Anno XXII - n. 100 - Trimestrale (ottobre-dicembre) - spedizione in abb. postale - 50% Roma
queste istituzioni Mettere la democrazia al lavoro Antipolitica e democrazia sobria Judith Squires, Charles Leadbeater, GeoffMulgan, Francesco Sidoti
Come fare politica (se è possibile farla) Adolfo Battaglia, Giovanni Bechelloni, Nino Cascino, Marcello Fabbri, Sergio Fabbrini, Sergio Gam baie, Andrea Manzella, Alessandro Palanza, Alessandro Pizzorusso, Guido M Rey, Francesco Rigano, Marcello Vigli
isMu rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni Anno
XXII
n.
100
(ottobre-dicembre
1994)
Diretto re SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore FRANCESCO SID0TI Comitato di redsz.zione SAVERIA ADDOTrA, ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, ROSALBA CORI, DANIELA FELISINI, GIORGIO PAGANO, MARCELLO ROMEI, CRISTIANO
A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE,
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GIOVANNI BECHELLONI
Editore QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE
ISSN: 1121-3353 Stampa: I.G.U. srI. - Roma Finito di stampare nel mese di gennaio
(1)
1995
Associato all'Uspi: Uiione Stampa Periodica italiana
14.847 (12 dicembre 1972)
N. 100 1994
Indice
Mettere la democrazia al lavoro. Primo aggiornamento
• III
Sergio Ristuccia
Antipolitica e democrazia sobria 3
Lo specchio rotto: il futuro della rappresentanza Judith Squires
10
Democrazia "snella" e assenza di leadership Charles Leadbeater e GeoffMulgan
39
Elezioni e lezioni americane Francesco Sidoti
Come fare politica (se è possibile farla) 51
Rieducare alla politica Adolfo Battaglia
63
Pontieri e guastatori Giovanni Becheioni
70
Il sistema radiotelevisivo in Italia. Potere e vecchiezza tecnica Nino Cascino
74
Il Begriffo e l'Ircocervo Ivlarcello Fabbri
79 84
•
Lavorare per la democrazia Sergio Fabbrini La contesa sul fisco Serrio Gambale
I
87
Alternative del diavolo e amor di patria Andrea Manzella
93
Politiche realistiche e false veritĂ Alessandro Palanza
99
Il "deficit democratico" nazionale Alessandro Pizzorusso
104
"A ciascuno il suo" GuidoM Rey
110
L'associazionismo nella riforma dello Stato sociale Francesco Rigano
11 5
Il "nuovo" e le ipotesi non verificate Marcello Vigli
Taccuino I nostri temi 121
La levitĂ della grazia Saveria Addotta
130
Il legislatore e la comunicazione di interesse generale Cristina Gal.assi
131
Notizie dal Gruppo di Studio "SocietĂ e Istituzioni"
133
Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali
135
Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura
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Mettere la democrazia al lavoro. Primo aggiornamento
Dobbiamo tornare a discutere, com'era nei propositi, temi e problemi, spunti e provocazioni contenuti nel saggio "Mettere la democrazia al lavoro" pubblicato nel n. ° 96, cioè nel numero che conteneva gli indici dei vent'anni della rivista. A tal fine abbiamo innanzitutto raccolto le opinioni di collaboratori ed amici che vengono pubblicate su questo numero in apposito dossier. Attenzione: sono opinioni scritte fra giugno e novembre 1994. In periodi di vicende politiche accelerate e confuse come quelle che viviamo in Italia è importante stare attenti alle date. Tuttavia il riferimento di tutte le opinioni è il senso complessivo del momento attraversato più che i fatti contingenti. Di tali opinioni non bisogna, per ora, fare sintesi, né da esse vanno tratte conclusioni. Valutino i lettori e intervengano anche loro. Così l'approfondimento prosegue e le iniziative maturano. Il quesito che è al centro del nostro primo aggiornamento non può che essere il seguente: le opportunità d'azione e di arricchimento del sistema democratico rimangono come erano state inizialmente individuate o risultano oggi minori di quanto un anno fa si potesse immaginare? E non sarà che alla fine le opportunità debbono essere intese in modo diverso, cioè come delle necessità, cioè come degli obblighi a fare? 1994:
TEMPO NUOVO O SECCA BAYI'UTA D'ARRESTO?
Quando è uscito il saggio sulla democrazia al lavoro eravamo a fine 1993. Le elezioni politiche erano alle porte ma ancora non era entrato in campo Silvio Berlusconi. Riprendendo il discorso a gennaio 1995, ci troviamo a vedere conclusa almeno la prima fase della parabola politica dello stesso Berlusconi: il suo governo faticosamente creato pur dopo la grande vittoria delle coalizioni elettorali di destra o moderate che egli era riuscito a costruire con Alleanza Nazionale e Msi, da una parte, e con Lega Nord, dall'altra, cade per la sfiducia di Umberto Bossi da tempo annunciata, sia pure nei modi più caotici e contraddittori. Dopo aver vissuto una tensione politica quale da lungo III
tempo non c'era stata in Italia, al limite di una frattura gravissima degli animi, oggi si parla di tregua quasi ci fosse stata e sia in corso una guerra civile fredda. Governa un esecutivo di tregua composto da tecnici (il governo Dini), è nata Alleanza Nazionale come partito "defascistizzato" che sostituisce il Msi e si va componendo una nuova fisionomia generale della destra-centro, sorge la candidatura di Romano Prodi a leader del centro-sinistra. Forse, con quest'ultimo evento comincia a delinearsi un sistema politico diverso, e in qualche misura più compiuto ma la gestazione rimane difficile e presenta non pochi rischi (di quelli che i geologi chiamano "grandi rischi"). Possiamo insomma apprestarci ad interpretare il vortice fin qui sperimentato delle contraddizioni e dei conflitti, aspri e dilaceranti quanto inattesi, come il prezzo da pagare per un assetto diverso e forse più razionale del sistema politico? Si vorrebbe rispondere di sì ma l'incertezza è ancora massima. Per cercare risposte occorre comunque rivisitare rapidamente i fatti politici del 1994. Non vorremmo qui soffermarci più di tanto a commentare questo turbinoso '94 politico, né a ragionare su Berlusconi, i suoi alleati, il suo governo, i suoi oppositori. Tutti ne abbiamo letto, sentito e parlato fin troppo in questi mesi. Alcune puntualizzazioni sono però necessarie, in spirito di verità. Fra il 1992 e il 1994, passando per il referendum del 1993 sulla legge elettorale, lo sconvolgimento del sistema politico italiano e dei suoi assetti sociali e di rappresentanza avviene attraverso la caduta di ogni persistente immunità della classe politica davanti alla legge penale. Con l'operazione "mani pulite" si infrange la coltre dell'ipocrisia che quella stessa classe politica aveva creato: non è stato ancora sufficientemente sottolineato come quell'operazione giudiziaria sia progressivamente giunta a cogliere e perseguire le diverse espressioni della corruttela politico-amministrativa, cominciando proprio da quei reati di finanziamento illecito dei partiti che la classe politica, anche quella di governo, aveva voluto e aveva legislativamente definito con la riserva mentale (ecco la grande ipocrisia o, peggio, il grande imbroglio) di rimanere poi immuni e impuniti. Nel quadro di tale evoluzione politica il referendum del 1993, più che essere un vero e proprio plebiscito a favore del maggioritario in sé e per s, è un plebiscito contro la classe politica flno ad allora al potere. Ed è naturale che sia stato così di fronte all'inerzia e alla mancanza di grandi e visibili reazioni morali entro i partiti del sistema politico di governo, incapaci altrimenti di rinnovarsi. È stato osservato che anche con il sistema pro-
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porzionale si sarebbe potuto realizzare un profondo cambiamento della rappresentanza parlamentare. Tuttavia dovendo cambiare, è parso a così gran parte dell'elettorato (e del resto di ciò i promotori del referendum erano convinti) che con il maggioritario il cambiamento potesse avvenire più in profondità e in un contesto di minore incertezza e di maggiore responsabilità. Aspettative, queste ultime, andate per ora completamente deluse. A proposito d'inerzia bisogna dire che proprio in ragione di un certo andamento inerziale sarebbe potuto avvenire, come supponevamo nell'editoriale del n. ° 96, che alla sinistra sarebbe spettato il successo in ragione del non coinvolgimento nel precedente sistema di governo e ciò perché era stata all'opposizione "pur con tutte le attenuazioni che si vuole, dovute alle regole consociative della «democrazia bloccata>)". Perché quest'andamento sostanzialmente inerziale non arrivasse al successo entra in campo Silvio Berlusconi. Ed inventa e usa un motivo propagandistico forte, meglio una provocazione: bisogna salvare il Paese dalla sinistra illiberale e "comunista". Il motivo ha successo. Perché Berlusconi abbia avuto successo è stato discusso e ridiscusso. Una ragione potrà essere stata la combinazione fra rivolta fiscale e presenza ieghista nella coalizione elettorale (componente leghista che anche noi avevamo allora supposto necessaria allo schieramento moderato); un'altra ov viamente è la propagazione tambureggiante degli slogan attraverso ie televisioni Fininvest; un'altra, più profonda, è nelle caratteristiche storico-antropologiche dell'elettorato piccolo e medio borghese liberato dal venir meno della DC e degli altri partiti delle vecchie coalizioni di governo e perciò in cerca d'autore. Un'idea bisognerà aver chiara sulla portata del successo elettorale di Berlusconi nel marzo '94, almeno per quel tanto che fa appartenere il fatto alla politica-spettacolo. È vero, come scrive Gianni Statera, che "si è consumata in Italia, tra l'estate 1993 e la primavera 1994, la più straordinaria vicenda di cui si abbia notizia nella breve storia della politica-spettacolo". (Il volto seduttivo del potere, Edizioni Seam, Roma 1994). Ed è vero altresì che ciò impone la necessità di fare i conti seriamente con la politica-spettacolo e innanzitutto con la questione della comunicazione così trascurata dai politici della sinistra, dai governi dei professori e dai "grand commis". Si potrà anche arrivare a parlare, con Alberto Abruzzese, di "elogio del tempo nuovo" (v. il libro omonimo, ediz. Costa & Nolan 1994) e assu-
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mere Berlusconi "come simbolo, metafora, favola realizzata" e, addirittura, "incarnazione di una rivoluzione" (ma attento, Abruzzese, all'uso letterario delle parole). Ma poi, con lo stesso Abruzzese, dobbiamo dire che "non ai prodigi dobbiamo guardare ma ai popoli, alle persone che vi hanno creduto. In loro c'è il senso riposto della mutazione in cui stiamo vivendo". E ancora: CS la conversione elettronica della leggibilità della volontà popolare non sarà compiuta con una saggezza almeno pari a quella che misura oggi i limiti delle democrazie storiche, allora ci saranno nuovamente i disastri causati da sovrani, dittature e democrazie". E, dal canto suo. Statera avverte: "Hanno torto gli opinion makers che rifiutano in blocco, con furibondo disdegno, le modalità comunicative, gli stili, il «contegno» dei protagonisti della politica-spettacolo degli anni Novanta; ma avrebbero torto anche quei protagonisti se non riuscissero a capire che sono indispensabili anche modalità di comunicazione diverse. Per «nuovo)) che sia, nessun governo è legittimato a saltare programmaticamente la mediazione dell'establishment intellettuale, tagliando fuori quel pezzo di società che esso in qualche modo rappresenta e puntando esclusivamente su una comunicazione indirizzata ad un target, sia pure maggioritario, veicolata direttamente col mezzo televisivo. Il rischio che comportano la prima e la seconda tendenza è puramente e semplicemente quello della delegittimazione reczroca attraverso l'individuazione di un nemico assoluto, la sua demonizzazione e la sua esclusione dall'universo simbolico di ciascuna delle due parti. Tutto ciò non è altro che la riroposizione più vieta di una società ideologica e di un. sistema politico che poggia sull'esclusione dell'alternativa. Il che avrebbe, in Italia, ben poco di «nuovo»". 5. Il ieit-motiv della sinistra da tenere fuori dal governo (la sinistra del 35 per cento, come ha provato a definirla quantitativamente Berlusconi) si perpetua al di là del momento elettorale, rivelandosi per quel che è: una classica provocazione che vellica e rialimenta gli animai spirits o i demoni (come qualcuno ha detto) propri di un certo moderatismo di molta parte delle classi medie. La provocazione ha effetto non soltanto verso l'elettorato moderato ma ha funzionato anche come trappola verso 9a sinistra , tutta la sinistra, che si è sentita trattata alla moda maccartista degli anni Cinquanta. Anzi un vero e proprio fossato si è creato con l'area, che in larga misura non è di sinistra, di quanti pensano ad una modernizzazione del Paese, fondata su una comune etica democratica, sui meriti della competenza tecnica e VT
sull'onestà intellettuale necessaria ad affrontare i problemi del Paese stesso. Chi, come Berlusconi, ha dei conti aperti con la democrazia per via del problema assolutamente inedito (come tutta la stampa internazionale ha percepito) di andare al governo essendo un grande Tv tycoon come è stato chiamato all'estero, non può impancarsi a interprete o inventore di una sana e nuova democrazia. La risposta a Berlusconi sarà stata molte volte sbagliata, inefficace, controproducente, sopra le righe. Ma le responsabilità storiche sono responsabilità storiche. Aprire una campagna all'insegna non della lotta dura contro la sinistra, ma della lotta per salvare il Paese, dalla sinistra detta illiberale (dove sinistra vuoI significare di per sé "essere illiberali" come tutti hanno ben compreso), comporta quel che comporta: a un'azione risponde sempre una reazione uguale e contraria. Se si voleva spaccare il Paese, il risultato è stato pienamente raggiunto. In mancanza della necessaria saggezza (e capacità) politica soltanto la fine della prima fase dell'esperimento Berlusconi ha ristabilito un certo equilibrio e può riavviare le cose per il giusto verso. Berlusconi continuerà a stare in politica e probabilmente continuerà a vincere. Ma deve fare i conti con la realtà senza poter contare su effetti sorpresa e su pretestuosi effetti d'allarme. Forse la sua iniziativa sarà servita a formare più in fretta il fronte di centro-destra (ma forse, per far questo, il suo ruolo si troverà ad essere via via ridimensionato). E forse sarà servita, alla fine, a risvegliare anche la voglia di una nuova sinistra per governare piuttosto che per protestare. La vittoria di Berlusconi, mancando di verità, è servita a spostare il fuoco della politica italiana fuori da una percezione corretta della realtà. Nella' crisi dei partiti politici, il governo Amato aveva cominciato una operazione verità di grande importanza (seppure interrotta dall'infelice, quanto prematuro, tentativo di dare soluzione "politica" o legislativa a Tangentopoli). Lavevamo così descritta nel saggio del n.° 96: "La questione fiscale si trascina da anni attraverso la non-politica degli aggiustamenti e delle razionalizzazioni a metà ( ... ). L'incanto delle mistificazioni usate per affrontare la questione in modo sempre assai parziale si è rotto con le misure del Governo Amato. Non più sostenuto dai partiti tradizionali,, in decadenza e poi in disfatta per l'intervento della procura della Repubblica di Milano contro il sistema delle tangenti e dei taglieggiamenti, quel governo è stato capace di un accordo anti-inflazione con le forze sociali che ha consentito la prima vera mordente stretta fiscale dopo VII
anni ed anni. S'avviava così un certo risanamento della finanza pubblica ma tutti i contribuenti venivano ad avvertire drammaticamente cosa ciò significasse per le loro tasche". Ne nascevano due diverse reazioni che allora così ritenevamo di identificare: "Da una parte, un'accentuata, se non imperiosa richiesta di servizi pubblici funzionanti; dall'altra un puro e semplice rifiuto della pressione fiscale. La prima reazione spiega perché si sia accentuato l'interesse della sinistra e delle confederazioni sindacali per il buon funzionamento della pubblica amministrazione, e conseguentemente, perché l'atteggiamento verso il pubblico impiego sia stato assai meno compiacente e perché, infine, sia stato dato un forte appoggio alle iniziative legislative in materia di riorganizzazione amministrativa. Senonché immaginare in tempi brevi risultati utili su questo piano è illusorio. Di qui il prevalere della seconda reazione, quella del rifiuto. Reazione a cui facilmente si potrebbe unire lo stesso mondo del pubblico impiego che si sente sotto pressione". 8. Di fronte a queste ultime reazioni già il Governo Ciampi aveva dimostrato prudenze e titubanze. La provocatoria entrata in campo di Berlusconi, con la sua carica di emotiva divagazione, ha contribuito ad azzerare gli effetti di una presa di coscienza e ha mortificato il tentativo di rappresentare i problemi nazionali nella loro verità. In realtà, ha offerto un bel camuffamento alla rivolta fiscale. Almeno per ora è stata così tolta dall'agenda del Paese la questione che si andava via via prefigurando: mettere la sinistra, pur con tutto il carico di un retaggio protestatario, alla prova della politica di risanamento. Una politica in gran parte già scritta ma che avrebbe bisogno di grandi apporti di idee e know how per non appiattirla completamente sui termini finanziari della politica di bilancio, per esempio sulle questioni della "convergenza" delle politiche di bilancio voluta dal Trattato di Maastricht. (Un Trattato importante, e su queste pagine appoggiato e difeso, non tanto per gli obiettivi di politica macro-economica quanto, e molto di più, per i molteplici passi avanti che esso fa compiere all'integrazione europea). Certo, anche per la sinistra la vittoria alle elezioni del marzo 1994 sarebbe stata probabilmente una vittoria di Pirro. Qualcuno, nei mesi scorsi, ha riconosciuto esplicitamente che la sinistra, malamente denominatasi progressista, al governo si sarebbe trovata tutto sommato nei guai con le sue tante anime. E molti, adagiati nei dolci ozi dell'opposizione, non si sono certo disperati. La grande via delle rivendicazioni e delle manifestaVIII
zioni è sempre alla portata. Quasi, quasi c'è da pensare che qualcuno, fra sé e sé, abbia sussurrato: grazie Berlusconi. 9. In questo quadro l'errore di Forza Italia non è stato, certo, quello di porre, anche soltanto propagandisticamente, obiettivi di nuova occupazione (il milione di posti di lavoro). L'errore è stato quello di porre obiettivi che in qualche modo avrebbero voluto una politica bzpartisan (che nulla ha a che vedere con la prassi consociativa di cui avanti parleremo) mentre invece veniva creata nel Paese la divisione più drastica e antiquata, utilizzando in questo senso il potenziale di frattura del maggioritario, interrompendo un processo ormai più che avviato di assunzione di responsabilità intorno alla lotta contro l'inflazione, intorno alla fine degli interventi statali di mera assistenza, intorno ad una larga diffusione della "cultura del rischio". Giunti a questo punto, quale prima risposta possiamo dare al quesito sulle opportunità? Ebbene, per quanto riguarda il modo in cui è stata impostata la lotta politica nel 1994 è chiaro che il Paese non ha fatto passi avanti. Anzi, c'è ragione di chiedersi quanti passi siano stati fatti all'indietro. In questo senso, le opportunità di cui parlavamo nel n.° 96 non sono cresciute. Finora le vicende politiche, invece di agevolare il passaggio della democrazia italiana ad un livello più evoluto, hanno riportato l'attenzione e hanno impegnato energie sulle questioni fondamentali e sugli stessi elementi costitutivi della democrazia: quelli su cui si vorrebbe che il consenso fosse già stato acquisito ma che invece ci ritroviamo, tutto sommato, a dover una volta ancora fissare da capo. CoNsoclATIvisMo OCCULTO E FINE DI UNA CLASSE POLITICA.
È bene non farsi del tutto calamitare dalle vicende politiche più recenti per approfondire le caratteristiche del sistema politico da cui siamo usciti e la cui caduta ci sembrava aprire, secondo precedenti analisi, importanti opportunità. Bisogna, cioè, continuare a non avere vista corta. Riprendiamo perciò il discorso sul consociativismo. Che cosa esso sia stato nella realtà politica, italiana è stato descritto magistralmente da Alessandro Pizzorno (La difficoltà del consociativismo, relazione tenuta in due convegni del 1993, ora in "Le radici della politica assoIuta", Milano 1993) prima che la parola divenisse un ennesimo passpartout nello sproloquio politico italiano, a disposizione stavolta del cosiddetto
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"nuovo che avanza". Dovremmo, in verità, correggere quel "prima" in "poco prima" e con ciò rammaricarci che una ricognizione critica come quella di Pizzorno non fosse stata fatta in tempi ancor precedenti e non fosse divenuta rapidamente patrimonio diffuso sul piano analitico. Pizzorno parte da un'impostazione metodologica. "Studiando la politica occorre sempre distinguere due piani sui quali gli attori agiscono": quello dei discorsi ideologici, delle dichiarazioni di principio e delle varie forme di presentazione di sé che va chiamato come il piano della identzìcabilità palese, e quello dell'attività quotidiana di quanti, facendo parte del personale politico, "entrano gli uni con gli altri in scambi, accordi, transazioni varie", che va chiamato come il piano della identflcabilità occulta o coperta. La distanza tra i due piani di identificabilità, osserva Pizzorno, può variare da caso a caso e da un momento storico all'altro. Nella storia della Repubblica italiana il piano occulto ha costituito "gran parte dell'attività politica, quella che veramente conta". Al punto che, quando negli anni Ottanta la politica viene utilizzata definitivamente come strumento di raccolta di denaro e non più viceversa, il piano occulto cambia del tutto la natura della politica e diviene, alla fine, un fattore auto-distruttivo del sistema (è tema che abbiamo già affrontato nel saggio più volte richiamato). Senza ripercorrere qui i vari passaggi della ricostruzione, ricordiamo che la ragione storica di tutto ciò è, secondo l'interpretazione preferita da Pizzorno, il bipolarismo mondiale della guerra fredda che ha favorito la forte polarizzazione ideologica e, per compenso, la prassi dello scambio di vantaggi al fine di far funzionare il sistema. Per intendere bene questo meccanismo può essere utile una citazione riguardante il mercato del lavoro. Ritiene Pizzorno che l'opposizione di sinistra, non avendo fiducia nelle modificazioni dei rapporti di forza e dovendo mantenere e sfruttare l'identificazione con il polo mondiale di riferimento, si scelse la seguente strategia: "Si suscitava il conflitto anche là dove si sapeva che era contrattualmente perdente, per sfruttarne il potenziale di disturbo all'ordine. Lo si trasferiva in parlamento, o altri sedi politiche, offrendo (ed era, non occorre dirlo, un tátonnement tacito) di contenerlo o spegnerlo, in cambio di vantaggi politici. I quali potevano essere: o relativi alle stesse parti in conflitto - essenzialmente, protezione dall'uso della forza da parte della polizia, e da misure punitive private, come licenziamenti, e simili. O consistenti in benefici per le categorie sociali cui appartenevano in genere gli elettori dell'opposizione. O relativi alla classe politica d'opposizione che era parte del negoziato. Nel primo caso, si spendeva l'autorità dello stato - che del resto era stata già in origine KI
inflata dal governo allo scopo di poterne negoziare il contenimento. Nel secondo caso, si spendeva il denaro dei contribuenti, spendendo in deficit la ricchezza delle generazioni future. Nel terzo caso si dava mano alla collaborazione implicita di classe politica di governo e di classe politica d'opposizione, quindi a forme di radicamento congiunto nelle istituzioni, e, in genere, di disponibilita consociativa di entrambe Riguardo alla metodologia suggerita da Pizzorno e che consiste nel richiamare al centro, dell'analisi la politica occulta, cioè quella non dichiarata, c'è vale subito dirlo - una prima reazione di perpiessità che deriva dalla percezione di un rischio: quello di alimentare lo sport nazionale della dietrologia. Senonché, a ben riflettere, l'obiezione appare epidermica: dobbiamo riconoscere che la dietrologia superficiale, quella che scade nel pettegolezzo, nell'aneddotica o nella fantapolitica, trova alimento proprio nella mancanza di un'analisi seria e approfondita dell'altra faccia della politica, cioè della politica occulta, quali che siano gli attori politici. Anzi, c'è da dire che il rifiuto di questa analisi quando sia riferita non soio agli avversari ma anche a sé stessi ha danneggiato l'opposizione di sinistra che ha proclamato sempre, utilizzando il motivo di una propria forte moralità politica, una profonda diversità soprattutto rispetto al rapporto politica-denaro, divenuto prevalente e schiacciante negli anni Ottanta. Ora, è probabile che questa diversità ci sia stata, se non altro per la ragione tecnica che la politica occulta del rapporto spartitorio delle risorse pecuniarie la si può fare solo o soprattutto nelle sedi del potere esecutivo (ovviamente sia centrale che locale). Ma la diversità non è stata un elemento tale da far venir meno il fatto che l'opposizione storica di sinistra ha contribuito a costituire il sistema politico operante secondo comportamenti consociativi, ben fissati dai tempi della "duplicità" togliattiana. Del resto, il rifiuto del consociativismo è stato una formula esplicita della politica di Achille Occhetto e della partecipazione in prima linea del Partito democratico della sinistra alla battaglia referendaria per il maggioritario. Formula che tuttavia, dovendo fare i conti con la questione dell'identità pidiessina e dell'orgoglio di identità, non è riuscita a fare uscire la sinistra da un'immagine post-comunista, inevitabilmente erede, senza beneficio d'inventano, di quell'italo-comunismo che è stato appunto una componente essenziale del sistema politico consociativo. Che cosa vogliamo dire con queste considerazioni? Vogliamo innanzitutto cercare di integrare quanto abbiamo detto innanzi sulle vicende politiche del 1994 spiegando perché è accaduto che la sinistra non ha beneficiato del fatto di essere stata meno coinvolta nel precedente sistema di governo. XI
In realtà, nel contesto di una rivolta contro la classe politica cresciuta intorno alla rendita parassitaria del far politica, il vessillo innalzato contro la sinistra illiberale ha risuonato nella coscienza dei moderati in un modo, magari diverso da quello apparente e così contraffatto, eppure ugualmente efficace per chi il vessillo aveva bandito. È come se l'elettorato moderato, si sia chiesto: sono proprio gli eredi di coloro che, per scelta o per necessità, hanno contribuito al meccanismo del consociativismo occulto a dover oggi beneficiare della rottura di questo meccanismo? La risposta è stata no. Il cambiamento di classe politica avvenuto nelle elezioni di marzo 1994 è un punto su cui bisogna soffermarsi. Alfio Mastropaolo in un bell'articolo su «Italia Contemporanea» (n.° 196 - Le lezioni politiche del marzo 1994. Vecchio e nuovo nel Parlamento italiano) fa un'analisi della fisionomia dei nuovi parlamentari. Intanto, che il Parlamento sia cambiato risulta da un dato: i nuovi eletti sono il 70 per cento dei parlamentari. Il secondo dato interessante è che, data la composizione di questo settanta per cento, si è perduto il fenomeno del "rinserrarsi dei politici in una categoria sociale a sé, chiaramente identificabile e portatrice di interessi suoi propri". Insomma si ritrovano molto meno in Parlamento quei politici che rispondono al seguente identikit: "i politici si sono trasformati in procacciatori specializzati di consenso, specialisti della mediazione con gli interessi, ai quali era richiesto un complicato e specifico know how, di regola accumulato on the job. La carriera politica prevedeva un prolungato tirocinio ed una laboriosa socializzazione ai suoi metodi e ai suoi linguaggi e rigide procedure di cooptazione regolavano ogni ingresso. Portatori di limitate risorse di consenso, accumulate a fatica mediante complesse pratiche di scambio politico, i politici già in carriera erano cauti quanto mai nel reclutare nuovi adepti, preoccupati come erano di attirar essi stessi nuovi concorrenti". Ebbene, se questo tipo di personale è drasticamente ridimensionato (naturalmente, non ancora si può dire per sempre, è meglio dire per ora) quale fisionomia hanno i nuovi eletti? Le categorie "pi1 vistosamente in aumento sono gli imprenditori e gli «altri professionisti», che comprendono sia i medici, in sensibile aumento, e gli ingegneri, ma anche molte professioni tradizionalmente non incluse nel novero professioni liberali: commercialisti, consulenti, agenti d'assicurazione, addetti alle pubbliche relazioni". E così via. Dunque, dal punto di vista della composizione del Parlamento, il cambia-
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mento del marzo 1994 sembra il seguente: cede il vecchio ceto politico impermeabile e contrario a facili cooptazioni, si riaffacciano altre figure di mediatori come gli avvocati meridionali di Alleanza Nazionale o gli uomini già segnalatisi nelle associazioni di categoria che Forza Italia ha presentato alle elezioni come scelta preferenziale. Il cambiamento di un ceto politico è stata la questione politica più diffusamente percepita dall'elettorato nel 1994. Si può dire che a tale questione è stata data una risposta senza che si verificassero altri spostamenti politici significativi, cioè senza spostare il centro di gravitazione fuori dall'ambito sociale, culturale e politico o, se vogliamo, fuori della stessa matrice antropologica che aveva dominato finora il Paese. Sono stati cacciati i figli approfittatori che, del resto, ormai portati davanti ai tribunali, non servivano più a nessuno. Questo il senso dell'operazione Berlusconi, questo l'obiettivo vero che l'elettorato "moderato" ha colto ed ha realizzato. Ovviamente va sottolineato il fatto che, essendosi realizzato il cambiamento in modo estemporaneo, non sono stati cambiati i meccanismi di fondo del reclutamento del personale politico che rimane centralistico e per cooptazione. Al contrario (e sarebbe ingenuo e frutto di una totale mancanza di senso storico supporre una realtà profondamente diversa) l'avvenire prossimo venturo, lasciato a sé stesso, sembra riaffidarsi ai meccanismi di partito. Le conclusioni del primo congresso di Alleanza Nazionale sono all'insegna di un'organizzazione aperta ma non snella, cioè tale da volersi radicare nella società con un forte tessuto connettivo e un potere diffuso. Le perplessità di gran parte del gruppo dirigente del Pds ad accelerare la trasformazione di fisionomia, caratteristiche operative, forme di appartenenza hanno trovato finora fondamento in questo revival della forma partito nelle sue configurazioni originarie. Del resto, non è stato detto che nella forma partito si rintraccia addirittura il filo della continuità dal fascismo al regime democratico? E non sembra proprio questo il momento e il clima culturale per interrompere questa sotterranea continuità. DEMOCRAZIA MAGGIORITARIA E DOMANDA DI INDIPENDENZA.
Se queste sono le supposizioni che oggi fondatamente si possono fare, torniamo al tema delle opportunità del momento storico. Per i ragionamenti che abbiamo fatto nel n.° 96 è importante ancora uno spunto di Pizzorno. Egli scrive: "Ora, quando le risorse associative - costituite dalla capacità degli individui di impegnarsi in cause collettive, o in genere, in attività che comportano sa-
crificio di interessi individuali, almeno di breve periodo, per fini collettivi - è totalmente, o quasi, convogliata attraverso canali politici, si ha, di fatto, anche se l'apparenza può essere diversa, una paralisi del pluralismo. ( ... ) Prima ancora, quindi, che di essere all'origine della corruzione della vita politica, quale esploderà negli anni Ottanta, al consociativismo coperto, che abbiamo visto affondare le sue radici negli anni Cinquanta, va imputato il mancato sviluppo della società civile in Italia. Il che vuoi dire che gli vanno imputate la diffusa incapacità di iniziative autonome in nome di cause collettive, la mortificazione di vocazioni sociali non politiche, e, non ultimo, l'assenza, o quasi, di capacità di analisi politica condotta secondo canoni disciplinari non ideologizzati, e capace quindi di riflettere sulle parti in conflitto, invece che asservire a esse le sue conclusioni". C'è poco da aggiungere alle valutazioni di Pizzorno: esse trovano pieno riscontro nelle annotazioni spesso fatte su questa rivista. Cosa si può immaginare che avvenga nei prossimi tempi con la logica maggioritaria? A considerare quanto è avvenuto dal 27 marzo 1994 in poi una cosa, per ora, è certa: che lo statuto di dipendenza descritto da Pizzorno non sembra venir meno, anzi rischia di accentuarsi in ragione dello spirito di divisione che è stato imposto al Paese. In ogni caso il modo con il quale è stata affrontata la competizione maggioritaria con il prevalere delle regole di stretta appartenenza restringe inevitabilmente lo spazio riservato a iniziative indipendenti che cerchino di affermarsi in ragione della propria autorevolezza senza contare su investiture, scambi di favori o altre forme di rapporto organico con i campi contrapposti. C'è da prevedere, d'altra parte, una bella corsa verso la bandwagon dei supposti vincitori da parte dei molti che non vogliono rischiare o che sono abituati alle provvidenze statali e amano poco andarsi a procacciare le risorse, sulla base dei propri meriti e dei propri progetti. Eppure, ci sono due fatti inediti da considerare. Da una parte, lo stato di maggiore incertezza che il sistema maggioritario introduce nel rapporto fra mondo degli intellettuali politici e schieramenti: non vale più stare in un'area o in una nicchia per poter contare su protezione e provvidenze automatiche sulla base delle regole spartitorie del consociativismo occulto. Bisogna entrare più direttamente nell'agone. Dall'altra, può emergere una diversa ed medita domanda di indipendenza. La politica giocata secondo le regole degli schieramenti "blindati" può mettere ben presto in luce la miseria della politica super semplificata. Pensiamo agli stessi bisogni degli elettori. L'elettorato fluttuante, che diviene sempre
più decisivo, ha bisogno di informazioni, elementi conoscitivi, criteri di valutazione. E per questo può aver bisogno di propositori e/o valutatori indipendenti. In definitiva, si intravvedono due diverse domande per i centri di elaborazione e valutazione della politica e delle politiche: quello di supporto per gli schieramenti in campo che non potranno ricorrere a strutture vere e proprie di partito, o magari le rifiuteranno (anche per il fallimento ripetuto di ogni pensatoio operante in ambito partitico) e quello di ausilio per l'opinione pubblica e soprattutto per l'elettorato. Nella prospettiva appena indicata quali sono i passi da compiere nell'immediato? Innanzitutto costruire gli schieramenti in campo, o quello almeno che consenta un rapporto di appartenenza non organico ma dialettico. Cioè niente grilli parlanti ma allo stesso momento niente mosche cocchiere. E subito dopo occorrerà creare la rete dei soggetti che devono con maggiore libertà giocare una partita di indipendenza da tutti gli schieramenti. ESPLORAZIONE DEI PROBLEMI FUORI DALLA DEMOCRAZIA DELL'IMMEDIATEZZA.
Qual è il compito dei soggetti politico-culturali qui identificati? Non basta fare riferimento alle esperienze degli altri, per esempio alla presenza in altri Paesi di fondazioni politiche e di think tanks. Occorrono ragioni più profonde. Vale chiamare in causa l'analisi delle disillusioni della democrazia di Pierre Rosanvallon (La déception démocratique, trad. it. Prefazione a una nuova teoria della disillusione verso la democrazia, ed. Anabasi. Milano 1994). Se è vero che la democrazia vuole il normale funzionamento delle istituzioni, cioè un'organizzazione della durata ovvero "una costruzione sociale del tempo", il potere di decidere non può essere lasciato al solo potere esecutivo che, per definizione, è carattetizzato dalla "gestione di ciò che è inedito". Insomma le deliberazioni in democrazia non possono essere, di norma, decisioni caratterizzate dall'immediatezza (e sospinte, potremmo dire con lessico italiano, dall'emergenza). Ma allora per le decisioni di durata non si tratta soio di confermare nel potere legislativo il soggetto che esprime la volontà ma occorre porsi compiutamente il problema dell'"esplorazione dei problemi anteriore a quai&iasi decisione". Il vero momento di costruzione democratica risiede tanto nell'esplorazione quanto nella discussione. Senonché sarebbe riduttivo e insufficiente ri-
portare, a questo punto, il discorso sulla centralità del Parlamento. In verità senza un tessuto connettivo di forti e indipendenti soggetti pensanti, il processo di esplorazione non assume il rilievo e lo spessore necessari. E rischia di rimanere nel circuito ristretto di lobbies, seppur legittime, e di addetti ai lavori di incerta riconoscibilità e perciò sostanzialmente deresponsabilizzati. Ancora, gli organismi dedicati all'esplorazione dei problemi e alla ricerca delle soluzioni da suggerire o proporre al potere legislativo possono anche essere la base di un meccanismo di deliberative opinion polls, cioè di sondaggi d'opinione più articolati (complessi e faticosi) che servano alla democrazia deliberativa come complemento delle sedi parlamentari. Un comune sondaggio d'opinione serve a rappresentare con maggiore o minore approssimazione ciò che il pubblico pensa dato quel poco chè conosce e sa. Un sondaggio d'opinione destinato al processo d'esplorazione e deliberazione mira a sapere che cosa il pubblico pensa una volta che abbia un'adeguata opportunità di riflettere sul problema avendone una preventiva sufficiente informazione. I sondaggi del primo tipo creano una democrazia dell'immediatezza, cioè una non-democrazia. La democrazia dei sondaggi del secondo tipo potrebbe essere una importante integrazione e crescita della democrazia rappresentativa oggi così instabile e frustrata. Tanto da poter dire, come suggerisce James S. Fishkin, studioso e teorico di queste nuove forme di consultazione pubblica (Democracy and Deliberation, New Directions for Democratic Reform, Yale University Press, 1991), che far parte di un campione di persone da consultare per un certo periodo di tempo con opportuni metodi interattivi di informazione e valutazione potrebbe essere un obbligo dell'essere cittadini. Sono ipotesi che nei dettagli occorrerà valutare in altri momenti. C'è qui da sottolineare un punto fondamentale: se la politica spettacolo impone una politica dei sondaggi ebbene la sfida va raccolta ma rilanciando. Che si vada, allora, oltre l'inganno della totale disintegrazione del pensiero politico in domande e risposte costruite sul nulla, e si passi ad un più complesso ascolto dei cittadini dove l'interrogare e il rispondere esigono un di più di attenzione e di conoscenza sulla base di una politica della chiarezza. Qui veramente le prospettive della democrazia al lavoro chiamano a compiti nuovi gli uomini di cultura e d'esperienza. Per i quali le opportunità si trasformano sempre più in necessità. Sergio Ristuccia
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questelstRUZIEW III i .•
Antipolitica e democrazia sobria
GeoffMulgan, uno degli autori ospitati in questo dossier, ha pubblicato di recente un libro intitolato Politics in an Antipolitical Age (Polity Press, Cambridge-Oxford 1994) che interpreta la condizione politica generale nei Paesi occidentali come profondamente caratterizzata dalla fine e dal rfìuto di modelli mentali e comportamentali più o meno consolidati negli ultimi due secoli. Il libro costituisce la tappa di un'iniziativa più ampia ed ambiziosa che ha visto nel marzo 1923 la creazione a Londra di un centro di studi e riflessione, un vero think-tank, che vuole contribuire a rinvigorire le politiche pubbliche e la riflessione politica. Il think tank si chiama Demos e con esso la nostra rivista ha stabilito rapporti di collaborazione. Condividiamo molta parte dell'analisi di Mulgan e soprattutto la chiave interpretativa del momento storico che stiamo attraversando: cioè il concetto di antipolitica. Concetto in negativo, certamente, e che come tale sembra respingere le prosp etti ve e le opzioni della speranza e del progetto. Ma una vecchia lezione realista insegna a guardare sempre in faccia la realtà. Per poi ricominciare daccapo. Come Demos propone di fare negli stessi articoli pubblicati nel dossier. Sidoti, nell'analisi della situazione politica degli Stati Uniti, si collega sostanzialmente alla chiave di lettura dell'antipolitica e con ciò porta innanzi l'analisi.
Lo specchio rotto: il futuro della rappresentanza di Judith Squires
Il concetto di rappresentanza, pur essendo alla base della nostra concezione di democrazia, è poco teorizzato e molto confuso nella pratica. Malgrado la "rappresentanza" sia un fondamento delle moderne democrazie, il significato di questo termine è molto indeterminato, anche dal punto di vista politico. Questa indeterminatezza non potrà rimanere tale a lungo, infatti qualsiasi processo di ristrutturazione del sistema politico britannico richiederà una modifica della natura della rappresentanza. L'elezione di rappresentanti sulla base di componenti geografiche dell'elettorato comporta che coloro che verranno eletti dovranno rappresentare una determinata area o un luogo specifico. Il fatto è che gli interessi sono relativamente omogenei nell'ambito delle singole località, ma potenzialmente in contrasto tra località diverse. Una visione alternativa della rappresentanza è quella di Edmund Burke, che ritiene che i rappresentanti siano al servizio degli interessi della nazione. Tuttavia, il sistema dei partiti porta con sé un'altra concezione, che i rappresentanti rappresentano i propri elettori e
alleati ideologici. Un'ulteriore concezione è quella dell'autonomia dei rappresentanti di votare secondo la propria coscienza. È principalmente a causa di questa natura indeterminata del concetto di rappresentanza che i nostri deputati possono continuare a sostenere di essere rappresentativi, malgrado la maggioranza dei cittadini non voti per essi, e intere sezioni del "popolo" non siano rappresentate in termini di età, classe sociale, sesso e razza. La democrazia liberale ci presenta le sue ordinate eguaglianze tra democrazia e rappresentanza, ma ci chiede di considerare come irrilevante la composizione delle assemblee elette. La situazione risultante mostra una marcata distorsione a favore di settori specifici dell'elettorato, e il basso livello di rappresentanza delle donne è solo il caso più evidente in una lunga lista di gruppi non rappresentati. È opportuno sottolineare, analizzando l'attuale incertezza sulla natura della rappresentanza, che vi sono state significative oscillazioni storiche della nostra effettiva concezione delle caratte3
ristiche rappresentative del sistema democratico. Infatti, molte delle ambiguità che attualmente caratterizzano la nostra concezione della rappresentanza possono essere fatte risalire alle tensioni storiche tra liberalismo e democrazia. Malgrado oggi si parli di democrazia liberale come se i due termini fossero inseparabili, prima della fine del diciottesimo secolo, solo alcuni liberali erano anche democratici. I liberali difendevano il governo costituzionale e rappresentativo, ma di rado sostenevano il suffragio universale. Fidea che la rappresentanza dovesse essere basata su singoli individui raggruppati assieme in numeri pressoché uguali emerse in linea di principio solo alla fine del diciottesimo secolo. In precedenza, si riteneva che il governo, se davvero era rappresentativo, rappresentasse essenzialmente i proprietari terrieri. Quindi, anziché sostenere la democrazia, molti dei liberali del diciottesimo secolo sostenevano la meritocrazia, nella quale la proprietà venisse considerata come una indicazione di competenza politica. Anche John Stuart Mill temeva la sovranità popolare, sostendendo che avrebbe potuto generare una mediocrità generalizzata. Egli propose una meritocrazia: una democrazia «tarata" in favore dei più illuminati, che MilI identificava con le categorie dei professionisti e dei commercianti, ai quali sarebbero stati assegnati più voti che alle classi lavoratrici. 4
I movimenti per il suffragio universale, che richiesero l'allargamento del suffragio prima alla classe operaia e poi alle donne, si batterono contro questa concezione della rappresentanza. Ma la rappresentanza non si trasformò nella direzione della rappresentanza di cittadini come individui uguali tra di loro. Ladozione del sistema dei partiti ha comportato il trasferimento della volontà popolare all'interno dei partiti; quello che i rappresentanti rappresentano, in questo caso, sono le concezioni ideologiche e gli interessi di classe. Tuttavia, non è privo di significato il fatto che le nostre attuali strutture «rappresentative" siano l'evoluzione di un sistema finalizzato a limitare l'effettiva influenza delle masse e ad evitare la «tirannia" di un'opinione pubblica poco istruita. Più di recente troviamo un diffuso interesse, basato su varie eredità storiche, per tre concezioni radicalmente diverse di ciò che effettivamente risulta rappresentato: interessi, ideologie e identità. Ciò che ha contribuito a tenere assieme questi tre fondamenti della rappresentanza, elidendo le profonde differenze tra di essi, è stata la insolita combinazione tra due ipotesi: innanzitutto, quella che vede tutti i cittadini partecipare in maniera uguale attraverso i meccanismi formali delle strutture procedurali democratiche; in secondo luogo che gli interessi, le ideologie e le identità risultino omogenee nell'ambito di aree geogra-
fiche specifiche. La prima è una manifestazione dell'aspirazione a un'uguaglianza formale che trascenda le differenze; la seconda è una constatazione più pratica della concezione culturale e regionale che considera che le differenze si manifestino tra gruppi caratterizzati da forte coesione interna. Entrambe queste ipotesi sono alla base dell'attuale sistema politico in Gran Bretagna. Tuttavia, i fattori che hanno tradizionalmente formato la base del nostro meccanismo rappresentativo, l'identità territoriale e l'impegno ideologico, sono largamente considerati insufficienti come indicatori e stimolatori politici di base. Si ritiene che i nostri attuali deputati rappresentino sia il proprio elettorato (un gruppo definito in termini territoriali) che il proprio partito (un programma ideologico), anche se, in realtà, la posizione geografica è sempre meno importante nella formazione dell'identità dei cittadini. Nel corso di questo secolo, si è scritto molto sulla necessità di riconoscere livelli diversi di rappresentanza geografica (internazionale; regionale e nazionale; metropolitana; locale), ma più di recente è anche aumentato l'interesse per le comunità non geografiche, come base per la rappresentanza. Tale interesse è nato dal riconoscimento dell'importanza dell'emergente "cultura politica della differenza". La carat-
teristica principale di questa politica è il rifiuto di tutto ciò che è omogeneo e monolitico, nel nome della diversità, della molteplicità e dell'eterogeneità. Questo allontanamento generico da tutto quanto è generale, universale ed astratto, per passare allo specifico, al particolare e al contestualizzato, caratterizza numerosi attuali sviluppi politici basati sulle etnie, le religioni, la lingua e il sesso. I possibili esempi vanno dalla fondazione in Nuova Zelanda, nel 1979, di un partito separatista Maori per il riconoscimento dell'individualità (linguistica e culturale) dei Maori nella politica e nella società neozelandese; l'istituzione di un Partito Femminista in Islanda nel 1981, impegnato nella difesa dei diritti e degli interessi delle donne all'interno dell'Althing (il parlamento islandese), movimento che ha ottenuto i primi deputati nel 1983; nel Canada, nazione biculturale, i protratti dibattiti costituzionali riguardanti l'appropriato riconoscimento dei cittadini di lingua francese e di lingua inglese e i relativi dibattiti sulla rappresentanza separata per le popolazioni indigene; la formazione del Parlamento Islamico a Bradford, nel 1989, finalizzato a rappresentare i musulmani sunniti ortodossi (la loro organica concezione della comunità, la Umma, genera una concezione della rappresentanza collettiva della comunità in contrasto con il nostro ethos rappresentativo individualistico). 5
Gran parte di queste iniziative hanno ricevuto una convenzionale, risposta liberale e individualista: le istituzioni politiche delle moderne democrazie rappresentative non discriminano e non dovrebbero discriminare i cittadini. Tutti gli individui, a prescindere dalle origini sociali e culturali, dovrebbero essere uguali di fronte alla legge. Ma tale risposta non prende in considerazione la necessità di diritti speciali per gruppi specifici, di una giustizia culturale senza assimilazioni, e del pubblico riconoscimento di gruppi diversi per esperienze e per identità. In questo contesto, non sorprende il fatto che i nuovi lavori teorici sulla rappresentanza siano incentrati sulla «rappresentanza di gruppo", dove per gruppi si intendono gruppi di identità, comunità di identificazione non definite in termini economici o geografici. Questa nuova letteratura erode la precedente distinzione tra le teorie della democrazia partecipativa di base e la democrazia rappresentativa procedurale mediante una esplorazione più dettagliata della relazione tra idee e identità. Basti pensare, per esempio, alla questione posta dal filosofo americano Amy Gutman: "Quando le istituzioni principali non tengono conto delle nostre identità specifiche, possiamo dire che la democrazia sta trascurando i cittadini, ci sta escludendo o discriminando in maniera immorale? Cittadini con identità diverse possono essere rappresentati in maniera eguali-
no
tana se le istituzioni pubbliche non riconoscono le identità specifiche, ma solo le più generalizzate comunanze di interessi nel campo dei diritti civili e politici, come il reddito e l'istruzione? A prescindere dalla concessione di diritti uguali a tutti i cittadini, cosa altro comporta il trattamento paritario dei cittadini?"
LA CULTURA POLITICA DELLA DIFFERENZA
Le argomentazioni a sostegno della «rappresentanza di gruppo" sono basate sulla constatazione del fatto che le procedure elettorali e legislative attuali sono «non rappresentative , nel senso che non sono in grado di riflettere la diversità della popolazione in termini di presenza. Questo ha sollevato la richiesta che un certo numero di seggi all'interno degli organi venga riservato per i componenti dei gruppi marginalizzati. Queste richieste vengono avanzate sulla base dell'assunto che il problema della sotto-rappresentanza possa essere risolto soio affidandosi alla rappresentanza garantita. In alternativa, si potrebbe sostenere una forma di rappresentanza proporzionale, che è ritenuta in grado di garantire una più completa gamma di candidati garantendo un maggiore risalto nella procedura elettorale alle componenti sottorappresentate. Quindi, i sistemi delle liste di partito rendono più facile l'individuazione di una lista di candidati equilibrata grazie alla trasparenza.
Ma la rappresentanza di gruppo può convivere con la cultura politica liberaldemocratica? Si tratterebbe sicuramente di un notevole scarto rispetto al sistema dei collegi elettorali uninominali utilizzato in Gran Bretagna. Per esempio, affermare che le donne e vari gruppi di minoranze non siano rappresentati nel parlamento attuale presuppone che gli elettori possano essere rappresentati compiutamente solo da individui che appartengano allo stesso sesso, alla stessa classe, e allo stesso gruppo etnico e linguistico. Questo porta alla concezione della rappresentanza "speculare", stando alla quale una legislatura può considerarsi rappresentativa dei propri cittadini se ne rispecchia le caratteristiche. Questo cozza con la concezione più familiare che definisce la rappresentanza in termini della procedura in base alla quale vengono eletti i rappresentanti, piuttosto che in termini di caratteristiche personali dei rappresentanti stessi. L'attenzione a questi ultimi è il risultato di una "politica delle identità", che mette in discussione la presunta distinzione tra l'essere e il fare, tra l'innato e il cerebrale, tra l'identità e le idee. L'espansione della politica dell'identità in Gran Bretagna, nel corso dell'ultimo decennio, solleva un interrogativo cruciale e troppo trascurato: se le caratteristiche personali dei rappresentanti giustifichino la pretesa di questi di essere rappresentativi, oppure se le
procedure per la loro elezione sono una garanzia sufficiente della loro rappresentatività. Questa questione sta divenendo sempre più importante con la crescente delusione e alienazione del "popolo" rispetto agli attuali meccanismi di governo. Tuttavia, anche solo l'innesto della politica dell'identità sul nostro attuale meccanismo di governo rappresentativo", presenta alcuni problemi. Il più immediato di questi potrebbe essere riassunto così: le argomentazioni che stanno alla base di questo genere di rappresentanza poggiano sull'assunto che le persone non possono essere solidali tra loro se esistono forti differenze. Questo potrebbe portare facilmente a un circolo vizioso. Potrebbe condurre alla faziosità e a politiche da enclave. In secondo luogo, l'assunto dell'omogeneità e della coesione nell'ambito dei gruppi equivale all'assunto dell'omogeneità nel complesso della società, oggetto di critiche proprio da parte dei sostenitori della rappresentanza di gruppo. In terzo luogo, i meccanismi di verifica dell'operato sono difficili da realizzare quando l'elettorato è composto da gruppi di identità autodefiniti, senza meccanismi di ammissione formali. Potremmo aggiungere: come potremmo decidere a quali gruppi assegnare il diritto di essere rappresentati? Vogliamo che un gruppo sia rappresentato in proporzione alle sue dimensioni rispetto alla popolazione complessiva oppure vo7
gliamo che esista un tetto massimo per i rappresentanti? t importante che i rappresentanti appartengano al proprio gruppo o che siano eletti dal gruppo stesso? La conseguenza di queste domande potrebbe facilmente essere che questa concezione dell'identità può condurre alla conclusione che nessuno è in grado di rappresentare nessuno. Per un chiaro esempio di queste problematiche, è sufficiente guardare alla storia del movimento delle donne. La natura partecipativa e non gerarchica dell'approccio femminista alla politica ha creato profonda diffidenza attorno alla possibilita di rappresentare altre donne o il movimento . Tuttavia, in assenza di meccanismi formali elettorali o rappresentativi, la necessità di trovare dei portavoce ha spesso portato alcune donne a tentare di parlare "a nome" delle "donne/femministe" senza alcun titolo. Non vi erano state discussioni per impostare la linea da assumere, ed esse non erano soggette ad alcuno strumento di verifica. Le donne che tentarono di "rappresentare" quelle che ritenevano le posizioni del movimento furono oggetto del risentimento e delle critiche delle altre donne. In considerazione di questi problemi, anche coloro che sostengono la rappresentanza di gruppo, di norma si pongono obiettivi strategici come meccanismi di breve termine per corE1
reggere ingiustizie e discriminazioni del passato, per cambiare strutture e procedure viziate dal pregiudizio e per garantire una più egualitaria partecipazione al governo. Il punto, quindi, non è che il potere legislativo debba riflettere il popolo, ma che le eredità storiche del potere e del privilegio impediscono a determinati gruppi di partecipare efficacemente. Quindi, rimane un interrogativo: considerato che le ideologie sono passate in secondo piano, che gli interessi sono oggi più diffusi e meno legati alle distinzioni sociali, che cosa deve oggi essere rappresentato per conto del popolo? Il tentativo di rappresentare le nostre identità in assenza di strutture "rappresentative" appare rischioso, esposto alle minacce dei particolarismi e della faziosità. In sostanza, il problema di una simile politica della differenza è che, una volta formalizzata nelle strutture rappresentative, potrebbe dare una veste rigida a delle identità che sono essenzialmente fluide. Inoltre, può condurre a tentativi di rappresentarci sulla base di un solo aspetto delle nostre identità. Ciononostante, piuttosto che abbandonare il tentativo di riconoscere la differenza e l'importanza politica dell'identità, potremmo sfruttare questa incompatibilità per discutere delle ragioni d'essere della politica elettorale stessa. Oggi siamo di fronte alla necessità di rappresentare interessi specifici che non possono essere ordinatamente accor-
pati tra loro. Gli antichi legami si sono spezzati, e gli interessi si intrecciano in maniera imprevedibile attraverso una società marcatamente eterogenea. In questo contesto, dovremmo cercare di stabilire se elezioni e nomine siano i mezzi migliori per la scelta dei rappresentanti. Forse la rappresentazione statistica o addirittura la selezione per estrazione (come nel sistema delle giurie) potrebbe offrire metodi più adeguati per l'ottenimento di strutture governative rappresentative? La selezione dei rappresentanti mediante estrazione, statistiche o campionamenti casuali potrebbe rivelarsi migliore per coloro che invocano la specularità delle caratteristiche del ('popolo". Inoltre, lo spostamento verso meccanismi di rappresentanza, per strutture particolari (istruzione, polizia, diritto etc.), potrebbe rivelarsi un altro percorso da esplorare. La rappresentanza territoriale potrebbe non essere più sufficiente, se mai lo è stata.
Sebbene il governo abbia un determinato ruolo simbolico rispetto ai propri cittadini, la questione della rappresentanza non dovrebbe essere limitata alla composizione del governo. Le elezioni generali e quelle locali sono una forma attenuata di rappresentanza, sempre meno in grado di rappresentare la diversità e la molteplicità dell'elettorato. Aggiustare questi strumenti, riducendo la rappresentanza al ruolo del sistema elettorale meno peggiore, non significa iniziare ad affrontare la sfida posta dalla nuova cultura politica della differenza. È necessaria una concezione più ampia della rappresentanza, che non riguardi esclusivamente il parlamento, ma tutte le istituzioni governative. Infatti, nessun sistema è in grado di rappresentare completamente i cittadini: nessun individuo può adeguatamente rappresentare un qualunque altro individuo in tutta la sua complessità. (Traduzione di Stefano Spila)
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) L'emocrazia sneila e assenza di leadership CC
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di Charles Leadbeater e GeoffMulgan
Il mondo politico sta attraversando una fase di profonda transizione, iniziata alla fine degli anni Ottanta. Un'era caratterizzata da forti leadership come quelle di Reagan, Thatcher e Gorbaciov, basate su una combinazione di solida crescita mondiale e di fiducia nei meccanismi di mercato, ha lasciato il posto a un mondo più pragmatico, confuso e mutevole, nel quale magnati dei media, fanatici del nazionalismo e comunisti riformati gareggiano per conquistare il potere. In gran parte dei Paesi industrializzati, la posizione privilegiata della classe politica è caduta sotto i colpi di critiche intense e sostenute. La recessione mondiale ha messo a nudo l'impotenza economica dei leader politici e ha minato il sostegno per i più ambiziosi progetti politici europei: l'unificazione della Germania e l'integrazione europea. Nel frattempo, la velocità e le dimensioni dei cambiamenti indotti dalla fine della Guerra Fredda, come la disgregazione dell'Unione Sovietica, l'emergere del nazionalismo, la guerra nella ex Jugoslavia, hanno lasciato ai nostri leader un'immagine di fragilità e di indecisione. 10
Ma il malessere ha radici molto più profonde. Riflette una crisi nei rapporti tra le parti politiche e non politiche della società che ha sollevato molti interrogativi sul ruolo effettivo della politica e delle istituzioni politiche nel garantire una leadership alla società. Dal diciottesimo secolo, e forse da tempi ancora più lontani, la società ha guardato alla politica come a un elemento essenziale per la progressiva attuazione delle riforme e l'allargamento dei diritti. La democrazia rappresentativa, basata su partiti, elezioni e assemblee parlamentari, ha garantito gli strumenti principali per la legittimazione del crescente potere dello stato e per la ricomposizione dei conflitti sociali. Ora, come già in precedenti periodi di crisi quale quello degli anni Trenta, l'essenziale rapporto di fiducia tra il mondo politico e quello non politico si sta disfacendo. I nostri leader politici appaiono sminuiti. Clinton, Mitterrand e Major impallidiscono al confronto con Roosevelt, Churchill e De Gaulle. Nel dopoguerra, e nuovamente negli anni Sessanta, i politici di tutte le democrazie liberali hanno varato
ambiziosi programmi di ricostruzione economica e di riforme sociali. Nessuno si aspetterebbe programmi altrettanto ambiziosi dai politici attuali. Ma i leader politici non sono i soli a essere in difficoltà. Tutti gli anelli della catena che uniscono i politici alla vita di tutti i giorni si stanno spezzando. Il numero dei tesserati dei partiti continua a diminuire. I media si rivelano spesso gli strumenti più efficaci per mobilitare l'opinione pubblica sulle questioni più diverse, dalla guerra civile in Bosnia ai problemi della sanità. I think tanks e i ricercatori indipendenti formulano nuove politiche, più innovative rispetto a quelle dei partiti o della pubblica amministrazione. Nell'era dell'Internet, dei sondaggi telefonici, dei dibattiti televisivi e delle conferenze virtuali, le procedure ottocentesche del parlamento e delle strutture amministrative locali sono divenute anacronistiche. Armati solo di queste procedure, i politici si trovano di fronte a società che non sono più organizzate nei blocchi sociali sui quali erano stati costruiti i partiti, e che sono esposte continuamente all'interazione delle molecole sociali che si combinano, si spaccano, si ricombinano, si frammentano e si moltiplicano, in maniera crescentemente dinamica. Queste nuove società sono modellate dai grandi acceleratori di particelle sociali ed economiche dei nostri tempi: le industrie
multimediali dell'informazione e dello spettacolo e la concorrenza economica internazionale. Il rapporto tra il mondo politico e quello non politico, di conseguenza, appare fragile e vulnerabile. Molti possono immaginare di istituire un rapporto durevole con il luogo in cui risiedono, con la propria famiglia e con i propri compagni e amici, con l'azienda presso la quale lavorano o addirittura con i prodotti che consumano più di frequente. Ma pochi possono oggi immaginare di poter istituire un rapporto stretto, attivo e fruttuoso con un sistema di potere politico o con un singolo leader. La politica democratica, che dovrebbe rappresentare l'elemento di caratterizzazione delle nostre società, oggi appare corrotta e poco credibile. Malgrado la vittoria storica contro il comunismo, la democrazia liberale non può vantare di aver rappresentato, negli ultimi vent'anni, il sistema politico più dinamico. Essa è ora costretta ad affrontare la sempre più agguerrita concorrenza di modelli politici che assegnano alla politica democratica un ruolo molto differente nell'ambito della società. Molti stati-impresa del sud-est asiatico misurano il proprio successo in termini di crescita economica e di ordine sociale. In questi stati, la politica non si pone l'obiettivo di riformare la società, ma quello di creare le condizioni per la crescita economica. Nient'al11
tro che una struttura per la fornitura di servizi, che incanala il denaro dagli apparati burocratici all'elettorato. I componenti di queste società non si considerano come titolari di diritti e di doveri, ma come compratori e venditori sul mercato, fedeli alle proprie famiglie e aziende, chiese e caste, nazioni e gruppi etnici, piuttosto che ai principi della politica democratica razionale e liberale. Negli stati islamici e fondamentalisti, la religione, e non la politica, è la fonte delle leggi e dell'ordine sociale. Questi stati legittimano il proprio operato in parte attraverso procedure formali democratiche, ma anche attraver'so la propria aderenza ai dettami religiosi. Negli stati nazionalisti, il territorio, la storia e i nemici sono gli obiettivi che garantiscono la coesione. Per restituire vitalità alla politica e per ripristinarne il ruolo nel garantire una leadership solida, saranno necessari almeno due cambiamenti con grandi implicazioni. Innanzitutto, il sistema politico ha bisogno di una riforma radicale e capillare. È giunto il momento di modificare alla base il nostro datato sistema di democrazia rappresentativa. La nostra proposta prevede uno spostamento nella direzione della democrazia diretta, con l'offerta, ai cittadini, di una molteplicità di canali per influenzare i processi decisionali in politica. Abbiamo chiamato questo nuovo approccio "Democrazia Snel-
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In secondo luogo, per rinsaldare la fiducia nella politica, saranno necessari nuovi leader, con nuove capacità, idee, qualifiche e valori. Dovunque, la classe politica attuale, spesso discreditata, è esposta alla minaccia di outsider provenienti dai mondi degli affari, della cultura e delle realtà regionali. Analizzeremo le ragioni delle carenze di leadership e abbozzeremo le nuove figure di leader che probabilmente emergeranno in risposta alla crisi della politica.
DEMOCRAZIA "SNELLA"
La debolezza dell'attuale sistema politico è endemica e strutturale. I problemi principali sono dati da: Bassi livelli di partecipazione. I cittadini raramente sono impegnati in prima persona nel processo politico, votano solo saltuariamente in occasione delle consultazioni elettorali. Hanno pochi contatti diretti con i politici che a volte sembrano vivere in un mondo arcano e impenetrabile. Limitate possibilità di scelta. Agli elettori vengono offerte limitate possibilità di scelta tra programmi politici generici (spesso vaghi e confusi), che i partiti, una volta in carica, abbandonano. Come consumatori, godiamo di possibilità di scelta sempre più ampie e di politiche di commercializzazione sempre più sofisticate. Come elettori, dobbiamo subire le scelte politiche dei partiti, che mantengono il proprio
monopolio sul mercato delle strategie politiche. Scarsi risultati. La politica è generalmente considerata inefficace. Anche quando i politici fanno delle promesse, è raro che le mantengano. Questi fallimenti del sistema politico emergono principalmente dal cuore del sistema stesso: il concetto fondamentale della rappresentatività politica, il collegamento tra governanti e governati. Eleggiamo i nostri rappresentanti, e trasferiamo loro il nostro potere politico perché governino per nostro conto. Tuttavia, è proprio la concentrazione del potere politico nelle mani dei rappresentanti a sollevare molti dei problemi del sistema politico. Questo sistema concentra il potere nelle mani dei massimi vertici della classe politica che, successivamente, tentano di raggiungere un impressionante insieme di obiettivi per conto della società. Ma, spesso i politici sono scarsamente preparati per raggiungere tali obiettivi, e gli strumenti per la verifica del loro operato sono carenti. Il parlamento è una sede inadeguata per i dibattiti, e rappresenta un canale ancora più inadeguato per la messa a punto di nuove idee. È giunto il momento di correggere, in maniera radicale, questa concezione della democrazia rappresentativa, troppo legata a un rapporto politico frammentario.
L'ORGANIZZAZIONE "SNELLA"
Abbiamo tratto i principi di base della democrazia «snella7 dalle idee sviluppate nel settore privato per trasformare e rivitalizzare le aziende poco competitive. Le migliori aziende sono fiere delle loro tecniche produttive "snelle", il sistema politico dovrebbe seguire la stessa strada. Abbiamo suddiviso le caratteristiche di una organizzazione "snella" in sei gruppi principali: I. Obiettivi: un'organizzazione "snella" concentra naturalmente la propria attenzione sugli obiettivi e sulle tecnologie fondamentali, e su quei prodotti che ne determinano la posizione concorrenziale. Queste organizzazioni si orientano verso le attività che possono realizzare con la massima produttività e i massimi profitti. Conseguentemente, sono in grado di stabilire obiettivi precisi e di assegnare le relative responsabilità; puntando ad eliminare la confusione, le sovrapposizioni e le duplicazioni. 2. Cultura: le organizzazioni "snelle" sono dirette. Ossia reagiscono con rapidità grazie alla rimozione del massimo numero possibile di ostacoli burocratici che si frappongono tra i clienti, le linee di produzione e i fornitori. Le organizzazioni snelle adottano anche un approccio diretto al rapporto tra remunerazione dei fattori e rendimento. Se gli obiettivi sono quantificabili, le aziende potranno anche misurare il 13
rendimento dei dipendenti. I premi di produzione e le promozioni sono ancorati al rendimento, piuttosto che all'anzianità di servizio: il sistema delle carriere è meritocratico. Le organizzazioni "snelle" dedicano costante attenzione ai rapporti con l'esterno. Aperte e permeabili, esse basano le proprie scelte sulle preferenze dei clienti. Riconoscono la propria dipendenza dall'esterno, dai subappalti, dai fornitori e dai collaboratori, per servizi e idee al di fuori delle proprie aree di competenza diretta. In particolare, nel settore dell'alta tecnologia, le organizzazioni "snelle" riconoscono che, stringendo alleanze di cooperazione con altre aziende, possono mettersi in grado di gestire tecnologie sempre pRi complesse. Struttura: le aziende "snelle" devono costantemente ristrutturarsi per soddisfare le dinamiche domande dei consumatori, e mantenersi al passo con le tecnologie in costante evoluzione. Queste aziende hanno ridotte strutture gerarchiche e tendono ad affidarsi a squadre di tecnici che raccolgono elementi provenienti da una vasta gamma di discipline. Sono caratterizzate dalla flessibilità e dal lavoro di squadra. Competenze tecniche: le organizzazioni "snelle" hanno un elevato grado di specializzazione. Queste organizzazioni si concentrano sulle specializzazioni di base, mentre i loro componenti devono avere competenze tecni14
che diversificate. L'azienda sperimenta, sviluppa e rinnova di continuo il suo patrimonio di competenze specialistiche. Produzione: le organizzazioni "snelle" rafforzano di continuo la posizione acquisita in campo commerciale, e garantiscono la propria sopravvivenza realizzando prodotti di alta qualità fin dalle prime fasi. Queste aziende sono caratterizzate da bassi livelli di spreco di tempo, di energia, di qualifiche e di materiali. Si muovono rapidamente e si rinnovano, con la costante messa a punto di nuove idee che trovano immediata applicazione. Sviluppano un alto livello di fedeltà da parte dei clienti, e sono in grado di attrarre personale di elevata qualità. Queste cinque caratteristiche dimostrano chiaramente per quali motivi il sistema politico, che ha pochi tratti in comune con le organizzazioni snelle sia in declino. Il sistema politico cambia orientamento di continuo spesso in base a una visione distorta. Mentre le organizzazioni snelle si concentrano esclusivamente sulle questioni prioritane, il sistema politico, di norma, si concentra sugli obiettivi immediati. Il sistema politico tenta di affrontare tutte le questioni, dalla gestione delle famiglie alla regolamentazione del sistema commerciale mondiale. Nessuna organizzazione del settore privato tenterebbe, ragionevolmente, di perseguire una simile moltitudine di obiet-
tivi. E, considerato che il sistema politico adotta questo approccio, non è chiaro a chi siano affidate le responsabilità per le sue attività, probabilmente a qualche punto indefinito delle complesse strutture ministeriali e della pubblica amministrazione. Il sistema politico ha una cultura fondamentalmente indiretta. Molti livelli di burocrazia politica e amministrativa separano i clienti (cittadini) dai produttori (detentori del potere). Al contrario, le aziende snelle lavorano in base a programmi produttivi "just in time", producendo solo in base agli ordinativi e solo le quantità necessarie, il sistema politico lavora con un programma "just-get-by", vale a dire producendo decisioni solo quando è mevitabilmente costretto a farlo. Il sistema politico ha una cultura chiusa, riservata. I politici concentrano la propria attenzione principalmente sui colleghi, sui battibecchi di partito spesso interni. I componenti di queste strutture vengono spesso promossi in base a criteri di anzianità, con voti clientelari e appoggi di varia natura, piuttosto che in base al rendimento. Le migliori aziende "snelle" si basano su una cultura del servizio; la politica, in particolare a Westminster, ha una cultura basata sull'arroganza e sull'isolazionismo. Le procedure e le prassi politiche sono state ereditate dal secolo scorso. Le organizzazioni "snelle" sono orizzontali, e si basano sui lavoro di squadra; la
politica è gerarchica e antagonista, costituita da strati sovrapposti di ministri e segretari privati, dalla mentalità marcatamente arrivista, contrapposti ad altrettanti strati di rappresentanti dell'opposizione. La politica è chiusa e riservata. È difficile individuare chi e come prende le decisioni. Il sistema è stagno rispetto alle idee e ai contributi di organismi esterni. Non esiste un percorso di formazione ufficiale per quella che è divenuta, a tutti gli effetti, una professione: gran parte dei politici diventano professionisti della politica in maniera improvvisata. I politici prendono decisioni che influiscono su tutti gli aspetti delle nostre vite, eppure molti di essi hanno limitate esperienze di lavoro al di fuori della politica stessa. Essi dedicano gran parte della propria vita a curare le proprie carriere in un ambito culturale che gran parte della gente comune considera incomprensibile e noioso. I politici, nel migliore dei casi, hanno una formazione carente. Non dovrebbe quindi sorprendere il fatto che il contributo del sistema politico è spesso di bassa qualità, con elevati livelli di spreco (sia di tempo, in dibattiti parlamentari inutili, che di energie umane, in particolare per quanto riguarda il ruolo dei deputati ordinari). Il mondo politico si rivela lento e poco creativo nell'adozione di nuovi metodi per la discussione dei problemi, nella produzione di idee e nel coinvolgimento degli elettori. Il r 1 7 15
sultato è che questo sistema si trova di fronte alla crescente delusione dei consumatori (cittadini) e incontra difficoltà nell'attrarre risorse qualificate. In sostanza, mentre le migliori organizzazioni "snelle" sono in grado di rinnovarsi per sopravvivere, la legittimazione e il ruolo del sistema politico sono in declino.
RAPPRESENTANZA: IL NODO CENTRALE
Molti dei fallimenti del sistema politiCO SOflO originati dal ruolo cruciale assegnato ai rappresentanti politici, che rappresentano il potere politico del popolo. Di fronte a decisioni su questioni di importanza nazionale (es.: se il Trattato di Maastricht debba essere ratificato o meno, se sarebbe opportuno inviare più truppe in Bosnia), il popolo non può votare. I rappresentanti che vengono quindi delegati dal popolo dovrebbero essere così qualificati e così lungimiranti da poter sovrintendere a tutti gli aspetti delle attività dello Stato. Negli intervalli tra le consultazioni elettorali, sono pochi i meccanismi per la verifica dell'operato dei rappresentanti. Le indagini delle pubblicazioni scandalistiche sulle vite private dei maggiori uomini politici appaiono come il metodo migliore per sollecitare cambiamenti nei vertici. Con la rottura dei legami tra i politici e l'elettorato, i difensori dello status quo si sono fatti ancora più agguerriti 16
nella difesa dei meccanismi che consentono agli elettori di votare periodicamente per eleggere i rappresentanti ai quali devolvono virtualmente tutti i propri poteri politici formali. Essi sollevano molte obiezioni a una eventuale riforma, tutte inconsistenti. Vediamone alcune. Obiezione: dare agli elettori la possibilità di votare più spesso rappresenterebbe un ostacolo e una perdita di tempo. Risposta: questa affermazione non è più sostenibile. I produttori e i distributori che operano in base a sistemi di produzione "just-in-time" hanno sviluppato sistemi informatici avanzatissimi per seguire in tempo reale gli andamenti delle preferenze dei consumatori e tradurle in produzione. Il sistema politico verifica le preferenze solo occasionalmente; il settore privato le segue costantemente. Se il sistema politico adottasse la tecnologia del settore privato, si metterebbe in grado di rispondere alle preferenze degli elettori in maniera molto migliore. Se il sistema ambisce a garantire che le scelte dei cittadini siano basate sulla riflessione e s ull' informazione, i metodi per ottenere questi risultati sarebbero molteplici. Quando gli elettori erano posti di fronte alla scelta tra tutte le ideologie esistenti, presentate dai partiti, le elezioni periodiche potevano (verosimilmente) soddisfare le possibilità reali di scelta offerte al popolo. Ma, sempre di
più, a seguito della caduta delle ideologie, quello che gli elettori vogliono sono soluzioni ragionevoli per affrontare questioni complesse. Non vi è ragione perché questi dibattiti, su questioni specifiche, non possano essere tenuti più frequentemente, in maniera aperta e diretta. Obiezione attualmente votiamo per dei partiti che ambiscono a conquistare il potere a livello governativo o di amministrazione locale. Consultazioni ripetute risulterebbero estremamente destabilizzanti per il governo. Risposta: se avessimo la possibilità di esprimere il nostro voto sulle questioni pratiche, e non solo sui partiti, allora l'impatto destabilizzante delle consultazioni più frequenti sarebbe molto ridotto, in quanto i partiti potrebbero restare al potere anche a fronte di variazioni nelle preferenze degli elettori riguardo a questioni specifiche. Obiezione i rappresentanti sono più qualificati, informati e specializzati nella gestione di complesse decisioni politiche. Questo è il motivo per il quale gli elettori demandano ad essi il proprio potere politico. Risposta: questo è vero, ma solo in parte. Se è vero che molti deputati sono esperti di alcuni settori della politica, pochi sono quelli esperti di questioni generali, e gran parte delle conoscenze tecniche in merito alle questioni complesse viene reperita nella pubblica amministrazione, nel mondo accademico, nei think tank o nel set-
tore privato. È necessario trovare una formula migliore per combinare la democrazia e le conoscenze degli esperti. Obiezione i dibattiti tra i rappresentanti politici nelle sedi istituzionali rappresentano la migliore combinazione possibile tra democrazia e processi decisionali. Risposta: l'esplosione dei media negli ultimi tre decenni ha posto quasi sullo sesso piano l'importanza delle camere e delle strutture amministrative locali, e quella dei dibattiti che si svolgono negli studi televisivi e radiofonici, spesso con la partecipazione telefonica del pubblico. A questi si aggiungeranno presto altre forme di dibattito elettroniche. La convinzione del fatto che una assemblea di rappresentanti politici costituisca il miglior metodo democratico per i dibattiti politici risale ai tempi in cui l'unico mezzo di comunicazione di massa era offerto dalle grandi adunanze. Nell'era delle videoconferenze, dei dibattiti via posta elettronica su rete Internet e dei sondaggi telefonici, il concetto democratico dell'assemblea unica appare sempre più arcano e antiquato. La rappresentanza è il concetto chiave della democrazia moderna, l'anello di congiunzione tra il popolo e l'esercizio del potere. La fiducia nella politica è in declino proprio perché la fiducia in questo concetto cruciale sta diminuendo. Se questo anello non verrà ripristinato, sarà impossibile rivitalizzare la politica. 17
Questo modello di democrazia «snella" contiene gli strumenti per rivitalizzare il sistema politico e offre una combinazione di processi decisionali più efficaci, di scelte politiche più creative e di maggiore coinvolgimento democratico. La democrazia "snella" si basa su due elementi fondamentali. In primo luogo, una nuova suddivisione delle funzioni proprie della leadership, basata sulla suddivisione delle funzioni del sistema politico nelle loro componenti. In secondo luogo, la creazione di una corrispondenza tra questa nuova suddivisione delle funzioni e i nuovi canali della trasparenza democratica.
LA NUOVA RIPARTIZIONE DELLE FUNZIONI
I sistemi politici dovranno sviluppare metodi più efficaci per raggiungere gli obiettivi fondamentali: la messa a punto di efficaci decisioni politiche mantenendo la trasparenza democratica. Questo può essere realizzato se le funzioni principali della leadership politica verranno distinte tra loro, segmentate, analizzate e quindi assegnate all'organismo appropriato. Alcuni di questi processi comportano la stesura di una costituzione scritta, e una struttura politica basata molto più sulle regole e su diritti definiti in maniera chiara. Tuttavia, queste sono condizioni necessarie, ma non sufficienti. Molti elementi della nuova ripartizio18
ne delle funzioni della leadership possono già essere evidenziati. - Gli obiettivi di lungo periodo, in particolare nella gestione dell'economia, non possono essere affrontati al meglio dai politici, in quanto questi si pongono obiettivi di breve periodo, dominati dalle esigenze del ciclo elettorale. Questo è il motivo per il quale è bene che la gestione della politica monetaria sia delegata a una banca centrale indipendente, dotata di uno staff nominato assunto e formato in modo specifico, e che risponda a un parlamento eletto democraticamente. Una banca centrale indipendente, con incarichi specifici, il cui operato risulterebbe più facilmente verificabile dall'elettorato attraverso revisioni, interrogazioni, commissioni e relazioni sulle politiche adottate, rilasciate a intervalli regolari dai vertici della struttura. - La protezione degli interessi dei consumatori in ampi settori dell'economia può essere garantita al meglio da elementi indipendenti, nominati dall'esecutivo. Questo garantirebbe una adeguata ripartizione delle responsabilità, e permetterebbe di evitare i conflitti di interesse che si verificano quando il governo è al tempo stesso titolare, azionista e amministratore di un comparto produttivo. Tuttavia, le procedure democratiche che rendono gli amministratori direttamente responsabili del proprio operato sono a loro volta poco sviluppate. Dovrebbe-
ro essere introdotte soluzioni a disposizione delle associazioni di consumatori, come i referendum propositivi e le consultazioni. - La gestione di grandi parti del settore dei servizi pubblici, senza esclusioni, dagli organismi previdenziali al rilascio dei libretti di circolazione, può essere vantaggiosamente affidata a manager che operino in base a criteri semi-privatistici. Il governo potrà mettere a punto procedure per la valutazione del rendimento, ma l'attività di gestione resterebbe affidata ai manager. Questo solleva pesanti interrogativi su come l'operato di questi manager di enti privatizzati o indipendenti possa essere costantemente sottoposto a verifica. Idealmente, ai fruitori dei servizi dovrebbero essere assegnati precisi poteri di rimozione dei vertici. Le idee, in politica, provengono in misura sempre minore dalla pubblica amministrazione o dalle strutture di partito. Il lavoro di queste ultime deve quindi essere integrato da un crescente ricorso alle commissioni ad hoc e alle task force, strumenti utilizzati comunemente dalle aziende e che sono frequenti negli USA ma piuttosto rari in Gran Bretagna. Il sistema politico dovrà imitare il comportamento delle aziende migliori, mettendo assieme squadre che combinino al proprio interno una varietà di qualifiche professionali, e ricorrano spesso ad accordi di joint venture con le aziende con-
correnti per affrontare progetti specifici come quelli per la messa a punto di un nuovo prodotto (una nuova politica per l'istruzione, Europa, Irlanda del Nord). Le nuove aziende stanno imparando ad affidarsi a una vasta gamma di idee e risorse, sia interne che esterne. La classe politica dovrebbe fare altrettanto, sollecitando i partiti affinchè questi inaugurino autonomamente delle task force politiche miste nei settori in cui esistono evidenti comunanze di interessi e di posizioni. - Le questioni morali e personali possono essere meglio affrontate al di fuori dei contesti spesso poco aggiornati dei dibattiti politici tra partiti. Questi sistemi appaiono ripiegati su loro stessi, troppo legati alle valutazioni dell'elettorato per poter affrontare le sottigliezze e le difficoltà delle questioni morali. Al contrario, le commissioni speciali, i dibattiti aperti e il sistema giudiziario rappresentano metodi migliori per decidere in materia. - I parlamenti dovrebbero concentrare la propria attenzione sulle questioni di importanza cruciale, e affidare i processi decisionali più specifici a sotto-commissioni. Una dimostrazione di questo problema è data dal sovraccarico dell'attività parlamentare. Per forzare il passaggio dei provvedimenti si ricorre sempre più spesso a metodi drastici. Ma questo è solo un sintomo del vero problema: queste istituzioni monolitiche e sovraccariche rappresentano ormai delle strozzature dei 19
processi decisionali, e sono oltretutto inadatte a fronteggiare la situazione attuale. Questa nuova ripartizione delle funzioni assegna un ruolo diverso al sistema politico dei partiti. Il parlamento dovrebbe rappresentare l'equivalente di una efficiente holding, o di una direzione generale. Il suo compito è quello di regolamentare l'attività degli organismi ai quali sono delegate le funzioni operative. Il lavoro della direzione è quello di reclutare le persone giuste per la gestione degli organismi, assegnare loro gli obiettivi adeguati, valutare e premiare il loro rendimento e, se necessario, modificare le strutture. Alcuni elementi delle tradizionali funzioni dei politici sono stati trasferiti alle banche centrali, ai legislatori, ai manager e agli esperti nella scelta delle politiche. Tutte queste funzioni hanno correntemente implicazioni politiche, e dovrebbero quindi essere dotate di adeguati canali che garantiscano la trasparenza democratica riguardo all'operato dei singoli. Se una simile ripartizione delle funzioni dovesse emergere per rispondere alla vastità e alla complessità delle responsabilità assegnate al sistema politico, quale ruolo resterebbe ai politici? Ancora una volta, i politici dovrebbero trarre insegnamento dalle migliori soluzioni adottate nel settore delle imprese. L'obiettivo dovrebbe essere quello di concentrarsi su una gamma di funzioni ridotta e più facilmente 20
gestibile, dove gli standard di rendimento risultino più chiari e le possibilità di successo più elevate. Il ruolo dei politici comprenderà: - Fornitura dei servizi e veicolazione dei messaggi per conto degli elettori, migliorando le possibilità, per questi ultimi, di accedere alle procedure burocratiche e agli altri centri di potere. La funzione basilare dei politici, in particolare dei deputati ordinari, è quella di esercitare attività di lobby per conto degli elettori, grazie alla conoscenza dei metodi per esercitare pressione sulle burocrazie - locali, centrali ed europee -, per ottenere concessioni e risorse. - Risoluzione dei conflitti di competenza tra i diversi centri di potere. Il processo legislativo dovrebbe stabilire gli esatti limiti nell'ambito dei quali altri centri di potere, come la pubblica amministrazione e le banche centrali, dovrebbero operare. - Supervisione dei poteri esecutivi nelle aree in cui gli altri meccanismi per garantire la trasparenza dell'operato falliscono, utilizzando come strumenti specifici commissioni selezionate e allargate. Queste sono alcune delle funzioni dei politici di livello medio, eletti a livello nazionale. Ma esiste ancora un'altra funzione per coloro che si trovano ai vertici della politica. I governi hanno bisogno di una valida conduzione, della fissazione delle priorità e della motivazione delle persone coinvolte.
Hanno bisogno di persone che, come Jack Welch della Generai Electric, si concentrino esclusivamente sugli obiettivi strategici fondamentali, senza esitazioni. Ma, in qualità di governi, essi hanno anche il compito più articolato di mettere a punto un quadro di valori e di interventi per gli altri organismi non governativi. Questa funzione è composta da molti elementi: - La capacità di comunicare è più importante di quella di produrre nuove idee. I leader validi devono assicurarsi che le idee valide emergano, e devono essere in grado di scegliere tra esse; non è necessario che queste idee provengano direttamente dai leader. - Il leader dovrebbe essere in grado di identificare e proporre all'elettorato le questioni fondamentali e quelle marginali. Il leader dovrebbe contribuire all'individuazione delle priorità e delle possibili alternative, e di articolare le scelte che devono essere fatte. La funzione del leader è quella di scegliere e di decidere su questioni complesse. - Il leader dovrebbe essere in grado di dare forma alla struttura complessiva e agli obiettivi della società e del sistema politico, non monopolizzando il potere, ma agendo come un elemento di questo, il più visibile, lavorando a stretto contatto con molte forme diverse di potere. - Il leader, in un mondo caratterizzato da sovranità mista e da potenti organismi transnazionali, come l'UE, il
il FMI, la Banca Mondiale, l'OcsE, tutti dotati di poteri di intervento nei sistemi politici nazionali, dovrebbe essere incline al lavoro di squadra, con la condivisione di conoscenze e di potere finalizzata all'ottenimento dei risultati. Nei Paesi avanzati occidentali, le joint venture rappresentano ormai la norma, dal settore militare a quello sanitario, e l'impiego della forza o le prese di posizione unilaterali conducono a scarsi risultati. - Forse, l'obiettivo principale della leadership dovrebbe essere quello di riconoscere i propri limiti e la necessità di ricorrere a un'ampia gamma di altre risorse per il raggiungimento degli obiettivi. I leader politici validi creeranno efficaci squadre, composte da politici, elementi della pubblica amministrazione, legislatori, esperti di strategie politiche, con la giusta miscela di qualifiche per sviluppare soluzioni innovative per problemi complessi. Alcuni potrebbero appoggiare una concezione riduttiva della leadership. Per esempio che i governi debbano limitarsi quasi esclusivamente alla creazione di un solido quadro macroeconomico e microeconomico. Questa visione è in parte giusta. Ma ignora quella che probabilmente è destinata a rimanere la funzione chiave della leadership: la capacità di reagire agli impatti violenti, sia che provengano da conflitti commerciali, da epidemie o GATT,
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da guerre, e la capacità di pensare e di agire strategicamente.
Nuovi CANALI DEMOCRATICI La ripartizione delle funzioni descritta in precedenza rappresenta la soluzione non soio per rendere più efficace il sistema politico, ma anche per renderlo più democratico e aperto. Dopo avere appurato quali organismi e quali agenzie sono incaricati delle funzioni specifiche, dovrebbe risultare più semplice creare procedure democratiche su misura per rendere queste strutture responsabili del proprio operato. La democrazia «snella7 comporta uno spostamento verso un modello di governo maggiormente basato sulle funzioni, nel quale i detentori del potere siano specificamente responsabili del proprio operato nell'ambito delle proprie funzioni. L'obiettivo centrale non è quello della riforma delle leggi elettorali per il parlamento, anche se, in Gran Bretagna, in questa fase politica, saremmo favorevoli all'introduzione della rappresentanza proporzionale come strumento indispensabile per una politica più reattiva e creativa (pur riconoscendo che, nel giro di 30 anni, potremmo trovarci nella necessità di spostarci verso un sistema alquanto diverso, e per le stesse ragioni). Né si tratta di un passaggio verso una democrazia più locale e regionale, malgrado anche questo sarebbe auspicabile. Il punto
nodale è che il concetto di rappresentanza, che è al centro dei nostri sistemi democratici, è ormai superato. Sono necessari nuovi meccanismi. In primo luogo, i nostri organismi rappresentativi sono assai poco rappresentativi della società. E questo è vero in termini di sesso, gruppi etnici, classi sociali e modelli di pensiero. Le istituzioni britanniche sono particolarmente in difetto, rispetto agli standard internazionali. Per tutte le ragioni già citate, questa è anche una caratteristica generalizzata della cultura politica. Il crollo della fiducia nella rappresentanza ci riporta a un modello democratico più antico, dove le decisioni vengono demandate a organismi specifici che riflettono l'opinione pubblica: nella antica Atene questi organismi venivano composti per estrazione. Lo stesso principio è alla base del nostro sistema legale, nei processi decisi dalle giurie. Attualmente, assistiamo alla diffusione di idee simili nei contesti democratici: le giurie popolari; le giurie di utenti e consumatori per la supervisione di servizi come quello sanitario; le consultazioni deliberative; l'uso dei sondaggi di opinione come guida per le scelte politiche. Fino ad ora si è sempre trattato di strumenti consultivi (come i referendum in Gran Bretagna), e a nessuno di questi è stato assegnato un potere di grado superiore a quello legislativo. In secondo luogo, è necessario aggiungere meccanismi diretti alla democra-
zia rappresentativa. I referendum hanno avuto larga diffusione in tutto l'Occidente, in particolare per la soluzione di problemi nei settori estranei alla competenza del parlamento. Svizzera, Italia, Irlanda e molti stati USA utilizzano i referendum per varie questioni: dalle modifiche della costituzione a questioni di moralità pubblica. In Gran Bretagna, le amministrazioni locali hanno indetto decine di referendum consultivi. Sulle questioni europee, per esempio, malgrado i fedeli al vecchio sistema politico sostengano con crescente disperazione l'autorità del parlamento, vi sono elementi evidenti che testimoniano il forte consenso dell'opinione pubblica riguardo a un più ampio ricorso ai referendum. In terzo luogo è necessario un riassetto del monopolio della politica sulle istituzioni nazionali, mediante nuovi strumenti per il controllo degli organismi. Attualmente, non vi è alcun metodo per la valutazione diretta dell'operato di molti enti parastatali. Col tempo, si affermerà sicuramente una ampia gamma di procedure a disposizione di gruppi di utenti che potranno stabilirne le strutture e le politiche. La tecnologia attualmente disponibile consente un coinvolgimento interattivo nella politica molto superiore rispetto a quello corrente. Gli operatori del commercio hanno la tecnologia per monitorare in tempo reale migliaia di variazioni nelle preferenze
dei consumatori. Non vi è ragione per cui questa tecnologia non debba essere applicata in politica: una democrazia «just-in-tlme . Le possibilita democratiche di combinare tra loro la televisione, i personal computer e le autostrade informatiche sono ancora tutte da esplorare. I sondaggi televisivi su questioni specifiche, come gli aumenti delle tasse e i problemi di politica estera, potrebbero essere organizzati facilmente, con procedure che garantiscano una approfondita riflessione sulle problematiche relative. Un quarto aspetto è dato dalla necessità di sviluppare il concetto di democrazia negativa. In molti settori, i cittadini non hanno il tempo o le informazioni sufficienti per prendere decisioni specifiche, in particolare su questioni quali la nomina dei responsabili di una struttura sanitaria, o di una commissione per l'istruzione. Ma la situazione è matura per concedere loro il diritto di rimozione, quantomeno in extremis. Lo stesso vale per le grandi aziende, dove i lavoratori hanno illegittimo diritto di deporre i vertici che abbiano fallito, ma non si trovano in una condizione analoga per la nomina dei vertici stessi. Quinto aspetto: è necessario un approccio più permeabile alla politica. I processi decisionali per la scelta delle politiche dovrebbero fare più ampio ricorso alle task force, alle commissioni ad hoc che raccolgano esperti, elementi della pubblica amministrazione 23
e cittadini per la messa a punto di politiche sulle questioni più delicate. Una seconda camera riformata potrebbe avere un ruolo vitale, potrebbe essere ristrutturata completamente per accogliere una gamma molto più ampia di interessi sociali legati a organizzazioni indipendenti come il National Trust e il 'Womens Institute e a settori del mondo del lavoro. È necessario un approccio post-corporativo che consenta a una gamma molto più ampia di organizzazioni di partecipare alle scelte politiche. Sesto aspetto: alla base di una democrazia più articolata, con un numero maggiore di poteri e meccanismi, dovrà esservi una definizione più netta delle disposizioni legislative e dei diritti a disposizione dei cittadini. Una forma di costituzione scritta (preferibilmente semplice, trasparente e aperta al cambiamento) è un corollario essenziale del tipo di cambiamenti che sosteniamo. Settimo ed ultimo aspetto: è necessario un impegno molto più profondo per garantire la sincerità e l'onestà. Dovrebbero essere istituite normative più severe per la regolamentazione dei programmi elettorali dei partiti. Dovrebbe essere creata una potente commissione elettorale in grado di costringere i partiti a dettagliare i programmi contenuti nei materiali elettorali, compresi i proclami politici, attua!mente tutt'altro che onesti. La sincerità e l'integrità sono divenute due 24
qualità molto rare in politica, e non perché i politici siano personaggi negativi, ma rrché il sistema premia la disonestà. necessaria una netta inversione di tendenza.
TROVARE NUOVI LEADER ,. cc La aemocrazia sneita » , un innovazione nei modelli politici democratici, non basterà, di per sé, a rinnovare la fiducia. Anche i contenuti della politica dovranno cambiare. Un passaggio vitale di questo processo sarà garantito dall'emergere di nuovi leader, in risposta alla caduta di fiducia nei confronti della vecchia classe politica. Questi leader proverranno da aree diverse. Essendosi formati al di fuori della politica, saranno portatori di nuovi valori, proporranno idee originali con una dialettica nuova, e divulgheranno messaggi sulle condizioni effettive delle nazioni, cosa che la vecchia classe politica ha sempre evitato di fare. Alcuni potranno sostenere che la leadership non abbia importanza, che il pragmatismo e la caduta degli ideali sono necessariamente divenuti i valori dominanti. Ma la leadership, in particolare durante le fasi di incertezza, è vitale per la scelta degli obiettivi strategici delle nazioni tra la miriade di piccole questioni della politica di tutti i giorni. Il leader può allargare la visione al lungo periodo, impostare gli obiettivi e dare corpo alle ambizioni. I grandi leader hanno grandi capacità di T
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coinvolgimento; ispirano il popolo con la loro sicurezza. Sono anche preparati per affrontare scelte problematiche e difficili, in particolare quelle che comportano sacrifici per il benessere della società nel lungo periodo. Soprattutto, i leader sono indispensabili se desideriamo creare e modellare il nostro tempo, piuttosto che esserne protagonisti passivi. Tuttavia, attualmente, la leadership politica di gran parte delle società avanzate accusa fallimenti seri e sistematici. La nostra società è esposta a sei principali carenze di leadership.
EFFICACIA
I politici incontrano difficoltà nel realizzare gli obiettivi. Essi promettonò riduzioni della pressione fiscale e lotta alla criminalità, ma la criminalità e le tasse crescono. Lottano per mantenere la sterlina nell'ambito degli accordi di cambio, ma poi rinunciano. La nuova stirpe dei politici "commerciali" concentra gran parte delle proprie critiche su questa carenza di risultati, cavalcando l'onda della sfiducia nei confronti della vecchia classe politica, accusata di non mantenere mai ie promesse fatte. Questi outsider attaccano la formazione e le qualifiche dei politici, sottolineando la loro scarsa conoscenza della vita reale, e indicandoli come professionisti della lotta per il potere. I politici non raggiungono gli standard di rendimento dei leader del-
le grandi organizzazioni del settore privato. La cultura della valutazione dell'operato in base al rendimento si sta radicando profondamente nel settore privato, e si sta rapidamente estendendo al settore pubblico. I processi di privatizzazione e di decentralizzazione hanno condotto al distacco di grandi apparati dello stato, ora gestiti con criteri quasi privatistici. Questo solleva inquietanti interrogativi per i politici: quale ruolo hanno i ministri, se non quello di gestire i grandi apparati statali? Perchè gli attuali governi britannici hanno tre volte il numero dei ministri rispetto ai primi governi del dopoguerra, malgrado si siano impegnati a privatizzare gran parte dell'apparato statale? Ma non si tratta semplicemente del fatto che i processi di ristrutturazione dello stato possono essere condotti in maniera più efficace dai manager privati (o, quantomeno, da quella razza rara in cui si combinano conoscenze economiche con una chiara visione della politica e della micropolitica della pubblica amministrazione). Ai politici viene assegnato un numero sempre più ridotto di funzioni riguardanti la gestione economica, questioni che in precedenza erano di loro esclusiva competenza, e questo perché essi perseguono i propri interessi di breve termine piuttosto che gli obiettivi di lungo periodo. Una ovvia risposta a questo calo di fiducia consiste nel limitare il lavoro dei 25
politici a un gruppo più facilmente gestibile di funzioni. E questo sta gradualmente avvenendo. Come già detto in precedenza, un numero sempre maggiore di deputati ordinari, inclusi quelli dell'opposizione, oggi agiscono come semplici fornitori di servizi al proprio elettorato. Questo, se non altro, rende più semplice il compito dei deputati ordinari. Ma il compito rimane limitato alla fornitura di servizi, e non è esteso alla riforma della società. Anche le funzioni dei presidenti del consiglio e dei ministri possono essere ridefinite con facilità. Le funzioni del presidente del consiglio, per esempio, richiedono volumi enormi di tempo, solo allo scopo di preservare la sua figura di vero Capo dell'Esecutivo, con conoscenze dei meccanismi operativi dell'intero governo. Un ruolo più somigliante a quello di un capo d'azienda, che stabilisca le strategie, i valori e gli obiettivi generali, e che rivesta perfino le funzioni di ambasciatore morale, avrebbe molto più senso. Lo stesso vale per i ministri che gestiscono grandi apparati dello stato, mentre il ruolo di ministro junior potrebbe essere facilmente abolito, o convertito in un pubblico apprendistato. MORALITÀ La seconda carenza consiste nell'incapacità dei politici di dare articolazione ai valori, e di definire con esattezza il 26
confine tra il lecito e l'illecito. In tutto l'occidente, i nostri sensi vengono bombardati da immagini finalizzate a provocare sdegno morale: le uccisioni in Bosnia, la persone anziane private dell'assistenza sanitaria. Ma la politica non riesce a dare una risposta immediata a questi problemi. È sempre più difficile individuare un coerente sistema di valori che possano guidare le nostre risposte politiche. Le diversità culturali e la complessità sociale impediscono di fondare il governo su basi di solidarietà morale. Il crollo delle ideologie tradizionali ha ridotto il loro ruolo di sorgente di valori morali. Nel passato, i politici garantivano una leadership morale sulla base di potenti ideologie e della fiducia in se stessi, come nel caso di Churchill, Thatcher, De Gaulle, Kennedy, Gladstone e Bevan. Tutti questi leader riuscivano semplicemente a combinare la voce politica del compromesso e del realismo con la voce morale della certezza. Ma questi leader sono una sparuta minoranza. Mentre il mondo affronta vaste e complesse questioni morali, i politici appaiono limitati, interessati esclusivamente a promuovere le proprie ambizioni personali, incapaci di puntare a obiettivi più elevati. In Italia e nell'Europa dell'Est, il malessere morale ha guidato la rivoluzione politica, la rimozione di ampie aree del sistema politico e della classe che al suo interno ha prosperato. Non è casuale che in queste aree il popolo si
sia rivolto a elementi estranei alla politica per ripulire lo stato. Romanzieri, commediografi e liutai hanno condotto la rivoluzione nell'Europa orientale; pubblici ministeri indipendenti, ex responsabili della banca centrale e ora grandi uomini d'affari, hanno condotto quella italiana. Ma questi sono solo i casi estremi. Tutte le società occidentali stanno sperimentando una sorta di svolta morale che né la Chiesa né gli uomini politici sono in grado di gestire. Questo aumenta la possibilità che il popolo si rivolga ai leader dei settori della cultura, della religione e del mondo economico.
RAPPRESENTANZA
La terza carenza è nella capacità di rappresentare. L'argomentazione basilare che i politici sostengono è quella di ess&e i rappresentanti del popolo. Questa concezione si basa su due elementi. In primo luogo, i leader possono rappresentare gli elettori grazie alle proprie qualità personali: essi hanno in comune con gli elettori la stessa formazione, le stesse vedute e gli stessi valori. Questo legame ha consolidato la fedeltà politica, in particolare, forse, nell'elettorato tradizionale della piccola borghesia e delle classi operaie. In secondo luogo, le procedure democratiche formali in base alle quali i politici vengono selezionati come candidati
e poi eletti, li rendono rappresentativi del popoio. Questo vitale legame tra i governanti e i governati si sta assottigliando. La crescente diversificazione della società ha fatto sì che i tradizionali elettorati formati dalle "classi lavoratrici" o dagli "elettori locali" rappresentino ora l'eccezione piuttosto che la regola. Nei centri metropolitani (e dentro ciascuno di noi) esistono ruoli e identità in contraddizione tra loro, spesso molto antichi, che comportano esigenze e doveri contrastanti. Le nostre città ospitano grandi enclave di vita tradizionale, assieme a modelli di vita alternativi di origine borghese. Le élite cosmopolite dei responsabili della p0litica hanno difficoltà nel comprendere e rappresentare le pressioni e le emozioni della vita di tutti i giorni. E, considerato che sia la classe borghese che la classe operaia hanno perso gran parte della propria omogeneità culturale, i segnali che trasmettono sono oggi assai più difficili da decifrare. Alla luce di questa diversificazione, è sempre più essenziale che i leader nazionali si distacchino da elettorati specifici, e che mettano a punto programmi rivolti a una ampia gamma di gruppi sociali. Naturalmente, per i politici non è una novità essere costretti a mettere insieme coalizioni di interessi precostituiti, sia all'interno che all'esterno dei propri partiti. Ma ora essi devono affrontare un nuovo problema: quello di tenersi a galla in 27
un mutevole collage, fatto di frammenti, modelli di pensiero e tendenze, che appaiono e scompaiono di continuo. Nelle democrazie liberali, i leader devono fare i conti con un elettorato fluido, complesso, privo di radici e mutevole, un elettorato cresciuto nell'era del telecomando, abituato a vedere le proprie preferenze tradotte in scelte e azioni semplicemente premendo un tasto. Un leader politico intrappolato nella sua identificazione con una classe, una regione o un modello di pensiero, non potrà essere in grado di tenere il passo con questi cambiamenti. Molti politici rispondono a questo stato di cose con una vaghezza universale, rimuovendo le "forme negative" dal linguaggio della comunicazione politica. Ma, nel lungo termine, questo non rappresenta una scappatoia. La gran parte degli elettori giudicherà i leader nazionali in base alloro rendimento e ai risultati ottenuti, una base molto più instabile in termini di fedeltà politica rispetto all'identificazione con il personaggio politico e con le sue vedute. L'identificazione con un'elettorato specifico non ha perso di importanza, ma la natura di questa idehtificazione è cambiata. Particolari settori dell'elettorato, raggruppati attorno a istanze regionali, etniche o religiose, sceglieranno di farsi rappresentare da leader che provengono dai propri contesti di appartenenza. Questi leader, infatti,
vantano una maggiore autenticità proprio in base a questa profonda identificazione. Il loro impegno specifico si gnifica che gli elettori possono fidarsi di loro, almeno in parte, perché questi leader non aspirano alla leadership nazionale, e quindi eviteranno tutti i compromessi e i cambiamenti che tale leadership implicherebbe.
CULTURA
La quarta carenza della leadership è culturale. La cultura del mondo politico è divisa da quella degli altri mondi non politici da una spaccatura sempre più ampia. La politica si basa essenzialmente sulla comunicazione di idee, scelte e decisioni, tra governanti e governati. Il fondamento è la costruzione di una dialettica che risulti sensata per il popolo: che racchiuda le identità, le aspirazioni e i timori dei singoli, e le scelte politiche corrispondenti. Eppure, è proprio in questi compiti basilari che i politici sembrano essere, a volte, particolarmente carenti. Gran parte della cultura politica è superata. I leader politici, in particolare quelli della sinistra, hanno sempre avuto grandi capacità oratorie, come, nel recente passato, Neil Kinnock, famoso per la sua capacità di rivolgersi alle grandi adunate di massa, di reclutare le truppe per le battaglie. Il grande concentramento high tech dei la-
buristi, tenutosi a Sheffield durante l'ultima consultazione elettorale, rappresenta l'esempio più estremo. Malgrado siano state impiegate molte delle più recenti tecniche video e di costruzione dell'immagine, si è trattato essenzialmente di una tradizionale adunata dove le masse si sono riunite per ascoltare le capacità oratorie del proprio leader. Anche a destra, i discorsi di Major alle conferenze di tipo tradizionale vengono considerati come un test chiave della sua immagine politica, una piattaforma per 1e sue idee. Quando non è puramente oratorio, lo stile della Camera dei Comuni ricorda molto da vicino quello dei circoli intellettuali delle università di élite, come Oxford e Cambridge. Il sistema politico, nelle sue attività istituzionali, si affida a una cultura scritta: documenti interminabili, risoluzioni e rapporti, molti dei quali ufficialmente dichiarati segreti o resi tali dal particolare linguaggio adottato. Solo una piccola parte di questi documenti viene letta dagli elettori, anche quando i materiali vengono resi pubblici. Tuttavia, in occasione delle consultazioni elettorali, i politici sono soggetti a cambiamenti improvvisi, nel tentativo di riprendere i contatti con la realtà oggettiva. Gli esperti di relazioni pubbliche e i costruttori di immagine che circondano i leader comprendono che il potere non è più legato al tamburo di una pistola, o ai risultati delle urne,
ma all'angolazione della telecamera e a una accurata messa a fuoco. Quindi, con ritardo, la politica tenta di mettersi al passo con una cultura che è crescentemente tecnologica, basata sui computer, i video e i compact disc nei quali le immagini e i suoni si combinano. Ma, come è stato suggerito dallo psicologo americano Howard Gardner, il successo della comunicazione politica nella società moderna deve affrontare anche altri ostacoli. Negli ultimi anni di questo secolo, due fattori congiunti hanno reso più difficile, per i politici, mettere a punto una dialettica accattivante: argomentazioni sensate su come la politica possa proteggere la gente o farsi portavoce dei suoi interessi e valori. Uno di questi fattori è la crescente eterogeneità delle società composte da una molteplicità di culture, professioni, aspirazioni e modelli di vita. È molto improbabile che questi settori possano trovare comunanze di immagini e metafore come le immagini bibliche, che rappresentavano nel passato una potente fonte di ispirazione per la retorica politica. Di conseguenza, la retorica politica si è fatta più bianda, più simile a un inoffensivo minimo denominatore comune che a una sorgente di ispirazione. Il secondo fattore è il professionismo nella politica. Quando i politici trascorrono intere carriere nell'ambito della politica, è improbabile che possano aver imparato il linguaggio e gli 29
stili di vita dei propri elettori. La carenza di esperienze dirette della vita lavorativa e familiare di milioni di persone, impedisce ai politici di mettere a punto una dialettica adeguata. I politici, essenzialmente, si staccano dal quotidiano, chiusi tra la routine parlamentare, le apparizioni sui media e i pettegolezzi. Se si escludono i ricongiungimenti in extremis con l'elettorato, o i rari incontri diretti con gli elettori, pochi riescono a trovare il tempo per "ricucire" la base elettorale, a parte i dati di seconda mano tratti dai media, che sono spesso isolati almeno quanto i politici.
IDEE
Il crollo della fiducia nelle ideologie e nella loro capacità di diagnosi, di spiegazione dei fenomeni e di guida all'azione, fa sì che sia molto più raro che i politici vadano al potere con un limpido sistema di idee. Eppure gli elettori, i commentatori e gli intervistatori dei media continuano a chiedere "quale è la sua posizione? per cosa intende battersi?". Noi vogliamo che i politici abbiano certezze e principi, che siano degni della fiducia che riponiamo in loro, eppure vogliamo anche che siano inclini ai cambiamenti imposti dalle pressioni contingenti, che sviluppino nuove idee senza ostinarsi inutilmente. Vogliamo che i politici affrontino una vastissima gamma di situazioni complesse e in rapida 30
evoluzione, per esempio negli affari esteri, e al tempo stesso risolvano problemi endemici e profondamente radicati, come la riforma dello stato assistenziale. Entrambi questi ruoli richiedono lo sviluppo di nuove idee. Eppure, quando i politici presentano effettivamente idee nuove, vengono spesso esposti ad attacchi interni e provenienti dall'opposizione. Vogliamo politici solidi, che siano in grado di offrire esposizioni coerenti, magari come i discorsi di tre ore che rapprésentavano la norma nell'era di Gladstone o di Lincoln; eppure, nella pratica, gran parte della gente preferisce la politica frammentata in esposizioni brevissime, e si aspetta che un politico sia in grado di spiegare le politiche del Medio Oriente, o la riforma dello stato assistenziale, in meno di 2 minuti. I politici interessati a ottenere il potere faranno meglio e tenersi non soio alla larga dalle ideologie, ma a evitare in assoluto anche le idee. La recente strategia del partito laburista non è consistita tanto nell'abbandono delle ideologie socialiste quanto, piuttosto, nell'abbandono delle idee in assoluto, e nella promozione di una cultura nell'ambito della quale, paradossalmente, i leader dell'opposizione si sentono meno a loro agio nel discutere le idee, e appaiono meno decisi nella sfida dei poteri e dei convincimenti più radicati, rispetto alla controparte governativa. Questo indica l'esistenza di un proble-
ma molto più profondo nella relazione tra il processo politico e la generazione di idee da applicare alle scelte politiche. I partiti politici non hanno le risorse intellettuali per valutare in maniera creativa una vasta gamma di possibili scelte politiche. Le migliori idee, attualmente, provengono da ambienti esterni alla politica. La ridotta presenza di ideologie rigide ha reso più libero il mercato delle idee. Un'idea sviluppata in un ambito specifico può essere facilmente reinterpretata e applicata in un ambito differente. Ne segue una concezione alquanto diversa della leadership. Nel vecchio modello, il leader impostava una precisa procedura politica e ideologica e gli altri (come i dipartimenti interni di ricerca dei partiti o i portavoce), si occupavano di riempire gli spazi vuoti. Oggi, in presenza di un pluralismo di idee molto più ampio, i migliori leader sono quelli aperti : quelli che non predicano la certezza, ma piuttosto si presentano come individui dotati di capacità sufficienti per assorbire idee complesse e dare loro forma. Nell'era della vaghezza, forse avremmo necessità di leader che non sentano più il bisogno di avere una risposta per tutto. Per questi leader potrebbe rivelarsi preferibile dimostrare la capacità di porre bene le domande, per poi comunicare le migliori risposte. Cosa comportano queste cinque carenze? Certamente, non una semplice
constatazione del fallimento della politica, e dell'esistenza della corruzione e del tradimento. Piuttosto, dimostrano che i politici si trovano ad affrontare richieste confuse e contraddittorie da parte di un elettorato più complesso e articolato. Dai nostri politici ci attendiamo la capacità di interpretare una incredibile varietà di ruoli, a volte in qualità di custodi delle certezze, dei principi e della guida morale, e altre in qualità di negoziatori determinati e pragmatici. Condanniamo la loro mediocrità, le loro scarse capacità, eppure approviamo e apprezziamo l'implacabile esame delle loro vite e del loro rendimento a cui li sottopongono i media, che spinge molte persone ad allontanarsi dalla politica per trovare altre occupazioni. I fallimenti dei nostri politici sono semplicemente un riflesso del malessere profondo della società, della sua mancanza di consenso e di fiducia attorno a una vasta gamma di questioni politiche. Abbiamo trasferito sui politici le nostre ansietà, insicurezze e dubbi; noi li condanniamo perché failiscono nella soluzione di questioni che noi stessi non siamo in grado di risolvere. Una nuova tipologia di leader emergerà in tutte le democrazie avanzate. Vi sarà un cambiamento, radicale o graduale, del percorso di formazione dei leader, del tragitto che dovranno percorrere per diventare tali e del loro modo di comunicare con l'elettorato, 31
di legittimare il proprio ruolo e di esercitare il potere. Questi nuovi leader emergeranno dalla nuova tipologia di !eadership politica, che si sostituirà alle ormai inutili distinzioni tra sinistra e destra.
GLI OUTSIDER E LA VECCHIA CLASSE POLITICA
La nuova linea di demarcazione che si sta affermando all'interno della politica è una conseguenza del diffuso discredito della classe politica istituzionale: è la linea di demarcazione tra gli outsider e la vecchia classe politica, ossia tra coloro che basano la propria scalata al potere su credenziali non politiche e coloro che seguono lo stesso percorso in qualità di professionisti della politica. A fronte del grande discredito della classe politica, per i nuovi leader politici riformisti è vitale cercare l'appoggio popolare mostrando di essere elementi estranei al mondo della politica, di venire dal mondo della provincia e non dalla capitale, di essere radicati nei mondi non politicizzati della cultura, della comunità o delle attività economiche, piuttosto che nel mondo della politica. Questa tendenza della riforma politica affidata a leader che sono estranei al mondo politico o che con esso abbiano interrotto i rapporti, ha rappresentato la caratteristica dominante della politica democratica ne32
gli ultimi cinque anni, all'interno di una vasta gamma di contesti sociali differenti. Il movimento Forza Italia di Silvio Berlusconi e le campagne presidenziali di Ross Perot sono solo gli esempi più eclatanti dell'avvento dei personaggi estranei al mondo della politica. In Giappone, il recente riallineamento politico è nato da una rottura con il Partito Liberale Democratico, al governo, ed è stato sostenuto inizialmente da Morihiro Hosokawa, un ex governatore regionale che ha fondato un suo partito. Anche il caso giapponese evidenzia l'ambiguità di questa polarizzazione tra outsider e vecchia classe politica. La frattura originale con il PLD è stata in parte di natura opportunistica, e la vera forza che sta dietro la coalizione riformista è Ichiro Ozawa, un rinomato esperto di questioni politiche. Anche il presidente Bili Clinton si trova a cavallo tra questi due mondi. A Washington, Clinton è un outsider che sale al potere dopo essere stato governatore di uno degli stati più piccoli, più poveri e meno in voga degli Stati Uniti. Al tempo stesso, egli è un professionista della politica da sempre, esperto di battaglie elettorali e di strategie politiche. Anche i migliori insider della politica tenteranno di presentarsi come freschi outsider. È improbabile che gli elettorati si stabilizzino in corrispondenza di uno di questi due poli. È probabile invece
che passino di continuo da un poio all'altro, in maniera più o meno improvvisa. Le principali attrattive degli outsider, la loro freschezza, la loro formazione non politica e la loro estraneità ai modelli tradizionali, rappresentano anche la causa della loro debolezza. Il loro modo di aggirare i meccanismi politici tradizionali potrebbe evidenziare una tendenza all'autoritarismo. Quello che gli outsider considerano come un ostacolo al sistema politico, da altri è considerato come uno scontro di interessi in un contesto democratico. Gli outsider potranno apparire freschi, ma sono anche sprovveduti e inesperti. Queste debolezze significano che è possibile che agli outsider si faccia ricorso solo nei periodi di grande delusione politica. In altre fasi, è probabile che l'elettorato diriga il suo appoggio verso elementi della vecchia classe politica, pragmatici ed esperti, anche se parzialmente offuscati da un passato di corruzione politica. L'Europa Orientale rappresenta l'esempio più evidente di questa ciclicità. Le prime rivoluzioni anti-comuniste furono guidate da elementi esterni, dissidenti le cui qualità morali erano garantite da estrazioni diverse: musicisti, commediografi, filosofi. Ma in molti stati dell'Europa Orientale, la vecchia !eadership politica si è ricostituita, spesso attorno ad alleanze con conservatori nazionalisti o forze religiose, ha rinnovato la propria im-
magine e ha sostituito i primi riformatori.
TECNOCRATI E POPULISTI
Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, nel 1992, sono state unanimemente considerate come uno scontro tra sinistra e destra. Un democratico rimodernato, che aveva abbracciato le teorie del libero mercato e della riforma del settore pubblico, si trovava contrapposto a un poco carismatico repubblicano. Ma vi era anche un altro confronto politico: quello tra Clinton e Gore, con il loro approccio tecnocratico e professionale alla politica, e il populista Ross Perot. Clinton e Gore offrivano programmi di riforma sanitaria e l'autostrada delle informazioni. Il grande desiderio di Perot era semplicemente quello di arrivare a Washington, il nome dell'alleanza politica di Berlusconi è stato addirittura preso a prestito dal linguaggio del calcio. L'approccio tecnocratico è la risposta diretta al declino delle ideologie. I tecnocrati vogliono convincere gli elettori della qualità delle proprie idee e della loro càpacità di mettere a punto nuove soluzioni creative per problemi complessi. La loro comprensione degli infiniti dettagli che compongono le questioni politiche più complesse è anche la fonte delle loro debolezze. Essi si esprimono in un linguaggio che non è comprensibile alla gran par33
te delle persone. Sono apparentemente insensibili, e non ispirano passioni. L'approccio populista è simmetricamente opposto, e passa sopra la classe politica. I populisti come Perot e Berlusconi parlano un linguaggio comune e sono in grado di fare leva su forti sentimenti popolari. La frequente e consapevole vaghezza di queste argomentazioni le rende difficili da contestare. Ma anche gli uomini d'affari populisti sono vulnerabili. Gran parte degli uomini d'affari di successo ha accumulato una tale rete di contatti che una indagine ravvicinata potrà spesso dare risultati spiacevoli. I
PRINCIPI CIVICI E LA POLITICA
DELL'APPARTENENZA
Politici come Vaclav Havel, il commediografo cecoslovacco, rappresentano forse gli esempi più estremi di convinti sostenitori dei principi civici del dibattito aperto, del pluralismo, delle eguali opportunità e della tolleranza. Essi ritengono che una comunità sia creata e alimentata da regole sociali razionali e riformabili, finalizzate a promuovere il pluralismo e la tolleranza, e che i leader debbano essere convinti sostenitori di questi valori. La politica dei principi civici è sempre più esposta agli attacchi della politica dell'appartenenza, che guarda alla società come a un corpo tenuto assieme da tradizioni, etnie, fedeltà e storia. Nei principi della politica dell'appar34
tenenza, il possesso di queste caratteristiche, come parlare una determinata lingua, conoscere un determinato periodo storico, appartenere a un determinato gruppo etnico, sono prerequisiti essenziali per i diritti politici. Le rivoluzioni dell'Europa Orientale hanno fatto emergere entrambi questi approcci alla politica. Havel rappresenta uno dei due poli, Milosevic l'altro. Tuttavia, questa linea di demarcazione non passa solo attraverso l'Europa Orientale. Passa attraverso la nostra stessa società, per esempio sotto forma di dibattito sull'identità, le tradizioni e la correttezza politica della Gran Bretagna. Questa distinzione tra una politica democratica e aperta e una politica chiusa basata su distinzioni etniche e tradizioni mette in luce tre distinzioni ulteriori. Tutti i leader politici dovranno affidarsi alle coalizioni sociali. Le loro figure saranno definite dai caratteri distintivi di queste coalizioni. A uno dei due estremi troveremo i leader che rappresentano le coalizioni fluide e mutevoli, create per situazioni e finalità politiche specifiche, a volte da un solo leader. La "coalizione" di Berlusconi, è infatti più simile a un mutevole collage di movimenti e fazioni. All'estremo opposto troveremo i leader che si affidano a coalizioni solide, basate su un attaccamento esclusivo a una causa specifica, incarnata da un leader. La coalizione di destra di Zhi-
rinovsky rappresenta probabilmente un esempio di questo fenomeno. La seconda distinzione riguarda l'atteggiamento dei singoli leader nei confronti delle questioni internazionali. Nell'Europa Orientale, una delle distinzioni principali vede contrapposte da una parte una classe politica cittadina e riformista, di vedute cosmopolite e con orientamenti e valori di tipo occidentale, e dall'altra una leadership politica più nazionalista, chiusa e rurale, che guarda alla cooperazione con l'occidente come a un segnale di sconfitta nazionale. Questa è stata una delle distinzioni principali tra le parti contrapposte in occasione delle recenti consultazioni elettorali in Russia e in Ungheria. La terza distinzione riguarda l'atteggiamento nei confronti dell'economia mondiale. I leader cosmopoliti tendono ad appoggiare il libero mercato. Essi si trovano sempre più spesso contrapposti ai nazionalisti, che possono essere, in alternativa, oppositori del libero mercato o oppositori di forme comuni di gestione dell'economia mondiale. Questa contrapposizione è molto netta nella politica statunitense, dove la retorica di Perot contro il libero scambio ha costretto Clinton su posizioni di nazionalismo economico. Essa è molto apparente anche nei dibattiti in corso in Scandinavia sull'opportunità di entrare nella UE, nelle discussioni sull'ingresso della Svizzera nella EEA e
nelle battaglie della Francia contro il GATr. In tutti questi casi, il nodo centrale è quello della difesa di uno stile di vita nazionale in contrapposizione a un mercato unificato. Nella politica britannica, questo aspetto è molto evidente nelle sofferte discussioni sulle prospettive per la moneta unica europea.
IDENTITÀ: EVOLUZIONE O DESTINO STORICO
Come è stato evidenziato da Vincent Cable, le questioni di identità hanno conquistato un ruolo centrale in politica, portando in primo piano anche la storia, nella sua qualità di risorsa politica fondamentale. La pretesa di avere la storia dalla propria parte è vitale sia per le minoranze etniche, che presentano una storia di privazione di diritti civili e di discriminazione, che per esponenti della vecchia classe politica impegnata nella difesa dello status quo. I leader politici si distingueranno tra loro sulla base dell'approccio alla storia e all'identità della nazione. A un estremo si collocheranno coloro che considerano tale identità come malleabile e necessariamente mutevole per far fronte all'evoluzione delle circostanze. Questi politici avranno un atteggiamento radicale e critico nei confronti della storia. Un forte senso della storia nazionale va di pari passo con un forte senso di identità. Essere 35
aperti ai cambiamenti futuri significa essere aperti a una reinterpretazione della storia, essere costantemente in grado di trovare all'interno della storia nuove lezioni e caratteristiche da trasporre nel futuro. All'estremo opposto si trovano i politici che considerano la storia e l'identità come elementi chiusi e fissi. Di conseguenza, essi ritengono che lo scopo della politica sia quello di interpretare il senso di destino storico di una società. Quest'ultima tendenza è stata probabilmente evidente nella destra israeliana, che ritiene che lo stato di Israele debba compiere una missione storica per il destino degli ebrei. La politica tedesca è forse l'espressione più marcata della prima tendenza, una politica basata su un senso di identità nazionale in continua evoluzione. Anche i tecnocrati, giunti a un certo punto, avranno l'esigenza di definire il proprio atteggiamento in termini di storia nazionale, di obiettivi generali, non fosse che per paura di lasciare troppo spazio politico vuoto e a disposizione degli avversari.
IL PARTITO DI
Dio
E IL PARTITO
DELL'UOMO
Per i fedeli Musulmani, Indt'i, Ebraici e Cristiani, la religione è la fonte principale del diritto civile e penale, dei loro valori e obiettivi prioritari. La politica è di fatto uno strumento, un modo per proteggere e rafforzare que36
sto approccio. La religione viene prima della politica. All'estremo opposto troviamo i liberal-pluralisti, che danno priorità al dibattito politico e ai diritti politici. Essi non sono necessariamente laici, piuttosto ritengono che lo spazio della religione sia definito dalla politica. La politica è prioritaria, la religione esiste nello spazio ad essa assegnato dalla politica. Vi è una chiara distinzione tra gli stati che sono in qualche misura stati religiosi, come nel caso degli stati islamici integralisti (dove la religione è la fonte del diritto), e gli stati non religiosi. Una distinzione analoga si sta sviluppando nelle società avanzate. Negli Stati Uniti, in particolare, è sempre più evidente come il Partito Liberale rappresenti il Partito di Dio, il partito al quale si rivolgono tutti i devoti di qualsiasi religione, mentre il Partito Democratico è sempre più il Partito dell'uomo liberale. Molti leader tentano di aggirare questa circostanza: presentando la propria religione come un fatto personale, senza conseguenze per la struttura complessiva della propria politica. Essi si affideranno in parte al crescente potere della religione per un'approccio politico che è di fatto laico. Ma ogni passo che compiranno in questa direzione contribuirà a legittimare ulteriormente il ritorno ad un ruolo dominante della religione in politica che molti ritenevano appartenesse definitivamente al passato.
POLITICI CON PERSONALITÀ E POLITICI SENZA PERSONALITÀ
Nell'era della televisione, i politici appaiono ai propri elettori come delle personalità, hanno accenti, modi, difetti e attrattive. È stato detto molto sul processo di ascesa delle personalità politiche. Ma quello che colpisce maggiormente dell'era moderna è la difficoltà che incontrano le personalità più spiccate nella scalata al successo. In società molto frammentate, quasi prive di basi culturali comuni, i luoghi comuni sull'eleganza o lo stile fanno sì che le personalità molto spiccate incontrino molte difficoltà per ottenere successo in politica. Le personalità più forti possono risultare efficaci a livello locale: per esempio nel ruolo di sindaci. Ma, a livelli più elevati, le personalità forti sembrano garantire, in misura uguale, effetti negativi e positivi. Di conseguenza, vi sono forti tendenze all'eliminazione della personalità: a favore di un conformismo nel vestire e nel parlare; a favore di personalità relativamente blande, senza grandi caratteristiche distintive, e poco inclini all'aggressività. Le eccezioni, come Thatcher e Gorbaciov, sono esistite proprio in quanto tali (e si potrebbe aggiungere che, per raggiungere i vertici, questi personaggi hanno dovuto contenere le proprie personalità, alle quali è stata data libertà di espressione solo in seguito). Per la stessa ragione, i
leader di bell'aspetto vincono di rado le consultazioni elettorali: anche la bellezza è un fattore che tende a respingere gli elettori.
IL RITORNO DI HOBBES
È ironico dover constatare che il filosofo politico che maggiormente è in grado di descrivere questa era non sia un teorico della liberaldemocrazia come Mill, e nemmeno un post-moderno come Baudrillard, ma uno dei primi. La società moderna, dopo la Guerra Fredda, assomiglia molto al mondo di Hobbes: una guerra di tutti contro tutti, nella quale lo stato è richiesto semplicemente per imporre l'ordine, garantire la sopravvivenza della società e mantenere la disciplina e le condizioni per la vita civile, senza ulteriori compiti. È proprio Hobbes, che scriveva in un mondo dominato dalle guerre civili e religiose, a sembrare maggiormente in sintonia con le guerre etniche e religiose dell'Europa Orientale e con i ritmi della vita moderna: un interminabile inseguimento dei nostri desideri mutevoli, gente in perenne movimento, senza tranquillità, obiettivi o riposo, che passa da un desiderio all'altro, cercando con ogni desiderio di potersi garantire il successivo, ma senza mai riuscire a sfuggire completamente all'incertezza o all'insicurezza. La politica rappresenta, come allora, una risposta parziale al caos e al disordine. Oggi come allora le al37
ternative alla politica, perlomeno nell'ambito della tradizione occidentale, potrebbero rivelarsi peggiori. Una rapida discesa verso il caos e l'anarchia, un percorso più rapido verso la reciproca indifferenza e l'ostilità. La politica ha in comune con il mondo economico e con quello dei media una capacità di accedere a culture, comunità e interessi diversi. Tuttavia, la politica è l'unica forza in grado di raggruppare tutte le tendenze, ed è potenzialmente in grado di dare un'identità alle società in maniera più efficace della somma delle loro parti, articolando degli obiettivi comuni. Attualmente, i politici sono isolati nei castelli della politica, mentre i loro amministrati sono divisi tra il desiderio di deriderli e quello di implorarli a guidare la società. In questo articolo abbiamo tentato di evidenziare alcune delle condizioni necessarie per rivitalizzare i collegamenti tra i governati e i governanti, tra la politica e la non po-
litica. Abbiamo mostrato come i buoni leader abbiano bisogno di molta più chiarezza riguardo a quello che possono e quello che non possono fare. E che avranno bisogno di un senso della storia e dell'identità, di dialettica e di contenuti, e di una chiara visione delle priorità politiche. Questi sono tutti ruoli nuovi. Le società occidentali affrontano simultaneamente i propri problemi. Questo è il motivo per il quale oggi nessuna società occidentale viene presa a modello dal resto del mondo. Nessuna di queste società mostra una sicurezza nella leadership che dimostri consapevolezza del proprio ruolo e del proprio comportamento nel mondo. Tutti i Paesi sembrano disorientati. Ma tutti possono insegnarci qualcosa e tutti possono trarre insegnamento, e i leader migliori saranno quelli in grado di fare entrambe le cose. (Traduzione di Stefano Spila)
Elezioni e lezioni americane di Francesco Sidoti
Nelle recenti elezioni americane di medio termine il partito repubblicano ha conquistato il Senato e il Congresso per la prima volta dai tempi lontani di Eisenhower. Questa vittoria cambia molto il sistema politico degli Stati Uniti. Secondo alcuni osservatori si tratta di un sommovimento tellurico che ha molto in comune con quanto avviene in Europa e in Giappone. Secondo altri è una svolta storica comparabile con quella degli anni Cinquanta, quando i democratici sostituirono i repubblicani, accusati di essere gli artefici della Grande Depressione. In ogni caso, dopo le elezioni di novembre non è piui possibile dire a Washington: government as usual. Alcuni aspetti di quanto accade in America sono di grande interesse anche per quanto concerne il dibattito politico e istituzionale che si svolge in Italia; in particolare i cambiamenti del formato istituzionale e l'avanzata della destra. IL PROBLEMA DELLA GOVERNABILITÀ
Seguito con scarsa attenzione in Italia, dagli anni Settanta si svolge negli Stati Uniti un'insidiosa discussione che par-
te dal sistema di governo 1 e arriva ai fondamenti istituzionali della tradizione liberale. Ricalcato sui modello di Montesquieu, caratterizzato da un'applicazione minuziosa della teoria della divisione dei poteri, veramente il modello americano riassume ed esalta la filosofia di un'epoca nata molti secoli or sono (occorre ricordano) dalla preoccupazione di limitare le decisioni arbitrarie del potere monarchico in Inghilterra e in Francia. Secondo l'incisiva (e largamente condivisa) ricostruzione di Huntington, il sistema politico americano è profondamente influenzato dalla Costituzione inglese dei diciassettesimo secolo, idealizzata dai coloni, e per questa via mostrerebbe una cospicua continuità con tratti significativi del pensiero costituzionale medievale. Sull'<anacronismo» del sistema politico degli Stati Uniti esiste ormai una letteratura imponente, in cui sono centrali i problemi istituzionali sotto molte forme, dalla classica peculiarità americana del divide€I government 2 all'altrettanto classica peculiarità americana relativa alla preponderanza dei gruppi di pressione 3 . 39
Il punto di svolta di questo dibattito è il Watergate. A metà degli anni Settanta, la lezione del Watergate si poteva interpretare in molti modi: per alcuni sembrava consistere in una riaffermazione della bontà intrinseca del sistema americano, basato sul bilanciamento della Presidenza ad opera del Congresso, della Corte Suprema, della stampa, e così via; per altri invece il Watergate era un episodio negativo di una sana tendenza di fondo, comunemente riassunta con il riferimento alla crescita di un presidenzialismo imperiale, paventato da alcuni ma benvisto da altri (nella forma di una maggiore indipendenza del sistema decisionale dalle conseguenze di una dispersione centrifuga dei poteri). Una seconda torsione del dibattito sui grandi temi istituzionali americani nacque all'indomani del grande shock petrolifero del 1974 e si concentrò introno alla «crisi di governabilità», causata fondamentalmente da un sovraccarico di domande sociali. Questa tematica fu divulgata in seguito ad un'intensa discussione promossa dalla Commissione Trilaterale, ma culminava in definitiva nel riproporre, drammatizzandoli, alcuni dei dilemmi posti dal Watergate: com'è possibile conciliare democrazia ed efficienza, pluralismo e stabilità? È un problema di uomini, di politiche, di istituzioni? In un certo senso la vittoria del reaganismo (come quella del thatcherismo in Gran Bretagna) rappresentò la ri40
sposta alle inquietudini e alle perplessità degli anni Settanta, che a livello di coscienza diffusa si coagulavano anche intorno a temi di altra natura, come la volontà di vincere definitivamente il confronto con l'Unione Sovietica e di ribaltare le cocenti sconfitte subite nel Vietnam e nell'Iran. Il reaganismo conseguì alcuni degli obiettivi prefissi, ma ne mancò clamorosamente altri, come fu dimostrato dal notevole spostamento dei rapporti di forza con il Giappone. Un problema che il reaganismo preferì non affrontare, per non lasciarci le penne, fu preso di petto invece da Bush. Contravvenendo alle proprie promesse, in perfetto stile reaganiano, di non aumentare le tasse, all'indomani della trionfale vittoria delle truppe americane sull'Irak, nell'ottobre 1990 Bush tentò di fare approvare i maggiori tagli della spesa pubblica e la più incisiva stangata fiscale dalla fine della seconda guerra mondiale. Mal gliene incolse: il suo progetto fu affondato alla Camera, grazie anche all'ammutinamento dei deputati repubblicani e alla quasi insurrezione in una larga parte del Paese, rappresentata egregiamente dai pensionati furibondi che (con l'assistenza e la solidarietà dei poliziotti) si raccoglievano gridando politicians down. L'avversione nei confronti dei politicians è una consolidata tradizione del folklore politico americano; ma da questo momento diventa preminente anche presso le élites in-
tellettuali uno stato d'animo secondo il quale la gente è fed-up-to-here with politics4 L'urlo «politicanti andatevene» è risuonato con alterne fortune sulle piazze americane; quella volta colse in pieno l'obiettivo: Bush era in quel momento il condottiero vittorioso sull'Irak, confortato dal più alto indice di popolarità mai raggiunto da un presidente in quel secolo, superiore perfino a quelli altissimi di Kennedy e di Reagan; da quel tentativo di riduzione del disavanzo pubblico cominciò il crollo che lo portò poi alla sconfitta elettorale. Alcuni mesi dopo, nell'università di Princeton, Bush pronunciò uno dei suoi più impegnativi discorsi pubblici, in un certo senso conclusivo di una carriera trascorsa ai vertici del sistema americano; egli indicò nella dispersione dei poteri l'origine di tutti i mali: la finanza pubblica americana è ingovernabile perché il potere del Congresso è eccessivo: «il presidente vede tutta la foresta. Ciascuno dei parlamentari vede solo gli alberi, cioè gli interessi del suo collegio elettorale>). Il discorso di Bush era di tipo tradizionale: tendeva a vedere la crisi americana in termini congiunturali, e per quanto riguardava le istituzioni si limitava a sottolineare la necessità di un riequilibrio tra Presidenza e Congresso. Fuori da questa impostazione fervevano soprattutto le intense discussioni a proposito del declino complessivo della preminenza americana nel .
mondo, interpretata spesso secondo lo schema di uno squilibrio tra crescita dell'espansione territoriale e spese necessarie per il mantenimento di un adeguato apparato militare. Il declino americano veniva confrontato a quello dell'impero britannico, a quello dell'impero spagnolo, e così via. La riflessione sulla forma di governo si s'volgeva dunque in parallelo a preoccupazioni di carattere epocale, ed era limitata a specialisti o troppo accademici (i cosiddetti neo-istituzionalisti) o troppo concentrati sulle questioni interne5 . Era molto diffusa l'opinione che il venerando sistema americano fosse in un certo senso irriformabile: dava per scontato che le sacre istituzioni erano quelle, e dovevano essere accettate così com'erano, con rassegnazione6 .
L'AVANZATA DELLA DESTRA
Prima lo straordinario successo elettorale di Ross Perot (che raccolse un fenomenale 19 per cento dei voti nelle elezioni presidenziali), poi la stupefacente incapacità clintoniana di realizzare il proprio programma di governo, infine la storica sconfitta dei democratici nelle elezioni di medio termine hanno rilanciato imperiosamente i temi istituzionali e costituzionali. I problemi sollevati dai declinists e quelli sollevati dai neo-institutionalists non stanno più paralleli e distanti l'uno dall'altro, ma si incontrano ora in un 41
contesto più minaccioso e su un piano di incertezza e di urgenza. Alcune riforme istituzionali sono ormai invocate da più parti a gran voce; ad esempio, l'aumento a quattro anni della durata in carica dei deputati e la modifica della durata in carica dei senatori (per togliere al Paese almeno qualcuno degli aspetti da campagna elettorale permanente) oppure l'adozione di criteri di ineleggibilità dopo alcuni mandati. Ma è soprattutto in discussione il cuore del sistema: la Presidenza e i suoi rapporti con il Congresso. Già da tempo, in termini comparativi, veniva sottolineato ampiamente il fallimento di molte forme di democrazia presidenziale 7 ; ora si rafforzano notevolmente i fautori del cosiddetto modello Westminster, basato su una contrapposizione: un modello di processo decisionale caratterizzato dalla diarchia di Presidenza e Congresso, e un diverso modello di processo decisionale, caratterizzato da differenziazione funzionale ed asimmetria dei poteri tra capo del governo e parlamento (un presidente americano ha meno potere di un primo ministro inglese). Più in generale, l'intero edificio istituzionale edificato a partire dal New Deal viene rimesso in discussione8 ; con una differenza di fondo rispetto ai tempi in cui anche Reagan aveva espresso propositi analoghi, ma poi era stato costretto a ripiegare su misure tradizionali come il pompaggio di risorse per le spese militari: 42
adesso la maggioranza repubblicana ha i numeri per attuare i suoi intenti pseudorivoluzionari ed è incalzata da una reazione populista che minaccia di scavalcarla nelle urne. Nel segnalare i cambiamenti dell'elettorato un primo campanello d'allarme sono state nel novembre 1991 le elezioni della Louisiana, quando un ex leader del Ku-Klux-Klan, David Duke, malgrado fosse stato contrastato da una enorme mobilitazione, aveva comunque ottenuto il sostegno del 55 per cento degli elettori bianchi e del 60 per cento del ceto medio. All'inizio degli anni Novanta la crescita dei conservatori americani sembrava avesse raggiunto una battuta d'arresto: i repubblicani avevano dominato per molti anni la Casa bianca, il Senato, la Corte suprema, il sistema giudiziario, e tuttavia si ritrovavano di fronte uno Stato più invadente, tasse più alte, valori familiari più deboli, e un democratico al potere 9 . Nonostante la vittoria di Clinton i repubblicani sono stati riportati al potere da una forte spinta dell'elettorato, che deve essere interpretata in riferimento a tendenze di lungo periodo. A questo scopo è molto utile l'affascinante e inquietante riflessione di Edward Luttwak. Egli sottolinea che è in corso negli Stati Uniti un processo di deterioramento e di peggioramento delle condizioni di vita per una larghissima parte della popolazione. Rinvio al testo per i molti dati obiettivi
che confortano questa interpretazione e soprattutto per alcuni squarci agghiaccianti, ad esempio sulle ragazze americane in Giappone'° o sui ragazzini neri in America". Luttwak forse sottovaluta il peso dell'assetto istituzionale e forse sopravvaluta il peso della trasformazione economica, ma coglie il nocciolo del problema quando dice che in estrema sintesi il sogno americano è il benessere per tutti. E conclude: se questa aspettativa venisse radicalmente e per troppo tempo negata «è pressoché inevitabile che le conseguenze politiche siano catastrofiche. ... Sarebbe troppo aspettarsi che un governo democratico possa sopravvivere a lungo all'impoverimento della grande maggioranza degli americani» 12 . Illuminando il problema della crescita dei movimenti di destra negli Stati Uniti come in altri Paesi, Luttwak sottolinea che le tendenze xenofobe, razziste, classiste, demagogiche traggono alimento fondamentale dalla inversione di tendenza di quel miglioramento delle condizioni di vita che aveva dato prosperità ai Paesi occidentali dopo la seconda guerra mondiale. Luttwak è stato accusato di eccessivo pessimismo; è tuttavia evidente che per alcuni profili invece il suo libro può esser accusato di eccessivo ottimismo: a partire da quelle premesse così causticamente descritte, è difficile credere che sia possibile per gli Stati Uniti vincere la guerra geo-economica con quelle altre nuove poten-
ze industriali che ormai impongono all'economia mondiale una revisione di molte certezze e di molte speranze. Soltanto con la Cina gli Stati Uniti hanno già un imponente deficit commerciale annuo di molti miliardi di dollari, e gli specialisti sostengono che entro il 2010 la Cina sarà la pii grande economia del mondo 13 Tra declinists e antideclinists, tra le tesi di P. Kennedy e quelle opposte di J.S. Nye e H.R. Nau, sono state sostenute varie opzioni intermedie; ad esempio, alcune che mettono l'accento sulla rinascita dei valori tradizionali o di una cultura civile di tipo tocquevilliano. Proprio dall'interno del dibattito sui temi istituzionali è stato osservato che i fattori culturali sono certo di estremo rilievo, ma sono anche quelli piìi difficili da modificare 14 ; mentre il piecemal social engineering, cioè il miglioramento delle istituzioni attraverso un graduale succedersi di aggiustamenti, permette un continuo intervento correttivo e riformatore. Inoltre, le impostazioni che rilanciano l'attualità del modello comunitario (contrapposto al tipico individualismo della cultura americana), sono molto spesso esplicitamente influenzate da un richiamo al modello giapponese' 5 Ma è del tutto problematico pensare alla possibilità di una trasformazione così profonda della cultura civica e dei suoi principi di base. Anzi, è stato brillantemente sostenuto che la migliore possibilità per gli Stati Uniti di .
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vincere la concorrenza con il Giappone è di accentuareal massimo le proprie caratteristiche specificamente individualistiche, competitive, aggressive; sarebbe velleitario inseguire l'ordine e la disciplina in una società americana che può invece puntare su ciò che è specificamente suo: la mobilità, il cambiamento, l'inquietudine, il «disordine creativo» 16 . Come è difficile importare negli Stati Uniti il modello renano e la soziale Marktwirtschaft, così è difficile importare il modello giapponese, che è del tutto atipico ariche da un punto di vista istituzionale, poiché non ha un governo neanche lontanamente comparabile con le tipologie occidentali 17 Nonostante le motivazioni obiettive che inducono ad accettare la plausibilità di un declino americano, occorre soffermarsi su alcuni aspetti che sono piuttosto segni di una mutazione complessiva dei rapporti di forza internazionali, che induce cambiamenti sostanziali in molti Paesi, costretti ad adeguarsi a realtà socioeconomiche del tutto nuove. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti sono il Paese che è strutturalmente il più adattabile da un punto di vista economico (e lo dimostra la recente straordinaria ripresa dell'industria americana) e il più capace di iniziare periodi convulsi di lacerante innovazione istituzionale all'interno di una cornice formale che rimane inalterata da due secoli. All'inizio degli anni Trenta molte democra.
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zie venivano date per spacciate, ma proprio dagli Stati Uniti partì l'inversione di rotta. Lo stesso potrebbe accadere anche adesso, visto che dopo anni di crisi, nel 1993 gli Stati Uniti hanno mostrato di avere un'economia fortemente competitiva, e secondo alcuni osservatori avrebbero ricostruito le basi per un rilancio formidabile nel prossimo decennio.
L'IMITAZIONE DEL PRESIDENZIALISMO
In una sua brillante descrizione dei profondi mutamenti in corso nelle tituzioni e nella cultura istituzionale francese, Laurent Cohen-Tanugi scrive molto sul valore anticipatorio e profetico dell'esperienza istituzionale americana, ma conclude affermando che «il sistema istituzionale americano non ha il valore di un modello da imitare, ma è come un giacimento di teorie, di esperienze e di possibili soluzioni», e al limite, di contro-esempi e di scogli da evitare 18 . Un esempio di quel che non si deve fare è l'imitazione del presidenzialismo, che spesso piattamente viene riproposto in Italia richiamandosi al caso americano e ignorando che rischieremmo di cadere da una forma di governo caratterizzata dal parlamentarismo assembleare a una forma di governo caratterizzata dalla paralisi decisionale. Sarebbe interessante avere i molti vantaggi del sistema presidenziale, evitando anche i molti pericoli del presi-
denzialismo, che in Francia furono evitati anche dalle critiche veèmenti che oggi sembrano consegnate alle cronache del passato, ma che allora ebbero la funzione di prevenire molti rischi reali 19 In effetti, né presidenzialismo né parlamentarismo sono da soli una panacea, perché non esiste in assoluto un sistema elettorale ottimo per tutte le situazioni20. Da questo punto di vista, si può certo sostenere che quel che funziona negli Stati Uniti, funziona non grazie al presidenzialismo, ma nonostante il presidenzialismo. Se lezioni si debbono trarre dall'esterno, allora sarebbe preferibile guardare ai vari modelli europei, o dirigersi verso innovazioni che cercano di imparare dalle esperienze negative altrui - in primo luogo quelle americane. In questa prospettiva è stata proposta la formula di un parlamentarismo presidenziale, caratterizzato dalla votazione contemporanea, al secondo turno, del candidato al collegio uninominale e del candidato alla Presidenza del consiglio ad esso collegato21 . .
PRESENZA AMERICANA E INTERESSI ITALIANI
Infine c'è un ultimo e fondamentale motivo per volgere una particolare attenzione all'ipotetico declino degli Stati Uniti e delle sue istituzioni. Alla luce dell'accumularsi di tensioni nei Balcani e nel Nordafrica, i rapporti tra
Italia e Stati Uniti hanno un rilievo strategico specifico. Una presenza americana continuativa, dissuasiva, regolativa nel Mediterraneo è una garanzia contro tutta una serie di rischiosissime tensioni locali che potrebbero coinvolgere innanzitutto i popoli più vicini e più deboli, cioè gli italiani22 . Nonostante tutto il gran parlare del loro declino, gli Stati Uniti rimangono l'unica superpotenza e l'unico credibile garante contro la barbarie che si allunga su molte sponde del Mediterraneo, dal fondamentalismo islamico al nazionalismo balcanico. Non per motivi ideologici o ideali, né per l'anticomunismo né per l'antifascimo, ma per ben altri prosaici motivi, molti italiani paventano la decadenza americana: per interesse, perché è loro interesse che rimanga nel Mediterraneo una presenza militare dissuasiva. Ma la presenza americana è messa in discussione da molte cose, e tra l'altro dagli esiti del complesso dibattito politico cominciato oltre oceano su nuove basi, dopo le elezioni di novembre. Potrebbero rafforzarsi col tempo quelle tendenze isolazioniste ancora recentemente denunciate in un discorso tenuto il 21 ottobre all'Università di Harvard dal National Security Adviser del presidente Clinton: secondo alcuni osservatori gli Stati Uniti dovrebbero ritirarsi all'interno della propria sfera d'influenza, nel proprio emisfero e in pochissime altre aree esterne, la45
sciando agli altri il compito di fare regnare stabilità e ordine nelle loro sfere d'influenza23 . Gli americani come gli italiani sono incerti e soli davanti alloro destino di profonde (e forse traumatiche) trasformazioni sociali e istituzionali - senza ricette pronte e senza soluzioni indolori a portata di mano. Ma quando mai ce ne sono state? Nel celebre discorso di Bayeux, tenuto in Normandia nel giugno del 1946, il generale De Gaulle formulò la sua proposta di un arbitro al di sopra delle parti
J.E. CHUBB - P.E. PETERSON (eds.), Can Government Govern?, The Brookings Institution, Washington D.C. 1989; R.K. WEAVER - B.A. ROCKMAN (eds.), Do Institutions Matter?, The Brookings Institution, Washington D.C. 19932 J.L. SUNDQUIST, ConsritutionalReform andEffective Government, Revised edition, The Brookings Institution, Washington D.C. 1992. 3 D. SCHOENBROD, Power Without Responsabi-
lity. How Congress Abuses the People Through Legislarion, Yale University Press, New Haven 1994. ' Cfr. in proposito le recenti osservazioni di un autore ritenuto tra i maggiori sismografi dell'elettorato americano: K. PHILLIPs, Arrogant
Capital. Washington, Wall Street, and the Frustration ofAmerican Politics, Little Brown, New York 1994. 5 Per un dibattito sui neo-istituzionalismo, cfr. G.A. ALMONO, The Return to the State, in «American Political Science Review», 82, September 1988, con repliche di E.A. NORDLINGER, T.J. Lowi, S. FABBRINI, pp. 853-901. 6 P. KRUGMAN, The Age of Diminished Expecta46
(con incisivi riferimenti ai «veleni» e agli «intrighi» della sua epoca), ma ricordò anche, alla sua maniera fulminante, che quando i Greci chiedevano a Solone quale fosse la migliore Costituzione, egli rispondeva ((Dimmi prima per quale popolo e per quale epoca)) 24 . Su quali siano i metodi e i contenuti delle riforme istituzionali preferibili per questo popolo e per questa epoca, rinviamo a quanto è stato detto a partire dal 1974 nei cento numeri della collezione di questa rivista.
tions. U.S. Economic Policy in the 1990s, MIT Press, Boston 1990. 7J.J. LINz - A. VALENZUELA, The Failure ofPre-
sidential Democrac-y, Comparative Perspectives, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994. 8 Cfr. Republicans' Initial Promise: 100-Day Debate On 'Contract in «Congressional Quarterly», 1994. D. FRUM, Dead Right, Basic Books, New York 1994. IO E. LUTrWAK, C'era una volta il sogno americano, Rizzoli, Milano 1993, P. 127: «Le ragazze americane che lavorano come bariste e squillo a tempo parziale sono oggi così comuni a Tokyo che per i loro servizi le tariffe sono piuttosto basse... Quando un Paese è in fase di declino, non solo la sua moneta si deprezza ma anche la sua carne». 11 Ibidem, P. 169: «Nelle viscere della nostra società, nel Terzo Mondo dei nostri ghetti si aggira un'intera generazione di bambini condannati quanto i figli della strada di Rio de Janeiro. Il neonato di un padre minorenne e di una madre quindicenne, con una nonna sui trent'anni e una bisnonna sui quaranta - tutti
non sposati, non istruiti e senza lavoro - è diventato un prodotto abbastanza caratteristico degli Stati Uniti, destinato fin dalla nascita ad aggirarsi nelle strade tra sporadici episodi di inutile scolarizzazione, lavoro incerto, crimine, droga e prigione». 12 Ibidem, p. 134. La traduzione italiana glissa sul sottotitolo, che nell'edizione americana invece mette bene in rilievo il tema centrale del
volume: How to stop the United Statesfrom becoming a third-world country and how to win the geo-economic struggle for industrial supremacy. 3 Alcuni declinists avevano sottolineato il nesso tra problemi della società americana ed exportled growth, orientato al modello giapponese e fatalmente destinato a generalizzarsi in buona parte dell'Asia; cfr. W. RUSSELL MMD, Mortal
Spiendor. The American Empire in Transition, Houghton Mifflin, Boston 1987, pp. 302-307. 14 S.M. LIPSET, The Centrality ofPolitical Culture, in «The Journal of Democracy», Pali 1990, p. 83; allineandosi con le interpretazioni piix riduttive, Lipset sostiene che anche l'effetto dei cambiamenti istituzionali è problematico e limitato. In effetti, il dividedgovernmentè un problema reale, ma incidono anche altri fattori come la capacità di leadership: Carter affondò nonostante il supporto di due maggioomogenee e Eisenhower ranze governò incisivamente nonostante le due maggioranze parlamentari fossero in mano ai democratici. 15 R. BF.LLAH e altri, The Good Society, Knopf, New York 1991, p, 94. L'importante ricerca di
R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993, deve essere inserita all'interno di questo dibattito specificamente americano, relativo al peso della cultura e delle istituzioni nell'influenzare lo sviluppo o il declino delle nazioni; infatti il titolo originale del volume è Making Democracy Work. Anche in questo caso la traduzione italiana è fuorviante, e nell'equivoco sono caduti alcuni recensori. 16J. FALLOWS, More like Us, Houghton Mifflin, Boston 1992; Fallows è anche un acerrimo sostenitore della discutibile tesi secondo la quale l'espansione giapponese è connessa con il decli-
no degli Stati Uniti; cfr. J. FALLOWS, Lookingat the Sun, Pantheon, New York 1994. 17 K. VAN WOLFEREN, The Enigma ofJapanese
Power. People and Politics in a Stateless Nation, Knopf, New York 1989. 18 L. COHEN-TANUGI, La métamorphose de la
démocratie francaise. De l'Etat jacobin à l'Etat de droit, nouvelle édition, Folio, Paris 1993, p. 71. 19 P. MENDES-FRANCE, Préparer l'avenir 19631973, Gallimard, Paris 1989; F. MIrrEltND, Le coup d'étatpermanent, Plon, Paris 1964. 20 G. SARTORI, Neither Presidentialism nor Parliamentarism, in LINz e VALENZ1JELA, The Failure ofPresidentialDemocracy, cit., pp. 106-118. 21 S. FABBRINI, Quale democrazia. L 'Italia e gli altri, Laterza, Bari 1994. In esergo al suo volume Fabbrini mette una splendida citazione di Jefferson, datata 1816: «a misura che si fnno nuove scoperte e che nuove verità si schiudono e che i costumi e le opinioni cambiano con il mutare delle circostanze, anche le istituzioni devono trasformarsi e tenere il passo con i renipi. Sarebbe come pretendere che un adulto continui ad indossare il vestito che gli stava bene quand'era ragazzo». Cfr. inoltre le cospicue osservazioni svolte in S. FABBRINI, llpresidenzialismo degli Stati Uniti, Laterza, Bari 1993. 22 C. Jiw, La nostra sicurezza nel mondo balcanizzato, in «Limes», 4, 1994, pp. 201-212; queste indicazioni di carattere generale sul rapporto Italia-Stati Uniti debbono ovviamente coesistere con una lettura attenta ai temi della «cattedrale comune europea»; cfr. G. AMATO, L'interesse nazionale e l'interesse europeo, in «Il Mulino-Europa12», 1994, pp. 83-88. 23 A. Le, American Power and American Di plomacy, in «The Wireless File», Ocrober 26, 1994,pp. 11-15. 24 C. DE GAULLE, Discours et messages, Plon, Paris 1970, p. 17. Nella loro densa e articolata discussione su questi temi, Weaver e Rockman, Do Institutions Matter?, cit., p. 461, arrivano quasi alle stesse conclusioni, ma all'interno di una visione riduttiva delle opportunità offerte dal cambiamento istituzionale. Un segno di come sia problematica e cangiante la riflessione sull'esperienza americana, anche per quelli che la conoscono meglio, è la confessione di MiOFA
chel Crozier a proposito di un suo bel libro, Le mal americain, Fayard, Paris 1980, seconda edizione Hachette 1984; come racconta lo stesso autore, in un'intervista a «Le Monde», 22 maggio 1992: «per la nuova edizione del 1984
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ho scritto una postface più ottimista al volume, che nel 1980 era più pessimista; il mio giudizio varia, ora sono ridiventato più pessimista rispetto a quando ho scritto la posiface...».
questeistRuzioni RE-
Come fare politica (se è possibile farla)
Nel n. 96, l'editoriale Mettere al lavoro la democrazia invitava al dibattito. Abbiamo, quindi, chiesto a collaboratori ed amici di intervenire, ricordando come Queste Istituzioni, nei suoi vent'anni di pubblic4zioni, abbia svolto molto lavoro ma che, naturalmente, molto altro ne resta ancora da fa re. In questo dossier sono pubblicati alcuni contributi ricevuti. C'è un'avvertenza da fare che vale per tutti gli scritti pubblicati. Essi sono stati consegnati in redazione nel periodo che va da giugno a novembre 1994. E inevitabile, quindi, che questi scritti risentano degli eventi politici confusi e tumultuosi che si vivono in Italia da un anno. Gli autori hanno comunque guardato alla situazione al di 14 del contingente strettamente quotidiano. Eppure, il tifone Berlusconi e la catena di reazioni, da esso e dal dopo-Berlusconi causate, hanno spesso sconvolto tutto.
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Rieducare alla politica di Adolfo Battaglia
Mi soffermo soltanto su alcuni dei molti problemi affrontati da Sergio Ristuccia nel suo stimolante affresco. Il primo è quello dell'economia: del quale, ormai, le cose importanti sono conosciute da tutti a memoria, senza peraltro che da questa scienza comune si riesca ad estrarre un solo indirizzo coerente. Si sa bene, per esempio, che c'è una condizione finanziaria cui occorre mettere riparo se non si vuole che colpisca la ripresa; si sa che da ciò dipenderà la permanenza dell'Italia in Europa; e si sa che, in una prospettiva più lunga, l'Italia dovrà affrontare la sua trasformazione da economia industriale ad economia prevalentemente di servizi, in un processo che si cumulerà e si complicherà con i problemi sociali determinati dalla crisi finanziaria del Welfare State. Cose notissime. Ciò di cui invece non si riesce ad avere alcuna idea è il modo in cui la classe politica, a cominciare dal Presidente del Consiglio per finire all'opposizione di sinistra, riuscirà ad affrontare questo insieme di nodi assai complessi. Certo, come osserva Ristuccia, molte linee di politica economica sono obbligate, "scritte nell'ere-
dità che si è presa in carico". Ma non si vede, francamente, un approccio ai problemi economico-finanziari che si svolga sotto il segno di una riflessione e di un pensiero sicuri, né da parte degli uni né da parte degli altri. Neppure si vede alcuna consapevolezza delle implicazioni che lo sforzo di restare in Europa ha necessariamente sul terreno interno. E non solo non si scorge nessuna bipartisanship su una decisiva questione nazionale come e ormai quella finanziaria, ma si è visto chiaramente che sulla prima prova concreta affrontata dal nuovo Parlamento, cioè il varo degli strumenti di bilancio per il '95-97, l'orientamento del Governo è stato debole e inedeguato, e tuttavia quello dell'opposizione in nulla è risultato più credibile e utile. Che cosa si può prevedere su questi problemi? Ci sarà un improvviso sussultò di consapevolezza? Il Governo diverrà capace di imporre misure impopolari e di darsi un disegno organico? Le opposizioni saranno in grado di produrre un loro modello e di dar prova di senso di responsabilità? Oppure provvederà in qualche modo lo Stellone? È difficile dirlo, allo stato 51
delle cose. Ciò che si osserva è solo che l'economia reale è in crescita, trascinata dal tasso di cambio e dalla ripresa mondiale. Ma si sa anche che ciò difficilmente basterà a far fronte ai problemi italiani. E tuttavia non si avverte, nel mondo politico, alcuna riflessione efficientemente nutrita da alimentare disegni di qualche respiro. Un'adeguata cultura economica mancò, del resto, al personale politico della Prima Repubblica. Era difficile che si manifestasse spontaneamente in quello della Seconda, che in buona parte viene, oltretutto, da esperienze e riferimenti superati. Poca luce si scorge anche nella seconda questione dirimente che è indicata dal saggio di Ristuccia, cioè la definizione della nuova forma-partito in cui si calerà l'humus politico del Paese: una questione che è poi, in realtà, quella stessa della costituzione materiale che sovrintenderà alla vita chiaro che occorre ripartire da capo rispetto al tipo di partito affermatosi nella Prima Repubblica. Ma non penso che la forma-partito sarà determinata dai criteri ritenuti migliori o dal riconoscimento degli errori compiuti nel passato. Né credo ai suggerimenti di ordine politologico compilati dagli intellettuali. La verità è che il nuovo tipo di partito si strutturerà in concreto, sulla base delle necessità e degli esiti della lotta politica. Vi influiranno le 52
soluzioni istituzionali cui essa darà luogo, e il definitivo assetto del sistema elettorale che si realizzerà. Sarà un prodotto complesso, sulla cui formazione avranno pesato tutti gli elementi che compongono una condizione storicamente determinata: da quelli di contenuto ideale a quelli identificabili in interessi specifici di ceri sociali, di gruppi dirigenti e di uomini. Del resto, la stessa società civile non è un frutto che maturi autonomamente nella sua virginale purezza, e che poi, dall'esterno, possa influire sullo svolgimento dei processi politici. È anch'essa una risultante del concreto dispiegarsi delle forze, delle istituzioni, dei partiti, dell'economia. E così il tipo di Pubblica Amministrazione, di Sindacato, di Impresa. Dunque, o si riescono a vedere tutti gli elementi e tutti i problemi, e li si considerano tutti insieme, oppure si è semplicemente condannati all'incomprensione dei fenomeni. In questo senso, quello che c'è anzitutto da comprendere sono le intenzioni politiche, diciamo così, primitive", che sono nutrite dai protagonisti della lotta politica. E a monte di tutto c'è l'interrogativo posto dai pii recenti saggi di M.L. Salvadori: se la futura storia d'Italia debba continuare ad essere un susseguirsi di "regimi" - alla caduta dei quali si determinano cesure storiche, in termini di istituzioni e di classi dirigenti - o debba invece cominciare a diventare un ordinato se-
guito di "governi" di indirizzo alternativo, nella continuità del quadro delle forze politiche e delle istituzioni, come avviene nei maggiori Paesi di democrazia occidentale. Si pone cioè, a monte, il problema di fondo del rapporto politico tra i due schieramenti usciti dalle elezioni: se essi debbano continuare a negarsi reciprocamente ogni legittimità, ciascuno identificando nell'altro un potenziale di pericolo per la democrazia, e ciascuno chiamando a raccolta chiunque passi per impedire che l'altro si consolidi o si affermi; o se, invece, entrambi gli schieramenti, riconoscendo la legittimità delle contrapposte posizioni, intendano cominciare un cammino di regolarizzazione della democrazia dell'alternanza. È un problema largamente condizionato dal giudizio su ciò che è avvenuto alle elezioni di marzo, o meglio, sulle cause profonde dei fenomeni da esse registrati; e, insieme, sugli elementi di diversità e di analogia fra l'Italia e altri paesi occidentali in cui si esprimono spinte e tendenze simili a quelle manifestatesi da noi. Si tratta perciò di un nodo assai complesso. Ma piaccia o no è questo il nodo preliminare da sciogliere, poiché tutto vi è legato con assoluta consequenzialità: se i poli politici debbano essere due, o invece tre; se il sistema elettorale debba favorire le alternative nette tra destra e sinistra, evolvendosi
in senso "inglese", o debba, al contrario, accentuare gli elementi di proporzionalismo già in esso esistenti per favorire il rafforzamento delle posizioni "centrali"; se la riforma istituzionale debba modellarsi secondo uno schema che crei un "continuum" governomaggioranza, contrappesato da momenti istituzionali "neutri", o se, al contrario, i contrappesi debbano essere tutti interni al sistema politico, affidando uno spazio di garanzia e mediazione a un'articolazione di partiti non binaria; se i partiti politici, di conseguenza, debbano essere potenti macchine da guerra, attrezzate per i molteplici compiti derivanti da un sistema che conservi elementi di proporzionalismo e consociativismo, o possano diventare strutture più leggere, mirate a mantenere il rapporto fra eletti ed elettori e rafforzate solo al momento delle competizioni elettorali. E così via, lungo tutto un arco di problemi. C'è una serie di conseguenze a cascata, in vari campi, che scaturisce dalla scelta, a monte, relativa al futuro del sistema politico del Paese. Ora, è proprio questa opzione preliminare che non è stata fatta. Né la destra, né la sinistra (né il centro residuo uscito dalle elezioni di marzo) sembrano avere ancora definito le loro scelte di fondo. Non solo non esiste alcuna forma di "mutual endorsement", ma riprende periodicamente in tutti gli schieramenti la tentazione di scomunicarsi a vicenda. Riaffiora 53
continuamente la tentazione di scavalcare con accordi interpartitici lo schema maggioritario che i referendum hanno appena fissato. Gli uni e gli altri cercano ancora di utilizzare la via giudiziaria per colpire gli avversari, continuando a dimenticare che ciò porta solo ad una ulteriore delegittimazione della politica e dei suoi attori (e porterà presto anche a quella della magistratura). È evidente la ricomparsa di un antico male: lo strumentalismo, o il cinismo, con cui si affrontano problemi fondamentali. L'asprezza, anzi la faziosità della lotta politica in questi primi mesi di Seconda Repubblica non ha precedenti in cinquant'anni di vita democratica, neppure forse nella campagna elettorale del 1948. È essa stessa il sintomo più evidente dell'assenza di indirizzi strategici, di riflessioni chiare e mature sulle prospettive del Paese. Tutta la situazione oscilla tra moralismo, strumentalismo, velleità e giuoco di potere. Dietro questa assenza di opzioni e di indirizzi si avverte il problema della vita italiana cui è più difficile dare soluzione: quello della cultura politica, della carenza di una cultura politica capace di orientare. Un assetto durato quasi mezzo secolo è crollato sotto il peso di un fenomeno corruttivo di massa. È chiaro che questo fenomeno non è stato che l'altra faccia della perdita del senso dell'interesse generale da parte delle classi dirigenti. Ma che cosa era questa 54
perdita se non l'espressione di una carenza di cultura di governo? Scontiamo, in realtà, la debolezza delle culture che hanno dominato la vita del Paese nel corso della Prima Repubblica. Certo, non si può essere tanto setrari da ignorare, come spesso invece si fa, i grandi progressi compiuti nei passati decenni col concorso della classe politica. Ma non si può neppure essere tanto ciechi da non vedere l'esito finale della sua azione, cioè un crollo indotto da anni di crisi sempre più profonda, da difficoltà di governo dei fenomeni sempre più accentuata, dal prevalere sempre più soffocante d'interessi particolari: i frutti, cioè, di una debolezza culturale che era, come sempre, debolezza etica. Peraltro, ad un assetto dominato da forze inadeguate non si è sostituito un assetto fondato su una cultura di segno opposto. Semplicemente, c'è stato un crollo e si è levata una grande poivere che ha coperto tutto di grigio. Poi, quando si è posata, si è capito che erano rimaste in piedi forze in parte, sì, diverse, e uomini in parte, sì, nuovi; ma entrambi privi non soltanto di visioni e di disegni alternativi rispetto ai passato, ma anche, più modestamente, di qualche buona idea su che cosa bisognerebbe veramente fare in questo Paese. Così un assetto è succeduto ad un altro, ma la successione non ha riempito i vuoti di cultura e di azione che il crollo avevano indotto.
LA CRISI DELLE ÉLITE
Il problema più difficile della situazione italiana è questo. L'Italia è immersa in Europa, vive nell'Occidente: eppure la base di principi ispiratori su cui si fondano stabilmente i maggiori Paesi di quest'area continua a non essere sentita in Italia come un bene comune. Ogni volta che si va ad affrontare un problema, dal maggiore al minore, sempre si scopre distacco, resistenza e talora perfino ostilità al tessuto di valori, di idee, di indirizzi generali, che contraddistingue le democrazie del-l'Occidente. Fu già il dramma della Prima Repubblica, nella quale molte conquiste "europee" furono strappate solo dall'azione di minoranze attive, che riuscirono a passare perché trovarono il sostegno degli uomini più illuminati del partito cattolico: ma sempre con l'opposizione sorda dei loro aggregati di riferimento (che erano poi in collusione con l'opposizione di sinistra). È questo, adesso, il dramma della Seconda Repubblica, aggravato dal fatto che le minoranze laiche sono praticamente scomparse, distrutte da leader tanto ambiziosi quanto ciechi. Non si odono più che rarissime voci capaci di levarsi contro lo schematismo delle tesi, l'approssimazione dei giudizi, il setarismo delle polemiche, i ristretti interessi di gruppo: tutto ciò che connota negativamente la vita pubblica odierna.
Si scorge intera, allora, la dimensione di quella nuova "trahison des clercs" così diversa da quella dei primi quarant'anni del secolo - di cui negli ultimi decenni si sono resi responsabili gran parte degli intellettuali del nostro Paese. Quell'abbandono del compito proprio, per cui coloro che avrebbero dovuto essere un freno ai miti e alle mode correnti se ne facevano invece stimolatori, o addirittura portatori. Quel loro oscillare "tra malinconia e utopia", tra la sentimentale sofferenza per l'ingiustizia e la pura immaginazione di un futuro migliore, piamente dimenticando il presente su cui operare criticamente. Quell'inguaribile impronta letteraria delle loro posizioni, congiunta all'apprezzamento di ideologie politiche tanto estreme quanto astratte. Quel rifiuto di chiarire con metodo analitico, senza compiacenze né anatemi, i termini della realtà storica, esercitando un ruolo di intelligenza profonda delle cose. Quella aspirazione ad apparire, a cavalcare l'onda del momento, a contare socialmente. In una parola, quella globale incapacità - in un Paese che con sua forza vitale si trasformava in società moderna - di contribuire alla formazione di élite in grado di guidarlo. Né minori sono le responsabilità di quella particolare sotto-classe, che fa corpo unico con gli intellettuali, rappresentata dagli uomini della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa. La condizione italiana è infatti larga55
mente caratterizzata da un'anomalia: un sistema informativo deformante che non ha uguali in Occidente. Non mancano, naturalmente, guasti, eccessi e cadute di gusto nei sistemi informativi delle grandi democrazie. Ma il punto è che il nostro è fondato su una concezione completamente differente da quella che circola nel resto dell'Occidente. È una concezione che prende origine dai movimenti de! '68: ispirata a quel particolare tipo di democrazia assembleare che poi fu dimostrato non essere né democrazia né assembleare. È la concezione, cioè, che i mezzi di comunicazione non abbiano il compito di fornire notizie controllate e perciò attendibili, con l'obiettivo di assicurare una informazione del pubblico il più possibile veritiera, completa e imparziale, e perciò tendenzialmente neutra; ma abbiano invece il compito di dare espressione alle mille voci che si levano dalla società, quali che siano il contenuto e la natura dei messaggi, con l'obbiettivo di garantire il diritto alla libertà di espressione. Sono concezioni antitetiche. Per l'una, l'informazione è uno strumento che accresce la responsabilità di chi e informato; per l'altra è un fine, il fine di rappresentare i pensieri, i sentimenti e le affermazioni che circolano nella società. Una intenzione astrattamente nobilissima, come molte delle intenzioni del '68: ma dagli esiti civili disastrosi, come appunto avvenne per la maggior parte delle cose di quel pe56
nodo. Tutto è posto sullo stesso piano. Un dato falso, quando è reso pubblico, ha lo stesso diritto di essere pubblicato di un dato vero: per dare spazio, appunto, al confronto di tutte le voci! Non c'è più una funzione attiva del giornalista: ce n'è una puramente recettiva, che oltretutto è obbligata, come tale ad usare toni alti e forti dosi di colore, anch'essi deformanti (siamo l'unico Paese in cui i giornali sono, contemporaneamente, gialli, rosa e di opinione). Avviene così, nel campo dell'informazione, quel che avviene, secondo la legge di Gresham, nel campo dell'economia: la moneta cattiva scaccia la buona. Quel compito critico da cui dipende largamente la crescita della coscienza civile di ùn Paese non è svolto. Al tradimento degli uomini di cultura si accompagna, come forse era inevitabile, il fallimento civile degli uomini del sistema informativo, in particolare del sistema radiotelevisivo pubblico. Ristuccia ha ragione quando definisce folgoranti le opinioni di Lepenies sulla "classe lamentosa" rappresentata dagli intellettuali. È un fatto che per molti decenni il loro compito, così bene da Lepenies definito, è stato un compito semplicemente ignorato (sa!vo eccezioni tanto autorevoli quanto rare). Poteva ciò essere senza conseguenze? Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Siamo un Paese in cui il
maggior elemento di crisi è la crisi delle élite. Siamo un Paese che nella politica, nell'economia, nella pubblica amministrazione, nella società, possiede certo uominidi valore, ma è complessivamente privo di una dirigenza capace, irrobustita da una cultura di riferimento, calata nella condizione storica. Si trascinano ferrivecchi, impiastri e rimasugli con la pretesa di aggiornarli. Si mettono insieme trucchi e barbarismi, presentandoli come posizioni. È un sintomo della situazione che si guardi sempre a quella bellissima esperienza del "Mondo" di Mario Pannunzio che terminò trent'anni fa senza trovare successori. Ci si dedica ad aggredire una delle poche strutture indipendenti e di alta qualificazione che sono rimaste in piedi, la Banca d'Italia. L'idea che il servizio pubblico radiotelevisivo non debba essere a disposizione delle forze politiche dominanti, ma costituire un modello indipendente di professionalità informativa, politicamente neutrale, è stata negata per quarant'anni, imparzialmente, tanto dai partiti della Prima quanto da quelli della Seconda Repubblica. L'opposizione considera eversivo il solo porre una questione che è pacificamente risolta in molti altri Paesi, cioè se la magistratura inquirente debba essere distinta da quella giudicante. E così via. Manca un terreno di riferimento comune cui rifarsi. Non si riesce a impiantare una lotta politica che veda gli avversari condividere un certo
numero di principi e posizioni, per separarsi su un numero limitato di impostazioni e soluzioni: come avviene appunto nei Paesi occidentali.
LA "DEMOCRACY ITALIAN STYLE"
Scontiamo, anche qui, il peso di un passato quasi cinquantennale. Come si è retto questo Paese in assenza tanto di principi comuni quanto di un meccanismo di alternanza dei governi (in mancanza cioè dei due pilastri portanti delle democrazie occidentali)? La risposta è nota. Si è retto sulla base di una costituzione materiale fondata sui ruolo anomalo dei partiti politici e, soprattutto, su quella interpretazione particolare della rappresentanza proporzionale che si è sostanziata in un consociativismo prima inespresso e poi formalizzato (la formula dell'arco costituzionale). È questa tecnica di governo, in effetti, che ha permesso di attenuare i contrasti politici nascenti dallo scontro di ideologie inconciliabili. E essa che ha permesso non solo di governare "dal centro ma di ricondurre progressivamente forze estreme a una logica parlamentare democratica. Ed è essa che, attraverso un sapiente uso degli strumenti politici del compromesso e dello scambio, ha supplito alla mancanza nel Paese di principi basilari di riferimento: sostituiti, nella loro funzione stabilizzatrice, da una pratica che vedeva le principali forze politiche e so57
ciali - ideologicamente contrapposte - usufruire di una serie pressoché infinita di benefici comuni a tutti, e perciò, di nuovo, stabilizzanti. Anzi, se si vuole allargare lo sguardo, è questa cinquantennale tecnica di governo che ha permesso di continuare quell'indirizzo di centro, di convergenza al centro, che nella vita dello Stato unitario aveva già avuto decisivi momenti, dal connubio cavouriano al trasformismo depretisiano fino alla politica giolittiana; e il cui fondamento stava probabilmente nelle caratteristiche di una società e di una lotta politica che non erano state forgiate dai grandi traumi storici di cui beneficiarono altri Paesi dell'Occidente: dalla formazione dello Stato nazionale accentrato alla riforma religiosa, dalle rivoluzioni politiche alla prima rivoluzione industriale. Ma senza insistere su paragoni e assonanze che meriterebbero ben altro approfondimento, né sui benefici apportati dalla "democracy Italian style" (secondo la nota formula di un politologo americano), occorre notare che era inevitabile essa generasse una superfetazione: non un blocco storico di classi ma, pi1 modestamente, un blocco di potere delle leadership: politiche, sindacali, burocratiche, dell'impresa pubblica, dell'industria privata, dei mezzi di comunicazione pubblici e privati. Il sistema era tale che, nella lotta politica e nella vita sociale, nes-
suno usciva mai veramente perdente; nessuno governava veramente senza tener conto di tutti gli altri; nessuno faceva veramente l'opposizione se non per giungere ad accordi o a patteggiamenti. La lottizzazione generalizzata, in questo senso, non fu un fenomeno patologico ma l'espressione del modulo di lotta politica e sociale instauratosi in Italia. I casi di conflitto politico profondo, in cinquant'anni, sono stati pochissimi e generalmente legati a scelte di politica estera. Si realizzava una prassi di bonario coinvolgimento che poco aveva a che fare con le modalità di governo delle democrazie industriali e aveva piuttosto assonanza con i caratteri storici del costume civile del Paese. Era un consociativismo che, al fondo, nasceva dalla condizione di debolezza della democrazia; e che poteva o evolvere in una "terza fase" di democrazia compiuta (fu il tentativo di Moro, Berlinguer e La Malfa) o crollare sotto il peso sempre maggiore degli elementi negativi che a quella tecnica di governo erano indissolubilmente legati. Non riuscì ad evolvere: e in presenza di condizioni internazionali e interne mai verificatesi in precedenza, e di nuovi errori politici, crollò in pochi mesi. Ciò che non è crollato, tuttavia, è il blocco di interessi delle leadership, strettosi nel gioco di dare e avere che per lungo tempo aveva tenuti tutti a galla (cattolici, socialisti, comunisti e laici: seppure una valutazione partico-
lare esiga sempre lo sforzo di Ugo La Malfa di fondere su contenuti originali una posizione autonoma). Un blocco che è poco disponibile a sciogliersi e a perdere gli utili rapporti, lo scambio di influenze reciproche, e perfino le "liason dangereuses", che hanno costituito un aspetto importante del potere reale installatosi per alcuni decenni (né ci si può neppure meravigliare troppo che questo blocco, urtato dalla novità, colpito dalla sua perdita di potere, abbia reagito all'introduzione di un sistema, com'è il maggioritario, del tutto opposto a quello in cui esso aveva peso; e che dal suo seno continuino a levarsi rimpianti proporzionalistici, richiami della foresta travestiti da valori, e polemiche aspre contro tutto ciò che, in qualsiasi campo, altera gli equilibri di un tempo). Abbiamo dunque sulle spalle, per riprendere il filo del discorso, il peso di almeno quattro fattori negativi: quello della costituzione materiale ormai crollata, che ha contribuito a non europeizzare, a non aggiornare culturalmente, le forze politiche italiane; quello del blocco delle leadership tradizionali, che tendono a non perdere la posizione di supremazia acquisita nel vecchio sistema; quello rappresentato dall'opera della struttura culturale e informativa del Paese; e quello, che è conseguenza di tutto ciò, della mancanza di élite attrezzate al compito di guida del Paese. È in questa condizio-
ne che è venuta l'introduzione del sistema maggioritario, a riempire il vuoto improvvisamente apertosi. I
BENEFICI DELLA RIFORMA ELETTORALE
Ora, un regime maggioritario che sia tale rappresenta esattamente un elemento di superamento delle principali difficoltà che abbiamo accumulate. Implica una maggioranza che non concordi con l'opposizione, se non sui principi di base e sulle regole; ed esige una minoranza che non abbia inclinazioni a scambi o a patteggiamenti con la maggioranza ma si proponga di sostituirla "ex funditus" sulla base di un differente indirizzo politico. Comporta non una lottizzazione diffusa su tutto il territorio politico e sociale, ma un esercizio di responsabilità soggetto a revoca. Esige quel complesso di istanze neutre , di garanzia, di equilibrio, e quel giuoco di contrappesi istituzionali, che in passato sono state concordemente avversate dalle culture politiche dominanti. Spinge a una definizione puntuale dei programmi di governo su cui le coalizioni alternative debbono richiedere il consenso: e rappresenta per questa via un utile se pur indiretto contributo ad una cultura politico-economica meno "letteraria" e pi1 attenta alle condizioni reali del Paese. In tal senso sembra di poter dire che il regime maggioritario appare l'elemento fondante di una svolta dell'Italia verso un assetto istituzionale 59
e politico più europeo: una riforma vera, suscettibile di incidere positivamente non solo sulla forma delle istituzioni e sulla struttura della lotta politica ma anche sull'assetto civile e sul costume sociale del Paese. Come è ovvio, il regime maggioritario non assicura automaticamente questi positivi effetti: ne è tuttavia una precondizione, perdendo la quale si perdono buona parte delle speranze di rinnovamento autentico dell'Italia. Decisivo appare allora il riempire il regime maggioritario di contenuti coerenti ad esso. Decisiva appare la direzione in cui si muoverà la sua evoluzione, o meglio, la lotta politica che sarà condotta sulla sua piattaforma. E in questo senso appaiono di grande rilievo tre fenomeni. È evidente in primo luogo l'importanza che assume il processo di costituzionalizzazione della destra, la sua definitiva uscita dal fascismo e dal postfascismo, il suo ancoraggio alle piattaforme della destra popolare, di massa, che è tipica di molti Paesi occidentali. • E non c'è dubbio che è interesse generale del Paese non isolare la destra su una posizione radicale e insieme elettoralmente più forte: tale, complessivamente, da arrestare il processo che essa ha iniziato. È evidente, in secondo luogo, l'interesse che avrà la revisione degli orientamenti e dei contenuti programmatici delle forze di sinistra, su cui attualmente grava una col60
tre di nebbia che contribuisce a respingerle all'opposizione. Si tratta di inserire, in un.tessuto che ancora risente delle tentazioni egemoniche nutrite dalla cultura gramsciano-togliattiana, un robusto innesto di cultura istituzionale ed economica che fissi in Italia la presenza di una sinistra di tipo europeo per spirito, obiettivi, valori e contenuti. È evidente, infine, che di grande rilevanza sarà la dimensione politica che si darà un mondo cattolico in profonda evoluzione. E non c'è dubbio che l'interesse del Paese non è quello di tornare ad un'egemonia basata sulla sua unità politica - e retta dalla prassi delle mediazioni senza scelte che fu il modulo di governo della. Dc - ma quello di arrivare ad una presenza qualificante (maggioritaria?) delle forze cattoliche nello schieramento che ad esse è più connaturale (in questo senso parlano le esperienze della Germania, dei Paesi Bassi, della Spagna e del Belgio), come pure nello schieramento alternativo di sinistra. Questi complessi processi, culturali, politici, istituzionali, sembrano essenziali per fondare un regime maggioritario di tipo occidentale. Ma essi presuppongono a loro volta un clima politico diverso da quello che si è affermato dopo le elezioni di marzo, e che sembra dovuto essenzialmente agli errori politici del Presidente del Consiglio e alla reazione aspra dell'establishment consociativo colpito dalla vittoria delle destre. In effetti, ovunque esi-
sta, il regime maggioritario non solo richiede ma presuppone un "mutual endorsement" delle forze alternative. Ed esige la convergenza su un nucleo di valori e principi comuni sui quali ancorare il Paese al di là delle nette contrapposizioni politiche determinate dal maggioritario. Tutto ciò è non solo necessario, ma particolarmente urgente che si verifichi in Italia: prima che la polarizzazione politica diventi incomunicabilità e la contrapposizione aspra degeneri in spaccatura. Spaccatura politica, geografica, spirituale, sociale. È questo, in effetti, uno dei possibili esiti del duro conflitto accesosi dopo le elezioni: il terribile cammino che si può aprire dietro l'angolo, sospinto dal rifiuto di varare nuove regole valide per maggioranze e minoranze, accelerato da una riforma dello Stato poco meditata, favorito dallo spirito fazioso che nella penisola non cessa mai di spirare. Occorre fare un passo indietro prima di imboccare quel cammino in modo irreparabile. In tutto il mondo occidentale ha cominciato a levarsi un vento di reazione contro la politica, che è l'espressione di esigenze, di desideri, di egoismi, di rifiuti, di chiusure spirituali. È questo vento, per esempio, secondo l'interpretazione generalmente accettata, che ha portato l'opinione americana a schierarsi nelle elezioni di novembre contro un Presidente che ha aumentato di alcuni mi-
lioni i posti di lavoro, ridotto il deficit federale, controllato l'inflazione e ottenuto importanti successi nel campo della politica estera. In Italia, se un vento del genere tornasse a soffiare, dopo quello che a torto o a ragione ha spazzato via tutte ie forze e molte fra le istituzioni della Prima Repubblica, il cammino della disintegrazione dello Stato e della società si aprirebbe concretamente.
UNA TREGUA NECESSARIA
Per allontanare la tempesta che è nell'aria c'è bisogno anzitutto di una tregua alle tensioni che giornalmente si accumulano, e di cui il Paese, a quanto sembra, avverte ormai l'improduttività assai pii che l'utilità. Ma per avere una tregua c'è bisogno di arrivare al riconoscimento reciproco della legittimità delle opposte posizioni. C'è bisogno di accelerare la loro evoluzione e la loro definizione, sviluppando quell'ordinato confronto che solo può fissare anche in Italia la democrazia dell'alternanza. Così come c'è bisogno di nuove regole comuni a tutti ed elaborate insieme. Tutto ciò non può nascere evidentemente dall'accentuazione delle polemiche. Può nascere solo, in concreto, da un impegno, un'assunzione di responsabilità, da parte dei leader politici più consapevoli della situazione del Paese: da atti coraggiosi, capaci di interrompere lo stato inerziale in cui le 61
forze politiche sembrano precipitare allo scontro. Certo, ciò sarebbe incoraggiato se da parte delle mezze ali cattoliche e laiche si prendesse il toro per le corna, proponendo uno schema di riforma dello Stato e delle regole non condizionato da retro-pensieri di ordine tattico (di formazione di nuove maggioranze). Se ci fosse veramente, cioè, nella concretezza delle cose, un impegno a porsi come elementi di qualificazione determinante del bipolarismo assai rozzo e confuso di oggi. E si farebbero passi, nello stesso senso, se si impostassero i problemi economici-finanziari con respiro prospettico, e in una visione realistica della questione dei conti pubblici. C'è uno sforzo che alcuni uomini della imprenditoria moderna stanno compiendo (gli scritti di Carlo De Benedetti, i saggi di Lorenzo Necci) per chiarire a che punto è l'economia del Paese. Si può aprire un'occasione storica per il nostro Paese, si sostiene. È davvero un sogno che leader politici consapevoli si pongano su un terreno nuovo su cui rianimare gli impegni alla politica e costruire una piattaforma più alta di confronto? E come non vedere - più in generale, ma nello stesso senso - quanto neces-
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sano sia il riprendere un'opera metodica di elaborazione, di riflessione, di cultura politica? È il problema dal quale cominciano, come abbiamo cercato di dire, tutti i discorsi. E non si può non convenire sulle suggestioni finali avanzate da Sergio Ristuccia nel suo lungo saggio. È urgente che le persone più qualificate a farlo si mettano all'opera e richiamino la classe intellettuale (e le sue grandi mediatrici: la stampa, la radio e la nv) alla necessità di un'opera culturale di lunga iena, fondata sull'indipendenza critica, che permetta di rieducare il Paese al senso della collettività, allo spirito di solidarietà, alla consapevolezza di obbiettivi comuni, alla considerazione di analisi serie, al gusto delle scelte pragmatiche: in una parola sola, alla politica. È utilissimo, in questo senso, cominciare a lavorare sul terreno concreto della pubblica amministrazione, sui quale tanti nodi si stringono che sono anzitutto culturali. Forse sarebbe anche bene riconsiderare, più in largo, l'opportunità di quella "società degli àpoti" di cui dibattevano alloro tempo, in ben altra situazione, Prezzolini e Gobetti. Stando però con Gobetti: "tuttavia, già la nostra cultura, come tale, è azione, è un elemento della lot-
Pontieri e guastatori di Giovanni Bechelloni
Non è difficile condividere la lucida analisi che Sergio Ristuccia sviluppa sull'articolo di apertura del fascicolo dedicato al ventennale di Queste Istituzioni: Mettere La democrazia al lavoro. Anche la proposta operativa che disegna il possibile intervento della rivista per i prossimi anni mi sembra largamente condivisibile. Non è difficile condividere analisi e proposte per chi, come lo scrivente, non ha rinunciato a pensare che il destino dell'Italia possa essere di sviluppo, di completamento. di un processo di modernizzazione e di democratizzazione ancora largamente incompiuto, dimezzato e ferito. Tanto è vero che chi scrive si è attivamente impegnato a far nascere, nel campo specifico delle proprie competenze, un'aggregazione di risorse universitarie, pubbliche e private, finalizzata a promuovere e valorizzare conoscenze scientifiche capaci di fertilizzare le competenze professionali e di alimentare opinioni pubbliche. Ma... un grande ma si è affacciato all'orizzonte, ponendosi come un ostacolo che non può essere eluso, proprio sul percorso di azione e di riflessione
da me intrapreso e che va, ripeto, nella stessa direzione delineata da Sergio Ristuccia. In questo mio intervento cercherò di mettere a fuoco l'ostacolo che mi pare di vedere, proponendo anche una strategia per contribuire a rimuoverlo. Penso che non si possa far finta di non vedere l'ostacolo che, ormai a distanza di otto mesi dalle elezioni politiche del marzo scorso, si è reso sempre più visibile. Un ostacolo che non può essere del tutto aggirato, va affrontato. Se non vogliamo commettere errori di illuminismo che, in epoca post-moderna, non sono più perdonabili. Per comprendere la natura dell'ostacolo occorre far appello a quella "buona intelligenza delle cose" così ben evocata da Sergio Ristuccia nel suo articolo. Mi limiterò a poche considerazioni confidando sulla capacità evocativa degli esempi e delle citazioni. L'ITALIA IN UN PASSAGGIO DIFFICILE
Il titolo che ho apposto a questa breve nota già richiama la natura dell'ostacolo, che è di carattere "ideologico", in senso molto generale. La materia pri63
ma alla quale attingere per cogliere la natura dell'ostacolo è costituita dai volumi che si accumulano nelle librerie e sulle nostre scrivanie che trattano della identità dell'Italia e degli italiani e del vero e proprio dilagare di commenti e opinioni, analisi e dichiarazioni che, come fiume in piena, riempiono le pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Mai prima si era assistito a un fenomeno del genere: indicatore sicuro di una crisi, di un processo di cambiamento in atto. Si può leggere e ascoltare di tutto e del suo contrario. Prevalgono, tuttavia, le osservazioni superficiali, il guardare la superficie delle cose piuttosto che la realtà profonda, il guardare indietro piuttosto che il guardare avanti, il guardare dentro casa piuttosto che il guardarsi intorno. Gli stereotipi fanno premio sullo scavo che sarebbe necessario. Sicchè il risultato di tutte queste voci resta confuso. Non c'è chiarezza sulla diagnosi, perché l'oggetto di cui si parla non è, preliminarmente, messo a fuoco. Pochi sono gli interventi portatori di una visione , di un idea dell Italia che può essere giocata in avanti, come scommessa sul futuro. Come esempi di questo tipo minoritario di pubblicistica mi piace citare un volumetto leggero di un giapponese che conosce il nostro Paese (H. Nakamura, Il paese del sol calante, Sperling e Kupfer 1993) e un testo pi1 ambizioso, anche nel titolo: L. Necci e R. Normann, Reinventare l'Italia, Mondadori 1994). 64
Come esempio, invece, dell'altro tipo di pubblicistica, si possono prendere due articoli usciti Domenica 4 dicembre: Giorgio Bocca, Italia mi arrendo (La Repubblica); Paolo Mieli, Riti antichi, quiete sospetta (Corriere della sera). Entrambi gli articoli sono portatori di una immagine dell'Italia molto diffusa all'interno del ceto degli intellettuali: un'Italia diversa dagli altri maggiori Paesi europei e, proprio a causa di tale diversità, condannata ad essere perennemente criticata dai nostri intellettuali illuministi, di matrice e di formazione letteraria o giuridica. Scrive Paolo Mieli: " ... l'Italia la guerra fratricida ce l'ha nei cromosomi e, da secoli, il suo principale problema politico è stato quello di escogitare formule che tenessero insieme gli opposti per impedir loro di produrre accoltellamenti a ogni angolo di strada. Poi, un bel giorno, all'inizio degli anni Novanta, decidemmo tutti assieme che era venuto il momento di cambiare e di adeguarci alle pii moderne democrazie occidentali. Ci raccontammo l'un l'altro che eravamo maturi per dividerci, separare le responsabilità come si usa nei Paesi civili: chi vince, vince e chi perde, perde; di qua chi governa di là chi si oppone e controlla. Stava per iniziare 1 eta dell oro. Giorgio Bocca nel suo articolo scrive: se gli americani, gli svizzeri, gli inglesi nascono democratici noi nasciao rassegnati al pote-
Nei passaggi di questi due articoli si possono trovare condensati i motivi conduttori principali di un'analisi molto diffusa sulla "natura" dell'Italia, un'analisi che fa velo sulla capacità di intendere una storia, una cultura, una trasformazione. L'Italia è certamente un paese "diverso" dagli altri paesi europei, ma tale diversità non è solo un insieme di elementi negativi, contiene molte opportunità, molte risorse. Come non accorgersi che proprio alcune caratteristiche fondamentali della cultura e della politica italiana hanno impedito che si producessero in Italia le guerre di religione, con tutto il loro retaggio di violenza e di distruzione? Perché evocare continuamente i guelfi e i ghibellini quando la realtà di lunga durata di questo Paese non è quella delle faide bensì quella ben più pragmatica, anche se eticamente discutibile, del noto proverbio "Francia o Spagna purchè si magna"? Proverbi9 che allude a un tessuto connettivo di relazioni sociali che impedisce la lotta fratricida. Come non cogliere gli aspetti positivi dello straordinario sviluppo italiano che si è dispiegato come una vera e propria "grande trasformazione" tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta? Perché non ricordarsi che dietro la guerra fredda e l'apparente contrapposizione tra rossi e bianchi ci sono stati altri e ben più importanti fenomeni aggregativi che hanno reso la trasformazione meno
dolorosa di quanto sia stata in altri Paesi? Come non accorgersi che il problema italiano non è mai stato quello di una tendenza diffusa alla sottomissione al potere ma, se mai, proprio la tendenza opposta: quella di irridere e contestare il potere che non ha mai potuto contare su una legittimazione diffusa? Ogni cultura produce le sue regole e anche la nostra le ha prodotte e le produce. Rispetto ad altri Paesi europei il nostro è meno normato, meno ordinato, ma è altrettanto vero che è più normativo, capace cioè di inventare e produrre sempre nuove regole, man mano più adeguate al cambiarsi della situazione. Dove sta scritto, se non nella testa degli illuministi, che le regole abbiano da essere immutabili ne! tempo? E, soprattutto, dove sta scritto che le regole producono la cultura e non viceversa? Non so se con questi interrogativi sono riuscito a evocare la natura dell'ostacolo che ci sta di fronte. Sono interrogativi che invitano a osservare i processi storici dietro e al di là delle vicende politiche, delle battaglie ideologiche: osservare i processi e ascoltare le voci che nella lunga durata hanno contribuito a costruire una noità italiana, un sentimento comune di appartenenza che mai prima era stato così forte e diffuso come negli ultimi anni. Siamo, come Paese, in una situazione di forte cambiamento. Milioni di italiani sono impegnati, in modo più o meno consapevole, e nel conte-
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sto della vita quotidiana, in un processo di cambiamento che richiede forti riorientamenti valoriali e comportamentali. Le resistenze sono forti e diffuse; cambiare è difficile perché sembra di dover lasciare ancoraggi e certezze per affrontare rischi e incertezze. Ma i processi di cambiamento, se sul piano superficiale dividono, sul piano profondo dei sentimenti individuali e collettivi uniscono, perché consentono a tutti o a quasi tutti di essere messi alla prova, di dover fare delle scelte. La necessità di cambiare deriva da molte variabili, quasi tutte esterne al contesto italiano, quasi tutte collegate al fatto che l'Italia si è posizionata in questi decenni in una situazione di grande apertura con il contesto internazionale, un po' su tutti i piani: da quello economico a quello culturale e del costume. I processi di internazionalizzazione, individualizzazione, democratizzazione sono molto piii avanzati, a livello societario diffuso, di quanto non pensino i nostri intellettuali.
DALLA SICUREZZA ILLUSORIA DELLA RENDITA AL RISCHIO INNOVATIVO DEL PROFIYO
Ecco, allora, la natura dell'ostacolo: la definizione della situazione. Vi è una lotta in corso in Italia, combattuta "a suon di media", per la definizione de!la situazione nella quale il Paese Italia si trova.
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Da una parte abbiamo il partito dei conservatori - un partito trasversale costituito da intellettuali e politici di molte tendenze sia "di destra" sia "di sinistra" - che definisce la situazione italiana con categorie obsolete, che guarda indietro, che si arrocca sulle vecchie etichette e sulle vecchie ideologie, che ha molta voce e visibilità su tutti i media. Dall'altra parte non c'è un partito vero e proprio, non c'è nemmeno un movimento. Ci sono persone e gruppi, stati d'animo e sensazioni, riflessioni e consapevolezze seriamente argomentate. C'è una situazione magmatica, di ricerca e di apertura. C'è una parte (maggioritaria?) del Paese che si esprime quotidianamente nelle scelte di vita e professionali, di consumo e di investimento, di risparmio e di progetto. Non è una società civile organizzata e del tutto visibile (sono d'accordo con Sergio Ristuccia). Ma esiste, si muove, è alla ricerca, confusa forse, di una via di uscita, di una visibilità, di una capacità di organizzarsi, contare e pensare sulle decisioni strategiche che andranno prese. Mi è venuto di pensare - di qui il titolo di questa nota - che questa seconda parte, in sintonia con gli umori e le tendenze di lunga durata della storia italiana, con l'Italia profonda ricca di vitalità, possa costituire un "partito" o un movimento di pontieri, di persone e gruppi capaci di costruire ponti tra il nostro passato e il nostro
futuro, cogliendo la vitalità delle nostre migliori tradizioni per trasformarle in vantaggio competitivo su1 difficile, ma non impossibile, passaggio verso il futuro. Perché questo passaggio possa compiersi, tuttavia, è necessario sgomberare il campo dalle rovine; è necessario mettere a freno, contrastare il primo partito, quello che potrebbe essere chiamato dei guastatori. È un partito vasto e articolato che annovera tra i suoi militanti quasi tutti i professionisti del dibattito politico-culturale: siano essi ministri, capi-partito o capicorrente, intellettuali critici o giornalisti, uomini e donne del video e dello spettacolo. Quasi tutti arruolati in questo strano partito trasversale, che ha radici antiche nella storia dell'Italia unita, ognuno di loro si percepisce come persona critica, che ha il coraggio intellettuale e morale di tirare il suo bravo "sasso in piccionaia", prendendosela con nemici veri o immaginari. Riflettendo su questa metafora mi è venuto di evocare questa immagine: i Italia e oggi come una enorme piccionaia" sulla quale quotidianamente si tirano tanti di quei sassi che, se continua così, la "piccionaia" finirà per crollarci addosso sotto il peso dei troppi sassi! Ecco, allora, quale mi sembra, adesso, il compito prioritario al quale dedicare tutte le energie: rendere visibile, dandogli voce e facendolo esistere sulla scena pubblica dei media, il movi-
mento che non c'è, il partito che non c'è: quello dei pontieri. Occorre battersi, sul piano della pubblica discussione, contro l'eterno partito trasversale dei guastatori, degli sciabolatori, dei moschettieri. Intanto rendendoci conto che non c'è giornale o testata televisiva, non c'è voce o pubblico dibattito che - salvo poche e lodevoli eccezioni - non sia disposto o disponibile a giocare la parte dell'eterna sceneggiata italiana. Con la scusa o il pretesto che l'italiano è anarchico e che la gente non capisce, è tutto un dispiegarsi di voci che l'anarchia alimentano alla grande, magari invocando le regole, la democrazia e il mercato. Non sono voci che vengono dai basso, dalla periferia o dal profondo. Sono, per io pi1, voci che vengono dall'interno della classe dirigente e che non si distinguono tra loro se non per il colore politico che di volta in volta assumono. Ma il tono gladiatorio, il sapore giacobino o lo stile illuministico le accomuna tutte o quasi, anche quelle che apparentemente si presentano con tratti di forbita eleganza stilistica. Scrivevo poco sopra che si tratta di una sceneggiata; la trama è inconsistente; le battute sono estemporanee: le voci dell'uno sono suggerite dalle voci dell'altro. Se ciò che viene scambiato sul palcoscenico quotidiano dei media non avesse a che fare con noi, con la nostra vita individuale e collettiva, si potrebbe anche essere tentati 67
di divertirci. Ma non è così. Gli attori che pubblicamente recitano sul palcoscenico, quasi indifferenti agli umori del pubblico che assiste perplesso, si scambiano battute che non possono divertire, bensì solo preoccupare, tanto sono esse sfocate rispetto ai problemi che incombono, alle necessità che pure si avvertono. Stanno rievocando, con la complice partecipazione di tutti o quasi, i fantasmi peggiori del XX secolo. L'accordo sulla finanziaria non deve, allora, spaventare per il suo sapore di compromesso che, per nostra fortuna, si è raggiunto, quasi sull'orlo di una crisi che avrebbe potuto essere devastante. Bensì per il fatto che, prima del compromesso, ben pochi abbiano operato perché ci fosse una soluzione più rigorosa e coraggiosa. La crisi di tangentopoli è stata importante. Si sono create le premesse per ricominciare. Ma tale ricominciamento non è neppure avviato. Si è aperta solo una lotta per i! potere. Senza che nessuna nuova visione, all'altezza del destino possibile di questo Paese sia venuta veramente alla luce. Nessuna delle grandi parole chiave del nostro tempo - democrazia e mercato, liberalismo e federalismo, innovazione e sviluppo, rischio, creatività e competizione - riescono a entrare in modo credibile nella strategia politica di un leader o di un gruppo. Si continua, alla grande, ad alimentare sui media giornalistici il processo di delegittimazione che già era iniziato a partire dalla 68
seconda metà degli anni Ottanta. Non si delegittimano solo lo Stato o la classe politica ma anche quelle istituzioni - come l'Università, la Scuola, i luoghi di produzione delle scienze e delle conoscenze - che dovrebbero essere messi al riparo dalle rumorose faide della politica politicante. L'Italia è diventata ricca, in questi anni, grazie all'emergere di una imprenditorialità diffusa parzialmente protetta dall'intervento pubblico che tollerando il doppio lavoro, l'evasione fiscale e un assistenzialismo diffuso ha consentito a molti di ripararsi dai venti gelidi della concorrenza e del mercato. È nato ed è cresciuto un ceto numeroso di produttori di beni e servizi semi-indipendente. La scommessa, adesso, è quella di trasformare questo ceto semi-indipendente in un ceto più autonomo e più competitivo, alleggerendo i compiti dell'intervento pubblico. Si tratta di una sfida importante per l'intero Paese. Per poter vincere questa sfida occorre, innazitutto, renderla chiara e visibile. Uscire allo scoperto. Costruire una strategia. Smettere di giocare a carte coperte, cominciando col chiamare le cose con il loro nome. Incamminarsi, gradualmente ma decisamente, per una nuova strada. Senza rancori verso un passato che ha avuto i suoi meriti. Ma anche senza gli infingimenti e gli ideologismi che hanno reso difficile capire ciò che stava accadendo. (Per valutare questo punto si facci mente
locale agli slogan deliranti e sfocati dei cortei e delle occupazioni studenteschi, figli di una generazione senza interlocutori credibili, capaci di dialogare, di far capire, di ascoltare ma anche di interloquire). Il grande sociologo tedesco Norbert Elias ha dedicato le sue migliori energie scientifiche a farci capire l'importanza centrale, per il futuro della convivenza umana, della capacità di prendere le distanze, osservare e ascoltare se stessi e il mondo sociale, che è ad un tempo dentro di noi e fuori di noi. Attraverso un lungo e faticoso processo di apprendimento gli esseri umani imparano a conoscere il proprio mondo e imparano a controllare la violenza costruendo il processo di civilizzazione. Sarebbe veramente tragico, e paradossale a un tempo, se proprio i popoli che abitano la penisola italiana e che sono riusciti finora nel corso di uno dei più lunghi - forse il più lungo
- processo storico di civilizzazione a dar vita a tanti momenti alti della storia dell'umanità, fallissero in questo nuovo passaggio. Continuo a pensare che siamo, qui in Italia, in un momento alto del nostro sviluppo e mi piacerebbe che questa consapevolezza ci aiutasse tutti ad affrontare gli ostacoli con maggiore lucidità e determinazione. Perché questo accada occorre che i pontieri si facciano avanti, non lavorino nelle retrovie e riescono a farsi largo nel vasto e articolato mondo dei guastatori. Abbiamo bisogno di persone dedite all ascolto, all ascolto dell'altro. Abbiamo bisogno di pontieri capaci di costruire ponti, spengere incendi, abbassare le voci, ridurre il rumore. Se questo non riusciremo a fare temo che non ci sarà spazio per il tipo di azione politica prefigurato da Sergio Ristuccia nel suo manifesto programmatico.
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Il sistema radiotelevisivo. Potere e vecchiezza tecnica di Nino Cascino
Analizzando gli indici ventennali di Queste Istituzioni risulta un certo ritardo, ma anche un valido recupero - da parte del gruppo di studio e della redazione - nel considerare gli aspetti istituzionali e normativi della comunicazione di massa, con particolare riguardo al sistema radiotelevisivo in Italia (inverno 1986) e in Europa (n. 79-80 del 1989). La rivista ha anche sperimentato un osservatorio sui media e ha dedicato inoltre un incontro ed un numero monografico alla "comunicazione pubblica" nel 1991. Ma pochi settori di attività evolvono con la rapidità dei media ed è faciie riscontrare la necessità di riprendere il discorso in un contesto radicalmente mutato a livello internaziona-le, ove l'anomalia del caso italiano è rappresentata da un blocco del sistema (tecnico e commerciale, prima ancora che politico) in un contesto europeo e mondiale in profonda trasformazione. Occorre dunque ricorrere all'attività, ai documenti, alle normative di istituzioni internazionali per mettere in agenda approfondimenti di questa materia che abbiano qualche utilità 70
nel prefigurare il futuro della comunicazione a distanza anche in Italia. Del resto anche gli sforzi fatti a livello europeo per orientare l'evoluzione tecnica e giuridica, soprattutto della televisione e della sua componente pubblicitaria, sono già soggetti a severe verifiche ed a probabili imminenti revisioni. Cerchiamo qui di suggerire i punti essenziali degli approfondimenti che potrebbero impegnare il gruppo di studio, per almeno due anni, avvertendo subito che gli aspetti sui quali Queste Istituzioni ha maggior competenza non possono prescindere da quelli tecnici e commerciali che in questo campo sono determinanti.
LE TECNOLOGIE
Mettere questo punto al primo posto è abbastanza arbitrario: l'esperienza degli ultimi dieci anni ha dimostrato indubbiamente che le acquisizioni tecniche hanno una velocità superiore a quella delle innovazioni imprenditoriali e politiche, ma che il loro utilizzo è largamente determinato, ed anche
rallentato o sospeso, da scelte politiche a loro volta influenzate da potenti interessi economici. Questa premessa è fondamentale per evitare certe fughe in avanti, oggi alla moda, verso scenari di comunicazione globale come quelli legati alle cosidette autostrade elettroniche e, più in generale, alle tecniche di compressione numerica. In realtà ci si sta rendendo conto che una enorme moltiplicazione dei canali di diffusione non può essere ragionevolmente progettata senza una plausibile previsione del loro utilizzo e, quindi, senza un adeguamento industriale, ma anche culturale e professionale, dell'offerta, cioè dei servizi - audiovisivi e telematici - destinati a "riempire" le decine e poi le centinaia di nuovi canali. In altri termini può essere alquanto artificioso parlare separatamente di tecnologie e di mercato. Tuttavia resta vero che la riflessione giuridica sarebbe soggetta a rapida obsolescenza senza tener conto delle risorse tecniche al servizio della comunicazione a distanza, della sua pluralità di funzioni, della qualità dell'immagine e del suono, del formato degli schermi, dell'espansione transnazionale dei bacini di utenza, del multilinguismo, delle modalità commerciali di offerta e di fruizione, quindi delle diverse coperture finanziarie degli investimenti in hardware e software.
IL MERCATO
Nonostante la prudenza sui tempi dell'evoluzione commerciale indotta dalle tecnologie, non si possono ignorare le tendenze già in atto come la frammentazione del pubblico di fronte ad offerte sempre meno "generaliste". È evidente che l'aumento delle reti tematiche o "targeted", molte delle quali a pagamento, sarà seguita dallo sviluppo di offerte ancor più personalizzate (pay per view, video on demand) che si aggiungono al già cospicuo mercato del video. In questa prospettiva, molte normative faticosamente elaborate tra il 1986 e il 1989 mostrano la corda: basti pensare alle quote di produzione europea, ai limiti imposti al teleshopping, alle regole sulla sponsorizzazione ed alle rigidità europee, addirittura crescenti, sui diritti d'autore e diritti connessi, per capire, se non giustificare, le pressioni verso una totale de-regolazione. Ma proprio in Europa questa pressione rischia di avere effetti catastrofici per la bilancia commerciale del settore, per non parlare delle preoccupazioni, particolarmente vive nei Paesi più piccoli o di area linguistica ristretta, per il rischio di una vera e propria scomparsa di interi comparti dell'industria culturale. All'ordine del giorno, dunque, non si può non includere quella difficile conciliazione tra libertà del commercio mondiale e tutela delle identità cultu71
rali che, come è noto, è oggetto dei più aspri conflitti tra Stati Uniti ed Europa nei negoziati GArr. Poiché il conflitto riguarda sia talune norme sulla programmazione televisiva, sia gli incentivi alla produzione e distribuzione di programmi, è evidente la rilevanza giuridica di problemi che a prima vista sembrano riguardare soltanto il mercato.
GLI OPERATORI DELLA COMUNICAZIONE Qualsiasi nuovo indirizzo normativo non può trascurare l'ingresso di nuovi soggetti nel mercato della comunicazione a distanza. Il primo aspetto di questa trasformazione, la privatizzazione del broadcasting e la liberalizzazione di reti e servizi, è già in parte consumato e mette in gioco il ruolo dei servizi pubblici. La tendenza più radicale dell'emittenza commerciale, e di quella parte di forze politiche che più risente della sua influenza, configura la soppressione, presto o tardi, dei servizi pubblici di radiodiffusione. La tendenza opposta, politicamente minoritaria, auspica un loro rafforzamento, o almeno un loro adeguamento al nuovo panorama tecnico-commerciale. La posizione intermedia propende per una conservazione del servizio pubblico "di base", cioè tradizionale, finanziariamente garantito e controllato, lasciando ai privati tutte le nuove iniziative: in tal modo il ruo72
lo dei servizi pubblici verrebbe politi-. camente e giuridicamente confermato (due segnali importanti si sono registrati in proposito negli ultimi mesi, in Germania e nel Regno Unito) ma percentualmente la presenza degli organismi pubblici diventerebbe "di fatto" sempre più marginale. L'orientamento ufficiale in proposito sarà espresso dalla Conferenza Intergovernativa del Consiglio d'Europa che avrà luogo a Praga nel dicembre 1994. Il secondo aspetto della nuova tipologia di operatori riguarda invece il futuro di medio periodo: il principio della separazione, finora auspicata in sede comunitaria, tra gestione del "vettore" e gestione dell'offerta, potrebbe essere seriamente incrinato dall'ambizione delle imprese di telecomunicazione di procurarsi direttamente il software (audiovisivo, telematico, informatico) saltando la tradizionale figura de! broadcaster. Vi sono naturalmente resistenze a questa tendenza, per le sue rilevanti ripercussioni culturali; ma l'economia di scala della multimedialità sembrano legittimare sempre più una concreta riduzione della pluralità d'impresa in grado di determinare realmente l'offerta al pubblico.
LE CONCENTRAZIONI L'attenzione verso il fenomeno delle concentrazioni dei media, e soprattut-
to tra più media, attraversa una fase contradditoria. Da un lato l'orientamento neoliberista di una maggioranza di governi e della stessa Commissione dell'Unione Europea, intende ostacolare sempre meno le grandi dimensioni ed il carattere multimediale delle imprese europee nel campo della comunicazione, con l'argomento della competitività sul mercato mondiale. D'altro lato, le recenti vicende italiane suscitano una forte apprensione nei confronti delle concentrazioni che siano in grado di alterare le regole della concorrenza e, soprattutto, di violare il diritto del pubblico al pluralismo dell'informazione ed alle pari condizioni da assicurare ai soggetti politici ed ai gruppi sociali. La difesa della "taglia" internazionale e multimediale delle imprese rende reticenti, in materia antitrust, non solo le legislazioni ma persino i documenti di studio, sia dell'Unione Europea, sia de! Consiglio d'Europa. Tuttavia, un punto sul quale si è raggiunto un diffuso consenso è quello della trasparenza della proprietà e dei poteri reali sui media, incluso il controllo sulle fonti di finanziamento commerciali. L'autonomia della programmazione radiotelevisiva rispetto a qualsiasi condizionamento politico ed economico viene ribadita ad ogni occasione, ma potrebbe diventare - in assenza di una seria prevenzione delle posizioni dominanti - una flatus vocis.
LA PROTEZIONE DEI DIRITTI
Oltre alla tutela delle condizioni di concorrenza e dell'autonomia di programmazione, restano molto presenti in Europa ie preoccupazioni che riguardano, in senso lato, i diritti dell uomo da garantire ai soggetti terzi": in questo campo, per ora, non si ravvisano sensibili cedimenti. La tutela dei minori, il diritto alla privacy ed alla presunzione d'innocenza, la già citata difesa (peculiare della cultura europea) delle prerogative degli autori, interpreti, esecutori, detentori di diritti di diffusione o distribuzione, il diritto di replica ad informazioni false o lesive dell'onore, restano punti fermi nel dibattito politico e giuridico; ma la loro applicazione, in un contesto in così rapida evoluzione, solleva anch'essa problemi sempre nuovi: basti pensare all'integrità delle opere di fronte al fenomeno pubblicitario, alla rigogliosa pirateria audiovisiva, alle sempre più sfumate distinzioni tra pubblicità, sponsorizzazione, televendita e telepromozione, per capire come il principio dominante della libera circolazione dei servizi abbia bisogno di regole certe per non trasformarsi in una specie di barbarie comunicativa. Come si vede l'agenda è fin troppo ricca e può essere trattata soltanto selezionando gli argomenti e disponendoli nell'ordine più logico, nonostante la loro forte interazione.
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Il Begriffo e l'Ircocervo di Marcello Fabbri
Venti anni di lavoro, di documentazione, di riflessioni a più voci in diversi campi convergenti, hanno prodotto, di fronte alla «finestra temporale» che sembra essersi aperta, una proposta di iniziativa; il miraggio ampio appare suilo sfondo - un passaggio storico fra due forme di Repubblica. Ma le osservazioni sulla cultura italiana del «trasformismo», contenute nell'articolomanifesto di Sergio Ristuccia riconducono sul duro terreno del realismo le prospettive visibili da quella «finestra» che si apre su un panorama di classi dirigenti non dissimili da quelle del recente passato, se non per un minore quoziente di «senso dello Stato» (si fa per dire ... ). Ancora più problematico quindi un ragionamento su Queste Istituzioni che per forza di cose sociali non potrà non svolgersi all'interno dei ceti che detengono in varie forme la leadership diffusa e capillare nel Paese; e nei quali gli eventuali interlocutori del dialogo che Queste Istituzioni vuole avviare nuotano come pesci nell'acqua (un'acqua un po' inquinata, forse, e perciò una parte di questa fauna ittica si trova a disagio). Ma il tema (l'interrogativo) centrale del saggio di Ristuc-
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cia è l'attore dell'innovazione; e poiché il fine è operativo e di iniziativa, possiamo per il momento concentrare il ragionamento su quei due sostantivi. L'attore. Una riflessione sollecitata da venti anni di lavoro stimola - a sua volta - riflessioni su percorsi politici, culturali, personali o collettivi, per così dire «sperimentali», in quanto pagati con l'esperienza. Il pericolo di scivolare nell'«autobiografico» non durerà più di poche righe, ma può essere proficuo, dal momento che fin da quando mi capitò di imbattermi nella «politica» le forme in cui questi incontri sono avvenuti portavano inevitabilmente intrinseca una «deprecatio» contro la «forma-partito» (che poi, per la sinistra, è la forma-partito ereditata dalla Seconda Internazionale, riplasmata all'italiana dal fascimo e, in seguito ed erga omnes, dall'ecumenismo democristiano). Cinquant'anni dall'incontro con G.L., nella fattispecie della gestione delle repubblichette partigiane dell'Astigiano; e poi - dopo il travaglio post-bellico - l'esperienza comunitaria, e per di più in Basilicata (con tutto quel che c'era dentro di attrazione-rifiuto verso il «levismo» e l'auto-
nomia contadina). E insieme - e in seguito - l'urbanistica e l'INU, nelle forme delle «Fabian Society» che quell'istituto aveva assunto, sulla scia olivettiana, con il programma di ridisegnare la geografia e le istituzioni del Paese (il Piano, la legislazione urbanistica e le autonomie) fino all'exploit del primo centro-sinistra, quando riscontrammo la realtà «reale», e cioè che il sistema delle istituzioni - con il suo personale, soggetto civile di gestione del Paese - era del tutto alieno rispetto all'innovazione. E ancora: le discussioni «portate avanti» sulle forme-partito e sui partiti, in particolare nei loro comportamenti in presenza di movimenti di base, di aggregazioni urbane, ma anche di cooperative e circoli e case del popolo e così via... Non è un curriculum, è un ripercorrere, per prendere fiato e rincorsa, le strade lungo le quali si sono accumulate le riflessioni sugli «attori»: sul soggetto o i soggetti politici e sociali. Se, in poche parole, si può chiudere il bilancio di questa ricerca sulle modalità aggregative che hanno comunque tentato di scavare, nel nostro Paese, nicchie di autonomia, di iniziativa, di convivenza civile, allora mi pare di poter concludere, in data odierna, che quel «motu proprio» per la produzione di rapporti sociali non deriva tanto - come si usa dire - dal divario fra «società civile» e «società politica» (per le ragioni che Ristuccia ha ricordato e
che inducono a raffigurare l'una e l'altra «società» in un solo «ircocervo»); ma dal divario fra questo ircocervo il funzionamento globale di quello che ventisei anni fa veniva chiamato «il sistema» - e le ragioni della convivenza organizzata, l'humana civilitas. Non ho alcuna intenzione «tecnocratica» (anche se un discorso sulle «competenze» andrà fatto); né tantomeno propendo per una versione hegeliana dello Stato, entità metafisica (in questo caso rovesciata nel suo aspetto peggiore). Con atteggiamento molto più empirico, il periodo trascorso a guardare l'altra faccia della medaglia, dalla parte delle aggregazioni di base e dei modi in cui l'espressione di bisogni individuali e collettivi maturava iniziative associative, informali o formali o tendeva a cercare interlocutori o «contenitori» in queste ultime, mi ha suscitato la domanda (retorica?) se in realtà anche da questa parte non vi sia alcuna possibilità di sbocchi, proprio perché la forma-Stato, in Italia, a cui equivale specularmente la formapartito in quella che è stata chiamata «costituzione materiale», è inidonea a «formare» (cioè a dare configurazione e funzionamento) alla humana civilitas. Nelle forma-Stato mi sembrano in buona parte inclusi tutti i componenti di una «società civile» plasmata a immagine e somiglianza di questa «cultura dello Stato» (di questa specie di Stato), generata dal «pubblico», dalle istituzioni. Non siamo di fronte a spa75
zi da riempire da parte delle «non istituzioni», ma alla incapacità-inidoneità organica a dare funzionalità al tutto: movimenti, aggregazioni, volontarismo iniziative ecc. non possono né potranno «ingranare» un meccanismo finalizzato a non produrre se non se stesso. Un se stesso che poi è la società italiana, così fortemente intrisa di «pubblico» e da questo condizionata.
LA STASI DEI COMPORTAMENTI PUBBLICI
Quindi, se «nel turbinoso evolvere degli eventi che stiamo vivendo si comincia diffusamente a capire che «occorre tornare a fare politica» perché esistono, aperti e irrisolti, alcuni problemi della convivenza civile e nazionale che non è possibile affrontare e risolvere con meri atti amministrativi...», il problema è ben più profondo, insito nel radicamento sociale del nostro Stato (= istituzioni), nella ideologia che lo sostiene, nel <begriffo» - come dicevano gli studenti napoletani per cui non solo all'orrida figura dell'ircocervo assocerei come anima quel «begriffo» lì, ma darei come genitori le istituzioni e lo Stato, da cui deriverebbero società civile e politica, accomunati in una stasi dei comportamenti pubblici che mantiene «al loro posto» tutti i rapporti civili: i grandi mutamenti radicali (divorzio, aborto ... ) hanno attinto alla sfera del personale, non ai legami con incidenze 76
statuali (si veda la fine delle riforme: sanità, scuola, autonomie locali, urbanistica ... ; delle riforme in generale). È una questione di uova o di galline? Certamente, appunto perché in un sistema fortemente statalizzato, assistito non per una coerente scelta strutturale di welfare, ma come frutto di radici caritative e populiste e nazional-paesane (perché non rileggere l'Antistoria d'Italia, di Fabio Cusini?) l'ideologia conservativa è radicata come bisogno reale, di sopravvivenza elementare e diffusa (il successo delle nuove formazioni politiche non sarà stato favorito dalle minacce di innovazione timidamente avviate da Amato e che sembravano prendere corpo con Ciampi? E infatti i primi bersagli: la RAI che tentava di diventare critica e comunqud attingere a qualche livello di qualità, la stampa «lib-lab», la magistratura «cattiva» ... ). La nuova «classe dirigente» sembra più realista del re-popolano (sempre il buon re Ferdinando, vero, legittimo e perenne re d'Itaha, eterno come il cardillo addolorato, sua controfigura). E ancora: tutto il ragionare, il promuovere, il discutere, l'auspicare, l'aggregare in relazione a: (issues, bisogni, qualità della vita ... ) non ha forse trovato la sua scorciatoia in un rapporto diretto fra domande/aspirazioni e potere, fulmineamente costruito da Forza Italia (con che si spiegherebbe come mai i radicali vi si trovino a loro agio) come riduzione dell'immagina-
rio collettivo a schemi e semplificazioni elementari?...
I SOGGETTI DELL'INNOVAZIONE Se tutti questi discorsi serviranno a riflettere sugli «attori», per «tornare a fare politica» occorrerebbe qualche approfondimento ulteriore, rispetto a quei possibili soggetti che si incontrano sparsi e sperduti nell'articolo di Ristuccia: cioè «quanti operano nel campo multiforme dell'attività sociale o di quella professionale, ecc.». A questo punto si può tentare di chiarire meglio la qualità del primo sostantivo pensando al secondo: l'innovazione. Se il problema è nello stesso tempo concettuale (la trasformazione del «begriffo» istituzionale, amministrativo, del servizio pubblico-civile) e tecnico, di efficienza e nuove modalità efficaci di comportamenti, gli «attori» potranno sentirsi coinvolti, mettersi in moto, prendere iniziative e fare la prima mossa e diventare soggetto politico non solo quando e qualora si chiedano <(quale sia il proprio ruolo nel presente sistema sociale e nel momento storico», ma anche quando vedranno (sapranno fare in modo che) «conoscenze e saperi di rilievo generali da far valere nel dibattito e nella lotta politica» potranno essere politicamente, strategicamente, efficaci - per così dire - in ((presa diretta»: qui l'argomento è assai delicato e non ho com-
petenze sufficienti per affrontarlo con il dovuto rigore. Mi pare però che il tema della «rappresentanza delle competenze» sia la chiave per il passagio dalla fase dell'appello alla fase del soggetto politico: e ciò pone problemi di «ingegneria costituzionale» per i quali non conosco soluzioni, proposte non corporative - dopo quelle olivettiane (anche l'attuale delega, nei comuni in cui è avvenuta l'elezione diretta del sindaco, di gestioni amministrative ad assessori competenti, forse è accettabile dal lato della «competenza» appunto, ma non da quello della rappresentanza). Ma va anche detto: l'«olivettianesimo» non è un amore giovanile e se le proposte, le riflessioni, le esperienze di Adriano Olivetti (sempre non a caso oggetto di istintiva ripulsa da parte di tutta la politica del Regno ferdinandeo), sono utili oggi, questa utilità è conseguente alla loro base di partenza, cioè alla critica del mondo paleo-industriale e alla sua coagulazione in rapporti sociali e politici (e nelle connaturate ideologie e culture): una critica che non «tornava indietro», ma si proiettava al di là di quel meccanismo delle «one best way» tayloristica che permeava di sé il XX secolo, come eredità sofisticata della «meccanica razionale» di quello precedente. In altre parole: intuizioni generate dalla esigenza di nuovi processi produttivi rispondenti a tecnologie sempre pit avanzate, finalizzate a produrre altre tecnolo77
gie, sottolineavano il semplicismo rozzo della suddivisione dei ruoli, che tanto più rozzo appariva quando si estendeva, con la cappa ideologica del funzionalismo, alla società come «prodotto finito» ottenibile per montaggio, in cui ciascuno aveva la sua parte. Oggi non si fanno più così nemmeno le automobili, con il sistema «just in time», che implica un rapporto diretto e molto complesso, gestito dal computer, fra domande dell'utenza e organizzazione delle unità tecniche elementari su cui si basa il processo produttivo, sempre supportato con domande, proposte e risposte da un team tecnologico, ecc.; mentre si concepisce ancora secondo «one best way» il montaggio della macchina sociale e politica...). Nonostante la mia incompetenza in materia, mi sembra però questo il tema coinvolgente tutta quella «opinione>) (quella fauna) evocata nel saggio di Ristuccia; e perciò se è giusto - come linea d'azione - «elaborare, presentare e sostenere... importanti documenti legislativi di principio», su questo tema «di principio)> potrebbe/dovrebbe misurarsi, in maniera anche schematica, la configurazione pubblica dell'attore innovativo. Qui una chiosa sull'innovazione (la quale non è un fine ma un mezzo): un background di nuova funzionalità come essenza stessa di istituzioni rinnovate (da rinnovare, da qui l'aspetto di «in-
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gegneria costituzionale»), che permettano ai cittadini, singoli o associati, di andare dove vogliono; un treno che funzioni (e in Italia si tratta infatti di creare un nuovo sistema ferroviario, in tutti i suoi aspetti, geografico, tecnico, manageriale ecc.) e di fare quindi andare i treni. Da qui il carattere super partes, di servizio pubblico, che l'iniziativa può assumere, se accentra l'interesse sulla «rappresentanza delle competenze». A questo punto una osservazione finale potrebbe rimettere tutto in discussione: nell'articolo di Ristuccia non si legge mai la parola «Università»; negli indici (venti anni di lavoro ... ) non compare una sezione Università. Eppure è proprio da lì che nasce tutto, dalle «competenze» alla coscienza della «responsabilità civile»: e mi pongo la domanda, se non è proprio una caduta di coscienza e di responsabilità civile nel mondo universitario che dissangua quello che dovrebbe essere il nerbo civile e «competente» della Nazione (mi pare che in questo caso la maiuscola, come accentuazione ottocentesca e risorgimentale, non sia fuori luogo). Il fatto che tanti docenti scrivano, su temi di loro competenza, ma non sul modo di essere nel sistema (sono soddisfatti?) è un segno che le «competenze» non mettono in discussione i ruoli? t un suggerimento per i prossimi, proficui, venti anni di dibattito e di lavoro della rivista...
Lavorare per la democrazia di Sergio Fabbrini
Ha ragione Sergio Ristuccia a proporre modi originali "per mettere al lavoro la democrazia". Ha ragione perché i cambiamenti che sono intervenuti nella nostra democrazia impongono la ricerca di nuove modalità per l'elaborazione delle idee che debbono orientare il suo funzionamento. Non è questo il momento per discutere circa la natura di quei cambiamenti. C'è solo da rilevare che essi hanno portato ad un ridimensionamento significativo dei partiti politici, che della Prima Repubblica erano stati anima e corpo insieme. Tratterrò brevemente le implicazioni di questi cambiamenti sul piano che è qui d'interesse, per dialogare quindi con la proposta-provocazione di Sergio Ristuccia.
Dono LA PARTITOCRAZIA Se la critica al ruolo (esorbitante) che i partiti politici erano venuti svolgendo in Italia è stata puntuale e convincente, assai più vaga è stata, per necessità, la prospettazione degli scenari che a quella critica logicamente seguivano. Ho detto "per necessità", perché intor-
no all'interpretazione del ruolo proprio dei partiti si è sviluppata e continua a svilupparsi una cruciale battaglia di cultura politica. Non voglio farla troppo lunga, ma è indubbio che l'esito della transizione che stiamo attraversando rinvia all'interpretazione che diverrà dominante (cioè condivisa dalla maggioranza, non solo delle élite, ma anche dei cittadini) circa la collocazione dei partiti nel nuovo sistema politico. A me pare che due sono le interpretazioni che si stanno contendendo quell'esito: da un lato, l'interpretazione individualistica della democrazia, la quale non vuole distinguere tra governo dei partiti e dominio dei partiti (o «partitocrazia ); dall altro lato, l'interpretazione costituzionale della democrazia, la quale vuole enfatizzare la distinzione tra i'uno e l'altro. Va da sé che, se si affermasse la prima interpretazione, la Seconda Repubblica acquisirebbe caratteristiche scarsamente strutturale sui piano della mobilitazione politica, affidando il collegamento (o linkage) tra i cittadini e il potere politico a modalità non-partigiane, quali possono essere quelle che si basano sui movimenti referendari o 79
single-issues, sulla pressione lobbistica degli interessi particolari, o ancora e più in generale sui rapporti retorici e televisivi tra il leader nazionale e gli elettori-telespettatori. Al contrario, se si affermasse l'altra interpretazione, la Seconda Repubblica manterrebbe una relativa strutturazione della mobilitazione politica, proprio perché i partiti, anche se ridimensionati e ridefiniti, continuerebbero ad assolvere le funzioni di aggregazione delle domande sociali e di loro traduzione in termini di programmi di governo. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi che occorre operare intellettualmente per fare affermare la seconda interpretazione. Proprio in relazione alla più straordinaria esperienza di democrazia postpartitica (e non solo postpartitocratica) esistente, quella statunitense, ho cercato di mostrare nei miei studi e nelle mie ricerche i limiti di una democrazia connotata dalla mobilitazione privata e non dalla partecipazione pubblica. Fatto si è, comunque, che là dove i partiti sono sostituiti dai leader/candidati, più obliqua diventa l'alternanza al governo tra opzioni programmatiche differenti, e cioè tra una differente costellazione di interessi sociali ed ideali politici. Nel caso italiano, in cui quell'alternanza non si è mai realizzata e quindi non può usufruire di una predisposizione di già strutturata nell'elettorato, il superamento della politica di partito rischierebbe di "cambiare tutto per lasciare
Me
tutto come prima" . Con la differenza che, prima, l'elettorato aderiva ad un sistema di organizzazioni oligarchiche mentre, in futuro, potrebbe aderire ad un sistema di organizzazioni leaderistiche. Se così è, allora vale la pena di perseguire la strada della ridefinizione radicale (nel senso di «reinvenzione ) dei partiti, così da riportare il loro ruolo all'interno delle esigenze di una società matura (che non ha bisogno dei partiti per organizzarsi) e competiriva (che però ha bisogno dei partiti per essere governata secondo una meccanica bipolare). Le competenze Non so chi vincerà la partita. So, però, che i partiti non potranno più essere, come nel passato, il "cervello" della democrazia. La scarsa ed incerta istituzionalizzazione dei poteri di governo (esecutivo, legislativo ed amministrativo) della Prima Repubblica aveva offerto un'occasione straordinaria, ai partiti politici, per sostituirsi allo Stato, facendo quindi identificare lo Stato con se stessi. Ma là dove le istituzioni sono deboli, allora là, per dirla con Douglas, le istituzioni «non pensano". Non è un caso, dunque, che la vera e propria elaborazione di public policy, in quella repubblica, si svolgesse all'interno dei partiti (nei loro organismi dirigenti, coadiuvati dalle loro strutture, più o meno collaterali, di supporto tecnico-politico), piuttosto che nelle istituzioni statali. Così,
almeno, fino alla fine degli anni Settanta, perché già nel decennio successivo, in concomitanza con l'erosione ideologica ed elettorale dei partiti, una rete assai più articolata di network di singoli esperti e di gruppi d'interesse è venuta a beneficiare di un'influenza crescente nella definizione tecnica delle politiche nazionali. Ricerche di grande interesse, come quelle di Dente e più recentemente di Regonini, hanno mostrato come le competenze, in quel decennio, si siano venute ad affrancare progressivamente dai partiti, fino al punto di rappresentarsi in quanto tali all'interno dei poteri di governo: un'autorappresentazione che ha raggiunto l'apoteosi nei governi Amato e Ciampi (equiparati per la loro composizione, da alcuni osservatori, a Consigli di Facolta ). Tuttavia, tale processo di autonomizzazione delle competenze dei partiti è avvenuto con non poche incertezze, proprio perché esse non hanno potuto usufruire di solidi ancoraggi al di fuori di questi ultimi. Anzi, per molti aspetti si è trattato di un'autonomizzazione dei singoli competenti, piuttosto che delle discipline di cui essi erano portatori. E ciò perché tra gli uni e le altre non vi erano, in forma istituzionalizzata, comunità di intelligenze, attivamente al servizio della democrazia. Qui risiede il punto critico di una democrazia postpartitocratica. Infatti, comunque si risolva il confronto tra le due prospettive di Secon-
da Repubblica, quest'ultima avrà bisogno di un tessuto istituzionale, nonpartitico, di elaborazione di idee e progetti. Ma se così e, c'è poco da stare allegri. I1università pubblica, come ci ha spiegato Simone, è connotata da un tale degrado che difficilmente potrà esercitare un ruolo propulsivo nella orditura di quel tessuto. L'università privata non sfugge ai difetti di quella pubblica: il principale dei quali è stato la troppo acritica familiarità con il potere politico ed economico. Le fondazioni sono poche e generalmente prive di identità tecnica e culturale. Naturalmente, vi sono eccezioni significative (cioè, isole di eccellenza) in ognuno di quegli ambiti, ma non sono di dimensioni sufficienti per costruire intorno ad esse comunità di intelligenze, dotate, insieme, di un vitale spirito di corpo e di una verificabile qualificazione tecnica. Eppure quel tessuto ha da essere costruito, perché senza di esso la democrazia postpartitocratica finirebbe per essere soffocata dalla improvvisazione populistica. E per questa strada che giungo a condividere la "proposta-provocazione" di Sergio Ristuccia, anche se la declinerei, operativamente, in termini più generali rispetto a quelli proposti. Se non vi è dubbio che occorre dare un contributo alla costruzione di quel tessuto, e se è inevitabile che quel contributo deve indirizzarsi verso uno dei sostegni vitali di una democrazia non colonizzata dai partiti (cioè: l'am81
ministrazione pubblica), nondimeno mi sembra più efficace dare vita ad un vero e proprio think-tank di ricerca sui vari temi istituzionali, a partire da quelli relativi alle principali politiche pubbliche. E non vi è dubbio che, in proposito, come ha scritto bene Sidotti, il club di Società e istituzioni" abbia mostrato, da tempo, di avere una sensibilità culturale assente in buona parte della cultura politica nazionale. ' 6
L'autonomia intellettuale Ma qui insorge un problema che è bene non nascondersi. E cioè il fatto che l'autonomizzazione delle competenze dei partiti non può significare l'autonomizzazione delle competenze della politica. Di sicuro, la politica di una democrazia postpartitocratica è destinata a modificare in profondità il rapporto tra potere e competenze. Là dove la politica si è sostanziata in un permanente confronto tra diverse visioni del mondo, alle competenze è stato inevitabilmente affidato il compito di stabilire la congruenza operativa di questi ultimi, divenendo, quindi, strumenti verificabili della competizione per i! governo. Insomma, una politica competitiva presuppone il consenso sui problemi da risolvere e sulle metodologie con cui quelle risoluzioni dovranno essere ricercate. C'è dunque un piedistallo non-partigiano nell'elaborazione di una politica pubblica. Ciò permette di sottoporre alla verifica empirica le proposte avanzate
dagli attori della competizione, educando la cittadinanza a concepire la politica come l'attività, l'unica, finalizzata a risolvere i problemi generali. Ma se ciò è vero, è altrettanto vero che lo spessore di quel piedistallo non è molto alto. Ricercare e proporre, nel campo dei problemi istituzionali e di politica pubblica, significa lavorare secondo un dato ordine di priorità, perseguendo specifici obiettivi di benessere pubblico. Cioè: vuoi dire fare politica. Necessariamente, perché se la politica viene fatta in questo modo, allora la partitocrazia avrà difficoltà a rigenerarsi, dato che essa si alimenta del monopolio della produzione della politica, e non solamente di quello della sua traduzione governativa. D'altra parte, mi sembra poco plausibile sostituire all'ideologismo diffuso, della vecchia democrazia consociativa, il tecnicismo selettivo, della nuova democrazia competitiva. Per questo motivo, l'Associazione di cui parla Sergio Ristuccia deve essere un luogo di elaborazione di programmi a partire da una precisa definizione dei valori pubblici da perseguire. Insomma, un gruppo di pressione sì, ma con una sua identità ideale (e, in questo senso, politica). La competizione Ritorno al confronto tra le due interpretazioni della democrazia postpartitocratica. Se vogliamo, come io voglio, una democrazia dell'alternan-
za, tra diverse opzioni programmatiche, oltre che tra rivali leader politici, è necessario predisporre la società (e, al suo interno, le competenze) in questa direzione. La competizione deve riguardare, non solamente gli attori politici (partiti o poli) che si contendono il governo, ma anche gli attori culturali che si contendono la definizione del problema pubblico. Così, la democrazia postpartitocratica si potrebbe configurare come una democrazia intellettualmente pesante, co-
sì da impermeabilizzarla alle derive populistiche o plebiscitarie. Ben venga, dunque, un'Associazione che voglia correre il rischio di avanzare proposte per la risoluzione dei nostri problemi. Lo spirito pubblico ha bisogno di competenza (tecnica) come di passione (civile). Insomma, avviando questa iniziativa, pensiamola anche come un contributo al confronto in corso sui modello di democrazia che dovrà organizzare la Seconda Repubblica.
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La contesa sul fisco di Sergio Gambale
Il saggio introduttivo di Sergio Ristuccia al numero del ventennale di Queste Istituzioni è, come al solito, di quelli che uniscono al piacere di un lineare approfondimento sui vari temi del dibattito degli ultimi anni anche lo stimolo per individuare meglio i problemi da risolvere ed immaginarne le soluzioni. Allontanandomi un p0' dalla definizione data da Dahrendorf, direi che la società civile dovrebbe comportare una naturale convivenza di sistemi evoluti. Fra gli obiettivi da realizzare, la giustizia fiscale è fra quelli che mi sembra debbano avere una priorità. Il fattore fiscale, come quello economico, permea tutti i rapporti umani in modo diretto o indiretto, e tende a condizionare le forme, le caratteristiche e la Stessa esistenza. Se l'inflazione è un fenomeno essenzialmente monetario, la fiscalità è un fenomeno essenzialmente finanziario. Non è certo una esigenza naturale per l'uomo, ma lo diventa quando si è in presenza di un'aggregazione ordinata di soggetti. Non sono esistite, né sono immaginabili, organizzazioni sociali dove non si perseguano collettivamen84
te funzioni di utilità comune. Il rapporto di appartenenza porta con sè una implicita accettazione della regola del concorso alla realizzazione dei servizi collettivi. L'idea del federalismo fiscale, in un paese come l'Italia dove sono elevati sia il fabbisogno che il debito pubblico, non può essere visto come un richiamo a forme di lassismo fiscale, come potrebbe essere stato frainteso leggendo in chiave utilitaristica i messaggi politici sulla spesa pubblica e sull'autonomia finanziaria dei comuni. Il messaggio è, invece, molto più severo, in quanto richiama alla realtà delle cose, coinvolge a tenere d'occhio i termini del rapporto servizi-imposte, manda in soffitta la magia di un illimitato deficit spending. Esso richiama, in definitiva, la possibilità che le future generazioni chiedano il «beneficio d'inventano» nell'accettare l'eredità, rifiutandosi l'accollo del debito accumulato dai loro antenati. Il fare dei politici anzitutto degli amministratori dovrà servire a ridimensionare la «scienza dell'impossibile». Quello che non è possibile fare con le risorse che ci sono o che, comunque, potranno ragionevolmente essere mes-
se a disposizione, resterà impossibile. Non esisterebbero paesi poveri se fosse possibile creare per legge la ricchezza. Certo, progettare le politiche di governo non può eludere gli obiettivi di concorrere a costruire una società più civile, nel senso di fare evolvere i sistemi rilevanti. La stabilità delle acquisizioni sociali dovrebbe essere un connotato normale della società. L'esigenza di rivedere il sistema previdenziale in Italia avrebbe dovuto essere prevenuta, evitando di creare eccessive illusioni e limitando l'area dell'assistenza a! necessario. E se agli effetti delle norme si andranno ad aggiungere quelli di sentenze di così ampia portata come quello recente della Corte Costituzionale, gli sforzi da realizzare, ed i loro costi, rischiano di diventare veramente duri.
RIVOLTA FISCALE E DEBITO PUBBLICO
Il tema della cosidetta rivolta fiscale, piuttosto, merita, a mio avviso, qualche precisazione nelle premesse e nelle conclusioni che lo accompagnano. Se si scrolla l'argomento, accoglibile nel breve periodo, dell'illusione finanziaria, non credo che il grado della torchiatura fiscale si possa graduare senza tenere conto della spesa pubblica. Lo sforzo fiscale andrebbe misurato valutando il sacrificio delle diverse categorie di cittadini per disporre dei servizi prestati dallo Stato. Il raffronto nominale fra semplici dati della pres-
sione fiscale può essere distorsivo e, di per sé, non ha un grande significato. Il prelievo sulle retribuzioni e sulle rendite delle attività finanziarie, ad esempio, potrebbe essere alterato profondamente modificando le regole del gioco, magari evitando, come raccomandava Einaudi, operazioni che, nella sostanza, si risolvono in buona parte ,in mere partite di giro. Così, alla fine delle pur necessarie manovre che potranno essere adottate assecondando le autonomie locali ed assestando i conti della previdenza e della sanità per evitare di ricorrere ancora alla leva fiscale e, magari, per ridurne l'incidenza sul prodotto interno lordo, ci si potrà accorgere che lo sforzo fiscale realmente richiesto ai contribuenti è, invece, cresciuto. Il debito pubblico, oltre a fotografare la storia finanziaria, consente anche esercizi di chiaroveggenza fiscale. A meno che non si modifichi l'opinione prevalente - forse ne varrebbe la pena - guardando al debito pubblico come ad una componente delle attività finanziarie a disposizione dell'economia, è inevitabile che qualsiasi riduzione della sua entità non potrà che aumentare lo sforzo fiscale. E la rivolta fiscale si potrà consumare fra le categorie di cittadini o si potrà scaricare in un atteggiamento più comprensivo nei confronti del debito pubblico, portando ad un trasferimento intergenerazionale di risorse. Nella ricerca delle innovazioni da introdurre in un 85
paese che, come scrive Sergio Ristuccia, ha sperimentato una «rottura nella continuità dello Stato)) viene ricor dato il ruolo dei centri studi dei vari soggetti politici costituiti per l'analisi di particolari argomenti. Desigenza di evitare in questa area sostanziali diseconomie potrebbe essere conseguita con una azione di coordinamento da parte delle istituzioni pubbliche. La propos ta- provocazione del saggio risponde, quindi, ad una apprezzabile scelta di comportamento non inerziale. Piuttosto, l'obiettivo di impegni su temi che non rientrano nel «circolo vizioso della più stretta quotidianità» potrebbe costituire non solo un pregio, ma anche un punto critico del suggerimento. Definire questa caratteristica per i temi della ricerca potrebbe finire per dare all'individuazione dei problemi un peso superiore a quello
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dell'analisi necessaria per la loro soluzione. La proposta di un coinvolgimento della <(riflessione>) di soggetti che hanno una particolare conoscenza dei fenomeni rilevanti per la promozione di un qualificato censimento dei problemi e per un ordinato programma di ricerca che tenga conto delle risorse esistenti e delle priorità è senza dubbio interessante. I suoi limiti paiono essere costituiti essenzialmente dagli obiettivi che si intendono perseguire, ossia la realizzazione di più elevati livelli di efficienza e di efficacia di un'attività di ricerca molto frazionata. Il contenuto cruciale del messaggio può essere letto nel senso che nella contabilità economica, accanto alle misure delle risorse destinate a certe finalità, come la ricerca, si debbano misurare anche i risultati conseguiti.
Alternative del diavolo e amor di patria di Andrea Manzella
Scritto nel pieno della ((guerra delle pensioni», l'articolo di Andrea Manzella: L'alternativa del diavolo (apparso su «La Repubblica» del 19 novembre 1994) propone con grande chiarezza le questioni fondamentali della vicenda politica del Paese, alla prova dello scontro di novembre fra governo Berlusconi e sindacati. Con l'accordo della notte del 30 novembre, quella <(guerra» sembra finita (rimanendo, tuttavia, nella sua irrisolta e cruciale gravità la questione delle pensioni). Si può dire che, di conseguenza, si sono sciolte o dipanate le sconcertanti contraddizioni che attraversano la stagione politica italiana? Evidentemente no. Allora riconsideriamo quell'alternativa del diavolo che Manzella segnalava a novembre con tanta lucida energia; mentre sulle ragioni, quanto mai importanti, dell'inalterata vitalità della nostra Costituzione, rileggiamo il suo articolo, L'amor di patria («La Repubblica» del 3 gennaio 1995) (Nd.R.).
1. Fare della questione della sicurezza istituzionale la pregiudiziale ad ogni altro problema della Repubblica? O rispettare la scadenza del bilancio, rinviando a dopo la legge finanziaria la battaglia campale per le garanzie del nuovo sistema maggioritario? È questa l'alternativa del diavolo che da tempo pesa su chi ha responsabilità di opposizione. E la risposta era stata quella, «europea», di dare la precedenza al confronto sindacale e parlamentare sulla fissazione del punto di equilibrio finanziario del Paese. Ma questa scelta di tempi si è rivelata,
in questi duri giorni italiani, impossibile. In presenza di un governo poco affidabile addirittura sul piano della convivenza democratica (e pubblicamente diviso tra un'ala liberale e una illiberale, come se si trattasse di una opzione facoltativa ... ) si è visto, infatti, che ogni vertenza sociale assume immediatamente i toni, la forza e la dimensione di una opposizione «al regime». Certo, potevano aver ragione tutti quelli che, al governo o all'opposizione, pensavano che la gente non sarebbe mai scesa in piazza «per le regole»: 87
contro il conflitto di interessi o per la parità televisiva o contro la restaurazione delle pratiche lottizzatorie. Nessuno aveva però ben calcolato che se la gente si fosse mossa per le ingiustizie e per le malformazioni della manovra finanziaria, avrebbe, inevitabilmente, caricato la sua protesta anche del «resto». In fondo, queste manifestazioni sono state per tutti anche una grande lezione popolare sulla Costituzione. Hanno detto, infatti, che diritti politici e diritti sociali sono inseparabili in un sistema moderno di libertà. La messa a rischio dei primi è anche pericolosa per i secondi, e viceversa. E si è avuta la conferma che i grandi sindacati della concertazione sono anche soggetti politici generali: come del resto avevano ampiamente dimostrato con l'accordo del luglio 1993. In questa situazione, è cosa futile cercare i confini tra opposizione politica e opposizione sociale. Tali confini, infatti, non esistono: il movimento, che ora si diffonde, incorpora l'una e l'altra, saldate insieme. Nel senso che non ci sarebbe potuta essere protesta sociale di questo tipo se essa non ricomprendesse anche le gravi ragioni politico-istituzionali che hanno animato, dal primo giorno di vita, l'oppcsizione parlamentare contro questo governo. Bisogna dire ancora che nulla di tutto questo si deve imputare alla volontà degli elettori di marzo. Al contrario, le azioni di governo hanno travisato
quella grande ondata di opinione politica che credeva di scegliere il «partito del nuovo»: contro la corruzione, contro l'oppressione fiscale e la malamministrazione. E puntava ad un buon governo, basato sulle virtii modernizzatrici della cultura d'impresa. Nessuno di quei milioni di elettori avrebbe mai pensato che la sua scelta sarebbe stata: contro i (<suoi» giudici; per nuove «spartizioni»; per la soppressione del pluralismo televisivo; per un passaggio dall'odiato Stato proprietario ad una incredibile situazione di diritto proprietario sullo Stato; per la rottura, infine, della pace sociale. E da questo travisamento - e non dal risultato «di destra» delle elezioni - che è nata l'attuale crisi di tolleranza politica. Così, mentre in tutta Europa, elezioni e referendum (dalla Svezia alla Germania alla Francia) si giocano sui temi e sulle grandi politiche economiche e sociali dell Unione; mentre un immensa area del Pacifico si concretizza sulla sfida della liberalizzazione degli scambi di fronte agli europei; l'Italia è squassata da un ritorno pre-politico a paure, sospetti e tensioni sconosciute all'Europa comunitaria (e che il lungo processo di consolidamento democratico dei primi cinquant'anni di storia repubblicana sembrava avere dissolto per sempre). E a chi ha occhi per vedere, è in questo la sua vera e già possibile retrocessione europea (e non la temuta doppia velocità monetaria).
Comunque, nei sistemi maggioritari, i governi non cadono, come le mura di Gerico, sol perché l'opposizione - in Parlamento e sulle piazze - suona le trombe. Cadono, in primo luogo, per i loro stessi errori, per la mancanza di misura e di visione, per la carenza di una guida olitica adeguata. Tutte e tre le condizioni sono maturate per il governo Berlusconi. I mesi trascorsi hanno dato un'immagine di disunione, di disordine e di forzature inutili. Il risultato è stato il regresso del Paese ad una instabilità sociale e dell'ordine pubblico che non si registrava da decenni. L'alternativa del diavolo si rivela, allora, da questo punto di vista, un falso dilemma. Questo governo ha già provocato più danni finanziari che qualsiasi decisione di bilancio, per sbagliata o debole che essa potesse essere. C'è di più. È ormai illusorio pensare che esso abbia l'autorità e ottenga il consenso per le misure di contenimento e di correzione che già si profilano per assicurare gli obiettivi della manovra finanziaria 1995, anche dopo la conclusione della procedura di bilancio alle Camere. Gli avvenimenti ultimi dicono perciò, con molta semplicità, che è giunto il tempo del cambiamento. Il Paese ha in sé, in questo Parlamento, le risorse morali, umane e politiche per dar vita - in tutta tranquillità istituzionale ad un governo di riequilibrio democratico. Il governo attuale, che ha imboccato avventatamente la strada
dell'estremismo istituzionale può, infatti, superare molte «questioni di fiducia» ma contagia di estremismo l'intero sistema politico. Per fortuna, dalle elezioni di marzo è venuto fuori un Parlamento molto più complesso e molto più libero - di quanto lo si immagini a prima vista. E di quanto, soprattutto, lo immagini il presidente del Consiglio in carica. 2. Cinquant'anni fa anche i vinti d'Europa sperarono che la pace non sarebbe stata solo la fine di una guerra. Essi avevano in mente, forse più chiaramente dei vincitori, una speranza di costruzione politica radicalmente diversa da quelle che li avevano condotti alla rovina. Nacque allora, in quei paesi, invasi e quasi svuotati dal loro passato, il mito della Costituzione. Italia e Germania, pur così diverse tra loro, si concepirono come «nazioni costituzionali». Nel senso che la loro intima organizzazione, la loro vertebratura etico-politica doveva esser fondata su valori di libertà, di intrinseca garanzia tra i centri di potere, di reciproco riconoscimento tra tutti i cittadini: insomma, su un nuovo umanesimo di Stato che fosse i'opposto della violenza e della sopraffazione politica che le avevano disonorate. Negli anni che sono trascorsi da allora, il «mito della Costituzione» è divenuto realtà vivente di quei paesi, modo di essere dei cittadini: anche di 1.12
quelli che la Costituzione non l'hanno mai letta e non sanno che opera in essi come per una silente comunione nazionale. E un filosofo tedesco ha potuto così, felicemente, parlare, per questa condizione, di (<patriottismo della Costituzione»: come di una forma di amor di patria - forse l'unica che avvicina e non contrappone alle altre patrie ((costituzionali)>. La storia del consolidamento democratico di Italia e Germania è tutta sul filo della Costituzione come regola comune sopra le parti: anche quando una guerra civile fredda le attraversava e persino quando movimenti terroristici di grande penetrazione le dilaniavano. Ma la Costituzione non è stata solo il filo del labirinto nella complessa storia interna dei vinti del '45. Lo è stata anche nelle loro relazioni esterne: divenute queste ormai connessioni e proiezioni tra istituzioni nazionali che, solo perché vi è una omogeneità «costituzionale», generano istituzioni sovranazionali. La storia della costruzione europea è stata anche, in questo senso, storia costituzionale di Italia e Germania: le prime e le più generose a «limitare» le proprie sovranità, nell'autonoma ricerca di vincoli esterni alla loro nuova fisionomia statale. Il clamore e le preoccupazioni che, fin dal primo momento, hanno provocato e continuano a suscitare i fatti italiani del 1994, trovano origine e fondamento in questa specifica storia europea che comincia dopo la guerra. 90
Rispetto a tale storia, infatti, si è constatato o è parso (ma anche l'apparenza è politica e fatto e colpa, nell'universo della comunicazione ininterrotta e invasiva) che le elezioni del 27 marzo abbiano costituito non un cambiamento ma una negazione. Una rottura, cioè, di quello che era il senso profondo della Costituzione italiana in questo suo speciale legame con l'Europa. Tale il successo determinante di un movimento personalizzato e commercializzato, isolato dalle idee madri su cui ancora cammina la storia politica dell'Occidente. Tale la attenuazione rispetto all'originario e fondante rifiuto di forme di fascismo. Tale la violazione, per assurdo monopolio individuale, del principio di separazione del potere economico, del potere politico e del potere di informazione. Tale l'inizio di una confusa politica in seno all'Unione europea, in contrasto ad un passato di avanguardia. Queste cose furono avvertite fin dall'origine dall'opinione politica internazionale: anche se i nostri diplomatici, un po' dappertutto nel mondo, cercarono, con lodevole sforzo professionale, di farle apparire un pregiudizio. Ma il breve volgere di mesi si è incaricato di dimostrare la loro puntualità. Si è affermata, infatti, da noi, la devastante credenza che, con il soio cambiamento di una legge elettorale e con una combinazione tecnica di alleanze
(per metà politicamente azzeccate, per metà artificiose), si fosse passati da una «prima» ad una «seconda» Repubblica, con una tacita abrogazione di essenziali norme costituzionali. Questa idea, da «trovata» giornalistica, è diventata giustificazione «giuridica» per la rioccupazione partitica dello Stato e, poi, per teorizzare un diverso rapporto tra popolo e istituzioni. Una fondamentale contraddizione ha così dominato la testa del governo. Da un lato, si è di fatto negato che il sistema costituzionale, a causa e in conseguenza della nuova legge elettorale (che ha moltiplicato i seggi parlamentari della coalizione vincente) avesse bisogno dell'introduzione di istituti nuovi di garanzie e di bilanciamento per impedire l'onnipotenza della maggioranza. Dall'altro lato, nella stessa Costituzione vigente, si vogliono considerare «decadute» le regole di naturale garanzia del suo regime parlamentare, fondato sulla fiducia tra governo e Camere, sul libero mandato parlamentare, sulla sanzione della rimozione del governo responsabile di malgoverno. E, insieme a queste regole, di cui si proclama unilateralmente la cessazione in una concezione mistica che esalta il potere di governo come unico sacerdote tra il popolo sovrano e i! Potere si è tentata la «delegittimazione» dei suoi custodi istituzionali: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, lo stesso Parlamento.
Ecco, dunque, la crisi istituzionale. Per un verso l'idea di andare avanti (perfino verso nuove elezioni) senza mutare nulla nell'ormai debole sistema delle garanzie della Costituzione. Per un altro verso, e contemporaneamente, l'idea della Costituzione come «carta straccia». E questo perché il nuovo meccanismo elettorale sarebbe di per sé creatore di nuove regole costituzionali, in esso implicite e da esso estratte per virtù interpretativa di governo. È contro questa schizofrenica concezione costituzionale - tra immobilismo e sovversione, secondo le convenienze - che si sono mosse la Lega e le opposizioni, per far cadere il governo. E questa caduta, non a caso avvenuta per mozione parlamentare, la prima volta da quando c'è la Repubblica, è stata anche la riaffermazione delle originarie ragioni della Costituzione, la dimostrazione della sua inalterata vitalità. Alla fine del memorabile 1994, dopo attentati e traversie, la Costituzione, nel discorso del capo dello Stato, ci è riapparsa quale è sempre stata: l'anima della ricostruzione, prima, e del progresso civile dell'Italia, poi: la «bussola sicura - come lui ha detto - che ci indica la strada da seguire a garanzia di tutti». È stato l'ultimo degli errori, dunque, metterne in discussione il fondamentale principio parlamentare, solo per salvarsi da difficoltà politiche del mo91
mento. Il prossimo presidente del Consiglio incaricato dovrà battere la strada opposta: che è quella della legittimazione integrale di tutto il Parlamento a sostenere un governo per il Paese. «Le crisi di governo non sono catastrofi»: ha detto ancora, con distaccata saggezza, il presidente Scalfaro. E so-
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prattutto non catastrofi tali da mettere a repentaglio quella Costituzione che è il cardine su cui l'Italia «europea)) ha riavuto l'onore perduto nella tragedia nazionale di cinquant'anni fa. Oggi, è solo mutato un poco il vento della politica. E il destino ha cambiato cavallo (e cavaliere). La storia della Costituzione continua.
Politiche realistiche e false verità di Alessandro Palanza
Sono certamente d'accordo sull'analisi che individua nella carenza di valide politiche pubbliche una delle cause dei più gravi scompensi di questo Paese, e sull'importante ruolo che la promozione di una cultura degli interessi pubblici ed un'approfondita e disinteressata elaborazione di quelle politiche può giocare, soprattutto in questa fase. Mi chiedo tuttavia se non vi sia il rischio di fare proposte astrattamente giuste ma che poi non funzionano perché sono troppo avanti rispetto ad una realtà così malata come la nostra società civile e politica. Mi chiedo cioè se le prime ragioni dei problemi sollevati da Ristuccia non dipendano anche da comportamenti propri di quelle componenti professionali della società civile che ci si propone giustamente di rianimare. E allora è forse necessario un lavoro preliminare per restituire un ruolo a queste componenti. Per agire efficacemente occorrerebbe, secondo me, cominciare da un bisogno primario, un bisogno morale forte, immediato e indifferibile, come tale percepibile da molti allo stesso modo e nella stessa direzione, che s'imponga all'interno dei corposi sog-
getti collettivi che già esistono e sia capace di determinare comportamenti nella stessa direzione in un mondo ricco di personalità e di intelligenze indipendenti. Suggerirei allora di cercare insieme gli strumenti per calare l'esigenza avanzata da Ristuccia in una rete di comunicazioni tra realtà già in atto, dentro e fuori le amministrazioni pubbliche. Ma prima ancora occorre ricercare quale sia il bisogno essenziale e indefettibile della nostra comunità, che le «professioni" sentano di dover soddisfare: credo che questo bisogno vada ordinatamente e modestamente individuato in qualche «vuoto" civile di cui le stesse professioni sono responsabili per una carenza del loro ruolo proprio. In questa prospettiva vorrei offrire un piccolo contributo di riflessione, soprattutto per segnare concretamente la mia immediata adesione allo spirito del servizio civico da Ristuccia evocato. Vorrei osservare che l'analisi svolta da Ristuccia nella prima parte del saggio offre molte preziose indicazioni, forse non tutte portate a frutto nella sua proposta-provocazione finale. D'altra 93
parte, l'evoluzione delle cose è così rapida e densa e la realtà da lui stesso descritta così complessa da non consentire, almeno in questa fase, tentativi di sintesi. Forse, su quella base, bisogna dunque ripartire da alcune domande "ingenue , chiedersi come mai nel nostro Paese si debba ricorrere a iniziative straordinarie per dare espressione ai valori della società civile e rivendicare un ruolo alle professioni, ai tecnici e agli esperti nella elaborazione delle politiche pubbliche (esigenze assolutamente primarie in qualsiasi società civile). Sulla base delle analisi svolte da diverse parti sui mali profondi del nostro Paese che individuano in sostanza una eccessiva forza degli interessi particolari, una carenza di spirito civile e civico ed una conseguente eccessiva faziosità del confronto in molti settori della nostra vita associata rispetto ad altri Paesi, occorre chiedersi perché le ragioni di parte siano andate da noi così avanti nel negare apertamente, in nome di un proprio interesse, regole e valori fondamentali propri di qualsiasi comunità civile, e tra questi, anche quelli rientranti nel ruolo proprio delle conoscenze e delle professioni e perfino principi elementari di buon senso e dati di fatto fondati sull'evidenza. Soprattutto occorre tornare a sorprenderci, come fa del resto ampiamente Ristuccia, del fatto che questi comportamenti non siano, né siano consi94
derati, comportamenti devianti o da nascondere, ma vengano apertamente esercitati e, all'occasione, puntualmente rivendicati come prassi normale al punto da rendere anomale ed eccezionali persone o strutture che non si comportano secondo una pura logica di parte e di schieramento. Ci dobbiamo perciò chiedere perché la aperta manifestazione di comportamenti del genere in ogni comparto della vita civile non abbia incontrato una sufficiente resistenza nella comunità e in specie in tutti coloro (e dovrebbero essere la maggioranza!) che alle ragioni di parte si potevano sottrarre (a cominciare dalle "professioni"); ovvero ci dovremmo chiedere perché spesso chi si è sottratto alle ragioni di parte è rimasto isolato o ininfluente oppure è stato criticato, frainteso o strumentaljzzato. Infine ci dovremmo chiedere, visto che esistono ragioni di fondo che hanno alimentato certi comportamenti di eccessiva e imprudente faziosità nel nostro Paese, se esse non permangano intatte in questa fase e se dunque le stesse anomalie non stiano rinascendo in forme sempre nuove. Occorre dunque partire da una maggiore consapevolezza di quanto sia pervasivo ed estremo il particolarismo degli interessi che domina la nostra società, anche nei comparti più avanzati, di quanto sia grande la forza delle ragioni di parte e la loro capacità di
farsi valere contro le ragioni più generali. Ma la colpa di ciò non sta negli interessi stessi che sviluppano la loro logica di parte in causa fin dove incontrano un limite esterno. La causa del loro debordare dunque sta principalmente nella debolezza, se non nella mancanza di contenitori sociali efficaci a trattenere la naturale logica di parte degli interessi organizzati e cioè nella mancanza di idee e valori sufficientemente condivisi da fondare criteri oggettivi non facilmente superabili dalle parti in conflitto. Nel nostro Paese, i diversi interessi sono in qualche modo autorizzati (e forse talvolta costretti) a esasperare ciascuno la propria autotutela anche contro l'evidenza, contro i dati della consapevolezza accertabile everificabile, contro quella razionalita media e comunemente acquisibile che invece altrove costituisce un elemento efficace a fondare un sistema di regole. In questa situazione, le mediazioni secche e spartitorie prevalgono rispetto al negoziato ispirato a valori e fini generali diffusi nella comunità nazionale, che possono essere sorretti da adeguate e disinteressate analisi conoscitive e che sono capaci di dare forza a punti di vista esterni e più generali rispetto ai singoli interessi di parte di volta in volta in gioco, incanalando in uno spazio proprio lo scontro di interessi e la dialettica politica. Ciò trascina con sé un eccesso di politica, di ogni genere di politica (cioè
delle forme con cui ci si rapporta al potere in ogni settore, pubblico o privato, e anche spesso nei rapporti personali) su ogni altro strumento e canone di comportamento. La visione del mondo propria della politica è arbitrariamente estesa ad altri campi dell'azione pubblica e sociale nei quali dovrebbero giocare altri fattori (o, quantomeno, "anche" altri fattori). Di conseguenza, la stessa politica si trova ad essere senza vere regole e limiti perché non è confinata efficacemente dal concorso nelle azioni pubbliche di soggetti ispirati da diversi valori, regole e criteri di comportamento di ordine tecnico.
VALORI DEBOLI E INTERESSI FORTI
Potrebbe dunque scoprirsi, all'origine della politica, un vizio più radicale della società italiana che ha a che fare con la mancanza di una cultura empirica comune che induca a rispettare quel minimo di verità comune (intesa come conoscenza e possesso di parametri di giudizio oggettivamente verificabili) di cui una collettività ha bisogno per funzionare. Lidea che esistano conoscenze e criteri di giudizio generalmente riconosciuti e non manipolabili dagli interessi in gioco è infatti la base necessaria di regole forti e anche di quelle funzioni di trasmissione del sapere e di elaborazione che è propria delle professioni intellettuali e delle strutture tecniche. 95
In Italia quest'area sembra senz'altro più ridotta o più debole rispetto ad altri Paesi. Da questa debolezza dipendono ie conseguenze che tutti possiamo constatare in tanti piccoli eventi e situazioni di quotidiana esperienza, nei quali i singoli interessi immediatamente in gioco sono più forti di una esigenza di verità, di regole, di metodo che si pone interamente sul piano delle ragioni generali e delle prospettive di più lungo periodo della società nel suo complesso. Forse perché è vero, come ha scritto di recente Salvadori, che in Italia le istituzioni non sono mai state considerate come "bene comune" e fonti positive di regole valide per tutti. Non è un caso se le autorità amministrative indipendenti, che rispondono a esigenze crescenti e insopprimibili delle economie di mercato contemporanee, restano, nel nostro Paese, generalmente ancora deboli e prive del prestigio sufficiente ad esercitare pienamente le loro funzioni, ovvero sono esposte a forme di reazione ogni volta in cui la loro attività interferisce sostanzialmente con i conflitti. Quanto agli intellettuali, è constatazione quotidiana che anche importanti uomini di cultura, quando sono impegnati nei conflitti tra interessi particolari, possano anche eludere tranquillamente valori, regole e dati di fatto evidenti (pensiamo, oltre che alla politica, anche a certe modalità dei concorsi universitari). Ciò non impli96
ca, o comunque non è percepito come una disonestà personale. In un "ring" in cui nessuno rispetta le regole, chi cominci a farlo è evidentemente destinato alla sconfitta e dunque chi è impegnato nei conflitti è giustificato se fa «come fan tutti» per non restare sopraffatto. Non stupisce perciò se le stesse personalità della cultura, una volta fuori dai conflitti nei quali sono direttamente impegnati, commemorjno regolarmente valori & dati di fatto da tutti dimenticati nel concreto processo decisionale e sono universalmente apprezzati purché si producano solo in inutili prediche e previsioni per il futuro come inascoltate Cassandre. Analogamente avviene alle «autonomie» professionali, il ruolo loro specifico (fuori dalle tutele corporative che sono invece massimamente valorizzate come tutti gli interessi «parziali») è accettato solo in quanto concorra al libero gioco delle parti o quanto meno sia ininfluente rispetto alla dialettica dei loro fini particolari. Quando esse intervengono, come è poi inevitabile, all'interno dei conflitti, le ragioni professionali (e cioè quelle esclusivamente fondate sul corretto esercizio di specifiche tecniche) in assenza di un diffuso riconoscimento dei corrispondenti valori, vengono disconosciute e riportate ai contendenti di una partita che è sempre politica o politicizzata (spesso con il contributo di componenti interne alle stesse categorie professionali).
Da questo sfondo conseguono alcuni mali nazionali nei quali si riassumono evidentemente gli effetti degli esiti di infiniti conflitti tra interessi parziali non guidati né trattenuti da logiche e ragioni superiori o comunque esterne ai conflitti stessi. Non ci si può infatti sorprendere se la nostra legislazione appare come uno specchio incrinato che riflette, senza riuscire a ricomporle, tutte le contraddizioni di un Paese in cui gli interessi parziali sono forti e le ragioni di coerenza e di razionalità generale sempre debolissime. Ne ci si può meravigliare se non trova né responsabili né curatori l'inarrestabile debito pubblico che riassume ed esprime tutte le difficoltà del Paese a fare i conti (in senso proprio) con la realtà complessiva e con gli interessi permanenti e generali il cui abbandono emerge senza scampo nelle cifre. Né possiamo stupirci se non trovano spazio e sufficiente udienza le conoscenze e le metodologie tecniche volte a rapportare razionalmente mezzi e fini, costi e benefici, obiettivi e risultati e così via, nell'ambito dei processi decisionali in cui sono in gioco interessi concreti. L'esperienza parlamentare al riguardo, che pure ha segnato importanti passi avanti in ordine al rispetto di regole tecniche di coerenza finanziaria e ordinamentale, è molto istruttiva in quanto è stata resa possibile solo da un enorme impegno e da una significativa sovraesposizione dei presidenti
delle Camere. Esclusivamente sulla loro autorità si fondano infatti le procedure più rigorose di recente adottate per la formazione dei testi legislativi, esercitate di frequente anche nei confronti di segmenti dello stesso Governo, portatori in Parlamento di interessi settoriali e parziali, enfatizzati dalle strutture ministeriali, più che di politiche e finalità generali. Le stesse burocrazie parlamentari, neutre per una necessità strutturale da tutti condivisa e garantite dalla esigenza di rendere contemporaneamente conto a tutti i gruppi parlamentari, sono state talvolta esposte al rischio di insinuanti contestazioni quando la loro istruttoria, tecnica preliminare alle decisioni dei Presidenti, ad esempio in materia di quantificazioni e coperture finanziarie o di ammissibilità di emendamenti ai provvedimenti di bilancio e decreti legge, si esercita su questioni di forte ed esteso interesse politico. Fuori da alcune isolate sperimentazioni in cui si registra uno straordinario impegno istituzionale, in seno a! Governo e al Parlamento, la separazione tra cultura, esperienza professionale e tecnica, da un lato, e la politica legislativa, dall'altro, rischia dunque di essere insuperabile fino a quando non si imporrà dall'esterno, da parte della collettività nazionale, un dato morale pregiudiziale che pretende onestà intellettuale, un metodo serio di conoscenza delle cose e di verifica di congruità tra mezzi e fini e una coerenza
non transitoria tra singole decisioni e quadro complessivo di riferimento. Se, dunque, ciò che scrive Ristuccia mi pare ampiamente da condividere, anche la sua proposta-provocazione finale mi sembra da accogliere con un correttivo che riguarda le priorità d'intervento, cioè l'individuazione di quel bisogno essenziale ed indefettibile da soddisfare, di cui si è detto all'inizio. L'associazione tra "uomini di buona volontà", da Ristuccia opportunamente proposta, dovrebbe impegnare il suo spirito disinteressato ed il suo credito presso l'opinione pubblica, prima che nella elaborazione di proposte tecniche approfondite per le politiche pubbliche, in alcune grandi campagne volte a ricostituire proprio nell'opinione pubblica una pretesa morale di serietà relativa alla coerenza nei comportamenti dei ceti dirigenti a tutela di fini e valori generali e alla
esigenza preliminare di conoscenza circa lo stato delle cose, che renda verificabili e giudicabili in base a parametri realistici le diverse posizioni e proposte. Ritengo infatti che sia assolutamente una esigenza pregiudiziale rispetto ad ogni altra nel nostro Paese, quella di ristabilire, soprattutto sui temi cruciali al centro della contesa tra gli interessi, una base minima di verità di fatto e di evidenze valide per tutti. Da qui potrebbe rinascere il bisogno per politiche realistiche , cioe appropriate rispetto ai fini pubblici in rapporto ai dati di fatto. Altrimenti, lo stesso sorgere della percezione diffusa di questo bisogno risulterebbe impedito dalla brutale e diretta affermazione delle soluzioni o mediazioni imposte dai rapporti di forza tra i vari interessi, mascherate dal conflitto tra le false verità e i falsi fini da essi asseverati. Per fini falsi non servono mezzi veri.
Il "deficit democratico" nazionale di Alessandro Pizzo russo
La difficile situazione politica in cui il nostro Paese versa, e che l'editoriale del n. 96 di Queste Istituzioni efficacemente descriveva quando ancora essa non si era manifestata in tutti i suoi aspetti, è divenuta a tutti evidente nel periodo immediatamente seguente a quello in esso esaminato ed il risultato delle elezioni del 27 e 28 marzo 1994 l'ha fotografata sottolineando, al di là di ogni possibile previsione, i diversi fattori di crisi. Per quanto la gravità della situazione italiana si fosse venuta già da tempo delineando attraverso un'imponente serie di scandali che avevano ripetutamente attinto importanti esponenti dei partiti che formavano la maggioranza di governo, non è impensabile che, se al Paese fosse stato risparmiato il lungo periodo di logoramento che si è sviluppato per tutto l'anno 1993, sarebbe stato forse possibile realizzare una terapia diretta a risanare i partiti politici italiani, liberandoli dai troppi virus contratti negli anni del craxismo e dell'andreottismo e dalle molte malattie che ne erano derivate per i partiti stessi e per le pubbliche istituzioni. Purtroppo, per molti mesi nulla è stato
fatto in questa direzione ed il Paese ha dovuto invece assistere alle contorsioni di un gruppo di personaggi che l'opinione pubblica aveva ormai giudicato (al di là delle condanne o delle incriminazioni pronunciate nei loro confronti dai magistrati penali) e che pur tuttavia cercavano disperatamente di sottrarsi alle conseguenze della loro condotta mediante ogni genere di manovre, da quelle più banalmente difensive (come i dinieghi di autorizzazione a procedere, le proposte di depenalizzazione dei reati "politici", i tentativi di screditare in ogni modo i magistrati inquirenti, ecc.) a quelle d'impostazione trasformistica tendenti a farsi partecipi del movimento rinnovatore (come la conversione a U che li ha portati a sostenere il referendum sulla legge elettorale del Senato, come l'insistente rivendicazione di ambigue riforme istituzionali, ecc;). L'effetto pratico dello spettacolo offerto da queste contorsioni (incoraggiate tra l'altro da personaggi come gli ineffabili presidenti delle Camere, i quali in nome di un malinteso spirito di corpo hanno per lungo tempo negato la perdita di rappresentatività delle assemblee elette il 5 aprile 1992) e dagli sviluppi delle in99
dagini condotte da alcuni magistrati (cui molti altri erano venuti progressivamente ad affiancarsi, una volta che il vento era voltato) e giustamente pubblicizzate dai mezzi di comunicazione di massa più di quanto fosse mai avvenuto in precedenza, fu inevitabilmente molto più devastante di quanto avrebbe potuto essere se non si fosse tanto tardato ad intervenire con lo strumento dello scioglimento anticipato. Inoltre, le manovre realizzate da quanti erano stati giustamente colpiti dalle incriminazioni e dai loro molti amici hanno finito per confondere notevolmente le acque, consentendo a molti fra coloro che erano politicamente se non penalmente responsabili della degenerazione ben descritta nel libro di Cafagna di riuscire a farsi passare per rinnovatori nell'ambito di un'operazione trasformistica i cui risultati sono emersi in modo evidente in occasione delle elezioni del marzo 1994 e continueranno probabilmente a prodursi per molto tempo ancora. E quel che è più grave è che questa operazione trasformistica non ha soltanto assicurato una sostanziale continuità di indirizzo rispetto ai governi responsabili della crisi di legalità dimostrata dalle inchieste giudiziarie, ma ha addirittura sconvolto la tavola dei valori fondamentali intorno ai quali si era venuta assestando l'identità nazionale del Paese, dopo la stentata fase che aveva seguito la fortunosa unificazione nazionale e dopo gli abomini della dittatura fascista, rimettendo in discussione quei va100
bn dell'antifascismo e della resistenza intorno ai quali il Paese aveva provveduto alla sua ricostruzione morale e materiale. Se infatti sul piano strettamente militare il contributo dato da questo movimento era stato inevitabilmente limitato, esso aveva avuto un grande significato politico e culturale soprattutto perchè, dopo la Liberazione, superando notevoli ostruzionismi e difficoltà, si era cominciato a costruire intorno a questo complesso di ideali uno stato molto più moderno e civile di quanto non fosse quello funzionante fino al 1922 (oltre che a liberarsi dalle molte perversioni che si erano manifestate col fascismo). Invece, sotto la spinta di una serie di opinionisti tanto petulanti quanto grossolani, i commentatori delle recenti vicende hanno finito con l'accomunare, nella critica della "partitocrazia", la riprovazione del craxismo e dell'andreottismo con le più viete critiche proprie della tradizione anti-parlamentarista ed anti-democratica e ciò ha condotto taluni paladini del sistema elettorale maggioritario a credere che l'applicazione di tale sistema possa legittimamente tradursi nell'applicazione di una sorta di spoils system generalizzatp, estensibile persino alle istituzioni di garanzia, mentre l'annuncio di imminenti attacchi all'indipendenza della magistratura è stato il primo atto degli esponenti del nuovo regime. Tale mistificazione è stata purtroppo agevolata dalle vicende che si erano
avute nel corso degli anni Ottanta quando molti personaggi della politica e della cultura (a cominciare da Craxi e dai suoi collaboratori, cui però troppi altri si erano aggiunti) avevano patrocinato ipotesi di riforma costituzionale presentate come frutto di un'elaborazione scientifica, ma in realtà quasi sempre puramente strumentali al conseguimento dei loro obiettivi politici, finendo così per svalutare anche quella Còstituzione che, per il momento e le modalità in cui e con cui era stata adottata, rappresentava il maggior simbolo di unità della nazione. Se infatti l'unità territoriale del Paese era stata realizzata negli anni del Risorgimento, lo Statuto regio non aveva potuto svolgere però una funzione unificante capace di supplire alla profonda divisione esistente fra la ristretta classe dirigente che in quegli anni deteneva tutte le leve del potere ed i milioni di italiani che dalla gestione del potere erano invece esclusi per ragioni di censo o per altri motivi, laddove la Costituzione repubblicana aveva invece realizzato, per la prima volta, l'unione delle tre culture, liberale, cristiana e socialista, nelle quali la totalità del popolo italiano si riconosce. Ed invece, dalla criminalizzazione dei politici corrottisi è passati alla condanna dei partiti che erano stati i protagonisti della democrazia repubblicana in quanto tali e quindi (sfruttando, spesso del tutto indebitamente, l'effetto propagandistico del crollo dell'Unione sovie-
tica) alla demonizzazione delle ideologie su cui si era fondata la Repubblica. Di qui alla rivalutazione del fascismo il passo è ovviamente breve. A questa devastazione generalizzata ben poco ha saputo opporre la cultura del Paese, gran parte della quale non ha accesso ai mezzi di comunicazione di massa (per cui poco può incidere sul dibattito politico), mentre il ruolo di primo piano è stato assunto da un nugolo di giornalisti, fra i quali sono risultati molto numerosi gli ex-rivoluzionari (di sinistra), ora passati armi e bagagli nello schieramento opposto (ma sempre su posizioni estremistiche e rissose).
QUALI POSSIBILI SOLUZIONI
In questa situazione, il problema che sembra attualmente porsi consiste nell'analizzare seriamente quali possibilità vi siano di salvare la nazione italiana (e, di riflesso, lo stato che da un secolo e mezzo, nel bene e pii spesso nel male, la impersona) da una nuova fase di degrado simile alle tante che essa ha subito in passato. Tutti ricordiamo come il timore di uno sfasciamento dello stato unitario fosse talmente presente ai protagonisti della prima fase della nostra vita nazionale da indurli ad una prudenza estrema di fronte a prospettive di sviluppo civile e politico del Paese (come, ad esempio, di fronte al problema delle autonomie regionali e locali). Nonostante i molti disastri militari e politici del primo secolo di vita unitaria, nel 101
secondo dopoguerra il Paese era parso decollare verso uno sviluppo economicoomico capace di renderlo finalmente degno delle sue grandi tradizioni culturali. L'orientamento europeistico aveva costituito il perno di questo sviluppo e le prospettive di federazione politica dell'Europa avevano visto il nostro Paese svolgere un ruolo da protagonista, da De Gasperi a Spinelli, mentre il regionalismo introdotto dalla Costituzione, benchè frenato dai molti ostruzionismi, aveva dato un parziale seguito agli ideali federalisti che erano stati propri della maggior parte dei protagonisti del Risorgimento. Le vicende recenti ci mostrano per contro un Paese diviso dalla profonda diversità d'ispirazione politico-culturale che compattamente distingue il voto lombardo-veneto da quello tosco-emiliano-umbro-marchigiano e, soprattutto, quest'ultimo da quello della capitale e da quello siciliano. Quattro Italie (o forse più) si fronteggiano in base a questo voto e non si tratta soltanto di Italie diverse dal punto di vista politico o economico, ma anche dal punto di vista degli ideali, della cultura, della concezione di vita. Sicuramente, a queste differenze culturali ed ideali non corrispondono differenze linguistiche o etniche o religiose tali da poter giustificare una contrapposizione di nazioni, nel senso più tradizionale del termine, ma è innegabile che le differenze di ordine etnico, linguistico o religioso non sono le sole che possono dividere i popoli, 102
come molti capitoli della storia del XX secolo dimostrano. Non meno allarmante del solco che divide la (pur composita) maggioranza di governo dalle molte aree del Paese che si sono espresse compattamente contro di essa è poi la contrapposizione che si è determinata fra l'Italia e gli altri Paesi europei, nessuno dei quali ha mai consentito che di una maggioranza di governo facessero parte esponenti di movimenti che si considerano eredi della tradizione autoritaria ispiratrice di Hitler e di Mussolini, di Pétain e di Franco, di Salazar e dei colonnelli greci. Ma l'aspetto che più di ogni altro appare preoccupante è quella sorta di stravolgimento dei principi propri della democrazia che ha caratterizzato l'ingresso in campo di "Forza Italia". La Costituzione italiana, come si sa, conferisce a tutti i cittadini il diritto di "associarsi" liberamente in partiti per concorrere "con metodo democratico" a determinare la politica nazionale. Qui invece abbiamo visto un imprenditore il quale, non essendo soddisfatto del comportamento dei partiti esistenti, che riteneva "incapaci di sconfiggere il comunismo", ha deciso di avvalersi della propria organizzazione commerciale e dei propri capitali per presentare candidati alle elezioni e poi per formare una maggioranza di governo da lui capeggiata. A tal fine egli ha assunto professionisti (in particolare esperti di pubblicità), ha ingaggiato giornalisti, ha raccattato uomini politici in difficoltà, ha utilizzato
sportivi e attori, ha stretto alleanze con partiti e movimenti senza riguardo all'esistenza o meno con essi di affinità ideologiche, il tutto in base a semplici calcoli di convenienza. Neppure il Citizen Kane di Orson WelIes era stato capace di tanta spregiudicatezza! Ed infatti, come considerare compatibile con i principi democratici (secondo i quali i governanti debbono esprimere la volontà popolare) un'operazione che ha consentito di formare una maggioranza comprendente personaggi che nel corso della campagna elettorale si insultavano reciprocamente, o di organizzare un movimento politico mediante una serie di decisioni prese dall'alto, in assenza di ogni spontaneo associazionismo (nel quale cioè i dirigenti non sono eletti, ma "assunti" secondo le tecniche impiegate per la costituzione dei club di tifosi delle squadre di calcio), o di assegnare cariche pubbliche a professionisti la cui principale qualificazione deriva dall'essere stati i consulenti privati del capo, oppure dalla notorietà acquisita me-
diante la partecipazione a spettacoli televisivi? E l'atteggiamento del personaggio che, di fronte all'esito delle consultazioni elettorali dell'autunno 1993 da lui giudicato negativamente, intima agli uomini politici della Destra di organizzarsi nel modo da lui indicato, poichè altrimenti sarebbe sceso in campo lui, è una manifestazione di democrazia? O non è invece un modo per gettare pesantemente sul piatto i propri soldi e le proprie televisioni (come certamente un elettore qualsiasi non avrebbe potuto fare)? Con riferimento agli organi dirigenti dell'Unione europea si parla spesso di "deficit democratico" perchè il Parlamento di Strasburgo è privo di potestà legislative e perchè gli organi dell'esecutivo (e le stesse corti giudiziarie europee) sono formati su designazione dei governi nazionali; ma che dire di un parlamento e di un governo alla cui formazione ha influito in modo determinante il ricorso a tecniche di questo tipo?
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"A ciascuno il suo" di Guido M Rey
Questo titolo ambiguo ed ambizioso vuole soltanto ricordare che il patto sociale posto alla base della Costituzione repubblicana va ridiscusso prima di elaborare una nuova Costituzione. Non spetta all'economista definire la nuova Costituzione ma il suo compito deve essere quello di chiarire gli aspetti fondamentali dello sviluppo economico e sociale. A ciascuno il suo. La revisione della linea di demarcazione fra settore pubblico e settore privato, fra servizi pubblici e servizi privati, intermediari finanziari pubblici e privati va compiuta confrontando i benefici e i costi sociali con i ricavi e i costi privati ma anche valutando la corretta attribuzione del rischio e dell'incertezza nonché fondamentali elementi di equità e di solidarietà. A ciascuno il suo? I punti che richiamo sono ben noti così come è noto l'uso del concetto di incertezza nella valutazione dei comportamenti umani ed il riconoscimento dell'importanza della risorsa informazione nelle analisi dei mercati, nello studio dei comportamenti umani e nella valutazione della equità distributiva. 104
L'analfabetismo era ed è considerato un fattore che può spiegare il sottosviluppo e la povertà ma forse non ci siamo ancora resi conto che la soglia dell'analfabetismo in questo secolo si è spostata verso l'alto e questo deve necessariamente comportare una modifica dei fattori di conoscenza. A ciascuno il suo! Il filo conduttore nella interpretazione della crisi di questi anni può essere individuato nel fattore rischio e nella corrispondente, incertezza che condiziona i comportamenti individuali e collettivi. Questo consente di legare le diverse parti dell'auspicabile processo di trasformazione ossia il passaggio da una economia di rendita a una economia del profitto o se vogliamo da una situazione statica di rassegnazione a una situazione dinamica di sviluppo e di allargamento delle risorse disponibili.
UN'ANALISI DELLA CRISI ECONOMICA E SOCIALE
Occorre partire da una revisione dei rapporti economici e sociali esistenti
in Italia se si vuole approfondire l'analisi della crisi economica e sociale del Paese al fine di identificare possibili sentieri di uscita dalla crisi. I limiti del sistema economico italiano risiedono in una visione che privilegia i guadagni della rendita rispetto ai più faticosi rendimenti delle attività produttive ed è condizionato daun invecchiamento attitudinale dell'italiano medio che tende a rifiutare il rischio e l'incertezza. La rendita fondiaria, la rendita edilizia, la rendita finanziaria a cui si aggiungeranno, a seguito della privatizzazione, la rendita mineraria e la rendita dei servizi pubblici in concessione, sono tutte fonti di reddito particolarmente appetibili poiché richiedono investimenti non sempre rilevanti, soluzioni organizzative semplici e in cambio garantiscono tassi di remunerazione elevati, stabili e a basso rischio. Ci troviamo in una delicata fase di passaggio dal capitalismo familiare al capitalismo manageriale, condizionata dall'incertezza poiché l'imprenditore teme di dover rinunciare al controllo sull'impresa a vaItaggio delle banche o di investitori istituzionali. Il timore che vi possa essere un take-over da parte di concorrenti ma soprattutto da parte dei finanziatori limita la possibilità di sviluppo alle sole risorse derivanti dall'autofinanziamento e quindi impedisce che i titoli di proprietà
sull'impresa, incluso il premio di maggioranza, possano essere messi sul mercato. Quindi il rischio di perdita del controllo da parte dell'imprenditore-padrone limita lo sviluppo e contemporaneamente genera una naturale predisposizione alla produzione in piccola scala oppure alla acquisizione di tecnologie che consentono di garantire lo sviluppo senza richiedere elevati investimenti privilegiando, quindi, dimensioni di mercato tali da poter essere gestite da una impresa familiare. Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da una offerta di lavoro che preferisce i rapporti di natura subordinata a basso rischio ed a elevata stabilità (il posto) mentre la domanda di lavoro richiede forza-lavoro flessibile, poco istituzionalizzata, e adattabile in relazione al progresso tecnologico. Lo squilibrio fra domanda e offerta genera la crescita di attività di lavoro autonomo richieste dalle grandi imprese, che privilegiano la flessibilità del lavoro, la qualità della fornitura e la riduzione degli oneri gestionali ma questo scarica il rischio sui lavoratori che quindi richiedono allo Stato una garanzia di reddito sotto forma di trasferimenti o spezzoni di reddito disponibile (secondo lavoro, pensioni di invalidità, ecc.). La struttura della accumulazione familiare è ovviamente dominata dall'avversione al rischio. Vengono preferiti gli investimenti in titoli del 105
debito pubblico a breve termine, i depositi bancari e soio in una struttura di portafoglio molto sofisticata si effettuano investimenti in titoli azionari. Questi ultimi vengono visti non tanto come investimenti reali ma come fonti di extra profitti derivanti dai movimenti del mercato particolarmente appetibili se possono essere anticipati da operazioni di insider trading. L'avversione al rischio è palese e si preferisce una remunerazione più bassa piuttosto che affrontare un rischio più elevato e anche per gli investimenti reali vi è una netta prevalenza dell'investimento immobiliare che garantisce un rendimento modesto, quasi nullo, ma protegge dall'inflazione e soprattutto assicura un fondamentale servizio personale. Se gli investitori hanno questa avversione al rischio la domanda spontanea è: quale è l'attitudine ed il ruolo degli intermediari finanziari? Paradossalmente si direbbe che la "prudenza" domini sovrana quando si tratta di finanziare nuove iniziative non assistite da garanzie reali e dalla garanzia dello Stato. È evidente che l'accumulazione reale ne risente e viene a mancare uno strumento fondamentale dello sviluppo poiché si può contare solo sull'autofinanziamento o sul patrimonio dell'imprenditore. Il fatto che le cronache documentino i numerosi investimenti errati effettuati dalle banche conferma, appunto, la scarsa attitudine alla valutazione del 106
rischio degli uffici fidi delle banche per cui si privilegia la grande impresa anche se questa può risultare fonte di grandi perdite.
L'INCERTEZZA E IL RISCHIO
Il tema della incertezza qualifica i servizi pubblici sia dal lato della domanda sia dal lato dell'offerta, quest'ultima in relazione alla capacità della PA. di gestire questi servizi in modo efficiente. La crisi del Welfare State si racchiude in questa contraddizione tra una società che richiede una riduzione del rischio e una P.A. che non sembra in grado di garantire questo servizio a costi ragionevoli soprattutto equamente distribuiti. D'altra parte la privatizzazione della gestione del rischio comporta costi molto alti che non tutti sono in grado di sopportare e quindi scarica sulle fasce più deboli della società le perdite attese. Questo risultato è coerente con una visione economica del rischio che valuta in modo asimmetrico il valore attuale della perdita e sottovaluta la speranza matematica del guadagno e naturalmente, se entrambi sono molto bassi, non conviene a nessuna assicurazione privata operare in questa nicchia di mercato. Purtroppo il problema non si pone in valore assoluto ma si pone naturalmente in termini relativi o meglio soggettivi e quindi anche una modesta perdita sociale può essere associata a una catastrofe individuale, da
qui una asimmetria nei risultati ma sopratutto una asimmetria nella percezione dei danno sociale che può derivare da un aumento del rischio (es. salute, disoccupazione, ecc.). Accanto alla fornitura di servizi sociali, visti come riduzione del rischio e della incertezza, occorre inserire il tema più drammatico della povertà per le fasce deboli della società in età avanzata. In questo caso il riferimento alla rete di relazioni famigliari che "assicurano la componente debole oppure al volontariato che riduce i costi monetari e morali delle persone deboli, se da un lato dimostra l'esistenza di valori positivi dall'altro conferma la scarsa percezione sociale che si ha dei problemi delle fasce deboli. Naturalmente sarebbe troppo facile citare il caso della formica e della cicala ma non sempre le formiche hanno potuto accumulare per se stesse e molte cicale riescono a trovare qualcuno che ha accumulato per loro. Infine, vale soio la pena di accennare all'incertezza e al rischio che definiscono la domanda di sicurezza e ordine pubblico. L'onere di una carenza di sicurezza pubblica ricade sulla collettività facendo aumentare la spesa privata sotto forma di vigilantes, assicurazioni e opere di difesa ma in alcune zone si ricorre anche alla protezione della criminalità organizzata che.. si comporta come anti-Stato e confligge con lo Stato in una rincorsa guardie-
ladri che genera incertezza e costi sociali ed anche in questo caso le vittime sono le fasce deboli della società (anziani, giovani, ecc.) o le opportunità di sviluppo economico. L'INFoIzIoNE Collegato con il tema della incertezza e del rischio si pone il tema della informazione e della conoscenza. Non è detto che l'informazione riduca il rischio di produrre decisioni sbagliate ma una più ampia informazione garantisce una riduzione della incertezza per tutti, per lo meno quando l'informazione è fornita come servizio pubblico. Ben altro problema si pone in relazione alla conoscenza ossia alla possibilità non solo di acquisire informazioni ma anche di elaborarle al fine di modificare i comportamenti individuali e, a volte, anche i comportamenti collettivi. In questo contesto il tema dell'informazione rappresenta un elemento fondamentale di democrazia solo in quanto vi siano persone, istituti, centri di ricerca che siano in grado di elaborare le informazioni, di fare accrescere il livello di conoscenza di tutta la società e di mettere a disposizione di tutti informazioni e conoscenza. Uno dei punti deboli del nostro Paese è appunto quello di avere una bassa conoscenza dovuta non tanto ad una scarsità di informazioni disponibili ma ad una veramente modesta capa107
cità di elaborazione di queste informazioni. Trascuro naturalmente le situazioni, peraltro eccezionali, nelle quali l'informazione viene elaborata ma la conoscenza che viene trasmessa è una conoscenza falsata per ignoranza, qualche volta, oppure per malafede, molto più spesso: Il tema dell'informazione quindi si collega al tema del rischio e dell'incertezza ma anche al dibattito fra Stato e mercato e in particolare al tema delle privatizzazioni intese come privatizzazione delle imprese pubbliche, privatizzazione dei servizi pubblici, privatizzazione del rapporto di lavoro all'interno della RA.. Da questo punto di vista l'ignoranza domina sovrana e mi ricollego al tema dell'allarmismo economico tanto caro a Federico Gaff. Negli anni Settanta le grandi imprese oligopolistiche cercavano di ridurre la pressione dei sindacati in vista di una revisione del patto sociale mirante ad abbassare il costo del lavoro ricorrendo, appunto, ad una eccessiva enfatizzazione degli elementi di crisi e attribuendo tutte le responsabilità al sindacato. In questi ultimi anni il costo del lavoro è stato abbassato, forse grazie anche all'allarmismo economico, e oggi tutta la pressione dei mezzi di informazione è centrata sulla inefficienza del settore pubblico e sugli alti costi dei servizi pubblici. Naturalmente si trascura di sottolineare la riduzio-
ne dei benefici sociali e ancor meno si prendono in considerazione i ricavi delle imprese che subentrano nella fornitura dei servizi e i costi che dovrebbe sopportare la collettività in cambio di queste privatizzazioni. Quando si afferma che la previdenza pubblica è più costosa della previdenza privata si fornisce una informazione sbagliata e si ottiene contemporaneamente un aumento. della incertezza nelle fasce più deboli del Paese che si rendono conto di non poter accedere a questo servizio privatizzato. Quando si afferma che la sanità pubblica è più costosa della sanità privata non si fa alcun sforzo per mettere a confronto il settore pubblico e il settore privato e ci vuol poco a verificare che la sanità privata italiana è molto più costosa della sanità pubblica ma anche della sanità privata straniera. A questo punto l'opera di disinformazione è completa e quindi si può procedere alla privatizzazione dei servizi pubblici. Quando si afferma che l'impresa pubblica è meno efficiente dell'impresa privata senza distinguere fra settori concorrenziali, settori protetti e settore dei servizi pubblici, si compie un'opera di disinformazione e si attribuisce ai pubblico un carico negativo che non sempre merita. La risposta razionale a questa strategia dovrebbe essere il miglioramento del settore pubblico, un aumento di efficienza e di competitività del settore pubblico da confrontare con l'efficienza
del settore privato. Questo non ha nulla a che fare con la privatizzazione ma ha a che fare con la efficienza del settore pubblico e semmai con la bassa efficienza del settore privato che vuole costruirsi una posizione di rendita. Il Paese si trova di fronte un periodo di grande incertezza. I rischi che corriamo sono noti ad alcuni e totalmente ignoti ad altri. Gli altri naturalmente sono la maggioranza. La sistematica disinformazione fornita dai mass media sarebbe una palese violazione del patto sociale se non fosse invece dovuta largamente all'ignoranza, alla ignavia di chi dovrebbe svolgere invece questo ruolo di diffusione della conoscenza. Parlo naturalmente di coloro
che dovrebbero provvedere le informazioni ma parlo soprattutto di coloro che dovrebbero elaborarle con chiarezza e metterle a disposizione di tutti sotto forma di conoscenza (la scuola e l'università prima di tutti). Il conformismo è stato inserito anche negli schemi di analisi economica per dimostrare che la razionalità non è l'unico elemento presente nel comportamento dell'uomo ma ben peggiore del conformismo è la piccola furbizia del free-riding, ossia di coloro che ritengono di poter godere delle esternalità pubbliche senza pagarne il costo. Il nostro problema è proprio questa furbizia: ci sono troppi furbi in circolazione, mentre scarseggiano le intelligenze.
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L'associazionismo nella riforma dello Stato sociale di Francesco Rigano
Per rigenerare la società civile «nel senso proprio e forte del termine» Sergio Ristuccia indica come obiettivo, tra gli altri, il rilancio del settore del volontanato e del non profit, del quale dovrebbero essere valorizzati i principi ispiratori: «Lo spirito di indipendenza e, ad esso strettamento correlato, l'intento di prendere iniziative originali e comunque non quelle strettamente promosse e sovvenzionate dallo Stato». È uno spunto importante che consente alcune riflessioni, a cominciare dalla facilmente constatabile contraddizione che emerge oggi nella società civile del nostro Paese. Per un verso, la crisi ideale - anche di progettualità politica - ha inaridito le aspirazioni sociali di molti, favorendo la liberazione di istinti egoistici e di spinte centrifughe che minacciano la tenuta di quel patto democratico sul quale si è sviluppata la convivenza dagli anni della Costituzione. Per altro verso, soprattutto a partire dagli anni Settanta, è andato formandosi un "arcipelago" - disvelato dalle molte ricerche sul campo condotte dai sociologi - di gruppi privati che traggono linfa vitale dai valori della solidarietà e della partecipazione. 110
Non vi è dubbio che forte sia l'antagonismo fra queste due manifestazioni: da una parte, il riflusso verso il privato, mediato culturalmente da rinnovati fermenti di ideologie liberali, in campo economico e politico, che ripropongono la ricerca del benessere individuale come motore (unico) anche dal progresso collettivo; dall'altra, l'apertura verso il sociale, ispirata da un modello comunitario di cittadinanza, che ha chiari referenti culturali nel pensiero cattolico e socialista. Nelle due prospettive è ovviamente grande il divario d'interpretazione sul rapporto fra Stato e formazione sociale nella produzione dei servizi sociali. Anche perché, se è vero che lo Stato sociale è oramai sostanza delle democrazie pluralistiche, altrettanto certo è che la produzione privata di servizi sociali è una costante nelle diverse realizzazioni geografiche - o comunque nelle differenti fasi temporali - dell'attuazione dello Stato sociale, anche dell'Europa occidentale. Muta (può mutare) il ruolo svolto dalle organizzazioni non profit' talora il contributo offerto dai gruppi privati è residuale, di supplenza negli spazi liberi dei
comparti gestiti dallo Stato; altre volte le associazioni rivendicano una funzione di protagoniste in cooperazione paritaria con pubblici poteri nella fornitura dei servizi essenziali. In alcuni casi, poi, siffatta relazione è condizionata da particolari principi costituzionali: ciò che è avvenuto ad esempio in Germania o in Svizzera, dove l'efficacia pervasiva del principio di sussidarietà - che prefigura una riduzione non dei compiti assegnati allo Stato, ma della loro realizzazione ad opera delle strutture pubbliche le quali devono intervenire soltanto dove l'iniziativa privata si sia rivelata inefficiente - è per i ricercatori una delle ragioni che hanno favorito la diffusione degli enti non profit. Certo è comunque che esiste un nesso storico fra crisi del principio universalistico del welfare e crescita qualitativa e quantitativa dell'associazionismo a fini sociali. In questo senso a me pare che la contraddizione sottolineata all'inizio sia sintomatica di ùn fase di transizione, ad oggi confusa, ma i cui esiti segneranno la sorte del modello di welfare e dunque di democrazia del nostro Paese. Ecco allora il punto: a quali condizioni l'associazionismo a fini sociali è realizzazione di quel pluralismo aperto e democratico voluto dalla nostra Costituzione? È sin troppo evidente l'impossibilità di dare una risposta esaustiva in poche righe; e tuttavia qualche chiarimento può essere tentato. Anzitutto per sottolineare quanto possa es-
sere riduttiva l'impostazione che argomenta dall'insostenibile dilatazione della spesa pubblica per indicare come via d'uscita la sostanziale privatizzazione dei servizi sociali. È questo un atteggiamento eccessivamente semplificatorio, e comunque privo di validi riscontri scientifici, almeno sotto i due profili, storico e costituzionalistico. Daniele Franco ha documentato la molteplicità dei fattori la cui interazione ha determinato l'espansione della spesa pubblica nell'ultimo trentennio. La spesa sociale, in particolare, è stata spesso utilizzata per trasferimenti occulti alle grandi industrie, ovvero per reali clientele elettorali (esemplari sono sia il modello dei trasferimenti in materia previdenziale, soprattutto per le pensioni d'invalidità, sia la crescita degli oneri per il personale nel comparto della sanità). Dunque un uso ambiguo, per così dire, dell'offerta di servizi sociali che ha sortito effetti distorti posto che la crescita dell'intervento pubblico non si è convertita in aumento della capacità perequativa dell'azione sociale, secondo quanto rileva un recente Rapporto del CNEL. Certamente il parziale fallimento della funzione di riequilibrio delle disfunzioni del mercato è lì a significare che la politica di welfare ha in concreto privilegiato i ceti medi, piuttosto che quelli effettivamente bisognosi. Ma non bisogna dimenticare - e la finestra aperta dai saggi raccolti da Gin111
sborg lo dimostra - che l'intervento pubblico in Italia si è mosso sulla strada del soddisfacimento di domande di benessere avanzate dai cittadini di tutte le democrazie occidentali, e che una delle conseguenze è stata la maturazione e la conservazione (anche in anni difficili) della nostra democrazia: in altre parole, il welfare è stato il collante della crescita democratica della società civile. Trascurare tale effetto positivo significherebbe perdere la memoria storica delle vicende del nostro Paese per avallare una lettura tutta ideologica de! presente. Sul piano costituzionale, poi, con gli interventi di Antonio Baldassarre e quelli ancor più risoluti di Massimo Luciani e oramai giunta a compimento la critica alla pretesa differenza ontologica fra diritti di libertà e diritti sociali (i quali ultimi soltanto richiederebbero necessariamente una prestazione da parte dello Stato), ponendo così definitivamente le basi per una ricostruzione teorica che colloca i diritti sociali a pieno titolo nel processo di costruzione della democrazia prefigurata dalla nostra Costituzione. Sia i diritti di libertà, sia i diritti sociali "costano" (la piena realizzazione della libertà personale, ad esempio, richiede l'apprestamento da parte dello Stato di un'onerosa organizzazione), e poichè d'entrambi è voluto l'effettivo e generalizzato godimento (è questo il contenuto del principio d'eguaglianza) la responsabilità della loro realizza112
zione deve rimanere allo Stato. Non sarebbe dunque costituzionalmente legittimo che lo Stato si ritraesse definitivamente dall'area dei diritti sociali, lasciando il campo aperto all'iniziativa privata.
L'IMPORTANZA DI REGOLAMENTARE I RAPPORTI TRA STATO ED ENTI NON PROFIT
A questo punto occorre chiedersi per quali sentieri l'espansione (addirittura l'incentivazione pubblica) dell'associazionismo a fini sociali possa essere occasione per superare le difficoltà di reperimento di risorse finanziarie che hanno costretto a ripensare i modelli universalistici. di welfare, e possa nel medesimo tempo divenire strumento di attuazione dei valori costituzionali. In estrema sintesi una possibile risposta è che, in un sistema costituzionale imperniato sul principio dello Stato sociale, il rispetto dell'eguaglianza sostanziale dà contenuto al valore della solidarietà. E questo passaggio che segue l'abbandono della concezione individualistica dell'atto di solidarietà quale atto di caritatevole beneficienza e prefigura l'intervento solidaristico della collettività come diritto-dovere del cittadino di veder .superate le situazioni di inferiorità e di bisogno, e cioè: diritto del cittadino d'ottenere (così come dallo Stato) anche dagli enti non profit i mezzi idonei a superare il proprio stato di bisogno; dovere
di tutti i cittadini (anche quelli che si trovano in situazioni di bisogno) di conformare allo spirito di solidarietà il proprio comportamento sociale. Ecco allora che nella prospettiva storica della riforma dello Stato sociale il nodo dell'associazionismo diventa quello delle forme giuridiche di coordinamento tra iniziativa privata e intervento pubblico, tra necessità di indirizzo e di garanzie dell'autonomia dei privati. Lo Stato potrà trasferire ad enti non profit la funzione di produrre beni e servizi, mantenendo su di sé l'onere del finanziamento di tali unità: il risultato dovrebbe essere quello della maggiore efficienza e qualità dei servizi prodotti. Potrebbe poi essere progettata una modificazione della funzione redistributiva dello Stato, in chiave selettiva dell'offerta, ma contestualmente favorendo - con incentivazioni anche finanziarie - la nascita di organizzazioni private a cui si potrebbero rivolgere i cittadini non coperti dall'intervento pubblico. Tali potrebbero essere le tracce di una possibile privatizzazione dei servizi (è in questo senso un recente intervento di Carlo Borzaga), pur subito sottolineando che la privatizzazione deve essere rispettosa di valori costituzionali che sono in concreto diversi per ciascun settore e che impongono cautele di peso diverso (basti ricordare, ad esempio, quanto delicata apparirebbe l'iniziativa delle associazioni nel comparto
della scuola): ciò significa che l'intervento delle organizzazioni private dovrà avvenire nell'ambito di una chiara programmazione delle politiche sociali. Riprendendo la valutazione espressa da Costanzo Ranci in una recente pubblicazione, mi pare corretto pretendere un «nuovo tipo di regolazione pubblica» che definisca le modalità della reciproca cooperazione fra Stato e organizzazioni private nell'offerta dei servizi sociali. Una simile scelta comporta forse il rischio di raffreddare gli slanci entusiastici dei quali pur vive la solidarietà; ma i pericoli di risultati «dilettanteschi», quali paventati da Ristuccia o, peggio ancora, di fraudolente strumentalizzazioni consigliano l'adozione di una disciplina legislativa rigorosa degli obiettivi e delle responsabilità delle organizzazioni private. La sede opportuna per una regolamentazione dei rapporti fra Stato e associazioni, ma anche fra enti non profit e imprese (penso alle problematiche della concorrenza, di recente affrontate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 417 del 1993) dovrebbe essere quella della legislazione di sostegno promozionale. Qui, l'ispirazione a modelli consensualistici e comunque non autoritari dell'intervento pubblico sull'iniziativa privata consente di confezionare una normativa di indirizzo compatibile con i valori costituzionali: è questa la strada intrapresa dal legislatore con la legge quadro sul volontariato. 113
Non vi è dubbio che la prospettiva della regolamentazione giuridica ponga gravi problemi di legittimità costituzionale; mi limito qui - riprendendo le linee tracciate da Paolo Ridola -
ad indicare nei valori espressi dagli art. 2 e 3 Cost. (e dunque nella solidarietà e nella partecipazione) la fonte alla quale il legislatore dovrebbe attingere i fini da realizzare.
Note bibliografiche
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AA.Vv., La crescita ineguale 1981-1991 (Primo rap-
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tela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, a cura di R. Romboli, 1994. R»ci Cosmt'zo e VANOLI ALESSANDRA, Beni pubblici e virtù private, Quad. Fondazione A. Olivetti, 1994. RIDOLA PAOLO, L'esperienza italiana, relazione al seminario internazionale su "Le associazioni tra pubblico e privato: una rimeditazione sul tema", svoltosi in Napoli nel maggio 1994.
Il "nuovo" e le ipotesi non verificate di Marcello Vigli
Non so se le «opportunità" per impegnarsi nella discussione, proposta dall'editoriale del n. 96 della rivista, siano ancora oggi «maggiori" come al tempo della sua stesura. È certo che essa deve muovere dalla comune consapevolezza della radicale novità determinata dal mutamento del sistema elettorale, in occasione del rinnovo del Parlamento nel marzo 1994, irresponsabilmente non prevista dai suoi promotori. Si sono cambiate le regole elettorali senza aver la certezza che sarebbero andati in porto almeno gli aggiustamenti istituzionali previsti dalla Commissione bicamerale per la riforma della Costituzione. Si sono così create le premesse dell'attuale conflittualità istituzionale che ha messo in crisi l'equilibrio fra i poteri in essa disegnato in stretta connessione col sistema proporzionale. Se ha ancora un senso chiedere ai fatti la verifica delle ipotesi sulla base delle quali sono stati prodotti, si deve riconoscere l'infondatezza di quelle poste alla base della strategia che ha portato al referendum sulle leggi elettorali. Le critiche alla partitocrazia, che ne
costituivano un elemento essenziale, si sono rivelate generiche, viziate da pregiudizi ideologici e finalizzate non ad abbatterla, ma a mutarne gli equilibri interni. Si può oggi riconoscere che non tutti i guai della Repubblica nascessero dalla partitocrazia e dal sistema proporzionale, accusato di esserne il fondamento. Continua a costituire un errore il coinvolgimento acritico in essa di tutti i partiti senza cogliere le specificità di ciascuno e, per di più, in assenza di un'analisi dei centri di "potere occulto" e delle loro interferenze nella vita di alcuni di essi, di settori dell'amministrazione statale e delle stesse istituzioni. Non si può dire verificata neppure l'altra ipotesi, alla base della scelta referendaria, secondo la quale la via alla "seconda" Repubblica sarebbe stata più praticabile di un passaggio morbido dalla destrutturazione della costituzione materiale, che aveva retto le sorti della "prima", alla piena realizzazione del sistema previsto in quella formale non ancora portato a regime. Da tempo erano stati individuati i guasti, prodotti dal divario fra norme costituzionali e prassi politica, e sugge115
riti i mezzi per ripararli anche con aggiustamenti da tutti condivisi al sistema istituzionale. Si è preferita la via che passava attraverso la violazione dell'articolo 138. Per di più, il recupero di indipendenza di parte della magistratura, il permanere di un'alta percentuale di votanti e la reattività mostrata dai cittadini nelle elezioni del 1992, le prime col sistema a preferenza unica, erano segni positivi da non sottovalutare. Ben interpretati avrebbero consigliato di affidare ad un Parlamento rinnovato, in tutto o in parte, con le vecchie regole la funzione di scrivere le nuove! Preferendo la via del pronunciamento plebiscitario, in verità, non si è distrutta la partitocrazia, se ne sono cambiati i soggetti. Il vecchio "regime partitocratico" aveva almeno prodotto una partecipazione democratica ed una sostanziale "tenuta" del sistema sociale capaci di resistere alla strategia della tensione e al terrorismo. Il nuovo ne ripercorre le vie della lottizzazione e dell'occupazione del potere, ne ripete le liturgie dei "vertici" e delle "verifiche", ma genera frammentazione, corporativismi, subalternità. I vecchi apparati sono stati sostituiti da strutture aziendalistiche e dal sistema televisivo, non da reti leggere di raccordi telefonici e telematici. Sono cadute le illusioni di chi aveva voluto ignorare che alla vittoria referendaria avevano contribuito più l'impegno dell'apparato del Pds e l'ap116
porto dei media che non i Comitati referendari. La conferma della loro debolezza si è avuta con il fallimento del tentativo di fondare su di essi 1e sorti elettorali del Patto Segni e di Alleanza democratica. Quanto alla nascita della "seconda" Repubblica, sarebbe meglio parlare di aborto. Siamo piombati in una lunga fase di transizione della quale è ben difficile prevedere gli esiti. Su di essi incombono le dinamiche interne dei "nuovi" partiti, le scelte dei poteri forti, che li sponsorizzano, e la capacità di resistenza delle forze democratiche. Gli incontri Agnelli-Berlusconi, Sodano-Fini da un lato, la tenuta del supporto popolare all'azione della procura di Milano e la ripresa dell'iniziativa sindacale, dall'altro, lasciano prevede re che lo scontro sarà duro. Tanto più duro perché si intreccia, da un lato, con le difficoltà in cui versa la grande industria e con la crisi di fine pontificato, dall'altro con le pressioni per chiudere tangentopoli e con la rivolta dei disoccupati e dei pensionati. Non è indifferente, quindi, il comportamento soggettivo di quanti, pienamente liberi da condizionamenti economici e da pregiudizi ideologici, possono ancora permettersi il lusso di fare scelte politiche continuando ad usare la razionalità per far chiarezza piuttosto che per rendere vero il falso, e giusto l'ingiusto. Deve partire da questa consapevolezza la ricerca di una risposta alla domanda che ci è posta.
Un centro - autonomo e autogestito piÚ che associazione di associazioni impegnato a elaborare proposte e progetti per il potenziamento dell'efficienza dell'amministrazione e dei servizi che essa eroga, può servire in que-
sta fase se si propone di considerare la ricerca dell'efficienza e del risparmio subordinata all'esigenza di garantire il rispetto dei diritti e delle esigenze sociali, nella prospettiva della centralitĂ del cittadino e dell'utente.
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Taccuino
I nostri temi La levità della grazia* di Saveria Addotta
Abbiamo già presentato nel contesto del dossier su Adriano Olivetti un breve profilo della vita di Simone Weil, vi ritorniamo ora recensendo dei testi che la riguardano. Il primo - e più importante - è la traduzione a cura della casa editrice Adelphi della biografia scritta da Simone Pétrement nel 1973 (pubblicata presso la Libraire Fayard di Parigi): "La vita di Simone Weil". Gli altri due volumi sonp: "Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza" di Jean-Marie Muller (Edizioni Gruppo Abele) e "Invito al pensiero di Simone Weil" (Mursia). Prima di procedere alla loro lettura, vorremmo sottolineare l'importanza del fatto che siano stati pubblicati nel giro di pochi mesi ben tre libri riguardanti un'autrice su cui l'attenzione della critica si è accentrata sempre in modo non continuo e che, soprattutto in passato, ha conosciuto, come si suo! dire, "alterne fortune". Sicuramente, lo stesso pensiero di Simone Weil ha contribuito in buona parte alla non linearità della sua ricezione. Un pensiero che molti critici hanno diviso in fasi, generalmente in due parti: la prima caratterizzata dal sindacali• Di Simone Weil, di cui si parla in questo articolo, già discutemmo a proposito delle sue affinità con Adriano Olivetti in un dossier pubblicato nel n. 93 di Queste Istituzioni.
smo, il trotzkismo, l'esperienza operaia, il pacifismo; la seconda dal progressivo approfondimento ditemi religiosi, l'awicinamento al cattolicesimo fino all'esperienza mistica. Nell'arco di una breve vita (1909-1943) Simone Weil ha vissuto diverse e talora apparentemente contraddittorie esperienze. Ciò ha comportato, soprattutto in Italia - il Paese che più e prima di ogni altro (forse anche rispetto alla stessa Francia) ha accolto il suo pensiero -, una differenziazione a seconda dei contesti di ricezione: essenzialmente, da una parte autori cattolici e dall'altra, autori laici. Generalmente, veniva sottolineato ora l'uno ora l'altro aspetto del pensiero weiliano, e ciò fino almeno ai primi anni Ottanta, quando si hanno le prime pubblicazioni presso l'editrice Adelphi che hanno avuto l'indubbio pregio di presentare le riflessioni dell'autrice francese nella loro globalità, abbandonando così le varie letture di parte. Da questo punto in poi, tale "prospettiva globale" sarà considerata anche dalla maggior parte degli altri studi pubblicati. Ora, con la traduzione della biografia scritta da Simone Pétrement, curata da Giancarlo Gaeta e da Maria Concetta Sala, Adelphi prosegue il suo impegno a far conoscere quest'autrice nel modo più organico possibile. 121
È da ricordare, infine, che la pubblicazione di questo e degli altri due testi ora recensiti, si situa sulla scia delle iniziative svolte per celebrare il cinquantenario della morte di Simone Weil, che sono iniziate nel gennaio 1994 con un convegno promosso dal Centro studi del Teatro Stabile di Torino nel contesto del quale è stata presentata la prima nazionale dell'allestimento di Venezia Salva, l'unica opera teatrale scritta dall'autrice francese, rimasta però incompiuta. Lo spettacolo, con la regia di Luca Ronconi, è stato poi presentato a Perugia e a Roma riscuotendo notevole successo e consentendo, di conseguenza, - grazie anche all'eco avuta sulla stampa - la conoscenza di Simone Weil ad un pubblico più ampio. Gli atti del congresso di Torino, invece, sono stati pubblicati su «Testimonianze», n. 12, dicembre 1994. Vediamo, quindi, i testi pubblicati. Il voluminoso saggio di Simone Pétrement, - 663 pagine nell'edizione italiana, peraltro "tagliata" (con tagli, naturalmente, approvati dall'autrice) -, ancora prima di questa traduzione, è stato fondamentale per quanti si sono avvicinati a Simone Weil. Esso presenta, infatti, oltre ad un'ampia documentazione, anche un'efficace ed appassionata testimonianza personale, poiché biografa e filosofa erano amiche. Simone Pétrement, infatti, conobbe la Weil sui banchi di liceo, nella classe in cui insegnava filosofia Alain (Emile-Auguste Chartier). E proprio l'insegnamento di Alain, - il filosofo radicale che propugnava l'opposizione o almeno la resistenza dell'individuo di fronte ai poteri costituiti, la diffidenza verso l'ordine sociale, l'attenzione verso i più deboli -, fu l'elemento che unì inizialmente le due amiche e 122
che, secondo la Pétrement, condizionò in modo importante il pensiero di Simone Weil. E sicuramente, se molti degli aspetti "libertari" del pensiero weiliano erano già presenti prima dell'incontro con il maestro (di cui, comunque, come consentito dal sistema scolastico francese, la "Q'eil scelse liberamente di seguire i corsi), sembra che questi ne abbia stimolato l'approfondimento e soprattutto, abbia aiutato a sviluppare un'attenzione costante al reale, al concreto. La continua applicazione del filosofo francese all'analisi razionale è ben rappresentata dai Propos, saggi brevi e vivaci che egli faceva scrivere anche ai suoi alunni su aspetti culturali o fatti di costume che venivano analizzati confutando le idee che su di essi erano state espresse, e tutto ciò sempre con attenzione vigile allo stile di scrittura che doveva essere assolutamente chiaro e comprensibile. L'esercizio dei Propos fu senza dubbio di grande stimolo per Simone Weil che per tutta la vita cercò continuamente di esprimere le proprie idee con una scrittura che le cogliesse nel modo più conforme. Alain, come afferma la stessa Pétrement, ebbe un decisivo influsso anche su di essa, ma mentre per Simone Weil tale influenza ha riguardato soprattutto il suo interesse alle questioni sociali, nel caso della biografa ha riguardato, essenzialmente, il suo rivolgersi allo studio teorico. Simone Pétrement, infatti, dopo una breve carriera d'insegnante, - abbandonata per problemi di salute -, e divenuta (nel 1937) conservateur alla Bibliotheque Nationale di Parigi, intraprese lo studio dello gnosticismo, pubblicando in seguito alcuni testi
(da ricordare: Le dualisme chez Platon, les gnostiques et le manichèens del 1947 e Le Dieu separé del 1984).
Alla Pétrement, però, prima che alla sua compagna di scuola, non apparve più soddisfacente una dottrina che, come quella di Alain, poneva come presupposto di tutta l'esistenza umana la libertà. Ella comincia presto a ritenere, invece, che all'origine vi sia la verità, e che sia questa ad "essere presente alla sorgente della libertà". Da qui il suo interesse per lo gnosticismo di cui la Pétrement fu la prima a sostenere l'origine cristiana, la tesi ovvero per cui il pensiero gnostico deriva dal Nuovo Testamento attraverso la mediazione del dualismo platonico. Tale ipotesi era già stata da lei formulata nel 1937, nell'abbozzo della sua tesi di dottorato (poi pubblicata con il titolo, già citato, "Les dualisme chez Platon, les gnostiques et le manichèes") che la Pètrement fece leggere alla sua amica Weil, la quale so!tando più tardi le confesserà l"azione profonda che ebbe su di lei". Una confessione che non poté che fare enorme piacere alla Pètrement di cui si nota, per tutto il volume dedicato alla pensatrice francese, un profondo rispetto nei confronti dell'amica famosa. Come nota giustamente Giancarlo Gaeta nel suo breve saggio introduttivo alla biografia, "il motivo che percorre tutta l'opera, ma sempre in sottofondo" appare essere: "Chi sono io per parlare di una siffatta vita?". Ma tale posizione, comunque, non crea all'interno del testo la dinamica psicologica tra essere eroico e suo cantore, tutt'altro: la Pètrement, afferma ancora Gaeta -' ha la consapevolezza che "per lei parlare di quella vita straordinaria significava insieme parlare di sé, della propria ricerca della verità, intrecciata in buona parte e in momenti importanti a quella di Simone".
E la biografia, al di là di ogni considerazione, ha tutto il pregio di essere l'opera che per prima ha cercato di dare una datazione a lettere, frammenti e saggi weiliani, presentandoli e spesso analizzandoli nel contesto storico in cui erano stati scritti. Ne risalta, quindi, il ritratto di una vita e di un pensiero che camminano paralleli, compresi all'interno di un contesto storico sempre ben delineato, almeno nei suoi aspetti più importanti. La narrazione parte dalla descrizione della famiglia e dell'infanzia di Simone Weil, presentandone le caratteristiche di eccezionalità ma senza, appunto, trascendere nell'agiografìa. Si tratta perlopiù di ricostruzioni fatte in base ai racconti dei genitori e dei fratello della Weil, André (la cui fama di matematico è stata forse offuscata da quella, imprevista, della sorella) e in base a degli scritti conservati dalla stessa famiglia. Si prosegue con il racconto dell'incontro con Alain, da dove inizia, appunto, l'amicizia tra le due Simone, più quotidiana in quegli anni al liceo Henry IV fino al 1931, quando entrambe superano l'esame di aggrègation. Di questo periodo la Pètrement ricorda i filosofi e gli scrittori studiati, i propos scritti dalla Weil, un'adolescente che per la sua immagine viene soprannominata dal suo maestro la "marziana". Immagine non solo fisica, naturalmente, poiché al di là del "volto piccolo, stretto, letteralmente mangiato dai capelli e dagli occhiali, il naso affilato, gli occhi neri che fissavano arditi", ciò che emergeva, ricorda la Pétrement, erano "le tendenze rivoluzionarie di Simone, il suo disprezzo per le abitudini borghesi, una certa malizia che le faceva, a volte, provare gusto nello scandalizzare". Da qui i continui screzi con le autorità scolastiche le 123
quali non le perdonavano, più che l'atteggiamento non rispettoso, le sue attività come pacifista. La biografia va avanti presentando gli anni all'École, - durante i quali la Weil continua a scrivere i suoi propos per Alain, soprattutto riguardo la filosofia politica o la sociologia -' procede con gli anni d'insegnamento in varie cittadine francesi; le contemporanee attività con il sindacato; il viaggio fatto in Germania (nel 1932) per studiarne la situazione politica; l'anno dell'esperienza come operaia in fabbrica (1934-1935); la breve partecipazione alla guerra di Spagna; i viaggi in Italia e ' infine, i soggiorni a Marsiglia, New York e Londra. Parallelamente ai diversi periodi, la Pètrement analizza gli scritti mostrando come il vivere concretamente le proprie convinzioni sia stato, sicuramente, l'aspetto più peculiare di Simone Weil che, senza porla in "odore di santità", - come altri biografi hanno tentato di fare -, testimonia semplicemente un'esperienza di continua ricerca di senso alla propria esistenza. Il pensiero weiliano, da qualcuno inserito nel filone del cosiddetto "pensiero debole" (si veda il volume a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti: Il pensiero debole, Feltrinelli 1983) è evidente per la sua non sistematicità, per il suo non essere in nessun modo una dottrina. La Weil studia e apprezza autori come De scartes, Spinosa, Kant ma è soprattutto a Platone che va il suo interesse, ovvero al filosofo che più di ogni altro ha espresso il suo pensiero attraverso miti. Ella riteneva, come anche Alain, che la vera filosofia si trovi a volte più negli scrittori che non negli stessi filosofi, per questo citava spesso 124
autori come Thophile de Viau, Balzac, Tolstoj, Valery. Un pensiero, dunque,, quello weiliano, che sarebbe più corretto definire leggero nel senso probabilmente di ciò che la stessa Weil contrapponeva alla pesanteur, indirizzato cioè verso la gr2ce, verso il rifiuto di qualsiasi potenza, della forza in tutte le sue manifestazioni. E proprio questo tema del "rifiuto della forza" è quanto viene analizzato nel testo di Jean-Marie Muller, uno tra i più importanti studiosi del pacifismo e della difesa nonviolenta, attualmente direttore di studi all"Institut de recherche sur la résolution non-violente des conflits". Il testo di Muller sembra continuare quel filone di studi su singoli aspetti del pensiero weiliano, - in questo caso il tema del rapporto tra religione e violenza -, aspetto di cui peraltro l'autore lamenta la mancanza di attenzione da parte di altri studiosi (mancanza giustificata, per lo stesso Muller, dalla frammentarietà degli scritti weiliani). Pur occupandosi di un singolo tema, il testo delle edizioni Abele ne coglie però tutta la centralità nella riflessione della pensatrice francese, rivelandolo efficace chiave di lettura dell'intera esperienza weiliana. Di questo limite iniziale, che diviene in realtà valido strumento, è cosciente comunque lo stesso autore, e ne avverte in premessa il lettore. Come giustamente egli nota, il rifiuto della forza in Simone Weil "è presente tanto nella militante rivoluzionaria dell'inizio degli anni Trenta quanto nella mistica impegnata all'inizio degli anni Quaranta, anche se riveste, qui e là, forme differenti". E Muller analizza questo percorso, scegliendo di ri-
portate parte degli scritti weiliani piuttosto che farne parafrasi e presentandone un'analisi, comunque, non distaccata. Il suo interesse per la Weil è evidentemente dovuto ai suoi studi sul pacifismo e il suo testo, di conseguenza, non può fare a meno di presentare commenti e giudizi personali anche di disaccordo con le idee che si propone di analizzare. Presentando le singole affermazioni ed esperienze della filosofa in tema di nonviolenza, Muller dimostra che pur potendo queste apparire contraddittorie hanno al loro fondo un'unica condivisibile ragione. L'autore contesta, fra l'altro, quanti si sono serviti ditali contraddizioni per dimostrare la paradossalità del pensiero weiliano, precludendosene, in questo modo, la comprensione. Contesta, soprattutto, quanti nella Chiesa cattolica hanno rigettato i dubbi della Weil nei confronti della Chiesa da ella considerata troppo compromessa con "l'impero della violenza". Diversi cattolici, anche persone che l'hanno conosciuta in vita, si sono rifiugiati nella semplicistica considerazione che il problema di Simone Weil era, in fondo, di non aver lei compreso la Chiesa. Per Muller, quindi, la riflessione weiliana si presta a dimostrare come vi sia stato e vi è tuttora nella Chiesa cattolica un "deficit cristiano" e che, di conseguenza, "anche se la cultura occidentale ha preteso riferirsi alla saggezza cristiana, l'Occidente ha forgiato un'ideologia della potenza nel nome della quale si è attribuito la missione di conquistare il mondo". È per questo che la Weil sceglie di essere cristiana "fuori dalla Chiesa". Il suo rifiuto dell'impero della forza la spinge a rimanere fuori con quanti la Chiesa non ha voluto
comprendere snaturando, così facendo, il senso vero del cristianesimo. Cosa viene inteso, quindi, con il termine "forza"? Essa è fondamentalmente, tutto ciò che "rende cosa chiunque le sia sottomesso". Forza non è solo l'atto brutale con cui si ferisce e uccide, ma ogni cosa che minaccia di farlo, ciò che minaccia l'uomo di renderlo "cosa", di trasformarlo "in pietra". La violenza annienta l'uomo precipitandolo nella sventura, ovvero nella subordinazione alla forza. Unico rimedio è la compassione che consiste nel "prestar attenzione allo sventurato e trasportar se stesso in lui mediante il pensiero". Soltanto non facendosi artefice o complice della forza l'uomo può avere la sua libertà e contemplare, così, "i tre misteri dell'esistenza: la verità, la giustizia, la bellezza". Da qui, ricorda Muller, la battaglia weiliana contro l'oppressione sociale, che ella volle conoscere anche attraverso l'esperienza di lavoro in fabbrica, nella convinzione che "l'uomo subisce l'oppressione sociale soprattutto nel lavoro" in ciò legandosi anche alle teorie marxiste. Di Marx, però, la Weil non accetterà la fiducia nel fatto che il proletariato, attuando il colpo di stato politico, avrebbe soppresso insieme alla classe dominante anche l'oppressione sociale: "La forza, pur cambiando di mano, rimane sempre una relazione tra più forte e più debole, una relazione di dominio". Partendo da queste considerazioni, Simone Weil condanna, fra i primi intellettuali di sinistra che lo fecero, le deviazioni della rivoluzione russa, accusata di aver dato vita ad un regime dispotico. Purtroppo, "esiste una forza sociale che invita costantemente gli individui a sottomet125
tersi con docilità ai poteri costituiti: è la forza inerente ad ogni collettività umana". Gli uomini possono sottrarsi ad essa solo mediante "uno sforzo di pensiero che permetta reale autonomia d'azione". Ecco perché l'importanza della capacità di pensare in modo critico, non solo per gli intellettuali ma anche per gli operai, i contadini (e la Weil operò, attraverso il sindacalismo e l'insegnamento nelle università popolari, affìnchè tale capacità si diffondesse). Le masse devono organizzarsi ed in modo duraturo, fatto che nella storia, secondo la Weil, non è accaduto. E su quest'ultimo punto Muller dissente, ricordando che in realtà la storia dei popoli mostra numerosi esempi di lotte che hanno saputo durare a lungo. Per la Weil, invece, le collettività non riescono a pensare e, anzi, l'individuo per poter pensare, deve sottrarsi all'influsso collettivo. Gli stessi partiti politici, essendo essenzialmente "macchine per la fabbricazione della passione collettiva", organizzazioni costruite in modo da "esercitare una passione collettiva sul pensiero di ciascuno degli esseri umani che ne fanno parte", sono estremamente dannosi per la vita sociale. In quanto gruppi costituiti su base ideologica, impongono una serie di regole, di opinioni prestabilite che ogni aderente deve far proprie, facendo si che questi si trovino spesso nella condizione di "rinunciare all'autonomia del proprio pensiero, giudizio e azione per obbedire al dettato del partito". "In una vera democrazia", continua la Weil "i candidati dovrebbero presentarsi dinanzi agli elettori affermando le proprie convinzioni accompagnate da analisi e proposte" e una volta eletti dovrebbero associarsi o dissociarsi "secondo il gioco naturale e mutevole delle affinità". 126
Il mantenere l'autonomia di giudizio consente, in ogni circostanza, di avere una visione dei fatti sociali il pii possibile chiara. Il non lasciarsi condizionare a lungo da entuasiasmi che fanno abbracciare cause apparentemente giuste ha permesso alla Weil di comprendere, ad esempio, che la guerra in Spagna non era, come ella credeva inizialmente, "una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero loro complice, ma una guerra tra Russia, Germania e Italia". Prima di rendersi conto di questo, era partita volontaria arruolandosi tra le file dell'anarchico Buonaventura Durruti, - e ciò malgrado il suo pacifismo -, credendo di partecipare non ad una guerra ma ad una rivoluzione. L'esperienza le diede, invece, l'ulteriore prova del fatto che "l'uso sistematico della forza è necessariamente accompagnato da crudeltà". Un'affermazione, quest'ultima, che George Bernanos scrisse nel suo I grandi cimiteri sotto la luna, il libro dedicato alla guerra di Spagna in seguito alla lettura del quale la Weil indirizzò una lettera a Bernanos in cui lei, militante nelle fila dell'estrema sinistra, confessa di sentirsi vicina al suo interlocutore "monarchico, discepolo di Drumont", poichè ne condivideva, appunto, il rifiuto della violenza. Simone Weil abbandonerà definitivamente il suo pacifismo a partire dal 1938, quando considererà la guerra come l'unico strumento per opporsi ad Hitler. Accetterà, allora, il rischio di uccidere, ma assumerà anche quello di essere uccisa elaborando un "Progetto per una formazione di infermiere di prima linea", di un gruppo di donne, cioè, che avrebbe dovuto prestare le cure piii urgenti in trincea, dando in questo modo anche una sorta di dimostrazione politi-
ca al nemico. Una formazione d'infermiere con questi compiti si sarebbe contrapposta alle formazioni delle SS, ad uomini cioè che "simbolizzavano il regime di Hitler" incarnandone la brutale ideologia. Le infermiere avrebbero simbolizzato, invece, "lo spirito nel quale le democrazie devono combatterlo", un "ufficio di umanità al centro della battaglia". Muller commenta questo abbandono del pacifismo ricordando ancora affermazioni weiliane: "Il sottomettersi alla violenza in circostanze estreme, non deve far dimenticare che solo la non-violenza dona all'esistenza il suo vero senso... solamente a partire dal riconoscimento dell'esistenza di nonviolenza è possibile ridurre la violenza alla stretta necessità". Proprio questo insegnamento, sottolinea quindi Muller, è ciò che spesso il cattolicesimo ha dimenticato di trasmettere, diventando "un'ideologia che ha preso parte alla violenza degli uomini, a volte mettendola in opera esso stesso, più spesso rendendosene garante", come è avvenuto, almeno in parte, anche durante il periodo nazista. Muller conclude il suo testo, affermando che "solo procedendo sulla strada aperta dalle riflessioni di Simone Weil su1 'rifiuto della forza' le Chiese potranno trovare l'antidoto che permette loro di esorcizzare i demoni che spingono verso l'integralismo... al di là delle Chiese e delle religioni, tutte le istituzioni e le ideologie sono diffidate a rinunciare alle naturali tendenze a legittimare, a garantire la violenza.., al punto di convergenza di tutte le filosofie vi deve essere la seguente certezza, conquistata contro la pesantezza della materia: 'L'uomo è una creatura pensante; egli sta dalla parte di ciò che comanda alla forza".
Il testo di Maurizio Zani, - insegnante di storia e filosofia in un liceo di Milano, autore già di altri scritti su Simone SWeil -' segue uno schema preciso che è quello dettato dalla collana dell'editrice Mursia "Invito al pensiero". Questa, infatti, si propone di fornire strumenti di comprensione allettore che si avvicina per la prima volta ad un filosofo, offrendo un'esame critico del pensiero presentato, colto nel contesto del periodo storico in cui si è sviluppato. Anche questo volume dedicato a Simone Weil si articola dapprima presentando delle "cronologie parallele": uno schema diviso in tre parti in cui sono ricordati, accanto ai fatti salienti della vita dell'autore, anche i contemporanei avvenimenti culturali e storici. La collana presenta, quindi, una breve biografia, le opere, i temi più ricorrenti, la critica e la bibliografia. Il testo di Zani parte quindi con i limiti imposti da questo tipo di collane editoriali, costretto ad una certa sintesi e a tratti allo schematismo, ma mantenendo comunque il pregio d'introdurre il lettore a tutti gli aspetti del pensiero weiliano. Probabilmente ha la "sfortuna" di essere stato pubblicato nello stesso periodo della traduzione del testo di Simone Pètrement che, proprio per la sua ampiezza e documentazione può mettere in secondo piano altre biografie. A vantaggio del testo della Mursia, però, può giocare il basso costo (L. 15.000), probabilmente più attraente per un lettore che non conoscendo l'autrice, preferisce rimandare per un'approfondimento il costo maggiore della biografia dell'Adelphi (L. 85.000). Vorremmo concludere questa breve rassegna, ricordando tra le biografie precedentemente pubblicate in Italia su Simone Weil, 127
quella scritta da Gabriella Fiori: Simone Weil. Biografia di un pensiero (ultima edizione Garzanti del 1990) che, almeno per la passione che comunica, può essere considerata di valore pari a quello della biografia francese. Ci permettiamo, infine, di invitare alla lettura diretta dei testi di Simone Weil che, riteniamo, al di là di ogni valida intermediazione, bastano a far comprendere il suo pensiero. In questo periodo di tentativi di ritorno alla pesantezza di un certo cattolicesimo, il richiamo convinto di Simone Weil ai valori originari del cristianesimo ci sembra quanto mai utile: per credenti e non credenti.
Nota bibliografìca OPERE Dl SIMONE WEIL Traduzioni in italiano L'ombra e la grazia tr. di F. Fortini, Ed. di Comunità, Milano 1951. La condizione operaia, tr. di F. Fortini, Ed. di Comunità, Milano 1952; 2' ed. 1965; 3' 1974; 4' 1980. La prima radice, tr. di F. Fortini, Ed. di Comunità, Milano 1973; 3' ed. 1980. Tr. di G. Gaeta, SE, 1990. Oppressione e libertà, tr. di C. Falconi, Ed. di Comunità, Milano 1956. Venezia salva, tragedia in tre atti. Intr. e tr. di C. Campo, Morcelliana, Brescia, 1963; Adelphi, Milano, 1987. L'amore di Dio, tr. di G. Bissaca e A. Cattabiani. Intr. di A. Del Noce, Borla, Torino 1968; 2' ed. 1979; 3' 1990. 128
SIMONE PÉTREMENT
La vita di Simone Weil Adelphi, Milano 1994, pp. 663
JEAN—MARIE MULLER
Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, pp. 176
MAURIZIO ZANI
Invito al pensiero di Simone Weil Mursia, Milano 1994, pp. 201
Lettera a un religioso, tr. di C. Montesano, Borla, Torino 1970. Sulla scienza, tr. di M. Cristadoro. Pres. di U. Cappelletti, Borla, Torino 1971. Attesa di Dio, tr. di N. D'Avanzo Puoti (éd. La Colombe, 1950), Casini, Roma 1954. Attesa di Dio, tr. di O. Nemi (éd. Fayard, 1966). Intr. di P.B. D'Angelo, Rusconi, Milano 1972; 2a ed. 1984; 3' 1988; 4' 1991, con intr. di J.-M. Perrin. La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. di M. Harwell-Pieracci e C. Campo, Borla, Torino 1967; 2' ed., Rusconi, 1974 [con l'aggiunta dello scritto sull'iliade e sul Dio in Platone]. Note sul Padre Nostro, tr. di R. Colla, in Il Padre Nostro (Commenti al Padre nostro di S. Francesco d'Assisi, Ch. de Coucard, 5W), La Locusta, Vicenza 1973, pp. 35-59. Obbedire all'amore nella giustizia, a cura di P. Elia (racc. ant.), Gribaudi, Torino 1975. Quaderni, VoI. I, a cura e con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982; 3' ed. 1991.
Pensieri disordinati sull'amore di Dio, tr. di N. Tajana e R. Colla, La Locusta, Vicenza 1982 [Cont. alcune parti di Pensées sans ordre concernant I'amour de Dieu, due lett. a A. Thvenon e a J. Bousquet, e una scelta imprecisata di scritti]. Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1983. L 'agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico [dalla Chanson de la croisade albigeoise, tr. di A. Fassò]; L'ispirazione occiranica; Due lettere a D. Roché, tr. e note di G. Gaeta, in «In forma di parole'>, Manuale Secondo (ott., nov., dic., 1983), pp. 57- 12 1. Non ricominciamo la guerra di Troia, tr. di E. Carizzoni, in «L'Umana avventura>', 3 (sett. 1983), pp. 117-126. Prologo, tr. di A. Marchetti, in D. Canciani, G. Fiori, G. Gaeta, A. Marchetti, SW, La passione della verità, Morcelliana, Brescia 1984, pp. 61, 63.
Gli astri, tr. di A. Marchetti, in ib., p. 65. 5W - Joe Bousquet. Corrispondenza, tr. e nota di A. Marchetti, in »In forma di parole», V, (apr.-mag.giu. 1984), pp. 18 1-223, 224-232. Quaderni, VoI. lI a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985. Quaderni, VoI. III a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988. Sulla Germania totalitaria, VoI. Il a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988. Cinque lettere a uno studente, La Locusta, Vicenza, 1990. Morale e letteratura, tr. e nota di N. Maroger, ETS, Pisa 1990. Quaderni, VoI. IVa cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993.
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Il legislatore e la comunicazione di interesse generale di Cristina Galassi*
Tesi: la struttura teorica e i temi operativi della comunicazione di interesse generale si vanno differenziando da quelli della comunicazione pubblica. In altri termini: la società italiana cambia e il suo elemento fondante diventa il pluralismo. L'equilibrio nel pluralismo è realizzato dal confronto tra gli interessi (che è anche comunicazione tra questi) e dal ruolo di recezione del potere pubblico. Altra lettura, più in chiave di comunicazione: nel pluralismo gli interessi partecipano all'esercizio del potere pubblico, cioè sono chiamati a partecipare al processo di comunicazione. Per approfondire raccogliamo gli elementi positivi, cioè presenti nelle leggi, che consentono di tracciare il modello della comunicazione di interesse generale. Prendiamo in esame la recente legislazione. Affermando in via, generale un radicale cambiamento nei rapporti tra amministrazione e cittadini, la 1. 241 del 1990 stabilisce la natura di recezione del potere pubblico e puntualizza, tra gli altri, il seguente principio: l'interesse deve essere attivo perché l'azione dell'istituzione dipende dal confronto fra più interessi (articoli 9 e 11). La 142/90 sull'ordinamento delle autonomie locali avvalora con più decisione la tesi e afferma che la fonte dell'agire pubblico sono gli interessi privati in quanto il potere
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pubblico è funzione degli interessi privati; in quanto «l'istituzione rappresenta la comunità>) (articolo 2). Passiamo infine al decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n. 29: qui l'innovazione è nella costituzione del canale per affermare il ruolo di recezione del potere pubblico. L'attenzione è per un capo del decreto legislativo intitolato "Relazioni con il pubblico" e sull'attribuzione a tale ufficio anche di una funzione di "ricerca e analisi all'utenza" che, secondo una possibile chiave di interpretazione, riconosce all'ufficio un ruolo di ascolto delle esigenze dei cittadini e di proposta. A questo punto resta da prendere una posizione sulla natura degli elementi raccolti. Si tratta solo di indizi, riconducibili a motivi indiretti o fortuiti, o possiamo parlare di rilevanza del modello di comunicazione generale? Una conclusione sembra comunque certa: l'equilibrio tra interessi, privati e pubblico, può ottenersi solo attraverso il contatto tra più comportamenti diseguali e la recezione di questi da parte dell'istituzione.
* Consulente Aaland. Arcipelago della Comunicazione. Di comunicazione e pubblica amministrazione abbiamo già parlato nel n. 99.
Notizie dal Gruppo di Studio Societa e Istituzioni
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Incontro Cortonese
(Cortona, Sala Sant'Agostino, 1 e 2 ottobre 1994)
fl 70 incontro cortonese ha ripreso il tema della pubblica amministrazione già affrontato, da una diversa angolatura, nell'ottobre 1989. In quella occasione si parlò della «cultura amministrativa degli ultimi 40 anni», ora la forte accelerazione dei processi meglio dire delle ipotesi - di riforma amministrativa verificatasi in questi ultimi anni rendono necessaria un'ulteriore attenta riflessione. Gli elementi da valutare sono, senz'altro, molti ma probabilmente merita rilievo particolare il fatto che abbia ripreso quota una ipotesi di riforma complessiva delle amministrazioni pubbliche. Sia il governo Amato sia il governo Ciampi si sono infatti mossi perseguendo l'obiettivo di un ripensamento dei criteri fondamentali dell'organizzazione amministrativa. Mentre gli anni Ottanta erano stati contrassegnati da interventi anche incisivi in settori diversi dell'amministrazione, ma che sembravano non avere un indirizzo univoco, nella fase più recente si è ricominciato a riflettere in termini di riforma generale del sistema amministrativo. La circostanza non è scevra di conseguenze poiché rende ancor più urgente cercare di
cogliere il «senso» delle riforme in corso. Come è noto, infatti, le vicende costituzionali e amministrative del nostro Stato unitario sono state contrassegnate da tentativi reiterati di «riforma generale» dell'amministrazione. Con esiti, come tutti ricordano, molti difFormi. È quindi non di poco momento tentare una riflessione che, partendo dal recupero della ((memoria>) delle vicende amministrative, riesca a fornire elementi di riflessione sugli sviluppi in corso. Come avviene in altri Paesi, ma probabilmente in misura più cospicua, in Italia vi è stato un costante riproporsi degli stessi problemi nell'ambito dei dibattiti sulla riorganizzazione dell'amministrazione. Duplicità e inutilità dei controlli, lentezza dell'azione amministrativa, rigidità delle strutture amministrative, discrepanza tra funzioni e modelli organizzativi, ingerenza della politica sull'amministrazione, inefficienza del personale pubblico sono temi ripetuti quasi ossessivamente, da oltre un secolo, tanto dalla pubblicistica quanto dalle élites di governo. Riflettere quindi sulla storia può servire come osservava Marc Bloch - per aiutare a capire il presente. Un serrato confronto di idee tra passato, presente e futuro può aiutare a focalizzare anche meglio alcuni punti specifici del funzionamento (o forse del131
la disfunzione) degli apparati amministrativi. In quest'ottica, si sono svolte dunque, le ultime giornate di studio cortonesi suddivise in 2 sessioni; la prima, introdotta da Stefano Sepe è stata dedicata ad una ricognizione
dell'evoluzione storica collegata alle rforme in corso mentre la seconda, introdotta da Sergio Ristuccia, ha riguardato la copertura
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amministrativa delle leggi e di progetti di rifòrma. Al dibattito sono intervenuti inoltre: Manin Carabba, Giuseppe Cogliando, Ernesto d'Albergo, Gian Candido De Martin, Antonio Di Majo, Luigi Fiorentino, Giampaolo Ladu, Sergio Lariccia, Angelo Mari, Ignazio Portelli, Alberto Stancanelli, Antonio Zucaro.
Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali
In collaborazione con la Fondazione Europea della Cultura, il Consiglio italiano per le Scienze Sociali (Css) sta conducendo una inchiesta conoscitiva sulle attività di ricerca che, in Italia e in alti Paesi europei, hanno per oggetto tematiche relative alle minoranze etniche. In seguito agli avvenimenti che, dal 1989 in poi, hanno profondamente modificato la carta geografica e gli assetti politici in quasi tutti i Paesi dell'Europa centrale e orientale, inclusa l'ex Unione Sovietica, nonché nei Balcani, il problema dei diritti dei gruppi etnici, delle loro rivendicazioni, delle conseguenze ditali rivendicazioni sugli equilibri politici interni ai singoli Paesi e sui rapporti tra Paesi, è diventato il problema che, più di altri, minaccia la pace in Europa. Non è quindi motivo di sorpresa la proliferazione di ricerche consacrate a questo problema. Queste riguardano diversi aspetti e interessano tutte le discipline delle scienze sociali, storia, diritto, scienza politica, sociologia, demografia, economia, antropologia culturale e sociale, psicologia e pedagogia. Sotto l'etichetta generale di «etnicità» ricadono o possono ricadere programmi di ricerca e di insegnamento su temi comé il nazionalismo, il razzismo, i diritti umani, le identità linguistiche, culturali, religiose e nazionali, le immigrazioni, l'emarginazione sociale, la comunicazione, ecc., senza di-
menticare l'integrazione e la rappresentanza politica (particolarmente attuali ed urgenti per quanto riguarda tutte quelle persone che fino al 1989 potevano aspirare a ottenere lo status di rifugiati politici e che oggi si ritrovano in un limbo). Negli anni più recenti, il campo di studi che abbiamo genericamente definito «etnicità» è cresciuto rigogliosamente, ma anche disordinatamente. Gli studiosi europei impegnati in questo campo sono diverse centinaia. Alle attività di ricerca più propriamente accademiche vanno aggiunti i progetti promossi da organismi internazionali, in particolare Consiglio d'Europa, Unesco e CSCE. Le tradizionali barriere disciplinari da una parte e, dall'altra, le barriere geografiche e linguistiche, fanno sì che i canali di comunicazione, talvolta anche all'interno di un Paese, siano del tutto inadeguati. Tra il 1991 e oggi sono stati creati alcuni network internazionali, quali, tra i più significativi, l'ASEN (Associazione for the Study of Ethnicity and Nationalism) promosso dalla London School of Economics, e l'INARME (Reseau européen d'histoire comparative des identités nationales, du racisme et des migrations). Ma questi, e altri, non sono ancora del tutto rappresentativi delle diverse realtà nazionali, nonché disciplinari, e in alcuni casi non ancora del tutto operativi. I primi dati raccolti dall'inchiesta Css/FEc 133
indicano che esiste una diffusa ridondanza di tematiche e duplicazione di progetti e quindi, cònseguentemente, anche molta dispersione e spreco di risorse. L'inchiesta, che mira in primo luogo a produrre un rap-
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porto informativo, ovvero un inventano delle ricerche in corso, dei centri e dei gruppi di ricerca e delle risorse disponibili, permetterĂ di esprimere in proposito giudizi documentati e ragionati.
Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura
La Fondazione Europea della Cultura ha celebrato il suo quarantesimo anniversario con un dibattito pubblico ad Amsterdam sui futuro dell'Europa. Il dibattito ha concluso una serie di tre incontri tenuti durante l'anno all'interno del progetto «Europe 2000: Between Hope and Anxiety». Tale progetto continua il lavoro della Fondazione sul progetto originale «Plan Europe 2000 from the 1960s and 1970s» riguardante gli orientamenti chiave per l'Europa del 2000. Oggi, con il nostro continente in un periodo di grande cambiamento, è sempre più importante programmare il futuro e provare a prevedere una soluzione ai problemi prima di incontrarli. Il nuovo progetto ha lo scopo di creare nuove visioni per l'Europa, nuove idee, coinvolgendo persone da Paesi diversi, di generazioni diverse e professioni diverse per portare il dibattito europeo a livello pubblico.
I workshop per studenti Nelle due settimane che hanno preceduto il dibattito si sono tenuti workshop di due giorni per 35 studenti al College of Europe a Bruges. Lo scopo era non solo preparare gli studenti per il dibattito di Amsterdam, ma anche
ascoltare i pareri delle generazioni più giovani sulle questioni importanti per il futuro dell'Europa. Dopo una breve introduzione sulla pianificazione futura, durante i workshop s'è discusso sugli scenari del processo politico, sui sistemi sociali, sui mercati globali e l'ambiente urbano in Europa all'inizio del prossimo secolo. Leducazione è stata vista come chiave per la stabilità politica e la tolleranza della diversità nella nuova Europa e ogni workshop è ritornato sull'educazione come principale soluzione a problemi potenziali. Sia gli specialisti che gli studenti hanno giudicato i workshop mezzi efficaci per migliorare la comunicazione e creare visioni su futuri possibili.
Il dibattito Il dibattito - tenuto ad Amsterdam sabato 5 novembre 1994 - è stato annunciato come un dibattito veramente pubblico, come un'opportunità per sollevare questioni importanti e per fare domande direttamente agli specialisti. Quasi 300 persone presenti al dibattito si sono iscritte in anticipo per discutere le questioni con i più di 20 specialisti provenienti da tutto il mono. Il dibattito è stato introdotto dalla princi135
pessa Margriet d'Olanda, presidente della Fondazione Europea della Cultura, che ha ribadito l'importanza di includere nel dibattito europeo persone di professioni, generazioni e Paesi diversi.
A Vienna o Vladivostock Le questioni politiche per il futuro dell'Europa sono state discusse nella sessione mattutina del dibattito. Philip Freriks ha presentato il dibattito e ha introdotto il panel, che è stato condotto da Piet Dankert, il quale ha iniziato la discussione ponendo delle questioni: cosa significa e perché l'Europa. Il tema predominante emerso nella discussione di 90 minuti ha riguardato la possibile ampiezza dell'Europa, che cosa dobbiamo considerare «Europa»: essa si estende fìno a Vienna o comprende anche Vladivostock? Ai diversi membri del panel sono state poste domande acute su tale questione. Otto von der Gablentz, ambasciatore tedesco in Russia e Hanna Suchocka, cxprimo ministro in Polonia, hanno fornito la prospettiva da Est. Il panel ha concordato sul fatto che l'Unione Europea deve continuare ad ampliarsi e che deve essere trovato uno specifico rapporto con la Federazione Russa ma ci si è chiesto in che modo. Tutti hanno ritenuto che le strutture istituzionali dell'Unione devono essere ridefinite - e che il 1996 servirà a questo - poiché esse non possono più assolvere alle proprie funzioni di fronte ad un'Europa più ampia. Un'osservazione da parte del pubblico: «Se tu non lasci unire loro, loro verranno e lo otterranno» è stata occasione per un commento di von der Gablentz: «L'Europa dal di fuori appare infinitamente migliore che 136
dall'interno e posso dire che da Mosca essa sembra molto attraente».
La regressione del welfare state Nel pomeriggio, il panel sulle questioni sociali - condotto da Riccardo Petrella - ha considerato il senso della responsabilità pubblica, sia ambientale che sociale. I membri del panel hanno auspicato una nuova mentalità da parte sia dei governanti che dei cittadini. Tutti sono stati generalmente d'accordo sul fatto che se il welfare state non è in crisi è comunque in regressione e la prospettiva sociale per gli europei sta peggiorando. Riccardo Petrella ha sostenuto che il mercato non può regolare il futuro dell'Europa, provocando un'accesa discussione sulla crescita economica e sul finanziamento dei sistemi sociali. Petrella ha ricordato al pubblico che in Europa non manca la ricchezza: il problema non è il denaro, ma il creare un contratto sociale per la redistribuzione della ricchezza su scala europea e globale. Una persona del pubblico ha notato che i mercati (globali) danno vantaggi e che i problemi sono causati dalla mancanza di regole. E su questo che l'Europa deve intervenire, poiché ha il potere e il prestigio per regolare i mercati su scala globale e per occuparsi del sistema sociale. Egli ha osservato: «Lo scopo dei mercati è occuparsi dei bisogni degli individui, non dobbiamo dimenticarlo».
«Europeità» Infine, la discussione sul tema della cultura - condotta da Robert Picht - ha considera-
to la questione di «cosa è un europeo)>. Molti membri del panel hanno espresso la loro immagine ideale di un europeo, di un'integrazione senza perdita di identità, di un'integrazione culturale e religiosa. Thomas Kleininger ha affermato che per lui essere europeo è essere un traduttore che traduce da una cultura ad un'altra. La tolleranza della diversità e il «riconoscimento reciproco piuttosto che l'eccessiva armonizzazione» sono stati considerati le chiavi dell'Europeità». Tale immagine di Europa è contrastata da quella per cui un europeo è tradizionalmente un bianco, cristiano, che ha abbracciato valori della classe media liberale. Legalmente, tuttavia, adesso ciò non è vero e, quindi, come consideriamo i cittadini europei che non sono conformi a questo modello? Kleininger ha affermato che gli europei corrono il pericolo di creare una tacita apartheid culturale comportante una «ghertizzazione» della società.
Conclusioni I partecipanti al dibattito hanno per lo più manifestato la loro fiducia nel fatto che la società può essere cambiata, che un nuovo tipo di società può essere costruito. Questo è il sogno delle persone, le loro visioni e speranze per l'Europa dell'inizio del nuovo secolo. Con speranza, l'associazione tra le organizzazioni non-governative e lo Stato può realizzare tali sogni. La Fondazione Europea della Cultura spera che le idee espresse durante il dibattito e nei precedenti appuntamenti del 1994 del progetto «Europe 2000», dimostreranno di essere il seme per il lavoro che la Fondazione può assumere nel futuro. Sono già in corso iniziative per una pubblicazione e per ulteriori progetti che deriveranno direttamente da «Europe 2000»: Between Hope and Anxiety».
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democrazia e diritto
trimestrale del centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato
2-3/94 NAZIONE IL TEMA Teorie e culture Giuseppe Cotturri, Il pendolo della nazione fra identità e soggettività Gian Enrico Rusconi, Questione nazionale e ruolo della cultura storica Umberto Cerroni, L 'identità italiana e formazione dello stato unitario Patricia Chiantera, Nazione e nazionalismo nella formazione degli stati moderni Lorella Cedroni, Federalismo versus nazionalismo? Elementi per una teoria politica integrata Alfonso M. lacono, Razza nazione popolo: facce nascoste dell'universalismo Pietro Barcellona, La "città degli affetti" contro ilfalso universalismo Filippo Gentiloni, Cuius regio eiu religio Gianni Baget Bozzo, Fondamentalismo islamico e nazionalismi Elisabetta Donini, Genere nazione soggettività di donne Ruba Salih, Le donne palestinesi fra Corano e Costituzione Armando Pitassio, Nazionalismi jugoslavi ejugoslavismo LA QUESTIONE Mondializzazione, localismi efederalismo Mario Pianta, Globalizzazione dell'economia e dimensione locale Bruno Amoroso, Mesoregioni: uno sviluppo alternati vo per l'Europa Dario Padovan, Oltre lo stato nazione localismo cosmopolita e localismo "triste" Antonio Papisca, Dallo stato confinano allo stato sostenibile Antonio Cantaro, Stato federale, eguaglianza e diritti sociali Daniele Petrosino, Secessione Claudio De Fiores, Presidente della repubblica e unità nazionale ARGOMENTI Europa Pascal Delwit, La crisi europea e l'impasse della sinistra Marianne Dony, L 'ambigua sussidiarietà nell'Unione Europea Lucia Ciampi Elio Testoni, Classe politica e stampa nelle elezioni europee: Italia e Francia (I) IL DIBATTITO Ancora sul diritto sessuato Nicoletta Gandus, Per continuare a discutere Maria Grazia Campari, L'autonomia femminile e il limite dell'ordinamento Maria Grazia Giammarinaro, Diritto "leggero" eprincipi 'esanti" Luigi Ferrajoli, Ilsignflcato del principio di uguaglianza Letizia Gianformaggio, Soggetti vi tà politica delle donne: strategie contro IL SAGGIO Alfredo Salsano, Il dono: solidarietà e interesse Vincenzo Sorrentino, Marx: corruzione e strategie occulte nella democrazia moderna L. 20.000 - abb. 1995 L. 74.000 - c.c.p. 00325803 - Edizioni Scientifiche Italiane, via Chiaramonte 7, 80121 Napoli, tel. (081) 765443
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CAMERA DEI DEPUTATI SEGRETERIA GENERALE
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« Concorso per l'assegnazione di un premio di Laurea intitolato alla memoria del consigliere parlamentare Donato Campagna, di cui alla deliberazione n. 126194 del 12 aprile 1994 dell'Ufficio di Presidenza della Camera dei Deputati».
Premio di laurea "Donato Campagna" L'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati ed il Sindacato dei funzionari parlamentari, per ricordare il consigliere parlamentare Donato Campagna, prematuramente scomparso, hanno costituito presso l'Amministrazione della Camera un fondo per l'istituzione di un premio di laurea, con cadenza biennale, indirizzato ai cultori del diritto parlamentare L'Amministrazione della Camera bandisce pertanto per gli anni accademici 1992-1993 e 19931994 il concorso per la prima assegnazione del premio, secondo le seguenti norme. ART. I.
È indetto un concorso per il conferimento di un premio per tesi di laurea di L. 3.000.000, intitolato alla memoria di Donato Campagna, funzionario della Camera dei deputati. 2. Possono concorrere all'assegnazione del premio i laureati in Giurisprudenza ed in Scienze Politiche che negli anni accademici 1992-1993 e 1993-1994 abbiano discusso tesi aventi ad oggetto un argomento di diritto parlamentare.
ART.
3. Per partecipare al concorso i candidati dovranno inoltrare: la domanda in carta semplice alla Segreteria Generale della Camera dei Deputati in cui siano chiaramente indicati nome e cognome, luogo e data di nascita, indirizzo e numero telefonico del candidato, titolo delle tesi, anno accademico e data del conseguimento della laurea, voto di laurea; copia della tesi firmata dal relatore.
ART.
Domanda e copia della tesi dovranno essere inoltrate in plico chiuso a: Camera dei deputati - Premio Donato Campagna - Montecitorio - Roma, e pervenire entro e non oltre la data del 30 marzo 19954. La Commissione giudicatrice sarà nominata e presieduta dal Segretario Generale, e composta da tre funzionari parlamentari e da tre docenti universitari in materie giuridiche o esperti di diritto parlamentare.
ART.
5. La Commissione, dopo aver selezionato le tesi che hanno titolo al concorso e valutato le medesime, assegnerà il premio che verrà corrisposto in un'unica soluzione. È altresì in facoltà della Commissione indicare tesi degne di menzione. Il giudizio della Commissione è insindacabile. L'assegnazione del premio avverrà con cerimonia pubblica presso la Camera dei deputati.
ART.
Roma, lì 7 novembre 1994
IL SEGRETARIO GENERALE
Mauro Zampini 140
TRIMESTRALE DELLA SoctrÀ ITALIANA PER L'ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE
Voi. XLIX
2
1994
INTERVENTI
Luigi Bonanate, Tra declino e rinascita: il caso dell'ONU ARTICOLI E SAGGI
Riccardo Pisillo Mazzeschi, Trattati e consuetudine nella codificazione del diritto internazionale Ennio Triggiani, I riflessi istituzionali dell'ampliamento dell'Unione Europea NOTE E COMMENTI Gerusalemme e i Luoghi Santi, Enrico Molinaro Caratteristiche e novità introdotte dal nono protocollo addizionale alla Convenzione Europea sui Diritti Umani, Grazia Quacquarelli li rilancio della cooperazione universitaria quale strumento di aiuto allo sviluppo, Massimo Gaudina OSSERVATORIO EUROPEO Deficit democratico e riforma istituzionale nell'Unione Europea,
Giuseppe Cogliandro Rassegne delle attività delle Organizzazioni Internazionali. Documenti. Recensioni.
EDITORIALE SCIENTIFICA
FABBRINI QUALE - DEMOCRAZIA L'ITALIA E GLI ALTRI
LIBRI DEL TEMPO. LAT E R ZA
ffTIE
gI parlamentari e di politica Costituzionale
Anno ventisettesimo
r trimestre
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1994
La costituzionaljzzazjone dell'ambiente
Federalisrno e ambientalismo: il modellò statunitense Le laboratoire francais du rattachement environnementgouvernement Enigmatic centralism, government policy and environment in the U.K. Government and envirorunent in Germany between division of powers, federalism and centralism ABSTRACTS OF ARTICLES
RIVISTRA TRIMESTRALE
"BAILAMMI? rivista di spiritualità e politica SOMMARIO DIZIONARI
LA FASE
LA PIETÀ
ESPERIENZE
SCENARI DEL C A1)Dt )1'1L
CONTEMPORANEO LETTURE MEDITAZIONI E PREGHIERE
DALLE "MASSE" ALLA "GENTE" di Mario Tronti DE DOCTRINA SOCIALI ECCLESIAE (IV) di Edoardo Bcnvenuto
18
COMMIATO? di Pino Trotta
45
GLI EBREI IN ITALIA IN ETÀ MODERNO-CONTEMPORANEA. CONSIDERAZIONI PER UNA STORIA ANCORA DA SCRIVERE di David Bidussa
50
9
RICORDANDO 15-MONTESPLUGA 1945. THE INNOCENTS ABROAD di Romana Guarnieri ROMANTICISMO RELIGIOSO E CULTO MARIANO di Emma Fattorini DUE MEDITAZIONI SULLA PIETÀ DI DIO di Sergio Quinzio
105
TESTIMONIANZA SU SPIRITUALITÀ E POLITICA di Giuseppe Dossetti
119
LA LENTA INTEGRAZIONE. LA "NAZIONE EBREA" A LIVORNO IN ETÀ GRANDUCALE III) di Luca .Paolini
126
GIOVANNI EMANUELE BARIÉ E IL PROBLEMA DELL'UNIVERSALE STORICO di Carlo Sini
157
SUL BIBLISMO DI TOMMASEO E IL SUO TENTATIVO DI RIFARE UNA "SCRrrrURA ASSOLUTA" di Patrizia Zandonà
169
LA PASSIONE SECONDO PASCAL a cura di Michele Ranchetti
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N° QUINDICI-SEDICI - GENNAIO/DICEMBRE 1994
73 96
questo istituzioni La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti .—Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'«Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. E stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.
Gli opuscoli, è stato pubblicato il 1 numero degli opuscoli di Queste Istituzioni. La nuova serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso di questo 1° numero con il dossier «CuItura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei (per uso professionale o didattico); presentare materiali complementari alla rivista.
La collana Maggioli - Queste Istituzioni La societĂ QUES.I.RE. sri, editrice di Queste Istituzioni, ha da qualche anno avviato un progetto ambizioso che oggi vede finalmente raggiunti gli obiettivi iniziali. Nel 1992, in collaborazione con Maggioli editore, sono-stati pubblicati tre volumi collegati ai temi solitamente trattati sulle pagine della rivista. Sono i primi titoli di una collana mirata a trasferire nel settore pubblico le motivazioni e le esperienze che nel settore privato vengono definite cultura dell'innovazione.
volumi giĂ pubblicati: Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp.255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42:000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Siof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264,:1991 .L. 38.000 -
volumi in corso di pubblicazione: Advisory Commission on Intergovernmentai Relations Come organizzare le economie pubbliche locali AA.VV. Fondazioni e associazioni. Proposte per una riforma del primo, libro del codice civile Stefano Sepe Alle origini del sistema amministrativo. Aspetti di storia dell'amministrazione statale nell'Italia unita.
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