratta di libertà che agi. scono ex-post, chiamando qualcuno alla propria responsabilità a cose fatte e dunque al più, ove fossero ripotenziate, agendo come deterrenti. (Ma sempre disponibili in un sistema di organizzazione capitalistica a trasformarsi da deterrenti in mezzi di pressione o di ricatto, in ogni caso di conformismo). Torna comunque il problema delle garanzie. Ma che non siano azionabili solo dai potentati: questa è la prima questione, inquietante e per ora irresolubile. Il Congresso, se esce da una posizione di lunga acquiescenza (il congresso è fatto di una maggioranza e di una minoranza e nell'esperienza americana neppur nettamente distinte - si ricordi la pratica della bipartisanship - che tengono determinati comportamenti, nel caso che accettano le contropartite offerte dalla trasformazione del loro ruolo in quello di supporti parlamentari e di clientes dell'Esecutivo), cosa può offrire di fronte a questa crisi del meccanismo istituzionale? Intanto, dà mostra di inquietudine e insieme d'incertezza e, incapace di chiudere drasticamente una partita persa e comunque insensata, dà licenza d'uccidere a termine, com'è accaduto per i bombardamenti in Cambogia. Insomma: s'avvia un processo di ricostruzione della democrazia americana ovvero la tendenza all'autocrazia presidenziale, verificati gli ostacoli che incontra la via più drastica ma anche più goffa e incolta, s'avvia ad essere gestita e portata in fondo da forze più sapientemente padrone dei propri mezzi? Una cosa è proprio impossibile: il trionfalismo a proposito delle 'sane' capacità di reazione di cui. avrebbero dato mostra le istituzioni democratiche (ed infatti sono rapidamente rientrati tutti i tentativi in questo senso). I nodi della democrazia rimangono fuori ed è dubbio che riescano a far breccia oggi più

che ieri: quale democrazia sia possibile e quale sua nuova articolazione debba essere richiesta; come debba realizzarsi una rottura delle oligarchie di fatto del potere, mai innocue come sembra spesso all'insensato buonsenso del borghese medio ma che costano sempre lacrime e sangue; in qual modo vi si debba contrapporre un più efficace coinvolgimento degli uomini; se questo coinvolgimento sia mai possibile in uia società che, al di là dei miti della classe media, riproduce necessariamente l'ineguaglianza sociale e postula dunque il conffitto delle classi; se con l'attuale modello di vita a forte spreco di energie (come direbbe Ivan Iffich) cioè ad uso indiscriminato dell'energia sia possibile, sul piano delle stesse condizioni materiali e psichiche della vita, una società a democrazia diffusa. Nodi per nulla minori in una incertezza estrema di prospettive. Vi emerge per ora, a tutto tondo, la centralità della tematica istituzionale. A voler dire qual è la portata della crisi storica della democrazia, generalizzando solo per lo stretto necessario delle• osservazioni che vorremmo rimanessero per quel che sono, cioè drammaticamente problematiche, una considerazione può essere fatta: sono polverizzate ormai le ragioni che fondavano il «progressismo » democratico, la fiducia in un progresso lineare e inevitabile che sorga dai modeffi storici della democrazia. L'ideologia del progresso democratico sviluppatàsi dopo la seconda guerra mondiale ha subito nelle diverse accezioni possibili le più drastiche smentite. Il progressismo socialista annegato dallo stalinismo e dal burocratismo post-staliniano (e sullo sfondo c'è l'indecifrabile miraggio cinese), il progressismo democratico occidentale distrutto dall'imperialismo. La democrazia fa i conti con il suo regresso etico e la sua subordinazione alle ragioni dell'imperialismo. E queste ragioni si diversificano e moltiplicano da quando il sistema economico mondiale conosce una delle maggiori crisi, un ritorno alla naturalità più completa del gioco delle forze dopo che i meccanismi di regolazione più o meno funzionali o comunque ispirati alla logica della « pax americana » sono divenuti insufficienti a governare una rinascente multipolarità capitalistica. Come condurre la democrazia ad una riconsiderazione radicale di sè stessa? SARÉBBE TUTTAVIA INCOMPLETA ogni considerazione sulla parabola imperialista della democrazia leader dell'Occidente e sulle tendenze mercantiliste (nel senso del brano prima citato di Commager) connaturali al sistema capitalistico nelle sue

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diverse articolazioni, se non si ricordasse che essa è stata percorsa nel contesto internzionale della « coesistenza ». La coesistenza è stata, all'inizio, il modo di porre fine a quella guerra fredda che le nuove armi atomiche rischiavano di tramutare in sterminio totale. Una necessità di sopravvivenza era dunque all'origine, ma ne derivavano anche diverse modalità nei rapporti internazionali: la non belligeranza fondata sul deterrente del terrore atomico si trasformava in regole di comportamento fra, le due superpotenze. In breve: riconferma delle zone di influenza ma progressivo bisogno di assenso reciproco sui modi di còntrollo delle zone di rispettiva competenza. Il che diveniva tanto più necessario per il fatto che l'universale riconoscimento dei vincoli posti ai singoli conflitti dalla « condizione atomica » ha accresciuto le tensioni interne nelle zone politiche e ha dato spazio a tendenze centrifughe. Che dunque alla coesistenza potesse chiedersi altro che una ridefinizione della politica internazionale come politica delle superpotenze nessuno ha mai potuto seriamente pensare. Qualcosa d'altro ci si poteva aspettare, più o meno alla lunga, solo sul piano delle cose compatibili con la logica delle superpotenze come titolari di zone d'influenza: dunque, maggiori scambi commerciali, accordi economici (tanto più necessari per l'URSS dopo l'abbandono della «sfida,> kruscioviana e sempre più utili per le grandi multinazionali in funzione stabilizzatrice), maggiori flussi turistici. Che ne potessero derivare modificazioni dei regimi politici può ben diisi che era fin dall'inizio una aspettativa fuori della realtà. Eppure in alcuni momenti, neppur troppo brevi, degli anni sessanta, aspettative in tal senso sono state abbastanza diffuse. Per il regime sovietico si è parlato di «disgelo,> come inizio di un processo di trasformazione dello stato di polizia. La trasformazione c'è stata, in realtà. Con la lentezza necessaria a tutti i processi concernenti le grandi burocrazie il grande stato di polizia ha abbandonato Io stalinismo di ferro per assestarsi su ùn modulo più moderato e tollerante, quale del resto si conviene ad una società che dà mag. gior spazio ai consumi e, diversificando i propri obiettivi produttivi, non ha più bisogno di un rigido conformismo. Quanto tale trasformazione (che consente peraltro più margini di manovra e maggiori spazi d'insediamento alla « nuova classe,> burocratica) sia lontana da una modificazione significativa delle basi del regime e da quella stessa

precondizione della democrazia che è data aI riconoscimento dei diritti civili elementari e soprattutto della libertà d'opinione e del diritto al dissenso, è stato sempre molto chiaro. D'altra parte » nessuno può affermare che le tensioni contestativesviluppatesi in Occidente derivino dalla « coesistenza » cioè siano lo sviluppo di un confronto con il diverso sistema politico-ideologico con cui si coesiste. t dalle contraddizioni interne della so-cietà occidentale che è sorta la spinta alla pro-. testa ed alla contestazione. Anzi questa è nata » per gran parte, dalla sempre più avvertita nozione di un fatto preciso: che la coesistenza s'è risolta' in una cauzione data al libero dispiegarsi della logica imperialista del sistema capitalistico egemone. Segno, dunque, dello stato di estremo e di-sperato isolamento in cui si trovano le «voci del. dissenso » in URSS è l'appello all'Occidente con-tenuto nell'ultima intervista di Andrei Sacharov, concessa a France-Press il 22 agosto 1973. Eglii avverte che la nuova ondata repressiva del dis-senso avutasi nell'ultimo anno è conseguenza der «cambiamento della situazione internazionale », cioè dalla maggiore intesa fra le superpotenze, ma poi chiede all'Occidente di «comprendere che se il nostro paese non subisce modifiche nel senso di una maggiore democratizzazione, qualsiasi accordo sarà precario ». Il fatto è che l'Occidente, quello che conta nei rapporti col Cremlino fonda' altrove i suoi calcoli di non precarietà relativi all'accordo con l'URSS, fa conto su esigenze più strutturali del sistema economico sovietico. In ogni caso non ha (diciamo più chiaramente: non può nè intende avere) fra i suoi scopi, di breve o lunga scadenza, la trasformazione « democratica » della so-cietà del «grande recinto

Il riformismo nel dibattito degli intellettuali

2)

IL DIBATTITO POLITICO torna, dunque, al tema del riformismo (o meglio vi è tornato senzaperò attestarvici per molto e con convinzione). Beninteso, chiedere 'in generale «riforme,> non da tempo cosa che qualifichi alcuno o alcunché: rimbalzando da una sponda politica all'altra, if discorso sulle riforme si svolge per lo più nei modi delle dichiarazioni generiche, nei modi in-' somma dei luoghi comuni. C'è però un fatto da rilevare: torna al tema del riformismo il dibattitopolitico della sinistra e viene così a rinnovarsi un' capitolo classico di discussioni e di divisione in-


terna. Dire « viene a rinnovarsi » serve solo a fare una constatazione: il ripetersi del dibattito ion significa di per sé il rinnovarsi dei suoi contenuti. Ed infatti oggi non sembra che questo Tinnovamento ci sia. La nostra impressione è anzi che vengano ad essere riproposti molti tradizionali pseudo-problemi. Intanto vale fare attenzione a .quali siano i settori della sinistra in cui il dibattiro s'è riaperto. Si tratta del settore socialista, cioè 'del partito che, escluso dal governo dopo la bat-taglia presidenziale di fine '71 in nome delle spre-giudicatezze democristiane della «politica della centralità », è sempre apparso prossimo a rientrare -al governo (non si dice disponibile: questo è fuori discussione da oltre dieci anni, vero dato < irreversibile ' della nostra vita politica). Prossimo -a rientrare non fosse altro che in ragione dei rapporti di forza parlamentari e delle necessità di copertura del partito democristiano. A questo settore si aggiunge quello, d'opinione, che fa capo -al Manifesto. In verità, bisogna essere ancor più -precisi: per quanto riguarda il settore socialista, -non è che il partito sia stato investito dal dibat-tito. Al contrario, come altre forze storiche di -orientamento « progressista » e di sinistra, nella ideologia generica del riformismo il partito socialista è insediato da tempo senza molti problemi o dubbi metodici o scrupoli analitici. Certo, c'è oggi maggiore cautela, minore entusiasmo, il triorifail-smo è più di routine (quel che basta per soprav-vivere) ma non si potrebbe dire: c'è discussione (nel senso stretto del termine, come atto del di-scutere e del mettere in questione: cioè « esami-nare e considerare attentamente un argomento, pro-spettando diverse opinioni, col fine di chiarirlo, -di appurare la verità, di prendere una decisione» -così come chiarisce un noto vocabolario della linua italiana). Il dibattito sul riformismo nell'area -socialista, o meglio il tentativo di provocare un dibattito, è stato iniziativa degli intellettuali, talora detti anche «esperti », attestati attorno all'area socialista e soprattutto a quegli organi neoburocratici della programmazione più o meno la-sciati (o abbandonati?) in mano appunto a gruppi -di provenienza socialista. Di qui due conseguenze. la prima è che, in ragione della stessa qualifica-zione dei proponenti, il dibattito più che cercare interlocutori ed ascolto nel campo della sinistra e delle sue diverse componenti, vecchie e nuove, ha voluto essere proposta di lavoro per la '<classe -politica » genericamente intesa e che naturalmente -viene ad essere soprattutto la classe politica di -governo (come vuole del resto lo stesso concetto -di «classe politica », originariamente liberal-con-

servatore). La seconda è che nell'ambiguità conseguente il disagio di frustrazioni rinnovate si traduce in rivendicazione di potere di gruppo più che in ricerca di obiettivi e in elaborazione di programma d'azione intorno a cui sollecitare l'impegno di forze politiche precise. Non ha la forza, questo riformismo, di un progetto politico (a parte ogni problema di lucidità espositiva) e decade a diatriba d'« esperti» e spesso di parrocchie di esperti: non per la rarefazione o difficoltà tecnica del discorso, ma sostanzialmente per la sua indigenza politica. Certo, da un certo punto di vista aver tentato di rilanciare una qualche forma di, dibattito sul riformismo può essere segno di coraggio o di ottimismo. A nessuno è sconosciuto quanto grande sia il rischio di accrescere il cinismo di un miliea politico culturalmente esausto, incline al rotolare mediocre delle cose, in definitiva poco convinto di sè se non in una logica di autodifesa che sa di regime. In un ambiente del genere il ritorno al riformismo appare quasi di necessità esposto a risultati deludenti. Non si tratta alla fine di un semplice scarico di coscienza o peggio di un compiaciuto gioco delle parti? Un modo c'è per uscire da impasses del genere: fare onesto uso critico, cioè soprattutto autocritico, della propria esperienza, nel caso dell'esperienza della tentata programmazione degli anni sessanta. Ebbene non è

certo questo che fa il «Rapporto sull'esperienza di programmazione» di Giorgio Ruffolo, segretario generale della programmazione e in qualche modo capofila, in ragione del suo ruolo istituzionale, degli intellettuali « socialisti» di cui parlavamo (di questo Rapporto stavamo infatti parlando). Certo 1'utocritica è operazione assai difficile, qualcuno dice impossibile. Ma, a maggior ragione, o si fa senza reticenze o è meglio lasciar perdere. Le ragioni per le quali la programmazione è stata un'incredibile vicenda d'aria fritta sono ben chiare da tempo a tutti, e certo potevano essere chiare fin dall'inizio, prima che l'happening cominciasse (c'è qualcuno che ricorda il motivato scetticismo di Ernesto Rossi agli inizi degli anni '60?). Sicché ragionare di quella che va chiamata «l'esperienza di non programmazione » può essere utile solo se per oggetto abbia i propositi, le motivazioni, le conoscenze< i disegni e poi l'attività, i comportamenti, i modi di reagire alle difficoltà che hanno caratterizzato la presenza istituzionale dei programmatori o candidati tali. Ma questo diario o bi.lancio critico non c'è. Il « programmatore » ed i suoi esperti si limitano a documentare ancora una volta ma con molta prudenza e con largo uso di


lo verba generalia un fatto notissimo: l'inefficienza, la pigrizia dell'amministrazione pubblica. Una documentazione che non è più convincente di tante altre, anzi rischia d'esser controproducente: ed infatti, perchè mai la pubblica amministrazione, che alla decrepitezza di certe strutture andava aocoppiando nel corso degli anni sessanta l'energia di un nuovo spirito rivendicativo di corpo garantito e protetto dai legami organici con il sistema politico di governo, dovrebbe essere giudicata sul metro della programmazione, di quella programmazione, innocua o generica nei suoi contenuti e dunque non in grado di suscitare alcun controllo da parte della società, alcuna nuova forma di responsabilità politica e quindi utile solo come copertura di lotte o scaramucce di potere fra vecchie borboniche burocrazie e nuove burocrazie sedicenti modernizzanti? Bisogna riconoscere che la accusa all'amministrazione non riceve da tutto ciò alcun maggiore mordente. Se, dunque, la ripresa del discorso sul riformismo volesse ascriversi anche al ruffoliano «rapporto sull'esperienza di programmazione », poi pubblicato come «Rapporto sulla programmazione» da Laterza nei « libri del tempo », vale chiarire subito il senso e la portata del fatto. L'altro settore in cui il dibattito sul riformismo ha avuto sviluppo è quello, abbiamo già detto, del Manifesto. Da tempo sottesa alla problematica ondeggiante del gruppo, la questione di come fare i conti con i gruppi politici della c. d. « sinistra riformista », interni ai partiti ma soprattutto presenti nel sindacato e soprattutto nei sindacati delle categorie industriali, ha avuto via via un peso crescente. La novità del dibattito sul Manifesto, svoltosi nella primavera scorsa, in pressocchè completa contemporaneità con l'uscita in libreria del « Rapporto » succitato, è questa: il confronto cui si chiama l'opinione rivoluzionaria è con il riformismo nel suo complesso, non con una singola componente riformista, prendendo atto della permanenza e del ritorno di una diffusa opinione riformista. Anzi, l'elemento caratteristico di questo ritorno al dibattito sul riformismo è proprio dato dal fatto che per gran parte l'iniziativa spetta a gruppi e persone che avevano tentato (e tuttora dicono di tentare), sia pure con insuperabili problematismi e incertezze, la via della politica rivoluzionaria rilanciata e rinnovata dal movimento della contestazione politica. Forse non a caso il gruppo del Manifesto concentra il proprio discorso su « spazio e ruolo del riformismo » nel momento in cui il giornale si dà carico di una più ampia funzione di presenza critica democratica.

Vediamo i precedenti. Nella situazione di crisi endemica in cui il paese si trova alcune forze sociali importanti hanno riscoperto, rilanciato o comunque suffragato l'ipotesi riformista. Si sa quali sono queste forze: le grandi imprese oligopolistiche private-pubbliche, impersonate soprattutto dal mitico Agnelli, e il partito comunista soprattutto nell'ala - più dichiaratamente neo-socialdemocratica guidata da Giorgio Amendola. Forze, s'è detto, importanti e addirittura di grande potenza, com'è nel caso, della FIAT, ma non decisive e non egemoniche nel quadro politico italiano (della politica amendoliana si potrà anche riconoscere spesso la chiarezza ma l'altrettanto netta e ripetuta tendenza allo scacco e alla sconfitta). Il punto è che per queste forze l'ipotesi riformista sembra necessitata. Del resto, anche Malagodi nelle dichiarazioni fatte

lasciando il Tesoro (L'Espresso-Finanza Economia, 8 luglio 1973), non afferma che dall'esperienza aI governo esce « più riformatore » che non « più conservatore »? « Il riformismo, questo riformismo, con i suoi precisi contenuti, non esce perciò dalla testa di qualche politico alla ricerca di un programma per la 'nuova maggioranza'; nè dal desiderio di qualche capitalista di darsi una copertura ideologica moderna; nè dal ripensamento di un movimento di massa che ha trovato pericolosa e difficile la strada della rivoluzione. Nasce da dati strutturali, da precisi interessi, dalle necessità del sistema e di larghissimi strati sociali. Per questo è destinato ad acquisire consensi, ad assumere il carattere di una idea-forza, anzi a diventare quasi senso comune » (Lucio Magri). Le ragioni ' obiettive ' - delle attese riformiste, fondate o illusorie che siano, è tema di verifica sui quale tornare. Qui basta aver annotato per memoria uno dei passaggi centrali delle argomentazioni di un discorso sul riformismo che ha occupato in quest'ultima stagione un settore d'opinione radical, accreditato di una certa autorevolezza. Un discorso, al quale non è mancato il confronto con altri settori della sinistra e soprattutto con quello innanzi citato. Le osservazioni fin qui fatte intendono risolvere un dubbio che ci sembra legittimo e che, se altri eludono, noi non ci sentiamo di eludere. Che funzione e che influenza e che pertinenza ha questo dibattito sul riformismo? Insomma, supera oppure no l'ambito delle rituali discussioni fra intellettuali della sinistra? Diciamo che un tal quesito preliminare è legittimo perchè ci siamo convinti, nello scorrere dell'esperienza politica italiana dal dopoguerra ad

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11 oggi, che una vecchia legge (di quelle che definiremmo 'leggi ferree') s'è imposta: quella della supplenza delle parole ai fatti (sia pure non intesi, i 'fatti', nel modo semplicistico del più banale senso comune), supplenza amministrata per lo più da un gruppo sempre limitato di intellettuali della sinistra (i risultati si trovano spesso nel litiguaggio politico, quel linguaggio che viene accusato d'ermetismo e di genericità con accusa vera ma spesso superficiale. Non sempre è stata colta in quale notevole misura le modificazioni del linguaggio politico derivano, per via diretta o mediata, dalle discussioni e dalle «analisi,> degli intellettuali, in particolare degli intellettuali della sinistra). La ripresa di interesse per il riformismo potrebbe inoltre venirci a ricordare come quella legge di supplenza si applichi con le modalità di una legge del pendolo sui generis. La logica concettualizzante degli intellettuali politici, la consapevole o inconsapevole auto-attribuzione dei compiti di analisi-sintesi del significato della prassi conduce naturalmente a questi atteggiamenti di andata e ritorno a certi interessi. Sicchè se nella realtà italiana la legge del pendolo non s'applica per mo.dificare maggioranze e minoranze parlamentari, forse s'applica questa legge sostitutiva dell'alternanza degli interessi degli intellettuali politici. In costanza, naturalmente, di alcune non modificate realtà di organizzazione sociale e politica, cioè in costanza di un quadro politico incapace di realizzare e guidare modificazioni dell'assetto sociale. È nelle modalità applicative di questa legge che avvengano periodicamente alcune Grandi Ricapitolazioni o Ricognizioni: naturalmente, per una 'analisi corretta ' (dei rapporti di forza e degli èquilibri di classe soprattutto) che fondi una 'strategia '. Non intendiamo scherzare o sorridere, dacchè di tali riti ed operazioni mentali siamo sicuramente bene o male partecipi, nè l'osservazione è solo scettica. Perchè attraverso le genericità di tante pseudo-anausi alcuni passi avanti sono stati fatti. Il difficile equilibrio fra conoscenze di specie e capacità di generalizzazione è talora migliorata senza fare appello alle facili mediazioni dell'ideologia. (La quale ultima, d'altra parte, per quanto grande sia l'abuso di questi ultimi anni, è divenuta qualcosa di diverso: non più un catechismo, una dottrina dogmatica, ma un atteggiamento, un'aspettativa mentale di chiarezze generali che in qualche modo è servita a ripristinare prospettive di conoscenza della realtà sociale troppo facilmente abbandonate o ridotte a formule. Si pensi alle formule cui era ridotto il classismo nel periodo dell'egemonia stalinista e. si pensi alla rinnovata forte percezione

della realtà di classe, insieme più forte, più vissuta e più problematica). E del resto, su questo piano il discorso non può che approdare al tema della povertà e dell'insufficienza delle scienze sociali, e della loro difficoltà a divenire strumento di adeguata osservazione della realtà e di approssimata previsione delle tendenze della società. CERTO, PUÒ DARSI che le Grandi Ricapitolazioai servano e può darsi, in specie, che servano queste ultime ricapitolazioni. Perciò, bisognerà entrare nel merito. Per ora ci contentiamo di cogliere la occasione per definire, in linea di massima, l'atteggiamento critico che intendiamo assumere, anche in ragione delle dichiarate diffidenze nei confronti di altrui atteggiamenti. Cerchiamo di dire in breve. Sono consueti alcuni modi per gli intellettuali di essere presenti in politica. Fare i consulenti del principe, fare i designers di arredamenti vari per il mondo o per il paese, fare « la coscienza critica » di qualcuno, preferibilrnente delle grandi forze politiche, ovvero non fare e non pretendere nessun ruolo specifico come intellettuali e semplicemente fare i militanti. Talora quest'ultima sembrerebbe la scelta migliore, ma in fondo è la più riduttiva: chè poi, inevitabilmente, qualcosa si chiede all'intellettuale (un tempo, all'epoca dei grandi intellettuali, si chiedeva loro di essere fiore all'occhiello per l'una o per l'altra forza politica) o meglio qualcosa dev'essere chiesto all'intellettuale come depositario, buono o cattivo, di competenze e di conoscenze. Ora quel che ci chiediamo con molta semplicità è se non sia possibile svolgere una funzione di commento e di osservazione-previsione (sì - e perchè no? - una funzione di giornalismo documentato, capace di competenze specifiche, non disposto ad abbandonare i suoi temi) sullo svolgimento dei fatti politici (e nel nostro caso istituzionali) all'insegna di un rigoroso realismo critico. Cioè il realismo esattamente antitetico a quello, solitamente acritico e pasticcione, dei praticoni della politica. Una funzione che intende svolgersi con due ben chiare avvertenze. La prima: che pretese d'autorevolezza sono vane soprattutto se all'insegna della cosiddetta obiettività e scientificità d'analisi. Dunque una funzione critica che cerca i suoi interlocutori e non li vuole indeterminati (altrove siamo stati chiari sul punto) e li cerca con l'autonomia ovvia e scontata, fuori discussione, che nasce dal rifiuto di qualsiasi placet. La seconda: che gli strumenti analitici sono quelli che sono. Ancor poveri e insufficienti quelli messi a punto dalle scienze sociali ed ancor più poveri ed insufficieinti se usati alla svelta, senza troppi


12 margini di ripensamento e di verifica, senza formali rigorismi accademici.

Le riforme come oggetto d'analisi

3) UN ASPETTO PARTICOLARE del dibattito che s'è svolto sul Manifesto merita forse una segnalazione nel quadro delle osservazioni fatte nella nota precedente. Il dibattito ha sancito il netto mutamento di opinioni di uno studioso ascoltato (ma anche spesso discusso) negli ambienti della sinistra. Ci riferiamo a Claudio Napoleoni. Fra l'autunno 1970 e la primavera 1971 egli s'era più volte espresso (soprattutto con una serie di articoli su Settegiorni) sul tema delle riforme riprendendo e rinnovando le argomentazioni della linea riformjsta della sinistra storica. Vale schematizzare rapidamente la sua posizione d'allora. Il punto centrale è questo: le risorse economiche attualmente indirizzate a soddisfare consumi non necessari (c. d. opulenti) devono invece essere indirizzate a consumi sociali, in modo che questi ultimi siano sostitutivi dei primi, e non aggiuntivi (come nell'ipotesi del tipo La Malfa 1962, o nel primo piano quinquennale). Ne consegue che: il processo capitalistico fondato sulla creazione di consumi superflui, che porta in sè le cause di crisi (in quanto ciò significa aumento continuo dei salari) verrebbe reso più stabile: minor rischio cioè sia di inflazione, sia di depressione; si realizzerebbero delle economie nell'uso delle risorse, il che consentirebbe, a sua volta, di alimentare le riforme. Con il che si veniva a negare sia l'impostazione di quanti sostenevano la necessità di precostituire le risorse per finanziare le riforme, sia l'impostazione di coloro che identificavano, in sostanza, le riforme con la spesa pubblica anticongiunturale, attribuendo ad esse la capacità di rilanciare il sistema qual'è; le economie realizzate potrebbero anche favorire gli investimenti direttamente produttivi favorendo la disponibilità di risparmio. Questa ipotesi consente, in primo luogo, di riproporre il tema del Mezzogiorno, dato che nella modifica del processo di destinazione delle risorse l'obiettivo principale dovrebbe essere l'industrializzazione del Mezzogiorno. In secondo luogo, l'ipotesi ac cetta l'idea che le riforme alleggeriscano i costi aziendali (in pratica, attraverso aumenti non monetizzati del salario) e creino a vantaggio delle imprese margini disponibili di risorse; finchè non si crei questo 'margine' di disponibilità delle risorse, le riforme andrebbero

finanziate « in deficit »; l'inflazione sarà evitata, secondo Napoleoni, bloccando tutti i redditi diversi dai salari e dai profitti; le imprese troverebbero inoltre nelle riforme un « fine » capace di orientarne lo sviluppo, e inoltre si avvantaggerebbero dell'eliminazione degli aspetti parassitari dell'economia. L'affermazione caratterizzante di tale linea riformista era questa: tutto ciò però non è «conervativo» rispetto al sistema in essere, ma anzi profondamente innovativo: perchè romperebbe il processo circolare di riproduzione del capitale nel quale il consumo' appare solo uno strumento (e le riforme farebbero uscire una porzione essenziale del processo economico dalla logica del capitalismo »); perchè renderebbe necessaria la programmazione: l'aumento legli investimenti sull'insieme del prodotto sociale, reso possibile dalle economie di risorse realizzate, non sarebbe infatti attuabile nel meccanismo di mercato; perchè si ridurrebbero le rendite, il che attenuerebbe lo sfruttamento operaio; perchè il profitto cesserebbe di essere liberamente disponibile. Nell'articolo sul Manifesto del maggio '73 la posizione di Napoleoni appare alquanto mutata proprio su queste ultime affermazioni. É mutato' il suo ottimismo riformista. Egli mostra di ritenere valida solo l'ipotesi che le riforme servano a stabilizzare il sistema, ad evitare gli sprechi, e così a rendere disponibili maggiori mezzi per gli investimenti. Queste riforme egli chiama, ricordando le battaglie dei liberali di Manchester contro il dazio sul grano all'inizio dell'800, ri/ormegrano (e la formula ha avuto buon successo giornalistico). Cioè riforme funzionali al settore pur moderno del capitalismo. Gli sembra invece insostenibile l'ipotesi che le riforme possano sostituire alla logica del processo capitalistico una logica diversa (riforme-finali). Sembra implicito dedurn che il superamento del capitalismo possa avvenire solo' per via rivoluzionaria (e non per via « riformista », seppure nel senso particolare in cui la intendeva precedentemente Napoleoni). L'impossibilità delle riforme-finali nasce a suo' avviso dal fatto che quando venga meno la piena disponibilità del profitto, e quando al processo' produttivo capitalistico vengano proposti fini dall'esterno, le imprese non avrebbero più un criterio di comportamento. In altre parolè, la natura del processo capitalistico, che consiste nella circolarità del processo di riproduzione, in cui il capitale è punto di partenza e punto di arrivo, nota


13 può essere corretta ma solo radicalmente modificata. Egli inoltre ritiene impossibile dare al sistema il « fine» dei consumi sociali, poichè questo renderebbe lo sviluppo lento, con corrispondente abbassamento del saggio di profitto (e quindi ulteriore impossibilità, da parte del capitale, di accettare questo tipo di processo). Infine, aprendo un discorso diverso da quelli precedentemente fatti, egli osserva che non si può ritenere che il ruolo del consumo sia configurabile indipendentemente dalla condizione in cui gli uomini si trovano nel processo produttivo. In pratica, nega che il sistema produttivo attuale possa soddisfare bisogni radicalmente diversi da quelli attuali. Con il che viene a negare l'ipotesi iniziale dei consumi sociali sostitutivi. Le considerazioni che si possono fare davanti a mutamenti d'opinione come questo (beninteso nel caso specifico ci sono passaggi intermedi che qui non interessano: la crisi della Rivista trimestrale, l'autocritica teorica di Napoleoni su Rinascita ecc.) sono varie: le categorie concettuali rimangono le stesse (è diversa la loro consecutio), non sono esplicitate le motivazioni pratico-politiche, cioè i dati d'esperietìza, che sono a base delle diverse opinioni assunte ecc. Insomma, l'apparente lucidità del discorso non fa chiarezza perchè non ci sono indicazioni di verifica e rimane lo scarto fra teoria e analisi delle vicende concrete. Perchè poi: quali sono queste riforme, possano essere qualificate - in ragione delle loro assunte potenzia1tà - ' grano ' o ' finali'? E a quali condizioni, per esempio, sono 'grano' e non - diciamo - 'loglio', cioè mutamento inutile oppure spreco oppure appropriazione corporativa oppure più semplicemente niente? Insomma, ci si può chiedere se l'analisi da fare sulle riforme, ariche e proprio da chi abbia preso ogni doverosa distanza dal riformismo, si possa giovare molto di discorsi di tal genere (a parte il significato provocatorio che questi possono avere, per altri aspetti, nell'ambito della cultura di sinistra). INCOIvHNCIAMO COL DiRE che il termine 'riforme ' significa poco: si riferisce alle cose più diverse e indeterminate. Riforme diviene spesso sinonimo di mutamento purchessia. E raramente una ' riforma ' sfugge alla regola di essere gestita da chi ha più potere contrattuale o di gruppo all'interno del settore al quale la riforma stessa si applica. Peraltro una certa abitudine a parlare di 'riforme di struttura' come riforme incidenti sul sistema economicoe tali, ma solo negli auspici, da modificarne la logica, ha sempre fatto tenere

in secondo piano le riforme di ordinamento concernenti i diritti civili e il complesso delle garanzie in positivo delle libertà individuali e di gruppo. Dimenticanza che si risolve in un 'boomerang' per le forze della sinistra: infatti la « repressione », tante volte riscoperta e lamentata in questi anni, trova anche in tale dimenticanza le sue ragioni. Un problema che si pone a proposito di riforme è quello del sistema politico come «variabile indipendente ». C'è sulito da osservare che grava su tale problematica il peso di un dibattito di carattere disciplinart, ke cui categorie concettuali non sono ancori nel linguaggio comune se non come elementi di colore e di confusione e non costituiscono perciò strumenti di chiarezza per la battaglia politica. Il discorso su questo tema vuole altro spazio in altra occasione. Può qui essere necessaria un'avvertenza. A differenza del discorso sul ' primato della politica ', risoltosi spesso in supporto (in chiave idealistica) della volontà politica come volontà dei capi, il discorso sul sistema politico a cui ci sentiamo interessati serve a sottolineare - oggi, nell'attuale momento storico e culturale - la realtà dei meccanismi e dei determinismi istituzionali che si realizzano nelle grandi dimensioni organizzative e che non sono riducibili ad epifenomeni del processo o della 'struttura' economica. Il che non contraddice la idea, ripetuta in queste pagine, che solo nella dinamica sociale (delle classi e dei gruppi), anche e soprattutto interna alle stesse istituzioni, può compiutamente cogliersi la realtà del fenomeno istituzionale. Certo, non può negarsi che la necessità di riconoscere il sistema politico-istituzionale, nelle sue componenti sostanziali e formali, come una variabile indipendente (nel senso naturalmente metaforico che l'espressione ha nel campo delle scienze sociali) può condurre al rischio di offrire di nuovo una sorta di legittimazione ad una enclosure professionale e specialistica: quella della professionalizzazione corporativa e alla fine oligarchica della politica, anche se per caso più ricca di cultori di ingegneristica istituzional-politica. Il problema è di esserne avvertiti. Che l'importanza dei determinismi istituzionali sia da sottolineare è vero, a nostro parere, quando si ficordi che l'esperienza politica italiana ha fatto spreco di soggettivismo riformista (volontà dichiarata di fare risoltasi in mera velleità) tramutatosi per lo più nel suo naturale pendant: il trasformismo dell'acquiescenza allo stato delle cose al riparo di quelle garanzie del potere che sempre è jn grado di assicurare la difesa degli interessi dei gruppi e delle clientele. Senonchè questo abbandonarsi alla naturalità degli interessi

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14 ha bloccato assai spesso la possibilità di governare, cioè di esprimere un potere di direttiva e di indirizzo efficace in qualche modo per l'intero sistema sociale. Per esempio, la ripresa del centro-sinistra va vista in questo quadro come tentativo del partito democristiano, il partito egemone, di riprendere appieno la capacità di governare. È una necessità che nasce presso le tradizionali forze po-. litiche di governo dalla instabilità conseguente al conflitto sociale degli ultimi anni nel timore che sfugga di mano un'egemonia ormai trentennale. Al di là delle molte chiacchiere giornalistiche sul governo Rumor, in tutto ciò non s'esprime alcuna maggiore consapevolezza dei determinismi sociali e istituzionali vecchi e nuovi con cui le riforme devono fare i conti. In realtà, questa consapevolezza (questa necessità d'analisi) difficilmente può essere oggi acquisita dalle forze di governo. Anzi al limite non c'è bisogno che sia acquisita: non è stato ancora dimostrato che per mantenere il potere e protrarre l'egemonia sia necessaria una gestione politica di più ampio respiro. Questa maggiore consapevolezza dei determinismi istituzionali è il compito di quelle forze politiche e sociali di opposizione che abbiano respiro per i problemi di domani (e che non intendano il loro ruolo come il conformismo di una stagione), anche senza fare getto insensatamente di quelli dell'oggi.

getti concreti. In rapporto ad una situazione complessiva sufficientemente illuminata è infatti possibile: a) valutare la congruità in sè degli obiettivi che le forze politiche e sociali si ripromettono di raggiungere con quella riforma; b) inquadrare la riforma o le riforme in una ' strategia', se questa esiste. Il terzo momento dell'analisi è la ricostruzione dell'iter della riforma per diventare legge, cercando di andare al di là degli interlocutori politici tradizionali che si affrontano nel dibattito parlamentare, per individuare gli interlocutori reali, le forze sociali ed economiche, e per valutare i modi che essi hanno (istituzionalmente o di fatto) per far sentire il peso dei propri interessi. Di qui la valutazione complessiva, in rapporto alla situazione e alle motivazioni politiche iniziali, del risultato: si tratta di stabilire chi ha vinto o chi ha perso. Beninteso, ciò è utile in una prima fase, ma non è tutto; anzi spesso è un falso problema. Perchè: a quale momento è possibile cogliere un 'risultato' sicuro e definito di una riforma? Al proposito, è necessario superare uno dei difetti principali della pubblicistica della sinistra: che troppo crede nel risultato parlamentare quando questo appare buono o troppo nella «lotta» futura quando questo è incerto. Dev'essere perciò resa possibile una prima valutazione che preveda i punti reali di vantaggio o di svantaggio e indichi i possibili pericoli che possono ostacolare o snaturare l'attuazione di un successo' parlamentare. In quarto luogo è necessario seguire l'iter applicativo della riforma, le modificazioni intervenute negli assetti istituzionali, il comportamento degli organi di amministrazione attiva, la resistenza interna ed esterna ai rapporti istituzionali, i modi

ALLORA, COME PROCEDERE alla ricognizione dei determinismi sociali e istituzionali che si riferiscono a specifiche riforme? Per organizzare un lavoro di osservazione critica sulle 'riforme' in itinere o in atto avevamo riunito tempo fa, in un memorandum redazionale, alcuni spunti per una scaletta metodologica a cui via via attenerci. Sono cose ovvie, naturalmente. Ma vale ripetersele.

di ricomposizione degli interessi all'interno della logica della riforma. Anche qui è possibile operare

Il nostro discorso sulle riforme deve avere come oggetto le trasformazioni dei rapporti economici, politici ed istituzionali che trovano la loro origine in un «progetto» volto a modificare certe strutture operative o certi modelli procedimentali. Un simile discorso comporta quindi innanzitutto un'opera di ricognizione sul ruolo storicamente svolto dalle istituzioni pubbliche in rapporto alla struttura economica e alla stratificazione delle classi sociali coinvolte nell'opera di ' riforma '. Così, se non si può prescindere dall'analisi dei rapporti tra potere economico e politico nelle fissazioni degli obiettivi della politica di 'riforme', non si può prescindere da un'analisi della situazione sociale che precede certe scelte. Solo un'analisi complessiva di questo tipo permette di passare al secondo momento di analisi

delle riforme (siano esse riforme fealizzate o soltanto auspicate): quello della individuazione delle motivazioni che sono state o stanno dietro ai pro-

una serie di valutazioni complessive della riforma, che tengano conto dell'assetto realmente determinatosi a livello istituzionale e sociale. Anche la sola analisi critica del comportamento degli agenti istituzionali nei confronti della riforma sarebbe pur sempre un discorso nuovo rispetto al metodo tradizionale di interpretazione della vicenda legislativa: certo, sarebbe un discorso sempre « interno» a quella logica se non andasse alla ricerca delle conseguenze sull'assetto sociale e sulle modificazioni politiche e di potere che quella riforma, ma soprattutto l'azione attuativa, ha prodotto. È questo il tipo di analisi forse più difficile in quanto deve far fronte al peso (ma anche, in definitiva, ad una certa facilità ed insieme verificabilità) del tradizionale modo formalistico dell'interpretazione giuridica. Data, per giunta, la mancanza di reali ed efficaci collaborazioni interdisciplinari. Ipotesi sulla grande impresa

Nel dibattito sulle ragioni della 'crisi' eco nomica e sociale italiana che s'è svolto su riviste e pubblicazioni della sinistra in questi ultimi due anni quel che di più utile ne è derivato sono gli spunti interpretativi parziali. L'esame d'insieme in4)


15 vece non è riuscito ad essere in alcun caso convincente ed esauriente (a causa probabilmente dello stato delle scienze sociali di cui già s'è detto e che esplicitamente chiamava in causa Michele Salvati in uno dei primi - ed ancor valido - di questi sguardi d'insieme: L'origine della crisi, sul n. 46 di Quaderni Piacentini). Non vorremmo concludere queste note a margine dei temi del nostro 'sondaggio su una proposta di lavoro rimanendo su notazioni di costume intellettuale o su elementari indicazioni di metodo. Ci sembra utile, per completare il quadro di riferimento documentario ed interpretativo oflerto da questo fascicolo, raccogliere alcuni di questi spunti interpretativi che più ci sembrano utili. Perciò riportiamo (da Tempi moderni, autunno 1972) l'opinione di FRANCO MoMIGLIANO sull'evoluzione e le prospettive delle grandi imprese in Italia. Un tema di cui non c'è bisogno di spiegare la centralità nell'ambito della nostra proposta di lavoro. LA MAGGIOR PARTE delle grandi imprese private non ha realizzato in Italia, nei periodi più favorevoli del passato progressi tali da superare quel puno critico « di non ritorno » che le indurrebbe alla trasformazione in grandi imprese multinazionali; tuttavia esse hanno fatto troppi passi avanti (si vede ora che li hanno fatti anche assai male) per poter ripiegare nel campo dei vantaggi delle economie interstiziali (nel quadro degli interstizi consentiti dallo sviluppo delle grandi imprese multinazionali estere). Lo squilibrio tra progresso tecnologico e incultura manageriale, tra spreco di risorse non ben finalizzate nelle attività di ricerca e sviluppo e incapacità di valide scelte di diversificazione dei prodotti e dei mercati, tra perseguimento di elevati livelli di capacità produttiva e incapacità di previsione si aggraveranno in queste imprese nei prossimi anni. Per le grandi imprese italiane infatti il nodo di una crisi (che era già implicita nei modi stessi di realizzazione della fase del «miracolo ») è stata fatta esplodere, paradossalmente, dall'emersione dek l'unico fatto nuovo che non era affatto imprevedibile: l'affermazione di un nuovo potere dei sindacati, tale da ridurre rapidamente i <(vantaggi » di un costo della manodopera più basso per una disponibilità (per una certa parte almeno di manodopera qualificata) più elevata, sottraendo alle direzioni aziendali anche la facilità di utilizzo di strumenti surrogatori, quali il sistematico ricorso alle ore straordinarie e la facilità di redistribuzione delle mansioni.

È stata infatti in Italia proprio la «rapidità'> di recupero di potere contrattuale dei sindacati, accompagnata dalla presenza di un « soffitto » dei prezzi di certi beni posto dalla competizione internazionale (sia pur mobile in funzione delle tensioni inflazionistiche degli altri paesi) a «rivelare,> la fragilità delle basi su cui era costruito il successo di molte grandi nostre imprese industriali, e la paurosa carenza di una adeguata e coerente pianificazione nello sviluppo dei servizi pubblici e delle economie esterne Questi squilibri potrebbero portare, in modo irreversibile, molte grandi imprese private italiane in situazione di cronica carenza di profitti, di sottoutilizzazione delle risorse, di incapacità di autofinanziamento, sotto i colpi di una contrattazione sindacale non eversiva e neppure rivoluzionaria (in materia di organizzazione del lavoro), ma semplicemente onerosa, come da tempo è onerosa, in USA e negli altri paesi europei. È probabile quindi che nei prossimi anni la economia italiana dovrà trovare un nuovo modo di procedere perchè uno dei suoi motori essenziali, uno dei suoi meccanismi fondamentali di sviluppo si è inceppato: quello délla capacità di forte sviluppo congiunto ad alti livelli di profitto, nelle grandi imprese private. Questa crisi ha concorso, e ancor più concorrerà nei prossimi anni, ad una « divaricazione » dei ceti medi borghesi risparmiatori dal capitale di rischio delle nostre grandi imprese. Sicchè una economia in profonda crisi di domanda pur sotto forti tensioni inflazionistiche potrà continuare ancora per qualche anno a prospettare il quadro di enormi masse di depositi senza impieghi, in presenza di ricorrenti episodi di « degenerazione da speculazioni borsistiche» (che rammentano, pur nei loro ben diversi limiti e portata, in modo impressionante taluni sintomi descritti da Galbraith nei mesi precedenti il « grande crollo> del '29). E ciò, in una vana attesa, sempre prevista e sempre rinviata di una « bancarrotta dell'economia privata nazionale », che dovrebbe sanzionare il ritrasferimento dell'Italia dal rango di fanale di coda dei paesi avanzati, a quello di capofila dei paesi « associati » del MEC, in corso di sviluppo. In questo quadro due altri operatori assumeranno un ruolo decisivo nel coordinare un diverso (più lento e malsicuro, ma in realtà non catastrofico) processo di sviluppo dell'economia italiana: il sindacato e l'impresa a partecipazione statale. Il sindacato sarà certo uno dei protagonisti focali del processo di evoluzione del sistema sociale italiano nei prossimi anni; e l'azione sindacale ov-


16 viamente potrà essere sotto questo punto di vista, definita un problema cruciale. Sinteticamente, è difficile pensare che. il sindacato possa nei prossimi anni in Italia, modificare sostanzialmente il volto e il ruolo che dal 1969 ha assunto (. .

vatore e stabilizzatore) di un certo assetto sociale e di un certo pr6cesso di sviluppo, in questa par ticolare fase di profonda crisi dell'economia italiana. - Il problema dell'antagonismo tra grande impresa privata e impresa pubblica, risulterà ovviamente nei prossimi anni superato: ma non certo Il sindacato in una prospettiva probabile, sarà per la conclusione di una nuova Santa Alleanza, nei prossimi anni in Italia un fattore che non bensì semplicemente perchè molte imprese private consentirà il ritorno a situazioni economiche del cercheranno di consegnarsi all'impresa a partecipatipo 1960, ma che assolverà contemporaneamente zione statale; e perchè d'altra parte l'impresa pubun ruolo di mediazione (e quindi al limite anche blica assumerà sempre più condotte in parte simili di conservazione) di un certo assetto c'di un certo a quelle di una grande impresa privata, sganciata nuovo modo di evoluzione del' sistema economico però dalla sanzione della verifica del profitto. sociale italiano. Esso sarà infatti il punto non Le tecnostrutture di certe grandi imprese prisolo di raccolta, ma anche di mediazione delle vate in crisi potranno cioè esser tentate di assidiverse spinte esercitate nella società italiana dalla curarsi le condizioni privilegiate delle tecnostrutpressione dei gruppi sociali emarginati, dalla preture delle imprese pubbliche, le quali riusciranno senza di una classe operaia nelle zone industriali ad imporre sempre più il predominio delle loro esiavanzate (che continua a -ricercare condizioni eco- - genze particolari, sulle. esigenze delle classi politinomico-sociali, dentro e fuori la fabbrica, analoghe che, in virtù appunto della possibilità loro consena quelle acquisite dai lavoratori degli altri paesi tita di autoconservare il potere (come punto loro del mondo occidentale avanzati) e dalle spinte di concesso dalla classe politica) sganciato in parte ribellione e di protesta popolare determinata dalla dalla sanzione della verifica del profitto. carenza di adeguate infrastrutture civili e sociali nel Si potrà così assistere all'accentuarsi di fenopaese. L'azione del sindacato sarà anche condiziomeni che sono già in corso,. e che possono essere nata da due particolari esigenze: innanzitutto quelcosì delineati: le grandi imprese private, in situala di rafforzare il suo potere contrattuale, ma di zione di difficoltà econOmica, diventeranno proevitare contemporaneamente di determinare il gressivamente sempre più proprietà solo teorica dei « crollo» del suo antagonista tradizionale: la granloro azionisti, e proprietà effettiva dei loro credide impresa privata. In secondo luogo quello di tori (grandi banche e istituti finanziatori). In que. continuare a costituire un sostegno indispensabile sta situazione l'interesse della difesa dell'occupaper la sopravvivenza della libertà democratica in zione, (sostenuta da partiti e da sindacati) e l'inItalia (. teresse della tutela dei crediti (volontà delle banAnche in Italia il mondo del lavoro « occuche di non determinare il fallimento delle grandi pato» assumerà caratteristiche di una forza sempre imprese da esse finanziate) potranno determinare meno- agevolmente maneggiabile da parte delle imcongiuntamente una tendenza che permetterà per prese, non tanto o non affatto per una sua aumenqualche anno, il proseguimento di un tipo partitata carica eversiva (o per una sua maggiore policolare di vita di certe grandi imprese. In esse non ticizzazione in senso rivoluzionario), ma per una si sanzionerà giuridicamente il passaggio del potere sua progressiva maggiore sindacalizzazione (nel sendi controllo all'operatore pubblico, proprio perchè so tradizionale) da una parte, e per una sua mil'operatore pubblico risulterà in molti casi ancora note disponibilità ad un impegno continuativo nelabbastanza adeguato finanziariamente a sostenerle, l'esercizio delle attività lavorative dall'altra. Il proma risulterà inadeguato strutturalmente e burocracesso di assenteismo potrà aggravarsi ancor di più, ticamente (crisi profonda della programmazione o comunque non tenderà a recedere (indipendenteeconomica nazionale, ulteriore peggioramento della mente da qualsiasi tentativo di ritocco di talune efficienza burocratico-ministeriale) a gestire e oriennorme dello statuto dei lavoratori) e soprattutto tare queste attività industriali. potrà aumentare ancora il turnover tra le nuove Sarà pertanto questa una fase in' cui le tecnoleve del lavoro (... strutture sia di un certo numero di grandi imprese private, (ovviamente di quelle che non saranno L'IMPRESA A PARTECIPAZIONE STATALE sarà state assorbite e acquistate da imprese multinaziol'operatore che insieme al sindacato probabilmente nali estere), sia delle imprese a partecipazione staaccentuerà la sua funzione di protagonista (consertale, continueranno ad autogestirsi senza effettivi


17 controffi. Potrà avvenire quindi in questi anni, in forma più completa, il rafforzamento delle tecnostrutture delle imprese a partecipazione statale, che, dopo aver tratto il loro potere dalle correnti politiche di partito, affermeranno sempre più il loro potere sulle correnti politiche e sulle classi politiche. In sintesi, ed anticipando in parte quanto si dirà ancora in seguito, si può prevedere che nei prossimi anni in Italia la evoluzione economica sarà caratterizzata dall'accentuarsi di questi fenomeni: un progressivo indbolimento strutturale delle grandi imprese industriali private; un crescente dinamismo dell'azione delle imprese multinazionali straniere; in conseguenza un'ulteriore progressiva spinta verso la espansione dell'impresa pubblica (a partecipazione statale) alla cui crescente « leadership » nel contesto italiano (rafforzamento relativo nell'ambito della nostra industria nazionale) non corrisponderà però un'analoga crescente forza, (anzi una crescente debolezza) nel contesto europeo e mondiale della competizione internazionale. Le imprese a partecipazione statale infatti nei prossimi anni si troveranno a dover fare i Conti non più tanto con le grandi imprese private nazionali, quanto con le grandi imprese multinazionali estere (con cui dovranno competere sia sui mercati interni che sui mercati esteri). Sarà forse proprio questo il tipo di incontro e di scontro nuovo che caratterizzerà l'esistenza e gli indirizzi di decisione dell'impresa a partecipazione statale nei prossimi cinque anni e l'incontro scontro che potrebbe sboccare in una multinazionalizzazione (e pratica riprivatizzazione) delle imprese a partecipazione statale o, alternativamente, potrebbe risolversi in una pressione esercitata dalle tecnostrutture delle imprese pubbliche, per una sostanziale modificazione della politica economica italiana. Può essere questa la via attraverso cui si potrebbe delineare entro il prossimo quinquennio l'abbandono della politica economica italiana tradizionale (favorevole a ogni processo di liberalizzazione e di integrazione economica) e l'inizio di una nuova fase di introduzione di una politica economica caratterizzata da maggiori elementi di protezione dell'industria nazionale, e quindi da maggiori controlli sui movimenti di capitali e investimenti esteri in Italia (... IL QUADRO DI PROSPETTIVA potrebbe essere allora forse schematicamente così descritto: crescerà sempre più in Italia l'interdipendenza tra opera2

tore pubblico e industria; ma questa rete di rapporti si fonderà sempre meno (secondo uno schema che stava alla base originaria della contrattaziòne programmatica) sul rapporto tra imprese private e governo e per converso si fonderà sempre più su iapporti di interdipendenza tra imprese a partecipazione statale e governo (mentre si accentueranno invece i casi di rapporti di dipendenza delle impese private alternativamente o nei confronti delle multinazionali estere o delle imprese a partecipazione statale). Ciò potrà determinare un quadro caratterizzato da sempre maggiore incapacità e minore efficienza degli interventi del governo a livello macroeconomico, e da sempre più frequenti interventi del governo a livello microeconomico. La politica industriale si svilupperà quindi sempre più in Italia sotto forma di una serie di incentivi o sostegni pubblici contratti soprattutto con la tecnostruttura delle imprese pubbliche (crescenti impegni di lotta per l'acquisizione dei fondi di dotazione). I -rapporti tra governo e industria saranno quindi sempre più rapporti tra burocrazia politica e tecnostruttura delle imprese pubbliche; mentre il salvtaggio puntuale dell'occupazione delle singole imprese private in crisi, diventerà ulteriore occasione di nascita o di rafforzamento di nuove tecnostrutture di imprese pubbliche, sempre più sottratte alla logica di strumenti coerenti di una globale politica di sviluppo. L'area economica nazionale coperta dall'impresa a partecipazione statale si allargherà sempre più (e in corrispondenza crescerà il suo potere nei confronti delle imprese private, nazionali e del governo); ma questo crescente potere costituirà semplicemente l'altra faccia della medaglia di una crescente inadeguatezza e inferiorità delle imprese stesse nei confronti delle grandi imprese multinazionali estere. Appunto in base a queste premesse si può giustificare la sopra accennata previsione di una pressioiie progressiva verso una politica del governo0 che incominci a privilegiare, con precise azioni di protezione, in particolari settori industriali, singole imprese pubbliche con politiche di sostegno, destinate appunto a compensare la debolezza, nell'area oligopolistica mondiale, di queste nostre imprese pubbliche assunte a livello di « qua. si-monopoli nazionali ». Perciò non pare assurda l'indicazione o la previsione nei prossimi anni di una possibile. svàlta « gollista» della politica economica (e in modo specifico della politica industriale) italiaa; svolta


18 che non potrebbe, necessariamente, non essere appoggiata, sia pure « ambiguamente» dai nostri sindacati (con tutte le conseguenze sul piano politico). L'ipotesi interpretativa di Momigliano ha il pregio di essere formulata in base ad un'esperienza concreta di programmazione aziendale. L'approfondimento e la discussione dell'ipotesi ci sembra uno dei compiti del nostro programma di lavoro. Una avvertenza va sempre ripetuta quando si parla di 'grande impresa': essa non rappresenta in toto, soprattutto nel nostro paese, la realtà sociale del fronte 'imprenditoriale'. Al contrario s'è verificato in questi anni un fenomeno di ampia incrinatura in questo fronte. Lo ha ricordato con chiarezza Paolo Leon nel suo intervento al convegno economico del PSI della primavera scorsa. A suo giudizio, è proprio in relazione a questo fenomeno di incrinatura che

va intesa la strategia del governo Andreotti. Il quale ha cercato le sue carte politiche proprio nel tentativo di « ricostruire un fronte unico della classe imprenditoriale, là dove tale fronte si era pericolosamente incrinato: con la lunghissima stagnazione - dal 1963 - che ha colpito in modo particolare la piccola e media impresa (e più nel Sud che nel Nord); con l'espansione della impresa pubblica, ai danni ovviamente della stagnante impresa privata, che aveva Io scopo di restituire vitalità alla domanda globale (senza peraltro riuscirvi); con la pratica fine del mercato dei capitali, che ha costretto le imprese ad un rapporto di interconnessione diretta con lo Stato ». È anche questo uno spunto d'analisi che, insieme ad altri contenuti nell'intervento di Leon, potremo riprendere in altra occasione.


Epot si dì.

lavoro promemoria n. i: dòpo la "contestazione,, Le istituzioni: che cosa sono. È un quesito che occorre porsi dato che la parola istituzioni è di quelle espressioni allusive cui nel linguaggio politico si dà un carico di referenti i più indifferenziati e diversi. Per la cultura della contestazione il termine istituzioni è pressocchè lo stesso che il termine sistema, con una sottolineatura svalutativa anche maggiore. Per la cultura ufficiale delle forze politiche tradizionali le istituzioni sono, per antonomasia, le « istituzioni democratiche » queste istituzioni democratiche) cui, pur con diversa gradazione di toni, si riferisce naturalmente una valutazione positiva e quando possibile trionf alistica, soprattutto come « patrimonio » da difendere. Se si passa a considerazioni di tipo di sciplinare le istituzioni, nella cultura sciciologica, sono complessi di comportamenti stbilizzati, processi di condizionamento della dinamica sociale forniti di un alto grado di cogenza, mentre nella cultura giuridica sono complessi di norme o di fatti organizzativi riferiti, per lo più, al fenomeno statuale. Si potrebbe forse ritrovare nella cultura e nel linguaggio della contestazione una (

influenza della concezione sociologica, mentre nelle proposizioni della cultura politica ufficiale i richiami sono, più frequentemente, alla concezione giuridica. Al di là, tuttavia, di siffatti significati di carattere, come s'è detto, prevalentemente allusivo è difficile trovare referenti puntuali. Il discorso sulle istituzioni si ferma solitamente sulle enunciazioni-bandiera (tipica, anche per i contrasti suscitati, la formula di Rudi Dutschke sulla « lunga marcia attraverso le istituzioni »).

Intendo qui per istituzioni le realtà organizzative dell'apparato statuale (in senso lato), intese come sede e strumenti dell'attività di soggetti politici-sociali. Rèaltà, dunque, che non è possibile cogliere attraverso i soli filtri della cultura giuridica quando si voglia portare in evidenza il peso politico, appunto, delle diverse « istituzioni ». A ciò la cultura giuridica non può bastare, anche per la crisi delle sistemazioni categoriali fondamentali come la distinzione fra pubblico e priv'to, che l'evoluzione delle strutture del grande capitale ha quasi completamente spaz-


20 zato via, degradandola agli aspetti minori, tecnico-procedimentali, della prassi ammini• strativa e forense. In ogni caso, realtà da analizzare: e non, • evidentemente, per una conoscenza fine a se stessa ma con l'intenzionalità politica di mettere in questione le istituzioni e/o di attivarne una diversa utilizzazione.

La capacità di analizzare le res gestae delle istituzioni (e la volontà, o se vogliamo, il gusto di farlo), si è fermata, si può dire, con Ernesto Rossi: mentre l'area dell'irresponsabilità politica nei processi decisionali c. d. «pubblici » si è allargata coniugandosi inestricabilmente con quelli del grande capitale (il fenomeno 'degli «scandali » e dell'intervento del giudice nenale ha assunto spesso il senso di una cortina fumogena a questo riguardo). La lezione di Rossi va, dunque, ripresa non solo per la passione politica che la caratterizza, ma per la pazienza e la cocciutaggine dell'indagine puntuale: chè, invece, quanto a cultura politica, il suo classico impianto 'liberale, oltrechè essere inidoneo all'azione di soggetti collettivi, sarebbe deviiante oggi - ancor più che ieri - per la comprensione della realtà (è un impianto per il quale, per esempio, la distinzione fra pubblico e privato fu sempre essenziale).

La prospettiva politica di un discorso sulle istituzioni. Chi abbia seguIto con partecipazione e sia pure con senso critico quanto si è svolto dal '67-68 ad oggi all'insegna della «contestazione politica », oggi nel farne un bilancio deve rilevare come l'anti-isrituzionàlismo ne abbia rappresentato il principale elemento caratterizzante: anzi ne sia 'stata, forse, la formula aggregante di base. Un anti-istituzionalismo che essendo, all'inizio, tout court espressione della montante ideologia spontaneista è stato an-

che rifiuto dell'organizzazione: ed è questo il punto sul quale, poi, questo anti-istituzionalismo è stato attaccato, all'interno dello stesso movimento, ed ha cominciato a cedere. È rimasto, tuttavia, attestato intorno all'equazione generale « istituzioni = sistema (capitalistico) », che mai, però, è stata verificata nella concretezza delle sue componenti e variabili ma solo sorretta su aspetti di facile evidenza (polizia, repressione, ecc.): neppur colti, questi, con sufficiente intelligenza. L'asserzione dell'irrilevanza dei fatti istituzionali è stata messa in questione dall'attenzione, prima, e poi dal massiccio intervento di alcuni settori della sinistra extraparlamentare nella recente vicenda presidenziale. Naturalmente, il fatto che questa vicenda si colloca al livello delle grandi istituzioni e che l'elezione presidenziale ha assunto il significato politico che ha assunto, non consente di dire quanto ciò significhi in relazione ad un possibile cambiamento dell'atteggiamento aprioristicamente anti-istituzionale. Può, in ogni caso, significare quanto contino le occasioni « istituzionali » nella condotta della sinistra extra-parlamentare o di buona parte di essa (vedi, ad esempio, le elezioni del '68 e lo sviluppo dei « piccoli gruppi spontanei », le scadenze contrattuali del '69 e la spinta all'organizzazione delle nuove sinistre, ed ora, appunto, la vicenda presidenziale). La conseguenza maggiore dell'atteggiamento di pregiudiziale anti-istituzionalismo è il freno posto ai processi di conoscenza delle realtà istituzionali: risultato, ovviamente, per nulla sgradito alle classi dominanti. A questo proposito, si usa giustificare siffatto risultato dicendo che un'interesse conoscitivo per le istituzioni può nascere solo nelle stesse classi dominanti o comunque fra quanti partecipano alla lotta per il potere all'interno di queste classi. È questa un'espressione di determinismo esi-


21 sten2liale che, seppure ha qualche parvenza di ragionevolezza, sta appena ad indicare una linea di indagine soprattutto per quanto riguarda la psicologia di alcune leve politiche e culturali della contestazione. In verita, la storia della cultura di sinistra dimostra che i suoi titoli maggiori di validità sono nell'aver svelato i meccanismi reali del potere: essa, invece, diviene 'subordinata alla cultura delle classi dominanti tutte le volte che perde questa capacità e tempestività di analisi (beninteso, altra questione - e annos'issima - è se l'analisi sia fatta di lavoro meramente teorico o se abbia bisogno d'i inverarsi nella prassi o addirittura confondersi con essa). La ragione dell'anti-istituzionalismo della contestazione va colta piuttosto in quella sorta di maitusianesimo culturale della contestazione naturalmente derivante, da una parte dalla scelta politica di promuovere le ragioni della protesta sociale, soprattutto dei gruppi sociali emarginati che reclamano la propria emancipazione e, dall'altra, dalla crisi della linea culturale del PCI. Per il primo verso, sulla scia dell'ideologiia negativa del rifiuto 'la nuova sinistra ha cancellato dai suoi interessi una serie assai ampia di realtà e di 'problemi. A ciò talora sollecitata - occorre aggiungere dalla tentazione « realistica » di coltivassi un proprio spazio politico là dove certe tematiche sono, fino ad oggi e per ragioni diverse, percepite appunto come irrilevanti. Per il secondo verso, l'anti-istituzionalismo della contestazione va inquadrato nel processo di decomposizione dell'ideologia dell'egemonia, quale è stata professata e praticata dal PCI. Essa ha consentito un atteggiamento di tipo idealistico o addirittura nominalistico secondo il quale la presenza organizzativa del partito avrebbe di per sè la capdcità di riqualificare come democratiche e progressiste situazioni e istituzioni. Due ordini di cause hanno ormai messo in crisi questa pretesa egemo-

nica: obiettive e strutturali, da una parte, dovute ai processi di complessificazione e di potenziamento del potere economico pubblicoprivato (che hanno esaltato il ruolo, per esempio, dei centri detentori di informazioni dirette sui processi produttivi e hanno ulteriormente depotenziiato il Parlamento, sul quale le sinistre hanno sempre ampiamente puntato come sede per la loro partecipazione all'indirizzo politico senza far molto, in verità, per farne in qualche modo un organo di contro-potere e cioè di controllo sui centri decisionali corrnaturalmente extra-parlamentari) e più propriamente culturali, dall'altra (in breve: il declino dello storicismo e del conseguente giustiGcazionismo di gran parte della 'sinistra tradizionale). Attraverso questa crisi è riemerso con particolare evidenza un carattere peculiare della linea politico-culturale della sinistra: l'accettazione sostanziale di una concezione in definitiva neutrale del fatto istituzionale, direi addirittura della concezione classica del'l'adiaforia delle istituzioni. Una concezione che, del resto, pur nell'ideologia del rifiuto, rispunta dietro la stessa idea dell'irrilevanza dei problemi istituzionali (e che forse ha trovatc freno solo nella tematica consiliare che è stata ripresa di quando in quando: si ricordino gli accenni di interesse che si sono avuti nell'< autunno caldo » e nel periodo immediatamente susseguente). Ma, tornando all'anti-'istituzionalismo della sinistra « contestatrice », il punto centrale che emerge nella ricerca delle sue ragioni è la mancanza di qualsiasi teorica del'le classi medie e di qualsiasi conseguente linea di azione politica. Qui l'analogia con le posizioni della sinistra tradizionale è sconcertante: la pretesa egemonica di una classe operaia identificata o comunque interpretata e rappresentata esclusivamente dal partito ha permesso sempre a quest'ultimo di utilizzare spinte rivendicative e corporative espresse dalle classi medie. Ma, alla fine, tale stru-


22 mentalizzazione si è trovata, più o meno consapevolmente, imbrig]iata dalle contraddizioni di tali classi cadendo frequentemente nella trappola dell'empirismo interdassista. Le forze della contestazione, per lo più figlie - e non figlie bastarde - delle classi medie, sembra che nel loro anti-istituzionalismo rifiutino un discorso di identificazione e di critica su sè stesse. Perchè - ed il punto, come s'è detto, è 'nodale - il discorso sulle istituzioni è tutt'uno, per più di un aspetto, col discorso sulle classi medie: infatti, sono quest'ultime, nella gamma più o meno ampia degli interni livelli o differenziazioni, ad occupare, come proprio terreno vitale, il terreno delle istituzioni politico-amministrative. Che le nuove sinistre si affannino intorno ai processi di « proletarizzazione » che si starebbero svolgendo oggi all'interno delle classi medie, non solo non riesce a niascondere siffatta mancanza analitica e teorica sulla fenomenologia delle classi medie (e delle loro funzioni e contraddizioni), ma costituisce un modo per sfuggire ancora una volta al compito di quest'analisi e di questa teoria. È nella prospettiva di siffatta problematica che una eventuale impresa editoriale su temi di politica istituzionale deve collocarsi: anche perchè in questo modo soltanto si può sfuggire ad una logica di settore dia « addetti ai lavori» che, alla fine, conduce ad inevitabili impasses. È dall'indagine su una problematica particolare, ma di valore centrale che, correttamente, va riconquistata una dimensione di discorso politico generale.

Il pubblico. In relazione a quanto s'è detto fin qui, il pubblico cui una pubblicazione come quella proposta dovrebbe rivolgersi, può così essere identificato: - il pubblico, ristretto, di alcuni operatori del sistema politico (membri di al-

cuine commissioni parlamentari, funzionari di alcuni uffici studi parlamentari, di partito, ministeriali, regionali, ecc.); - il pubblico, più ampio, degli operatori del sistema amministrativo e dei ruoli cognitivi del diritto (funzionari di vario tipo di amministrazioni centrali, regionali, comunali, alcuni liberi professionisti ecc.); - il pubblico, ancor più ampio, degli studenti di giurisprudenza, scienze politiche, economia e commercio, ecc.; - il pubblico, infine, più difficile a definirsi dei militanti di sinistra. Livelli di pubblico, dunque, molto differenziati e che sembrano porre problemi di discorso molto diversi che vanno esaminati. Per il primo tipo di pubblico, che certo non rappresenta il settore più importante, la rivista svolgerà una funzione di opposizione e di critica: siffatto interlocutore non deve tuttavia essere tolto dall'orizzonte dell'iniziativa, soprattutto per il carattere di concreta individuazione di responsabilità che l'analisi - soprattutto quando si tratti dei processi colti nel loro svolgimento - dev'essere in grado di avere. Per il pubblico degli operatori professionali del sistema amministrativo, la prospettiva di lavoro è quella della loro politicizzazionej della sollecitazione di una coscienza pdlitica all'interno di questo «mondo istituzionale ». È un discorso difficile non solo per i bassi livelli di tale coscienz da cui spesso si dovrà partire, ma per la necessaria contemporanea predisposizione di strumenti di documentazione e informazione che a tali operatori bisognerà offrire. Al proposito, vale ricordare la scarsezza di pubblicazioni che offrano siffatti servizi agli operatori del sistema amministrativo. Le pubblicazioni più collaudate continuano ad essere quelle giurisprudenziali che, evidentemente, non rispondono ad esigenze di conoscenza di una amministrazione non meramente giuridica nè più totalmente prigioniera della


23 « ideologia giuridica », come da tempo comincia - in qualche modo - ad essere. Quest'ambito di pubblico ripropone, peraltro, il discorso sui tecnici dei ruoli cognitivi, a proposito del quale si dice che il tentativo di un'attivazione politica degli stessi sia fallito. Non è questo il luogo per discutere il tema: certo è che, nell'anbito professionale di nostro interesse, non può parlarsi di fallimento nella misura in cui un discorso serio e organico non è mai cominciato. Si tratta, perciò, di cominciarlo. Per quanto riguarda gli studenti, qualsiasi docente che abbia con qualche serietà tentato di orientare fuori della manuaiistica e della trattatistica tradizionale l'apprendimento delle discipline giuridiche o anche delle più « moderne » discipline politologiche sa la mancanza di strumenti di conoscenza sud funzionamento concreto dei meccanismi istituzionali. Ma, a parte ciò, gli studenti che, pur nel riflusso in atto verso la restaurazione di una sia pur estenuata accademia, resistono a mantenere in vita alcuni processi dii p'oliticizzazione da che possono trarre alimento per quella critica dello stato che in alcune sedi universitarie occorre riattivare nella pienezza della contro-informazione e della contro-scuola? Per. quanto riguarda il pubblico, più generale, della sinistra valgono le considerazioni che si sono svolte nel precedente paragrafo. Certo è che ricercare un'udienza presso questo pubblico significa aver scelto per l'iniziativa un ben preciso carattere di presenza militante.

La fòrmula editoriale. È nella definizione della formula che si deve tentare una risposta ai vari e diversi problemi posti dai diversi livelli del pubblico individuato. Innanzitutto, è bene fissare come principale carattere unificatore del discorso quello della descrizione critica delle « res gestae» del sistema politico e iamministrativo, della

analisi dei meccanismi e dei rapporti sociali delle decisioni e comunque dei modi d'essere del sistema e così via, sehza il proposito - inizialmente del tutto intempestivo e immaturo - di proporre linee politiche d'azione e « progettazione » istituzionale. Ciò significa affermare due cose. Una: che la critica politica come tallonamento organico e riflessione sulla prassi delle forze politiche in campo è intervento necessario, troppo a lungo trascurato. Due: che un'indicazione di linea politica va ricercata attraverso un attento lavoro induttivo coinvolgente un sempre più ampio numero di esperienze reali. L'iniziativa che si propone potrebbe articolarsi intorno ad un sernestrale e ad una

serie di paperbacks. L'indicazione del semestrale deriva: - da ragioni d'impostazione generale, in quanto articolandosi intorno ad alcune rubriche che si alternino fra loro è possibile realizzare, per periodi di tempo sufficientemente ampi, quei panorami informativii-critici che della rivista dovrebbero essere la struttura di base; - da ragioni di costo, in quanto, pur trattandosi di lavoro impegnativo che non sarà certo facile commissionare o comunque redigere redazionalmente, due fascicoli l'anno potrebbero consentire un prezzo d1i abbonamento relativamente basso, qual è necessario soprattutto per avere udienza presso il pubblico degli studenti. Una collana di paperbacks appare come indispensabile complemento della rivista: per affrontare temi che nella rivista non potrebbero essere tempestivamente trattati o che comunque è necessario trattare separatamente. Ogni volume inoltre potrebbe èssere indirizzato ad un particolare settore dcl pubblico ed avere così un proprio mercato, consentendo dunque una maggiore articolazione del discorso complessivo. Gennaio 1972

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promemoria n. 2: quàli possibili interlocutori 1

Sul « progetto », inviato a quaranta persone, hanno fatto osservazioni: Alberto Benzoni, Massimo Bonanni, Francesco Ciafaloni, Fabrizio Cicchitto, Marco Cimini, Adriano Decich, Wladimiro Dorigo, Paolo Dusi, Dolcinò Favi, Fabio Fiorentino, Marina Gigante, Francesco Merloni, Fiorella e Tommaso Padoa-Schioppa, Gigi Pagnano, Claudio Pavone, Alberto Predieri, Aldo Quinti, Pietro Ricci, Franco Rositi, Maria Teresa Salvemini, Umberto Serafini, Francesco Sidoti, Giordano Sivini, Attilio Tempestini, Emanuele Tortoreto, Tiziano Treu, Paolo Urbani, Guido Verucci, Goffredo Zappa ed altri. Non tutti; naturalmente, si sono espressi in senso favorevole all'iniziativa. Le osservazioni che qui si riassumono, vanno intese nel quadro di quel metodo di lavoro che già s'è precedentemente indicato come il metodo da assumere per l'iniziativa editoriale che si propone: dall'ambito ditale iniziativa va respinto - si è detto - il proposito di « costituire un gruppo ». Un gruppo cioè che attraverso lo strumento editoriale persegua l'intenzione di progettare una qualche forma di concreta presenza politica. Nel prendere iniziative pubblicistiche è ricorrente l'illusione di poter supplire alla mancanza di concrete possibilità di iniziativa politica con il succedaneo della « rivista ». Forse le esperienze che alcuni di noi hanno fatto possono vaccinare contro abbagli del genere, ma vale ben ricordare che buona parte della pubblicistica militante della sinistra, s9prattutto della sinistra extra-parlamentare, 'vi è ricaduta puntualmente. Escluso dunque che quanti intendono

partecipare all'iniziativa debbano sentirsi coinvolti in una ricerca di linea politica intorno alla quale trovare il consenso di tutti e attraverso la quale auto-identificarsi verso l'esterno, rimane che una iniziativa culturale per mezzo della quale 'si voglia tallonare la prassi politioa non possa non ricercare giudizi di valore. Ma questo ovviamente è un altro problema. Giò premesso, le varie osservazioni possono essere raggruppate in riferimento a due temi principali. Uno è quello, appunto, della tendenza culturale-politica e dei connessi criteri di valore, l'altro quello del pubblico. Sul primo tema, a parte osservazioni particolari che non vale riportare qui, le osservazioni concernono soprattutto il metodo, prospettato nel documento, per l'identificazione dei criteri di giudizio. Nel documento si propone in sostanza un approccio sempre di tipo induttivo, molto cauto quanto a 'ipotesi e tesi di carattere generale. A quésto riguardo qualcuno osserva che c'è il 'rischio di contentarsi di indicazioni meramente metodologiche che possano allontanare dalla presa di posizione. Il punto è che questa problematicità del discorso conviene sia programmatica almeno per un certo tratto iniziale. Addirittura mi sembra che non se ne possa fare a meno, proprio perchè occorre liberare il terreno da certi vizi mentali cli riduttivismo semplificatore che in questo periodo sono stati ingigantiti da una serie di cose (revival o ultimo colpo della coda delle ideologie totalizzanti?). Del resto, proprio riguardo a quell'ambito


25 culturale nel quale si vuole agire, cioè la cuitura che concerne le istituzioni, bisogna insistere sui fatto che un certo rifiuto ideologico è vaiso anche e soprattutto come rifiuto alla conoscenza: ora nel vuoto della conoscenza (certo non assoluto, ma di ben ampia rilevanza) appare prematuro,, in definitiva, dare indicazione precisa di alternative. Direi però che proprio perchè la rivista non vuole essere rivista di addetti ai lavori, come è stato altre volte chiarito, non solo un discorso in positivo non dev'essere escluso, ma questo anzi è da porre come un obiettivo esso stesso dell'iniziativa: il discorso sulle « altre » istituzioni. Sicchè nei confronti dei documento iniziale può anche essere maggiormente sottolineata oggi una intenzione, sia pure solo un'intenzione, di discorso in positivo. E ciò perchè mi sembra che uno dei punti di maggiore fragilità della cultura di sinistra, e ciamorosamente della cultura della contestazione, sia proprio quello dell'indifferenza o del rifiuto di un discorso alternativo in positivo sulle istituzioni colte nella loro storica realtà. Ben vero che 'le basi metodologiche di questo discorso,, e al limite - andando ancora più in 'là - gli stessi fondamenti epistemologici sono da costruire e verificare (di sicuro, per il discorso 'sulle « altre istituzioni » non basta compilare progetti di legge). Ma ci si è allontanati sempre 'più da questo compito non raccogliendo, per esempio, altro che superficialmente certe ultime indicazioni della stessa « teoria critica della società » che con Habermas hanno riproposto proprio nei confronti della società tecnologica la necessità, ai fini stessi della critica della società, di un discorso in positivo sulle istituzioni. In complesso, si accredita 'l'impressione che la cultura delle cosiddette «nuove sinistre », come del resto quella a cui essa si oppone, è tutto sommato una cultura retroversa. Attraverso un rapporto di odio-amore con la vecchia sinistra si direbbe che di questa ha

succhiato i vizi: perchè, certo, la sinistra storica non ha mai avuto una politica istituzionale, tutt'al più ha avuto il gusto e l'aspirazione all'occupazione delle istituzioni. In questo senso le nuove posizioni sono molto più legate alle vecchie di quanto sembri. gi però le cose potrebbero apparire un po' più chiare a tutti e penso che in effetti tali appaiano ad alcuni protagonisti politici (penso ai cenni fatti su1 problema dello Stato da Ingrao e alle ipotesi interpretative della « strategia delle mance »). Il momento può dunque essere favorevole, ma a condizione che il problema delle istituzioni riacquisti tutta 'la sua dimensione politica: ed è questo il motivo per cui, pur essendoci altre iniziative editoriali che stanno rilanciando un discorso di tipo istituzionale,, ma chiuse 'sostanzialmente nella logica degli addetti ai lavori, da questa occorre invece totalmente uscire fin dall'inizio per un discorso tout court politico. Si spiega in tale prospettiva la necessità sia di cogliere costantemente il rapporto fra soggetti sociai e istituzioni sia di collocare l'indagine sulle istituzioni nel contesto della prassi delle forze politiche (una rivista - dunque di cronaca e critica delle istituzioni ma anche, necessariamente, di cronaca politica e critica delle forze politiche). E qui occorre brevemente aggiungere che va certo aggiornato il discorso sulle pubblicazioni giuridico-istituzionali. Per esempio, è oggi da registrare la nuova configurazione della « Rivista Tnmestrale di Diritto Pubblico » che s'è arricchita di una documentazione assai ampia che salta ben al di là del confine posto dai dati normativi o organizzativi del diritto per inseguire una ricognizione diretta del sistema politico. Così come si deve notare un coinvolgimento di « Politica del diritto» in prese di posizioni politiche che sempre più si allargano a valutazioni generali, fortemente critiche: necessità, certo, del momento politico ma anche della diversa logica in cui ci

og-


26 si è posti. Rimane irrisolto (o forse meglio già risolto a priori in un dato senso) il problema della udienza del discorso proposto; potrà questa superare l'orizzonte degli addetti ai lavori e servire a qualcosa di più che non sia lo svecchiamento della scienza giuridica (attraverso il quale poi influire attraverso dei rinnovati e più moderni « consulenti » sul potere politico)? Detto questo su problemi di linea molto in generale, il tema da affrontare è quello degli interlocutori e del pubblico. Qui, alcune delle obiezioni che sono state fatte sono radicali. I livelli di pubblico identificati nel progetto erano: il pubblico diciamo professionale o professional-politico: da una parte gli operatori direttamente legati al sistema politico, dall'altra gli operatori del sistema amministrativo ivi compresi i liberi professionisti; il pubblico degli studenti (con riferimento soprattutto a giurisprudenza, scienze politiche, economica e commercio); 3) il pubblico, in realtà assai indefinito e difficile a precisarsi, dei militanti di sinistra. Ora, le osservazioni che sono state fatte possono così riassumersi: 1) la pretesa di andare a cercarsi un pubblico deve fare i conti inizialmente con un abbastanza evidente e comunque crescente fenomeno di rifiuto della lettura. Si considerino le dimensioni della produzione libraria, la proliferazione delle riviste, la settorializzazione crescente degli interessi del pubblico (in fondo anche per i militanti della sinistra c'è un settore specializzato caratterizzato da segni e messaggi che lo rendono riconoscibile ai nuovi conformismi) ed infine anche l'ampiezza della produzione di tipo tecnico. A quest'ultimo riguardo il pubblico delle professioni è abituato ad un uso meramente strumentale della lettura concernente problemi del proprio mestiere. Perciò, se uscirà una nuova rivista il pubblico professio-

nale o professional-politico, la comprerà, per dovere d'ufficio ma non accetterà un rapporto con essa diverso da quello usuale. Allora è da chiedersi se un'impresa che sia costretta a questo esito abbia senso, a prescindere da considerazioni meramente commerciali. Che se poi, per avventura, in un quadro di disattenzione alla lettura, un'iniziativa pubblicistica riuscisse a trovare spazio, i discorsi trasmessi non correrebbero lungo uno scivolo di cose colte solo superficialmente? 2) Una seconda e ugualmente radicale obiezione è quella che riguarda gli studenti. Si dice: chi sono gli studenti oggi dopo il precipitare della crisi dell'università e dopo la fine del movimento studentesco? Sono una massa in cui è dato avvertire interessi politici? E come? Ed in qual misura? O, invece, siamo di fronte ad un massiccio riflusso verso l'apolitismo, con incapacità quindi di attenzione a un messaggio politico che sia insieme molto puntuale sulle cose che si studiano? E in ogni caso, come andarseli a cercare gli studenti una volta che certi referenti organizzativi non esistono più? Bisogna ripassare attraverso i docenti, ma quali docenti, come identificarli? Molti negano che oggi ci sia fra gli studenti un fenomeno di puro e semplice apolitismo. In complesso, gli studenti sarebbero molto più « a sinistra » di qualche anno fa e più coscienti di certi problemi politici generali. Siccome però la prospettiva di un lavoro interno all'università è andata perduta e nessuno più crede al discorso del controcorso o del gruppo di studio alternativo, mancano certamente i referenti concreti del l'impegno e dell'interesse politico. In tre anni, dal '68 al '71, sono crollati non tanto gli interessi politici generali ma certo gli interessi ad uno studio alternativo di certi fenomeni. Se una certa fase della « contestazione» studentesca aveva creato dei quadri che fungevano da suoi particolari e nuovi


27 mediatori, questi oggi non ci sono più. Il problema è allora addirittura quello di ricreare degli strumenti di mediazione. In concreto, su due punti occorre approfondire l'esame: a) in che misura c'è ancora un pubblico studentesco disponibile?; b) una iniziativa editoriale può favorire una ripresa di interessi o addirittura la ricostituzione di referenti organizzativi (i gruppi di studio, i controcorsi ecc.)? Potrebbe essere utile a questo riguardo - secondo la proposta di alcuni - una indagine-censimento da realizzare attraverso un questionario ai docenti, soprattutto assistenti, conosciuti come orientati in un certo modo, per verificare il tipo di udienza che, secon4o loro, avrebbe oggi nella università italiana una iniziativa come quella progettata. Obiezioni critiche di questo tipo si ripetono e diventano, per certi aspetti, ancora più radicali nei confronti del quarto livello di pubblico che nel' documento di gennaio veniva indicato come quello dei militanti di sinistra. Si dice: nel « militantismo » di sinistra estraneo ai partiti della sinistra storica (a parte la questione di cosa rimanga di que sto miitantismo dilacerato), un pubblico interessato a tematiche istituzionali non c'è, anzi c'è spesso un veto drastico e definitivo. Gli interessi per queste cose sono, al più, del tutto distorti, del tutto secondari, quindi non tali da sostenere un rapporto dialogico. Si può rispondere che non bisogna confondere un'area sub-culturale come quella della contestazione (o della ex-contestazione) con la area emarginata e residuale dei « gruppi ». Il problema è: il tipo di socializzazione politica vissuta da molti dopo il '68 di per sè costituisce barriera insuperabile per una proposta di lavoro critico sulle istituzioni? ,Qualcuno ritiene che la risposta non debba essere del tutto negativa in quanto nella crisi di quest'area politica proprio il discorso

anti-istituzionale più riduttivo e sofistico vienemesso in causa direttamente e per primo. La sopravalutazione di alcune prospettive e di alcuni strumenti di lotta non può non indurre a ripensamenti profondi, destinati a interessare soprattutto le fasce, diciamo così, di opinione non coinvolte nelle logiche di gruppo e nella psicologia delle mini-organizzazioni. C'è tuttavia da. chiarire che i militanti della sinistra che il documento di gennaio indicava come possibile pubblico non erano soltanto quelli dell'area estranea ai partiti della sinistra storica, anzi non erano neppure la parte prevalente o privilegiata. Chi ha inteso questo, assimilando implicitamente al puibblico professional-politico integrato al sistema politico, tutti gli interlocutori possibili collegati ai partiti della sinistra, ha dato inconsapevolmente un giudizio di valore aprioristicamente negativo. Al contrario, l'ipotesi di lavoro era abbastanza ottimista sulla possibilità di interlocutori « militanti » legati, per esempio, al partito comunista. A parte le impressioni di carattere generale che possono farsi a caldo dopo le elezioni del 7 maggio sui compiti nuovi che bene o male verranno a pesare sul PCI, vale ricordare che anche quanti hanno fatto discorsi estremamente critici e scettici sul partito comunista, come li ha fatti Giorgio Galli, identificando il senso di tutta la politica comunista come concluso nella dialettica interna fra livello dirigenti e livello quadri medi (che sarebbero l'ossatura, il nerbo, la sostanza, tutto insomma, del partito comunista: gli 80 mila oggi stimati come quadri medi) hanno riconosciuto che a livello quadri medi c'è sempre stata una grande mobilità e che questa s'è accen tuata negli ultimi anni: l'interscambio con l'esterno è assai notevole.

In quale misura è possibile identificare concretam ente un interlocutore disponibile nella fascia dei quadri intermedi dei partiti della sinistra e dei sindacati? È que-


I-

28 sto un altro tema, anzi forse il tema cen- - sformazione sociale e soprattutto di un suo trale, da verificare sia sul piano ricogni- comporsi ai livelli più bassi e facili. Sfiducia in particolare ne deriva per il Parlamento tivo generale sia su quello operativo. non solo quanto ad efficacia della sua azione - essendo in definitiva esso stesso emarUn'altra questione che è stata Sollevata ginato dai meccanismi reali della composiin critica al primo documento e che, sepzione istituzionale - ma proprio perchè da pur ha collegamenti con il problema del pubtale scarsa efficacia sarebbero potenziati gli blico, va citata tuttavia autonomamente conaspetti peggiori della composizione. cerne le possibilità di politicizzare i ruoli Quindi, poca fiducia nel conffitto esterno professionali. Come si sa il tentativo di e necessità di puntare al conflitto insiff atta politicizzazione ha avuto qualche realizzazione appena iniziale negli anni della temo. Questa tesi che si collega al discoro appena prima accennato sulla politicizzazione contestazione e su questo tema si è spesso dei ruoli professionali cognitivi (tesi che in proposta una linea di azione che puntava a realtà, riconducendo al problema della « tensuscitare soprattutto una politicizzazione di denza » della rivista, potrebbe anche non estipo conflittuale. Di ciò va detto che, al di sere discussa in ragione di quell'atteggialà. di modeste realizzazioni che sono per lo mento problematico che s'è indicato all'inipiù interne al mondo degli operatori della zio) è sostenuta da chi ha in mente sopratscuola, non si è riusciti a costruire di fatto tutto un referente preciso: le istituzioni alcuna linea politica effettiva, nessun tipo di culturali (industria culturale, televisione, aggregazione sicchè da tempo la stessa proscuola ecc.). A questo proposito mi pare debposta è venuta meno. Bene inteso, si trattaba subito essere evidenziato un punto: va di una proposta tutta ancora da elaborare che il dato fondamentale su cui posa l'iper sia sul piano culturale sia sul piano dell'initesi della decisività del conffitto interno è ziativa concreta; Tuttavia c'è da ritenere che tratto dalla convinzione delle capacità diromse anche l'elaborazione e la sperimentazione penti attribuite alla divaricazione in atto fra concreta ci fossero state, non per questo le istanze culturali degli operatori interni delci troveremmo con esperienze di notevole inle istituzioni e i limiti posti dal meccanismo cidenza sul piano politico generale. Da qui di potere in cui le istituzioni operano. In ciò bisogna partire per valutare l'obiezione rivolsi coglie l'implicito privilegiamento del fatto ta al progetto che muove dalla preoccupazio« cultura »: la proposta si fonda, in realtà, ne che vi manchi una chiara intenzione a su una appassionata scommessa che il mondo stimolare un conflitto all'interno delle istidei valori sia di per sè capace innanzitutto tuzioni: chiamando a protagonisti gli opedi riconoscersi omogeneamente come tale e ratori riiedesimi che in esse agiscono. Tadi trasformarsi in forza dirompente e produtle preoccupazione nasce ovviamente da una tiva di conflitto. I dubbi sul realismo di quesfiducia nel conflitto esterno, cioè in quel sto privilegiamento della cultura (la quale conffitto che avrebbe a protagonisti le, forze opera sì talora come forza cogente ma attrapolitiche e sociali utenti o possibili utenti verso mediazioni che poi sono di tipo predelle istituzioni e che troverebbe nel meccavalentemente psicologico) non possono che nismo istituzionale generale e in particolare essere molti e profondi: alle poteniialità di nel Parlamento la sede della composizione. tali istanze culturali si contrappone finora Quanto al conflitto esterno - si dice un'esperienza di conffitti nelle istituzioni che avremo ormai raggiunto la prova di una hanno avuto l'esito che hanno avuto, cioè un sua scarsa incidenza sul processo di tra-


esito strettamente o prevalentemente corporativo. Del resto, vale ricordare come c'è sempre stata nella società occidentale una dialettica intelletuali-classe politica, talora addirittura trasfigurata in dialettica metafisica fra Cultura e Potere, e come questa ha avuto per refrain la richiesta di un riconoscimento di status. In epoca più recente, con lo sviluppo dell'industria culturale e dell'intervento pubblico, questa richiesta è stata sempre più intesa e tradotta in parametri monetizzabili. Nè sarebbe convincente porre la ipotesi del conflitto interno nei termini tratti da altri settori degli apparati pubblici, nei termini, per esempio, di assenti processi di proletanizzazione degli addetti a certi settori impiegatizi. Molto spesso, si sono applicate categorie improprie ai processi in atto in questi settori; per esempio, si è parlato di proletanizzazione in riferimento a crescenti caratteristiche di anonimità del lavoro burocratico, a una dequalificazione dei ruoli, alla diversificazione crescente fra le varie categorie. Ora, non è questa la sede per dimostrare' come tali fenomeni andrebbero innanzitutto conosciuti e qualificati con categorie che evitino assimilazioni allusive come quelle della proletarizzazione. Basta comunque ricordare come l'esperienza di questi anni veda un aumento di conffittualità interne al settore pubblico soprattutto come conffittualità fra categorie e dunque assolutamente corporativa. Di nuovo c'è il metodo del conflitto e lo strumentanio della conflittualità: questo si è allargato per le possibilità offerte dall'imitazione sociale. In -questo senso le lotte studentesche ed operaie hanno spesso dato suggerimenti all'inventiva conflittuale allargando il ventaglio delle armi che ciascuna categoria ha in mano per imporre agli altri la propria volontà e talora il proprio ricatto. C'è infine da aggiungere che le possibilità di un conflitto esterno gestito dalle forze politiche nei confronti di certe istituzioni, anche istituzioni minori ma decisive in certi

meccanismi, non sono state affatto esperite in questi anni: anzi, mi pare siano state addirittura dimenticate proprio per quel tipo di dimenticanze generali sulle istituzioni che accomuna le culture della sinistra. Il discorso quindi è abbastanza aperto. Il tema riporta alla necessità di alcune particolari esigenze d'analisi da tenere come costanti di un discorso sulle istituzioni. Il limite corporativo che spesso s'è detto connaturale all'organizzazione democratica di massa fondata sul suffragio universale significa, fra l'altro, competizione all'interno delle classi medie nel corso di un processo in cui l'ampiezza di queste classi tuttavia si allarga.' Il tema del volto sconosciuto delle dassi medie e delle tensioni che le agitano mentre continua ad estendersi la loro presenza (come è dettato dalla logica del capitalismo contemporaneo), è un tema d'analisi che deve essere proposto per quelle ricerche di più ampio respiro che potranno essere stimolate o suggerite dalla rivista. Ciò vale anche per quanto riguarda il metodo disciplinare di lavoro: al di là delle ripetute affermazioni, che sono poi spesso affermazioni di stile, sulla necessità dell'approccio inter o multidisciplinare le esperienze di analisi critiche nuove confronto a quelle consolidate di carattere più accademico non sono ancora molte nel campo istituzionale sicchè la percezione dei problemi è debitrice tuttora delle logiche di apprendimento delle discipline giuridiche tradizionali. Ne costituiscono un esempio le difficoltà che gli attuali tentativi di rinnovamento degli studi giuridici incontrano a cogliere analiticamente (e non certo per semplificazioni ideologiche sempre facilmente possibili) il rapporto fra modi di essere delle istituzioni, la stratfficazione- delle classi e il conflitto sociale.

Maggio 1972


tre òpinioni Fra quanti hanno risposto alla proposta di iniziativa culturale illustrata nei due documenti pubblicati' nelle pagine precedenti alcuni hanno espresso il proprio parere in alcune lettere non destinate alla pubblicazione. Da queste. ripartiamo «tre opinioni ».

Ipotesi da precisare. MUOVENDO DALLA DEFINIZIONE stessa di istituzioni c'è chi sottolinea innanzitutto 1a necessità di eliminare i possibili dùbbi sull'intenzione di limitare il fatto istituzionale all'ambito dell'apparato statale. « Sembra ormai chiaro, infatti, in quale misura questa limitazione sia negata da opposte parti: a) dai fautori del pluralismo giuridico; b) dai contestatòri antistituzionali, i quali hanno (da questo punto di vista, a ragione) iisto « istituzione » dovunque c'erano comportamenti normalizzati dotati di una forza cogente loro data dai detentori di potere nel gruppo. Con questo non intendo accogliere senz'altro la definizione sociologica, ma mi sembra che nella' società civile, oltre lo stato, vi siano altre istituzioni più o meno in subordinazione gerarchica verso lo stato, ma dotate di una loro forza interna non tutta prestata (se non forse in ultima ratio) dall'apparato statale. Cosa del resto

ben nota. Insomma si deve legare il concetto di istituzione a quello di organizzai zione e di potere. Legame istituzioni-classi medie: d'accordo. Ma forse nei tuoi appunti ha una po-

sizione privilegiata, quasi' di esclusiva, che mi lascia un pò perplesso. Eva l'altro, tenderebbe ad avviare ad una considerazione prevalentemente sociologica delle istituzioni, e nemmeno nel 'senso cui abbiamo accennato prima, ma in quello di una analisi del personale preposto al funzionamento delle is't'ituzioni. Il che ovviamente è indispensabile; ma accompagnato anche da altre cose. Discorso in positivo sulle istituzioni. È il punto più arduo. E la difficoltà può favorire atteggiamenti come quelli criticati nel tuo primo appunto. Se non si vuole cadere nella utopia, come esercitare la fantasia istituzionale? È indubbio che forse perchè siamo imbevuti di diritto, si pensa sempre a un fatto normativo; e poichè questo assume concretezza nell'ambito di un più generale contesto dii norme, ecco il riformismo in agguato e la diffidenza dei rivoluzionari (o presunti t'ali). Il marxismo se l'è cavata molto con la teoria dello stato morente, esimendosi così dal discorso in positivo (e ci, ha pensato allora Stalin). Bisognerebbe forse cercare di pensare a cosa può assumere forma istituzionale in una società libera, non, repressiva senza profitto capitalistico, eccetera; ia prima vista l'area istituzionale dovrebbe notevolmente ridursi. E intanto? è possibile marciare attraverso le istituzioni? quelle che ci sono occupandole (come giustamente dici he hanno cercato di fare i comunisti italiani)? riformandole? creandone di nuove di transizione? Come vedi, sono poco più che parole in libertà. Caduta nel corporativismo quando mancano conflitti esterni: è l'esperienza di molta /


31 attività nata soto la spinta di una democratizzazione diretta e capillare, tesa a vedersi e curarsi innanzi tutti i fatti propri e più vicini. Forse è anche qualcosa che fa pensare alla autogestione jugoslava. Ma il probiema esiste e rimane ».

Si può « essere all'altezza » della situa• zione? UN'ALTRA LETTERA contiene alcune obiezioni sostanziali che riguardano tutte un uniCO punto - nodale - dell'iniziativa: il suo significato e il suo « direzionamento » p0litico. «Possiamo esaminare la questione da due punti di vista. Il primo, più sbrigativo, può essere espresso ponendosi sia la domanda di quale obiettivo politico ultimo s'intenda dare all'iniziativa proposta sia il problema del pubblico. In una maniera o nell'altra, mi sembra che comunque dovremmo convenire sul fatto che tale iniziativa, proprio perchè presuppone un « viaggio attraverso la modifica delle istituzioni » e una critica puntuale delle scelte politiche, implica una prospettiva riformistica. Il che a sua volta implica due cose: la possibilità di concepire in questa situazione - una strategia riformista e l'esistenza di forze politiche (anche solo potenzialrnénte) disponibili all'ascolto. Ma - se vogliamo dare un senso a quanto è venuto accadendo da dieci-quindici anni a questa parte o se non vogliamo misconoscere la impasse nel quale 'la nostra società (ma non solo essa) si trova per ragioni (a parer mio) strutturali - 'queste due condizioni non esistono. Quanto alla prima, muovo, come è ovvio, da riflessioni soggettive: ma graverebbe su di te l'onere della prova del contrario. Quanto alla seconda, credo che pos'siamo dare per scontato che le forze tendenzialmente e latamente « riformiste » (per intenderci, dal PRI al PCI) sono le più re-

sponsabili del fallimento di ogni prospettiva riformista e - quel che è peggio - non •sono minimamente intenzionate a mutar rotta,; forti della loro semi-cultura, del loro acritico demagogismo, e di quella pervicacia predicatoria (di destra o di sinistra) che consentono loro di mettere insieme esasperati moralismi e spudorate connivenze col regime (l'esernplificazione è troppo facile: rapporti esecutivo-parlamento, programmazione, Partecipazioni Statali, politica meridionalista ...). Pensare diversamente, equivarrebbe a ritenere puramente casuale quanto è fin qui 'accaduto e a credere - in particolare - che si diano spazi « agibili » quando, e non a caso, i giochi sono già fatti. Ben più radicale quello che ci si prospetta dai secondo punto di vista: ed è la rifondazione e (prima ancora) 'la possibilità di rifondazione di una teoria e di una prassi politica adeguata ai problemi ai grovigli, alle inerzie e (insieme) all'accelerazione storica che stiamo vivendo. Insomma, si può « essere all'altezza» della situazione? Capisco quanto 'siano confuse le cose come te le ho esposte. Forse, esemplificando, si può giungere al nocciolo intuitivamente. Poniamo, ad es., due problemi, intimamente connessi ma assolutamente distinguibili, l'uno teorico 'l'altro di comportamento di forze sociali. Cos'è « sfruttamento »? Equivale al rapporto tra pluslavoro e capitale variabile? e che senso ha, allora, parlare di sfruttamento, quando dal tempo di lavoro x con prodotto y e salario Z siamo passati o possiamo passare al lavoro x/2, al prodotto 3/y e al salario 2 Z? Politicamente cosa significherebbe? E il problema pratico: chiaramente hanno ragione le sinistre sindacali (metalmeccanici); ma alla prossima scadenza contrattuale devono puntare sulle « loro carte » o mediarle in qualche modo con le esigenze di una più rapida accumulazione di capitale e (bisognerebbe vedere poi a che condizioni, e se queste sono realistiche) della creazione

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32 di nuovi posti di lavoro? Piaccia o no, non esiste dato «istituzionale » che non riporti ad analoghi estremi problematici - che è poi la maniera in cui storicamente si pone la questione, non più di « riforme o rivoluzione », bensì di « quale possibilità di futuro aiternativo ». Quindi, a voler affrontare seriamente e radicalmente. i problemi dell'oggi, occorre porsi a questo livello cli consapevolezza storica e (conseguentemente) di •strumentazione anche redazionale: ma si va ben oltre al discorso che tu proponi. Riassumendo: tutto questo esi-gerebbe tempi e forze adeguati all'impresa; e non vedo chi potrebbe seguire, quali forze siano interessate a dar ascolto a questo tentativo ».

Perchè una nuova rivista? Di TIPO DIVERSO LE OBIEZIONI di un'altra lettera. « -A me la proposta sembra interessante nel senso che condivido la valutazione negatiiva dell'abbandono per vari motivi da parte di tutta la sinistra, vecchia e nuova, della critica alle istituzioni. Lasciando qui da parte gli assensi che. sono ovvi ti dirò solo i dissensi o i dubbi. 1) Perchè una nuova rivista? Proprio perchè opero per gran parte delle mie attività in riviste della sinistra mi sono convinto che mancano più le idee e i lavori (e il contesto pratico, organizzativo, retributivo anche, che consenta di lavorare; l'abitudine al confronto, alla discussione, alla critica, alla costruzione; la capacità di essere parte di un lavoro che non si controlla per intero

ecc.) che -non le riviste. Una nuova rivista ha senso se vuol dire un gruppo dii persone affiatate, abituate a lavorare insieme che rischia di disperdersi se deve sottostare ai criteri di un altro gruppo di lavoro e che invece -su una rivista propria ha mode di partire meglio. Non riscilve così il problema di fondo che è quello di trovare un contesto più vasto e uno sbocco pratico, ma è un buon modo di' partire. Se questo è il caso, fare i-i semestral-e mi sembra una buona idea. 2) Il sistema istituzionale italiano ha bisogno, oltre che di una critica, di una ricognizione. Mi sembra cioè che il funzionamento reale della -società italiana, le strutture della economia, del potere, della istruzione, della giustizia, non corrispondano in alcun modo alla struttura istituzionale apparente. L'Italia è uno stato corporativo ombra che funziona con le istituzioni di una repubblica parlamentare e riesce ad - essere a conti' fatti un paese non eccezionalmente repressivo con un codice più che fascista borbonico (o' -sabaudo che è più o meno le stesso). La non corrispondenza tra struttura formale e struttura reale dello stato che ritengo maggiore che altrove complica il problema che ti proponi di affrontare. Riconferma però la necessità di -affrontarlo. A conti fatti l'unico vero dissenso e dubbio è se -non sia possibile svolgere altrettanto bene lo stesso lavoro nelle sedi esistenti. Se no, bene e in bocca al lupo ».

Luglio 1972


int rvent .m QUESTI « INTERVENTI» sono contri- suo peso nel sistema polibuti per la verifica e l'articolazione delle tico. delle « ipotesi di lavoro ». I primi due, l'ar- rapporti con le altre istituticolo di Franco Rositi e la replica di Giozioni e atteggiamenti delle vanni Bechelloni, sono una prosecuzione delforze politiche sulla singola la discussione generale sul quadro complesistituzione. sivo della proposta contenuta nei documenti , fatti interni - gruppi di potere all'interno del 1972, pubblicati nelle pagine precedenti. dell'istituzione. Gli altri interventi sono invece sondaggi su - conflittualitì interna. temi istituzionali più specifici, scalette per -. peso delle gerarchie istituuna analisi da svolgere o comunque da prozionali. seguire o prime tesi sul rilievo e il signifi- modifiche organizzative. cato di alcune presenze «istituzionali » nell'attuale momento della società italiana ed opinioni della pubblicistica. europea. In sostanza le rubriche dovrebbero Possono essere, a titolo esemplificativo, l'introduzione di alcune rubriche di un even- tendere ad individuare ciò che caratteriztuale periodico che dopo questo «sondag- za le istituzioni e ciò che può portare a modificarle; nonchè i motivi di critica e gio » si decidesse di pubblicare, Nelle discussioni che ci sono state fra di contestazione sia delle stesse istituzioni quanti hanno collaborato alla redazione di sia degli atteggiamenti che le forze politiquesto «numero unico» furono precisati al- che hanno rispetto ad esse. Per alcune rubriche in particolare si pocuni criteri metodologici per l'esame dei ditrebbe pensare di aprire le testate, in un versi soggetti istituzionali. Vale qui riferirli,

trascrivendoli da un documento redazionale. eventuale numero 1 o numero unico di presentazione, con ,le ipotesi di lavoro intorno alle quali i redattori responsabili delle ru« L'ATTENZIONE DI CIASCUNA RUBRICA briche stesse intendono lavorare almeno per si dovrebbe incentrare su tre aspetti delle un certo periodo. Queste ipotesi potrebbero. istituzioni: scaturire da una analisi di carattere generale che faccia il punto sullo stato della questiofatti esterni: - prese di posizione dell'istine cioè sui rapporti tra la singola istituzione tuzione. e il sistema sociale ».

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profilo dell' intellettuale riformista Dono AVER LETTO IL DOCUMENTO del maggio 1972 che risponde ai primi commenti pervenuti al progetto di iniziativa editoriale mi sembra di capir bene quali siano le intenzioni e preoccupazioni principali dei promotori. È forse possibile indicare questo nucleo: la nuova cultura politica post-1968 (la solita data indicativa per approssimazione) ha lasciato completamente sguarnita l'analisi radicalmente critica delle istituzioni; ma queste continuano a funzionare, ad adattarsi, a modificarsi, a generare nuove forme di dominio, di privilegio, di controllo ecc., ed ora per di più - circondate da una protettiva, incuria della critica sociale radicale (uso questo aggettivo proprio per la sua ambiguità, in un momento di così difficili discriminazioni nell'amalgama della « cultura » di sinistra). Questo spunto di analisi può essere vero se si precisa - come credo si faccia chiaramente - che la diagnosi non riguarda cer -tamente l'assenza di discorsi politici sulle istituzioni, nè di mere denunce del loro funTionamento repressivo (abbondanti oggi, ed è una fortuna, come non mai), ma riguarda essenzialmente l'assenza di un discorso, sulle stesse, che sia: scientifico, vale a dire - in questo caso - fondato su di una chiara conoscenza dei meccanismi capillari di funzionamento, non meramente allusivo a caratteri repressivi 2ttribubili alla logica più generale del sistema capitalistico; e capace, d'altra parte, di utilizzare un linguaggio che sia ad un rigoroso livello cli generalizzazione concettuale (onde non disperdersi nella casistica delle istituzioni, nei linguaggi tecnico-burocratici che esse hanno già elaborato in una distanza assoluta dal pubblico ecc.); orientato a definire i modi, i momenti, le possibilità, le tecniche per una modi ficazione progressiva e liberante delle istitu-

zioni, al di fuori di una logica illusoriamente totalizzante, al di fuori di un attendismo della rivoluzione, al di fuori anche di meri discorsi di efficienza che siano del tutto refrattari al riferimento alle grandi forze sociali ed al loro agire concreto. Che ci sia questa assenza anche per me è vero, di fatto. Anche negli intellettuali riformisti più lucidi e più onesti che rimangono, e nei loro prodotti, vedo l'eclissarsi della carica ideale di cui al punto b) e dello stesso rigore conoscitivo di cui al punto a), vedo spesso il loro ricorrer ad un atteggiamento morale che è un misto fra furberia tecnocratica ed una sorta di grande scom messa personale (ad arrivare puntualme,nte, prima di tutti, al momento in cui diventano necessarie le riforme di determinate istituzioni; arrivare con proposte determinate, precise, inappuntabili per congruenza ai regolamenti e agli ordini più generali dello stato e della cosa pubblica, inappuntabili per praticità ed economicità, inappuntabili anche rispetto ad alcuni fondamentali valori di libertà e di dignità umana, collegati per lo meno agli ideali della rèsistenza sui quali si dice si fondò il nuovo stato italiano ecc.; comunque, arrivare primi, da soli, in virtù della propria diligenza e onestà conoscitive, di lunghe carriere ottenute senza sostanziali servilismi, eccetto forse un generale servilismo al fantomatico « sistema », ed in virtù di una fama di onesti uomini; con qualche collegamento a vertici intellettuali e morali dei partiti riformisti o di frange riformiste della stessa DC, utilizzando vecchi capitali di fama mondiale, vecchi probiviri ecc.; arrivare quindi sostanzialmente da soli, nella piccola solitaria cerchia degli uomini .intelli genti e pensosi, nuovi intelletuali-don Chisciotte, senza movimento sociale alle spalle, forse con l'unica forza sociale in essi incar-


35 nata di un sapere anche tecnico, indispensajile). (Le osservazioni di cui alla parentesi precedente non nascono soltanto dall'attenta lettura del « Giorno », le pagine del quale sono ormai tappezzate da quest'ultima generazione di intellettuali seri, ora arrivati al diritto di parola tipico per chi sta sui 45 anni, ma ora tutti soli con la propria geometrica intelligenza, vecchi servitori scomodi della burocrazia, e della pianificazione, integrati ma non troppo, occhi aperti davanti alle piaghe sociali, sorrisi disponibili a chi vuole « responsabilmente » fare qualcosa in questa società alla deriva, amici degli amici, e nemici dei nemici, condiscendenti avari della contestazione, condiscendenti prodighi d'ogni serio e laborioso riformismo, ultima spiaggia dell'ordine intelligente, in realtà canto del cigno, a mio parere, di una genera zione che si era socializzata al centro-sinistra quando aveva 30 anni e che è arrivata al potere della maturità quando il centro-sinistra era arrancante; e che ora fa l'ultima spiata per sapere se c'è ancora un posto per le sue sane forze di lavoro e per il suo sano vigore intellettuale. Non derivo le mie osservazioni da questi nuovi elzeviristi del « Giorno », ma da tante cose che sono venuto a sapere dal mio posto di incaricato universitario, in una università in cui ogni giorno, nei mesi che hanno seguito la battaglia presidenziale e poi le elezioni del 7 maggio, qualcuno ti porta la notizia che al ministero tal dei tali c'è il tale o tal altro che sta vendendo cara la sua pelle al nuovo stato corporativo-andreottiano, c'è il tale che si dimetterà - ma poi non si di mette - se certe decisioni non vengono revocate, c'è quell'altro, infine, che soffre molto e si agita di meno per ormai cronica depressione). STO PARLANDO, È CHIARO, DI INTELLETTUALI; ed è anche chiaro che la cosa che for-

se mÌ premerebbe di più, a livello emotivo,

sarebbe quella di descrivere accuratamente e polemicamente le sorti risibili e regressive di quel circoletto di intellettuali, e dei loro figli, che si. erano preparati ad una miracolosa coincidenza (anche se magari comunisti e marxisti) fra ruolo di rivolta e ruolo di servizio nelle pieghe sperate e promesse del centro-sinistra. Ma si obietterà che nella cultura politica pre-1968 fondata sull'analisi delle istituzioni c'era anche altro, c'era anche gente che non aveva creduto al centro-sinistra e si preparava per una sua alternativa storica, così come c'era stata « Comunità » anni '50 e poi « Questitalia » anni '60 e poi ben altre cose (di cui comunque stenterei personalmente ad avere precisa memoria). Ma di questc parlerò alla fine; basterà ora ricordare che tale frangia di intellettuali analisti scientifici e radicali delle istituzioni (cassa del mezzogiorno, programmazione, riforma dei codici, urbanistica, scuola ecc.) avevano forza in un punto oggettivo a loro esterno (checchè essi pensassero e ritenessero): la non ancora consumata crisi della forza contestativa del PCI, il non essere ancora chiaro ed ancora vero che le « riforme di struttura » comuniste fossero nient'altro che deboli e difficili promesse alle quali in realtà non corrispondèva una effettiva volontà di lotta ed alle quali si dava soltanto la credibilità di una automatica necessità di ricorrervi, da parte del sistema. Quella frangia di intellettuali già sapeva che il PCI era anche in questo rischio, ma il rischio era ancora tale e l'esito di non facile previsione; la sua legittimazione e la sua forza reale erano dunque del tutto in questo essere interlocutori critici della possibile forzà rivoluzionaria del PCI. In tale modo, tale frangia di intellettuali era realmente collegata alle masse. l'i 1968 ha sbaraccato tale fronte. Noi di « Questitalia» abbiamo vissuto la vicenda in prima persona: la redazione milanese inseguiva 'la contestazione, la redazione romana sognava la difesa di un ruolo an-


36 sono contaminati, un ben noto disinteresse all'analisi ddle singole istituzioni: lo stato diventa, considerato soltanto nelle sue strutture centrali, l'alfa e l'omega della rivoluzione: io scontro con la polizia diviene materia di riflessione ben più essenziale che qualsiasi mutamento di istituzioni che il sistema vada a mettere in atto, ben più essenziale che qualsiasi decisione monetaria o che qualsiasi svalutazione della lira o che qualsiasi introduzione di calcolatori in apparati pubblici e via dicendo. In secondo luogo la sinistra di classe ha prodotto modelli •che possiamo riassumere sotto la sigla di spontaneismo. Lo spontaneismo coglie l'estrema compless'it e ramificazione della struttura sociale, sa che esistono mdlte istituzioni, è disposto alla lotta in molte istituzioni (magistratura, esercito, scuola, non solo « fabbrica » o « popolo »), ma naturalmente non ritiene rilevante una conoscenza minuta di queste istituzioni, nè possibile una cultura politica che designi la loro trasformabiilità a fini di crescita rivoluzionaria, trascura per esempio qualsiasi lotta preventiva sulla riforma del codice penale, sulla riforma universitaria, sulla riforma urbana, scarica la sua forza contestativa, verbale e pratica, su già prese deNELLA NUOVA SINISTRA, o nella nuova sinistra di classe, abbiamo visto, infatti, tor- cisioni che riguardino le istituzioni e non nare in auge innanzitutto il vecchio mo- progetta comunque, nessuna forma istituzionale di transizione. dellò ieninista deI partito d'avanguardia,, del piccolo nucleo coeso che, in una situaMa la nuova sinistra di classe ha prozione di generale disgregazione del potere dotto un frutto più insipido o più marcio: statuak, sarebbe in grado di impossessar- ha prodotto una numerosa generazione di sene. Questo modello è stato costruito, intellettuali di estrema i quali posseggono com'è noto, per una situazione in cui lo una copertura da parte di altri di loro che stato era una entità ben circoscritta, non sono semplicemente riformisti e che apparramificata; in cui il potere pubblico era tengono comunque allo establishment, anuna gendarmeria; in cui la cosiddetta so- che se di sinistra. I giochi fra queste due cietà civile era un enorme aggregato di componenti della classe intellettuale stanno assumendo col passar del tempo rafficose reciprocamente indipendenti e solo reciprocamente in contatto per la comune di- natezza bizantina, teatralità cabarettistica, pendenza dallo stato. Questo modello pro- discrezione salottiera, prevedibiilitì matematica, come si trovano soltanto in certe deduce, a livello degli inteiettuali che ne

tico dalla cui eclisse sembrava non potersi attendere nulla di buono. Nessuno credeva all'alternativa, riforme/rivoluzione, eravamo tutti vaccinati da queste accattonesche dicotomie (da figli del centro sinistra) fra generosità costruttiva e responsabiitì costruttiva, fra domanda sociale indifferenziata e calcolo ingegneristico della dirigenza sociale e politica, fra passione rivoluzionaria e intelligenza positiva. Queste dicotomie sono, com'è noto, ad usum delphini ed avemmo l'onore di non avvertirne meiodrammaticamente il dramma o, se si vuole, di nòn riconoscere ai melodramma una dignità drammatica. Ma presto si capì: per questo limbo di inteffigenza critica non c'era più posto da quando il PCI aveva f allito in un ruolo di mediazione costruttiva. Si doveva cominciare da nuove basi e non eravamo noi i più adatti dal momento che (contrariamente ad altri intellettuali della sinistra di classe) avevamo fallito le nostre previsioni e perduto i nostri rischi. Questi ultimi anni hanno diffuso la consapevolezza di quanto sia difficile ricominciare da capo. Qui le considerazioni di Ristuccia hanno un chiaro fondamento.

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37 scrizioni dei circoli intellettuali parigini in certi romanzi dell'800 (per esempio, in Flaubert). È uh problema che non tarderà a scopplare e a rendere reciprocamente ostili persone e personaggi fino ad ieri in odore di amicizia; 'se non scoppierà, marcirà nelle coscienze, ammorberà i rapporti, li renderà furbeschi, proporrà qualche nuovo mito pulcinellesco (altro che nuovi mandarini!). per questo che il discorso proposto è interessante: esso esplicita questa opposizione latente, perchè è proprio intorno alla progettazione (previa analisi) delle istituzioni che si coagula la differenza fra i nuovi intellettuali (inseriti, ben inteso, in apparati di produzione intellettuale: università, RAI, uffici studio ecc.) ed i vecchi intellettuali riformisti (figli e padri del centro sinistra) La via più comoda per lasciare latente questa differenza e questa possibile opposizione, la via più agevole per mantenere le complicità reciprocamente protettive, è quella oggi in atto, una sorta di grandiosa divisione del lavoro intellettuale: alcuni si occupino di analisi denunciative, facciano esatte descrizioni dello sfruttamento, ripetano fino alla noia che in università i figli di operai non ci vanno o non ci si laureano, lino alla noia che l'università è una zona di parcheggio, che la Cassa del mezzogiorno ha vieppiù compromesso la struttura sociale meridionale.1 che i pdli di 'sviluppo non attirano mano d'opera, che il 'potere ricorre spesso a legittim'azioni tecniche e via dicendo; altri intellettuali (in numero minore) continuino invece ad essere in qualche modo un tratto di unione con 'le istituzioni, portandovi (poichè sono di sinistra) scientifiche diagnosi dei mali e semplicemente sensate e intelligenti proposte. Si dice: l'assenza di un punto mediano è l'attuale 'disastro. Ma questo - e vengo quindi a stringere il mio giudizio - non è soltanto un

problema di cultura, anzi non lo è principalmente. È invece principalmente un problema di forze sociali, è il problema della compromissione e ddlla debolezza 'strategica del PCI. Molto semplicemente: per chi dovrei analizzare scientificamente le istituzioni presenti, denunciarle criticamente proponendone altre (di transizione, capaci di attivare il processo dii crescita rivoluzionaria)? Per quale forza politica? Chi gestisce l'operatività del discorso? A chi il discorso sulle istituzioni? QUESTA CHE HO PRESENTATO non è affatto la dicotomia fra riforme e rivoluzione. Chi scrive e forse tutti coloro che leggono questa iettera partono dal punto di vista che a questo livello dello 'sviluppo capitalistico (anche in Italia) non se ne fuoriesce attaccandolo in un qualche tallone d'Achille (che non esiste); e che d'altra parte occorre una ,alleanza fra classe operaia e determinati ceti media una parte dei quali 'lavora in istituzioni a carattere statale (scuola, giustizia ecc.); e che, infine, tale alleanza può essere rafforzata solo a patto che si producano istituzioni dii transizione nettamente caratterizzate da una loro agibilità antipadronale (un esempio fu lo statuto dei lavoratori, ma si vede ora quali difese possiede il padronato, « per entro » i palazzi di giustizia e nei loro regolamenti! Un esempio potrebbe essere una riforma universitaria che ponga una sola università, senza livelli, qualificata e aperta a tutti, per una scientificizzazione di massa - e si vede com'è impossibile). A tutto questo si lega comunque, a mio parere indiscutibilmente, la proposta di Ristuccja di riattivare una attenzione scientifica (di marca anticapitalistica ma non disgiunta da un carattere propositivo) sulle istituzioni. Se le cose 'stanno così, si capisce facilmente fa straordinaria difficltà di questa proposta; essa presuppone un processo sto-

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38 rico reale di formazione di una nuova sinistra 'non compromessa con il sistema e non avventurista - perchè la stessa incapacità attuale di pensare le istituzioni, è un processo storico, è la fine della forza culturale del PCI, la finita persuasività de'la sua via italiana al socialismo, è il formarsi di una nuova sinistra senza alcuna radice nello stato, è il darsi di alcuni meccanismi che nel sistema capitalistico sviluppato incoraggiano una cultura difensiva (fondata sulla scoperta e sulla denuncia dello sfruttamento molto più che sul progetto storico), è il darsi - ma qui faccio soio un accenno ad una ipotesi - di un capitalismo della stagnazione che ha perduto perfino la sua interna carica riformistica. IN QUESTE CONDIZIONI, io ritengo importante che esistano luoghi a vocazione scientifica nei quali questa problematica complessiva venga continuamente agitata nel concreto. Ritengo dunque importante una rivista che si faccia carico di una analisi sistematica delle istituzioni, ma a queste condizioni: che si esima •ancora per un lungo periodo dalla progettazione e si limiti alla analisi delle progettazioni altrui, senza nessuna partecipazione alle stesse, anche quando dovessero essere trovate positive in riferimento alla loro apertura ad una società anticapitailistica; che 'rifletta invece continuamente su questa impossibilità di progettazione, denunciandola come il limite della nuova sinistra attuale, un limite che non è tuttavia superabile da un ristretto nudleo di intellettuali ecc.; che soprattutto osservi quelle istituzioni i cui cambiamenti possono essere sviluppati in virtù di una lotta a loro interni, attraverso la politicizzazione degli impiegati e dei funzionari che vi lavorano. Ritengo che molto si potrebbe fare nel-

l'analisi delle condizioni 'strutturali che generano conflitti intra-istituziona'li e nella previsione di come legare questi confluiti a progetti di riforma delle stesse istituzioni.. L'esempio è nella scuola: 'in essa già alcune lotte degli insegnanti si legano a modelli di scuola alternativa, se non altro sono orientati a pensarli. Mi rendo conto che sono punti che andirebbero sviluppati più ampiamente; ma per' le funzioni per cui è nata questa lettera credo che già ho scritto abbastanza. Vorrei sdltanto insistere, alla fine, su quanto mi sembra difficile la proposta di Ristuccia. Non illegittima, ma difficile. Essa incontra tra l'altro l'ostacolo in ùna organizzazione del 'liaivoro scientifico sempre più ciotica,. più debole, nel momento che una università dequalificata di massa ha innanzitutto' colpito gli intellettuali critici i quali non hanno accettato di ritirare da essa il proprio impegno. Ma c'è 'anche un'altra difficdltà: che qualsiasi discorso sulle istituzioni riscateni la. buona volontà di tutti coloro che non hanno» ancora compreso, fino in fondo, che fore istituzionali di sinistra non esistono pii'i sulla scena della politica organizzata, sulla scena del parlamento o dei parlamenti regio.nali; non esistono nella misura che permetterebbe un rapporto fiduciario su basi ragionevoli. E. che se gli antichi partiti marxisti hanno ancora risorse ed energie nei rapporto con lo stato e con le istituzioni possono usarsi queste risorse e queste energie, ma nel clima di un'a assoluta chiarezza senza gli imbrogli reciproci che un libro. come quello di Gian Antonio Gufi (Come si fa ricerca, pubblicato negli Oscar Mondadori)' addirittura teorizzava (sulla base dell'assunto' che la scienza borghese e Lioborghese' è ormai così decaduta e impotente che può essere imbrogliata).

Novembre 1972

Franco Rositi


ancora sulla funzione dell'inteliettuàle Questo intervento è diviso in due parti. Nella prima mi soffermo sull'analisi di Franco Rositi che mi ha colpito per la sua lucidità ma che non mi sento di condividere fino in fondo. Mi sembra, comunque, che offra io spunto per un'analisi suLI ruolo dell'inteliettuale che potrebbe essere, oggetto di succes s'ivi interventi più circostanziati. Nella seconda parte, partendo dalla mia personale esperienza di lavoro, sviluppo qualche con'.siderazione più specifica su siffatta apertura di discorso.

tellettuale che ha trovato nella Scuola di Francoforte un punto di riferimento e di coagulo che non poca influenza ha avuto nella nuova generazione di intellettuali. Mii rifiuto di porla in questi termini perchè sento il bisogno continuo di dialetizzare e storicizzare la pos'izione dell'intellettuale nella società. Impotenza e rivolta sono sì due 'modi d'essere riscontrabjlj 'nella realtà empirica dell'agire 'intellettuale ma sono tra loro s'peculari e colgono la fenomenlogia 'dell'intellettuale al livello del vissuto e non nei risultati cui anche tali modi di essere 1. - Franco Rositi, nella sua lettera., ha danno luogo quando dialetizzano con le formesso, come si dice, i 'piedi sul piatto. Con ze sociali. rigore e in termini realisticamente attuali Con questo non voglio riproporre la fiIha riproposto l'eterno dilemma dell'intelletgura dell'intellettuale « positivo » tutto den"tuale, che semplifico in modo forse riduttivo, tro la realtà sociale o quella dell'intellettra impotenza e rivolta. Tertium non datur. tuale « servo » (del padrone, dell'ideologia O meglio il tertium sarebbe la proposta di Rio del partito), o peggio quella dell'intelletstuccia, ritenuta sì legittima ma irnpro'batuale «rieducato » che si pone « al servizio bile: i suoi esiti migliori sarebbero confidel popolo ». Voglio però dire che porre, nati alla testimonianza. Testimonianza di per 'l'intdlettuale, l'alternativa tra impotenrigore 'intellettuale e di intransigenza mo- za e rivolta 'significa anche non individuare rale: Irangar sed non fiectar. Io invece cre- i meccanismi che possono fatalmente condo, personalmente, in questo tertium proprio durlo ad aderire ad una delle tre situazioni perchè non ho mai ritenuto legittima queora ricordate. sta aspirazione delYinteilettuaie alla « saiL'intellettuale non ha diritto alla sal-vezza », da solo. Il 'salvarsi da solo, nel ri- vezza individuale ma ha il dovere di esgore intellettuale e nell'intransigenza mosere « presente ». Un intellettuale non può, :rale, fa ,pendant (è 'io stesso destino) a qul- se tale vuole restare, che essere « intelligenl'intellettuale riform'ista, « intelligente e pente », « pensoso » e « critico »: le sue scelte soso », così ben tratteggiato da Rositi. sono tutte all'interno di queste definizioni e Ma credo in questo tertium perchè in si riducono ai modi coi quali scegliere il profin dei conti mi rifiuto di porre l'alterna- prio destino in relazione alle forze sociali: e 'tiva nei termini 'secchi in cui 'la pone Ro- perciò come parlare, a chi e dove parlare. Chè siti, sulla scia di tutta una tradizione in- parlare deve, se vuole restare intellettuale.


40 Come, a chi, e dove parlare significa fare i conti, continuamente, con le forze sociali. 1.1 silenzio può essere un modo di parlare solo in momenti eccezionali (a meno che non derivi da propria, personale afonia) come tali percepibili non soio dal singolo intellettuale che sceglie il silenzio ma anche da « altri ». Il tutto o niente della dicotomia tra rivolta e impotenza è perciò un problema esistenziale dell'intellettuale, come tale quindi importante, ma non è mai o quasi mai (tranne appunto i momenti eccezionali) un problema politico. Il problema politico dell'intellettuale, da sempre, è quello del « come », « a chi » e «dove » parlare. Ecco perchè non condivido il modo di impostare il problema implicitamente suggerito da Rositi e, sgombrato il campo da queste considerazioni preliminari, aronterei i problemi posti dalla proposta di Ristuccia e dalle stesse riserve di Rositi in termini strettamente politici. Ritengo cioè che il problema vada posto intorno al come uscire dall'impasse tra la « consumata crisi della forza contestativa del PCI » e la consapevolezza, diffusa dagli intellettuali della contestazione, « di quanto sia difficile ricominciare da capo ». In altri termini propongono di discutere: lo se è vero che una forza contestatrice del PCI si sia interamente consumata; 21 - se è vero che si tratta di ricominciare da capo. Sul primo punto direi che il problema è più complesso: non del solo PCI si tratta, ma di un arco di forze (sociali, politiche e culturali) più vasto la cui spinta contestativa è tutt'altro che consumata. Consumata se mai è una certa strategia del gruppo diii gente del PCI (così come di altre forze); e allora il problema va correttamente posto in termini di domande sociali e di risposte politiche organizzate. Nel mezzo vi è una funzione intellettuale - culturale e politica -, da svolgere. Sul secondo punto direi che non si ri

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comincia mai da capo e meno che mai adesso. Si tratta di capire meglio quello che è successo e che sta succedendo. E allora torna centrale il problema di come e dove collocarsi, come intellettuali, per capire meg1io Per capire meglio,, innanzitutto, cosa significhi capire e cosa significhi essere intellettuali (non è un 'gioco di parole!). In questo senso l'intellettuale (nel nostro caso l'intellettuale anche specialista - economista, sociologo, giurista - tecnico delle istituzioni) non può non rinunciare a una funzione illuminista (non saprei chiamarla diversamente), che è insieme di critica e di prefigurazione, senza per questo doversi caricare dei destini dell'Universo. È certamente corretta la preoccupazione di ritrovarsi tanto bravi e tanto soli ma tale preoccupazione non può che essere connaturata alla sfida che l'intellettuale in quanto tale è destinato, comunque e sempre, a raccogliere Quanto al merito di ciò che scrive Rositi: è poi vero che il giudizio sul PCI è radicalmente cambiato da prima a dopo il '68? non creiamoci dei paraventi di comodo, ricorcliamoci di cosa è stato il PCI per tanti intellettuali radicali (nel senso duro del termine) negli anni cinquanta e sessanta: lo' «zdanovismo all'italiana» prima e il correttivo liberalliberistico poi (così insistentemente criticati l'uno e 'l'altro da Fortini, tanto per fare un nome emblematico, ma. con lui altri della sinistra socialista o usciti dal PCI). Il problema non è solo di schieramenti pilitici: non si tratta cioè solo di muoversi in vista di offrire i propri « ser-. vizi » intellettuali - scientifici e tecnici a forze politiche eventualmente disponibili,. e disposte, a uti]izzarli. Si tratta bensì, più. modestamente ma anche più responsabilmente, di saper interpretare correttamente i processi sociali in atto e di contribuire in

tal modo alla formazione di discorsi poli-. tici su questi processi. Se il partito non c'è come lo vorremmo noi, se le forze politiche


41 ci sembrano «arretrate » si tratta di capire perchè e di dirlo forte e chiaro. Perchè delle due l'una: o sbagliamo noi e allora è solo attraverso un rapporto continuo con la prassi, anche politica, che potremo rendercene conto, o sbaglia il partito e allora abbiamo il diritto-dovere di dirglielo continuamente in faccia, finchè ci è consentito: a forza di parlare non è detto che non intenda. Insomma tutto questo che ho ricordato - in modo molto sommario e avendo per bersaglio polemico lamico Rositi, con cui mi scuso delle forzature riduttive - serve per introdurre un discorso sul ruolo dell'intellettuale che potrà essere ripreso e sviluppato 'in altra occasione. L'atteggiamento infatti che si cela dietro 'le parole di Rositi è più generale e lo si ritrova spesso ogni volta che l'intellettuale si trova a dover affrontare un problema di scelta non immediatamente consequenzia'le al suo impegno di lavoro.

prio in questi giorni e mi è sembrato che ben si attagliassero alla nostra iniziativa. Sento di dover precisare, a me stesso innanzitutto, le motivazioni che mi spingono ad accettare la proposta di Ristuccia e i limiti e le dimensioni del mio impegno nell'iniziativa. Gli uni e le altre nascono da un itinerario personale e da un impegno di lavoro attuale che può essere utile esplicitare. Formatomi ad interessi politici nell'ambito della Facoltà di Scienze politiche di Firenze alla fine degli anni cinquanta ho vissuto l'esperienza del centro-sinistra,, abbastanza dal di dentro, da un punto di osservazione, sensjbile anche se marginale rispetto ai giochi di potere, come quello della rivista « Tempi moderni» (fino al '68). Successivamente, consumata ùna breve esperienza nella redazione di « Questitalia » poco prima della sua chiusura, ho tentato con altri amici, di battere, in vari modi, la strada dell'autorganizzazione intellettuale promuovendo e 2. - « Ora, il comunismo occidentale costituendo varie iniziative, le principali del(cioè italiano) disperderebbe le proprie enerle quali sono il CESDI e la Casa editrice gie o non compirebbe invece un'opera 5 tra- Guaraldi. Sia l'una che l'altra hanno avuto ordinariaménte utile se si chiedesse, ad opeesiti diversi rispetto a quelli pensati e prora dei suoi intellettuali, verso quali forme gettati, entrambi si 'sono caratterizzate per istituzionali e giuridiche dovrebbe indiriz- la stessa collocazione « fuori » / « dentro »: zarsi il nostro paese, quale sarebbe l'auspi« fuori» dai rapporti organici con le forze cabi'le forma di rappresentanza e di controllo sociali organizzate, « fuori» dalla tradizione politico, quale sarebbe la separazione di po- accademica, editoriale, culturale e politica; teri, quale e di che natura l'autonomia del- • dentro » il mercato delle comrnittenze, l'autorità culturale (della informazione e • dentro » il mercato editoriale, « dentro », della stampa), quali i rapporti fra 'lo Stato soprattutto, i problemi dell'organizzazione e la Chiesa, quale l'ordinamento economico della cultura nel nostro paese. Esperienze dell'industria e dell'agricoltura, quali i prinquindi, a vario titolo, significative perchè cipi destinati a informare gli istituti fami- tutte dentro le contraddizioni, talora insaliari, eccetera? ». nabili, che caratterizzano 'l'operare intelletQueste parole di Fortini (del marzo tuale oggi, in Italia (ma 'non solo oggi, e 1954) ( 1 ) mi sono tornate sotto l'occhio pro- non solo in Italia). Vivere le contraddizioni oggettive, e dentro queste quelle proprie e personali, è stato perciò il mio modo di ri(1) Ora in Dieci Inverni, DE DONATO, 1973, spondere ai quesiti sul ruolo dell'intellettuale. [Certo, viverle in questo modo ha comp. 194. -

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42 portato dei prezzi da pagare che, a cose fatte, possono essere anche considerati troppo alti: per esempio, in termini di insicurezza personale (non solo di ordine conoscitivo ma anche di ruolo, 'di modo per sbarcare il lunario etc.) ovvero di efficacia rispetto agli obiettivi posti e ai risultati raggiunti. Sàrebbe stato più facile e meno « costoso » collocarsi diversamente - in una « accademia» o in un «partito » o in una «azienda » - mia certo 'la specificità di questa esperienza non ci isarebbe stata. Esperienza che ha, io credo, un valore che esula dagli aspetti strettamente personali: è l'esperienza cli chi ha tentato, sui crinale sempre pericoloso del «fuori » / « dentro », l'autogestione di spazi culturali organizzati non meramente individuali, consumandone quasi tutte, le possibilità ma anche sperimentandone le potenzialità specifiche e difficilmente raggiungibili con altri mezzi e in altre condizioni]. Per quanto qui interessa due sono le più maturate delle mie convinzioni: la prima è relativa all'impegno politico dell'intellettuale, la seconda alla centralità del momento organizzativo e istituzionale nel processo rivoluzionario. 21. - L'intellettuale ha un suo terreno specifico di impegno, che solum è suo (ma che nel modo in cui lo esplica lo collega immediatamente alla classe), ed è 'la rivendicazione e la riproposta continua della gestione della comunicazione culturale: è attraverso la rivendicazione e la sperimentazione (se e quando possibile) della gestione che l'intelle'ttuale verifica la sua politicità e verifica continuamente, sulla propria pelle, lo antagonismo e il conflitto di classe nella società industriale avanzata. La rivendicazione della gestione (e quindi del potere) corre il rischio continuo di essere una rivendicazione corporativa - del proprio personale potere o del potere della casta degli

intellettuali -, ma è questo un rischio che l'intellettuale deve saper correre continuamente. Nel modo in cui l'intellettuale saprà rivendicare questo potere e nel modo in cui sap1à, eventualmente, gestirlo si misura la sua disponibilità alternativa, si misura la sua tensione antagonistica. E su questo punto, non a caso, si sono bruciate tante velleità rivoluzionarie, su questo punto, non a caso, sono sempre scoppiati i conffitti nei luoghi di lavoro degli intellettuali con la controparte padronale, su questo terreno' sono scoppiati i conflitti con il partito (con i partiti). Il « siamo politici anche noi » che Vittorini si rammaricava, anni dopo, di non aver saputo dire a Togliatti ai tempi del «Politecnico » si pone in questa prospettiva. Si tratta quindi, essenzialmente, di postulare una non rinuncia alla propria « politicità », di rifiutare una delega (a chicchessia), rifiuto che è valido in generale, per tutti, ed a maggior ragione per l'intellettuale che rimane, anche nella civiltà tecnologicamente avanzata,, un artigiano (della parola, della forma ...) e come tale non pu disinteressars'i delle modalità d'uso di ci& che produce: « come », « a chi », « dove fanno strettamente parte del « che cosa »egli dice. Come ricorda giustamente Fortini: « il sapere », « il pensare » e « 'la parola »devono essere « accompagnati al bersaglio ». Occorre quindi troncare con 'i falsi dilemmi impegno/dis'impegno, fuori/dentro il (i) partito (i), 'schiettezza/ambiguità, rigore morale/doppio binario, impegno nel politico/disimpegno nel sociale e viceversa. La pdlitica è totalizzante (come è totalizzante la vita), non si può essere politici a metà ma si tratta di capire la portata politica di ogni gesto' o azione o parola e di saperne sopportare il peso e la responsabilità: senza rinuncie e senza sensi di superiorità. • 2.2. - La centralità del momento organizzativo e istituzionale nel processo ti-


43 -voluzionario è strettamente legato al discorso fatto al punto i anche se le sue implicazioni sono più vaste e generali. Per non banalizzare il discorso mi è sufficiente accennare che tale centralità può essere colta a tre livelli: quello della prefigurazione (caro a Fortini e agli utopisti), quello delle forme istituzionali di transizione (su cui non :si è andati molto oltre lo slogan ddlla « lunga marcia attraverso le istituzioni »), quello dell'hic et nunc (caro ai comunisti). Tutti tre questi livelli sono oggi caratterizzati da una forma di disattenzione da parte delle forze politiche e degli intellettuali che si richiamano al movimento operaio e operano nell'ambito della sinistra. Ristuccia ha ben evidenziato la critica che si può muovere al disinteresse istitu2iona'le più o meno diversamente motivato e •praticato. Il rischio connesso in una proposta di -attenzione critica è quello di giun: gere a una specie di divisione del lavoro intellettuale del tipo di quella esemplificata da Rositi: da un lato gli utopisti dall'iltro gli sperimentatori in corpore vili e infine i garanti dell'assetto istituzionale esistente che copre da involuzioni e arretramenti (sempre possibili come la storia, anche attuale, ci i nsegna ). Ora, in realtà, c'è bisogno di farsi carico contemporaneamente di tutti e tre gli aspetti se si vuole essere « politici » lavvero. Altrimenti si corre il rischio dell'utopia autograt'iflcantesi, del logorio quotidiano nel fare e di'sfare dell'attivismo più meno congiunturale, della difesa liberalistica dello status quo come il meno peggio dei mondi possibili. Perciò mi interessa il discorso istituziona'le, e a tutti e tre i livelli. In particolare per me il discorso ha un referente preciso nell'ambito delle istituzioni culturali

(le comunicazioni d'i massa, l'editoria, la politica culturale, etc.) che costituiscono ad un tempo il mio luogo di lavoro e il mio centro di interesse culturale e politico. La rivista - in misura minore anche la collana dei libri - rappresentano perciò per me un modo e un'occasione per continuare un discorso e un lavoro già iniziato. Meglio, rappresentano un'occasione per precisano e organizzarlo meglio. È per questo che vedo la rivista come uno strumento autonomo rispetto alla collana e abbastanza strutturato in parti e rubriche: perchè deve consentire a chi vuole utilizzarlo come strumento specifico di poter condurre un 'discorso «rico-, noscibile» e continuativo. Il rischio da evitare è quello di essere rivista antologica o collage di opinioni. Vedrei perciò una rivista divisa in sezioni (editoriali, note, documenti,' servizio bibliografico) e per temi (a seconda della disponibilità di collaboratori-redattori a coprirli). Mi sembra infatti importante che per ogni tema ci s'ia la possibilità, sulla rivista, di: a) osservare il funzionamento/diisfunzionamento attuale delle istituzioni; b) individuare i modi d'essere degli eventuali conflitti interni; c) riflettere sulle progettaiioni istituzionali proposte da altri [quindi seguire attentamente e riferire con taglio ad hoc quanto si pubblica su libri e riviste]; d) tentare di individuare linee propositive a1ternative non 'sganciate da un'immediata operatività politica ma sulla stessa lunghézza d'onda di una progettazione prefigurativa di una società « altra », socialista e comu'nista. Marzo 1973

Giovanni Bechelloni


PARTITI

l'accordo di comportamento del " bipartitismo imperfetto - Punto di partenza, e al tempo stesso oggetto di esame di una eventuale rubrica sui partiti, è sostanzialmente l'ipotesi di «bipartitismo imperfetto» formulata da Giorgio Galli. Ipotesi che si definisce sinteticamente, in primo luogo, come «l'insieme di regole, implicite o esplicite, attraverso cui 'la DC e il PCI riconoscono, consolidano e, per converso, limitano reciprocamente iii proprio ruolò di maggioranza e di opposizione ». Si sostiene che questo insieme di regole è elemento di per sè sufficiente a qualificare quel « sistema politico italiano » che può essere posto al centro dell'attenzione della rivista. Per esaminare: come emerga e si consolidi progressivamente nel tempo; come costituisca un modo di far politica« specffico » del nostro paese rispetto agli altri paesi del mondo occidentale; come influisca in misura sempre più profonda non solo sul « quadro politico» ma sullo stesso processo di trasformazione della società; come 'sia, infine, una variabile indipendente rispetto alla quale gli altri partiti - e le forze sociali - vengono a determinarsi in forma, assai 4i frequente, subalterna. - Ciò posto, il « bipartitismo imperfetto » può essere considerato come momento caratterizzante del sistema politico italiano, secondo un approccio non dissimile da quello adottato per l'esame dei sistemi che reggono altre realtà istituzio-

niali: in altre parole può essere caratterizzato come un insieme di regole che tende ad autoperpetuarsi (e con ciò ad autoperpetuare lo stato di cose esistente); ma che, per ciò stesso, è caratterizzato da sempre più: vistosi momenti di interna contraddizione. Aggiungiamo, per essere ancora più chiari, che gli 'squilibri e i momenti di debolezza, l'incapacità n definitiva del bipartitismo imperfetto ad offrire una sintesi efficace delle tensioni e delle contraddizioni del corpo politico e sociale, non sono un data neutro: sono, in particolare, un elemento cii debolezza per l'azione della sinistra nel nostro paese. - Oggetto dell'esame della rubrica deve essere, naturalmente, la verifica concreta di questa realtà prima del relativo «giudizio di fondo ». Potranno così essere presi in considerazione i seguenti problemi: Quale è il giudizio che il PCI dà d&a DC (e viceversa)? A quali aspetti della « controparte » tale giudizio si riferisce 'e quali invece sottace? In quale prosettiva si inseriscono - e da quali motivazioni nascono - le proposte rispettivamente di « convergenza delle masse comuniste, socialiste, cattoliche » e di « patto costituzionale »? Quale è il rapporto reciproco tra queste due proposte? A quali regole, esplicite o implicite, obbedisce oggi 'l'incontro/scontro tra DC e


45 PCI (né alleanza né scontro frontale? Rispetto dei reciproci equilibri interni e delle reciproche sfere d'influenza)? Quali problemi esso contribuisce a porre in rilievo e quali, viceversa, a porre tra parentesi? Quale « modo di far politica » esso contribuisce a determinare e quali nuovi e parceilizzati termini di confronto introduce (la regionalizzazione della lotta politica 'ecc.)? Quale ruolo esso riserva ai partiti intermedi? Quali sono i rapporti tra il « bipartitismo imperfetto » e 'le forme dio scontro sociale? In che misura esso incide sui rapporti reali di potere e sulle forme della sua gestione? È da questo tipo di esame che si ritiene debbano emergere alcuni dati di squilibrio, attuale e potenziale, del sistema politico e di specifica debolezza dell'azione della sinistra. Se ne anticipano, tentativarnente, alcuni: l'esistenza di uno 'schema di intesa tacito che però nn può comportare, nel futuro prevedibile, una forma di collaborazione esplicita e piena ('l'intesa DC/PCI è un «accordo di comportamento » del tipo Nixon-Breznev; non è e non può diventare una « grande coalizione »); di qui una situazione di stasi e incertezza, che non può non avere effetti paralizzanti sul quadro istituzionale (debolezza 'strutturale di tutte le soluzioni di governo; crisi della stessa politica dei « nuovi equilibri » del PSI); il « gap» crescente tra le progressività delle soluzioni sul piano « sociale » e il marcato ritardo cklle riforme sul piano civile, economico, istituzionale; il crescente distacco, ancora, tra 'la concentrazione del potere conservatore sul piano italiano ed europeo, ed un approc-

cio delle 'sinistre che è sempre più parcellizzato in termini sia di contenuti che di terreni dii scontro; la potenzialmente sempre più rilevante contraddizione tra la relativamente rilevante permissività del quadro in termini di spazio offerto alla protesba e alla rivendicazione delle forze sociali e la scarsità di sbocchi che a tali espressioni si possono offrire; l'ambivalenza dei rapporti in partio1re verso il partito socialista italiano, necessario come elemento di mediazione, ma 'nel contempo sempre più obiettivamente emarginato e limitato come espressione autonoma ir, questo stesso quadro di mediazione; il ritardo con cui si coglie la trasformazione della DC da « partito democratico, popolare, antifascista ». (e quindi, in una certa misura, omogeneo al PCI) in un partito strettamente integrato, in prima persona, col sistema di potere conservatore in Italia (e quindi non omogeneo al PCI).

Analisi e pseudo.analisi della DC. DA MOLTO TEMPO, l'analisi della realtà della DC e del « mondo cattolico » non è andata al di là di giudizi d'insieme (che non sottoposti a verifica critica, sono presto divenuti 'stereotipi): giudizi di insieme, tra l'altro 4 tra loro contraddittori. Ne 'sono, del resto testimonianza indiretta lo stesso tipo di attenzione che il PSI (ma non solo il PSI!) dedica al minimo stormir di correnti interno alla DC ed alle prese di posizioni politiche dei suoi vari teaa!ers. Quando, nell'arco di poco più di dieci anni, hanno ricevuto Buone Pagelle (perchè Amici del Centro-Sinistra e delle Riforme) e sono quindi stati considerati elementi su cui puntare, nell'ordine, Tambroni, Fanfani, Moro, Piccii, Cdlpmbo, Andreotti, Rumor (gli


46 stessi che prima o dopo, e in... combinazioni diverse areiber'o stati invece condannati per moderatismo, integraiismo, centrismo ecc. ecc.), c'è da dubitare seriamente del metodo di valutazione della Scuola che conferisce simili Pagelle. Le speranze più o meno ben riposte in tutti i principali dirigenti della maggioranza DC non sono state peraltro l'effetto di una errata « strategia dell'attenzione »: semmai la logica conseguenza di una linea che ha sempre mirato non alla spaccatura della DC o, quanto meno, all'accentuazione delle sue divisioni interne (anche se questo ne era l'obiettivo propagandistico) quanto, piuttosto, alla « collaborazione condizionatrice » col partito cattolico nel suo insieme. Questa strategia ha costantemente bisogno di « una giustificazione di sinistra » all'esterno. E ciò porta non solo all'accentuazione - senza comune misura con il dato reale - del significato e del valore dei contrasti interni che via via si manifestano nella DC, ma, più ancora, ad attribuire alla collaborazione di centro-sinistra una sorta di « tocco di Re Mida» capace di mutare, nel profondo, la natura e gli orientamenti del partito di maggioranza relativa. Si propone il centro-sinistra per salvare il paese da una minaccia conservatrice e reazionaria? Ma al partito che dovrebbe presumibilmente essere protagonista di questa involuzione - e cioè la DC - si attribuisce poi nello stesso momento la capacità di essere « partner » di una ardita politica di riforme. Si contrappone la « collaborazione » anzi l'« equilibrio democratico » rappresentato dai quadri'partiito alla volontà di egemonia, di integralismo, 'di gestione indiscriminata e globale del potere? Ma il succube . . . volontario e cosciente di siff atte tentazioni, viene successivamente rappresentato come un fragile blocco il cui unico cemento, l'interciassismo cattolico, non sarebbe affatto sufficiente a reggere l'urto delle « scelte » alternative che al partito cattolico

l'iniziativa dei socialisti (e delle sinistre) e le contraddizioni in atto nel paese pongono con i padroni o con i lavoratori »? moderatismo o riforme? ecc. ecc.). Irreversibilità del centro-sinistra, magari oggi sotto forma di « svolta democratica» e visione contraddittoriamente propagandistica, sino al limite della schizofrenia, della DC, sono stati insomma dati strettamente connessi: e il fenomeno ha raggiunto il suo parossismo con la attuale proposta di rilancio programmatico del centro-sinistra fatta ad un partito di maggioranza relativa contestualmente accusato di «colludere obiettivamente » con la « destra reazionaria ». ESISTONO' AL RIGUARDO, SUFFICIENTI

di valutazione. Quasi undici anni di centro-sinistra e soprattutto due grandi crisi - quella del 1964 e quella del 1971 che, pur diverse nei loro aspetti, presentano ciononostante un sottofondo sostanzialmente comune. Sono innanzitutto crisi provocate tutte e due non da quelle imprecisate « Forze di Destra presenti anche nella DC » - care alla « opposizione rispettosa » della sinistra ma dal gruppo dirigente democristiano nella sua responsabilità globale: gruppo dirigente che non esita a giuocare, nel 1964, (con Moro presidente del Consiglio) con una minaccia d'intervento delle forze armate e a violare, nel 1972, (con « leadership » fanfaniana) lo spirito della costituzione con la gestione delle elezioni da parte di un governo di minoranza. In secondo luogo la DC reagisce, in entrambi i casi, a minacce, in parte diverse, in parti simili, all'equilibrio politico, economico, sociale, di potere di cui essa è garante e che essa fisicamente rappresenta. Si coglie così un aspetto del centro-sinistra che dovrebbe essere meditato proprio da quanti hanno puntato sulla sua funzione riformatrice, innovatrice, di rottura insòmma: l'essere cioè il ELEMENTI


47 quadripartito una coalizione capace di soprav-. vivere e cioè di governare, in definitiva, il paese solo grazie al suo immobilismo (Moro insegni) e destinata, invece, a entrare in crisi ogni qualvolta i socialisti ricominciano a fare il loro mestiere o si rimettono in moto, più in generale, nel governo e nel paese, proposte, speranze, richieste di un reale mutamento delle cose; l'essere, invece, ancora e soprattutto la DC non certo il « fragile edificio interclassista », costretto a spostarsi a sinistra dalla pressione delle masse » (« laiche e cattoliche » si intende . . .) caro alla tradizione della sinistra, ma, al contrario un partito che ogni qualvolta gli équilibri esistenti sono minacciati, appunto dalla « pressione delle masse », si sposta con estrema celerità in direzione opposta: verso destra. La DC, in sostana, punta ad essere « partner » se non protagonista di una Incisiva Azione Riformatrice quando questa non c'è: e non mancano, al riguardo, le Settimane Sociali e i convegni ideologici; ma accade che delle riforme vengano effettivamente messe in cantiere o che non si rispetti più la disciplina sociale: e allora lo Scudo Crociato ritorna alla prosa, bada al sodo e fa fronte. Quali sono d'altra parte gli equilibri che difende la Dc? Quelli del neo-capitalismo? Di un'ipotetica mediazione risultante dal conflitto tra padroni e lavoratori, tra capitalismo e socialismo? O non si tratta piuttosto di un equiliibrio assai più definito o arretrato? A questo riguardo le vicende del 1963-64 e del 1969-71 sono ancora, abbastanza iliuminanti. Contrariamente alle speranze di allora non sembra che, nel primo periodo, ci sia stata nell'azione di riforma realizzata o in programma, una contestazione al meccanismo di sviluppo capitalistico nel suo insieme (e, del resto la stessa nazionalizzazione dell'industria elettrica era stata accolta dai « piccoli > con molta maggiore ostilità che dai «grossi »). L'azione in corso mirava invece

ad una decisa razionalizzazione delle strutture arretrate e parassitarie (legge urbanistica) nel contesto più generale di un maggiore controllo da parte del potere politico come istituzione collettiva e globale (governo, piano) sul potere economico (credito, impresa pubblica, controllo degli investimenti). La forza d'urto rappresentata dalla DC è dunque, in questo caso, una combinazione dell'area più arretrata dello schieramento padronale (proprietari di aree, costruttori, imprenditori marginali) con alcuni grandi feudatari dell'economia pubblica (sistema bancario) e privata. Il risultato sarà non solo quello di bloccare il processo riformatore ma di sancire implicitamente la totale indipendenza dal controllo pubblico del potere economico, pubblico o privato che sia. Nel 1969-71 lo scenario è in parte diverso. E non tanto perchè i comunisti votano o promuovono attivamente le principali riforme in discussione: queste convergenze son6 già avvenute in passato senza che nessuno se ne adontasse , eccessivamente. Preoccupante e negativo semmai per la DC il fatto che i socialisti teorizzino il fenomeno: teorizzino cioè una distinzione- tra « maggioranza riformatrice » e maggioranza di governo, negando, nel contempo, la loro automatica solidarietà a quest'ultima. Tutto questo è molto fastidioso e negativo, perchè contesta apertamente il ruolo centrale di mediazione e di guida politica che la DC si attribuisce: ma potrdbbe ancora essere sopportato. Ciò che invece è del tutto intollerabile per il partito di maggioranza relativa è che tale scollamento del governo avvenga nel contesto di un grande movimento volto a rimettere in discussione il potere costituito nella fabbrica, nella scuola, nelle istituzioni (e a levare più alte strida e minacce sono, in questo caso, non i Monopoli Privati ma i servitori-padroni dél potere politico DC: Partecipazioni Statali, alta burocrazia ecc.); e ancora che a tale movimento si accompagnino


48 proposte di riforma, scrupolosamente - come si dice - « razionalizzatrici del sistema », ma che però, guarda caso, urtano contro alcune basi del potere cattolico-clericale (il controllo sul matrimonio: altro che « sentimento religioso delle masse »), o contro interessi arretrati e parassitari, ma anche essi funzionalmente legati al partito di maggioranza (ancora, e semplicemente, proprietari di aree e costruttori; baroni delle cliniche e mafia, clericale ancora, dell'assistenza; baroni dell'università). Forza d'urto fedelmente rappresentata e difesa dalla DC sono dunque, anche in questo caso, i piccoli: i padroncini - veri o aspiranti tali - spaventati dal disordine; più in generale, e più significativamente, sono gli interessi di rendita: da quella propriamente parassitaria a quella. dipendente dal, e condizionatrice del, sistema di potere pubblico esistente nel nostro paese. E l'esito della battaglia è noto. Nell'insieme (si procede sempre per approssimazione) poco sembra dunque avvalorare l'immagine di un partito che, armato della lanterna di Diogene della Dottrina Sociale Cristiana, cerchi una mediazione tra capitalismo inumano e comunismo oppressivo (queste cose lasciamole dire a qualche relatore di convegni ideòlogici o all'On.le Piccoli) o che comunque interpreti il suo interclassismo come mediazione tra padroni e lavoratori. La mediazione che preoccupa e che impegna la DC è in realtà quella tra profitto e rendita, tra razionalizzazione e interessi offesi, tra Grossi e Piccoli: ed è una medizione che riesce almeno in parte (e sottolineiamo questo « almeno in parte ») grazie alla capacità del partito di fare corpo, capiilarmente, con tutti i canali pubblici e parapubblici di erogazione di potere esistenti oggi in Italia. È, infine, illuminante che la DC riesca a risolvere in modo per essa vantaggioso ambedue le crisi. Nel 1964 per... mancanza di

combattività dell'avversario. Nel 1972 per avere potuto portare a compimento il suo processo di restaurazione centrista; senza perdere consensi elettorali a sinistra; conservando cioè tutto il suo elettorato «popolare ». PERCHÈ POPOLARE TRA VIRGOLETTE?

Non per negare il fatto. Al. contrario. Si trattava infatti di porre in relazione questo fatto - il consenso raccolto dalla DC tra i lavoratori e, più in generale, la « povera gente » del nostro paese, anche quando essa si è presentata, come nel 1972, su posizioni apertamente conservatrici - con il suo inquadramento concettuale: la famosa definizione della DC come partito «democratico, popolare, antifascista ». Questa invocazione trinitaria è di origine incerta. Alcuni storici tendono ad attribuirla - come invito polemico - al PCI; invito polemico divenuto poi verità indiscussa una volta ftltrato e fatto proprio dagli ambienti responsabili del partito di maggioranza. Altri propendono per il processo inverso. Certo è che l'espressione - come quella ane dell'« arco costituiionale » - non è di origine socialista; ma nasce invece, e si alimenta, nel fertile « humus » dei « rapporti speciali » tra DC e PCI. Forse per questo essa suscita un certo senso di fastidio;. fastidio che non nasce, badi, dalla formula in sè: ma dall'uso che se ne vuol fare. Parlare di una DC democratica, popolare, antifascista è infatti qualcosa di più che dire un insieme di mezze verità che non Costituiscono, certo, nel loro insieme, una definizione accettabile dei partito di maggioranza relativa; è rivolgere ad esso un appello strumentale che, spesso accade, tende a ritorcersi contro i suoi autori, trasformandosi in avallo. Quello che si finisce, in definitiva, con l'accreditare è l'immagine di un « tertium genus », di un partito dal sesso e dalla natura indefiniti e perciò da altri plasmabile


49 e modificabile. Di un partito che per il suo certificato di nascita « antifascista » e « costituzionale » e per le sue radici popolari sia costantemente esposto alla tattica delle azioni comuni dal basso (i lavoratori cattolici vogliono le stesse cose dei lavoratori socialisti, comunisti, ècc.) ed alla strategia della « convergenza politica delle grandi masse popolari » dall'alto. Questa ipotesi frontista dal basso e dall'alto, in cui la prima è evidentemente funzionale alla seconda, implica ovviamente la possibilità di una ribellione quasi automatica della «base popolare cattolica », o comunque di parte di essa, ad eventuali scelte conservatrici del suo vertice. Ciò nel 1972 non si è verificato. PER RESPONSABILITÀ DELLE SINISTRE?

Certamente. Forse che i socialisti hanno sufEcientemente distinto la loro posizione da quella della DC in materia di riforme e di gestione del potere? O non hanno piuttosto avallato, con le loro carenze in materia, la linea propagandistica della DC che imputava la rottura della coalizione soltanto a problemi di schieramento? Su questo punto avremo occasione di tornare tra poco; sembra comunque incontrovertibile, per rifarsi alla « linea generale » di marca PCI che frontismo dal basso e dall'alto non siano processi comuiativi ma azioni politiche in cui la seconda, quella che conta, annulla gli effetti della prima e finisce così coll'essere, essa stessa, del tutto sterile. Quale senso hanno, insomma, le manifestazioni antifasciste che si concludono con Darida a Piazza del Popolo? E come può svilupparsi un dialogo effettivamente e reciprocamente liberante con il mondo cattolico che ahbia comunque, come suo punto fermo, il minuetto diplomatico con le gerarchie vaticane? Per responsabilità esclusiva e preminente delle sinistre? O non piuttosto anche perchè la DC, lungi dall'essere il « tertium genus », l'animale raro, il « prodotto tipicamente ita-

liano » sognato da tanti inguaribili dialoganti, è, in realtà, ma più semplicemente, la variante italiana di un fenomeno proprio di tutti i paesi a capitalismo avanzato: il partito conservatore di massa e quindi a base anche popolare? Partiti di questo tipo: i conservatori inglesi, così come i democratici-cristiano tedeschi, i gollisti e i liberai-democratici giapponesi riescono, appunto, a gestire quasi permanentemente il potere nella misura in cui acquisiscono non irrilevanti consensi tra la classe operaia e tra la « povera gente »: e questi consensi acquisiscono non in virtù delle loro dottrine sociali o di un loro travestimento-trasformazione « popolare », ma piuttosto grazie alla presenza anche nelle « classi subalterne » dei miti e degli schemi di valutazione propri della « classe dominante »; grazie, altresì, e in misura sempre maggiore, all'utilizzo sempre più esteso e massiccio dei crescenti strumenti di sostegno/condizionamento/pressione presenti nello stato moderno. « Catch - all parties »: così un sociologo americano in vena di scoprire l'ombrello ha chiamato i partiti che, per soddisfare la esigenza di una stabile e permanente gestione del potere, utilizzano questo potere per soddisfare, con criteri spesso contraddittori tra loro, gli interessi e le aspettative di gruppi sociali, concepiti nel modo più atomistico, corporativo e differenziato possibile. La definizione si attaglia perfettamente alla DC. Sarebbe, al riguardo, opportuno che il discorso sulle strutture di potere in Italia uscisse dai reciproci pudichi silenzi e dalle sortite giornalistiche per trasformarsi, almeno, in un tentativo di ricerca: vedremmo allora come alla presenza e al controllo diretto di esponenti della DC e del suo retroterra cattolico-clericale siano legate alcune delle più importanti modificazioni verificatesi nell'apparato di potere della « classe dominante ». E ci riferiamo, tra l'altro, e per accenni alla

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'o concentrazione in atto nel complesso di strutture imprenditoriali, soprattutto a tipo finanziario, che sono state protagoniste, e le beneficiarie, del tipo di sviluppo verificatosi in Italia nel corso degli ultimi dieci anni; ai sempre più stretti legami tra un certo tipo di potere politico e gli strumenti imprenditoriali dello stato, in funzione di una amministrazione sempre più « privata » dei reciproci rapporti; allo sviluppo geometrico dell'intervento dello Stato e al tempo stesso alla sua gestione sempre più inefficiente e feudale. Risultato del processo è il sostanziale annullamento, e in una rete sempre più stretta e indistinta di reciproci rapporti, della tradizionale distinzione tra politica ed economia, tra pubblico e privato; è anche, per quanto ci riguarda, la progressiva articolazione-compenetrazione dei gruppi dominanti intorno ad un unico punto di riferimento politico: appunto, la DC. Quanto alla DC iialiana essa non controlla tutto l'elettorato borghese-conservatore ed ha quindi bisogno per mantenere la sua posizione di preminenza di maggiori strumenti di presenza nei ceti popolari: e jrecisamente di quelli offerti da strutture capillari e da organizzazioni di massa a comune denomina-

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tore cattolico (e non precisamente cattolico progressista!). Resta comunque il fatto che il voto polare DC, quando non è un voto così «organizzato » (e, allora, assai poco sensibile ai temi politici dell'unità delle forze popolari) od è, ed è sempre più, un voto aderente al tema di « difesa moderatamente progressista dell'ordine costituito » espresso dal partito - cioè ad ùn tema sostanzialmente conservatore - oppure il voto di chi è cliente, partecipe, o aspirante tributario del variegato, complesso e capillare sistema di potere che alla DC fa capo. Resta, ancora, il fatto - per quanto riguarda la dimensione politica del nostro discorso - che questo voto « popolare » è sempre più ritenuto dagli strateghi elettorali della DC un dato più o meno scontato. La frontiera mobile è altrove, è a destra, tra i ceti medi urbani, imprenditoriali e no. Questi voti si tratta di conquistare o di mantenere; e le loro paure e i loro pregiudizi, il loro istinto di difesa e di conservazione fissano, in definitiva, indirettamente le « colonne di Ercole» oltre le quali la DC non può e non vuole andare.

Alberto Benzoni


SINDACATI

forza e contraddizioni dei nuovi protagonisti NEL PÉRIODO CHE VA DAL 1967 AD OGGI

i sindacati hanno cambiato profondamente la loro fisionomia e rappresentano il soggetto istituzionale che più di ogni altro ha modi ficato sia i rapporti col sistema politico, sia gli assetti interni, sia soprattutto la dialettica con la base sociale rappresentata: in definitiva lo stesso ruolo nella società. In qualche modo tutte le prospettive d'analisi che abbiamo indicato nei criteri metodologici del nostro lavoro sono coinvolte nella valutazione di queste modificazioni. Tuttavia si tratta di un processo di trasformazione che presenta tanti diversi aspetti che è difficile rappresentano in breve e indicare fra questi aspetti i più significativi. È possibile la ricostruzione di molteplici « sequenze causali », molto meno agevole è ricavarne una interpretazione esauriente e qualche elemento di previsione. Una ricostruzione di sequenze causali fra le più attente a tener conto di tutti i possibili fattori è quella fatta da Alessandro Pizzorno nel '71 (1 sindacati nel sistema politico italiano, in Riv. Trim. di diritto pubblico). Possiamo ricavare di qui alcuni dati di partenza.

Sindacati e partiti: il processo della autonomia sindacale. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO FRA SÌN-

dal '45 ad Oggi è considerato solitamente (e così fa anche l'A. citato) come il problema dei rapporti fra sindacati e partiti, soprattutto nella fattispecie dei rapporti fra CGIL e PCI. DACATI E SISTEMA POLITICO

In questa prospettiva, si può dire che fin verso il 1960 i sindacati non hanno alcuna autonomia nei confronti dei partiti. Negli anni seguenti realizzandosi una progressiva « aziendalizzazione » sia dell'attività contrattuale sia delle strutture organizzative dei sindacati (che si conclude, attraverso un processo ricco di contraddizioni, nel più intenso ciclo di conflitti industriali del dopoguerra e nella costituzione di un nuovo sistema di relazioni industriali) il sindacato perde la sua dipendenza dal sistema politico. Non vale ricordare le ragioni storiche, economiche e ideologiche della subordinazione dell'azione sindacale all'azione politica nel periodo della ricotruzione e poi della « guerra fredda ». È importante però sottolineare una delle principali contraddizioni di quel particolare momento di debolezza del proprium sindacale nei confronti del momento politico-partitico: l'azione di massa che negli anni '50 fu per il PCI l'elemento di contrappeso all'azione parlamentare (ed è nella logica di questa che l'azione sindacale fu inquadrata) «non può costituire a pari titolo di quella parlamentare una delle due espressioni del movimento operaio se non si alimenta di contenuti propri. E non può farlo se l'iniziativa operaia non viene continuamente fornita di rivendicazioni autonome e specifiche; ma allora si rischia di rompere il coordinamento e l'unità di movimento ». Ora è avvenuto che migliorandosi la posizione operaia nel mercato del lavoro durante la fase alta del miracolo economico, le lotte operaie sospinte dalle cose siano riprese con


52 energia ma « quasi inattese ». Sicchè non è stato possibile ricondurle facilmente entro quel modello di rapporti fra azione sindacale e azione politica che. di fatto s'era realizzato negli anni '50. « Così per la prima volta, in maniera, c'è da immaginarselo, imprevista, il PCI si troverà ad avere nemici di sinistra,

e gli stessi si collocheranno a sinistra del partito, fatto raro nella storia del movimento operaio ». Questo è il primo punto da sottolineare, CERTO, LA RAGIONE PRINCIPALE della rottura dell'equilibrio si trova nelle migliorate condizioni economiche del paese, da cui deriva un'attenuazione della situazione di debolezza della classe operaia. Debolezza che negli anni 50 aveva giustificato l'utilità per i sindacati cli un sostegno partitico e della stessa presenza parlamentare del sindacato a fronte dei poteri repressivi e di controllo della classe imprenditoriale (si pensi all'ampia possibilità di ricorso ai licenziamenti). Fra la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 la classe operaia cresce notevolmente di dimensione e, date le caratteristiche della espansione industriale, viene a concentrarsi fortemente nel territorio, nell'area del triangolo industriale. Si realizza in tal modo una concentrazione che è tale da produrre sui piano della stessa psicologia di massa le condizioni naturali della coscienza di classe e della combattività operaia. In questo processo le migrazioni interne hanno avuto la forza dirompente che comunemente viene ad esse riconosciuta. Un altro fattore opera in questo periodo: le innovazioni tecnologiche introdotte in fabbrica. Ed opera in due modi distinti, diretto il primo cioè modificando l'organizzazione del lavoro, indiretto il secondo cioè stimolando i sindacati e soprattutto i loro intellettuali a riconsiderare ruolo e strategia della azione sindacale. Sotto il primo aspetto le innovazioni tecnologiche hanno stimolato la

combattività operaia per la difesa del posto (temendosi nelle singole situazioni aziendali fenomeni di disoccupazione tecnologica) e poi sopratutto per le condizioni di lavoro (parcellizzazione, dequalificazione, aumento dei ritmi). Sotto il secondo aspetto, le innovazioni tecnologiche portavano il sindacato « a cercart di spostare la sua sfera di interventi dal terreno dell'appropriazione ex-post di una maggiore quota del profitto conseguito, al terreno ex-aute delle decisioni imprenditoriali; fa profilare cioè anche al sindacato un terreno nuovo di ricerca di allargamento del suo potere sia esso perseguito attraverso una tecnica di tipo più partecipativo o di tipo più conflittuale» (l'osservazione è fatta nel. 1960 da Franco Momigliano nella relazione generale di sintesi al con-

vegno su Lavoro e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo; gli atti sono stati pubblicati da Feltrinelli nei 1962). Ne sono emersi due modi di essere o meglio due linee politiche del sindacato che, sia pure schematizzando, possono essere imputate a due diversi centri operativi: le confederazioni, da una parte, i sindacati delle grandi categorie operaie, dall'altra. Esaminiamo il primo modo di essere, quello che abbiamo detto potersi riferire alle confederazioni.

Il sindacato come soggetto di decisioni politiche generali. LUNGO TUTTO L'ARCO DEGLI ANNI SES-

si snoda il tentativo di far assumere al sindacato un ruolo politico diretto nel sistema delle decisioni politiche: comincia nei primi anni del sessanta la pratica degli incontri triangolari governo-organizzazioni imprenditoriali-confederazioni sindacali che si trasforma negli anni della maggiore conflittualità sociale e sindacale nella pratica del confronto diretto fra governo e confedérazioni. Non c'è beninteso in questa vicenda una linea continua: anzi, in ragione SANTA


53 dello stesso addensarsi di aspettative diverse intorno all'ipotesi di un ruolo più incisivo del sindacato, si ha un processo volta a volta orientato a strategie diverse. Si pensi, ad esempio, al disegno di realizzare una sorta di organo di mediazione dei conffitti di lavoro, ai finì di realizzare sostanzialmente una p0litica dei redditi che si ispirasse in qualche modo a quello che nella prima metà degli anni sessanta si usò spesso indicare come il «modello olandese» di rapporti istituzionalizzati fra le controparti sociali. È il disegno al quale, per parte della classe politica, dette voce soprattutto l'on. La Malfa fin dal tempo della Nota da lui inviata al Parlamento come Ministro del bilancio nel maggio 1962 su «problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano» e alla quale non poche volte egli si è rifatto negli anni seguenti. [Ricordiamo che il Governo aveva pensato allora di creare una commissione di programmazione che riunisse insieme gli esperti con i rappresentanti delle maggiori organizzazioni economico-sindacali di imprenditori e di lavoratori, progetto che fu criticato allora per il suo carattere corporativo. La « Nota» commentava a tal proposito: «questo diverso modo di organizzazione della Commissione di programmazione sottintende . . . la volontà di creare un primo vasto incontro fra le grandi organizzazioni, rappresentative di interessi, ai finì della soluzione dei problemi che la programmazione pone ». Ciò soprattutto per « iniziare a sottrarre le rappresentanze degli interessi degli imprenditori e dei lavoratori alla semplice e immediata considerazione della dinamica di un mercato spontaneo, che quotidianamente pone i suoi problemi, per fissarle su prospettive più generali, più di fondo e più a lungo termine»]. In verità, un siffatto disegno di implicazione del sindacato in procedimenti ed organi istituzionali non ha mai riscosso particolari simpatie nel sindacato stesso, per qùante diverse posizioni anche

moderate e filo-governative si siano espresse in ambito sindacale. Più che aspirare ad una udienza in qualche modo istituzionalizzata il sindacato (leggi: le confederazioni) ha puntato soprattutto a ripetere sulla scala dei problemi maggiori di politica economica e di « politica delle riforme » il tipo classico di azione sindacale fondata sull'alternativa tattica di scontro, attraverso lo sciopero nelle sue diverse forme, e di incontro pattizio con la controparte. Linea politica che parve a molti assai convincente quando, nell'impasse crescente del sistema politico, si credette che il sindacato avesse la forza d'urto necessaria per le riforme (gli scioperi generali per la casa e i grandi servizi pubblici), in grado di vincere la resistenza degli interessi costituiti. È in questa prospettiva che va visto anche il processo dell'unità sindacale. In ogni caso il muro di gomma dietro il quale gli interessi costituiti trovano sicura protezione è stato proprio il sistema politico nella sua disarticolazione, nella sua ormai definitiva adeguatezza al solo momento del contingente e dell'immediato, fermi restando valori e strutture di fondo della società (e la grande illusione degli anni sessanta, la programmazione, ha fatto velo a questa realtà). Così è avvenuto, per esempio, che se per la casa la c. d. « riforma » del '71 sembrò avere come protagonista il sindacato, oggi a distanza di tempo e nel vuoto dell'attuazione di quella riforma il successo sindacale appare ridursi, si e no, ad una vittoria di principio, tutta ancora da tradurre nella pratica. La linea politica tendente a realizzare una presenza politica di carattere generale del sindacato, perso l'impeto di tempi ancora recenti, cerca oggi di affinarsi nell'articolazione dei rapporti con i soggetti istituzionali data l'insufficienza o addirittura la verificata inconsistenza della contraparte « governo »: ha detto Luciano Lama ad un Comitato direttivo della CGIL (gennaio 1973) che la CGIL e il movimento sindacale « do-


54 vrebbero perseguire una qualitativa estensione dei loro rapporti non solo col Governo, ma anche con il Parlamento e con i partiti ( ... ) Negli ultimi anni i rapporti col Governo sono stati abbastanza organici, anche se quasi sempre deludenti e sterili nei risultati; col Parlamento e ancor più con i partiti, invece, i sindacati hanno agito con eccessiva frammentarietà e timidezza, per la preoccupazione presente in una parte del movimento che su quest'ultimo fronte sarebbe facilmente ve-

nuta alla luce la fragilità dell'autonomia sindacale ». Ma soprattutto tale linea politica confederale sembra tesa, in questo momento, ad accreditarsi presso l« opinione pubblica » come strumento autonomo ma efficace ed indispensabile per la mediazione e il contenimento delle spinte corporative. A quanto fin qui osservato può farsi una obiezione: che io schematismo sia eccessivo e si faccia riferimento troppo indifferenziato alle confederazioni come se queste avessero politiche identiche. Il che non è vero. Ma in questa sommaria ricognizione un procedimento così riduttivo ci sembra giustificato anche perchè riteniamo sufficiente come elemento di omogeneità, almeno in riferimento al processo esaminato, la natura stessa di istanza di secondo grado o di « vertice » che la confederazione o centrale sindacale ha confronto al fenomeno complessivo dell'associazionismo dei lavoratori. D'altra parte, le dif ferenze che ovviamente ci sono e pesano andrebbero colte nei particolari, ricostruite nell'analisi: altrimenti si rischia di sopravvalutare le differenze ideologiche, alla fine più facili a cogliersi come elemento differenziatore di carattere generale (si pensi alla polemica sul « pansidacalismo » che è stata caratteristica ideologica soprattutto di alcuni settori della CISL; una polemica molto più concentrata sulle dichiarazioni di principio che sulle concrete modificazioni dell'azione e delle strutture sindacali eventualmente derivate da tali presupposti ideologici).

I sindacati di categoria: la presenza politica dei metalmeccanici. VENIAMO AL SECONDO MODO D'ESSERE,

o meglio alla seconda linea politica del sindacato che si è andata esprimendo negli anni sessanta e che abbiamo detto può essere riferita soprattutto ai sindacati di categoria. Forse, converrebbe parlare di « seconda vicenda » del potere sindacale, che è poi quella più ricca di motivi innovativi e in sostanza è all'origine, come elemento di spinta e d'emulazione, di quella precedentemente esaminata. Anche in questo caso c'è, all'inizio, la spinta dell'innovazione tecnologica introdotta sul piano dell'organizzazione del lavoro nell'ultima fase del « miracolo » economico; soprattutto per il modo in cui il fenomeno fu percepito e raccolto dai quadri sindacali. Ed è qui che ha giocato soprattutto la presenza di diversi atteggiamenti ideologici all'interno del mondo sindacale. Si vuol dire che al fondo dell'orientamento aziendalista che caratterizza, via via rafforzandosi, il sindacato di categoria c'è anche la vicenda, per qualche aspetto paradossale, di alcuni settori della CISL e soprattutto della FIM. Una vicenda assai discussa e che ormai è nota; comunque, l'hanno raccontata con equilibrio Gian Primo Cella e Bruno Manghi nel sag-

gio Dall'associazione alla classe: una interpretazione dell'esperienza FIM-CISL nel decennio '60 (nel libro collettaneo dal titolo omonimo edito da De Donato, 1972). In sostanza s'è trattato di questo: un atteggiamento ideologico (di matrice cattolica) e dei riferimenti culturali (tratti dall'esperienza e dalla letteratura anglosassone) diversi da quelli più tradizionalmente propri del movimento operaio italiano hanno consentito di cogliere e di approfittare con più speditezza delle opportunità che una situazione economica e sociale profondamente mutata offriva per rinnovare la presenza sindacale. 0 forse,


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se vogliamo, lo spessore modesto, l'inconsistenza in definitiva di quel bagaglio ideologico-culturale hanno costituito il punto debole perchè le novità delle trasformazioni economiche e sociali facessero breccia più facilmente negli schemi costituiti dell'azione sindacale. Che poi ciò abbia avuto come risultato di bruciare lo stesso senso paragovernativo e di appoggio collaterale al mondo cattolico che quel sindacato aveva è un fatto in fin dei conti secondario (anche se, come abbiamo detto, apparentemente paradossale), perchè è un fatto scontato tutte le volte che il sindacato recuperi l'energia, naturalmente antagonistica, dei movimenti che trovano radici e si sviluppano in una dinamica realtà di classe. Qui comunque il caso non interessa poi molto nella sua specificità: anche perchè, al di là di ogni differenziazione d'origine e di cronaca, il fatto di maggior rilievo è la sostanziale omogeneità via via acquisita dai sindacati dei metalmeccanici sì da farne, in ragione dei contenuti fortemente innovativi, un prototipo dell'unità sindacale. Il punto, comunque, che va ribadito è il rilievo avuto in tale vicenda dalle modificazioni introdotte nell'organizzazione del lavoro: l'« innovazione tecnologica » nell'industria meccanica, ma in genere in tutti i settori di base (si veda l'indagine della SORIS per il convegno del Club Turati e dell'ENI su innovazione e strategia dello sviluppo industriale; gli atti sono stati pubblicati nel

1971) è stata prevalentemente una « innovazione sui processi » tendente ad accentuare la meccanizzazione e la riduzione dei tempi di lavorazione. Ma quali elementi hanno caratterizzato la linea del sindacato di categoria? Richiamiamoli in breve. Sono: - il privilegio della contrattazione su ogni altro strumento d'intervento (è l'esaltazione del « contratto » come fonte del diritto del lavoro. Vale ricordare che il carattere accentuatamerite extra-legislativo di tale

importante settore della realtà giuridica è stato e continua ad essere motivo di notevole innovazione nell'ambito stesso delle categorie concettuali dei giuristi); - lo svolgimento dell'attività contrattuale soprattutto a livello aziendale, intel-venendo nel vivo dell'organizzazione dell'impresa; - la tendenza a privile'giare i contenuti normativi rispetto a quelli puramente salariali; - il rifiuto del coordinamento forzato dell'attività contrattuale con il conseguente rifiuto della divisione dei compiti fra confederazioni e sindacati di categoria nei termini più tradizionali. Questo per segnalarè gli aspetti più diettamente incidenti sulla realtà istituzionale; altri ugualmente importanti riguardano la composizione del sindacato, il ringiovanimento dei quadri, l'innovazione delle forme di lotta.

Sindacati e programmazione. SUL RAPPORTO FRA AZIONE SINDACALE

e meccanismi istituzionali di programmazione, quali furono ipotizzati negli anni scorsi occorre riprendere, a questo punto, i cenni già fatti in precedenza. Diciamo pure che la linea aziendalistica del sindacato di categoria non è stata nè può esere intesa come una reale alternativa alla linea delle centrali confederali. Certo però, proprio in ragione delle sue radici nel concreto la linea dei sindacati di categoria è stata, l'abbiamo già notato, l'elemento caratterizzante della presenza sindacale negli ultimi anni, insomma il polo traente. Ecco, allora un fenomeno ad andamento divaricato. Il sistema politico negli anni 60 tenta di concentrarsi sul tema della programmazione nazionale che, a parte le prediche e le «sfide» proclamate con l'occasione, è di per sè (e comunque così è stato inteso) un processo di opzioni generali


56 tendente alla semplificazione delle « priorità» e necessariamente bisognoso come interlocutori, dii parti sociali di sicura riconoscibilità, cioè con vertici unitari ed acentrabi. Beninteso, il sistema pclitico o meglio il sistema di governo, cercava con ciò di unificare sè stesso o quantomeno cercava di darsi un'apparenza di unità per 'poi continuare a scaricare al di fuori di sè le proprie incapacità di mediazione politica, da tempo supplita da una mediazione degli interessi operante sulla scala del breve o brevissimo periodo. Ora, quei sindacato che veniva ad esser convocato al tavlo della programmazione era un sindacato che si stava muovendo non lungo la linea dell'accentramento ma lungo quella del decentramento ed era proprio attraverso questa linea che ritrovava un crescente peso di soggetto collettivo di massa. Sicchè la chiamata in causa del sindacato era fatta astrattamente o moralisticamente, o, peggio intendeva privilegiare l'istanza accentrata del 'sindacat9: che era però l'istanza debole (se non altro perchè, uscendo da una lunga pariaboa di presenza sindacale debole nella scena nazionale - il 'sindacato degli anni 50 -' le istanze confederali non avevano interesse a bloccare il processo di rinnovamento del sindacato nè comunque erano in grado dl frenarlo in misura apprezzabile). Del resto, siccome tutta la proposta istituzionale della programmazione si riduceva all'invito a sedere intorno a qualche tavolo di ministero, sarebbe stata piuttosto singolare per il sindacato una accentuata disponibilità « pro grammatoria ».

Ambiguo aziendalismo nel pubblico impiego. ANCORA SUL TEMA DEI RAPPORTI fra

orientamento aziendalista e meccanismi istituzionali statali va fatta un'altra osservazione. E proprio per confermare la dif-

fusione di quest'orientamento già in epoca che oggi possiamo considerare lontana e in ogni caso precedente ai comportamenti 'emulativi provocati dalla contestazione del 68-69. Vogliamo riferirci ai fatto che 'suggestioni molteplici verso l'aziendalismo erano presenti, e venivano apertamente teorizzati, nei sindacati del pubblico impiego. Nella prima metà degli anni sessanta, ad esempio, fu sulla linea di un tentativo di articolare amministrazione per amministrazione ed ente per ente la trattativa sindacale, alla scoperta delle pieghe di bilancio di ogni soggetto istituzionale, che si ricercarono aumenti salariali ed incentivi economici da parte non solo dei sindacati autonomi ma anche di quelli facenti capo alle confederazioni. Erano anni che ancora non avevano visto l'esplosione delle tendenze che avrebbero fatto vigoreggiare 'la « giungla retributiva »: sicchè il caso può essere citato per ricordare l'a forza che aveva l'orientamento azienda'lista (anche in ragione dell'allora ancor viva concorrenzia'lità fra i diversi sindacati confederali) e che ne consentiva un'applicazione alla fine acritica 'nei settori ove erano già tutte presenti 'le premesse per una cattura corporativa senza rimedi di un siffatto orientamento (questo è solo un cenno: il problema dell'azione e delle strutture sindacali quali si sono realizzate 'nell'ultimo decennio nei settori del pubblico impiego e dei servizi vuole un ampio discorso a sè).

I sindacati e la classe operaia. SAREBBE PROFONDAMENTE ERRONEO limitare ad una schematica rappresentazione delle due linee politiche del sindacato la portata e il senso dei mutamenti intervenuti a caratterizzare la presenza sindacale sulla scena politica italiana. Perchè il senso più profondo, o meglio la molla di questi mutamenti è nella condizione oggettiva e soggettiva della classe operaia. Cioè


57 è sul rapporto con questa, un rapporto messo in questione e in 'larga misura rifondato, che deve proseguire la ricognizione. Il fatto, a dire in breve, è che il volto della classe operaia è cambiato accentuandosi via via la crisi storica della presenza nel processo produttivo dell'operaio professionale, o specializzato, e diffondendosi in misura sempre più ampia quella dell'operaio comune o, com'è stato chiamato, dell'operaio-massa. La organizzazione del lavoro fondata sulla « linea» e l'automazione hanno fatto crescere fino a farlo divenire prevalente, questo tipo di operaio. È una classe così composta che, migliorata la situazione del mercato lavoro, prende a muoversi (giì si è accennato al processo), è in grado di porsi obiettivi di lotta specifici di fabbrica e di reparto cioè nella sede della sua quotidiana e vissuta esperienza, e fa esplodere in alcuni momenti tutta la rabbia di una condizione di vita che rimane totalmente subalterna ad una logica governata da altri. Al di fuori di questa realtà, che è poi quella degli «soavalcamenti » del sindacato da parte della base, dell'aumentata « rigidità » del lavoro e in breve di una nuova capacità d'espressione dell'« autonomia » operaia, il problema del sindacato nella sua storia recente e, con ogni probabilità, nel suo futuro più vicino rimarrebbe posto a mezz'aria. Ora, a trovarsi direttamente di fronte a questa realtì è proprio il sindacato di categoria. È questo che in certe situazioni è apparso in condizioni da consentire a qualcuno di dire: «il sindacato stava lì per lì per morire; è una verità letterale ». In realtà, questa è soltanto una battuta. Infatti, per i sindacati di categoria (e tutti abbiamo in mente soprattutto i metalmeccanici, magari in un'immagine troppo unitaria, quando proprio a questo riguardo andrebbero distinti e diversamente valutati gli apporti delle varie componenti) non si è trattato di compiere un'opera di tailonamento ex post di questa realtà, al contra-

rio, essi sono stati spesso in grado di anticiparla. Comunque, è in questo contesto che sorgono e si sviluppano le nuove forme di rappresentanza o di presenza organizzativa degli operai: assemblee, consigli di fabbrica, delegati, esecutivi. Nuove forme che non sono toal court sindacali nè lo sono completamente diventate dopo 'l'opera di stiruzionalizzazione di tali organi che i sindacati hanno realizzato: essi infatti sono espressione non dei soli operai sindacalizzati, ma anche e soprattutto degli operai non « iscritti », all'organizzazione sindacale, i delegati sono eletti per 'lo più con « scheda bianca» cioè senza designazione dei candidati da parte dei sindacati, e costituiscono perciò, organi veri o potenziali dell'autonomia operaia, elementi di rapporti spesso fortemente dialettici, se non conflittuali; con gli stessi sindacati.

Problemi aperti e temi d'analisi. FERMANDO ALLE OSSERVAZIONI FIN

la ricognizione in ordine sistematico delle principali tendenze emerse nella recente trasformazione del sindacato, bisognà aggiungere qualche considerazione su alcune contraddizioni e su 'alcuni problemi aperti. Innanzitutto occorre soffermarsi su tre punti riguardanti i rapporti del sindacato con: la realtà sociale delle classi, il sistema politico, i meccanismi 'istituzionali. QUI FATTE

Il primo tipo di rapporti ha importanza fondamentale ed è tema che non può essere eluso; è il problema dell'« interclassismo » del sindacato. I sindacati sono organi di rappresentanza dei « lavoratori » e questi non appartengono tutti alla stesa classe sociale, perchè non solo sono diversamente collocati negli strati di reddito ma anche e soprattutto perchè sono diversamente collocati nel processo pwduttivo. Anzi, molti lavoratori in Italia sono addetti a lavoro « improduttivo ». Non è dunque solo il problema tradizionale

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58 del rapporto fra operai e impiegati che nell'ambito delle categorie produttive è stato affrontato con un avvio di logica egualitaria attraverso la prima grande introduzione dell'inquadramento unico. È il problema di come possa realizzarsi un'egemonia dei lavoratori produttivi che si dia carico dell'intero arco dei rapporti di lavoro nei settori improduttivi, senza cedere alla tradizionale perm'issività della 'sinistra e delle confederazioni a che ogni categoria giochi indiscriminatamente la sua carta rivendicativa.

e della mobilitazione di forze e quadri sindacali le stesse scadenze contrattuali: tanto più che il « contratto» è sempre in maggior misura inteso come un complesso di rapporti da gestire, cioè attuare e controllare, e dunque da non poter definire ed esaurire in un dato momento. Insomma il dopocontratto è divenuto importante come il contratto stesso. Sul piano legislativo, lo « statuto dei lavoratori », che è anche e soprattutto lo statuto dell'azione sindacale, ha costituito la novità principale della non abbondante legislazione di riforma' del centro-sinistra ed ha dato alla presenza del sindacato garanzie nuove ed efficaci. Non a caso c'è molta attenzione sull'attuazione dello statuto: il ruolo che questo sta avendo nell'instaurazione di diverse relazioni 'industriali è notevole. Inoltre, notevole è la forza diffusiva anche nei settori del pubblico impiego. Nè va dimenticato lo spazio che lo statuto offre ad una diversa funzione degli organi di magistratura nella 'sessa realtà 'sociale, essendo stati coinvolti nella sua attuazione soprattutto i pretori, cioè un'istanza giurisdizionale che s'è dimostrata abbastanza aperta ad atteggiamenti culturali nuovi.

Un secondo aspetto da considerare è quello del rapporto fra sindacato e sistema politico. Non basta a questo riguardo porre• il problema in termini di rapporti fra sindacati e partiti e in termini di eteronomia o autonomia del sindacato nei confronti di questi. Occorre anche considerare come la presenza sindacale sulla scena politica italiana sia influenzata dai dati costitutivi di questo sistema e principalmente dal suo patto di base. Quale condizione, quale spazio è stato fatto al sindacato da quella particolare configurazione del patto sul quale il sistema è fondato e che in altra nota pubblicata su queste pagine Alberto Benzoni definisce come « 'schema cli intesa tacito che però esclude si possa arrivare, Temi di decisione per l'azione sindanel futuro prevedibile, ad una collaboracale. zione esplicita e piena: l'intesa DC/PCI come 'accordo di comportamento' tipo ABBIAMO ESAMINATO ALCUNI QUESITI Nixon-Breznev »? Qui basta porre il pro- concernenti l'evoluzione della presenza sinblema. dacale oggi e nel futuro più o meno prossimo. E 'sono problemi non 'solo di orienInfine viene il problema del rilievo che tamento generale e che vogliono, da parte hanno sullo sviluppo del potere sindacale i dell'osservatore, un'attenzione interpretativa momenti e i meccanismi istituzionali. Mo- costante dei modi di essere e delle consementi e meccanismi che appartengono, sul guenze finali dell'azione sindacale, ma che piano delle caratteristiche giuridiche e delle si traducono in oggetto di decisione specifonti di diritto, a due distinti sistemi: quello fica per i sindacati. legislativo e quello contrattuale. A proposito Si possono elencare e poi rapidamente di quest'ultimo "è evidente il carattere' di commentare quattro temi di decisione che volano che hanno avuto su1 piano delle lotte sono di fronte all'azione sindacale: l'uso e


WM «movimento» un'accentuata conflittualità, certo rinnovata nei mezzi per via d'emulazione, ma che raramente ha avuto motivazioni e sbocchi di natura politica. Si'cchè, oggi, l'allarme di cui s'è detto, ha molto il carattere di un allarme dato quando i fatti sono compiuti: non solo la «giungla retributiva » è da tempo una realtà, ma le condizioni di potere che la fondano sono ben difficili oggi da rimuovere. Del resto, il sindacalismo autonomo ha sempre Contrattazione e « giungla retributiva ». potuto usare congiuntamente gli strumenti della pressione sindacale e quelli delle maL'attuale diffuso allarme contro le spinte corporative soprattutto del pubblico impie- novre di corridoio, del lobbying ministeriale e di partito. Non a caso il partito go e dei sindacati autonomi giustamente ribattezzati come quelli del «prendi i soldi e di governo è, come risulta da una recente soappa », costituisce uno degli esempi più indagine del responsabile dello stesso ufficio organizzativo della DC, un partito preevidenti delle molte incapacità di previsione valentemente di impiegati pubblici. delle forze politiche e sindacali della siIl problema di mia più efficace padronistra. La « sinistra » laico-moderata rapnanza del settore da parte dei sindacati ad presentata dal PRI nel perorare la poegemonia di classe vuole innanzitutto una litica dei redditi ha sì avvisato sui pericoli soluzione istituzionale di ricomposizione deldel caotaggio corporativo, ma sempre alla le parti contrattuali e delle procedure di fine s'è trovata, a fare un'indiscriminata polecontrattazione. Quelle parti contrattuali e mica antisindacale, spesso tanto più forte quanto più chiara era la fisionomia operaia quelle procedure che nel settore del lavoro del sindacato. Sicchè la predica anticorpora- produttivo sono identificabili in ragione dell'assetto industriale capitalistico. In realtà, tiva, minata d'altra parte dal corporativismo della teorica degli incontri triangolari, le parti contrattuali vanno ricomposte su tutti e due' i lati:. sul lato del datore di non ha avuto alcuna lucidità. I sindacati lavoro (chi ha oggi la responsabilità delle confederali e i partiti di sinistra, in ragione «scelte » di politica del personale: i sindel loro latente interciassismo, hanno mogoli ministri volta a volta interessati, il strato, già s'è notato, una generica e naturale consiglio dei ministri,, le commissioni parladisposizione favorevole all'azione rivendicatimentari, o come soggetto di freno pro-temva tout court. In ciò magari costrette dal successo dell'azione del personale « direttivo » pore all'esborso finanziario il tesoro? e chi, (più potente e pronto ad organizzarsi in in quale maniera ricostruisce, misura e presindacati-gruppi di pressione paragovernativi vede nel dettaglio la molteplicità delle sie programmaticamente contrari a sindacati tuazioni normative e retributive del pubunitari) a rincorrere i livelli di remuneblico impiego?) e su quello dei lavoratori razione acquisiti appunto dai gradi alti (come contenere le spinte all'autonomismo?). o medio-alti. Senza dire della concorrenI 'sindacati devono darsi carico delle due zialità dei sindacati autonomi. Infine, ai facce del problema dato che sindacalismo gruppi della contestazione non è mancato autonomo e frammentazione del potere pub'l'abbaglio di intendere come diffusione del blico 'sono fenomeni speculari.

il controllo della contrattazione ai fini di una linea egualitaria che freni la logica corporativa della « giungla retributiva », il recupero e il rinnovamento delle strutture territoriali per le lotte sociali, la gestione degli apparati pubblici (soprattutto della previdenza sociale) che è stata più ampiamente affidata ai sindacati in questi ultimi anni, l'impossibilità di tenere circoscritta all'ambito nazionale l'azione sindacale.


60 Più in generale, i sindacati sono di fronte alla necessità di recuperare un orientamento' egalitario 'in materia di trattamenti di previdenza. La legge n. 153 del 1969 sulle pensioni, per la cui approvazione ebbe decisiva importanza l'iazione sindacale, ha concesso indistintamente un aumento del 10% per tutti i pensionati dell'INPS: il che per i più ha significato aumenti irrisori mentre ha accentuato il privilegio dei precettori delle pensionui più elevate. Fra le osservazioni più convincenti di Ermanno Gorrieri

nel suo libro sulla Giungla retributiva (un libro ottimo e provocatorio nel fotografare la situazione, silenzioso e reticente nell'indicare la genesi), ci sono alcune osservazionii critiche sull'impostazione stessa della 'legge del 69: che appunto « non si pone affatto come obiettivo primario quello di una generale e sostanziale perequazione del trattamento dei pensionati ». Non è solo il fatto che ci si è preoccupati dei futuri pensionati, cioè di quelli che attualmente sono ancora in servizio, piuttosto che degli attuali pensionati; è che si è ulteriormente rafforzato il principio della c. d. « pensione retributiva »: agganciando l'ammontare della pensione al livello retributivo degli ultimi anni della carriera retributiva, si è cioè operata « di fatto un'ennesima discriminazione a danno degli operai e a vantaggio dei ceri impiegatizi ».

Recupero e rinnovamento delle strutture territoriali. Nella tradizione sindacale italiana le strutture che hanno fatto da connettivo sono state sempre orizzontali e territoriali (le camere del lavoro). Ma sono queste strutture che s'erano andate intorpidendo e trasformando in centri burocratici. Il risveglio sindacale, s'è visto, è stato all'insegna soprattutto dell'orientamento aziendaljsta e del radicamento in fabbrica: i nuovi statut,j di rappresentanza operaia sono nati in questo contesto.

L'apertura delle « vertenze sociali », di cui si è parlato nei mesi scorsi non solo per garantire le conqu'iste contrattuali sul piano delle strutture e delle infrastrutture esterne alla fabbrica ma come 'scelta per le « riform'e », ha riproposto collegamenti organizzativi sul territorio. C'è chi vorrebbe in tal modo « generalizzare » i motivi e gli obiettivi della lotta operaia cioè in sostanza realizzare un nuovo modo di aggregazione politica. Ma la crisi dei nuovi organismi di fabbrica che è anche una crisi dei modi e delle procedure di funzionamento e dei rapporti fra le diverse istanze che si sono realizzate (delegati, consigli, esecutivi) ha reso difficile ed ha assai rallentato la realizzazione e la diffusione dei consigli di zona. Questii comunque appaiono una sede importante non tanto per forme di generica mobiitazione sul tema delle riforme quanto per il tallonamento e il controllo sui servizi sociali che gli apparati istituzionali pubblici sono chiamati a realizzare in loco. Se si considera, per esempio, la prospettiva del rapporto con le regioni per i 'problemi di attuazione del « diritto allo studio » (v. nelle pagine seguenti la nota sulle 150 ore), il recupero di dinamiche strutture territoriali assume rilievo decisivo.

La gestione sindacale degli apparati pubblici L'evoluzione normativa vutasi nel periodo del centro-siistra ha visto ampliare la presexiza dei 'sindacati nei consigli di amministrazione e in altri organi di enti nazionali e locali, soprattutto nel campo della previdenza sociale. Per tutti vale l'esempio dell'INPS, la cui struttura organica, modificata con il decreto delegato del 30 aprile 1970 (D.P.R. n. 639), vede l'assoluta prevalenza dei rappresentanti dei lavoratori nei confronti dei rappresentanti dei datori di lavoro negli organi collegiali sia centrali che provinciali e regiona'li (per esempio nel Consiglio di amministrazione siedono 18 rap-


61 presentanti sindacali contro 9 rappresentanti dei datori di lavoro e 3 rappresentanti ministeriali). In pratica - come si osserva negli stessi « Temi per il dibattito dell'VIli Congresso della CGIL» - s'è verificato a questo riguardo « un mutamento sostanziale, rispetto a qualche anno f, di alcuni compiti del sindacato ». È un mutamento di cui sarebbe necessario dare compiuto apprezzamento in riferimento alla sua genesi, alle sue motivazioni e soprattutto alle sue conseguenze. Certo, nell'ambito stesso del sindacato alcune voci critiche si sono levate nei confronti di questa gestione o controllo diretto delle amministrazioni previdenziali. Molti hanno sostenuto che in tal modo rischia di venire meno una delle garanzie che «il sindacato adempia correttamente alle proprie funzioni rivendicative e di critica sociale senza assumersi responsabilità che non gli competono o peggio senza subordinare a queste lo svolgimento di quelle » (così Tiziano Treu: Sicurezza sociale e partecipazione, in Rivista di diritto del lavoro, 1970). In ogni caso, come affermano i citati « Temi » congressuali della CGIL, « occorre definire le misure di incompatibilità tra incarichi di direzione operativa negli enti e compiti di direzione operativa nel sindacato ». Ma ciò non basterà a garantire l'azione sindacale dagli effetti negativi delle aspettative « di carriera » dei suoi quadri: devono perciò essere messi in questione, per lo meno, e ridefiniti i meccanismi di selezione e di designazione di tali rappresentanti.

Necessità di un ambito internazionale per l'azione sindacale. Pur nella profonda novità che caratterizza la presenza sindacale nel nostro paese, una tendenza, tarda ad affiorare: quella allo stabilimento di stretti collegamenti operativi con le istanze sindacali e operaie degli altri paesi europei. La prudenza dei sindacati verso la realtà europea ha le sue buone ragioni se si tiene

conto della 'logica dell'integrazione cui s'ispirano molti sindacati europei e dello stato attuale della comunità degli eurocrati. Il problema si pone in termini di capacità di iniziativa per l'espansione e il potenziamento dell'innovazione sindacale. Quel che preme è la realtà delle grandi imprese mufunazionali, una realtà che coinvolge tutte le strutture economiche nazionali. Nè può invocarsi al riguardo una certa « arretratezza» italiana per cui le grandi imprese non hanno ancora e non hanno tutte precisi legami ed evidenti dipendenze multinazionali. È che anche nel nostro paese, mentre molte decisioni «pubbliche » che coinvolgono rapporti di lavoro ed occupazione non sono prese nelle sedi istituzionali nazionali (si considerino, ad esempio, le decisioni prese in sede CEE), molte decisioni « private » sono prese 'in lontane sedi geografiche e quindi 'sempre meno controllabili da governi nazionali (pur ammettendo che questi vogliano esercitare controlli); il capitalismo

d'organizzazione è capitalismo imperialista. Secondo Charles Levinson, segretario generale della Federazione internazionale dei sindacati chimici, « non si potrà attendere granchè dai poteri politici stabiliti entro i -prossimi dieci o vent'anni » (a meno che - va aggiunto - non si scateni il conffitto economico e commerciale fra gli Stati Uniti e gli altri paesi capitalisti). La politica delle affiliazioni internazionali dei sindacati, fondata finora su stanchi e inefficienti uffici di collegamento fra vertici ripartiti per affinità ideologiche e appartenenze ai diversi campi politici internazionali, comincia ad essere rimessa in questione. Ma solo la creazione di consigli unitari delle imprese multinazionali e di categorie omogenee potrà attivare una diversa presenza sindacale sui piano europeo.

Sergio Ristuccia


SISTEMA POLITICO INTERNAZIONALE

cos' è la perdita di sovranità. LA POLITICA INTEhNAZIONALE di un paese ha oggi due compenenti sempre più distinte: una recessiva e una in sviluppo. Possiamo definire come componente recessiva la politica diplomatica, una politica che si qualifica attraverso gli atti che pone in essere (accordi bilaterali) e per la preponderanza dello strumento diplomatico su quello politico e, in misura minore, per il contenuto, codificato in una tipologia di accordi abbastanza ristretta. Le relazioni internazionali in questo dopoguerra hanno avuto però uno sviluppo tale da rendere inadeguata la strumentazione tradizionale, ed hanno visto il sorgere di organizzazioni internazionali di vario tipo, con vari poteri che vanno dalla semplice raccomandazione ad un vero e proprio potere legislativo con efficacia diretta nei vari stati. Alle trattative bliaterali di contenuto relativamente semplice si sono sostituite laboriose trattative di contenuto altamente specializzato tra un numero sempre maggi6re di paesi e che incidono profondamente nella struttura economica dei paese. L'enorme ampliamento dei contenuto della trattativa internazionale fa si che essa non può più essere considerata un settore della politica dotato di problemi propri e di propri metodi, gelosamente custoditi da un personale specializzato, dotato cioè di una forte autonomia tecnica nei riguardi del resto dell'amministrazione e delila stessa classe politica. Al contrario la politica internazionale è sempre di più 'la dimensione della intera politica, il livello ai quale soi-

tanto possono essere impostati correttamente problemi comunemente qualificati come interni. LE PROFONDE MODIFICAZIONI subite nel secondo dopoguerra dal sistema politico internazionale sono avvenute in parallelo con lo sviluppo del commercio internazionale e dell'economia industriale. Per citare solo qualche dato quantitativo nel decennio '58-'69 le esportazioni mondiali sono aumentate del 131% (8% 'l'anno), e quelle intracomunitarie del 232% (11% l'anno) e quelle italiane del 351% (14,7% l'anno). I rapporti commerciali dell'Italia con i paesi CEE sono aumentati del 650% (20% l'anno) passando dal 28% iall 40,5%. Ma più 'interessante è il fatto che i'import-export rispetto al prodotto 'lordo (a prezzi 1963) è passato dal 14,2% nel 1952 al 48,4% nel 1971. Analogamente. indicativi i dati relativi agli investimenti esteri che si possono definire come uno spostamento d'ella concorrenza dai prodotti ai fattori di produzione. Secondo autoreveli stime nell'insieme dei paesi occidentali i'l valore contabile delle proprietà estere di imprese industriali ammonterebbe nel 1970 a_circa 150 miliardi di dollari (di cui 78 a controllo USA). Nel 1964 tale valore era stimato pari a 85 miliardi di dollari e nel 1966 a 90 miliardi di dollari. Ciò significa che gli investimenti èsteri diretti (americani e non) si stanno accrescendo ad un ritmo prossimo 'ai 12% annuo, nettamente superiore sia al tasso' di espansione del PNL mondiale (50% annuo


63 circa) che a quello del commercio internazionale (8% circa). Ipotizzando il mantenimento degli attuali tassi di sviluppo il PNL dell'area occidentale raggiungerebbe i .4.000 miliardi di dollari nel 1990; di tale prodotto circa la metà sarebbe fornita da fihiali estere cli imprese mukinazionali. Non si è trattato di sviluppi non voiuti poichè essi erano in qualche modo la realizzazione di quella concezione che - in opposizione allo stato totalitario - vcleva le società aperte tra di loro ad evitare che la conflittualità economica s'i trasformasse immediatamente in conflittualità politica. Parallelamente a questo sviluppo (a proposito del quale si parla di « internazionalizzazione dell'economia ») se ne svolgeva un altro legato al superamento di alcuni schemi tipici dello stato liberale, la cui proclamata neutralità nei confronti dell'economia non era sufficiente a garantire un rapido sviluppo economico nè tantomeno a rispondere alla richiesta di una diversa distribuzione sociale e geografica del reddito. Na:sce così lo stato della programmazione intendendo con esso una realtà economica che andava al di 'là delle dottrine proclamate dalle elassi dirigenti, dottrine che talvolta continuavano ad essere istericamente liberiste. QUESTO DUPLICE ORDINE DI CAMBIAMEN-

- l'internazionalizzazione dell'economia e il passaggio dallo stato liberista a quello della programmazione - ha come conseguenza la non corrispondenza tra quadro economico e quadro pdii.tico, corrispondenza che invece è alla base del concetto stesso di programmazione. Questa situazione ad esempio è stata denunciata esplicitamente dail Canada. Con riferimento al fatto che il 45% deil prodotto lordo del settore manifatturiero è contrdllato da imprese americane, un documento ufficiale del 1968 denunciava che «la tenTI

denza a trasferire fuori del Canada, tramite l'investimento diretto, i poteri decisionali del settore industriale privato ha posto gravi problemi ai responsabili della politica economica canadese creando un generalizzato senso cli disagio nella olasse dirigente politica e industriale del paese. Ci si può chiedere se questo stato di cose non metta in pericolo l'esistenza stessa del Canada come nazione indipendente ». I dibattiti che in questi ultimi anni si sono svolti sull'argomento. hanno spesso puntato sulla parola « desovranizzazione ». Ma si tratta di un termine fuorviante perchè rinvia ad uno stato maggiormente « sovrano », mentre un Luigi XIV impallidirebbe di invidia cli fronte al più liberista degli stati contemporanei. Non dunque di desovranizzazione si tratta ma di impossibilità di una maggiore sovranità nazionale, rispetto al sistema economico. I nuovi contenuti della pelitica internazionale 'non sono che il tentativo di ristabilire a un qualche livilo - o meglio a diversi 'livelli - la corrispondenza tra sistema economico e sisteina politico. Di qui deriva il carattere recessivo della diplomazia tradizionale e il peso preponderante delle trattative multilaterali (UNCTAD, Kennedy Round, ... ) rispetto a quelle bilaterali. Di qui l'importanza assunta dalle organizzazioni internazionali tra le quali un particelare vigore vanno assumendo quelle reionaii a competenza globale o per lo meno molto ampia, come la CEE e il COMECON. Di qui per altro verso un cambiamento nel concetto stesso di programmazione interna a cui ci dovremo progressivamente abituare pensando ad essa come a qualcosa di attuabile sdlo nell'ambito cli una politica internazionale, mentre correlativamente dovremo pensare alla politica internazionale come a qualcosa che è già programmaziòne interna. Dal momento che oggi si ritiene che la

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programmazione - intesa in senso lato sia il compito primario di ogni organizzazione politica, ne derivano importanti conseguenze sulla definizione dello stesso sistema politico. Le strutture décisionali tradizionali immerse nel sistema internazionale hanno subìto in una certa misura un processo di dlissociazi6ne elettrlidca dando luogo a viarietà estremamente più differenziate anche se spesso meno stabiili. Si può dire insomma che il rapporto tra sistema politico nazionale e sistema politico internazionale ha subìto profondi mutamenti a favore di quest'ultimo. MA QUEST'ULTIMA FORMULAZIONE merita qualche precisazione. Sul filo del nostro discorso il sistema politico internazionale risulta essere un concetto residuale, e quindi estremamente differenziato al suo interno, che richiede una qualche sistemazione. Tralasciando gli schemi giuridici, possiamo distinguere nel suo ambito sistemi che determinano autentiche deleghe di potere a organismi sovranazionali (e tale è il caso della Comunità Economica Europea) e sistemi che operano più al mntenimento ed al perfezionamento di certe strutture portanti déll'economia mondiale che all'intervento diretto sui meccanismi nazionali di decisione. Questi ultimi sistemi, in altre parole, sono più attenti al medio e lungo termine che alle situazioni congiunturali e quindi il condizionamento che essi comportano è riscontrabile più sul piano macroeconomico della scelta obbligata di alcune opizioni fondamentali (libero scambio, converribilità) che in relazioni a vincoli giuridici assunti con i vari organismi di cooperazione (interessanti al proposito le indicazioni di B. COLLE e T. GAMBINI, La.sovranità economica limitata, IAI - Il Mulino, 1972, un libro sul quale si potrà tornare). Le conseguenze delle ripercussioni del sistema politico internazionale su quello nazionale possono così essere verificate a li-

vdlo delle deleghe di potere (quali sono tali deleghe, attraverso quali meccanismi si inseriscono nel sistema decisionale interno, con quale efficacia sul piano pratico, con quale consapevolezza sul piano teorico ecc.) a livello della limitazione delle 'scelte (per esempio in terna di politica monetaria, commerciale ecc.) e a liv1tlo della struttura de•cisionaie e di controllo democratico (in che modo una struttura decisionaffe politico-amministrativa costruita sull'ipotesi di un diverso rapporto tra sistema politico nazionale e 'sistema internazionale è adeguata alla nuova realtà, in che modo tale adeguamento sposta i termini del contrdllo democratico, ecc.). QUESTI IN GENERALE sono i temi che ci sforzeremo di analizzare 'proseguendo una rubrica sul « sistema politico internazionale ». Vogliamo però aggiungere a questo schema d'analisi una prima breve nota sul tema specifico del ruolo della CEE raccogliendo alcuni spunti di un % libro recente di

Sandro Gaudenzi (La CEE come ente di governo, Milano 1972). E ciò per sottolineare il rilievo del nostro oggetto d'analisi. Riflettendo sulla « normativa comunitaria direttamente applicabile» l'A. fa, seppure in termini di qualificazione giuridica, una corretta descrittiva del ruolo politico comunitario e dimostra come questo abbia superato ampiamente la soglia di quella capacità di cogenza che è propria di un ordinamento giuridico diffuso. Su un piano generale, c'è stata sempre la tendenza a risolvere ogni fenomeno di tipo federalistico nell'alternativa: stato decentrato - confederazione internazionale di stati. Certo, quanti «hanno esaminato con attenzione lo sviluppo storico del federalismo non hanno mancato di osservare come, sul piano della concreta azione degli enti, sia ingiustificato il tentativo di tracciare rigide frontiere, non solo a causa delle molteplici configurazioni di cui si trova sempre in presenza, ma anche perchè queste configurazioni sono mutevoli nel tempo, senza che possano con certezza individuarsi i vari punti in cui si situano i salti qualitativi. In realtà •tra le tipiche fasi confederale e federale si ritrova un continuum di situazioni in cui l'ente superiore passa da funzioni di coordinamento di tipo internazionalistico a funzioni che sono già di governo (dei cittadini), benchè esso non assurga ancora a dignità


65 di Stato. E già in queste fasi intermedie sussiste un ente centrale che esercita funzioni sottratte agli Stati (a presèindere da ogni cd. trasferimento di sovranità) e si producono alcune situazioni tipiche che si ritrovano poi nel federalismo compiuto ». Ora, proprio di questo si tratta nel caso della CEE, considerandolo in linea di fatto e di diritto: « senza essere uno Stato la Comunità esercita funzioni che la qualificano giuridicamente come ente di governo indipendente dagli Stati » [fenomeni tipici - nota Gaudenzi - di periodi transitori che occorre cogliere in tutta la loro portata anche se nei loro confronti i problemi definitori appaiono di secondaria importanza]. L'ordinamento comunitario è rilevante per tutti i soggetti che vi si trovano inseriti. La sola differenza rispetto agli ordinamenti statali consiste nella circostanza che, in quello comunitario, vi sono anche norme del Trattato ed atti di formazione secondaria che a causa della loro veste formale vanno eccettuati da questa rilevanza per tutti i soggetti e presentano una struttura analoga al diritto internazionale pattizio. Ma gran parte della normativa

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comunitaria è « direttamente applicabile e costituisce un fenomeno unitario - proprio perchè di tipo ordinamentale - all'interno del quale le suddivisioni possono giustificarsi solo se servono a mettere in evidenza differenze significative tra le varie categorie di norme ». Il punto importante della tesi di Gaudenzi che, sia pure centrata su questioni di qualificazione tec- nico-giuridica, ha capacità provocatorie sul piano della descrittiva politica, sta in questa affermazione: « il problema non consiste nello spiegare come divengano efficaci, sul piano nazionale, certe formule normative dP origine comunitaria; esso si riassume invece nel constatare che ivi sono operanti due ordinamenti, distinti benchè collegati » Cioè l'operatività dell'ordinamento comunitario non passa più e comunque non passa necessariamente per il tramite dell'ordinamento nazionale Una realtà non ancora chiara ai giuristi; certo assai poco chiara alle forze politiche.

Massimo Bonanni


MAGISTRATURA

autogoverno e ruolo sociale dei giudici 1. - La verifica che si deve compiere nei confronti della magistratura è forse fra 'le più complesse ma certo è esemplare per intendere la condizione e la natura attuale di quell'insieme di poteri che si chiamano « stato ». Certo, si tratta di una condizione che consente e vorremmo dire in qualche misura e legittima due diagnosi, o meglio due enunciati di carattere opposto: il primo che io stato sia «repressivo », con ciò intenden•dosi non l'ovvia constatazione che spetta all'apparato pubblico una funzione repressiva ma che oggi esso è repressivo più di ieri o che sia in grado di realizzare sdltanto questa sua funzione; il secondo che lo stato sia « 'inefficiente » con ciò intendendosi che oggi esso lo sia in maniera sempre maggiore e che pertanto non riesca a realizzare nemmeno la sua funzione « repressiva ». È vero che s'esprime anche e soprattutto nei giudizi sullo stato la diffusa 'labilità d'una percezione dei fenomeni sociali faciistica e fuor di controlli di metodo e di contenuto quale è alimentata dalle sottoculture deilè classi medie e dei movimenti politici che ne sono espressione. Ed è vero anche che per via di impressionismo e di idec4ogismo generico le due « diagnosi» possono essere variamente combinate. Qui si può partire da una diversa constatazione. Il « potere giudiziario » è quello occupato da uno strato di classe media notevolmente omogeneo nelle sue matrici, omogeneo cioè sia per quanto concerne le posizioni di partenza sul piano di reddito (medio-piccola borghesia) sia per quanto concerne l a formazione culturale

(netta predominanza dei formalismo giuridico) sia infine per l'estrazione 'geografica (prevalentemente meridionale). Ed è, la magistratura, il corpo statale in cui più si è esercitata la richiesta di « autogoverno » e in tanto s'è potuta realizzare, in quella misura in cui s'è realizzata, in quanto ha goduto ddia legittimazione derivante dai principi costituzionali che hanno suffragato i principi residui della teorica della separazione dei poteri. Quei che va compiuto è, appunto, la verifica di questo « autogoverno ». 2. - Una prima prospettiva d'analisi può muovere dal' tipo di meccanismo elettorale via via creato per gli organi di autogoverno. Si può notare che in un primo periodo il meccanismo è proporzionalistico e serve a eleggere i membri di un assetto di autogoverno depotenziato e molto vincolato dell'esecutivo (si consideri l'ordinamento del Consiglio Superiore della Magistratura dal 1958 al 1967). In un secondo momento all'organo di autogoverno sono concessi un maggiore spazio e un maggiore potere ma il meccanismo elettorale diviene maggioritario. La formazione dei gruppi politici all'interno della magistratura avviene nel primo periodo. Dopo una primissima fase di apparenti unanimismi associazionitici, non solo avviene la scissione fra 'le associazioni che ripete la prima elementare e magari rozza frattura fra i ruoli alti e i rudli intermedi e bassi della gerarchia giudiziaria, ma ancor più 'la costituzione delle correnti nell'ambito


67 dell'associazione nazionale magistrati secondo le naturali distinzioni politiche corrispondenti al contesto politico-culturale esterno. E questa logica di distinzione, nella sua sostanza naturale (ma ne dovrebbero essere niconsiderate le modalità di realizzazione), è stata in qualche modo favorita dal meccanismo proporzionale in quanto questo garantiva a tutti i gruppi una certa rappresentanza. Modificato il meccanismo elettorale, la logica del processo dii politicizzazione non è mutata: la conseguenza, sui piano della rappresentanza nel Consiglio Superiore, è quella delle elezioni del 1972 che hanno visto attii'buiti tutti i seggi al raggruppamento pciitico conservatore-moderato, anche se questo non arriva a rappresentare sul piano dei voti il 40 per cento dell'elettorato. Conclusione si deve dire non sorprendente, al contrario abbastanza ampiamente prevista, ma a cui non si è saputò porre rimedio per tempo: cioè, il cambiamento del meccanismo elettorale non ha frenato la frammentazione in atto nl campo delle forze « progressiste» della magistratura. Ne è risultato solo un motivo di rafforzamento del raggruppamento conservatore-moderato che del resto nel semplicismo dell'ideologia tradizionale della « neutralità » del giudice trova un'arma di facile uso, senza bisogno di troppo accentuate definizioni di gruppo e di linea.

3. - Per intendere le ragioni di questo processo di politicizzazione occorre tuttavia abbandonare la prospettiva de4lila meccanica elettorale (il cui più recente iter di modifica merita tuttavia un'esame per intendere la risposta che si volle dare con essa alle caratterizzazioni che il processo di politicizzazione della magistratura aveva assunto). La prospettiva diversa in cui vale a questo punto collocarsi è l'esame di quello che potremmo chiamare l'impatto dl fenomeno

del conflitto sociale e della contestazione con l'assetto funzionale-organizzativo e con il ba'gaglio culturale-ideologico della magistratura. La prima osservazione da fare è che il processo di politicizzazione è stato soggetto a spinte molto accentuate verso la radicalità, proprio nell'ambito del settore democratico ddla. magistratura. In tale processo la cosa che più spicca è come 'sia saltata ogni capacità di mediazione della cultura giuridica tradizionale, anche di quella più modernizzante. Che, del resto, se è andata centrando la sua attenzione sui problemi dell'organizzazione pubblica 'amministrativa e dell'organizzazione del lavoro, non 'sembra sia riuscita a toccare in eguale misura le problematiche del diritto repressivo in senso stretto: pubblica. sicurezza, ordinamento penale, organizzazione carceraria. In questo campo, se da una parte ha fatto progressi la prospettiva garantistica, attraverso una maggiore tutela dell'imputato soprattutto sotto l'aspetto dei diritti professionali della difesa (e ciò per opera della Corte costituzionale ma senza alcun adeguato e completo 'sbocco di riforma legislativa), dall'altra è esplosa, sul versante della cultura, non giuridica, la denuncia della realtà e del ruolo sociale delle istituzioni repressive. Non si può dire che fra l'una e l'altra cosa ci siano stati significativi raccordi. • Il contatto diretto con la realtà della emarginazione sociale interpretata dalla letteratura della protesta (fatta di indagini sociologiche, psichiatriche e di testimonianze) come un momento centrale della logica di difesa del sistema sociale capitalistico ha indotto 'in 'alcuni settori della magistratura, anche in ragione delle forti suggestioni ideologiche che ne nascevano, una coscienza accentuata delle contraddizioni di ruolo. Ne sono derivate voci di denuncia assai rile-' vanti; qualcuno ha scritto che proprio dalla magistratura sono stati espressi i maggiori' esempi di « intellettuale collettivo » della


68 classe operaia (G. Salierno, Il sottoproletanato in Italia, 1972, p. 27). - La denuncia dall'interno della magistratura era medita e proprio per questo è risultata efficace. Ma dalla denuncia non si è passati nè ad daborazioni di diversa teorica giuridica (in definitiva, a parte qualche spregiudicatezza pretorile, non si è fatto che girare intorno alle possibilitì dell'« interpretazione evolutiva ») nè a « consolidare » una prassi giurisprudenziale innovativa di peso consistente. Il che impedisce per ora di far fronte a quel modo di reagire a siffatto processo di poiiticizzazione che trova motivo psicologico e ideologico nell'evidente carattere estraneo e diciamo inaudito che il discorso sullo stato classista e suiio stato repressivo ha nei confronti della cultura giuridica. E del resto è sempre stata superficiale e generica la critica della portata autoritaria dei principi di certezza del diritto e di neutralità del giudice che, sia pure irrisi dai fatti, fondano tuttora una certa deontologia giudiziaria. Nè la critica allo « stato di diritto » nella quale confluiscono materiali di vario tipo, realistico-empirici come ideologico-ripetitivi, s'è molto giovata di questa esperienza. D'altra parte, la reazione a tale linea politica più radicale ha a propria disposizione per emarginare i magistrati dissenzienti gli strumenti che derivano dall'ordinamento giudiziario ben conservato nel suo assetto pre-còstituzionale. Quanto più tali strumenti sono stati utilizzati tanto più a loro volta hanno rafforzato la caratterizzazione protestataria e di « testimonianza » dei settori di sinistra della magistratura riducendone l'azione ad un'azione troppo « esterna ». - Ma qui bisogna tornare a consideraire i dati istituzionali rilevando come un capitolo fondamentale dell'inattuiazione costituzionale sia appunto quello dell'ordinamento giudiziario.

I numerosi ritocchi e rappezzi hanno eliminato i caratteri più stridenti nei confronti dei principi costituzionali, ma hanno mantenuto il disegno di base. Soprattutto, sono rimasti nella loro tradizionale configurazione i poteri strategici di governo gerarchico degli uffici giudiziari, in particolare per quanto si riferisce all'organizzazione del pubblico ministero. Ed è qui che operano gli intrecci più pericolosi e meno chiari fra magistratura e governo, fra magistratura e polizia; le vicende giudiziarie di questi anni, si tratti o no di casi politici damorosi, ne danno un'ampia, anche se tuttora inesplicata, casistica. In questo quadro, ha assunto carattere embiematico la contrapposizione fra il polo basso e il poio alto della gerarchia giudiziaria. La contrapposizione ebbe una risonanza notevole alcuni anni fa quando soprattutto i pretori sembraviano il volano di quella, sia pure parziale e indiretta, revisione dell'ordinamento che era stata rimessa alla Corte costituzionale attraverso il necessario filtro di un preventivo giudizio giurisdizionale (revisione che invece la classe politica aveva rinunciato a realizzare per via diretta). Naturalmente, solo in alcuni momenti la Corte costituzionale è stata organo di sicura e chiara volontà riformatrice e solo entro certi ristretti limiti una ripulitura in senso costituzionale dell'ordinamento giuridico può realizzarsi per iniziativa dei « pretori ». Perciò quella contrapposizione ha perso in seguito 'lo smalto embiematico che aveva avuto inizialmente a questo riguardo. - Rimane il fatto del particolare potere direttivo della Cassazione non solo e non tanto come giudice ultimo delle questioni di diritto (a parte la materia civilii stica, su molti punti la Cassazione non fa più testo) quanto come organo di regolazione dei procedimenti giudiziari. Contro

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69 la Cassazione l'attacco che sembra avere cesso di qualificato personale esterno non successo è quello di smantellarne la barriera proveniente dalla carriera di magistratura. d'accesso costituita da un setaccio selettivo rigido e culturalmente unidimensionale, 7. - Riguardo al rapporto fra magistraperaltro già varie volte allentato. Tale futura e società, un fenomeno che va sottolitro era dato da un giudizio 'sulle capacità neato è quello della centralità assunta dalla di padronanza degli strumenti di logica for- giustizia penale. Un settore di attività trsmale del diritto; si realizzava in pratica una dizionalmente poco amato dai giudici sia sorta di cooptazione meritocratica sulla base perchè il modello del giurista come utilizdi rigidi parametri dottrinari. Si è discusso zatore di paradigmi concettuali formali non a lungo su questo modo d'accesso ai grado può qui trovare adeguata esplicazione sia più alto della giurisdizione ordinaria e il per il disagio in cui i giudici si trovano, a filtro è stato reso meno rigido. È tornata in ragione della loro stessa formazione, nelquesti giorni all'attualitì parlamentare un l'affrontare la concretezza e i'angòlosità dei sistema di nomina alla Cassazione che alla giudizi penali. Una prima ragione dell'imcooptazione meritocratica sostituisce una portanza assunta dalla giustizia penale è sorta di accesso automatico per anzianità semplice a individuarsi: aumento dell'e tenmista a un giudizio complessivo sulle qua- sioni sociali, nuova criminalità, maigoverno lità professionali e « umane » del giudice. e intrigo politico chiamano bene o male In realtà, si tratta di un ruolò aperto che in causa la funzione repressiva che fa capo concede a tutti il « grado », non l'ammisalla magistratura. Bene o male: cioè con sione nell'organo. Cosa evidentemente nep.- un seguito di attese, di interrelazioni, di pure logica dato che il numero dei membri ruoli latenti che costituisce di per sè un della Cassazione non potrebbe essere amnuovo capitolo dei problemi del potere nél pliato senza limiti (del resto, già oggi una nostro paese. Ma oltre a ciò, c'è dietro al cosa è essere consigliere, un'altra è esercitare fenomeno una ragione più sostanziale: il le funzioni). In qualche modo perciò si avrà progressivo deflarsi dalla litigiosità ammipur sempre, da una parte, una sorta di coopnistrata dall'ordinaria giustizia civile di tazione realizzata attraverso le designazioni quanto concerne i processi economici magdel Consiglio superiore e, dall'altra, una ligiori. ,Sempre più la giustizia civile conberalizzazione di carriera secondo i moduli cerne solo i rapporti personali e patrimosperirnentati dal pubblico impiego. I limiti niali fra individui. Basta considerare lo svi'di tale riforma sono stati ben chiari al legiluppo dei, grandi studi professionali orgaslatore: basta leggere gli atti della discusnizzati come società di consulenza per gli sione parlamentare'. Ma non hanno tuttavia affari extragiudiziali e l'uso ricorrente aiimpedito una unanimità pressocchè comple- 'l'arbitrato. Sul piano internazionale l'arbita. La sinistra ha dichiarato che se tale legge trato commerciale, regdlato da apposite connon tocca i nodi della riforma dell'ordinavenzioni, costituisce 'l'apparato giudiziale mento giudiziario tuttavia, in mancanza di delle società multinazionaIj. meglio e in prospettiva di altri interventi Quando si parla di minor importanza legislativi, conveniva votare a favore. Per della « giustizia civile » e di accresciuto riora il problema fondamentale di aprire la lievo di quella « penale » non bisogna namaggiore istanza giurisprudenziale ad uno turalmente intendere il fenomeno in modo scambio maggiore con la società è rimesso schematico. Bisogna per esempio precisare alla possibilità, teorica, di un limitato acche essa non concerne in misura eguale tutti


70 i gradi della scala giurisdizionale. La trasformazione che per spinta autonoma dei giudici ma anche e soprattutto per precisi indirizzi legislativi si è verificata nelle funzioni di quel grado di giurisdizione che è gestito dai pretori sfugge per molti aspetti a questo schema. E ciò non solo per le attribuzioni composite che caratterizzano la funzione del pretore o per il fatto che la suà competenza concerne le cause di minor valore, cioè proprio quelle che continuano ad essere portate in giudizio. In realtà, i pretori, come unica figura di giudice « monocratico» presente nel nostro ordinamento, rappresentano la istanza giurisdizionale di accesso più ravvicinato e per questo sono investiti da un contenzioso più direttamente derivato dalla vita sociale immediata. Prima lo statuto dei lavoratori ora la nuova disciplina delle controversie in materia di lavoro e di assicurazioni sociali, hanno già sviluppato e ancor più svilupperanno in futuro, questo ruolo nuovo dei pretori. Per questa via si va instaurando una sorta di giurisdizione d'equità che certo rappresenta una delle. principali novità per il nostro ordinamento anche per i suoi effetti sul piano politico. 8. - Può essere utile fare a questo punto una parentesi per un rapido sguardo comparativo alla situazione della giustizia fuori del nostro paese. Ciò per intendere la portata generale di alcuni aspetti dei fenomeni fin qui annotati. Ne offre l'occasi6ne Le Monde (13 e 14 aprile 1973) con un'inchiesta di Philippe Boucher sui problemi del-

la giustizia in Francia (La justice et son avenir). Ne riassumiamo alcuni punti.

Declino della giustizia civile. - In Francia l'aumerto della popolazione e lo sviluppo delle attività industriali non hanno in pratica prodotto alcun effetto sulla mole dellè attività giurisdizionali ai diversi livelli: la propensione a ricorrere alla giustizia civile in genere si fa sempre minore. È questo il, fenomeno più caratteristico e, secondo l'A., preoccupante nel campo della giustizia civile: altri problemi, pur difficili da risolvere, non investonò, in eguale misura la natura stessa della funzione giurisdizionale. C'è, per esempio, il proble-

ma di modificare la disciplina del divorzio. A questo riguardo viene proposta insistentemente l'esigenza di procedure più semplici, più economiche e soprattutto meno formali e «ipocrite ». [Unat prima bozza di progetto di riforma è già stata' approntata dall'Associazione nazionale degli avvocati di Francia e - questa è per molti aspetti una notizia da segnalare - non sembri sgraditaf alle autorità religiose che sono state largamente consultate. Dunque, una soluzione non dovreb'he tardare]. Significativo del declino della giustizia civile è il crescente successo che incontrano per la loro' rapidità e discrezione, lé procedure di arbitraggio' non solo nel mondo degli affari ma anche in quello

del lavoro (le monde da travail ne récuse pas non plus 'l'arbitrage). In materia di locazioni è stata adottata, per diradare le occasioni di controversie, una disciplina quanto mai dettagliata. Inoltre si tende a favorire il regolamento 'extragiudiziale degli incidenti . stradali. Chi si preoccupa del declino della funzione giudiziaria tradizionale, tende a rilevare che questa potrebbe rinnovarsi lungo due direttrici: l'evoluzione, delle procedure commerciali e quella delle procedure dei « probiviri» in materia di conflitti di lavoro. Della materia sono attualmente investite alcune giurisdizioni specializzate i « tribunali di commercio)> e i «consigli dei probiviri ». Sono le sole attività giurisdizionali che non risentano dellacrisi generale della giustizia, anche se si ripetono' inconvenienti analoghi a quelli lamentati a propo-sito delle giurisdizioni di diritto comune; procedure interminabili, giudizi rinviati sine die e così via. Sicchè all'incremento delle controversie che vengono portate davanti a queste giurisdizioni, non corrisponde un uguale incremento delle decisioni.. In ogni caso si pone l'esigenza, oltre che di una ristrutturazione, anche di una concentrazione del numero delle sedi giurisdizionali. Nel « rap-porto Bardon» del luglio '67, sull'organizzazione ed il funzionamento delle corti e dei tribunali giudiziari, si denunciava l'esistenza di giurisdizioni «insufficientemente occupate », con la conseguenza di una diminuzione di competenze tecniche; e si iuggeriva la soppressione di alcune di esse, poichè« la concentrazione delle giurisdizioni è una condizione essenziale per il buon funzionamento della. giustizia ».

La ristrutturazione delle carriere giudiziarie. -. È evidente che una concentrazione delle giurisdizioni renderebbe assai più agevole il controllo del corpo giudiziario: proprio 'a questa considerazione


71 si sono rifatte le critiche mosse all'idea di fondere il personale dei tribunali di prima e di seconda istanza. Questi progetti non mancheranno perciò 'di suscitare le reazioni dei magistrati: d'altra parte, poichè i contrasti tra le due principali associazioni 'della categoria - l'Union /édérale des magistrats e il Syndicat de la magistrature - sembrano per il 'momento essersi attenuati, sarà interessante vedere -se i magistrati reagiranno in modo unitario al -progetto di ristrutturazione della loro carriera. Questa infatti potrebbe non fondarsi più sul principio della progressione gerarchica, ma ispirarsi ad una 'fosmula cara al segretario generale del Sindacato, Jean Pierre Michel: « Accéder non à la Coar de cassation, mais à des responsabilite's ». Nell'am'bito di questa ristrutturazione delle giurisdizioni, bisognerà inoltre risolvere il problema se procedere 'ad un ulteriore reclutamento di magistrati (si pre'vede fra l'altro che molti magistrati andranno in pensione a partire dal 1974) o se non sarà prefe-ribile, secondo il modello olandese, un piccolo nu'mero di magistrati, circondati da numerosi collaboratori, il cui campo di attività sia definito con pre-cisione. Nell'attuazione di queste riforme - avverte 'Boucher - svolgerà comunque un ruolo nuovo di primo piano, il Syndicat che, dopo cinque anni di attività, si è ormai solidamente radicato nel mondo giudiziario, acquistando anche verso l'esterno una notevole autorità morale. Le istituzioni repressive. - Per quanto riguarda la giustizia penale ed il sistema carcerario, -è da notare che anche le prigioni francesi sono da 'qualche tempo agitate da continue e sanguinose rivolte. Indubbiamente, vi si applica una disciplina -assai dura: dopo le vicende dell'OAS e l'evasione -di alcuni suoi militanti, molte disposizioni del regime penitenziario francese furono rese ancora più rigide e severe. Tuttavia, ha certamente contribuito -al riaccéndersi delle agitazioni la costituzione del « Groupe d'iniormation' sur les prisons» animato 'da M. Foucault, da G. Mauriac e da J. M. Domenach. Il Gip, servendosi anche dell'esperienza ereditata dai numerosi «gauchistes » imprigionati tra il '70 e il '71, ha contribuito notevolmente a far pren'dere coscienza ai detenuti dell'assurdità di certi regolamenti e dell'odiosità dei soprusi cui sono -continuamente sottoposti. Attualmente il Gii' si è -diviso in due distinte organizzazioni: il CAP (Co-mité d'action des prisonniers), che, avendo diffi-coltà finanziarie, attraversa una fase di letargo; e 'l'ADoD (Association de défense des droits des détenus) che, riformista nella misura in cui il CAP è « radicale », agisce più in sordina: esiste co-

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munque tra i due gruppi una notevole osmosi, basata sulla comune convinzione della necessità di modificare la condizione carceraria. Sotto la pressione della rivolta di Toul scoppiata nel dicembre del 1971, nella quale ebbe certamente un ruolo determinante l'azione del Gxp, l'allora ministro della giustizia René Pleven ritenne di poter risolvere il problema carcerario attribuendo più larghi poteri ai giudici incaricati dell'applicazione delle pene, che subitamente promosse al rango di «magistrats-miracles ». In realtà, i poteri di cui essi dispongono - riduzione delle pene, liberazione condizionale dei detenuti condannati a meno di tre anni di carcere - sono assai scarsi, e comunque non hanno alcuna possibilità di influire sull'operato dei sorveglianti e del personale socio-educativo. La legge sulle libertà individuali non è d'altra parte servita granchè ad evitare l'estensione della carcerazione preventiva, altro punto dolente del - sistema penale francese come di quello italiano: nel '71 il 37-42 per cento dei detenuti, secondo stime diverse, si trovavano in questa situazione; a diciotto mesi dall'entrata in vigore della legge (1° gennaio 1971) - come risulta dai dati pubblicati dal Syndicat de la magistrature - le detenzioni preventive erano diminuite solo del 14 176 circa. L'introduzione del controllo giudiziario per cui gli accusati devono, onde evitare la detenzione, sottostare a formalità quali il presentarsi regolamente alla polizia o a divieti come quello di frequentare enti locali pubblici - si è anzi risolta in una misura repressiva in tutti quei casi in cui, prima della sua entrata in vigore, gli accusati sarebbero stati rimessi semplicemente in libertà. La detenzione preventiva ha comunque direttamente contribuito ad accrescere la popolazione penale e a rendere ancor più miprorogabile la -soluzione del problema delle infrastrutture; nella maggior parte delle prigioni mancano infatti i più elementari servizi igienici. D'altronde, è ifiusorio, ipotizzare una qualunque riforma carceraria se non si procede preliminarmente ad un riesame del codice penale e quindi del concetto stesso di reato, della figura del reo, del tipo di risposta che la società dà di fronte ad 'un comportamento « delittuoso» (in Francia, si ticordi, c'è la pena di morte). Secondo Boucher, on poursait trop (è l'opinione di un ex «directeur des affaires cri,minellés »), ma d'abord, on poursuit mal: si transige con gli evasori fiscali, ma si imprigionano i ladri di biciclette, pur conoscendo il carattere profonda-


72 mente patogeno della prigione. Si preferisce insomma punire la pubblicità di un delitto, piuttosto che il delitto stesso; nè ci si preoccupa di impedire il prodursi, o anche il riprodursi, dei delitti. Osserva Le Monde che non deve perciò meravigliate come presso una opinione pubblica che si nutre, non senza qualche compiacimento, con l'idea di un aumento sfrenato della criminalità, l'interesse per le prigioni ed il sistema carcerario sia dettato solo da paura, o da pietà; o che per sollecitare l'intervento dei pubblici poteri, per far discutere progetti di riforma e far stanziare fondi sia stata necessaria la sanguinosa rivolta di Toul; o infine che prenda piede la convinzione che la rivolta paga e che non esistono altre vie di uscita per modificare la condizione carceraria.

9. - La panoramica sui caso francese serve a segnalare il rilievo generale rdi certi fenomeni di trasformazione della « giustizia» (tema che occorrerà riprendere) ed insieme, per via delle analogie, consente di completare il quadro. Ma anche questo non basta. C'è nel processo che in Italia ha condotto a posizione centrale la giustizia penale un altro insieme di motivi che riguardano la stessa vicenda storico-politica del centro-sinistra. Innanzitutto notiamo una cosa: coincide con l'inizio del centro-sinistra la fine di quel che potrebbe dirsi un atteggiamento lealistico del potere giudiziario nei confronti del potere politico, quale esso sia. Certo, solo una ricostruzione storica del periodo potrebbe dar conto seriamente del fatto; ma non sembra improbabile che le prime conquiste dell'autogoverno abbiano potenziato nei vecchi nu4ei conservatori della magistratura - e neppure in via diretta quanto per reazione alla temuta perdita di potere dei vertici tradizionali - una coscienza autonomia di ruolo. Da questa stessa coscienza di ruolo quei nudei sono stati sospinti ad opporsi ed a contrastare un'operazione politica che veniva inserendo nell'area del potere statuale forze considerate diverse dalle tradizionali ed estranee ai residui principi dello stato autoritario-conservatore.

Forse non è un fatto senza signiíicato che la prima chiamata in causa di personale politico per reati amministrativi abbiano a motivo la salvaguardia di alcuni canoni rigidi, ma in definitiva minori e certo già poco rispettati, della tradizione della burocrazia ministeriale. - La strada della salvaguardia penale della « buona amministrazione », posto che sia una strada giusta, non è stata agevole: è che vi si incontra iad un certo punto quello che è stato definito l'unico vero segreto italiano, cioè il sistema di finanziamento dei partiti (in gran parte fondato sulla supernorma convenzionale della «derubricaziorie dei reati »). Negli anni più vicini il moltipliicarsi delle variabili del quadro politico e soprattutto il degradarsi d'ogni presenza egemonica nel sistema politico farà sì che il sorgere di « casi giudiziari » divenga esso stesso momento e mezzo di lotta politica: anzi, una ricongizione delle cronache giudiziarie diviene necessaria per ricomporre molte tessere del mosaico politico italiano.. - Altro punto d'incidenza del centro-sinistra sulla giustizia penale è dato dall'inconsistenza dei modi con cui s'è affrontato il problema delle istituzioni repressive.. Unica valvola di sicurezza dell'asfitticità di queste istituzioni e delle disfunzioni del meccanismo stesso della giustizia penale è stata,. anche per il centro-sinistra, una generica politica dell'ammistia, di per sè incapace a rappresentare una linea d'uscita dall'impasse del sistema giudiziario.

12. - Fin qui alcuni elementi descrittivi sulla situazione della magistratura ordiinaria. Altri dovrebbero essere aggiunti per quanto riguarda la magistratura a.mministrativa. Il carattere accentrato degli or-


73 gani e il fatto di aver sede a Roma (non -sono ancora entrati in funzione i tribunali regionali amministrativi), il fatto di incidere su una materia avente sempre come parte necessaria 'l'amministrazione pubblica con la conseguenza di avere un rapporto con la realtà sociale sempre mediiato dalla logica delle istituzioni amministrative, la limitatezza del numero dei magistrati, la comrnistione tradizionale di compiti di « giudice » e di consulente dell'amministrazione e del governo (funzione consultiva gestita sempre più in proprio dai singoli membri delle magistrature amministrative e soprattutto del Consiglio di Stato): sono questi elementi che hanno consolidato solidarietà sempre più di status e di casta. Senza che ne nascesse, peraltro, un vero « spirito di corpo» come rivendicazioné di un ruolo po. 1iticocostituzionale d'istituto (talora ha tentato questa via la Corte dei conti, ma con molte incertezze e con scarsa convinzione). Di qui anche lo scarso interesse a istitu2ion formali d'« autogoverno ». Ha avuto notevole eco, recentemente, la reazione di una parte della magistratura amministrativa ad alcune nomine politiche di magistrati che il governo ha fatto, usufruendo sì di una prerogativa confermatagli dalla Corte costituzionale, ma in misura e secondo criteri che avrebbero superato quelli usuali. Qua1e che sia la legittimità di questa reazione, essa non vale a nascondere la realtà di una pluriennale subaiternitì della magistratura amministrativa all'esecutivo che ha coinvolto in misura eguale magistrati di carriera e magistrati di nomina governativa. Cenni questi rapidissimi per segnalare un problema che va affrontato bene al di là dei consueti richiami formalistici a'll'« indipendenza» del giudice amministrativo.

13. - Da questa serie di rapidi elementi descrittivi sulla situazione della magistra-

tura, si possono ricavare alcune indicazioni di massima per l'analisi. La verifica dell'autogoverno della magistratura è la verifica di come, sul piano dell'azione e dell'ideologia, una parte della classe media si è data un assetto organizzativo ie un ruolo politico. Cogliere le modalità di questo processo significa cogliere come si sia ricomposto o tenti di ricomporsi un ristretto ceto sociale dopo il venir meno della compagine compatta e gerarchica dello «stato» che dal prefascismo al postfascismo aveva trovato al vertice un centro di potere omogeneo. E significa cogliere, naturalmente, le contraddizioni che questo processo presenta. Un'analisi, dunque, di una importante dinamica di classe, tema appena intuito ma troppo spesso abbandonato nei discorsi o nelle denuncie sui « corpi separati ».

14. - Non è certo a questo punto che può fermarsi il discorso: da una ricognizione dei dati fondamentali della configurazione sociale della magistratura si deve tornare ad una più pertinente presa di cognizione dei prQblemi di ordinamento. Del resto, la ricognizione proposta si impone per un altro motivo: che sul piano dell'ideologia come fatto sociale (modi di pensare, stereotipi mentali, atteggiamenti emotivi ecc.) esistono fra la società nelle sue qualificazioni di classe e il « corpo separato » molti più legami di quanto si pensi. Forse da sempre la « giustizia » nei suoi diversi significati, da quelli diciamo così nobili delle idealità umanistiche cli più lontana origine a quelli più empirici che si riferiscono alle immagini dell'apparato detto appunto giudiziario, costituisce oggetto peculiare di attrazione di modi di sentire, credenze, aspettative che sono al centro delle ideologie politiche di senso comune. [Del che è prova il posto importante che il tema « giustizia » ha costantemente avuto nella cultura di massa, per esem-


74 pio nel cinema]. In sostanza è proprio il tema giustizia ad essere lappresentativo degli atteggiamenti nei confronti dello stato. Dunque, occorrerà anche tornare ai problemi di ordinamento. Qui per ora basti segnalare due questioni fondamentali. Uno: quale debba essere, in presen2a delle tendenze in attò, il campo di incidenza della - « giustizia » (per esempio, in quale modo essa

debba costituire presidio reale dei diritti civili, la cui strisciante degradazione è da tempo in atto). Due: quale responsabilità politica e dunque quale controllo sociale debbano richiedersi, in adeguate forme istituzionali, per la magistratura. -

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Romano Severini


5CTJOLA

tra dequalfficazione programmata e progetti di un nuovo uso dell'istituzione il) QUAL'È STATA in questi anni la politica scolastica? Cioè, al di là delle dichiarazioni, delle intenzioni e più ancora delle chiacchie:re, è possibile identificare una « politica » del governo e valutare gli obiettivi reali perseguiti, la congruità dei mezzi e i risultati raggiunti? Per fare ciò occorrerebbe naturalmente identificare non solo le ragioni diciamo obiettive cui siffatta politica può avere inteso di rispondere o con le quali essa va in ogni caso confrontata, ma ancor più i sogLetti sociali che nella scuola hanno agito in questi anni: interlocutori determinati o no, accettati o rifiutati di quella « politica ». Preme e si esprime nella scuola la so'cietà nella sua configurazione di classe e in essa pesano e si costruiscono modelli di comportamento che raramente anticipano e .al contrario frenano la trasformazione della società. Nella scuola si tramanda e si rinnova l'ideologia del cnsenso ai valori storici della società borghese ovvero sembra talora che vi emerga l'esigenza di diverse identità sociali, cli divesa espressione ideologica; ma non sempre è chiaro quale sia l'ampiezza del diverso e dell'alternativo e quale, invece, l'ampiezza di una mera trasfigurazione del vecchio. Nella scuola, infine, si scompone e ricompone quel volto sconosciuto delle classi medie che è il tema principale di indagine per una, critica politica delle istituzioni. È, dunque, assai ampio l'arco dei problemi di cui riteniamo occorre darsi carico per intendere, fin dove è possibile alla radice, la questione delle « istituzioni dell'istru-

zione ». Ed è solo con questa avvertenza che si possono tentare alcune sommarie riflessioni sulla «politica scolastica » del governo negli anni più recenti. A questo scopo è di notevole aiuto l'ampia rassegna sulla politica scolastica dall'ultimo centro-sinistra dal 1968 aI 1972 che Mario Gattullo ha pubblicato sulla Rivista di storia contemporanea (gennaio 1973). IL DATO FONDAMENTALE che emerge da una considerazione complessiva della politica scolastica perseguita dal centro-sinistra è la sua spiccata ambiguità: la si coglie nel contenuto dei provvedimenti adottati e nel tipo di strumenti formali utilizzati. Da un lato infatti, il periodo del centrosinistra si è contraddistinto per un vero 'e proprio fiorire di studi,'prograiiimi, piani e progetti di riforma della scuola secondaria superiore (di questa soprattutto ci occupiamo); dall'altro, i provvedimenti che hanno realmente inciso nella realtà della scuola hanno continuato a concretizzarsi per il tramite di circolari, di decreti ministeriali e al più di leggine come strumenti normali di intervento: strumenti episodici, quindi, e al tempo stesso elusivi del dibattito e del controllo parlamentare (per quel che questi contano). E tuttavia tali provvedimenti hanno dimostrato incisività e capacità di modificare nella sostanza la situazione preesistente: ma solo quando hanno perseguito finalità opposte a quelle che ispiravano i progetti di riforma. Gli interventi invece, che tendevano


76 ad anticiparne nei fatti alcune linee direttrici, sono caduti, quando addirittura (come nel caso dei corsi abiitanti) non sono stati attuati in senso contrario allo spirito ed agli scopi dichiarati per cui erano stati adottati: la volontà di disapplicarli o di travisarli essendo venuta a coincidere con il loro carattere improvvisato e disorganico. Da un lato, infatti, sono stati portati avanti provvedimenti che assecondassero la tendenza della scuola a svolgere una funzione di contenimento e di nascondimento della disoccupazione o della sottoccupazione di forza lavoro intellettuale dequalificata (un'interpretazione ormai largamente condivisa se sull'Europeo del 3 maggio scorso si poteva leggere,, in un'intervista ad un noto personaggio del mondo politico-accademico, che leggi come la liberalizzazione degli accessi all'università sono state emanate « solo per creare un'area di parcheggio alla disoccupazione in: tellettuale, un problema questo che preoccupava le classi dominanti »). Provvedimenti volti quindi a prolungare la scolarità obbligatoria (la circolare sulla opportunità di considerare ciclo unico le prime due classi della scuola secondaria superiore), a ridurre l'incidenza della selezione scolastica (i decreti-legge e le leggine sul riordinamento degli esami di maturità e sull'abolizione della sessione autunnale), ad agevolare la circolazione della popolazione scolastica entro uno stesso ordine di scuola o tra diversi ordini (maturità professionale e quinto 'anno per i licei , magistrali e artistici; liberalizzazione degli accessi universitari). La tendenza della scuola italiana a divenire di massa a tutti i livelli sulla spinta dell'incremento demografico ma anche per effetto della scuola dell'obbligo e della generica « democratizzazione' » della società italiana, veniva in questo modo assecondata per quanto riguarda l'eliminazione delle strette selettive. Anzi, i provvedimenti adottati si sono caratterizzati proprio per quella che è stata detta

la « funzione lubrificatrice », ma senza che all'allargamento della popolazione scolastica corrispondesse, anzi facendo in modo che non corrispondesse, un adeguato ampliamento- delle strutture operative (e poco conta che si faccia a questo proposito il solito ri'nvic all'obsolescenza delle procedure e degli apparati amministrativi la quale non è più una giustificazione: basta pensare alla mancata utilizzazione dei fondi stanziati per l'edilizia scolastica). Senza parlare del problema della riqualificazione degli insegnanti (a questo riguardo sempre più chiaro si è fatto in questi anni che l'insegnamento costituisce l'unica e per alcune leve recenti l'ultima risorsa occupazionale). Dunque, la politica della « facilitazione »come risposta alla scuola di massa ha avuta alla fine un significato preciso: per la scuola pubblica dare motivi di razionalità alla dequalifidzione e in una certa misura razionalizzarla sul 'piano procedurale, per la scuola privata rafforzare il trattamento privilegiato. Sicchè quest'ultima protetta dalla contestazione studentesca ad opera sia della sua stessa logica contrattualistica che pretende un assenso a priori ai suoi modi di funzionamento sia della perdurante efficienza del controllo ideologico ed amministrativo dell'organizzazione clericale sia, ancora, per la maggiore omogeneità di classe, ha visto aumentare sensibilmente i propri iscritti e la propria importanza complessiva. Insomma, a quella dequalificazione nei fatti che era derivata da una scolarizzazione di massa congiunta all'inerzia dell'apparato amministrativo e della classe politica, si è andata sostituendo una dequalificazione programmata. L'obiezione che si può fare a questo punto è che nell'elaborazione della politica scolastica del centro-sinistra, - un'elaborazione contrastata e con sbocchi conclusivi mai agevoli - si è tuttavia espressa anche una presenza socialista dotata talora di notevole grinta (si pensi all'azione di Tristano


77 Codignola). Anzi, a stare alle prese di posizioni pubbliche, tale presenza ebbe in alcuni casi qualche successo. E infatti, accanto a provvedimenti del tipo prima indicato, e in profondo contrasto con questi, c'è stata tutta un'altra serie di interventi che, ponendosi in linea con i progetti di riforma, intendevano realizzarne le precondizioni o anticiparne l'introduzione: così le circolari sulla partecipazioné delle famiglie al governo della scuola, sulle assemblee e sui consigli degli studenti (che cercavano attraverso un disegno di cogestione, di contenere e legittimare la contestazione, assicurando con nuove procedure la pace « scolastica » ma accettando una diversa dialettica all'interno della scuola); le circolari sull'orientamento professionale, per favorire una razionale distribuzione e utilizzazione delle risorse intellettuali; l'ampia sollecitazione della sperimentazione, che avrebbe dovuto avere compiti propulsivi, sì da impostare la riforma della scuola quasi come una riforma permanente; i provvedimenti sull'aggiornamento degli insegnanti e soprattutto sull'istituzione dei corsi abilitanti. Si tratta però di provvedimenti falliti; dunque o velleitari o di studiata copertura. La vicenda dei provvedimenti per l'abilitazione è in un certo senso embiematica della sorte toccata a tutte le iniziative di questo genere: i corsi abilitanti, nati sotto la pressione delle stesse confederazioni sindacali come strumento di qualificaziope e di preparazione specifica all'insegnamento, nonchè per operare una sanatoria dell'ormai insosteni,bile situazione degli insegnanti fuori ruolo, sono ben presto diventati - per il disordine organizzativo, per la nullità culturale delle indicazioni metodologiche, per la scelta dei docenti, insomma per il modo in cui sono stati realizzati - uno strumento utile a rendere ancora più « lunga » la scuola, a riconfermare la discriminaziohe tra insegnanti di ruolo e

fuori ruolo, a rafforzare, sotto la spinta di una ideologia corporativa, il ruolo formaleburocratico dell'insegnante. CERTO IL FALLIMENTO di queste iniziative di riforma non è solo nel difetto di elaborazione, ma deve essere anche cercato nella diffidente resistenza e nella mancanza di collaborazione di un corpo insegnante legato alla roatine. Quella routine che la contestazione studentesca aveva sconvolto senza che i modelli culturali del corpo insegnante fossero stati in grado di dare una qualsiasi risposta in positivo. In questa situazione l'invito alla « sperimentazione » appare per quello che è: una candida velleità ovvero, più realisticamente, un modo di eludere il problema della riforma. Segno di questo atteggiamento di resistenza difensiva del corpo insegnante è, del resto, il notevole incremento di bocciature che si è prodotto a partire dal 1970 non solo nella scuola secondaria superiore, ma anche in quella dell'obbligo. Sembra cioè che sia andata riprendendo vigore la naturale tendenza del corpo insegnante a fare della selezione un elemento connaturato alla istituzione scuola. Ciò a prescindere naturalmente dalle iniziative individuali degli insegnanti di sinistra, che proprio per il fatto di non aver alle spalle un orientamento politico condiviso e di non poter fare riferimento ad una concreta elaborazione di politica scolastica da parte della sinistra, sono rimaste appunto interventi personali, incapaci di incidere sulla realtà dell'istituzione. D'altra parte, nella misura in cui il PCI ed i sindacati confederali hanno mostrato finora la tendenza ad eludere il problema della ridefinizione dei fini sociali della scuola in rapporto all'organizzazione del lavoro, e quindi a proporre la riforma come aggiornamento della scuola come « istituzione » data, si è abbandonato - come è stato detto - alla vi-


78 schiosità delle istituzioni e alla mentalità del corpo insegnante la gestione degli strumenti tradizionali della scuola in quanto meccanismo sociale, come ad esempio la selezione. È in sostanza lo stesso errore che ha commesso il centro-sinistra, il quale ha fondato i suoi interventi nella scuola su un'analisi assolutamente parziale della crisi della scuola stessa e della società. ANALISI FUORVIANTE, se si considera in qual misura sia stata omessa una valutazione delle disf unzioni derivanti dallo squilibrio tra gettito scolastico e possibilità di assorbire tale flusso nelle attività lavorative: squilibrio che non poteva più essere affrontato sul piano dell'organizzazione scolastica, sia pure « riformata », ma che chiamava direttamente in causa l'attuale sistema di stratificazione sociale e di divisione del lavoro. Benintesc, non è che il problema degli sbocchi lavorativi fosse stato ignorato dal centro-sinistra. Anzi si può dire che agli inizi degli anni 60 è stato nella previsione di crescenti e più qualificate possibilità di lavoro, collegate alle innovazioni tecnologiche, che si è mosso un certo riformismo, ottimista e tecnocratico, del centrosinistra. È dal momento della congiuntura economica difficile che questo punto di riferimento passa in secondo piano e viene quasi a cadere: nella speranza forse che di difficoltà meramente congiunturali si trattasse o piuttosto nell'impossibilità di affrontare i problemi di fondo, attinenti alla logica stessa del sistema economico, che lo squilibrio fra gettito scolastico e possibilità di occupazione andava chiaramente denunciando. Non deve perciò sorprendere che i progetti di riforma venissero a poco a poco sempre più ridimensionati; e soprattutto che dalle « ambiguità » della politica scolastica del centrosinistra venisse fuori sempre più chiaramente come soluzione « necessaria » una razionalizzazione dequalificante della scuola in genere, e di quella secondaria in particolare; nè che

Scalfaro, ministro della pubblica istruzione del governo della « centralità » democristiana, si sia richiamato proprio alla Commissione Biasini, figlia del centro-sinistra come tante altre commissioni di studio, quando ha proposto la sua «controriforma ». Questa infatti intende soltanto formalizzare una situazione che, attraverso interventi attuati a livello di prassi amministrativa, di fatto già esiste o di cui esistono quantomeno tutte le premesse. In un certo senso. ciò ha demistificato le ambiguità che ancora sussistevano circa una supposta volontà e/o possibilità di modificare in modo sostanziale la scuola come istituzione « separata » dalla società. Nel progetto Scalfaro viene infatti riconfermata e salvaguardata, la . configurazione della vecchia scuola; si recupera l'uso della selezione e della gerarchia come strumento per assicurare il consenso all'interno di una immutata organizzazione scolastica ma soprattutto per ricucire una sostanziale omo geneità tra selezione scolastica e selezione sociale. Attraverso la previsione di un biennio unico opzionale, il progetto reintroduce la scelta precoce del tipo di scuola; riconferma sostanzialmente nel triennio - in cui l'unica parte veramente comune resta il « dovuto spazio alla formazione etico-religiosa, umana e culturale, civica e fisica » - l'attuale divisione tra « scienza » e « umanesimo » da un lato e, in posizione del tutto subalterna, professionalità tecnica dall'altro; inoltre, poichè non si fa più alcun cenno nè all'unicità nè all'onnicompresività, si introduce già una prima differenziazione classista e selettiva tra scuola di città, con tutte o quasi le diverse sezioni, e scuola di paese con uno o due degli indirizzi previsti. Spetta al Ministro, con l'ausilio di una commissione in cui sui parlamentari prevalgono gli esperti scelti dal niinistro stesso e i rappresentanti del consiglio superiore della P. I. (è il classico meccanismo


79 della cooptazione), la determinazione dei contenuti educativi, dei programmi, nonchè dei criteri per gli esami di maturità; mentre i rapporti con l'esterno vengono ridotti alla utilizzazione delle strutture scolastiche da parte degli adulti impegnati nei corsi di educazione post-scolastica. Insomma, la scuola non può essere che la « scuola »: chiusa e ripiegata su se stessa. La sua struttura è data ed.è inutile sottoporla a « sperimentazione ». Il progetto Scalfaro intende dunque salvare il salvabile del vecchio edificio; ma per salvaguardare l'intrinseco carattere di discriminazione elitaria, tenuto conto soprattutto della ormai indiscutibile divaricazione tra gettito scolastico e risorse occupazionali, si rende necessario ridurre il ruolo di formazione professiònale della scuola, i cui diplomi di maturità non hanno più, nè possono avere, in pratica alcun valore legale. Essi danno diritto solo all'accesso all'Università e alle prove che consentono l'accesso a facoltà non omogenee rispetto all'indirizzo opzionale prescelto, ovvero, per talune professioni a corsi per l'abilitazione all'esercizio professionale: il titolo di studio diventa utile solo per sostenere altri esami. DA UN LATO SI CERCA dunque, ripristinando e ridando vigore alle strutture autoritarie ed elitarie della scuola, di controllare le forme e i modi in cui avviene l'espansione di una scolarità che invece di essere strumento di contenimento delle contraddizioni sociali, rischia di crearne sempre di nuove; dall'altro, attraverso misure di disincentivazione - quali appunto la larvata vanificazione del valore legale dei diplomi della scuola media secondaria - si cerca, poichè attualmente non è pensabile un controllo più radicale, di contenere l'afflusso verso i livelli superiori della istruzione e di creare nello stesso tempo delle strutture scolastiche realmente qualificanti.

A questo proposito non si deve dimenticare che in passato la dequalificazione del valore legale dei titoli di studio ed il principio della scuola formativa sono stati portati avanti in funzione strumentale alla rivendicazione della parità per le scuole confessionali. In questo modo, come è stato detto, si mantiene, ma controllandone i tempi e i ritmi di espansione, una scuola di massa dequalificata e si costruiscono nel contempo, sia all'interno che all'esterno di essa, strutture chiuse e selettive in cui formare le élites tecniche, culturali e politiche.

2) LA « POLITICA SCOLASTICA» DEI SINDACATI DI CATEGORIA, fondandosi su una

analisi della scuola come canale di promozione sociale ed economica, si era espressa fino a qualche tempo fa soprattutto nella rivendicazione di un più ampio ed agevolato accesso alla scuola dei figli di proletari. Ciò sembrava di per sè sufficiente a garantire una gest'ione democratica degli istituti scolastici che poi, al di là di questo generico interessamento., veniva delegata come discorso di merito al partito e alle confederazioni. Tuttavia, man mano che si è venuta dimostrando l'inutilità della formazione scolastica attuale ai fini professionali, l'ideologia della scuola come fattore di mobilità sociale è entrata in crisi. Al contrario, è stata via via scoperta quella che è una funzione latente della scuola: contenere l'accesso al lavoro delle nuove generazioni e proteggere, per quel che è possibile, i meccanismi della selezione sociale. La carenza di sbocchi professionali per diplomati e laureati, e contemporaneamente il fatto che la specializzazione tecnica, come acquisizione di un mestiere, non riuscisse a tener dietro allo sviluppo tecnologico, sono i fatti che hanno dimostrato l'illusorietà dell'ideologia promozionale. D'altra parte è emersa una certa omogeneità delle condizioni sociali degli studenti con quelle della classe operaia. È il problema - da non ridurre a formula-- della «proletarizzazione » dello studente: non


E.H come equiparazione di condizioni materiali, ma come similitudine nei rapporti di dipendenza dalla struttura del mercato e di privatizzazione dei contenuti della conoscenza. Ciò ha spinto i sindacati, soprattutto metainieccanici, a cercare un collegamento con le lotte degli studenti, ad assumere in prima persona il discorso di merito sulla scuola come domanda di una maggiore e diversa istruzione per la classe operaia. NEL CONGRESSO DEI DELEGATI metalmeccanici tenuto a Genova nell'ottobre 1972, ha fatto così la sua comparsa, in tema di diritto allo studio, una richiesta distinta e separata da quella concernente i lavoratori-studenti (per i quali era già stato ottenuto un particolare trattamento in materia di diritto allo studio), che si poneva in termini nuovi rispetto alle tradizionali affermazioni di principio riguardanti la scuola. Nella piattaforma rivendicativa formulata a Genova si chiedono infatti 150 ore retribuite, da utilizzare nell'arco di 3 anni, a cui tutti i lavoratori, senza 'limite di età, anzianità aziendale e qualifica, devono aver diritto, per frequentare corsi di formazione professionale e culturale autorizzati dallo Stato e dagli enti locali, presso istituti scolastici a tutti i. livelli. Si intende in questo modo « introdurre un principio nuovo e cioè il diritto allo studio in generale, non finalizzato alle utilità aziendali, nè al conseguimento di un titolo scolastico, per l'arricchimento culturale di tutti i lavoratori ». Si preciserà in seguito: « la qualità della richiesta delle 150 ore consiste essenzialmente nello svincolare il diritto allo studio dall'acquisizione di titoli riconosciuti dallo Stato; questo non significa che vogliamo potenziare i canali privati di istruzione, ma piuttosto che ci impegniamo anche nei confronti deL riforma della scuola a potenziare l'impegno dello Stato per una formatione non finalizzata al titolo, ma in grado di rispondere alle esigenze più varie della formazione dei lavoratori » (bozza di discussione della FLM, 27 marzo 1973).

NELLA STESURA DEFINITIVA DEL CONTRATTO, la richiesta della FLM è stata

accolta, ma con più d'una condizione. Nelle

intenzioni della controparte padronale tali condizioni dovrebbero garantire 'lo svolgimento dei corsi in forme tradizionali e « regolari », in modo da assicurare, una certa diretta e immediata utilizzazione ai fini dell'azienda o comunque un generico innalzamento del livello generale di istruzione in grado di favorire un maggior « consenso ». In pratica, i dipendenti dovranno fornire .all'azienda un certificato di frequenza scolastica per un numero di ore doppio rispetto a quello richiesto come permesso retribuito; i lavoratori che potranno assentarsi dall'azienda per frequentare i corsi non dovranno superare il 2% del totale delle, forze occupate garantendo comunque in ogni reparto lo svolgimento dell'attività produttiva, mediante accordi con le rappresentanze aziendali; il costo globale per l'industria non dovrè far lievitare l'onere del contratto al di là dello 0,50%. Inoltre dovranno essere individuati gli istituti pubblici o riconosciuti presso i quali i lavoratori potranno frequentare corsi di studio « al fine di migliorare la propria cultura anche in relazione all'attività dell'azienda ». Nel contratto sono tuttavia delineati soltanto i capisialdi della nuova normativa: la affermazione •sindacale secondo cui le 150 ore, collegate all'inquadramento unico, devono diventare «lo strumento chiave della linea egualitaria in fabbrica », mentre nelle scuole « la presenza dei lavoratori » deve costituire «un veicolo importante di contestazione e di rinnovamento dell'attuale struttura scolastica », non Si traduce, nel' testo contrattuale, in indiéazioni pratiche volte a rendere effettivo il principio del diritto allò studio e della formazione permanente, e comunque a chiarirne la portata. È PERCIÒ COMINCIATA ALL'INTERNO DELLA FLM, ma in collegamento con in-

segnanti, studenti, partiti ed enti locali, una intensa discussione sul significato e quindi sui contenuti della formazione che si 'intende acquisire con le 150 ore, nonchè sulle sedi presso le quali dovranno svolgersi i. corsi. Si è così 'innanzi tutto escluso che le 150 ore possano essere utilizzate per i lavoratori studenti, poichè le ore di 'studio pagate devono servire per un'« esperienza forma-


81 tiva nuova, 'al di fuori degli schemi proposti dall'attuale ordinamento scolastico e senza il fine immediato dell'acquisizione. di un titolo di studio ». Nè le 150 ore devono essere utilizzate per corsi di formazione sindacale e politica, poichè l'esperienza nuova che si intende realizzare «vuole sì la compresenza di operai e studenti, ma all'interno delle strutture scolastiche pubbliche per un confronto e uno scontro con la gestione dello stato ». I contenuti dei corsi devono invece legarsi da un lato, alla professionalità, in modo da rispondere alle esigenze poste dall'inquadramento unico e dai criteri di mobilità fissati dal nuovo contratto. Perchè l'uguaglianza tra impiegati e operai sia di stimolo alla trasformazione dell'organizzazione del lavoro, « è necessario un intervento formativo che si proponga in primo luogo di superare le differenze oggettive nella qualità professionale dei lavoratori ». Deve essere il consiglio di fabbrica ad assicurare a tutti i lavoratori, attraverso un controllo collettivo, l'opportunità di riqualificarsi; e comunque « la mobilità per chi ha studiato non è automatica ed è necessaria una lotta all'attuale organizzazione del lavoro per trovare uno sbocco adeguato ai lavoratori che si sono formati ». Si potrebbe pensare che contenuti formativi di questo tipo possano essere impartiti, dato l'attuale ordinamento scolastico che separa rigidamente la formazione professionale da quella scientifico-culturale, nelle strutture di formazione professionale extra-scolastica, dipendenti cioè non dal Ministero della P. I., ma da quello del lav6ro. Non sarebbe tuttavia possibile mettere in crisi l'attuale organizzazione del lavoro se non si aggredisse « il nodo esistente tra scienza e divisione tecnica del lavoro mettendo in condizione tutta la base operaia nel suo insieme di rifondare la scienza e fare dei nuovi 'strumenti conoscitivi una arma di 'lotta all'interno della fabbrica »: è allora necessario che gli operai vadano a studiare con gli studenti e gli insegnanti nella scuola di stato, là dove si riproduce la « scienza» borghese. Certo, una scelta di questo tipo comporta « una serie di pesanti condizionamenti, che non si può pretendere di rovesciare da un momento all'altro con la sola presenza fisica dei lavoratori, sicchè bisogna ipotiz-

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zare in un primo momento uno sdoppiamento delle funzioni della scuola pubblica »: da un lato i tradizionali corsi per studenti, dall'altro corsi per lavoratori,, aperti alla frequenza degli studenti, con programmi autogestiti e tali da svUuppare, « attraverso una rivalutazione dell'esperienza acquisita sul lavoro, una critica all'attuale organizzazione produttiva e alla scienza che la sorregge, per costruire elementi di una cultura alternativa ».

SULLA BASE DI TALI ORIENTAMENTI

si è proposto, per assicurare ai lavoratori quella cultura « di base » indispensabile ad ogni ulteriore sviluppo delle conoscenze e per permettere loro di conseguire il diploma di terza media, di utilizzare i corsi per il recupero dell'obbligo scolastico (CRAcIs), che, attualmente malgestiti da enti parastatali, a fini speculativi e di sottogoverno, finiscono per favorire 'il ricorso alle scuole private, a pagamento. Questi corsi dovrebbero essere gratuiti, tenuti in scuole 'pubbliche da insegnanti statali, e concludersi con un esame che rilasci la licenza media, 'sostenuto presso una commissione composta in maggioranza dagli insegnanti del corso e in cui siano rappresentati i sindacati. Inoltre, si ritiene che possano istituirsi presso le scuole secondarie, soprattutto presso gli istituti tecnici, dei corsi di 100 ore, organizzati dagli enti locali con il contributo dello Stato, sotto la guida degli insegnanti delle scuòle stesse, e aperti anche alla frequenza degli studenti. Il limite maggiore di questa proposta, come rileva una nota della stessa FLM (14 maggio 1973), sta nella sua scarsa incidenza nei confronti della scuola tradizionale, che potrebbe continuare indisturbata i corsi della mattinata malgrado la presenza dei lavoratori 'nel pomeriggio, ove tra gli studenti e gli insegnanti non si creasse un collegamento pòlitico capace di condurre la lotta per una diversa gestione della scuola. SULLA BASE DI PRECEDENTI ESPERIENZE avviate in tema di lavoro, si

ritiene che possano essere organizzati dei seminari universitari incentrati sull'esame


82 di singoli problemi operai, con cui realizzare una compresenza all'università di operai e di studenti non formale ma legata alla necessiti dello stesso programma di studi. È questa una proposta molto simile a quella avanzata dal Manifesto e il fatto merita d'esser segnalato. Al contrario della maggior parte dei gruppi della « sinistra rivoluzionaria » (molto scettici sulla richiesta delle 150 ore, che anzi hanno giudicata fuorviante, dal momento che al centro dello scontro di classe c'è oggi ben altro: l'attacco ai livelli di occupazione, al salario reale, alle forme di lotta e alla libertà del « movimento »; così Lotta Continua nel numero del 18 gennaio 1973) Il Manifesto ha mostrato molto interesse per l'iniziativa e l'ha ampiamente descritta facendo anche proposte operative. Pur avanzando molti dubbi sulle «finalità immediate che i sindacati sembrano attribuire a questo recupero di lavoro intellettuale da parte della classe operaia » (il rischio è che la richiesta delle 150 ore si inserisca nel quadro di una riconquista di qualificazione professionale che ri;lanci in termini fittizi la carriera operaia e si risolva in semplice presupposto della riorganizzazione padronale dal lavoro in fabbrica; così Per la lotta n. 22-25, febbraio 1973) Il Manifesto ritiene che con questa richiesta si sia affermato - per la prima volta nella storia del movimento operaio - « l'esistenza di uno specifico bisogno di conoscenza di classe ». Un bisogno che non sarebbe « orientato al « bene » dell'azienda e nemmeno alla possibilità degli operai di contrattare meglio sul mercato la propria vendita come forzalavoro ». Bisogno piuttosto di « una conoscenza operaia che dalla immediatezza delle lotte nasce ma che non può svilupparsi e consolidarsi senza una mediazione intellettuale; tale mediazione richiede un momento di scolarità che si intreccia con la condizione operaia e tendenzialmente la supera, ponendo insieme le basi per il superamento della divisione del lavoro; la tendenza egualitaria che si scontra con gli ostacoli posti dai li-

velli di scolarizzazione a sostegno della gerarchia di fabbrica, come a sostegno della gerarchia sociale, non può procedere se non si sviluppa anche una conoscenza egualitaria » (Il Manifesto, 12 maggio 1973). LA PROPOSTA OPERATIVA SU CUI LA

FLM sembra maggiormente contare porta ad operare fuori di quella scuola di stato che in sede locale è oggi per lo più data in appalto ad enti privati. È in sede regionale e nell'ambito dei processi di formazione delle strutture delle Regioni che si intende portare il problema di come realizzare quella formazione professionale, i cui contenuti, legati alla pratica e al lavoro manuale, sono più vicini al mondo operaio. L'utilizzazione delle 150 ore nelle strutture di formazione professionale può, nelle intenzioni della FLM, servire a «sperimentare un rapporto nuovo tra qualificazione professionale e crescita della coscienza politica collettiva dei lavoratori»; a verificare insomma in ùn ramo di scuola «decentrato» alle regioni ,« una ipotesi culturale che oggi non è facile inserire nella scuola di stato, per preparare insegnanti nuovi, per creare una prassi dii contròllo operaio e sindacale sui contenuti e la gestione dei corsi ». Se dunque, da queste prime fasi di discussione sono emerse varie proposte operative, il cui senso è innanzi tutto quello di indicare la direzione verso cui i metalmeccanici intendono muoversi, cioè il «senso politico » da dare all'utilizzazione delle 150 ore, la apertura alle Regioni rappresenta il fatto di maggiore interesse. Il rilievo della materia del possibile confronto porrà i sindacati direttamente a fronte delle contraddizioni di queste nascenti istituzioni, in bilico fra « riforma » eriproduzione allargata dei modelli consueti di organizzazione pubblica. Un rischio, certo, ma anche un'importante occasione politica.

Marina Gigante


INDUSTRIA CULTURALE

presa di coscienza e prospettive d'intervento e le persistenti strozzature del mercato del lavoro hanno portato in primo piano, tra i temi del dibattito politico, i problemi della scuola e dell'università, una sistematica riflessione sui cambiamenti strutturali che stanno gradualmente mutando la società italiana può spiegare perchè anche i problemi dell'industria culturale sono venuti assumendo non minore centralità nel dibattito politico di questi ultimi tempi. Nel caso dell'industria culturale è forse più difficile riuscire a distinguere i motivi di fondo da quelli contingenti, che talvolta possono far velo sui primi, ma non ci si può esimere dal tentativo di condurre una analisi sulle linee di tendenza di lungo periodo, la sola che consenta di capire il « peso politico » dell'industria culturale. Questo tentativo ci sembra legittimato sia dai ricorrenti interrogativi che in questi ultimissimi anni si sono posti circa la esistenza o meno in Italia di una vera e propria industria culturale sia dalla sempre maggior, interdipendenza tra sistema economico, sistema politico, sistema culturale: interdipendenza che trova nella scuola e nell'industria culturale due luoghi precisi nei quali si manifesta con tutta evidenza. Non è difficile, intanto, isolare l'interesse contingente dettato dalla consueta « attenzione» che le forze politiche hanno sempre riservato - e sempre più negli ultimi anni - agli strumenti di controllo dell'opinione pubblica: nei momenti come l'attuale, in cui le lotte di potere si giocano sui destini delle formule di governo (il neocentrismo o il rinaSE IL BOOM DELLA SCOLARITÀ

scente centrosinistra), è del tutto logico (tenendo anche presente la cronaca degli ultimi mesi) che anche sui temi che noi chiamiamo dell'industria culturale, soprattutto per la parte che più specificamente si riferisce alla informazione, si intrecci la polemica tra le forze politiche. Ci sono pertanto delle analogie tra quanto accade in questi mesi e quanto accadde nel periodo di preparazione del centro-sinistra. E tuttavia oggi la lotta peril potere dell'informazione è una lotta più vasta perchè coinvolge direttamente tutte le forze politiche, sia a livello nazionale sia a livello regionale, in una situazione di maggiore mobilitazione sia degli operatori culturali sia di una parte dell'opinione pubblica che pesa sui partiti e, soprattutto in una situazione di rapporti di forza diversi tra partiti, sindacati, potere economico. Ciò è un riflesso del modo diverso con cui la stessa politica delle riforme viene oggi portata avanti. Negli stessi elementi contingenti del dibattito politico si vengono perciò intrecciando motivazioni riconducibili alle trasformazione in àtto nella società italiana. Per comprenderne il significato occorre avere presenti le caratteristiche specifiche sia del modello di sviluppo della società italiana sia del campo culturale così come si è venuto a costituire. In una società come la nostra, dove tutto « si rompe » e « si tiene » allo stesso tempo., è più difficile che altrove districarsi tra i fatti che la rilevanza empirica offre all'osservatore-partecipante della vita sociale e politica.


84 Ci si vieterebbe tuttavia di comprendere la realtà se ci si astenesse dal tentare di individuare i fattori strutturali e sovrastrutturali che fondano' la centralità politica che la industria culturale è venuta sempre più assumendo nel nostro paese: centralità ancora non pienamente avvertita, forse, a livello di quell'opinione pubblica che agli stessi strumenti di informazione dell'industria culturale è debitrice della propria coscienza. Questi temi, infatti, condividono con pochi altri la contraddittoria condizione di essere oggetto di quotidiana conversazione a quasi tuttti i livelli sociali ma di non essere oggetto di pubblico dibattito (con il necessario supporto di informazioni) nelle sedi in cui tale dibattito avviene per gli altri « temi » della vita politica: cioè negli stessi strumenti cli informazione dell'industria culturale. Con il risultato che poche altre decisioni come quelle relative alla gestione e all'indirizzo dell'industria culturale vengono prese in modo altrettanto riservato e accentrato. Questa condizione spiega, tra l'altro, perchè si sia avvertita sempre più in questi ultimi anni l'esigenza, da parte di operatori culturali o di persone e gruppi comunque interessati a mutare lo stato di cose esistenti, di promuovere e organizzare convegni che surrogassero - e fossero ad un tempo strumento di indagine e di pressione - alla mancanza di spazi pubblici di dibattito e di intervento. Ma convegni e tavole rotonde riusciranno a imporre anche sii questi temi un dibattito politico nelle sedi direttamente politiche, siano esse istituzionali o di base? Vediamo adesso di cominciare con queste pagine un'analisi che ci auspichiamo possa proseguire in numeri successivi affrontando tempi più specifici e ricollegandosi più immediatamente alle vicende in corso. Ci sembra che si debba cominciare col discutere alcuni punti di fondo: esiste o non esiste in Italia un'industria culturale, cioè un settore della organizzazione produttiva specificamente fina-

lizzato alla produzione e alla vendita di beni culturali? se la risposta è affermativa, qual'è la consistenza di questo settore e quali le sue linee di tendenza? In quali rapporti si tro va l'industria culturale con la scuola e la università da un lato, con il sistema politico dall'altro? Queste ci sembrano le domande di fondo. Dal modo con cui si risponde a queste domande derivano strategie diverse politiche per le forze di sinistra.

Prove sull'esistenza dell'industria culturale. SULLA NASCITA IN ITALIA DELLA INDU-

si è a lungo dibattuto e polemizzato tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta. Sulla base di alcuni fenomeni più appariscenti (la vicenda olivettiana, la nascita di alcuni editori, il boom di qualche best-seller e dei tascabili, l'avvento della televisione etc.) divampò un dibattito pro e contro l'industria culturale che vide impegnati soprattutto i settori intellettuali e ben poco attenti, almeno a livello di prese di posizione esplicite, le forze economiche e le forze politiche. In realtà quel dibattito - èhe vedeva contrapposti quelli che vennero ben presto chiamati gli « apocalittici » e gli « integrati » riproduceva in Italia dibattiti che si erano avuti in altri paesi (soprattutto gli USA, ma si pensi anche ai surrealisti in Francia e ai francofortisti in Germania) in un momento in cui stava iniziando un processo di' mutamento strutturale (economico e sociale) ma prima ancora che i suoi riflessi si fossero manifestati a livello di massa. Questo spiega perchè quel dibattito avesse' lasciato sostanzialmente indifferenti ampi settori del paese: gli industriali ancora ben lontani dal poter recepire le anticipazioni olivettiane sui rapporti azienda-società, i sindacati ancora alle prese con i grossi problemi delle spereSTRIA CULTURALE


Wl quazioni salariali tra le varie regioni del paese; le forze politiche di governo, e in particolare la DC, più che soddisfatte dei vantaggi che il sottogoverno offriva ai fini del controllo dell'opinione pubblica, sulla quale comunque esercitavano influenze ben più efficaci dei mass media le prediche domenicali in

zialmente immobilistica e rispondente a una logica clientelare: anche la vicenda tecnocratica può essere letta quindi come un capitolo della storia dei rapporti tra intellettuali e potere].

Parrocchia; le forze politiche d'opposizione poco sensibili agli sviluppi che i nuovi mezzi di comunicazone lasciavano intravedere e più sensibili agli strumenti tradizionali di organizzazione della cultura sui quali ritenevano di avere sufficiente influenza, dato l'orientamento a sinistra di larga parte dell'intellettualità italiana. Insomma è accaduto che si sia teorizzata la presenza in Italia dell'industria culturale quando ve ne erano solo le prime avvisaglie, con la conseguenza che si è realizzato per l'ennesima volta uno scollamento tra dibattito intellettuale e realtà del paese: ciò ha avuto non poche conseguenze negative negli anni successivi. [Quanto è accaduto per l'industria culturale non è che un aspetto di un problema più generale che riguarda il modo con cui è stata portata avanti la proposta riformista che portò alla costituzione del centro-sinistra. Un esempio analogo e più circoscritto è quello relativo alla polemica sulla tecnocrazia. Alla metà degli anni sessanta si è dato per nato e costituito un ceto tecnocratico forte e omogeneo che avrebbe occupato posizioni di controllo negli enti pubblici, negli organi della programmazione, in alcuni grossi complessi industriali privati e pubblici mentre questo ceto tecnocratico aveva solo adottato gli atteggiamenti e i simboli di status dei ceti tecnocratici di altri paesi capitalistici senza però disporre della competenza tecnica e del potere decisionale ad essa correlato. Sicchè si combatteva o si elogiava una tecnocrazia che di fatto non esisteva. Gli apparati tecnocratici e le facciate efficientistiche sono state usate dalla classe dirigente per mascherare una gestione del potere sostan-

Sono cambiati alcuni dati strutturali; si è creata una contraddizione sempre maggiore tra realtà e immagini che ha messo in. moto un meccanismo autopropulsore di aspettative deluse; si sta diffondendo una certa consapevolezza sui ritardi di cultura politica che hanno consentito gli errori di valutazion; che le forze riformatrici hanno commesso nel recente passato. I principali dati strutturali che si sono modificati in dieci anni riguardano a) la composizione della popolazione attiva per residenza, fasce di età, sesso e settore di lavoro; b) la composizione dei consumi (soddisfacimento per larghe fascie della popolazione dei bisogni primari e impossibilità di soddisfare gli altri sulla base della meccanica espansione dei consumi privati); c) il rapporto della massa della popolazione con la istruzione: accesso di massa all'istruzione primaria e ai mezzi di comunicazione di massa e di conseguenza crescita delle aspettative nei riguardi della scuola e della cultura come strumenti di ascesa sociale. Alla base di questi mutamenti vi stanno due dati di fondo: a) l'impossibilità del sistema economico di realizzare una espansione a tassi di sviluppo sufficienti dato il diseguale andamento della domanda interna e della domanda esterna (sulla quale sempre più ha fatto affidamento l'industria, settore rimasto complessivamente debole rispetto alle esigenze di sviluppo); b) l'incapacità del sistema politico di adeguare il proprio stile di governo alle esigenze dello sviluppo industriale. La gestione clientelare del potere, se nel breve periodo è stata funzionale alla con-

CHE COSA É CAMBIATO IN QUESTI ULTIMI 10 ANNI?


86 servazione del consenso, non è riuscita ad evitare che si creassero tali nodi di aggrovigliati problemi da rendere difficile l'espansione industriale e altamente conflittuale quasi ogni area o settore del paese. L'inefficienza della burocrazia, le strozzature del sistema distributivo, l'ihsufficienza e l'inefficacia di tutti i servizi (formativi, sociali, sanitari, etc.) sono alcuni dei principali impasses per risolvere i quali occorre un diverso metodo di governo che l'attuale classe politica non sembra costituzionalmente in grado di assicurare. La conflittualità sociale che sempre più si è andata sviluppando in tutti i settori, ceti e classi del paese dal 1968 in poi, se da un lato ha contribuito a fare emergere domande sociali fino ad allora inespresse, ha anche evidenziato una sempre maggiore scollatura tra aspettative e realtà. Solo una minima parte delle domande sociali - che si sono per lo più manifestate in modo corporativo e settoriale - ha potuto essere soddisfatta e il sistema economico e il sistema politico sempre meno hanno potuto evitare di lasciare inevase tali domande finendo per riconoscerne la legittimità pur essendo incapaci di rispondervi in modo adeguato. I valori e i modelli di comportamento veicolati dalla pubblicità e in genere dai mass media hanno contribuito non poco, nonostante i controlli e le limitazioni, a moltiplicare tali domande. È così potuto accadere che le immagini di « un mondo , migliore » veicolate dai mass media si siano sostituite sempre più alle promesse della religione (che per la loro natura extraterrena non correvano il rischio delle smentite!) e abbiano ottenuto l'effetto di far montare la rabbia, l'esasperazione, la protesta dei vari ceti sociali (e in particolare di quelli piccolo-borghesi e di quelli neo-urbanizzati); effetti analoghi hanno avuto le promesse (non mantenute) dei' politici e della classe dirigente sullo sviluppo del Mezzogior-

no e sulla realizzazione di una politica di riforme. Se si riflette un momento alle caratteristiche strutturali dei vari mezzi di comunicaL zione culturale in Italia si vedrà come essi siano funzionali a una organizzazione clientelare e settoriale della vita politica e non più rispondenti alle esigenze di una società in via di modernizzazione. La scuola continua a veicolare un tipo di cultura che, oltre a non essere funzionale alle esigenze di una società industriale, favorisce le illusioni e alimenta le aspettative di chi dalla scuola e dal titolo di studio si aspetta un futuro diverso da quello della classe sociale di origine. La radio-televisione nella maggior parte dei suoi programmi, il cinema spettacolare, l'editoria di massa, i fumetti e la stampa periodica popolare: tutti questi mezzi veicolano una cultura di massa di tipo evasivo in gran parte funzionale ai valori e ai modelli di comportamento di quelle fasce di piccola-borghesia parassitaria che il sistema di governo che ha prevalso in questi venti anni ha sviluppato e accresciuto e rafforzato. Un'altra parte dei mezzi (la stampa quotidiana, una parte della editoria di cultura tradizionale) veicola valori e usa linguaggi funzionali a specifici sottogruppi e sib-culture legati anch'essi alla classe dirigente o per ragioni ideologiche o per ragioni di servizio: la classe politica e giornalistica, i letterati, la classe insegnante, etc. Vi è invece un terzo raggruppamento di mezzi culturali che comprendono una minima parte della stampa quotidiana, una parte della stampa politica settimanale, un certo cinema, una certa editoria che veicola una cultura modernizzante e conflittuale, funzionale a una borghesia evoluta e a una classe operaia matura; questo terzo raggruppamento di mezzi è in espansione negli ultimi anni e si fa portatore di proposte culturali e politiche di tipo generale, siano esse a impo-


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stazione prevalentemente ideologica o prevalentemente razionalizzante. TUTTE E QUATTRO QUESTE CENTRALI DI EMITTENZA culturale che abbiamo

così schematicamente, e forse rozzamente, individuato sono in espansione e hanno vissuto in questi anni processi di crescita più o meno accentuati. Ciò che infatti è emerso con chiarezza dalle indagini sociologiche in materia è che l'espansione di uno qualsiasi dei mezzi di comunicazione porta all'espansione anche di tutti gli altri: quindi lo sviluppo dell'istruzione scolastica (la popolazione scolastica ammonta, nel 1971, a 9. 393.000 unità pari al 17,40% della popolazione) e lo sviluppo della televisione (gli abbonati alla TV sono più di 12 milioni alla fine del 1972) portano gradualmente allo sviluppo di tutti gli altri mezzi. È ciò che sta avvenendo da 3 o 4 anni a questa parte. Un primo dato per ciò che legittima l'uso dell'espressione industria culturale per definire larga parte dell'organizzazione della cultura oggi in Italia è l'esistenza di un mercato che dieci anni fa non esisteva nelle dimensioni attuali e con le attuali potenzialità di sviluppo (in poco più di un decennio la popopolazione universitaria si è quasi quintuplicata passando da 176.000 unità nel 1960 a 759.000 nel 1972 e gli abbonamenti alla televisione si sono quadruplicati passando da poco più di 3 milioni nel 1962 a oltre 12 milioni nel 1972). Ma questo dato non sarebbe di per sè sufficiente per rispondere affermativamente alla domanda circa l'esistenza o meno di una industria culturale in Italia. Esso costituisce tuttavia la chiave per comprendere un fenomeno che si è venuto sempre più manifestando negli ultimi anni fino ad assumere dimensioni di grande evidenza: l'ingresso in forme massicce del capitale - industriale nel settore dell'organizzazione della cultura. Tale ingresso è stato visto soprattutto in chiavé

di strategia del consenso e di controllo ideologico e solo da qualche tempo si comincia a intravederne gli aspetti strutturali ed economici (1). Che le motivazioni principali all'ingresso del capitale industriale nel settore dell'organizzazione della cultura siano economiche (cioè la ricerca del profitto) lo si può dedurre da una serie di fatti e considerazioni. Innanzitutto il fatto che l'intervento non è mai di tipo esclusivamente finanziario ma si accompagna a interventi cosiddetti di razionalizzazione, cioè a interventi che tendono a modificare i criteri organizzativi dell'azienda culturale: ridurre i costi, diversificare gli investimenti e la programmazione, rinnovare gli impianti, utilizzare in modo diverso gli uomini (sia a livello di intellettuali sia a livello di tecnici e di operai). Secondo fatto sul quale vale la pena riflettere: i soggetti che intervengono sono sempre gli stessi e sono riconducibili ai due settori industriali portanti dell'economia italiana: l'industria metalmeccanica e l'industria petrolchimica. Sono i gruppi industriali più attivi del paese che sono presenti (e tendono a rafforzare la propria presenza) in campo culturale, siano essi a capitale privato o a capitale pubblico: FIAT, ENI (e Moratti), Montedison (e Monti), SIR (Rovelli), IRISTET. Si tratta di settori che perseguono una politica di gruppo che li porta a diversificare gli investimenti e a essere presenti in molti campi oltre a quello principale: dalla distribuzione al turismo, dagli impianti antiinquinamento alle scuole e alle attività di ricerca. La cultura - sia essa editoria, cinema, stampa, audiovisivi - rapprèsenta per questi gruppi un altro settore di investimento. Settore di investimento redditizio se si pensa agli sviluppi che può avere in base alle previsioni che si possono fare osservandone lo andamento in altri paesi giunti prima del nostro alla fase dello sviluppo industriale e della istruzione generalizzata.


88 SE METTIAMO INSIEME QUESTI TRE

mercato in espansione, disponibilità finanziarie, capacità razionalizzatrici abbiamo quanto basta per dire che ci troviamo di fronte a una vera e propria industria culturale in formazione, anzi in processo accelerato di formazione. Questo processo è tutt'altro che lineare e come sempre il nuovo nasce nel guscio del vecchio. Tuttavia si rifletta anche ad altri fatti: a) la progressiva scomparsa o entrata in crisi di quelle aziende culturali - ivi compresa la RAI - che sono gestite con criteri « politici » e clientelari, su basi mecenatesche (i Falck, i Feltrinelli, i Lerici che finanziavano le perdite delle loro case editrici tendono a scomparire) o su posizioni di rendita (es. la editoria universitaria e scolastica); b) la generalizzazione di modelli gestionali di tipo manageriale in numerose aziende culturali anche di piccole dimensioni (da Rizzoli a Mondadori, da Marsilio a Guaraldi); c) le riconversioni in atto nel settore del cinema e del teatro dove tendono a diffondersi e a prevalere modelli organizzativi più agili (es. cooperative autogestite) che rispondono essenzialmente al bisogno di venire incontro a certe esigenze di mercato a costi competitivi rinunciando in qualche modo ai grandi apparati finanziati dall'intervento pubblico. Insomma ci sembra che esistano tutti gli elementi per ritenere fondata la previsione che si sta andando verso un'organizzazione della cultura sempre più dominata dal modello dell'industria culturale che si va generalizzando in quasi tutti i settori.

'ELEMENTI:

PER INDUSTRIA CULTURALE INTEDIAMO un'organizzazione della « produzione » culturale in funzione di un « mercato » grande o piccolo che sia. Tale tendenza è portata avanti: a) dai pochi imprenditori culturaligià presenti da tempo sulla scena; b) dall'industria automobilistica e dalla industria pretol-chimica; c) da nuovi imprenditori; d)

infine da gruppi di operatori culturali che preferiscono fare affidamento sulle proprie capacità di autorganizzazione (le cooperative) piuttosto che sulle aspettative nei riguardi di un intervento pubblico che, anche quando teoricamente ispirato a criteri democratici, viene gestito con tale inefficienza e lentezza da non raggiungere i fini per i quali viene teorizzato. Siamo, chiaramente, in una situazione di transizione e non è detto che l'esito irreversibile sia quello di una completa trasformazione dell'organizzazione della cultura secondo il modello dell'industria culturale. Ostacolano o possono ostacolare tale trasformazione numerosi fattori: a) gli interessi di una parte della classe politica di governo che preferisce poter continuare a utilizzare e gestire un certo tipo di intervento pubblico b) le lotte e le capacità propositive di forze di sinistra e di gruppi di dipendenti dell'attuale industria culturale che possono riuscire a imporre un modello diverso di gestione dell'intervento pubblico di politica culturale: un modello di gestione cioè di tipo democratico non solo nelle finalità ma anche negli strumenti di attuazione; c) la vischiosità e la forza degli interessi costituiti attualmente esistenti nel settore della scuola, della RAI-TV, del cinema, del teatro, della stampa quotidiana che possono riuscire a frenare una qualsiasi proposta di cambiamento sia in direzione privatistica sia in direzione di un intervento pubblico,alternativo a quello attuale. Tuttavia l'espansione del mercato, il processo di concentrazione, l'ingresso di nuovi operatori, la scomparsa di operatori di tipo paleo-capitalistico, il procedere della razionalizzazione ci sembrano tutti elementi di tale evidenza che richiedono una spiegazione che non può essere solo quella tradizionale del profitto politico e del controllo ideologico. Che ci sia anche questa motivazione è pacifico, ma ciò che costituisce l'elemento di novità è


RE la sempre più chiara presenza di una motivazione economica che si ha interesse da più parti a mascherare ma che non per questo è meno netta. Ciò significa che le aziende culturali sono oggi doppiamente appetibili per i gruppi di potere: per il profitto politico che un tempo « costava » in termini economici e per il profitto economico che esse consentono di realizzare direttamente e indirettamente. Un ulteriore conferma la si può ricavare dalle dimensioni, in termini di fatturato e di occupazione, dell'industria culturale. Non esistono dati certi. Ma, sulla base di calcoli induttivi e di stime che andranno meglio verificati, abbiamo potuto calcolare un fatturato annuo (1971) complessivo che si aggira sui 2.000 miliardi (ad esso concorrono, fra gli altri settori, con fatturati oscillanti tra i 200 e i 250 miliardi ciascuno: i quotidiani, i periodici, la radio-tv, l'editoria libraria, il cinema). Tale cifra è senz'altro da considerarsi approssimativa per difetto soprattutto se si tiene presente che l'occupazione nel settore, anche qui in base a calcoli induttivi, si aggira sui 250.000 addetti. Questi dati tuttavia sono sufficientemente indicativi per suffragare il nostro ragionamento. Se si tengono presenti le tendenze in atto nei paesi industriali avanzati e le condizioni arretrate da cui ha preso le mosse il nostro processo di sviluppo, avremo altri elementi per capire che siamo alle soglie di mutamenti che potrebbero essere anche radicali. Negli altri paesi si è assistito in questi ultmi dieci anni a grandi mutamenti nell'organizzazione dell'industria culturale: si sono moltiplicati i quotidiani regionali, locali e perfino di quartiere a scapito dei quotidiani nazionali; si è enormemente accresciuta la diffusione della stampa periodica specializzata che si rivolge a fasce di lettori omogenee per reddito, professione o svaghi (a scapito dei periodici di interesse generale a diffusione nazionale); dove le condizioni legislative lo hanno consentito si sono diffuse

reti radiofoniche a raggio locale e TV via cavo; il cinema non è più lo svago di massa (è stato sostituito in parte dalla TV in parte dall'industria delle vacanze): alle grandi sale degli anni cinquanta si sono venute sostituendo le salette per pubblici circoscritti. Nei principali paesi industriali si è venuto sostituendo al messaggio di massa indifferenziato, il messaggio « individualizzato »: le esigenze del mercato pubblicitario (quelle cioè di incontrarsi con il cliente potenziale) si sono congiunte a quelle dell'industria culturale (quelle cioè di raggiungere un fruitore stabile). Ciò ha determinato il prevalere della dimensione locale e specializzata rispetto alla dimensione nazionale e indifferenziata rendendo i mezzi di comunicazione culturale sempre più dipendenti dai budgets pubblicitari e dai « gusti » del pubblico. Non può sfuggire come una tendenza di questo tipo non possa non essere appetibile per chi intende agire sul mercato italiano: ,un mercato mediamente poco sviluppato in cui il ricorso alla pubblicità è di gran lunga inferiore rispetto alle medie di altri paesi, un mercato infine ancora largamente vergine rispetto ad alcuni mezzi culturali (stampa quotidiana ed editoria libraria) ma che il cinema prima e la televisione poi hanno cominciato a strutturare. Rimane infine un ultimo settore da prendere in considerazione: la scuola. Sono a tutti note le enormi carenze in termini di attrezzature e di metodologie didattiche. La battaglia contro il libro di testo e a favore di tecnologie educative più avanzate è ormai in corso da tempo. L'attenzione degli editori e dei produttori cli nuovi mezzi audiovisivi è anch'essa attiva da qualche anno. Il mercato della scuola è, potenzialmente, un mercato enorme sul quale già si programmano gli investimenti e si organizza la produzione: le biblioteche di classe, la sperimentazione, gli audiovisivi, l'istruzione programmata rappresentano già oggi obietti-


vi che l'industria sarebbe in grado di sodclisfare. Gli ostacoli sono prevalentemente procedurali e legislativi. È il sistema politico che impedisce una più rapida utilizzazione da parte della scuola dei nuovi prodotti dell'industria culturale. E veniamo così al secondo punto centrale del nostro discorso: ruolo e fùnzione del sistema politico nel campo dell'organizzazione della cultura.

Peso del sistema politico. IL SISTEMA POLITICO - o meglio la classe politica di governo - ha contribuito in modo diretto e indiretto al precostituirsi di un mercato di massa per i beni culturali: rendendo obbligatoria l'istruzione di base fino al 14 0 anno di età e istituendo la scuola media unica, liberalizzando gli accessi all'università, controllando direttamente la RAI-TV e influendo in modo più o meno determinante sugli altri settori culturali: cinema, teatro, stampa quotidiana. Ma, ed è questo il punto centrale, non è disposta a perdere i poteri di cui attualmente dispone nel controllo dei canali e anzi vorrebbe aumentarli. Tale problema è divenuto drammatico nel momento in cui le tradizionali centrali di controllo ideologico - la Chiesa e la scuola per la DC, l'ideologia di partito per il PCI hanno perduto credibilità e comunque sono diventate meno importanti rispetto all'importanza crescente assunta dalle emittenti culturali collegate alla società di massa, ai consumi, etc. Questo atteggiamento della classe politica di governo è in parte condiviso anche dalla classe politica di opposizione: l'una e l'altra non vedono certo con favore lo sviluppo dell'organizzazione della cultura come industria culturale perchè ciò vorrebbe dire: sia perdere il controllo di alcuni dei principali canali di informazione sia lasciare al potere industriale tutta intèra la responsabilità

dj gestire il rapporto con l'opinione pubblica e ciò porterebbe a un ulteriore calo di credibiità della classe politica e a una riduzione dei suoi margini di manovra. Di qui l'accordo sostanziale tra DC e forze di sinistra per il mantenimento del monopolio della RAITV e anche il tacito accordo (ancora in piedi fino a qualche anno fa) che concedeva: alla DC il controllo, totale della RAI-TV, alle sinistre il parziale controllo del cinema e del teatro, alle forze industriali e comunqùe al « libero gioco » delle influenze il controllo della stampa' e dell'editoria. Oggi ci si comincia forse a rendere conto che questo tipo di accordo è convenuto soprattutto alla DC che è riuscita a frenare, attraverso la gestione della RAI-TV, l'immissione nel grande mercato culturale italiano delle componenti più dirompenti della cultura di massa attraverso una costante mediazione coi valori cattolici e moderati e con la cultura burocratico-umanistica della classe politica. Questa mediazione poteva far comodo anche alle sinistre o meglio le sinistre si illusero che tale politica fosse funzionale anche ai propri interessi, sottovalutando la portata dirompente dei mass media e contribuendo a rafforzare - con la costante attenzione riduttiva alle specificità nazionali - i valori tipici della conservazione piccolo-borghese. Ma ciò che è successo in Italia dopo il '68 non solo ha messo in crisi i tradizionali quadri di riferimento ma ha anche mostrato come esistesse nel paese un potenziale di lotta antimoderato di tipo « laico » che era stato costantemente sottovalutato dalle sinistre. Non solo ma ci si è resi conto che la gestione dei mas media realizzatasi in questi anni in Italia è stata funzionale alla gestione del potere imposta dalla DC che è riuscita a realizzare, sia pure a livelli minimi di credibiità, una egemonia culturale che costituisce oggi un serio ostacolo ai progetti riformatori perchè cementa agli interessi di potere della DC gli interessi parassitari e


91 clientelari di larghi settori dei ceti medi improduttivi. Entrambi i settori della classe politica, pur tra loro in lotta, sono tutto sommato abbastanza d'accordo sulla reciproca convenienza ad evitare che l'organizzazione della cultura sfugga, almeno nelle sue parti essenziali, al controllo dell'intervento pubblico e tendono perciò a sottovalutare, agli occhi del pubblico, le dimensioni industriali assunte dal settore. Considerare infatti l'organizzazione della cultura come industria culturale, a prescindere dai soggetti che ne controllano il processo produttivo, siano cioè essi privati o pubblici, piccoli o grandi, significa infatti legittimare un tipo di organizzazionie sindacale degli addetti al settore di tipo assai diverso da quella attualmente esistente. La presenza dell'industria culturale legittima infatti un'organizzazione sindacale di tipo non corporativo che vede unite negli stessi organismi tutte le categorie di addetti siano essi operai, tecnici o intellettuali, dipendenti o collaboratori esterni. Legittima un'organizzazione sindacale che unifica nel momento sindacale quelli che sono oggi momenti separati gestiti corporativamente da soggetti distinti (sindacati categoriali, associazioni culturali, associazioni di categoria, etc.). IL PREVALERE DI UN ATTEGGIAMENTO

che tende a considerare l'organizzazione della cultura come industria culturale può avere a breve termine una serie di conseguenze negative soprattutto sui livelli di occupazione. Si pensi ai settori del cinema e della RAI-TV dove gli attuali livelli di occupazione non sono assolutamente giustificabili sul piano produttivo ma possono essere garantiti solo attraverso una contrattazione politica. In un paese in cui il problema dell'occupazione ha segnato tutte le principali battaglie politiche del dopoguerra si capisce come l'argomento finisca per essere un argomento decisivo a favore di un accordo tra i

vari settori della classe politica. Solo che questo accordo impedisce alle sinistre di condurre una lotta più a fondo contro la DC e il suo strapotere e favorisce quella politica moderata che spinge i partiti di sinistra a distinguere tra il piccolo, il medio e il grande editore, tra l'industriale dell'automobile e quello del petrolio, e più ancora, tra industria pubblica e industria privata. Nei riguardi degli intellettuali poi si porta avanti una proposta di politica culturale che non offre reali alternative perchè non consente a questi - tranne i casi dei grossi nomi - di poter contrattare la propria collocazione sulla base della propria forza reale che è quella che deriva loro dalla collocazione nel processo produttivo e dal rapporto con il prodotto e con il mercato. IN QUESTA SITUAZIONE TUTTE LE

in presenza, sia quelle politiche sia quelle industriali, hanno interesse a raggiungere accordi - taciti o contrattuali a livello di grandi gruppi per il controllo della comunicazione culturale e la spartizione delle aree di influenza in proporzione del proprio peso politico ed economico. Questo è uno dei motivi per cui i discorsi sulla riforma dell'informazione e sulla riforma della RAI-TV sono diventati tra i temi principali del discorso politico. Solo i sindacati non hanno interesse a questo tipo di accordo a meno che non ne possa uscire qualcosa anche per loro per es. un quotidiano sindacale come da qualche parte è stato detto. Un accordo generale tra le varie forze in campo potrà avere la possibilità di durare se si riuscirà a trovare il modo cli far sopravvivere e vivere iniziative autonome. Su questo punto si discute ancora molto sul come. Aiuti alle piccole e medie aziende come si è sostenuto, anche a sinistra, da tempo e come in parte si continua ancora a sostenere? Oppure aiuti alle aziende culturali gestite in fòrma cooperativa, come fu proposto tre an-

FORZE


92 ni fa da ambienti confindustriali che recepivano suggestioni del « maggio » e come viene proposto sempre più dagli ambienti della sinistra? Le facilitazioni alle gestioni cooperative presentano dei rischi per tutte le grosse forze in canipo. Date le potenzialità di merchto, una certa spinta di base, le condizioni di disoccupazione o sottocupazione intellettuale esistenti, si potrebbe avviare un processo difficilmente controllabile. Sono di questi giorni le polemiche sulla TV via cavo che potrebbe essere uno degli strumenti per realizzare forme di gestione cooperative. Gestioni c000perative, del resto, si sono create numerose in questi anni in campo teatrale e cinematografico e si sono proposte in campo giornalistico ed editoriale. Insomma ci sembra, per concludere, che il dibattito sull'esistenza o meno dell'indCistria culturale è un dibattito cruciale sia perchè consente di capire una serie di rapporti di interdipendenza tra sistema economico, sistema politico, sistema culturale sia per-.

chè consente di inviduare le strategie possibili per le forze di sinistra in campo specificamente culturale. La nostra posizione ci sembra risulti chiara. Siamo convinti dell'esistenza dell'industria culturale come settore produttivo sempre più chiaramente individuabile. Da questa convinzione traianao la conseguenza che una strategia di sinistra debba fondarsi su tre direttrici precise: a) battaglia per un intervento pubblico che favorisca una gestione democratica; b) sviluppo del processo di sindacalizzazione degli addetti all'industria culturale secondo criteri non corporativi sulla base di una contrattazione degli aspetti salariali, delle condizioni di lavoro, del controllo 'sul prodotto; c) sviluppo delle forme cooperative di gestione delle aziende culturali in funzione del mercato e non in funzione di interessi ideologici protetti politicamente o coperti mecenatescamente.

Giovanni Bechelloni


TERRITORIO E REGIONI

la politica dellà casa: in attesa del "profitto,,? I temi di questo intervento sono ripresi ed approfonditi in un libro di prossima pubblicazione nella collana 'Queste Istituzioni' di Officina Edizioni. IL PROBLEMA DELLE ABITAZIONI in Itaha, come si è posto con le lotte sociali del '69, ha segnato l'inizio di un profondo mutamento politico che ha coinvolto in primo iuogo l'azione sindacale. Gli scioperi per il rinnovo dei contratti nell'« autunno caldo », hanno posto al centro non più la monetizzazione delle rivendicazioni salariali, ma il salario inteso come l'insieme dei bisogni sociali dell'individuo, la remunerazione del lavoro in diretto rapporto con i consumi individuali e sociali. Le lotte per la casa sono diventate rivendicazioni operaie ma anche rivendicazioni fatte proprie e gestite in prima persona da molti altri strati sociali sfruttati ed emarginati; hanno posto cioè, nel senso più ampio, il problema dei consumi sociali all'interno del meccanismo generale della produzione. Lo scontro è stato spesso violento e la rivendicazione popolare si è generalizzata sia al nord che al sud: testimonianza, anche que.sta, di quanto radicale sia divenuto il conflitto di classe negli ultimi anni coinvolgendo ormai negli aspetti fondamentali la validità stessa del meccanismo produttivo e la logica dello sviluppo (1).

(1) « Lo sciopero generale del 19 novembre del '69 per la casa, ad esempio, ha sprigionato una carica di ribefflone» mai vista prima, neanche nei precedenti scioperi generali per le pensioni

Certo, se un problema delle abitazioni in Italia si è posto con tanta forza è perchè la sua gravità dipende direttamente dallo sviluppo economico distorto che si è realizzato fino ad oggi. Da un lato infatti il privilegio concesso alla industrializzazione come asse centrale attorno al 9uale ha girato tutta la crescita economica del paese, ha favorito una concentrazione urbana in poche aree altamente industrializzate, e ha di nuovo accentuato lo sviluppo squilibrato tra zone sviluppate del settentrione e zone agricole depresse del sud. Dall'altro, il rapido consolidarsi delle strutture industriali così formate, è venuto ad incidere profondamente sul territorio: questo ultimo, anzi, è stato considerato come elemento neutro, tale da offrire ampi margini per assorbire lo sviluppo incontrollatoche si andava realizzando. In sostanza, il territorio e con esso le strutture urbane e tutto l'equilibrio socioeconomico preesistenti a quello sviluppo venivano considerati come elementi « naturalmente » disponibili ad una riconversione nei termini di utilità dettati dalla nuova dimensione industriale. È avvenuta così la formazione di aree metropolitane che andavano modificando profondamente l'uso stesso del territorio e la nozione stessa di città: e per il superamento delle « gabbie salariali, pur essendo questi ultimi temi di vasto interesse popolare »; Aldo Forbice - La federazione CGIL - CISL UIL fra storia e cronaca - inchiesta nel movimento sindacale - Bertani ed. 1973, pag. 26.


94 « La creazione di metropoli e di aree metropolitane è fenomeno da considerare ( ... ) per il ruolo specifico che viene a svolgere nel quadro socio-economico del territorio, cioè come area privilegiata negli investimenti e nei consumi, altamente dotata di infrastrutture di comunicazione per rispondere alla grande domanda di mobilità delle persone e delle merci, attrezzata per svolgere al più alto livello le funzioni di organizzazione, direzione, scambio, consumo, e dunque capace di sostenere il ruolo di guida non solo nel campo economico ma anche in quello dei modelli di comportamento e dell'emulazione sociale e culturale » (2).

al contesto territoriale in cui si venivano a trovare inseriti, ma comunque sempre fonte di gravi problemi spaziali e funzionali ( ... ) Dai casi della Spezia (arsenale, cantieri, grande meccanica, porto), di Terni (meccanica e siderurgia), si arriva a queffi di Porto Marghera (chimica e meccanica), di Gela (chimica), di Taranto (siderurgia) con un ripetersi di logiche e di meccanismi operativi - ma soprattutto di risultati - che non hanno praticamente varianti dall'unità al giorno d'oggi, per quanto apparentemente diverse siano state di volta in volta le motivazioni e le forze politico-economiche in gioco » (4).

Di qui anche lo spopolamento delle campagne, divenuta sempre più precisa scelta economica, che alterava immediatamente lo equilibrio economico del territorio modificando tutta la rete degli scambi e delle attività circostanti dipendenti dall'agricoltura. Se concentriamo la nostra attenzione al dopoguerra, la decisione di impiantare una industria pesante (siderurgica, meccanica, chimica) ha comportato sul territorio:

Alla fine degli anni '60 si poneva sia in generale sia a più specifici livelli - in conseguenza di uno sviluppo economico che non solo aggravava squilibri già esistenti ma che alterava le strutture territoriali già consolidate - il problema dell'organizzazione del territorio come necessità primaria per il coordinamento e il controllo delle attività produttive: il territorio negava così il suo ruolo neutrale e al contrario si poneva come momento centrale dello sviluppo urbano. I problemi della casa non sono che un test prezioso per comprendere in tutta la sua gravità la crisi di tutta una radicata « filosofia» dello sviluppo come fenomeno di mercato che può assumere come variabili dipendenti l'ambiente e l'assetto del territorio. In sostanza, con il problema delle abitazioni è entrato in discussione tutto il problema dell'organizzazione della città così come essa poteva essere fruita, dei servizi sociali e quindi del loro accesso generalizzato.

« la formazione e l'attrezzatura di aree specializzate per tali insediamenti (le zone industriali), la creazione di sistemi urbani privilegiati quanto a concentrazione di investimenti e quindi di impinti e di attrezzature (il triangolo Milano-TorinoGenova) e il determinarsi di sistemi territoriali più ricchi, di attività e localizzazioni produttive (l'Italia padana rispetto al resto del paese) » (3). Queste scelte hanxio quindi razionalizzato lo sviluppo economico già di per sè concentrato nella metà del territorio nazionale: « Dall'unità ad oggi il numero delle città nuove industriali si è moltiplicato. Sempre, anche se si è trattato di interventi appoggiati ai centri esistenti, la scelta delle maggiori localizzazioni industriali ha comportato la formazione di episodi urbanistici del tutto nuovi, spesso destinati a rimanere estranei

INu, Lo sfruttamento capitalistico del territorio: tesi dél Consiglio Direttivo per' il XIII Congresso; Ariccia 1°-3 luglio 1972. C. Carozzi - A. Mioni, L'italia in brmazione, De Donato 1970, pag. 132.

nelle grandi città industriali del nord o a Roma, o nelle grandi città meridionali come Napoli, Palermo, Salerno e Bari, ingigantite dall'immigrazione e dallo spopolamento delle campagne, significa anche carenza di servizi pubblici (scuole, ospedali, trasporti, verde pubblico etc). La casa si è rivelato il punto di maggior LA CARENZA DI ABITAZIONI

C. Carozzi - A. Mioni, op. cit., pag. 132.


95aggregazione della richiesta popolare perchè segno più palese della diseguaglianza sociale e di classe, bisogno prioritario ed esempio macroscopico dell'utilizzazione incontrollata degli investimenti pubblici e privati completamente sottoposti alle valutazioni di una economia ancora esasperantemente « laissez faire » se non predatoria. Di qui l'occupazione prolungata da parte di baraccati e senza tetto, occupazione poi duramente repressa, di migliaia di appartamenti nuovi e di lusso sfitti o rimasti invenduti costruiti in tutte le città italiane dalle grandi e piccole imprese private e a volte di interi caseggiati nei centri storici svuotati dei loro abitanti, e pronti, per essere ristrutturati e affittati poi a prezzi speculativi. La grande domanda di abitazioni popolari che si è riversata sul mercato, l'insufficienza delle strutture pubbliche nel soddisfacimento del fabbisogno edilizio, si rivelano in tal modo come problemi che non possono essere sganciati da quelli più generali che coinvolgono lo sviluppo pconomico complessivo, ma al contrario vanno strettamente collegati e inseriti nel problema più ampio dell'assetto del territorio e degli squilibri territoriali. È in questo quadro che l'edilizia ha rivelato la sua subordinazione al meccanismo di sviluppo squilibrato. Essa 3rifatti ha contribuito in primo luogo all'esasperazione di tutte quelle contraddizioni legate ad uno sviluppo disomogeneo, non solo seguendo come è naturale in una logica di puro mercato - le tendenze della domanda nelle aree «'più ricche », ma in alcuni casi imponendo con gli insediamenti residenziali il processo di concentrazione urbana. Conseguenza, come vedremo, del ruolo centrale che ha sempre avuto la rendita fondiaria. Uno sviluppo economico consumatore di terra, ed in particolare di suoli urbani non poteva che rispondere pienamente alle esigenze della speculazione fondiaria e trovare nel mondo imprenditoriale e proprietario le-

gato al settore ediizio un interessato e determinante alleato (5). MA IL RUOLO DELL'EDILIZIA NON SI

il suo carattere di arretratezza equindi la capacità di assorbire livelli sempre crescenti di manodopera non qualificata, ha creato, a ridosso e all'interno delle aree metropolitane, immensi serbatoi di forza-lavoro cui le imprese hanno potuto liberamente attingere e verso i quali hanno fatto ritornare la manodopera in rapporto alle esigenze produttive e alla domanda speculativa del mercato delle abitazioni. E nelle città meridionali l'edilizia svolge questa funzione costituendosi come principale fonte di occupazione urbana drenando e filtrando i fenomeni di emigrazione ed operando una prima e irreversibile trasformazione delle masse rurali in masse urbanizzate legate ai nuovi modelli di vita e di consumo. Se passiamo dalle interrelazioni sul territorio tra edilizia e sviluppo economico a quelle più generali della distribuzione delle risorse tra i diversi settori produttivi, ecco che il ruolo arretrato dell'edilizia si rivela per altra yia funzionale al meccanismo complessivo dello sviluppo capitalistico,. La caratteristica di fondo del mercato edilizio in tutto il periodo che va dalla ricostruzione (anni'SO) fino alla crisi degli anni 196570, è data soprattutto dal primato della rendita, legata alla speculazione sulle aree fabbricabili. I vertiginosi aumenti di valore sulle aree, dovuti in primo luogo ai fenomeni di migrazione interna della popolazione e di urbanesimo, aumenti non contrastati ma spesso esaltati dalle scelte dell'operatore pubblico sia in sede di pianificazione urbanistica che in sede di interventi diretti sul territorio (infrastrutture e servizi pubblici, alloggi di FERMA QUI:

() L'opinione è di B. Secchi.

Li


96 edilizia residenziale pubblica) sono andati direttamente a vantaggio della proprietà parassitaria, cioè di quei soggetti che hanno il solo merito, la « fortuna » si direbbe, di possedere aree interessate dal processo di sviluppo (rendita posizionale o differenziale). Il processo speculativo è stato ulteriormente innescato da contrattazioni volute nella offerta di aree da parte di quei proprietari che hanno preferito lasciarle inutilizzate in vista di maggiori guadagni speculativi per il crescere futuro della domanda (rendita monopolistica). Il peso assai rilevante della rendita nell'edilizia ha contribuito in secondo luogo, a mantenere la struttura produttiva del settore in condizioni di pesante arretratezza. In una situazione di netta prevalenza di imprese di costruzione medie e piccole (circa l'80% del totale), l'incidenza del prezzo dell'area sui costo di costruzione complessivo, unita ad un andamento vertiginoso dei costi dei materiali da costruzione, ha impedito, da un lato ogni ristrutturazione o ammodernamento dei processi produttivi, dall'altro ha portato ad una massiccia intensificazione dei ritmi di sfruttamento del lavoro operaio. Nè questa situazione si è modificata con il processo di concentrazione mandato avanti negli anni '63-'65, che si è manifestato in un aumento del peso delle società immobiliari. Queste, unendo in sè le due figure del proprietark di aree edificabili e dell'impresa di costruzione, hanno in realtà « razionalizzato » ed esteso proprio la speculazione fondiana come forma di autofinanziamento della propria attività nell'industria dell'edìlizia e relegato le piccole imprese ad un ruolo marginale e subordinato rispetto alle grandi concentrazioni monopolistiche. I margini di sopravvivenza per le piccole imprese sono quindi rimasti legati, da un lato, all'estensione dei cottimi e della pratica del subappalto e, dall'altro, ad una azione di trasferimento della rendita, pagata nell'acquisizio-

ne delle aree sul prezzo del prodotto finito, cioè dell'alloggio (rendita edilizia). In una situazione di questo genere l'offerta di abitazioni non poteva che rivolgersi al soddisfacimento, non del bisogno effettivo, ma della domanda realmente solvibile ad un livello di prezzo speculativo. Sono sorte, quindi, case di lusso la cui utilizzazione poteva essere o la cessione in proprietà o la locazione a prezzi elevatissimi. Il mercato poteva reggere, a queste condizioni, firichè fosse stato possibile imporre livelli di fitti che hanno' inciso nella media fino al 40% dei redditi, e fino a che il credito e le agevolazioni fiscali avessero continuato a facilitare l'ingresso della domanda nel settore. Ma quando, come si è verificato, il peso della rendita si è fatto insostenibile e, in presenza anche di un stretta creditizia, il mercato delle abitazioni di lusso si è praticamente saturato, ecco che la crisi non ha avuto più le caratteristiche di una « temporanea recessione », ma quella della « conclusione di un ciclo » (6). un'edilizia di questo tipo nel sistema economico complessivo? Su questo punto si confrontano due tipi di analisi. La prima, sottolineando il peso del settore sul totale degli investimenti (di media il 30% degli investimenti fissi totali) e le sue caratteristiche di arretratezza, tende ad attribuire alla rendita un ruolo di distorsione nella distribuzione delle risorse a vantaggio dei ceti parassitari e a tutto danno dei settori produttivi. L'eliminazione della rendita fondiaria ed edilizia, e la ripresa del settore, basata su iniziative imprenditoriali volte al conseguimento del solo profitto capitalistico, è quindi QUALE RUOLO GIOCA

(6) ISVET, La politica dell'abitazione in Itaha, cidostilato, pag. 32.


97 necessaria alla ripresa complessiva del sistema perchè razionalizza la distribuzione del capitale e costituisce un elemento propulsivo nei confronti della edilizia ma anche dei settori collegati ad essa (legno e sughero, metalli ferrosi, minerali non metalliferi, materie plastiche, trasporti ecc.). Una seconda posizione non considera la analisi suesposta sufficiente: l'antagonismo tra settori arretrati e settori avanzati, che a quella analisi è sotteso, può spiegare alcune fasi dei rapporti intercapitalistici, ma non è in grado di mettere in luce i livelli di interrelazione tra i diversi settori e tra i fenomeni economici della rendita e del profitto. L'elemento di fondo di questa posizione sta nel considerare i rapporti tra le diverse categorie economiche (settori produttivi e settori arretrati, rendita e profitto) alla luce della possibilità di creare plusvalore e della forma che assume la sua distribuzione. Da questo punto di vista la creazione di plusvalore nel settore edilizio non è legata soltanto ai fenomeni della rendita differenziale o monopolistica, ma dipende in notevole misura proprio dalla cosiddetta « arretratezza » del settore, e cioè in sostanza dalla estremamente bassa composizione organica del capitale impiegato, cioè dalla assoluta preponderanza del peso della forza lavoro rispetto al capitale fisso (7). Sulla base di questa considerazione vale analizzare il ruolo del settore edilizio nel meccanismo complessivo non tanto staticamente come fanno i sostenitori della tesi del ruolo « distorcente» della rendita differenziale, ma con una analisi di tipo dinamico. Da questo punto di vista è necessario vedere se il plusvalore prodotto nel settore, anzichè essere

(7) R. Nicolini, Rendita e creazione di plusvalore nel settore edile in Italia dalla ricostruzione ad oggi, in « Controspazio» n. 8 (parte prima) e n. 9 (parte seconda), 1972. 7

sottratto a possibili impieghi produttivi, non sia per caso ad essi utilmente trasferito. In tal modo si verificherebbe l'esistenza di un ruolo diverso da quello, sempre considerato prevalente, di compressione del saggio di accumulazione del capitale: il plusvalore creato in condizioni di alto sfruttamento della forza lavoro avrebbe cioè la funzione di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto proprio dei settori a più alta composizione organica del capitale. Alcuni meccanismi di trasferimento sono stati individuati: in primo luogo, è necessario ricordare il ruolo di intermediazione e di intreccio svolto dal finanziamento del settore edilizio e soprattutto dal sistema creditizio (sia nel finanziamento iniziale dell'impresa costruttrice, sia nella concessione di mutui per l'acquisto degli alloggi). Va poi ricordata l'importanza degli interventi diretti nel settore delle imprese industriali che, costituitesi notevoli patrimoni immobiliari, hanno poi potuto, con le plusvalenze ricavate dalla loro cessione, finanziare l'ammodernamento e l'ampliamento dei loro impianti. C'è poi, all'interno del settore, come meccanismo di trasferimento dalla rendita al profitto, il sistema delle permute di aree già costruite per ottenere nuovi finanziamenti. Di importanza sempre più crescente è il peso assunto dalle società immobiliari nelle quali è andata aumentando in questi anni la partecipazione azionaria dei grandi gruppi industriali. Sarebbe assai arduo distinguere, nelle plusvalenze che esse ricavano nel settore immobiliare, la quota dovuta alla rendita da quella dovuta al profitto capitalistico c. d. « puro ». L'ultimo e forse più importante meccanismo di trasferimento è costituito dal massiccio intervento nel settore delle imprese assicuratrici (che sono anche un comodo canale di intrvento indiretto, mediante la partecipazione azionaria, delle imprese industriali) e degli istituti di previdenza, per i quali il capitale immobiliare costituisce un


2 duttivo delle risorse, se si poteva continuare ad attingere ad un mercato del lavoro caratterizzato da una forte concorrenzialità. Il raggiungimento di un tale equilibrio era quindi favorito da un mercato edilizio che, se si andava sempre più indirizzando verso una offerta di tipo speculativo, era, in quegli anni, ben lontano da una sua saturazione. Nè si può dimenticare il ruolo anticiclo assunto dall'intervento pubblico nel settore che, accettando tutte le caratteristiche strutturali date, contribuiva al sostegno dei finanziamenti e della domanda di abitazioni ad ogni accenno di recessione. A ciò si aggiungano due altre considerazioni: la redditività dell'investimento immobiliare speculativo è stato un elemento di incoraggiamento del risparmio privato, e quindi ha potuto favorire la crescita del saggio di aÈ AFFERMAZIONE COMUNE, anche 'di co- cumulazione del capitale; il tipo di offerta di abitazioni, il costo degli affitti hanno coloro che hanno esaminato a fàndo lo svistituito una forma di compressione del saluppo dell'edilizia che questa sia stata negli lario reale dei ceti caratterizzati da un'altra anni che vanno dalla ricostruzione fino al '63 propensione al consumo. È anche nell'uso uno dei settori traenti dell'economia genedeflattivo, di contenimento dei consumi, che rale. si estrinseca quindi la funzione dell'edilizia Ciò significa, se ritorniamo al quadro di decisiva per lo sviluppo che s'è storicamente riferimento sopra delineato, che l'esistenza realizzato in Italia. Non è inutile ricordare, di settori arretrati (edilizia ed agricoltura) infine, come nessuno, negli anni della ricocaratterizzati da bassa composizione organistruzione e del boom edilizio, abbia proca, del capitale e produttori di plusvalore e posto una eliminazione della rendita per evidi rendita in misura taie da favorire il fitare il suo asserito ruolo antagonistico agli nanziamento di un certo tipo di industriainteressi dei settori produttivi. E non è un lizzazione (rivolta soprattutto all'esportaziocaso che l'unica proposta in questo senso, ne e territorialmente squilibrata) era una delquella dell'esproprio generalizzato del Minile condizioni di fondo dello sviluppo. Nelstro Sullo nel '63, che partiva prevalentel'equilibrio tra capitale, terra e lavoro, il fatmente da considerazioni « urbanistiche », leto che una quota, anche crescente, delle rigata cioè al ruolo che la rendita aveva avuto sorse andasse a vantaggio del fattore terra, non costituiva dunque un ostacolo se restava nel condizionamento della pianificazione terla possibilità di un utile reinvestimento pro- ritoriale e nella distruzione dell'assetto delle maggiori città, sia stata rapidamente e bruscamente accantonata. La situazione si è però capovolta nella (8) R. Stefaneffi, Rapporti tra capitale finanfase di recessione economica generale succesziario industriale ed edilizio in Le leve del sistesiva al « hoom» produttivo, e si è manifema, De Donato, 1971.

«bene-rifugio a redditività garantita permettendo tra l'altro una diversificazione degli investimenti nei momenti di pericolosa liquidità in eccesso » (8). L'esistenza di molteplici strumenti di reinvestimento produttivo del plusvalore creato nel settore edilizio pone quindi la necessità di rivedere l'ipotesi di una strutturale contraddittorietà dei fenomeni di rendita nei confronti del meccanismo complessivo di sviluppo, ma non esclude che vi possano essere momenti di scontro di interessi tra settori arretrati e settori avanzati. Il problema quindi, per lo sviluppo capitalistico è quello di ricercare nuove condizioni di equilibrio. L'analisi di queste interrelazioni va quindi svolta cercando di ricostruire le diverse fasi dello sviluppo.


99 stata una tendenza antagonistica nei coni fronti del meccanismo di sviluppo. Di fronte ad un allargamento dei consumi, ad un aumento del costo del lavoro (frutto delle lotte operaie e della modificazione degli equilibri politici), ed alla necessità di ricostruire i margini di profitto attraverso un elevato saggio di progresso tecnico, diventava decisivo disporre di capitali adeguati per investimenti prodotti in misura maggiore rispetto al passato. Nello stesso tempo il settore edilizio scontava le proprie contraddizioni interne; il peso del costo delle aree diveniva insostenibile mentre aumentava il costo dei materiali da costruzione e del lavoro. D'altra parte, si saturava il mercato di abitazioni a prezzi speculativi. Se a questo si aggiunge nel '64 la stretta creditizia che, adottata come politica generale per il contenimento dei consumi, ha colpito in maniera particolare l'edilizia, sembra evidente (anche in considerazione del fatto che la quota di risparmio distolta a favore della rendita si trasferisce in modo indiretto ed assai lento agli altri settori produttivi) come l'edilizia, settore «traente » in precedenti momenti di espansione, divenga elemento contraddittorio agli interessi del capitalismo avanzato in una fase di crisi strutturale e di caduta verticale della domanda di abitazioni. QUESTA • CONTRADDITTORIETÀ, non di fondo ma congiunturale, caratterizza proprio l'attuale fase di sviluppo e svela anche come il problema dell'eliminazione delle rendite parassitarie nei diversi settori, dall'agricoltura al commercio ma soprattutto nell'edilizia, stia divenendo una richiesta ricorrente da parte del capitalismo avanzato. Un esempio di questo ateggiamento è la posizione assunta recentemente dal settore « progressista » della Confindustria (Agnelli e Pirelli). Attacco alla rendita e ripresa dell'edilizia abitativa sulla base della razionalizzazione

produttiva: questi sembrano essere i termini di una nuova formula che ripropone l'alleanza funzionale tra movimento operaio e capitalismo avanzato come strumento per la sconfitta dei settori arretrati (9). Ma proprio sulle reali intenzioni del mondo imprenditoriale avanzato esistono legittime riserve. È davvero pensabile che esso rinunci agli strettissimi legami con gli interessi arretrati e parassitari esistenti oggi sia a livello economico che sociale? O non è più esatto ritenere che l'attacco alla rendita sia funzionale alla ricomposizione delle contraddizioni interne al mondo capitalistico magari ad un livello ad esso più favorevole?

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QUALI CHE SIANO gli interessi sostanziali in gioco e le ragioni strategiche del capitalismo avanzato, certo è fuori discussione il nuovo interesse che questo ha nei confronti della programmazione sul territorio. Le stesse enormi dimensioni che assume il problema non più del semplice uso, ma diciamo del « controllo capitalistico » del territorio, porta inevitabilmente a delle pro fonde modificazioni a livello istituzionale e dei rapporti tra interesse pubblico e privato. L'allargarsi dei compiti assunti dallo stato, dalla semplice fornitura di servizi pubblici di carattere fondamentale, all'intervento nel campo delle infrastrutture come momenti di incentivazione ad. uno sviluppo produttivo non controllato, alla estensione della erogazione dei servizi sociali, ha via via prodotto la pratica esclusione dell'apparato amministrativo, date le lentezze sempre maggiori

(9) Documento Pirelli ;. intervento di Umberto Agnelli all'Assemblea della FIAT per il bilancio 1972.


100 proprio nel campo degli interventi di carattere sociale. L'esasperazione del binomio consumi privati/consumi sociali a tutto vantaggio dei primi che ne è derivato, se andava logicamente a favorire gli interventi produttivi e rispettava chiaramente la distinzione propria dello stato liberale-capitalistico tra azione pubblica e interessi privati, portava però al suo interno gravi contraddizioni. La carenza di servizi sociali, il trasferimento sulle classi popolari delle più gravi conseguenze di uno sviluppo economico squilibrato e del saccheggio incontrollato del territorio, comportavano infatti non solo l'acuirsi di tensioni sociali non facilnente controllabili, ma la stessa crisi produttiva dei settori economici strettamente collegati alla fornitura dei servizi. E l'esempio dell'edilizia è in questo senso indubbiamente significativo. La risoluzione di queste contraddizioni può avvenire allora seguendo due vie tra loro parallele: una, diretta, di intervento nassiccio del capitale monopolistico in questi settori economici in crisi, l'altra volta alla modifica dell'assetto istituzionale esi;stente. Ciò spiega l'interesse evidente che il capitalismo avanzato sta dimostrando nei confronti delle neo-costituite Regioni e forse perfino il perchè esse siano state in definitiva istituite. Il mantenimento di una struttura amministrativa centralizzata e tradizionalmente fedele interprete degli interessi delle classi dominanti, soluzione valida forse per avallare l'intervento e il rilancio produttivo su nuove basi del settore dei servizi sociali, era per molti. aspetti impraticabile per la pianificazione territoriale, se non altro per le difficoltà di assicurare alle scelte di vertice il necessario consenso sociale, di fronte, non lo si dimentichi, ad una notevole crescita della coscienza popolare nei confronti dell'importanza delle scelte territoriali. L'incontro con i comuni, il

loro condizionamento all'adozione di nuove ipotesi di assetto territoriale era ostacolato non solo dalla situazione di gravissima crisi, quasi di paralisi amministrativa in cui essi versano, ma dalle stesse dimensioni territoriali, certo sopra-comunali, degli interessi capitalistici. Le Regioni sono proprio quelle istituzioni pubbliche che, per dimensioni, struttura e funzioni più si prestano all'apertura di un dialogo su basi «nuove ». Esse infatti in primo luogo non risentono, o almeno non dovrebbero risentire, del peso di strutture• burocratiche tradizionali, ma anzi puntano ad una amministrazione agile e di indirizzo; ciò può significare generalizzazione della delega agli enti locali, ma può voler dire anche affidamento di proprie funzioni ad enti regionali c. d. funzionali. In secondo luogo esse hanno tra i loro poteri più rilevanti proprio quelli relativi agli interventi sociali e il potere in materia di assetto territoriale. Il problema diventa quindi quello di stabilire quale tipo di rapporto si realizza, nella politica dei servizi sociali e della pianificazione territoriale, tra le forze del capitalismo avanzato e le Regioni. Le grandi imprese, ed in particolare quelle a partecipazione statale, sembrano poter offrire capitali, capacità organizzative ed « efficienza » nella realizzazione degli interventi, anche sulla base della « felice » esperienza del campo degli interventi infrastrutturali. Queste potenzialità di efficienza sono oggi abilmente messe a disposizione delle Regioni proprio nel momento in cui queste ultime, con poteri in teoria rilevanti ma in realtà ampiamente limitati e spezzettati, con capacità organizzative, operative e finanziarie ridottissime, non sembrano in grado di far fronte alla nuova domanda sociale che verso di loro è stata canalizzata. Questa disponibilità richiede delle contropartite adeguate. Queste non consistono


101 tanto nelle nuove occasioni di profitto che l'offerta razionalizzata di beni e infrastrutture sociali può garantire di fronte ad una domanda sociale organizzata dai pubblici poteri, quanto piuttosto nella possibilità di influire in modo preciso, direttamente o indirettamente, sulle grandi scelte territoriali. Da qui tutti i contatti intrapresi e le proposte avanzate alle Regioni che tutte contemplano lo stretto collegamento tra ristrutturazione dell'apparato produttivo privato e programmazione pubblica degli interventi. Da qui anche i suggerimenti sui nuovi modelli istituzionali per attuare questa programmazione, che vanno dalla creazione di enti funzionali di carattere 'tecnico', alle vere e proprie deleghe concesse direttamente alle imprese. Le imprese private, quindi, soprattutto la grande impresa, tende a sostituirsi al potere pubblico, la distinzione tra interesse privato e interesse pubblico in quanto individuato da soggetti pubblici va perdendo anche qui gran parte del suo significato.

L'EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA, dopo la legge 865/1971 (la « legge riforma» della casa), diviene dunque un terreno di confronto è di verifica di grande importanza. La legge 865 infatti, da un lato, con il finanziamento quasi esclusivo dell'edilizia sovvenzionata sembra voler favorire un ritorno al tradizionale ruolo dell'intervento pubblico, caratterizzato finora da finalità più o meno dichiaratamente « assistenziali » e da una scarsissima incidenza sulle strutture del mercato edilizio; e con la scelta del largo uso dell'esproprio adotta e in modo massiccio, tipici strumenti autoritativi. D'altro lato, invece, essa intende costituire un importante momento di razionalizzazione del mercato edilizio nell'assunto che l'aumento del

peso dell'edilizia sovvenzionata sul complesso della produzione edilizia e la creazione di una vasta area pubblica modifichino le forme tradizionali e speculative di intervento privato sul territorio. Ma la legge non si limita a questi possibili e indiretti condizionamentj tra due settori; pubblico e privato, che si vogliano tra loro rigidamente separati in termini astratti, ma ha creato l'occasione di nuovi rapporti diretti. Ci riferiamo in particolare alla larga adozione dello strumento contrattuale sia per l'affidamento anche ad imprese private (tali sono infatti - anche se di un tipo particolare - le imprese a partecipazione statale) degli interventi pubblici diretti di edilizia sovvenzionata (artt. 4 e 57) sia per la concessione a soggetti pubblici o privati delle aree preventivamente espropriate dai Comuni (art. 35). E qui va ribadito che tali strumenti, almeno nella legge 865, sono introdotti assai correttamente. Sul piano formale nel caso delle convenzioni per l'edilizia sovvenzionata tra Regioni ,e soggetti privati esecutori degli interventi, il rapporto che la legge prevede non sembra presentare pericoli: da una parte un soggetto pubblico che non solo è titolare ma ha già esercitato (con il piano di localizzazione) la propria potestà di programmazione, che dispone (o dovrebbe disporre) di fondi pubblici, che può indirizzare gli interventi attraverso il controllo della pianificazione comunale; dall'altra dei privati che intervengono nella sola fase esecutiva. La scelta dell'esproprio preventivo di vaste aree, la creazione di un patrimonio pubblico indisponibile, sembra sufficiente, poi, per garantire anche nella sostanza l'autonomia dei Comuni nella effettuazione delle scelte territoriali. E le stesse convenzioni ex art. 35 intervengono in una fase successiva, integrativa diremmo, rispetto a quella, fondamentale, della predisposizione del piano di


102 zona e della scelta tra cessione in superficie e cessione in proprietà delle aree. Queste le premesse create dalla legge sul piano dei rapporti giuridici. Sul piano sostanziale invece la scarsa coscienza del pericolo di mettere in moto soltanto alcune parti di un meccanismo complesso ha comportato il crearsi di alcuni intoppi nel funzionamento della legge che spingono ulteriormente alla estensione di questi nuovi rapporti come via per la soluzione della crisi dell'intervento pubblico; ma con premesse che appaiono profondamente diverse da quelle ipotizzate dalla legge 865. È stata spesso ricordata la contraddizione tra la possibilità. di creare una vasta area destinata all'intervento pubblico (che potrebbe riguardare la quasi totalità delle aree di espansione delle nostre città) e la prospettiva, oggi estremamente realistica, di coprirne una quota assai ridotta con l'intervento pubblico diretto (mai, comunque, oltre il 20% del totale). Così l'arma del controllo diretto del territorio destinato a insediamenti residenziali, che la legge ha precostituito a vantaggio degli enti locali e delle stesse Regioni, rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang. REGIONI E COMUNI controllano le aree ma non hanno - per precise scelte politiche - le disponibilità finanziarie sufficienti ad avviare interventi pubblici nella misura necessaria. Di qui la opportunità di incentivare l'intervento privato nell'area pubblica secondo i modelli convenzionali che sopra ricordavamo, per i quali è d'altronde impossibile per le Regioni sia disporre di finanziamenti adeguati ad una effettiva mobilitazione degli investimenti, sia controllare le modalità della loro erogazione. Acquista qui evidenza la pericolosità di un intervento non dei tradizionali operatori del mercato edilizio, nei confronti dei quali è sufficiente e possibile spezzare la pratica

del piccolo cabotaggio speculativo attraverso' incentivazioni rigorosamente legate al solo intervento nell'area pubblica secondo le 'norme della 865, ma dei «nuovi padroni » del-l'edilizia, che tendono oggi ad apparire come: potenziali e sicuri alleati nella lotta contro' la rendita parassitaria. Le grandi imprese capitalistiche dispongono dei capitali necessari, possono ancora. decidere - nonostante tutto - con una. certa autonomia sulle localizzazioni e tipologie degli impianti industriali, hanno una certa fama, in gran parte usurpata, di efficienza, ma non controllano il territorio nel secondo' polo del binomio industrializzazione-urbaniz-zazione, non dispongono cioè nella misura: resa necessaria dallé nuove dimensioni dello' sviluppo ' integrato ', delle aree da destinare: ad insediamenti residenziali; e guardano' quindi con grande i'ntersse alla possibilitàL di ottenerle, a basso costo, direttamente dai poteri pubblici. E gli stessi comportamenti tenuti da. queste forze dimostrano proprio, il nuovo interesse nei confronti di un maggiore: controllo sul territorio; dimostrano, cioè, che l'intervento nel settore dell'edilizia non serve soltanto a fini- strettamente produttivi,, ma tende a coinvolgere e strettamente condizionare le istituzioni, specie quelle locali, su nuove ipotesi istituzionali e di assetto' territoriale. Vale la pena di ricordare in questo qua-dro la insistenza del capitalismo avanzato' su due aspetti fondamentali per una nuovaL politica della casa: nuove dimensioni deg1i interventi e adozione di strutture ammini-strative più ' efficienti ', nuovi contenuti dell'azione amministrativa, necessità di una sua'. 'programmazione» e affidamento di questa programmazione ' a strutture tecnico-funzio-nali agili. In ombra, rimangono i momenti di scelta e l'organizzazione della volontà so.ciale che deve prendere e controllare 1e scelte.


103 SE QUESTO È IL DISEGNO COMPLESSIVO,

se queste sono le possibili compromissioni, si spiega il ruolo centrale e decisivo che acquista una precisa presa di - coscienza da parte degli enti locali, soprattutto delle Regioni, dei pericoli di ulteriore svuotamento, sostanziale, dei poteri loro attribuiti. Ciò non deve significare però esaltazione acritica del ruolo delle autonomie locali. I gravi limiti di funzionalità che oggi queste presentano dipendono certamente da precise volontà politiche, dalla stessa convenienza, soprattutto per le forze economiche più legate a fenomeni parassitari, a disporre di amministrazioni facilmente malleabili e condizionabili. Ciò ha comportato in molti casi, soprattutto nel Mezzogiorno, gravi degenerazioni clientelari, una degradazione del ruolo e del funzionamento degli enti locali. Ma la

via per uscire da questa crisi non può essere quella della semplice 'efficienza ', dello esautoramento tout court, di una ristrutturazione dall'alto delle funzioni e delle dimensioni degli enti locali, ristrutturazione certo pienamente adeguata alla nuova scala di intervento capitalistico sul territorio. In questo senso le Regioni, sulle quali si concentrano legittime attese anche per la ricerca di nuove soluzioni democratiche ai problemi dell'agire amministrativo, non possono non accettare, la sfida proprio sul piano dell'efficienza delle strutture pubbliche, efficienza che nasca soprattutto da una maggiore partecipazione popolare alle scelte collettive e da un diffuso controllo democratico sulla loro gestione.

Francesco Meriom - Paolo Urbani

nuova fisionomia delle grandi immobiliari Lo stallo della «legge di riforma» della casa e la stasi dell'edilizia in seguito alle difficoltà che vecchi e nuovi protagonisti della politica e del mercato della casa hanno incontrato nel definire un nuovo assetto degli interessi consente, anzi rende necessaria, un'interpretazione delle tendenze in atto che individui i soggetti attraverso categorie astratte, quelle che meglio ne esprimano i dati caratteristici fondamentali. Così, ad esempio, ha significato - e nei fatti trova riscontro puntuale più che in altri settori - parlare di rendita (nelle sue diverse speciflcazioni causali), di profitto, di grande capitale e così via. Ma via via che si definisce, per vie non del tutto chiare e come sempre dietro le quinte, una qualche soluzione di quel conflitto di interessi diviene necessario identificare la fisionomia concreta ed empirica dei soggetti istituzionali che soprattutto sul piano imprenditoriale (sia sul lato privato' sia su quello 'pubblico') si preparano ad essere protagonisti della nuova fase dell'eclitizia in Italia. Alcune grandi manovre 'dell'estate

'73 consentono di individuare le operazioni di riassestamento e di preparazione di alcuni protagonisti. Innanzitutto va segnalata la complessa vicenda della incorporazione nella Generale Immobiliare della società Edilcentro-Sviluppo (a sua volta nata per fusione appena pochi mesi prima). Si tratta di una vicenda che è stata commentata e descritta soprattutto come l'ennesima spregiudicata impresa finanziario-borsistica (quale certo è) di Michele Sindona e ne sono state colte le implicazioni sul mercato finanziario per l'aumento di capitale della Finambro, una finanziaria che dovrebbe essere il «polmone » del nuovo grande gruppo che si sta tentando di realizzare. Non sono state altrettanto sottolineate le implicazioni di tale operazione sul mercato dell'edilizia. In realtà, come è apparso chiaro dai resoconti di stampa di una recente riunione del consiglio di amministrazione dell'Immobilare il nuovo gigante finanziario-,immobiliare (di cui fa parte anche, per le grandi opere pubbliche la SoGE)


104 ha intenzione di inserirsi con « grosso impegno» nel settore dell'edilizia sovvenzionata dallo stato e dagli enti locali. E c'è da ritenere che ciò avverrà in stretto coordinamento con un altro grande gruppo finanziario-immobiliare privato, la Beni Immobili Italia del gruppo Bonomi-Bolchini, se è vero - come si legge - che il nuovo amministratore delegato dell'Immobiliare è contemporaneamente consigliere delegato della Beni Immobili Italia. Dunque, un ampio fronte finanziarioimprenditoriale è in via d'elaborare una comune politica di presenza sul fronte della casa. Nè va dimenticato che, quale che sia l'esito dell'operazione di aumento di capitale della Finainbro (ancora sub iudice nel momento che scriviamo, cioè in attesa dell'autorizzazione governativa), questa costituirà un canale per la presenza di capitale estero nel settore, secondo i casi come semplice investimento o anche con funzioni di gestione e di direzione aziendale. Altra grande ristrutturazione sul fronte del capitale riguarda le partecipazioni statali: l'ITALSTAT, società di consulenza dell'liti per il settore dell'edilizia e delle opere pubbliche, si è trasformata in «finanziaria» capogruppo di numerose società operative (Condotte d'acqua con le sue collegate, Italstrade con le sue collegate, Infrasud, Italedil, IPX, Svi, ecc.). Viene cioè riorganizzato un assai ampio fronte di potenzialità finanziarie ed operative per « rispondere alle sollecitazioni della pubblica amministrazione, sia centrale che regionale e locale, per l'edilizia e le infrastrutture» (Corriere della Sera, 24 agosto 1973). Sullo sfondo non ci sono solo la casa e i nuovi rapporti con le Regioni (la Svux - Società per lo sviluppo dell'Edilizia Industrializzata - ha già stipulato con la regione Toscana una convenzione-quadro per 25.000 abitazioni da costruire entro il 1977 per una spesa di circa 250 miliardi) ma anche grandi imprese faraoniche come il ponte sullo stretto di Messina. [Tutto ciò conferma fra l'altro come il settore dell'edilizia sovvenzionata, ma anche dell'edilizia scolastica, universitaria, postale e degli altri servizi pubblici, stia divenendo il settore d'elezione per l'intervento delle partecipazioni statali non solo in ragione di motivi d'efficienza ma anche per la maggior tranquillità che sul piano della remunerazione presenta un impegno in questo campo. E ciò mentre il settore « pubblico » batte il passo, al pari del settore «privato », nei settori in cui più c'è bisogno di innovazione imprenditoriale]. Di fronte alla ristrutturazione che sta avve-

nendo nel settore IRI molte preoccupazioni son state espresse dall'ANca cioè dall'associazione che riunisce le imprese di costruzione tradizionali, per lo più di medie dimensioni, che rischiano di ve-dersi restringere il campo d'azione per la presenza finanziaria-industriale della grande impresa. Singo-. lare è che ora da parte dell'ANCE (Corriere della Sera, 26 agosto 1973) si riprenda e si rilanci la idea delle agenzie cara agli uffici della programmazione: le agenzie sono preferibili secondo l'ANcE perchè hanno sempre operato, almeno nell'esperienza di altri paesi, «per oggetti e compiti beft delineati nello spazio e nel tempo e non attra-verso deleghe in bianco, o quasi, da parte delle autorità statali ». Infine, va segnalato il progresso. che sta fa-cendo il progetto di trasformare la GESCAL in grande finanziaria dell'edilizia sovvenzionata. Per assicurare la continuità degli investimenti abitativi (si parla di un fabbisogno di 800 miliardi all'anno) dovrebbero essere consentiti al nuovo ente (che sostituirà, oltre alla GESCAL, gli altri enti pubblici edilizi a carattere nazionale) tutti i mezzi di reperimento due risorse, compreso il lancio di emissioni obbligazionarie sul mercato interno e su quello estero. Pare assicurato al progetto un ampio consenso di partiti, sindacati, imprenditori e, si dice, soprattutto delle Regioni le quali at-traverso la partecipazione agli organi amministrativi dell'ente parteciperebbero ai piani finanziari in modo da assicurare un finanziamento continuo' per la realizzazione dei programmi costruttivi la cui elaborazione è ad esse demandata. Non sembrano pochi i problemi di compatibilità che sorgeranno da siffatte nuove e diverse presenze sul mercato finanziario. C'è allora da ritenere che il discorso possa ulteriormente allargarsi e implicare forme nuove di coordinamento e di presenza di altri soggetti istituzionali bene o male influenti sul mercato edilizio: gli enti previdenziali di categoria, i fondi pensione, gli enti e le compagnie assicurative. Si tratta di acquirenti tradizionali, soprattutto a fini di investimento delle proprie riserve, di ampi compendi di beni immobiliari. Da taluni ambienti finanziari (soprattuttoda quelli interessati ad un rilancio della funzi9ne della Borsa) si chiede un diverso e più ampio intervento di questi enti sul mercato azionario. Più probabilmente. questi potranno venire coinvolti nei meccanismi di finanziamento dell'edilizia sovvenzionata. Sono queste le note d'aggiornamento che possono farsi a fine agosto 1973.

s. r.


ric rcheé c u m n ti* regioni anno terzo : assetto istituzionale e capacità operative 1) LA INDIVIDUAZIONE DELL'ASSETTO iStituzionale, inteso nella sua collocazione nel sistema costituzionale, valutato attraverso l'esame della fisionomia che nella realtà le Tegioni hanno assunto alla distanza di oltre due anni dalla loro formazione, è di no:tevole importanza. Lo è per chiunque agisca come osservatore o come operatore nel contesto istituzionale: ma lo è soprattutto per chi, come i sindacati, costituisca un -« interlocutore» delle regioni, posto in una posizione partecipante proprio da quella realtà nella quale si iscrivono anche i dati normativi degli statuti di tutte le nuove regioni che sanciscono, sia pure con formulazioni diverse, la partecipazione sindacale(i).

Questo testo è la trascrizione di una conversazione tenuta al Centro Studi CISL di Firenze il 15 giugno 1972: e questo spiega i frequenti rifementi alle posiziòni dei sindacati. Alcuni aggiornamenti sono stati necessari. (1) St. ABR., art. 9, 68; st. BA5., art. 6 s., 24, 39 s., 61 s., 64, 66, 68; st. CAL., art. 14, 39 s., 55; st. CAM. art. 47-49, 53, 66 s.; st. E. R., art. 47, 37 s., 52; st. LAZ., art. 34, 46 s.; st. LIG., art. 8, 68 s.; st. L0M., art. 4, 17, 37, 53, 55 s., 61; st. MAR., art. 7, 15, 32, 39, 44; st. M0L., art: 3, 18, 41, 47; st. PIE., art. 9, 48, 73, 75; st. PUG., art. 3; st. Tos., art. 5, 71; st,. UMB., art. 10, 16, 44; st. VEN., art. 5, 35, 51.

Le affermazioni sui poteri delle regioni diffuse fra gli operatori sociali e nell'opinione pubblica sono le più varie, spesso derivati da letture troppo rapide di testi di legge, che diventano fuorvianti, e fanno presumere prospettive ed aperture di innovazioni le quali portano a ritenere o a sperare che in breve tempo le regioni siano in grado di risolvere i problemi che lo stato non riusciva a risolvere da oltre cento anni. E lascio da parte i fraintendimenti voluti da chi distorce le norme (o addirittura se le inventa) per una strumentalizzazione antiregionalista (2). Le tendenze che portano alla sopravvalutazione delle regioni, distorcono la verità effettuale del loro ruolo, ispirando una immaginazione, che a sua volta induce a comportarsi come se l'immagine inesatta fosse realtà, innescando controazioni di discredito e disistima di un istituto al quale si chiede di esercitare ruoli non propri e poteri che non gli appartengono.

2) UN'ESAME DELLA COLLOCAZIONE dell'istituto regionale deve partire dallà costi-

(2) Un esempio lo troviamo nel risibile ciarpame di un Missiroli che chiede l'intervento dello Stato maggiore contro le regioni ad evitare l'insurrezione organizzata dalla giunta dell'Emilia Romagna (ad esempio Messaggero, 1° febbraio 1970).


106 tuzione; e non solo dall'esame del titolo qu.into ad esso dedicato, ma dai principi fondamentali. Carattere basilare della costituzione del 1948 (e sotto certi aspetti unico nelle costituzioni non socialiste) è la dichiarazione della necessità di una innovazione radicale, della negazione della società esistente e dell'impegno di sostituirla con un'altra, organizzata in modo non ingiusto e realizzante una effettiva partecipazione. Questo principio, enunciato dal comma 2 dell'art. 3, costituisce un compito essenziale, la norma fondamentale, la base dinamica in cui veniva saldato l'incontro delle forze politiche. L'istituto regionale, così come era ed è configurato, come articolazione di autonomie locali, era la prima puntuale ed immediata riforma dell'apparato che doveva costituire la decisiva trasformazione dell'apparato stesso, presupposto istituzionale degli sviluppi di partecipazione e di riforme di struttura che il compromesso cosituzionale lasciava ad un secondo momento e di cui non definiva le linee operative. Della riforma istituzionale autonomica e partecipante, la costituzione invece determina le norme, e imponeva l'immediata attuazione. Prima conseguenza dell'ordinamento regionale doveva essere una distribuzione di competenze di governo (in senso ampio, tanto legislative quanto amministrative), che portava alla instaurazione della divisione del sistema amministrativo in due sottosistemi, uno centralistico, politicizzato al vertice (consiglio dei ministri), al quale venivano affidate talune materie, uno decentrato e politicizzato ai vari vertici (regionale, provinciale, comunale), ciascuno caratterizzato dall'essere posto su di un piano, se non di uguaglianza, di reciproca autonomia dovuto al carattere rappresentativo e alla forza politica connessa. La regione infatti deve costituzionalmente operare attraverso gli organi locali (comuni, province). I due sottosistemi non si trovavano in una posizione di reciprocità ed uguaglianza; sia perchè le funzioni di indirizzo rimanevano centralizzate, sia perchè il sottosistema locale veniva permeato da un tipo di politicizzazione diffuso e capillare, In altre parole è vero che tanto nell'amministrazione centrale, quanto in quella comunale, il vertice è politico. Ma altro è avere la po-

liticizzazione, a livello dell'amministrazione del consiglio e della giunta comunale, in cui l'amministrazione anche di dettaglio, giorno per giorno, è affidata a funzionari di estrazione politica; altro è avere la politicizzazione degli apparati ministeriali al vertice, in cui solo le grosse scelte sono caricate di significato politico, mentre il resta è affidato alle mani di una burocrazia centrale, non politica, rigida, non fluidificata dall'osmosi fra forze politiche e forze sociali,. che si ha dove c'è un'amministrazione rappresentativa. È chiaro che l'indirizzo politico restava sempre centralizzato, in quanto collocato nel Parlamento. Questo attraverso il sistema delle leggi cornice, delle leggi finanziarie, delle leggi di indirizzo (piani, bilanci, esecuzione dei trattati internazionali) e delle leggi di riforma, stabiliva i principi fondamentali entro cui si doveva svolgere l'attività delle regioni, ponendo le leggi statali dei tipi ricordati come un limite insuperabile da parte delle regioni, le cui scelte fondamentali sono indirizzate dallo Stato; ad esse, le regioni portano l'arricchimento della partecipazione e dell'efficienza data dal raccordo locale immediato. L'apparato e il parlamento, in particolare, vengono visti dalla costituzione come una macchina per le riforme in campo nazionale, che dovevano trovare poi la loro articolazione sia nei livelli di vario grado territoriale, sia nel costituire un limite insuperabile, condizionante, invalicabile. Non va dimenticato infatti che anche le regioni a statuto speciale, che hanno una particolare autonomia, e sono titolari in talune materie di competenza esclusiva pri-. maria, di grado pari a quelle dello Stato, in-. contrano il limite fondamentale delle riforme di struttura che sono di competenza del potere centrale. È chiaro che quando ci riferiamo al parlamento intendiamo il parlamento come lo vede la costituzione nel suo raccordo con i partiti che esercitano la loro influenza sia in campo nazionale, sia in campo locale. Le norme costituzionali instauravano uh sistema di governo caratterizzato da autonomie politiche inserite in catene discendenti: al vertice il parlamento con le sue leggi generali, posto al centro di un sistema policentrico, con un contemperamento di equi-


107 libri complessi fra centro e periferie, viste come un continuum, collegate da una strutturazione di procedimenti a senso unico cioè da catene di atti gerarchicamente disposti <la legge statale cornice è superiore a quella regionale) ma anche da una strutturazione politica ricca di alternative interne. Ad e•sempio il parlamento è costituito da due camere una delle quali, il Senato, è (se.condo la costituzione) a base regionale; le regioni partecipano alla nomina del presidente della Repibblica; hanno iniziativa legislativa per le leggi dello stato ecc. Cosicchè le regioni operano all'interno del parlamento come all'esterno, cioè concorrono a formare quegli atti legislativi statali che vincoleranno le regioni stesse: e potrei continuare ricordando i raccordi del parlamento con i partiti, dei partiti con le regioni e gli enti locali. L'indirizzo politico resta centrale, ma alla sua formazione non sono estranee le Tegioni. Le quali di quell'indirizzo diventano attuatrici e specificatrici in una riforma amminisrativa che modifica profondamente il tipo di apparato, secondo un tipo diverso, che non è nè quello dello stato centrale nè quello dello stato federale. Abbiamo un incrocio fra un modello di pluralismo territoriale e un modello di pluralismo funzionale, secondo il modulo di base degli enti locali (allargato e rivisto). In altre parole, non abbiamo competenze gbbali amministrative regionali (cioè tutta la agricoltura, tutta l'urbanistica ecc.; è chiaro -che in qualsiasi ordinamento non solo regionale, ma federale, restano al governo centrale gli affari esteri, la difesa ecc.). Abbiamo invece competenze funzionali a livello Tegionale. Però l'elemento di globalità -a livello regionale è dato dalla posizione « politica »; e qui politica vuol dire globalità di fini e di posizioni e quindi tendenziale generalizzazione. La regione nob è solo decentramento funzionale, è autonomia politica. L'apparato regionale si presenta dunque tanto come organo dell'apparato della Repubblica, quanto come ente esponenziale della comunità regionale, fornita anche di facoltà costituzionalmente riconosciute e significative, non tanto di per sè quanto co-

me indici della politicità regionale (elezione del presidente della repubblica, iniziativa legislativa, raccordo con il senato). 3) LE REGIONI SONO ARRIVATE sulla scena politica, dopo quasi un quarto di secolo, in un momento di profonda crisi dell'apparato e della società; come appiglio perchè l'apparato si presentasse credibile attraverso un rilancio di soluzioni nuove e più vicine alle istanze di partecipazione. La struttura dell'apparato amministrativo era mutata, rispetto al momento dell'entrata in vigore della costituzione, secondo due diverse linee, di tendenza, l'una di conservazione dello statu quo centralistico nella prima fase (della ricostruzione postbellica), l'altra, alternativa, della mortificazione delle strutture dell'apparato amministrativo. Alternativa, lo precisò subito, rispetto al modello assunto nelle norme costituzionali. La restaurazione ha avuto due momenti. Dapprima, la fase della costituzione in frigorifero. Rotto nel corso della costituente l'equilibrio dei partiti di massa, occupato saldamente il governo della Democrazia Cristiana, posto in crisi il sostrato della costituzione materiale come incontro di forze politiche, la costituzione nelle sue forme e risorse innovatrici viene paralizzata e sostituita di fatto da un altro ordinamento. Gli istituti costituzionali nuovi: la regione, la corte costituzionale, il consiglio dell'economia del lavoro, non venivano messi in funzione. Veniva ricostruito l'apparato tradizionale centrale: due camere, un presidente della Repubblica, più o meno in posizione di monarca costituzionale, il governo da un lato, gli enti locali dall'altro, secondo il dualismo stato (in posizione dominante) - enti (subordinati), e quindi con la sudditanza al controllo prefettizio che opera sul merito (in aperto contrasto con la costituzione che crea un subsistema regionale-locale veramente decentrato e autonomico senza controllo di merito), alla manovra finanziaria, al mantenimento delle competenze della legge comunale provinciale, senza nessuna mutazione fino alla legge ospedaliera, primo limitato tentativo di aumento di competenze degli enti locali, ancora in chiave politica, non di apparati.


108 Questi ultimi restano indietro, traditi dal dissesto delle finanze comunali, « voluto » dagli apparati centrali, così come quello degli enti previdenziali, in un calcolo di potere e di screditamento. È il gioco della «lesina e del massacro » per le finanze comunali e degli enti previdenziali. Lo stato aumenta i compiti del comune e degli enti previdenziali, ne altera completamente i compiti (ad esempio gli enti previdenziali basati su una logica mutualistica assicurativa, diventano enti strumentali di assistenza generale); ma non dà loro i finanziamenti. È evidente che di fronte al mutamento di compiti la vecchia logica di approvvigionamento finanziario non1 sia più congrua. È inevitabile che questi enti moriranno soffocati dai debiti, o peggio, vivranno solo per pagare il personale. Dopo aver fatto la politica della lesina dei mezzi finanziari e dell'aumento dei compiti l'apparato centrale e coloro che se ne presentano come gli avvocati fanno il gioco del massacro. Si dà la colpa del cattivo funzionamento agli enti, alla pòliticizzazione, alla partecipazione ai consigli comunali dei partiti, che vengono accusati di distruggere le finanze dello stato; viene sovente contrapposta a questa amministrazione politicizzata un 'amministrazione centrale efficiente. È certo che ci sono i casi e gli sempi di amministrazioni clientelistiche, di enti che vivono solo per mantenere sè stessi; ma è altrettanto certo che gli indirizzi centrali hanno la responsabilità principale. Ho insistito su questo aspetto - e ne chiedo scusa - perchè il dissesto degli enti locali era connesso alla non attuazione delle regioni, e diminuendo efficienza e credibilità di quegli enti, costituiva una erosione non casuale del presupposto di funzionamento delle regioni qual'è voluto dall'art. 118 cost. La restaurazione non escludeva il fenomeno di allargamento quantitativo e qualitativo dei compiti dello stato, ormai tradizionale a partire dalla fine del secolo scorso e incrementato dalla crisi del sistema paleocapitalista nel 1929-31. Ne deriva l'inserimento di questi nuovi compiti in parte nelle strutture centralistiche tradizionali, in parte nelle nuove strutture (secondo una tendenza già apparsa nel periodo di varo del neocapitalismo; sono i ben noti esempi del-

l'IRI, della Banca d'Italia, come regolatrice dell'ordinamento creditizio). Avevamo quindi una tendenza ad una fluidificazione delle burocrazie secondo logiche settorialitecnocratiche (di nuovo si può ricordare lo' esempio dell'IRI nel periodo fascista) proprio nell'area che diventava traente e qualificante. Lo stato dopo essere diventato imprenditore o sostenitore di imprenditori per esigenze militari, e poi per disperazione con i salvataggi volti ad evitare i conflitti che rischiavano di far saltare il sistema, rapidamente si muta, sotto la pressione di una società che si industrializza e cambia velocemente, in stato promotore di sviluppo economico; l'industrializzazione diventa il suo obiettivo diretto, lo sviluppo economico il suo fine, da cui trae la sua qualificazione e, al limite, la sua legittimazione di fronte alla base sociale, alla comunità. Le strutture di questa nuova organizzazione vengono confidate non tanto agli apparati esistenti tradizionali e centralizzati secondo il modello ottocentesco (amministrazione burocratica, vertice ministeriale) quanto alle articolazioni amministrative sorte nel periodo della crisi del decennio Trenta (IRI, Banca d'Italia) e alle nuove articolazioni dell'apparato a partire dal 1950 (Cassa del Mezzogiorno, ENI, RAI-TV, Enti previdenziali, IRI riorganizzato, e più tardi l'ENEL). Viene a nascere un nuovo sottoinsieme una nuova articolazione amministrativa che si collega alla liberalizzazione internazionale intesa come rottura del filone autarchico protezionista e che, come accennavo, è qualificante: è il sottoinsieme delle imprese pubbliche, degli enti regolatori di settore o di territori (Cassa per il Mezzogiorno), cioè un tipo di amministrazione molto più fiuida agente spesso secondd procedimenti privatistici, non soggetta a controllo di merito e gerarchico, fortemente politicizzata, i cui vertici sono nelle mani del partito dominante e dei suoi alleati, e che si diffonde con una colonizzazione sistematica e insaziabile sia nelle tecnostrutture nuove (ENI, ENEL, RAI-TV) sia negli ordinameni esistenti (ad esempio la casse di risparmio), sia nelle modificazioni che vengono introdotte (pensiamo a certi aspetti della legge ospedaliera che pur è stata un inizio di riforme e di abolizione di


109 vecchie posizioni notabilistiche clientelari, con risvolti di ridistribuzione di spoglie). E bisogna aggiungere che la politicizzazione in questo sottosistema amministrativo imprenditoriale e degli enti strumentali è diversa da quella del sottosistema locale (e anche nazionale). Mentre in questi due ultimi il momento politico è quello elettivo, nel terzo sottosistema vige il criterio delle spoglie, lo spoil system, per cui il partito o coalizione di maggioranza sceglie i suoi rappresentanti, la sua delegazione (e nei gradini inferiori, laddove c'è solo esecuzione o amministrazione routinière, diventa solo un collocatore clientelare, un'alternativa al concorso burocratico), senza partecipazione elettorale alla formazione dell'organo di indirizzo (parlamento, consiglio regionale, provinciale e comunale) di fronte a cui risponde il vertice amministrativo (governo, giunta). Questo sottosistema ha poteri fortissimi perchè manovra nuove leve (agevolazioni creditizie, incentivazioni, posti di lavoro, liquidità finanziarie, utili imprenditoriali): e diventa sempre più potente nei confronti del potere centrale. Lo spezzettamento del bilancio dello stato, la sua degradazione a strumento parziale dell'entrata e della spesa pubblica (la cui più grossa fetta è ormai al di fuori) cosicchè il bilancio non è più significativo ne è riprova e simbolo; così come lo diventa il semipatetico tentativo di recuperare i poteri di indirizzo con la costituzione del ministero delle partecipazioni statali. Questo assetto non presenta esclusivamente i lati negativi che tutta la pubblicistica sui sottogoverno, sulla partitocrazia (perchè qui sta veramente la partitocrazia, no nel parlamento) gli attribuisce; ha anche dei vantaggi, perchè in una amministrazione sclerotizzata, come a volte è quella italiana, questo ricambio può anche rilevarsi sotto certi aspetti innovativo all'equilibrio generale. 4) IL COMPLESSO DEL SOTTOINSIEME dell'impresa pubblica e degli enti strumentali, in questo dopoguerra nasce, rispetto alla costituzione repubblicana, in maniera non troppo dissimile a quella da come nacque l'IRI nel periodo fascista, rispetto alle enunciazioni della carta del lavoro, delle poli-

tiche programmatiche, delle corporazioni. Quella di allora era solo una facciata, dietro di cui nasceva tutta la serie di organizzazioni, di ordinamenti, e di tecno-strutture che ancor oggi dirigono e condizionano l'economia del paese. Dietro la costituzione del 1948, non attuata soprattutto per quanto riguarda l'ordinamento regionale, ed imprecisa per quanto riguarda le riforme economiche, l'effettivo mutamento dell'apparato viene a concretarsi, in modo diverso da quello previsto nella carta costituzionale, in modo confuso, contraddittorio, rozzo, ma secondo linee di tendenza che possono essere riconosciute e nelle quali si incanalano le esigenze di adeguamento dell'apparato al mutamento della società. Per rimanere al piano istituzionale, la modifica della struttura avviene sotto la pressione del mutamento della società che da agricola diventa sempre più industrializzata e che esige strumenti più agili e aggiornati. E difatti le aree nuove (relativamente almeno) vengono colonizzate politicamente, con la formazione di una nuova classe dirigente politica o para-politica (i cui membri sono ex politici o parapolitici) che si installa e si salda con l'establishment industriale, mentre le vecchie aree vengono lasciate in gestione alla burocrazia e agli apparati tradizionali (enti locali compresi). Si tratta di aree che per essere le più nuove, il più delle volte non erano state attribuite alle regioni dell'art. 117 cost. (ma. non dimentichiamo che una competenza regionale, quale l'assetto del territorio, viene gestita dalla Cassa del Mezzogiorno). Sotto questo proftlo potremo pensare che l'ammodernamento e la politicizzazione dell'amministrazione, che viene introdotta con la nuova configurazione, sia aggiuntiva e non alternativa all'istituto regionale. Se stessimo solo all'art. 117 cost. potremmo ricavare talvolta una conferma a questa lettura. Ma la regione non era e non è nella costituzione solo un decentramento di competenze statali; era innanzi tutto un momento di rottura dell'apparato preesistente e un momento di autonomia funzionale e politica. E qui l'ammodernamento dell'apparato nel ventennio 50-70 si rileva antitetico alla logica regionale; perchè al modello di uno stato regionale, decentrato secondo quel mo-


110 dello funzionale, territoriale-politico, elettivo viene contrapposto un modello che vede un decentramento funzionale non territo-

riale, politicizzato per divisione di spoglie e non per elezioni. Abbiamo se non una rottura una modificazione, ma l'abbiamo in direzione diversa. Abbiamo un decentramento, ma lo abbiamo in senso funzionale partitico, non territoriale politico; abbiamo un subsistema nuovo che ingloba funzioni operative diverse da quelle attribuite alle regioni, ma anche funzioni di programmazione tipiche delle regioni. Sono antinomie che oggi vediamo emergere concretamente nei rapporti o nelle tensioni virtuali fra regioni e tecnostrutture statali nell'area della tutela ecologica o delle infrastrutture, per l'industrializzazione, nella gestione di una politica per la casa, e via dicendo. Sommiamo questi divari a quelli di regolazione dell'area economica. La costituzione parlava di leggi di piano, di imprese collettivizzate, di consigli di gestione. L'alternativa, cioè il sistema che viene instaurato, si articola su società miste, su incentivazioni fiscali su agevolazioni creditizie. In questo quadro di assunzione di compiti di sviluppo di un sistema economico caratterizzato dall'alleanza dei poteri economici con quelli pubblici il cui ruolo predominante diviene quello di enti erogatori finanziatori, la « cosa pubblica » diventa soprattutto una grossa gestione amministrativa: le grandi riforme non vengono fatte e viene fatto solo un certo tipo di amministrazione politica, al livello dei partiti. Il parlamento, che non è in grado di fare scelte politiche di struttura, deve pur tuttavia gestire il sistema, fornire ad esso mezzi finanziari, infrastrutture, razionalizzazioni di settore e tranquillità di cornice. Quindi esso è sempre più portato ad una amministrazione a breve termine, con un'intesa con l'opposizione, ad una sorta di cogestione » marginale, amministrativa, mandata avanti con un'insieme di leggine, per una legislazione prornozionale o di settore. E queste leggine su cui tutti ironizzano o protestano (salvo a richiederne e favorirne la presentazione quando la leggina fa comodo) sono disfunzionali rispetto ad un modello normativo, ma funzionali rispetto ad un certo tipo di gestione politica che consente un coinvolgimento di interessi, una

mediazione politica, una tutela di posizioni di dominio (per chi ne ha).

5) Au..'ii..nzio DEL DECENNIO 60-70, dopo aver instaurato questo sistema policentrico funzionale settoriale, più che policentrico territoriale, si arriva alla constatazione che le politiche di settore non sono bastevoli, e che anzi, portano delle distorsioni. L'ottimizzazione di un settore rischia di portare un regresso in una visione generale. Comincia a prospettarsi l'esigenza che la garanzia dello sviluppo venga data da una pianificazione globale che per taluni deve correggere i difetti di struttura delle società, non superati, ma in parte trasformati dall'industrializzazione. A questo momento, le regioni, che erano state dimenticate completamente per 15 anni, superate dalla superregione meridionale e dalla politicizzazione settoriale, ricompaiono nel quadro della pianificazione che ha bisogno di un certo tipo di articolazioni territoriali. Sono delle « altre » regioni, motivate dal costituire l'interlocutore necessario nella politica del piano, con una dimensione valida per instaurare un certo tipo di dialogo fra il centro e la periferia. La regione viene vista in modo alquanto diverso da quello previsto dalla costituzione. La nuova funzione della regione fa leva non tanto sulle competenze amministrative (e settoriali) quanto sulla seconda componente regionale, l'« anima » politica, dell'ente esponenziale della comunità regionale. L'articolazione legislativa-amministrativa viene iscritta nel quadro dell'articolazione democratica della pianificazione. Questa necessità di articolazione generale viene avvertita ancora di più quando si ricerca una prima valutazione dell'esperienza delle regioni a statuto speciale, perlomeno delle prime quattro costituite. In quegli anni il potere centrale ha difeso accanitamente le sue competenze contro le regioni a statuto speciale. Anche gli organi nuovi della costituzione repubblicana, come la corte costituzionale non sono più aperti della burocrazia nei confronti delle regioni; la corte interpreta ogni volta le norme costituzionali e le norme degli statuti in chiave centralistica. Si vede che finchè le regioni restano un'esperienza isolata e con-


111 finata ai margini, l'autonomia riconosciuta normativamente è condizionata dalle negoziazioni per l'attribuzione di mezzi finanziari e non costituisce nessuna possibilità di rinnovamento della struttura statale. Da una analisi dell'attività delle regioni a statuto speciale risulta che esse, il più delle volte, non hanno neppure usato in pieno i loro poteri. Le leggi emanate, pur essendo in materie a competenza primaria o esclusiva, di grado pari a quelle dello stato, sia che attengano soio ad una più razionale ed efficiente organizzazione (ad esempio contabilità), sia che investano settori chiave come l'urbanistica, dimostrano che le regioni a statuto speciale non sono state in grado di costituire fattore innovativo: in altre parole l'istituto regionale di per sè non riesce ad avere quella carica necessaria per attuare la riforma se non trova corrispondenza nella volontà di riforma al centro dello stato. Quindi, proprio perchè le esigenze della programmazione impongono per prima cosa una riforma della macchina burocratica dello stato, si ritorna a pensare alla necessità dell'articolazione regionale, come momento di riforma istituzionale, presupposto per gli uni di altre riforme, punto di arrivo di una più efficiente ripartizione di compiti per altri. 6) LA PIANIFICAZIONE GLOBALE a cui si pensa negli anni '60, è una pianificazione centralizzata, con scelte predichiarate, che consentano il dialogo con i soggetti che sono in condizione di autonomia politica nell'apparato e nel settore come le regioni, o di autonomia politico-sociale, fuori dell'apprato, e quindi come contropotere, come i sindacati. Il sindacato entra nel meccanismo della pianificazione in un modo del tutto particolare perchè si trova al di fuori delle gerarchie degli organi e degli atti e ha, al tempo stesso, bisogno di un effettivo punto di riferimento per iniziare un certo - tipo di dialogo. Ma la pianificazione non riesce a creare un sistema di piani discendenti, nè un sistema di centro di riferimento. Gosicchè non esiste neppure la possibilità di instaurare un dialogo. La congiuntura

economica sfavorevole del 1964 viene immediatamente sfruttata per bloccare qualunque possibilità di programmazione. La programmazione, da quel momento, si muove stentatamente nascondendo la sua vanificazione e il suo fallimento con un grosso ripiegamento in una nuova direzione. L'esperienza che viene seguita è quella francese, cioè la programmazione concertata ad un determinato livello. Questo nuovo indirizzo porta alla costituzione di un apparato composto di tecnocrati più o meno illuminati che non riescono ad ottenere la programmazione per la riforma delle strutture, perchè non riescono nemmeno ad ottenere una riforma burocratica e dell'apparato (ad esempio, per cominciare dal vertice della programmazione, pochi paesi si permettono di avere tre ministeri dell'economia come avviene in Italia). La mancata risoluzione del nodo della programmazione è un altro di quegli indici che dimostrano sempre più la crisi di struttura, l'inefficienza e l'usura del sistema dei poteri centrali in ogni campo. Questo stato di cose, connesso alla perdita di potere e di credibilità degli apparati centrali cli ogni tipo, porta nuovi argomenti all'istanza di attuazione delle regioni che ritornano a proporsi come un approccio alla riforma dell'apparato istituzionale, in un allargamento di partecipazione. La crisi che si verifica nell'apparato dei partiti (e ormai partiti e apparati sono saldati) si ripercuote, ovviamene, nel campo strettamente collegato sia pure in una forma diversa, dei sindacati: e come da un lato gli organi della programmazione e dello stato aprono il discorso con i sindacati alla ricerca di nuove alleanze, dall'altro il sistema dei partiti impone la ricerca di un certo tipo di dimensione regionale, non più come interlocutore della programmazione ma come approccio alla riforma dell'apparato costituzionale, come nuovo terreno di manovra per il consenso e per il potere.

è cambiato in larga misura e di conseguenza le regioni andrebbero collocate nell'apparato più o meno congruo ma abbastanza nuovo che le esigenze dell'industrializzazione (di quella in-

7) L'APPARATO ISTITUZIONALE,

r

.


112 dustrializzazione che storicamente abbiamo avuto, non vediamo se buona o cattiva) hanno creato. Le regioni dovrebbero assumere dei significati operativi, ai quali, all'epoca della costituente, non si pensava per due serie di ragioni. Innanzi tutto talune strutture socio-economiche presupposte dalle norme erano diverse (le fiere e i mercati sembravano una forma di distribuzione importante, ed oggi o viene riletto il testo con lo sguardo volto ai problemi dei supermercati, degli ipermercati, dei centri per il commercio all'ingrosso o si corre il rischio di scadere ai margini di un'oleografia). In secondo luogo, le regioni risponderanno ad esigenze di un certo decentramento nei confronti di un certo stato; abbiamo visto come quello stato sia cambiato, abbia mutato fini e attività, si sia accentrato secondo altre linee. L'angolo, di impatto 'dell'istituto regionale sullo stato veniva a mutare, perchè le regioni arrivavano, con un ritardo di venticinque anni, ad agire su uno stato che bene o male era andato avanti. In questo quadro dovremmo dire che la regiofle dovrebbe diventare soprattutto il centro delle decisioni per l'assetto del territorio, per l'urbanistica, da coordinare con l'industrializzazione. La regione che ha la competenza in materia urbanistica (intesa come assetto del territorio, e l'assetto a sua volta deve essere visto secondo le esigenze del decennio 70-80, con uno sviluppo che tenda soprattutto alla qualità della vita, ad un riequilibrio fra aree e sottoaree, alla riduzione dei costi sociali di cui si disinteressa un'industrializzazione monomaniacale e selvaggia) la regione, dunque, in quanto regolatrice del suo territorio (e che secondo certe interpretazioni ha anche la competenza per la politica della casa), si viene a trovare nella situazione di diventare •l'elemento di punta delle possibili riforme, perchè le sole riforme, che il sistema consente a tempo breve, possono essere quelle della urbanistica, della casa, dei servizi sociali, del miglioramento della qualità di vita. Le altre riforme vengono considerate in questo momento pensbii solo in periodi successivi. La crisi dell'apparato, le tensioni, la mancanza di basi culturali e di un minimo di omogeneità nella discussione per il rilancio dell'attività regionale ha portato all'attuazione di una macchina in larga parte obsoleta.

Resta il quadro istituzionale; ma è ormai avulso dal presupposto 'che la riforma regionale dovesse essere attuata alla fine degli anni '40 (art IX disp. trans. cost.). Lo ordinamento regionale, che all'inizio del decennio 1950-1960 avrebbe trovato una sua collocazione come elemento decisivo di riforma dello stato, non aveva più la validità di allora esposto all'inizio. Si presentava opportuna a questo scopo, per le ragioni che ho detto, la necessità di un aggiustamento alle nuove istanze e alla nuova organizzazione, tenendo conto della nuova rete di centri di potere e della necessità di coordinare le competenze delle regioni con i nuovi strumenti di esercizio delle competenze stesse. Questo era il programma minimo; l'altro era quello di chiedersi sino a qual punto la' trasformazione della società italiana, la sua avanzata industrializzazione ed urbanizzazione così come la sua europeizzazione non imponessero una ridefinizione del ruolo dell'istituto regionale. Se questo secondo traguardo si presentava non attuale, in quanto presuppojìeva una revisione costituzionale, il primo era possibile riformulando le ripartizioni dei poteri. I mezzi tecnici per fare questo c'erano: vi era l'interpretazione dell'art. 117 cost. e l'uso di deleghe previste dall'art. 118 cost.: si pensi a qiello che è avvenuto per l'espropriazione e per l'edilizia economica e popolare. Era sempre affermato nei testi di diritto e nelle sentenze della corte co stituzionale (con riferimento alle regioni a statuto speciale), che mentre l'urbanistica era materia di competenza delle regioni, l'edilizia economica e popolare non lo era (ad eccezione della regione Trentino Alto Adige, in cui essa veniva esplicitamente attribuita). Si era anche escluso che le regioni avessero competenza in materia di espropriazioni. La pressione delle forze sociali, soprattutto di quelle sindacali, ha portato all'approvazione della legge n. 865 del 1971 nella quale l'attuazione della politica della casa è passata alle regioni; ad esse, anche in conseguenza di queste attribuzioni, sono state conferite cowpetenze in materia di espropriazione, dapprima in modo temporaneo. Quando sono stati approvati i decreti di trasferimento delle competenze alle regioni, di fronte al precedente della legge sull'a


113 •casa, la formula « urbanistica e lavori pub blici » dell'art. 117 cost. è stata interpretata come comprendente anche l'edilizia economica popolare e l'espropriazione come strumento dell'urbanistica e i lavori pubblici. Questi esempi confermano che la possibilità per allargare le competenze previste dell'art. 117 cost. esisteva e consentiva di coprire anche le esigenze nuove e di inserire il raccordo delle regioni in una programmazione nazionale globale, o in una politica economica, in cui le regioni debbono avere una funzione di livello territorialmente limitato, ma non per questo privo di adeguamento alle realtà sociali e istituzionali (vedremo poi le discrasie fra le norme dell'art. 117, restrittivamente interpretato dai decreti di trasferimento, e le esigenze odierne) (3). Tutto ciò che avrebbe potuto portare ad una ripartizione di poteri, secondo criteri meno verticalisti, meno subordinati a gerarchie di atti (pensiamo alla coppia leggi di principio statali - leggi di dettaglio regionali), più improntati a modelli di coordinamento e di attività di task forces operanti per obiettivi e per programmi e a trovare una relaziòne fra regioni e poteri locali inserita nella logica dell'art. 118, ma arricchita dalla confluenza delle due riforme, quella dell'apparato statale, sollecitata dai rapporti stato-regioni e quella dell'apparato locale, sollecitata dai rapporti regioni-enti locali, nel quadro di un ammodernamento che non rinunciasse alla «politicità » delle regioni.

8) SPARITA LA PROGRAMMAZIONE PLURIENNALE, cadute le discussioni sulle proce-

dure della programmazione, insabbiate le riforme degli apparati centrali che dovevano andare di pari passo con i decreti di trasferimento, paralizzata la riforma degli enti locali, il dibattito politico sulle regioni è venuto ad imperniarsi sulla legge finanziaria regionale (la I. n. 281/1970) questa, come è noto, non è solo una legge che riguarda la finanza regionale, a norma dell'art. 119 cost., ma è anche una legge che ha riformato la cosiddetta legge regionale Scelba, cioè la legge che regolava i rapporti fra stato e regioni e i principi dell'organizzazione delle regioni e il loro controllo da parte dello stato. La legge finanziaria regionale conferma l'assetto istituzionale delle regioni nelle relazioni fra organi di governo statale e regioni (per quanto riguarda la ripartizione dei compiti amministrativi, con una logica diversa da quella prevista dal testo costituzionale, alla quale può riconoscere una certa validità anche chi, come me, la considera contraria alla costituzione. Il sistema costituzionale stabiliva due livelli per l'attività legislativa delle regioni: una legislazione di principio coordinatrice, di direttiva in tutte le materie affidate allo stato, in posizione sopraordinata rispetto alla legislazione di dettaglio attribuita alle regioni. Poneva, inoltre, alle attività regionali il limite dell'interesse nazionale, valutato politicamente dal parlamento. L'ordinamento costituzionale non poneva (3) Come accennavo, quello che scrivevo nel una distinzione di livelli nelle funzioni am1972 deve essere aggiornato oggi. La formula del ministrative, non considerava cioè un'ammiD. P. R. 8/1972 con cui venivano attribuite alle nistrazione « alta » e una « bassa » la priregioni le competenze in materia di edilizia economa allo stato, la seconda alle regioni. mica e popolare è stata interpretata nel riflusso Allo stato rimaneva il potere di indiantiregionalista del governo Andreotti-Malagodi corizzo e di coordinamento, esercitato con le me conferimento di delega, con esclusione di comleggi, cioè tramite il parlamento, rapprepetenze normative e subordinazione dell'attività resentante di forze politiche, non con l'apparagionale a quella centrale secondo i canoni della to burocratico nè governativo. delega tradizionale. In forza di questa interpretaL'art. 17 della legge finanziaria regiozione, il governo Andreotti ha trovato la forza alla nale introduceva una nuova distinzione che vigilia della sua scomparsa di convocare un consiglio dei ministri per impugnare una legge regio- distorceva tutto il meccanismo costituzionale, perchè poneva l'« alta » amministranaJe lombarda con cui venivano concessi contributi zione nelle mani del governo-burocrazia, e sugli interessi dei prefinanziamenti per le costruzioni previste dalla legge 865/1971 accusata di violare la « bassa » amministrazione nelle mani delle ripartizioni di potere previste dall'art. 117 cost. le regioni: quindi da un lato sottraeva al -

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114 parlamento i poteri di indirizzo per trasferirli alla burocrazia, dall'altra diminuiva i poteri spettanti alle regioni e agli enti locali. Come dicevo, la soluzione può essere accettabile, anche perchè se l'ordinamento era cambiato, cioè se il governo non era più a capo solo degli apparati burocratici, ma anche di quel sottinsieme molto più politicizzato, formato dalle imprese pubbliche e dagli enti strumentali, si poteva pensare ad una nuova distribuzione di potere. Questa però avrebbe dovuto investire l'intero rapporto autorità centrali - regione, collocare nelle regioni la trama del nuovo policentrismo. Invece la innovazione si limitava ad introdurre un nuovo livello di potere dell'esecutivo, sottraendo le competenze al parlamento e alle regioni. Non veniva nemmeno a riequilirare orizzontalmente, con nuove attribuzioni quello che veniva squilibrato verticalmente « amministrativizzando» ciò che nella costituzione era « legislativizzato »: vale a dire l'indirizzo politico da esercitare con le leggi cornice e non con le direttive governative previste dai decreti di trasferimento, e l'indirizzo finanziario che l'art. 119 cost. attribuiva al parlamento, mentre l'art. 9 della legge finanziaria regionale, istituendo il «fondo per i finanziamenti dei programmi regionali » attribuiva alla competenza del CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) togliendolo in tal modo all'assemblea elettiva. Le regioni potevano avere, secondo la carta costituzionale (art. 119) tributi propri e quote dei tributi riscossi dallo stato. La legge finanziaria instaura un sistema per cui le regioni, tranne una piccolissima frazione, hanno solo una finanza di trasferimento: cioè è lo stato che destina una quota dei tributi alla regione secondo un certo meccanismo che in parte è stabilito dalla legge, in parte è affidato alla libera contrattazione. Questo sistema, già sperimentato per le regioni a statuto speciale, ha travolto le norme costituzionali, ha introdotto dei sistemi finanziari che non hanno niente in comune con quelli previsti dagli statuti speciali. I risultati sono immaginabili. Avremo regioni che si troveranno in condizioni diverse da quelle in cui si troveranno altre. I fondi da

destinare alle regioni sono stati scissi: uno è determinato con legge, quindi perfettamente conforme alle norme costituzionali; l'altro invece è determinato dalle decisioni del CIPE, che ha aumentato il suo potere, come organo di indirizzo di quel certo tipo di programmazione che viene fatto in Italia. Non è una programmazione fondata su atti imperativi, nè su piani globali, ma ùna programmazione di settore, che è basata sugli incentivi, sui contributi, sulle agevolazioni. L'attribuzione di questi mezzi finanziari incide in maniera pesantissima e fortissima. Impegna il •bilancio dello stato o, meglio, l'entrata e la spesa pubblica e condiziona gli investimenti. La massima parte degli investimenti globali (compresi quelli privati) è fatta quindi, con i soldi dello stato (il 65% degli investimenti » calcolava Sylos Labini anni fa, è pubblico; oggi possiamo ritenere di essere al 75%). Gli investimenti privati sono incentivati con le agevolazioni creditizie; e questo sistema ha raggiunto punte altissime. La relazione di due anni fa del governatore della Banca d'Italia, rivelava che nell'industria circa il 75% degli investimenti viene fatto col credito agevolato, manovrato attraverso il meccanismo degli stanziamenti approvati con legge dal parlamento, attraverso le ripartizioni fatte dal CIPE, attraverso tutta la macchina del sistema creditizio. Il sistema creditizio serve anche a ripartire le somme « pubbliche » secondo criteri che sono in larga parte caricati di significato politico, perchè gli organi del settore creditizio (le casse di risparmio, le banche di interesse nazionale ecc. ecc.) sono in larga misura di estrazione politica, partitica, e appartengono a quel sottosistema di cui tante volte ho parlato. Da tutto questo meccanismo, che mette in luce come una forma di pianificazione di settore esista nelle mani dello stato, e che le quote di tributi che devono essere assegnate alle regioni passano attraverso il CIPE (che è l'organo che regola le linee fondamentali di questa manovra di agevolazioni creditizie e tributarie connesse) possiamo affermare che le regioni finiscano per inserirsi in un quadro di dislocazione di poteri - che è quello che caratterizza la vita politica italiana rispetto al-


115 l'ordinamento costituzionale - per cui una serie di decisioni sono uscite fuori dal centro politico istituzionalmente preposto alle decisioni, cioè dal parlamento. Le decisioni sono passate ad organismi burocratici di tipo nuovo, cioè alle burocrazie che fanno capo al CIPE,. alla Banca d'Italia o a sistemi dirigenziali imprenditoriali pubblici. In parte (mi riferisco alla Banca d'Italia) sono burocrazie funzionanti e in un sistema largamente inefficiente costituiscono delle « isole di efficienza ». Le quali sono portate, non da loro intrinseca perversità, ma dall'orrore del vuoto gestionale, a fagocitare le posizioni di potere che spetterebbero 'ad altri. Se il parlamento non fa una politica economica qualcun'altro prende il suo posto; sarà la politica monetaria o valutaria della Banca d'Italia che di necessità sarà inefficiente perchè non può coprire l'intero arco, ma sarà una politica.

9) ALLA LEGGE REGIONALE FINANZIARIA seguì la fase costituente, cioè quella degli statuti regionali. Gli statuti manifestano delle tendenze molto importanti da parte delle regioni sulla loro funzione e sul loro potere mostrano una sostanziale omogeneità, nonostante i diversi colori politici e le diverse localizzazioni. Tre punti degli statuti regionali sono estremamente qualificanti. L'uno è l'istanza di partecipazione in processi decisionaTi diversa da quella che conosce l'organizzazione amministrativa e politica italiana e quindi una tendenza verso una partecipazione-autogestione (4) l'altro è quello dell'infor mazione (5); il terzo punto è costituito dalla tendenza della regiope ad inserirsi come mo-

Basti ricordare l'allargamento della iniziativa legislativa popolare (ad es. ar't. 37 E. R.) del contraddittorio dei gruppi interessati nel procedimento legislativo (art. 39 L0M, art. 38 E. R.) o amministrativo (art. 38 E. R.), del referendum consultivo (lo cito nonostante i dubbi che possono avanzarsi sul suo significato politico). 34 LoM., (art. 8 st. PIE., 35 VEN., 69 LIG., 5, 41 co. E.R., 72 Tos.,, 11 UMB. 32, 20 co. MAR., 42 MOL., 48 CAlvi., 62 BAS., 42 CAL.).

mento globale della regolazione e promozione dello sviluppo economico, in un quadro determinato dal potere centrale, ma non limitato alle competenze frazionate. Sono tre versioni della « politicità » e quindi delle tendenze e virtualità generalizzanti della regione. Per questo le regioni insistono sull'importanza dei sistemi di informazione nella società moderna e nell'organizzazione regionale, e, fra l'altro, hanno visto come il monopolio statale del sistema di informazione di maggiore rilevanza, la RAI-TV, sia tale da intaccare profondamente lo stesso sistema istituzionale e partitico, costituendo un potere praticamente chiuso ed impermeabile. Per questo le ragioni rivendicano l'accesso e la suddivisione di questo mezzo di partecipazione e di influenza sul sostegno della comunità sociale all'apparato dei poteri pubblici. Però, l'inserimento di norme negli statuti (6) ha un valore molto relativo. Gli statuti hanno incerta collocazione nel sistema delle fonti del diritto, tanto che si ritiene che una legge statale possa modificare una norma dello statuto. Cito un esempio: lo statuto dell'Abruzzo (art. 5) ha stabilito una competenza della regione sulla disciplina delle case di cura private. Il decreto del presidente della repubblica sul trasferimento delle competenze in materia sanitaria lascia questa competenza allo stato. È uno di quei casi in cui vediamo come una legge dello stato non tenga nessunissimo conto di una norma di uno statuto. Potrei aggiungere che in molti casi gli statuti rivendicano competenze che una applicazione dell'art. 117 cost. limitatrice (quale abbiamo avuto con i decreti di trasferimento) non attribuisce alle regioni. Poniamo mente alle affermazioni sulla partecipazione allo sviluppo industriale: l'art. 117 introduce una netta scriminante fra industria e non industria (agricoltura, turismo, ecc.): per la prima, nessuna competenza della regione, si dice, e lo si afferma anche ora assumendo tale diversifica.zione come punto qualificante (ricordo in que-

42 MOL., 48 CAM., 8, 30 co. st. PIE., 62 BA5., e più cautamente 54 L0M., 35 VEN., 5 E. R., 72, .3° co. Tos., 32, 20 co. MAR.


i.

116 sto senso le opinioni di Amato) (7). Di fronte a questi dati, che si ritrovano nei decreti di trasferimento, le norme degli statuti che indicano, fra i compiti della regione, la promozione dello sviluppo industriale, il superamento dei problemi della disoccupazione (8), e per talune regioni l'evitare l'emigrazione ecc. (9), dichiarano intenti condividibili senza avere però spesso i mezzi nè giuridici nè finanziari per realiz zare questi obiettivi. E ciò, lasciando da parte le ironie, si traduce talvolta nell'assumere rischiosamente di fronte all'opinione pubblica compiti sproporzionati, il cui mancato raggiungimento sarà facilmente rimproverato e diventerà ragione di perdita di credibilità. Altre volte il divario fra statuti e formule ambigue di leggi ordinarie, interpretate da una burocrazia accidiosa e da un governo non sospettabile di simpatie regionalistiche (come può essere qualificato quello del centro-destra) può portare a logoranti battaglie e discussioni (10).

Non è il caso di dilungarci in approfondimenti giuridici sulla collocazione delle norme statutarie nel sistema normativo: qui basta osservare che la sostanza politica non passa per le enunciazioni dello statuto. Abbiamo visto come essa addirittura superi (o aggiri) le enunciazioni della costituzione, perchè dietro a quelle enunciazioni il sistema si svolge, nella realtà effettuale, in un altro modo. La costituzione economica reale è ben altra da quella scritta: è la costituzione dell'incentivazione alle imprese private, del sistema creditizio, delle leggi anticongiunturali, della concessione a società di tipo privatistico dei servizi collettivizzati: e credo che abbia molti punti in disaccordo con l'ordinamento costituzionale (anche se esso è spesso reticente e allusivo). Sta di fatto che le affermazioni enunciate dagli statuti regionali hanno un valore indicativo di tendenze, ma non vanno molto oltre. Quello che conta è la legge finanziaria e le delimitazioni delle competenze amministrative . con i decreti di trasferimento dalle quafl è emerso un sistema j intrinsecamente diverso dal sistema costituzionale previsto, il quale, coLa via italiana alle regioni a cura di SERme abbiamo già visto, era sorpassato e irRANI D. (atti di un seminario organizzato dalla recuperabile perchè il contesto era diventato Fondazione Adriano Olivetti), Ed. Comunità, Midiverso. Nell'area delle competenze c'è la lano 1971. « alta » amministrazione e c'è la « bassa » Ad es. art. 15 e 4 st. CAM., 56 lettera h amministrazione; nella « bassa » amministraCAL., 4 Vat'. zione c'è l'amministrazione dello stato e c'è (9.) Art. 8 BAS., 8 CAM., 6 MAR., 4 MOL., 16 l'amministrazione delle regioni (e lascio da PUG., 4 Vrn. parte gli artifici con cui le norme sono state (10) Posso citare ad esempio il rinvio govercostruite in maniera. da portare via delle nativo della legge regionale dell'Emilia-Romagna competenze alle regioni). Ma non basta: la 10 maggio 1973 con la quale veniva istituito regione, quale risulta dalla legge finanziaria I'ERVET società finanziaria accusata di aver come dai decreti di trasferimento, diventa dunpiti cli sviluppo industriale e di interferire « con la que un ente suddito finanziariamente, fordisciplina civilistica della società per azioni ». Lascio nito di competenze amministrative frazionada -parte le considerazioni giuridiche sull'ammissibite, politicamente depotenziato. Il depotenlità di una finanziaria regionale che operi anche in ziamento investe anche la sua attività ammimaterie non comprese nell'art. 117 e sulla dimonistrativa, perchè, oltre all'abbassamento di strazione che le regioni hanno per queste società una livello con la decapitazione di quello superioparticolare competenza legislativa .integrativa del core, è stata minata anche la parte inferiore, dice civile; sono argomenti che ho trattato nel vosul terreno della efficienza, sia non istituenlume: Le società finanziarie regionali (Milano, 1972) do a suo tempo una organizzazione soddisfa-

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a cui rinvio. Qui vorrei solo rilevare come sia assurda una interpretazione secondo cui non è consentito alle regioni di costituire o partecipare a società per lo sviluppo industriale o comunque relative a materie diverse da quelle in cui hanno competenza legislativa e amministrativa, mentre dallo inizio del secolo comuni e province possono acqui-

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stare azioni di società che gestiscono aeroporti, aree di sviluppo industriale e via dicendo, tutte materie che certamente non rientrano nella loro competenza amministrativa.


117 cente dei comuni e delle provincie, sia paralizzandola oggi. Nel quadro delle pianificazioni di settore esistenti, di programmazioni reali attraverso i meccanismi creditizi e gli stanziamenti fatti dal CIPE, le regioni sono state accuratamente tagliate fuori. Esse non hanno nessun controllo sugli investimenti industriali, nessun potere per quanto attiene al credito che costituisce il congegno di investimento, quasi nessun potere finanziariò. Non discutiamo, qui se le pianificazioni di settore sono tali, o siano solo politiche di incentivazione e finanziamento, o se possa chiamarsi una programmazione di sviluppo industriale quella serie di attività che determina o dovrebbe determinare obiettivi attraverso i concerti, le contrattazioni programmate ecc. Programmate molto di nascosto - potremmo aggiungere - perchè fenomeni come l'Alfa Sud, o la semi-nazionalizzazione della Montecatini Edison, di programmazione ne hanno conosciuta poca. Quel che c'è di politica economica, sia essa fiscale o valutaria o monetaria o industriale o di investimenti, resta dominio dello stato anche se ciò non avviene senza contraddizioni e tensioni. È certo che le regioni non rivendicano la politica valutaria o monetaria. Ma quando passiamo all'incentivazione industriale, o in periodi neri, al. mantenimento dell'occupazione, il discorso diventa diverso. Se uno dei compiti fondamentali della regione è quello dell'assetto del territorio è sin troppo ovvio chiedersi come possano restare fuori le localizazioni industriali. E se esse vengono escluse, come stabilisce l'art. 14 della nuova legge sul Mezzogiorno (secondo cui gli investimenti industriali al di sopra di 7 miliardi non possono essere fatti senza l'autorizzazione del CIPE, il quale determinerà se questi insediamenti sono compatibili con la disciplina della mano d'opera e -col livello di congestione della zona), vediamo come venga a vanificarsi' la competenza urbanistica, in questo caso a favore dell'allargamento di funzioni amministrative (e talvolta clientelari) del CIPE; e non parlo dei sempre ricorrenti tentativi di sottrarre di fatto alle regioni le competenze in materia urbanistica quando compaiono i cosiddetti « sistemi urbani ».

10)

IL SISTEMA FINANZIARIO REGIONALE,

qual'è delineato dalla legge finanziaria e dai decreti di' trasferimento, pone le regioni in una posizione difficile, che non solo condiziona le loro autonomie operative, ma minaccia la possibilità che esse adempiano ai loro compiti. Sono stati sommati gli inconvenienti dell'insufficienza dei fondi attribuiti alle regioni (mantenendo in modo incongruo, talvolta palesemente illegittimo, assegnazioni allo stato), con quelli della dimenticanza di attribuzioni di fondi necessari per l'espletamento delle nuove funzioni, e con quelli della cristallizzazione di fondi attribuiti alle regioni per uno scopo così puntualmente determinato dal ridurre le regioni lini, Sorace, De Siervo, e Zaccaria (11) hana poco più di un agente contabile. Orsi Battano analizzato accuratamente il sistema, valutando i decreti delegati per quanto riguarda i trasferimenti dei fondi, e mettendo in risalto come le ripartizioni dei fondi abbiano confermato una scelta centralistica. Ad esempio c'erano due ministeri che si pensava dovessero sparire: il Turismo e l'Agricoltura. Non solo i ministeri ci sono tuttora: ma della dotazione del primo, 9 miliardi sono passati alle regioni contro 20 miliardi e mezzo che sono rimasti al ministero. Per il secondo 73 miliardi sono passati alle Regioni, contro 10 che sono rimasti al ministero che doveva scomparire. Se andiamo a vedere come si sono riorganizzati i ministeri, il ministero del turismo è rimasto immutato per quanto attiene al numero delle direzioni generali; quello della agricoltura del pari (materia regionale) da 7 direzioni generali passerà a 6; i lavori pubblici da 8 passerà a 5 (è quello dove c'è stata la revisione più forte); lavoro, industria, pubblica istruzione, sanità e trasporti sono rimasti intatti. Nei decreti di trasferimento delle funzioni amministrative le singole -ripartizioni fra stato e regioni sono state stabilite con criteri che non stupiscono chi conosce quel mostro

(11) Note in tema di finanza regionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2.3, 1971, 714, 734 .e 1291-1336.


118 di inefficienza che è l'amministrazione statale nei suoi aspetti contabili. La ripartizione fra stato e regione dei mezzi finanziari necessari per l'espletamento di funzioni, che in parte venivano attribuite allo stato, in parte alle regioni, è stata fatta senza nessun dato, a occhio e alla buona, perchè non esiste, una contabilità industriale o qualcosa del genere della pubblica amministrazione: Però questo procedere secondo stime generiche porta sempre a dare la fetta più grossa all'apparato centrale e la fetta più piccola alle regioni. In generale poi, il criterio adottato per stabilire quanto doveva essere dato alle regioni, è stato fissato sulla base di un solo anno, tenendo conto non della legge di bilancio ma dello stato di previsione del bilancio, non ancora approvato dal parlamento e quindi suscettibile di essere modificato. Ora qualunque modestissimo esperto della più piatta delle ragionerie, sa che in qualunque caso, per valutare certe spese dell'aziencia si deve tenere conto, come arco di tempo, quanto meno di un triennio se non di un quinquennio. Queste previsioni a tempi medi venivano già fatte all'epoca di Giolitti (« primo »). Allora, quando si trattò di fare la legge sulle municipalizzazioni, venne calcolato che il riscatto delle aziende municipalizzate dovesse essere fatto avendo presente le spese e gli utili di un arco di anni. Il fatto più grave, messo in luce dallo studio sopra ricordato, è che nei decreti di trasferimento sono state prese le voci di bilancio, dimenticando che esiste una voce estremamente cospicua che è quella del fondo per i nuovi provvedimenti legislativi approvati nel corso dell'esercizio, dal quale può attingere il ministro competente, salvi i decreti di convalidazione. Questo fondo è notevole perchè è pari al 10%, vale a dire 1400 miliardi. Di esso non si è tenuto conto, sebbene in un bilancio di competenza e pressochè completamente rigido come il nostro, esso costituisce l'unica manovra possibile. All'insufficienza dei fondi di cui ho parlato sinora bisogna aggiungere, per completare il quadro della situazione finanziaria delle regioni, i fenomeni che prima ho chiamato di dimenticanza e di cristallizzazione e che sono rilevabili in normazioni diverse dai de-

creti di trasferimento. Nel primo caso a nuove funzioni non corrispondono assegnazioni di fondi. Ad esempio nella materia del commerciola legge n. 426/1971 sulla disciplina del commercio ha attribuito poteri alle regioni (secondo una tendenza che vedrà incrementare la competenza delle regioni nei problemi della distribuzione, strettamente connessa all'assetto del territorio), ma non ha tenuto conto della opportunità di determinare i mezzi finanziari; ne deriva che sulle spese generali, già limitate per le falcidie operate con i decreti di trasferimento, gravano altri compiti. Nel secondo caso, fondi come quelli per l'istruzione professionale, l'agricoltura, l'assistenza sanitaria, la montagna non confluiscono al fondo comune dell'art. 9 1. n. 281 del 1970 ma restano nel bilancio dello stato come fondi speciali da suddividere fra le regioni. Queste in tal modo non possono disporre della intera quota della loro entrata per ripartirla in spese differenziate secondo le loro scelte, ma debbono impiegare i fondi secondo le ripartizioni volute dalle autorità centrali. Riassumendo, vediamo come la regione, quale risulta dalla legge finanziaria, dai decreti di trasferimento e cioè dal solo corpo normativo esistente e prevedibile (perchè ci dovrebbero essere le riforme di adeguamento della legislazione statale, previste dall'art. IX delle disp. trans. cost.: ma è facile profezia diagnosticare che non ci saranno nè nel triennio imposto dall'art. IX nè subito dopo) diventa un ente sottoposto a contraddizioni fortissime, fra i fini che gli statuti attribuiscono e i mezzi per attuarli; un ente che in molti casi appare in tensione, fra il polo dei mezzi e il poio delle aspettative che la comunità regionale ripone in esso, fra il polo « amministrativo » e il polo « politico ». Quest'ultimo è sollecitato all'autonomia e a sua volta suscitatore di scelte autonomistiche, l'altro è costretto in una maglia di ripartizioni di competenze, suddito finanziariamente, fornito di competenze amministrative frazionate spesso in modo irrazionale, depotenziato per la nuova collocazione che esso, arrivando dopo venticinque anni, ha assunto in un apparato del tutto cambiato, oltre che per i mutamenti riassunti prima, anche per l'integrazione europea.


119 11) DIRE CHE LE REGIONI dalla costituzione erano state costruite non per una Italia industriale, ma per un paese agricolo, è, ormai, luogo comune. Però l'amministrazione dell'agricoltura, che era se non il fulcro dell'attività di governo delle regioni, uno dei più importanti elementi, sfugge ormai alle regioni, per la nuova dimensione europea necessariamente posta fuori dell'ambiente regionale. L'area dell'agricoltura di cui parla l'art. 117 della costituzione è la stessa di cui parla l'art. 38 del trattato CEE (e anzi questa comprende anche altri settori). E mentre l'art. 117 riserva allo stato i soli principi fondamentali l'art. 38 del Trattato di Roma consente alla Comunità anche la più penetrante normazione di dettaglio. Una valutazione realistica impone, dunque, di vedere come la regione sia da molti punti di vista divenuta assai diversa da quella che il costituente prevedeva, perchè è arrivata un quarto di secolo dopo (e probabilmente, la formula prescelta dal costituente era già vecchia) quando l'ambiente sociale, internazionale, istituzionale è mutato da ogni lato, quando le modificazioni si erano svolte in altra direzione, quando un altro tipo di decentramento e ammodernamento aveva trovato una sua configurazione, confusa fin che si vuole, ma che aveva assorbito gran parte del potenziale tasso di decentramento che il nostro sistema consentiva. La dialettica con l'apparato centrale trova un apparato totalmente diverso da quello esistente, che sfugge alla dialettica istituzionalizzata,' e ne deve ricercare una nuova (si pensi alle relazioni fra regioni e tecnostrutture pubbliche o subsistema imprenditoriale); e al divenire dei rapporti fra regioni e imprese a partecipazionè statale, che sarà uno dei terreni di confronto tanto inevitabile quanto difficile per le scelte e implicazioni che comportano le relazioni con la Tecneco o l'Efim o la Svei e via dicendo. Ma il confronto su questo terreno è inevitabile, come dicevo or ora, il potere centrale sta anche (e soprattutto) nell'IRI e nell'ENI e il rapporto fra amministrazione centrale e regionale non passa solo per lo art. 118 della costituzione ma fluisce nei canali in cui ormai il sistema amministrativo agisce nella differenza, nella alternanza, nella coincidenza volta a volta dei due sub-

sistemi amministrativi, « tradizionale » e degli enti imprenditoriali strumentali. La collocazione coordinatrice delle autonomie locali, attribuita alle regioni e qualificante il loro inserimento nell'ambiente come la loro struttura (si pensi alla configurazione della regione come giunta tecnica, avanzata persuasivamente da Benvenuti (12) anni fa), incontra ostacoli in taluni casi enormi. Dopo venticinque anni ormai di dissesti di enti locali, molti comuni e provincie sono oberati dai debiti, non riescono a darsi una organizzazione hanno solo dei problemi di sopravvivenza; alcuni poi non hanno apparati (pensiamo alla urbanistica di molte province e di molti comuni) e quasi nessuno ha dimensioni adeguate. È luogo comune dire quanto è assurdo pensare ad una pianificazione urbanistica con 8000 piani regolatori: questo significa credere che il piano regolatore sia un regolamento di ornato. Nè può farsi una pianificazione udianistica se non si tiene conto dei servizi di trasporto e di certe determinate dimensioni: ognuno sa come le dimensioni comunali siano assolutamente inefficienti e arretrate. Ne deriva che le regioni dovranno sobbarcarsi compiti che avrebbero dovuto essere subito affidati a comuni e province, ma che le regioni non hanno ancora possibilità di delegare se non in misura limitata; nè possono fare delle leggi, perchè non si possono riorganizzare gli enti locali fino a quando non c'è una legge dello stato che stabilisca i principi generali. In questo modo le regioni rischiano di trovarsi in condizioni simili a quella in cui sono stati messi i comuni oberati di compiti specifici senza avere mezzi finanziari per realizzarli: nello stesso tempo la regione viene caricata dalla società, dalla comunità di compiti che investono la vita politica intera (e quindi tutto il sistema) con le proteste e le disillusioni che apparati inefficienti hanno accresciuto senza sosta. La regione da un

(12) BENVENUTI F., La regione come organo tecnico, in La regione e il governo locale, a cura di MARANINI G., Ed. Comunità, Milano 1965,

voi. Il, 40.


120 lato (cioè verso il basso) per le carenze del sistema comunale e provinciale ma dall'altro (verso l'alto) per le ancora maggiori deficienze dell'apparato centrale diviene l'organo a cui, e al limite contro cui, si indirizzano una serie di richieste; se ad un certo momento c'è la fabbrica che chiude, e c'è il problema della disoccupazione, le proteste vengono fatte alla regione. La quale non ha nessun potere ma, per la sua posizione di ente rappresentativo della comunità, deve muoversi, trattare, usare il suo peso politico con il governo. Peso politico che è limitato perchè è condizionato dalle situazioni di dipendenza e di subordinazione finanziaria in cui la regione si trova. Così essa è costretta ad avere un ruolo ambivalente per cui volta a volta è un potere o un gruppo di pressione (se vogliamo rimanere ad una dicotomia elementare). Alle volte è un potere istituzionale responsabile secondo schemi giuridici di ripartizione di competenze ; altre volte è al di fuori di essi e agisce nello schema dei poteri, come può agire il sindacato, senza essere irretito, nè « ingabbiato », ma non ha la stessa posizione dialettica che può avere il sindacato. Il sindacato resta fuori dai poteri istituzionali ed ha il suo contropotere che con: sente anche di discutere sui poteri istituzionali da pari a pari. La regione non ha poteri extra-istituzionali e ha scarsi poteri istituzionali. Si trova in una posizione difficile, di ente lacerato per la sproporzione esistente fra fini e mezzi, di ente che oltre ai conflitti e alle tensioni che sempre premono su ogni organo di un apparato di una grande organizzazione deve sopportare i conati e le guerriglie revanscistiche di gruppi della burocrazia tradizionale, e collegati a forze politiche e sociali, essi stessi operatori politici. La regione in questo suo ruolo complesso ed insidiato, in un ruolo particolare di aggregazione di domande locali che investono problemi nazionali (disoccupazione, riforme, qualità della vita), in un sistema politico in cui i partiti, che hanno il ruolo di aggregatori delle domande nazionali, lo hanno perso in larga misura, costringendo ad assumere supplenze quei poteri che non sono costruiti per le domande nazionali, generali (le regioni e i sindacati), ma solo per domande locali o di

classe o di categoria: e che non possono contrapporsi come poteri sostituitivi ai partiti, perchè a loro volta connessi direttamente e indirettamente ad essi. La posizione della regione (come quella del sindacato) diventa difficile perchè sino ad un certo punto può supplire ad una funzione di aggregazione in càrrelazione a variabili nazionali, ma poi irta contro la sua stessa struttura locale, che non consente di diventare, se non eccezionalmente, portatore e attuatore di interessi nazionali. In questo spazio, la regione quindi oscilla fra il polo « politico » e il polo « amministrativo ». Da un lato, è costretta ad agire come organo della più piatta amministrazione subalterna, sottoposta a direttive e regolazioni non di indirizzo politico ma burocratico. Dall'altro è portata a fare politica perchè la sua rappresentatività politica e territoriale (e a questa carica le regioni debbono la loro nascita, riconducibili ad un momento di fortissima crisi di ogni potere istituzionale, da quelli dell'apparato pubblico a quelli dei partiti e dei sindacati stessi) la rende strumento necessario di partecipazione, tanto più in quanto deve sostituirsi a chi dovrebbe fare politica e non la fa, o per sostituire una politica più articolata e ricca ad una centralistica più elementare e rozza (pensiamo a quello che sta avvenendo nelle posizioni regionali per la riforma della RAI-TV, cioè per una domanda politica che non rientra nelle competenze elencate dall'articolo 117 ma inerisce logicamente al polo politico regionale). Fra questi due poli le tensioni sono fortissime. 12) SONO CONSIDERAZIONI indubbiamente pessimiste; ma sono realistiche. Non dobbiamo arrivare però alla conclusione che l'istituto è nato morto; e che meglio sarebbe stato introdurre delle regioni alla francese, superdipartimenti efficienti attuatori di una pianificazione decisa al centro. Il fatto che le regioni esistano è un fatto importante perchè testimonia una alternativa autonomica. Il punto chiave immediato per le regioni è di ottenere i mezzi per vivere in modo autosufficiente, di avere cioè la possibilità di esercitare i compiti loro attribuiti e che esse si attribuiscono


121 come portatori e aggregatori di istanze politiche. La piattaforma che garantisca uno spazio è indispensabile per svolgere il compito di riorganizzazione dell'efficienza in una dimensione di partecipazione, che soio la riforma regionale, se investirà realmente tanto gli apparati centrali quanto quelli dei poteri locali, può consentire di intraprendere e di svolgere. In questo senso le ristrutturazioni, nei settori di competenza delle regioni, pospono essere iniziate sino da ora. La gestione urbanistica, ad esempio, è un tipo di gestione completamente diversa a seconda che ci si avvii per una strada di modelli di autogestione, piuttosto che di imposizione dall'alto di direttive con un piano regionale. Il probiema della pianificazione regionale non si risolve sostituendo la regione al Ministero dei lavori pubblici ma si risolve creando un tipo diverso di articolazione e di partecipazione nei raccordi fra regione ed enti locali, sempre intesi come esponenziali delle comunità, inserendo la regolazione urbanistica in un quadro globale e perciò efficiente e persuasivo nella ricerca e nel controllo delle interconnessioni delle attività che si localizzano nel territorio e che investono le comunità insediate nell'interezza dei loro problemi, vita, lavoro, esodo, permanenza (e basti pensare ad un recupero dei centri storici collegato ad un ripensamento di una industrializzazione diffusa in relazione alle tendenze allo spopolamento delle campagne). Ma per questi compiti è indispensabile ossigeno, per alimentare lo sforzo considerevole, che comunque, qualsiasi possano essere le alternative, la regione dovrà compiere. LE ALTERNATIVE ALLE QUALI alludevo sono tre. La prima è il progressivo allargamento delle competenze regionali nel quadro costituzionale attuale della regione autonoma, organo di indirizzo politico, soggetto politico esponenziale della comunità regionale. È questa la tesi adombrata dagli statuti, dallo stesso art. 9 della legge finanziaria: la regione presenta il suo piano di sviluppo e gestisce la sua attività nella logica di un piano che deve investire l'intera regione. Questo però comporta che da parte dei poteri centrali venga abbandonata la politica della spartizione rigida: l'industria nelle mani del-

13)

lo stato, senza che la regione abbia alcun potere, il credito nelle mani dello stato, e via dicendo. È evidente che se si vuole arrivare ad un tipo di intervento globale, questo deve investire anche il settore industriale e quello creditizio, anche se con differenziazioni, che collochino le piccole e le medie industrie in una situazione diversa da quella delle grandi. Un allargamento dei poteri meglio una redistribuzione in chiave di realizzazione regionalistica sarebbe, del resto, la conseguenza dell'applicazione dell'art. IX delle disposizioni transitorie della costituzione, anche se con il riflusso antiregionalista che abbiamo conosciuto sino al giugno del 1973 non c'è da credere molto ad una convincente applicazione della norma costituzionale dell'ordinamento regionale, come sfruttamento delle sue capacità innovatrici. La seconda alternativa è quella di esperienze diverse collegate probabilmente alle posizioni politiche differenziate dalle regioni, con la tendenza all'esclusione di una fisionomia regionale che investa allo stesso modo tutte le regioni. È un'alternativa possibile astrattamente, anche se difficilmente realizzabile in pratica. Gli esempi delle regioni a statuto speciale (a cui alludevo poco fa) dimostrano come sia difficile la vita di isole in un mare ostile. Che le regioni debbano agire con le differenze specifiche e necessarie fra l'una e l'altra dal punto di vista economico e politico, è nella logica dell'istituto; ma da un lato v'è l'esigenza che l'azione sia inserita in quel quadro di riforma dello stato che è la ragione d'essere dell'istituto stesso e, dall'altro, le leve del potere restino centralizzate, così da non consentire differenze di decisivo rilievo. La terza soluzione è un sostanziale abbandono delle posizioni autonomistiche costituzionali e, l'avvio all'assetto di una regione che segua il modello francese: un tipo di regione efficientista, che costituisca una cmghia di trasmissione fra potere centrale e locale, che attui tecnocraticamente certe scelte, attraverso un'articolazione amministrativa nuova, funzionalmente decentrata. La esperienza francese e l'esperienza italiana partono dallo stesso tipo di stato centralizzato (i francesi hanno fatto scuola, ma noi abbiamo assimilato l'insegnamento molto bene nel secolo scorso). Nel dopoguerra i francesi so-


122 no andati prima di noi e più avanti di noi sulla via della regionalizzazione di tipo amministrativo e funzionale, non politico. Se prendiamo le regioni francesi vediamo che funzionano con certe articolazioni come le varie società miste, le aggregazioni locali di vario genere, in maniera più efficace, anche dal punto. di vista del coinvolgimento di gruppi e interessi, di quanto non funzionino le nostre regioni, se non altro per il motivo che le regioni in Francia hanno ormai dieci armi di vita. L'esperienza italiana ha seguito il cammino inverso. Abbiamo previsto una regione politica e non abbiamo ancora una regione amministrativa. Questa può essere considerata la reale alternativa, espungendo quella meno probabile e cioè la diversificazione. Avremmo quindi o una regione che volge verso competenze globalizzanti o una regione alla francese che diventi semplicemente una regione amministrativa. Dovremmo sempre, ben inteso, mantenendo il suo livello, aggiungere che non solo entrano in discussione i valori di autonomia politica, ma quelli stessi di efficienza. In uno stato in cui l'apparato centrale ha così scarse capacità amministrative e di indirizzo il regresso delle articolazioni regionali a cinghie di trasmissione fa intravedere il rischio di trasferire il vuoto; o, se vogliamo essere più misurati, fa perdere quelle virtualità di suscitare energie, di coagulare gruppi e interessi in modo nuovo, di introdurre metodi diversi che sono il sostrato di unà regionalizzazione. Anche l'articolazione regionale diventerebbe un autobus perduto ; perchè nella realtà fattuale la debolezza dell'apparato centrale non consente una alternativa di effi-

cienza che punti su quello che non c'è. Ma se qiello sviluppo che si presenta come sola alternativa non verrà perseguito, continuando per la strada della non autonomia finanziaria, della non partecipazione che viene fatta oggi in Italia, le regioni saranno costrette a recedere verso la soluzione amministrativa, che sembra efficientistica, e non lo è. Il discorso perciò è come sempre condotto dalle forze politiche, é fra questo anche dalle forze sociali non partitiche, e impegna anche i sindacati che possono costringere l'interlocutore a muoversi in una certa direzione. È anche un discorso di carattere tecnico, perchè un certo tipo di istituzioni va assolutamente rafforzato, incrementato e potenziato se si vuole che le regioni esercitino la loro effettiva funzione.

14) LE VIE SU CUI LE REGIONI dovranno incamminarsi, se vogliono combattere davvero, sono tre dal punto di vista istituzionale: problemi finanziari, problemi della società politica nazionale (quindi il problema della partecipazione e informazione) e problema dell'industrializzazione a livello regionale, con una regione che porti e partecipi davvero alla politica di industrializzazione e alla politica del credito, da cui oggi è tagliata fuori. Sono campi ampi, diversi da quelli che si possono desumere dalla lettura del testo costituzionale ; ma è logico che siano differenti (come abbiamo cercato di dimostrare), perchè l'ambiente è cambiato, e in questa società nuova e in questo contesto nuovo le regioni debbono agire, oggi. Alberto Predieri


referendum sul divorzio e trappole neo-concordatarie Prima e dopo le vicende dell'elezione dei Presidente della Repubblica nel dicembre 1971 le manovre politiche sembrarono concentrate tutte intorno alla questione del referendum sul divorzio. Inizialmente oggetto di trattativa parallela a quella presidenziale, nel successivo precipitare della crisi del centro-sinistra la possibilità di rinviare il referendum fu elemento che fece propendere anche le sinistre a favore delle elezioni anticipate del '72. In quella fase del dibattito politico ebbero ad esprimersi alcune voci di intellettuali cattolici su posizioni più o meno contrarie alla logica clericale che aveva fatto richiedere il referendum ma diversamente orientate sulla necessità di rinviare o tout court evitare la prova del referendum (di seguito pubblichiamo i documenti allora resi noti da questi gruppi di intellettuali). In risposta ad alcune di queste prese di posizione che si dimostrarono in sostanza neo-concordatarie, alcuni ex-redattori della rivista « Questitalia » (già al tempo cessata) presero l'iniziatil?a di diffondere un documento sul problema. Fu scritta una prima ampia stesura, poi una seconda molto più breve sulla quale furono raccolte diverse adesioni. Ma la crisi politica ormai precipitava e venivano sciolte le Camere. Non era più ,il momento politico per diffondere il documento che infatti è rimasto inedito. Il problema del referendum con l'ulteriore rinvio al 1974 è tutt'ora aperto. Alcuni giudizi di carattere generale dati nel 1972 mantengono la loro validità. La linea neo-co'zcordataria tiene il campo col pressochè unanime consenso dei partiti costituzionali, mentre la curia romana - la contro parte cioè delle auspicate trattative di revisione concordataria - torna al non dimenticato co-

stume di emettere periodicamente un « siilabo » (vedi la recente dichiarazione Mysterium Ecclesiae). Per questo riteniamo utile pubblicare il documento allora preparato, nella sua originaria e più ampia stesura.

Documenti di intellettuali cattolici con• trari al referendum. NEL MOMENTO IN CUI L'INIZIATIVA del referendum antidivorzio si avvicina alla data in cui viene resa operante nella vita del paese se fatti nuovi non interverranno, anche noi, come cittadini di orientamenti diversi ma animati dalla volontà di far progredire nel nostro paese lo sviluppo della democrazia ed il pogresso civile attraverso un confronto aperto e non turbato da superate guerre di religione, desideriamo affermare quanto segue: Senza nulla eccepire nei confronti dello istituto del referendum popolare, intendiamo denunciare all'opinione pubblica il sottofondo di una manovra puramente politica che tende a spostare a destra, sotto una sedicente copertura religiosa, tutto l'equilibrio politico italiano. A tale proposito, desideriamo far rimarcare che, obiettivamente, le sole forze che abbiano finora dato ufficialmente l'appoggio all'operazione antidivorzio sono il Movimento Sociale Italiano ed i Comitati civici. Questo per. chè ci si renda conto del fatto che, sotto la copertura etico-religiosa e con il pretesto di difendere la famiglia, ha preso l'avvio un'alleanza tra l'estrema destra cattolica ed il fascismo, con il chiaro proposito di ricreare vecchi steccati tra «cattolici » e « laici » facendo perno sulla fede religiosa di larghe masse popolari. Noi riteniamo che la famiglia possa essere difesa stabilendo, innanzitutto, leggi più democratiche ed efficaci che regolino l'intera società, rendendo quest'ultima più giusta ed umana. In tal modo si contribuisce a difendere la vera dimensione comunitaria della famiglia, che deve essere alimentata da spontaneo e reciproco affetto. L'iniziativa del referendum' antidivorzio si propone, invece, di abolire un diritto di libertà faticosamente conquistato, che adegua la legislazione del nostro paese, in tale materia, a quella di quasi tutte le


124 nazioni del mondo. Il divorzio, purchè rispetti il diritto di uguaglianza stabilita dall'art. 3 della costituzione repubblicana, garantisce la sfera di libertà dei cittadini che vogliono servirsi di tale strumento, senza limitare in alcun modo la libertà di coloro che, per ragioni di fede o di principio, considerano il loro matrimonio come indissolubile. I fautori del referendum vogliono, al contrario, im- pedire a chiunque di divorziare, imponendo così la propria concezione etico-politica a tutti i cittadini. 3) Noi riteniamo, perciò, che la battaglia contro questa iniziativa di ispirazione integrista debba essere combattuta in nome della laicità dello Stato. Noi siamo strenui assertori di uno Stato che non privilegi nessuna fede e ideologia, che non subordini ad essa le sue leggi, che non sia nè confessionale nè ateo. I fautori dell'operazione antidivorzio, invece, si collocano obiettivamente contro la società pluralistica, che lo Stato laico garantisce e promuove e che lo stesso Concilio Vaticano Il' ha riconociuto, offrendo ai cittadini libertà di scelta. All'alleanza clerico-fascista noi proponiamo, per. ciò, di opporre il più ampio schieramento in difesa dei diritti di libertà dei cittadini e della laicità del.lo Stato, costituito con il libero concorso di credenti e non credenti. Se la posizione che esprimiamo troverà larghi consensi, se saranno numerose le iniziative, comuni o distinte, di cattolici e non cattolici contro la iniziativa legata al referendum, non è improbabile che le velleità di quanti sperano di poter così dividere a classe lavoratrice e le forze democratiche possano essere sconfitte prima ancora dello scontro che essi si propongono. Se, però, allo scontro si arriverà, sia a tutti ben chiaro che esso non sarà una «guerra di religione », ma una chiara e impegnata battaglia politica e ideale.

(Agenzia Adista 3 nov. 1971)

MI I PROMOTORI E I FIRMATARI di questo documento sono cattolici democratici di diverso orientamento politico i quali ritengono utile manifestare la propria posizione in occasione del dibattito e delle intese in corso sulla legge del divorzio e sul problema del referendum. In particolare affermano che: a) Le motivazioni che vengono portate per legittimare modifiche sostanziali della legge sul divorzio e per evitare il referendum abrogativo (e che riguardano, com'è noto, i pericoli di lacerazione della società italiana e lo spostamento del confronto e della lotta dal piano politico-sociale al piano religioso) in realtà non considerano che sono gli stessi partiti a privilegiare e ad accettare ancora in sede politica discrim_inanti ideologiche di natura religiosa. Tale equivoco viene perpetuato, per motivi di potere, con l'attribuire alla Democrazia Cristiana ed ai promotori del referendum (come si è fatto e si continua a fare anche da parte dei partiti laici) la capacità di rappresentare i cattolici italiani. I cattolici democratici rifiutano le fittizie barriere pseudo-religiose e la loro strumentalizzazione sul piano politico; essi partecipano alla vita politica

e alle lotte sociali soltanto operando precise scelte di classe. Pertanto, come respingono la manovra messa in atto per il referendum, così rifiutano le ragioni di fondo delle trattative di vertice per scongiurarlo, in quanto entrambe le operazioni si collocano oggettivamente nella prospettiva di utilizzare l'adesione religiosa in funzione politico-conservatrice. La scissione religiosa non è più un fatto rilevante della società civile, ma ha ancora un ruolo centrale senza reale fondamento di legittimità e di rappresentanza nel quadro partitico italiano. Per evitare che il silenzio di consistenti forze di lavoratori e di intellettuali cattolici venga sfruttato in termini equivoci per operazioni politiche scorrette, riteniamo di doverci pronunciare in modo tale che il dissenso sia manifesto ed inequivoco ed invitiamo i cattolici democratici ad esprimere chiaramente la propria opposizione a questo disegno. Questo disegno si caratterizza sostanzialmente per la volontà di lasciare immutata l'attuale distribuzione del potere. Un confronto chiaro ed aperto a tutti i liveffi sulla questione del divorzio porterebbe necessariamnte a rimettere in discussione uno degli equivoci di fondo della vita politica italiana. In questo quadro, l'operazione del referendum è stata condotta non soltanto dai comitati civici e dal Movimento Sociale Italiano, ma anche da tutte quelle forze organizzate che hanno diretto o consentito tale operazione, utilizzandola o lasciandola utilizzare come uno dei momenti principali della « strategia della tensione » con cui si vuole bloccare l'avanzata delle forze democratiche e popolari ed evitare la rottura degli equilibri conservatori esistenti. Se i promotori espliciti sono forze emarginate, i sostenitori impliciti seno tutte quelle forze che hanno un reale potere in Italia. In questo ambito non va taciuta la responsabilità di quelle associazioni che raggruppano cattolici democratici e che stanno evitando su questo tema ogni serio con fronto che possa provocare chiarimenti di fondo. I promotori e i firmatari di questo documento intendono ribadire che: Il principio dell'effettivo riconoscimento della libertà di coscienza è per i cattolici democratici dato acquisito sia in sede religiosa che in sede politica e deve pertanto essere operante a livello di tutte le istituzioni pubbliche. Qualsiasi principio etico, anche in tema di matrimonio, che sia soltanto definito con argomentazioni religiose, non ha alcun titolo per imporsi a livello di società civile e pertanto anche ai non credenti. Nella società italiana il divorzio introduce un principio di innovazione importante sebbene limitato nell'affrontare la crisi della famiglia borghese, ma del tutto essenziale sul piano della rottura del monopolio clericale su di una istituzione così capillare come la famiglia e sul piano della demistificazione di quella grossa identificazione che la chiesa cattolica ha storicamente compiuto fra struttura borghese della famiglia e sacramento del matrimonio. Anche su di un piano più ristretto ma


125 urgente, la legge sul divorzio potrà sanare situazioni di difficile o impossibile tollerabilità, come quella di molte famiglie che esistono sul piano della sola finzione giuridica. ) Non deve essere accettato alcun accordo fra le forze politiche che non rispetti i punti precedenti e quindi restauri un regime matrimoniale familiare che neghi la libertà di coscienza, l'autonomia dello stato e l'uguaglianza dei cittadini indipendentemente da ogni fede (perciò, rifiutiamo qualsiasi « doppio regime », sia esso esplicito o mascherato) e riaffermi sotto qualunque forma e misura il controllo della chiesa sul matrimonio civile, perpetuando così i punti basilari dell'antidemocratico regime concordatario vigente. I promotori (tutti di Milano) e i firmatari di questo documento si impegnano a porre in atto quelle iniziative che siano utili per rendere esplicita l'opposizione di consistenti forze cattoliche ai disegni sopra denunciati.

(Il Manifesto, 3 dic. 1971)

DIVORZISTI ED ANTIDIVORZISTI, fiduciosi entrambi nella vittoria, vanno accreditando l'immagine di un elettorato nettamente diviso in due gruppi compatti, desiderosi ormai di contrasti in aperto confronto. Questa immagine non risponde, a nostro avviso, alla realtà. Non abbiamo firmato la richiesta di referendum. Guardiamo con rispetto alle ragioni morali cui si sono ispirati coloro che lo hanno promosso, nell'esercizio di un diritto che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini. La loro iniziativa, tuttavia, ci appare una risposta inadeguata alla crisi della famiglia che il regime di indissolubilità del matrimonio, sino a ieri inesistente, non ha potuto impedire; siamo convinti che l'indissolubilità del matrimonio debba essere custodita e rafforzata nelle coscienze piuttosto che difesa con il codice civile; non crediamo che la legge possa imporre una concezione del matrimonio indissolubile, storicamente legata a premesse religiose, quando su tali premesse non vi sia un comune consenso. Riconosciamo gli sforzi compiuti per portare il referendum sul terreno di un confronto civile e non su quello di una scelta religiosa; ma di fatto vediamo rimesso in discussione un patrimonio, comune a credenti e non credenti che si è ,venuto accumulando, sia pure faticosamente nella coscienza del Paese: un patrimonio di fiducia nei principi di libertà, di reciproca tolleranza, di rispetto per i valori religiosi. Vediamo minacciata la prospettiva di una pacifica e nuova definizione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa in Italia. Rifiutiamo d'altra parte i disegni politici reazionari che nel referendum, snaturandone lo specifico obiettivo, cercano una occasione per affermarsi. Per queste ragioni non siamo con gli antidivorzisti. Ma neppure ci schieriamo a difesa di una legge come quella di Baslini-Fortuna che suscita non poche riserve in ambienti divorzisti; rifiutiamo soprattutto il disegno di chi intende utilizzare un'eventuale vittoria divorzista come premessa di altre « conquiste » quali, ad esempio, la liberaliz-

zazione dell'aborto. Respingiamo dunque l'alternativa schematica e radicale che questo referendum vorrebbe imporci. Il tentativo delle forze politiche di evitare il conflitto mediante la revisione della legge sul divorzio risponde, obiettivamente, a uno stato d'animo come il nostro, che crediamo condiviso da molti cittadini. Vediamo però con preoccupazione la possibilità che il proposito di modificare la legge Fortuna-Baslini si vanifichi nelle incertezze e nelle reticenze e che l'elettorato si trovi alla fine costretto al voto in un clima di confusione e di risentimenti. Per questo ci interroghiamo pubblicamente sull'atteggiamento da assumere di fronte al referendum, se e quando esso avrà corso. Secondo la legge vigente la scheda bianca non è un mezzo valido per rifiutare il referendum perchè non è considerata un voto « validamente espresso »: paradossalmente se tutti deponessero nell'urna scheda bianca, tranne uno, quel solo voto sarebbe decisivo e potrebbe portare alla abrogazione di una legge dello Stato approvata dal Parlamento nazionale. Una pronta iniziativa delle forze politiche potrebbe attraverso una modificazione della legge di attuazione del referendum, restituire alla scheda bianca il suo giusto peso. In questo caso una posizione come quella da noi indicata potrebbe trovare piena espressione nel voto attraverso la scheda bianca. La legge vigente, tuttavia, prevede una condizione - voluta dalla Costituzione stessa - per la validità del referendum: che più della metà aventi diritto a voto si rechi alle urne. L'astensione potrebbe diventare dunque una via per dire democraticamente «no» al referendum: l'istituto del divorzio resterebbe nel nostro ordinamento ma la astensione dell'elettorato indicherebbe chiaramente al Parlamento l'opportunità di una revisione della legge Fortuna-Baslini. Ma vi è una difficile condizione politica perchè l'astensione sia realmente efficace: che i grandi partiti e le forze d'opinione concordemente orientino l'elettorato verso l'astensione in massa. Se la legge del referendum resterà quella di oggi, se l'astensione in massa non si potrà raggiungere, ci regoleremo secondo coscienza. Siamo convinti però che molti elettori anche cattolici, che condividono le nostre preoccupazioni, potranno votare «no» all'abrogazione del divorzio a condizione che le stesse forze politiche divorziste offrano precise e responsabili indicazioni per una revisione della legge attuale. Non si tratta di introdurre, con un «doppio regime» dell'istituto matrimoniale, inaccettabili discriminazioni fra i cittadini in ragione del loro credo religioso - lesive, nell'attuale contesto italiano, della dignità stessa dei cattolici, oltre che della coscienza civile - ma di garantire invece efficacemente le posizioni socialmente più deboli, in particolare, quella delle donne e dei minori. Il nuovo diritto di famiglia di cui la società italiana ha urgente bisogno potrà nascere solo in un clima di concordia civile che tutti, al di là dell'errore del referendum, dobbiamo e possiamo ancora concorrere a creare.

(Settegiorni, 23 gen. 1972)

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126 IL CONCORDATO CHE GAETANO SALVEMINI nel 1943 riteneva sarebbe stato dichia-

rato nullo, come primo naturale atto di de.mocrazia, da coloro che sarebbero succeduti alla dittatura fascista e che invece, al di là della crisi del regime fascista, è rimasto finora assolutamente integro, ha cominciato ad essere messo concretamente in questione, con l'approvazione della legge sul divorzio. Il nodo storico che non si volle sciogliere al momento di rifondare un assetto politico democratico oggi si ripropone in tutta la sua centralità: viene a costituire, anzi, una componente decisiva della crisi generale delle istituzioni. Davanti a ciò sono necessarie posizioni di estrema chiarezza, dalle quali al contrario portano lontano non soltanto le generali condizioni di' confusione politica in cui versa il paese ma anche l'incertezza e il presunto realismo delle forze della sinistra storica, il sostanziale moderatismo conservatore della maggior parte delle cosiddette « sinistre » cattoliche-democristiane, l'insufficienza culturale della nuova sinistra. Cosa rappresenti il Concordato fra stato e chiesa nella società moderna da tempo fu chiarito alle coscienze democratiche più critiche ed avvertite: « la situazione creata in uno Stato dalle stipulazioni concordatarie ha scritto Antonio Gramsci - significa il riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici ». Significa la negazione stessa del principo di democrazia. In Italia rappresenta la contraddizione più potente e perniciosa del nuovo assetto costituzionale, il riconoscimento anzi di un poderoso nucleo di normazione antidemocratica che è valso a legittimare le più consistenti spinte regressive della democrazia italiana. Intorno al privilegio confessionale si è costituito quell'articolato mondo di interessi e di organizzazioni che è stato obiettivamente il modello maggiore di assetto corporativo degli interessi che fosse stato accolto nel sistema democratico: vero polo di attrazione e di aggregazione di tutte le spinte e di tutte le aspettative corporative della società italiana. In realtà, solo una cattiva conoscenza dei meccanismi istituzionali o la tenace opera di copertura nella quale, attraverso silenzi e rinvii, si sono prodigati, fra scaramucce polemiche e momentaneo agitar di bandiere, tutti i partiti « laici »,

possono far disconoscere il peso che il Concordato ha assunto nella costituzione di fatto del nostro paese, al di là della stessa portata delle singole norme, come dichiarata principio fondante della logica del privilegio. Rispetto a tutto ciò i discorsi sul superamento dello « storico steccato » o sulla « pace religiosa » sono mera retorica ideologica che impedisce di cogliere i dati della realtà. Nè può rimanere tuttora disconosciut& il fatto che, sul piano del sistema politico l'art. 7 della Costituzione ha fondato quel regime di gollismo all'italiana - che per molti aspetti è un vero gollismo ante litteranr - secondo cui spetta al continuum mondo cattolico-partito democristiano governare e al partito comunista avere l'egemonia dell'opposizione. Il tentativo compiuto da quest'ultimo di uscire dalla posizione assegnatagli dal sistema, tentativo condotto attraverso tutte le vie consentite dal meccanismo parlamentare così come con la sempre riaffermata disponibilità alla trattativa con la controparte, si è sempre arenato e continuerà. ad arenarsi di fronte al vincolo di principio che fonda il sistema. Vincolo che, dunque, va negato e rotto se l'opposizidne vuol essere alternativa di potere e non aspirante forza di supporto del governo altrui. Una via per affrontare tale nodo sarebbe stata quella di impostare correttamente la battaglia aperta dalla richiesta di referendum sul divorzio. Al partito comunista va dato atto di aver fatto propria la battaglia per il divorzio e di aver dato il contributo determinante per la vittoria parlamentare. Nè può imputarsi a responsabilità sua ma piuttosto dei partners. « laici » della dc il baratto divorzio-referendum concluso attraverso l'accordo per la previa approvazione di una legge sul referendum 7 che certamente non è ineccepibile, a dir poco, sul piano delle garanzie costituzionali. Tuttavia, la sinistra comunista cui la battaglia per il divorzio era stata imposta da una delle pochissime campagne d'opinione realizzatesi in Italia al di fuori del diretto controllo partitico, ritenne che la battaglia potesse essere vinta parlamentarmente con una strategia indolore: nell'assunto che la Chiesa cattolica fosse in Italia profondamente mutata dopo il Concilio e comunque avesse allentato la sua presa nella società civile e che la DC, mantenendo un certo fair play, avrebbe essa


127 stessa evitato la prova del referendum per non sottostare alla pressione e ai ricatti della destra clericale. La diagnosi era ottimista: perchè non teneva conto dell'importanza che la componente confessionale mantiene nell'assetto storico del potere in Italia, in ragione che è proporzionale alla mancanza di maturazione religiosa in senso conciliare e riformista della cattolicità italiana e della sua gerarchia. Sicchè se la DC - come di fatto è avvenuto - fosse stata sospinta dall'accentuarsi dello scontro sociale e politico nel paese a secondare il riflusso reazionario, mai avrebbe rinunciato a gestirlo in nome della componente confessionale. La preparazione democristiana delle elezioni del 13 giugno 1971 e le reazioni susseguenti hanno dimostrato ampiamente quanto l'ispirazione conservatrice e quella confessionale fossero connaturali al partito democristiano, e quanto spregiudicata sia stata l'utilizzazione politica che il mondo catto lico nelle sue varie componenti ha fatto del referendum. Certo, la trasformazione del referendum in strumento di formazione del blocco d'ordine, nel mentre dimostrava a tutta evidenza l'infondatezza della strategia indolore perseguita dalla sinistra storica, ha creato la necessità di muoversi per bloccare il referendum come momento culminante di una ormai aggressiva ed esplicita linea di destra. Ma a questo punto la sinistra si veniva a trovare in posizione obiettivamente difensiva, costretta ad una battaglia più avvocatesca che politica in cui non ci si avvide di cadere assai spesso in quel « machiavellismo da piccoli politicanti » in cui Gramsci aveva giustamente individuato un ricorrente atteggiamento del mondo laico italiano nei confronti del mondo cattolico. Oggi è chiaro quanto rischi di costare alla sinistra il rifiuto o la incapacità, per consumata disabitudine, di cogliere fin dall'inizio l'occasione offerta da una battaglia, che è stata voluta dalla gerarchia cattolica, per suscitare un grande dibattito democratico che coinvolgesse il nodo storico del Concordato. Perchè è vero che di per sè la battaglia per il divorzio è una battaglia di retroguardia; ma nel senso che la tardiva introduzione del divorzio dà la misura di tutta l'arretratezza della nostra democrazia. Diviene allora insensato non intendere quanto sia urgente rag-

giungere definitivamente certi traguardi minimi, certe precondizioni necessarie per una lotta di trasformazione reale e profonda della società italiana. In realtà, il timore più volte ripetuto di votare insieme ai «padroni» per un diritto di libertà che poco avrebbe inciso sulla condizione delle masse (così s'è detto spesso con facile battuta demagogica) nasconde il timore di non mutare i vincoli fondamentali di questo sistema democratico. IN QUESTO DISEGNO di conservazione degli elementi concordatari del sistema politico ha avuto risonanza come documento di tolleranza civile e di equilibrio politico l'appello astensionista degli ambienti vicini alla rivista « Il Mulino ». In realtà, il motivo fondamentale e qualificante dell'appello per l'astensione dalla partecipazione al referendum, è l'atteggiamento neo-concordatario. Il documento afferma l'importanza del «patrimonio, comune a credenti e non credenti, che si è venuto accumulando, sia pure faticosamente nella coscienza del Paese: un patrimonio di fiducia nei principi di libertà, di reciproca tolleranza, di rispetto per i valori religiosi ». Ma invece di trarne la conseguenza naturale di sancire questo patrimonio con l'eliminazione del regime concordatario, i firmatari dell'appello si preoccupano che sia salvaguardata « la prospettiva di una pacifica e nuova definizione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa in Italia »: cioè di quella definizione che, per quanti lenocini letterari si usino, rappresenterebbe la rinnovata e c'è da ritenere definitiva sanzione « democratica» di un regime di privilegio. Laddove ai valori religiosi ed alla loro espressione, in-' dividuale e collettiva, va garantito in regime di diritto comune non più e non meno del fondamentale diritto di libertà religiosa. E del resto, che nell'appello il principio di libertà religiosa non sia assunto con il dovuto rigore appare abbastanza chiaro. È infatti contraddittorio affermare, da una parte, che non si ritiene possa la legge imporre «una concezione del matrimonio indissolubile, storicamente legata a premesse religiose » e aggiungere limitativamente « quando su tali premesse non vi sia un comune consenso ». La proposta dell'astensione costituisce, in definitiva, la prova dell'arretramento 0litico di un significativo gruppo di intellettuali cattolici che solo alcuni anni fa sem-


128 bravano su ben altre posizioni e pertanto s'inserisce nel quadro dell'articolata gestione cattolica dell'operazione referendum. Qui siamo ai riflusso moderato, all'ossequio modernizzante alla logica del «mondo cattolico » italiano: ma altri non si sono peritati di rifluire direttamente nell'oltranzismo dericale. In questo quadro di timidezze e di iiiflussi conservatori appare insufficiente la posizione assunta da quella parte delle «nuove sinistre » the si è occupata del problema. In verità, gli atteggiamenti anti-concordatari di questo settore della sinistra sono apparsi dettati più dalla necessità di una contrapposizione alla politica del PCI che da un'approfondita valutazione del peso storico del nodo concordatario e da un disegno rigoroso di lotta. Fanno velo a questa comprensione i timori di trovarsi ricondotti a discorsi liberaldemocratici o peggio ad istanze generiche di democrazia, che rischierebbero di confondersi con le banalità democraticiste dei difensori di queste istituzioni e di questo establishment. Sono timori legittimi ma che il rigore dell'impegno culturale e la chiarezza dei termini della lotta dovrebbero spazzare via. La lezione positiva che gli anni della

« contestazione », in Italia e fuori, hanno consegnato alle sinistre è data dalla rinascita della coscienza di classe, dalla riconquista di un'autonoma capacità di lotta delle forze sociali subalterne. A chi rischiava di scambiare per democrazia la mera compartecipazione parlamentare agli indirizzi di governo o per politica democratica di piano il ministeriale dimenarsi per le stanze di via XX Settembre la lezione va costantemente e duramente ricordata. E tuttavia è nostra convinzione che la spinta à riandare alle origini sociali della lotta politica rischia di essere frenata trovandosi alla fine degradata - per via dei meccanismi dell'emulazione sociale --- a mero sostegno della competizione corporativa, se non è in grado di porsi nei termini di una rigorosa battaglia per una democrazia diversa nelle strutture e negli uomini. Anche in questo caso si scopre come contro la logica rinunciataria delle tante edizioni del socialismo possibile non basti ribattezzarsi nelle acque della terminologia classista ma occorra anche il più coraggioso recupero di rigore critico e di intransigenza democratica.

Gennaio 1972


prima ricognizione delle spese per la "sicurezza pubblica ,,.. NEL'

1968

DOPO I FATTI DI AVOLA,

quando Giacomo Brodolini, ministro socialista del lavoro, scese fra i braccianti meridionali ad assicurare maggiore giustizia e una nuova politica dell'ordine pubblico, sembrò per *qualche tempo che, per la prima volta, stesse per divenire concreto e realizzabile il discorso sul disarmo della polizia. Tutti sanno come le cose sono poi andate a 'finire. Lo scoppio della protesta sociale (soprattutto studentesca e operaia), l'a strategia della tensione, il terrorismo fascista: la situazione del'l'« ordine pubblico » è divenuta sempre più difficile (per non parlare dell'aumento e della trasformazione della criminalità comune). La « pace sociale » per la prima volta in Italia dal dopoguerra veniva messa in questione in modo radicale e con modalità inusitate. Per molti aspetti si è trattato di un fenomeno che ha colto di sorpresa gli apparati pubblici. Certo, esso ne ha scoperto le gravi inadeguatezze ma soprattutto le vocazioni più autentiche. La polizia si trova naturalmente al centro delle vicende del conflitto sociale di questi anni. Anzi è ormai chiaro come l'atteggiamento della ,polizia poco abbia giovato alla « pace sociale » e come piuttosto la sua condotta sia stata causa, in alcuni momenti, di accentuazione della con flittualità. In definitiva, una condotta ambigua che emblematicamente riassume i caratteri della condizione storica degli apparati statali: ai quali si possono attribuire contemporaneamente immagini diverse e contraddittorie. Della polizia si può così avere l'immagine, ricorrente nella pubblicistica della sinistra, del « corpo separato » che gestisce in proprio una politica e all'interno del quale è possibile realizzare o coprire gli interventi, per esempio, di una « strategia della tensione »

che tenga sulle code l'attuale 'sistema istituzionale e lo spinga a una decisa svolta reazionaria. Ma è difficile parlare in senso stretto di « corpo separato » quando per tradizione il Ministro dell'interno è, fra tutti, quello che sempre ha realizzato la sua funzione di capo dell'amministrazione a cui è preposto. E non c'è alcun indizio che, mai in questo periodo una tale diretta funzione del ministro sia venuta meno. Piuttosto si potrebbe parlare di un « corpo separato » nel senso che, assunto così com'era dal potere politico « democratico », nessun intervento significativo è stato realizzato sul piano della politica organizzativa del corpo, dei suo addestramento, del suo rapporto con la società delegando ai meccanismi interni, gerarchici e militari, questo campo di governo del corpo. E si è trattato di una sorta di delega in bianco se, com'è stato costume costante in qualsiasi occasione, puntualmente il potere politio ha dato piena copertura all'azione degli organi di polizia. Si intende allora, per esempio, quanto narrava recentemente il « Corriere della Sera » (20 maggio 1973): « Il modulo della polizia politica delle nostre questure discende direttamente dagli Anni Trenta. È il modulo Bocchini: capo della polizia durante il fascismo, Bocchini sta ad un alto funzionario di P. S. come in Germania il kaiser stava agli junkers: parecchi vicequestori nei loro uffici potrebbero inchiodarne il ritratto accanto a quello del presidente della Repubblica ... Non ci si meravigli, dunque, se il criterio < law and order », secondo concezioni autocratiche piuttosto severe, sia duro a morire in molti funzionari, soprattutto in quelli dalle tempie brizzolate. Non è un mistero, del resto, che durante servizi di ordine pubblico, il questore Allitto ha inutil-


130 mente ordinato via radio di caricare dimostranti di estrema destra, senza riuscirvi. « Cosa ci posso fare, quando si tratta di caricare la destra non mi ubbidiscono » è stato sentito dire una volta Allitto ». Ora, a parte l'aneddoto, un tale « pregiudizio favorevole » delle forze di polizia, così come di altri settori degli apparati pubblici, è certo un fatto di comune constatazione. Comunque, non spiega nè esaurisce il problema della condizione de.gi organi di polizia, che per altri aspetti offre un'immagine di notevole frustrazione. Frustrazione di diverso tipo, secondo i livelli: quello degli agenti addetti alle dùre corves dell'ordine pubblico, in stato di isolamento nei confronti della popolazione che per ragioni diverse nutre per loro tradizionali e ora rinnovati sentimenti d'avversione e di diffidenza, raramente di stima (e sono peraltro malpagati figli di proletari, come ricordava Pasolini in un discusso intervento del '68); quello dei gradi intermedi e dei funzionari che si sentono privati negli ultimi anni di alcuni poteri d'intervento. Perchè questo in realtà è avvenuto e non va sottòstimato come si fa in molti discorsi su questo tema. È il problema assai dibattuto delle conseguenze delle modifiche del codice di procedura penale approvate con la legge 5 dicembre 1969 n. 932, modifiche che, come si esprime la Direzione Generale di P. S. in alcune recenti « Note sull'andamento della criminalità in Italia », « hanno ulteriormente ridotto i poteri della polizia giudiziaria ed in particolare hanno tolto alla polizia giudiziaria - unica tra le polizie dei paesi liberi che pure si considerano all'avanguardia in fatto di tutela dei diritti dell'imputato - la possibilità di condurre un efficace e tempestivo interrogatorio dell'arrestato e del fermato ». Di certo, l'impasse dei meccanismi investigativi c'è. fra una polizia irritata ed una magistratura che non sembra ancora trovare la capacità tecnica per far fronte al compito di non trasformare le indagini penali in pratiche di lunga e defatigante conduzione. Il governo Andreotti, nel presentare il disegno di legge sul « fermo di polizia », ha cercato soprattutto di guadagnarsi credibilità di fronte a questo diffuso stato di frustrazione venendo ad accreditare, anche al di là di ogni ragionevole previsione di farla approvare dal Parlamento, ùn'insen-

sata e incostituzionale categoria dei « reati d'intenzione ». Al di là della demagogia reazionaria di questo progetto - indirettamente segnalata dalle stesse opinioni espresse in ambienti delle forze di polizia (v. « Il Globo » del 26 novembre 1972) da cui è stato segnalato come, con o senza il « fermo », una soluzione va ricercata sul piano del rinnovamento organizzativo della polizia giudiziaria e degli strumenti di coifrgamento con la magistratura - il problema del funzionamento della polizia c'è e l'opinione democraica non può non porsela nella sua compiutezza. Un tema difficile e scomodo per la sinistra che meno ancora che per altri settori dell'attività statale può sentirsi coinvolta in sia pur parziali corresponsabilità di gestione e che, dunque, tende a liberarsi della questione: con generiche perorazioni di legalità democratica quand'è d'opinione riformista e con l'invettiva e l'anatema quand'è d'opinione rivoluzionaria. Per un primo e assi approssimativo contributo di conoscenza su questo tema, pubblichiamo una nota sulle spese di bilancio concernenti le « forze dell'ordine ». Ne risultano, per la verità, informazioni solo pàrzialmente significative sia per nostro difetto d'analisi e di comparazione (che cercheremo in seguito di compensare) sia per il carattere aggregato dei dati del bilancio. Si tratta però di un quadro di riferimento utile ad un'introduzione del discorso.

EI I DATI QUI ESAMINATI (1) sulle spese per la « tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico » sono relativi alle strutture organizzative del Corpo delle guardie di pubblilca sicurezza e dell'Arma dei carabinieri (con esclusione quindi, sia del corpo dei vigili del fuoco, sia di altri corpi militarizzati quali guardi adi finanza e guardia forestale) e riguardano il settennio che va dal 1965 a tutto il 1971. (1) La spesa in esame è contemplata nella sezione quarta del bilancio dello Stato « Sicurezza Pubblica », e figura essenzialmente negli stati cli previsione dei Ministeri dell'interno (rubrica « Pubblica Sicurezza ») e della difesa (rubriche «Arma dei Carabinieri » e «Potenziamento dell'Arma dei Carabinieri »).


131 TAV. 1

(milioni di lire) 1971

1970

1968

1965

Preventivo

I

Consuntivo

PreConventivo suntivo

245.180

238.112

I

291.036

293.494

198.516

208.966

225.247

259.266

259.405 308.802

378.292

428.042

454.146

463.359

550.302

552.899

662.667

1965

1966

1967

1968

1969

1970

1971

Spesa sicurezza pubblica

100

108

112

120

125

145

175

Spesa corrente ministeri Interno e Difesa

100

109

112

121

125

143

166

Entrata corrente Stato

100

109

122

136

146

160

177

Spesa corrente Stato

100

111

116

133

159

171

202

Preventivo

Consuntivo

Preventivo

Consuntivo

Pubblica sicurezza

188.922

208.574

229.526

Arma dei carabinieri

158.725

169.718

347.647

Totale

I

353.865

TAv. 2.

La tavola 1. consente una prima valutazione sintetica dell'andamento della spesa globale per la sicurezza pubblica: in esso vengono riportati i dati iniziali del bilancio preventivo e quelli del consuntivo per gli anni ritenuti più significativi sui piano degli scostamenti (2). Non abbiamo riportato i dati delle previsioni c. d. « definitive » in quanto irrilevanti sono gli scostamenti tra queste e i dati del consuntivo: infatti, le operazioni di assestamento del bilancio preventivo vengono di solito effettuate a ridosso del termine dell'esercizio (se non a esercizio finito). Rilevanti sono invece le differenze (2) Tutti i dati della indagine sono in miliòni di lire.

tra previsioni iniziali e consuntivo, che nell'ultimo biennio hanno raggiunto la misura del 19%. Ma sono da imputare soprattutto alle maggiori spese di personale intervenute nel corso dei due ultimi esercizi esaminati a seguito di provvedmenti legislativi che hanno interessato la generalitì degli impiegati statali. In termini assoluti, nel settennio in esame, è stato registrato un incremento di circa 210.252 milioni (pari al 60%) nelle spese preventivate e di circa 284.375 milioni (pari al 75%) in quelle impegnate (consuntivo). Per meglio valutare l'andamento della spesa e dei relativi incrementi è però necessario confrontare il trend assunto nel settennio dalla spesa per la sicurezza pubblica con quio della spesa globale dei Ministeri dell'interno e della difesa, nonchè con


132 quello delle entrate e delle spese correnti dello Stato (3): Come appare dal prospetto, l'andamento delle spese per la pubblica sicurezza appare sostanzialmente in linea con il trend della spesa globa'le dei ministeri e con quello delle entrate e (in minor misura) delle uscite correnti statali. Tale uniformità è del resto spiegabile con il fatto che, nel settennio, la spesa relativa alla rubrica « pubblica sicurezza» ha inciso, in media, sui totale della spesa corrente del Ministero dell'interno per il 50% (con scostamenti non molto rilevanti); mentre la spesa per l'Arma dei carabinieri, pur presentando un'incidenza media del 15% sulla spesa corrente del Ministero difesa, ha tuttavia visto nl settennio crescere questa incidenza dal 14410% nel 1965 al 16,25% nel 1971. Aumento, quest'ultimo, che significa iaccoglimento delle lamentele, che hanno trovato espressione anche 'in sede parlamentare, sufla assenta inadeguatezza degli stanziaqienti per le esigenze dell'Arma (4), simili d'altro canto a quelle rappresentate anche in sede di esame del prevenNel prospetto l'anno 1965 è assunto come anno base = 100. Si limita l'esame ai soli dati consuntivi anche perchè l'analisi di quelli preventivi non condurrebbe a conclusioni molto dissimili. «Con gli stanziamenti a disposizione per l'anno 1966 sarà possibile provvedere alle necessità ordinarie ed avviare a soluzione alcuni problemi, mentre il soddisfacimento di esigenze di vitale importanza, in campo operativo e funzionale, dovrà essere rimandato ai futuri esercizi.» (dal parere della Commissione permanente). Nel successivo esercizio 1967 la Commissione permanente (VII) rinnovava la richiesta di un aumento di organico dei militari e sottufficiali dell'Arma. Richiesta ancor più esplicita nello esercizio 1968 ,da parte della IV Commissione che rilevava come la forza numerica complessiva (80.500 unità) stabilizzatasi nel 1963 e posta a base del bilancio « risulta insufficiente ed inadeguata per risolvere i molteplici compiti dell'Arma, anche tenendo conto che ben 17.945 unità sono impiegate in compiti speciali, per cui restano disponibili per alimentare il complesso apparato territoriale 60.615 unità per coprire 65.258 posti di impiego previsti dall'attuale ordinamento che risponde alle necessità ope-

tivo del Ministero dell'interno (5). Tornando all'esame del prospetto, si può notare nel 1971 un notevole scostamento tra incremento della spesa per la sicurezza pubblica e spesa corrente dei ministeri. Almeno in parte, questo dipende dalle leggi n, 967/1969 (trattamento economcio del personale delle forze di polizia impiegate in sede in servizi di pubblica sicurezza), n. 56/1970 (organici dei militari e sottufficiali dell'Arma), n. 1094/1970 (equo indennizzo per perdita dell'integrità fisica per causa di servizio). Nel settennio la spesa per la pubblica sicurezza ha assorbito in media (e con scostamenti non molto rilevanti) circa un quarto (24,14%) della spesa dei due ministeri e poco più della ventesima parte delle entrate (5,14%) e spese (5,39%) correnti dello Stato (6). Mentre però nei primi quattrorative» e che «è indispensabile che al Comando dell'Arma venga data la possibilità di reclutare 4.000 carabinieri ausiliari ». La stessa Commissione IV osservava, inoltre, che, «gli stanziamenti a disposizione per il 1968 non consentono per i mezzi e i materiali di risolvere la gran parte dei problemi connessi al programma di ammodernamento é potenziamento » e di conseguenza riteneva che e i problemi potrebbero essere risolti disponendo di un'assegnazione straordinaria per tre anni finanziari, a partire dal 1968, per l'attuazione di un piano triennale inteso a soddisfare le sole esigenze più urgenti e indilazionabili ». L'insufficienza della forza numerica veniva sottolineata dalla commissione anche nei successivi esercizi. In effetti la Il Commissione riteneva che quanto previsto per il bilancio del Ministero dell'interno per il 1969 fosse inferiore a quelle che erano le esigenze del Ministero stesso. La scarsa rilevanza degli scostamenti dalla 'media nel settennio discende da una strutturazione caratteristica e più volte lamentata del bilancio dello Stato nel quale la spesa globale è ripartita tra i vari dicasteri in percentuali abbastanza uniformi nei vari esercizi; il che e non appare logico perchè, indubbiamente, motivi politici possono far diventare più attuali o meno attuali alcuni settori, rendendo così necessaria una maggiore o minore impostazione previsionale della spesa » ((v. parere Il Commissione al bilancio di prvisione per l'esercizio 1969)'


133 TAV. 3

1966

1967

1968

+ 7,61

+ 4,35

+

6,90

±

4,16

+

16,34

+

20,41

+

8,58

+ 3,12

+ 8,47

+

6,78

+ 13,93

+

16,25

+ 10,68

+ 4,90

+ 15,05

+

1 8,85

19 69

1970

1971

Saggi di incremento nei confronti dell'esercizio precedente della a) spesa sicurezza pubblica b) spesa corrente Ministeri c) spesa corrente Stato

cinque anni del periodo tale incidenza presentava un andamento essenzialmente discendente, negli ultimi due esercizi torna ad accrescersi. Ciò trova riscontro nel saggio annuale di accrescimento della spesa per la sicurezza pubblica il quale, come è dato rilevare dal prospetto che segue, negli ultimi due anni risulta superiore agli incrementi della spesa dei due Ministeri e delle spese correnti dello Stato: Ciò è tanto più significativo qualora si consideri che nel periodo 1966/1969 tale ritmo di accrescimento era stato inferiore a quello delle altre voci. In effetti nel biennio 1970/1971 la. spesa per la sicurezza pubblica ha registrato un incremento medio del 18,37% (contro l'incremento medio del 5,75% del quadriennio 1966/1969), mentre la spesa corrente dei due ministeri ha segnato un 'incremento medio del 15,09% (6,73% nel quadriennio) e la spesa corrente dello Stato un aumento del 12,84% (12,37 neI quadriennio). Si può quindi concludere che nell'ultimo biennio sia la spesa dei due ministeri sia, ed in misura più rilevante, la spesa per la sicurezza pubblica hanno fatto registrare ritmi di accrescimento maggiori del saggio medio di incremento della spesa di tutti gi altri ministeri. In termini assoluti, nel biennio, sono stati assunti maggiori impegni per la spesa di pubblica sicurezza pari a 189.640 milioni, mentre tra il 1965 ed il 1969 l'incremento assoluto era stato di 94.735 milioni.

La destinazione delle spese. PASSANDO ORA ALL'ESAME DELLE COMPONENTI della spesa per la sicurezza pub-

+

7,78

+ 17,91

buca notiamo che esse sono, da una parte, oneri per il personale e, dall'altra, spese per acquisto di beni e servizi: la categoria « trasferimenti » che còncerne interventi assistenziali ed erogazioni, è infatti, del tutto trascurabile, mentre quella intitdlata «poste correttive e compensative dell'entrata » che accoglie i « fondi scorta » per le esigenze di cassa e le anticipazioni a favore degli enti dipendenti dalla Direzione della P. S. e dall'Arma dei carabinieri rappresenta un impegno notevole in termini assoluti, ma vorrebbe un'indagine a parte trattandosi di una categoria di spesa iscritta nel bilancio statale solo per l'importo globale. A quest'ultimo riguardo occorre ricordare un'osservazione della Corte dei conti nella relazione sul « rendiconto generale dello Stato per l'esercizio 1969 »: il sistema, secondo l'organo di controllo può dare luogo ad irregolarità « come l'esperienza ha dimostrato, con impieghi non previamente controllabili per finalità diverse da quelle proprie, e a conseguenti sanatorie del fatto compiuto ». Gli oneri per il personale, sia in attività di servizio sia in quiescenza, hanno inciso mediamente nel settennio per l'86%, mentre l'incidenza media della 'spesa per lo acquisto di beni e servizi è 'stata del 13%. L'incremento della 'spesa per il personale (76% circa) discende da talune leggi d'i carattere generale che hanno interessato tutti gli statali e da disposizioni particolari concernenti: a) l'aumento dell'organico ufficia(ii e sottufficiali dell'Arma rispettivamente da 16.300 a 20.000 e da 7.836 a 9.450 da attuare entro un settennio a partire dal 10 gennaio 1967 (legge 564/1967); b) il trattamento economico del personale delle forze


134 (milioni di lire)

TAV. 4. 1965

1969

1968

1967

1966

1970

1971

Vestiario Equipagg. Armamento

8.756 100

9.155

105

9.287

106

11.061

Acquisto e Manutenz. Automezzi

5.969 100

7.157

120

7.719

129

10.257 172 10.708 179 11.359 190 11.859 19

Spese lotta alla deliquenza e Confidenziali

1.050 100

1.120

107

1.070

102

di polizia impiegato in sede in servizi di pubblica sicurezza (legge 967/1969); c) gli organici dei militari e sottu.fficia'li dell'Arma (legge 56/1970); d) le modifiche all'ordiniamento del personale di pubblica sicurezza (legge 1116/1966). Tuttavia, malgrado manchino dati sicuri, non dovreibbe essere aumentata in modo considerevole la consistenza numerica complessiva nel periodo in esame (7). Oltre al perfezionamento dei metodi di addestramento del personale, l'azione della amministrazione statale nel campo della sicurezza pubblica tende, come è dato di frequente leggere nelle relazioni ai preventivi od ai consuntivi dei due Ministeri, anche al «potenziamento dei settori operativi » (potenziamento e ammodernamento del parco motorizzato, meccanizzazione dei servizi, estensione teletrasmissioni e collegamenti radio ecc.). La spesa per tali fini è raccolta nella categoria « acquisto di beni e servizi » che ha assorbito in media il 1.3% dell'intera spesa per la pubblica sicurezza, con un incremento (71% circa) che ha interessato quasi tutti i capitoli. Tra i capitoli indicativi del potenziamento dei settori operativi ci limitiamo a considerare quelli che concernono il « vestiario - equipaggiamento - armamento », I'« acquisto e manutenzione automezzi » e le « spese per la lotta contro la delinquenza (7) L'unico dato rilevato parla di 80.500 unità per l'Arma in servizio nel 1965 passate - dato preventivo - a 80.800 unità nel 1971.

905

126 10.940 125 13.284 152 13.263 151

86

990 94

1.130108

1.10010

e confidenziali », i cui impegni sono riassunti tavola 4. Occorre tuttavia osservare che nel bilancio della Difesa figura la rubrica relativa al « potenziamento dell'Arma dei carabinieri », che, pur accogliendo notevoli impegni di spesa (lire 26.668 milioni nel settennio), non presenta una suddivisione in capitoli talchè non è possibile conoscere quali settori abbia interessato: Due sono le osservazioni più significative da fare: i'l sostanziale raddoppio della spesa per il parco motorizzato e l'incremento, registrato nell'ultimo biennio, delle spese per la lotta alla delinquenza, «confidenziali» e riservate. Anche in questo caso va notato che l'incremento ha fatto seguito ad una precedente fase di diminuzione della spesa nel biennio 1968/1969. Sull'impossibilità di un puntuale controllo della erogazione di queste ultime spese si è soffermata anni addietro la Corte dei conti che nella relazione sul «rendiconto» del 1967 osservava: « le somme relative sono, con mandati diretti, messe a disposizione degli organi competenti, i quali le impiegano ndl'esercizio di poteri e di funzioni la cui stessa natura non consente il controllo delle singole erogazioni. Il che - è appena il caso di notano - ancor più impone che tale erogazione rimanga rigorosamente vincolata al fine al quale le spese debbono assolvere, fine la cui elusione involge la personale responsabilità di chi ha ordinato, ovvero, in difformità dell'ordine ricevuto, eseguito la spesa ».

Ennio Colasanti


c ntraddmt torio • Dorigo, "una legge contro Venezia,, come riprendere il dibattito Il Parlamento italiano ha approvato definitivamente la « legge per Venezia ». Quale idea del problema di Venezia e del suo avvenire ispira la legge? Quali possibilità ff re per una corretta azione di salvezza della città lagunare? Alla vivacità delle polemiche che si sono sviluppate su Venezia e all'ampiezza delle stesse campagne di stampa non ha mai corrisposto un'esauriente opera di documentazione scientifica su tutti gli aspetti del problema. Eppure il problema della salvezza di Venezia è esemplare per l'insieme rigoroso di interdipendenze storiche e naturali che comporta e che non ammette salti d'analisi e d'informazione. Era ormai necessario per il rispetto stesso dell'opinione pubblica italiana e internazionale ricomporre unitariamente i termini della questione. Per questo Officina Edizioni », nell'iniziare una col lana di « saggi e ricerche per la critica politica », ha ritenuto che l'analisi del caso di Venezia non fosse tema parziale o minore, ma appunto esemplare, quanto a metodo di azione politica, in riferimento ad un problema nodale della società contemporanea: l'« uso della città ». Ed ha chiesto un dossier completo sul problema di Venezia a un veneziano, Wladimiro Dorigo, che è uno dei più appassionati protagonisti della battaglia per la città, assessore all'urbanistica nel 195658 e coordinatore in quegli anni della prima stesura del Piano Regolatore generale di Venezia approvato nel 1962, e membro del Comitato ministeriale per la difesa di Venezia.

Ne è nato un libro sulla questione veneziana che è fuori del comune. Come confessa l'Autore, il libro è stato un'occasione per ricerche originali: per esempio, il lettore troverà informazioni del tutto nuove sulla storia recente della città e sui suoi padroni, sùi fruitori delle leggi speciali, sulle operazioni immobiliari concernenti le aree industriali di Marghera negli ultimi cinquanta anni, e dati recentissimi sulla crisi demografica e sull'esodo dalla città. Da questo complesso di dati e di interpretazioni deriva il giudizio di Dorigo sulla legge: che è una legge definita contro Venezia. Sulla base di quest'opera la discussione su opinione pubblica potrà essere informata ex novo, e soprattutto, l'attuazione degli interventi pubblici potrà essere criticamente tallonata. La stessa linea d'intervento proposta da Dorigo potrà e dovrà essere verificata sulla base dei dati che proprio il libro fornisce. Questo offre in realtà l'occasione di un dibattito diverso ad un più alto livello di documentazione. Per questo il « Gruppo di studio su società e istituzioni » che, insieme a «Officina Edizioni », ha promosso la stesura di questo dossier ed ha stimolato questa compiuta elaborazione di un'ipotesi di salvezza per la città di Venezia intende ora farsi promotore di una nuova fase del dibattito. La solleciteremo attraverso un questionano ad ampia diffusione e con altre iniziative di cui daremo notizie.


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Indice del volume

CAPITOLO PRIMO,

Salvaguardia e salvezza, na-

tura e storia: - 1. Contro la mistificazione del problema di Venezia. 2. Architettura e insediamento territoriale nell'età premoderna. 3. L'uomo moderno fra vecchio e nuovo, fra « naturalizzazione » e « storicizzazione ». 4. Il paesaggio fra esteticità ed economicità, fra significanti e significati. 5. Cultura ed economia, etica e politica nella «querelle» sull'antico. 6. Caratteri ideologici e storici del problema di Venezia. 7. Struttura e sovrastruttura nella salvezza del monumento Venezia. 8. La politica del risanamento conservativo: pro o contro la comunità veneziana? 9. Il mito neoinsulare nelle « querelles» vecchie e nuove su Venezia. CAPITOLO SECONDO,

Due secoli di storia ur-

banistica: - 1. « Centri storici » e città antica. 2. Forme, strutture, funzioni all'interno della città antica. 3. I settant'anni di depressione fra Bonaparte e l'Austria. 4. I miti ottocenteschi nel primo cinquantennio dopo l'annessione all'Italia. 5. Marghera e le aggregazioni mestrine: il mito neoinsulare cede alla dimensione territoriale. 6. La politica urbana nella città storica fino alla seconda guerra mondiale. 7. Anarchia territoriale e miopia urbana nel primo decennio del dopoguerra. 8. Piano, antipiano e politica fuori e contro il piano dal 1956 a oggi. CAPITOLO TERZO,

La comunità veneziana fra

esodo e risanamento: - 1. La tragedia demografica della città storica. 2. L'indebolimento del Comune di Venezia nel quadro regionale. 3. Caratteri e motivazioni dell'esodo dalla città storica. 4. Il degrado edilizio di Venezia e la struttura della proprietà immobiliare. 5. Il degrado edilizio di Venezia e le funzioni economiche e sociali della città storica. 6. Leggi speciali classiste, rendita immobiliare incentivata, espulsione degli abitanti a basso reddito. 7. Per un risanamento globale della città storica. CAPITOLO QUARTO,

Marghera e la questione

portuale: - 1. La ripresa portuale veneziana nell'Ottocento e la scelta dei Bottenighi. 2. Porto Marghera: il capolavoro di Giuseppe Volpi. 3. Analisi e bilancio di una grande operazione monopolistica. 4. Il colonialismo industriale della prima Marghera. 5. La «seconda zona» uno scacco non inevitabile. 6. Dottrina e programmazione di un'impresa alternativa: la a terza zona ». 7. Polemiche e interessi contro la terza zona di Porto Marghera. 8. Le grandi manovre sul Delta del Po contro il Porto di Venezia. CAPITOLO QUINTO,

La questione idraulica la-

gunare: - 1. I termini geologici e idraulici della

«querelle» lagunare. 2. L'evoluzione della Laguna nelle età storiche (e preistoriche). 3. Il mantenimento dell'equilibrio lagunare mediante gli interventi antropici. 4. Caratteri recenti e antichi della subsidenza nell'area veneziana e nella costa altoadriatica. 5. Caratteri dell'emungimento artesiano nella terraferma veneta e dell'innalzamento del livello marino. 6. La crescita dei livelli marini in Laguna: tipologia, cause, frequenza. 7. L'indagine sui comportamenti della marea in Laguna in questo secolo con modelli matematici: livelli, ampiezze, portate, tempi di propagazione, velocità di corrente, partiacque. 8. Il rapporto Supino e la questione del canale Malamocco-Marghera e delle colmate portuali. 9. Gli indirizzi solutivi: ripressurizzazione, chiusura dei pozzi, regolazione dei livelli marini in Laguna. 10. Gli interventi di moderazione delle maree nelle bocche portuali: tecnica e politica. CAPITOLO SESTO, La questione ecologica: Rozzezza e dilettantismo nella «querelle» ecologica sulla Laguna. 2. Gli ecosistemi lagunari e l'unità fisica e funzionale del bacino. 3. La qualificazione paesistica e l'uso dell'ambiente lagunare. 4. Evoluzione, caratteri, cause e conseguenze dell'inquinamento delle acque della Laguna. 5. L'inquinamento atmosferico nella terraferma veneziana: evoluzione e caratteri delle polluzioni di Marghera. 6. Limiti e caratteri dell'inquinamento atmosferico nella città storica e nell'ambiente lagunare. 7. Metodi e programmi contro gli inquinamenti nell'area veneziana. 8. Per una bonifica integrale delle condizioni di lavoro a Marghera.

CAPITOLO SETTIMO,

Una legge contro Vene-

zia: - 1. Partiti, sindacati, scienza, a cultura » e « informazione » nella « querelle» su Venezia. Le istruttive vicende della battaglia per la nuova a Legge per Venezia ». 3. La legge: centralismo e autonomie nella ridefinizione politica della pianificazione. 4. La legge: dilettantismo e scienza nella definizione dell'area e dei contenuti della pianificazione. - 5. La legge: gli strumenti di tutela nell'attuale regime giuridico e la « nuova salvaguardia ». 6. La legge: gli interventi per la regolazione fisica e idraulica dell'area lagunare e del territorio circostante. 7. La legge: gli interventi per la protezione dell'ambiente urbano e lagunare dagli inquinamenti. 8. La legge: gli interventi per il risanamento edilizio di Venezia e dei centri lagunari. 9. Previsioni e auspici per la politica di applicazione della legge. APPENDICE: Legge 16 aprile 1973, n. 171, concernente gli «Interventi per la salvaguardia di Venezia ».


GRUPPO

DI STUDIO SU SOCIETA' E ISTITUZIONI

L'Associazione «Gruppo di studio su società e istituzioni » è stata costituita come strumento, utile anche sul piano formale, per quelle operazioni organizzative necessarie per dare realizzazione all'iniziativa culturale promossa nel 1972 e presentata con questo fascicolo. Lo statuto ripete schemi consueti per, le associazioni di diritto privato di piccole dimensioni. Sono soci del «gruppo »:

GxovAI BECHEL-

LONI, ALBERTO BENzONI; MASSIMO BONANNI, ADRIANO DECLICH, FABIO FIORENTINO, FRANCESCO MERLONI, GIGI PAGNANO RI, SERGIO RISTUCCIA

(Tesoriere), ALBERTO PREDIE(Presidente), GIANCARLO SAL-

VEMINI, FRANCESCO SIDOTI, ATTILIO TEMPESTINI, PAOLO URBANI, GUIDO VERUCCI.

I soci condividono l'idea che nel momento attuale del dibattito della sinistra sia opportuna l'iniziativa editoriale intrapresa non soltanto come modo per esprimere opinioni ma come tentativo di realizzare un'opera di organizzazione dlla cultura, nella quale possano essere coinvolte diverse e possibilmente ampie componenti professionali. I soci non ritengono tuttavia di essere oggi un gruppo omogeneo o comunque particolarmente omogeneo sul piano degli orientamenti politici e culturali nè come tale intendono presentarsi. Per questo, pur avendo discusso insieme i criteri di impostazione di questo fascicolo, ogni socio è responsabile solo delle opinioni che firma. Non tutti, del resto, hanno potuto contribuire attivamente alla redazione di questo numero, mentre alcuni collaboratori non sono attualmente soci del «gruppo ». Riportiamo alcuni articoli dello STATUTO dell'associazione, quelli soltanto che riguardano le modalità di funzionamento. Natura e denominazione. - L'Associazione denominata « Gruppo di studio su società e istituzioni» da questo punto in avanti indicata semplicemente con l'espressione « l'associazione » è regolata dagli articoli 36 e segg. del Codice Civile, quale associazione di diritto privato. Sede e durata. - L'Associazione ha sede in Roma. La durata dell'Associazione è stabilita fino al 31 dicembre 1977. Essa può essere prorogata per uguale o diverso periodo con deliberazione dell'Assemblea con la maggioranza del 75% dei voti, come pure anticipatamente sciolta.

Scopi. - L'Associazione ha lo scopo di realizzare una rivista semestrale o di altra periodicità, nonchè pubblicazioni di altro tipo dedicate alla realtà ed ai problemi dei rapporti fra soicetà e istituzioni nonchè quello di svolgere studi e realizzare manifestazioni culturali di ogni tipo nel campo delle scienze sociali. Patrimonio. - L'Associazione ha un patrimonio che è costituito come fondo comune dalle quote associative degli Associati. Organi Associativi. - Sono Orgaài dell'Associazione l'Assemblea, il Presidente e il Tesoriere. Assemblea. - L'Assemblea è costituita da tutti gli Associati che non siano in mora nel pagamento della quota associativa. Ogni associato ha diritto ad un voto. Sono ammesse deleghe ed inoltre il voto può esprimersi in forma scritta e motivata anche per corrispondenza. L'Assemblea delibera a maggioranza semplice. L'Assemblea si riunisce almeno una volta l'anno e tutte le volte che sia convocata dal Presidente dell'Associazione con avviso, anche telegrafico, contenente l'ordine del giorno, spedito almeno otto giorni prima dell'adunanza. In mancanza di formalità di convocazione l'Assemblea è validamente costituita quando sono presenti tutti gli associati o tutti abbiano inviato deleghe o voti per iscritto. Hanno diritto ad entrare a far parte dell'Associazione quegli esperti che, presentati con atto scritto da un associato, ottengano il voto favorevole del 759ó degli associati. L'Assemblea delibera su tutti gli oggetti attinenti allo scopo associativo, nomina il Presidente ed il Tesoriere. Il Presidente. - Il Presidente dell'Associazione ha la rappresentanza legale di essa e la legittimazione attiva e passiva dinanzi a qualsiasi giurisdizione. Esso dura in carica un anno e può essere riconfermato. Il Presidente ha l'amministrazione ordinaria e straordinaria dell'Associazione, può eseguire pagamenti, incassare mandati rilasciando quietanze liberatorie; sottoscrivere il bilancio preventivo ed il conto consuntivo dell'Associazione, predisposti dal Tesoriere, e lo presenta all'Assemblea per l'approvazione, in coincidenza dell'ultima domenica di novembre di ogni anno.


L. 1000


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