Anno XXIII - n. 10 1-102 - Trimestrale gennaio-giugno - spedizione in abb. postale - 50% Roma
queste Istitu uni Trasformare le pubbliche amministrazioni: una partita sempre più difficile ma ancora da giocare Dilemmi del buon amministrare Stefano Sepe, Ernesto dAlbergo, Giuseppe Cogliandro, Sergio Lariccia, Manin Carabba, Antonio Di Majo, Luigi Fiorentino, Gian Candido De Martin, Angelo Mari, Ignazio Porteii, Antonio Zucaro, Alberto Stancaneii, Giampaolo Ladu
Governi locali e Stato democratico L.J. Sharpe, Henry Biick, Alessandro Sattanino, Giulio De Petra
Democrazia, privatizzazioni e mercati Donato Masciandaro, Filippo Cavazzuti, Giovanni Moglia, Angelo Schiano, Renzo Ristuccia, Antonio Segni
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n. 101-102 1995
rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni Anno XXIII n.
101-102 (gennaio-giugno 1995)
Direttor SERGIO RISTUCCIA Vice Direttori: MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Comitato di redazione SAVERIA ADDOTFA, ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, ROSALBA CORI, DANiELA FELISINI, GIORGIO PAGANO, MARCELLO ROMEI, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE, ANDREA SPADE-VI-A, PAOLA ZACCHINI
Responsabile redazione SAVERIA ADDOTTA Responsabile organizzzzzione GIORGIO PAGANO DirezioneeRedaziont Via Ennio Quirino Visconti, 8-00193 Roma Tel.
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Responsabile
GIOVANNI BECHELLONI
Editore QUES.1.RE sri QuErE ISTITUZIONI RICERCHE
ISSN: 1121-3353
Stampa: I.G.U.
s.r.i. - Roma
Finito di stampare nel mese di maggio
1995
Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
14.847 (12 dicembre 1972)
N. 101-102 1995
Indice
III
Trasformare le pubbliche amministrazioni: una partita sempre piĂš difficile ma ancora da giocare
Dilemmi del buon amministrare 3
L'Amministrazione tra storia e riforme Stefano Sepe
21
Transizione politica ed innovazione amministrativa: i fattori critici delle ultime riforme Ernesto dAlbergo
45
Per una pedagogia del riformismo amministrativo Giuseppe Cogliandro
62
Discutere di pubbliche amministrazioni: un dibattito in redazione Interventi di: Sergio Lariccia, Manin Carabba, Antonio Di Majo, Luigi Fiorentino, Gian Candido De Martin, Angelo Mari, Ignazio Porteii Antonio Zucaro, Alberto Stancanelli, Giampaolo Ladu
Governi locali e Stato democratico 107
Enti locali in democrazia: quale ruolo e quale modello di modernizzazione LJ. Sharpe
132
Decentramento, privatizzazione e rappresentativitĂ nel governo locale Henry Back
147
L'occasione delle reti civiche Alessandro Sattanino
153
Politiche d'informatica in un grande Comune: il caso di Roma Giulio De Petra
Democrazia, privaiizzazioni e mercati 165
Politiche di governo e mercati creditizi e finanziari: quale ruolo per le "Indipendent regulatory agencies"? Donato Masciandaro
178
Regolazione, controllo e privatizzazione nei servizi di pubblica utilitĂ in Italia FiliÂť o C'avazzuti, Giovanni Moglia
196
Un'esperienza organizzativa di azionariato diffuso Angelo Schiano, Renzo Ristuccia, Antonio Segni
Taccuino mostri temi
211
Il terzo settore in Italia: per una valutazione delle opinioni correnti Bernardino Casadei
230
Notizie dal Gruppo di Studio "SocietĂ e Istituzioni"
233
Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura
234
Notizie da...
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Trasformare le pubbliche amministrazioni: una partita sempre più difficile ma ancora da giocare
Nelle pagine di questo fascicolo doppio aleggia un interrogativo: la trasformazione delle pubbliche amministrazioni è una battaglia definiti vamente perduta? Non si può certo dire che in questi anni sia mancata attenzione alla "questione amministrativa" da parte del legislatore. Al contrario, - come già ricordavamo nell'editoriale del n. 97 (gen. - mar. 1994) - si è legficato tanto ed anche tenendo presente disegni ricostruttivi ampi e ambiziosi. Basti ricordare le leggi sulle autonomie locali, sul procedimento amministrativo e, nel 1992-93, il decreto legislativo 29 e la legislazione promossa dal ministero Cassese durante il Governo Ciampi. Non c'è bisogno di stare a sottolineare che questa legislazione è percorsa da orientamenti non coerenti, da dilemmi irrisolti e dal dire e contraddire delle brevi stagioni politiche che si sono susseguite e che tuttora si susseguono. Chi immagina la rfòrma amministrativa come produzione di leggi è servito: dileggi nuove ce ne sono ma di trasformazione reale si vede poco. Il fatto è che - torniamo ad insistere con caparbietà - rforma amministrativa significa un complesso di azioni che con il semplice fare leggi ha poco a che fare. Per realizzarle (motivare gli addetti ai lavori, darsi insieme obiettivi, dialogare con i cittadini-utenti, usare sapientemente la legislazione, credere nella formazione permanente e realizzarla, selezionare le energie umane secondo valori seri e via e via) non occorre certo invocare fantasmi come l'improbabile "volontà politica" di cui per anni molti retori della rfirma dentro partiti e sindacati sono andati alla inutile ricerca ma occorre cogliere il bisogno sociale di rfirnna amministrativa e cofrivare la domanda che ne deriva. È sembrato, negli anni scorsi, che questa domanda fosse alimentata e sospinta dal mondo delle imprese che per tanti anni aveva prefe rito considerare irrilevante la questione amministrativa. Questa nuova consapevolezza non è riuscita a trasformarsi in vero fattore di spinta. Tutti andavano convincendosi che la competizione in Europa fosse anche competizione di sistemi amministrativi ma poi in molti hanno visto che era meglio contentarsi di una competizione fondata sulla svalutazione della lira e tornare a non preoccuparsi più che tanto del resto. La rivo fra fiscale serpeggiante, che pure sembrava signficasse domanda di maggior III
efficienza delle pubbliche amministrazioni, si è stemperata nel qualunquismo dei messaggi confusi e senza respiro della destra italiana ovvero in astratta richiesta di un federalismo fiscale che - al di fuori del dibattito fra addottrinati - è stata caratterizzata, nella lezione leghista, da vaghezze o astrattezze ideologiche. Il contesto dunque è di nuovo messo al brutto. Ma c? di più e ben di più. Tangentopoli, che è stato il principale fattore dell'ingloriosa caduta di una classe politica ormai esaurita e senza neppur stanchi residui di visione politica) sta rivelando i suoi effetti inibitori di qualsiasi processo reale di rilancio ed innovazione della pubblica amministrazione. La falsa coscienza di una buona parte dei quadri amministrativi ovvero la semplice constatazione della fragilità della pubblica amministrazione senza sistemi di copertura politica, soprattutto nei confronti dell'allargato controllo sulla pubblica amministrazione compiuto dal potere inquirente della magistratura all'insegna del reato di "abuso di potere", hanno creato i comportamenti del nuovo immobilismo amministrativo. Il messaggio recente che si è sentito provenire dal «pool" milanese e cioè che il problema sia ora quello di aggredire la corruzione amministrativa è, per un verso, l'ovvio rfluire delle indagini verso la realtà dei reati contro la pubblica amministrazione senza rimanere nell'alveo delfinanziamento illecito dei partiti (di cui altra volta abbiamo ricordato l'origine :pocritamente voluta dagli stessi partiti) e, dall zltro, un atto d'accusa (il problema è la corruzione amministrativa) che, per quanti ignominiosi riscontri si possono accumulare al riguardo, è un messaggio sbagliato. In ogni caso è un messaggio distrutti vo. Se fosse vero, sarebbe inutile innovare e modernizzare perché, per il momento, occorrerebbe solo ripulire ed aspettare. Se fosse soltanto retorico e non del tutto vero (come crediamo), sarebbe comunque un pregiudizio negativo in più per creare disillusione preventiva e scetticismo verso la trasformazione dell'amministrazione pubblica. Come se di disillusione e scetticismo non ce ne fosse abbastanza. Nel frattempo l'e'etto Tangentopoli dà una ragione in più alperpetuarsi del circolo vizioso delle leggi-provvedimento, sempre in maggior numero emanate per via di decreto-legge. Di solito, si invoca come causa dell'aumento dei decreti-legge la necessità dei governi di controllare le proprie maggioranze parlamentari, in momenti come quelli della "transizione" di estrema debolezza delle medesime, ovvero di raggiungere comunque dei risultati entro determinati tempi (dopo un certo numero di reiterazioni i decreti, in un modo o nell'altro, «passano'). Occorrerebbe, però, guardare di più ai contenuti: ci si accorgerebbe così che molte volte i decreti-legge (così come, in genere, le leggi e i decreti legislativi) si occupano difattispecie minute anche alfine di coprirefunzionari o singole azioni amministrative da ipotesi di imputazioni varie del citato "abuso dipotere' Iv
La capacità di molti buoni frnzionari non viene così spesa nella realizzazione di contratti e atti ma nella individuazione della copertura giusta, se possibile soprattutto legislativa, di quanto si va a fare. In tal modo ogni ipotesi di delegificazione va a farsi benedire. Dunque la partita è chiusa? Verrebbe da dire di si. Almeno per ora. C'è un ma, tuttavia e lo richiamiamo dal nostro discorso sulla democrazia al lavoro delfascicolo n. 96 Il momento rimane quanto mai opportuno per verficare le energie interne alla pubblica amministrazione. Dobbiamo continuare ad escludere che nella pubblica amministrazione possa sorgere un vero spirito di corpo, fatto dell'orgoglio di costituire il tessuto connettivo del sistema produttivo e dei servizi nel Paese e nelle comunità locali? L'ufrima scommessa è questa. Come giocarla è il tema che abbiamo proposto un anno fa e che oggi riproponiamo. Anche nella prospettiva che l'orizzonte politico torni ad essere caratterizzato da un maggiore interesse per i problemi concreti dei cittadiniutenti. In ogni caso, pietra d'appoggio e primo obiettivo di questa scommessa non può che essere il rifirimento ad un forte codice etico, questa volta non soltanto suggerito dall'alto, ma elaborato con la partecipazione di tutti coloro che vogliono giocare la scommessa. Per questo, ci sembra importante riportare, pur come semplice esempio, i Codici Etici che sono stati elaborati e proposti dallAmerican Societyfor Public Administration, associazione che riunisce civil servant e accademici che si occupano di pubbliche amministrazioni.
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Aspa - American Society for Public Administration
Codice Etico (1985) Dimostrare i più rilevanti standard di integrità personale, fedeltà, onestà e perseveranza in tutte le nostre attività pubbliche, per ispirare la fiducia degli utenti e la fiducia nelle istituzioni pubbliche.
Esercitare le nostre funzioni garantendo che nello svolgimento dei nostri compiti ufficiali non possano essere realizzati proventi illeciti.
Evita re qualsiasi interesse o attività che risulti in conflitto con lo svolgimento dei nostri compiti ufficiali. Sostenere applicare e promuovere pratiche di assunzione basate sui meriti e precisi programmi di azione per garantire pari opportunità di impiego nelle nostre procedure per l'assunzione, la selezione e la promozione di personale qualificato proveniente da tutte le componenti della società.
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Eliminare tutte le forme di discriminazione illegale, frode e cattiva gestione dei fondi pubblici, garantendo sostegno a colleghi che si trovino in difficoltà a seguito di giustificate azioni finalizzate a correggere tali discriminazioni, frodi, forme di cattiva amministrazione o abusi.
Servire il pubblico con rispetto, sollecitudine, cortesia ed efficienza, riconoscendo che un servizio reso al pubblico è più importante di un servizio reso a se stessi. .A.doperarsi per garantire le migliori caratteristiche professionali individuali e incoraggiare la crescita professionale dei nostri soci e di coloro che desiderino entrare nel settore della pubblica amministrazione.
4ffrontare i nostri compiti
organizzativi e operativi con un atteggiamento positivo e sostenere in maniera costruttiva l'apertura delle comunicazioni, la creatività, la dedizione e la solidarietà.
Rùpettare e tutelare le informazioni riservate alle quali abbiamo accesso nello svolgimento delle nostre funzioni ufficiali. Esercitare tutto il nostro potere discrezionale, nel rispetto delle normative vigenti, per promuovere l'interesse pubblico.
Accettare come un impegno individuale la responsabilità di mantenersi aggiornati su tutte le questioni emergenti e di amministrare gli interessi pubblici con competenza professionale, lealtà, imparzialità, efficienza ed efficacia.
Rispettare, sostenere e analizzare le costituzioni federali e statali e le altre normative che definiscono i rapporti tra enti pubblici, dipendenti, clienti e tutti i cittadini e, se necessario, adoperarsi per il loro perfezionamento.
Aspa - American Society for Public Administration
Codice Etico (1994) I Essere al servizio dell'Interesse Pubblico Essere al servizio del pubblico, prima ancora che al servizio di se stessi. I membri ASPA si impegnano a: Esercitare il proprio potere discrezionale per promuovere l'interesse pubblico. Combattere con fermezza tutte le forme di discriminazione e di vessazione. Riconoscere e sostenere il diritto degli utenti ad essere informati sulle attività pubbliche. Coinvolgere i cittadini nei processi decisionali. Esercitare la solidarietà, la generosità, l'imparzialità e l'ottimismo. Dare al pubblico risposte complete, limpide e di facile comprensione. Assistere i cittadini nei loro rapporti con la pubblica amministrazione. Essere pronti a prendere decisioni che potrebbero rivelarsi impopolari. Il Rispettare la Costituzione e la Legge Rispettare, sostenere e conoscere in maniera approfondita le costituzioni e le leggi governative che definiscono le responsabilità degli enti pubblici, dei loro dipendenti e di tutti i cittadini. I membri ASPA si impegnano a: Recepire e applicare le normative ed i regolamenti relativi alla propria attività professionale. Adoperarsi per perfezionare e modificare leggi e politiche che risultino controproducenti od obsolete, Eliminare le discriminazioni illegali. Prevenire tutte le forme di cattiva gestione di fondi pubblici istituendo e mantenendo severi controlli fiscali e gestionali, e agevolando verifiche contabili e attività indagatorie. Rispettare e proteggere le informazioni riservate. Incoraggiare e agevolare legittime forme di dissenso nell'amministrazioni e tutelare il diritto allo sciopero dei dipendenti. Promuovere i principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità, rappresentatività, rispondenza e rispetto delle procedure previste dalla legge per la protezione dei diritti dei cittadini. III Dare prova di Integrità Personale Dimostrare gli standard più elevati in tutte le attività per ispirare la fiducia degli utenti e la fiducia nel servizio pubblico. I membri ASPA si impegnano a: I. Mantenere trasparenza e onestà, senza compromessi a fini di carriera, prestigio o guadagni personali.
Garantire che tutti ricevano il riconoscimento per il loro lavoro e il loro contributo. Evitare accuratamente i conflitti di interesse o le loro manifestazioni (nepotismo, procedure irregolari di appalti esterni, utilizzo errato di risorse pubbliche o accettazione di regalie). Rispettare i superiori, i subordinati, i colleghi e gli utenti. Assumersi la responsabilità dei propri errori. Condurre gli atti ufficiali in maniera imparziale. IV Promuovere le Organizzazioni basate su Principi Etici Aumentare le possibilità per le singole organizzazioni di applicare i principi etici e di garantire efficienza ed efficacia nel servizio reso al pubblico. I soci ASPA si impegnano a: Migliorare la capacità delle organizzazioni nel garantire comunicazioni aperte, creatività e dedizione. Subordinare la lealtà istituzionale al bene pubblico. Stabilire procedure che promuovano comportamenti moralmente corretti e che rendano i singoli individui e le organizzazioni responsabili del proprio operato. Garantire ai componenti delle strutture gli strumenti amministrativi per il dissenso, la garanzia di rispetto delle procedure e la tutela contro eventuali rivendicazioni. Promuovere principi meritocratici per tutelarsi contro iniziative arbitrarie e impreviste. Promuovere la trasparenza nelle organizzazioni mediante adeguati controlli e procedure. Incoraggiare le organizzazioni ad adottare, distribuire e modificare periodicamente un codice etico in continua evoluzione. V Perseguire i massimi Standard Professionali Rafforzare le capacità individuali e incoraggiare lo sviluppo professionale di ulteriori capacità. I soci ASPA si impegnano a: I. Fornire appoggio e incoraggiamento per il miglioramento delle capacità professionali. Accettare come un impegno personale la responsabilità di tenersi aggiornati sulle questioni emergenti e sui potenziali problemi. Incoraggiare gli altri, nell'intero arco della loro carriera, a partecipare alle attività professionali e alle associazioni. Dedicare parte del proprio tempo agli incontri con gli studenti per garantire un collegamento tragli studi teorici e le realtà concrete del servizio pubblico.
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questeistRuzioni j.
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Dilemmi del buon amministrare Come è ben noto ai nostri lettori, le pubbliche amministrazioni sono un tema molto seguito, se non addirittura il tema centrale di Queste Istituzioni. Fin dalla sua nascita la rivista è sempre stata attenta ai diversi problemi che gravano sulle pubbliche amministrazioni, cercando di analizzarli con spirito critico. Quindi, eccoci ancora una volta ad affiontare il tema del buon amministrare, partendo da una ricognizione dell'evoluzione più recente di legislazione e di eventi legati alla pubblica amministrazione. Il tema specfìco delle rforine è stato affiontato appena un anno fa nel dossier Organismi nuovi e riorganizzazione dell'amministrazione pubblica (fascicolo n.. 97, del gennaio-marzo 1994) in cui abbiamo parlato, oltre che di un nuovo organismo quale è lAutorità per l'informatica nella pubblica amministrazione - a un anno dalla sua nascita, anche della riorganizzazione del SEC!T e del Ministero dei lavori pubblici. Si trattava, in quell'occasione, di trasformazioni di settori specfìci, ora, il tema delle trasformazioni viene affiontato globalmente ma sempre nella considerazione della necessità di una "strategia dell'attuazione" poiché "la massa normativa' - come ricordava l'editoriale del n. è divenuta negli ultimi anni voluminosa e c? il rischio che sia inutilmente voluminosa: è sempre più tempo di realizzare; è superfluo, al contrario, legftrare.
L'Amministrazione tra storia e riforme di Stefano S epe *
Le considerazioni svolte di seguito prendono le mosse da una "provocazione intellettuale" di Sergio Ristuccia, il quale - nel numero 89 della rivista - indicava nel "recupero della memoria storica la prima condizione per rilanciare una consapevole azione di riforma degli apparati amministrativi, sottolineando come il "disinteresse per le discipline storiche" da parte della burocrazia avesse reso la pubblica amministrazione italiana priva di "tradizioni e ricordi". La scarsa "memoria" delle pubbliche amministrazioni è fenomeno diffuso: alcuni decenni or sono un alto funzionario del Civil service britannico, sir John Craig, osservava come non vi fosse corpo professionale tanto tradizionalista come la burocrazia e, nel contempo, così ignaro delle proprie tradizioni. Il problema sembrerebbe poter essere confinato nell'ambito della peculiare "ideologia" burocratica. Ma non è così. In primò luogo perché esso riguarda apparati che intervengono nella quasi totalità dei settori della Docente di Storia dell'Amministrazione, Scuola Superiore per la Pubblica Amministrazione.
vita civile ed, in secondo luogo, perché il vuoto di memoria rende più difficile l'intelligibilità dei processi in atto. Il problema, quindi, è da non lasciar cadere, proprio in una fase di grandi travagli per le istituzioni e per le stesse sorti della democrazia. Tutto ciò a dispetto della superficiale opinione, secondo la quale volgersi al passato in un momento simile equivale quasi a trastullarsi in un gioco infantile. Niente affatto convinto di una simile ipotetica obiezione, proverò a formulare alcune osservazioni, concludendo con alcune ipotesi per un confronto che serva ad alimentare quella crescita di cultura dell'amministrazione indispensabile al rinnovamento degli apparati pubblici. In primo luogo è da rilevare come, analizzando contestualmente le trasformazioni effettive dell'organizzazione amministrativa ed i dibattiti che le hanno accompagnate, si possa notare un singolare rapporto tra novità ed innovazione. Ciò sotto molteplici aspetti. Troppo spesso la novità (legislativa) non produce affatto innovazione nei comportamenti dell'amministrazione: 3
al riguardo la messe di esempi sarebbe talmente cospicua che non vale la pena di insistervi. Non meno frequentemente l'innovazione - tradotta in norma o semplicemente posta nelle agende dei decisori politici - non è affatto una novità. Si prenda, ad esempio, una delle leggi più innovative degli ultimi decenni (la 241 del 1990) ed in particolare uno dei suoi elementi più caratterizzanti sul versante della modernizzazione: la previsione in via generale della "conferenza di servizi" come strumento per rendere più agile e veloce l'azione delle pubbliche amministrazioni. L'uso di tale strumento procedimentale veniva sollecitato da Meuccio Ruini, a nome dell'organizzazione dei funzionari statali romani, nel 1916; mentre nel 1945 Amedeo Giannini propugnava "adunanze interministeriali nelle quali i funzionari avessero "autorità e potere di dare una definitiva adesione alle decisioni adottate". Ancor più significativo è il caso del principio di separazione (o distinzione, come molti preferiscono dire) tra i poteri di indirizzo e controllo spettanti - a norma dell'articolo 3 del decreto legislativo n. 29 del 1993 - al ministro e l'autonomia gestionale affidata ai dirigenti pubblici. Tale «filosofia" fondava un decretolegge predisposto da Bettino Ricasoli nell'ottobre 1866 e mai convertito in legge dal Parlamento. Dello stesso periodo era una proposta - avanzata dal ministro dell'Interno, Carlo Cadorna 4
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rn limitare i ingerenza ciegii urrici di gabinetto negli affari ministeriali mediante l'istituzione di "uffici politici" sotto il diretto controllo del ministro, ma con competenze nettamente distinte da quelle degli uffici amministrativi. Ipotesi ripresa in una delle numerosissime norme della legge di "accompagnamento" alla finanziaria (lal. 537 del 1993) in materia di riorganizzazione amministrativa. Se l'innovazione non rappresenta realmente una novità, accade, peraltro, che modifiche profonde nell'azione degli apparati pubblici siano indotte da norme apparentemente secondarie. Chi conosce appena le dinamiche effettive dell'azione degli organi statali, sa quanto esse si siano modificate a seguito di due regi decreti (risalenti al 28 gennaio ed al 25 marzo 1923) con i quali le ragionerie centrali dei ministeri passarono alle dirette dipendenze della Ragioneria generale dello Stato. All'innovazione sotterranea si è aggiunta, altre volte, la Cctras formazione ignorata". È il caso degli enti pubblici che modificarono negli anni Trenta la morfologia complessiva del nostro sistema amministrativo sotto gli occhi distratti di una dottrina giuridica ancorata alla concezione statocentrica di matrice orlandiana. Naturalmente, il richiamo alle strette connessioni esistenti tra passato e presente non deve ridursi ad un meccanico richiamo ai "precedenti" od alla malinconica presa d'atto che tutto era
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già stato detto (o scritto). Ciò in parte è sempre vero. Ma è, appunto, un mero presupposto logico. Per cercare di rendere proficua la conoscenza dei processi di evoluzione dei sistemi amministrativi occorre guardarsi da due approcci alla storia amministrativa tanto diffusi quanto devianti. Il primo modo sbagliato di "servirsi" della storia - in particolare della storia costituzionale ed amministrativa - è quello tipico dei giuristi (o, almeno, della gran parte di essi). Gli esempi si sprecano. Basta sfogliare le prime pagine dei saggi e degli articoli sui più disparati problemi dell'amministrazione per ritrovarvi una, spesso assai frettolosa, carrellata dei precedenti "storici" dell'istituto (o del problema) oggetto di indagine. Lo schema logico che sorregge tali ricostruzioni è, normalmente, teso a dimostrare come, inevitabilmente", lo sviluppo storico abbia condotto alla razionale soluzione normativa in vigore. In tale chiave l'analisi si riduce a puro riassunto delle "puntate precedenti". La storia (intesa come fatti, sequenza di eventi) non ha alcuna autonomia rispetto al presente e, soprattutto, non ha nulla da dire. È mero orpello, esiste «in funzione" unicamente del presente. Di segno opposto - ma, naturalmente, non meno perniciosi - sono gli studi sull'evoluzione dell'amministrazione chiusi in una dimensione erudita che poco aiutan9 a connettere le singole questioni affrontate con i processi di trasforma-
zione profonda degli apparati. Le tentazioni della microstoria amministrativa sono sempre dietro l'angolo. Ciò non vuoi dire che non occorrano analisi dettagliate su aspetti specifici o indagini sulle fonti normative (specialmente quelle secondarie: regolamenti, ordini di servizio, circolari, ordini del giorno). Ma tali ricerche hanno soltanto valore di premessa per gli studi in grado di "interpretare" i fenomeni di trasformazione dell'amministrazione. Da evitare è "la separatezza" con la quale gli storici hanno normalmente analizzato l'amministrazione. La storia va soprattutto capita. Soltanto a questa condizione essa è uno strumento di ausilio valido. Insisto sull'ausilio perché il rischio di semplificare il presente, omologandolo al passato è ricorrente. La realtà dell'amministrazione può essere compresa anche attraverso la sua storia perché questa può aiutare a far luce sui suoi flussi, sui processi. Può, in generale, servire a discernere meno affrettatamente tra fenomeni contingenti (o effimeri) e linee di sviluppo profonde. Secondo la magistrale lezione contenuta nei libro scritto da Marc Bloch durante la prigionia inflittagli dai nazisti, i ncomprensione aei presente nasce fatalmente dall'ignoranza dei passato": la storia rappresenta la luce per rischiarare la "genesi brumosa" dei nostri ordinamenti attuali. Ma, accanto a ciò, occorre avere la consapevolezza (sono sempre parole di Bloch) «t,
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che "non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia de! presente". Da questo memorabile passaggio dell'Apologia della storia vorrei trarre spunto per formulare alcune valutazioni sull'evoluzione del sistema amministrativo nel nostro Paese dall'Unità ad oggi per favorire la "lettura" delle ipotesi di riforma messe in campo negli ultimi due anni dal governo Amato e dal governo Ciampi.
UN BREVE PROFILO STORICO
Partire, quindi, dalla ricostruzione della evoluzione del sistema pubblico per cogliere meglio il significato delle trasformazioni del presente. Con l'avvertenza (ovvia) che si tratta di una delle strade da percorrere - insieme al altre - per comporre un mosaico interpretativo sufficientemente solido. Due, fondamentalmente, saranno gli spunti per la discussione. Il primo riguarderà la periodizzazione della storia amministrativa dell'Italia unita per verificare fino a che punto si possa parlare di "svolte" nell'azione degli apparati pubblici e, quindi, in quali momenti esse si collochino. Il secondo elemento per il dibattito sarà costituito dall'analisi del rapporto tra ipotesi di riforma e processi di trasformazione effettivi del sistema amministrativo. Il tentativo di procedere alla periodizzazione delle vicende delle pubbliche amministrazioni si scontra, immedia6
tamente, con una difficoltà di fondo determinata dalla naturale vischiosità dell'azione degli apparati pubblici. La "continuità", peraltro, non è soltanto un elemento di fatto è anche considerata dalle burocrazie pubbliche un proprium che distingue l'amministrazione dalle istituzioni politiche. Il vecchio motto secondo il quale cadono i governi, mutano gli organi elettivi, tramontano le forme di Stato ma l'amministrazione continua a funzionare ha una sua (parziale) fondatezza. Tanto nella realtà quanto nella coscienza dei suoi attori. Ciò significa che un certo grado di continuità va semplicemente presupposto, poiché la sedimentazione del nuovo sul vecchio è caratteristica peculiare delle vicende amministrative. L'analisi dovrà, pertanto, focalizzarsi sui momenti di effettivo cambiamento. Sotto questo profilo l'ipotesi di una "massa critica" di modifiche che producono nell'insieme un cambio di rotta ha certamente un alto grado di attendibilità. Occorre, però, tener conto di un fatto: benché, a volte, riforme normative poco appariscenti provochino alla lunga radicali mutamenti nell'amministrazione, pii spesso profonde trasformazioni politiche e costituzionali non determinano automaticamente analoghi processi nell'azione degli apparati pubblici. I! fenomeno - di per sé del tutto ovvio - ha non indifferenti conseguenze sul piano interpretativo, giacché im-
plica una discreta dose di autonomia delle vicende amministrative da quelle politico/costituzionali. L'argomento non è - come potrebbe a prima vista sembrare - né scontato né peregrino, se si considera la quasi totale assenza, in Italia, fino a circa due decenni fa, di una storiografia amministrativa degna di questo nome. Le lucidissime intuizioni di Alberto Caracciolo contenute nel densissimo Stato e societ1ì civik ed i pionieristici studi di Alberto Aquarone, Claudio Pavone ed Ernesto Ragionieri costituivano piccole oasi in un immenso deserto. Ben a ragione Gianfranco Miglio poteva dire che gli studi di storia amministrativa in Italia erano allo stato primordiale. Uno dei primi a mettere a fuoco il problema dei caratteri specifici dell'evoluzione dell'amministrazione fu Massimo Severo Giannini, il quale in un saggio occasionato dal centenario dell'Unità - si interrogava sulle modifiche della Costituzione "materiale" intervenute a partire dallo Statuto albertino. Nella circostanza Giannini enumerava quattro diverse Costituzioni: una oligarchica, un'altra liberaIdemocratica, una terza di stampo dittatoriale e l'ultima - l'unica legata ad una modifica della Costituzione "formale" - a carattere pienamente democratico. La lezione di Giannini costituisce un essenziale punto di riferimento dal punto di vista metodologico. Sul piano del merito, l'ipotesi che verrà enunciata di seguito riguardo al-
le fasi della storia amministrativa collima soltanto in parte con l'evoluzione della storia costituzionale.
La riforma cavouriana Si può, infatti, ritenere che il sistema amministrativo italiano abbia attraversato - dal periodo risorgimentale ad oggi - quattro fasi distinte: la prima collocabile tra la riforma Cavour del 1853 e la fine del secolo; la seconda tra l'età giolittiana e gli anni Trenta; la terza individuabile nella lunga stagione che dalle trasformazioni del periodo fascista arriva fino agli anni Settanta; la quarta che si configura a partire dall'istituzione delle Regioni a statuto ordinario. Il punto di partenza dell'attuale organizzazione degli apparati amministrativi centrali non corrispose ad un momento di svolta nella storia politica e costituzionale, ma ne costituì una conseguenza. Con la legge 23 marzo 1853 Cavour provvide a concentrare tutte le competenze amministrative nei ministeri, abolendo le aziende che godevano di relativa autonomia e che si occupavano della gestione "economica" dei servizi amministrativi. La scelta aveva una precisa logica derivante dall'emanazione, cinque anni prima, dello Statuto albertino. Soltanto concentrando tutte le responsabilità amministrative nella figura di vertice dell'apparato (il ministro), si poteva attivare il circuito elettori/Parlamento/governo/amministrazione che '4
suggellasse il passaggio definitivo dallo stato assoluto a quello costituzionale. In ciò la riforma del 1853, estesa alla fine del decennio agli Stati via via annessi, era di indubbia modernità. Garantivano il funzionamento del circuito sia la ristrettezza delle élites di governo (il suffragio era limitato al 2,5% della popolazione), sia le modeste dimensioni degli apparati (circa settantamila addetti complessivi nel 1861). lamministrazione a "modello unico" - nella quale il ministero era la spina dorsale di tutto il sistema - non fu sostanzialmente scalfita fino alla fine del secolo. I pur numerosi tentativi di riforma non ne intaccarono la monoliticità, poiché la sostanziale stabilità delle funzioni garantì la coerenza interna dell'intero sistema. La sua tenuta - specialmente nei rapporti centro/periferia - fu assicurata dalla legge di unificazione amministrativa del 1865, contrassegnata da un rigido accentramento e dal ferreo controllo sulle realtà locali. Due soltanto furono, in quel quarantennio, le modifiche significative. La prima fu costituita dalla riforma Cambray-Digny con la quale, nel 1869, furono costituite la Ragioneria generale dello Stato, le ragionerie centrali nei ministeri e le intendenze di finanza in periferia. La seconda fu rappresentata dalle leggi crispine del triennio 1888-1890 con le quali lo statista siciliano tentò di rafforzare la guida del governo da parte del presidente e, nel contempo, di ridisegnare, attraverso la
modifica della legislazione amministrativa, i meccanismi di controllo degli apparati centrali sulle realtà locali.
Il periodo giolittiano La prima vera svolta negli assetti complessivi del sistema amministrativo si verificò in età giolittiana. Concorsero a tale esito molti fattori in primo luogo l'allargamento del suffragio (dalla legge Depretis del 1882, a quella Crispi del 1889 per le elezioni amministrative, per finire all'introduzione nel 1913 del suffragio universale maschile) e la sconfitta dell'involuzione reazionaria di fine secolo. Ma non meno importanti furono l'espansione quantitativa degli apparati ed il superamento del modello unico. Il primo fenomeno ebbe caratteri abbastanza marcati e fu originato tanto dalla spinta interna degli apparati quanto dall'assunzione di nuove funzioni da parte dall'amministrazione. Proprio questo secondo elemento determinò la scelta di istituire (nel 1905 e nel 1907) le Aziende di Stato per la gestione di due servizi decisivi per lo sviluppo del paese: le ferrovie ed i telefoni. L'impatto sull'organizzazione amministrativa fu rilevante, poiché comportò sia un massiccio aumento dei dipendenti pubblici, sia una modifica sensibile della loro composizione (i dipendenti delle aziende erano in prevalenza operai ed erano fortemente sindacalizzati). L'impiego pubblico subì notevoli sollecitazioni e gli impiegati
ottennero nel 1908 la prima legge organica (lo "statuto") per la quale si battevano da quasi mezzo secolo. Nel quadro del processo di trasformazione degli apparati amministrativi l'età giolittiana si può ritenere uno dei periodi nei quali si addensarono le maggiori novità. In questa operazione di modernizzazione degli apparati amministrativi Giolitti si appoggiò largamente al Parlamento, come dimostra il fatto che - con la legge 372 deI 1904 - fu ad esso attribuito il potere di apportare modifiche al numero ed alle competenze dei ministeri. Le innovazioni introdotte in quegli anni sono tanto più significative se si tiene conto che il sistema costituzionale non subì, dal punto di vista formale, alcuna modifica. Ciò nonostante l'amministrazione fu soggetta a so!lecitazioni impressionanti (in rapporto ai ritmi di evoluzione avutisi fino a quel momento): la funzione di "mediazione" degli apparati si sviluppò in modo notevole, in corrispondenza con l'emergere delle forme di rappresentanza dei gruppi sociali nell'amministrazione. Fu nel 1902 che prese le mosse, con l'istituzione del Consiglio superiore e dell'Ufficio governativo del lavoro, uno dei più cospicui (e coraggiosi) tentativi di mettere gli apparati amministrativi al centro della dinamica sociale. Non meno rilevante fu il tentativo di dar vita ad alcune forme speciali di amministrazione di settore (il Commissariato per l'emigrazione e
il Magistrato alle acque) che possono considerarsi il prototipo delle "autorità amministrative indipendenti". L'assunzione dei servizi essenziali da parte del potere pubblico fu uno dei connotati decisivi del periodo giolittiano. Prima ancora della istituzione delle Aziende di Stato era stata emanata (nel 1903) una legge sulla gestione da parte dei comuni di numerosi servizi pubblici. La "municipalizzazione", benché arrivasse a regolare un settore che aveva già un suo forte sviluppo in molti comuni del centro-nord del Paese, diede alle discipline locali una cornice normativa uniforme. L'età giolittiana segnò il passaggio da un'amministrazione (soltanto) esecutiva ad un'amministrazione "degli impiegati . Ciò sia nel senso che questi videro l'affermazione di precise forme di tutela, sia nel senso che la burocrazia mostrò di poter giocare un ruolo attivo ed in parte autonomo nelle vicende del paese. Dal quel momento si affermò in modo definitivo la "questione degli impiegati come fenomeno peculiare del sistema amministrativo. Non a caso proprio nel primo decennio del secolo si infittirono le polemiche antiburocratiche culminate nelle invettive di Salvemini contro l'defantiasi burocratica e di Einaudi contro lo Stato postino e ferroviere.
La rzfò rma fascista La seconda svolta significativa nell'evoluzione degli apparati ammi-
nistrativi si verificò tra la seconda metà degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta. È da quel momento che il sistema ha assunto il carattere multiorganizzato e multipolare che ha ancora. La creazione di un vasto agglomerato di enti economici a "partecipazione statale" e la riorganizzazione del sistema bancario attuata nel 1936 fecero mutare in modo sensibile l'assetto dei poteri pubblici, al punto da far parlare di una vera e propria "Costituzione degli anni Trenta". J1aspetto più rilevante del fenomeno fu la costituzione, mediante la moltiplicazione degli enti pubblici, di un'amministrazione "parallela" con compiti e modalità organizzative distinti dall'amministrazione dello Stato. Nella proliferazione degli enti si ebbero due distinti processi. Il primo riguardò la costruzione di un sistema di previdenza e protezione sociale, il secondo la creazione di un meccanismo di intervento nell'economia e di sostegno delle attività produttive. Nel 1925 venne istituita l'Opera nazionale maternità ed infanzia, pochi anni più tardi la Cassa di previdenza per gli infortuni dei lavoratori venne trasformata in un ente pubblico, l'Istituto nazionale fascista di previdenza sociale. Nel settore dell'intervento nell'economia le scelte più importanti vennero compiute agli inizi degli anni Trenta: nel 1931 fu istituito l'IMI e, due anni più tardi, l'IRI. L'altro elemento di svolta che caratte10
rizzò l'amministrazione, a partire dalla metà degli anni Venti, fu la centralizzazione determinata dal rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio. Con legge del 24 dicembre del 1925 il capo del governo assunse più incisivi poteri di direzione e di coordinamento degli apparati amministrativi. Passarono alle dirette dipendenze del capo dell'esecutivo il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e l'Avvocatura dello Stato, nonché (un anno più tardi) l'Istituto centrale di statistica. Tale processo segnò la definitiva affermazione di un modello autoritario che aveva avuto i suoi presupposti nella riforma guidata dal ministro delle Finanze Alberto De Stefani. Riduzione degli impiegati, irrigidimento del sistema delle carriere, rafforzamento dei principi gerarchici furono - insieme alla soppressione di gran parte dei corpi consultivi istituiti in età giolittiana - i segni distintivi della razionalizzazione operata nel 1923 sulla base dei pieni poteri. La valutazione comparata dei processi di riorganizzazione dell'amministrazione pubblica avvenuti nel periodo fascista dimostra come essi non siano inscrivibili del tutto nell'ambito politico e costituzionale. Mentre gli apparati statali subirono un fenomeno di irrigidimento (contrassegnato dalla legge di contabilità generale e dalle norme sui controlli) che appariva coerente con le direttrici autoritarie del regime fascista, altre modifiche ebbero
un segno apparentemente opposto. Ad un'amm in is trazione autoritaria si contrappose la nascita del primo vero sistema previdenziale pubblico che andò ad affiancarsi al formidabile sistema caritativo/assistenziale costituito dalle opere pie. In generale, in parte dell'arcipelago degli enti pubblici (ed in alcune amministrazioni statali "industriali") sopravvisse il mito tecnocratico che aveva originato il diffondersi delle amministrazioni parallele. Mito nato intorno ad uno dei campioni del radicalismo liberale, quale era Francesco Saverio Nitti, e fatto proprio dal fascismo fino a piegarlo alle sue esigenze di tipo politico e propagandistico.
Dal dopoguerra ad oggi La caduta del fascismo e l'emanazione della Costituzione democratica non produssero sull'organizzazione amministrativa le modifiche che sarebbe stato lecito attendersi. La circostanza fu chiara già all'epoca a Piero Calamandrei che parlò di Costituzione tradita . In epoche piu recenti, Massimo Severo Giannini ha addebitato al ceto di governo la responsabilità di aver impiegato venti anni per capire che la Costituzione implicava alcune grandi riforme di struttura . La tesi della continuità dello Stato tra fascismo e post-fascismo, non nuova, trova il suo fondamento proprio nello scarto tra radicalità dell'innovazione potenziale e debolezza del rinnovamento
effettivo degli apparati pubblici. Come ha mostrato il filone di studio che, partendo da Carlo Esposito, e passando per Vittorio Bachelet e Giovanni Marongiu, arriva ad Umberto Allegretti, il fondamento democratico dell'amministrazione si rinviene a partire dall'articolo i della Costituzione. Non si darà ordinamento compiutamente democratico fino a quando non vi sarà un'amministrazione pubblica funzionante con criteri di sostanziale democraticità. Sotto questo profilo la storia repubblicana è segnata da una specie di continuum, scalfito soltanto da alcune leggi recenti (da quella sull'ordinamento locale e quella sul procedimento amministrativo). D'altra parte non si può non tener conto del fatto che l'istituzione delle Regioni ha segnato - oltre ad una modifica dell'assetto dei poteri pubblici una nuova dislocazione spaziale delle funzioni amministrative. Quanto questo si sia risolto in un peggioramento del sistema amministrativo è altra questione: qui interessa sottolineare come il trasferimento di funzioni essenziali - agricoltura, sanità, controllo del territorio, assistenza (per citarne soltanto alcune) - alle Regioni abbia comportato una cesura nella storia degli ordinamenti amministrativi. Anche perché a tale fenomeno si è accompagnata la creazione di una robusta burocrazia regionale. Di converso il riassetto degli organi centrali ha messo in moto un inestricabile grovi11
glio di riforme parziali degli apparati ministeriali, quasi tutti alla caccia di competenze vecchie e nuove. Se si dovesse tentare di dare un senso univoco a tutte le proposte di riforma degli ultimi quarant'anni non si potrebbe fare a meno di analizzare la contraddizione sempre presente tra istanze razionalizzatrici e spinte a sovrapporre competenze tra un ministero e l'altro. Il periodo della regionalizzazione - dal 1970 al decreto 616 del 1977 - ha segnato il punto culminante di una trasformazione che, prendendo le mosse dalle istanze programmatorie dei primi anni Sessanta, vide l'edificazione in Italia di un sistema di Welfare State. Da quel momento il carattere poi!morfo" del sistema amministrativo si è venuto evidenziando in modo netto, trovando nelle riforme degli anni successivi nuovi sviluppi. Tutti gli anni Ottanta sono stati percorsi, infatti, da fenomeni di differenziazione dei modelli amministrativi: la creazione (o il rafforzamento) di strumenti di regolazione delle attività private è stato uno dei caratteri peculiari dell'ultimo decennio. A ciò si è aggiunto un processo di arretramento dello Stato dalla gestione diretta dei servizi di carattere imprenditoriale. Il tutto pone oggi il problema di riconsiderare, da un lato, i confini dello Stato e, dall'altro i rapporti tra funzioni di regolazione ed attività di gestione. Negli ultimi anni - segnatamente dall'emanazione delle leggi 142 e 241 12
del 1990 - siamo in presenza di una forte accelerazione delle riflirme legislative relative alla pubblica amministrazione. Il processo ha trovato il suo coronamento, a livello parlamentare, nell'emanazione di una legge di delega per la riforma amministrativa (la legge 421 del 1992) e di una legge - la 537 del 1993 - che, nel proporre norme di riassetto della finanza pubblica, ha conferito al governo una delega (fin troppo ampia) per procedere a riorganizzare le pubbliche amministrazioni. Se questo insieme di provvedimenti potrà costituire una ulteriore svolta nelle vicende degli apparati pubblici è troppo presto per poter dire. Di sicuro siamo di fronte ad una fase di profonda sollecitazione del sistema. Gli sviluppi consentiranno di verificare se i cambiamenti saranno stati reali e (soprattutto) duraturi.
IL RAPPORTO TRA AMMINISTRAZIONE E CORPO POLITICO
Sul piano dell'evoluzione dei modello amministrativo, le caratteristiche di ciascuno dei periodi considerati possono essere schematicamente riassunte nel modo seguente: il primo fu contrassegnato dall'unicità del modello amministrativo per gli apparati centrali (il ministero) e da una amministrazione periferica "compatta"; nella seconda fase - durante la quale avvenne la prima significativa rottura del-
l'unità del modello amministrativo - i poteri pubblici assunsero la diretta gestione di alcuni servizi pubblici essenziali; il terzo periodo fu contraddistinto dalla definitiva affermazione delle amministrazioni parallele (con la dislocazione di importanti funzioni pubbliche fuori dello Stato) alla quale si accomunò la tendenza dello Stato a divenire ente distributore di risorse finanziarie; nella quarta fase il multipolarismo amministrativo si è accentuato anche in virtt della nascita delle Regioni e, nel contempo, si è assistito alla moltiplicazione di strutture amministrative con funzioni di regolazione dell'attività privata. Diversa scansione hanno avuto, invece, le vicende se osservate in relazione al rapporto tra amministrazione e corpo politico. Qui i momenti di svolta sono, essenzialmente, due e si collocano, rispettivamente, in età crispina e nel secondo dopoguerra. L'ipotesi che qui viene avanzata si fonda su un assunto semplice: alla modifica d'indirizzo politico non necessariamente consegue un cambio di rotta nell'atteggiamento dell'amministrazione. Dopo la "rivoluzione parlamentare" del marzo 1876, ad esempio, l'azione dell'amministrazione non subì repentini cambiamenti. Parimenti, le scelte "programmatorie" degli inizi degli anni 'Sessanta di questo secolo (diretta conseguenza dell'ingresso dei socialisti nell'area di governo) non produssero se non effimeri effetti sulle ammini-
strazioni pubbliche: ie logiche "di piano" rimasero sostanzialmente estranee all'attività delle strutture amministrative. I segnali di una modifica, in età crispina, dell'atteggiamento dell'alta burocrazia nei confronti della dirigenza politica sono molteplici. Nell'ultimo decennio del XIX secolo iniziò il progressivo distacco tra quest'ultima e la burocrazia avviatosi con la soppressione dei segretari generali nei ministeri e con loro sostituzione con i sottosegretari Stato. Le cospicue riforme varate da Crispi tra il 1888 e il 1890, tese a rendere centrale lo Stato nella gestione delle nuove funzioni assunte dai poteri pubblici, sfociarono nella richiesta di "pieni poteri" della riforma amministrativa. L'ipotesi di una "costituente amministrativa" - avanzata nel 1894 - segnalava la rottura dell'equilibrio tra Parlamento, governo e apparati amministrativi che aveva consentito di rafforzare il giovane Stato unitario. È dello stesso periodo, come è noto, la reintroduzione - sull'onda delle polemiche contro l'ingerenza della politica nell'amministrazione - del contenzioso amministrativo con l'istituzione nel 1889 della IV sezione del Consiglio di Stato. La nuova collocazione della burocrazia rispetto al corpo politico trovò il suo suggello nei primi decenni di questo secolo in concomitanza con l'affievolimento dell'osmosi tra i due settori. Nel 1908 il primo statuto degli im13
piegati civili tracciò i confini della "nuova frontiera": le garanzie richieste dagli impiegati costituivano un argine allo strapotere dei politici. In età giolittiana i funzionari pubblici giocarono un ruolo molto attivo nella gestione dei processi di allargamento delle funzioni pubbliche. La capacità della burocrazia di partecipare in maniera sostanziale alla direzione della macchina burocratica, mantenendo margini di autonomia rispetto al ceto politico, rimase inalterata anche dopo il crollo dello stato liberale. Non a caso, infatti, i tentativi del regime di "fascistizzare", alla fine degli anni Venti, la burocrazia ebbero esiti non esaltanti. Elemento primario della (relativa) impermeabilità rispetto alla politica fu la persistenza, nei posti chiave degli apparati, dei funzionari cresciuti in età giolittiana. La svolta - nei rapporti tra amministrazione e politica - si è verificata dopo il secondo conflitto mondiale. Il ruolo assunto dai partiti, quali organizzatori della vita politica nella società, ha prodotto un progressivo mutamento dell'atteggiamento della burocrazia. Due fenomeni danno, in particolare, il segno ditale processo: la cesura fra carriere amministrative e "carriera" politica si è fatta pii netta; l'amministrazione è stata messa in crisi da un sistema politico che ha affidato ai partiti la mediazione sociale. Entrambi i processi hanno provocato una conseguenza: il canale di comuni14
cazione tra burocrazia e politica è divenuto quasi esclusivamente di tipo "personalistico" ed è stato giocato, quasi per intero, sul piano di reciproci "favori". La selezione della dirigenza pubblica è avvenuta in misura notevole su basi di appartenenza ai partiti. Soprattutto negli enti pubblici è stata allevata una burocrazia "protetta" che há fatto da sostegno politico/elettorale ai partiti di governo.
IPOTESI DI RIFORMA E CAMBIAMENTI EFFETTIVI
Parlare in Italia di riforma dell'amministrazione è divenuto un luogo comune tanto abusato da rendere difficile sfuggire alle banalizzazioni. Il risultato finale di tale situazione è una sorta di paradosso, in ragione del quale l'inesauribile dibattito sulla necessità di riformare l'amministrazione, producendo risultati normalmente inferiori alle attese, si autoalimenta generando nuove discussioni sulle nuove riforme e sull'urgenza di provvedervi. Ciò nonostante, non si può evitare di evocare il problema (correndo il ri schio dianzi segnalato) nell'ambito di un ragionamento sulle vicende evolutive degli apparati pubblici. L'argomento va posto, credo, mettendo in relazione il dibattito e le proposte (rfirme promesse) con le modifiche effettive (cambiamenti concreti).
Quattro sono gli aspetti da indagare per cogliere il senso complessivo dell'evoluzione delle politiche di riforma dell'amministrazione nella storia unitaria: il continuo reiterarsi delle proposte riformatrici; la pratica assenza di dibattito parlamentare nelle fasi in cui sono state compiute le riforme di più ampia portata; la costante dipendenza del riassetto amministrativo dalla «questione" degli impiegati; le trasformazioni prodotte nell'amministrazione da provvedimenti a prima vista di scarso rilievo. Il primo elemento emerge con forza da una superficiale analisi quantitativa. Nel primo quarantennio non vi fu in pratica presidente del consiglio che non tentò di far approvare consistenti modifiche del sistema amministrativo. A questa "brama indomita di riforme" - come la definì all'epoca il senatore Alessandro Rossi - fece da contrappunto un esito molto poco felice: quasi nessuno di quei progetti di riforma "generale" riuscì a diventare legge. Non casualmente un conoscitore profondo dei meccanismi burocratici quale Giovanni Giolitti preferì procedere ad aggiustamenti parziali delle norme, puntando piuttosto ad una modifica della prassi amministrativa. L'unico tentativo da lui compiuto - nel dopoguerra - di fronteggiare la crisi con una legge di riassetto complessivo dell'amministrazione (la legge 1080 del 1921) ebbe esiti scarsissimi. Anche in epoche più recenti i risultati
non sono stati molto confortanti. Le due leggi di delega approvate dal parlamento nel marzo del 1968 e nell'ottobre del 1970 - sulla base dei lavori della commissione presieduta dal ministro Medici - si risolsero essenzialmente in provvedimenti riguardanti il personale. Alla perdurante difficoltà di varare disegni di riforma complessiva, si è aggiunto un fenomeno complementare costituito dall'approvazione senza dibattito parlamentare di una consistente parte della legislazione amministrativa. In occasione di eventi bellici (terza guerra d'indipendenza, prima e seconda guerra mondiale) il governo era dotato dei pieni poteri e legittimato ad operare con decreti. Altre volte esso ha ottenuto dal Parlamento la delega ad approvare misure di riordinamento amministrativo. Ciò è avvenuto con le leggi di "unificazione amministrativa" emanate nel 1865 e con la razionalizzazione" attuata nel 1923 dal governo Mussolini. Nel periodo repubblicano questa tendenza si è convertita nel suo esatto contrario, producendo la quasi totale incapacità del governo di procedere a riforme amministrative in presenza di un Parlamento sempre più scopertamente paralizzato dallo scontro di interessi all'interno degli stessi schieramenti di maggioranza. Negli anni più recenti il controllo sempre più stringente dei partiti sulle istituzioni rappresentative ha esonerato in larga misura tanto il Parlamento 15
quanto il governo dalle funzioni deliberanti effettive, determinando la scomparsa di qualunque soggetto istituzionale trainante le politiche di riordinamento delle pubbliche. A ciò va aggiunto un altro elemento che ha contribuito a vanificare le ipotesi di razionalizzazione: in Italia ie riforme amministrative sono normalmente naufragate per l'impossibilità di conciliare la necessità di modernizzazione degli apparati con le esigenze del personale. L'unica significativa eccezione, al riguardo, è costituita dalla riforma amministrativa del 1923, mediante la quale il ministro delle finanze, Alberto De Stefani, riuscì ad ottenere una diminuzione consistente dei dipendenti statali. In mancanza di un disegno generale di riforma, o nella incapacità di pervenire alla sua approvazione, le modifiche sostanziali degli apparati amministrativi sono intervenute, molto spesso, attraverso interventi normativi apparentemente di scarso rilievo. Ciò porta a concludere che in Italia si può parlare soltanto in senso improprio di politiche di riforma amministrativa, poiché esse sono state sempre costituite da un coacervo di provvedimenti disparati. Per quello che riguarda il periodo repubblicano è da ritenere sostanzialmente centrato il giudizio di Giannini, secondo il quale neppur una7 delle riforme attuate e da considerarsi del tutto soddisfacente. 16
Passato e presente: un confronto necessario Alcune osservazioni conclusive. La prima sul ruolo esercitato dagli apparati amministrativi nell'Italia unita. La sua origine è da rinvenire nel paradosso della vicenda risorgimentale consistente nella necessita di imporre la libertà" alle popolazioni degli Stati annessi nel rapido processo di unificazione. Ciò obbligò in pratica le classi dirigenti a tentare una improbabile mediazione tra istanze liberali e dottrine liberistiche, da un lato, e controllo delle spinte centrifughe e direzione dei processi di formazione del mercato nazionale, dall'altro. Le opzioni liberiste in campo economico fecero da sostegno alla concessione di servizi pubblici (ferrovie) o alle privatizzazioni nel settore industriale. D'altro canto, l'urgenza di provvedere alla creazione di un minimo di infrastrutture nell'intero Paese favorì un forte ruolo di sostegno dello Stato alle imprese. Il difficile equilibrio si ripropose anche nel rapporto fra centralizzazione e tutela delle autonomie locali: la Destra tentò anche qui una difficile mediazione tra l'urgenza di una forte direzione centralizzata ed il rispetto delle autonomie dei gruppi dirigenti nelle diverse parti della penisola. La chiave di volta per gestire le contraddizioni insite nel processo di unificazione e per avviare la difficile modernizzazione del Paese fu la stretta connessione tra Parlamento ed alta
burocrazia, che operarono in forte "contiguità". Proprio quell'intreccio tra parlamentarismo (all'inglese) ed accentramento (alla francese) della macchina amministrativa, bollato all'epoca da Stefano Jacini come "mostruoso connubio , permise di avviare la nazionalizzazione. La "gerarchia di funzionari inviati dal nord ad inquadrare, disciplinare, dominare" le popolazioni meridionali per assicurare su di esse il governo della minoranza nazionale moderata" rappresentarono - nella lucida descrizione che ne faceva Gaetano Salvemini - il pendant dell'immissione delle élites locali nel Parlamento nazionale. In questo doppio processo - coinvolgimento delle forze borghesi locali nell'orbita di governo e disseminazione della burocrazia piemontese negli angoli più riposti del Paese - si condensò la vicenda politico-amministrativa dei primi decenni unitari. Che questo meccanismo postulasse un'organizzazione centralizzata e fortemente piramidale delle strutture amministrative è quasi scontato. Il "paternalismo amministrativo" fu la forma con la quale si rivestì la scelta di utilizzare gli uffici periferici dello Stato come anello per agganciare la società civile locale. In generale, l'uniformità delle regole amministrative, che rinviavano sempre ad un controllo da parte degli apparati centrali, era il corollario di quel principio pedagogico (fatta 1 Italia, occorre fare gli italiani) che presiedet-
te all'azione della classe dirigente liberale almeno fino alla fine dell'Ottocento. In questo complesso miscuglio di "vocazione" liberale e di indirizzi "centralizzati", di liberismo economico e di supporto alle forze imprenditoriali si aprirono gli spazi di manovra degli apparati burocratici: la loro capacità di mediazione fu normalmente, correlata alla forza (o, più spesso, alla debolezza) del tessuto sociale. Quanto le contraddizioni del periodo risorgimentale abbiano segnato nel lungo periodo, gli sviluppi degli ordinamenti amministrativi nel nostro Paese è stato già segnalato. A prescindere da ipotetiche (e difficili) conclusioni, è evidente che occorre cominciare a valutare quale siano stati i momenti-chiave delle vicende dell'amministrazione dello Stato. In via di prima ipotesi non è forse del tutto infondato ritrovare nel periodo che va dalle leggi del 1859 - che cominciarono ad estendere ai territori annessi la legislazione amministrativa del Regno di Sardegna - ai tentativi di riforma del biennio 1868-1869 (che videro frustrato il tentativo di modificare l'organizzazione ministeriale e che videro nascere con la Ragioneria generale dello Stato il fulcro dei meccanismi di governo delle risorse finanziarie pubbliche) il periodo nel quale si compirono le scelte cruciali su almeno tre versanti: il definitivo consolidarsi del modello ministeriale verticistico gerarchizzato, sancito dalla legge Cavour
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del 1853; lo stabilizzarsi di un rapporto centro-periferia nel quale la supremazia formale degli organi "ministeriali" veniva mitigata da un complesso intreccio di relazioni che determinavano livelli di mediazione meno sbilanciati; lo stabilirsi, tra ceto politico e burocrazia di un rapporto molto complesso che non può essere ridotto allo schema abusato dell' "ingerenza" della politica nell'amministrazione Un secondo aspetto sul quale vale la pena di riflettere riguarda il ruolo della dirigenza pubblica. Sull'argomento il dibattito è stato così costantemente aperto da far pensare che non vi sia molto altro da dire. Ma si tratta di un giudizio solo parzialmente fondato. Non c'è chi non veda come l'attuale accelerazione dei processi di riforma amministrativa, invece di galvanizzare la burocrazia, stia producendo crescente disagio tra gli addetti ai lavori. È soltanto il sintomo di una cronica incapacità delle burocrazie pubbliche di percepire le novità? O è soltanto il segno della loro inguaribile capacità di essere in retroguardia (capacità tanto ben espressa negli ultimi quaranta anni)? Ovvero dipende anche da altro? Effetti di spiazzamento prodotti da norme spesso inattuabili; confusione e contraddittorietà tra le linee di riforma; perdurante sottovalutazione degli strumenti effettivi necessari a tradurre in pratica i disegni di razionalizzazione; emarginazione della burocrazia dalle fasi di costruzione delle ipotesi 18
di trasformazione. Tra i tanti aspetti del problema (si consideri come un mero esempio) vi è la singolare carenza di riflessione a posteriori - di più si era fatto prima della riforma - sulla "privatizzazione" della dirigenza. Come mai l'astruso modello che vede "privatizzati" i dirigenti e che conserva natura pubblicistica soltanto al rapporto d'impiego dei dirigenti generali (quelli che - per definizione - nel nostro ordinamento hanno, in virtù della nomina da parte del Consiglio dei ministri, un rapporto fiduciario con il Governo) non è stato soggetto a revisione nell'ambito delle cospicue modifiche apportate al decreto legislativo 29 del 1993? Come mai non si è seguita la strada - ben più razionale, giudicandola con il semplice metro del buon senso - di privatizzare soltanto l'impiego non direttivo, mantenendo carattere pubblicistico ai rapporti d'impiego dei dirigenti e dei funzionari (che dirigenti aspirano a diventare), di coloro cioè che hanno pubbliche responsabilità? Eppure come è noto - la soluzione appena descritta era contenuta, proprio in quei termini, nel Rapporto Giannini del 1979. Un'altra questione sempre aperta è quella dei controlli la cui affaticante ragnatela è stata, come si sa, oggetto di critiche tanto radicali e reiterate quanto immobile e granitico si è dimostrato - fino alla legge 20 del 1994 - il sistema stesso dei controlli preven-
tivi. La circostanza dovrebbe, di per se stessa, far riflettere. Benché fosse matura, già dopo il primo conflitto mondiale, un'articolata serie di ipotesi di smantellamento dei controlli preventivi (si pensi soltanto alle richieste degli impiegati romani guidati da Meuccio Ruini o alle lucide proposte avanzate da Cesare Cagli) il meccanismo ha resistito per altri settantacinque anni. Quale ruolo ha giocato in questa complessa partita la Corte dei conti? Deve (o non deve) far pensare la vicenda del decreto-legge sulla riforma dei controlli reiterato per circa un anno prima che si giungesse all'approvazione della legge 20 dello scorso gennaio? Un ultimo problema, strettamente connesso al precedente, è quello della semplificazione amministrativa: al riguardo, vi sono alcuni elementi sui quali si può aprire un dibattito fecondo di sviluppi. Gli studi di Guido Melis sul taylorismo amministrativo degli anni Venti hanno messo definitivamente in luce la connessione tra ipotesi di razionalizzazione dei metodi di lavoro e costruzione di un nuovo modello di amministrazione. In più (e si tratta forse dell'aspetto più interessante) hanno mostrato la dinamica tra amministrazioni o all'interno di una di esse, sfatando una volta per tutte il mito di un'amministrazione monolitica nel respingere i progetti di modernizzazione. Molto meno scandagliato risulta un periodo (quello a cavallo tra
gli anni Cinquanta e Sessanta di questo secolo) nel quale furono operate cospicue iniezioni di ammodernamento negli apparati. Era l'epoca della prima massiccia meccanizzazione delle procedure in alcune amministrazioni "industriali" (Ferrovie e Poste), ma anche in alcuni apparati tradizionali quali le Finanze e il Tesoro. In questo ministero, peraltro, fu avviata mediante il lavoro di due commissioni guidate da Giuseppe Parenti e Ivan Matteo Lombardo, l'analisi dei costi del lavoro amministrativo. Nello stesso periodo fu avviata la costituzione degli uffici di Organizzazione e metodi, vera spina nel fianco, per alcuni decenni, dei conservatori e vera chimera dei riformatori. Ipotesi di riforma e concrete realizzazioni che erano emerse in una fase politicamente "chiusa" nella quale l'amministrazione seppe avere evidentemente una certa autonomia. Ma era, soprattutto, il momento nel quale stava emergendo faticosamente l'idea della programmazione economica. Idea ed illusione grande che avrebbe condotto ad ipotizzare un ruolo attivo decisivo degli apparati amministrativi. Ruolo che non ci fu praticamente mai. E sarebbe interessante capire perché, riprendendo temi già studiati ma rapidamente finiti nell'oblio collettivo. Il discorso - come era fatale - si concentra alla fine sul nodo fondamentale dal quale deve probabilmente ripartire la riflessione per una ricostruzione sto19
rica dei processi di sviluppo degli apparati pubblici: il tema delle riforme amministrative. Qui è il caso soltanto di rilevare l'opportunità di raccordare le conclusioni di un primo bilancio, tracciato anni fa a Cortona - discutendo il saggio di Bruno Dente su La Cultura amministrativa italiana negli ultimi 40 anni - con i problemi sollevati dalla impetuosa elaborazione compiuta al dipartimento della Funzione pubblica nel biennio 1992-1993. Penso che si possa considerare assodato un elemento di quel dibattito: il costante iato tra le ipotesi di riforma e i cambiamenti effettivi. La riflessione potrebbe ripartire da quel punto per verificare chi - nel corso della storia unitaria - abbia capito cosa. E quando.
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Ovvero: quali sono state e sono le linee piĂš feconde nell'incessante dibattito sulle trasformazioni delle amministrazioni? ancora una volta, non per stabilire primazie o distribuire attestati, ma per cercare di orientarsi. Per cercare di evitare che (per dirla con le parole di Sergio Ristuccia) il discorso si interrompa continuamente o divaghi acriticamente. Ecco perchĂŠ credo possa essere utile, per cercare di riprendere le fila di un tema che sta oggi al centro della nostra convivenza civile, un momento serrato di confronto tra passato e presente. Per cercare di vivere - come titolava un libro di Paul Sweezy - Il presente come storia. E, aggiungo, la storia come componente del presente.
Transizione politica ed innovazione amministrativa: i fattori critici delle ultime riforme di Ernesto d'Albergo *
Nei sistemi amministrativi l'innovazione può interessare variabili istituzionali od organizzative di tipo strutturale, così come singoli procedimenti o criteri di prestazione dei servizi pubblici. Sotto il profilo delle modalità di realizzazione, la stessa può essere il risultato di processi incrementali di adattamento o, invece, costituire l'oggetto di specifiche politiche di riorganizzazione. Nel primo caso, il cambiamento si manifesta attraverso dinamiche indipendenti da una progettazione politica. La legge può intervenire o meno per conferire a posteriori legittimazione giuridica a modificazioni già intervenute nei fatti, nell'ambito di regole formali e/o informali, a seguito di spinte innovative di diverso tipo. Piuttosto che ad un momento straordinario nella vita del sistema amministrativo, in questo caso l'innovazione stessa deve essere assimilata ad una delle sue routine organizzative (March 1993). Per tale motivo, essa si rende riconoscibile attraverso il mutamento dei repertori di procedure ope-
Ricercatore alla fcoltà di Sociologia, Università La Sapienza di Roma.
rative standardizzate (Olsen 1989) e si accompagna a processi di apprendimento organizzativo. Nel secondo caso, invece, la riorganizzazione di segmenti del sistema pubblico o la regolazione di singoli profili gestionali - come avviene per il pubblico impiego - sono caratterizzate da propri, specifici momenti di tematizzazione, decisione ed implementazione. In tali circostanze il processo attraverso il quale vengono introdotte delle modificazioni acquista quel carattere di visibilità - proprio delle politiche pubbliche - che gli è attribuito dal divenire una questione della quale si appropria il sistema politico. I temi del cambiamento vengono portati all'attenzione dell'opinione pubblica, mentre intorno alla definizione dei problemi e delle possibili soluzioni si generano controversie, nelle quali si rende difficile, talvolta, distinguere trala "politica degli interessi" e la ricerca di un migliore rendimento delle amministrazioni. Non diversamente da quanto avviene nelle altre politiche pubbliche, nel corso di tali processi possono insorgere problemi legati alla difficoltà di far transi21
tare il tema dall'agenda politica all'agenda decisionale (Kingdon 1993), alla incapacità delle istituzioni di decidere, alla mancanza di implementazione o, infine, ad esiti della messa in opera che contraddicono gli obiettivi manifesti delle scelte politiche. Uscita dall'agenda politica ed istituzionale italiana nel corso degli anni Ottanta (Capano 1992), la questione amministrativa vi ha fatto ritorno nella Xii legislatura (1992-1994), nel pieno di una fase di transizione che interessava tanto il sistema politico, quanto le istituzioni. Il Governo Amato ed il Governo Ciampi - quest'ultimo, in particolare, per effetto della presenza del ministro Cassese - hanno portato ad uno stadio avanzato del processo legislativo i temi della regolazione del pubblico impiego e della dirigenza prima e, successivamente, dell'organizzazione ministeriale e del procedimento amministrativo. Seppure con un "passo" che è apparso differente, il Governo Berlusconi ha a sua volta avviato proprie iniziative entro questa area di policy, il cui controllo costituisce sia una condizione per il successo delle altre politiche governative, sia un aspetto cruciale del rapporto fra le istituzioni e l'opinione pubblica. A tale "ritorno" politico dell'amministrazione si accompagna però la diffusione di aspettative realistiche, quando non un esplicito scetticismo, circa la capacità delle decisioni istituzionali di. raggiungere gli effetti desiderati. L'av22
vio di questo decennio, ad esempio, è stato caratterizzato dalla approvazione di diversi provvedimenti normativi finalizzati al cambiamento di aspetti importanti dell'organizzazione e dei procedimenti amministrativi. All'ormai rituale elencazione di queste leggi - che comprende la n. 241 del 1990 (procedimenti e trasparenza amministrativa), la n. 142 dello stesso anno (ordinamento dei poteri locali) e, soprattutto, il d. lg. n. 29 del 1993 (ordinamento del pubblico impiego e della dirigenza) - vengono abitualmente associate valutazioni pessimistiche - talvolta supportate da analisi empiriche - circa l'effettiva portata dei cambiamenti che le stesse hanno determinato, o potranno determinare nei fatti. Le politiche di cambiamento intenzionale della pubblica amministrazione possono subire distorsioni nell'implementazione - o quest'ultima può semplicemente non avere corso - per diverse cause le quali, peraltro, si presentano spesso combinate tra loro. In primo luogo, lo stesso congegno legislativo attraverso il quale viene introdotta l'innovazione può non contenere sufficienti accorgimenti per una sua "copertura amministrativa". Se, per dirla con Sergio Ristuccia (1994), alla "febbre legislativa" non si accompagna una sufficiente "strategia della realizzazione", fondata su azioni attuative coordinate e sequenziali, particolarmente dell'esecutivo, ciò può infatti
dipendere anche dalle modalità con le quali è stata progettata l'innovazione nei suoi aspetti normativi. Migliorare la qualità del drafting legislativo, tuttavia, può non essere sufficiente. In secondo luogo, infatti, l'impatto delle riforme amministrative può essere limitato dall'interazione delle stesse con dinamiche di innovazione che, interessando più direttamente altre dimensioni del sistema pubblico, vanno invece per proprio conto, determinando sovrapposizioni, interferenze e corti circuiti. Ad esempio, la disciplina della dirigenza e del rapporto tra politica e amministrazione contenuta nel d. lg. n. 29 del 1993 non è al riparo dalla influenza che sulla sua attuazione può esercitare il cambiamento di variabili politico-istituzionali, come quella dei sistemi elettorali. Ciò dipende, in particolare, dalla asimmetria fra un modello unico di ripartizione delle rispettive funzioni tra le due sfere da un lato e, dall'altro, il prendere corpo ai diversi livelli del reticolo istituzionale addirittura di forme di governo differenziate: un sistema parlamentare a rappresentanza di tipo maggioritario al centro; una sorta di presidenzialismo con sistema elettorale a doppio turno negli enti locali. Questo esempio ci mette di fronte all'interazione non coordinata tra due dimensioni entrambe ampiamente formalizzate del processo di innovazione. Limpatto della stessa, tuttavia, si esercita più spesso su di una regolazione
dei sistemi amministrativi la quale "è il prodotto di un misto di prescrizioni formali e di processi informali che si sorreggono a vicenda, in cui le prescrizioni formali si innestano in una struttura di potere e in processi di scambio e di negoziazione informali, cui forniscono a loro volta argomenti e risorse" (Friedberg 1994). I programmi di innovazione amministrativa possono perciò subire rallentamenti o distorsioni per effetto del cambiamento dei soggetti protagonisti del processo che interviene fra il momento della decisione e quello dell'attuazione (Capano 1992), nel quale si determina l'impatto effettivo. Nelle politiche di riorganizzazione, infatti, è più significativa che in altre policies settoriali la coincidenza fra gli attori che devono provvedere con proprie azioni a porre in essere i nuovi assetti organizzativi ed i destinatari" dell'innovazione. Quando coloro i quali possono influenzare le decisioni che riguardano il se ed il come attuare sono gli stessi attori che subiscono gli effetti del cambiamento, sono più elevate le probabilità che lo stesso venga bloccato, o trasformato in corso d'opera. Un'eventualità, questa, da ricondurre a quella redistribuzione di poteri che, modificando il rapporto tra prescrizioni formali e processi informali, determina inevitabilmente ogni riorganizzazione o mutamento di regolazione. Non solo le resistenze derivanti dall'incertezza che accompagna ogni rias23
setto del potere amministrativo può determinare una implementazione limitata o assente. La stessa può essere resa tale anche dalla mancanza di attori che interpretino il cambiamento come opportunità di miglioramento della propria posizione nei reticoli organizzativi ed istituzionali. Simili eventualità si verificano, ad esempio, quando pur avendo una legge introdotto una nuova disciplina organizzativa di settori di policy o di comparii amministrativi, fondata sulla concessione di ambiti di autonomia in favore delle "periferie" del sistema, la stessa non viene tuttavia sfruttata. Simili processi di parziale autoregolazione, infatti, non possono prescindere da un'azione di promozione da parte di soggetti i quali individuino nell'esercizio dell'autonomia normativa un'opportunità di incremento delle proprie risorse di influenza nell'ambito delle relazioni organizzative e dei processi decisionali. In mancanza di tale "leadership organizzativa", il percorso dell'innovazione tende ad interrompersi. Al processo viene meno la necessaria creatività e, al più, l'autonomia viene semplicemente "applicata", come si può verificare nei casi nei quali si incontra una produzione normativa decentrata priva di significative differenziazioni (un caso: gli statuti comunali ed i regolamenti di organizzazione degli enti locali, in buona parte "fotocopiati"). Accanto ad un fattore "politico" lega24
to alle risorse di potere va inoltre considerato un diverso aspetto, di tipo "cognitivo", legato alla percezione ed alla rappresentazione del cambiamento da parte dei destinatari. A determinare un impatto inefficace delle politiche di riorganizzazione può infatti concorrere l'esistenza di una disomogeneità tra il significato culturale della riforma da un lato e, dall'altro, i valori e le regole che di fatto disciplinano le routines operative dell'amministrazione (Olsen 1992). Quando l'innovazione mette in discussione non solo la distribuzione dei poteri, ma anche l'identità degli attori e delle organizzazioni, la stessa incontra resistenze maggiori. In Italia, ad esempio, una razionalità di tipo microeconomico rimane ancora sostanzialmente estranea alla cultura degli attori amministrativi. Riforme che intendono promuovere una aziendalizzazione dei servizi e delle strutture pubbliche o, più semplicemente, introdurre una sistematica valutazione dei dipendenti e dei dirigenti, trovano perciò una condizione per il loro successo nell'attivazione di processi di apprendimento culturale nelle organizzazioni amministrative. Appartiene alla dimensione culturale del processo di innovazione anche un profilo più strettamente simbolico, che lo stesso può mettere in maggiore evidenza quando le issues acquistano una forte risonanza nell'opinione pubbuca. In questi casi il consenso necessario per adottare decisioni a somma
non positiva" si avvale anche dei significati e delle rappresentazioni sociali delle innovazioni. La dimensione espressiva del policy-making diviene perciò un fattore cruciale del processo di innovazione, la cui alimentazione e continuità può costituire una risorsa imprescindibile per il suo successo anche nelle fasi di implementazione. Anche una variabile di tipo cronologico, infatti, può giocare contro la lineare messa in opera delle riorganizzazioni, a causa del possibile cambiamento nel tempo delle modalità con le quali i problemi e le soluzioni vengono interpretate. Ciò può essere provocato anche da variazioni nel contesto istituzionale, dalla sostituzione degli attori politici promotori dell'innovazione e, dunque, dal modificarsi del grado di attenzione e/o della competenza degli attori di governo. In altri termini, dal venir meno del fattore rappresentato da una specifica leadership politica ed istituzionale della innovazione, la cui continuità si presenta, invece, come un fattore essenziale, particolarmente in quelle politiche di innovazione più "estese" e "generalizzate" (d'Albergo 1991), la cui implementazione richiede una efficace guida governativa. Ad esempio, dopo l'uscita dal Governo del ministro Cassese non sono stati rispettati i termini per l'esercizio dei poteri normativi delegati all'esecutivo nel 1993 in materia di riorganizzazione dei ministeri. Si è così determinata un'ulteriore opportu-
nità di innovazione organizzativa non utilizzata per mancanza di leadership. Non diversamente, per fare un altro esempio, il ciclo di innovazione amministrativa nel campo dell'università e della ricerca scientifica si è interrotto nel 1992, dopo la sostituzione del Ministro Ruberti. Non solo perché non sono state approvate le leggi che mancavano per completare un pacchetto di innovazione legislativa concepito modularmente, ma anche perché gli spazi di autonomia già introdotti nella regolazione dell'amministrazione universitaria e degli enti di ricerca non sono stati pienamente utilizzati. Ad una carenza di quella leadership "organizzativa dell innovazione della quale si è detto, si è aggiunto anche in questo caso il venir meno di una sua propulsione politica ed istituzionale. Se consideriamo le politiche di riorganizzazione amministrativa che hanno dato luogo ad un distinto "ciclo" di innovazione nella )U legislatura, ritroviamo alcuni dei fattori critici cui abbiamo fatto riferimento. Ad un ritorno del tema nell'agenda istituzionale, determinato dalla forte iniziativa legislativa dei governi Amato e Ciampi, non si è infatti accompagnata una pari "strategia della realizzazione". Su alcune delle norme si è dovuti tornare più volte, apportando correzioni e modifiche. Tra il momento della decisione legislativa e quello della messa in opera si sono modificati importanti aspetti del contesto politico ed istitu25
zionale. I soggetti della decisione e quelli della implementazione si sono succeduti in modo differenziato. Nella seconda delle due fasi, infatti, agli attori politici e governativi sono subentrati quelli di tipo burocratico i quali, a partire dalla dirigenza, non sono sinora apparsi particolarmente interessati a dare corso alle innovazioni amministrative. La durata limitata dei governi ha inoltre determinato una breve permanenza nell'esecutivo dei leader istituzionali i quali hanno impostato le politiche di riorganizzazione. La disomogeneità valoriale tra i programmi di riforma e le organizzazioni amministrative che ne dovrebbero assecondare l'impatto, infine, non potrebbe essere più pronunciata. Probabilmente solo il più generale clima sociale e culturale che, come vedremo, ha favorito l'assunzione delle decisioni innovative nel biennio 1992-93 e l'efficacia del simbolismo alle stesse associato, mantiene una sua continuità. La stessa, tuttavia, dovrà essere probabilmente reinterpretata alla luce della nuova conflittualità sociale innescata dalle politiche economiche del Governo Berlusconi la quale, peraltro, potrà rinnovarsi a fronte di scelte di finanza pubblica di taglio restrittivo. Mentre il ciclo di innovazione amministrativa della XI legislatura non è ancora stato chiuso - perlomeno sul piano degli effetti concreti cui lo stesso potrebbe dare luogo - il cambia26
mento politico intervenuto suscita molte incertezze e diversi interrogativi. Quali conseguenze potrà esercitare il mutato assetto del sistema politico dovuto anche all'avvento di un sistema elettorale di tipo maggioritario e, soprattutto, la presenza di governi "conservatori" sulle politiche di riorganizzazione amministrativa? Il cambiamento intervenuto potrà determinare il superamento, una maggiore rilevanza, o una semplice continuità dei fattori critici delle riforme? Le stesse, peraltro, riceveranno realmente una diversa impronta politica? Attraverso una sommaria ricostruzione delle politiche amministrative perseguite dagli ultimi tre governi, sarà possibile delineare alcune ipotesi sulle prospettive dell'innovazione amministrativa in questa fase di transizione politica ed istituzionale. REGOLAZIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO E POLITICHE DI RIORGANIZZAZIONE NELLA XI LEGISLATURA
Adottando l'ormai classico modello di classificazione delle public policies proposto da T. Wilson (1973), possiamo dire che negli anni Settanta ed Ottanta il governo del pubblico impiego e gli interventi di riorganizzazione amministrativa si sono presentati come politiche di tipo distributivo, caratterizzate da "costi diffusi" e "benefici concentrati". La distribuzione fiscale degli oneri ha infatti permesso
una dinamica delle retribuzioni che avvantaggiava i dipendenti pubblici, mentre tale "privilegio", unito alla tradizionale stabilità del posto di lavoro, non veniva compensato da alcuna crescita di produttività delle amministrazioni. Negli anni Novanta, invece, la politica del pubblico impiego ha assunto una connotazione caratterizzata da "benefici diffusi" e "costi concentrati"; Questo cambiamento è dovuto sia al blocco dei contratti, sia ai contenuti della riforma della legge-quadro e delle successive misure promosse da Sabino Cassese. Con queste decisioni, infatti, i benefici sono stati trasferiti sul complesso della platea fiscale, dal momento che il blocco virtuale della dinamica retributiva nel settore pubblico ha determinato una riduzione della corsa incrementale degli oneri finanziari. A loro volta, i costi delle decisioni gravano sui pubblici dipendenti e si manifestano soprattutto in termini di aspettative decrescenti. Sia i costi che i benefici, tuttavia, non sono solo di tipo materiale. Come vedremo, l'impatto "redistributivo" della svolta impressa alla politica del pubblico impiego a partire dalla )U legislatura deve essere infatti ricondotto soprattutto a quella deistituzionalizzazione dei diritti che, ancora incompleta su di un piano concreto, sotto un profilo simbolico è stata però presentata come la fine degli inammissibili privilegi di status dei dipendenti pubblici.
Un'importante caratteristica di questo ciclo di decisioni è da individuare nel tipo di "opportunità decisionali" utilizzate, costituite principalmente dalle manovre annuali di bilancio, in una fase nella quale le stesse hanno acquistato una connotazione restrittiva. Nella XI legislatura, infatti, per introdurre elementi di nuova regolazione dell'amministrazione e del pubblico impiego non sono stati utilizzati spazi di decisione "dedicati" alla politica amministrativa - come avvenne, ad esempio, nel 1983 per l'esame della legge-quadro sul pubblico impiego, approvata alla Camera nell intimita di una commissione in sede legislativa - ma nicchie nell'ambito delle manovre finanziarie. Non che ciò non accadesse anche in precedenza. Basti pensare alle negoziazioni sulle somme da inserire nella legge finanziaria per i rinnovi contrattuali, o per la riforma della dirigenza, o ai blocchi totali o parziali delle assunzioni, che hanno caratterizzato l'esame della finanziaria negli anni Ottanta. Negli anni Novanta, però, l'approvazione della legge finanziaria non si presenta più come un'occasione buona per qualsiasi tipo di provvedimento ma, invece, solo per decisioni di tipo redistributivo. La contestuale accentuazione della sua capacità di attrazione delle più svariate issues che stazionano nell'agenda in attesa di decisioni ha determinato effetti di rilievo sulla regolazione effettiva del policy-mas
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king, influenzando fortemente anche le politiche dell'amministrazione pubblica. Per entrare nel processo che porterà alla approvazione di provvedimenti legislativi, le specifiche soluzioni che riguardano la pubblica amministrazione devono infatti assumere anch'esse un carattere effettivamente o simbolicamente assimilabile alle decisioni prese in vista di una riduzione del deficit. Favorito da tale "corsia" istituzionale, il rilevante grado di simbolizzazione delle decisioni deve essere riconnesso all'affiancamento, nelle politiche amministrative, del valore del risparmio di risorse a quello dell'efficienza, il quale è stato reinterpretato alla luce del primo. Il cambiamento è stato presentato dai governi, dal sistema politico e dai mezzi di comunicazione e, soprattutto, percepito dall'opinione pubblica come l'inversione di una ingiustificabile - e fiscalmente costosa tendenza premiale senza contropartite nei confronti della burocrazia Tutto ciò mentre l'effettiva efficacia economica delle misure adottate quando la stessa si rende misurabile non è stata provata. Sia sul piano finanziario, che sul piano organizzativo, infatti, ancora oggi gli effetti esercitati dalle decisioni prese non si dimostrano particolarmente significativi. Una ulteriore componente di questo ciclo di innovazione deve essere inoltre individuata nella debolezza dei sindacati dei pubblici dipendenti, in pre-
cedenza protagonisti. Tale arretramento che, nell'arena del pubblico impiego, costituisce una condizione negoziale per l'adozione di decisioni a "costi concentrati e benefici diffusi", è stato a sua volta reso possibile sia dal generale clima di delegittimazione della sfera pubblica, sia da specifici fattori politici ed organizzativi. Questi ultimi hanno eroso la rappresentatività e la capacità negoziale del sindacalismo tradizionale, mentre anche le nuove forme "parasindacali" (Cobas, etc.) sembrano interessate da una parabola discendente. Questo cambiamento è emerso nella dinamica negoziale che ha condotto, fra il 1992 ed il 1993, alla decisione sulla regolazione del pubblico impiego e della dirigenza. Sulla necessità di modificare l'architettura giuridica delle transazioni in questa arena i diversi attori della policy community concordavano già da alcuni anni, tanto che fra il 1990 ed il 1991 le organizzazioni sindacali ed il Governo (ministro Gaspari) avevano sostanzialmente raggiunto un accordo, pur senza che lo stesso conducesse alla approvazione dei necessari provvedimenti. Quando, però, il Governo Amato ha imposto una decisione, la disciplina non è stata cambiata per risolvere i problemi con riferimento ai quali veniva sollecitata, in accordo con i sindacati, la sua modificazione nel periodo precedente. I problemi erano stati infatti identificati: da un lato nella limitata efficien-
za della regolazione esistente nel distribuire gli istituti oggetto di decisioni fra le due aree della legislazione e della contrattazione; da un altro lato, invece, nella necessità di snellire i tempi necessari per prendere delle decisioni ed ottenerne degli effetti, appesantiti dai ritardi temporali nella sigla degli accordi e dalle macchinose procedure necessarie per dare agli stessi esecutività. Il primo dei due problemi veniva sollevato principalmente dalla Corte dei conti, mentre il secondo formava oggetto di una insistenza da parte dei sindacati. La soluzione individuata consisteva principalmente in uno snellimento procedurale, attraverso la creazione di un nuovo negoziatore pubblico, distinto dal Governo. Una privatizzazione assai accentuata sul piano simbolico veniva di fatto interpretata sul piano normativo soprattutto come una riduzione dei passaggi decisionali, oltre che di alcuni vincoli organizzativi nella gestione del personale. Al momento di varare la nuova disciplina, tuttavia, mentre sul piano tecnico le soluzioni sono rimaste più o meno ie stesse, i problemi ai quali esse sono state applicate sono invece cambiati, dal momento che le questioni di efficienza sopra indicate sono state sostituite da una nuova e schiacciante priorità: il controllo e la riduzione dei costi dell'apparato pubblico. Certo, già negli anni Ottanta la riduzione della spesa per il personale dipendente delle
amministrazioni era stata considerata come un aspetto centrale del risanamento della finanza pubblica. In quel periodo, tuttavia, la distanza tra i propositi e le realizzazioni delle politiche di contenimento degli oneri amministrativi è stata quella che conosciamo. Nello svolgere direttamente il proprio ruolo di parte pubblica nella negoziazione, il Governo tendenzialmente concedeva, quando non offriva addirittura più di quanto gli stessi sindacalisti richiedessero. I contratti venivano così siglati talvolta senza che i lavoratori interessati fossero nemmeno chiamati alla mobilitazione. Mentre perdeva il controllo della dinamica retributiva, il Governo non otteneva comunque nulla in cambio sul piano della produttività, né del miglioramento delle performance organizzative. A causa di tale andamento delle relazioni negoziali - oltre che del persistere di una micro-legislazione risarcitoria dei diversi interessi distribuiti nel sistema amministrativo - gli anni Ottanta hanno visto una prosecuzione degli andamenti incrementali delle spese per il personale pubblico. È invece progressivamente emersa la debolezza di quegli strumenti istituzionali di regolazione del processo decisionale - contenuti nella legge-quadro del 1983 e nella legge n. 468 del 1978 che avrebbero dovuto impedirli. Infatti, quando il problema non è stato più semplicemente ignorato - si pensi alla sistemazione del precariato scolasti29
co - in presenza di oneri per il personale da iscrivere in bilancio superiori agli stanziamenti contenuti nelle diverse leggi finanziarie, il Governo ed il Parlamento hanno provveduto a Coprirli a posteriori, talvolta con appositi decreti-legge. Con le decisioni assunte sia dal Governo Amato che dal successivo Governo Ciampi si è avuta, quindi, una decisa inversione. Il problema dei costi dell'amministrazione è divenuto il principale asse intorno al quale hanno ruotato l'azione governativa, la ricerca di nuovi meccanismi di regolazione e, più complessivamente, l'intero processo di tematizzazione politica della questione amministrativa. Ciò ha Comportato una ridefinizione dei significati sociali e politici associati alla individuazione dei problemi e delle soluzioni. Come abbiamo visto, infatti, uno dei principali fattori che ha accompagnato questo ciclo di regolazione della politica del pubblico impiego è la simbolizzazione delle decisioni. Insieme alla classe politica di "tangentopoli" - corrotta e "statalista" - alla burocrazia è stato assegnato lo scomodo ruolo di "capro espiatorio" dei mali nazionali (Bettini 1994). I pubblici dipendenti sono così stati sottoposti non solo ad un'erosione retributiva, ma anche ad una stigmatizzazione sociale e politica, operata soprattutto attraverso i mass-media, i quali hanno veicolato ed amplificato il contenuto espressivo delle azioni istituzionali. 30
La creazione dei capri espiatori acquista significato all'interno di un processo nel quale i simboli creano allarme nell'opinione pubblica, facilitando azioni politiche ed istituzionali che, attraverso la «punizione»possono dare luogo ad una più ampia rassicurazione sociale. Viene così favorito il tipo di legittimazione necessario per assumere quel particolare tipo di decisioni politiche che presentano costi concentrati e benefici diffusi. Nel caso del pubblico impiego, questo processo si rende evidente se consideriamo più da vicino la collocazione che questa issue ha avuto nell'ambito della manovra economica del Governo Amato e le funzioni svolte dalla simbolizzazione della decisione politico-istituzionale. In primo luogo, quest'ultima si è dimostrata funzionale ad una rappresentazione equidistribuita dei sacrifici imposti dalle decisioni governative. La manovra del Governo Amato era infatti composta da più interventi: da un lato l'imposizione fiscale nei confronti dei lavoratori autonomi; dall'altro, l'imposizione fiscale nei confronti dei lavoratori dipendenti, colpiti anche dall'abolizione delle indicizzazioni retributive. L'aver inserito il blocco della contrattazione per i dipendenti pubblici e la "privatizzazione» del pubblico impiego nell'ambito della manovra economica governativa ha contribuito a rendere più visibile al1 opinione pubblica 1 impatto simmetrico" delle misure, ciascuna delle qua-
li costituiva di per sé una minaccia al tenore di vita di tutti i lavoratori, dipendenti ed autonomi. La protesta dei lavoratori del settore privato si è indirizzata non solo contro il Governo ma, in parte, anche verso lo stesso sindacalismo confederale, determinando anche all'interno di tali organizzazioni una delegittimazione delle «pretese che, a torto o a ragione, venivano riferite agli interessi dei dipendenti delle amministrazioni. Fungendo da capro espiatorio, il pubblico impiego è divenuto così probabilmente non quella decisiva ma, sicuramente, una delle risorse che hanno permesso al Governo Amato di guadagnare consenso sociale e politico alle proprie decisioni finanziarie, facilitando ulteriormente il superamento dei residui vincoli posti da un'arena parlamentare a sua volta svuotata di legittimazione. In secondo luogo, questo tipo di simbolizzazione della decisione appare funzionale alla più generale esigenza avvertita come cruciale dal sistema politico dopo le elezioni del 1992 - di difendere quella legittimazione sociale del sistema pubblico che appariva in caduta verticale, resa evidente dal primo successo elettorale della Lega, dalle ipotesi di "rivolta fiscale" e dal diffondersi di una cultura ostile nei confronti dello stato sociale. In terzo luogo, infine, la proiezione simbolica in chiave punitiva delle finalità della innovazione amministrativa ha permesso di oscurare il fatto che i problemi
della efficienza e della produttività del lavoro pubblico non sono stati di per sé risolti dalle riforme introdotte. Secondo un processo evidenziato dagli approcci sociologici ai temi amministrativi, gli obiettivi dichiarati al momento di esplicitare le finalità dei provvedimenti si sono dimostrati un indicatore della retorica e della funzione simbolica delle riforme, più che una delineazione programmatica dei cambiamenti da apportare alle variabili organizzative (Czarniawska-Joerges 1990) Il ciclo di innovazione della XI legislatura è stato caratterizzato anche da un cambiamento politico ed istituzionale che ha interessato l'esecutivo. Non più avvertito solo dal Tesoro, quello delle compatibilità finanziarie è divenuto un problema del Governo nel suo insieme. Due indicatori possono testimoniare tale cambiamento. Da un lato, nel Governo Amato la funzione pubblica è stataaffidata non più ad un ministro ad hoc, ma ad un sottosegretario al Tesoro. Da un altro lato, nel Governo Ciampi tra il ministro della Funzione Pubblica ed il ministro del Tesoro non si è manifestato il conflitto che tradizionalmente opponeva nell'esecutivo i sostenitori di decisioni fondate su indirizzi diversi, distributivi ed onerosi per il primo, redistributivi e fonti di economie per il secondo. Si è invece sviluppata una competizione per l'appropriazione delle risorse istituzionali necessarie per 31
lo svolgimento di un ruolo concorrente. In altri termini, nella partita del governo del personale pubblico sono significativamente mutate le poste politiche ed istituzionali in gioco, così come le stesse vengono definite dalla strutturazione delle relazioni infragovernative. Questo cambiamento ha reso possibile una interpretazione nuova dei ruoli istituzionali esistenti, a partire dalla direzione politica della Funzione Pubblica. Con Sabino Cassese, in particolare, questa ha abbandonato il tradizionale ruolo di "rappresentante dei sindacati dei dipendenti pubblici nel Consiglio dei ministri , fino ad entrare in competizione con il "custode del tesoro , tradizionalmente un partner scomodo al momento di ricercare accordi con i sindacati. Nel d.lg. n. 29 "prima versione", il Tesoro, più che la neoistituita Aran, il Dipartimento della Funzione Pubblica o il Parlamento, era infatti il vero gate-keeper delle decisioni contrattuali. Tale minacciosa presenza veniva peraltro compensata da uno scambio con le organizzazioni sindacali, le cui rendite di posizione risultavano nei fatti consolidate da una nuova "legislazione di sostegno", particolarmente nelle arene della contrattazione decentrata e di quella per la dirigenza, precedentemente preclusa ai "confederali . Insomma, una «riforma per via sindacale" (Bolaffi 1993), determinata però più dalla concessione di privilegi di accesso alle sedi decisionali, che 32
non dalla forza negoziale di queste organizzazioni. Qui va ricercato uno dei motivi dei cambiamenti apportati al d.lg. 29 dal successivo esecutivo. Infatti, con il Governo Amato erano assai basse le aspettative nei confronti dell'affidabilità della Funzione Pubblica, carica non a caso allocata presso il Tesoro. Con il Governo Ciampi, invece, la stessa - mettendo a frutto il nuovo quadro di opportunità decisionali offerto dalla crisi finanziaria, dalla debolezza del sistema politico e parlamentare e dal cambiamento culturale - è divenuta un promotore dell'innovazione. Ciò le ha consentito di imporre una modificazione della stessa regolazione a proprio vantaggio, nonché di sperimentare soluzioni di razionalizzazione e risparmio disponibili anche precedentemente, ma sino ad allora escluse dall'agenda decisionale (Cassese 1994). La riformulazione dei problemi di policy e del rapporto degli stessi con le soluzioni, così come l'ingresso nelle arene decisionali attraverso il veicolo della manovra di bilancio non riguardano solo la regolazione del pubblico impiego ma, particolarmente con il "ministero Cassese", lo stesso cambiamento macro-organizzativo delle amministrazioni pubbliche. La delega inserita nel provvedimento «collegatJ alla legge finanziaria per il 1994 dovrebbe consentire al Governo di riordinare, sopprimere e fondere i ministeri e le aziende autonome dello Sta-
to. Di particolare rilievo è l'introduzione della facoltà per il Governo e, soprattutto, per i singoli ministri, di attribuire ad organismi indipendenti "funzioni di regolazione dei servizi di rilevante interesse pubblico, anche mediante il trasferimento agli stessi di funzioni attualmente esercitate da ministeri o da altri enti ( ... ), lasciando alle amministrazioni centrali cpelti compiti di indirizzo, programmazione, sviluppo, coordinamento e valutazione (...)" (L. n.537 del 1993, art. 1, c.2). La legge voluta dal ministro Cassese richiede il rispetto di principi organizzativi che appaiono in parte innovativi. Gli stessi, peraltro, dovrebbero ispirare anche una delegificazione non immediata, tuttavia, ma da realizzarsi attraverso le stesse norme delegate - attraverso la quale il Governo ed i singoli ministri potranno essere messi nelle condizioni di esercitare funzioni normative in materia organizzativa, senza che si renda necessaria alcuna ulteriore approvazione da parte del Parlamento. Nella delega ritroviamo da un lato principi di razionalizzazione da considerarsi ormai tradizionali, come: l'eliminazione delle duplicazioni, l'unificazione delle funzioni aggregabili, l'individuazione di figure manageriali, la diversificazione delle funzioni di staff e di line, la separazione tra politica ed amministrazione, l'organizzazione delle strutture per funzioni omoge-
nee e secondo criteri di flessibilità tali da consentire l'adattamento allo svolgimento di compiti non permanenti ed al raggiungimento di specifici obiettivi. Da un altro lato, invece, gli stessi principi ricevono un particolare significato dall'essere finalizzati alla diminuzione dei costi amministrativi, alla ridefinizione degli organici ed alla riduzione della spesa pubblica. Quest'ultimo effetto è stato particolarmente enfatizzato - ed anche oggetto di una polemica della Funzione Pubblica con la Ragioneria generale dello Stato - al momento di quantificare i benefici che legittimavano l'inserimento di tali misure nella decisione di bilancio. Ma il Governo Ciampi non si è limitato a reintrodurre nell'agenda politica il tema della riforma organizzativa dell'amministrazione centrale. Le altre azioni dovute al "ministero Cassese" sono sintetizzabili nel modo seguente: - individuazione dei "principi suli erogazione dei servizi pubblici con meccanismi di controllo da parte degli utenti, cui ha fatto seguito l'adozione di 26 "carte dei servizi"; - approvazione di numerosi progetti pilota per l'innovazione organizzativa, in base ad una norma legislativa inserita anch'essa nel provvedimento collegato alla legge finanziaria; - tentativo di dare corpo realizzativo a disposizioni esistenti ma scarsamente operanti, come quelle sull'autocertificazione, sul procedimento ammini33
strativo e sulle autonomie universitarie, scolastiche e degli enti locali; - approvazione di misure di semplificazione di circa 100 procedimenti amministrativi, con una riduzione media dei relativi tempi pari al 50%; - soppressione di 13 comitati interministeriali e numerosi consigli e commissioni il cui ruolo è stato ritenuto obsoleto; - approvazione di provvedimenti, legislativi ed amministrativi, per la riorganizzazione di 7 ministeri e di alcuni istituti agli stessi collegati; - trasformazione in enti di due amministrazioni autonome (Anas e Poste); - approntamento di un codice di comportamento dei pubblici dipendenti e di un codice di stile comunicativo delle amministrazioni; - approvazione di norme per la rinegoziazione dei contratti per la fornitura di beni e servizi e per la realizzazione di opere pubbliche; - approvazione di norme per l'istituzione di uffici di controllo interno dei costi, dei rendimenti e dell'economicità gestionale nelle diverse amministrazioni, attribuendo alla Corte dei conti nuovi compiti e sottraendole alcune delle precedenti funzioni; - conferimento al Governo di deleghe per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza e per la revisione dell'ordinamento degli altri enti pubblici non economici, fondati su di una estesa privatizzazione delle rispettive funzioni; 34
- avvio di un processo graduale finalizzato all'abolizione delle piante organiche, strumento ritenuto inidoneo alla gestione delle risorse umane; - individuazione di nuovi criteri per la distribuzione del personale fra le amministrazioni, agendo sulla disciplina della mobilità e della formazione (Cassese 1994). Questo elenco può fornire una prima rappresentazione dell'ampiezza e della profondità delle iniziative intraprese, ma rende anche intuitive le difficoltà che si frappongono alla realizzazione degli effetti desiderati. Solo in via di prima approssimazione si rende possibile valutare come si presentino, nell'incertezza dello scenario attuale, i fattori che possono favorire o, al contrario, ostacolare il raggiungimento degli obiettivi associati al cambiamento deciso, così come la realizzazione di un nuovo ciclo di decisioni istituzionali. Già incerta con il precedente quadro politico, dopo le elezioni del marzo 1994 e la breve esperienza del Governo Berlusconi l'implementazione di un così articolato programma di riorganizzazione deve in primo luogo scontare il cambiamento degli attori sui quali si assommano le più importanti responsabilità attuative. Ad essere stato sostituito, infatti, non è solo il principale leader istituzionale del processo innovativo nella XII legislatura il ministro della Funzione Pubblica ma anche altri componenti della p0!icy community della politica ammi-
nistrativa. Mentre sono cambiati i membri delle commissioni parlamentari competenti, la stessa disponibilità degli esperti rappresenta infatti oggi un fattore di incertezza. Il nuovo quadro politico e la conflittualità sociale che deriva dalle politiche finanziarie, peraltro, potrebbe determinare anche un diverso atteggiamento delle organizzazioni sindacali. Una prima approssimazione ai problemi di questa nuova fase si rende tuttavia già possibile. Esaminando le iniziative del Governo Berlusconi, cercheremo di stabilire, innanzitutto, se la svolta politica abbia determinato un'effettiva soluzione di continuità per quanto riguarda da un lato le modalità di tematizzazione e, dall'altro, le risorse politiche ed istituzionali che si rendono disponibili per la decisione e l'implementazione dell'innovazione amministrativa. LE POLITICHE AMMINISTRATIVE DEL GOVERNO BERLUSCONI: CONTINUITÀ E PROSPETFIVE DELL'INNOVAZIONE
Non è necessario approfondire gli aspetti per i quali il Governo Berlusconi ha rappresentato una svolta politica radicale. In teoria, una sostituzione degli attori di governo dovuta ad un simile cambiamento del ciclo politico dovrebbe determinare modificazioni anche nel policy-making, favorendo una ridefinizione dei problemi e delle soluzioni nelle arene relati-
ve alle diverse politiche pubbliche. Al di là di alcune apparenze, invece, per le politiche di riforma amministrativa non è stato così. La novità intervenuta, infatti, riguarda principalmente gli attori che nel Governo si occupano della pubblica amministrazione ma non i termini politici e culturali nei quali l'innovazione viene tematizzata. Ciò risulta da una sommaria analisi delle azioni dell'esecutivo nella XII legislatura sui due versanti sui quali si sono sviluppate le politiche dei governi della precedente: da un lato i tentativi di riorganizzazione strutturale ed i micro-interventi di carattere organizzativo; dall'altro, invece, la politica del pubblico impiego. In ambedue i casi la definizione dei problemi ed il repertorio delle soluzioni da mettere in campo non sembrano essersi sostanzialmente modificati a causa del cambiamento politico e degli attori di governo. Anche il percorso istituzionale delle decisioni, peraltro, si è indirizzato verso l'uso prioritario dell'oppoÈtunità rappresentata dalla legge finanziaria. Più specificamente, i passi compiuti dal Governo Berlusconi, dalla data del suo insediamento fino alle dimissioni, nelle materie amministrative sono: a) per quanto riguarda la riorganizzazione e gli interventi di sperimentazione organizzativa: - richiesta di proroga al 31.12.1995 dei termini per l'esercizio della delega 35
legislativa ad emanare norme per il riordino dell'amministrazione centrale (disegno di legge Senato n. 777); - individuazione di ulteriori provvedimenti di semplificazione dei procedimenti, attraverso una sostanziale proroga dei termini fissati dalla L. 537/1993; - avvio di un piano triennale per l'informatizzazione delle amministrazioni (10.000 miliardi in tre anni); - direttiva (11.10.1994) per l'istituzione di uffici per le relazioni con il pubblico in tutte le amministrazioni; - proposte di costituzione di un organismo di consulenza, impulso e controllo nei confronti del Governo in sostituzione del Consiglio superiore della pubblica amministrazione, già abrogato dalla legge n.537 del 1993; - prosecuzione delle attività di sperimentazione organizzativa avviate dal ministero Cassese (progetti pilota).
b) Per quanto riguarda il pubblico impiego: - pagamento dell'indennità di vacanza contrattuale, comprensiva della copertura dei benefici contrattuali per l'anno 1994 (decreto-legge n. 552 del 27.9.94, il cui costo è pari a lire 1.460 miliardi ); - incremento retributivo - per decreto - per i dirigenti generali, con decorrenza anticipata rispetto al resto dei dipendenti; - direttiva all'Aran (5.9.1994) per la nuova tornata contrattuale: prevede 36
una durata dei contratti quadriennale per la parte normativa e biennale per la parte retributiva; incrementi retributivi medi fissati al 6%, da distinguersi in una parte uguale per tutti che non finirebbe comunque in busta-paga prima del 1996 - ed in una parte subordinata alla verifica della produttività. Quest'ultima dovrebbe essere affidata alla discrezionalità dei "capi", attraverso sistemi e procedure di valutazione che, al momento, sono però ancora da ideare; - apposizione dei relativi stanziamenti nella legge finanziaria (per un totale, comprensivo degli incrementi retributivi al personale non contrattualizzato e di quelli relativi ai dipendenti del "settore pubblico allargato", pari a lire 24.750 miliardi nel triennio 1995-97; - avvio delle elezioni per le rappresentanze sindacali nel pubblico impiego; - drastica riduzione dei distacchi e dei permessi sindacali (regolamento del 27. 10. 1994); - da ultimo, sigla di ipotesi di accordo per i contratti dei lavoratori dipendenti dalle amministrazioni statali e dagli enti locali; Nei "provvedimenti collegati" alla legge finanziaria '95 sono state inoltre introdotte diverse misure organizzative. Queste riguardano, in particolare: - la disciplina dell'orario di servizio e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, da articolare di norma su 5 giornate lavorative settimanali, con
rientri pomeridiani, la conseguente riduzione degli straordinari e l'incentivazione del part-time (misure che comporterebbero un risparmio valutabile solo a consuntivo); - il congelamento semestrale delle assunzioni, con l'esclusione - per effetto di un emendamento della Lega - di enti locali e regioni non in situazione di dissesto. Il blocco comporterebbe un risparmio per il fabbisogno di cassa del settore statale di lire 7.881 miliardi nel triennio 1995-97. Questa previsione - che peraltro sarà possibile riferire al saldo netto da finanziare in termini di competenza solo a consuntivo - è stata comunque contestata dal Servizio del bilancio della Camera dei Deputati, dal momento che la stessa non considerebbe alcuni dei fattori di incremento e/o riduzione delle spese derivanti dall'impatto del "blocco" sulle disposizioni vigenti (Camera dei Deputati 1994); - l'affidamento alla valutazione dei carichi di lavoro, introdotta dal precedente Governo G. 537 del 1993), di ulteriori funzioni: oltre a quella relativa alla rideterminazione delle piante organiche, l'individuazione, razionalizzazione e semplificazione delle procedure cui questi si riferiscono. Contestualmente il ruolo del Dipartimento della Funzione pubblica dovrebbe limitarsi ad esprimere un giudizio di congruità sulle metodologie utilizzate dalle sole amministrazioni statali; - il divieto alle amministrazioni di
estendere gli effetti delle decisioni giurisdizionali a coloro che si trovino nella stessa posizione giuridica (minore spesa stimata di lire 224 miliardi nel triennio); - l'inserimento nei provvedimenti collegati alla legge finanziaria di ulteriori norme che intervengono su aspetti minori in materia di stato giuridico, con obiettivi di riduzione delle spese. Vanno inoltre segnalate: - la costituzione, per iniziativa del ministro della Funzione Pubblica, di una commissione per lo snellimento della produzione legislativa, la redazione di testi unici ricognitivi e la delegificazione; - l'emanazione di una direttiva (1010-1994) del Presidente del Consiglio per imporre il concerto dei ministri (già previsto dall'art. 70 del d.lg. n. 29) del Tesoro, Bilancio e Funzione Pubblica su tutte le iniziative legislative del Governo - ivi compresi gli emendamenti parlamentari - che possano esercitare effetti sulla disciplina dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni; - la costituzione presso il Dipartimento della Funzione Pubblica di un comitato per dare attuazione alla "carta dei servizi . L'iniziativa del Governo Berlusconi è dunque stata costituita per un verso dalla prosecuzione delle azioni intraprese dal ministro Cassese e, per un 37
altro verso, da nuove iniziative. Anche l'impostazione culturale e "tecnica" di queste ultime, peraltro, sembra discostarsi solo parzialmente dal percorso tracciato dal precedente Governo. Complessivamente, l'orientamento redistributivo della politica amministrativa viene riconfermato, indipendentemente dalla riapertura delle tornate contrattuali. La stessa, infatti, va comunque considerata nel quadro di una ciclicità ormai ventennale, il cui continuo ritardo stava ormai provocando una pressione crescente. Pur essendo finalizzate a ridurre la tensione sindacale, le iniziative contrattuali de! Governo hanno però ribadito il divario tra le logiche negoziali di tipo tradizionale ed i propositi di riorganizzazione in chiave aziendale delle amministrazioni già emersi con il ministro Cassese. Altre azioni, invece, come quella relativa all'orario di lavoro, sono finalizzate ad introdurre modificazioni che possono apparire marginali sul piano dell'efficienza organizzativa, ma rivestono un'importante rilevanza simbolica, nella vita delle amministrazioni e nel rapporto tra le stesse e l'opinione pubblica. L'insieme di tali azioni rafforza la trasformazione della politica amministrativa - emersa con le decisioni dei governi Amato e Ciampi - in una molteplicità di issue di tipo !atamente referendario (Fedele 1994). Se tale caratterizzazione non riguarda (ancora) le forme istituzionali delle decisioni,
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la stessa è invece presente nella definizione della posta in gioco, che assume le caratteristiche dei giochi politici di tipo redistributivo e contestualmente chiama in causa l'opinione pubblica come risorsa decisionale. Da un lato le risorse finanziarie decrescenti e, dall'altro, la nuova morfologia del sistema politico rendono suscettibile di processi diretti di comunicazione politica la distribuzione di costi e benefici materiali ed immateriali derivante dalle decisioni di innovazione delle amministrazioni pubbliche. Tali processi, peraltro, si rendono ancora più indispensabili a fronte del ripresentarsi di antiche incertezze e logiche negoziali nel decision-making legislativo. Rispetto alla XI legislatura, infatti, sono tornate problematiche quelle condizioni di "governabilità" dell'arena parlamentare che avevano consentito l'approvazione a larga maggioranza delle politiche amministrative promosse dal Governo Ciampi. Una coalizione instabile e competitiva al suo interno ha riprodotto in alcuni casi quelle dinamiche decisionali di tipo "aggregativo" (March; Olsen 1992) che hanno caratterizzato i governi ed i loro rapporti con l'arena legislativa fino alla X legislatura. La issue delle riforme amministrative trova tutti i partner dell'alleanza di governo solidali sul piano dei valori liberisti, ma il radicamento elettorale ed organizzativo di alcuni di essi - il Msi-An ed il Ccd, in particolare - fra i pubblici di-
pendenti e le loro associazioni "autonome" introduce importanti differenziazioni nei comportamenti politici, sia nell'arena parlamentare, sia in quella dell'esecutivo. L'organizzazione amministrativa, inoltre, costituisce a sua volta un tema trasversale alle altre aree di politiche pubbliche. Nessuno degli attori di governo può dunque disinteressarsi di decisioni che possono influenzare le condizioni di operatività delle strutture di implementazione che lo riguardano più direttamente. Così, non appena il tema fuoriesce dall'ambito istituzionale della decisione di bilancio - laddove le finalità ammissibili delle singole misure ed i tempi di approvazione sono entrambi relativamente certi - il processo tende a farsi più complicato. Un esempio? Al momento di approvare la proroga dei termini per la delega legislativa finalizzata alla riorganizzazione delle amministrazioni centrali, al Senato la Commissione ha modificato il testo proposto dal ministro per la Funzione Pubblica, sottraendo allo stesso la possibilità di istituire nuovi ministeri. Fra i principi cui l'esecutivo dovrebbe ispirarsi è stato introdotto, invece, quello del decentramento di funzioni amministrative verso le Regioni, mentre per il resto sono stati sostanzialmente riconfermati gli indirizzi della delega che era stata precedentemente ottenuta da Sabino Cassese il provvedimento collegato alla finanziaria 1994. Proprio mentre
l'assemblea del Senato si accingeva a votare il provvedimento con una larghissima maggioranza, comprendente anche gran parte delle opposizioni, la presenza di un contrasto in seno all'esecutivo sull'inserimento al suo interno della disciplina dell'autonomia scolastica ha però determinato la richiesta del Governo di un ritorno del disegno di legge in Commissione. In altri termini, è stato sufficiente che ai legislatori fosse comunicata la venuta meno della considerazione degli effetti della delega legislativa ai fini della definizione dei saldi di bilancio, perché l'urgenza della riforma fosse piegata alle necessità dei singoli ministri o delle singole componenti partitiche della coalizione. In un contesto nel quale il repertorio di soluzioni al quale gli attori possono attingere non è illimitato e le arene decisionali si fanno meno governabili, la dimensione espressiva del policymaking sembra dunque destinata a rivestire un'importanza crescente. Oltre che a fattori diversi, l'attuazione lineare delle misure di razionalizzazione delle amministrazioni già impostate, così come l'adozione di nuovi provvedimenti innovativi, sembra perciò essere subordinata alla continuità di una efficace rappresentazione simbolica dell'innovazione. La stessa dovrà continuare ad apparire "punitiva" per la burocrazia, a garanzia di una redistribuzione nella quale i costi, materiali ed immateriali, siano concentrati su di 39
essa, mentre il cambiamento dovrit essere percepito come un vantaggio per i contribuenti. In questa direzi(:ne vanno, ad esempio, le frequenti dichiarazioni rese dal ministro Urb.ni. Lo stesso ha infatti più volte presentato all'opinione pubblica un quadro di alternative nel quale i pubblici dipendenti devono scegliere tra contratti "poveri" e prospettive di riduzione degli organici e conseguenti licenziamenti di massa Questa torsione redistributiva delle politiche amministrative non ha però preso avvio con il primo Governo "liberista". Già gli "indirizzi per la modernizzazione" definiti dal precedente esecutivo (Dipartimento Funzione Pubblica 1993) avevano infatti individuato il referente dell'amministrazione e della stessa politica di innovazione non tanto nel sistema politico, quanto nella collettività e nelle imprese e, dunque, nell'opinione pubblica. Da parte del primo Governo "maggioritario" questa tendenza ha inevitabilmente ricevuto una maggiore accentuazione. E, infatti, quest'ultimo ha posto l'obiettivo di dotare le amministrazioni di una "strategia di servizio, necessaria per soddisfare bisogni collettivi, adattando le prestazioni ai bisogni personalizzati, tenendo sotto osservazione la soddisfazione dei clienti" (Dipartimento Funzione pubblica 1994). Se l'esecutivo - indipendentemente dagli sviluppi della crisi politica - non dovesse essere in grado di man40
tenere attiva questa risorsa, la negoziazione fra i decisori politici e gli interessi dei destinatari - i pubblici dipendenti, la dirigenza amministrativa, i sindacati - potrebbe riprendere quota, limitando gli effetti attesi da riforme finalizzate a ridurre le spese ed incrementare contestualmente il gradimento di un pubblico rappresentato come consumatore di servizi. Il mantenimento di un elevato impatto simbolico della policy non sarà però di per sé sufficiente a determinare un esito soddisfacente delle innovazioni promosse a partire dalla )U legislatura. Decisive si dimostreranno da un lato le risorse di attenzione e di competenza delle quali le istituzioni potranno disporre e, dall'altro, il modo in cui il Governo riuscirà ad ottenere la cooperazione degli attori amministrativi dai quali dipende l'implementazione. L'efficace esercizio di una funzione di leadership nel processo di innovazione dipende anche dalla capacità di offrire agli attori che svolgono ruoli critici delle opportunità di identificazione con gli obiettivi della stessa. Questa potrebbe essere favorita dalle scelte che verranno effettuate al momento di utilizzare la delega legislativa che consente l'istituzione di soggetti indipendenti per la regolazione dei servizi. Questo tipo di innovazione potrebbe consentire, infatti, di affrontare in modo diverso dal passato il problema della dirigenza amministrativa. La stessa è stata indi-
viduata sinora come un fattore frenante dell'innovazione, dal momento che preferisce scambiare la sicurezza dello status contro una ridotta capacità di influenza sui policy-making, rafforzando in tal modo le tendenze alla staticità del sistema. Il "ministero Cassese" ha perciò puntato sulla valorizzazione di un "corpo professionale autonomo", da agevolarsi attraverso una riduzione del numero dei dirigenti e la garanzia di una loro maggiore autonomia nei confronti del potere politico (Dipartimento Funzione Pubblica 1993). Certamente, però, non vi è stato tempo sufficiente perché tale strategia potesse produrre dei risultati. Qualora, invece, il Governo dovesse promuovere un'innovazione strutturale comparabile con il modello delle next steps agencies inglesi, la coincidenza tra coloro che subiscono l'impatto organizzativo del cambiamento ed i soggetti attuatori dell'innovazione potrebbe produrre esiti diversi da quelli sinora sperimentati. Alcuni attori, infatti, potrebbero intravedere in un circuito di autonomia, responsabilità e valutazione dei risultati delle opportunità di accrescimento di potere, prestigio e remunerazione, piuttosto che una minaccia alle prerogative consolidate. Ciò consentirebbe al processo di innovazione di trovare delle fonti di alimentazione - una leadership organizzativa - proprio nelle "periferie" del sistema di nuova costi-
tuzione, oltre che nel suo "centro" politico ed istituzionale. Come abbiamo visto, il cambiamento degli attori di governo può determinare variazioni nel rapporto che tali figure istituzionali intrattengono con gli esperti. Il ruolo di questi attori nella policy community delle riforme amministrative è determinante, particolarmente nella fase di ideazione delle soluzioni innovative, ma anche nell'affrontare i problemi che emergono nella fase di implementazione. Il Governo Berlusconi sembra avere incontrato da un lato alcune difficoltà nell'assicurarsi la disponibilità delle tradizionali competenze nelle materie amministrative e, dall'altro, nell'integrare queste ultime con quelle di studiosi ed esperti che erano precedentemente rimasti in posizione defilata, oltre che minoritaria sotto il profilo disciplinare, nell'ambito della comunità della riforma amministrativa. In un possibile nuovo Governo liberista, un parziale turn-over delle competenze tecniche e progettuali messe in campo dall'esecutivo potrebbe essere agevolato dalla inesistente necessità che allo stesso debba accompagnarsi un significativo cambiamento nella modalità di definizione dei problemi e delle soluzioni amministrative. Come si è visto, infatti, un'importante discontinuità con i precedenti cicli di innovazione è già stata marcata nel corso della XI legislatura, per motivi dovuti non solo alle circostanze politi41
che nelle quali hanno potuto operare i governi Amato e Ciampi, ma anche a fattori di trasformazione sociale e culturale più profondi, i quali hanno anticipato alcune delle premesse decisionali necessarie per una riformulazione delle politiche amministrative. Sebbene siano state efficacemente messe in luce le differenziazioni strutturali e "sistemiche" che rendono improponibile la mera trasposizione nelle organizzazioni pubbliche di soluzioni organizzative mutuate dalle imprese private (Battistelli 1992), il proposito di "fare funzionare le amministrazioni pubbliche come aziende" costituisce oggi una premessa culturale diffusa e sostanzialmente non controversa. È il risultato dei mutamenti intervenuti negli orientamenti di valore e nelle modalità di tematizzazioni politiche che sottendono il cambiamento. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, si era progressivamente affermata una "ortodossia" della politica amministrativa fondata sul trinomio "efficienza-efficacia-produttività". Rispetto a tale modello culturale è poi intervenuta un'ulteriore ridefinizione del significato dell'innovazione che, come abbiamo visto, appare oggi caratterizzato anche in Italia dall'medita priorità del risparmio delle risorse. Raramente, tuttavia, i significati cambiano a causa di dinamiche che riguardino unicamente una dimensione di tipo culturale: la trasformazione intervenuta nella cultura dell'innovazione amministrativa è evi42
dentemente da ricondurre anche a variabili di tipo economico, politico ed istituzionale. Queste ultime, tuttavia, continueranno nell'immediato futuro a presentare modalità simili alle attuali, indipendentemente dalla riconferma di una maggioranza parlamentare di centro-destra. Le stesse, perciò, continueranno a fornire legittimazione - anche sul piano della progettazione di soluzioni innovative - a politiche amministrative che difficilmente potranno assumere nuovamente un carattere di tipo distributivo. Infatti, alle ipotesi di smantellamento dello stato sociale che raccolgono consensi crescenti le stesse opposizioni politiche, così come le forze sociali che rappresentano i lavoratori dipendenti, possono opporre solo strategie di rilegittimazione del settore pubblico fondate anch'esse sulla radicale riduzione degli sprechi e dei costi. In conclusione, un cambiamento di fondo nelle politiche amministrative è avvenuto prima della svolta politica che ha portato al governo il "Polo della libertà". Esso appare oggi suscettibile di essere approfondito e portato a conseguenze anche più radicali. A seconda degli sviluppi del ciclo politico, la stagione di innovazione amministrativa potrebbe ricevere indirizzi in parte diversi, ciascuno dei quali potrebbe essere reso problematico da un proprio specifico limite. Un primo orientamento, più linearmente "liberista", avrebbe infatti un maggiore biso-
gno di sostenere il policy-making dell'innovazione con risorse di tipo simbolico. Solo entro certi limiti, però, la riduzione della burocrazia a capro espiatorio può essere compatibile con la necessità di creare anche all'interno delle amministrazioni - oltre che nell'opinione pubblica - un clima favorevole all'innovazione. In un orientamento volto a recuperare o a creare nuovi spazi di legittimazione sociale per il settore pubblico, invece, sembrano permanere le difficoltà del passato nel fuoriuscire da logiche d'azione contraddittorie, come è testimoniato, ad esempio, dall'irrisolto dilemma della rappresentanza - diritti degli utenti o interessi dei dipendenti? - che affligge.il sindacalismo confederale del pubblico impiego. Per un eventuale poio parlamentare alternativo, dunque, i problemi posti dall'insediamento elettorale tra i pubblici dipendenti potrebbero presentarsi in modo sostanzialmente non diverso dal
passato, o dal modo in cui gli stessi si manifestano anche per alcuni partiti dell'attuale coalizione di maggioranza. È ovviamente difficile formulare previsioni sul se ed il come questi diversi indirizzi potranno incontrarsi o confliggere. Ciò che appare certo è che entrambi costituiscono oggi delle varianti all'interno di un unico processo di ridefinizione della "ortodossia" culturale e politica dell'innovazione amministrativa. Lo sbocco di tale processo sembra consistere in una sorta di "paradigma" della riorganizzazione, nel quale i valori e le finalità da un lato, e dall'altro la loro traduzione in specifiche soluzioni organizzative, vengono sostanzialmente condivisi indipendentemente dalla collocazione politica o dalle ascendenze culturali dei diversi attori. Salvo essere poi oggetto di controversie nel momento in cui l'innovazione può esercitare un impatto effettivo su interessi, poteri e identità consolidati.
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Per una pedagogia del riformismo amministrativo di Giuseppe Cogliandro *
Se lo scopo della riforma amministrativa è quello di istituire servizi di supporto capaci di fornire informazioni attendibili sulla base delle quali prendere le decisioni; razionalizzare le strutture, eliminando sovrapposizioni e interferenze; fluidificare le procedure, riducendo i tempi delle decisioni pubbliche; dare responsabilità e autonomia al personale pubblico per aumentarne la resa; introdurre il metodo della misurazione, mediante la costruzione di indicatori semplici, significativi ed attendibili; apprestare meccanismi di autocontrollo volti a rilevare gli eventuali scostamenti tra obiettivi predeterminati e risultati intermedi conseguiti, predisponendo le conseguenti misure correttive; acquisire le migliori risorse umane e materiali al minimo costo; ottimizzare il rapporto input/output, massimizzando il risultato e/o minimizzando l'impiego dei mezzi finanziari; elevare gli standard di qualità dei servizi; adottare tecniche di confronto tra strutture pubbliche per individuare (e diffondere) le performance d'eccellenza; rendere trasparenConsigliere Corte dei conti.
te e partecipata l'attività amministrativa, al fine di migliorare i rapporti con i cittadini; se la riforma amministrativa tende, esplicitamente o implicitamente, consapevolmente o inconsapevolmente, a queste finalità, allora l'approccio deve essere necessariamente sistemico. Deve considerare cioè, in una visione organica, tutti gli aspetti dell'amministrare: organizzativi, procedurali, logistici, sociali (attinenti alle risorse umane), finanziari, contabili (decisione di bilancio, significatività del rendiconto, procedure di spesa) e valutativi (visite ispettive, controlli interni, controlli preventivi sugli atti, controlli esterni sulla gestione). Modificare un solo aspetto, avulso dal contesto, può anche produrre risultati utili sul piano della tempestività o del contenimento dei costi o della trasparenza, eccetera, ma si pone fuori della logica riformistica. L'amministrazione è un sistema complesso, dove tutto si tiene, dove i vari elementi devono combinarsi in un disegno congruente. Organizzazione, procedure, gestione del personale, struttura del bilancio non sono solo parti del sistema strumentali all'esercizio ottimale delle 45
funzioni, ma sono anche tra loro collegate. Concepire questo collegamento come una rete di reciproche relazioni causa-effetto, come un poligono in cui ogni polo è ad un tempo variabile dipendente (da ciascuno degli altri) e variabile indipendente (rispetto a tutti gli altri) sarebbe una forzatura, un'indulgenza all'esprit de géometrié. È più aderente alla realtà delle cose pensare che tra le diverse variabili esistono rapporti di prevalenza, che le relazioni tra i vari elementi sono talvolta forti talvolta deboli, in qualche caso bidirezionali in altri unidirezionali, ora di concorrenza ora di competizione. È comunque certo che tra detti elementi ci sono condizionamenti ed influenze. Così, un eccesso di ministeri comporta la titolarità di più amministrazioni della stessa funzione, e quindi la necessità di apprestare strumenti di coordinamento, che possono essere strutturali, come la collegialità, o procedimentali, come l'intesa o il concerto. La stessa equivalenza tra moduli organizzativi e procedimentali si verifica quando si cooptano nell'amministrazione soggetti ad essa estranei, che possono venire coinvolti o con l'inserimento in comitati o commissioni oppure l'intervento nel procedimento con pareri. Il primo strumento è stato utilizzato per realizzare in Italia la cogestione tra amministrazioni e sindacati, specialmente in materia di gestione dei personale; il secondo per realizzare la cogestione tra amministrazioni 46
e commissioni parlamentari su atti di programmazione settoriale, e talvolta su atti amministrativi di particolare rilevanza. E ancora, porre un termine finale entro il quale debbono essere emanati i provvedimenti è certo meritorio, il termine non ha però senso se la procedura resta inutilmente complessa e defatigante. L'attribuzione ai dirigenti della responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi è legittima ed opportuna, a condizione tuttavia che gli stessi abbiano l'autonomia nella gestione delle risorse umane, organizzative e finanziarie; autonomia che si riflette sul piano organizzativo e su quello procedurale. Si può anche ritenere che per determinate funzioni un'unica struttura pubblica accentrata equivalga, in termini di risultati, ad una rete di strutture decentrate: la scelta del modello organizzativo condiziona però le modalità di espletamento dell'attività, anche con riguardo alla logistica (se si opta per la struttura centralizzata occorrerà trovare adeguate soluzioni telematiche per risolvere il problema dell'accesso e la partecipazione dei cittadini: nel qual caso la struttura potrà essere insediata anche in una zona non antropizzata). Questi esempi sono sufficienti per dimostrare l'assunto: la riforma amministrativa tendente al miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza deve tener conto dei nessi, delle interazioni, dei condizionamenti di tutte le com-
ponenti del sistema amministrativo. Deve, cioè, essere progettata secondo una prospettiva organica. Con l'avvertenza che progettare organicamente la riforma amministrativa non significa cambiare immediatamente e simultaneamente organizzazione, procedure, bilancio, criteri di gestione del personale e controlli. Ma disegnare un sistema, coerente nelle sue componenti e funzionale agli obiettivi di efficacia e di efficienza, da realizzarsi in modo flessibile, graduale e sperimentale, secondo una scala di priorità. Il punto merita qualche ulteriore riflessione. Sul vecchio adagio "conoscere per deliberare" sono tutti d'accordo. Meno ovvia è la considerazione che il "conoscere", ossia la disponibilità di un flusso di informazioni complete, affidabili e tempestive, nel caso di sistemi complessi, come le amministrazioni pubbliche, non dipende solamente dalla qualità dell'attività di rilevazione (ed elaborazione) dei dati, ma anche dal livello di funzionalità delle strutture. Nel senso che un'amministrazione male organizzata, con procedure complicate, bilanci poco significativi e controlli formalistici non è assolutamente in grado di produrre statistiche affidabili. Da qui un apparente paradosso: per riformare l'amministrazione sono necessarie informazioni attendibili. La disponibilità di queste informazioni presuppone, però, in una certa misura, un'amministrazione riformata. Sem-
brerebbe di essere in un cui de sac. Per uscirne occorre abbandonare il mito della riforma globale come archetipo astratto, valido per ogni tempo e per tutte le amministrazioni, da realizzare in modo istantaneo e rigido. E immaginare percorsi riformistici da attuare nel tempo per stadi successivi, secondo linee graduate di urgenza, sulla base dei progressivo miglioramento della conoscenza dei fenomeni, dell'esperienza dei risultati conseguiti e delle modifiche dell'ambiente esterno. LA QUESTIONE AMMINISTRATIVA ALLA FINE DEGLI ANNI OTTANTA
All'inizio del 1990, l'organizzazione centrale dello Stato era costituita da 22 ministeri, 4 dipartimenti, 7 aziende autonome, 7 Comitati interministeriali aventi competenze economiche istituite per legge e un numero non conosciuto ma molto grande di altri organi collegiali. Di questa ridondanza strutturale sono note la causa e la conseguenza. La causa era dovuta soprattutto al modo frammentario e dispersivo con cui in Italia si è sempre proceduto alla ripartizione delle funzioni pubbliche: ripartizione effettuata non già con criteri di omogeneità ed esclusività, ma invece in base alla logica del ritaglio (ripartizione di una funzione tra pii amministrazioni) o dell accumulo (attribuzione alla struttura di nuova istituzione di poteri che non sostitui47
scono, ma si aggiungono a quelli detenuti dalle vecchie strutture). La conseguenza principale è stata un rallentamento dei processi decisionali, con il conseguente abbassamento dei livelli di efficienza dell'amministrazione. Questo eccessivo pluralismo amministrativo ha comportato, infatti, l'attivazione di numerosi e defatiganti strumenti di coordinamento. Una recente ricerca, effettuata da chi scrive, ha censito in materia di ambiente ben 44 atti di concerto. In realtà, l'area della concertazione era ed è molto più vasta. Primo, perché l'analisi non aveva carattere esaustivo, essendo limitata alle previsioni normative più significative. Secondo, perché le ipotesi esaminate non costituiscono, nella maggior parte dei casi, singole fattispecie provvedimentali, ma classi di fattispecie (valutazione di impatto ambientale, esercizio di funzioni di coordinamento e di indirizzo, ecc.) oppure concerti multipli, ossia concerti con più ministeri. Terzo, perché la legge n. 349/1986 contempla due ipotesi di concertazione generale, estesa a intere materie (artt. 2.6 e 3). Quarto, perché altri tipi di atti procedimentali, formalmente distinti dal concerto, hanno, sul piano sostanziale, gli stessi effetti cogenti tipici della concertazione. È il caso del parere di soggetti forti, come le Regioni e le commissioni parlamentari. Se, in teoria, il parere non è per definizione "vincolante" (nei rari casi in cui la normativa usa
questa dizione si è in presenza di vere e proprie co-decisioni, e non di pareri), in pratica, i soggetti istituzionali di grande rilievo politico esercitano una influenza spesso irresistibile. E non per ragioni di moral suasion, ma, più banalmente, perché titolari di un potere di veto o di ritorsione. In teoria, e sempre che gli interessi dell'autorità concertante e quelli delle autorità concertate siano omogenei, il concerto è utile, in quanto, senza pregiudicare la tutela dell'interesse di cui è portatrice l'autorità concertante, consente l'introduzione nel procedimento di ulteriori valutazioni, in senso limitativo o estensivo, le quali dovrebbero migliorare la qualità della decisione finale. Nell'esperienza italiana lo strumento ha dato però risultati del tutto negativi, specialmente nell'ipotesi di interessi confliggenti, ipotesi che è poi la più frequente. In questo caso il meccanismo del concerto funziona male. Esso infatti allunga i tempi della decisione pubblica, e non di rado ne impedisce l'adozione. Sul vantaggio che il provvedimento finale dovrebbe trarre dalla più ampia ponderazione degli interessi coinvolti fa premio lo svantaggio della lentezza o del blocco dei processi decisionali. In realtà, anche il vantaggio della maggiore ponderazione risponde più a suggestioni di scuola che all'esperienza concreta. Nel nostro sistema politicoamministrativo la previsione legislati-
va del concerto non sempre rispondeva e risponde a obiettive ragioni di contemperamento di interessi, costituendo spesso invece il mezzo necessario per superare, nelle riunioni tecniche interministeriali di elaborazione degli schemi dei provvedimenti legislativi, le resistenze dei ministeri «controinteressati". Il concerto ha quindi perso le evocazioni che il termine implica: quelle della concordanza, della condivisione, della cooperazione. Era ed è invece utilizzato dalle amministrazioni come potere di contrastare decisioni non gradite. Anche la formula dei comitati interministeriali, preordinati al decongestionamento del Consiglio dei ministri e al coordinamento delle attività dei vari ministeri, ha mancato in concreto i suoi obiettivi, a causa della loro ridondanza (sotto il duplice profilo dell'eccessiva proliferazione e dell'ampia composizione), della sovrapposizione funzionale, della mancanza di raccordi (tra di essi e con il Consiglio dei ministri, in conseguenza della presidenza dei comitati affidata a ministri), dell'espansione dell'attività di gestione (a scapito dell'attività di indirizzo) e dell'affievolimento del loro ruolo decisorio. A quest'ultimo riguardo, secondo la Corte dei conti, nei primi anni Novanta la funzione dei comitati era receduta a mera ratifica dei provvedimenti dei ministri. L'affermazione si basa sull'analisi delle deliberazioni
emanate negli anni 1992 e 1993 dal punto di vista morfologico (istruttoria tecnica, proposte, concerti, pareri, apposizione di condizioni, valutazioni degli interessi, monitoraggio delle azioni, ecc.), dalla quale risulta che i comitati si limitavano a omologare le singole precostituite decisioni ministeriali, senza conoscere i risultati delle precedenti azioni e senza richiedere informazioni sull'attuazione delle azioni future. L'assenza di difformità tra le proposte dei ministri aventi la competenza primaria e la decisione finale dei comitati interministeriali si spiega con il fatto che le riunioni collegiali erano (e sono) precedute da incontri tecnici, volti all'acquisizione preventiva del consenso dei ministri che fanno parte del comitato. Consenso di regola ottenuto, in una logica sinallagmatica, dietro disponibilità a modificare il testo in adesione alle richieste delle varie amministrazioni. La sede collegiale non esprimeva quindi una decisione collettiva, risultante dalla sintesi delle ponderazioni degli interessi in gioco, ma una somma di concerti, vale a dire di valutazioni diverse, derivanti, al di fuori di un quadro di sistematicità, dalle singole partite a due che il ministero proponente doveva disputare con le altre amministrazioni. Ognuna delle quali prendeva in considerazione del documento proposto, per chiederne la modifica, solo la parte di propria perti49
nenza. Con la conseguenza che il testo definitivo, per effetto di questi molteplici rimaneggiamenti, atomisticamente concepiti e ottenuti, perdeva, quand'anche l'avesse avuto originariamente, ogni carattere di coerenza interna. Ad aggravare l'allungamento dei tempi delle decisioni concorrevano poi tre connotati strutturali dell'attività amministrativa: l'accentuato carattere di sequenzialità, la mancanza di un termine finale entro il quale conci udere il procedimento, nonché l'impersonalità e irresponsabilità dell'azione dell'amministrazione. I procedimenti amministrativi erano strutturati come serie sequenziali di atti, rimessi rigidamente alla competenza delle diverse autorità amministrative, sicché l'inerzia di una di queste autorità bloccava l'intero iter. Per completare l'analisi vanno ancora considerati la gestione del personale, la struttura del bilancio e la situazione dei controlli. In ordine al personale, le varie ricerche in materia concordano in due critiche: l'eccessivo costo e l'inefficienza. Secondo la Commissione tecnica per la spesa pubblica, l'incidenza sul prodotto interno lordo della spesa di personale è passata dal 10% del 1970 al 13% dei primi anni Novanta. In particolare, nella seconda metà degli anni Ottanta, l'aumento delle retribuzioni pubbliche ha subito una crescita abnorme, superiore a quella registrata nell'industria e comunque ai limiti di spesa programmati. 50
Quanto al bilancio statale, la stessa Ragioneria generale dello Stato riconosce (Camera dei deputati-Commissione bilancio, 12 ottobre 1994) che esso è poco leggibile ai fini della comprensione delle linee politiche di fondo, in quanto consta di 6000 capitoli di spesa. Lo stesso documento inoltre, come segnala annualmente la Corte dei conti, ha perso di significatività. Infine, esso, nella sua attuale struttura, non consente lo svolgimento adeguato del controllo sulla gestione secondo i parametri di efficacia, economicità ed efficienza. Relativamente, per finire, ai controlli, la situazione che si presentava all'inizio del 1990 era estremamente critica. Il sistema era ed è strutturato a cascata: un organo di rilievo costituzionale (Corte dei conti) per le amministrazioni dello Stato e per quattro delle cinque Regioni a statuto speciale; un organo dello Stato (Commissione statale di controllo) per le amministrazioni regionali; un organo regionale (Comitato regionale di controllo) per le amministrazioni locali. Fra questi tre organi esistevano ed esistono nettissime differenze strutturali, procedurai, organizzative, di garanzia, di professionalità, ecc. Il solo tratto comune era costituito dal modello di controllo che risale, nelle sue linee essenziali, alla legge n. 800/1862, istitutiva della Corte dei conti. Si trattava del controllo preventivo di legittimità su quasi tutti gli atti delle amministrazioni.
Basti pensare che nel 1992 sono stati sottoposti al controllo della Corte ben 3,5 milioni di atti. Che beninteso sono stati esaminati solamente da un punto di vista formale, prescindendo da ogni valutazione, in contrasto con le esperienze degli altri Paesi industrializzati, sui piani dell'efficacia e dell'efficienza.
LA RIFORMA VAGHEGGIATA
Nei primi anni Novanta sono state approvate, sia pure in modo fortunoso e al di fuori di una strategia comune, importanti leggi amministrative che, nel loro insieme, costituiscono il più incisivo pacchetto riformistico della nostra storia repubblicana. Si tratta delle leggi: n. 14211990 concernente l'ordinamento delle autonomie locali; n. 24111990 sul procedimento amministrativo e il diritto di accesso; n. 42111992 contenente la delega al Governo per la revisione della normativa in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale; n. 53711993 che, nel quadro della decisione di bilancio 1994, ha conferito al Governo la delega ad emanare norme sull'organizzazione della pubblica amministrazione e sui procedimenti amministrativi; n. 20/1994 di riforma dei controlli. I punti fondamentali di queste leggi formano un disegno, se non sempre coerente, certamente univoco e forte-
menté innovativo, le cui linee essenziali sono le seguenti: I. razionalizzazione organizzativa. L'articolo 1 della legge n. 53711993 conferisce al Governo la delega ad emanare uno o più decreti legislativi concernenti la soppressione, la fusione e/o il riordino dei ministeri, delle amministrazioni ad ordinamento autonomo, dei servizi tecnici nazionali e dei comitati interministeriali, nonché l'istituzione di organismi indipendenti per la regolazione dei servizi di rilevante interesse pubblico. Il riassetto dell'organizzazione statale deve informarsi in particolare ai seguenti principi: - eliminazione delle duplicazioni organizzative e funzionali; - razionalizzazione della distribuzione delle competenze (in particolare: concernenti l'economia, l'informazione cultura e spettacolo e il governo della spesa); - istituzione di strutture di primo livello sulla base di criteri di omogeneità, complementarità e organicità; - diminuzione dei costi amministrativi e speditezza delle procedure; - istituzione di servizi di supporto e di controllo interno; - decentramento delle funzioni e dei servizi; - agevolazione dell'accesso dei cittadini alla pubblica amministrazione; - attribuzione al Governo ed ai ministri della potestà regolamentare in materia di separazione tra politica e am51
ministrazione, organizzazione di strutture per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità, eliminazione di concerti ed intese, previsione di controlli interni, ridefinizione degli organici. Vengono così per la prima volta tradotti in norme giuridiche, sia pure programmatiche, i principi di razionalità amministrativa enunciati dal notissimo, e disatteso, "Rapporto sui principali problemi dell'Amministrazione dello Stato , presentato ne! novembre 1979 alle Camere dal ministro per la Funzione Pubblica, Massimo Severo Giannini, e successivamente sviluppati dalla Commissione per la ristrutturazione dei poteri centrali, presieduta dal prof. Piga (in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1982, p. 864). In tema va segnalato un recente schema di disegno di legge elaborato dal Ministero del tesoro, che prevede una drastica riduzione dei ministeri (Affari esteri, Interni, Grazia e giustizia, Tesoro ed economia, Difesa, Cultura ed istruzione, Produzione, Affari sociali e Territorio). 2. Il miglioramento dei processi decisionali. Un primo miglioramento riguarda l'accelerazione delle procedure, ed è l'effetto indiretto ma fondamentale della razionalizzazione organizzativa. La riduzione dei soggetti che intervengono nei procedimenti amministrativi non solo abbassa i tempi delle decisioni, migliorando l'efficienza dell'amministrazione, ma ne migliora 52
anche la qualità. La conferma è data, come si è visto, dall'esperienza negativa delle codecisioni, risultanti da concertazioni o da intese tra più autorità amministrative, e delle decisioni collegiali, con particolare riguardo a quelle dei comitati interministeriali. La stessa legge n. 53711993 prevede inoltre l'emanazione di regolamenti governativi per la semplificazione di 123 procedimenti amministrativi, sulla base dei seguenti criteri principali: accorpamento dei procedimenti relativi alla stessa materia; riduzione delle fasi procedimentali, del numero delle amministrazioni intervenienti, degli atti di concerto e di intesa; abbreviazione dei termini per la conclusione dei procedimenti; regolazione uniforme dei procedimenti dello stesso tipo che si svolgono presso strutture amministrative diverse; accelerazione delle procedure di spesa e contabili; individuazione delle responsabilità e delle procedure di verifica e controllo. Su un piano diverso si collocano i meccanismi semplificatori del procedimento amministrativo introdotti dalla legge n. 24111990 (modificata dalla legge n. 53711993). In attuazione del principio secondo cui l'attività amministrativa deve svolgersi in conformità a criteri di legalità, efficacia, economicità, efficienza ("le pubbliche amministrazioni non possono aggravare il procedimento") e trasparenza, la legge prevede: - l'obbligo di concludere il procedi-
mento (e non più solo quindi l'obbligo di "procedere", elaborato dalla giurisprudenza) entro un termine normativamente fissato; - l'obbligo generale di motivazione; - l'obbligo di predeterminare le modalità di esercizio del potere di attribuire vantaggi economici a soggetti pubblici o privati; - l'individuazione del responsabile del procedimento, che ha il compito di dirigere, stimolare e coordinare la istruttoria, adottando il provvedimento finale o facilitandone l'adozione; - l'attenuazione della struttura sequenziale dei procedimenti attraverso la facoltà per l'amministrazione di prescindere dal parere obbligatorio non reso tempestivamente, la prescrizione di sostituire l'organo che omette o ritarda il rilascio della valutazione tecnica con altro organo specializzato, la possibilità di indire conferenze di servizio preordinate all'acquisizione del concerto, intesa, nulla-osta, ecc., attraverso una riunione di rappresentanti qualificati delle Amministrazioni interessate, competenti ad emanare gli atti in questione; - la sostituzione di provvedimenti autorizzativi, condizionati dall'accertamento dei presupposti di legge, con la denuncia di inizio dell'attività da parte dell'interessato all'amministrazione competente; - il meccanismo del silenzio-assenso sulla richiesta del privato di alcuni tipi di autorizzazioni.
3. Gestione delle risorse umane più efficiente. La normativa in materia tende "al contenimento e alla razionalizzazione della spesa", nonché al "miglioramento dell'efficienza e della produttività" (art. 2 legge n. 421/1992). Per conseguire tali obiettivi il d.lgs. n. 2911993 prevede un complesso dispositivo di misure, delle quali si ricordano le più importanti: - l'integrazione graduale della disciplina del lavoro pubblico con la disciplina del lavoro privato (art. 1.1.c), salvi i limiti stabiliti dallo stesso decreto "per il perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione amministrativa sono indirizzate" (art. 2.2); - la separazione dell'attività di indirizzo politico amministrativo dall'attività di gestione amministrativa (artt. 3 e 14, e già art. 51.2 legge n. 142/1990); - l'adozione di "tutte le misure affinché la spesa per ... il personale sia evidente certa e prevedibile nella sua evoluzione" (art. 9.1); - la determinazione delle risorse finanziarie destinate al personale "in base alle compatibilità economico-finanziarie definite nei documenti di programmazione e di bilancio" (art. 9.1) e in particolare il rispetto dei "criteri e limiti delle compatibilità finanziarie" per la determinazione del trattamento economico dei dirigenti" (art. 24.1); - la determinazione delle piante organiche sulla base dei criteri di efficienza e di razionalizzazione del costo della53
voro pubblico (art. 30.1. In tema si veda pure l'art. 3.6 della legge n. 537/1993); - la commisurazione dei "trattamenti economici accessori alla produttività" individuale e collettiva, secondo l'apporto partecipativo di ciascun dipendente (art. 49.3); - la finalizzazione della disciplina contrattuale all'obiettivo di garantire "il maggiore rendimento dei servizi pubblici per la collettività, con il minore onere per essa" (art.50.1); - la sottoposizione degli accordi collettivi al controllo preventivo di legittimità e della compatibilità economica (art. 5 1.2); - il divieto per l'autorità governativa di autorizzare la sottoscrizione di contratti collettivi decentrati che "comportino impegni di spesa eccedenti le disponibilità finanziarie" (art. 51.3); - il divieto per il governo di autorizzare la "sottoscrizione di contratti collettivi che comportano, direttamente o indirettamente, impegni di spesa eccedenti rispetto a quanto stabilito nel documento di programmazione economico-finanziaria" (art. 51.4); - la quantificazione dell'onere derivante dalla contrattazione collettiva (art. 52.2); l'emanazione di direttive per la ripartizione delle risorse disponibili tra i vari comparii (art. 52.2); - l'allegazione ai contratti collettivi di appositi prospetti contenenti "la quantificazione degli oneri nonché l'indicazione della copertura" (art. 52.3);
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- la possibilità di "prorogare l'efficacia temporale del contratto ovvero di sospenderne l'esecuzione, parziale o totale, in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa" (art. 52.3); - la certificazione dei costi esorbitanti dei contratti collettivi (art. 52.3); - il divieto di incrementare gli stanziamenti relativi al personale senza autorizzazione legislativa (art.52.5); l'avvio di "un processo di integrazione dei sistemi informativi delle amministrazioni pubbliche" e della "razionalizzazione delle modalità di pagamento delle retribuzioni" per l'immediata attivazione del sistema di controllo della spesa del personale (art. 63.3); - l"articolazione dei bilanci pubblici a carattere sperimentale" al fine di rappresentare i profili economici, ferme restando le attuali procedure di evidenziazione della spesa ed i relativi sistemi di controllo (art. 64.2); - la predisposizione di una o più relazioni della Corte dei conti "al Parlamento sulla gestione delle risorse finanziarie destinate al personale" (art. 65.4); - l'adozione "di misure correttive idonee a ripristinare l'equilibrio di bilancio" nelle ipotesi di "scostamenti ri spetto agli stanziamenti previsti per le spese destinate al personale" (art. 66.1); - la soppressione degli automatismi che influenzano il trattamento economico (art.72.3).
3. Ristrutturazione del bilancio dello Stato. Come si è visto, l'attuale bilancio statale è costituito da circa 6000 capitoli. L'organizzazione delle spese è quindi troppo disaggregata perché possa costituire una base utile per la deliberazione parlamentare, che deve invece investire gli aspetti fondamentali e significativi della politica di bilancio. Il tema, già da tempo oggetto di dibattito politico e scientifico, è stato recentemente riproposto alla riflessione dalla presentazione, da parte del ministro del Tesoro, di un progetto di ristrutturazione del bilancio, tendente a "rendere chiara, durante il processo di approvazione parlamentare del bilancio, la finalizzazione delle risorse Per conseguire tale obiettivo è prevista l'elaborazione, accanto al bilancio tradizionale, denominato ora amministrativo, di unbilancio politico, che organizza le spese nei titoli seguenti (disaggregati per unità omogenee): I. - Funzioni indivisibili (poteri pubblici, giustizia, sicurezza pubblica, difesa nazionale, relazioni estere); 2. - Servizi (servizi finanziari, istruzione e cultura, trasporti, edilizia); 3. - Interventi sociali (lavoro e previdenza, sanità, immigrati e rifugiati); 4. - Interventi a sostegno della produzione (agricoltura, industria, turismo); 5. - Trasferimenti ad enti territoriali (finanza locale, finanza regionale); 6 - Fondi di riserva (spese impreviste, spese obbligatorie); 7. - Servizio del debito pubblico (interessi, rimborso di prestiti).
Il vero problema del bilancio, al di là dell'architettura e della nomenclatura, è quello del livello ottimale di aggregazione delle spese. Il punto è delicato, perché un livello alto di aggregazione (ossia un numero piccolo di poste) priva la decisione parlamentare di significato, lasciando un ambito discrezionale molto ampio all'Esecutivo. Per contro, una disaggregazione delle spese troppo spinta (ossia un numero eccessivamente elevato di poste) priva il Legislativo delle informazioni valide per una ponderata decisione di bilancio. È diffusa l'opinione che il problema così posto non abbia soluzioni teoriche, in quanto il numero ottimale delle poste di bilancio può essere valutato solo sul piano empirico. Si conviene che non è possibile stabilire a priori il numero ideale di capitoli. È possibile però costruire una griglia, un sistema di corrispondenze tra l'aggregato di bilancio ed altre entità significative (funzionali, programmatiche, organizzative, manageriali) da cui trarre elementi utili per la soluzione del problema. La griglia è basata sul concetto di centro di costo , che individua in aziendalistica una comune unità di produzione alla quale possono essere imputati correttamente i costi sostenuti. Sulla base dei principi contenuti nel d.lgs. n. 2911993, il centro di costo è da intendere come un'unità organizzativa, deputata a realizzare un
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programma, sotto la responsabilità di un dirigente generale, legittimato a gestire, in posizione di autonomia, un proprio budget e un proprio contingente di personale. In termini più distesi occorre prendere le mosse dalla micro-funzione, corrispondente all'attuale "rubrica" del bilancio: per esempio, tutela delle acque, medicina sociale, istruzione elementare, economia montana, ecc. Questa micro-funzione si concretizza in un programma (artt. 14 e 16 d.lgs. n. 29/1993), la cui attuazione è demandata ad un'unità amministrativa (direzione generale, servizio, ecc.) di cui è responsabile un dirigente generale. Il quale dispone a tal fine di una "quota parte del bilancio dell'amministrazione" (unità omogenea, rubrica, ecc.) ed è titolare di "autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo (art. 3 citato d.lgs.). In questa prospettiva l'unità omogenea di bilancio risulterebbe dall'accorpamento di tutti i capitoli di spesa che si riferiscono alla micro-funzione. Pertanto la corrispondenza micro-funzione/programma/unità amministrativa/unità omogenea rappresenta una formula, un algoritmo che consente di individuare il livello ottimale di aggregazione delle spese. Nel senso che le poste di bilancio coincidono con le micro funzioni, che assumono il ruolo di variabili indipendenti. L'aspetto più innovativo rispetto al56
l'attuale assetto concerne il personale, la cui gestione passa dalle direzioni del personale, alle unità amministrative cui sono preposti i dirigenti generali. Conseguentemente, dovranno scomparire dal bilancio le rubriche intestate alle direzioni del personale. Attraverso questa ristrutturazione del bilancio sarà possibile alla fine dell'esercizio calcolare i costi sostenuti dalla varie unità amministrative (centri di costo) incaricate di realizzare i programmi di competenza, ed eventualmente, in caso di risultati negativi, sanzionare il dirigente responsabile (art.20.9 d.lgs. n. 2911993); - modernizzazione dei controlli. La riforma dei controlli è stata delineata con diversi provvedimenti normativi entrati in vigore nel periodo 1990-94. Essa segue tre direttrici. La prima riguarda la riduzione degli atti sottoposti a controllo preventivo di legittimità. Per gli enti locali !'assoggettamento ai Comitati regionali di controllo riguarda solamente le "deliberazioni che la legge riserva ai consigli comunali e provinciali" (art. 45 legge n. 14211990), nonché gli atti che le giunte intendono, di propria iniziativa, sottoporre a controllo e, inoltre, alcuni atti delle giunte su richiesta delle minoranze o del Prefetto. Per le regioni a. statuto ordinario, la sottoposizione alle Commissioni statali di controllo è limitata agli atti fondamentali previsti dai d.lgs. n. 40 e n. 479 del 1993 (atti normativi, di
alta amministrazione, di indirizzo, di programmazione e pianificazione, atti di attuazione di direttive o regolamenti comunitari, contratti collettivi e atti gestionali particolarmente rilevanti). Per lo Stato la materia è disciplinata dall'art. i della legge n. 2011994, secondo cui il controllo della Corte dei conti si esercita esclusivamente su alcuni atti particolarmente importanti. La seconda concerne l'istituzione in tutte le amministrazioni, che ne sono prive, di servizi di controllo interno o nuclei di valutazione, aventi il compito di "verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la realizzazione degli obiettivi, la corretta ed economica gestione delle risorse pubbliche, l'imparzialità ed il buon andamento dell'azione amministrativa" (art. 20 d.lgs. n. 29/1993). La terza infine attiene al controllo sulla gestione di tutte le amministrazioni pubbliche demandato alla Corte dei conti. Ai sensi dell'art. 3.4 della legge n. 20/1994, il controllo ha ad oggetto la gestione del bilancio, la gestione del patrimonio, le gestioni fuori bilancio e i fondi di provenienza comunitaria. Esso si esercita in base a parametri di legittimità, di efficacia (rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge) ed efficienza (valutazione comparativa di costi, modi tempi dello svolgimento dell'attività amministrativa). Un aspetto importante della norma, che ricalca il modello comunitario, è la
costruzione del controllo della Corte come controllo di secondo grado. Nel senso che essa deve valutare (non solo la gestione, ma) anche il funzionamento dei controlli interni, al fine di accertare la loro idoneità a individuare le irregolarità gestionali e segnalare agli organi di direzione le necessarie misure correttive. STATO DI (IN)ArruAzIoNE DELLA RIFORMA
Sul piano organizzativo le sole parti del disegno riformistico generale che hanno trovato attuazione sono quelle disposte direttamente dalla legge n. 53711993 con disposizioni legislative specifiche. Ci si riferisce anzitutto alla soppressione del Ministero dei trasporti e del Ministero della marina mercantile e contestuale istituzione del Ministero dei trasporti e della navigazione, al quale sono stati trasferiti funzioni, uffici, personale e risorse finanziarie dei soppressi ministeri, ad eccezione delle funzioni già esercitate dal Ministero della marina mercantile in materia di tutela dell'ambiente marino che sono state devolute al Ministero dell'ambiente. L'altra significativa modifica strutturale riguarda la soppressione dei Comitati interministeriali competenti in materia di coordinamento della politica industriale (Cii), politica economica estera (CIPEs), programmazione economica nel trasporto (CIPET), prezzi (Cip), cooperazione allo svilup-.
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po (Cics), cinematografia, protezione civile, emigrazione (CIEM), tutela delle acque dall'inquinamento, lotta all'AIDS, scambi di materiale di armamento per la difesa (CIsD), gestione fondo interventi educazione e informazione sanitaria. Sono stati inoltre soppressi tutti i "Comitati interministeriali che prevedano per legge la partecipazione di più ministri o di loro delegati", con esclusione del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (OcR), del Comitato interministeriale per l'indirizzo, il coordinamento e il controllo degli interventi per la salvaguardia di Venezia, del Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza e del Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali. Le funzioni dei Comitati soppressi sono state attribuite al CIPE, ai ministeri con competenza prevalente oppure alle Regioni. Quanto invece alla riorganizzazione dei ministeri, scaduta anticipatamente l')U legislatura, è stato presentato, nel mese di agosto 1994, il disegno di legge governativo As n. 777 che ha prorogato al 31 dicembre 1995 il termine per l'emanazione dei relativi decreti legislativi, che l'art. i della legge n. 53711993 fissava al 30 settembre 1994, lasciando sostanzialmente immutati i criteri direttivi per l'esercizio della potestà legislativa delegata previsti dalla normativa originaria. 58
Intanto, sono state approvate le leggi relative all'ordinamento del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali e alla trasformazione dell'Amministrazione delle poste in ente pubblico economico e connessa riorganizzazione del Ministero. Stanno inoltre per essere convertiti in legge i decreti riguardanti il riordino della competenze in materia di turismo e la trasformazione in enti dell'Azienda per gli interventi nel mercato agricolo e dell'Azienda nazionale autonoma delle strade. Infine, sono in corso altre iniziative legislative concernenti il Ministero dell'ambiente, le università, nonché le Forze armate e il Ministero della difesa. È di tutta evidenza come queste modifiche strutturali, disposte con provvedimenti isolati, al di fuori di una logica di contesto, e le altre (come quella preannunciata della Presidenza del Consiglio dei ministri), che il rinvio del termine per l'emanazione dei decreti legislativi potrà fare apparire necessarie per fronteggiare vere o pretese esigenze improcrastinabili, vanifichino la vagheggiata riforma organica. Il citato disegno di legge n. 777 ha prorogato alla stessa data del 31 dicembre 1995 il termine per l'adozione dei regolamenti governativi per la semplificazione dei procedimenti amministrativi, anche se nel frattempo molti di essi sono stati emanati (tra i quali merita di essere segnalato quello relativo all'accelerazione delle procedure di spesa). Indipendentemente dall'analisi
quantitativa circa l'attuazione delle riforma, si percepisce chiaramente una caduta di tensione. E ciò riguarda non solo la riforma amministrativa in senso stretto, ma anche l'attuazione del d.lgs. n. 2911993 (con riguardo alle parti più innovative, quali la separazione tra attività di indirizzo e attività di gestione, l'autonomo esercizio dei poteri dirigenziali e la determinazione dei carichi di lavoro) e, perfino, della remota legge n. 24111990. Le grandi aspettative di democratizzazione dell'amministrazione alimentate da questa legge, che ha introdotto nell'ordinamento gli strumenti dell'accesso alle informazioni, della trasparenza e della partecipazione, sono state infatti frustrate. Neanche sui fronte dei controlli la situazione giustifica eccessivo ottimismo. A parte un'iniziale ostilità alla riforma della maggioranza dei magistrati della Corte dei conti, il successo del nuovo modello di controllo sulla gestione è condizionato dall'operatività di un buon sistema di controlli interni, ancora latitante, e dalla ristrutturazione dei bilanci pubblici secondo le direzioni prima illustrate, ristrutturazione sulla quale manca oggi il consenso politico-istituzionale. RIFORMA TRADITA O RIFORMA IMMATURA?
Anche se sul modello di riforma amministrativa, quale risulta delineato dalla legge n. 537/1993, esiste il con-
senso della comunità scientifica dalla fine degli anni Settanta, il tema non era mai entrato nell'agenda legislativa, per mancanza di condizioni di agibilità politica. Un progetto riformistico di questa envergure può essere portato a buon fine solo da un governo di grande coalizione sostenuto da una solida e stabile maggioranza, fortemente motivata a dare priorità nel proprio programma alla questione amministrativa: priorità possibile solo in mancanza di altre emergenze, come il risanamento dei conti pubblici, la ripresa economica, la lotta alla criminalità organizzata, eccetera. Sennonch, l'ampiezza della coalizione è ad un tempo presupposto (per il) e ostacolo al successo della riforma. Tanto più grande è infatti il numero dei partiti che costituiscono la maggioranza di governo, tanto più difficile è la messa punto coerente dei criteri direttivi della riforma e tanto più forti sono le resistenze dei detentori del vecchio sistema di potere, contrari al cambiamento. Eppure, contro il generale scetticismo, il Governo Ciampi è riuscito a far approvare dal Parlamento in un breve periodo di tempo la riforma organica dell'amministrazione statale. Che, però, non è stata ancora realizzata. Quali le ragioni del successo legislativo? Quali quelle dell'insuccesso applicativo? La celere applicazione del provvedimento collegato alla finanziaria 1994
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(legge n. 537/1993, che, in apertura, detta le norme (di conferimento della delega) sul riassetto organizzativo e sulla semplificazione dei procedimenti amministrativi è stato reso possibile da un concorso eccezionale, e forse irripetibile, di circostanze favorevoli: l'esistenza di un Governo di garanzia istituzionale, sottratto ai condizionamenti dei potentati amministrativi e ai minuetti e trabocchetti della politique politicienne, grazie ad depotenziamento del Parlamento, determinato dalle note vicende giudiziarie che hanno decapitato la vecchia classe politica, e l'attivismo di un ministro della Funzione Pubblica, di forte carattere, e di grande perizia tecnica, che ha potuto contare sul sostegno militante di quasi tutta la cultura amministrativistica italiana e che ha saputo contrabbandare la riforma amministrativa come anodina "disposizione in materia di spesa". Quanto ai ritardi (e, in generale, alla caduta di tensione) nella realizzazione della riforma, circolano due spiegazioni: una è quella della riforma tradita, l'altra è quella della riforma immatura. La prima tesi attribuisce le difficoltà attuative alle resistenze della burocrazia, con particolare riguardo particolare alla dirigenza, e alla minore attenzione che sui problemi dell'amministrazione mostra il nuovo ceto politico, uscito vittorioso dalle elezioni del marzo 1994. La seconda tesi inclina invece a imputare la causa preva60
lente della ritardata attuazione della riforma al carattere elitario (giacobino, per qualcuno) della sua genesi, al fatto cioè che la riforma è stata imposta dall'alto, senza coinvolgimento degli apparati amministrativi e delle forze politiche e sociali. Si obietta che a nulla sarebbero valse iniziative di tal genere, in quanto esisteva ed esiste una forte opposizione alla riforma. Si può replicare però che proprio il misoneismo della dirigenza pubblica e la contrarietà di ambienti amministrativi e sociali richiedeva un'azione quanto meno di sensibilizzazione e la ricerca di soluzioni concordate. Che senso ha infatti varare d'autorità una complessa riforma, che, contrastando con i convincimenti o con i pregiudizi degli attori deputati ad applicarla, sarà fatalmente condannata all'inattuazione? Tanto più l'azione di coinvolgimento si rivelava necessaria, ove si consideri che la riforma si incentra su valori, quali l'efficacia e l'efficienza, del tutto estranei ad una burocrazia, attenta al formalismo giuridico ed alla rivendicazione puntigliosa delle competenze, ma indifferente ai risultati dell'azione amministrativa e tetragona al cambiamento. Valori quindi, che richiedendo forte impegno personale, identificazione con i fini delle amministrazioni, duttilità intellettuale e professionale, predisposizione all'innovazione, capacità di interagire con le altre componenti della struttura, non possono es-
sere acquisiti con il diktat legislativo e con impazienti colpi di mano. La lezione da trarsi da questa vicenda è che per il riformismo ammini-
strativo non esistono facili scorciatoie. Esso deve percorrere la strada lunga e tortuosa del confronto e del consenso.
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Discutere di pubbliche amministrazioni Un dibattito in redazione
Sergio Lariccia * REALISMO POLITICO E RAZIONALITÀ
Importanti novità caratterizzano il problema dell'amministrazione, un problema a proposito del quale è necessario valutare il significato dei nuovi equilibri che si stanno determinando tra le forze politiche e tra i gruppi di pressione e delle novità che caratterizzano, nel sistema istituzionale, la complessa questione del rapporto tra politica e amministrazione. Naturalmente per parlare dell'amministrazione e della sua riforma occorre considerare i vari aspetti, collegati ai temi dell'organizzazione e delle attività amministrative, che incidono in concreto sulla soluzione (o sulla mancata soluzione) della questione amministrativa nel nostro Paese. Non si può, per esempio valutare il problema dell'amministrazione senza affrontare anche il tema delle magistrature amministrative: in proposito non vi è dubbio che l'indicazione costituzionale del decentramento della giurisdizione amministrativa e l'attuazione del principio contenuto nell'art. 125 comma 2 cost. hanno rap-
Ordinario di Diritto Amministrativo, Università La Sapienza di Roma. 62
presentato un fattore determinante che ha notevolmente influito sulle tendenze dell'attività amministrativa in Italia, se è vero quanto giustamente si preoccupava sempre di sottolineare Mario Nigro, che il compito, affidato al giudice amministrativo, di "ricostruire" l'esecizio del jotere che considera corretto non soltanto costituisce esso stesso un'attività che, dal punto di vista sostanziale, è molto simile a quella che svolge l'amministrazione, ma si inquadra nella stessa dinamica dell'esercizio del potere amministrativo, in quanto quella "ricostruzione" viene eseguita al fine di indirizzare o vincolare la futura azione amministrativa. Molte delle novità che hanno caratterizzato l'organizzazione amministrativa e l'azione dell'amministrazione negli ultimi decenni trovano un loro riferimento nella previsione di alcuni tra i più significativi principi contenuti nella Costituzione. Così, per fare soltanto un esempio, nelle norme che prefigurano la società italiana come una società democratica e pluralista; un tema a proposito del quale molte considerazioni si potrebbero fare sul significato da attribuire ad un termine come quello di "pluralismo" che consente non poche ambiguità, come quella, assai frequente, fra pluralismo delle istituzioni e.pluralismo nelle istituzioni.
Il principio pluralistico ha molto influito sui modo di concepire il fenomeno associativo: è sufficiente pensare al grande rilievo che, nella tutela di interessi superindividuali, hanno assunto negli ultimi vent'anni le associazioni ambientalistiche, la cui azione, costante ed efficace, ha portato ad un'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale tendente ad affermare una protezione anche giurisdizionale ditali situazioni giuridiche soggettive e ad inserire i "nuovi" interessi nell'area della giurisdizione senza determinarne un'alterazione dei caratteri fondamentali. Le norme della Costituzione in tema di amministrazione, come è noto, non sono soltanto quelle degli articoli 97 e 98, come si potrebbe desumere dall'intitolazione della sezione seconda del titolo terzo della parte seconda sull"ordinamento della repubblica": è sufficiente pensare al rapporto, giustamente sottolineato a suo tempo da Carlo Esposito, fra gli artt. 3 e 97 cost. e alle conseguenze deducibili dall'impegno attribuito alla repubblica, dall'art. 3 comma 2 cost., di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Un altro aspetto da tenere presente è quello del collegamento tra potere normativo e potere amministrativo. La trasformazione del concetto di "legge" assume notevole importanza per l'esercizio del potere amministrativo: è noto che la legge è attualmente concepita come il prodotto di una negoziazione legislativa e che l'atto normativo è sempre meno esercizio di un potere affidato
esclusivamente al Parlamento, dovendosi considerare le molte ragioni che hanno portato ad una crisi del concetto di centralità del Parlamento. D'altra parte il fenomeno della negoziazione non riguarda soltanto la legge, giacchè è nota a tutti noi l'importanza che assume il fenomeno dell'ingresso del principio partecipativo sia nell'esercizio del procedimento amministrativo, che è stato disciplinato nella recente legge n. 241 del 1990, sia nell'esercizio dello stesso processo, considerando l'importanza che assume la presenza degli interessi rappresentati dai gruppi associativi. Questo argomento ci potrebbe portare a considerare il tema, drammatico ed attuale, dell'estensione che assume il fenomeno della corruzione nello svolgimento dei compiti affidati ai poteri pubblici: è evidente infatti che, se il fenomeno della negoziazione che caratterizza lo svolgimento delle attività pubbliche non necessariamente porta alla corruzione, occorre tuttavia proporsi di esaminare quali conseguenze abbia determinato e possa determinare l'azione di gruppi di pressione impegnati nel tentativo di ottenere leggi e provvedimenti amministrativi favorevoli al raggiungimento degli obiettivi perseguiti dai gruppi medesimi. Un altro aspetto sul quale vorrei richiamare l'attenzione è collegato allo scarso interesse che, per gli studenti universitari, riveste la prospettiva di un'attività di lavoro nella pubblica amministrazione. Considero questo problema, che assume importanza a proposito del tema del personale della pubblica amministrazione e delle esigenze di una sua adeguata formazione, valutandolo secondo la mia esperienza di professore di "diritto amministrativo" della facoltà di 63
scienze politiche dell'Università di Roma «La Sapienza». Gli studenti di questa facoltà aspirano alla carriera diplomatica, sperano di potere vincere i concorsi per referendari della Camera dei deputati e del Senato o di potere superare l'esame di dottore commercialista: sono molto pochi invece gli studenti che, nel porsi delle prospettive per il futuro, aspirano ad un'attività di lavoro nella pubblica amministrazione, anche per ragioni evidentemente collegate al livello delle retribuzioni previste per le varie carriere. Questa scarsa fiducia nell'importanza che assume il lavoro all'interno delle amministrazioni pubbliche, al confronto con altre attività meglio retribuite e ritenute più prestigiose, scoraggia la scelta dell'indirizzo politico-amministrativo che, rispetto agli altri indirizzi della facoltà (indirizzo politico-internazionale, indirizzo politico-economico, indirizzo storico-politico), prevede insegnamenti, come quelli del "diritto amministrativo" e della "contabilità pubblica", più collegati alle esigenze di formazione del personale amministrativo e non favorisce certamente l'obiettivo di formare sin dall'università giovani in grado di accedere all'amministrazione con una buona preparazione di base. Con più specifico riferimento alla questione delle più recenti riforme della pubblica amministrazione in Italia è nota l'importanza che assume quello che è stato definito da Franco Bassi il passagio dall'"autorità" al "consenso". Mentre fino a non molto tempo fa chi si occupava di problemi riguardanti il "diritto amministrativo" era indotto ad affermare che in tale branca del diritto il concetto base su cui poggiava l'intero sistema fosse quello della pubblica "autorità", cui veniva riconosciuta la titolarità del po64
tere amministrativo, negli anni più recenti sulla scena del nostro "diritto amministrativo" ha fatto ingresso il principio di "partecipazione" che ha assunto un rilievo sempre maggiore, configurandosi come la linea guida dell'attività amministrativa del tempo presente. Anche tale principio ha un riferimento nella Costituzione, in particolare nella disposizione (art. 24) che a tutti attribuisce il diritto di agire in giudizio per la tutela del propri diritti e interessi legittimi e che prevede la difesa come «diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Se esistono interessi diffusi che non hanno organizzazioni che li rappresentino, nella maggior parte dei casi gli interessi si collegano o a singole persone fisiche o ad organizzazioni di privati o a centri di riferimento di interessi pubblici (generali e settoriali). Anche se in concreto il principio ha trovato e trova attuazione con grande difficoltà, in linea teorica ogni portatore di interessi è parte di un procedimento che riguardi tali interessi. La classe politica, nell'esercizio del difficile compito di definizione progettuale delle migliori soluzioni destinate a soddisfare gli interessi della società, non sempre riesce a soddisfare le esigenze della razionalità, considerando il realismo politico che domina i progetti di riforma dell'amministrazione: è dunque importante che gli esperti nelle discipline giuridiche, storiche ed economiche forniscano il loro contributo nel tentativo di razionalizzare ciò che è possibile razionalizzare, al fine di valutare le scelte politiche non sempre razionali o comunque non sempre coerenti con le scelte operate e con gli obbiettivi perseguiti nel passato.
Manin Cara bba * IL SISTEMA POLITICO AL TRAGUARDO: QUALE RUOLO PER LE AMMINISTRAZIONI?
Cerco di porre alcune osservazioni sulla ricostruzione di storia dell'Amministrazione prospettata da Stefano Sepe con grande suggestione. Primo: ho dei dubbi (o delle integrazioni) sul giudizio negativo in materia di impatto della Costituzione sull'amministrazione. Sotto un certo profilo l'affermazione di Sepe è comprovata dagli studi. È certo che i tentativi di innovazione emersi al Ministero della Costituente, sono poi abortiti. Lo schema della "Costituzione amministrativa" è antiquato; i principi e le norme degli artt. 92, 95, 97 e l'art. 100 in materia di controlli, lasciano alla Costituzione un carattere d'innovazione potenziale a dispetto della disattenzione dei costituenti. Le vicende successive della storia amministrativa possono essere incluse in quel capitolo della "Costituzione inattuata", del "principe senza scettro" che è un tema tradizionale della cultura italiana da Calamandrei in poi; tema che non giudico sorpassato (sia pure in un momento in cui si parla di costruire un'altra Costituzione). In sostanza non condivido, per esempio, il pessimismo di alcuni lavori recenti di Sabino Cassese che ritengono indispensabile il ridisegno della Costituzione amministrativa; molte cose si possono ancora Fare nell'ambito della Costituzione così come è. Secondz osservazione, sugli anni Sessanta. L'esperienza degli anni Sessanta merita, nella periodizzazione tentata, un isolamento:
Consigliere Corte dei conti.
sono gli anni nei quali dopo il "miracolo economico" avviene (nel bene e nel male) un "miracolo sociale"; anche con alcuni germi della degenerazione, che è successiva nella periodizzazione che ora sommariamente tenterò di identificare. La nazionalizzazione dell'industria elettrica, la scuola media unica, lo statuto dei lavoratori, la riforma ospedaliera, l'allargamento del sistema pensionistico e la costruzione di un sistema di sicurezza sociale, l'attuazione delle Regioni, sono fra loro legati, e non si tratta di capitoli di poco conto. In sostanza (e questo si iscrive in una riflessione storiografica più generale, che non è il caso di Far qui, sul centro-sinistra Moro-Nenni) quello che va grosso modo dal '61 al '70, è un periodo nel quale sostanzialmente si edifica lo Stato sociale. Dal punto di vista del controllo dei grandi flussi di finanza pubblica non è questo il periodo nel quale comincia il disastro della finanza pubblica. È un periodo in cui si fanno grandi riforme e non si ha il dissesto; può essere che all'interno di alcuni di questi meccanismi ci siano i "prodromi" ed i germi degli sfondamenti successivi; però il fatto è che sostanzialmente il governo dei flussi di finanza pubblica, ancora fino agli inizi degli anni Settanta, è in mano ai governanti. Terzo punto: riflessione sugli anni Settanta. Gli anni Settanta sono quelli che più si avvicinano alla configurazione che la dottrina dà dello "Stato neocorporativo". Si tratta di una tendenza istituzionale che nasce dal fatto che le due maggiori forze politiche (una al Governo una all'opposizione) non possono incontrarsi sul piano generale e costruiscono accordi settore per settore. Nasce una struttura "neocorporativa" di potere
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con i programmi settoriali; il CIPE Si spezza in vari sottocomitati; cresce il peso del sindacato in generale e quello del sindacalismo del pubblico impiego. Questo è un capitolo che sarebbe molto importante isolare. Il Ministero per la funzione pubblica è stato in realtà, più nel male che nel bene, il luogo di contrattazione del Governo col sindacalismo del pubblico impiego. Quarto punto (osservazioni agli anni Ottanta). Questa è l'osservazione più critica rispetto all'esposizione di Stefano Sepe. A me pare che negli anni Ottanta cominci il declino sia dell'illusione giacobina (che col primato della politica guidava gli anni Sessanta), sia della stagione neocorporativa degli anni Settanta. Entra in campo un fattore, che meriterebbe maggiore attenzione: cioè la perdita di sovranità che consegue all'entrata in vigore effettiva nel nostro ordinamento delle regole del gioco poste dalla Comunità europea. Si può parlare di perdita di sovranità senza dare alcuna valutazione negativa; anzi a causa del gioco che si stabilisce tra Europa e Italia credo che questa perdita di sovranità sia una utilissima spinta all'ammodernamento. t un fattore che influenza non tanto gli apparati quanto le regole del gioco della disciplina comunitaria. Questo fenomeno in materia di governo dell'economia è determinante; si crea un clima in cui (per rifarsi alla classica descrizione di Bobbio) l'accento si sposta sulle norme di condotta anziché sulle norme di organizzazione; sulle regole del gioco anziché sulla programmazione. Questa "questione europea" o "perdita di sovranità", (che si accompagna a perdite di sovranità dovute ad altri fenomeni di inter66
nazionalizzazione dell'economia con l'espandersi delle norme di diritto internazionale privato e di istituti e fenomeni non governabili dagli Stati nazionali), coincide con una prima fase di declino della politica almeno nella sua accezione giacobina. Negli anni Ottanta la formula politica che finisce per guidare il Paese a lungo (fino alla vigilia della catastrofe dell'amministrazione negli anni Novanta), che è nota nel giornalismo come "Pentapartito", non ha una capacità aggregante; rivendica - ma rivendica a vuoto senza attaccarsi ad alcun disegno il permanere del primato della politica. In realtà è lì che si pongono i germi di quella caduta del sistema politico che abbiamo vissuto e della quale è prematuro parlare. Quinto. Il quinto punto si lega ai tentativi meritori di riforma dell'Amministrazione dello Stato sociale dei Governi Amato e Ciampi. Si può semplificare citando la legge n. 421 del 1992 come tentativo importante di riforma dello Stato sociale e la legge n. 537 del 1993 come tentativo di imporre il peso della "questione amministrativa". Penso che effettivamente la 421 di Amato e la 1. 537 di Ciampi-Cassese siano interventi di grandissimo rilievo; lo sono perché si muovono in uno spazio vuoto, uno spazio senza politica; hanno maggior fiato ed hanno quindi esiti incerti perché nascono in un momento di debolezza del sindacato e della concertazione sociale dovuto alla crisi economica e ad una fase di vuoto politico. Si apre una possibilità di affermazione di schemi neutrali, di schemi tecnocratici; c'è un peso dell'immaginazione, dell'architettura tecnocratica, anomali rispetto al gioco di una democrazia del consenso. Per esem-
pio la 537 disegna una tale ampiezza di deleghe e di delegificazioni che non ha riscontro nella storia precedente della Repubblica (e difficilmente l'avrà in futuro perché è difficile immaginare, in un sistema maggioritario come in quello proporzionale, un Parlamento che accetti uno spazio di deleghe e delegificazioni così ampio). Connesse alle domande che riguardano la storia dell'Amministrazione sono le domande sulle vie d'uscita dall'attuale situazione. Non si può sottovalutare l'azzeramento di un sistema politico come quello che si è re, gistrato negli anni '921'94. Se ancora non c'è una seconda Repubblica al posto della prima, certo però che il sistema politico è stato distrutto. Nell'usare strumenti di analisi troppo raffinati si corre il rischio di dimenticare il macroscopico, il macigno. Il macigno è questo: che il sistema politico non c'è più. Il problema di oggi, nel momento di cui si afferma la regola maggioritaria, è la critica distruttiva che demonizza due parole: il consociativismo e la lottizzazione. Si rifiuta sia lo schema del governo con il consenso sia lo schema del primato della politica; ma francamente non so immaginare una terza fonte di legittimazione delle decisioni, in democrazia. Si possono trovare equilibri tra il primato giacobino della politica e il primato corporativo della concertazione; e certamente si può contare su uno spazio di sovranità perduta a favore dell'Europa come un fattore positivo che ci richiama alla prevalenza, in questa fase, delle norme di "regole" sulle norme di "organizzazione". Però, poi, un meccanismo di scelte, di decisioni torna comunque ad essere necessario.
Allora, come si fa a indebolire il potere neocorporativo senza tornare al giacobinismo di un nuovo primato della politica, tanto più insidioso in regime maggioritario? Non si può rifiutare lo schema del governo con il consenso e lo schema del primato della politica senza fornire una risposta che non sia implicitamente quella autoritaria. Sesto punto. Tornando agli schemi organizzativi il primo tema, come ho detto, è la prevalenza delle "norme di condotta" sulle "norme di organizzazione"; è questo che porta poi alle autorità indipendenti al posto degli organi programmatori. La parola autorità indipendente significa due cose molto distinte: alcune sono autorità indipendenti in senso proprio cioè si debbono sottrarre completamente al Governo, (anche se maggioritario). Certo c'è una sfera in cui le amministrazioni indipendenti debbono essere veramente tali. Ma questa sfera non può essere dilatata molto; va collegata alla tutela delle libertà garantite dalla Costituzione; quindi al di là delle Magistrature - comprese quelle amministrative - probabilmente solo il campo dell'informazione, della politica monetaria e quello della concorrenza richiedono questo tipo di autorità. Le altre, delle quali si parla (e ne parla meritoriamente l'art. i della 537) in materia di gestione di servizi pubblici, sono Amministrazioni delle quali si deve garantire la neutralità tecnica introducendo all'interno dell'Amministrazione garanzie di indipendenza di valutazione economica e tecnica. Siamo, cioè, a due diverse tipologie di autorità indipendenti; ovviamente una cosa sono quelle autorità che effettivamente debbono stare in una sfera di loro autono67
mia sostanzialmente tutelata dalla Costituzione materiale come accade per le autorità monetarie, come deve accadere per le autorità che si pongono a garanzia del sistema dell'informazione, del sistema mobiliare (Consob) e della concorrenza. Quando invece si parla di poste, di energia, di telecomunicazioni, di ufficio brevetti, di disciplina dei prezzi (tutte materie importanti per le quali lo schema delle direzioni generali tradizionali non va) siamo dinanzi a un problema di tecniche di organizzazione che va tenuto ben distinto da quello delle autorità indipendenti in senso "maggiore". Infine il nodo cruciale della dirigenza politica. Non credo sia superato !'art. 92 della Costituzione. L'autonomia della dirigenza amministrativa non può far venir meno la responsabilità del Ministro dinanzi al Parlamento, almeno finché ragioniamo con lo schema della democrazia parlamentare. Quanto alla reale esperienza amministrativa ha ragione Sepe quando ci ricorda che non si è fatto niente; si sono fatte delle chiacchiere, ma l'autonomia della dirigenza non esiste. Siamo in quel capitolo vero e determinante per le riflessioni sull'Amministrazione del divorzio totale fra Gazzetta Ufficiale e reale esperienza amministrativa. Questo divario, che è forte in molti campi, per quanto riguarda la vicenda della dirigenza è assolutamente un baratro; c'è una schizofrenia totale fra disegno della Gazzetta Ufficiale e realtà. Il problema va risolto con un equilibrio maggiore di quello che la moda del momento traccia. Anche a costo di apparire molto antiquato nelle mie riflessioni, continuo a pensare che finché parliamo di un Governo che risponde a! Parlamento, esiste 68
il problema di rendere possibile al ministro, che risponde dinanzi a! Parlamento, di governare l'apparato amministrativo. Naturalmente non tornando al mito giacobino del primato della politica, ma senza immaginare però una società che diventerebbe utopisticamente governata con un filtro magico tra il momento politico ed il momento tecnocratico. Ma questo filtro non esiste. Bisogna tutelare anche il momento della responsabilità politica. C'è un momento di responsabilità politica dinanzi al Parlamento che è ben disegnato dal!'art. 92 della Costituzione. Il problema, semmai, è la formazione e la selezione del personale amministrativo e del personale politico. Aggiungo alla citazione di Sepe il riferimento ai lavori de! Ragionieri sul periodo iniziale della formazione dello Stato unitario, in materia di scambi tra politica ed alta Amministrazione. Oggi, in un momento di ampio ricambio anche dei personale politico potrebbe essere utile un nuovo "scambio" fra dirigenza amministrativa e dirigenza politica. Di fatto c'è un'unica candidatura (dal mondo latu senso delle amministrazioni) ad entrare nella dirigenza politica; ed è posta dalla Magistratura che esercita l'azione penale in forme abbastanza dirompenti, fra l'altro, singolarmente attraverso un passaggio che ha come fondamentale snodo il sistema dei mass-media. Probabilmente un'anagrafe non solo del numero dei parlamentari che escono dalla magistratura, ma anche del loro peso nella gestione della cosa pubblica rivela che il passaggio dalla sfera della gestione di altre funzioni statuali - quella giudiziaria e quella amministrativa - alla politica in senso
proprio, interessa visibilmente, come unico vero fenomeno rilevante, la Magistratura penale. Non mi pare che insieme ai tanti piccoli imprenditori, Forza Italia abbia portato in Parlamento uomini con esperienza amministrativa; dalle seconde file della politica sono emersi collaboratori e "segretari" dei sottosegretari e dei ministri. Ma non uomini dell'amministrazione. Può essere interessante una riflessione sul perché di questa assenza, sul perché la Ragioneria Generale dello Stato, il corpo dei Prefetti, la diplomazia, non esprimono una loro presenza in questo ricambio della classe politica. Anche il ruolo dei "Gabinetti" inventati alla fine del secolo (e il ruolo che hanno acquistato a partire dagli anni Venti le Magistrature amministrative in queste strutture) è utile. Il ritorno ad una "solitudine" della direzione politica del ministro, direttamente con soio la dirigenza interna, suggerisce cautela verso le tendenze a cancellare o depotenziare la struttura dei Gabinetti, come si è venuta sviluppando negli anni fra le due guerre e negli anni della cosiddetta prima Repubblica. Per quanto riguarda il concetto di copertura amministrativa, credo sia istituzionale una schizofrenia tra tempo della decisione politica e percorso attuativo di fattibilità. È vero che questo gap andrebbe ridotto, però non è del tutto superabile. Insomma, Cassese con il "collegato" alla finanziaria 1994 (l.n. 537193) e Amato con la legge 421 del 92 colgono occasioni irripetibili che nascono su un terreno di rapporti di forza politica, di rapporti di consenso sociale che non sempre è possibile far coincidere con quelli di una rigorosa verifica di fattibilità; e forse
le occasioni politiche vanno colte ugualmente, in termini di politica istituzionale. E allora il gap va superato dopo; il problema della copertura amministrativa si ripresenta perché resta comunque vero che dove non si è potuto valutare ex ante va costruita ex post la fattibilità, un percorso, una correzione in corso di esercizio. Pur sostenendo la bontà della strategia di Sabino Cassese, penso che gran parte delle decisioni assunte vanno corrette, dotate di percorsi di fattibilità seria. Ma penso, al tempo stesso, che le critiche rivolte ad una serie di provvedimenti come i decreti attuativi e gli studi per i ministeri (che sono pieni di lacune e fanno vedere tutta la frettolosità con la quale si è lavorato) non eliminano il giudizio positivo sul disegno complessivo. Quindi difenderei il discorso diacronico pi1 che quello sincronico; perché mi sembra in altro modo uno sbaglio come quello che facevamo noi programmatori degli anni Sessanta, quando pensavamo che ci fosse un momento storico in cui si può decidere tutto. Il programma era concepito come un momento in cui si fa un documento e si prendono decisioni strategiche; ma questo momento non c'è, perché il sistema decisionale di una società completa è un continuum; bisogna avere delle strategie ferme; ma le decisioni si prendono quando lo suggeriscono i momenti sia del governo dell'economia sia del governo del consenso. Quindi il problema dei tempi non si può risolvere dicendo "attenzione, facciamo tutto prima" perché non sempre si può fare. Seconda osservazione: considero assolutamente centrale il problema dei limiti culturali delle tecniche di governo dell'economia legate alla macro-economia e (per intender69
si) alla macro-finanza pubblica cioè al governo e alla valutazione ex ante delle grandezze di finanza pubblica in sede di analisi macro-economica. Che questi ci siano va benissimo (ed è una fortuna che, almeno su questo terreno, sia l'autorità monetaria, sia la cultura accademica, sia i vari consiglieri del principe presso i ministri economici siano, in materia, all'altezza dei maggiori Paesi industrializzati). È vero, però, che parlando di riforma dell'amministrazione il problema è quello per cui bisogna levarsi di torno l'idea che ci sia un rapporto diretto, conseguenziale e logico - percorribile attraverso tecniche analitiche scientificamente persuasive - fra analisi macro e analisi micro: ci saranno sì dei collegamenti ma il divario, è in definitiva, colmanto dalla politica e dal buon senso. Ricerche che tentano di costruire quadri sistematici che passano dall'analisi macroeconomica fino all'analisi micro sono, allo stato attuale delle discipline economiche, inaffidabili. I due mondi di tecniche di analisi sono separati; in materia di strumenti di analisi microeconomjca nell'amministrazione c'è un vuoto quasi totale. Anche la Corte dei conti e la Ragioneria esprimono una cultura contabile-finanziaria; anche nel mondo accademico e nel mondo delle professioni, quel passaggio (che in altri Paesi è avvenuto) dalla cultura delle discipline aziendalistiche, ad un'applicazione di queste tecniche alle pubbliche amministrazioni, è molto depresso. Insomma le discipline economiche e sociologiche di studi sull'amministrazione sono indietro; abbiamo molti giuristi ma pochi studiosi di "public amministration"; in questo senso ha molti meriti la scuola di Sabino Cassese che si è spinta su questo terreno, così come 70
la scuola di Bologna (Freddi, Mortara); ma complessivamente è un ambiente povero. Credo che anche nel mondo delle professioni lo studio delle scienze dell'amministrazione sia indietro. È quindi una difficoltà obiettiva seria; bisogna partire con "manuali" elementari ed avviare un difficile nuovo cammino. Bisogna iniziare un percorso serio, sapendo che le difficoltà sono enormi, probabilmente, costruendo una manualistica che parta dal dato sicuro di una cultura finanziaria e contabile per passare a fornire gli strumenti di analisi economica della gestione finanziaria e dell'azione amministrativa. È una sfida molto grande che implica un'azione nei confronti della cultura esterna e all'interno dell'amministrazione dove c'è da svolgere un lavoro molto impegnativo.
Antonio Di Majo * IL RAPPORTO CON L'ECONOMIA
La mia formazione culturale, di economista che si occupa dei problemi della pubblica amministrazione, nella tradizione di quella disciplina che in Italia si definisce "Scienza delle Finanze", mi conduce ad alcune riflessioni sugli aspetti economici delle questioni sollevate. Va detto, in generale, che mentre si è sviluppata una connessione di rilievo tra storia dell'amministrazione e discipline giuridiche, non vi è stata un altrettanto fruttuosa interazione tra storia dell'amministrazione
• Ordinario Scienze delle Finanze, Università di Firenze.
e discipline economiche. Solo negli ultimi tempi gli economisti, anche sotto la spinta della scuola di "Public Choice" (il cui caposcuola riconosciuto è il premio Nobel per l'economia James Buchanan), hanno intensificato gli studi sul funzionamento "interno" degli enti pubblici. Un'intensificazione di questi studi, secondo diversi approcci e punti di vista, gioverà sicuramente a una migliore comprensione dell'economia dell'organizzazione pubblica. Indubbiamente, se si guarda al "peso" relativo del settore pubblico rispetto al complesso dell'economia, ormai nei grandi Paesi europei (e mi riferisco alla Francia, alla Germania, alla Gran Bretagna e all'Italia) si ritrovano valori non molto diversi, sia se si adotta il metro delle spese pubbliche complessive (escludendo quelle per interessi sul debito pubblico), sia se si sceglie, invece, il metro degli occupati sul totale delle occupazioni civili. Se si considerano gli ultimi cento anni, si possono in realtà individuare in questi Paesi percorsi standard di crescita del peso del settore pubblico. Tuttavia, se il punto di arrivo è analogo, non sono stati identici i percorsi, specialmente se si escludono dall'osservazione le spese militari. In questo senso si può dire che l'Italia, sotto certi aspetti, ha rappresentato un caso di "late comer"; è evidente questa caratteristica nelle spese per l'istruzione, ma anche, in certa misura, nelle altre spese del "welfare state»'. La crescita della quota del prodotto complessivo assorbita dalle esigenze delle pubbliche amministrazioni è stata variamente spiegata, con riferimento ai Paesi economicamente sviluppati. Sul finire del secolo scorso, questa tendenza era stata rilevata da un socialista della catte-
dra, Adolf Wagner, che l'aveva definita, con eccessiva enfasi, "la legge della crescente espansione del settore pubblico'». Essa si basava sull'osservazione delle interrelazioni tra la crescita delle attività di mercato (private) e quelle delle attività pubbliche; si trattava di un'analisi articolata che comprendeva: la necessità di maggiori attività legislative e regolamentative connesse con la complessità crescente dei rapporti economici privati; le maggiori esternalità negative (diseconomie esterne) legate al procedere dell'industrializzazione; la caratteristica di beni "superiori" (ossia la cui domanda cresce pitL che proporzionalmente al crescere del reddito) di molti servizi sociali » la cui disponibilità (almeno a quei tempi) il mercato non era in grado di fornire in condizioni di efficienza economica. Le osservazioni di Wagner, sorrette dalla visione (tipica della scuola di Scienza delle Finanze di lingua tedesca) organicistica dello Stato, vedevano come ineluttabile la crescita della spesa pubblica. Anche se solo in prima approssimazione, i fatti sembrano avergli dato ragione. Altre teorie economiche hanno cercato di spiegare tale crescita; tra queste particolarmente rilevante mi sembra, per l'enfasi posta sul lato dell'offerta (produzione), quella di Baumol. Se si accetta qualche semplificazione, questo economista distingue le produzioni in cui sono possibili forti aumenti di produttività (anche per le innovazioni tecnologiche) dalle produzioni in cui progressi equivalenti non sono possibili. In questa categoria rientrano molti percorsi produttivi della pubblica amministrazione; si tratta in genere di produzioni "labour intensive", ossia ad alta presenza del fattore lavoro. Si pensi, ad esempio, alla scuola che richiede la presenza diffusa di inse71
gnanti - alla giustizia, ecc., Baumol ricorre all'esempio, molto noto, dell'esecuzione di "pezzi" musicali: un quartetto di Bach non può essere eseguito con un numero minore di musicisti. D'altro canto, se il costo orario di un musicista era cento anni fa pari a quello di un occupato dell'industria, nei frattempo l'aumento di produttività, concentrato nell'industria manifatturiera, ha consentito di moltiplicare la retribuzione reale di quest'ultimo. Ma non si può pensare di retribuire un musicista con la stessa paga di cento anni fa solo perché in quel settore non è stato realizzato alcun aumento diretto di produttività. Di conseguenza, è attraverso l'attività di entrate e spese pubbliche che è possibile ancora assicurare una diffusa esecuzione delle attività musicali; altrimenti, con le retribuzioni attuali, il prezzo di mercato della "musica" sarebbe proibitivo, non essendo ammissibile che il violinista possa avere una retribuzione pari a una quota infìma, ad esempio, di quella di un operaio metalmeccanico. È vero che non è possibile parlare genericamente di un processo produttivo della pubblica amministrazione; le produzioni sono numerose e differenziate. La rivoluzione informatica ha consentito di realizzare in molti di questi processi aumenti di produttività in precedenza impensabili (ad esempio nei servizi delle Anagrafi), ma resta pur sempre vero che la "labour intensity" della P.A. è superiore a quella dei settori di produzione per il mercato. È, quindi, illusorio pensare che possano "privatizzarsi" diffusamente le attività proprie dell'amministrazione (non quelle delle imprese pubbliche), anche se miglioramenti di efficienza e introduzione di elementi di mercato sono possibili. 72
Se consideriamo, quindi, l'entità complessiva della spesa per beni "pubblici", è illusorio pensare che possa ridursi. Si può, invece, discutere l'entità della presenza della spesa pubblica (e del consumo pubblico) nei campi della redistribuzione del reddito (principalmente la spesa pensionistica). Ma, se non è drammatico il livello attuale del complesso della spesa pubblica, la domanda da porsi è se a questo impegno finanziario corrispondono livelli sostanziali di offerta di servizi agli utenti, analoghi a quelli che con la stessa spesa ottengono i cittadini-utenti degli altri grandi Paesi europei (Francia, Germania, ecc.). Con la crescita delle dimensioni globali del settore pubblico dell'economia, si è diffusa la sensazione di un utilizzo non efficiente delle risorse, giustificato dall'assenza dei vincoli che il funzionamento del mercato pone in varia misura nel settore privato. Questa sensazione di inefficienza, connesso con l'apparente mancanza di regole di gestione analoghe a quelle imposte dal mercato, è variamente sentita nei Paesi industrializzati; in realtà la gestione delle pubbliche risorse, anche se ci limitiamo a considerare i Paesi europei, appare piuttosto differenziata all'occhio dell'utente. Credo che tutti noi abbiamo avuto la percezione di una diversa gestione economica dell'amministrazione pubblica in Francia e in Gran Bretagna rispetto all'Italia. Certamente il disagio avvertito nel nostro Paese è maggiore di quello dei cittadini francesi o britannici rispetto al funzionamento di quelle amministrazioni. Tuttavia il disagio sussiste, in minor misura, anche in quei Paesi. Si pongono, allora, due ordini di problemi: uno, di tipo più generale, sulle "regole" necessarie ad assicurare una gestio-
ne efficiente della pubblica amministrazione; un altro, di tipo specificamente legato al nostro Paese, che cerchi di spiegare il differenziale di "inefficienza" della nostra amministrazione rispetto ai Paesi europei di analoghe dimensioni economiche e demografiche e analogo "peso" globale della P.A. sull'economia. Il secondo ordine di problemi forse si può spiegare con le caratteristiche del nostro sviluppo economico: l'Italia, rispetto ai Paesi ricordati, è un "late comer" non solo nelle dimensioni relative del settore pubblico, ma anche nell'industrializzazione. Ancora negli anni Cinquanta, in Italia gli occupati nell'agricoltura rappresentavano il 43,9% del totale degli occupati, contro il 28,5 in Francia, il 22,2 in Germania, il 5,1 in Gran Bretagna. Per inciso, fino al 1964 l'anno contabile della Finanza pubblica italiana andava dal l luglio al 30 giugno, in linea con i ritmi dell'anno agricolo! Più in generale lo "Stato" italiano è rimasto più a lungo lo "Stato" di una società contadina, che vive una dimensione temporale completamente diversa da quella delle società industrializzate. La vita è scandita dalla ripetitività, il comportamento è caratterizzato dal rispetto di procedure che assicurano il conseguimento del risultato "medio" produttivo. Non è prevista l'innovazione tecnologica, con la necessità di conseguire risultati diversi legati ai diversi processi produttivi. Non ho spiegazioni esaurienti del differenziale di "efficienza" delle nostre amministrazioni pubbliche; se ne sono tentate molte. Spesso si tratta di semplici descrizioni dello stato di fatto (l'Amministrazione è inefficiente perché non funzionano i "controlli" di efficienza; ma perché non esistono questi "controlli"?). Probabilmente ce la
possiamo cavare con il riferimento solito alla "cultura" del Paese, gattopardesca e non certo riformista; una società ancora molto più diffusamente feudale che borghese, ecc. e, purtroppo, siamo forse nel vero. Naturalmente nei Paesi più avanzati (come, ad esempio, la Francia) "regole" di efficienza delle risorse utilizzate dalle amministrazioni pubbliche esistono e sicuramente si connettono a una diversa "visione" del ruolo dello Stato. Prima di accennare alle "regole" possibili per una gestione "efficiente" delle risorse pubbliche, va ricordato che all"efficienza" in economia sono attribuibili varie accezioni. Dal nostro punto di vista è essenziale distinguere: l'efficienza allocativa; l'efficienza interna (ovvero, ricorrendo alla definizione di Leibenstein, X-efficiency). La prima concerne i "criteri" per ripartire le risorse tra i diversi possibili utilizzi, la seconda, invece, i "criteri" di utilizzo delle risorse assegnate a una certa funzione. È evidente che nei settori di mercato esistono incentivi che "spingono" nella direzione dell'efficienza in entrambe le accezioni, anche se non nell'entità immaginata dal funzionamento di un'economia di mercato perfettamente competitiva, dove la "mano invisibile" assicura risultati "ottimi". Ma nei settori non di mercato, questi incentivi non operano necessariamente e occorre pensare ad altri meccanismi. Non è questa la sede per occuparsi dei meccanismi necessari ad assicurare l'efficienza allocativa; esiste, come è noto, una letteratura sterminata di Scienza delle Finanze, che ammette approcci differenziati e ad essa si può rimandare. È sul secondo tipo di efficienza che vorrei soffermarmi brevemente, cercando di sug73
gerire qualche spiegazione del "disagio", avvertito diffusamente in molti Paesi, sui funzionamento delle amministrazioni pubbliche, ma anche per contribuire a chiarire perché, ad esempio, la spesa aggregata per la pubblica istruzione non si discosta in Italia significativamente da quella francese (allocazione delle risorse), ma si ha la diffusa sensazione che non sia organizzata altrettanto bene e si rifletta, nel nostro Paese, in un "prodotto" istruzione inferiore (efficienza "interna"). Ovviamente l'interesse per regole di efficienza economica cresce con la crescita della quota di risorse utilizzate dalle amministrazioni pubbliche; per le ragioni ricordate prima, l'assenza dei vincoli e degli incentivi connessi con l'esistenza del mercato, rischia di "inceppare" la crescita del sistema economico nel suo complesso. L'interesse per una gestione efficiente delle amministrazioni pubbliche si è, quindi, orientato, anzitutto, sulla possibilità di introdurre regole che diano luogo a incentivi verso l'efficienza analoghi a quelli conseguenti all'operare della "mano invisibile". Data la ricordata alta intensità di lavoro delle produzioni pubbliche, si punta principalmente a incentivi connessi con l'attività di pubblici impiegati e funzionari. Al primi approcci, un po' "naive", sono seguiti negli anni analisi più articolate che hanno posto alcuni punti fermi: Il perseguimento dell'efficienza è difficile in un'amministrazione permeata dall'idea che si esercita solamente un'autorità, ed è, invece, meno rilevante il servizio prestato agli utenti-cittadini. Il paradigma del "princpa1-agent", originariamente legato all'analisi delle relazioni tra i diversi soggetti delle grandi corporation
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(azionisti, managers, ecc.), ha dato un contribuito decisivo per distinguere i diversi obiettivi e quindi i diversi comportamenti dei vari soggetti che contribuiscono a formare e ad attuare le decisioni concernenti le pubbliche amministrazioni. Le relazioni tra i vari "agenti" dell'organizzazione amministrativa sono caratterizzate da diffuse asimmetrie informative con i connessi problemi di "selezione avversa" e di "moral hazard'; di questo bisogna tener conto nel disegno di regole che ambiscano a rafforzare gli incentivi a una gestione più efficiente delle risorse. a Gli obiettivi assegnati alle varie unità organizzative dell'amministrazione sono raramente assimilabili a quelli assegnati all'impresa privata del proprietario, normalmente la massimizzazione del profitto, eventualmente soggetta a certi vincoli di breve periodo e, ovviamente, tenendo conto anche in questo caso dei vari problemi di "principal-agenP. Nell'amministrazione pubblica, non solo per ragioni di difficoltà di misurazione, l'obiettivo assegnato è meno definito (ad esempio: esercitare il controllo ambientale in modo da ottenere una buona qualità delle acque, compatibilmente con la necessità di non danneggiare lo sviluppo delle imprese coinvolte). Per non dare l'impressione di essere eccessivamente pessimisti sulla possibilità di ottenere risultati in termini di maggiore efficienza delle amministrazioni pubbliche, va rilevato, però, che esistono attività che occupano un numero rilevante di pubblici impiegati, per le quali non è impossibile adottare schemi di organizzazione e di incentivazione del tutto analoghi a quelli in essere nelle attività private: si pensi a molte attività segretariali, all'esecuzione di attività
misurabili in termini quantitativi come la lavorazione delle dichiarazioni dei redditi, ecc. Ma questi compiti possono essere organizzati con gli stessi livelli di efficienza delle attività private, solo se l'adozione delle regole necessarie non contrasta con la complessità degli obiettivi dei "princ:at' (funzionari, alti dirigenti, politici, gruppi di pressione esterni, ecc.). Non è possibile addentrarmi in questa sede in questioni molto complesse che richiedono un'adeguata articolazione delle analisi, ma credo che si possa condividere quanto ha recentemente osservato Tirole: "L'interazione tra economia dell'organizzazione e scienza politica si mostrerà sicuramente molto proficua. I modelli di selezione avversa e di "moral hazard' possono essere utilizzati per spiegare la scarsa efficacia degli incentivi e per studiare le specificità degli interessi di carriera, le connivenze, il monitoraggio dell'attività amministrativa pubblica". Naturalmente, come economista, non posso che condividere l'ultima conclusione del saggio di Tirole: "Gli economisti debbono imparare molto dai politologi e dai sociologi, ma posseggono un linguaggio e strumenti di analisi molto potenti che possono consentire una migliore comprensione dell'attività pubblica." Vorrei formulare, ora, qualche osservazione sui principi di "regolamentazione" delle attività produttive da parte delle amministrazioni pubbliche. Le differenze, negli ultimi due decenni, nelle modalità di attuazione della "regulation" negli USA e in Gran Bretagna corrisponde, in realtà, a due visioni molto diverse del ruolo del settore pubblico nella regolamentazione del funzionamento del mercato.
In Gran Bretagna, con i governi diretti dalla Thatcher è prevalsa, in questo settore, T'impostazione economica della scuola "neo-austriaca", che ritiene che i processi di mercato debbano essere, all'interno di certe regole molto generali (legalità, ecc.), lasciati liberi di esplicarsi pienamente. Il caso che pii ci può interessare in questa sede è quello del monopolio; per questa scuola, sulla scia di quanto sosteneva a suo tempo Schumpeter, il monopolio rappresenta un fenomeno necessariamente transitorio. Deriva principalmente dall'innovazione che consente, a chi l'ha realizzata, di ottenere un vantaggio particolare. La successiva diffusione dell'invenzione, se il processo di mercato può svolgersi efficacemente (soprattutto è necessaria un'adeguata organizzazione dei diritti di proprietà) annulla il monopolio e consente una piii larga diffusione dei benefici dell'innovazione. Esistono casi in cui la durata della fase monopolistica può essere molto lunga o, in ogni caso, le regole applicate al funzionamento del mercato non sono completamente efficienti, per cui lo "sfruttamento" del potere di mercato derivante dal grado di monopolio può durare a lungo e, quindi, è opportuno esaminare che i "benefici" del monopolio siano, almeno in parte, trasmessi ai consumatori. È questo il fondamento della regolamentazione, ad esempio, dell'industria elettrica. L'ufficio di regolamentazione autorizza la dinamica delle tariffe elettriche, da parte di imprese ad alto grado di monopolio, sulla base della nota formula RP-x (in cui RP è l'indice generale dei prezzi al dettaglio ed x è l'aumento della produttività il cui beneficio deve essere trasferito agli utenti). La logica economica dei governi conservatori inglesi dell'ultimo decennio non poteva dare
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origine a una legislazione anti-trùst, di cui quindi la Gran Bretagna non è dotata. Naturalmente nulla poteva assicurare un perfetto funzionamento di questo tipo di "regulation" e non mancano critiche molto severe. È soprattutto messa in discussione la possibilità di collusione ("captiviness") tra controllori e controllati, data la potenza economica di questi ultimi (detentori di un elevato potere di monopolio), anche se si tratta di problemi di portata molto minore di quella possibile in Paesi con altra cultura. Altra è l'impostazione degli Stati Uniti. In questo Paese è prevalsa una visione "statica" della struttura di mercato. Il monopolio è visto come "fallimento del mercato", che implica perdite di benessere per la collettività dei consumatori; esso va combattuto sulla base di una legislazione che ne impedisca la formazione (regolando, ad esempio, dettagliatamente i "tetti" di quote di mercato assorbibili da una sola impresa, ecc.). I risultati non sono necessariamente migliori, ma probabilmente l'impostazione britannica urterebbe contro il mito americano della concorrenza misurata dal numero di imprese presenti nel mercato. Non mi pare che, anche in questo campo, in Italia siano finora prevalse impostazioni rigorose; abbiamo introdotto una legislazione anti-trust, che sembra modellata sull'esempio americano, che comincia a funzionare. In seguito alle privatizzazioni dei monopoli pubblici, pare che si voglia far ricorso a "uffici di regolamentazione" ispirati alla logica britannica, con la conseguenza che un'eventuale impresa elettrica privata potrà essere soggetta sia ai limiti di quota di mercato sia alla fissazione delle tariffe sulla base di qualche formula (sulla cui applicazione corretta e trasparente nella 76
realtà italiana, non si possono non nutrire molti dubbi ... ). In conclusione, occorre ribadire che la ricerca della efficienza "interna" delle amministrazioni pubbliche è compito complesso e difficile, perché coinvolge la "cultura" del Paese e non può essere delegata ad alcuna "mano invisibile" compatibile con il perseguimento egoistico dei diversi agenti economici coinvolti. Gli interessi individuali, in presenza anche di asimmetrie informative, conducono al perseguimento degli obiettivi dei vari princ:pal che esercitano autorità nella (o sulla) amministrazione. È l'interesse degli utenti che rischia di essere più facilmente sacrificato, in particolare di quegli utenti che nella veste di contribuenti sostengono il costo dell'Amministrazione. Le regole di funzionamento e controllo interne all'Amministrazione (ad esempio, i grandi ispettorati di settore che non si limitino a controlli giuridico formali) possono aiutare, ma ancora più auspicabile è, per il nostro Paese, una spinta da parte di associazioni di utenti di beni pubblici, purché non si trasformino in altre organizzazioni in cui si esercita un potere "feudale".
Luigi Fiorentino * PUBBLICA AMMINISTRAZIONE-CIrFADINI: ATTRAZIONE FATALE
"I nostri cittadini lavorano con fatica per guadagnare e pretendono la qualità delle macchine che acquistano, pretendono la
Dirigente Ministero del tesoro.
qualità dei locali scolastici così come pretendono la qualità del governo federale e dei programmi amministrativi." Così il senatore John Glenn concludeva un suo intervento di apertura ad un convegno sulla programmazione e il rendimento federale. Il problema centrale che si pone oggi anche in Italia è proprio questo: come rinnovare l'amministrazione per rispondere all'esigenze dei cittadini-utenti. L'amministrazione, sin qui, infatti, è stata costruita in modo tale da rispondere ad altre esigenze, in primo luogo alla domanda di lavoro proveniente da ampie fasce sociali, specialmente meridionali. Inoltre, la crescita della sua dimensione e l'ampliarsi dell'ambito oggettivo della sua azione non sono stati accompagnati da un processo culturale coinvolgente la burocrazia e mirante a superare la cultura giuridica, ancora largamente dominante. Infatti, credo che l'impianto tradizionale dell'amministrazione pubblica sia andato in crisi nel momento in cui si è preteso di gestire l'area dei pubblici servizi con le tecniche ed i metodi tradizionali, causando un diffuso malessere tra gli utenti. Inoltre, il mondo delle imprese ha sempre pii reclamato un'amministrazione efficiente, cioè, in grado di rispondere alle esigenze del mondo della produzione, in un contesto di elevata competitività per l'internazionalizzazione dei mercati. E soprattutto, non è piui disposto a sopportare costi aggiuntivi dovuti alle inefficienze degli apparati pubblici. Inoltre, la crisi finanziaria dello Stato e le recenti frequenti inchieste sulla corruzione hanno reso necessario adottare misure di razionalizzazione e di semplificazione procedurale. Tale programma di rinnovamento
portato avanti, con intensità, negli ultimi anni, ha seguito le seguenti guide line: a) separazione politica-amministrazione; b)
aziendalistica delle amministrazioni pubbliche c) superamento dei controlli carta/ari; d) costruzione di modelli amministrativi a misura di utenziz, e) progressiva privatizzazione dei servizi pubblici. Negli ultimi anni numerosi provvedimenti legislativi hanno riproposto il principio di separazione politica = amministrazione, peraltro già introdotto, nel lontano 1972, con il d.P.R. 748. L'obiettivo dichiarato dal legislatore è quello di separare l'ambito riservato all'amministrazione, dall'ambito proprio della burocrazia. La classe politica, secondo tale indirizzo, dovrebbe fissare gli obiettivi, predisporre i programmi e vigilare sull'esecuzione degli stessi. La burocrazia, invece, dovrebbe gestire le risorse (umane, finanziarie e strumentali) per il raggiungimento degli obiettivi fissati. Al di là di ogni ulteriore valutazione, il problema prioritario che si pone riguarda la maturità degli "attori" interessati a porre in discussione prassi consolidate e reciproche convenienze. È, infatti, non chiaro come una classe di governo, (della prima ma anche della cosiddetta "seconda Repubblica") che ha costruito, le proprie fortune, anche, mediante un uso distorto delle strutture pubbliche, possa reinventarsi un ruolo, senz'altro pi1 nobile ma, secondo una visione pragmatica, non moltiplicatore di consenso. Il discorso sulla burocrazia è inscindibilmente e prevalentemente legato a quello sviluppato in relazione al ceto politico. Infatti, perché il principio di cui si sta discorrendo, da norma diventi realtà operante, occorre che i vertici politici delle ammini77
strazioni abbiano la concreta volontà di mutare metodi di gestione e pongano in essere gli atti necessari per attuare i! principio. Il problema della cultura e della psicologia della burocrazia è fondamentale, ma ritengo che non costituiscano un ostacolo; occorre, infatti, una mentalità che privilegi il raggiungimento del risultato, l'obiettivo, invece, della "confezione" dell'atto e del rispetto della procedura. Si tratta, comunque, di condizioni necessarie ma acquisibili con un processo formativo mirato. Il complesso di tematiche rientranti in quella che è stata defìnita aziendalistica pubblica fu preso in considerazione da Massimo Severo Giannini nel 1979, nel rapporto presentato al Parlamento sui principali problemi dell'amministrazione pubblica. I problemi allora prospettati sono stati solo in parte affrontati. La Legge di contabilità di Stato continua ad essere oggetto di continue deroghe. Nell'ultimo anno, però, una• rilevante novità ha investito il settore. Mi riferisco al d.P.R. 20 aprile 1994, n. 367, che estende alle procedure fÌnanziarie principi fondamentali del procedimento amministrativo quali la trasparenza, la speditezza e la concentrazione delle responsabilità ed ha, inoltre, provveduto ad informatizzare le fasi di spesa e ad istituire il mandato informatico. Si provvede a regolare il tempo dei pagamenti e a semplificare il procedimento per il controllo preventivo effettuato dalle ragionerie. Si tratta, naturalmente, di un processo che, perché diventi patrimonio di apparati di ampie dimensioni, richiede interventi formativi ad hoc e la volontà dei vertici degli apparati di attuare una normativa che costituisce una sfida per essi, segnando una netta inversione di tendenza rispetto al 78
modello disegnato nella legislazione De Stefani. Merita, inoltre, di essere segnalato l'obbligo, previsto in via generale dalla I. 53711994, per le pubbliche amministrazioni, di provvedere alla rilevazione dei carichi di lavoro. Si tratta del tentativo di collegare le piante organiche all'esigenza effettiva risultante dalla misurazione. Siamo in presenza di una autentica rivoluzione per la nostra pubblica amministrazione. Infatti, a differenza del settore privato dove l'inventore dello scient:jìc management, Taylor, nell'ambito di quella che è stata definita "una campagna per l'efficienza", ideò un sistema di controllo della produzione ed introdusse lo studio cronometrico dei tempi, la suddivisione del lavoro in fasi ed un salario ad incentivi, nelle pubbliche amministrazioni italiane la misurazione del lavoro non è diffusa, anzi è sconosciuta. Prevedere, quindi, obblighi che costringano le pubbliche amministrazioni ad interrogarsi sul proprio lavoro, a quantizzare le risorse umane necessarie ad assolvere i compiti istituzionali, è un momento decisivo necessario a mutare la concezione che di esse hanno non solo gli utenti ma gli stessi dipendenti. Occorre, quindi, cogliere quest'occasione per dare un segnale concreto di inversione di tendenza. La problematica dei controlli è sempre stata al centro del dibattito politico culturale che ha avuto ad oggetto l'amministrazione. Nel dopoguerra, in Italia, a differenza di quanto avveniva in altri Paesi, si preferì privilegiare i controlli preventivi di legittimità, invece di introdurre controlli moderni che privilegiassero valutazioni complessive sui risultati. Tale impostazione è stata mantenuta so-
stanzialmente inalterata sino alla riforma dei controlli della Corte dei conti, attuata con la nota legge n. 20 del 1994. Si è giunti dopo anni di intensi dibattiti all'approvazione di tale legge nella consapevolezza che i controlli preventivi, pur garantendo la legittimità dell'azione amministrativa, non sono in grado di assicurarne l'efficienza, l'efficacia, l'economicità. Ciò in quanto essi hanno come obiettivo la valutazione della conformi tà-difformi tà di atti amministrativi rispetto a norme giuridiche. Ed inoltre, svolgendosi su singoli atti, non si riesce a cogliere il "disegno normativo" ad essi sotteso. La recente riforma, nell'intenzione del legislatore, ha come obiettivo il superamento dello stato di cose appena descritto. Tale previsione normativa va comunque raccordata con quella che prevede l'istituzione in ogni pubblica amministrazione dei servizi di controllo interno e con il cosiddetto "sistema delle ragionerie". Occorre, quindi, ridefinire il ruolo dei singoli uffici ed organi, al fine di evitare duplicazioni. Nel caso delle ragionerie, sembra opportuno, inoltre, ridiscuterne il ruolo alla luce dell'evoluzione del sistema dei controlli. La "qualità" dei servizi resi dovrà sempre più rappresentare il prioritario obiettivo delle amministrazioni pubbliche. La soddisfazione dell'utente dovrà essere esaminata analizzando i momenti fondamentali della relazione utente-amministrazione: l'ambiente, il contatto con il personale, il "prodotto" e la comunicazione. La qualità dovrà rappresentare l'obiettivo per ogni amministrazione. I controlli interni dovranno, quindi, essere orientati verso l'analisi della qualità dei servizi resi e ogni scostamento da standard minimi dovrà essere rilevato e
corretto. Tale impostazione è in sintonia, del resto, con le previsioni contenute nella "carta dei servizi" e nella successiva direttiva governativa del 27 gennaio 1994. Essa rappresenta il primo tentativo di fissare le regole fondamentali in ordine alla prestazione dei servizi pubblici, definendo i diritti dei cittadini e gli obblighi degli enti erogatori. Essa si articola in tre parti: a) principi fondamentali cui deve ispirarsi l'erogazione dei servizi pubblici; b) strumenti per l'attuazione ditali principi; c) meccanismi di tutela e di garanzia per la corretta attuazione della carta stessa. Siamo in presenza di un concreto tentativo di costruire un'amministrazione a misura di utenza. Il problema è di far si che, anche per spirito di emulazione, amministrazioni ed enti predispongano carte di settore, innescando in tal modo un processo che coinvolga personale ed utenti (o loro associazioni) nell'adattamento a realtà specifiche dei principi generali contenuti nella citata direttiva governativa. Del resto, gli stessi casi di privatizzazione dei servizi pubblici, al di là delle motivazioni contingenti che spingono i singoli enti a porle in essere, mirano a create le condizioni necessarie per offrire servizi più efficienti. L'interrogativo che, in conclusione, ci si pone è il seguente: come passare all'attuazione delle numerose innovazioni introdotte negli ultimi anni (specialmente nel periodo Ciampi-Cassese)? Numerosi sono gli elementi necessari affinché un corpus normativo si traduca in realtà. In primo luogo occorre che le risorse umane chiamate ad attuarlo siano consapevoli del loro ruolo e condividano gli obiettivi generali del "disegno". Le organizzazioni sindacali dei lavoratori possono avere, quindi, un ruolo es79
senziale nella diffusione di una cultura della riforma. In secondo luogo, occorre un forte "centro" che, attraverso un continuo monitoraggio, segua il processo di attuazione e nei casi di inerzia sia esso stesso a prendere l'iniziativa. Il Dipartimento per la funzione pubblica, sotto la guida del ministro Cassese, ebbe, tra l'altro, questa funzione. In terzo luogo, la questione amministrativa deve costituire una priorità per i! governo. Ciò vuoi dire che esso deve, nella sua organizzazione interna, privilegiare un assetto che permetta un filtro preventivo di ogni iniziativa in materia, onde evitare disarmonie e l'adozione di misure contraddittorie. In conclusione, credo che l'attuazione delle misure sin qui adottate e la necessaria continuazione dell'opera riformatrice abbiano bisogno di un patto tra una classe di governo consapevole, i sindacati dei lavoratori e i destinatari dei servizi resi dalle amministrazioni.
Gian Candido De Martin * RIFORME: ADEGUAMENTI COSTITUZIONALI E RIORDINO DELLE FUNZIONI
Tenterò alcune considerazioni di portata generale, riprendendo il tema della storia della pubblica amministrazione, che mi paiono in qualche modo indispensabili anche di fronte a quello della cosiddetta "copertura amministrativa", per cercare di capire se in realtà le difficoltà delle riforme amministrative, anche sul piano dell'attuazione, non derivino anche (o anzitutto)
'Ordinario di Diritto Pubblico, Luiss.
nel
dall'assenza di un disegno riformatore generale coerente, in grado di creare i presupposti per una concretizzazione degli intenti del legislatore. In altre parole, si tratta di verificare se c'è un disegno generale coerente di riforma dell'amministrazione, di un'amministrazione che si colloca all'interno di questo sistema, di questo ordinamento democratico, ai cui principi di fondo non può non collegarsi. Da questo angolo visuale restano sempre aperte, a mio giudizio, due questioni che vanno valutate attentamente e sulle quali bisogna cercare di fare chiarezza, perché spesso sono fonte di equivoco. Da un lato, in ordine al rapporto tra la riforma amministrativa e la Costituzione, c'è da chiedersise sia sufficiente il quadro costituzionale vigente per una adeguata ed effettiva riforma dell'amministrazione. Dall'altro, resta aperto, anche alla luce di quanto si è qui osservato, l'interrogativo di fondo se sia possibile ed opportuna una riforma "generale" della pubblica amministrazione, ossia se si possa delineare effettivamente uno schema di riferimento complessivo nel cui ambito siano collocabili anche i vari tasselli di riforma, ragionando in tema di fattibilità e copertura. In modo estremamente sintetico, sul primo punto c'è da verificare, a proposito del rapporto tra i cosiddetti rami alti e rami bassi del sistema, se l'auspicata riforma amministrativa sia oggi da considerare in attuazione della Costituzione o se presupponga un adeguamento della Costituzione. In connessione si deve anche valutare se le riforme costituzionali di cui si va da tempo parlando, siano da considerare una variabile necessaria per poter immaginare una riforma amministrativa adeguata alle esigenze pendenti. A tal fine credo si possa so-
stenere che ci sono già presupposti costituzionali utili, ci sono valori costituzionali che consentono di delineare un'amministrazione dello Stato democratico. Soprattutto su due piani. Da un lato, sottolineando l'opzione policentrica operata nella Costituzione, ossia la rottura dell'idea di uno Stato monolitico, e quindi centralista: è il tema delle autonomie e quindi della valorizzazione delle diversità nel sistema, che significa anche avvicinamento del cittadino alle istituzioni e all'amministrazione. Dall'altro, richiamando l'idea di un'amministrazione come organizzazione a servizio del cittadino; in rapporto ai vincoli di scopo che la Costituzione definisce e che debbono essere l'obiettivo costante dell'amministrazione. A me pare, quindi - anche se naturalmente il discorso è qui fortemente molto semplificato - che la cornice costituzionale vigente sia utile e che non ci sia necessità di riforme costituzionali per muoverci nella direzione di una riforma effettiva dell'amministrazione al servizio del cittadino, in una logica che possiamo collocare all'interno di un modello democratico dei pubblici poteri. Certo, oggi si potrebbe immaginare qualche adeguamento della Costituzione. Il nuovo volto dello Stato, in conseguenza della crisi dello Stato tradizionale, sia sul versante interno che su quello esterno, andrebbe adeguatamente recepito in Costituzione, sicuramente con un parziale ripensamento del titolo quinto, ma anche della parte relativa all'organizzazione dei poteri costituzionali, in coerenza con il policentrismo e con l'apertura a dimensioni sovrannazionali. Ma questo è un perfezionamento della Costituzione che può essere condotto in paral-
lelo con il tentativo di attuare sue parti, che già oggi consentono di muoversi nella direzione di una riforma amministrativa seria e coerente. Ferma restando, ovviamente, l'utilità di un rafforzamento del quadro dei principi costituzionali sull'amministrazione, di cui si è tra l'altro utilmente discusso in occasione dei due convegni promossi per presentare le modalità elaborate in proposito nell'ambito del progetto finalizzato "Pubblica Amministrazione", diretto da Sabino Cassese. La persistente difficoltà di porre mano già da tempo alla riforma amministrativa è, d'altra parte, lo specchio evidente di una carenza culturale che contraddistingue non solo chi opera nella PA., ma anche il legislatore e spesso anche gli studiosi dell'amministrazione, i quali raramente si sono dedicati ad approfondire le condizioni per poter organicamente porre mano alla riforma del sistema amministrativo nel nostro ordinamento dopo l'entrata in vigore della Costituzione. E il peso di questa carenza culturale continua a vedersi: la cultura del centralismo, la cultura dell'uniformità sono ricorrenti. Basta aprire una Gazzetta Ufficiale: nonostante siano intervenute la legge 142 e la legge 241, si continua ad osservare come riemerga nel legislatore, ma anche in chi anima in qualche modo il dibattito riformatore, una cultura dell'amministrazione che alla luce dei principi costituzionali avrebbe dovuto essere da tempo radicalmente trasformata. In questo senso aveva ragione Mortati quando, già venti anni fa, metteva in guardia da coloro i quali chiedevano riforme della Costituzione per poter concretare riforme dell'amministrazione e osservava in modo molto esplicito che le ragioni delle difficoltà di una riforma am-
ministrativa non stavano in una carenza del quadro costituzionale ma nella situazione di fatto e nella strumentazione culturale che ostacolavano l'avvio di un serio processo riformatore. possibile, se non indispensabile, immaginare di lavorare intorno ad un disegno generale di riforma dell'amministrazione, nel quale collocare specifici tasselli da attuare eventualmente in modo graduato? Credo che sia imprescindibile avere un disegno generale coerente, che parta anche da premesse di ordine costituzionale. Fino al 1990 nel nostro sistema, nonostante il quadro costituzionale, non si è fatto sostanzialmente niente di organico. Qualche intervento erratico o comunque parziale. Si è anche sprecata l'occasione della regio nalizzazio ne del sistema, che si è anzi in larga misura trasformata in un appesantimento ulteriore della macchina amministrativa, con una sostanziale larga vanificazione dello stesso principio di autonomia locale. Interventi quindi assai poco risolutivi, per resistenze interne ed esterne all'amministrazione. Poi si è arrivati ad una "svolta", o almeno all'apparente inizio di una vera e propria "rivoluzione", con l'approvazione di tre provvedimenti legislativi dal 1990 in poi sicuramente utili, anche se non esenti dai vari limiti. Credo infatti che la I. 142, la I. 241 e il decreto n. 29 siano altrettante espressioni, sia pure non sempre tra di loro coordinate, di un percorso che si inquadra coerentemente nella cornice costituzionale a cui facevo cenno. Quindi si sono introdotti tre elementi nuovi di riferimento che avrebbero potuto cambiare almeno il processo di avvicinamento alla riforma amministrativa. La 1. 142 si fonda realmente in modo cor-
retto, finalmente, sul principio di autonomia, rovesciando la logica del centralismo uniforme. Si parte dalla sussidiarietà nell'organizzazione dei pubblici poteri e dal riconoscimento di spazi consistenti di autorganizzazione, si apre la sfida degli statuti e dei regolamenti, con poca attribuzione effettiva di un ruolo proprio all'amministrazione locale, mettendo in primo piano i responsabili delle comunità locali. La 1. 241 apre effettivamente una prospettiva del tutto nuova su quelli che Morongiu ha chiamato gli istituti di democrazia amministrativa, frutto dell'idea di un'amministrazione trasparente, responsabile, che deve il più possibile tendere a realizzare l'accordo; quindi un'amministrazione consensuale che deve essere naturalmente anche il più possibile semplificata nel rapporto con il cittadino. Il decreto 29 coglie un'esigenza di fondo, al di là della suggestione della privatizzazione, che poi è solo parziale: emerge nettamente l'idea della responsabilità della dirigenza nella amministrazione, con una distinzione - almeno in astratto - molto netta della sfera politica e delle commistioni tra politica e amministrazioni. Tuttavia tutti e tre questi importanti capisaldi di possibili riforme utili in una cornice costituzionale coerente sono ancora sostanzialmente sulla carta: nessuno dei tre ha realmente fruttificato. Certo ci sono "limiti di copertura" in ciascuno di questi tre provvedimenti riformatori, nel senso che non sono stati scritti in modo da facilitarne l'attuazione e lo sviluppo; ad esempio, la 1. 142 contiene delle ambiguità, poiché avvia un processo di potenziale ampia riforma, senza premunirsi adeguatamente rispetto alle difficoltà che mevitabilmente sarebbero potute sorgere nel
rapporto tra Regioni/Enti locali per via di una non chiara dislocazione delle rispettive funzioni. La 1. 241 implica, d'altra parte, una riorganizzazione dell'amministrazione che resta estranea alla portata innovativa ditale legge. Il decreto 29 apre una sfida che in larga misura è condizionata anche dalla configurazione dei futuri contratti collettivi per il pubblico impiego, per i quali non è però ancora possibile prevedere se verranno definiti in tempi ravvicinati e quale effettiva potenzialità riformatrice potranno contenere. Ci sono quindi limiti di copertura per realizzare queste tre riforme, anche se continuo a ritenere che vi siano a monte anche ostacoli di tipo culturale. Vorrei anche osservare che, paradossalmente, si tratta di tre riforme espresse da una cultura politicoamministrativa tuttora minoritaria, pur essendo stata approvata dal Parlamento quasi tutte con maggioranza che si usava dire "bulgara". In realtà, sono riforme che sono espressione di una élite che è riuscita a portare a compimento un procedimento legislativo, ma senza che vi fosse alle spalle un'effettiva preparazione e partecipazione nella fase ideativa delle leggi. Ciò vuole dire, in sostanza, che continua ad essere carente il disegno sull'amministrazione come elemento di riferimento in cui riconoscersi largamente da parte delle componenti che a vario titolo dovrebbero partecipare a una sfida riformatrice di così ampia portata. D'altra parte, anche il tentativo fatto, con intelligenza e tenacia, da Sabino Cassese per affrontare organicamerite il nodo della riforma amministrativa nel collegato alla finanziaria per il 1994, che ha una sua validità come possibile impostazione generale
dei profili organizzativi, in realtà al suo interno mantiene un limite di fondo che va rimosso prima di dare avvio a un procedimento di ripensamento di tutto il sistema dell'amministrazione statale che è alla base della legge 537: la questione del riordino complessivo del sistema delle funzioni nel nostro ordinamento. Come si può infatti immaginare il riordino di tutti i ministeri quando non è ancora chiaro, quando stiamo ancora discutendo di quali funzioni operare lo spostamento a livello regionale o locale? Se non si fa chiarezza in questa questione preliminare della distribuzione dei ruoli tra i vari livelli del sistema, come si può immaginare una riorganizzazione di così ampia portata come quella che il Ministro Cassese ha voluto impostare con il collegato alla legge finanziaria dello scorso anno? Non è certamente immaginabile poter varare oggi una riforma capace di fare fronte a tutte le esigenze. Vorrei, però, che non si perdesse di vista il nodo, forse principale, che la questione è soprattutto di carattere culturale: ossia il ruolo della formazione, anzitutto dei pubblici funzionari e di coloro che a vario titolo devono far parte della RA. Credo che la grande sfida di cui è in qualche modo espressione anche il decreto 29 passi di lì: poter avere funzionari e dirigenti nella P.A. dotati di strumenti culturali e tecnici, adeguati, nonché motivati per assolvere un ruolo di servizio al cittadino, e che abbiano l'opportunità di un aggiornamento nel tempo. È una sfida per la quale in Italia si è finora pensato e fatto molto poco. Altri hanno invece percorso da tempo strade collaudate, mentre da noi siamo ancora agli inizi: la stessa Scuola Superiore 83
della Pubblica Amministrazione, che pure esiste già da qualche anno, resta un'esperienza abbastanza marginale, che non riesce ad aggredire efficacemente la questione nodale della preparazione dei funzionari pubblici: Né ci si può affidare ad iniziative episodiche, pur utili, come quella che si sta avviando con il progetto RIPAM, che riguarda la formazione dei quadri dell'amministrazione locale del Mezzogiorno: a proposito del quale si può osservare che si riesce solo ora ad impostare, in coda agli interventi straordinari per il Mezzogiorno, un problema che avrebbe dovuto essere quello prioritario per cercare di invertire il trend della P.A. nelle realtà meridionali.
Angelo M ari* LA FORMAZIONE COME STRUMENTO DI CAMBIAMENTO
Dalle considerazioni finora svolte, è possibile trarre lo spunto per ulteriori riflessioni intorno all'arcipelago amministrazione. Innanzi tutto, è interessante soffermarsi sul tema della formazione dei funzionari pubblici. Gli studi sociologici si sono sbizzarriti nel tentare di fornire una chiave di lettura per comprendere il rapporto esistente tra percorsi formativi ed attività professionale. Intorno a tale rapporto ruotano tre teorie: formazione come processo di socializzazione, ossia come guida alla percezione del proprio ruolo e della realtà di riferimento; formazione come progressiva inclusione nella classe sociale che esercita il potere; formazione in funzione delle legittima• Funzionario Ministero lavori pubblici. 84
zioni del potere. Soprattutto negli studi giuridici, il giurista opera una distinzione tra conformità/non conformità ai canoni normativi. Tali riflessioni prendono le mosse dalla constatazione che l'attività burocratica assume una forte connotazione politica. I professionisti dell'amministrazione non sono solo burocrati che esprimono competenze "tecniche", ma loro stessi sono espressione del vivere collettivo, modellato da conflitti, valori ed istanze diverse. Così, il modo di essere attori del processo decisionale o del processo di attuazione delle decisioni, può essere un possente strumento per la conservazione del vecchio, attraverso il perpetuarsi di concezioni obsolete, ma può essere anche la via per dare al nuovo una legittimazione sociale (si pensi ai nuovi diritti all'ambiente, alla salute, ecc.) e costituire un significativo strumento di rinnovamento e di trasformazione. Quindi la formazione dei dipendenti pubblici non è solo un problema "pedagogico", ma esso stesso diventa uno strumento di innovazione e riforma dell'agire amministrativo. In questo senso, la formazione deve assumere il significato di gerarchizzazione dei valori, dando ordine e razionalità allo svolgimento delle funzioni amministrative. Intraprendere una carriera nell'amministrazione può assumere allora il significato di una scelta di impegno etico preciso: ossia, attraverso l'esercizio di una professione amministrativa, si può contribuire decisamente al buon funzionamento delle istituzioni. Occorre, pertanto, fornire ai giovani funzionari gli strumenti concettuali per acquisire questa consapevolezza. Passando agli altri temi del dibattito, si può rilevare che chi studia la pubblica ammini-
strazione e studia fenomeni specifici ha l'impressione di essere pervaso da un senso di frustrazione; spesso tali studi pur avendo finalità prescrittive (si procede all'analisi storica e strutturale in funzione di un miglioramento della macchina amministrativa) conducono raramente agli obiettivi che si prefiggono. Quindi, le finalità sono date inevitabilmente dallo stesso studio in quanto tale, sia esso di carattere economico, giuridico storico e così via. Ciò produce una sorta di autoreferenza relazione all'oggetto, agli studiosi, e agli attori. Pertanto, ci si può chiedere se, il problema organizzativo, non sia esso stesso una modalità organizzativa dell'amministrazione, oppure una modalità disorganizzativa. L'autoreferenza di cui si è detto pare comportare l'attrazione all'interno delle strutture amministrative di tutti gli elementi ricordati, per cui tale circostanza costituisce essa stessa un limite. Come può essere superato? Il tema va spostato sulle funzioni. L'amministrazione oltre alle funzioni cosiddette "espresse" svolge molte funzioni "latenti" non ben definite, che derivano da uno stare nel sistema sociale e politico e quindi funzioni attraverso cui si incanala il vero agire amministrativo. Questi elementi "nascosti" sono sicuramente esterni rispetto all'amministrazione, e vanno pertanto considerati per comprendere appieno il fenomeno esaminato. Il limite di chi coltiva questi studi potrebbe ravvisarsi proprio nello stare all'interno dell'apparato, di avere necessariamente a che fare di frequente con l'amministrazione. Se si condivide questa ipotesi, per fornire ulteriori ambiti di approfondimento si può suggerire di intraprendere studi in termini
relazionali (transazionali, per utilizzare il termine nell'accezione psicologica) che potranno essere svolti considerando due evenienze. In primo luogo la relazione interna tra gli elementi del sistema amministrativo, (funzioni, procedure, strutture e flussi finanziari) che però devono ricomprendere anche, l'informazione, la comunicazione, l'informatizzazione. Se necessario approfondire come questi elementi entrano in contatto tra loro, con quali tipi di regole, sia formali che sostanziali. Va poi analizzato il rapporto all'interno degli stessi elementi del sistema amministrativo. Ad esempio i problemi interni del personale, la configurazione delle aree di potere, il governo delle zone d'incertezza e così via, che effetti hanno sull'agire amministrativo e sulla possibilità di attuare qualsivoglia riforma della pubblica amministrazione? Per quanto riguarda il problema dei rapporti esterni, occorre prendere le mosse dalla constatazione che l'amministrazione (o le amministrazioni) sono soggetti tra soggetti. Soggetti politici che si devono relazionare necessariamente con il mondo esterno e quindi con altri fatti reali. Così, il problema politica-amministrazione può essere studiato ed approfondito, come si ricordava prima, anche in riferimento al sistema politico. Ad esempio, l'introduzione del sistema maggioritario ha avuto degli effetti rilevanti. Solo per citare un caso embiematico, in questo contesto, il meccanismo delle autorità amministrative indipendenti, nate per trasportare fuori dall'amministrazione alcune funzioni "terze", non funziona pii, dal momento che c'è un processo ascendente di consenso, per cui ne consegue che la maggioranza parlamentare
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ed i Presidenti delle Camere sono espressione della maggioranza di Governo. Quindi, l'indipendenza non sarà più garantita dall'attribuzione del potere di nomina dei componenti le autorità ai Presidenti medesimi. I nuovi sistemi elettorali incidono anche sul rapporto fra politica e amministrazione. Infatti, il sistema nuovo di elezioni diretta dei sindaci ha fatto sì che molti funzionari siano stati chiamati come assessori. In questo caso, si ripropone una certa "osmosi" anche se diversa rispetto a quella dello Stato ottocentesco, dove il passaggio fra funzionari e vertice politico avveniva nell'ambito dell'amministrazione centrale. C'è ora un passaggio di tipo diverso, verticalizzato, che interessa soggetti pubblici posti su piani diversi che hanno assunto una rilevanza maggiore a seguito delle riforme più recenti, anche elettorali. Lo studio va approfondito anche in funzione di questo tipo di impegno politico. Sono state svolte indagini sociologiche su chi "governa le città", che hanno dimostrato come molti sindaci, molti assessori sono funzionari. Appartengono quindi al personale pubblico che, come è noto, ha molti privilegi derivanti dal fatto di esercitare funzioni politiche rappresentative: aspettative, permessi e così via. Quindi anche questo aspetto rilevante, una sorta di trasferimento verso il basso dell'osmosi fra politica e amministrazione, va sicuramente considerato. Un'altra importante evenienza da esaminare si ravvisa nel ruolo stesso delle persone in quanto cittadini. La frammentazione istituzionale e sociale consente a tutti di occupare posti diversi e, spesso, di stare in conflitto con se stessi (cosiddetti "conflitti di lealtà"). Ad esempio, un iscritto alla Lega Ambien-
RLO
te, che al tempo stesso lavora al Ministero dei lavori pubblici, qualche problema di sintonia deve inevitabilmente porselo. Ciò consente, però, al tempo stesso, una diffusa trasmissione di informazioni, perché il funzionario o dirigente, svolgendo anche altre attività "sociali", (membro di distretto scolastico, socio di un'associazione ambientalista, consigliere comunale, ecc.), attua di fatto una partecipazione trasversale, che lo pone ad immediato contatto con la realtà sociale cui l'amministrazione fa necessariamente riferimento. In conclusione, le circostanze finora ricordate possono costituire alcuni spunti di riflessione da vagliare, valutare ed approfondire per allargare l'ambito di indagine su cui si muovono gli studi sull'amministrazione pubblica.
Igiazio Portelli* UN'AMMINISTRAZIONE PIIJ ELASTICA
Nel campo della fisica molti studiosi ritengono stupide le nostre società perché alloro interno coltivano fattori e variabili che crescono fino al punto da determinare condizioni di elevata crisi, se non addirittura di auto-distruzione. Trasferendo tale concetto ai sistemi istituzionali, sembra facile affermare che in Italia la riforma amministrativa ha tutti i connotati di uno dei problemi da società stupida, e cioè di un sistema caratterizzato da una crescita costante degli apparati e delle norme fino al punto tale da determinare la necessità di una sua revisione profonda per la
Funzionario Ministero degli Interni.
sua obsolescenza e da far crescere nell'opinione pubblica una grave disistima per la farraginosità dei rapporti. Infatti alla complessità degli uffici e degli enti, ormai ampiamente documentata anche nel corso di questo dibattito, si è affiancata la complessità delle disposizioni, giunte alle attuali 150-200 mila, mentre la Francia e la Germania non superano le 5.500. Tali enormità hanno delle loro specifiche pericolose conseguenze perché oggi non si riesce sempre a comprendere quale sia la legislazione vigente né, tantomeno, il soggetto istituzionale competente. Il dato che, poi, mi appare davvero pregiudizievole per il nostro stupido sistema amministrativo è la scarsa considerazione per i risultati da conseguire, ovvero l'assenza di attenzione ai fini e alle procedure stabilite dalla legge, che è quasi sempre considerato l'arrivo, anziché la partenza, per la soluzione di un problema o per l'assolvimento di una funzione o di un servizio. In questo modo può tranquillamente accadere di scoprire, senza suscitare particolare attenzione, che circa il 70% dei Comuni non assolve alla gran parte delle funzioni loro affidate oppure che circa 3 mila Enti locali non esigono, in tutto o in parte, i tributi obbligatori oppure, ancora, che migliaia di amministratori tardano nell'adozione dei regolamenti previsti dalla legge generale sul procedimento amministrativo e da altri importanti provvedimenti legislativi. Invece, limitandoci al solo dato formale, dovremmo essere in presenza, come cittadini, di elevati standard della qualità della vita. La riforma dell'amministrazione non può che essere una riforma della cultura amministrativa dominante, essenzialmente pigra
e disattenta ai valori dei contenuti e del servizio da assolvere. In definitiva mi sembra di intravedere nella complessità del fenomeno un modo di intendere l'amministrazione pubblica per lo pi1 incentrato sull'approssimazione, che viene determinata dalla molteplicità dei soggetti coinvolti nel processo decisionale pubblico. A Berkeley, nel 1973, Pressman e Wildovsky, quando scrissero il loro saggio sull'implementazione, partirono da una constatazione semplice ed obiettiva: non esiste pi1 un sistema amministrativo complesso, come modernamente viene inteso, capace in solitudine di progettare e di risolvere tutti i problemi della convivenza o comunque di indicare e di individuare le migliori regole di funzionamento della società. Nell'esperienza anglosassone si è, allora, avviata una lunga ricerca di sociologia dell'amministrazione per individuare le variabili interne ed esterne al processo decisionale attinenti alla fattibilità delle leggi e alla loro copertura amministrativa. Il Rapporto Renton (1975) stabilisce già alcune regole rigide, a cui deve attenersi il legislatore per assicurare la migliore applicazione delle norme. In Italia sono stati fatti i primi tentativi, redigendo i suggerimenti per la compilazione dei testi amministrativi e delle circolari, ma complessivamente siamo indietro. Al riguardo, la nostra approssimazione è aggravata dalla rigidità dei modelli organizzativi, dalla uniformità legislativa e dalla scarsa considerazione per l'importanza di rispettare il termine, anche perché non valutato in termini di fattibilità, spesso non può che essere indicativo. In questo modo la legge di riforma delle autonomie locali (n. 14211990), rimasta 87
ancora in buona parte inapplicata soprattutto per quanto attiene alle attività economiche nonostante le scadenze indicate dalle disposizioni, è stata indifferente alle dimensioni e alle peculiarità delle provincie e dei comuni, sebbene doveva costituire lo strumento per dare elasticità al sistema e per differenziare le singole realtà, particolarmente nella materia della contabilità e dell'allocazione delle risorse finanziarie. L'uniformità ha una sua forte ragione di esistenza, perché consente di svolgere le funzioni in modo eguale senza cogliere quelle connotazioni particolari, che poi, permettono la positiva incidenza dell'azione amministrativa. L'uniformità esasperata, lungi dall'essere uguaglianza nell'attività della pubblica amministrazione, è un modo semplicistico di amministrare e forse, in definitiva, una comoda scorciatoia. Non è che per questa ragione si vogliono privilegiare forme di diritto particolare, però probabilmente per limitare l'approssimazione del sistema occorrerà prevedere un'amministrazione più elastica. Nell'ordinamento degli enti locali - insisto su questa disciplina perché il comune costituisce l'istituzione in pieno, diretto e continuo contatto con il cittadino - esiste la normativa, ancora sconosciuta ai più, del dissesto finanziario con le stesse identiche procedure per tutte le provincie e i comuni. Eppure almeno due degli enti dissestati - il Comune e la Provincia di Napoli - hanno popolazioni di milioni di abitanti, migliaia di dipendenti da collocare necessariamente in mobilità ed alcune migliaia di miliardi di debiti. Ciò comporta che la procedura di ritorno ai riequilibri economico e finanziario (essenzialmente incentrata sulle maggiori entrate e sulle minori spese) dovrebbe ne-
cessariamente confrontarsi con il ruolo fondamentale di ammortizzatore sociale dell'ente che, semisconosciuto, potrebbe diventare un notevole acceleratore dei conflitti sociali. Lanalisi comparata con le crisi finanziarie delle metropoli di Londra, di New York e di Washington consente di affermare che in quei luoghi la soluzione è stata trovata studiando misure, anche drastiche, ma ben collocate nel contesto locale. Mi sembra chiaro, allora, che un legislatore e una pubblica amministrazione attenti dovrebbero perseguire, stabilendo gli obiettivi, un'azione duttile, ferma nei propositi ma adattabile nelle modalità. Un primo rimedio all'approssimazione è attinente al elraJìing legale. In particolare, l'attuale tecnica legislativa è caratterizzata, tra l'altro, dalla questione delle norme intruse, le quali determinano continui problemi di interpretazione e ancor prima di conoscenza, e dall'altra questione connessa allo stabilire la sanzione più che definire la fattispecie illecita. In questo modo si determinano costanti problemi di interpretazione e, ancor prima, di conoscenza, ma soprattutto si determinano condizioni di instabilità dell'azione amministrativa. Oltre ai temi della nomografìa, è opportuno segnalare le questioni legate alla nozione di legge e al relativo procedimento di formazione. Su lati opposti, ma alla fine convergenti, la legislazione comunitaria e la disciplina delegata modificano la nozione manualistica del concetto di legge ed incidono direttamente sul funzionamento e sulle attività degli apparati burocratici, mentre, per altro verso, la promulgazione di leggi-provvedimento comporta la sostituzione della discrezionalità (Mortati, 1969), operando
una deresponsabilizzazione dell'operatore burocratico. Ma, forse, il danno maggiore, e questa potrebbe essere una delle cause dell'assenza di autorevoli corpi tecnici, è la deresponsabilizzazione dell'attività tecnicoamministrativa, perché quando una leggeprovvedimento si sostituisce tout court alle competenze professionali crea un danno in termini di ricerca, di applicazione di dati scientifici e di motivazione al lavoro. La riforma dell'amministrazione costituisce, senza dubbio, un impegno in piui direzioni e su livelli differenti. Sono convinto che una di queste direzioni deve privilegiare l'aspetto dei risultati, deve sentire impegnato ogni tipo di operatore ad una obbligazione di risultati anziché di mezzi. La responsabilità, così come intesa finora, ha generato un innalzamento del livello di formalismo, alimentando un circolo vizioso che occorre, invece, spezzare. Né si può sottacere che negli ultimi anni è stata avviata una riforma dell'azione amministrativa per opera della giurisprudenza soprattutto civile, allorquando, tra l'altro, ha iniziato a riconoscere in modo ampio le responsabilità precontrattuali, contrattuali ed extracontrattuali a carico della pubblica amministrazione anche nei confronti di quei suoi rami, quali il Ministero della difesa, a cui ratione materiae veniva attribuita una particolare posizione di libertà negoziale. La diretta conseguenza è che nei fatti, decisione dopo decisione, orientamenti giurisprudenziali, ormai consolidati, hanno riformato l'agire amministrativo, creando, prima, e ampliando, poi, la sfera del diritto comune e, per converso, ridimensionando la tradizionale posizione di supremazia dello Stato, peraltro, incisa pure dalla Corte di Giustizia che ha statuito l'importante prin-
cipio per il quale gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili. Si tratta già di una profonda innovazione, che ha comportato una maggiore responsabilità nei comportamenti ed un maggiore rilievo alle aspettative dei soggetti privati da parte della pubblica amministrazione. Mi piacerebbe essere certo che almeno non tutte le questioni sopra riferite troveranno la soluzione soltanto per orientamento giurisprudenziale.
Antonio Z ucaro* IL RAPPORTO CON LA POLITICA
L'excursus storico fatto da Stefano Sepe ha dimostrato che nel nostro Paese si sono affermati via via diversi modelli di rapporto tra politica e amministrazione, da Cavour a Tangentopoli. Oggi sicuramente siamo nel pieno di una rottura di sistema, si può discutere se già siamo o meno in una seconda Repubblica, ma certamente una svolta è in corso e comporta, inevitabilmente, un mutamento del rapporto politica-amministrazione. Sono avvenute innovazioni legislative consistenti che, nella misura in cui saranno attuate, comporteranno l'innesco di processi di lungo periodo alla fine del quale poche cose nell'amministrazione saranno come prima. Perciò ritengo sostanzialmente errata la posizione di scetticismo di coloro che sostengono che, come è accaduto con la 1. 241,
• Direttore Generale del Ministero del lavoro. 89
«si fanno le leggi ma non cambia nulla: la burocrazia resta sempre la stessa". Questo poteva essere vero cinque anni fa. Adesso le leggi si innestano in processi di cambiamento politico anche costituzionale per cui questa affermazione è sostanzialmente sbagliata. Ritengo perdenti, in particolare, le posizioni del tipo "era meglio prima! Cassese ha fatto il decreto 29 ma era meglio quando la pubblica amministrazione era pubblica. Torniamo indietro!". È, ad esempio, la posizione della DISTART per la quale è necessario che i funzionari statali siano regolati da un regime di diritto pubblico o la posizione di coloro per cui il ministro è il responsabile dell'attività dell'amministrazione perché è scritto in un articolo della Costituzione. Dunque, la situazione è in movimento: il problema è vedere in quale direzione; su questo, al di là delle cose che si vanno dicendo sull'efficienza, sono tutti d'accordo. Sono in ballo questioni come: l'accentramento-decentramento; il restringimento-allargamento degli spazi decisionali; l'allargamento-restringimento dei diritti dei cittadini. È qui che bisogna capire in che direzione si sta andando, perché il rischio, schematizzando, può essere quello che attraverso una sorta di moto a spirale si ritorni, in qualche modo, al punto di partenza. Forse, addirittura, ad una situazione peggiore della precedente: c'è qualche segnale al riguardo. Per esempio, quando il governo interviene con legge in materia contrattuale viola il principio di base della privatizzazione. Ne è prova l'ultima Finanziaria: mentre si avviano faticosamente i contratti del pubblico impiego, il governo interviene nella legge finanziaria sull'orario di lavoro, sullo straordinario, in materia contrattuale, e in-
terviene in maniera rigorosa. Poi, però, lo stesso governo porta avanti, contemporaneamente, disegni di legge che privilegiano determinate categorie (per esempio, rendono pensionabile l'indennità giudiziaria ai dipendenti di Grazia e Giustizia; prevedo-' no una riforma che è ampiamente a favore di tutto il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri; regalano indennità alla Sanità, alla Pubblica Istruzione, ecc.). Per questo un'organizzazione sindacale - la Ep. CGIL - ha pubblicato un libro intitolato "Il ritorno di Cirino Pomicino". Da una parte, rigore nella Finanziaria e, dall'altra, premi alle corporazioni più vicine ai palazzi che contano. Quindi, come dicevamo, la situazione è in movimento: si tratta di capire in che direzione. Riguardo, per esempio, alla questione della critica al giacobinismo di Cassese, ovvero al fatto che l'amministrazione venga riformata dall'alto, (mentre il ministro Urbani pretende di riformarla dal basso), ritengo che il problema non sia, appunto, una riforma "dall'alto o dal basso" ma se l'amministrazione vada rinnovata con l'intervento dall'esterno o facendo nascere il suo rinnovamento dall'interno. Credo inevitabile che il cambiamento nell'amministrazione vada prodotto, sostanzialmente, da interventi esterni: la storia di quest'ultimo periodo lo dimostra. È la società civile, sono le autonomie locali, sono i sindaci, i cittadini, la gente stanca di pagare tasse e di avere uffici pubblici inefficienti, che chiedono, che impongono il cambiamento. Certo cambiamenti coerenti, puntuali, non possono fare a meno dell'apporto di almeno una parte delle forze all'interno dell'am-
ministrazione ma, sostanzialmente, l'amministrazione va riformata dall'esterno. Ci sono state leggi che hanno prodotto degli interventi di rottura fondamentali, e non solo leggi come la n. 241, che possono essere sostanzialmente disattese; il decreto 29 ha privatizzato il rapporto del pubblico impiego per cui adesso tale rapporto è retto dal diritto privato e non più da quello amministrativo (fatto che, tra l'altro, riduce del 50% l'area del diritto amministrativo). In qualche modo ci sono state spinte anche all'interno del pubblico impiego, però nella sua essenza questo tipo di soluzione è stata prospettata dal mondo universitario. Sicuramente, un nodo fondamentale dell'amministrazione è che l'amministrazione è un pezzo dello Stato e quest'ultimo, rispetto a quanto ci è stato insegnato all'università, ha subito un cambiamento profondo. Lo Stato era l'unico soggetto politico, quello che fonda l'ordinamento, "superiorem non recognoscens", unica fonte di legittimità degli ordinamenti al suo interno. Rispetto a questo Stato con la "esse" maiuscola, da una parte c'è la Comunità europea che gli nega poteri, ovvero sovranità, mentre dall'altra c'è un processo per cui stiamo discutendo se avremo uno Stato federale o uno Stato ai limiti del federalismo, quindi se le attuali Regioni diventeranno Stati autonomi con un coordinamento centrale. Questo tipo di cambiamento dello Stato è in atto ed è sicuramente una svolta che incide sul rapporto tra figure di comando politico e le burocrazie statali, regionali e comunitarie. A proposito del mutamento del diritto amministrativo, bisogna considerare che qui
abbiamo presente uno schema molto preciso: diritto amministrativo-diritto privato. Sappiamo che nel nostro sistema, i due "regni" si equivalgono. C'è in atto anche qui un mutamento per cui il diritto amministrativo si restringe, non solo per il rapporto del pubblico impiego, ma anche per il tipo di ruolo dello Stato; le privatizzazioni sono una questione che non riguarda solo i pubblici dipendenti. Anche lo Stato si abitua a lavorare con'strumenti di diritto privato, dismette tutta una serie di attività di gestione, si concentra in un'attività di regolazione. Non credo, inoltre, che il Parlamento sia a priori contrario alle delegificazioni, non ricordo che sia mai stato affermato qualcosa a proposito. Anzi, nelle discussioni su una riforma dell'istituto parlamentare erano venuti fuori spunti forti affinché una riqualificazione dell'attività legislativa comprendesse una riduzione a poche leggi di principio, a redazione di testi unici per poi lasciare alla regolazione di secondo grado, cioè ai regolamenti amministrativi, tutta la disciplina di una serie di attività che oggi richiedono invece l'impegno del Parlamento. Questo è un altro cambiamento non ancora avviato ma che sicuramente è necessario avviare. Credo sia inevitabile considerare anche l'impianto delle norme costituzionali sulla pubblica amministrazione. Ciò per la semplice ragione che le norme della Costituzione vigente in materia di pubblica amministrazione sono contraddittorie. Da una parte c'è un articolo per cui il ministro è responsabile degli atti del ministero e dall'altra, ci sono norme che dicono che i pubblici funzionari sono a servizio esclusivo della nazione quindi non del ministro, e 91
che è garantita l'autonomia dell'amministrazione. La pubblica amministrazione nel nostro sistema costituzionale o è dipendente dai ministri o è autonoma. Questa è un'ambiguità che è alla radice, da una parte, delle intromissioni di tipo "prandiniano", e dall'altra della mentalità ricorrente nella maggior parte dei funzionari per cui essi sono autonomi, indipendenti, separati dalla politica. Questo nodo va sciolto in termini più puntuali; credo per questo che sia inevitabile, oltre che auspicabile, che nei cambiamenti costituzionali si arrivi anche a riscrivere queste norme. In quali termini? Ho una sola idea chiara: cioè che il rapporto fra politica e amministrazione è disuguale. Non c'è una sola pubblica amministrazione, così come non c'è una sola burocrazia. Ci sono tante amministrazioni, tante burocrazie; a parte le grandi ripartizioni come le autonomie locali, gli enti pubblici economici, gli enti pubblici non economici, anche nel mondo dei ministeri ci sono amministrazioni che sono diverse tra loro come Giove da Venere. Ci sono tante amministrazioni e tanti tipi di rapporto politica-amministrazione, quindi tanti tipi di meccanismi da definire. Va bene parlare di separazione in via di principio, ma la realtà è fatta di intrecci diversi tra amministrazione e amministrazione. I diplomatici, ad esempio, sostengono che loro, all'estero, rappresentano la Repubblica e non il Governo, a differenza dei Prefetti che invece nelle province rappresentano il Governo. Non c'è dubbio su quest'ultimo punto, ma sembra difficile sostenere che i diplomatici all'estero non rappresentino anch'essi, in qualche modo, l'indirizzo politico del governo. 92
Amministrazione per amministrazione, fra il direttore generale del Ministero della sanità, l'ambasciatore italiano a Washington e il Prefetto di Milano, il dirigente della Cancelleria della Procura di Palermo, i nessi tra politica e amministrazione sono anche qualitativamente diversi. In questa sede è già stato avviato un dibattito sulla differenza fra le autorità di garanzia e su quegli organi pubblici che invece sono strumenti di governo e sulle novità che in questo tipo di differenziazioni comporta l'introduzione di un sistema elettorale maggioritario; sulla maggiore necessità, in sostanza, di avere delle autorità di garanzia. Mi premeva sottolineare la differenziazione tra amministrazioni anche per quello che attiene al rapporto politica-amministrazione. Per cui ritengo, tornando alla riforma di Cassese, che sia stato sostanzialmente sbagliato passare da un modello unico di organizzazione ministeriale a un altro tipo di modello unico, attraverso una legge generale di riforma che riproduceva, con il vantaggio della delegificazione, uno schema organizzativo sostanzialmente uniforme. Sono convinto, invece, che si debba passare a uno schema molto più articolato, ovvero, a schemi organizzativi diversi. Fermo rimanendo che un ministro è responsabile dell'indirizzo politico che imprime all'insieme dei pubblici uffici sottoposti alla sua direzione, bisogna smettere di pensare che per ogni ministro ci sia necessariamente un ministero e non solo perché ci sono i ministri senza portafoglio, ma perché ci possono essere sia ministri a capo di ministeri compatti, con tanti direttori generali che dipendono gerarchicamente da lui, sia ministri a capo di una galassia di enti, di dipartimen-
ti, aziende che da lui ricevono in misura più o meno graduata l'indirizzo politico e godono di una misura maggiore o minore di autonomia. Perciò credo che un tema su cui lavorare sia quello della differenza tra le amministrazioni, in ordine al rapporto politica-amministrazione e, quindi, in ordine anche alla questione fondamentale dell'autonomia delle burocrazie rispetto agli organi di direzione politica. Per quanto riguarda la discussione sulla copertura di spesa vorrei fare tre considerazioni. La prima è che la riforma amministrativa Amato-Ciampi nasce dall'esigenza di una riduzione e di una messa sotto controllo della spesa pubblica. Per cui Amato ha fatto una legge delega su pensioni, finanza locale, sanità e pubblico impiego, partendo da tale esigenza oggettiva e fortissima. Questo punto di partenza serve per affermare che questa esigenza c'è ancora, per cui anche l'attuale governo vi deve fare i conti e che Sabino Cassese, rispetto a questa impostazione, ha operato una torsione. È diverso, infatti, parlare di pubblico impiego in termini di riduzione della spesa, di modifica del regime giuridico, ma anch'essa finalizzata ad una migliore gestione, ad una riqua!ifìcazione della spesa per salario e stipendio. Cassese ha avuto il merito storico di aver cambiato questa impostazione in direzione di una riforma complessiva dell'amministrazione. È questo il punto di differenza tra l'impostazione del governo Ciampi e quello del governo Amato: la presenza di Cassese, il quale ha messo sul piatto, con la legge di accompagnamento alla legge finanziaria per il 1994, tutta la questione delle strutture, dei procedimenti, delle modifiche del bilancio e ha insistito molto su-
gli elementi di modifica dell'organizzazione del lavoro, carichi di lavoro, ecc. che già erano contenuti nel d.lg.29. Si tratta di vedere se l'attuale governo riesce a mantenere quest'impostazione complessiva della riforma amministrativa o se ritorna all'impostazione più limitata di riduzione della spesa. Si tratta di vedere in che termini gestisce la partita. Certo, l'esigenza obiettiva di ridurre o comunque di rimettere sotto controllo la spesa per salari e stipendi del pubblico impiego rimane ancora. Nessuno ne può prescindere, da Fini a Bertinotti, qualunque Governo si abbia. Sulla copertura della riforma amministrativa, poi, c'è un problema a monte, che è quello della progettazione degli interventi di riforma; capisco che ci sono stati problemi di tempi ristretti, però sono d'accordo con chi sostiene che la copertura amministrativa di riforma è una cosa superata nell'attuale prassi. L'idea è che c'è un legislatore illuminato che fa la legge e poi il compito è solo quello di attuarla. A monte, invece, va fatta una progettazione seria degli interventi di riforma, che tenga conto anche degli elementi di strategia, della possibilità di attuare le norme che si propongono e qui è fondamentale la considerazione sociologica degli attori in campo. Uno dei limiti dell'intervento di Cassese è stato il non tener conto di quelli che erano i soggetti in campo e delle varie reazioni possibili. La progettazione non richiede necessariamente tanto tempo; si può fare anche rapidamente ma è necessario capire come si inserisce strategicamente nel contesto una riforma, una norma di cambiamento, che 93
reazione suscita, in che direzione va e quali altri norme possono essere di sostegno e quali altri istituti la possono ostacolare. A valle della copertura delle riforme c'è il problema dei tempi. La formula dei 5 anni è una cosa che ci viene dall'esperienza concreta; una riforma amministrativa è la riforma di una grande organizzazione, ha bisogno di un suo tempo di attuazione, ha bisogno di un impegno diretto del top-management. In ogni caso, nessuna riforma è pensabile all'interno di un organismo complesso, in un arco di tempo che non sia quello di alcuni anni. A riguardo abbiamo l'esempio, anche per ragioni di impostazione della contrattazione del pubblico impiego, dell'INPs. Questo ente, dopo la legge di riforma, ha impostato una rilevazione di carichi di lavoro e di collegamento della corresponsione di quote rilevanti di salario accessorio a questi carichi di lavoro molto sofisticato, contrattualizzato, cioè gestito insieme ai sindacati, in tre tappe, facendo tre contratti interni per avere un sistema affidabile, oggi funzionante. Funzionante anche perché è stato possibile utilizzare molto denaro, mentre nel resto del pubblico impiego ciò non è potuto avvenire. Comunque, l'INPs ha avuto a disposizione cinque anni di tempo per mettere in piedi un meccanismo di questo genere. Ora, con il contratto del pubblico impiego, si parte su una linea sostanzialmente analoga e dovremo porci il problema di una gradazione nel tempo di questo intervento, che è un intervento di riforma anche se avviene per via contrattuale. Avere cinque anni di tempo per gestire una politica di riforma amministrativa significa avere alle spalle un Governo che duri altret-
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tanto e che "copra" questa gestione. Se si parte con un Governo ed una linea e poi subentra un altro Governo che blocca la riforma, la colpa naturalmente non è del top-management o della legge fatta male.
Alberto S tancanelli* LE RIFORME DEL GOVERNO Cii Uno degli aspetti più rilevanti del programma del Governo Ciampi atteneva proprio alla riforma della macchina amministrativa dello Stato. Il Governo aveva infatti compreso che l'inefficienza della pubblica amministrazione con le sue procedure farraginose e non trasparenti e un arcaico sistema dei controlli avevano contribuito al fenomeno della corruzione esploso con l'inchiesta "mani pulite". Il Governo Ciampi iniziava pertanto la sua opera in un momento storico segnato dall'emergenza economica, politica e giudiziaria, tanto da collocarsi, di fatto, al di fuori di uno schieramento politico ben determinato, anche in conseguenza della delegittimazione di tutti i partiti di governo dominanti dal 1948. Il sistema di illegalità, evidenziato dalle inchieste della magistratura, aveva riproposto con forza la necessità di intervenire con determinazione sulle disfunzioni degli apparati pubblici. Per questo il programma di governo individuava tre obiettivi principali: a) razionalizzazione delle procedure amministrative; b)
• Funzionario della Presidenza del Consiglio dei ministri.
regole di condotta per pubblici dipendenti; c) controlli efficaci. Il compito di avviare il processo di riforma dell'amministrazione pubblica fu affidato a Sabino Cassese a dimostrazione che il governatore-presidente faceva sul serio. Infatti, nella storia repubblicana, con le sole eccezioni di Lucifredi e Giannini, non ci sono stati ministri per la funzione pubblica all'altezza della complessità della riforma della pubblica amministrazione. Gli interventi di ammodernamento della pubblica amministrazione, realizzati da Sabino Cassese, interessarono tutti gli aspetti: le funzioni, l'organizzazione, il personale, le procedure, la finanza, i controlli. Non sarà certo possibile passarli tutti in rassegna (analisi peraltro autorevolmente compiuta dallo stesso Cassese nel saggio
"La riforma amministrativa all'inizio della quinta Costituzione dell'Italia unita", in «Foro it.», 1994), ma sarà sicuramente utile, oltre che valutare gli interventi principali, capire il metodo seguito, che da alcuni, anche in questa sede, è stato criticato. Appena insediato a palazzo Vidoni, Sabino Cassese ritenne indispensabile avere una fotografia, la piui analitica possibile, di tutti i settori della pubblica amministraziòne. È infatti del giugno 1993 il "Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni' con il quale fu possibile individuare le principali disfunzioni dell'apparato pubblico. Il Rapporto costituiva il punto di partenza della successiva fase propositiva avviata nel mese di luglio con il documento "Indirizzi per la modernizzazione delle pubbliche amministrazioni" con il quale venivano individuati gli obiettivi, la strategia da perseguire e i possibili rimedi alle disfunzioni delle pubbliche amministrazioni.
Nel frattempo, tra giugno e settembre 1993 furono istituite presso il Dipartimento della funzione pubblica 17 commissioni di studio (sull'organizzazione dei pubblici poteri; sui procedimenti amministrativi; sull'attuazione e correzione del decreto legislativo 29193; sui controlli; sulla giustizia nell'amministrazione; sulla giustizia amministrativa; sulla pubblica amministrazione e l'Europa; sui contratti della pubblica amministrazione) composte da studiosi ed esperti in materia di amministrazione pubblica, i quali vi parteciparono a titolo personale su espressa designazione del Ministro per la funzione pubblica. Non vi facevano parte i rappresentanti delle amministrazioni, poiché vi era la consapevolezza che se da una parte poteva essere utile acquisire l'esperienza dei vertici della burocrazia, dall'altra questi ultimi tendono (per spirito di conservazione) a far sopravvivere le strutture esistenti, essendo poco disponibili a processi innovativi che portino alla modifica dell'organizzazione. Non è possibile, purtroppo, riformare la pubblica amministrazione con il consenso della burocrazia, ed in particolare con quei vertici dirigenziali dell'amministrazione centrale vicini al potere politico che costituiscono una forza di pressione tale da influenzare ogni scelta riformatrice. Oltre alle commissioni furono istituiti comitati di studio con compiti di ricognizione e di analisi dei singoli aspetti dell'azione amministrativa. Contemporaneamente si avviò l'importante riforma dei controlli che si inseriva in una moderna idea di amministrazione pubblica più consapevole della propria azione e meno succube di un legislatore sempre presente e di un contràllore che opera dall'esterno.
Appare, infatti, evidente come in Italia moltissimi siano i controlli, ma per lo più svolti dall'esterno, inefficaci, comportanti un allungamento dei procedimenti amministrativi e inutili in relazione al fine che perseguono, ossia quello di prevenire casi di illegittimità e di illecità posti in essere dalle pubbliche amministrazioni. Insomma in Italia il controllo non è parte dell'amministrare, ma ne appare cosa separata e distinta ed in molti casi si pone solo come fase conflittuale con la stessa amministrazione. Per questo si pensò innanzitutto di introdurre uffici di controllo interno alle singole amministrazioni, con compiti di controllo gestionale ossia di verifica, attraverso valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, della economicità della gestione delle risorse pubbliche e del raggiungimento degli obiettivi programmati; si vollero quindi attribuire alla Corte dei conti compiti di controllo di secondo grado sul funzionamento dei meccanismi di controllo interno delle amministrazioni e limitare i controlli cosiddetti preventivi di legittimità ai soli atti di governo. Se si considerano le amministrazioni come erogatrici di servizi ai cittadini era, dunque, indispensabile introdurre una nuova cultura dei controlli, posti al di là del procedimento e del provvedimento. Uno standard rispondente alla qualità delle prestazioni erogate non può essere garantito solo dal rispetto formale della normativa, poiché appare più utile a tal fine, sia per l'amministrazione che per la stessa collettività, un sistema di controlli sulla relazione tra i costi e le prestazioni che seguono all'azione amministrativa. Nello stesso tempo, per quanto riguarda il 96
pubblico impiego, si avviò il lavoro per l'adozione dei decreti correttivi al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29. In tal modo si rafforzava l'azione del Governo verso il completamento della privatizzazione del pubblico impiego già iniziata con il decreto legislativo 29/93 e con l'istituzione dell'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, un soggetto di contrattazione di parte pubblica autonomo rispetto al potere politico. Quindi si è adottato un regolamento sulle modalità di accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, basato sui principi di trasparenza, economicità e tempestività, in cui si stabiliva da una parte il meccanismo dei concorsi unici per ridurne i costi e dall'altra si definivano i criteri per la composizione delle commissioni esaminatrici al fine di assicurare l'imparzialità e la competenza dei commissari. L'intervento più incisivo del governo Ciampi sulla pubblica amministrazione iniziò nel settembre 1993 con la presentazione
del disegno di legge "Interventi correttivi di finanza pubblica", collegato alla legge finanziaria con cui si avviava, con decisione, un organico intervento di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni con il fine principale di ridurre e riqualificare la spesa pubblica. Liter parlamentare si concluse con l'emanazione della legge 24 dicembre 1993, n. 537 che rappresenta un punto di svolta del riordino di tutti gli aspetti della pubblica amministrazione, oggi caratterizzata soprattutto da una irrazionale distribuzione delle funzioni che determina una notevole interdipendenza delle strutture (si hanno così molti interlocutori) con conseguente railentamento di ogni decisione politico-am-
ministrativa. La legge pone le basi per un profondo mutamento sia del rapporto interno amministrazione-risorse di lavoro, che del rapporto verso l'esterno amministrazione-cittadini. Vediamo ora da vicino i singoli contenuti innovativi della legge 537193. L'art. i ha attribuito al Governo la delega per il riordino dei ministeri attraverso alcune linee guida indicate nella stessa legge delega: a) la razionalizzazione della distribuzione delle competenze, eliminando le duplicazioni e le sovrapposizioni di funzioni; b) l'organizzazione delle strutture per funzioni omogenee e secondo criteri di omogeneità; c) la previsione di controlli interni al fine di verificare i risultati di gestione. Con lo stesso articolo sono stati immediatamente soppressi 13 comitati interministeriali, l'Autorità per l'Adriatico, il Consiglio superiore della pubblica amministrazione, e due Ministeri, quello della marina mercantile e quello dei trasporti, le cui funzioni venivano attribuite, in larga misura, ad un nuovo ministero, quello dei trasporti e della navigazione. È stato osservato da Stefano Sepe che la delega per la riforma dei ministeri appare molto ampia, senza precedenti. Bene, credo che questo sia vero se ragioniamo storicamente. Il Parlamento ha governato nel passato tramite provvedimenti legislativi; non si è limitato, per quanto riguarda l'amministrazione pubblica, a dettare principi, ma ha disciplinato anche i singoli aspetti dell'organizzazione amministrativa dei ministeri. Ora l'art.l della legge 537193, sebbene riguardi tutti i ministeri, prevede innanzitutto dei criteri ben definiti ai quali il governo, nell'esercizio della delega, deve attener-
si. La delega non incide sulle funzioni esistenti ed attribuite all'amministrazione centrale, ma consente al governo di ridistribuirle in modo differente tra nuovi apparati centrali con metodi razionali: data la funzione si costruisce l'organizzazione. Nel nostro Paese si è sempre seguito il percorso inverso: data la necessità di accontentare componenti della maggioranza di coalizione dei governi si sono creati i ministeri, ai quali si attribuivano competenze (e così da 13 ministeri nell'età giolittiana siamo arrivati a 22 nel VII governo Andreotti ai quali si aggiungevano, inoltre, ben 9 ministri senza portafoglio). È pur vero che le funzioni attribuite allo Stato sono aumentate dall'inizio del secolo ad oggi, ma non sicuramente in proporzione al numero dei ministeri istituiti e attualmente esistenti. Inoltre, ripeto, una cosa è la funzione, un'altra è l'allocazione della stessa nell'organizzazione: con la legge 537193 si voleva mettere ordine scomponendo e ricomponendo le funzioni delle amministrazioni centrali con criteri più razionali. Altro discorso va fatto sulla possibilità reale di procedere, data la situazione politica, ad un riordino dei ministeri. Sabino Cassese, cosciente che la transizione da un governo ad un altro costituiva il momento migliore per una riorganizzazione dei ministeri, ha tentato di dare attuazione alla delega. Il Governo Ciampi era un governo solo apparentemente forte. In realtà l'assenza del Parlamento che non rappresentava più il Paese, la scomparsa dei partiti di governo tradizionali, il caos politico conseguente allo scioglimento delle Camere (basti pensare che membro del Governo era un ministro 97
che era al tempo stesso forza di opposizione, mi riferisco al Ministro Costa), facevano del Governo Ciampi, peraltro dimissionano dal gennaio 1994, un governo limitato a gestire l'ordinaria amministrazione. Così ben pochi sono stati gli adempimenti (se si escludono i regolamenti di semplificazione dei procedimenti amministrativi) realizzati dal governo Ciampi nei cinque mesi successivi all'approvazione della legge finanziaria, sino cioè all'insediamento dell'attuale governo. Si pensi che la legge 537193 prevede una serie di adempimenti legislativi e regolamentari quali 10 provvedimenti di natura legislativa, 161 provvedimenti regolamentari, 31 provvedimenti di natura amministrativa che interessano la riforma della pubblica amministrazione. L'art. i prevede anche la delega per il riordino degli enti pubblici non economici tra i quali anche quelli previdenziali. Orbene, ricordo che mentre si predisponeva il testo per l'attuazione della delega per il riordino degli enti pubblici non economici era stata proposta anche la privatizzazione di un ente che ha un contributo statale (2 miliardi) pari al 4% del proprio bilancio, un'organizzazione peniferica basata sul volontariato, un numero di dipendenti limitato a poche decine. Ben due ministri, tra i quali il ministro vigilante, sollecitarono l'esclusione dell'ente dalla privatizzazione facendo leva proprio su tali caratteristiche e sostenendo che l'intervento pubblico era ben poca cosa e che l'ente poteva considerarsi quasi privato. Questo è un paradosso, ma indica quanto sia difficile intervenire sulle strutture pubbliche con intenti di razionalizzazione. Se non si privatizzano gli enti dove l'intervento pubblico è irrilevan-
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te, come si potrà ad esempio privatizzare l'Aci? Con l'art. 2 si è intervenuti sulla complessità dei procedimenti, individuando quelli più complessi e farraginosi e grazie a questa norma si è arrivati nei mesi successivi all'approvazione (affatto agevolata dalle amministrazioni interessate), in prima battuta, di 70 regolamenti di semplificazione da parte del Consiglio dei ministri. Di tali regolamenti, i due terzi prevedono un termine di conclusione dei procedimenti che, confrontati con la precedente legislazione, evidenziano una riduzione del 50% del tempo necessario. Sabino Cassese è riuscito così a compiere un'opera meritoria in poco tempo e con un governo dimissionario semplificando più della metà dei procedimenti indicati nella legge collegata alla finanziaria per il 1994. Credo che il Governo Berlusconi in cinque mesi, non sia riuscito a realizzare neanche una decima parte del processo di semplificazione compiuto da Cassese. Con l'art. 3 sono state introdotte norme sul riordino del pubblico impiego per quegli aspetti non demandati alla contrattazione. Le amministrazioni pubbliche hanno sempre presentato nella gestione del personale e dell'organizzazione una pressoché totale assenza di flessibilità: ciò ha comportato la mancata utilizzazione e valorizzazione di professionalità tecniche e amministrative all'interno dell'amministrazione. Per questo, quale ulteriore passo avanti per rendere più efficiente l'amministrazione si stabilirono nuovi principi che dovevano portare al superamento delle piante organiche - strumento obsoleto di organizzazione - centrate sull'obbligo per le pubbliche amministrazioni di determinare i carichi di la-
voro, con la rideterminazione provvisoria delle dotazioni organiche delle stesse in misura pari ai posti coperti al 31 agosto 1993; furono introdotte norme in materia di assunzione di personale, attraverso concorsi pubblici aperti a tutti, con la previsione che le commissioni di concorso dovessero essere composte da tecnici esperti nelle materie del concorso e con il divieto per le pubbliche amministrazioni di assumere personale a tempo determinato e di stabilire rapporti di lavoro autonomo per prestazioni superiori a tre mesi; furono anche previste disposizioni in materia di aspettative e permessi sindacali, di congedo straordinario, di dichiarazione di eccedenza di dipendenti pubblici e di loro collocamento in disponibilità. Uno dei settori dove è mancato un incisivo intervento, come, peraltro, è stato ammesso dallo stesso Cassese nel saggio citato, è stato quello della dirigenza e della formazione professionale. Il problema della dirigenza investe la più ampia questione della separazione tra politica e amministrazione. vero che il politico deve impartire gli indirizzi e la burocrazia gestire, ma il dirigente è oggi in grado di farlo in piena autonomia? La prima riforma sulla dirigenza pubblica degli anni Settanta fu disattesa non solo per colpa della classe politica, ma anche della classe dirigente che non ama assumersi responsabilità dirette nella gestione della cosa pubblica. Perché si realizzi l'auspicata separazione tra politica e amministrazione, senza che ciò produca un conflitto tra politici e burocrati, con la conseguente paralisi dell'attività amministrativa (oggi la dirigenza ha una
propria competenza, non più delegata, con la conseguenza che il politico non può adottare i provvedimenti che spettano al dirigente se non in casi eccezionali) dobbiamo avere da una parte una classe politica che si limiti a definire gli obiettivi ed i programmi da attuare, verificando i risultati della gestione amministrativa in base alle direttive generali impartite, dall'altra dobbiamo avere una dirigenza professionalmente adeguata, idonea a gestire le risorse umane, finanziarie e tecnologiche e ad adottare decisioni per la guida dell'azione del personale. Ciò impone reali criteri selettivi di accesso alla carriera dirigenziale, nonché il riconoscimento del merito professionale mediante una seria valutazione dei comportamenti. In molti hanno criticato Sabino Cassese tra questi c'è anche il Ministro Urbani sostenendo che il suo errore è stato quello di pensare che la riforma dell'amministrazione potesse farsi dall'alto. Credo che quando si pensa ad una riforma che venga dal basso due possono essere le ragioni: a) non si vuole riformare nulla; b) non si conosce l'amministrazione, la sua storia, l'esercizio distorto del potere tramite procedure farraginose e non trasparenti. Credo che il Ministro Urbani sia in buona fede e che rientri tra coloro che appartengono al secondo gruppo, anche se il primo atto presentato dal Ministro (mi riferisco al disegno di legge Atto Senato n. 777) non ha fatto altro che prorogare al 31 dicembre 1995 alcuni termini previsti dalla legge 24 dicembre 1993, n. 537, senza cioè porre in essere i necessari strumenti di attuazione della delega di riforma della pubblica amministrazione in essa contenuta. La pubblica amministrazione è una realtà PE
complessa e tende ad agire senza criteri di efficacia ed efficienza. Non c'è alcuna responsabilità diretta tra il costo della struttura e la soddisfazione dei cittadini-utenti che usufruiscono dei servizi che la struttura fornisce. Se un servizio erogato da un privato non mi soddisfa, posso rivolgermi ad un altro fornitore con la conseguenza che se il mio grado di insoddisfazione diviene generalizzato l'azienda va in crisi e chiude: è il mercato che fa la selezione e garantisce la qualità. Ciò non avviene nel pubblico, anzi meno domanda c'è da parte dell'utente e meglio va per la struttura che non è chiamata a produrre, per di più senza alcuna contrazione economica per il personale, essendo assente ogni criterio di produttività. Il metodo Cassese, grazie al quale oggi abbiamo visto risultati significativi, mi sembra dunque l'unico percorribile: solo interventi drastici possono costringere la burocrazia a recepire iniziative di ammodernamento della pubblica amministrazione. Il nemico principale di Sabino Cassese è stato il tempo. Tutti sapevamo che il governo Ciampi era un governo a termine, di transizione e l'unica cosa che Cassese poteva fare era avviare la riforma intervenendo sui punti nevralgici della pubblica amministrazione, innescando così una reazione a catena all'interno della stessa amministrazione con l'effetto di attivarne autonomi processi di riforma. È chiaro che una terapia intensiva ha anche il rischio di uccidere il paziente debilitato, specialmente quando questi non collabora, ma era un rischio che doveva esser corso. Oggi possiamo dire che le condizioni del paziente sono stazionarie, ma è ancora lunga la strada che porta alla guarigione sem100
pre che i nuovi medici siano all'altezza della situazione.
Giampaolo Ladu * CONTROLLO DI LEGITFIMITÀ E CONTROLLO DI GESTIONE
Da tempo la pubblica amministrazione è oggetto di un profondo riassetto organizzativo che, grazie ad interventi legislativi di notevole momento, non si limita ad una "risistemazione" dell'esistente, ma si estende all'introduzione, nel nostro ordinamento, di figure e schemi mutuati da altri Paesi o dal ripensamento di enti preesistenti, ridisegnati - per finalità operative non meno che per una riaffermazione del principio di responsabilità in chiave privatistica. È facile pensare, da questo punto di vista, alle organizzazioni "no profit", proprie da molti anni del sistema anglosassone ed ormai in via di diffusione anche in Italia: organizzazioni caratterizzate non già dall'assenza di profitti, ma dalla loro particolare struttura finalistica. A mente della normativa statunitense, infatti, enti come università, ospedali, associazioni ambientalistiche o di beneficenza non a scopo di lucro, a differenza delle aziende private, non pagano tributi, in funzione dell'adesione a tre principi fondamentali. Innanzitutto, i servizi offerti da queste organizzazioni devono essere di pubblica utilità; in secondo luogo, tutti i profitti devono essere reinvestiti e nessun dividendo può essere pagato ai soci; infine, una quota del fatturato deve essere destinata alla beneficenza. • Ordinario di Contabilità dello Stato, Università di Cagliari e Università di Pisa.
D'altro canto, non il soio profilo gestionale deve essere preso in considerazione. La concezione ottocentesca del nostro impianto amministrativo, collegata allo scarso livello reale di decentramento, ha determinato una sorta di sclerosi burocratica, il cui frutto perverso è una diffusa deresponsabilizzazione degli apparati, largamente favorita da controlli, a tutti i livelli, di tipo giuridicoformale, mai attenti ai risultati della gestione. Non a caso, dunque, la legislazione più recente tenta di inoculare nell'amministrazione pubblica criteri e standard di efficienza e di responsabilità. Fra i modelli organizzativi nuovi che vanno emergendo - e le cui connotazioni sono ancora in larga misura da definire - devono essere annoverati i cosiddetti "enti pubblici economici", la cui stessa natura è di non agevole definizione, ma il cui ruolo appare sempre più rilevante. Enti "strumentali" rispetto all'ente pubblico (di solito) territoriale di riferimento; enti a caratterizzazione "privatistica", almeno in fase gestionale, a conferma della notazione per cui i risultati devono costituire il metro di valutazione, si che ad essi si lega la responsabilità di chi è chiamato a svolgere una funzione pubblica, specie se direttiva. Enti, comunque, di grande rilievo non solo per la dimensione quantitativa, ma (fermo restando che la categoria che li inquadrava non corrisponde più all'attuale realtà) anche sotto il profilo qualitativo che, se adeguatamente e concretamente sviluppato, tende a farli evolvere in strumenti operativi di grande spessore: enti sui quali, pertanto, conviene svolgere qualche considerazione, nell'ottica delle pubbliche amministrazioni che il legislatore va costruendo.
E vero che la categoria degli enti pubblici economici rimane priva di una propria, autonoma disciplina normativa fino a tutti gli anni Settanta. Se un primo fondamento legislativo può, infatti, rinvenirsi nelle leggi n. 536 del 1926, n. 1303 del 1938 e n. 300 del 1970, è peraltro solo con la legge n. 70 del 1975 che si perviene ad un vero riordino degli enti pubblici, che tuttavia non riguarda gli enti pubblici economici in senso stretto. Per tali enti occorre dunque fare riferimento alle molte norme "singolari" approvate negli anni successivi, nessuna delle quali offre però una definizione di portata generale, elaborata invece, in via interpretativa, dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Secondo l'orientamento prevalente, ed ormai consolidato, il requisito fondamentale degli enti pubblici economici è da rinvenirsi nel profilo gestionale, che deve rispondere a criteri imprenditoriali ed economici. D'altro canto, dalla natura privata del rapporto d'impiego deriva il carattere privatistico degli atti che l'ente adotta verso i terzi e degli atti concernenti l'organizzazione interna dell'ente stesso, che si situa così in una categoria "derogatoria", per la quale l'adozione di atti amministrativi costituisce eccezione. La disciplina applicabile, nello svolgimento dell'attività dell'ente, è pertanto il diritto privato, mentre il profilo della soggettività pubblica si esaurisce nella materia degli organi, questi sì regolati da norme di diritto pubblico. Sono, insomma, da distinguere il momento iniziale (istituzione ed organi) e quello finale (valutazione ed approvazione dei risultati), di coloritura pubblicistica; ed i momenti tipicamente gestionali, soggetti alla normativa di cui al codice civile, ed in 101
ordine ai quali è da escludere ogni disciplina pubblicistica, sicché non può trovare applicazione la legge di contabilità del 1923, neppure per quanto riguarda la responsabilità e la giurisdizione, giuste due fondamentali sentenze della Corte Suprema, Sezioni Unite (nn. 6178 e 6179 del 1983), che hanno escluso ogni competenza della Corte dei conti "per danni arrecati all'ente pubblico economico gestore di imprese da suoi funzionari o impiegati per atto o fatto connesso all'attività imprenditoriale o nell'esercizio di mansioni inerenti a tale attività". L'autonomia gestionale ed operativa di ogni ente pubblico economico trova poi conferma in materia contrattuale ed in tema di controlli. L'interfaccia dell'autonomia gestionale è data essenzialmente dalla vigilanza, attribuita all'ente pubblico territoriale di riferimento, e varia, anche a termini di statuto, dall'approvazione degli atti di particolare rilievo (bilanci, consuntivi ... ) allo scioglimento degli organi, alla nomina di commissari straordinari, escluso però il potere di impartire direttive all'ente se non in chiave di indicazioni circa gli obiettivi strategici e mai in termini vincolanti quanto alle scelte strettamente manageriali. Deve, però, soprattutto escludersi che gli enti pubblici economici soggiacciano, anche alla luce della normativa più recente, al sistema introdotto con la legge n. 259158, in attuazione dell'art. 100 della Costituzione. Il controllo "tecnico" sulla gestione economica e finanziaria è perciò esercitato esclusivamente dagli organi interni degli stessi enti; e quello esterno, non sussistendo una competenza della Corte dei conti, dagli enti di riferimento, nel senso della vigilanza e cioè in chiave essenzialmente "politica". 102
La schematica ricostruzione dell'attuale situazione degli enti pubblici economici apparentemente alquanto semplice - non deve però trarre in inganno, perché i problemi aperti sono ancora enormi, in conseguenza di scelte normative non sempre perspicue, nonché di resistenze - politiche, innanzitutto, e poi dottrinali e giurisprudenziali - a privilegiare ed esaltare il ruolo di questi nuovi soggetti istituzionali. In particolare, è proprio il tema dei controlli a suscitare le maggiori difficoltà. Come ricordato, la giurisprudenza della Corte di cassazione si è espressa nel senso di un superamento del tradizionale controllo di legittimità della Corte dei conti, della quale si tende ad escludere ogni competenza in materia. E tuttavia una recente sentenza della Corte costituzionale, sia pure con riferimento ad una situazione affatto peculiare, ha ribadito che il controllo, almeno su certi enti "privatizzati", resta alla Corte dei conti. La sentenza n. 466 del 1993 ripristina, infatti, i controlli ex art. 100 della Costituzione su INA ed ENEL. Con la legge n. 359/92 di conversione del d.l. n. 333192, le principali imprese pubbliche italiane erano state trasformate in società per azioni, secondo uno schema di privatizzazione "fredda", cioè con un mutamento della forma giuridica, piuttosto che della proprietà. Ciò comportava, comunque, a mente di tale normativa, la esclusione di ogni competenza della Corte dei conti in ordine agli enti privatizzati. La Corte dei conti però, con suo ricorso alla Corte costituzionale, contestava la scelta legislativa, sostenendo non essere possibile un'abrogazione implicita della legge n. 259/58. Secondo la Corte dei conti, la trasformazio-
ne di alcuni enti in società per azioni non implica una loro "fuoriuscita" dal rapporto con lo Stato, sicché il controllo ex art. 100 della Costituzione permane, indipendentemente dalla loro natura pubblica o privata: tanto più che le figure di società per azioni non si esauriscono in quelle disciplinate dal codice civile, ma si estendono anche alle società "di diritto speciale", che di civilistico hanno solo taluni aspetti strutturali, !addove sotto il profilo genetico prevale l'assetto pubblicistico. Nonostante la replica dell'Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei ministri, a sostegno della tesi che la legge n. 392192 ha abrogato tutte le norme incompatibili con la legge n. 259158, sicché non si pone un contrasto con l'art. 100 della Costituzione e, soprattutto, sotto il profilo sostanziale, che esiste ormai un nuovo rapporto tra le società derivate dalla trasformazione degli enti pubblici economici e lo Stato, che esercita solo i diritti tipici dell'azionista rispetto a società per azioni che operano in base al loro statuto, la Corte costituzionale ha ritenuto fondato il ricorso. La tesi di fondo della Corte è che tra ente pubblico e società per azioni i confini risultano, allo stato, estremamente sfumati, per cui è necessario badare alla sostanza più che alla forma giuridica. E qui la Corte probabilmente inverte i termini della questione. Non vi è dubbio che la privatizzazione "fredda" che ha riguardato IRI, ENI, INA, ed ENEL costituisca il presupposto di una privatizzazione "calda", più radicale, nel senso di un ridimensionamento ulteriore dello Stato in campo economico. Secondo la Corte, invece, l'apporto finanziario dello Stato alla struttura economica dei nuovi soggetti è tale da riservare allo Stato una
funzione determinante. Il mutamento della veste giuridica, pertanto, non giustifica l'abolizione del controllo attribuito alla Corte dei conti. Altrove è stata criticata più analiticamente la decisione della Corte costituzionale. Ma almeno un'osservazione deve qui essere ripetuta. L'errore della Corte costituzionale, al di là della soluzione prospettata, formalmente ineccepibile, consiste in questo. Una cosa sono le regole che disciplinano i rapporti tra società ed azionista pubblico: e nessuno contesta la perdurante "specialità" dell'assetto ancora vigente. Altra questione è però, quella delle nuove regole sulla organizzazione e sulla gestione delle nuove società, che solo nel momento genetico ed in quello terminale della gestione sono sicuramente pubbliche, mentre per tutto quanto riguarda organizzazione, struttura, criteri e scelte operative appare indubitabile la vigenza delle norme civilistiche. È al codice civile, dunque, che occorre riferirsi per verificare e decidere la "specialità" del regime cui gli enti trasformati devono rispondere. Da questo punto di vista, risulta evidente che la Corte costituzionale ha badato più alla forma che non alla sostanza, contrariamente a quanto sostenuto nella discussa sentenza, dal momento che ha minimizzato le novità introdotte con la legge n. 359192, per tal via reintegrando la Corte dei conti nella sua tradizionale veste di controllore della legittimità; e "punito" il profilo sostanziale (gestionale), per via di una inadeguata analisi ed una insufficiente comprensione del processo di privatizzazioni in atto. Conviene però anche, a questo punto, ribadire che l'art. 100 della Costituzione, pure in funzione della sua genesi, continua a 103
rappresentare una fonte di equivoci, quanto alla forma ed alla "consistenza" dei controlli. Anche a voler riconoscere che le potenzialità dell'art. 100 sono superiori a quelle cui lo costringono interpretazioni tradizionali, superate e poco attente a tutte le indicazioni della norma, resta il fatto che l'art. 100 viene ancora interpretato come vincolante rispetto ad un (presunto) ineludibile controllo preventivo di legittimità. E siccome neppure la recente legge di riforma dei controlli (la n. 20 del 1994) determina un netto superamento di tale concezione, non resta che prendere atto che l'equivoco implicito nell'art. 100 potrà essere evitato solo con un'adeguata revisione costituzionale. Per altro verso, però, è anche da dire che la sentenza criticata potrà contribuire a rendere meno approssimativa, più rigorosa la metodologia delle dismissioni e delle trasformazioni delle strutture amministrative. Una più limpida produzione legislativa, dunque, appare oltre che necessaria indi-
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spensabile per non lasciare più spazi ai troppi equivoci non sempre e non tutti di-
sinteressati dei Iaudatores temporis acti. D'altro canto, permane almeno il dubbio che le troppe incoerenze normative, che segnano il percorso dell'ammodernamento della pubblica amministrazione, siano il sintomo della mancanza di un modello chiaro ed univoco a livello politico, o addirittura della incapacità di procedere alla scelta di un assetto ben definito, dai contorni non incerti e, nel caso specifico degli enti pubblici economici, della mancata definizione degli interessi e dei poteri ai quali questi enti particolari devono rispondere. Probabilmente, solo quando al vecchio e superato controllo di legittimità si sarà sostituito il moderno controllo di gestione, che segna il passaggio dalla tradizionale cultura amministrativa alla cultura industriale, si avrà anche la conferma che la riforma è compiuta e le pervasive resistenze da più fronti opposte superate.
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Governi locali e Stato democratico
Di riorganizzazione degli enti locali abbiamo parlato nel 1992, nel fascicolo n. 89, (l'articolo di Paola Neri, Riorganizzare l'ente locale) mentre, l'anno successivo (nel fascicolo n. 94) abbiamo fatto il punto sulla situazione a cinquant'anni della legge sull'urbanistica. Riprendiamo ora il tema con la traduzione di due relazioni presentate dagli autori ad una conferenza sui "Cambiamenti istituzionali a livello locale" tenuta nelfebbraio dello scorso anno alla danese Roskilde University. Nel testo di Sharpe viene affiontato il tema generale di quale forma debba avere un governo locale per rispondere ai requisiti richiesti da uno Stato democratico moderno. PartendD dal presupposto che il governo locale rappresenta una dftsa contro gli abusi del potere centrale, - poiché consente una partectpazione popolare oltre il voto e una maggiore efficienza nella fornitura di servizi -' la tendenza degli Stati va comunque nella direzione di allargare le unità di governo locali alla ricerca di una loro giusta dimensione. Il testo di Bacle descrive, invece, l'esperienza svedese. A partire dalla metà degli anni Ottanta, vi sono stati in Svezia diversi cambiamenti riguardo l'organizzazione delle autorità locali in direzione di un decentramento e dell'introduzione di meccanismi 105
di mercato. Sono stati creati, infatti, dei "consigli di quartiere", forum decisionali dove l'attenzione alle esigenze territoriali locali ha un ruolo maggiore rispetto alle 'fedeltà di partito " Back presenta i risultati di una ricerca compiuta nel 1992 che apaaiono interessanti per la comprensione degli eventuali ''ffltti collaterali" di una rrma che, benché rispetti i canoni della modernità, mostra come sia dfficile, ancora realizzare una vera democrazia. Gli articoli di Sattanino e di De Petra tracciano un quadro sull'utilizzo dell'informatica negli enti locali. Proprio la possibilità di accesso alle reti informatiche locali, insieme ad uno sviluppo dei linguaggi interattivi tra soggetti di solito deboli, sembra offiire nuovi stimoli per un allargamento della democrazia politica. È quanto fanno presente entrambi gli autori, il primo attraverso un discorso generale sulle reti civiche, il secondo attraverso la descrizione di una situazione specifica. In particolare lo scritto di De Petra è un documento redatto su sollecitazione del prof Piero Sandulli, assessore del Comune di Roma, che ha assegnato all'autore, all'inizio del 1994, l'incarico di consulente per le politiche info rmati che dellzmministrazione. Scopo del documento è stato quello di illustrare sinteticamente alla giunta comunale, dopo un anno di attività, l'approccio strategico che è stato adottato per promuovere l'innovazione tecnico-organizzativa nel comune di Roma. Si tratta di una testimonianza delle difficoltà e delle opportunità che l'innovazione tecnologica produce nel processo di rinnovamento di una amministrazione locale di grandi dimensioni e di elevata complessità organizzativa.
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Enti locali in democrazia: quale ruolo e quale modello di modernizzazione di Lj. Sh arpe *
Il fulcro del presente scritto è la valutazione dell'impatto sui governo locale di quei processi di ampliamento variamente definiti come "riorganizzazione", "modernizzazione" o, semplicemente, riforma In linea generale, si può dire che i sistemi di governo locale nelle democrazie occidentali abbiano tre funzioni di base', ovvero: Dfèsa contro gli abusi del potere centrak Il primo ruolo del governo locale in occidente è generalmente ricondotto alla semplice dottrina della separazione dei poteri. Dividendo il potere di governo tra il centro e la periferia viene ridotto il potere centrale, rendendo di conseguenza meno gravoso un suo eventuale abuso. Tale concezione del ruolo del governo locale è a tutti gli effetti un "assioma"; tuttavia altre versioni della stessa teoria si spingono fino al punto di affermare che l'esistenza di un sistema di governo locale ha una diretta e salutare influenza su tutto il resto del governo. Secondo il Docente al Nuffleld College, Oxford.
Rapporto del Comitato consultivo sulle relazioni intergovernative degli Stati Uniti [US Advisory Commission on Intergovernmental Relations], il ruolo del governo locale è quello di "attenuare l'incidenza delle leggi e dei regolamenti arbitrari, statali e nazionali"2 . Il governo locale, in quest'ottica, diventa una sorta di salvaguardia contro una possibile tirannia. E difficile accertare se questa interpretazione sia empiricamente valida, visto che tutte le democrazie che storicamente hanno subito colpi di Stato non democratici di vario genere, generalmente, avevano sistemi di governo locale, e non è dimostrato che essi abbiano giocato un qualche ruolo nell'ostacolare i promotori di tali golpe. Quel che è vero è che una delle prime azioni dei promotori dei suddetti golpe è stata quella di abolire il governo locale. Ma questa è del tutto un'altra questione, perchè rivela la valenza democratica dei governi locali e non un loro presunto ruolo di "baluardo" contro la tirannia. E a riguardo, è di un qualche interesse notare come l'AcIR non spieghi mai come opererebbe il menzionato ruolo di salvaguardia, sicché è diffi107
cile rimuovere il sospetto che la commissione non stesse riportando conclusioni empiriche, ma soltanto ripetendo un vecchio "sermone" antistatalista della tradizione democratica americana che vede l'arbitrarietà quasi come una necessaria conseguenza di un "grande governo" 3 . Nel migliore dei casi, allora, questo presunto ruolo del governo locale è un evidente "truismo , - insomma una verita lapalissiana - se il potere è diviso, allora c'è una divisione del potere - ma non c'è una visibile relazione con il funzionamento di un sistema democratico se non per asserzione. Perciò non occorre soffermarci oltre su questo punto.
Forme addizionali di partecipazione popolare Il secondo ruolo di un sistema di governo locale può essere definito come 'ruolo partecipativo', nel senso che all'interno del sistema rappresentativo nazionale, anche negli Stati abbastanza piccoli, il peso del singolo individuo è molto marginale. Sebbene di solito ingaggiato come protagonista nella "rappresentazione" (recita) democratica, l'incidenza del singolo votante sulla politica pubblica è, in realtà, minimo. Suddividendo invece lo Stato in livelli di governo in maniera opportuna, si consente al singolo cittadino di esercitare i suoi diritti democratici. Tramite un sistema di governo locale, sono conferiti al cittadino altri "diritti partecipativi" oltre al 108
voto, come la possibilità di influenzare il Governo tramite gruppi di pressione o di avere un contatto diretto con un rappresentante eletto. In breve, i sistemi di governo subnazionali concretizzano maggiormente il ruolo di «elettore sovrano del cittadino e sono, inequivocabilmente, un "guadagno partecipativo. Il ruolo rappresentativo del governo locale non si esaurisce, tuttavia, nell'opportunità di votare più spesso e di fare pressione sul Governo, dal momento che consente anche al cittadino di prendere realmente parte al suo stesso governo. In termini relativi, il governo locale esalta considerevolmente questo aspetto della partecipazione popolare: dalle poche centinaia di membri di un'assemblea legislativa nazionale, si passa alle molte migliaia di consiglieri locali in tutto lo Stato. Inoltre, queste ulteriori cariche politiche elette a livello locale sono molto più importanti di quanto i meri numeri suggeriscano, perchè far parte di un consiglio locale - non comportando un'attività professionale a tempo pieno come l'essere membro di un'assemblea nazionale - attira campioni di elettorato maggiormente rappresentativi: più gente che svolge lavori di tipo ordinario, più giovani, più anziani e, soprattutto, più donne. Possiamo anche aggiungere un'altra funzione di partecipazione al governo locale, ovvero quella di "palestra" per la democrazia. Il governo locale ha il
grande vantaggio di rendere possibile, ai nuovi elettori, imparare i rudimenti del processo democratico - ovvero il bisogno di una pacifica transizione del potere, di diritti per le minoranze, di onestà finanziaria, di una stampa libera - senza mettere a rischio lo Stato nazionale. Il ruolo di "scuola" per la democrazia, chiaramente, non è più una funzione di vitale importanza, oggi, nelle democrazie collaudate, perchè i valori democratici hanno ovunque profondamente permeato la società, ma è invece fondamentale nell'Europa dell'Est ed è il motivo per cui la creazione di un dinamico sistema di governo locale democratico è, in quei Paesi, la principale priorità. Strettamente collegata all'asserito ruolo del governo locale come "scuola di democrazia", è l'altra affermazione che ritiene il medesimo promotore di partecipazione popolare. Tale affermazione considera la partecipazione non soltanto come un mezzo attraverso cui l'individuo promuove i suoi stessi interessi, ma anche come un'attività fornita di valore intrinseco in una democrazia: la democrazia, cioè, in quest'ottica, non è soltanto una forma di governo - è anche questo, ovviamente - ma essa implica anche il raggiungimento di ideali morali e la partecipazione, essendo un metodo cruciale per raggiungere uno di questi ideali, è centrale nell'idea dell'individuo come cittadino di una più ampia comunità. Questo è ciò che è stato chiamato il
"ruolo di sviluppo" (di crescita) della partecipazione, in opposizione al ruolo strumentale di cui abbiamo parlato prima5 . L'automiglioramento è un obiettivo chiave della partecipazione, così: "l'autogoverno in questo senso è autosostentamento: attraverso la titolarità dei legittimi diritti gli uomini divengono capaci di esercitarli propriamente e così essi si avvicinano a quella autonomia morale che è il vero fine dell'esistenza" 6 Votare diventa così qualcosa in più di un atto di interesse personale, ovvero un'attività condivisa con tutti i membri della comunità nel perseguimento degli interessi collettivi della comunità stessa. Se, allora, la partecipazione orientata allo sviluppo è un legittimo obiettivo della democrazia moderna, possiamo sostenere che il governo locale offre le condizioni ideali per il suo raggiungimento, poichè esso ha l'inestimabile caratteristica di essere più accessibile per il cittadino rispetto al governo centrale e tende ad essere quindi più coinvolgente. Il governo locale, per la sua dimensione, può essere una possibile arena anche per la partecipazione di massa. A questo punto, arriviamo all'ultimo ruolo del governo locale in senso partecipativo: esso è un mezzo attraverso cui le comunità naturali subnazionali che costituiscono lo Stato nazionale paesi, città commerciali, centri regionali e aree metropolitane - possono .
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essere rappresentate come collettività, aggiungendosi così, alla base individuale del sistema di voto nazionale. L'assunto alla base di tale sistema di rappresentanza supplementare è che i cittadini hanno due tipi di interessi che devono essere rappresentati in una vera democrazia. Innanzitutto, vi è il loro personale interesse, derivante dalla loro occupazione, religione o ideologia e, in secondo luogo, l'interesse derivante dal vivere in una comunità subnazionale; gli interessi collettivi, in breve, che condividono con i concittadini viventi nella stessa comunità. Il governo locale è un veicolo cruciale per l'articolazione di tali interessi e potrebbe esser visto proprio come un importante elemento nel processo democratico di autorappresentatività. Un ultimo contributo aggiuntivo viene dato dal governo locale alla democrazia nazionale attraverso la possibilità che hanno tali comunità di risolvere i propri conflitti interni pacificamente, senza "scaricarli" sul governo nazionale. In altre parole, un governo locale democratico evita la paralisi centrale e promuove stabili comunità subnazionali: uno Stato nazionale composto da tali comunità è, così, esso stesso piui efficiente e stabile. Case solide si costruiscono solo con mattoni solidi.
Efficiente fornitore di servizi Giungiamo ora all'ultima delle funzioni dei governi locali nel moderno 110
Stato democratico, funzione che non ha nulla a che vedere con la partecipazione ma, piuttosto, inerisce agli inevitabili problemi che derivano dal modo in cui il governo centrale fornisce i servizi pubblici ai cittadini. In parole povere, un sistema di governo locale consente allo Stato democratico di fornire determinati servizi pubblici in modo più efficiente ed efficace di quanto sarebbe possibile se tutto il governo fosse interamente centralizzato. Questo perchè a livello centrale, per obbedire alla logica della divisione del lavoro, il governo si organizza in dipartimenti o agenzie, specializzati nella fornitura dei servizi pubblici relativi. Tuttavia, il pubblico che dovrà fruire di tali servizi (ci riferiamo esclusivamente ai servizi interni, escludendo la difesa e gli affari esteri) non vive all'interno delle categorie logiche dell'organizzazione dipartimentale, bensì in comunità eterogenee. Città e paesi non sono mai composti soltanto da "criminali", "ragazze madri", "anziani pensionati o ccscolari , cioè dalle categorie oggetto di interesse dei dipartimenti che gestiscono le funzioni pubbliche come polizia, assistenza, ecc.. Inoltre, non solo le comunità subnazionali sono eterogenee, ma anche il carattere di tale eterogeneità varia: una stazione balneare avrà una maggiore percentuale di persone oltre i 65 anni rispetto alla media; una moderna periferia, un maggior numero di famiglie giovani. Per queste ragioni,
tutti gli Stati moderni devono "escogitare" una soluzione istituzionale che trasformi i pubblici servizi dalle categorie logiche dell'organizzazione centrale in quelle "confuse" (miste) delle comunità reali. Questo significa che deve essere creata un'istituzione per achzttare il flusso dei servizi alle peculiarità demografiche di ciascuna comunità. Una tale istituzione deve anche coordinare i diversi servizi al momento del loro consumo, vista la loro essenziale interconnessione. Infatti, e ad esempio, la maggior parte dei servizi sociali sono collegati alla famiglia, sicchè, benchè suddivisi per comodità amministrativa, in realtà essi vengono fruiti da una singola unità di consumo. In terzo luogo, tale istituzione o common generai superior ("superiore comune generale"), dovrà tener conto delle priorità nei servizi, il che significa predisporre dei programmi che facciano una ricognizione del contesto infrastrutturale di ciascuna comunità antico centro commerciale, città industriale del 19 0 secolo, moderne periferie satelliti a stanziamento di pendolari - caratterizzata dall'esigenza di specifiche priorità negli investimenti. Questa serie combinata di funzioni del governo locale, che si può definire come il "bisogno della trasformazione dei servizi", riguarda tutti gli Stati ed è la ragione per cui tutti gli Stati tendono ad avere un governo locale, indipendentemente dal fatto di essere de!le democrazie. È una funzione richie-
sta dalle immutabili esigenze di un'efficiente distribuzione dei servizi, almeno per salvare il centro dalla paralisi. In una democrazia, tuttavia, dal momento che la risposta al bisogno di servizi è, inevitabilmente, dominio dei valori (scuola secondaria selettiva o aperta? trasporti pubblici sovvenzionati o no? gli affitti per gli alloggi pubblici devono seguire il prezzo di mercato o devono essere più bassi?), il "superiore comune generale" non può essere semplicemente un emissario dello Stato centrale di cui rappresenta i valori, ma deve rappresentare i bisogni delle comunità locali, altrimenti ci sarà una situazione di perenne conflitto da cui, come abbiamo già osservato, potrebbe derivare la paralisi del centro. Deve essere quindi concepito un qualche tipo di corpo rappresentativo che rifletta l'opinione della comunità ed eserciti le tre funzioni di cui sopra - adattamento, coordinamento, priorità dei servizi. In altre parole si può dire che, ragionando in termini di distribuzione dei servizi, il governo locale sia un carattere essenziale del moderno Stato democratico. Per aggiungere un'annotazione ulteriore al ragionamento di base, possiamo dire che un corpo rappresentativo democraticamente eletto necessita di un certo grado di autonomia nonché del diritto di imporre alcune delle sue proprie entrate, per soddisfare le tre funzioni suddette. In particolare, il potere impositivo può essere cruciale 111
dal momento che la riscossione delle tasse può esser vista come la cartina di tornasole dell'esistenza di una vera autocoscienza della comunità: solo i cittadini che condividono il senso della comune identità, - si può supporre -, tollereranno l'imposizione fiscale. Per concludere questo discorso sull'importanza del governo locale nella distribuzione dei servizi, possiamo dire che, esclusivamente in termini di efficienza funzionale, se non ci fosse stato un sistema di governo locale, si sarebbe dovuto inventano perchè i! moderno Stato democratico potesse funzionare efficacemente. L'efficiente fornitura dei servizi, quindi, appare di pari importanza rispetto al ruolo dei governi locali nel campo della partecipazione. Per finire, c'è un'ultima questione da considerare: se esiste un ruolo ulteriore in riferimento al conflitto degli interessi sociali. Il tema è, in buona parte, congetturale ed è perciò raramente affrontato dalla principale dottrina. Occorre rifarsi alla tesi del cosiddetto "Stato duale", secondo cui uno dei principali compiti del governo centrale in una moderna democrazia, unitamente alla governabilità e al controllo dell'inflazione, è quello di difendere e promuovere l'economia del Paese; per far ciò esso deve gestire i suoi principali interventi economici in un contesto corporativo. Questo significa negoziare direttamente con i gruppi produttivi su scel112
te chiave come la remunerazione del capitale e del lavoro, il livello di benessere sociale, e così via. Il problema del corporatismo, tuttavia, è che esso sbilancia il sistema in favore dei gruppi produttivi, opposti ai gruppi di consumatori (anziani, disoccupati, casalinghe, etc.). Riequilibrare tale sbilanciamento è uno dei compiti del governo centrale, non solo a fini di giustizia, ma anche per "salvare" i gruppi produttivi dai loro stessi errori. Ad esempio, una pressione troppo forte da parte dei produttori per un incremento di prezzi e salari, potrebbe portare all'inflazione, che è un danno per tutti. L'esistenza di un sistema di governo locale fornisce al centro un alleato nel controllo dei gruppi produttivi, dal momento che il governo locale, date le sue responsabilità nel campo dei servizi sociali, sanitari, di istruzione e benessere, tende ad essere un sistema, su1 territorio, a difesa dei consumatori. Il governo locale, come tutti i governi subnazionali, diventa quindi un fattore di bilanciamento contro la tendenza dello Stato moderno a cedere agli interessi dei produttori dal momento che fornisce nel territorio un'arena politica alternativa e un alternativo metodo di contrattazione.
LA MODERNIZZAZIONE DEL GOVERNO LOCALE
Dobbiamo ora passare al punto centrale del presente scritto, che non ri-
guarda il governo locale in sé considerato ma piuttosto la complessa questione dell'alterazione della sua struttura - generalmente nel senso dell'ampliamento - per adattarsi al mutamento del contesto, funzionale e sociogeografico, in cui esso opera. Occorre rilevare, en passant, che tale problematica è quasi una peculiarità del governo locale, poichè gli Stati nazionali e gli Stati membri di una federazione sono generalmente immuni da considerazioni sulla loro "adeguatezza funzionale". In un sistema internazionale di Stati, che va (in gradazione fisica) dal Canada (9.976.146 Km 2) al Principato di Monaco (che è come una piccola città di 24.000 abitanti con una superficie di 1,5 1Km ) è difficile concepire delle leggi empiriche sulla gradazione ed effettività funzionale degli Stati nazionali. Menzioniamo tale differenza di propensione alla funzionalità solamente per evidenziare che l'enorme disparità in dimensione e risorse esistente tra gli Stati nazionali è vista raramente come un problema, il che rafforza l'idea che il problema si ponga in misura maggiore per il governo locale. Tale considerazione, porta immediatamente a domandarci perchè la funzionalità è diventata così importante per il governo locale rispetto agli Stati nazionali. La prima, e più ovvia, spiegazione è che un sistema di Stati nazionali deve esser considerato come un dato, dal momento che il cambiamen-
to di confine è un gioco a somma zero - una conquista territoriale di un Paese corrisponde sempre a una perdita da parte di un altro Paese - nonostante i "Id" olandesi. Dal momento che preservare l'integrità dello Stato è il principale obiettivo di ogni governo nazionale, cambiamenti di confine non sono possibili, eccetto in rarissimi casi. Avendo stabilito che i cambiamenti di confine sono possibili solo a livello subnazionale, su quali basi essi avvengono? Occorre subito riconoscere che sebbene dovremmo parlare di riorganizzazione in termini di efficienza razionale, sulla base dell'assunto per cui i comuni dovrebbero essere organizzati in relazione alle loro funzioni, l'efficienza non è il solo obiettivo nella riorganizzazione del governo locale. Nei sistemi centro-periferia con un alto tasso di politicizzazione, le considerazioni politiche di parte hanno inevitabilmente un peso, semplicemente perchè nuovi confini significano nuove maggioranze Questo potrebbe anche significare relazioni centro-periferia più amichevoli. I governi centrali possono avere un interesse nella riforma municipale anche sotto altri profili. Innanzitutto si potrebbe ipotizzare che tutti i governi cercheranno, dove potranno, di ridurre il loro carico gestionale riducendo il numero delle organizzazioni con cui hanno a che fare. È il motivo per cui i 113
governi centrali preferiscono sempre trattare con un gruppo di pressione che monopolizzi l'interesse relativo, piuttosto che con molti. Ovviamente, essi non potranno mai ottenere per definizione lo stesso rapporto «uno a uno" con il governo locale, ma la semplice riduzione numerica sarà sempre di un qualche vantaggio per il centro. In secondo luogo, il centro può essere interessato a più ampie unità medie di governo locale anche per ragioni finanziarie. Una delle caratteristiche chiave di tutti i sistemi di governo locale occidentali è che malgrado l'acquisizione di nuovi, spesso costosi, compiti, la base contributiva locale non cresce nella stessa proporzione. In breve, a carichi funzionali dinamici, corrisponde una base fiscale non dinamica, e questo è il cosiddetto problema di «resource squeeze (compressione delle risorse locali). Ampliando le unità di governo locale, parte di tale problema può essere fronteggiato, dal momento che unità sempre più ampie sono più adatte ad essere finanziariamente efficaci malgrado una base contributiva anelastica. Un sistema di governo locale ampliato può anche aiutare a semplificare quello che potrebbe diventare, a causa della compressione delle risorse locali, un sistema di "grants in aid" altamente complesso. Tornando al motivo razional-funzionale della riorganizzazione del governo locale, ci sono generalmente due cambiamenti di base, nel contesto in 114
cui il governo locale opera, che producono l'allargamento. Il primo può essere definito "socio-geografico" ed è associato a quella che è stata definita la seconda rivoluzione urbana dopo il processo di industrializzazione, ovvero la suburbanizzazione. Tale fenomeno produce l'effetto, per gli insediamenti urbani, di non entrare più nei confini del sistema di governo locale. La struttura del governo locale, cioè, diventa insufficiente, con le inefficienze che conseguono a causa dell'esternalità. La seconda causa del cambiamento di confine del governo locale deriva dalla crescita costante delle responsabilità del medesimo ad esempio nel campo dei servizi denominati SHEW (social, health, education and welfare, cioè servizi sociali, sanità, istruzione, benessere) .Tali servizi, spesso, comportano voci di capitale fisso come scuole, case residenziali, cliniche e ospedali. Per giustificare il costo di tali voci è necessaria un'ampia affluenza di consumatori, ovvero: perchè i servizi SHEW siano forniti con efficienza, si richiede una base di popolazione più ampia. Si vedrà immediatamente che entrambe le cause all'origine del cambiamento nei confini del governo locale richiedono degli ampliamenti: la causa sociogeografica porta a più ampie unità territoriali; quella funzionale, ad una maggiore popolazione. In breve, c'è stata una generale tendenza tra gli Stati occidentali, con alcune eccezioni, ad allargare le loro unità di gover-
no locale8. Finora, il dibattito ha interessato essenzialmente il governo locale di tipo "urbano"; tuttavia fra gli Stati occidentali si è avuta la percezione che anche il governo locale di tipo "rurale" necessitasse di una riforma e non tanto a causa della sua limitatezza, quanto piuttosto per la depopolazione, causata dalla rivoluzione urbana di cui sopra. Quindi, nel caso "rurale", il cambiamento del governo locale è strettamente legato al bisogno di raggiungere economie di scala e efficacia finanziaria. Lo scopo, cioè, è l'obbiettivo egualitario di cercare di assicurare che il governo locale "rurale" possa eguagliare il governo locale urbano nelle sue capacità funzionali, così da uniformare le opportunità di vita degli abitanti delle campagne e delle città. Si dovrebbe rimarcare che questa spinta egualitaria non è rimasta nei confini della modernizzazione del governo locale rurale, ma è stata una delle ragioni della riorganizzazione del governo locale in tutto l'occidente. Dal momento che il governo locale frammenta la fornitura dei servizi fra unità locali caratterizzate da variazioni di risorse molto ampie, consentendo quindi la possibilità di differenze locali, è stato visto dai "centralisti" come intrinsecamente ingiusto 9 . La riorganizzazione del governo locale ha portato a una sorta di compromesso in questo dibattito: ampliando le unità di governo locale, la ingiusta disparità
di risorse potrebbe essere mitigata, evitando così il bisogno di ricorrere alla centralizzazione. In questo senso, la riorganizzazione diventa un modo per "salvare" il governo locale o, meglio, un modo per adattano alle esigenze del welfare state. Finora abbiamo parlato del problema della riorganizzazione in termini molto generici; è giunto dunque il momento di qualificare queste affermazioni visto che in alcuni Stati europei la riorganizzazione è gia avvenuta, come mostra la tavola 1. Tale tavola fornisce un sommario della riorganizzazione del governo locale in 24 stati europei dal 1950 agli anni Novanta ed è il più aggiornato disponibile. Si vedrà che nella maggioranza dei casi una qualche riorganizzazione ha avuto luogo, ma ve ne sono alcuni in cui si è avuto un cambiamento davvero minimo e in due casi - Italia e Portogallo il numero delle unità di governo locale è invece aumentato. La cosa da notare nella tavola i è che l'ampia variazione nella portata della riorganizzazione (ultima colonna) sembra essere collegata al tipo di sistema di governo locale presente in ciascun Paese. Quindi per quei Paesi che, generalmente parlando, seguono il sistema definito "napoleonico" o a "fised hierarchy" (a "gerarchia confusa, unita") nelle relazioni centro-periferia (Belgio, Francia, Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna) con prefetti e servizi centralizzati, la portata del 115
cambiamento è relativamente piccola; mentre in quei Paesi che, sempre in linea di massima, seguono un sistema "split hierarchy" (a "gerarchia separata"), senza prefetti, con pochi servizi centralizzati e con governi locali relativamente autonomi, la portata della riorganizzazione è molto più grande. Nel gruppo "napoleonico', la media in percentuale della portata del cambiamento è 5, contro il 41,5 % del gruppo a gerarchia separata. Tali risultati devono essere trattati con prudenza, dal momento che essi non considerano 113 dei Paesi elencati nella tavola 1, la maggior parte dei quali presenta un sistema misto (fused e split) di relazioni fra centro e periferia. Tuttavia è possibile affermare che il grado di differenza tra i gruppi frsed e split che è dell'ordine di 8 lascia intendere che l'assetto istituzionale può essere solo uno dei fattori che incidono. Tale affermazione potrebbe essere confermata se fosse possibile calcolare una media per il gruppo non considerato, tuttavia per 5 di quei Paesi (7 in tutto) non risulta la percentuale di cambiamento e dunque il calcolo è impossibile. La più ovvia spiegazione della differenza nella portata della riorganizzazione indicata dalla tav. i è che le pressioni di tipo funzionale e geografico per l'allargamento, esercitate sui sistemi "napoleonici", sono minori semplicemente perchè le economie di scala e i problemi di esternalità posso116
no essere contenuti, dal momento che i servizi centralizzati non sono corrispondenti con i confini del governo locale. La portata della disparità fa capire inoltre che possono esservi ulteriori fattori che intervengono. Ad esempio, proprio perchè nei sistemi napoleonici i comuni sono innanzitutto istituzioni rappresentative, essi sono maggiormente in grado di resistere alla riorganizzazione perchè, diversamente dalle loro con troparti nei sistemi non napoleonici, essi non sono ingabbiati in una logica che vede il governo locale essenzialmente come un fornitore di servizi. Essere inefficiente in termini di servizi per un comune "non napoleonico" è una grande debolezza; per un comune "napoleonico', invece, l'incapacità funzionale è ampiamente irrilevante, il che crea un grande ostacolo alla riorganizzazione. Tale ostacolo è probabilmente rinforzato anche dalla resistenza alla riorganizzazione presente tra gli impiegati statali addetti al settore dei servizi. Rendere il governo locale idoneo sotto il profilo funzionale metterebbe la sua stessa esistenza in questione. In quegli Stati "napoleonici", come la Francia, in cui i leader locali possono "colonizzare" il centro attraverso la tradizione del cumulo dei mandati, la resistenza alla riorganizzazione del governo locale è ulteriormente rinforzata perchè i leader locali possono controllare la politica del centro stando proprio al cuore del processo di "decision
Tavola i -
Numero totale dei comuni nel 1950 e nel 1982
Paese
1950
1992
cambiamento
Austria
3.999
2.301
-1.698 (-42%)
Belgio
2.669
(1991) 589
-2.080 (-78%)
(1949) 2.178
(1991) 255
-1.932 (-88%)
11.051
5.768
-5.280 (-47%)
1.387
275
-1.112 (-80%)
547
460
-87 (-16%)
(1945) 38.814
(1990) 36.763
-2.051 (-5%)
24.272
8.077
-16.195 (-67%)
5.959
5.922
-3.783 (-0.6%)
Ungheria
n.d.
3.109
Islanda
229
197
-32 (-14%)
7.781
8.100
+319 (+4%)
127
118
-9 (-7%)
Bulgaria Repubblica Ceca Danimarca Finlandia Francia Germania' Grecia
Italia Lussemburgo
67
Malta 1.015
647
-368 (-36%)
Norvegia
744
439
-305 (-41%)
Polonia
n.d.
2.459
Portogallo
303
305
Slovacchia
n.d.
2.476
Spagna
9.214
8.082
-1.132 (-12%)
Svezia
2.281
286
-1.995 (-87%)
Svizzera
3.097
3.021
-76 (-2.5%)
Turchia
n.d.
2.378
2.028
484
Olanda
Regno Unito
+2 (+0.7%)
-1.544 (-76%)
'Si considera soio la Germania Ovest (la Repubblica Federale Tedesca) perché i dati dal 1950 per l'ex Rep. Democratica Tedesca non sono disponibili. Il numero totale dei comuni, oggi, inclusi i nuovi Lander, è tuttavia 16.061.
Fonte Summary ReportLR-S-TC(93)3, edita dal «Steering Committee on Local and Regional Authorities» (Cdlr) Consiglio d'Europa, Strasburgo 1993. 117
making" centrale e quindi stroncano sui nascere ogni tentativo di mettere a rischio la loro base locale. Ricapitolando, le conclusioni da trarre dalla tavola i sono che in termini di riorganizzazione del governo locale, possiamo percepire una divisione Nord-Sud nell'Europa occidentale ed è nel nord che la relazione del governo locale con il centro è più debole e i comuni esercitano una più ampia autonomia formale che, paradossalmente, sembra essere più sensibile al cambiamento imposto a livello centrale. Possiamo ora ritornare al nostro tema principale, ovvero su quali basi la riorganizzazione del governo locale è stata intrapresa e cominciamo dal fattore socio-geografico. Si ricorderà che tale fattore era collegato con la realtà della suburbanizzazione all'interno della struttura del governo locale: se una città si estende attraverso la suburbanizzazione, il suo governo dovrebbe espandersi di conseguenza, assicurando la massima efficienza nella gestione dei servizi territorialmente determinati (programmazione, trasporti, gestione del traffico, etc). La nuova città suburbana dovrebbe essere accompagnata da un governo unificato, secondo la formula "una città, un governo". Arriviamo ora alla seconda principale causa dell'allargamento, cioè l'incremento delle responsabiblità del governo locale nel settore dei servizi e, in particolare, l'acquisizione, da parte del medesimo, dei servizi SHEW che com118
portano un forte investimento in costose istituzioni come ospedali, scuole, e così via. Si ricorderà che l'assunto, in tale caso, era che le economie di scala si vanificano per l'esistenza di unità di governo locale troppo piccole. Aumentando la popolazione del governo locale, dovrebbe aumentare l'affluenza alle suddette istituzioni, diminuendo così la media dei costi. Il caso delle economie di scala implica anche due ulteriori elementi, il primo dei quali è che dove l'ampliamento comporta consolidamento (i due precedenti governi locali diventano uno), la duplicazione è superata. Il secondo elemento è che aumentando la dimensione si può ridurre il costo degli inputs per gli sconti sugli acquisti in massa. A questo punto è importante notare che, senza dubbio, una delle influenze nella modernizzazione del governo locale non ha niente a che fare con le teorie, ma piuttosto con una predisposizione intellettuale. L'ampliamento istituzionale, nel suo senso più ampio, ha formato una sorta di zeitgeist (spirito del tempo) in occidente nell'ultima metà del XX secolo e si può vedere chiaramente sia in relazione alla formazione della Comunità Europea, sia nella "mania" di fusione dell'industria privata e nell'emergere di conglomerati internazionali. È altresì evidente nel discorso generale sul rimpicciolimento del mondo in termini di comunicazioni, nell'espansione del
commercio internazionale e via discorrendo. Persino lo Stato nazione è stato messo sotto tiro per l'influenza dello zeitgeist dell'allargamento, e perciò non sorprende che esso abbia influenzato la discussione sull'adeguatezza del governo locale. Analizzando il periodo del dopoguerra, Marleen Brands ha osservato: "La nozione di organizzazione di larga scala era positiva e diffusa in tutte le nazioni industrializzate e non industrializzate, ed era applicata ad una vasta gamma di organizzazioni, nazionali e locali, governamentali e private, ad imprese pubbliche e semipubbliche . Sebbene le presunte relazioni tra la dimensione dell'organizzazione, la struttura e le prestazioni, erano scarsamente corroborate da ricerche empiriche, in molti casi di riorganizzazione esse appaiono come le ragioni principali delle fusioni e della ridefinizione dei confini"bO.
LA MODERNIZZAZIONE E L'EFFICIENZA DEI SERVIZI: UNA VALUTAZIONE
Problemi nell'applicazione della teoria Il riferimento, contenuto nella citazione della Brands, al fatto che risultino scarsamente corroborati i vantaggi della crescita di scala è un buon punto di partenza per il nostro discorso sull'applicazione della tesi della modernizzazione alla riorganizzazione del governo locale. 1affermazione della Brands è ampia-
mente convalidata, ma prima di arrivare alla verifica empirica è necessario evidenziare, innanzitutto, che un cambiamento strutturale quale avviene attraverso la riorganizzazione non è l'unica possibile risposta ai problemi della dimensione e delle esternalità di cui abbiamo finora discusso. È possibile raggiungere la necessaria popolazione e dimensione territoriale semplicemente con la cooperazione, attraverso sforzi congiunti, dei limitrofi governi locali. Esempi di tale soluzione sono diffusi in diversi Paesi europei. Un'altra risposta alla modernizzazione del governo locale diversa dal cambiamento strutturale è quella secondo cui il centro potrebbe rendere funzionalmente più capaci le più piccole unità locali conferendo loro maggiori trasferimenti finanziari. Un'ultima strategia funzionale, possibile quando c'è un sistema di governo locale a due livelli, consiste nel trasferire le responsabilità funzionali dalle più piccole unità di livello inferiore alle più ampie di livello superiore. In tempi più recenti, il punto focale della modernizzazione si è talvolta spostato nell'arena tecnica e politica: nel tentativo di raggiungere l'efficienza, si è avuta, ad esempio, una vasta gamma di esperimenti con nuove forme manageriali, fino ad arrivare al caso estremo di una completa privatizzazione. Tornando al dibattito sulla teoria delle economie di scala, a questo punto 119
dobbiamo evidenziare che nel nostro discorso ci atterremo ad una rigorosa definizione della teoria stessa in termini di inputs e outputs misurabili. Alcuni di quelli che parlano di economie di scala nel governo locale spesso intendono riferirsi al concetto di efficacia finanziaria, cioè: al di sotto di una certa dimensione, i governi locali non sono in grado di sostenere determinate attività perchè questo implicherebbe un insostenibile drenaggio delle loro risorse. La dimensione, allora, può essere fondamentale per il moderno governo locale per assicurare una base finanziaria sufficiente a fornire servizi che garantiscano il raggiungimento di moderni standard di vita. Non ci sono dubbi che questo potrebbe diventare davvero un problema e abbiamo già evidenziato l'importanza cruciale della dimensione in relazione alla soglia della popolazione minima. C'è anche un altro problema latente in questo discorso sulla dimensione, problema che talvolta diventa un fenomeno di "cane che si morde la coda". Tale problema sembra essere derivato dall'influenza che i burocrati professionisti hanno nello stabilire i diversi attributi richiesti perchè un servizio sia accettabile. Il pericolo è che la capacità del governo locale di sostenere il costo di alcuni marginali, ma professionalmente determinati, miglioramenti, diventi in effetti il criterio per determinare la dimensione dello stesso governo locale. Si richiede, 120
dunque, un qualche "giudizio" che distingua tra le funzioni vitali, coessenziali ad un servizio, e quelle attività marginali che la moda corrente nell'ambito della professione che gestisce i servizi reputa essere il minimo per un servizio accettabile. Per parlare senza mezzi termini, un servizio di istruzione secondaria, ad esempio, riguarda innanzitutto gli insegnanti, gli edifici, le attrezzature direttamente collegate all'insegnamento. Possono esservi alcune attività sostanzialmente ausiliarie che sono derivate da queste funzioni "cardine" e sono senza dubbio degne di essere considerate, tuttavia non dovrebbero determinare l'adeguatezza dimensionale di un'autorità scolastica. Un'altra diffusa interpretazione errata delle economie di scala nella riforma del governo locale afferma che la dimensione è essenziale per attrarre, attraverso stipendi più elevati e maggiori possibilità di carriera, i migliori tecnici e burocrati. Talvolta, tale ragionamento è fatto in relazione ai membri eletti: solo i più ampi governi locali, secondo questa teoria, attrarranno membri eletti del necessario alto calibro. Il problema nell'accettare questa affermazione non è che più alti stipendi e maggiori possibilità di carriera non attraggano i migliori burocrati o che più ampi governi locali non attraggano politici più importanti. No, entrambi i cambiamenti possono avvenire con un'accresciuta dimensione, ma il pro-
blema è che unità più ampie necessitano di. migliori politici e burocrati, dal momento che il carico gestionale è maggiore. Così, la questione non è semplicemente quella di aumentare la dimensione per migliorare la qualità, ma, piuttosto, che la qualità del personale così attratto sia più elevata del necessario per gestire un governo locale ampliato. Se così non fosse, allora l'aumento della dimensione non porterebbe a nessun miglioramento. Occorre evidenziare che la teoria delle economie di scala è derivata dalla teoria economica neoclassica dell'impresa ed è essenzialmente un assioma logico e non un fatto dimostrato. In altre parole, è una necessità logica derivata da una serie di premesse stabilite. Se il capitale fisso è utilizzato fino al suo limite nella produzione, il costo medio unitario di tale produzione si abbasserà finchè il limite del capitale fisso è raggiunto. L'assunto centrale da notare è che per la produzione industriale l'assoluta uniformità del prodotto è essenziale alla teoria. La prima difficoltà nell'applicazione della teoria delle economie di scala al governo locale si impernia sul carattere dell'output del sistema. In primo luogo, molti di questi output possono mancare di uniformità e, come abbiamo osservato, se non sono uniformi non si può applicare la teoria. Ripetiamo, l'assoluta uniformità dell'output è il sine qua non della teoria. Il secondo problema con l'output riguarda la sua
misurabilità - abbiamo bisogno di rendere gli output, in qualche modo, comparabili. Per molti output del governo locale questo non è possibile senza una seria distorsione. In ultimo, alcuni output del governo locale possono perfino non essere definibili, nè tanto meno comparabili o misurabili. Qua1 è, ad esempio, l'output di un sistema d'istruzione? Di un servizio di consulenza psichiatrica? Di un ispettore sanitario domiciliare? È vero che alcuni output del governo locale sono comparabili con la produzione industriale da cui la teoria delle economie di scala è derivata. Il trattamento della rete fognaria, ad esempio, o aspetti della costruzione di strade. Può perfino essere possibile arrivare ad output uniformi, misurabili e definibili, come nel caso della raccolta ed eliminazione dei rifiuti. Ma le attività di un normale governo locale che sono comparabili col processo di produzione industriale non sono numerose e neanche tipiche. Non possono in nessun senso essere considerate come la maggioranza della gamma dei servizi della maggior parte dei sistemi di governo locale e questo concetto ci conduce alla prossima serie di questioni connesse alla teoria delle economie di scala e connesse al problema della priorità dei servizi. È più che probabile che ciascun servizio principale abbia una diversa dimensione ottimale (un diverso ottimo di scala). La dimensione che può essere decisamente ottimale per un'effi121
ciente costruzione di case può produrre diseconomie per un ospedale pediatrico o per l'illuminazione stradale. In breve, la sostanza del governo locale è che esso è un governo globale: il governo locale è sempre un governo vario e dunque non può esservi una dimensione ottimale per un dato governo locale. Se si deve creare artificialmente una dimensione ottimale, deve esserci un qualche compromesso tra le dimensioni ottimali dei vari servizi principali. Ma quali sono le funzioni principali che si devono considerare? A questo punto cruciale della discussione, la teoria delle economie di scala ha poco da offrire. In breve, l'unico modo possibile per applicare la prova delle economie di scala nella determinazione dei confini del governo locale è una forma di bilanciamento, il che implica alcuni giudizi di valore. È irrilevante affermare che le economie di scala operano perchè io dimostrano servizi selezionati, a meno che non si sia anche disposti a dire che tali servizi sono così decisamente importanti che la dimensione di cui essi necessitano per essere espletati debba determinare i confini. La questione cruciale allora è: in che modo determinarli? La soluzione di questo problema enormemente difficile necessita, almeno, che quei servizi che vengono considerati nella determinazione dei confini siano esplicitamente stabiliti all'inizio. Una risoluzione del problema molto 122
più drastica è quella di riconoscere i limiti della teoria nel dirci qualcosa di preciso sulla dimensione e sui confini e dunque ignorarla. Il che non significa che la dimensione non abbia alcuna importanza. Inoltre, in molti Paesi europei, dato che la struttura medievale di governo locale si è in gran parte trascinata nell'era industriale, molti piccolissimi governi locali erano realmente incapaci di eseguire i compiti loro assegnati, e dunque l'ampliamento era una necessità urgente. La ricerca di una dimensione appropriata non è stata la considerazione predominante nella creazione di governi locali che avessero una qualche relazione con le esigenze - sia geografiche che funzionali - della vita moderna. Tali esigenze hanno indicato chiaramente la necessità di una qualche sorta di dimensione minima e questo ci conduce al principale contributo che la teoria delle economie di scala può offrire e cioè che ci sia una soglia dimensionale minima al di sotto della quale, per un dato paniere di servizi, un governo locale non dovrebbe scendere. Contribuire a determinare quale dovrebbe essere tale soglia sembra essere il principale contributo che la teoria può offrire alla riorganizzazione del governo locale. Essa potrebbe anche avere un ruolo nel determinare la distribuzione delle funzioni lì dove ci sono due livelli di governo locale - provinciale (o un equivalente) e comunale - come in nord Europa. Il punto chiave, che non
può essere troppo accentuato, è che l'irrefutabiltà della teoria delle economie di scala (derivata dal suo carattere assiomatico) in realtà non sembra verificarsi empiricamente per un'ampia gamma di servizi. In altre parole, l'insuccesso della teoria non sta solamente in una confutazione della sua validità come ci siamo accinti a fare, ma sta anche nel fatto che essa non sembra avverarsi in pratica. Se la teoria delle economie di scala possa o debba avere un ruolo nel determinare una soglia più elevata, non è facile stabilirlo, semplicemente perchè la dimensione dei moderni tipi di insediamento produce vasti agglomerati urbani nella maggior parte degli stati occidentali - Parigi, Londra, Tokio. E in tali agglomerati generalmente ci sono esempi, noncuranti delle economie di scala, di qualche attività collettiva di vasta area per fronteggiare le esternalità causate dall'unità socio-economica sottostante a tali agglomerati. Ed è di un qualche interesse che in alcuni ampi agglomerati urbani europei è stato necessario creare consigli subcomunali. In questo modo può essere ridotta l'influenza negativa della dimensione sulla partecipazione popolare. Un punto finale deve essere affrontato. Quando guardiamo allo Stato Europeo nella sua forma attuale ci troviamo di fronte ad enormi variazioni nella dimensione dei sistemi di governo locale. Questo è chiaramente mo-
strato nella tavola 2. Anche se abbiamo in mente le diverse condizioni storiche di ciascun Paese e le differenze nell'allocazione delle funzioni fra centro e periferia, la teoria delle economie di scala non sembra avere avuto troppa influenza, in pratica, sulla configurazione del governo locale. I governi locali, in maggior parte dell'Europa, rimangono relativamente piccoli. In 10 degli Stati riportati nella tavola 2, ad esempio, più della metà dei comuni hanno meno di 1000 abitanti e in tre Stati la percentuale sotto i 1000 abitanti è più di 80. La considerevole variazione nella dimensione della popolazione dei comuni attraverso tutta l'Europa che la tavola 2 ci rivela, ci ricorda anche che malgrado l'importanza che la tesi della dimensione può avere avuto nel processo di modernizzazione in diversi Paesi, in definitiva la capacità funzionale raramente sembra essere stata la considerazione primaria nella configurazione del governo locale. Questo è, evidentemente, il caso del gruppo napoleonico per i motivi di cui abbiamo già parlato, ma una relativa piccolezza e un'ampia estensione di popolazione sono evidenti nei Paesi non napoleonici elencati nella tavola 2, il che dimostra che la dimensione o configurazione probabilmente sono state determinate non attraverso argomenti astratti sulla dimensione, ma piuttosto, attraverso la preesistenza di comunità geografiche subnazionali autocoscienti. Il governo locale può 123
Tavola 2- Dimensione dei comuni in rapporto alla popolazione - situazione attuale
PAESE
Austria Belgio Bulgaria Rep. Ceca Danimarca Finlandia
2.3333
numero dei comuni in rapporto alla popolazione (con percentuale sul totale) meno di 1000 602
1.001-5.000
5.001-10.000
(25,8%) 1.532 (65,7%) 130
589
1
(0,2%) 101
(17,1%) 117
255
0
(0%) 21
(8,2%) 56
5.678
4.513
78,1 988
275
0
(0%) 19
455
22
(4,9%) 203
10.001100.000
(5,6%) 64 (29%) 308 (21,9%) 162
100.000+
(2,7%) 5
(0,2%)
(52,3%) 8
(1,4%)
(63,6%) 16
(6,3%)
2,4% 130
2,3% 6
0,1%
(7%) 121
(44%) 131
(47,6%) 4
(1,4%)
(44,6%) 120
(26,3%) 104
(22,9%) 6
(1,3%)
17,1% 131
Francia
36.551
28.183(77,1%) 6.629 (18,1%) 898
(2,5%) 805
(2,2%) 36
(0,1%)
Germania
16.061
8.602 (53,6%) 8.884 (30,4%) 1.144
(7,1%) 1.347
(8,4%) 84
(0,5%)
Grecia
5.922
4.704 (79,4%) 1.021 (17,3%) 74
(1,3%) 115
(1,9%) 8
(0,1%)
Ungheria
3.109
1.688 (54,3%) 1.152 (37,1%) 130
(4,2%) 129
(4,1%) 10
(0,3%)
164
(1,5%) 3
(1,5%) 1
(0,5%)
Islanda Italia Lussemburgo
197 8.101
(83,3%) 26
1.942 (23,9%) 3.974
118
60
Malta
67
6
(9%) 43
Olanda
647
1
(0,2%) 71
17
(3,9%) 230
Norvegia Polonia
439
(51%) 49
(49%) 1.150 (14,2%) 984 (41,5%) 6
(21,4%) 95
(26,6%) 3
(0,7%)
(23,3%) 43
(1,7%)
(25%) 180
(59%) 23
(7,5%)
(1,8%) 70
(2,5%) 2
(0,1%)
(52,4%) 94
1.859 (67,7%) 765
Spagna
8.086
4.902 (60,6%) 2.070 (25,6%) 519
3.021
1.799 (59,5%) 953
2.378
2
Regno Unito'
(0,1%) 1.886
-
(2,8%)
1
Turchia
(15%) (58,4%) 18
305
Svizzera
-
(27%) 10
2.746
(0%) 9
(0,7%)
(2,5%)
(27,6%) 378
Slovacchia
0
(12,2%) 51
(11%) 179
Portogallo
(0,3%) 25
(5%) 3
(49%) 18
0
285
(0%) 684
(13,2%) 3
2.465
Svezia
I
numero totale dei comuni
(27,7%) 1.165 (47,3%) 573 (8,2%) 76 (27,9%) 50
(6,4%) 540
(6,7%) 55
(0,7%)
(3,1%) 55
(19,2%) 211
(73,8%) 11
(3,9%)
(31,5%) 159
(5,3%) 105
(3,5%) 5
(0,2%)
(17,2%) 81
(3,4%)
....(79,3%) 409
484
Non sono disponibili dati in rapporto alla popolazione, ma tutte le autorità locali nel Regno Unito hanno più di 10.000 abitanti. Fonte: Summary Report LR-S-TC(93)3, edita dal «Stecring Committee on Local and Regional Authorities» (Cdlr) Consiglio d'Europa, Strasburgo 1993.
124
avere un'indubbia logica funzionale nello stato moderno, come abbiamo visto, ma da ciò non consegue che le considerazioni funzionali determineranno sempre la dimensione o la configurazione del governo locale. Che il governo locale può anche essere un conveniente fornitore di servizi è senza dubbio importante, ma questa sarà sempre, in qualche misura, una considerazione secondaria per l'esistenza di comunità subnazionali. In altre parole, siamo costretti a concludere che il governo locale è innanzitutto un'entità politica. Rimane un ulteriore, sebbene alquanto meno importante, problema relativamente allateoria delle economie di scala, ovvero: che intendiamo per dimensione? Per convenienza, la teoria delle economie di scala è stata generalmente sperimentata in termini di popolazione, ma vi sono evidenti mancanze in tale assunto. Città piuttosto piccole in termini di popolazione possono essere molto ricche in termini di risorse finanziarie. Ancora, il tipo di insediamento all'interno dell'area di un governo locale deve anche avere un'attinenza con l'output perchè può essere ingannevole ritenere che una città densamente popolata è uguale, nei termini della sua operatività funzionale, ad un governo locale che ricomprende un'ampia distesa rurale semplicemente perchè essi hanno la stessa popolazione totale.
Un altro problema che si presenta quando l'argomento delle economie di scala per l'ampliamento è usato indiscriminatamente, è che si tende ad ignorare che la curva dei costi nella teoria delle economie di scala è fatta a forma di "U". Cioè, mentre è vero che i costi medi diminuiscono man mano che aumenta la produzione sulla parte discendente della curva, essi invece aumentano inesorabilmente sulla parte ascendente. In altre parole, le economie si producono esattamente a precisi livelli di produzione. Ne consegue che, prima di mettere in relazione le economie di scala con un dato governo locale, è necessario conoscere l'andamento della curva. Quello che è inaccettabile, è l'affermazione per cui le economie di scala sono potenzialmente utilizzabili per ogni dato governo locale, senza tener conto della sua dimensione, come se le economie di scala fossero una cura per un paziente ammalato.
MODERNIZZAZIONE E PARTECIPAZIONE: UNA VALUTAZIONE
Nella prima parte del presente scritto siamo giunti alla conclusione che il governo locale è un elemento indispensabile nel processo democratico di governo perchè, oltre ad essere un efficiente fornitore di servizi, esso offre due ulteriori opportunità di partecipazione ed è anche il mezzo attraverso cui gli interessi collettivi di comu125
nità subnazionali distinte e autocoscienti potrebbero essere rappresentati nel sistema nazionale. Proseguendo nella nostra valutazione dell'incidenza della teoria delle economie di scala sul governo locale come fornitore di servizi, possiamo ora valutare l'incidenza del processo di ampliamento sui ruolo che i governi locali rivestono nella partecipazione popolare. Cioè, se l'ampliamento non riesce a rendere il governo locale più efficiente come fornitore di servizi, riesce invece ad accrescere il suo ruolo partecipativo?
La democrazia come riduttore della frnzione della dimensione Il primo punto da notare è che c'è un innegabile legame tra dimensione e democrazia. Tuttavia, esso è di tipo negativo, nel senso che più piccola è la dimensione della comunità (cioè più piccolo il numero dei suoi cittadini) più grande è il grado di democrazia, nel senso che l'incidenza di ciascun cittadino sul processo decisionale collettivo è maggiore. I governi molto piccoli, quindi, sono i più democratici. Il problema di questa relazione è che, nonostante la sua indubbia veridicità, l'incidenza dell'individuo diminuisce davvero rapidamente sopra, diciamo, le 50 per50, perciò la differenza tra 1 incidenza dell individuo in un gruppo di 1000 e in un gruppo di 100.000 è altamente marginale. La democrazia, quindi, riduce la funzione della dimensione, ma nel mondo 126
reale dove quasi tutte le unità di democrazia locale stanno superando i 100 elettori, questa relazione è poco importante. Un aspetto più interessante nel discorso sulla democraticità della dimensione ridotta riguarda i leader o rappresentanti: elemento cruciale in tutti i sistemi rappresentativi. Possiamo dire che minore è l'entità, più i leader dovranno rispondere agli elettori, dato che essi saranno per definizione più accessibili. In terzo luogo, possiamo dire che minore è l'entità, maggiore la probabilità di omogeneità sociale fra i cittadini, rendendo così possibile la formazione di maggioranze più rapide e nette per le decisioni collettive. Possiamo ragionevolmente concludere, allora, che in termini di partecipazione di base la dimensione minore ha degli indubbi vantaggi. Prima di concludere questo discorso sulla relazione tra la dimensione piccola e la democrazia, è molto importante esaminare il caso contrario, per esempio, seguendo l'opinione di Smith secondo cui, in pratica: «ampie unità di governo decentrato non hanno un record peggiore di quelle piccole in alcuni aspetti della partecipazione politica" 12 Lo stesso Smith rinforza tale affermazione sostenendo che più ampi governi locali possono fornire maggiori opportunità per la partecipazione; che più piccole autorità locali possono .
tendere a essere oligarchiche, socialmente conformiste e forse più ostili nei confronti delle spese. Un sistema di piccoli governi locali, continua Smith, può anche perpetuare una più grande disuguaglianza di risorse pubbliche fra i diversi governi locali. Infine, afferma Smith, più ampi governi locali, essendo più forti finanziariamente e politicamente, possono resistere meglio alle "usurpazioni" del centro, preservando così in miglior modo la democrazia locale. Molte delle affermazioni di Smith contro l'asserzione per cui la democrazia riduce la funzione della dimensione, sono riprese da Newton 13 il quale aggiunge uno o due ulteriori benefici della dimensione in termini di partecipazione, - come: migliori mezzi di comunicazione (radio, televisioni, giornali), sistemi di partiti e di gruppi di pressione più sviluppati -, ciascuno dei quali facilita la partecipazione pubblica. Queste affermazioni sulla dimensione sono tutte convincenti e ad esse si potrebbe aggiungere che le piccole comunità, proprio perché possono essere più omogenee socialmente, possono essere oppressive e inclini a dominazioni di élites. Su questo punto, ci sono molte ricerche che confermano l'esistenza di un tale problema nelle piccole comunità 14 Tuttavia, ciò che è stato discusso in questi esempi dei benefici della dimensione non sono tanto gli effetti di .
essa, ma gli effetti sociali, ritornando, così, al problema già discusso della dimensione della popolazione in astratto, senza tener conto del tipo di popolazione stanziale. Il motivo per cui più ampi governi locali hanno migliori sistemi di media, gruppi di pressione e partiti politici è che i più ampi governi locali sono città, mentre i piccoli governi locali tendono a dare uno scarso contributo alla partecipazione perché sono comunità rurali. Come comunità rurali, più che come piccole comunità, essi possono anche essere promotori di élites e ostili al dissenso, perfino forse più restii alla spesa pubblica delle loro "navigate" controparti, le grandi città. Che significano queste "prove contrarie in relazione alla partecipazione? Facendo un bilancio, è lecito concludere che la piccola dimensione aiuta la partecipazione, ma non in quella maniera netta affermata dai tre vantaggi precedentemente menzionati. Inoltre, un governo locale di ampia dimensione può essere vantaggioso se corrisponde con la forma urbana. Accessibilità dei servizi Ma se passiamo ad un altro aspetto della partecipazione che non sia collegato al voto, all'attività di lobby e al governare, bensì all'accesso ai pubblici servizi, possiamo percepire un chiaro vantaggio della dimensione ridotta. Ridotta, cioè, in termini geografici. Questo legame può essere affermato 127
concisamente dicendo che per un dato servizio pubblico obbligatorio, un governo locale, indipendentemente dalla sua dimensione, deve fornire almeno un'istituzione di erogazione dei servizi (SDI) necessaria per l'effettiva erogazione del detto servizio, come una scuola, un ospedale, una biblioteca a prestito, o un centro sportivo. Ne consegue che più piccola è l'area geografica di ciascun governo locale, più grande è la complessiva densità dello SDI e quindi più ampio il grado di accesso per il cittadino. Questa forma di accesso, sebbene a rigore non sia una forma partecipatoria - eccetto quando essa implica accesso ai centri decisionali e ai servizi negli uffici decentrati dell'autorità locale - è, tuttavia, un aspetto estremamente importante del governo democratico poichè se lo SDI è troppo lontano dai cittadini, allora essi non possono utilizzarlo, in pratica, il servizio non esiste. Finora abbiamo considerato la partecipazione in relazione alla dimensione e possiamo riassumere le conclusioni che ne derivano mostrando che un governo locale di piccola dimensione è, a conti fatti, preferibile a un governo locale ad ampia scala. Di conseguenza, sembra improbabile che l'ampliamento derivante dalla riorganizzazione tenderà ad incrementare la partecipazione popolare. Tuttavia, tale conclusione non esaurisce la questione che l'ampliamento pone in relazione alla partecipazione. 128
Ampliamento e partecipazione Nella prima parte del presente articolo il governo locale è stato visto come un importante elemento di partecipazione popolare sia perchè esso offre al cittadino comune maggiori e ulteriori opportunità di partecipare al processo politico, sia in secondo luogo perchè gli offre la possibilità di partecipare al suo stesso governo. Infine, abbiamo notato che il governo locale aumenta le opportunità di partecipazione popolare fornendo, in forme istituzionali, un metodo per rappresentare gli interessi collettivi delle comunità subnazionali. Dobbiamo ora considerare fino a che punto queste funzioni chiave del governo locale vengono interessate dall'ampliamento. Per quanto riguarda le prime, voto e influenza, sembrerebbe esserci una piccola incidenza dell'allargamento, eccetto che la sede del governo locale sarà più distante dalla media dei cittadini nei più ampi governi locali e quindi il ruolo di influenza del cittadino può corrispondentemente diminuire. In relazione al secondo, la partecipazione al governo, la questione è diversa perchè non c'è dubbio che l'ampliamento riduce il numero totale degli eletti nel sistema di governo locale globalmente considerato, dato che interi governi locali probabilmente spariranno. Questo perchè il numero dei consiglieri per una data unità locale tenderà ad essere lo stesso indipendentemente dalla dimensione. Così il
consiglio di una unità riformata, raramente avrà tanti membri quanti erano in totale nelle più piccole unità che esso ha sostituito. 'Giungiamo ora al ruolo di rappresentanza della comunità locale. Il punto essenziale riguardo a questa funzione partecipativa del governo locale è che essa è basata sull'assunto per cui i cittadini, vivendo in stretta vicinanza l'uno con l'altro, hanno interessi collettivi oggettivi che possono necessitare di tutela. Si assume inoltre che la stretta vicinanza ingeneri anche sentimenti soggettivi di identificazione comunitaria così che i suddetti cittadini sentono di avere più in comune fra di loro di quanto non abbiano con la gente che vive oltre i confini della loro comunita. Questi "sentimenti» sono il sine qua non di un moderno governo democratico poichè rendono possibile la fornitura per tutti dei beni di consumo collettivi, finanziati attraverso una contribuzione obbligatoria, le tasse, indipendentemente dai benefici ricevuti. Fino a che punto l'allargamento influisce su questo ruolo - rappresentanza delle comunità subnazionali - del governo locale? Come abbiamo già ricordato, in favore dell'allargamento, oltre all'argomento delle economie di scala c'è anche la tesi sociogeografica, secondo cui i confini del governo locale devono essere estesi così da ricomprendere la reale estensione del centro cittadino suburbanizzato e il suo hin-
terland, recuperando così le esternalità e creando enti di pianificazione più efficaci. Ma fino a quanto il confine deve essere esteso per includere l'hinterland? Delineare la reale estensione dell'hinterland socioeconomico di un centro urbano non è un compito semplice. È relativamente facile definire un hinterland in astratto, è molto più difficile applicare la teoria in pratica e bisogna ricorrere ad indici quali la percentuale di forza-lavoro pendolare verso il centro; le reti di trasporti pubblici o la densità lavorativa. In ogni Caso, se tutte le esternalita vengono internalizzate", il nuovo confine può essere davvero molto vasto. Tuttavia, creando una giurisdizione così larga, il ruolo della comunità subnazionale può essere perduto. In altre parole, una città e il suo hinterland possono essere la base ideale per un governo locale più efficiente in termini oggettivi, ma la nuova area può essere di gran lunga troppo grande per ingenerare un senso di identità comune. Gli abitanti delle campagne e quelli dei sobborghi possono ben rientrare nell'ambito di astratte mappe di pendolari e di altri collegamenti socioeconomici, ma essi non possono condividere nessun senso di identità con quelli che vivono nel centro cittadino. Insomma, i criteri obiettivi per delimitare le moderne unità di governo locale non sono necessariamente in relazione con i sentimenti soggettivi dei cittadini coinvolti. Così, l'allargamen129
to può significare non solo perdite cruciali per i cittadini in termini di partecipazione, ma anche unità instabili di governo locale e la perdita di quel vitale senso dell'identità locale che punte!la (sostiene, consolida, rafforza) il processo politico a livello locale. Arriviamo alle conclusioni correndo il rischio di semplificarle al massimo. Possiamo dire, in primo luogo, che il governo locale appare come un importante, per non dire vitale, elemento nel moderno Stato democratico. È importante per le ulteriori, cruciali, opportunità partecipative che esso offre al cittadino medio e ha particolare efficacia in quanto fornisce alla gente comune l'opportunità di prendere parte al loro stesso governo come il sistema di rappresentanza nazionale non riesce a fare. Il governo locale risulta anche come un efficiente fornitore di servizi, ruolo che non viene spesso riconosciuto. Puramente in termini di erogazione dei
servizi, un qualsiasi tipo di governo locale sembra essere essenziale per una gestione efficiente e perchè il centro non sia sopraffatto. La seconda principale conclusione è che la teoria delle economie di scala, che ha fortemente influenzato la diffusa tendenza ad ampliare il governo locale in tutto l'occidente, può essere seriamente difettosa. Ancora, la tesi funzionale per la riforma del governo locale mostra segni di debolezza nel caso partecipativo piccole unità locali hanno generalmente un chiaro vantaggio in termini di partecipazione rispetto alle più ampie. Esse possono avere anche un vantaggio in termini di accesso dei cittadini ai servizi, dato che può esserci la tendenza nei più ampi governi locali a fornire un minor numero di istituzioni di erogazione dei servizi (biblioteche, centri sportivi, scuole) rispetto ai governi locali più piccoli.
I testi base in inglese sui ruolo e le funzioni del governo locale in una moderna democrazia sono: J.S. MILL, Considerations on Representative government, World Classic Edition, Oxford University Press, 1912, Cap. XV. A. Mss (ed.), Area and Power, Free Press, New York, 1959. L.D. FERLMAN (ed.), Politics and Government of Urban Canada, Methuen, Toronto, 1981. Si vedano, in particolare, i saggi di LANGROD, M0ULIN, DAI-IL e Si-IAJU'E, nella sezione A. G. JONES, J. STEWART, The case ofLocal Government, Allen and Unwin, London, 1983. B.C. SMITH, Decentralization, Allen and Unwin, London, 1985.
2 Rapporto deli'Us Advisory Commission on Intergovernmental Relations, Washington Dc - Government printing OfIlce, 1955, p. 9. Si veda ANWAR SAYED, The political Theory ofAmerican Local Government, Random House, New York, 1966, nonché L.J. SHARPE, American Democracy Reconsiderea parti 1 e 2, in «Brirish Journal of Political Science», 3, 1&2, 1973. G. DUNCAN, S. Luies, The New Democracy, in «Political Studies», )U, 2, 19635 G. PAIux (ed), Participarion in Politici, Manchester University Press, 1972. 6 DUNCAN, Lus, The New Democracy, cit. p. 160. L.J. SHARPE (ed), The localfiscal crisis in Western Europe: Mythis and realities, Sage, London, 1981.
130
(Traduzione di Adele Magro)
Si veda, ad esempio, G. LANCROD, Local Government and Democracy, in «Public Administration»,
Sul dibattito sulla riorganizzazione del governo locale nel mondo si vedano, in inglese: A.F. LEEMANS, Changing Patterns ofLocal Government, Iut, The Hague, 1970. D.C. ROWATF (ed), International Handbook on Local Gouernment Reorganization, Greenwood Press, West-
9
point, 1980. A.B. GuNucKs (ed),
The Impact ofPopuiation Size on Local Authority Cost and Effectiveness, Rowntree Foundaton, London, 1993,
8
Local Government Reform and Reorganiz.ation: An International Perspective, Kenicat
Press, Port Washington, B. DENTE, F. KJELLBERC,
1981.
XXXI, 2,1953. IO MARLEEN BRANDS, Theories ofLocal Government Reorganization: an Empirical Evaluation, in «Public
Administration», 70, 3, 1992, p. 449. 1 T. TRAVERS, G. JONES and J. BuRNH,
p. 53.
nal Institute ofAdministrative Sciences, Bruxelles, n.d.
SMITU, Decentralization, cit, p. 71. K. NEWrON, Is Smail Really So Beautz6d? 15 Big really So Ugly?, in «Political Studies», XXX, 2, 1982. 4 Si veda, ad esempio, A.J. VIDICH, J. BENSMAN, Smail Town in Mais Society, Rowntree Foundation, Princenton, Princeton University Press, 1968.
-.,
131
The Dynamics oflnstitutional Chànge: Local Government Reorganization in Western Democracies, Sage, London, 1988. G. MARCON, I. VEREBELYI (eds), New Trends in Local Government in Western andEastern Europe, Intematio-
2
13
Decentramento, privatizzazione e rappresentatività nel governo locale di Henry Bii ck*
A partire dalla metà degli anni Ottanta, le autorità locali svedesi hanno subito notevoli cambiamenti. Questi hanno, in parte, riguardato l'organizzazione esterna all'interno del programma del governo centrale per accrescere l'autonomia delle autorità locali. La "libera iniziativa delle autorità locali", la legge sul governo locale del 1992, la delega del sistema scolastico ai comuni e un nuovo, più solido, sistema di garanzie statali, sono tutte realizzazioni di questo tentativo. In realtà, lo sforzo non è stato sempre coerente. Riforme come il 'congelamento' delle tasse delle autorità locali, la cancellazione di aiuti statali e l'imposizione di nuove responsabilità dovute al trasferimento di compiti dal governo centrale ai consigli provinciali, hanno agito contro l'obiettivo principale. I principali cambiamenti organizzativi hanno, tuttavia, riguardato l'organizzazione interna delle autorità locali. Tali cambiamenti possono essere definiti come un trasferimento di intere attività o funzioni centrali ad una struttura che può essere organizzata • Docente di Scienze politiche, Università di Stoccolma.
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nelle dimensioni di livello e settore. Il livello fa, in genere, riferimento alla dimensione territoriale. Il livello centrale si riferisce all'intero territorio nazionale: le organizzazioni di livello centrale nazionale hanno come terreno operativo l'intero Paese. Allo stesso modo, anche le autorità locali hanno organizzazioni responsabili per le attività nell'intera area di livello locale. Una definizione alternativa di livello riguarda la dimensione della popolazione coinvolta. I concetti di livello territoriale e demografico sono collegati fra di loro. A livello centrale essi coincidono, mentre possono differire a livèl!o locale: il livello, territoriale locale corrisponde ad un livello demògrafico locale, mentre quest'ultimo non necessariamente coincide con il livello territoriale. Il settore inerisce alla distinzione convenzionale tra i settori pubblico e privato. Entrambi sono 'popolati' da differenti tipi di attori ed organizzazioni. All'interno del settore pubblico ci sono lo Stato, con le sue varie componenti: organi politici e amministrativi, e le autorità locali con i loro organi equivalenti. All'interno del settore pri-
vato troviamo imprese, organizzazioni volontarie e nuclei familiari. Possiamo fare un'utile distinzione, all'interno di questo settore, tra un settore affaristico e uno associativo e, forse, fare anche un'ulteriore distinzione tra questi due settori, che sono dominati da organizzazioni formali, con il settore informale dei nuclei familiari. Entrambe le dimensioni possono essere combinate per produrre una matrice in cui tutte le organizzazioni della società hanno un posto. Il concetto di livello è spesso più chiaro nell'organizzazione del settore pubblico. Il governo, il parlamento, i ministeri e gli altri uffici statali centrali sono collocati a livello centrale. A livello locale ci sono le autorità locali, ma sono anche presenti uffici statali come polizia, uffici tributari, unità militari, istituzioni di istruzione superiore, prigioni, uffici postali e così via. Convenzionalmente, si distingue anche un livello intermedio, con consigli provinciali e comitati amministrativi. All'interno dei consigli locali delle autorità locali, comitati esecutivi e commissioni, come pure i dipartimenti centrali, sono assegnati al livello centrale, mentre uffici dell'autorità locale e altre organizzazioni locali insieme ai produttori di servizi individuali come scuole, asili e circoli ricreativi sono assegnati a livello locale. In confronto, i livelli all'interno del settore privato sono meno chiari. È possibile comunque distinguere livelli strutturali che somiglino a quelli che
troviamo nel settore pubblico, nelle aziende e anche nelle organizzazioni di più ampio interesse. A livello locale possono essere incluse famiglie, piccole imprese, filiali di grosse compagnie e associazioni volontarie. PoLITIcA, GERARCHIA E MERCATO
Esiste una relazione tra i settori e i sistemi di management e di coordinamento. Il settore pubblico è dominato dalla catena di comando democraticoburocratica che ha le sue origini nei bisogni dei cittadini e nei loro desideri per il futuro. Il sistema elettorale convoglia i valori dell'elettorato verso i rappresentanti eletti, che poi li trasformeranno in decisioni politiche. Con l'ausilio di un insieme di strutture di gestione, chi decide assume che l'apparato amministrativo professionale e le organizzazioni produttive dei servizi pubblici metteranno tali decisioni in pratica. Il principio di coordinamento che precede le decisioni è la politica una partita in cui il potere e le posizioni sono la valuta. Dopo la decisione, il principio di coordinamento è la gerarchia, dove autorità e obbedienza svolgono funzioni equivalenti. All'interno del settore affaristico privato, il mercato agisce come principio di coordinamento fra gli attori individuali. Attori razionali, 'egoisti', scelgono fra alternative di vendita e di acquisto. Nel mercato c'è una diversa gradazione di relazioni competitive 133
che va dal massimo del mercato monopolistico e monopsonistico al massimo di decentramento dei mercati di concorrenza perfetta. In questi ultimi, la competizione alla fine produce la distribuzione più efficiente delle risorse di produzione. Servizi di pubblica utilità sono prodotti con il minimo sacrificio possibile. Tuttavia, è stato ampiamente riconosciuto che ci sono fattori intrinseci al mercato che spingono nella direzione dei monopoli. Ci sono anche punti di vista alternativi che spiegano ciò che accade quando 'egoisti razionali' entrano in contatto tra di loro. Il 'dilemma del prigioniero' è un noto esempio in cui l'egoismo spinge il sistema verso uno stato di equilibrio in cui, diversamente dal caso del perfetto funzionamento del mercato, il bene collettivo non è massimizzato. Come la democrazia è caratterizzata sia dalla politica che dalla gerarchia, éosì esiste un dualismo anche all'interno del settore privato. Differenti forme di interazioni di mercato coordinano il sistema delle organizzazioni, ma all'interno di tali organizzazioni il principio di gerarchia domina, come nel settore pubblico. Il settore associativo mostra ulteriori similitudini con la catena di comando democraticoburocratica: i membri eleggono i corpi decisionali ed esecutivi che, almeno nelle più ampie organizzazioni, hanno un apparato amministrativo professionale a disposizione. Ma ci sono anche importanti differenze tra il settore as134
sociativo e quello pubblico: l'adesione è in maggior misura volontaria nel settore associativo, dove le decisioni non possono essere forzate con il ricorso alla violenza come ultima risorsa del potere. I cambiamenti organizzativi avvenuti fra gli anni Ottanta e Novanta nel settore pubblico e specialmente nelle autorità locali si caratterizzano come trasferimenti di funzioni, collegate a diverse attività. Il grado ditali cambiamenti si ripercuote anche nei sistemi di coordinamento e di management. Un altro tipo di cambiamento ha comportato che siano stati presi in prestito elementi dal sistema di management di un altro settore. Gudmund Hernes (1980) evidenzia tali prestiti in tutte le direzioni: sistemi di 'prezzi interni' e corruzione erano elementi del mercato importati nelle burocrazie; il mercato a sua volta ha importato i controlli e il monitoraggio della competizione dalla burocrazia; la cooperazione dei consumatori è una forma importata dal settore associativo a quello del mercato, etc. Tra le funzioni che sono state trasferite, una speciale attenzione è stata data a quelle di specificazione, finanziamento e produzione. Possono essere illustrate attraverso l'esempio di un dipartimento scolastico dell'autorità locale. Nell'organizzazione tradizionale, esso è stato finanziato con i proventi delle tasse. Le specficazioni, nel senso delle direttive da seguire, sono state date
dai politici nel contesto del comitato scolastico locale e l'aspetto della produzione è stato curato da scuole dell'autorità locale. Tutte e tre le funzioni sono pubbliche. Finanziamento e specificazione sono entrambi centrali, mentre la produzione è locale. Un trasferimento di responsabilità politica a un comitato di quartiere o un consiglio scolastico locale trasferisce anche la funzione di specificazione a livello locale. In un sistema di aiuti scolastici agli studenti (es. borse di studio) lì dove ci sono sia scuole pubbliche che private, il finanziamento centrale è mantenuto, ma la funzione di specificazione è trasferita alle famiglie al livello locale nel settore privato. La produzione può essere trovata a tutti e tre i livelli, ma soprattutto a livello locale. Possiamo a questo punto dare dei nomi a quei trasferimenti: i trasferimenti dal livello centrale a quello locale sono definiti decentramento e, nella direzione opposta, centralizzazione. Trasferimenti funzionali dal settore pubblico a quello privato o l'adozione di meccanismi di mercato nel settore pubblico, SOflO detti privatizzazioni. Trasferimenti funzionali dal settore privato a quello pubblico o la presa in prestito di elementi democratico-burocratici da parte del settore privato sono detti socializzazione. DEMOCRAZIA, EFFICIENZA E GIUSTIZIA
I diversi tipi di cambiamento Organizzativo - decentramento, accentramen-
to, privatizzazione, socializzazione sono giustificati in termini di tre criteri: efficienza, influenza del cittadino e giustizia. La principale argomentazione a favore del decentramento è stata di tipo democratico: il decentramento aumenta l'influenza del cittadino. La tesi poggia principalmente sull'idea che i cittadini più direttamente interessati abbiano 'voce in capitolo' nelle attività che li riguardano. Spesso si è applicato il principio geografico per delimitare i cittadini interessati. Anche altri argomenti di tipo democratico hanno lasciato il loro segno sulla teoria del decentramento: ad esempio, si è detto che la piccola dimensione del livello locale aumenta il coinvolgimento del cittadino e la capacità gestionale dei politici. Accanto all'argomentazione democratica, è stata invocata anche l'efficienza: la conoscenza locale porta a migliori decisioni. L'integrazione di diverse attività grazie alla piccola dimensione consente l'utilizzazione di personale e risorse locali. Gli stessi argomenti della democrazia e dell'efficienza presentati a favore del decentramento, sono stati usati anche per sostenere l'accentramento. L'argomentazione di tipo democratico a favore dell'accentramento mette in cvidenza le difficoltà incontrate all'interno delle moderne società complesse per individuare quei cittadini più interessati a determinate scelte e che perciò dovrebbero avere un'influenza 135
maggiore rispetto agli altri. In una società integrata e complessa, tutte le componenti sono coinvolte in tutte le attività. La tesi dell'efficienza, tuttavia, è stata vista probabilmente come decisiva: il livello centrale è in grado di gestire la situazione nel modo necessario per un efficiente processo decisionale. A livello centrale è possibile evitare quella politica 'subottimale' caratteristica delle decisioni locali e che comporta una riduzione del bene collettivo. Molte attività richiedono risorse umane 'e tecniche costose e specializzate, disponibili solo a livello centrale. Accanto ai criteri dell'efficienza, l'argomento della giustizia risulta la principale ragione a favore dell'accentramento. Nel campo della produzione dei servizi, come istruzione, sanità e servizi sociali, centrali per il welfare state, è considerato vitale che tutti i cittadini abbiano accesso alla stessa qualità e quantità dei servizi medesimi. Pertanto, nell'esercizio di autorità come l'imposizione fiscale o la restrizione della libertà, non dovrebbe esserci una moltiplicazione dei centri decisionali. Anche la privatizzazione è giustificata con criteri di efficienza e di influenza, considerati della stessa importanza. L'argomentazione dell'efficienza si hasa, ovviamente, sulla teoria del mercato. La competizione individuale assicura la distribuzione delle risorse di produzione nel modo più efficiente. 136
Ma il mercato è anche un sistema per l'influenza dei cittadini o, forse è meglio dire, dei clienti. I produttori che vendano beni costosi e scadenti, vedranno i clienti lasciare il loro negozio per rivolgersi ai concorrenti. Coloro che non si adattano alle domande dei clienti, escono dal mercato. L'argomentazione a favore della socializzazione ha, ancora una volta, posto l'accento sulla democrazia. Se la democrazia è un buon sistema per l'influenza del cittadino, allora la democrazia di una società aumenta quante più attività e funzioni sono poste sotto il controllo dei cittadini. Una posizione attualmente non proprio à la mode, è l'idea per cui l'economia pianificata socialista è più efficiente rispetto alle tendenze miopi, anarchiche e monopolistiche de! mercato.
CosIGLI DI QUARTIERE E ORIENTAMENTO VERSO IL MERCATO
Decentramento e privatizzazione sono stati i punti chiave delle riforme e dei cambiamenti del governo locale tra gli anni Ottanta e Novanta. Il periodo di riforma è cominciato col decentramento, seguito poi dalle riforme del confine del governo locale a fini di democrazia. Si ritenne che la distanza tra elettore ed eletto fosse aumentata; mentre un ristretto gruppo di politici [da qui in poi: il corpo politico] stava incontrando difficoltà nel controllare una burocrazia crescente per dimen-
sione, esperienza e potere. Concepito come un problema per la democrazia, sembrò naturale compiere cambiamenti organizzativi attraverso l'implementazione di misure di decentramento, nell'interesse della democrazia. L'attività decisionale all'interno dei corpi rappresentativi doveva essere spostata ad un livello territoriale di recente creazione. I consigli di quartiere (Kommundelsnamnder, d'ora in poi: KbN) dovevano essere strumenti di democrazia attraverso il controllo elettorale dei politici che, a loro volta, controllavano i servizi amministrativi. Tuttavia, il decentramento territoriale dell'attività di decisione politica ha presentato alcune debolezze. Soffriva del classico conflitto del decentramento, fra influenza democratica da una parte ed efficienza economica e giustizia dall'altra. Inevitabilmente, la soluzione di questa contraddizione porta a un compromesso in cui nessuno degli interessi è completamente soddisfatto. Nel caso del KDN, il conflitto è stato risolto attraverso un controllo centrale in forma di elezioni indirette, e attraverso l'allocazione dei fondi da parte del consiglio comunale. Un altro conflitto, ha avuto le sue origini nel carattere 'nostalgico' della riforma del KDN. Con tale riforma, ci si riproponeva di aumentare il numero dei rappresentanti eletti che avessero legami locali, dividendo l'amministrazione lungo linee di settore (quindi rafforzando il livello politico rispet-
to a quello amministrativo) e creando dei forum decisionali dove le fedeltà territoriali locali potessero avere un ruolo relativamente maggiore rispetto alle fedeltà settoriali e politiche del partito. Dietro la riforma del KDN, Si può percepire la figura del consigliere comunale "profano" [uomo della strada, Nd. TI, come figura ideale. Dato che tali consigli comunali sono stati a lungo irrealizzabili, il tentativo di portare indietro l'orologio era predestinato a fallire. Il compromesso tra controllo centrale e decentramento è stato, forse, tale da dare al centro troppo potere sulla periferia. Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, lo sviluppo sociale ha indicato l'emergere di nuove tendenze. I liberisti conquistavano terreno su tutti i fronti. Le preferenze della cittadinanza, si diceva, sarebbero soddisfatte meglio attraverso meccanismi di mercato che non attraverso il sistema gerarchico di trasformazione delle preferenze, tipico dello Stato centrale e del livello locale, con le loro catene di controllo democratico. L'aumento delle difficoltà finanziarie affrontate dalle autorità locali determinò la richiesta per una pit efficiente allocazione delle risorse e fu generalmente ritenuto che in ciò il mercato fosse migliore della democrazia. La questione riguardava, inizialmente, il cambiamento del livello al quale le decisioni venivano prese all'interno del settore pubblico. Invece, essa di137
venne un problema di trasferimento delle decisioni dal settore pubblico al mercato, mentre meccanismi privatistici venivano introdotti in quel che rimaneva del settore pubblico. Le funzioni di specificazione e la funzione di finanziamento potrebbero essere privatizzate. La funzione di produzione, quindi, di fronte alla minaccia di una totale privatizzazione, potrebbe essere resa più efficiente con un sistema di gare di appalto e l'uso di imprenditori privati. Con l'ausilio di un modello cliente/contraente e di vari sistemi di prezzi interni, i meccanismi di mercato dovrebbero rimpiazzare la radicata catena democratico-burocratica. Invece di uno spostamento tra livelli, ora l'accento è stato posto su uno spostamento tra settori.
DEMOCRAZIA, RAPPRESENTATIVITÀ E LEGITTIMAZIONE
La democrazia può essere concepita come un sistema per trasformare le preferenze dei cittadini in decisioni politiche e azioni che, in definitiva, mirano a incidere sulle condizioni di vita dei cittadini stessi. Se la democrazia abbia o meno successo, in definitiva, dipende dall'efficienza con cui essa riesce a operare questi cambiamenti: dalla sua capacità di fornire i servizi. Si tratta di un'opinione rinvenuta sia in generali dibattiti sociali, sia tra ricercatori politici. Altri commentatori e ricercatori rivol138
gono la loro attenzione ai processi che intercorrono tra l'espressione delle preferenze dei cittadini e la fornitura dei servizi. Il suffragio universale e ugualitario, la libertà di opinione, una cittadinanza informata e attiva, la competizione fra partiti politici, il sistema parlamentare, il controllo efficace della burocrazia, la rappresentanza politica, sono stati considerati essenziali per la democrazia. L'attenzione a ciò che accade tra le preferenze dei cittadini e la fornitura dei servizi si può, sostanzialmente, giustificare in due modi: il primo afferma che queste istituzioni o operazioni interposte sono dei prerequisiti per un'efficace distribuzione dei servizi che sia in accordo con i desideri dei cittadini; il secondo afferma che alcune di queste soluzioni intermedie sono o valutabili per se stesse o necessarie per raggiungere altri fini. Sulla prima giustificazione possiamo affermare che solo libere elezioni fra partiti in competizione sono state efficaci nell'offrire buoni standard di vita per la maggioranza dei cittadini. Anche le autocrazie illuminate hanno, in definitiva, fallito. La seconda richiede che differenti gruppi e categorie di cittadini abbiano loro propri rappresentanti fra i decisori, nell'interesse della giustizia. Ad esempio, le argomentazioni a favore di una maggiore rappresentanza delle donne hanno 'schierato' entrambe le giustificazioni. La rappresentan-
za delle donne è stata presentata come una risorsa per l'attività decisionale e come una necessità, dal momento che le donne hanno interessi diversi rispetto agli uomini. Se le donne non partecipassero esse stesse al processo decisionale, questi interessi non sarebbero mai espressi. Entrambi questi argomenti significano che la capacità del sistema politico di fornire servizi aumenta se le donne sono rappresentate. Il secondo tipo di giustificazione afferma che è ingiusto che le donne non siano rappresentate. La questione dei politici come 'luoghi d ascolto, il cui lavoro e quello di trasmettere i desideri del corpo elettorale e quindi raggiungere migliori risultati, e i problemi che si presentano quando tali luoghi d'ascolto si riducono, non sono limitati alla sola Svezia: sono stati osservati anche in Norvegia e in Gran Bretagna. Due importanti esperti inglesi di governo locale scrivono che "Ogni riduzione del numero dei consiglieri presenta dei pericoli se si attribuisce importanza al ruolo rappresentativo dei consiglieri" (Clarke e Stewart, 1989). Se il sistema non è in grado di erogare i servizi o non soddisfa i criteri ritenuti necessari per un'efficiente distribuzione, o, ancora, se il sistema non soddisfa i criteri giudicati importanti per altri valori fondamentali, allora esiste il rischio che i cittadini riterranno che il sistema non ha più ragion d'essere. Viene chiamata in causa la legittimazione di un sistema
politico. La legittimazione può essere collegata alla capacità di erogazione dei servizi, e alle parti del processo intese come vitali per farlo, o che sono importanti per raggiungere altri valori come giustizia, uguaglianza e la possibilità di avere influenza. La rappresentatività è chiaramente intesa come il principio del processo. Il sistema elettorale è basato sul principio di rappresentanza degli elettori del territorio e delle differenti opinioni della popolazione. Il processo di nomina dei partiti politici dedica una considerevole attenzione alla rappresentanza delle categorie sociali e dei gruppi di interesse. Molti gruppi sono essi stessi attivi nel sostenere la loro stessa rappresentanza. Indipendentemente dal fatto che la rappresentanza possa o meno essere un criterio necessario per la capacità di fornitura del sistema, la sua legittimazione diventerà vacillante se la rappresentatività si indebolisce.
UNA RICERCA EMPIRICA
Democrazia e influenza dei cittadini sono addotte come giustificazioni sia per il decentramento politico verso i KDN, sia per procedere verso la privatizzazione e verso l'introduzione di logiche di mercato nelle autorità locali. Come altri sistemi, la democrazia dipende, per sopravvivere, dalla legittimazione e sulla legittimazione può incidere il grado di rappresentatività del 139
sistema. Questa è la base normativa (l'assunto) per la nostra ricerca empirica i cui risultati vengono qui presentati. Naturalmente bisogna evidenziare che le conclusioni tratte sono valide ceteris paribus. Se si può dimostrare che uno dei due cambiamenti organizzativi - decentramento o privatizzazione - ha conseguenze negative per la rappresentatività (e quindi, con ogni probabilità, per la legittimazione del sistema), allora si può trarre la conclusione che l'attuale cambiamento ha fallito solo se le altre componenti della democrazia e dell'efficienza non si sono sviluppate talmente da compensare la perdita di rappresentatività. Politologi svedesi hanno portato a termine, per due volte, vasti programmi di ricerca sul governo locale per valutare le conseguenze della riforma del confine del governo locale. Un terzo programma di ricerca, incentrato sugli effetti, per la democrazia, dei successivi cambiamenti nell'ambiente e nell'organizzazione del governo locale, è stato avviato nel 1991. In tutti e tre i programmi di ricerca, parti dell'indagine sono state condotte su autorità locali selezionate. Nell'ultimo dei programmi completati - sulla Democrazia del governo locale - è stato studiato un campione di 50 autorità locali selezionate casualmente. Quelle parti delle ricerche rilevanti ai nostri fini sono state condotte in metà delle originarie 50 autorità locali, an140
che esse scelte a caso. Quando si trattò di formare il campione per il programma di ricerca in corso - 'Democrazia in transizione' - fu naturale cominciare con il campione del gruppo di ricerca del 1979 sulla Democrazia del governo locale. Il campione è stato integrato con un campione di consigli provinciali scelti 'strategicamente'; alcune autorità locali sono state sostituite ed altre aggiunte, in parte per includere un numero abbastanza ampio di autorità locali con KDN, in parte per includere un numero ragionevole di autorità locali primarie (il primo dei due livelli del sistema di governo locale) nelle aree dei consigli provinciali selezionati. I precedenti programmi di ricerca avevano escluso le grandi città dall'indagine. Per affrontare i particolari problemi delle autorità metropolitane si è invece, ora, deciso di includere nel campione l'autorità locale di Giteborg. Il campione finale consta di 28 autorità locali e 4 consigli provinciali - 20 delle 28 autorità locali erano già presenti nel campione del 1979, formato da 25 autorità locali. Dal momento che rilevazioni attinenti alla presente indagine erano già state fatte nel 1979, fu naturale portare a termine quel lavoro nello schema del programma di ricerca che stava già lavorando sul campione di 28+4 autorità locali. L'indagine può essere considerata, per 20 autorità locali come un'indagine di confronto diacronico che accresce la
possibilità di dire qualcosa sui cambiamenti nel tempo. Per le restanti 8 autorità (e per i 4 consigli provinciali) possiamo solo dare un quadro della situazione all'autunno 1992. Tuttavia, ci sono riferimenti al come le autorità locali, nello stesso momento temporale, differiscano tra loro riguardo alle riforme organizzative. Sono state redatte liste dei rappresentanti eletti dalle 32 autorità locali (compresi i 4 consigli provinciali). Le informazioni relative sono state inserite in elenchi individuali. Le informazioni regolarmente trovate riguardano la struttura degli incarichi (i compiti che una persona ha), l'appartenenza partitica, il sesso e, in casi eccezionali, la professione e/o l'età. Nel concetto di incarico abbiamo incluso tutte le funzioni pubbliche come membri o come supplenti in consigli, comitati o commissioni. La categoria delle commissioni include tutti gli organi che abbiano un effettivo ruolo amministrativo. Esempi di organi che sono, per definizione, esclusi, sono le commissioni elettorali e contabili. Naturalmente, non abbiamo incluso compiti statali come la polizia o le autorità tributarie. Il materiale è stato successivamente ordinato dalle autorità locali e dai partiti politici e le liste sono state trasmesse alle organizzazioni partitiche locali per un completamento. In aggiunta alle informazioni sull'età e la professione abbiamo chiesto anche
informazioni sui rappresentanti nati all'estero e sulle parti del comune in cui i rappresentanti vivono (es. quartieri centrali residenziali o campagna). L'ultima informazione non è stata raccolta nei consigli provinciali. La frequenza di risposte è stata relativamente soddisfacente. Delle 231 organizzazioni partitiche locali, 194 (l'84%) hanno risposto alle nostre domande. La frequenza di risposta varia, fra i partiti, dal 94% dei gruppi del Partito Liberale al 75% dei gruppi Socialdemocratici e degli altri partiti. Solo in pochi casi le risposte alle nostre domande sono state esplicitamente rifiutate. Il relativamente alto grado di non risposte tra i gruppi socialdemocratici è probabilmente dovuto al pesante carico di lavoro che rispondere alle nostre domande comporta per i relativamente ampi gruppi del partito socialdemocratico. Per questo motivo, il grado di risposta individuale è pii basso di quello del partito: riguardo all'età, le informazioni sono disponibili per 5.556 persone su 6.534 (l'87%). Le informazioni sulla professione sono disponibili per 5.000 persone (il 79%), sullo status di immigrato per 4.798 (76%), sulla zona di residenza per 4.140 su 5.431 (76%). Ci sono, ovviamente, variazioni nella frequenza di risposta fra ie autorità locali. Per ciò che concerne l'età, la professione, la condizione di immigrato e il luogo di residenza, la frequenza di risposta varia dal 22 al 100%. Nella 141
nostra presentazione dei risultati sul corpo politico, abbiamo incluso tutte le persone su cui avevamo informazioni valide. Tuttavia, nelle analisi a livello di autorità locale, tutte le autorità locali con un grado di risposta inferiore a! 75% sono state escluse. Questo significa che sono disponibili informazioni sul luogo di residenza per 26 autorità locali e, sulle altre variabili, per 23 autorità. Nell'analisi della rappresentatività è stato fatto uso delle statistiche pubbliche. In ogni punto della comparazione sono state usate informazioni sulla popolazione, sulla distribuzione dell'età, sulla proporzione di nati all'estero e sulla distribuzione nelle diverse zone di residenza. Per ciò che riguarda le professioni, esse sono state codificate secondo il "Codice SEI" dell'Ufficio Centrale Svedese di Statistica. Classificazioni equivalenti sono state fatte nel censimento del 1990 e anche queste informazioni sono state utilizzate. Dati di carattere socioeconomico e relativi a professioni dello stesso tipo di quelle considerate nel 1992, non sono disponibili per il 1979. Per poter fare una comparazione di classi rappresentative attraverso il tempo, abbiamo usato la proporzione della popolazione residente impiegata nell'attività di produzione industriale e nell'edilizia. Le informazioni così raccolte riguardano la dimensione del gruppo dei rappresentanti eletti, la sua composizione e la composizione della popolazione, e 142
sono informazioni rilevanti per rispondere alla domanda descrittiva: come sono cambiate la dimensione e la rappresentatività del corpo politico tra le due occasioni di rilevamento? Un aspetto più specifico del problema, tuttavia, riguarda la portata dei cambiamenti organizzativi. Dobbiamo perciò farci un'idea dei reali modelli organizzativi presenti nelle autorità locali svedesi. Il più semplice tipo di autorità locale da distinguere è quello che comprende l'organizzazione dei KDN. Nel nostro modello ve ne sono 4 (Me, Gòteborg, Nacka, Uppsala). È più difficile, invece, determinare dove si è diffuso il modello organizzativo ispirato a logiche di mercato. A riguardo, tre studi ci hanno fornito alcune indicazioni: lo studio post-elettorale del 1991 dell'Associazione Nazionale delle Autorità Locali fornisce informazioni sull'esistenza di "profit centers", di imprenditori privati, di imprenditori cooperativi e societari, di aziende municipalizzate di recente creazione e di comitati di esperti. Un questionario inviato alle autorità locali nel 1992, per valutare il nuovo sistema aiuti statali per il programma di accoglienza dei rifugiati, fornisce informazioni su delega, privatizzazione e gestione per obiettivi. Dopo aver valutato gli esiti ditali studi, abbiamo deciso di considerare 9 delle autorità locali selezionate come casi avanzati di organizzazioni con una politica di mercato (Gòteborg, Katrineholm, Kavlinge, Mun-
dekal, Staffanstorp, Surahammar, Tierp, Upplands, Vasby e Vasteras). Nella presentazione dei risultati, le autorità locali sono state classificate all'interno dei modelli sopra descritti. I consigli provinciali sono considerati come categoria a sé e lo stesso vale per Gòteborg. Sotto molti profili, Gòteborg ha delle caratteristiche sue proprie che spiegano il particolare trattamento che le abbiamo riservato in questa sede. È l'unico consiglio di una città metropolitana presente nel campione e, inoltre, ha le mansioni di consiglio provinciale. Ha un'organizzazione di KDN e rientra ampiamente anche nelle nostre rilevazioni di organizzazione orientata al mercato.
I RISULTATI DELLA RICERCA
I risultati della ricerca ci consentono di trarre alcune conclusioni relative, in primo luogo, alla dimensione e alla rappresentatività del corpo politico. Il dato di maggior rilievo è l'emergere di una generale tendenza alla riduzione del numero dei politici - e quindi una minore rappresentatività - in tutte le autorità locali. Tale tendenza è particolarmente evidente in quelle autorità locali che hanno introdotto una organizzazione ispirata a moduli privatistici, mentre le autorità con la formula organizzativa del KDN registrano, nel lungo periodo, un aumento del numero dei rappresentanti eletti. La riduzione del personale politico
porta, evidentemente, all'aumento del numero dei politici con incarichi multipli. La concentrazione delle cariche aumenta nelle organizzazioni ispirate al mercato e in quelle tradizionali, mentre segna una lieve flessione nelle autorità con l'organizzazione del KDN.
Un altro significativo risultato è relativo al grado di presenza delle diverse categorie della popolazione all'interno del corpo politico delle autorità locali. Il dato che emerge è che le donne, gli immigrati, i lavoratori, i giovani, gli anziani e i residenti nei centri urbani sono sottorappresentati, all'interno del corpo politico, rispetto agli uomini, ai nativi svedesi, alle persone di mezza età e ai residenti in periferia e nelle aree rurali. La rappresentanza dei diversi gruppi varia abbastanza sostanzialmente a seconda del tipo di incarico politico che consideriamo. In particolare, è stato osservato che molti dei gruppi sottorappresentati riescono più facilmente ad acquisire cariche come deputati di posizione inferiore (es. sostituti) che non come membri ordinari. Ancora, è anche chiaro che il tipo di incarico da portare a termine ha un effetto selettivo, soprattutto riguardo alla rappresentanza femminile. Commissioni come Sanità, Servizi Sociali, Cultura e tempo libero registrano una maggiore presenza femminile rispetto a quella dei Lavori Pubblici dove ie donne sono scarsamente rappresentate. L'idea che la tutela della salute, i 143
servizi sociali e l'istruzione siano 'femminili' e che i lavori pubblici, pianificazione urbana ed energia siano 'maschili', ha sicuramente avuto il suo peso. La tipologia della rappresentanza dei gruppi della popolazione varia nei diversi modelli considerati. In particolare, i risultati della ricerca evidenziano un miglioramento nella rappresentanza delle donne e della classe lavoratrice all'interno delle organizzazioni tradizionali, mentre una buona presenza di anziani e di residenti nei centri urbani si registra nelle autorità con KDN. L'introduzione di un'organizzazione ispirata al mercato ha avuto, invece, effetti negativi sulla rappresentanza delle donne, delle classi lavoratrici, dei giovani e degli immigrati. LA FRAMMENTAZIONE DEL SISTEMA PARTITICO
L'introduzione, nelle amministrazioni locali, di elementi del mercato, appare strettamente collegata con la riduzione del corpo politico e tale riduzione incide sui gruppi 'subordinati' della società: immigrati, lavoratori, giovani, donne. Quelli che guadagnano una posizione relativamente rafforzata nel sistema sono i gruppi 'dominanti': i nativi svedesi, il ceto medio, le persone di mezza età e gli anziani, la popolazione delle zone centrali. La riduzione delle cariche politiche colpisce, dunque, i "meno privilegiati". 144
Tuttavia, occorre ricordare che la selezione del personale politico è, in primo luogo, una decisione politica del partito, il che significa che il numero dei partiti politici e, soprattutto, la loro dimensione - ovvero, la frammentazione del sistema partitico - possono influenzare la rappresentanza. Dal momento che è stata registrata una relazione tra aumento della frammentazione partitica e minore rappresentatività di alcuni settori della popolazione (giovani, immigrati, lavoratori) si potrebbe pensare che tale riduzione di rappresentanza sia dovuta alla frammentazione partitica invece che all'introduzione di organizzazioni ispirate a logiche privatistiche. Tuttavia i risultati della ricerca dimostrano che la frammentazione del sistema politico ha avuto, sì, un'influenza nella rappresentanza di talune categorie, ma il principale effetto di riduzione della rappresentanza dei gruppi subordinati è dovuto alla riforma organizzativa che ha portato all'introduzione di elementi privatistici nell'organizzazione delle autorità locali.
CAMBIAMENTI ORGANIZZATIVI E DEMOCRAZIA
I cambiamenti organizzativi all'interno delle autorità locali fra gli anni Ottanta e Novanta possono essere definiti come un decentramento seguito dalla privatizzazione. Entrambi sono
stati giustificati in termini di influenza dei cittadini e di efficienza. In particolare, il decentramento ha posto l'accento sull'obiettivo dell'aumento dell'influenza e la privatizzazione su quello dell'efficienza. L'influenza del cittadino è incanalata diversamente nelle organizzazioni decentrate rispetto a quelle privatizzate. Il decentramento considera i cittadini in quanto esercitano la loro influenza attraverso la catena di comando democraticoburocratica. Il sistema di rappresentanza, incentrato sul sistema elettorale, è l'istituzione principale. In seguito alla privatizzazione, i meccanismi di mercato agiscono in modo da mediare l'influenza dei cittadini. Secondo la teoria, gli elettori assumono le decisioni entro una catena di management democratico comparando le proprie preferenze con i futuri alternativi in vendita nei programmi dei partiti. La domanda nel mercato è il prodotto delle preferenze e delle risorse dei cittadini. In un sistema di democrazia rappresentativa, la rappresentatività dei politici ha un ruolo nella sopravvivenza del sistema sia direttamente che attraverso la legittimazione. Nel presente lavoro abbiamo cercato di stabilire l'effetto che il decentramento e la privatizzazione hanno sulla rappresentanza politica nelle autorità locali svedesi. I risultati sono abbastanza chiari e possono essere così riassunti: a) una diminuzione nel numero dei
politici è strettamente connessa con l'introduzione di meccanismi di mercato. Nel breve periodo, il numero dei politici diminuisce anche nelle autorità KDN, ma nel lungo periodo l'introduzione dell'organizzazione KDN porta a un aumento del numero dei politici; è aumentato anche il numero dei politici con cariche multiple e anche in questo l'introduzione di un'organizzazione ispirata a logiche di mercato ha avuto il suo peso. L'introduzione dell'organizzazione dei KDN ha probabilmente avuto un effetto 'restrittivo' sull'incremento delle cariche multiple; 1 introduzione di un organizzazione di mercato ha agito contro la rappresentanza dei gruppi subordinati. Non è stato possibile stabilire se l'introduzione dell'organizzazione KDN abbia avuto effetti positivi a riguardo. Abbiamo stabilito che uno sviluppo di questo tipo può essere una minaccia per la legittimazione del sistema. Un particolare problema è che il sistema politico svedese, che si basa sulla struttura dei partiti politici e delle organizzazioni di interesse e quindi sul sistema elettorale e su quello di rappresentanza, sta già soffrendo di indebolimento della legittimazione. Molti studi giungono chiaramente alla stessa conclusione, e cioè che la lealtà e la fiducia del popolo svedese nel sistema e nelle sue istituzioni sta venendo meno (cfr. Bergstrom, 1991; Bàck, 1992; Petersson e altri, 1989). Può 145
perciò apparire sconsiderato esporre il sistema alle ulteriori tensioni che deriverebbero da una minore rappresentatività. L'indagine empirica, di cui abbiamo riferito i principali risultati, è stata commissionata dalla Commissione sulla Democrazia Locale. La privatizzazione ha costituito una parte significativa delle valutazioni della Commissione. La carica del Presidente della Commissione è stata ricoperta dal Sindaco della città di Linkòping, Sven Lindgren. Durante la gestione di Lingren, l'autorità locale di Linkòping è stata indicata
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come un esempio riuscito dell'introduzione di organizzazioni con un forte carattere di mercato. E stato tuttavia affermato che il clima di opinione nell'autorità si è rinforzato durante l'implementazione dei cambiamenti. Nonostante ciò, non sorprende che la presentazione delle conclusioni degli studi sulla rappresentanza sia stata vista come politicamente scomoda. Di conseguenza, nonostante fosse ad uno stadio avanzato di preparazione, la ricerca non è stata pubblicata. (Traduzione di Adele Magro)
L'occasione delle reti civiche di Alessandro S attanino *
Negli ultimi mesi, in molte città italiane sono state annunciate iniziative di rete civica telematica. Questi progetti sono promossi, per la maggior parte, dalle amministrazioni comunali ma non mancano iniziative di altri soggetti, come le università o gli attori privati. La prima decisione, quasi un anno fa, è venuta dal Comune di Bologna. A questa sono seguiti i progetti di Roma, di Milano, di Torino, di Modena, di Desenzano, e di aree integrate come quella della Toscana occidentale, dove ha preso corpo un significativo accordo tra i Comuni di Livorno, Pisa e Lucca per la costituzione di una rete civica territoriale. Sulla Rc si possono trovare informazioni sui servizi di emergenza, farmacie di turno, documenti necessari ad iniziare procedimenti amministrativi, ecc.) e moltissime informazioni private (sul turismo, sugli esercizi pubblici, sulle manifestazioni sportive, sull'attività delle associazioni, ecc.). Ma la vera caratteristica delle Rc - così come in generale di tutta la comunicazione *Econom ista CER
mediata da computer - è l'interazione tra le persone presenti sulla rete, che possono discutere, ascoltare, partecipare, aderire a iniziative e creare nuovi rapporti attraverso i vari strumenti disponibili: la posta elettronica, le conferenze tematiche (moderate e libere), gli esperimenti di partecipazione alla vita pubblica. La caratteristica comune delle reti civiche telematiche, che le differenzia dalle pi1 generali «comunità virtuali», è quella di un preciso riferimento geografico: per esempio il territorio di un comune o di una provincia. A parte questo fattore comune, i progetti di reti civiche si rifanno a tipologie anche molto diverse tra di loro. La prima grande differenza riguarda la scelta o meno di Internet come infrastruttura di appoggio: l'esperimento di Bologna, per esempio, è interamente basato su Internet (tanto da essere a volte riassunto in uno slogan: «Internet per tutti)>) la rcm (rete civica milanese) e il progetto ONDE di Desenzano, per fare un altro esempio, hanno adottato invece l'ambiente di First Class, un software per la gestione di BBS che prescinde da Internet (il sistema è co147
munque compatibile con gli standard di Internet e permette l'apertura di una finestra su questo mondo); altri progetti, come la rete civica romana, operativa dai primi di maggio, seguono un approccio misto, che prevede una presenza su Internet e contemporaneamente il collegamento con sistemi telematici amatoriali e commerciali per la condivisione di conferenze e di gruppi di discussione. Per chiarire, almeno in prima approssimazione, quali possono essere le principali differenze di impostazione è possibile ricorrere ad una utile classificazione delle tipologie di «community nets» recentemente proposta in uno studio de! MIT (Anne Beamish «Communities On-Line: Community-Based Computer Networks»). Le Free Nets sono le realizzazioni di collegamento sociale più povere, che mirano a fornire alcuni servizi telematici di base come la posta elettronica, il trasferimento di documenti, la partecipazione a gruppi di discussione. La partecipazione alle free nets è gratuita e l'accesso a Internet ridotto al minimo (molto spesso solo la posta elettronica e alcune conferenze). Le freenets sono gestite da gruppi di attivisti e volontari telematici e fanno capo ad una associazione centrale, la NPTN (national public telecomputing network) che ha adottato come standard un software di comunicazione chiamato Free Port (una interfaccia testuale). 148
La BBs (bulletin board systems), i sistemi locali di bacheche elettroniche, hanno come caratteristica una ancora più ristretta focalizzazione territoriale: un quartiere o una zona di una città. Questi sistemi telematici possono raggiungere un livello di adesione alla specificità del territorio molto elevato e rispecchiare da vicino la vita della comunità. Il modello di città cablata ha come caratteristica la diffusione del collegamento: in ogni casa, in ogni ufficio, in ogni negozio. Da un punto di vista infrastrutturale, le città cablate hanno il vantaggio di partire con una copertura completa, che rende possibili tutte le sperimentazioni di collegamento sociale. Le Municipal Nets, le reti sostenute dall'amministrazione pubblica centrale o locale, hanno come scopo l'aumento della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e la diffusione delle informazioni sull'attività dell'amministrazione e su questioni di governo locale. Sarebbe uno sbaglio incasellare semplicemente le reti civiche italiane promosse dai comuni nella tipologia delle municipal nets: negli esperimenti di reti civiche italiane il comune costituisce un punto di riferimento come ente promotore ma in molti casi è prevista una partecipazione, tutt'altro che di contorno, di associazioni e di altri sistemi di rete, anche commerciali. Una domanda da porsi riflettendo sul
significato degli attuali progetti di reti civiche è se valga la pena di puntare su di essi, sostenendoli e quindi investendovi le risorse economiche e l'impegno di organismi pubblici e privati. Gli elementi che suggeriscono un possibile ruolo strategico delle reti civiche nello sviluppo di una via italiana alla società dell'informazione sono numerosi. Si consideri l'ampiezza degli effetti potenziali del collegamento sociale: secondo uno studio svolto dal Center for Civic Networking, negli Stati Uniti il collegamento sociale dovrebbe porsi i seguenti obiettivi: La rivitalizzazione delle economie locali, attraverso la possibilità, per ie piccole imprese, di comunicare tra di loro per instaurare rapporti di collaborazione e per condividere servizi e risorse. Il miglioramento dei servizi e la riduzione dei costi della PA, attraverso la cooperazione tra PA e organizzazioni private, anche commerciali, tendente alla costituzione di una rete per fornire servizi al pubblico attraverso l'uso di tecnologie informatiche. La rivitalizzazione delle istituzioni pubbliche e l'aumento della partecipazione dei cittadini attraverso lo sviluppo, per via telematica, di sessioni pubbliche degli organi di governo locali, di panel di discussione, di trasmissioni su radio locali, di servizi di informazione sulle leggi e sui documenti pubblici.
Una maggiore efficienza del Welfare State attraverso la semplificazione delle procedure burocratiche per l'ottenimento delle varie forme di sussidio. La riduzione dei costi della sanità attraverso la diffusione di informazioni attinenti alla prevenzione delle malattie e all'autodiagnosi. 6 La rifirma del sistema dell'istruzione per preparare i giovani alle professioni che saranno tipiche della società dell'informazione del ventunesimo secolo e per rendere accessibili a chiunque risorse di insegnamento qualificate. 7 Lo sviluppo del lavoro a distanza (telecommuting), con tutte le conseguenze positive che questo comporta in termini di minore uso dei mezzi di trasporto e maggiore possibilità di assistenza ai bambini e agli anziani all'interno delle famiglie. Proprio la dimensione geograficamente definita delle reti civiche può favorire la realizzazione di esperimenti controllati in questi settori, a costi contenuti e con la partecipazione di attori diversi. Nel rapporto preparato dalla commissione Bangeman per l'Unione europea si evidenzia come uno specifico compito dei governi e quindi delle autorità locali sia quello di creare le condizioni per lo sviluppo della società dell'informazione. Particolare importanza è data alle azioni atte a creare una massa critica di utenti. Ora, appare evidente che un'azione di a!fabetiz149
zazione informatica di massa, sebbene auspicabile, è di difficile attuazione nel breve periodo, proprio per l'ampiezza delle risorse necessarie a intraprenderla. Su questo fronte, le reti civiche possono percorrere la strada dell'alfabetizzazione mirata a tutte quelle associazioni (di volontariato, ambientaliste, di cittadini, utenti e consumatori) in grado di raggiungere rapidamente un livello di attività e di operatività sulla rete perché sono in condizione di dedicare risorse umane alla comunicazione mediata da computer. Queste associazioni possono quindi svolgere una azione di diffusione degli strumenti informatici e telematici presso i loro associati. Non esiste un modello teorico di successo del collegamento sociale e delle reti civiche. Ciò che può determinare il successo o il fallimento di un esperimento sono fattori come i costi economici, le soluzioni tecniche adottate, il coinvolgimento degli utenti, le • utilità ricavate dai cittadini, la rapidità di revisione delle soluzioni, il raggiungimento di una massa critica, il coinvolgimento di aziende e di operatori commerciali. Per scoprire le ricette del successo è necessario sperimentare con molta libertà le varie tipologie di rete civica - reti libere, BBS, reti comunali, città cablate - e quantificare i risultati di questi esperimenti controllati. L'obiettivo è quello di capire, almeno per alcuni aspetti, quali possono essere i costi e le modalità dello sviluppo 150
della società dell'informazione in Italia, in modo da poter decidere le regole, gli incentivi, le politiche da seguire per incanalare l'onda del cambiamento. Un'onda dalla quale, comunque, saremo investiti. Quindi le reti civiche come laboratorio. Perché nelle Rc si ritrovano alcune problematiche che uniscono la specificità italiana alle caratteristiche delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Tic). Cominciamo da queste ultime. Internet è un'ottima approssimazione di quello che potrà essere tra alcuni anni l'utilizzo di grandi infrastrutture di comunicazione (le autostrade dell'informazione) da parte dei cittadini della società dell'informazione: posta elettronica, trasmissione di documenti, comunicazione vocale, visione di immagini e di filmati, trasmissione di suoni, ricerca di informazioni gratuite e a pagamento. Già oggi tutto questo lo si ha con Internet. Ma soprattutto, Internet è interazione, è possibilità di creare nuovi rapporti, è libertà di scelta, Senza entrare in una discussione approfondita sui pregi e sui difetti di Internet, ciò che qui è interessante rilevare è che Internet è un esempio concreto: un esempio di azioni, di problemi e di opportunità che direttamente può essere riversato nelle reti civiche, come modello - certo da reinterpretare caso per caso - di cosa può nascere da una comunicazione mediata da computer liberamente espressa. Ciò
che attrae nella Tic è molto spesso il potenziale informativo e partecipativo. In un Paese disastrato nei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini come è l'Italia, questo potenziale ha attirato l'attenzione di molti amministratori pubblici alle prese con le difficoltà di avanzamento della riforma della pubblica amministrazione innescata dalla legge sulla trasparenza del procedimento amministrativo, dalla legge sulle autonomie locali e dagli altri provvedimenti a queste collegate (come le normative sulle Carte dei servizi pubblici, sulla riforma del pubblico impiego, ecc.). Attraverso una rete telematica è possibile mettere a disposizione dei cittadini una notevole mole di informazioni ed è anche possibile aggiornare a basso costo le informazioni stesse. È anche possibile ricevere le richieste dei cittadini senza vincolo di orario; ed in certi casi, rispondere a richieste dei cittadini senza che questi debbano spostarsi dalla loro abitazione o dal posto di lavoro per venire a conoscenza delle risposte. Queste considerazioni non sono certo estranee alla decisione di sperimentare sistemi di rete civica in alcuni comuni italiani. Un ulteriore ruolo che può essere svolto dalle Rc è quello di interlocutore qualificato in uno scenario di rivoluzione dell'informazione nel quale gli utenti, i cittadini, sono certo poco rappresentati rispetto agli altri attori in campo - le società dei telefoni, i
proprietari delle reti di comunicazione, le società di hardware e di software, le grandi società i servizi. In quanto esperimenti di successo, le Rc potranno svolgere a pieno titolo un ruolo di interlocuzione con questi attori. Anzi a ben vedere, questo ruolo può essere svolto anche prima. Basti per tutti un esempio. Per valutare appieno tutte le potenzialità di sviluppo del collegamento sociale sarebbe perfettamente lecito, per un comune, realizzare un esperimento in cui il costo del collegamento (gli scatti telefonici) fosse fortemente ridotto, per evitare che gli utenti fossero limitati nell'utilizzo della rete da considerazioni economiche. Si consideri che attualmente, in una città dove è applicata la tariffa urbana a tempo, una sola ora di collegamento giornaliero, in orario notturno (il più favorevole) costa ad un cittadini settecentomila lire l'anno - un prezzo decisamente elevato. Al fine di realizzare un esperimento significativo, il comune potrebbe contrattare con la società dei telefoni una riduzione delle tariffe e una disattivazione della tariffa urbana a tempo in certe fasce orarie. La definizione di un esperimento di rete civica comunale è tutt'altro che semplice. Si devono tenere in conto aspetti giuridici (per esempio per quanto riguarda le convenzioni con i fornitori di connettività), socio-economici (per la definizione degli obiettivi e dei metodi di valutazione da
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adottare), tecnici. Considerando queste difficoltà, il CER, la Fondazione Basso e l'associazione Informatica per la democrazia hanno costituito un Osservatorio sulle reti civiche italiane che si caratterizza come una struttura di consulenza e di assistenza alle reti civiche nella transizione dalla fase di sperimentazione a quella di valutazione dei risultati e di consolidamento delle iniziative. In conclusione, quella delle Rc è un'opportunità da cogliere, lasciando che si sviluppi un'ampia sperimentazione di Rc, nelle diverse tipologie e
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per iniziativa pubblica o privata. È importante però che i risultati di questa sperimentazione vengano quantificati e conosciuti, in modo che concorrano a formare una coscienza sulle possibilità di attuazione della rivoluzione dell'informazione, che porti alla definizione di una via italiana alla società dell'informazione, senza la quale entro pochi anni avremo la possibilità di importare soluzioni predisposte da altri e meno adatte al nostro contesto sociale e culturale. Paradossalmente, si deve far presto ma non si deve aver fretta.
Politiche d'informatica in un grande Comune: il caso di Roma di Giulio De Petra*
Molte delle iniziative politiche avviate dall'amministrazione sono state condizionate dalla capacità della struttura organizzativa de! Comune di concretizzare operativamente gli indirizzi politici formulati. Su questa difficoltà ha pesato e pesa la difficoltà a migliorare la produttività, l'economicità e la qualità del funzionamento dell'organizzazione comunale. Questo miglioramento è pesantemente determinato dalla disponibilità di sistemi tecnologici di informazione e di telecomunicazione che possano accompagnare e sostenere il rinnovamento organizzativo. È possibile affermare che questa condizione oggi non è data, salvo qualche eccezione, nella generalità del tessuto organizzativo comunale, ed anzi è necessario rilevare che anche il funzionamento ordinario dell'organizzazione è spesso negativamente condizionato dalla carenza di strumenti tecnologici di base. Deriva da ciò la rilevanza strategica della "questione tecnologica" in que-
• Consulente per le Politiche Informatiche del Comune di Roma.
sto passaggio della attività dell'amministrazione, tenendo conto, in particolare, che dalla gestione dell'informatica e delle telecomunicazioni dipende: La possibilità di ottenere sia economie dirette (aumento della redditività delle risorse oggi impegnate dal Centro Elettronico) sia economie indirette (aumento della redditività delle risorse impegnate nelle diverse attività dell'amministrazione interessate da processi di innovazione tecnologica). La possibilità di promuovere profonde innovazioni di servizio verso la città (la maggior parte delle innovazioni di servizio allo studio dei diversi dipartimenti del Comune hanno oggi incorporata una considerevole quota di innovazione tecnologica). La possibilità di trasformare la gestione dell'informatica e delle telecomunicazioni da elemento passivo di costo in risorsa capace di generare ricavi. IL PUNTO DI PARTENZA
È poco utile descrivere in dettaglio lo stato di confusa stratificazione in cui abbiamo trovato l'informatica comunale. 153
È invece utile descrivere le iniziative che abbiamo preso per risanare la situazione attuale, per recuperare le risorse disponibili e per avviare lo sviluppo dell'immediato futuro. Ci limitiamo però a mettere in evidenza alcune cause determinanti del degrado attuale, perché la loro conoscenza è una condizione per non commettere gli stessi errori. È mancata totalmente, nelle precedenti amministrazioni, la consapevolezza dell'importanza della tecnologia dell'informazione come strumento di riforma organizzativa. Da ciò la proliferazione di sistemi non integrati, lo spreco delle poche risorse destinate all'innovazione, le "catacombe" tecnologiche sparse per gli uffici del Comune. Gli uffici dell'amministrazione responsabili dell'innovazione tecnologica sono stati lasciati deperire dalle precedenti gestioni politiche, succedutesi nel tempo, in un degrado professionale e logistico che ha favorito lo sviluppo di una esternalizzazione di fatto (cioè non gestita come tale) della progettazione, dello sviluppo, della manutenzione e della gestione sistemistica a favore dei fornitori, e che oggi impone, come condizione ineludibile di ogni possibile sviluppo tecnologico, un radicale riorientamento strategico per ciò che riguarda gli uffici del Comune responsabili dell'informatica e delle telecomunicazioni. 154
LE STRATEGIE ADOTTATE
L'orientamento ai dzartimenti Nello sviluppo dei piani di investimento, dei progetti di innovazione e della stessa informatizzazione di base si è scelta la strada di un forte orientamento ai dipartimenti. Che cosa significa concretamente, questa scelta? Attualmente le decisioni in termini di nuovi progetti e di investimenti vengono prese dal Centro Elettronico sulla base di sollecitazioni scritte o verbali dei diversi uffici la cui variabilità ed estemporaneità è altissima. Si va da dettagliate richieste di personal computer specificati per modello, marca e tipo di schermo (senza che nulla sia specificato circa l'utilizzo dello strumento), a generiche richieste di "sistemi informativi". Non vi è però quasi mai, da parte del richiedente, una capacità di analisi e di gestione dell'innovazione in termini di impatto organizzativo e di valutazione di costi e benefici. Ancora minore è questa capacità da parte del Centro Elettronico, che si limita a valutazioni di ordine meramente tecnologico. In queste condizioni nessuno è responsabile della "utilità" dell'innovazione, cioè nessuno è in grado di valutare se i soldi spesi in tecnologia sono effettivamente serviti a qualcosa. La strategia adottata, e che dovrà avere attuazione nel piano triennale dell'informatica in corso di elabora-
zione, è quella di trasferire al futuro utilizzatore di tecnologia la responsabilità di individuare quale innovazione è necessaria agli sviluppi organizzativi previsti nel suo servizio, e di affidare al gestore dell'informatica la responsabilità di fornire un servizio tecnologico adeguato per efficienza e qualità. Questo orientamento ha, naturalmente, notevoli implicazioni organizzative che trovano efficace soluzione nel processo di costituzione dei dipartimenti. Il livello organizzativo del dipartimento è infatti quello che, essendo riferito alla gestione di risorse omogenee, garantisce anche della necessaria integrazione dei sistemi tecnologici relativi alle stesse informazioni. La soluzione organizzativa da realizzare è quella di individuare in ogni dipartimento una unità organizzativa specificamente rivolta alla progettazione innovativa, al trasferimento dell'innovazione ed alla gestione delle relazioni con il settore dell'informatica.
La definizione del piano e l'avviamento dei primi progetti Sulla base dell'orientamento ai dipartimenti è stato avviato un processo di pianificazione di respiro triennale, che vede coinvolti tutti gli uffici dell'amministrazione, comprese le circoscrizioni. Questo processo ha oggi raggiunto i seguenti risultati: a) È stata ultimata la pianificazione e
la progettazione iniziale dei sistemi informativi relativi a settori di primaria importanza, che nel loro insieme rappresentano circa la metà del nuovo sistema informativo del Comune. Essi sono: Il sistema informativo dei Tributi. Il sistema informativo del Commercio. Il sistema informativo della Popolazione. Il sistema informativo per gli Investimenti. Il sistema informativo per l'informazione e l'accesso agli atti. Il sistema informativo per la gestione del Protocollo. Il progetto della nuova Architettura complessiva di riferimento. Il progetto dei relativi sistemi informativi di Circoscrizione. Questo progetto è stato svolto da una primaria società di consulenza in cooperazione con gli esperti degli uffici coinvolti e del Centro Elettronico. L'ampiezza e la natura dello studio che comprende, per ogni settore, l'analisi della situazione attuale, il progetto della soluzione ed i piani di sviluppo, e che contiene numerosi elementi di analisi sull'organizzazione e sul personale, fanno di questo prodotto un utile punto di riferimento per lo sviluppo organizzativo dei dipartimenti ed un patrimonio di analisi mai prima d'ora disponibile per l'amministrazione comunale. È importante sottolineare alcune ca155
ratteristiche della soluzione progettata che avranno benefici effetti sullo sviluppo dei sistemi tecnologici nei prossimi anni. Si tratta di caratteristiche relative all'architettura complessiva di riferimento, che passa dall'attuale articolazione a due livelli (costituita da un livello centrale e da terminali senza capacità elaborativa), ad una articolazione a tre livelli (quello centrale, con funzione di integrazione, quello dipartimentale, con notevoli capacità elaborative, e quello di utente, caratterizzato dall'utilizzo di Workstation dotate di autonome capacità di elaborazione e collegate tra loro da reti locali). Questa architettura, oltre a garantire la base dello sviluppo tecnologico dei prossimi anni, potrà consentire di sostenere in maniera flessibile il processo di decentramento organizzativo e di costituzione dei comuni metropolitani. b) È stato ultimato il censimento delle richieste e delle ipotesi di sviluppo che ogni ripartizione e circoscrizione del Comune ha inviato nel corso degli ultimi mesi a seguito della sollecitazione del gabinetto del sindaco e che sono state sinteticamente analizzate in un ciclo di incontri che hanno coinvolto tutti gli uffici del Comune. Sulla base di questo censimento è stato redatto un rapporto di sintesi che descrive le richieste di ogni ufficio e formula un'ipotesi quantitativa di investimento per i prossimi tre anni. 156
Da un punto di vista qualitativo è necessario ora avviare un approfondimento delle idee di progetto presentate per arrivare ad un livello che consenta di avviare la realizzazione. Da un punto di vista quantitativo questo primo documento di pianificazione consente di attribuire ad ognuno dei futuri dipartimenti una quota di investimenti attesi nei prossimi tre anni, sui quali è necessario riflettere anche in relazione alle difficoltà attuali di bilancio. Il bilancio attuale del Ceu infatti, secondo le indicazioni fornite dall'assessore al bilancio, non prevede investimenti per il 1995, nemmeno come quote di ammortamento di eventuali fondi ottenuti dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ciò significa che, al di fuori dei dipartimenti interessati dai progetti prima descritti, e che già hanno disponibili 21 miliardi di investimenti, per tutti gli altri, pur a fronte di significative richieste, non sono attualmente previsti investimenti nel bilancio del Comune. Ciò è particolarmente negativo per alcuni dipartimenti il cui stesso sviluppo è legato alla possibilità di effettuare investimenti in tecnologia, e le cui richieste sono particolarmente significative. Si tratta in particolare dei seguenti dipartimenti. Il dipartimento Politiche del Territorio, nell'ambito del quale l'integrazione e lo sviluppo di un sistema integra-
to di servizi informativi appare come un fattore di successo critico di vitale importanza. Esistono oggi, all'interno dei diversi uffici comunali che si occupano di territorio, sistemi informativi territoriali diversi per tipologia dei dati rappresentati e per sistemi tecnologici utilizzati, altri ne esistono presso le aziende comunali (ad es. Acea), e altri ancora presso altre aziende di servizio che operano sul territorio (ad es. Italgas). È quindi necessario avviare un progetto di integrazione che, recuperando tutto ciò che è possibile recuperare dai sistemi oggi operanti, realizzi incrementalmente un sistema integrato di servizio per tutti gli uffici del Comune e per i soggetti esterni. Il dipartimento Politiche della Cultura, nell'ambito del quale sono attualmente in corso molte e separate iniziative innovative sia nelle biblioteche che nelle gallerie e nei musei, e che ha proposto interessanti progetti per la catalogazione dei beni. La possibilità di attivare operazioni di projectfinancing con imprese interessate alla vendita dei servizi appare in questo settore più promettente che in altri. Il dipartimento politiche della Mobilità, che, dopo aver attivato nel corso dell'anno numerose iniziative di ricerca ha necessità, nel corso del 1995, di passare alla realizzazione operativa di un sistema integrato di raccolta di dati, articolato su più fonti e apparati tecnologici e di un sistema di distribuzione di servizi di supporto alla mobi-
lità diffuso sul territorio e orientato a diverse tipologie di utenti. Il dipartimento Politiche Sociali, nell'ambito del quale ricade la responsabilità degli investimenti per l'innovazione dei servizi socio-sanitari. Il Segretariato Generale che, oltre a presentare progetti per la gestione dei contratti, per la gestione dei provvedimenti e per la gestione della normativa interna, ha avviato uno studio per la pianificazione degli interventi di innovazione tecnologica che dovrebbe consentire una efficace identificazione dei fabbisogni innovativi di tutte le direzioni del segretariato. Poiché le economie di tempo realizzate nell'ambito del Segretariato e la sua capacità di risposta alle richieste anche di natura consulenziale provenienti dall'amministrazione sono un fattore critico di efficienza e di efficacia per l'intera amministrazione, sarebbe di grande importanza l'individuazione di adeguate risorse di investimento. L'automazione di ufficio Parallelamente alle attività di progettazione ed a quelle di pianificazione è stato ed è necessario rispondere ad una vera e propria "emergenza" che riguarda spesso i livelli più elementari di informatizzazione di quasi tutti gli uffici dell'amministrazione. Questa emergenza è relativa sia alla disponibilità di apparecchiature (i personal computer e le reti locali di collegamento), sia alla capacità di utilizzo 157
dello strumento da parte di un numero considerevole di dipendenti e non soltanto da parte di un numero ristretto di esperti. Per ciò che riguarda la capacità di utilizzo è stato avviato, in collaborazione con la ripartizione del personale, un programma di formazione di circa 450 dipendenti che saranno selezionati tra gli oltre 3500 che si sono autocandidati a svolgere il ruolo di "esperto locale di automazione di ufficio". Si tratta di un progetto i cui obiettivi sono di creare in ogni unità organizzativa una capacità di promuovere e stimolare l'innovazione "di dettaglio", basata anche sulla capacità di autoproduzione degli utenti finali, e che si propone di riorientare la cultura informatica oggi prevalente nel Comune, basata sull'utilizzo di terminali collegati ai sistemi centrali. La buona riuscita di questo progetto, che può giovarsi anche di alcune isole di competenza informatica autogenerata, è una condizione di successo per l'efficace applicazione dei nuovi sistemi. Per sorreggere questo processo è stata istituita presso il CEU, a partire da luglio 1994, una unità organizzativa esplicitamente rivolta al supporto agli utenti per l'automazione di ufficio.
La gestione integrata di informatica e telecomunicazione La stretta integrazione di tecnologie dell'informazione e della comunica158
zione sia dal punto di vista degli strumenti tecnologici, sia dal punto di vista dei nuovi paradigmi di servizio, impone oggi di considerare in maniera integrata le due tecnologie. Molti uffici del Comune sono sottoposti ad una forte (e legittima) pressione commerciale da parte dei fornitori di tecnologia: questo avviene in modo particolare da parte dei fornitori di telecomunicazioni. È perciò assai importante strutturare le opportunità innovative in questo campo, per evitare sia di sprecare delle occasioni di investimento, sia di negoziare in condizioni di debolezza. Esistono oggi tre diversi livelli innovativi per il Comune che riguardano le tecnologie della comunicazione. Il primo è quello della struttura di comunicazione che permette alla "macchina amministrativa" di funzionare e comunicare, cioè della rete fonia e della rete dati del Comune, che evolveranno entro il prossimo anno nella rete integrata fonia/dati. Il secondo è quello relativo alla possibilità di utilizzare i nuovi apparati di telecomunicazione per innovare significativamente le modalità di erogazione dei servizi del Comune. Questo può essere possibile per i servizi informativi, per i servizi anagrafici, per i servizi culturali, sociali, di mobilità etc. L'opportunità di utilizzare questa modalità di erogazione deve derivare dall'attenta valutazione di due fattori:
l'effettiva presenza di settori significativi di utenti interessati a questa modalità di erogazione; la capacità della struttura organizzativa comunale di erogare con continuità il servizio proposto. In mancanza di una sola di queste due condizioni la proposta di servizi "telematici" può essere considerata soltanto in termini di sperimentazione. c) Il terzo, e sicuramente più innovativo livello di opportunità, è quello che vede il Comune come soggetto attivo nell'offrire servizi di comunicazione; con una metafora abusata il Comune non costruisce solo le strade comunali per favorire il trasporto delle persone e delle cose, ma fornisce anche le strade comunali elettroniche (compreso lo svincolo per le autostrade elettroniche) per favorire la comunicazione ed il trasporto delle informazioni. È questo l'ambito in cui si sta sviluppando la sperimentazione di fornitura della rete Internet, che tanta curiosità ed interesse sta suscitando sulla stampa e nei settori professionali più giovani ed avanzati della città. Ma, oltre la sperimentazione, è necessario in questo ambito coinvolgere attori di grande peso, nazionali e internazionali, nella realizzazione di infrastrutture di comunicazione capaci di arricchire la città di nuove opportunità. Da quanto detto deriva, sul piano organizzativo, la necessità di integrare le unità organizzative che si occupano di
informatica con le unità organizzative che si occupano di telecomunicazioni. L'evoluzione del Centro Elettronico L'esperienza di questi mesi ha mostrato, con grande evidenza, che l'attuale struttura del Centro Elettronico non solo non è in grado di garantire lo sviluppo e la gestione dei processi innovativi finora descritti, ma che è anche spesso problematicala gestione dell'ordinaria amministrazione. Non si tratta di responsabilità gestionali, ma dell'accumularsi di problemi convergenti che, sommandosi, segnalano un alto livello di rischio in questo settore dell'amministrazione. Il primo elemento è la carenza professionale, qualitativa e quantitativa, che non è possibile sanare se non in minima parte con processi formativi. Questa carenza si polarizza sui livelli alti, dove manca capacità di progettazione, pianificazione e project management, e sui livelli bassi, dove occorrerebbe l'ingresso di giovani neodiplomati e/o neolaureati che possano arrecare i benefici di una formazione e di una esperienza più recenti. Il secondo elemento è la carenza della struttura organizzativa, inadeguata per ciò che riguarda responsabilità e competenze e resa ancor più problematica da una massiccia presenza di personale delle aziende fornitrici che di fatto compensa la carenza di competenze interne. 159
Appare evidente da quanto finora detto che dalle decisioni che saranno prese nel settore dell'informatica dipende non soltanto la produttività e l'efficienza di questo settore, ma la possibilità stessa di avviare i processi innovativi dell'intera amministrazione. Vi sono due livelli di soluzione, che presentano efficacia e complessità crescente: La creazione entro il 1994 di un dipartimento/ufficio di servizi di informazione e telecomunicazione, in grado di erogare servizi sia all'interno che all'esterno dell'amministrazione e costituito dalle attuali unità organizzative del Centro Elettronico, da unità organizzative che si occupano di telecomunicazioni e da unità organizzative di nuova costituzione. La costituzione entro il 1995 di un ente (azienda speciale o consorzio o azienda mista etc.) per i Servizi Informativi e di Telecomunicazione. Si tratta di progettare un'azienda di servizi capace non solo di soddisfare a costi inferiori e con maggiore qualità ed efficienza le esigenze del Comune, ma di un'azienda capace di offrire servizi innovativi ad altri attori pubblici (comuni, provincia, aziende comunali) e ad attori privati (cittadini, imprese, associazioni). Questa soluzione è sicuramente più coerente con l'impostazione generale dell'amministrazione che sollecita l'individuazione di tutte le possibilità di trasformare dei centri di costo del160
l'amministrazione in opportunità imprenditoriali che generino ricavi. Se vi è un settore nel quale è possibile, efficace e rapidamente attuabile la costituzione di un ente esterno, questo è sicuramente il settore dell'informatica e delle telecomunicazioni, anche per il livello di arretratezza attuale che non pone I ìrriere a difesa di una capacità di servizio interna quasi inesistente sui nuovi servizi. IL RAPPORTO COL MONDO ESTERNO AL COMUNE
Il rapporto con l'Università Analogamente ad altri settori dell'amministrazione, anche il settore dell'informatica ha avviato, nell'ambito della Consulta delle Università, uno specifico gruppo di lavoro dedicato alle tecnologie dell'informazione. Sulla base delle indicazioni pervenute dai rettori della Sapienza, Tor vergata e Roma III, e sulla base di collaborazioni già attivate in alcuni settori, sono stati individuati esperti universitari che cooperano alle diverse commissioni di progetto avviate dal Comune su temi strategici di innovazione. Una di queste commissioni si occupa specificamente di Formazione, ed ha tra i suoi obiettivi quello di promuovere le competenze informatiche all'interno del Comune e di avviare la realizzazione di un centro per la Formazione a Distanza, utilizzabile sia
per i dipendenti del Comune, sia per i cittadini. Nell'ambito delle collaborazioni con l'Università particolare importanza ha la collaborazone avviata con il Caspur (Centro di calcolo universitario) per la sperimentazione dell'accesso alla rete Internet.
Il rapporto con i fornitori Il rapporto con i fornitori di informatica è stato impostato, fin dal primo giorno di attività, sulla base di un rigoroso rispetto della normativa europea per la fornitura di servizi. Ciò sta consentendo sia di eliminare sacche di inefficienza dovuta al persistere di rapporti cliente fornitore non basati sulle regole della concorrenza, sia di permettere anche a fornitori "non tradizionali" di stabilire relazioni con l'amministrazione. La totale trasparenza nella scelta delle forniture non impedisce, anzi consente con maggiore efficacia per l'amministrazione, di stabilire rapporti di collaborazione con le aziende fornitrici nei settori della ricerca, della sperimentazione e della realizzazione prototipale, in quegli ambiti che l'amministrazione ritiene coerenti con i propri obiettivi strategici. E su queste collaborazioni che è possibile ed opportuno ricercare fondi di ricerca nazionali ed internazionali, tra i quali ricordiamo il nuovo programma quadro della Cee e le iniziative proposte dal rapporto Bangeman.
Il rapporto con gli altri Comuni Tutti i grandi Comuni italiani si confrontano con lo stesso tipo di problemi e di opportunità. Manca però una occasione di confronto e di coordinamento che consenta di avviare progetti comuni e di scambiare esperienze e realizzazioni e che consenta di negoziare con i fornitori da posizioni di maggior forza. Per colmare questa carenza è stato promosso dal Comune di Roma il Forum Intercomunale sull'Innovazione Tecnico Organizzativa, al quale sono stati invitati a partecipare gli esperti di tutti i capoluoghi di provincia italiani. L'iniziativa ha avuto un notevole successo e, fin dal primo incontro, si è proposta come occasione concreta di cooperazione fondata unicamente sulla effettiva utilità delle attività avviate. Sono stati avviati gruppi di lavoro intercomunale sui seguenti temi: Reti di telecomunicazione, coordinato da! Comune di Torino. Sistemi informativi per il territorio, coordinato dai Comuni di Genova e Padova. Carta elettronica del cittadino, coordinato dal Comune di Bologna. a Sistemi per l'applicazione della 241, coordinato dal Comune di Lucca. e) Organizzazione dell'informatica, coordinato dal Comune di Roma. 161
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Democrazia, privatizzazioni e mercati
Con questo dossier rzprendiamo a discutere di privatizzazioni. Cinque anni fa il dossier pubblicato sul numero 83-84fii tra i primi interventi sui problemi di una politica che non ha mai avuto una sicura fisionomia. Partita un po' alla ventura, priva anche di alcune tavole normative di base, solo €Ial 1994 si può dire che la politica delle privatizzazioni abbia un suo quadro normativo di rfèrimento, almeno per quanto riguarda i poteri del Tesoro, - divenuto direttamente azionista, nel 1992, delle expartecipazioni statali -, e alcuni necessari strumenti di diritto soci eta rio. In questo numero riprendiamo il discorso, allargando la nostra attenzione ai problemi delle agenzie regolati ve del mercato, - nell'intento di ritornare presto su una panoramica delle privatizzazioni in Europa - e presentando una documentazione medita riguardante i piccoli azionisti dell'INA S.p.A, Lo scritto di Schiano, Ristuccia e Segni descrive infatti un'iniziativa volta ad organizzare piccoli azionisti nello spirito di coinvolgimento del risparmio diffuso e di sollecitazione degli investitori alla partecipazione al capitale delle grandi società oggetto di dismissioni, spirito che negli intenti dichiarati dal legislatore vuole guidare l'intero processo diprivatizzazione. Tale iniziativa ha visto come protagonista l'Associazione '2lzionisti Gruppo INA" (AGI) in occasione dellffèrta pubblica di vendita di azioni 163
della più grande compagnia italiana di assicurazioni. L'esperienza merita di essere portata all'attenzione di un più vasto pubblico soprattutto per due ragioni. In primo luogo perché si è trattato della prima applicazione di norme destinate a creare anche nel nostro Paese un sistema di "democrazia azionaria" In secondo luogo, perché i risultati positivi sono stati determinati dalla volontà dei dipendenti di compartecipazione alle sorti aziendali e dal ruolo "nobile" assunto dai sindacati a tutela di interessi dffisi e non semplicemente di categorie contrapposte. Quanto è stato posto in essere - e ancor di più lo spirito che ha mosso i protagonisti dell'iniziativa - merita di essere salvaguardato e valorizzato in vista di quelle importanti pri vatizzazioni che il Governo si accinge ad effettuare nei prossimi mesi. Proprio in vista delle prossime operazioni, il documento vuole offiire suggerimenti e proposte costruttive nella consapevolezza che la prima attuazione di una legislazione profondamente innovativa del sistema economico pone a tutti questioni concrete la cui soluzione, nonostante la migliore volontà di chi si impegna nella realizzazione dei programmi di privatizzazione, difficilmente è esente da errori. Èper questa ragione che le riflessioni formano oggetto di un documento, al contempo narrativo e propositivo, che, anche nel momento in cui muove critiche, vuole costituire pacato approfondimento su problemi di interesse collettivo.
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Politiche di governo e mercati creditizi e finanziari: quale ruolo per le "Independent regulatory agencies"? di Donato Masciandaro *
Nel numero dedicato al ventennale di Queste Istituzioni, Sergio Ristuccia tracciava un bilancio del lavoro svolto e presentava con la consueta lucidità e profondità una serie di riflessioni-provocazioni sui temi legati al ruolo delle istituzioni, delle amministrazioni pubbliche, delle politiche pubbliche in Italia, in modo da individuare le aree piI interessanti di ricerca e di impegno per il futuro, invitandoci a reagire a suoi spunti. Dal mio limitato punto di vista, di economista monetario da sempre appassionato ai temi istituzionali, vorrei porre l'accento sulle relazioni esistenti in una democrazia tra politiche di governo e mercati creditizi e finanziari, al fine di evidenziare come sia indispensabile, affinché tali relazioni producano risultati socialmente ottimali, analizzare in profondità il ruolo delle istituzioni - o agenzie - di controllo operanti in tali mercati. Le agenzie di controllo (Independent Regulatory Agencies) possono rappresentare uno snodo cruciale per il cor-
• Professore incaricato di Economia Monetaria, Università Bocconi di Milano.
retto esplicarsi della democrazia economica - e non solo economica - di un Paese. Purtroppo in Italia l'attenzione su di esse segue spesso percorsi metodologicamente scorretti, con tempi e modi che con il benessere comune non hanno niente a che fare. Credo che Banca d'Italia, Consob, Autorità Garante della Concorrenza, siano agenzie pubbliche che possono e devono avere un ruolo importante nel garantire che le politiche pubbliche aventi come scatola di trasmissione il sistema bancario e finanziario siano indirizzate al benessere della comunità, piuttosto che al perseguimento di finalità specifiche, partigiane, congiunturali. Il mio obiettivo è quello di proporre applicando il metodo di un recente filone di ricerca economico-istituzionale - il tema del ruolo delle agenzie di controllo sui mercati creditizi e finanziari in una democrazia, ritenendola appunto una di quelle questioni relative alla pubblica amministrazione che, parafrasando Sergio Ristuccia, <(vogliono un approccio e una risposta che in qualche modo devono convincere tutti o comunque i piui, dovendo165
si realizzare, in sostanza, un impianto funzionante di interesse comune». L'intervento si sviluppa in tre parti: nella prima, si illustra come nasce l'approccio politico-istituzionale alle questioni di politica economica, in particolare di politica fiscale. Nella seconda parte, si illustra come - in tale approccio - è emerso il ruolo economico e sociale di un'istituzione pubblica separata dal governo nell'ambito della politica monetaria e creditizia. Nella terza parte, si prospetta la necessità di considerare e di discutere in modo più ampio il ruolo che hanno in Italia le agenzie pubbliche di controllo sui mercati creditizi e finanziari.
DEMOCRAZIA E POLITICHE ECONOMICHE DEL GOVERNO: IL CASO DELLE POLITICHE FISCALI
Le caratteristiche politiche di un sistema democratico possono influenzare la condotta delle politiche economiche del governo? La possibilità che tale relazione possa esistere è stata avanzata da recenti riflessioni della teoria economica in tema di politiche fiscali e del debito pubblico. Riflessioni che è il caso di ricordare in sintesi, per meglio comprenderne la possibilità di traslazione al caso dell'intervento pubblico nei mercati del credito e della finanza. Il dato di partenza è rappresentato dal fatto che negli ultimi quaranta anni si è assistito nei Paesi industrializzati a 166
sensibili differenze nella condotta delle politiche di finanza pubblica. Tutti i Paesi altamente indebitati hanno accumulato la maggior parte dei loro disavanzi e dei loro debiti nel secondo dopoguerra, quando erano soggetti a shock esterni simili a quelli verificatisi nelle altre nazioni OCSE, contraddistinte al contrario da una politica fiscale virtuosa. I Paesi «indisciplinati» sono tra loro culturalmente e socialmente assai eterogenei: troviamo sia nazioni mediterranee (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) che appartenenti all'Europa settentrionale (Belgio, Olanda, Irlanda), anche tra loro differenti per fattori ambientali, storici e culturali. Hanno questi Paesi altri tratti distintivi in comune, oltre alla dinamica esplosiva del debito pubblico? Gli economisti hanno rivolto l'attenzione alle caratteristiche istituzionali dei sistemi politici. La ragione di fondo di un simile interesse non è complicata: l'ipotesi centrale è che - in media e su lunghi orizzonti temporali - ogni singolo governo sia vincolato ed influenzato dal sistema di regole rappresentato dalla struttura istituzionale del proprio Paese. I sistemi politici sono diversi tra loro; quindi possono influenzare in modo non omogeneo i governi, spingendoli verosimilmente verso differenti decisioni riguardo al profilo temporale della politica fiscale. I governi vengono cioè visti nell'azio-
ne di politica fiscale, piuttosto che come «pianificatori benevolenti», come decisori, razionali e attenti, sia ad un'analisi costi-benefici di tipo economico che ad una disamina dei propri costi-benefici politici. Le scelte dei governi potranno poi essere agevolate, o vincolate, dalle «regole del gioco)>; da qui l'importanza dell'assetto istituzionale politico. In particolare, la fisionomia istituzionale può permettere, o evitare, l'emergere di incentivi del governo, in quanto attore politico, alla crescita della spesa pubblica, le due espressioni chiave, in termini economico-politici, divengono quindi quelli di spesa pubblica e di incentivi del governo. L'attenzione degli economisti si è concentrata sulla spesa pubblica in eccesso rispetto alla tassazione esplicita, vale a dire il disavanzo corrente, di cui vengono indagate le possibili cause di natura istituzionale. La rilevanza del concetto di spesa pubblica in eccesso rispetto a quella di spesa pubblica «tout court» implica un postulato fondamentale: la non neutralità della dimensione complessiva della spesa pubblica rispetto alla sua forma di finanziamento. In altri termini, si nega il postulato per cui le scelte legate alle dimensioni complessive della spesa pubblica siano un prius logico rispetto a quelle del suo finanziamento, ma al contrario si sostiene l'esistenza di una forte interconnessione tra esse. L'analisi si viene
a concentrare sulle determinanti istituzionali della offerta di spesa pubblica, tenendo conto anche delle forme di finanziamento, sulla base di scelte razionali dei responsabili politici. Nell'ambito delle possibili scelte dei macro agenti politici, in particolare del governo, è identificabile una serie di azioni denominabili incentivi politici, in quando originate da una analisi costi-benefici razionale, diversa da quella meramente economica, e causa di risultati socialmente inefficienti. È questa, appunto la differenza fondamentale dell'approccio qui illustrato per spiegare l'andamento della politica fiscale e del suo finanziamento rispetto ad una visione tradizionale. Nella letteratura economica tradizionale un indefinito, - nel senso di fisionomia istituzionale -, il governo, si comporta come «un pianificatore benevolente», in quanto suo unico interesse è aumentare il benessere economico della società, data la struttura dell'economia. Il governo deve determinare l'ammontare di spesa pubblica: dato il suo modello economico, verrà determinato l'ammontare di spesa pubblica, - prius logico rispetto alla sua forma di finanziamento -' vuoi attraverso tassazione esplicita, vuoi in moneta, vuoi tramite emissione di debito. L'approccio alternativo immagina invece che il governo non sia indefinito, e che non sia necessariamente un pianificatore benevolente. Si immagina inoltre che egli non agisca in un vuoto 167
pneumatico (o «game against nature>)), ma viceversa interagisca con l'economia, sia attraverso il meccanismo delle aspettative, sia attraverso la presenza esplicita di altri macro operatori (i sindacati, i partiti, i! Parlamento). I termini della questione legata alle scelte fiscali e del debito divengono sostanzialmente diversi. Se dalla teoria si passa all'esame dei dati, si deve innanzitutto rilevare che i Paesi industrializzati OCSE hanno tutti avuto regimi democratici a partire dal secondo dopoguerra, tranne Grecia, Portogallo e Spagna, e sono tutte democrazie dalla seconda metà degli anni Settanta. I principali aspetti della costituzione politica e del sistema partitico di ciascun Paese hanno influenzato le caratteristiche del sistema di governo, in termini di formazione, durata, stabilità. A loro volta, è stato possibile individuare delle relazioni tra tali caratteristiche distintive dei governi e la condotta delle politiche fiscali e del debito pubblico, con il seguente principale risultato: il continuo succedersi di governi può avere un'importanza cruciale nello spiegare le politiche fiscali in disavanzo. La variabile pii importante sembra dunque essere la breve durata dei governi. La spiegazione di tale relazione può essere la seguente: ogni governo, posto dinnanzi al proprio vincolo di bilancio, ha dinnanzi a sé, a parità di finanziamento monetario (su cui tornere168
mo nel prossimo paragrafo), essenzialmente tre diverse politiche per colmare eventuali disavanzi, ciascuna con un diverso orizzonte temporale di costi e benefici politici: - riduzione della spesa pubblica, (che produce dei costi politico-elettorali "oggi"); - aumento del prelievo fiscale, (che produce dei costi politico-elettorali "oggi"); - aumento del debito pubblico, (che oggi non produce alcun costo politico-elettorale, ma che li produrrà «domani», nel momento in cui tale debito, per essere ripagato, imporrà riduzioni della spesa pubblica e/o aumento del prelievo fiscale). Allora, quanto minore sarà l'orizzonte temporale che il governo prevede di avere dinnanzi a sé, tanto maggiore sarà l'incentivo a scegliere la politica di emissione del debito, i cui costi politici sono posticipati, rispetto alla riduzione della spesa pubblica e/o all'aumento dell'imposizione fiscale. Governi di breve durata tenderanno a preferire l'indisciplina fiscale. A questo punto due precisazioni appaiono necessarie, dal momento che si cerca di stabilire un rapporto di causalità tra strutture istituzionali e decisioni di politica economica. In primo luogo gli assetti istituzionali, politici e monetari, e persino la fisionomia costituzionale di un Paese si evolvono e cambiano nel tempo. Gli aspetti strutturali non sono un dato immutabile nel tempo, ma sono essi stessi endogeni e possono essere in-
fluenzati dai risultati economici. Questi tipi di feedback, tuttavia, avvengono durante periodi di tempo generalmente assai più lunghi di quelli - pur non brevi - considerati nelle analisi economiche di questo tipo. In secondo luogo, in ogni momento storico, le scelte di politica economica vengono compiute da ben precisi attori politici in un dato contesto istituzionale, che vincola e condiziona le scelte degli attori. La condotta congiunturale prescelta sarà allora il frutto della interazione tra personalità individuali ed istituzioni. Al di là della situazione contingente, l'analisi del sistema istituzionale ci aiuta anche a comprendere quale siano le regole istituzionali in grado di esaltare le personalità "virtuose" - se volete i governi pianficatori benevolenti o lungimiranti - e temperare quelle "viziose" - governi partigiani o miopi.
DEMOCRAZIA, POLITICHE DEL GOVERNO E RUOLO DELLE AGENZIE DI CONTROLLO: IL CASO DELLA POLITICA MONETARIA
Il sistema istituzionale viene così interpretato come l'elemento regolatore rispetto ad una determinata fisionomia del governo; in tale sistema istituzionale può emergere un ruolo importante per agenzie pubbliche istituzionalmente separate dal governo stesso, proprio per indirizzare nella giusta direzione la politica pubblica in esame. In questa chiave possiamo dare una
lettura diversa da quella usuale del dibattito attorno al ruolo di una agenzia particolare, la banca centrale, in quanto istituzione responsabile della politica monetaria, quindi in grado di regolare e controllare i mercati monetari e creditizi. A parere di chi scrive si possono distinguere sul tema due scuole di pensiero - entrambi coerenti sia con il principio di efficienza che con quello di democraticità - a seconda che si sottolinei maggiormente i due possibili ruoli del governo evidenziati nel precedente paragrafo: quale espressione del benessere collettivo (pianficatore benevolente o lungimirante) ovvero quale portatore di interessi particolari (governo partigiano o miope). Se si ipotizza che il governo persegua il benessere del Paese, è naturale che esso abbia la piena responsabilità sulla politica monetaria, come la possiede sulle altre espressioni dell'intervento dello Stato nell'economia. La centralizzazione del controllo consente di tener conto delle interazioni e dei conflitti, esistenti tra le diverse politiche: monetaria, fiscale, dell'occupazione, della stabilità finanziaria. Con l'ipotesi di governo lungimirante, la problematica legata al governo della moneta è unicamente una questione di teoria della politica monetaria; occorre cioè definire solo quale è la condotta monetaria ottima. È questo il punto di vista del tradizionale dilemma «regole contro discrezionalità»: dato che le scelte di obietti169
vi e strumenti sono quelle socialmente ottimali ed economicamente efficienti, il problema è capire qual è la struttura dell'economia. A seconda delle ipotesi circa la perfezione dei mercati e quindi della neutralità o meno della moneta, si potrà identificare la politica monetaria migliore. Da questo approccio, che comunque non nega il principio dell'autonomia della banca centrale, quale valvola di sicurezza in situazioni patologiche della condotta del governo, si può però partire per sviluppare l'approccio alternativo. Un postulato completamente diverso sulla natura delle decisioni politiche sulla moneta può essere proprio quello di evidenziare maggiormente le situazioni in cui ogni governo tende a perseguire, utilizzando la politica monetaria, obiettivi diversi da quelli collettivi - caratterizzati ideologicamente o mirati alla propria rielezione ovvero miopi - con risultati non ottimali. Lipotesi cioè è che il governo sia fisiologicamente miope - ovvero che tale ipotesi abbia una probabilità di verificarsi non bassa - nell'affrontare i conflitti tra i vari obiettivi macroeconomici - occupazione, finanziamento statale, stabilità finanziaria, stabilità monetaria - con una ottica che finisce non solo col sacrificare sistematicamente la stabilità monetaria, ma anche, nelle ipotesi più estreme, col non conseguire neanche gli altri obiettivi. Per cui diviene socialmente ottimale e democraticamente corretto delegare la 170
politica monetaria ad una istituzione, la banca centrale, autonoma del governo, impegnata solo nella difesa della stabilità monetaria. Questo spiega perché, storicamente e logicamente, la questione di una autorità autonoma emerga con maggior frequenza per una particolare politica economica, quella monetaria, e non per altre. L'inefficacia del controllo centralizzato della politica monetaria può essere spiegato con ipotesi sugli incentivi politici tra loro diverse, dietro cui sono sottesi modelli tra loro differenti, che non implicano necessariamente né la neutralità della moneta né l'efficienza dei mercati. Una prima ipotesi di condotta non ottimale del governo miope si riferisce all'uso fiscale della politica monetaria. Gli strumenti della politica monetaria possono contribuire al finanziamento dei deficit statali in maniera politicamente indolore - almeno in un certo arco temporale - provocando però alterazioni nell'allocazione delle quantità e nella dinamica dei prezzi. Una seconda ipotesi di comportamento inefficiente del governo miope riguarda l'uso a fini occupazionali della politica monetaria, che sfocia in risultati contraddistinti da incoerenza temporale e bassa credibilità. Una terza ipotesi di miopia del governo è relativa, infine, all'uso elettorale o ideologico della politica monetaria, le cui scelte tendono cioè ad essere principalmente orientate a massimizzare il consenso
politico, vuoi rispetto a scadenze elettorali vuoi rispetto a determinati gruppi di pressione o parti sociali. L'uso inefficiente della politica monetaria può essere allora evitato sottraendolo al governo miope e delegandolo ad una autorità autonoma, responsabile di fronte al Parlamento: la banca centrale. È così evidente come in questo secondo approccio la problematica del governo della moneta non può limitarsi alla teoria della politica monetaria, ma deve anche occuparsi di teoria delle istituzioni come per la politica fiscale. E, come per la politica fiscale, i relativi riscontri empirici e comparatistici mostrano positivi risultati di lungo periodo - e non goffe misurazioni da un'anno all'altro, o isolando singoli episodi congiunturali - tra autonomia dell'agenzia banca centrale ed inflazione, senza contraccolpi sulle variabili reali e fiscali. È chiaro come, definita la ragion d'essere di una agenzia di politica monetaria autonoma dal Governo, occorrerà analizzare poi sul piano congiunturale i problemi legati alla condotta di tale agenzia. I problemi di condotta sono essenzialmente di due tipi: flessibilità della politica monetaria rispetto a shock esterni e coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale. E importante però sottolineare come la problematica legata alla definizione di una agenzia separata dal governo sia logicamente diversa, ed anteceden-
te, rispetto alla questione della condotta. Difatti senza una agenzia monetaria indipendente orientata alla stabilità monetaria, la scelta della politica monetaria e fiscale può essere influenzata dagli incentivi politici, per cui le esigenze sociali di stabilità monetaria rischiano di essere sistematicamente sacrificate - in quanto meno costose politicamente per il Governo - a quelle del Governo stesso. La definizione di un assetto separato dei poteri monetari può invece essere fattore positivo di coordinamento delle condotte, perché, in situazione di conflitto tra obiettivi macroeconomici, riduce i rischi sia di sacrificio sistematico della stabilità monetaria sia di composizioni non trasparenti di eventuali trade-offi è inoltre possibile che riduca anche le situazioni effettive di conflitto, attraverso un effetto di deterrenza. L'indipendenza della banca centrale assume così due connotati essenziali, che possiamo denominare autonomia - sempre citata e molto meno ricordata e valorizzata - responsabilizzazione. L'autonomia implica che il controllo della politica monetaria deve essere completamente delegato dall'economia a una autorità separata dal Governo. La responsabilizzazione implica che l'obiettivo dell'autorità deve essere la stabilità monetaria. Perciò quanto maggiori sono le garanzie per il corpo sociale che la condotta della banca centrale sia conforme a tale principio 171
- cioè che le sue preferenze siano di controllare la crescita inflazionistica tanto maggiore sarà l'efficacia della politica monetaria, nonché la garanzia di democraticità dell'assetto con banca centrale indipendente. Da qui il requisito della responsabilizzazione della banca centrale rispetto al Parlamento. Autonomia e responsabilizzazione sono i due cardini che giustificano la separatezza dell'istituzione banca centrale dal governo, separatezza nata al fine di ridurre i rischi di politiche pubbliche non ottimali che passino dal governo della moneta. POLITICHE DEL GOVERNO E MERCATI CREDITIZI E FINANZIARI: IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI DI CONTROLLO
Il caso della politica monetaria è però, a parere di chi scrive, solo una fattispecie importante, ma specifica di una problematica più generale: definire il ruolo delle agenzie pubbliche di controllo dei mercati creditizi e finanziari rispetto al Governo, al fine di garantire un uso virtuoso delle politiche pubbliche di regolazione e controllo. Nel loro complesso, infatti, tutti i mercati creditizi e finanziari possono essere poi veicolo di incentivi politici del Governo, incentivi che riverberano i loro effetti negativi su tutto il sistema economico. In una visione generale, se si vuole «ideale» - nel senso di astratta - della struttura bancaria e finanziaria, essa può rappresentare in una economia di mercato un insieme di relazio172
ni attraverso cui si incontrano e si compensano, interessi diversi e talvolta contrapposti. In una prospettiva sincronica, si incrociano nei mercati finanziari i desideri dei risparmiatori e delle imprese, nazionali e non; in una ottica diacronica, si intersecano le volontà di più generazioni, che affidano agli strumenti finanziari le proprie scelte in termini di risparmio e di indebitamento. In senso diacronico e sincronico, troviamo presente lo Stato, che di tali mercati può essere regista, attore, regista ed attore. Attraverso la presenza dello Stato, il Governo in carica può esercitare le sue scelte di indirizzo e di regolazione dei mercati finanziari, e volgere verso il benessere sociale, ovvero verso più particolaristici obiettivi, l'allocazione delle risorse finanziarie. Compito del disegno istituzionale è di nuovo quello di creare l'assetto più idoneo ad una azione virtuosa delle politiche pubbliche. Ogni singola struttura finanziaria concreta, in quanto organizzazione e composizione di scelte decentrate e sovrapposte temporalmente, assume così una sua peculiare fisionomia. Essa diviene lo specchio di modalità più generali - a livello di politiche economiche, o di politica tout court - di composizione di desideri e volontà tra loro eterogenee. Nel nostro Paese il sistema bancario e finanziario ha in qualche maniera riflesso le caratteristiche più generali del
modus operandi delle politiche pubbliche, con quei tratti predominanti: da un lato la pervasività dell'operatore Stato; dall'altro la prevalenza degli interessi delle generazioni presenti. La pervasività dello Stato si riflette nella storia dei mercati mobiliari e creditizi, dei bilanci degli intermediari e delle imprese, dei rapporti con l'estero, dei portafogli delle famiglie. In particolare, il sistema bancario ha visto l'operare continuo delle pubbliche autorità nelle figure più diverse: come regolatore, come proprietario, come prenditore di fondi. Non poteva non esserne condizionato anche il sistema dei mercati mobiliari. Lo Stato regolatore ha privilegiato una filosofia di controllo orientata alla stabilità delle banche, quindi del sistema dei pagamenti e del valore nominale del risparmio: i rischi della competizione venivano minimizzati, separando i mercati interni dai mercati esteri, come pure i settori finanziari dai settori industriali. Venivano però in parallelo minimizzati i benefici effetti, in termini di efficienza, quindi di benessere per famiglie ed imprese, che la competizione produce. Lo Stato produttore, nelle forme giuridiche ed istituzionali più disparate, caratterizzava l'assetto proprietario di gran parte del sistema bancario, indirizzando inevitabilmente l'allocazione delle risorse, nonché la scelta dei fattori produttivi, prima fra tutte l'imprenditorialità. Infine lo Stato prendi-
tore di fondi che, per la sua natura non privata, si mostrava sempre più indifferente ai costi reali del suo indebitamento, ha finito per condizionare tutta la struttura dei rendimenti e dei prezzi finanziari dell'economia, per non parlare del peso relativo dei diversi comparti del sistema di intermediazione (bancario e mobiliare). La prevalenza degli interessi delle generazioni presenti, senza dubbio elettoralmente e talvolta ideologicamente più vantaggiosa per le pubbliche autorità, si intravede nelle dinamiche di lungo periodo dell'inflazione, dell'indebitamento pubblico, dell'accumulazione del capitale e del suo finanziamento da parte delle imprese, nella tendenza alla caduta della propensione al risparmio. Il risultato complessivo può essere sintetizzato nell'esaltazione nel caso italiano degli incentivi politici, volano primario per lo sviluppo di quella «economia di rendita» efficacemente definita e descritta da Luigi Campiglio, che anche Sergio Ristuccia ricorda nel suo saggio. Oggi è assai vivace il dibattito sulla definizione del quadro istituzionale in cui il Governo opera. È forse opportuno, allora proporre una riconsiderazione attenta anche dei poteri di indirizzo e regolazione che i responsabili politici hanno in mercati così delicati come quelli creditizi e finanziari; delicati non solo per l'importanza che essi rivestono nel determinare il tasso di 173
sviluppo complessivo di una economia, ma anche per la potenziale capacità di trasmettere eventuali incentivi politici dei governi in carica. L'analisi compiuta nel precedente paragrafo per la politica monetaria può essere estesa, in prospettiva, per la politica di vigilanza e regolamentazione bancaria, per il controllo dei mercati mobiliari, per la tutela della concorrenza sia nei mercati creditizi che finanziari. Il punto di partenza di tali riflessioni non può che essere nella riconsiderazione delle ragioni di intervento dello Stato nell'industria bancaria e finanziaria. L'esigenza di definire forme di regolamentazione finanziaria nasce in questo settore per la tutela degli interessi degli utenti, in una situazione di distribuzione incompleta delle informazioni. Nella attività di offerta di un servizio finanziario si verifica una tipica situazione di «fallimento del mercato»: l'utente non può conoscere ex-ante, e talvolta anche ex-post, la qualità del servizio offerto. L'asimmetria informativa tra domanda ed offerta del servizio finanziario potrebbe essere ridotta attraverso continue interazioni tra i singoli agenti, con la progressiva eliminazione degli intermediari non affidabili; questo meccanismo può avere dei costi. L'asimmetria informativa riguarda anche la solvibilità dell'intermediario, che dipenderà da diverse categorie di rischio, taluni specifici delle istituzioni creditizie (rischio di credito 174
e di interesse), altri riguardanti gli intermediari finanziari. Dunque la situazione di asimmetria informativa provoca una «domanda di regolamentazione», dal cui soddisfacimento può dipendere non solo la crescita, ma l'esistenza stessa, del mercato finanziario. L'esistenza di un mercato per il servizio finanziario in questione richiede quindi un'offerta di regolamentazione finanziaria. In generale la regolamentazione finanziaria si preoccupa di tutelare la stabilità. Questo obiettivo è ritenuto generalmente prioritario, data la fisiologica instabilità dei mercati finanziari rispetto ai settori reali dell'economia. La regolamentazione finanziaria deve inoltre promuovere l'efficienza. Rispetto alle due finalità della regolamentazione finanziaria, l'intensità della tutela di ciascuna di esse può essere teoricamente diversa nei vari comparti della struttura finanziaria. Fino a qualche anno fa, la definizione di un sistema di regolamentazione, bancaria e finanziaria, era semplificato da alcuni assunti fondamentali: 1) separabilità di ciascuna attività finanziaria dalle altre; omogeneità degli intermediari, data l'attività finanziaria; 3) unicità della istituzione di controllo, che 4) si comporta sempre comunque come un pianificatore benevolente. I punti 1), 2) e riflettevano le caratteristiche prevalenti della intermediazione bancaria e finanziaria nei Paesi industrializzati, mentre il punto 4) derivava dall'ap-
proccio tradizionale all'analisi della politica economica più volte ricordato. Tale approccio ha dovuto però fare i conti con l'evoluzione avvenuta nell'intermediazione bancaria e finanziaria: - i fenomeni di despecializzazione e di globalizzazione dei mercati finanziari hanno reso più incerti, per ogni singolo mercato, le peculiarità di intermediari e strumenti; particolarmente forti sono state le spinte al superamento della separazione tra attività bancaria ed intermediazione mobiliare; - i mercati mobiliari hanno accentuata la loro internazionalizzazione, modificandosi inoltre la fisionomia dei partecipanti e degli intermediari coinvolti, grazie anche alla forte innovazione tecnologica, soprattutto nella gestione dell'informazione. Quindi non è più possibile mantenere né l'ipotesi di separabilità della attività finanziaria, né quella di omogeneità degli intermediari, data l'attività finanziaria, né l'ipotesi di unicità della istituzione di controllo. Difatti, in parallelo, sono entrate progressivamente in crisi, per ogni singolo mercato, le tradizionali strutture di regolamentazione. Gli attriti tra evoluzione dei mercati e fisionomia della regolamentazione sono divenuti sempre più evidenti, con effetti negativi sia in termini di efficienza dei mercati che di efficacia della regolamentazione. Questo ha posto in discussione sia la configurazione dei vari strumenti ed obiettivi della regolamentazione, il
ruolo ed i poteri del policy maker, nonché delle diverse agenzie di controllo. Inoltre - ed è un punto cruciale - anche in questa area del pubblico intervento è divenuta sempre più evidente la insufficiente capacità interpretativa della ipotesi 4), cioè della regolamentazione finanziaria sempre e comunque frutto di una pianificazione benevolente, insufficienza rilevata sia sul piano dell'evidenza empirica che sul piano teorico. L'analisi della normativa finanziaria e bancaria e delle sue riforme, attuate o mancate, mostra come la dinamica della offerta di regolamentazione non sia completamente spiegabile in termini di dinamica del corrispondente mercato finanziario. Da un lato si sono sviluppati sensibilmente attività finanziarie, senza una corrispondente attenzione da parte delle autorità di controllo, dall'altro mercati relativamente non importanti in termini di spessore e dinamica hanno visto un forte sforzo regolamentare; si sono rilevati casi di sistemi di regolamentazione che precedono il relativo mercato (pensiamo ad alcune disposizioni comunitarie). Le riforme o i cambiamenti della regolamentazione non sono completamente spiegati dalle modifiche nell'allocazione delle risorse e nel loro impiego; la parte non spiegata diviene una variabile esogena, chiamata «orientamento delle autorità)), «atteggiamento degli intermediari», e così via. 175
È allora possibile avanzare anche in questa area dell'intervento pubblico l'approccio già sviluppato per la politica fiscale e monetaria. L'idea di fondo è che i policy maker possano essere mossi da incentivi non necessariamente coincidenti con la massimizzazione di un generale benessere sociale ma derivanti da calcoli, altrettanto razionali ma funzionali ad interessi ed obiettivi particolari (nel senso di non generali) e/o impliciti. Diviene allora importante individuare i diversi interessi specifici in gioco, definendo i gruppi o gli attori significativi, i loro obiettivi e vincoli, le relazioni, istituzionali e/o intertemporali, attraverso cui interagiscono: la politica di regolamentazione diviene la variabile endogena, frutto di tali interazioni. In primo luogo esiste l'interazione tra l'istituzione di controllo e il principale politico, in cui bisogna anche indagare 1e differenze provocate dalla natura pubblica piuttosto che privata di tale agenzia di controllo. La relazione tra gli organi di direzione politica e l'istituzione di controllo diviene tanto più importante quanto più si considerano periodi in cui intensa è l'attività di promulgazione di nuove regolamentazioni, ovvero di riforme dileggi preesistenti. Dato l'assetto istituzionale che regola i suoi rapporti con il policy maker, e che determina quindi il suo grado formale di autonomia e di responsabilizzazione, l'istituzione di controllo de176
termina le scelte di controllo perseguendo finalità le cui caratteristiche dipenderanno appunto dalle sue relazioni con il responsabile politico. Possiamo cioè indagare la natura della regolamentazione in quanto finalizzata a conseguire anche finalità diverse da quella della stabilità di lungo termine delle strutture finanziarie. Gli strumenti e gli interventi di regolamentazione finanziaria possono essere più o meno funzionali a trasmettere incentivi politici di questo tipo. Infine esiste l'interazione tra l'istituzione di controllo e gli intermediari controllati, che trasmette gli impulsi virtuosi o viziosi delle politiche pubbliche. Infine la tematica della regolamentazione finanziaria si complica ulteriormente quando si introducono una pluralità di agenzie di controllo, le cui sfere di competenza e di azione tendono a sovrapporsi. Ciascuna di esse sarà caratterizzata da una diversa struttura di incentivi, da non coincidenti riferimenti in termini di analisi costi/benefici; si produrrà una situazione di «competition in regulation», i cui esiti, in termini di efficacia ed efficienza, non sono pacifici. In altri termini, l'analisi e le riflessioni sulle (In)dipendent Regulatory Agencies potrebbero essere estese, con il medesimo impianto metodologico: esaminare come l'esercizio di politiche di intervento e regolazione sui mercati di riferimento possa essere strumento di interessi generali oppure di incentivi politici; di
conseguenza definire l'opportunità o meno di avere una agenzia pubblica indipendente dal governo, specificandone obiettivi e strumenti, in modo da assicurare la responsabilizzazione dell'agenzia in esame; inserire l'analisi della singola politica pubblica nel quadro complessivo di rapporti tra governo ed agenzie di controllo, in modo da evidenziare eventuali conflitti di interesse, sinergie, sovrapposizioni, confrontare il disegno istituzionale
teorico con quello effettivamente in vigore in Italia. Ma al di là dell'impianto metodologico proposto, che riflette studi è convinzioni personali, e per questo limitate, sarebbe opportuno che si avviasse una riflessione sistematica e pacata sul rapporto tra agencies e Governo in Italia, ove, al di là dei risultati, forse proprio i caratteri di ponderatezza, sistematicità e pacatezza sarebbero in questi mesi i tratti assolutamente originali.
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Regolazione, controllo e privatizzazione nei servizi di pubblica utilità in Italia di Filippo Cavazzuti *e Giovanni Mo,glia **
Le innovazioni nei sistemi produttivi e tecnologici sempre più ridisegnano un radicale mutamento nel campo delle imprese che gestiscono i servizi di pubblica utilità. Da un lato, accanto a una crescente internazionalizzazione degli stessi si sono sviluppate tecnologie che (soprattutto nel campo delle telecomunicazioni) permettono la creazione di forti innovazioni di prodotto e di processo. Dall'altro è lecito attendersi in maniera crescente che la capacità con cui i vari sistemi produttivi nazionali riusciranno ad assecondare e ad anticipare tale rivoluzione sarà misura essenziale della loro fortuna e della loro prosperità. In conseguenza ed in parallelo con questa rivoluzione si assiste ad un forte processo, avviato in particolare negli USA ed in Gran Bretagna, di riforma della regolazione dei servizi, processo spesso riduttivamente definito con il termine c'deregulation» In realtà, la riforma della regolazione ha assunto «la combinazione apparenteOrdinario di Scienza della Finanza e Diritto finanziario, Università di Bologna. Dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
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mente paradossale di deregolamentazione e di ri_regolamentazione"l. Ciò è consistito in un radicale azzeramento della precedente regolazione e nella simultanea introduzione di regole più rispondenti sia alle nuove configurazioni assunte dai mercati, sia ad una cultura politica ed economica che considera accanto ai tradizionali fallimenti del mercato i sempre più importanti fallimenti del pubblico. Il processo di riforma delle regole pubbliche (e dei controlli ad esse associati) è, prevalentemente, iniziato nella seconda metà degli anni Settanta nelle imprese di servizi finanziari per effetto, soprattutto, della crescente libertà dei movimenti di capitale a breve termine. In questi mercati, l'apertura concorrenziale, ovunque sostanziatasi in una apertura degli accessi, nella possibilità di svolgere più funzioni di intermediazione e nella abolizione delle pratiche di fissazione delle commissioni di intermediazione, si è accompagnata anche ad una precisa ed innovativa regolazione riguardo alla solidità patrimoniale dei soggetti e agli obblighi di informazione, correttezza e regolarità della negoziazione di
valori mobiliari. Anche in Italia si è così avviato, seppure con ritardo rispetto al contesto internazionale, un interessante processo di riforma nel campo dei servizi finanziari, che ha coniugato l'introduzione di un mercato concorrenziale con una molteplicità di intermediari e con una maggiore ed effettiva tutela di coloro che usufruiscono del servizio stess0 2 Negli anni Ottanta, seppure con ritardo rispetto gli altri Paesi, tale processo ha iniziato ad investire massicciamente anche il settore delle "public utilities". In quest'ultimo settore, dove la presenza di gestioni dirette da parte di imprese pubbliche (spesso sotto la veste di ente pubblico economico) è stata, almeno in Europa, tradizionalmente massiccia, la riforma della regolazione si è accompagnata ed intrecciata col più generale processo di privatizzazione delle medesime imprese pubbliche; una volta che queste ultime abbiano assunto la veste di Spa. Lo scopo di questo articolo consiste nel valutare quello che è avvenuto nel nostro Paese in questi anni in tema di riforma della regolazione e di privatizzazione delle imprese di pubblica utilità e nel formulare qualche indicazione su come dovrebbe evolvere il programma di ri-regolazione ditale settore. Programma che, a nostro avviso, dovrebbe concludersi il più presto possibile nella istituzione di una apposita agenzia indipendente per la regolazione dei servizi di pubblica utilità. .
Un'avvertenza va subito posta. I Paesi che, prima dell'Italia, hanno imboccato la via della privatizzazione di alcune "public utilities" hanno anche accompagnato (e spesso fatto precedere) tale processo con la predisposizione di un forte potere di regolazione da parte del potere pubblico. Tramite il ridisegno ed il rafforzamento dei poteri dei ministeri già dotati di adeguate competenze di tipo tecnico ed economico (nel caso della Francia) o tramite l'istituzione di una autorità indipendente dotata di forti poteri di regolazione e di de-regolazione (è il caso del Regno Unito o delle Corti di giustizia negli Usa). A quanto ci consta l'Italia, invece, è l'unico Paese ove sia stata imboccata la via delle privatizzazioni di tali imprese (si veda il caso delle telecomunicazioni) senza avere ancora ben definito né il nuovo disegno di ri-regolazione, né quale sia l'organo dotato di tali poteri 3 . Da ciò non possono che derivare inciampi ed ostacoli non solo alle privatizzazioni stesse, ma anche alla migliore configurazione dei diversi mercati di riferimento. Un primo basilare aspetto per ragionare in relazione alla regolazione ed al controllo dei servizi di pubblica utilità consiste nell'identificare, almeno per grandi linee, i fallimenti di mercato che si riscontrano in tali settori. È, infatti, la constatazione della incapacità del mercato di rispondere in maniera soddisfacente alla richiesta di benessere collettivo che ha storicamente im179
posto, e che impone tuttora, una regolazione sia di questi mercati, sia delle imprese che vi operano. Come è noto, l'analisi economica individua in particolare nel fenomeno delle esternalità (anche di tipo ambientale), in quello del potere di mercato ed in quello dell'asimmetria informativa le cause all'origine della perdita di benessere per la collettività. A puro titolo esemplificativo possiamo indicare nella regolazione della produzione elettrica la necessità di evitare che l'inquinamento e l'insicurezza degli impianti crei forti esternalità negative. Nei servizi a rete, inoltre, il beneficio di un utente dipende spesso da quanti aderiscono alla rete stessa (ad esempio quanti soggetti si possono raggiungere con il telefono), giustificando così la richiesta di provvedere ad un servizio universale anche utilizzando sussidi a favore di determinate categorie di utenti. La presenza di monopoli naturali o comunque di un grado di concorrenza limitato in molti servizi di pubblica utilità impone di regolare il possibile uso non auspicabile di un forte potere di mercato. La possibilità che le imprese dominanti facciano pagare prezzi non equi4 o riducano la qualità del servizio o, ancora, ritardino l'innovazione sono concreti pericoli a cui la normativa tenta di porre rimedio. Infine, come accade vistosamente nei mercati finanziari o in quelli delle "libere professioni" anche nei servizi di 180
pubblica utilità si hanno asimmetrie informative a scapito dell'utente. Il viaggiatore ad esempio non può sapere, nello scegliere tra due aerei di compagnie diverse, quale dei due presenta un miglior grado di manutenzione. Occorre quindi che siano imposti livelli di sicurezza minimi per il trasporto aereo. LA NASCITA DEL TRASPORTO AEREO
Nel nostro Paese alle esigenze dinanzi ricordate si è storicamente risposto con la nazionalizzazione dei servizi o con lo strumento delle concessioni. Il riportare sotto la diretta funzione dello Stato o di un suo concessionario lo svolgimento del servizio appariva come garanzia sufficiente del soddisfacimento degli interessi pubblici al di fuori di un quadro di ulteriore regolazione. Le occasioni per creare imprese nazionalizzate di gestione dei servizi pubblici, sotto forma di monopoli verticalmente integrati e regolati da un diritto speciale, furono le più svariate. Accanto cioè all'esigenza di tutelare l'importanza sociale dei servizi prestati, la rilevanza della qualità degli stessi e le politiche di prezzo da esse perseguite, vale la pena di ricordare che tra le circostanze che, in Italia, portarono alla costituzione di imponenti imprese pubbliche figura almeno: a) l'urgenza, nel caso della nazionalizzazione delle ferrovie (che avvenne nell'aprile del 1905, legge n. 137 del
22 aprile, su proposta di Giolitti che riscattò le preesistenti concessioni ai privati del servizio ferroviario) di rispondere sia agli scioperi ferroviari tesi all'aumento salariale ed alla rivendicazione del diritto di sciopero, sia alla esosità degli imprenditori che avevano le reti in concessione, sia alle richieste di abbattimento delle tariffe del trasporto merci al fine di favorire i commerci e le esportazioni. Come è noto, l'Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato è stata prima trasformata in ente pubblico economico (Ente ferrovie dello Stato, nel 1985) e, nel 1992, in una Società per azioni; b) la difesa degli interessi nazionali che portò alla istituzione nel 1925-26 dell'Azienda di Stato per i servizi telefonici cui venne assegnata l'esclusiva dei servizi di telecomunicazione ad uso pubblico, nonché della installazione e dell'esercizio dei relativi impianti (r.d.l. 14 giugno 1925, n. 884, convertito in legge 18 marzo 1926, n. 562). Tale azienda è stata soppressa soltanto nel 1992 (legge 22 gennaio, n. 58) ed i suoi compiti sono stati trasferiti, con una concessione esclusiva di durata decennale, ad una società dell'Iri appositamente costituita (Intel). L'utilizzo degli impianti e delle reti già dell'Azienda soppressa ed ora dell'Intel, da parte delle altre società concessionarie dei servizi di telecomunicazione ad uso pubblico, è ora assicurato (ex lege) da una apposita convenzione;
c) la convenienza, ne! 1953, di dare vita (dati alcuni interessi nazionali da difendere - e da contrapporre alle grandi compagnie petrolifere: le famose "sette sorelle" - nel campo degli idrocarburi e dei vapori naturali) ad un monopolio legale (ENI) per la ricerca e la coltivazione di giacimenti di idrocarburi e per la costruzione e l'esercizio delle condotte per il trasporto degli stessi idrocarburi. Anche qui vige, dunque, un monopolio che lo Stato esercita tramite l'ENI e le società da esso controllate; a l'opportunità, nel 1962, nel caso della nazionalizzazione dell'energia elettrica, di stipulare un accordo politico tra i partiti al fine di dare vita ad una coalizione di governo ed anche per fornire energia elettrica al Mezzogiorno allo stesso costo delle forniture al Nord. I1ente pubblico ENEL (istituito con legge 1 giugno 1962, n. 1643) è ora una Società per azioni in mani pubbliche. Oggi, come è noto, l'attività di produzione, importazione ed esportaione, trasmissione, trasformazione e vendita dell'energia elettrica, salvo rare eccezioni, è riservata in via esclusiva all'ENEL-Spa; e) la strategia industriale che, a partire dall'inizio degli anni Sessanta, portò a stilare alcune convenzioni tra il Ministero delle poste e telecomunicazioni e le società (il cui capitale è posseduto in via diretta o indiretta dall'IRI) Sip, Italcable e Telespazio al fine di concedere in esclusiva a tali società l'installazione 181
e l'esercizio degli impianti di telecomunicazione ed i relativi servizi interni, internazionali e via satellite. Anche in questo settore, dunque, lo Stato esercita un monopolio tramite l'TRi e le società da questo controllate. Come è noto, con delibera del CIPE del 2 aprile 1993 il governo ha ritenuto che si debba dare corso al riassetto delle telecomunicazioni prevedendo sia l'unificazione in un gestore unico delle società concessionarie appartenenti al gruppo In, sia la netta separazione tra le società esercenti servizi di telecomunicazione e società esercenti attività manifatturiere e impiantistiche. A questi esempi se ne potrebbero aggiungere altri, come quello delle aziende autonome dello Stato che costituiscono il tipo più antico di impresa pubblica: l'Amministrazione dei monopoli, ad esempio, oppure l'Amministrazione autonoma delle poste e telecomunicazioni. Nel primo caso, come è noto, si tratta di un monopolio fiscale (istituito con r.d.l. 5 dicembre 1927, n. 2258) teso alla riscossione dell'imposta sui tabacchi e sul sale. Ma il superamento dei monopoli fiscali e l'introduzione della concorrenza ci viene imposto dal processo di unificazione della Comunità europea. Il decreto, tuttavia, che prevedeva la trasformazione dell'Amministrazione dei monopoli in Società per azioni (19 dicembre 1992, n. 486) non è mai stato convertito in legge in tempo utile ed è, quindi, decaduto.
Tale privatizzazione è, dunque, almeno per il momento, completamente bloccata. Nel secondo caso, invece, l'Amministrazione delle poste e telecomunicazioni (istituita nel 1925 con r.d.l. 23 aprile n. 520) è stata investita dal processo di privatizzazione in modo assai differente rispetto all'Azienda di Stato per i servizi telefonici (AssT). Tale Amministrazione, infatti, viene trasformata (con decreto legge 1 dicembre 1993, n. 487) in ente pubblico economico (ente "Poste Italiane"), ma destinato a diventare, in tre anni, società per azioni. Entro il 31 dicembre 1996, infatti, il comitato interministeriale per la programmazione economica dovrà verificare lo stato della ristrutturazione dell'Ente e deliberare la trasformazione dell'ente stesso in Società per azioni, decidendo le modalità di collocamento sul mercato finanziario delle partecipazioni azionarie, favorendone la massima diffusione tra i risparmiatori (art. 1, comma 2 del citato decreto-legge). Gli esempi ricordati mostrano con assoluta evidenza che il passaggio da impresa pubblica ad impresa privata regolata" (con veste di Spa, sottoposta al diritto comune che regola le altre imprese private), quale il nostro Paese dovrebbe accingersi a seguire, coinvolge anche rilevanti e delicati aspetti istituzionali e legislativi, dovendosi ragionare sul passaggio da un sistema di imprese pubbliche governate da appo-
sito sistema dileggi e regolamenti ad imprese private che devono essere regolate" e "controllate" da alcuni pubblici poteri che a loro volta derivano la loro potestà da un nuovo corpo normativo. Ma la difficoltà più grossa, a nostro avviso, nella proposta di "regolare" il sistema delle "public utilities" in Italia si riscontra nel ritardo culturale e politico accumulato anche in questi settori. Ciò ha portato, al di là delle singole occasioni in cui si sono decise 1e nazionalizzazioni, a scegliere l'impresa pubblica come la più idonea per la soluzione dei problemi imposti dal fallimento del mercato in questi settori. In estrema sintesi, possiamo sostenere che, in Italia, la forma della gestione diretta da parte dello Stato dei servizi di pubblica utilità è sempre apparsa la soluzione vista di buon occhio, seppure per motivi diversissimi tra loro, ad una larghissima parte delle forze politiche. Fra queste vi era chi intravedeva nella nazionalizzazione uno strumento per perseguire obiettivi di redistribuzione economica5 oltre che la possibilità di sperimentare nuove relazioni sindacali all'interno delle imprese 6 Ma vi era anche chi nutriva il timore che la regolazione dei settori di pubblica utilità potesse sfociare in un generale controllo dei monopoli e l'avversione per qualsiasi forma di regolazione portava a preferire, in determinate occasioni, l'assunzione da parte dello Stato, governato peraltro da esponenti .
politici moderati e conservatori, dei servizi medesimi. Vi è, inoltre, da aggiungere che sia attraverso le nazionalizzazioni sia attraverso il sistema concessorio si sono riscontrati effetti assai vantaggiosi per alcune imprese che o venivano lautamente indennizzate 7 ovvero si affidava loro la gestione di un servizio in monopolio a condizioni particolarmente vantaggiose 8 Esempio paradigmatico di un certo orientamento politico e culturale lo si riscontra nelle motivazioni che portarono alla bocciatura all'Assemblea Costituente della proposta formulata da Luigi Einaudi di aggiungere all'art. 39 della Costituzione (articolo che poi divenne il 41) il seguente comma: "La legge non è uno strumento di formazione di monopoli economici; e dove questi esistono li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta" 9 Contro l'emendamento che impegnava il legislatore a considerare quale obiettivo primario la lotta al monopolio, si argomentò da posizioni di "liberismo massimalista"bO che accusarono la proposta di eccesso di statalismo e di burocratizzazione della attività economica. La soluzione ai possibili effetti perversi del monopolio fu indicata dagli stessi critici nella possibilità di nazionalizzare le imprese monopolistiche. L'assunzione da parte dello Stato delle funzioni di produttore diretto o attraverso concessionari dei servizi di pub.
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buca utilità fu quindi appoggiata sia da coloro che ne individuarono una forma superiore di regolazione, sia da chi la percepiva come innovazione della necessità di regolazione.
IL RUOLO DELL'AUTORITÀ ANTITRUST
Sicuramente le scelte operate nel passato hanno permesso lo sviluppo delle reti dei servizi pubblici di base (ferrovie, autostrade, telefoni, elettricità, gas, ecc.). L'impresa pubblica o la concessionaria monopolista del servizio ha, infatti, potuto espandere il proprio servizio raggiungendo un numero sempre maggiore di utenti sia grazie agli ingenti finanziamenti pubblici messi a disposizione, sia grazie al fatto che nessun free raider poteva effettuare il servizio sulle tratte più economiche (cosidetto fenomeno della scrematura). A tale ultimo riguardo è da notare come il divieto di accesso all'esercizio del servizio da parte di altre imprese ha permesso all'impresa pubblica o alla sua concessionaria di praticare sussidi incrociati che storicamente hanno avuto il merito di raggiungere con il servizio anche gli utenti marginali. Quanto all'eccesso di potere di mercato, la pubblicizzazione del servizio ha impedito abusi di posizione dominante per quanto riguarda le tariffe di base che hanno subito un forte controllo tendente al ribasso. Diverso discorso deve essere fatto per 184
altre fattispecie abusive derivanti dalla posizione monopolistica delle imprese pubbliche. La legge italiana a tutela della concorrenza, sulla scorta di quanto affermato già da tempo in sede comunitaria, afferma la "par condicio di tutte le imprese, siano esse pubbliche o private, di fronte alla disciplina antitrust (art. 8, comma 1, della legge n. 287/90). L'Autorità antitrust italiana nella sua pur breve vita e operatività è intervenuta numerose volte per reprimere abusi di posizione dominante perpetrati da imprese pubbliche di servizi sopratutto nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni. A tale riguardo, anzi, l'Autorità ha rilevato come: "In termini di politica della concorrenza, ciò che maggiormente ha distinto l'attività dell'Autorità italiana rispetto a quella degli altri Paesi è la particolare attenzione dedicata all'individuazione di comportamenti abusivi da parte di imprese titolari di diritti speciali ed esclusivi o comunque privilegiate, rispetto ad altri concorrenti, da disposizione normative di favore. È, infatti, indicativo che tutti i casi di posizione dominante finora riscontrati siano direttamente collegati alle difficoltà che riscontrano le modalità normalmente assunte dall'intervento pubblico nel perseguire obiettivi di interesse generale senza porsi in contrasto con un corretto funzionamento dei mercati"I I . Il sistema delle nazionalizzazioni e delle concessioni esclusive ha imposto, infatti,
un regime di monopolio legale che ha impedito qualsiasi dinamica concorrenziale. Il monopolio pubblico ha, quindi, creato perdite di benessere analoghe a quelle create dai monopoli privati. In particolare, la qualità dei servizi e la spinta all'innovazione sono state assai scarse, potendo il management pubblico godere di una rendita di posizione monopolistica. La gestione pubblica delle imprese ha, poi, permesso di affermare una serie di obiettivi, da parte dei partiti di governo, non dichiarati (dal problema del finanziamento dei partiti a quello dell'occupazione) che hanno forzatamente indebolito l'efficienza di tali imprese. Mentre, in senso opposto, la vicinanza delle imprese pubbliche al governo, e l'assenza di direttive al riguardo, ha impedito una politica di regolazione che, ad esempio, limitasse l'espansione delle imprese pubblicizzate a favore di maggiori spazi concorrenziali.
LE POLITICHE DI PRIVATIZZAZIONE E DI RI-REGOLAZIONE
Nel contesto descritto, allora ed in estrema sintesi, le privatizzazioni, insieme alla ri-regolazione dei servizi di pubblica utilità, diventano gli assi portanti di una politica che voglia sottoporre al vaglio del mercato molte imprese catturate dal sistema politico
ed accrescere il grado di efficienza dell'economia italiana anche tramite l'iniezione di una robusta dose di competitività nel tessuto industriale italiano. Una siffatta azione di governo costituisce un modo di rispondere alle richieste della politica impostata in sede comunitaria al fine di accrescere l'integrazione e la competitività tra i diversi sistemi economici ed istituzionali, così come venne ipotizzato negli artt. 85, 86 e 90 de! Trattato di Roma. Non va dimenticata, infatti, l'attività della Commissione e della Corte di Giustizia che, sul finire degli anni Ottanta, avviò una profonda trasformazione delle regole nel campo delle imprese di pubblica utilità. Si pensi al libro verde (1987) sulle liberalizzazioni in alcuni settori delle telecomunicazioni ed a quello (1992) sulla liberalizzazione in alcuni comparti di servizio postale. Si pensi, ancora, alle proposte di direttiva sul libero accesso alle reti di distribuzione della elettricità e del gas ed a quella per il libero accesso del servizio delle merci sulle reti ferroviarie. Più in generale, come si legge anche in una recente raccomandazione della Commissione tecnica per la spesa pubblica 12, la politica delle privatizzazioni nel settore delle "public utilities" potrebbe portare al superamento dei seguenti aspetti critici: a) inefficienza allocativa e tecnica delle strutture integrate delle industrie interessate, nonché inefficienza gestionale delle 185
singole imprese, a causa della limitata pressione della concorrenza e dei condizionamenti politici del management; b) uno sviluppo rallentato della tecnologia rispetto all'evoluzione della domanda e nei confronti di analoghe industrie europee; c) una qualità mediamente scadente dei servizi prestati. Emerge con chiarezza da quanto fino ad ora sostenuto che le politiche di privatizzazione degli assetti proprietari delle imprese di pubblica utilità e di ri-regolamentazione delle stesse sono strettamente correlate. Si pensi, ad esempio, alla politica tariffaria. È ovvio che se tali tariffe non risultassero sufficientemente correlate ai costi ed alla produttività delle imprese (ed è ropo questo uno dei compiti più importanti del regolatore ) non e neppure pensabile un collocamento sul mercato delle azioni ditali imprese: la profittabilità ditali investimenti sarebbe, infatti, troppo lontana dalle aspettative degli investitori. Per questi motivi (ed anche per dare fiducia ai mercati) in Paesi come la Gran Bretagna si è assistito prima al disegno delle procedure regolamentative ed in seguito alla privatizzazione delle imprese esercenti pubblici servizi. In Italia, al contrario, il dibattito sulla regolazione delle imprese operanti nel settore dei servizi di pubblica utilità è giunto con maggior ritardo rispetto a quello accumulato con riguardo alle privatizzazioni 13. E, invece, come abbiamo detto, avrebbe dovuto preceder186
lo. È ovvio allora che tale posponimento nel tempo può concorrere a far arrestare (se non fallire) ogni tentativo di liberalizzazione nei settori delle "public utilities". Infatti, preliminare ad ogni processo di privatizzazione delle imprese, che gestiscono servizi di pubblica utilità, dovrebbe essere stata la predisposizione di un disegno coerente con tale processo che tenesse anche conto dell'intenso dibattito teorico che ha accompagnato le più recenti esperienze analoghe condotte in altri Paesi e, segnatamente, nel Regno Unito. Invece, quando il dibattito sulle privatizzazioni prese l'inizio, il tema della regolazione venne confinato a poche e generiche considerazioni se non a vere e proprie sottovalutazioni. A conferma di ciò, si prenda, ad esempio, il "libro verde" del Ministero del tesoro. In questa sede, ove pure si propone la privatizzazione di imprese di pubblica utilità, l'unico accenno al tema della regolazione si riscontra quando si scrive che (pag. 89) "in tema di imprese di servizi pubblici che operano in condizioni di monopolio (elettricità, gas, telefonia) si pone inoltre il problema di assicurare comportamenti di impresa efficienti in termini di benessere collettivo. Tale obiettivo può essere conseguito tramite una revisione delle disposizioni in materia di regolazione, di liberalizzazione del regime di attività e, in alcuni casi, prevedendo di operare una scissione fra reti di distribuzione e di produzione, specie qua-
lora ciò consentisse pii rapide dismissioni"14 . Si prenda, ad esempio di sottovalutazione, l'opinione della Commissione tecnica per la spesa pubblica che invita, per non ostacolare le privatizzazioni, ad evitare "cautele eccessive sul fronte della regolamentazione dell'attività delle imprese cedute" 15. In tema di regolazione, per quanto ci è noto, è soltanto nella primavera del 1993 che si può leggere in un documento consegnato al Parlamento da parte del Governo che "la trasformazione in Società per azioni e l'avvio del processo di privatizzazione ... rende necessario avviare con urgenza un nuovo assetto del sistema regolatore dei pubblici servizi ... Si ritiene perciò utile predisporre un'iniziativa legislativa al riguardo" 16 . Tale impostazione, con una significativa innovazione in materia di agenzie indipendenti di regolazione, è stata successivamente ribadita dal Presidente del Consiglio in carica (Ciampi) nell'ottobre del 1993. Infatti, in un dibattito al Senato sull'attuazione del programma di privatizzazioni il Presidente del Consiglio affermava che "il Governo è impegnato a ridefinire il ruolo dello Stato regolatore cercando di contemperare, da un lato l'esigenza di non disperdere il patrimonio di competenze e di professionalità presenti nella pubblica amministrazione, dall'altro lato, con l'obiettivo di rendere assolutamente autonoma dall'esecutivo l'autorità che eserciterà tale fun-
zione... il governo seguirà l'indirizzo qui delineato nell'esame del disegno di legge recante delega per l'istituzione di agenzie per i servizi pubblici" 7. Si segnala, infine, che la legge 24 dicembre 1993, n. 537 (cosidetta legge di accompagnamento della legge finanziaria per il 1994) delega il Governo ad emanare (entro nove mesi) sia norme dirette ad istituire "organismi indipendenti" dotati della funzione di regolazione dei servizi di rilevante interesse pubblico e di risoluzione dei conflitti tra soggetto erogatore del servizio e utente, sia altre norme che prevedano che l'attribuzione a tali organismi indipendenti di funzioni di regolazione possa avvenire anche mediante il trasferimento agli stessi di funzioni attualmente esercitate da ministeri o altri enti (art. 1, comma 1, lett. b ed m). Come si vede, la strada da percorrere è ancora lunga e ciò lascia temere per l'intero esito delle privatizzazioni. Accanto a questi assai tiepidi ed incompiuti tentativi di introdurre una qualche forma di regolazione delle "public utilities" si è assistito in questo periodo al prolungamento ex legge delle concessioni esclusive a favore delle imprese privatizzate. La Legge 8 agosto 1992, n. 359, nel trasformare in Società per azioni l'Iru, l'ENI, l'INA e l'ENEL, ha impegnato il Governo a rilasciare concessioni, di durata non inferiore a venti anni, per le attività precedentemente attribuite o riservate per legge o con atti amministrativi ai pre187
detti enti economici, (un'analoga normativa si è operata per quanto riguarda le Fs Spa). Naturalmente, le concessioni sono state attribuite in esclusiva alle nuove società, gratuitamente, per un generoso numero di anni (per l'ENEL la bozza di convenzione prevede la concessione esclusiva per 99 anni!) 18. Prolungamenti delle concessioni si sono avuti con le leggi di accompagnamento della legge finanziaria per il 1994 anche per le società esercenti servizi autostradali e si erano proposte per le società aeroportuali, anche per quanto riguarda quei servizi che sono in molti Paesi gestiti in regime di concorrenza (ad esempio, i servizi di handling) 19 . La prospettiva delle privatizzazioni ha, quindi, prodotto, in assenza delle nuove regole, come primo frutto un consolidamento dei monopoli legali già in atto, invece di avviarsi verso una liberalizzazione dei settori. La tendenza che si deve riscontrare è, quindi, quella di un passaggio - pericoloso - da monopolio pubblico a monopolio (ancora legalmente tutelato) privato20. Il dibattito sulle privatizzazioni appare in questo ricalcare quello passato sulle nazionalizzazioni: ossia il convincimento che la forma proprietaria sia risolutiva di qualsiasi problema regolamentativ0 21 .
LE AGENZIE INDIPENDENTI
Appare, dunque, indispensabile ripensare in maniera radicale la regolazione 188
di questi settori, tenendo ben presente alcuni principi che qui sinteticamente vengono esposti. Innanzitutto, va ribadito che la regolazione deve ovviare agli inconvenienti richiamati e non prendere a pretesto questi per introdurre una direzione burocratica del settore, a prescindere dalla capacità o - meno del mercato di rispondere alle esigenze di benessere sociale. Anche sotto questo profilo è essenziale che le funzioni di regolazione e di controllo siano affidate, come argomenteremo meglio più avanti, ad agenzie indipendenti. Più in generale, si deve immaginare una politica pubblica che sia tesa alla creazione di agenzie indipendenti in grado di: - accrescere il grado di concorrenza là ove operano condizioni settoriali di monopolio (o quasi monopolio) legale. Si tratta, dunque, di regolare l'accesso delle nuove imprese al mercato tramite la revisione delle concessioni del servizio. Può essere il caso del "secondo gestore" nella telefonia cellulare; - verificare i casi in cui il progresso tecnologico abbia introdotto nuove condizioni tali per cui non sussistono più, in molti settori delle "public utilities", le condizioni di monopolio naturale che costituivano il prerequisito del monopolio pubblico. Ciò rende possibile la presenza di più imprese nello stesso mercato di riferimento. Può essere il caso della produzione
della energia elettrica da parte di imprese private; - verificare, invece, se non sussistano condizioni tecnologiche tali da non consentire alcuna forma di regolazione se non quella estrema della impresa totalmente pubblica che opera in condizioni di monopolio assoluto. Può essere il caso delle "reti" ferroviarie ed elettriche ove è difficile immaginare "reti" concorrenti; - adottare e adeguare politiche di deregolamentazione e di ri-regolazione nei casi in cui la concorrenza non possa manifestarsi in modo effettivo nel mercato. Si tratta, dunque, di introdurre condizioni ed incentivi di concorrenza potenziale per il mercato. Può essere il caso del rinvio ai meccanismi d'asta competitiva per l'assegnazione delle concessioni di servizio per un determinato periodo. È ovvio che alla fine del periodo tale concessione dovrà di nuovo essere messa all'asta. Poiché la realizzazione di un ambiente competitivo non preclude l'opportunità di un intervento di regolazione riferito alle politiche di qualità e di prezzo dei beni e dei servizi offerti, si deve verificare almeno che: la normazione tecnica sia coerente con la definizione degli standard di qualità dei servizi offerti agli utenti; la regolazione delle tariffe avvenga tramite meccanismi (tipo il price-cap) che rendano, nel concreto e per quanto possibile, compatibile l'obiettivo dell'efficienza interna dell'impresa (ciò
richiede che le tariffe siano fissate ad un livello tale per cui eventuali riduzioni dei costi non si traducano in minori prezzi) con quello della massimizzazione degli scambi sul mercato (è il caso in cui le tariffe sono mantenute a livello dei costi osservati, ma allora non vi è alcuno stimolo a raggiungere una maggiore efficienza interna in quanto non vi sarebbe alcun effetto sui profitti dell'impresa stessa); i prezzi di interconnessione (nel caso di servizi a rete) non incidano sui profitti dell'impresa. In sintesi, i attività del regolatore deve riguardare congiuntamente le modalità per l'entrata di nuove imprese sul mercato, la qualità e gli standard tecnici dei servizi erogati agli utenti, l'aspetto tariffario. È evidente che tale attività di regolazione diviene assai complessa, anche per l'operare di una molteplicità di operatori (pubblici e privati) sui diversi mercati tra di loro legati da una molteplicità di rapporti: di concorrenza su alcuni, di fornitura su altri. I compiti descritti, ed altri ancora, che devono essere assegnati ad un regolatore", vanno considerati insieme alla presa di coscienza della impossibilità, anche teorica, di rendere pienamente compatibile la regolazione con la competizione. Il "regolatore" dovrà, dunque, disporre di un sufficiente grado di autonomia nel muoversi per il raggiungimento di obiettivi che, oltre un certo grado di soddisfacimento 189
degli stessi, possono diventare del tutto incompatibili tra di loro. Ma esso dovrà anche disporre di potenti poteri pubblicistici: poteri di concessione, di direttiva verso le imprese sottoposte a vigilanza e di sanzione, di risoluzione di controversie fra imprese e utenti, altrimenti si ridurrebbe a svolgere le funzioni di uno dei tanti (quanto inutili) comitati consultivi. Vi sono tuttavia settori in cui la concorrenza non è realizzabile né desiderabile, si pensi ai monopoli naturali costituiti dalle reti fisse per il trasporto ferroviario, per la telecomunicazione a livello locale o per la distribuzione sempre a livello locale, delle fonti di energia (gas, elettricità). In questi casi occorrerà incentivare una regolamentazione per evitare l'espandersi di comportamenti abusivi. In questa ottica potrà essere presa in considerazione anche l'introduzione di sistemi competitivi per assegnare il diritto di monopolio. Ad esempio l'asta concessa al miglior offerente (per qualità di servizio reso a parità di prezzo o per minore prezzo a parità di servizio reso) per la raccolta di rifiuti o per la pulizia di edifici pubblici o ancora il trasporto pubblic0 22 È evidente che tale sistema non introduce la concorrenza nel settore, ma si presenta come valido ausilio alla sua regolazione. Occorre, inoltre, tenere presente che più sarà estesa l'area del monopolio o della posizione dominante più interventi regolativi saranno di difficile at.
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tuazione. È opportuno, quindi, che l'agenzia di regolazione intraprenda anche un'attiva politica di incentivazione della concorrenza in tutti quei settori ove sia possibile e desiderabile. Sotto questo profilo occorre segnalare come la necessità di tutelare il principio di universalità del servizio o di mantenere alcune forme di sussidi incrociati non esclude la possibilità che il servizio pubblico sia esercitato da più soggetti in concorrenza tra loro. In questi casi le agenzie di regolazione possono imporre a tutti i soggetti presenti nel mercato un obbligo di universalità di servizi ovvero politiche tariffarie vantaggiose per determinate categorie di utenti. Un'ottima occasione di implementare la concorrenza in questi settori circoscrivendo il potere monopolistico derivante da situazioni di monopolio naturale o da posizioni dominanti di fatto è rappresentata a nostro avviso dalla rottura del monopolio verticalmente integrato. A tal fine si deve innanzitutto impedire, seguendo il modello americano basato sul principio della separazione, che chi è proprietario della rete fissa o esercita i servizi di base in monopolio possa anche esercitare i servizi in concorrenza23 È evidente che ad esempio l'assunzione nel medesimo soggetto della proprietà della rete fissa e della gestione del servizio, che attraverso questa si offre in concorrenza con altri soggetti, pone non pochi problemi. In partico.
lare, il proprietario della rete tenderà a sussidiare il serYizio in concorrenza con il guadagno monopolistico consistente nel fissare i prezzi di accesso alla rete. Inoltre, in casi in cui il servizio può essere in concorrenza, ma vi è attualmente una situazione di monopolio di fatto (ad esempio in capo all'ENEL per quanto riguarda la produzione di energia elettrica) potrebbe risultare opportuno suddividere l'impresa in varie società ed in seguito privatizzarle separatamente. Come è stato correttamente ricordato, con la ristrutturazione dei monopoli legali vengono introdotti nell'economia italiana alcuni "enzimi della concorrenza". In questo contesto la regolazione diviene non un fine in sé, ma uno strumento da utilizzarsi temporaneamente sulla via della concorrenza24 Una precisazione finale di non poco conto: quando si discorre di agenzie indipendenti si fa riferimento ad una o più istituzioni che siano formalmente ed organizzativamente separate dalla pubblica amministrazione, ma che si muovono all'interno delle linee guida emanate dal governo e dal Parlamento tramite una legge di "principi" che fissa le funzioni, i poteri a queste correlati e gli obiettivi di tali agenzie indipendenti. È noto che nel Regno Unito si è preferito dare vita ad una molteplicità di agenzie (ognuna deputata a regolare un dato servizio). Nel .
caso dell'Italia, a nostro avviso, sarebbe, invece, più opportuno dare vita ad una unica agenzia suddivisa in diverse aree operative (telecomunicazioni, trasporti, energia, ecc.). Una delle obiezioni che, di norma, viene avanzata contro l'istituzione di agenzie indipendenti è quella che, per tale via, si costituirebbero delle burocrazie parallele. A tale obiezione si risponde "svuotando" l'amministrazione pubblica delle analoghe competenze e "chiudendo" quegli uffici pubblici (di norma ministeriali) con competenze analoghe a quelle delle nuove agenzie. È ovvio che vi saranno resistenze da parte dei ministeri svuotandi , ma tali resistenze vi sarebbero anche all'introduzione di nuove tecniche di controllo e delle correlate nuove responsabilità che sono indispensabili per regolare, invece, che per gestire. Ma la ragione più importante che, in via generale, suggerisce la costituzione di un'agenzia indipendente è quella che ritiene necessario inserire tra i legittimi interessi dello Stato (che individua gli obiettivi collettivi da raggiungere) e quelli degli utenti e delle imprese (e i loro azionisti) anche il giudizio di un terzo che possa mediare" tra tali contrapposti interessi. In altre parole, si tratta di inserire una funzione arbitrale (non politica, ma tecnica) tra gli interessi degli utenti che, ad esempio, vorrebbero regole stringenti sui livelli dei prezzi, quelli 191
delle imprese produttrici (e dei loro azionisti) che, invece, vorrebbero totale libertà nella formazione dei prezzi, quelli dello Stato (inteso come collettività) che vorrebbe anche il perseguimento di fini collettivi e quelli dei partiti politici in carica di governo che vorrebbero (caso mai anche tramite le concessioni) mantenere il consenso politico in vista della successiva tornata elettorale. A ciò si aggiunga che l'orizzonte temporale del Governo è assai più breve di quello richiesto per la valutazione degli investimenti, assai rilevanti, necessari nel campo dei servizi pubblici a rete25 La logica delle agenzie indipendenti è, dunque, quella che le vorrebbe vedere sottratte alle contrattazioni che avvengono sul mercato politico. Si tratta, infatti, di evitare che il regolatore sia "catturato" dalle imprese produttrici (anche a tal fine è più opportuna la costituzione di una unica agenzia). In particolare si tratta di evitare che il regolatore (tramite lo strumento della concessione) costituisca barriere all'entrata a favore delle imprese già esistenti. È, invece, più difficile che il "regolatore" sia catturato dalle associazioni dei consumatori stante il loro minore peso politico e finanziario. In sostanza l'indipendenza delle agenzie di regolazione concorre a garantire l'economia da una gestione pervasiva del potere politico che, estendendo il controllo di natura tecnico amministrativa, può tendere a pervadere tutta .
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la vita dell'impresa. Le agenzie indipendenti costituiscono, quindi, uno strumento proprio della regolazione dei mercati tendente a ridurre possibili rischi di fallimento del pubblic0 26 Gli obiettivi assegnati a tali agenzie indipendenti sono, dunque, molteplici e tra di loro anche conflittuali. La percezione di ciò deve tradursi in un disegno che lasci a tali agenzie un certo margine di discrezionalità nel soddisfacimento di tali obiettivi conflittuali. Discrezionalità che è anche la misura del grado di indipendenza raggiunto, nel concreto, dell'agenzia medesima. Da ciò discende anche che, dati gli obiettivi, gli strumenti di cui potrà disporre tale agenzia non potranno essere definiti in modo vincolante "ex ante", dovendo questa disporre di una certa discrezionalità e procedere per via di sperimentazione. Anche a questi fini, nel caso dell'Itaha, pare a noi che sia meglio operare con una sola agenzia indipendente che non tramite le direzioni generali dei ministeri stante il diretto collegamento tra i vertici di tali direzioni ed il governo in carica. Nel caso specifico dell'Italia vi è, poi, da ricordare la tradizionale debolezza della nostra pubblica amministrazioné, la sua scarsa professionalizzazione, la sua "contaminazione" con i partiti politici. Infine, una ultima considerazione. L'esperienza, còndotta in altri Paesi (e soprattutto in Gran Bretagna), delle
agenzie per la regolazione mostra che tra gli elementi costitutivi del loro successo vi è la "trasparenza" delle procedure e dei processi che portano alle decisioni che attengono gli interessi delle industrie regolate: soprat-
tutto nella fase iniziale quando potenti interessi industriali si potrebbero mostrare alquanto riluttanti nel sottoporsi al nuovo regime di regolazione. Ci pare sia questa una esperienza di cui anche l'Italia dovrebbe fare tesoro.
Articolo già pubblicato in Economia italiana, n. 1, gen.-apr. 1994.
L'italia è giunta solo nel 1991, con l'istituzione delle società di intermediazione mobiliare, ad un approdo simile a quello ora descritto (legge n. 1 del 1991). 3 Pochi giorni prima della caduta del Govemo Amato, il Governo stesso presentò, sull'argomento, un disegno di legge delega che non ebbe alcun seguito. 4 Il divieto generale di praticare da parte dell'impresa in posizione dominante prezzi non equi è imposto dall'art. 86 del Trattato Cee. L'art. 3 della legge n. 287190 stabilisce nell'ordinamento italiano un divieto analogo usando la diversa locuzione di prezzi ingiustificatamente gravosi. Su tali concetti vedi V. MEU, «Lo sfruttamento abusivo di posizione dominante mediante imposizione di prezzi non equi", Milano 1989; Io., «Il divieto di imporre prezzi ed altre condizioni contrattuali ingiusti,fìcatamente gravose", in AA.Vv., Diritto antitrust italiano, Bologna 1993. 5 La richiesta di una forma di ridistribuzione del reddito attraverso le nazionalizzazioni era giustificata, in particolare, in questi settori dall'apporto ingente di capitale o di risorse pubbliche adoperate per la nascita e la creazione delle imprese di pubblica utilità. Ernesto Rossi, ad esempio, nel richiedere la nazionalizzazione dell'industria elettrica ricorda che essa sfrutta un bene pubblico (l'acqua) e che «gli impianti elettrici italiani sono stati per la gran parte costruiti con il pubblico denaro (cfr. E. Rossi, «Il mezzo estremo delle nazionalizzazioni", in «La lotta contro i monopoli", a cura di E. Scui, Bari, 1955 pagg. 227 e ss.). 6 Si veda a tale proposito la richiesta a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta della fuoriuscita delle imprese pubbliche dalla organizzazione sindacale degli industriali (Confindustria). Si pensi alla nazionalizzazione dell'industria elettrica in cui si è ripagato lautamente impianti costruiti in parte con soldi pubblici. 8 È il caso di molte concessioni di trasporto in cui lo Stato o l'Ente territoriale finanzia l'impresa concessionaria anche se in concreto si riscontrerebbe un ec-
J Kv, J. VICKERS, «Rforina della regolamentazione: una valutazione", in Regolazione e/o Pri vatizzazione, a cura di G. Pennella, il Mulino, 1992, pag. 85. 2 L'abolizione delle commissioni fisse ha rappresentato, come è noto, l'inizio delle riforme e dell'evoluzione dei mercati finanziari internazionali. La deregolamentazione delle tariffe è stata avviata dapprima negli Stati Uniti, ove nel 1975 il Securities Act Amendements ha impegnato la Securities and Exchange Commission (SEC) ad abolire le tariffe di brokeraggio nel New York Stock Exchange (NYSE) e ad eliminare altre pratiche anticoncorrenziali. La legge, che aboliva una regolazione dei prezzi che durava dal 1972, anno di fondazione del NYSE, ha prodotto una immediata e considerevole riduzione delle tariffe, sia per gli investitori c.d. istituzionali che per i singoli risparmiatori, arrivando nel 1980 a dimezzare i costi di transazione per gli investitori istituzionali (cfr. G.A. JARRELL, Change at the exchange: the causes and effects of dereguiation, Journal of Law and Economic, october 1984; pag. 273; S.M. PHILLIPS and J.R. ZECHER, The Sec and the Public Interest, MIT Press, 1981). Il calo del livello delle commissioni rilanciò l'efficienza del mercato di New York costringendo anche le borse europee a considerare la possibilità di introdurre riforme di questo tipo al fine di reggere la concorrenza col mercato americano, lI 27 ottobre 1986 iniziò il c.d. "Big Bang" nella City di Londra. L'abolizione delle pratiche restrittive della concorrenza nei mercati finanziari inglesi, quali le commissioni fisse di intermediazione, e la demarcazione rigida tra broker e dealers, produssero un aumento di efficienza degli intermediari, cui si accompagnò un vertiginoso aumento del volume degli scambi su quei mercati. In seguito riforme in parte analoghe sono state introdotte in Francia e Spagna. I
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cesso di offerta ove il mercato fosse liberamente accessibile. Riguardo a tali distorsioni dello stumento concessionario, si veda il referto al Parlamento in data 28 maggio 1993 della Corte dei Conti. 9 Emendamento presentato nella seduta dell'Assemblea Costituente del 13 maggio 1947. 0 La definizione è di Ernesto Rossi, cfr. cit., pag. 230, in particolare per le posizioni assunte dall'on. Ruini (gruppo misto) e dall'on. Domineddò (gruppo democristiano). I Autorità garante della concorrenza e del mercato, "Relazione annuale sull'attività svolta", Roma 30 aprile 1994. 12 Cfr. Ministero del tesoro - Commissione tecnica per la spesa pubblica, Osservazioni e raccomandazioni (anni 1982-1991), Roma, 1992, pag. 312. 3 Cfr. "La trasformazione dfficile". Sesto rapporto Cerllrs sull'industria e la politica industriale italiana; in particolare il cap. VIII, "Lepri vatizzazioni: dopo il lungo sonno un risveglio agitato", Il Mulino, Bologna, 1993; F. Cavazzuti, Privatizarion: false sta rts andfrustraded takeoffi in S. HELLMANN, G. PASQUINO (eds), "Italian Politica. A Review Volume", n. 7, Pinter Publisher, N Y. 1992, pp. 145-158. 4 Cfr. Ministero del tesoro - Direzione generale del Tesoro, "Libro verde sulle partecipazioni dello Stato, Roma, novembre 1992. 15 Cfr. op. cit., pag. 313. 6 Cfr. Senato della Repubblica, XI legislatura, "Documento sul riordino delle partecipazioni pubbliche e sullo stato delle privatizzazioni", presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri (Amato), trasmesso alla Presidenza il 14aprile 1993, Roma, pp. 10-11. Il Cfr. Senato della Repubblica, resoconto stenografico della seduta dell'Assemblea del 20 ottobre. 18 Per quanto riguarda la bozza di convenzione dell'ENEL, l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha segnalato, ai sensi dell'art. 22 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, di ritenere l'assunzione ditale atto gravemente lesivo della concorrenza. In particolare l'Autorità, oltre a rilevare l'eccessiva durata della convenzione ha segnalato come occorresse escludere ogni tipo di possibili indennizzi ove si arrivasse, in pendenza della convenzione, ad una liberalizzazione della totalità o di parte dei servizi oggetto di concessione. 19 Per quanto riguarda la proposta di proroga delle concessioni aeroportuali essa è stata respinta dal Senato in conformità all'auspicio espresso dall'Autorità 194
Garante della Concorrenza e del Mercato con segnalazione trasmessa al Governo e al Parlamento in data 8 novembre 93. Con tale segnalazione l'Autorità ha rappresentato come la genericità dell'oggetto e la lunga durata delle concessioni possa dar luogo ad ingiustificate restrizioni della concorrenza sul mercato dei servizi aeroportuali ed appare in contrasto con i principi comunitari in materia di concorrenza. Inoltre, non essendo presenti ragioni di interesse generale che giustifichino il ricorso ad un gestore unico, l'Autorità ritiene che molti servizi compresi nella gestione aeroportuale «totale", quali, in primo luogo i servizi di handling (assistenza a terra agli aerei, ai passeggeri e alle merci), possano essere effettuati sia direttamente dalle stesse compagnie aeree che da imprese terze specializzate. Per quanto concerne l'autoproduzione, cioè la possibilità per le compagnie aeree di svolgere direttamente attività di servizio evitando di ricorrere al concessionario aeroportuale, l'emendamento citato avrebbe l'effetto di limitare sostanzialmente l'ambito di applicazione del principio riconosciuto dall'ordinamento italiano nell'art.9 della legge n. 287190, nel settore in quanto riconoscerebbe alle compagnie di navigazione aerea il diritto di svolgere in proprio solo i servizi di assistenza a terra dei passeggeri e "solo con i vincoli infrastrutturali di ciascun aeroporto. 20 Di questa preoccupazione si sono fatti interpreti in Italia alcuni studiosi tra cui ricordiamo A. MACCHIATI, «Regolamentazione e concorrenza nei servizi di pubblica utilità", Il Mulino, n. 1, 1994, pag 82; L. PROSPERETTI, " Servizipubblici da un monopolio ad un altro", Il Sole 24 Ore del 15.11.93. 21 Così anche la discussione sulla forma di controllo che debba scaturire dalla privatizzazione di dette società, public company o nucleo duro, appare confondere piani diversi del problema. Da alcune parti, infatti, l'esistenza di una public company sembra essere vista come soluzione miracolosa di ogni problema di tutela degli interessi collettivi. 22 Un'asta competitiva per la gestione di parte del trasporto urbano è stata con successo introdotta nella città di Denver (Colorado). L'introduzione di gestori privati in concorrenza per l'assegnazione del servizio per un numero limitato di anni ha aumentato l'efficienza della gestione di alcune linee ed ha, inoltre, permesso di valutare l'efficienza del servizio reso per altre tratte dall'azienda pubblica. 23 Si veda a tale proposito A. MACCHIATI, op. cit.,
pag. 88; pii in generale J. VIcIeRs- J.YRow "Privatisation, An Economic Analysis"; Mit Press 1988; id. "Reform of the British Electricity Industry", 1991, pag. 494. 24 CosĂŹ, A. MACCHIATI, op. cit., pag. 88-89. 25 Si veda L. PROSPERErFI, "Monopolio, concorrenza e regolazione: i pubblici servizi in un mercato che cambia", in Economia e politica industriale, n. 80, 1993, pag. 113. 26 Le agenzie indipendenti sorgono proprio come strumento di intervento del Governo federale americano nell'economia. In particolare, negli anni del New Deal il forte incremento dei poteri di regolazio-
ne dell'economia consacra la formula organizzativa della "independent agency" definendo, anche attraverso sentenze della Suprema Corte, il carattere dell'indipendenza come elemento tipizzante e giustificandola in termini di efficacia dell'azione. Cfr. a tale riguardo, tra gli altri, S. SOMMER, "Independent Agencies as artide one tn bunals: foundations ofTheoy ofagency independence", in Administrative Law Review, 1987, pag. 92; J.W. FESLER, "The independence ofstate regulato1y agencies", Chicago, 1942; J. FREEDMAN, "Crisis and legitimacy: The administrative process and american government", 1978, Cambridge University Press, 1978.
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Un'esperienza organizzativa di azionariato diffuso di Angelo Schiano*, Renzi Ristuccia**, Antonio S egni***
L'iniziativa che ha visto come protagonista l'associazione "Azionisti Gruppo INA" (AGI) è partita nella tarda primavera del 1994, in vista della prossima (parziale) privatizzazione dell'ma che, secondo il programma di dismissioni approntato dal Tesoro, avrebbe comportato la distribuzione della maggioranza delle azioni attraverso un'offerta pubblica di vendita. L'intento era quello di giungere alla realizzazione della società a capitale diffuso (public company) che nelle presentazioni dell'operazione rappresentava il modello ispiratore della privatizzazione INA. È importante sottolineare che la scelta della società a capitale diffuso reca in sé un messaggio di trasformazione del sistema produttivo nella prospettiva di superare i limiti della concentrazione in poche mani della proprietà delle aziende e di consentire così alle imprese italiane di acquisire dimensioni competitive. La partecipazione del piccolo risparmiatore al rischio e all'utile è dunque funzionale a un'im-
• Avvocato in Roma.
Pròcuratore legale in Roma. Procuratore legale in Roma.
portante modernizzazione del capitalismo nel nostro Paese. Lo statuto dell'INA già anticipava tale modello e prima ancora della conversione in legge del decreto sulle privatizzazioni, particolari previsioni introducevano un tetto massimo ai possessi azionari (5%) e, con assoluta novità, l'elezione dei componenti del consiglio d'amministrazione con il cosiddetto metodo del voto di lista. Con ciò si concretizzavano le manifestazioni d'intenti dell'azionista pubblico per consentire alle minoranze di eleggere tra gli amministratori propri rappresentanti. La privatizzazione della compagnia di assicurazioni, quindi, sembrava promettere alle minoranze capaci di organizzarsi la possibilità di concorrere alla gestione della propria società con margini più ampi di quanto non fosse stato possibile nelle precedenti esperienze di privatizzazioni delle grandi banche pubbliche. Per queste ultime, infatti, le difficoltà organizzative e l'applicazione del rigoroso principio di maggioranza nella nomina delle cariche sociali, acuite da onerose clausole statutarie sulla rappresentanza in as-
semblea, avevano impedito alle diverse organizzazioni di piccoli azionisti di ottenere visibili risultati. Nel programma di vendita, al pari di quanto si era assistito nelle precedenti privatizzazioni, un consistente ammontare di azioni (oltre 50 milioni, pari all'1,26% del capitale della società) era riservato ai dipendenti del gruppo di società facenti capo all'INA a condizioni di prezzo allora vantaggiose. La promozione e lo sviluppo del fenomeno dell'azionariato dei dipendenti era già da diversi anni un tema caro ad esponenti illuminati delle maggiori organizzazioni sindacali. In esso si intuiva un possibile strumento di modernizzazione della struttura finanziaria dell'impresa, capace di accompagnarsi ad un miglioramento delle relazioni aziendali, senza per questo sostituire in alcun modo la tradizionale dialettica sindacale. Muovendo da questa prospettiva i principali sindacati interni delle società del gruppo INA hanno saputo cogliere gli spunti offerti dalla nuova normativa. Allo stesso modo hanno però saputo comprendere che l'organizzazione degli azionisti - e perciò anche degli azionisti dipendenti - deve restare nella piena autonomia degli interessati e non subire influenza alcuna dall'ordinaria azione sindacale. La sostanziale apoliticità degli intenti dei promotori ha fatto sì che, in breve tempo, siano state coinvolte persone appartenenti alle più diverse culture e
l'iniziativa abbia ricevuto consensi presso la quasi totalità delle organizzazioni sindacali presenti tra i dipendenti (di ogni livello) del gruppo INA. L'associazione, sia pur promossa da rappresentanti dei dipendenti, ha voluto sin dall'inizio essere "aperta" a tutti i piccoli azionisti e, considerate le caratteristiche dell'offerta pubblica da cui è originata la privatizzazione INA, soprattutto agli assicurati. Ciò a un duplice fine: non limitare 1e capacità rappresentative a percentuali esigue del capitale e sviluppare un controllo sulla gestione che abbia di mira anche gli interessi dei lavoratori subordinati, ma in un contesto di tutela di più ampi interessi comuni ad ogni possibile componente dell'azionariato diffuso. La natura essenzialmente "aperta" dell'organizzazione, destinata a raccogliere consensi più ampi, suggeriva la scelta della veste associativa tra le diverse strutture che erano state esaminate. La creazione di un'associazione non riconosciuta corrisponde innanzitutto alla necessità di individuare un centro di imputazione di interessi, capace di essere identificato facilmente sia da parte dei futuri aderenti (gli azionisti), che da parte dei vari interlocutori (la società, le banche, la Consob, gli investitori istituzionali). Per questa ragione le norme sull'adesione degli associati e la stessa denominazione dell'associazione non sono focalizzate sulla figura del dipendente azionista. Al contempo, l'assenza di vincoli orga-' 197
nizzativi interni all'associazione rende il funzionamento della stessa più elastico e adattabile alle iniziative da intraprendere di volta in volta. Da ultimo, lo strumento associativo consente la raccolta dei fondi necessari per l'espletamento delle attività svolte dall'ente per conto dei propri associati. Per le esigenze esclusivamente tecniche e materiali legate alla raccolta delle adesioni all'associazione e delle deleghe per la partecipazione all'assemblea, l'AGI si è avvalsa anche della capacità organizzativa delle rappresentanze sindacali e della loro distribuzione territoriale. Il lavoro preponderante è stato comunque svolto da aderenti all'associazione che, a puro titolo volontaristico, hanno messo a disposizione le proprie energie per condurre l'AGI alla partecipazione all'assemblea dell'INA del 7 novembre 1994, durante la quale si sono rinnovate le cariche sociali. Lo
STATUTO DELL'AGI
Le summenzionate esigenze trovavano traduzione formale nello statuto dell'AGI, costituita l'il ottobre 1994. Lo scopo dell'associazione si identifica nella tutela e nell'assistenza degli associati nell'esercizio delle proprie prerogative di azionisti dell'INA. In particolare, l'associazione si assume il compito di agevolare e razionalizzare l'esercizio dei diritti di voto degli associati nelle assemblee dell'INA, nonché di provvedere alla loro rappresentanza. 198
Inoltre, l'associazione si propone di curare la selezione dei candidati per la formazione delle liste da presentare per l'elezione dei membri del consiglio d'amministrazione e del collegio sindacale delle società, nell'interesse generale dell'azionariato diffuso. La natura aperta dell'associazione viene confermata nelle modalità di adesione all'AGI, che richiamano come unico requisito di ammissione il possesso di azioni INA. La flessibilità dello strumento è garantita dall'estrema semplificazione delle strutture interne e dalla mancanza di obblighi di consultazione preventiva in collegamento con le assemblee dell'INA. Annualmente sono convocati gli associati per il rinnovo delle cariche direttive e per l'approvazione del rendiconto. Date le caratteristiche organizzative specifiche dell'AGI è stato agevole escludere che lo statuto della stessa ricadesse tra i patti o accordi relativi all'esercizio dei diritti di voto nelle società quotate, per i quali in base alle modifiche apportate dalla legge sulle privatizzazioni alla normativa in materia di offerte pubbliche d'acquisto è richiesta, a pena di inefficacia, la comunicazione alla Consob e la pubblicazione per estratto su almeno tre quotidiani a diffusione nazionale. LA PREPARAZIONE DELL'ASSEMBLEA
È opportuno premettere all'esposizione delle attività dell'AGI volte alla rac-
colta delle deleghe per la presentazione della lista e la partecipazione all'assemblea, che le difficoltà incontrate nell'iniziativa dimostrano come, nonostante le dichiarazioni programmatiche, le condizioni normative e tecniche entro le quali è necessario muoversi siano tuttora fortemente limitative nei confronti di chi, come l'AGI, voglia tentare la strada dell'organizzazione dell'azionariato diffuso. Dal quadro generale che ne può essere dato, emerge con evidenza la necessità di addivenire a semplificazioni per l'esercizio diretto o indiretto del diritto di voto, senza le quali qualunque proposito di coinvolgimento dell'azionariato diffuso diviene un puro esercizio di teoria. Altrimenti la sperequazione tra costi di partecipazione e ricavi attesi dall'investimento è tale da determinare una vera e propria limitazione dei diritti degli azionisti.
Rapporti con le banche depositarie delle azioni Le prime difficoltà giungono con lo strumento di legittimazione per l'esercizio del diritto di voto. La relativamente recente legge regolatrice del sistema di gestione accentrata dei valori mobiliari (Monte Titoli) e la speciale regolamentazione attuativa riconducono alla certificazione di deposito presso i! Monte la doppia valenza di biglietto d'ammissione in assemblea e di strumento formale di delega per l'esercizio del diritto di voto. Merita
certamente di essere sottolineato come i! sistema Monte Titoli, seppure ha contribuito ad agevolare significativamente le procedure di scambio sul mercato delle partecipazioni azionarie, da altro lato non ha minimamente intaccato i tradizionali sistemi di legittimazione dell'azionista per l'esercizio dei propri diritti, che sono rimasti ancorati a formali presentazioni di documenti cartacei. Resta il dubbio se in un mondo sempre più governato da sistemi informatici sia ancora necessario, per partecipare ad un'assemblea di una società con decine di migliaia di azionisti, fare ricorso ad un inutile e dispendioso scambio di carte e certificati. Senza contare, poi, come tale sistema di fatto si traduca in un - più o meno diretto - danno per gli azionisti. Da un lato, infatti, ne scoraggia la partecipazione all'assemblea, aggiungendo all'incomodo di dovervisi recare, quello di anticipare il viaggio con un paio di visite al proprio sportello bancario; dall'altro, quand'anche tali passaggi venissero affrontati, ci sarebbe un aggravio significativamente sui bilancio della società, alla quale ogni banca depositaria delle azioni, tramite il Monte Titoli, addebita 25.000 Lire per ogni certificazione di deposito rilasciata. È evidente come tale spesa possa tramutarsi da insignificante, quando i partecipanti all'assemblea siano (come normalmente sono sempre stati) assai pochi, a molto onerosa, in società ad 199
azionariato diffuso per le quali si incoraggi la massiccia partecipazione degli azionisti di mercato. Attualmente, quindi, per potere partecipare all'assemblea e votare, l'azionista che abbia i propri titoli depositati presso una banca e sub-depositati in Monte deve recarsi allo sportello della prima per richiedere il rilascio della certificazione di deposito. A tale richiesta la banca fa seguire un accertamento della presenza e del numero di azioni con diritto di voto possedute dal proprio cliente. Successivamente, l'azionista deve ritornare presso lo sportello per ritirare la certificazione, con la quale potrà accedere al luogo dell'assemblea. L'AGI ha tentato di semplificare, per quanto possibile, i compiti degli azionisti depositanti per il ritiro delle certificazioni di deposito presso le proprie banche depositarie. A tale scopo l'AGI ha individuato alcune persone, incaricandole di mantenere i rapporti con le banche depositarie e ha fatto sì che, all'atto dell'adesione all'associazione, ogni azionista prestasse una propria delega a favore di tali persone. Grazie alla delega queste si sarebbero recate presso la banca per richiedere ed ottenere la certificazione di deposito corrispondente alle azioni del delegante. Attraverso questo meccanismo, oltre a sollevare gli azionisti aderenti da un impegno, si raggiungeva anche il risultato di cumulare le richieste di emissione delle certificazioni, accen200
trandone il rilascio ed agevolando le banche che, al contempo, hanno potuto organizzare il lavoro in modo più efficiente. La procedura di delega, peraltro, non era assolutamente praticabile in ogni situazione. La banca depositaria, infatti, non sarebbe stata in grado di accertare la paternità della sottoscrizione del delegante se non confrontando la stessa con lo "specimen" di firma conservato per ogni titolare di conto corrente. Solitamente l'apertura di un deposito di titoli è accompagnato dalla corrispondente apertura di un conto corrente ordinario, indispensabile per la regolazione in valuta delle operazioni. Per le ragioni che diremo, peraltro, in molti casi tale mezzo di verifica si è dimostrato mancante, così che le banche interessate hanno richiesto per la corrispondente delega l'autenticazione della firma dell'azionista. È evidente come, in quest'ultima ipotesi, con l'onere di recarsi da un notaio o da un pubblico ufficiale, la pratica avrebbe deluso le esigenze di semplificazione della procedura attuata. Pertanto, l'unica soluzione possibile è stata quella di richiedere agli azionisti aderenti all'AGi di recarsi personalmente presso la banca depositaria per ottenere direttamente la certificazione di deposito. Va inoltre notato che l'accentramento presso l'AGI dell'onere di richiedere e ritirare le certificazioni è stato reso parzialmente possibile dalla singolare
circostanza che ie azioni dei dipendenti del Gruppo INA erano state depositate a seguito del collocamento praticamente presso tre sole banche (gli sportelli interni alle aziende): INA Banca Marino, Banca Nazionale del Lavoro, Monte dei Paschi di Siena . Si è consapevoli del fatto che offrire tale servizio agli associati sarebbe stato praticamente impossibile se le azioni fossero state depositate, come normalmente sono, presso un gran numero di depositari e sparse su tutto il territorio nazionale. È lecito domandarsi se un ripensamento del sistema di produzione di strumenti di riconoscimento e legittimazione che ne accentri la gestione a livello del Monte Titoli non possa già essere un significativo passo verso la semplificazione delle procedure di partecipazione all'assemblea. Oltre alla macchinosità della normativa vigente, in esito all'esperienza maturata con l'iniziativa dell'AGI, va registrata - pur dando atto della buona volontà e della cortesia dei funzionari di banca incontrati - una diffusa impreparazione culturale di fronte a fenomeni di partecipazioni massicce alle assemblee delle grandi società. È evidente come abbia contribuito a tale impreparazione la ormai acquisita convinzione (di comodo) che la partecipazione all'assemblea non sia fenomeno che interessa molti, ma si limiti agli azionisti di peso ed a pochi curiosi. Il sistema bancario, sul quale ricadono gravi compiti nell'ipotesi in cui
l'azionista voglia esercitare i propri diritti non patrimoniali, dimostra in questa materia carenze organizzative che complicano notevolmente le procedure. Basti dire che non c'è normalmente a livello di sportello la possibilità materiale di emettere la certifica,, zione a vista , cosi come manca a tivello accentrato la possibilità di verificare la corrispondenza della sottoscrizione apposta alla richiesta rispetto allo ccspecimen) depositato. Il rilascio della certificazione dipende pertanto da uno scambio di carte ed autorizzazioni tra centri amministrativi, filiali e sedi periferiche, che corrisponde a verifiche di firma e di evidenza titoli (a livello di sportello), a passaggi di documentazione (filiali), a creazione materiale delle certificazioni (sedi centralizzate), per poi tornare a ritroso sino all'azionista. Il tutto comporta un notevole impiego di tempo ed il coinvolgimento del lavoro di numerose persone. Per ogni certificazione il tempo necessario al rilascio è di almeno due giorni lavorativi, in condizioni di scarsa partecipazione. All'AGI, però, in previsione del volume di richieste avanzate, le banche interessate hanno insistito per disporre almeno di due settimane intere di anticipo rispetto all'assemblea! È evidente come in tali condizioni l'esercizio di un diritto da parte dei soci rischia di limitarne per lo meno un altro, cioè quello di conservare la disponibilità dei titoli sino a cinque giorni prece"
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denti l'assemblea, ovvero di impedire di fatto ad altri che acquistino le azioni troppo tardi (non per la legge, ma per le banche) di votare. A queste considerazioni di ordine generale ne vanno aggiunte altre collegate direttamente al caso dell'INA. L'INA Banca Marino, nella fase della privatizzazione svoltasi nel giugno 1994, era stata coinvolta nel collocamento dei titoli riservati ai dipendenti del Gruppo e ad essa questi ultimi avevano dovuto far pervenire i propri ordini d'acquisto. Tuttavia, in tale occasione, coloro che possedevano un conto di deposito titoli presso altre banche, o comunque non lo possedevano né intendevano aprirlo presso la stessa INA Banca, avevano contestualmente dato ordine di trasferire i titoli acquistati presso altre banche depositarie. Sino a venti giorni prima dell'assemblea convocata per il 7 novembre 1994, tuttavia, l'INA Banca non aveva proceduto al compenso delle azioni dei dipendenti a favore delle banche da questi ultimi indicate all'atto di adesione all'offerta e le azioni rimanevano "parcheggiate" in conti transitori in attesa di trasferimento. Tale situazione, si nota, era completamente ignorata dagli azionisti, i quali rimanevano nella convinzione che i propri titoli fossero stati debitamente e tempestivamente trasferiti presso la propria banca. Il risultato pratico di tale situazione era che l'azionista che si fosse presen202
tato ignaro presso la propria banca, con anticipo rispetto all'assemblea, avrebbe appreso che sul suo conto non risultavano esservi mai state azioni INA. Tale scoperta è stata fatta di converso dall'AGI, munita della delega per il ritiro della certificazione, che si è così trovata impossibilitata a sollevare il delegante dall'impegno di recarsi personalmente presso l'INA Banca detentrice delle azioni, poiché quest'ultima, mancando ogni rapporto con il titolare delle azioni, era sfornita di "specimen" di firma con il quale confrontare quella apposta alla delega e, conseguentemente, richiedeva l'autenticazione della medesima. Grazie ad incontri tra rappresentanti dell'AGI e i funzionari delle banche, per parte delle azioni "in parcheggio" è stato possibile realizzare appena in tempo il trasferimento. Presentazione della lista L' art. 4 della "legge privatizzazioni" consente la presentazione di liste per l'elezione degli amministratori da parte di 6'soci che rappresentino almeno l'i per cento delle azioni aventi diritto di voto. Considerato che nessun azionista INA diverso dal Tesoro detiene la percentuale richiesta dalla legge, è necessaria un'aggregazione di azionisti per procedere a detta presentazione. Lo strumento pratico per realizzare tale aggregazione è stato quello di una procura scritta conferita dagli azionisti
aderenti all'associazione a favore del presidente dell'AGi per la presentazione della lista. La procura, rilasciata contestualmente all adesione all associazione, prevedeva altresì la facoltà del presidente dell'AGI di presentare la lista in accordo con altri. L'AGI si è poi attivata per comporre una lista di candidati scelti tra persone professionalmente qualificate e dotate di indiscutibile moralità e indipendenza. Hanno mostrato la loro entusiastica disponibilità a far parte della lista il prof. Guido Alpa, titolare della cattedra di diritto privato all'Università di Roma La Sapienza, esperto in materia di responsabilità civile e di assicurazioni, ma soprattutto pioniere in Italia degli studi in materia di tutela del consumatore e del piccolo risparmiatore; il prof. Salvatore Sarcone, titolare di ragioneria ed economia aziendale alle università di Roma e di Viterbo, esperto in materia di imprese articolate in "gruppo"; il prof. Lorenzo Caprio, associato di finanza aziendale presso la facoltà di scienze bancarie, finanziarie e assicurative dell'Università cattolica di Milano, specialista in materia di fondi pensione e di azionariato dei dipendenti. L'AGI ha contattato diversi azionisti, organizzazioni di azionisti e investitori istituzionali per raccogliere un più vasto consenso intorno a figure altamente selezionate come quelle proposte. Alla scadenza del termine per la presentazione, la lista è stata formalmente
depositata. Si è posto allora il problema della pubblicazione della lista su almeno tre quotidiani a diffusione nazionale, di cui due economici. L'AGI nonostante opinioni contrarie manifestate dalla stessa INA S.p.A. - ritiene di avere assolto all'obbligo di legge mediante la diffusione di un comunicato stampa ripreso da un numero di quotidiani ben maggiore di quello previsto dall'art. 4. D'altra parte, questo ultimo non richiede espressamente un annuncio «a pagamento e la ratio della disposizione risiede nella diffusione dell'informazione, non nell'imposizione di un costo in capo al presentatore della lista - soprattutto quando questo sia un'associazione senza scopo di lucro con l'obiettivo di favorire la partecipazione dei piccoli azionisti alla vita sociale in conformità allo spirito della legge. Va da sé che una diversa interpretazione pone seri problemi a organismi di natura volontaria che si alimentano con modesti contributi di adesione. Date le caratteristiche e il numero dei soci presentatori della lista, si è ritenuto assolto l'onere informativo relativo ai proponenti con la semplice menzione dell'associazione e senza l'(impossibile) elencazione di tutti i nominativi che hanno conferito la procura. Partec:azione all'assemblea Per organizzare la partecipazione degli azionisti all'assemblea si è dovuto tenere conto delle notevoli limitazioni 203
poste dall'art. 2372 c.c., che è espressione di una politica legislativa fortemente dissuasiva del fenomeno della raccolta delle deleghe di voto. Anzitutto, la norma vieta il rilascio di deleghe con il nome del rappresentante in bianco e comunque non consente sostituzioni del delegato a meno che non sia espressamente indicato il nome del sostituto. Inoltre, limita a un massimo di 200 il numero di azionisti che la stessa persona può rappresentare in assemblea. Infine - circostanza assai grave per un'associazione promossa dal personale - la disposizione non consente, almeno secondo un'interpretazione rigidamente testuale, il rilascio di deleghe a favore di dipendenti della società o di società controllate. In aggiunta alla disposizione codicistica si è dovuto tener conto di una prassi secondo la quale la delega di voto deve essere apposta dall'azionista in calce alla certificazione Monte Titoli. Per evitare di ritornare nuovamente dai propri aderenti una volta ritirata detta certificazione dalle banche depositarie, l'AGI ha fatto in modo che la delega fosse conferita, contestualmente a quelle di cui si è già fatto menzione, su un modulo ad hoc che è stato depositato insieme alla certificazione Monte Titoli il giorno della riunione assembleare. Non potendo conoscere ex ante (cioè al momento della raccolta delle deleghe) il numero di azionisti intenzionati ad aderire all'iniziativa, l'AGI ha se204
lezionato un gruppo di rappresentanti tra i propri consulenti e i pensionati di aziende INA. I nomi dei delegati sono stati inseriti nei moduli distribuiti agli azionisti in quantità tali da non superare i limiti imposti dalla legge. Così facendo, però, a seconda della rispondenza degli azionisti, taluni delegati si sono trovati con un elevato numero di deleghe e altri con quantità poco significative. Il problema più serio è stato tuttavia quello della defezione improvvisa per motivi non dipendenti dalla loro volontà di taluni delegati, defezione cui date le ristrettezze normative e i tempi limitati non si è potuto porre rimedio. I risultati dell'iniziativa Quella realizzata dall'AGi è stata, per quanto ci consta, la più vasta raccolta di deleghe di voto mai realizzata tra piccoli azionisti in Italia. Le adesioni sono state molte; gli associati sono ..........Le deleghe n...... per complessive n . ............... ... azioni pari a x% del capitale. Molte più adesioni - specialmente presso azionisti sparsi sul territorio nazionale - si sarebbero potute raccogliere avendo un tempo maggiore a disposizione. Sebbene tali numeri non siano stati sufficienti per presentare una lista, l'Agi si è dimostrata nei fatti l'unica realtà che ha colto lo spirito del legislatore volto a promuovere la partecipazione attiva dell'azionariato diffuso alle vicende della società.
In ogni caso l'AGI si è legittimata verso l'esterno anche come un valido interlocutore nei confronti di istituzioni, di azionisti, di altre associazioni o comunque di altri soggetti interessati all'andamento della società. Le liste di candidati presentate per l'assemblea INA 7.11.1994 Nell'elezione degli organi della società svoltasi il 7 novembre 1994 presso il Palazzo dei Congressi dell'Eur a Roma, oltre alla lista depositata dall'AGI che non ha raggiunto l'i % necessario per una sua valida presentazione, sono state due le liste sottoposte al voto degli azionisti INA: quella dell'azionista di maggioranza, il Ministero del Tesoro, la prima; quella presentata da un gruppo di istituzioni finanziarie guidato dalla società IMIGEST, la seconda. Nonostante la indiscussa professionalità dei consiglieri eletti, a noi sembra che le modalità di formazione e di presentazione della seconda lista non abbianorealizzato quell'armonia con gli obiettivi di tutela delle minoranze che la prima attuazione della legge "privatizzazioni" imponeva a tutti i soggetti coinvolti, ma soprattutto all'azionista pubblico. Non può infatti essere ignorato che l'IMIGEsT è una società controllata dall'IMI, nella quale, nonostante un processo di privatizzazione già avviato, il Ministero del tesoro notoriamente conserva la partecipazione di maggioranza relativa (con quota superiore al
27%). Si aggiunga che gli amministratori in carica dell'IMi stessa sono stati designati prima della privatizzazione della banca, quando la partecipazione dello Stato era di maggioranza assoluta. La circostanza che la lista, che per definizione di legge dovrebbe essere «di minoranza", sia stata presentata da un soggetto il cui azionista di riferimento rivesta al contempo la qualità di azionista di maggioranza dell'INA francamente non si concilia con lo spirito della legge e in ogni caso non rappresenta il messaggio che i risparmiatori si aspettavano. Altri segnali hanno contribuito a generare perplessità. Durante l'assemblea nessun rappresentante dell'IMIGEST ha ritenuto di prendere la parola per illustrare la propria lista agli azionisti. Il compito se l'è infatti assunto quantomeno in relazione ai candidati al collegio sindacale - il rappresentante dell'azionista di maggioranza, prof. Libonati. È scomparsa cioè qualunque forma di dialettica tra liste di candidati che dovrebbe contraddistinguere una competizione elettorale anche in democrazia azionaria7. Giova ancora ricordare che tanto poco la lista di minoranza è apparsa espressione di reale indipendenza da quella dell'azionista di controllo che uno degli amministratori indicati nella prima è stato "cooptato" dalla maggioranza ed è divenuto addirittura membro del comitato esecutivo dell'INA. Quanti 205
esponenti della maggioranza del capitale di una società sarebbero disposti ad ospitare volontariamente un amministratore eletto da una vera minoranza nel sancta sanctorum della conduzione aziendale? In buona sostanza, la vicenda ha dimostrato che nel ricoscimento di un ruolo all'azionariato diffuso non sembra in fin dei conti credere ancora neppure l'estensore delle norme, che ha di fatto dato l'impressione di eludere quanto egli stesso aveva prescritto. Circostanza forse ancora più grave è che il meccanismo del voto di lista, lungi dall'assicurare la conclamata tutela dell'azionariato diffuso, potrebbe aver consentito nel caso di specie di realizzare in maniera assai poco trasparente - come già immaginato in teoria da profondi conoscitori del diritto societario come Giorgio Oppo e Pier Giusto Jaeger - un "nucleo duro" attraverso l'offerta pubblica di vendita. I componenti di questo nucleo duro, però, potrebbero aver pagato come corrispettivo del loro significativo potere lo stesso prezzo unitario dei piccoli azionisti, o forse addirittura meno (sarebbe indice di trasparenza che le autorità competenti indicassero quali siano gli investitori istituzionali che hanno comprato nell'offerta loro riservata, quante azioni siano state acquistate da ognuno e a quali prezzi). Con ciò non si vuole contestare che il "nucleo duro" possa costituire un cor206
retto sistema per privatizzare; anzi in determinate situazioni esso risponde ad esigenze meritevoli di tutela, purché l'operazione si realizzi in maniera chiara nei confronti del mercato e dei risparmiatori che acquistano le azioni. Oltre all'assetto proprietario del soggetto promotore la lista cosiddette «di minoranza", va anche segnalata un' ingiustificata ostilità di gran parte degli investitori istituzionali contattati nei confronti dell'AGI manifestatasi nel netto - e spesso scortese - rifiuto di una semplice conversazione. Le ragioni di questa ostilità non sono chiare. I modelli di corporate governance, diffusamente proposti per avvicinare l'ordinamento societario italiano a sistemi finanziari più evoluti, assumono l'indipendenza degli investitori istituzionali quale strumento di garanzia del miglior perseguimento dell'interesse sociale da parte degli amministratori. In questa prospettiva gli investitori istituzionali, anche nell'interesse dei risparmiatori partecipanti alla società attraverso forme di gestione collettiva, hanno l'onere di verificare le possibilità di candidature alternative e non prendere acriticamente quanto gli viene sottoposto. Ciò che si è invece verificato nel caso dell'INA è stato un "appiattimento" delle posizioni ditali soggetti sulle soluzioni che ogni apparenza indicava guidate dall'azionista di maggioranza. Si possono comprendere le ragioni di chi sa che il Tesoro è oggi il miglior
potenziale cliente di un'istituzione finanziaria in Italia in vista delle future privatizzazioni; siamo però ben lontani dai modelli che la stessa associazione di categoria dei gestori di risparmio sta facendo propri in recenti riflessioni (cfr. Il Sole 24 ore del 27.1.1995). PROPOSTE DI RIFORMA
Alla luce dell'esperienza maturata ci sembra di potere indicare succintamente alcune proposte di riforma sulle quali si invita a ragionare. a) In una realtà finanziaria sempre più computerizzata, mentre le tecniche per realizzare gli scambi sul mercato si sono evolute e hanno reso più efficiente il sistema - si pensi alla gestione accentrata di valori mobiliari presso la Monte Titoli e al sistema telematico delle Borse Valori - nulla è stato fatto per rendere più fluido il diritto di partecipazione in assemblea. Per partecipare è necessario un dispendioso scambio di carte e certificati e, soprattutto, la presenza fisica alla riunione assembleare (con costi in termini di tempo, trasporto e soggiorno del tutto sproporzionati rispetto al ritorno sull'investimento che può attendersi un piccolo risparmiatore). Assemblee sterilizzate cui partecipano percentuali minime del capitale sociale rappresentano allo stato un inutile dispendio di risorse. Va salutata dunque con favore la nor-
ma sui voto per corrispondenza introdotta con la legge privatizzazioni Non altrettanto si può dire del recente regolamento attuativo Consob, Banca d'Italia e Isvap. In maniera del tutto ingiustificata - oltre che confliggente con lo spirito della legge di favorire l'azionariato diffuso e, forse, con la stessa lettera dell'art. 5, quinto comma, d.1.332/1994 che rende esplicito un collegamento tra voto per corrispondenza e voto di lista - è stata infatti esclusa l'applicazione del nuovo sistema di espressione della volontà dell'azionista nei casi - come appunto quello dell'INA - in cui vi sia una maggioranza precostituita. Auspichiamo pertanto una rapida revisione dell'art. 1, terzo comma, del regolamento 30 dicembre 1994 e un migliore coordinamento con il sistema di voto per lista.
b) La composizione dell'azionariato dell'INA, come è risultata in assemblea, dimostra che nessun azionista diverso dal Ministrero del Tesoro raggiunge l'l% dei voti. D'altra parte la dimensione del capitale è tale che per superare la soglia sono necessari investimenti di circa cento miliardi. Vi è da chiedersi allora se non sia il caso di abbassare la soglia di cui all'art. 4 d.l. 33211994 quantomeno per società di simili dimensioni. Un sistema praticabile potrebbe essere analogo a quello di cui all'art. 1/5 bis della L. 216/1974, ultimo comma, in cui l'autorità amministrativa può mo207
dificare le soglie delle partecipazioni da comunicare al mercato per assicurare la trasparenza della proprietà azionaria. c) Per evitare in futuro la presentazione di finte liste di minoranza, dovrebbe essere specificato che l'azionista di maggioranza non può presentare liste diverse neppure attraverso società controllate o collegate. a?) È assolutamente necessario rivedere le regole che governano le deleghe di voto, in particolare va ripensato l'anacronistico limite dei 200 azionisti di
cui all'art. 2372 c.c. È infatti "ingiusto" quanto si può verificare nell'INA e cioè che chi rappresenta tanti piccoli azionisti con minime quantità di azioni non possa portare in assemblea più di 400.000 azioni mentre un solo delegato di - poniamo - dieci grandi investitori può da solo rappresentare assai più di 100 milioni di azioni. Per quale ragione nel meccanismo tipicamente capitalistico quale è il diritto azionario è ancora presente un riferimento alle "teste" anziché alle "lire" , a tutto svantaggio peraltro. dei piccoli azionisti?
Taccuino
I nostri temi Il terzo settore in Italia: per una valutazione delle opinioni correnti di Bernardino Casadei* Il terzo settore, il privato sociale, il mondo del non profit o in qualunque altro modo si voglia cercare di definire quella realtà sempre più rilevante nella vita del nostro paese, non riducibile alla sola logica dell'amministrazione pubblica o a quella dell'economia di mercato, è ormai diventato uno dei principali ambiti di interesse della comunità scientifica e politica italiana. Prova ne sono i sempre più numerosi convegni e pubblicazioni che vengono dedicati all'argomento fra i quali spicca per importanza la presentazione dei risultati del progetto internazionale di ricerca coordinato dall'Institute for Policy Studies della Johns Hopkins University di Baltimora volto a identificare le dimensioni economiche del settore non profit in Italia e in altri 11 Paesi. Il convegno dal titolo indicativo: "Costruire la società civile. Ruolo e dimensione del settore non profit in Italia in una prospettiva mondiale", si è tenuto presso la fondazione Giovanni Agnelli il 7 novembre 1994 e ha visto la partecipazione di studiosi italiani fra i quali. Pippo Ranci e Gian Paolo Barbetta che hanno gestito in prima persona le ricerche nel nostro Paese e stranieri come Lester M. Salamon direttore del progetto internazionale.
• Consulente dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
I dati raccolti, anche se ancora lacunosi data la difficoltà a reperire informazione su questo settore, - il che la dice lunga su come sia stato fino ad oggi sostanzialmente ignorato da tutti -' mostrano come si tratti di una realtà non affatto marginale nella nostra vita economica. Esso offre un contributo occupazionale simile a quello del settore del credito e delle assicurazioni: circa 1'1,8% del totale dell'occupazione nazionale. Inoltre, se sommiamo il coinvolgimento dei volontari a quello dei lavoratori retribuiti tale cifra sale a! 3,1%, mentre le spese complessive del settore, pari a circa 29.000 miliardi, rappresentano una quota del 2,1% del PIL quota che salirebbe al 2,8% qualora il contributo dei volontari fosse retribuito. Si tratta dunque di una realtà importante ed in pieno sviluppo, anche se ancora lontana dal raggiungere gli standard degli Stati Uniti che col 6,8% del totale dell'occupazione nazionale sono certamente la nazione più sviluppata da questo punto di vista, ma anche di altri paesi europei come la Francia (4,2%), i! Regno Unito (4%) e la Germania (3,4%). Bisogna però riconoscere che l'assenza di una figura giuridica immediatamente riconducibile all'organizzazione non profit può almeno parzialmente spiegare la limitata dimensione de! settore. Vi sono poi ragioni istituzionali che per211
mettono di spiegare il mancato sviluppo del terzo settore in Italia, anche se l'ipotesi elaborata da Salamon a Anheier, i quali hanno focalizzato la loro attenzione sul particolare rapporto fra autorità politiche e religiose che sarebbe caratteristico del nostro Paese, non convince. Secondo i due studiosi "laddove Chiesa e Stato sono essenzialmente una cosa sola, le opportunità per un terzo settore sono generalmente limitate... Così la stretta relazione tra Stato e Chiesa in Italia ha probabilmente giocato un ruolo storicamente rilevante nel limitare lo sviluppo di un coerente settore non profit in quel paese". La storia del Regno d'Italia è in gran parte la storia del conflitto e del mancato riconoscimento reciproco di Stato e Chiesa. La stessa politica sociale dei governi a guida democristiana, soprattutto dal centro sinistra in avanti, non è certo stata ispirata da una fedele traduzione della dottrina sociale e del principio di sussidiarietà, ma al contrario da una grande fiducia nelle capacità progettuali e organizzative dei cultori delle scienze sociali che sembravano garantire uno sviluppo e un benessere diffuso ben piii allettante della tradizionale dottrina del peccato originale. Dunque pii di confusione di Stato e Chiesa bisognerebbe parlare, per gli ultimi decenni, di una vera e propria abdicazione delle funzioni sociali delle istituzioni religiose le quali si sarebbero dovute limitare, per usare un'espressione che ebbe largo uso a partire dagli anni Sessanta, a garantire un supplemento d'anima e a limitarsi ad agire nella sfera strettamente privata del singolo credente. È però vero che fu proprio nei periodi di maggiore tensione fra lo Stato e la società civile, fosse essa di ispirazione cattolica o socialista, durante gli ultimi decenni del212
l'Ottocento, che il terzo settore si sviluppò fortemente ed assunse una funzione di grande rilevanza nella vita del nostro Paese, si pensi solo alle Casse di risparmio, istituti che, come si dirà in seguito, sono oggi nelle condizioni per svolgere un ruolo di grande importanza strategica. È questo un dato che dovrebbe far riflettere tutti quei riformatori che vorrebbero ricostruire l'impegno civile per decreto o attraverso esenzioni fiscali. Per questo bene ha fatto il Senatore Agnelli nella sua introduzione a richiamarsi ad un autore, Alexis de Tocqueville, la cui avversione per l'ingerenza del potere centrale è a tutti nota e che vedeva nei corpi intermedi quell'aristocrazia capace d'impedire lo strapotere e il dispotismo del sovrano, sempre possibile, anche quando è eletto a suffragio universale. Il privato sociale non ha dunque una semplice funzione economica, esso non si limita a dare una soluzione a quei problemi che né l'intervento diretto della pubblica amministrazione, né il libero mercato sembrano in grado di affrontare, ma appare "essenziale per garantire prospettive autenticamente liberali e democratiche alla nostra convivenza". Indicando poi come la "Società civile" sia "un concetto etico-politico pii che sociologico" il Senatore Agnelli mostra di condividere l'idea secondo la quale il problema attuale sia essenzialmente etico prima che economico o istituzionale e inconsapevolmente incontra una riflessione che Croce, negli ultimi anni della sua vita, amava ripetere, convinto che "la crisi presente nel mondo fosse la crisi di una religione da restaurare o da ravvivare o da riformare, e che a soccorrere ad essa non bastassero i soli politici e guerrieri, ma ci volessero i geni re-
ligiosi e apostolici". Religione dunque e non quella tecnica del benessere a cui tanti sembrano ridurre l'impegno politico, e poco importa se si tratterà della laica religione della libertà predicata dal filosofo di Pescasseroli o del cattolicesimo come credeva il Tocqueville, ciò che importa è che possa essere pensata e vissuta come vera e che sappia reintrodurre quella dimensione del sacro, dimensione indispensabile alla vita umana e che il riduzionismo delle scienze sociali ha finito col negare, senza la quale la vita si riduce, per usare un'espressione del primo Nietzsche, in una lotta perenne "per cercare di soddisfare in modo effimero, effìmeri bisogni". Certo il Senatore Agnelli non è sicuramente arrivato a simili conclusioni, ma ciò più perché ancora legato ai pregiudizi di una certa pubblicistica che identifica il senso civico con lo spirito della riforma protestante, che per coerenza con quanto da lui stesso affermato. Così, invocando il classico esempio degli Stati Uniti, egli afferma che in Italia si debba parlare di costruzione e non di ritorno alla società civile dato che "troppo sovente la società italiana si presenta come anomica, più somma di individui o di gruppi legati al proprio interesse che società 'civile' in senso proprio". Ora, a parte il fatto che chiunque conosca anche solo molto superficialmente il mondo anglosassone sa che esso sta vivendo un processo di dissoluzione più grave e profondo del nostro, sarà bene ricordare che la crisi della società civile italiana ha proceduto di pari passo con il processo di sradicamento e di «sprovincializzazione" proclamato come necessario proprio da coloro che vedevano l'origine di tutti i mali della Penisola, a cominciare dal fascismo, proprio nel famige-
rato spirito della Controriforma. Per questo, oggi che tali illusioni si sono rivelate tali, è necessario liberarsi da simili miti se veramente si vuole ricostruire quei legami comunitari che sono ormai unanimemente invocati da tutti. Non sono questi ragionamenti astratti se, come è probabile, è stata proprio la scarsa consapevolezza delle conseguenze di una simile prospettiva il difetto maggiore della peraltro utilissima e meritoria ricerca di base sugli enti senza scopo di lucro organizzata dall'Università Bocconi di Milano i cui esiti sono stati presentati il 25 e 26 novembre u.s. presso l'aula magna di codesta università. Si è trattato di un evento di particolare rileT vanza, non soio perché frutto di un lavoro ormai pluriennale coordinato dal professor Giovanni ludica che, attraverso l'organizzazione di seminari, gruppi di lavoro, momenti di confronto, ha garantito un approfondimento scientifico che altrimenti sarebbe stato ben difficile, ma anche e soprattutto per il carattere interdisciplinare della ricerca. In un momento di eccessiva specializzazione, in cui ogni studioso vive ormai rinchiuso nella sua nicchia separato dai colleghi da spesse barriere di incomunicabilità, il poter affrontare assieme un unico tema da un punto di vista giuridico, aziendalistico, sociologico, politologico e tributario ha permesso un proficuo scambio di esperienze che servirà ad elaborare una visione il più possibile completa di un fenomeno le cui caratteristiche fondamentali non sono ancora state definite in modo univoco e chiaro. Da qui anche la proliferazione delle più diverse definizioni che abbiamo in parte ricordato all'inizio di questo articolo e che sono di per sé una spia del 213
fatto che non sono stati elaborati criteri interpretativi in grado di cogliere l'essenza di tale realtà. Queste considerazioni sono state poi corroborate dall'andamento stesso della discussione la quale è stata caratterizzata da una diffusa buona volontà -tutti sono concordi nel considerare questo settore come indispensabile per il futuro del nostro paese e tutti sono pronti ad impegnarsi per cercare di favorirne lo sviluppo- ma anche da una notevole confusione: le definizioni appaiono per lo più astratte, estrinseche, incapaci di cogliere la complessità del fenomeno. Ciò è estremamente pericoloso, perché l'urgenza del fare, urgenza che è giustamente sentita da tutti, rischia di imporsi su quella del comprendere. Jean-Jacques Rousseau diceva: "in politica come in morale l'importante non è fare, ma fare bene" ed è forse in quest'ottica che bisogna cogliere l'intervento di Piero Schlesinger il quale si è rivelato estremamente scettico sull'ipotesi di operare in tempi brevi una riforma della normativa codicistica andando con ciò contro corrente rispetto a quello che sembrava essere il filo d'Arianna della discussione. Egli ha invece osservato come, prima di operare una modifica di una normativa così organica e complessa come quella codicistica, sia necessario utilizzare tutti gli strumenti normativi vigenti. Certo l'analogia e l'estensione hanno dei limiti e prima o poi sarà necessario un intervento normativo, ma prima occorre effettivamente raggiungere questi limiti, confrontarsi realmente col fenomeno nella vita pratica, conoscerne le reali esigenze e sviluppare quella coscienza e consapevolezza che possano poi permettere l'elaborazione di una riforma in grado di imporsi ad un legi214
slatore che, nel recente passato, non ha dato grande prova di sé. Una simile critica sembra peraltro corroborata dalle vicende dello schema di regolamento per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private, presentato a suo tempo dal ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese su delega della legge del 24 dicembre 1993, n.537 e poi riproposto in questa legislatura con alcune modifiche. Il provvedimento presentato nell'XI legislativa fu osteggiato, oltre che dal Consiglio di Stato con parere negativo (95194, adunanza generale del 13 aprile 1994), soprattutto dal Ministero di grazia e giustizia il quale insistette perché la competenza per il riconoscimento fosse attribuita ad un soggetto amministrativo e non giudiziario onde evitare un ulteriore aggravio delle funzioni dei tribunali. Scopo di questo provvedimento era infatti quello di adeguare la normativa vigente per le fondazioni e le associazioni a quella che attualmente disciplina le società commerciali. Mentre per queste ultime vige il principio dell'omologazione per cui basta avere determinati requisiti oggettivi per ottenere da parte del tribunale in forma automatica la personalità giuridica, gli enti del primo libro del codice civile devono assoggettarsi ad un regime concessorio che dipende dalla discrezionalità della pubblica amministrazione e che è frutto di un'impostazione, particolarmente diffusa ai tempi dell'elaborazione codicistica, mirante a sottoporre i corpi morali ad un controllo penetrante da parte dello Stato. Una simile evoluzione, che sembra a molti imposta anche dalla necessità di una più penetrante affermazione dei principi costituzionali, i quali individuano proprio nelle
formazioni sociali un ambito privilegiato in cui si svolge la personalità del singolo, si trovava però a cozzare con un'esigenza pratica: quella di non appesantire ulteriormente il lavoro già difficile dei tribunali. Per questo nella )(II legislatura veniva presentato un nuovo schema di regolamento che sostituiva i tribunali con le prefetture, la perdita nella coerenza formale del nuovo provvedimento sarebbe stata compensata da una maggiore praticità dello stesso. La scadenza dei termini sembrava però aver definitivamente posto fine all'iter di questo progetto, se non ché un nuovo disegno di legge sembrava aver riaperto i termini del problema proponendo di prorogare questa delega al 31 dicembre 1995. Le obiezioni ad un siffatto modo di procedere erano però state troppo numerose e motivate, perché si decidesse di persistere su questa strada. A molti era infatti sembrato perlomeno rischioso procedere alla riforma di una materia così complessa attraverso una vera e propria delega in bianco legittimata dal collegato alla legge finanziaria tant'è che vi è stato chi ha considerato una fortuna il fatto che il provvedimento si sia arenato fra le secche delle elezioni anticipate. Fu così che, proprio al convegno organizzato alla Bocconi, l'allora Ministro Urbani annunciò la costituzione di una commissione presieduta dal professor Pietro Rescigno con lo scopo di preparare una riforma da tanto tempo invocata, progetto che è poi però naufragato. Se però analizziamo con attenzione il contenuto dello schema di provvedimento presentato e soprattutto il dibattito che lo ha accompagnato è possibile fare una scoperta scòncertante che avvalora le preoccupazioni di Schlesinger testé riportate. Sembra infat-
ti che nessuno si sia accorto di un grave errore che rischiava di rendere la riforma addirittura controproducente trasformandola in un vero ostacolo per lo sviluppo dell'intero settore. Dovrebbe essere infatti a tutti evidente che, mentre per la concessione i criteri possono mantenere un valore generale in quanto sarà poi la discrezionalità della pubblica amministrazione a interpretarli di volta in volta, ciò non è possibile in un procedimento di omologazione. In questo caso i requisiti devono essere precisi ed univoci in grado di discriminare in modo quasi meccanico coloro che sono meritevoli della limitazione della responsabilità da coloro che invece non possono godere di un simile privilegio, la funzione del giudice dovendosi limitare ad una semplice certificazione della loro presenza. Ora se noi leggiamo i due schemi di provvedimento presentati in Parlamento, scopriamo che gli unici criteri erano la legittimità dello scopo e la congruità del patrimonio al medesimo senza che peraltro fossero definiti i parametri per stabilire una simile congruità, cosa che avrebbe messo il giudice in gravi difficoltà e lo avrebbe costretto ad interpretazioni in gran parte arbitrarie in contraddizione proprio con lo spirito della legge che tale arbitrarietà mirava ad eliminare. Ma le riserve diventano ancora maggiori se noi consideriamo le probabili conseguenze pratiche di una simile norma: la totale svalutazione della personalità giuridica e il diritto di qualsiasi individuo alla limitazione della responsabilità patrimoniale. Infatti sulla base di questi principi sarebbe stato possibile per chiunque costituire una fondazione od un'associazione per uno scopo assolutamente futile con un patrimonio irrisono. Non occorre essere dei profeti per 215
immaginare cosa sarebbe potuto accadere. Sarebbe infatti stato sufficiente che qualche bravo commercialista avesse individuato il modo di sfruttare questa possibilità per l'elusione di una qualche imposta o anche più semplicemente per meglio tutelare il proprio patrimonio utilizzando la limitazione della responsabilità che contraddistingue la persona giuridica, per assistere alla moltiplicazione ditali soggetti che però ben poco avrebbero avuto a che fare con le motivazioni ideali del terzo settore. Se poi si aggiunge che nel provvedimento era stato anche inserito il principio del silenzio assenso e se si considera che difficilmente gli uffici preposti sarebbero stati in grado di esaminare nei tempi dovuti la valanga di richieste che con ogni probabilità li avrebbero sommersi, possiamo facilmente immaginare come molte nuove persone giuridiche sarebbero diventate tali senza neppure un minimo controllo di legittimità. La situazione si sarebbe presto rivelata insostenibile e avrebbe richiesto provvedimenti d'urgenza i quali sono necessariamente bruschi e dolorosi con il rischio di paralisi dell'intero settore. Se dunque gli obiettivi della norma in questione volevano essere un aiuto allo sviluppo di questa realtà e una riduzione dei costi per la pubblica amministrazione le conseguenze più probabili di una simile scelta sarebbero state radicalmente opposte a quelle desiderate, dato che avrebbero finito per rompere quei rapporti di fiducia che sono alla base di questa realtà e per imporre numerosissimi controlli più difficili ed onerosi di quelli che oggi pesano sul bilancio dello Stato. Se poi si considera che è ormai opinione accettata in modo quasi unanime dalla dottrina che anche le persone giuridiche del 216
primo libro possono esercitare attività d'impresa, ma che d'altra parte non hanno i rigorosi obblighi di certificazione e di controllo dei bilanci che invece contraddistinguono le società commerciali, è pure ipotizzabile che questa riforma avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti anche sul piano del mercato e della libera concorrenza. Ciò che è più grave è che nessuno abbia sollevato simili obiezioni, neppure coloro che, come il Consiglio di Stato, hanno espresso un parere negativo, e che in ultima analisi questo progetto sia caduto più per ragioni accidentali che per una rigorosa critica sostanziale e ciò malgrado sia stato sottoposto alla verifica di più Ministeri di due diversi Governi, di più commissioni di due diverse legislature e della comunità scientifica la quale ha dato l'impressione di attaccarsi ad astratte considerazioni di principio piuttosto che di cercare di capire la reale e concreta portata della norma in questione. Una simile constatazione, oltre a corroborare le perplessità di Schiesinger, impone un ulteriore quesito: come è possibile che gli insigni studiosi che si sono confrontati con questo problema e che certamente sanno che nel passaggio dalla concessione all'omologazione è indispensabile specificare i criteri e non renderli più vaghi come è di fatto avvenuto, non si siano resi conto di un simile errore che certamente avrebbero sanzionato severamente in un loro studente? Il quesito va ben al di là dei problemi del terzo settore e serve ad illuminare una delle cause, non certamente l'unica e forse nemmeno la più importante, ma non per questo meno rilevante, dal momento che coinvolge in prima persona il mondo dei giuristi, del degrado dell'attuale produzione legislativa.
Troppo spesso infatti si ha l'impressione che la legge non venga considerata un mezzo per sancire un determinato ordine, poco importa se ideale o reale, ma piuttosto come uno strumento di produzione e che dunque non venga valutata per la propria coerenza interna, il grado di astrattezza e generalità, ma al contrario per la sua capacità di ottenere un determinato effetto pratico. Ne consegue che la norma non è il frutto di diverse prospettive ideali che vengono unite in una superiore sintesi, ma piuttosto la giustapposizione di ben specifici interessi concreti che non vengono compresi in una visione complessiva, ma giustapposti senza preoccuparsi eccessivamente delle conseguenze che essi avranno sull'intero ordinamento. Inoltre, dato che per ottenere risultati pratici la variabile tempo è fondamentale, è abbastanza naturale che la legislazione d'urgenza assuma un ruolo sempre più rilevante. Ebbene il mondo dei giuristi, invece di cercare di opporsi ad una simile involuzione, se ne è fatto portavoce e, dato che l'importante non è più fare bene, ma fare, una volta individuato in maniera alquanto soggettiva un fine da perseguire, finisce per concentrare tutte le proprie risorse nella ricerca di espedienti che facilitino il conseguimento del risultato senza preoccuparsi più di tanto della loro coerenza. Solo una simile mentalità più spiegare la cecità che ha impedito alla comunità scientifica di cogliere l'errore sopra riportato. Non vi è ormai chi non consideri lo sviluppo del terzo settore quale conseguenza dell'introduzione di esenzioni fiscali. Ora, chiunque conosca la storia di tale realtà sa benissimo che le associazioni di mutuo soccorso, le confraternite con scopi sociali, le cooperative, le casse di risparmio e quelle
rurali ed artigiane, insomma tutte quelle realtà che garantivano la vita delle comunità locali prima che fossero soppiantate dall'intervento diretto da parte dello Stato, sorsero in nome di principi di carità e solidarietà e non certamente grazie all'intervento del fisco che anzi spesso faceva di tutto per ostacolarle; si pensi alle frodi pie o alle lotte che dovettero sostenere gli operai per avere il diritto di strutturarsi in sindacati ed in altre organizzazioni affini. Negli stessi Stati Uniti le grandi fondazioni americane: la Rockfeller, la Carnegie, come del resto le associazioni descritte da Tocqueville, non erano certo la conseguenza di esenzioni fiscali, ma piuttosto della forte carica religiosa presente in quel popolo e degli ideali filantropici che colà si diffusero nella seconda metà dell'800. Il connubio privato sociale normativa fiscale inizia in realtà con gli anni Quaranta e cioè con l'affermarsi del New Deal e dei principi dell'economia keynesiana, i quali vedevano nella spesa improduttiva dello Stato un fattore capace di rimettere in movimento l'attività economica, favorendo la crescita e il conseguimento della piena occupazione. Le esenzioni fiscali per enti privati che perseguivano gli stessi fini della pubblica amministrazione non erano perciò che un modo alternativo per realizzare questo obiettivo. Nella prospettiva keynesiana non è infatti importante quel che si fa, ricordiamoci l'esempio degli operai che vengono pagati per scavare buche assolutamente inutili, ma piuttosto evitare che la spesa possa essere identificata con una forma d'investimento in grado di generare profitto. Sarebbe forse interessante chiedersi se la definizione ditali enti come enti non profit non derivi proprio da questa esigenza. 217
Tali brevi considerazioni mostrano come il legame privato sociale ed esenzioni tributane non sia affatto così oggettivo ed univoco come si ha la tendenza a credere, ma dipende piuttosto dall'accettazione di una particolare visione economica, quella keynesiana appunto, che è oggi in profonda crisi. Un'ulteriore prova della non manifesta infondatezza di tale ipotesi può essere incontrata qualora si consideri come quei governi che più di ogni altro si sono staccati da tale impostazione ed in particolare l'amministrazione Reagan, abbiano altresì ridotto il numero e l'entità delle agevolazioni fiscali e ciò non certo per una qualche diffidenza nei confronti del settore privato. Se questa interpretazione si rivelasse esatta ne conseguirebbe che la situazione italiana non si contraddistingue rispetto a quella americana per un ritardo, quanto piuttosto per un utilizzo alternativo dei capitali che provenivano dai deficit di bilancio, deficit che ora non sono più possibili nè negli Stati Uniti, nè nel nostro Paese. Mentre oltre Atlantico si decideva di far spendere parte del capitale destinato ad opere improduttive dai privati, in Italia si è preferito l'intervento diretto dalla pubblica amministrazione attraverso l'assunzione di personale in esubero o il sistema delle partecipazioni statali. Oggi però che le indicazioni frutto dell'economia keynesiana si sono rivelate inadeguate e che la quota di capitali che è possibile destinare a spese improduttive si è notevolmente ridotta, l'introduzione del modello americano potrebbe rivelarsi pericoloso e controproducente. Infatti esso, soprattutto in condizioni di risorse limitate, facilita il diffondersi di fenomeni di elusione fiscale imponendo una normativa e dei controlli sempre più rigorosi, cosa che pe218
raltro è accaduta anche negli Stati Uniti, tanto che la stessa Corte Fiscale Federale ha definito il proprio sistema "spaventosamente complesso e tecnico". Ciò non avrebbe conseguenze negative per il solo erario, ma anche e soprattutto per lo stesso mondo del privato sociale il quale ha bisogno per prosperare della reciproca fiducia e di un diffuso consenso sociale, cosa che verrebbe immancabilmente a mancare qualora si diffondesse l'idea che dietro i grandi valori sbandierati si nascondano interessi ben più concreti e meno nobili. Così sbaglia chi riduce i problemi dell'introduzione della normativa fiscale ad un conflitto fra erario e settore non profit. Delle agevolazioni non sufficientemente vagliate nelle loro conseguenze e in grado di permettere elusioni fiscali non sarebbero negative solo per il bilancio dello Stato, ma avrebbero pesanti ripercussioni anche sul privato sociale. Inoltre è molto probabile che mentre gli evasori troverebbero il modo di scovare cavilli in grado di eludere le maglie di una normativa che non potrebbe non farsi più stringente, sarebbero proprio gli istituti più meritevoli dell'appoggio da parte dell'amministrazione a finire paralizzati dai vincoli burocratici che in nome di un'astratta trasparenza verrebbero loro imposti. Chiunque lavora in questo settore sa bene che, a meno di non consacrare la maggior parte delle proprio risorse nella propria struttura burocratica, è impossibile conseguire certi standard formali che è invece giusto pretendere dalla pubblica amministrazione, ma che sono forse la causa principale di quella inefficienza che oggi è comune denunciare. Infine, come osservano i tributaristi, ciò che importa non è la forma giuridica del soggetto, ma la sua
concreta opera considerata meritevole di sostegno. Per fare un esempio, se lo Stato considera utile favorire il restauro dei monumenti, ciò che deve interessare è che i monumenti in questione vengano effettivamente restaurati a regola d'arte e con i minori costi possibili, se poi gli operatori lo fanno per puro amore per l'arte o invece come attività professionale ciò dovrebbe essere indifferente ad uno Stato che si proclama laico e che rinuncia a sindacare le motivazioni interiori dei singoli cittadini. Una simile riflessione permetterebbe anche di sviluppare un'analisi più critica nei confronti dello Stato sociale volta a capire se esso è veramente stato costruito in funzione dei tanto ripetuti valori di solidarietà o invece in quanto strumentale ad un preciso sistema economico che individuava nella spesa improduttiva un fattore necessario allo sviluppo delle strutture burocratiche presenti nello Stato come nelle grandi imprese private. Così non sarebbe forse inutile chiedersi se tante forme di contributi siano state pensate per favorire i ceti più sfavoriti dalla fortuna o piuttosto per dare uno stipendio agli assistenti sociali. Lo Stato sociale non sarebbe dunque stato introdotto per rimediare ad un fallimento del mercato, ma sarebbe al contrario funzionale di un particolare stadio dello sviluppo capitalistico, quello in cui si afferma la produzione di massa e la separazione nella grande industria della proprietà dai poteri di gestione con l'affermarsi dell'azionanato diffuso che di fatto emancipa il management dalla tutela dei possessori del capitale i quali, peraltro, sono spesso sprovvisti delle necessarie conoscenze per operare un controllo penetrante nei confronti dei loro amministratori. In questa situazione, come
del resto aveva già notato Schumpeter, scopo dell'attività economica non è più il profitto, ma piuttosto l'aumento delle capacità produttive e della dimensione dell'impresa. Ne consegue che il sistema economico per sopravvivere ha bisogno di un continuo aumento nella propensione al consumo che deve essere stimolata sia con la distribuzione di paghe più alte, si pensi alla one dollar wage introdotta da Henry Ford, sia con una sempre maggiore e diffusa spesa da parte del Governo. La crisi dello Stato sociale non è dunque il frutto della cronica inefficienza che caratterizzerebbe la pubblica amministrazione e che si spera di superare attraverso un'iniezione di mentalità imprenditoriale, quasi che il privato fosse efficiente per definizione, ma è piuttosto la conseguenza della fine di un intero sistema economico che si fondava sull'idea che dovessimo consumare per poter lavorare e non è un caso che essa coincida con la dimostrata incapacità di conseguire la piena occupazione dei fattori produttivi. Sperare di affrontare una crisi che coinvolge i fondamenti stessi del nostro ordine socioeconomico con la trasformazione del privato sociale in un settore non profìt da affiancare alla pubblica amministrazione per cercare di surrogarne le ineffìcienze è alquanto ingenuo e potrebbe portare a conseguenze controproducenti. Basterà a tal proposito, pensare agli effetti della legge sul volontariato che in tale ottica si inserisce, per averne un'immediata conferma. Il tentativo di fondare una classificazione giuridica sulla base del divieto di distribuzione degli utili mostra perciò una scarsa conoscenza dell'attuale realtà economica ed un'acritica accettazione dei principi dell'economia classica, principi che presuppongono una 219
fiducia in un ordine immanente da conseguirsi in modo meccanico grazie al principio di eterogenesi dei fini descritto da Adam Smith. Ora a parte il fatto che, come del resto abbiamo già accennato, per un numero sempre pii rilevante di imprese il conseguimento del profitto non è pii lo scopo principale, occorre chiedersi se esista ancora un libero mercato. Sarà bene ricordare che tale concetto è chiaramente una costruzione idealtipica dotata di problematica validità empirica, ma che serve ai fini della spiegazione causale del corso dell'agire, dato che presuppone alcune condizioni che non possono verificarsi concretamente, ma a cui, in talune circostanze, è possibile avvicinarsi solo in via tendenziale. I principi del liberismo, i quali non esauriscono certamente le forme in cui un'economia di mercato può realizzarsi - basterà pensare alle città medievali italiane la cui struttura corporativa contraddice fortemente il libero mercato - si fondano su alcuni presupposti quali la piena e corretta informazione che in un'epoca dominata dai mezzi pubblicitari e dall'introduzione di sempre nuovi prodotti con un contenuto tecnico non pi1 verificabile criticamente da parte del consumatore appaiono difficilmente verificabili. Essi inoltre presuppongo che nel lungo periodo il prezzo di mercato finisca per coincidere con il giusto prezzo, ma tale asserzione presuppone che vi sia un lasso di tempo in cui fattori rimangano relativamente stabili così da permettere all'economia di ritrovare il proprio equilibrio, cosa che oggi, data la rapidità del progresso tecnico, è assolutamente impossibile da ipotizzarsi neppure in via tendenziale. Ora, cercare di definire una realtà profonda e complessa quale è quella 220
del privato sociale in via residuale rispetto ad un mondo le cui categorie costitutive si stanno sciogliendo come neve al sole, non è molto saggio, mentre proprio l'emergere di un terzo settore irriducibile agli altri due dovrebbe servire per ripensare criticamente le categorie con le quali siamo abituati ad interpretare la realtà. Tale sforzo potrebbe rivelarsi fondamentale per il futuro della nostra civiltà perché può permetterci di liberarci da un'acritica riduzione di tutta la realtà a materia, riduzione che, in nome d'una assolutizzazione indebita dell'oggettività, rischia, paradossalmente, di minare le basi stesse della conoscenza scientifica e di negare ogni dimensione umana. Già all'inizio di questo secolo, Max Weber, che proprio alla definizione e alla limitazione di tale oggettività dedicò pagine fondamentali, aveva capito che la burocrazia avrebbe finito col imporre la sua logica sia all'economia privata che alla pubblica amministrazione rinchiudendo l'umanità in una gabbia d'acciaio. Essa è infatti dominata dai principi della razionalità formale i quali possono riassumersi nelle famose tre E: efficienza, efficacia ed economicità, ma dato che esse concernono i mezzi, ma nulla possono dirci sui fini, finiscono per imporre quale unico scopo degno di essere perseguito la preservazione e l'incremento delle proprie prerogative. Se ci poniamo da questo punto di vista apparirà subito manifesto quanto la nostra inefficiente burocrazia si sia rivelata efficacissima nel perseguire il proprio obiettivo. Privata d'ogni assoluto, l'intera esistenza viene ricondotta a quell'unica sfera, che Croce definiva il regno della vitalità, in cui tutto può essere quantificato secondo criteri che "anche un cinese" sarebbe costretto a
riconoscere come validi, ma al cui interno non vi è più spazio né per l'etica, né per l'estetica. I richiami ai valori, anche quelli più sinceri, acquistano inevitabilmente un carattere retorico e vengono classificati sulla base della loro utilità sociale, ma in tal modo prendono un carattere illusorio che ne mina la loro stessa efficacia pratica, facilitando così quel processo di decomposizione e atomizzazione della nostra comunità che invano si cerca di arginare attraverso una migliore razionalizzazione dei servizi. Il privato sociale invece non è riconducibile ai principi della razionalità formale ed è forse questa una delle ragioni che rende così difficile la sua classificazione all'interno degli schemi mentali oggi dominanti. Esso, senza alcuna pretesa di comprendere l'intero reale, afferma però l'esistenza di valori che è importante perseguire in quanto buoni, veri, belli e giusti. Esso non nega l'efficienza, l'efficacia e l'economicità, ma rifiuta la loro assolutizzazione. Il conseguimento di un qualsiasi risultato ha valore solo in quanto permette di testimoniare la verità dei propri principi e il singolo operatore si rende strumento del fine in nome del quale opera, per il quale è disposto a sacrificare anche i suoi più immediati interessi. Con questo non si vuole negare che da tale attività il singolo non riceva delle gratificazioni a volte molto più importanti di quelle che si ottengono grazie ad un contratto commerciale, ma indicare come queste siano il frutto di un rapporto fondato sulla gratuità e non sullo scambio di equivalenze. Così i genitori continuano ad occuparsi dei propri figli, indipendentemente dalla riconoscenza di questi ultimi, semplicemente perché sanno che è giusto così. Ora questa gratuità esiste e sebbene non sia motivata da ragioni
economiche ha comunque un valore economico, il non averlo compreso ha fatto sì che non ci si rendesse conto degli enormi costi, non solo sul piano sociale, ma anche su quello strettamente monetario, della dissoluzione della famiglia e di altri istituti e legami comunitari all'interno dei quali tali rapporti crescono e si rafforzano. In realtà nel descrivere il passaggio dallo status al contratto e cioè la più o meno rapida sostituzione di rapporti fondati su istituti naturali o consuetudini storiche con altri che si basavano unicamente sulla libera volontà delle parti contraenti, non ci si è resi conto che assieme a privilegi venivano eliminati tutta una serie di oneri in favore dei soggetti più umili e poveri che difficilmente avrebbero potuto trovare un surrogato in una realtà dominata dai principi liberisti che, non a caso, fu sempre osteggiata proprio dai ceti più deboli. Ora, proprio la sempre più acuta consapevolezza del carattere illusorio delle speranze palingenetiche che hanno contraddistinto la storia di questi ultimi secoli sta mettendo in crisi una visione dei rapporti giuridici tutta fondata sul diritto soggettivo e favorendo la riaffermazione di quei corpi intermedi d'origine medievale, che non a caso erano stati combattuti sia dallo Stato che dal libero mercato. L'idea che la volontà del soggetto fosse all'origine sia dei rapporti pubblici, attraverso il contratto sociale, sia di quelli privati, deve perciò essere sottoposta ad una rigorosa critica e ciò non solo perché in contrasto con tutta la tradizione classica che sin dai greci ha considerato la polis una comunità naturale e non meramente volontaria, ma anche perché non riesce a dar ragione di istituzioni, quali appunto le fondazioni, le quali sembrano de221
stinate ad acquistare un'importanza sempre piìi rilevante nella vita sociale della nostra comunità. È infatti estremamente difficile individuare il diritto soggettivo che possa essere posto alla base della vita di una fondazione a meno di non considerare la volontà del fondatore come operante anche dopo la sua scomparsa. Anche il tentativo di ridurre la personalità giuridica ad un mero artificio verbale, qualora potesse essere considerato come valido nel campo delle associazioni riconosciute, appare senz'altro impraticabile in quello delle fondazioni. Questi ostacoli elusi in un momento storico in cui la fondazione sembrava un istituto residuale destinato a sparire o a confondersi sempre più con l'associazione o con lo strumento operativo di un altro soggetto, in particolare di un'impresa, assumono però tutto il loro valore nel momento in cui si sente la necessità di ripensare la normativa codicistica a meno che non si voglia ierseguire la strada degli espedienti pratici che così cattiva prova di sé ha dato in questi ultimi decenni. Occorre, in ultima analisi, definire il concetto di persona, punto questo che, non a caso, Francesco Ruffini considerava "fondamentale e straordinariamente difficile della scienza del diritto". Non si tratta di una mera disquisizione teorica, ma di un'analisi dalle infinite conseguenze pratiche. Essa appare indispensabile soprattutto in un momento in cui la confusione dei concetti porta ad una loro ornogeneizzazione che tanto assomiglia alle famose notti hegeliane in cui tutte le vacche sono grigie dato che i criteri fin qui adoperati per distinguere società, club, associazioni e fondazioni si stanno rivelando sempre meno adeguati tanto che non sono pochi coloro che propongono l'abolizione di di222
stinzioni che sembrano oggi anacronistiche in nome della cosiddetta "neutralità" delle forme giuridiche che, pur nella sua suggestione, non è stata capace di costituire una nuova, adeguata base normativa. Operazione questa che dovrebbe perciò essere preceduta da una riflessione volta a capire se si tratta realmente di una semplificazione o non piuttosto di un impoverimento della nostra tradizione giuridica. Proprio lo studio dell'origine del concetto di fondazione potrebbe rivelarsi oltremodo utile. È questo un istituto sconosciuto nel diritto romano che sorge nel medioevo sulla base della dottrina del corpo mistico. Si tratta in ultima analisi dell'idea che lo Spirito Santo possa incarnarsi e vivificare anche un'istituzione la quale si trasforma così in una vera e propria persona. Praticamente ciò significa che questa non è il frutto della volontà di coloro che l'hanno istituita, ma piuttosto l'espressione di una verità che i fondatori hanno riconosciuto e a cui si sono subordinati. Da qui il principio della separazione fra il fondatore e la fondazione, l'idea che uno scopo futile o indegno, anche se lecito, non sia sufficiente alla costituzione di una fondazione, la responsabilità degli amministratori verso l'ente prima che verso gli eventuali beneficiari dello stesso. Questa interpretazione non solo ci permette di dar ragione di una realtà altrimenti poco definibile come è infatti la fondazione, ma anche di distinguere nel variegato mondo delle associazioni due fattispecie, distinzione che potrebbe rivelarsi di notevole impGrtanza soprattutto per coloro che vogliano cercare di definire il mondo dei privato sociale: quella che potremmo definire il club da un lato e l'associazione con fine d'intéresse generale dall'altro. Nel pri-
mo caso, come del resto per le società, l'ente è strumentale ai desideri dei soci i quali lo costituiscono, per esempio, per poter usufruire in via esclusiva di determinati servizi. Nel secondo caso invece è il socio che si fa strumento per il perseguimento del fine statutario. Questa distinzione ci permette perciò di cogliere le specificità degli enti del primo libro del codice civile rispetto a quelli del quinto, distinzione che appare a molti problematica e che invano si cerca di riaffermare richiamandosi al vincolo della non distribuzione degli utili che contraddistinguerebbe le associazioni e le fondazioni senza fini di lucro. A parte il fatto che numerose sono le società che non distribuiscono utili o che addirittura hanno l'obbligo di non distribuirli, - si pensi solo alle società sportive ed in particolare alle squadre di calcio -, si tratta in realtà di un concetto alquanto estrinseco che non ci aiuta a scorgere l'essenza stessa della distinzione, la cui efficacia sul piano pratico è alquanto discutibile. Esistono infatti infiniti modi per eludere una simile clausola qualora venisse considerata il fondamento stesso della distinzione fra associazioni e società commerciali. In realtà tale clausola non è che una delle conseguenze del fatto che negli enti del primo libro il socio si fa strumento per il perseguimento del fine statutario e dunque non può pensare di ricavare dalla sua opera un profitto, come del resto non può pretendere di farsi restituire i contributi da lui versati qualora decidesse di abbandonare l'associazione stessa. La società, al contrario, ha un mero valore strumentale e serve a perseguire gli interessi dei soci qualunque essi siano. Il socio può perciò riprendersi il capitale precedentemente inve-
stito o al contrario rinunciare agli eventuali utili o anche dar vita ad una S.r.l. per gestire attività di interesse sociale. In tal caso però lo scopo non acquisterebbe una personalità propria in grado di emanciparsi dalla volontà dei proprietari ed è forse per questa ragione che, prima dell'emanazione del codice civile del 1942, non erano rari gli studiosi che rifiutavano di definire le società commerciali persone giuridiche. Non è dunque né il tipo di attività -oggi la quasi totalità degli studiosi concorda sulla legittimità da parte degli enti del primo libro di svolgere attività economiche seppure in via strumentale al conseguimento dello scopo - né il vincolo della non distribuzione degli utili a fornire un criterio distintivo, ma il tipo di rapporto che viene ad instaurarsi fra il singolo socio e l'ente in quanto tale, distinzione che come abbiamo accennato non ha un mero valore euristico e tassonomico, ma è altresì feconda sul piano dell'individuazione dei singoli comportamenti pratici. Quest'impostazione ha però delle conseguenze della massima rilevanza sul piano della filosofia del diritto, in quanto presuppone l'esistenza di principi che trascendono la volontà dei singoli soggetti e che sono in grado di entificarsi in realtà oggettive che possano essere riconosciute come tali e a cui le volontà soggettive sono pronte a subordinarsi. Ciò impone la riscoperta della metafisica classica e la riscoperta del concetto di persona quale essere etico, e cioè di soggetto che trova il suo compimento non nella soddisfazione dei propri interessi, ma nella testimonianza di una verità increata a cu:i la sua volontà deve adeguarsi. Si obietterà che simile problematiche esulano dall'ambito della scienza giuridica, rimane 223
però il fatto che esse finiscono per condizionare la produzione normativa e che dunque un legislatore che voglia dar vita ad una riforma che non si riduca ad un mero espediente tecnico debba aver chiarito questi presupposti. È infatti assurdo pensare di disciplinare il mondo delle persone giuridiche senza aver preventivamente definito il concetto di persona. Tale consapevolezza non deve però servire quale scusa per rimandare alle calende greche ogni tentativo di riforma, soprattutto perché vi sono numerosi aspetti tecnici che senza coinvolgere la dottrina della personalità, impongono una serie consistente di provvedimenti sempre più urgenti. Oggi infatti i funzionari preposti alla concessione della personalità si trovano spesso in grave difficoltà per la mancanza di decreti applicativi che permettano loro di utilizzare nel migliore dei modi la disciplina vigente. In particolar modo è urgente una ridefinizione del concetto di patrimonio. Mentre in passato esso si limitava ad un fondo il cui reddito era praticamente costante nel tempo, oggi, in seguito agli enormi sviluppi del sistema economico e finanziario, occorrono competenze specifiche e comunque degli indicatori che permettano di definire con una certa precisione l'entità ed il valore di patrimoni spesso composti nelle forme più varie e a volte aleatorie. È poi indispensabile l'elaborazione di criteri per valutare la congruenza degli stessi con i diversi scopi che si vogliono perseguire. È questo forse il punto più delicato a cui sia le amministrazioni centrali che le singole regioni cercano di sopperire con criteri estrinsechi di non sempre certa validità, ma che appaiono gli unici utilizzabili in mancanza di una normativa più precisa. 224
Collegato a tale aspetto è poi la redazione dei bilanci. Mentre per le società commerciali esistono norme precise e minute, per quel che concerne gli istituti del primo libro del codice civile manca financo l'obbligo stesso di certificare il proprio bilancio. Si tratta di strumenti utilissimi per garantire una corretta gestione delle risorse, ma anche per la tutela dei terzi e per stabilire un miglior rapporto fra enti privati e pubbliche amministrazioni. Si fa inoltre sempre più impellente la necessità dell'elaborazione di una normativa atta a garantire l'ente nei confronti di eventuali abusi da parte degli amministratori. Tale esigenza è particolarmente forte per tutte quelle realtà in cui l'assemblea dei soci non può operare un reale controllo o perché non esiste, come nel caso delle fondazioni, o perché impossibilitata ad agire, cosa che succede in quelle grandi associazioni composte da migliaia di soci i quali chiaramente non sono in grado di controllare l'operato della segreteria nazionale. Sono questi ambiti in cui è possibile intervenire senza modificare l'attuale normativa codicistica e in massima parte attraverso regolamenti di attuazione, regolamenti di cui da tempo si sente il bisogno. Inoltre una maggiore chiarezza su questi punti renderebbe più facili i rapporti fra pubblica amministrazione e enti privati di interesse generale, rapporti che nel recente passato erano spesso fortemente condizionati da interessi clientelari, ma che oggi si sente il bisogno di disciplinare in modo più rigoroso. Si veda a tal proposito la proposta di legge n. 1452 presentata il 13 ottobre alla Camera dei deputati per stabilire nuove norme per l'erogazione di contributi statali ad enti culturali che ha l'indubbio merito di cerca-
re d'introdurre parametri oggettivi là dove per lungo tempo ha dominato l'arbitrio più assoluto, ma che, per essere veramente efficace, avrebbe bisogno di essere accompagnata da dei regolamenti che permettano di valutare effettivamente la professionalità e il valore culturale delle iniziative realizzate dagli enti in oggetto. Il problema dell'elaborazione di criteri atti ad individuare i singoli interventi degni di finanziamento e a permettere la loro valutazione acquista poi una grande attualità se si pensa che l'articolo 5 della direttiva del Ministro del tesoro del 18 novembre concernente le casse di risparmio, impone ai suddetti enti, entro il 31 marzo, di elaborare dei regolamenti che contengano proprio tali principi. Ora tale direttiva, al di là della sua dubbia legittimità, indica però un'esigenza reale a cui le fondazioni delle Casse di risparmio non possono sottrarsi se non vogliono che ciò possa diventare un pretesto per successive ingerenze da parte della pubblica amministrazione. Ed è proprio su questo problema che ha finito per focalizzarsi il dibattito in occasione del seminario di riflessione su Pubblico libero e privato sociale: il contributo delle nuove fondazioni" tenutosi il 3 dicembre presso la sede del Mediocredito Lombardo. Ci si è infatti resi presto conto che i prossimi mesi saranno decisivi per capire se le fondazioni delle Casse di risparmio potranno entrare a pieno titolo nel privato sociale o finiranno per limitarsi a gestire in concessione pubblici servizi. La sfida sarà certo appassionante e dipenderà in gran parte dalle capacità dei responsabili di queste nuove fondazioni di trasformare quello che era un aspetto marginale della loro attività, l'erogazione di contributi
per finanziare attività di interesse generale, nella funzione fondamentale di questi nuovi istituti. Si tratta cioè di sviluppare praticamente dal nulla una nuova mentalità che non si limiti più alla semplice distribuzione di contributi, ma che sia in grado di elaborare programmi, definire priorità, individuare strategie. Ora, è proprio questo cambiamento di mentalità che appare alquanto difficile e laborioso, non solo perché le Casse non hanno personale dotato di questa professionalità, ma anche perché tali competenze sono rare nell'intero Paese. Fino ad oggi tutti i bisogni collettivi dovevano essere soddisfatti grazie ad un intervento diretto da parte della pubblica amministrazione e i soggetti privati che agivano in tale ambito dovevano confrontarsi con quel sottobosco fatto di clientelismo e di piaceri personali per cui era più importante avere le giuste conoscenze piuttosto che saper elaborare e gestire un progetto effettivamente utile. Poche sono dunque le persone in grado di presentare un progetto che sappia rispondere ad alcuni prerequisiti oggettivi ed ancora meno sono quelle che li sappiano valutare in via preliminare, anche perché le principali fondazioni private italiane sono fondazioni operative che gestiscono in proprio i loro progetti e che raramente sovvenzionano programmi fatti da altri. Privi dunque di una professionalità propria e costretti ad operare in una realtà che da questo punto di vista è ancora per molti versi vergine, la tentazione di rinunciare alla propria autonomia e di ripararsi sotto l'ombrello protettivo offerto dalla pubblica amministrazione, soprattutto se tale ombrello verrà accompagnato da régimi fiscali particolarmente vantaggiosi e da altre con225
cessioni, rischia di diventare irresistibile. Inoltre, dato che pochi conoscono le enormi potenzialità che si nascondono dietro un istituto dalla origini lontane, ma che sembra destinato ad una seconda giovinezza, quale è appunto la fondazione, è probabile che i consigli d'amministrazione più battaglieri cercheranno di mantenere la proprietà della banca più che sviluppare delle funzioni che rischiano di apparire loro quale fumo negli occhi. Basterà a tal proposito pensare alle vicende del Monte dei Paschi di Siena. È dunque indispensabile inserire il nostro Paese in quella rete di rapporti internazionali, dai quali è stato per lungo tempo colpevolmente latitante e che hanno oggi il doppio vantaggio di permettere alle fondazioni italiane di partecipare a progetti di grande valore, ma anche e soprattutto di appropriasi di quelle tecniche gestionali e di quei modelli operativi che sono stati elaborati in questi ultimi decenni, ma di cui sono prive. Da questo punto di vista potrebbe rivelarsi molto proficua la partecipazione ad un progetto organizzato dall'European Foundation Centre di Bruxelles denominato Orfeo. Esso dovrebbe infatti permettere di raccogliere in modo coordinato tutte le informazioni concernenti il mondo delle fondazioni e creare un network decentralizzato in grado di offrire servizi a tutti coloro che ne avessero bisogno. Si tratterebbe di un'occasione più unica che rara per creare con poca spesa un centro di servizi per le fondazioni italiane in grado di distribuire con la massima facilità tutte quelle informazioni di cui esse hanno grande bisogno. Se poi si considera il ruolo pionieristico che normalmente tali soggetti hanno, è facile immaginare la funzione 226
strategica che un simile istituto potrebbe avere per lo sviluppo del privato sociale nel nostro Paese. In questo scenario un ruolo privilegiato non può che spettare all'Associazione fra le Casse di Risparmio, la quale peraltro ha assolutamente bisogno di ridisegnare una sua propria strategia. Infatti la sempre più marcata separazione fra fondazioni e banche spingerà queste ultime sempre di più nell'orbita dell'ARi, anche se, come opportunamente ha notato Tancredi Bianchi per alcuni anni queste banche si troveranno in difficoltà rispetto a quelle che già hanno un accesso diretto al mercato. Esse avranno perciò dei problemi specifici tanto che sarebbe forse utile ipotizzare di trasformarle in un circuito privilegiato per il finanziamento del settore pubblico. Nonostante questo, se l'AcRi vuole evitare una più o meno rapida, ma inevitabile decadenza, deve assolutamente elaborare con chiarezza una strategia per i prossimi anni e proprio la possibilità di gestire i servizi per il mondo delle fondazioni e più in generale dell'intero terzo settore potrebbe garantirle un ruolo di grande rilevanza nella vita economica e sociale del nostro Paese. Essa infatti si troverebbe nell'invidiabile situazione di poter costituire in tempi brevissimi una rete di fondazioni, alcune delle quali con grandi disponibilità economiche, diffuse su tutto il territorio nazionale e capaci di trasformarsi in veri e propri poli d'attrazione per un mondo, quello del privato sociale, che è oggi in forte, ma disordinata e dispersiva espansione e che ha dunque assoluto bisogno di poter usufruire di banche dati, corsi di formazione, contatti internazionali, tutti servizi che le fondazioni delle casse di risparmio potrebbero offrire con grande facilità.
Ma perché tutto ciò diventi possibile è indispensabile chiarire una situazione creata un po' artificiosamente dal legislatore e che i provvedimenti successivi alla legge Amato non hanno certo permesso di definire in modo univoco, cosa che del resto è stata abbondantemente dimostrata dalle relazioni tenutesi al convegno organizzato proprio dall'Acm il 31 gennaio.
Gli enti conferenti tra il pubblico e ilprivato: contributi eproposte. Purtroppo anche in questa occasione ci si è limitati alle pure indispensabili analisi giuridiche senza affrontare nella concretezza quelli che sono i due problemi fondamentali che le Casse sono chiamate a risolvere: i rapporti con le S.p.A. e la gestione degli utili ricavati dal proprio patrimonio, problemi certamente collegati fra di loro, ma concettualmente diversi. il rapporto fondazioni-imprese è un rapporto di cui si è molto poco ragionato in dottrina e sul quale le idee non sono molto chiare. Sono infatti possibili ben quattro tipologie. Nel primo caso la fondazione esaurisce il suo scopo nella gestione, secondo alcuni parametri particolari, dell'impresa in quanto essa ha una specifica valenza sociale che trascende i meri aspetti economici. Era il caso delle casse di risparmio nel secolo scorso prima che un intervento legislativo le trasformasse in enti di diritto pubblico. Una seconda ipotesi può rinvenirsi nel caso in cui la fondazione abbia statutariamente come obbligo la conservazione della proprietà dell'impresa onde evitare che essa sia sottoposta a manovre speculative o comunque considerate pericolose, era la situazione degli enti prima che la legge Amato fosse modificata dai successi.vi provvedimenti
sulle privatizzazioni. Si tratta di una prassi che non è rara e che è per certi versi riconducibile al vecchio maggiorascato. Ad esempio, soprattutto negli Stati Uniti, sono state create, negli anni passati, fondazioni al solo scopo di conservare la proprietà dell'impresa e al fine di evitare che essa venisse dispersa da eredi poco accorti. Vi è poi il caso classico in cui la proprietà di un'impresa serve alla fondazione esclusivamente come forma d'investimento il cui reddito viene utilizzato dall'ente per il perseguimento di uno scopo che nella ha a che vedere con l'attività svolta dall'impresa posseduta. Infine vi può essere un'inversione dei ruoli e ciò accade quando la fondazione diventa di fatto il dipartimento per le relazioni pubbliche o per la ricerca in funzione delle esigenze dell'impresa che l'ha costituita. Naturalmente la realtà è sempre più complicata di ogni concettualizzazione ed è probabile che queste diverse tipologie si ibridino e si condizionino a vicenda. Rimane però il fatto che una riflessione su questi aspetti è ineludibile se si vuole veramente elaborare un progetto che sia coerente e in grado di superare le ambiguità e le ambivalenze che continuano ad ostacolare l'individuazione di una soluzione capace di superare l'attuale impasse. I1altro aspetto, che è necessariamente legato al primo, anche se mantiene una sua specificità, consiste nell'individuare forme e modi per utilizzare i proventi del proprio patrimonio onde realizzare attività di utilità sociale e dunque offrire un'alternativa credibile a quella gestione di servizi pubblici in concessione che è già stata paventata dalla direttiva Dini del 18 novembre 1994. Fino ad ora ci si è concentrati sulla possibi227
lità di trasformare gli enti delle Casse di risparmio in fondazioni con una tipicità di scopo. Bisogna però prendere coscienza di quanto tale via sia ardua e difficile tant'è che le Casse non hanno ancora scelto l'ambito del loro eventuale intervento. Infatti non solo si tratterebbe di dar vita dal nulla ad una struttura totalmente nuova, sia essa di erogazione e di valutazione di progetti che verranno da altri realizzati oppure un istituto operativo che gestisca in proprio i suoi programmi, ma ciò imporrebbe altresì di abbandonare in modo brusco tutte le attività finora perseguite con dei costi sociali che è opportuno non sottovalutare. Infine una delle peculiarità e delle caratteristiche più rilevanti delle Casse di risparmio è il legame con il territorio, legame che rischierebbe di rompersi o per lo meno incrinarsi se le Casse cessassero di avere come scopo lo sviluppo della propria comunità per specializzarsi in un intervento settoriale, senza contare poi le conseguenze negative che ciò avrebbe per l'istituto di credito. Da un punto di vista sociale dobbiamo poi rilevare che il terzo settore ha fortemente bisogno di un punto di riferimento economicamente solido che possa catalizzare le risorse presenti sul territorio e che oggi sono spesso disperse o inutilizzate. Più che di un'altra fondazione che si occupi di ricerca scientifica o di arte e che finirebbe necessariamente per avere un impatto limitato, esso ha bisogno di una struttura che sia in grado di coordinare le energie presenti e, in ultima analisi, di trasformarsi in un moltiplicatore di risorse. La soluzione a questo genere di problemi, soluzione che sta infatti avendo un grande successo, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa, è la costituzione di fonda228
zioni che abbiano come fine lo sviluppo di un determinato territorio. Questa soluzione permetterebbe alle Casse di realizzare un salto qualitativo e di meglio utilizzare le proprie risorse senza però stravolgere il loro tradizionale ambito di attività. Inoltre esso potrebbe adeguarsi perfettamente alle esigenze di quelle piccole casse che, non avendo le risorse per dar vita ad autonomi centri di ricerca, potrebbero invece facilmente porsi come punto di riferimento del privato sociale nel loro territorio. Anche l'AcRI potrebbe giovarsi di questa soluzione in quanto ciò significherebbe creare un comune denominatore fra tutte le Casse di risparmio, cosa che non sarebbe necessariamente vera se ognuna dovesse specializzarsi in determinati aspetti della vita sociale e culturale. L'ACRI potrebbe così facilmente diventare il punto di riferimento nazionale dell'intero terzo settore, interfaccia per il nostro Paese delle organizzazioni internazionali in grado di diffondere le proprie informazioni attraverso i canali offerti dalla singole Casse. Parallelamente le casse di risparmio più importanti potrebbero, accanto alle attività di promozione del territorio, dar vita a centri nazionali in grado di elaborare strategie per specifici campi d'intervento, un po' come sta già succedendo con la Fondazione per il volontariato della Banca di Roma. Esse potrebbero perciò organizzare prestigiosi istituti in grado di rappresentare il nostro Paese negli incontri internazionali e di elaborare competenze specifiche che potrebbero poi diffondere in modo capillare attraverso i canali dell'AcRi e delle singole Casse su tutto il territorio nazionale. Il risultato finale di quest'operazione sarebbe la creazione di una rete con competenze
generali facente capo all'AcRi e nel contempo capace di conseguire un alto grado di specializzazione grazie all'apporto da parte degli istituti costituiti dalle principali Casse di risparmio, rete che diventerebbe necessariamente il punto di riferimento di gran parte del privato sociale del nostro Paese e permetterebbe di stimolare quelle energie che sono senz'altro presenti nella nostra società, ma che spesso sono scoraggiate dalla burocrazia di una pubblica amministrazione che ha a lungo avocato a sé il perseguimento di ogni interesse che non fosse strettamente privato. Per concludere, malgrado tutte le deficienze e i limiti culturali e operativi che ostacolano lo sviluppo del terzo settore in Italia, bisogna riconoscere che esistono oggi delle condizioni molto favorevoli in grado di permetterci di recuperare in poco tempo il ritardo che ci separa da altri Paesi europei
ed eventualmente assumere un ruolo guida in un settore che acquisterà sempre maggior importanza nella vita della Comunità. I dati raccolti dall'Istituto per le Ricerche Sociali nell'ambito della ricerca coordinata dalla Johns Hopkiris University di Baltimora di cui si è parlato all'inizio di questa nota, la presenza di un centinaio di nuove fondazioni distribuite su tutto il territorio nazionale e già formalmente collegate fra di loro, la possibilità di riscoprire una tradizione giuridica che ben otto secoli fa, grazie alla meditazione di Sinibaldo dei Fieschi, aveva elaborato una classificazione delle persone giuridiche che può rivelarsi ancora oggi utile e feconda, ci permettono di affrontare con ragionevole fiducia una sfida che si annuncia difficile, ma anche indispensabile per la crescita morale e civile non solo della nostra comunità nazionale, ma anche dell'Europa tutta.
La rivista si è varie volte occupata di associazioni, fondazioni e persone giuridiche senza fini di lucro. Ricordiamo i fascicoli n. 85-86 (1991), n. 87-88
(1991), n. 93(1993) e il n. 99 (1994). L'articolo di Casadei apre un dibattito al quale interverranno nei prossimi numeri altri collaboratori della Rivista.
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Notizie dal Gruppo di Studio "Società e Istituzioni"
Presentazione del volume «Fondazioni e Associazioni - Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile» (Roma, CNEL, 10 aprile 1995) Il 10 aprile scorso si è svolto, nella sede del CNEL in Via Lubin 2, un incontro sul tema «Privatizzazioni bancarie e nuova disciplina delle Fondazioni», nel corso del quale è stato presentato il volume «Fondazioni e Associazioni - Proposte per una rfbr,na del primo libro del Codice Civile» pubblicato a cura del Gruppo di Studio su Società e Istituzioni. All'incontro, - promosso dal gruppo di lavoro CNEL Fondazioni-Casse di risparmio -, sono intervenuti, oltre ai consiglieri CNEL, Cesare Sassano e Sergio Ammannati, gli esperti Renzo Bonazzi e Paolo Palmisano, Sergio Ristuccia e Pietro Rescigno (fra gli autori del libro), Giuseppe Michele StaIlone (Federazione Italiana della Mutualità Volontaria), Fabio Merusi (Presidente della Cassa di risparmio di Pisa) e Giuliano Segre (Presidente Ente-Fondazione Cassa di risparmio di Venezia). Il volume è composto dalle relazioni e dagli interventi, opportunamente rielaborati, del convegno, svolto a Roma nei giorni 15 e 16 marzo 1993, organizzato dal Gruppo di Studio sulla base di una ricognizione, - iniziata pochi mesi prima sotto la direzione di Pietro Rescigno -, dei punti critici della 230
normativa sulle persone giuridiche private senza fini di lucro, al fine di riproporre le linee di una riforma. Nell'introduzione del libro è riportato l'indirizzo d'apertura pronunciato da Pellegrino Capaldo, - presidente della Banca di Roma, l'ente che ha sostenuto l'iniziativa - e una ricostruzione di quanto è avvenuto nel corso del 1994, cioè del tentativo non riuscito di riformare per via regolamentare il procedimento di riconoscimento delle persone giuridiche, di cui al primo libro del Codice civile. E proprio la necessità di considerare la conclusione del tentativo compiuto dal Governo Ciampi ha ritardato la pubblicazione del volume. Nei mesi successivi al marzo 1993 si è costituito un pane1 con il compito di formulare un documento di principi, - pubblicato nella parte finale del libro -' sulla base delle conclusioni del convegno. Facevano parte del panel, presieduto da Pietro Rescigno, Giovanni ludica, Sergio Lariccia, Gennaro Mariconda, Pippo Ranci e Sergio Ristuccia. La presentazione del volume nella sede del CNEL rappresenta una sorta di «passaggio di testimone>' del progetto di studio dal panel diretto da Pietro Rescigno al gruppo di lavoro CNEL Fondazioni-Casse di risparmio. Di ciò avverte i presenti all'incontro, Renzo Bonazzi il quale ricorda che il CNEL ha indirizzato la sua attenzione alle Casse di rispar-
mio a seguito del processo di trasformazione che è iniziato con la legge n. 218 del 1990. La V Commissione del CNEL ha ritenuto di dover seguire il processo di trasformazione con particolare attenzione al ruolo che vengono assumendo gli enti proprietari delle Casse di risparmio che, con la cosiddetta legge Amato, si sono costituiti in Fondazioni distinte dalla gestione di attività bancarie. In seguito ad una serie di indagini conoscitive è stata adottata dall'assemblea del CNEL una risoluzione nella quale si individuano alcuni punti; in particolare, l'opportunità che il processo di distinzione si accentui fino ad una dismissione parziale o totale della partecipazione delle Fondazioni Casse di risparmio e quindi che le fondazioni bancarie assumano sempre più il carattere sociale legato a quelle fìnalità che la legge Amato e i decreti di attuazione hanno previsto (promozione delle arti, della ricerca scientifica, della sanità, della cultura, ecc.). Sergio Ristuccia sostiene, nel suo intervento, che sia un sintomo importante il fatto che anche nella sede del CNEL si affronti il tema «fondazioni bancarie» e che da questo si arrivi necessariamente ad affrontare il tema della riforma del primo libro del Codice civile. L'argomento, ovviamente, non può essere scisso da quello più generale delle fondazioni su cui è rinata, un po' in tutti i Paesi occidentali, una forte attenzione. Attenzione che è dovuta ad almeno due fattori: da una parte, alla riduzione della presenza dello Stato nella società, ad una ridefìnizione del Welfare State; dall'altra, alla ripresa d'interesse delle imprese verso il terzo settore. In particolare, il tema delle fondazioni bancarie», almeno nel nostro Paese, è quello che più spinge per una definitiva
chiarezza legislativa in materia di fondazioni e associazioni. Anche Pietro Rescigno ritiene che proprio la fondazione bancaria è importante per le soluzioni che direttamente o in via mediata fornisce ai problemi che, in materia di associazioni e fondazioni, pesano sulla dottrina civilistica. Una dottrina che in materia non è numerosa ma che si può ritenere, comunque, «sensibile». Rescigno ricorda il tentativo del ministro Cassese (tra gli autori che compaiono nel convegno e quindi nel volume) di arrivare ad una riforma profonda attraverso una via più breve, la via regolamentare, che si è poi rivelata impraticabile. Rescigno ricorda, inoltre, che nella nostra storia sia ha una tradizione contraria ai corpi intermedi, sia nelle radici liberali, sia nei residui dell'autoritarismo e del centralismo che pesano sul Codice civile. Bisogna, quindi, liberarsi da queste pesanti ipoteche e adeguare la disciplina delle associazioni e delle fondazioni ai modelli dei codici nati nei Paesi di ispirazione pluralista, ciò a partire dalla riforma del modo di riconoscimento delle persone private e della loro capacità di acquisto. Sembrerebbero dati elementari, - sottolinea Rescigno -, ma sono essenziali, almeno per un avvio di riforma. Il consigliere Cesare Sassano ricorda che il CNEL ha cominciato ad affrontare il problema delle fondazioni e delle Casse di risparmio proprio come esigenza di un dibattito a supporto all'iniziativa del Governo Ciampi. La discussione in seno alla V Commissione si è svolta, - fa presente Paolo Palmisano della Confmndustria -, in modo da porre in luce quale debba essere il legame più valido tra la fondazione, un ente pubblico, e la banca in quanto S.p.a. Una riflessione andrebbe fatta - avverte ancora 231
Palmisano -, su quale dimensione debba avere, nel futuro, il controllo e il possesso azionario, da parte delle fondazioni, del capitale delle Casse di risparmio. Si tratta di una trasformazione all'interno del piĂš grande fenomeno delle privatizzazioni nel nostro Paese; fenomeno che, proprio da tale trasformazione, potrebbe avere una notevole spinta.
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In conclusione dell'incontro, il consigliere Sergio Ammannati ha ricordato che sicuramente vi è in materia un conflitto d'interessi e che il CNEL vuole offrirsi come luogo d'incontro fra questi. AA.VV., Fondazioni e Associazioni. Proposte per una rifor,na del pirmo libro del Codice Civile, Maggioli, Rimini 1995.
Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura
Anche in un'epoca di comunicazione telematica, quale è la nostra, il libro rimane mezzo ineguagliabile per la scoperta, la conoscenza e lo scambio. Purtroppo la sua pubblicazione, la sua diffusione e il suo facile accesso risultano diversi per ogni Paese; le stesse professioni legate al libro hanno delle difficoltà nel comunicare. All'interno del programma di sviluppo per l'area del Mediterraneo, la Fondazione Europea della Cultura e la Fondation Seydoux di Parigi hanno dato vita a una rete di librerie per promuovere la vendita e la traduzione di libri nelle lingue dei Paesi del Mediterraneo. È stata di recente pubblicata la prima newsletter del progetto che presenta il resoconto del primo incontro dei partecipanti alla rete. Nei giorni 7 e 8 maggio 1994, otto librai provenienti da Marocco, Spagna, Tunisia, Grecia, Libano ed Egitto hanno discusso a Casablanca su temi di rilevanza per l'area del Mediterraneo e hanno confrontato le loro esperienze sulla circolazione della letteratura in quest'area geografica. Nel primo giorno dell'incontro di Casablanca sono stati affrontati temi riguardanti il ruolo dei librai e dei centri di documenta-
zione e i problemi di traduzione; nel secondo giorno si è discusso, invece, dei risvolti concreti della costituzione di un network di librai. I partecipanti hanno mostrato interesse soprattutto ad essere informati sugli eventi riguardanti il «libro all'estero» (notizie, traduzioni, fiere librarie). L'idea di avere dei punti di riferimento in altri Paesi è stata ritenuta importante da tutti. In questo senso è stato deciso di pubblicare due newsletter. La prima dovrebbe essere una pubblicazione biennale intitolata «Lettre des Libraires de la Méditerranée» contenente: un calendario degli eventi librari nel Mediterraneo, uno scambio di opinioni, notizie sulle attività della rete. L'obiettivo è stampare 3000 copie ogni anno, metà delle quali da distribuire alle librerie del proprio Paese. Il secondo bollettino, mensile, dovrebbe essere una pubblicazione interna, da distribuire via fax, con gli stessi contenuti della newsletter biennale. Il vantaggio del bollettino mensile sarebbe quello di offrire informazioni in modo più immediato e costante. La Fondation Seydoux coordinerà il primo anno di attività e, quindi, produrrà entrambe le pubblicazioni. Il prossimo incontro del network è previsto per il prossimo giugno, a Barcellona.
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Notizie da
FONDAZIONE LELI0 E LIsLI BAsso-Isocco Una ricca biblioteca specializzata in storia delle idee e dei movimenti di massa dalla fine del '700 ai nostri giorni, un istituto di ricerca che unisce studiosi di varie discipline nell'impegno di comprendere la natura e le radici della società contemporanea; un luogo capace di ospitare liberi scambi di idee e confronti culturali: queste sono le basi originarie su cui poggia l'attività della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, sorta a Roma nel 1973. Nel suo lavoro l'istituto utilizza strumenti diversi: gruppi di ricerca, cicli di conferenze, seminari, convegni e iniziative legate a una pi1 immediata attualità politico-culturale. I filoni di interesse che definiscono l'attività scientifica della Fondazione negli ultimi anni e nel prossimo futuro si traducono nella produzione di ricerca originale e nell'organizzazione di iniziative anche in collaborazione con dipartimenti universitari e istituti culturali italiani e stranieri. Tra i temi principali: la Sovranità (un ciclo seminariale sui contesti culturali e sulle matrici simboliche della sovranità); la Bioetica (tra le ultime iniziative il convegno internazionale «La costruzione della sfera privata»); Hermes in archivio (un altro ciclo seminariale che si avvierà nella prossima primavera in 234
collaborazione con l'Archivio Centrale dello Stato, volto a evidenziare le contraddizioni e le diverse interpretazioni che si annodano intorno al tema delle fonti).
E inoltre: Informatica e democrazia, Roma alle radici dell'Europa. Modernità e rivoluzione conservatrice e incontri pubblici con protagonisti del dibattito scientifico e culturale. Una delle ultime iniziative della Fondazione Basso insieme con il Cer - Centro Europa Ricerche e l'Associazione Informatica per la democrazia sarà la creazione di un Osservatorio sui primi progetti di reti civiche telematiche italiane. L'Osservatorio avrà lo scopo di analizzare, negli aspetti giuridici, economici e sociali i numerosi esperimenti di reti civiche dei comuni italiani, per evidenziarne i punti di contatto, le diversità e le problematiche che ne emergono. Fondazione Lelio e Lisli Basso-Isocco Via della Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma Tel. 6879953-683075 16 (Fax)
FONDAZIONE ITAUANA
PER
IL VOLONTARIATO
La ricerca sul terzo settore ha conosciuto nell'ultimo decennio uno sviluppo significativo. Rispetto ad altri campi di indagine,
quello del terzo settore sembra caratterizzato da una notevole ricchezza di informazioni, riflessioni e materiali di ricerca. Diversi segnali fanno ritenere inoltre che questo campo di studi sia destinato ad espandersi anche in futuro. A fronte di questa crescita, stanno però problemi e difficoltà che rendono spesso difficile il lavoro scientifico e non consentono sempre il raggiungimento di risultati adeguati alla consistenza delle risorse e delle energie impegnate. Questi sono i motivi che hanno indotto la Fondazione Italiana per il Volontariato a collaborare alla promozione di una iniziativa riguardante la creazione di una rete telematica tra i ricercatori impegnati in studi sul Terzo Settore. Gli scopi di questa iniziativa sono: creare la possibilità per uno scambio di informazioni tra i ricercatori italiani; creare occasioni per un confronto serrato e metodologicamente attento sui lavori di ricerca realizzati; favorire il collegamento con l'attività di ricerca e studio sviluppata a livello internazionale.
Il Rrrs, Network dei ricercatori sui terzo settore non costituisce né un gruppo di ricerca sul terzo settore, né un organismo di rappresentanza dei ricercatori impegnati in questo campo. La sua funzione è di favorire lo scambio e la comunicazione scientifica tra chi svolge con continuità ricerca sul Terzo Settore. Esso è costituito da singoli ricercatori che vi aderiscono personalmente in base alloro interesse scientifico e metodologico. Dato il carattere interdisciplinare della ricerca sul Terzo Settore, il Network accoglie ricercatori che operano in diversi campi disciplinari: sociologia, economia, giurisprudenza, psicologia, urbanistica, politiche pubbliche, amministrazione pubblica, ser-
vizi sociali, management, scienze dell'educazione, etc. Le principali attività del Network sono: la realizzazione di una newsletter contenente informazioni su: seminari e convegni in programma, pubblicazioni scientifiche, papers non pubblicati, articoli e ricerche in corso, convegni e seminari già avvenuti, iniziative politiche o legislative di particolare interesse; la realizzazione di seminari periodici, che siano occasione di incontro tra i ricercatori e di presentazione e discussionedei lavori di ricerca in corso su tematiche inerenti il terzo settore. I seminari verranno organizzati prevedendo una cali forpaper, una selezione dei paper da presentare, la raccolta e la distribuzione preventiva dei paper presentati, e ampio spazio per la discussione metodologica e scientifica. Il Network è interamente autofinanziato dai membri che lo compongono. È questa la migliore garanzia che la sua finalità di rafforzamento dei legami scientifici venga mantenuta intatta. Il Comitato tecnico è composto da: Costanzo Ranci (coordinatore - IRs), Andrea Bassi (Univ. Bologna), Giancarlo Cursi (FiVOL), Stefano Lepri (CGM). Costanzo Ranci - Politecnico di Milano, Via Bonardi, 3 - 20133 Milano Tel. 02-2399.5400 1 2399.5426 (diretto) Fax 02-2399.5435
ISAM
Se qualche ufficio pubblico è diventato efficiente, perché non lo diventano tutti? «Pubblico Bene», la rivista edita dall'I.S.Am
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(Istituto di Studi sull'Amministrazione) rivolgerà ogni tre mesi questa domanda a tutti i responsabili delle pubbliche amministrazioni. È già stato pubblicato, infatti, il n. O della rivista deIl'I.S.Am, istituto che è stato creato nel 1983 per realizzare ricerche, formazione, progettazione e consulenza, Linalizzate allo sviluppo ed al miglioramento organizzativo dell'amministrazione pubblica rispetto alle domande di una società complessa ed evoluta. Il costante impegno nella consulenza di processo per il miglioramento organizzativo delle autonomie locali (70 enti negli ultimi 12 mesi) ha maturato la convinzione della necessità di una rivista che contribuisca «alla divulgazione, tra tutti gli operatori interessati, delle Inovazioni positive che si realizzano nella pubblica amministrazione». Una rivista che «ha bisogno come condizione per la sopravvivenza stessa del progetto..., della più ampia collaborazione da parte dei suoi interlocutori, che devono essere al tempo stesso fruitori ed autori». Direttore responsabile Sandro Vettor, Direttore di «Pubblico Bene» è Gianni Principe. Fanno parte del Comitato scientifico dell'ISAm: Massimo Severo Giannini e Bruno Trentin (garanti); Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Angelo Antonio Cervati, Enzo Cheli, Marco D'Alberti, Gaetano D'Auria, Paolo De Joanna, Gino Giugni, Fabio Merusi, Massimo Paci, Antonio Pedone, Alberto Zuliani.
ISAM
L. Tev. Thaon Di Revel - 00196 Roma Tel. 3202098-3201275 (Fax) 236
ISTITUTO LUIGI STURZO
Quale è stato il «contributo» dei vescovi, del clero e del laicato alla Resistenza? L'attività della S. Sede, delle organizzazioni e congregazioni religiose nel corso della guerra e della sua fase finale? Il rapporto tra Cattolici, Chiesa e Resistenza sarà il tema di un convegno in programma per il mese di settembre organizzato dall'Istituto Luigi Sturzo. L'Istituto, eretto in ente morale il 25 novembre 1951, fu fondato per volontà di Luigi Sturzo e di un gruppo di estimatori ed amici, realizzando così l'idea di un'istituzione capace di promuovere studi e ricerche nel campo delle scienze politiche, storiche e sociali. Per espressa decisione dei fondatori, l'Istituto non doveva avere finalità di lucro o politiche, ma doveva mantenere il suo carattere aconfessionale e svolgere la sua attività nel campo delle discipline morali con scopi esclusivamente scientifici. Per realizzare questi fini l'Istituto: - cura la pubblicazione e la diffusione delle opere di Luigi Sturzo: è in corso, infatti la pubblicazione dell'Opera Omnia di Sturzo, della quale sono già stati pubblicati 27 volumi; - ha una biblioteca specializzata di 60.000 volumi e cura l'aggiornamento di 250 periodici attinenti alle discipline sociologiche, storiche ed antropologiche. Ha un'ampia sala di lettura ed è dotata di schedari, cartacei e informatizzati (la biblioteca fa parte dal 1989 del Polo EI-Istituti Culturali di Roma), per autore e per soggetto; dispone, inoltre, di un ricco catalogo relativo agli articoli di riviste di scienze sociali pubblicati dal 1960 in poi;
- possiede un notevole patrimonio archivistico costituito in primo luogo dall'archivio di Luigi Sturzo e della sua famiglia e da numerosi altri archivi di cattolici popolari che svolsero un'attività determinante per la fondazione della Democrazia Cristiana e per la politica dei governi italiani nel secondo dopoguerra; - pubblica fin dal 1956 la rivista quadrimestrale «Sociologia» con quell'approccio interdisciplinare sul quale anche Sturzo insisteva opportunamente, che consente il superamento delle contradizioni tra l'analisi focalizzata sulle strutture sociali e l'analisi focalizzata sull'agire umano; - promuove inoltre congressi, cicli di conferenze e seminari su argomenti e problemi di carattere storico-sociale e di interesse culturale; - realizza corsi di aggiornamento finalizzati all'aggiornamento professionale e culturale di giovani meridionali, in particolare per la promozione culturale delle amministrazioni pubbliche locali del Mezzogiorno; - provvede, infine, ad offrire borse di studio a giovani ricercatori italiani e stranieri. Istituto Luigi Sturzo Via della Cappella, 35 - 00186 Roma Tel. 6892390-6864704 (Fax)
ISTITUTO SUPERIORE DI SOCIOLOGIA
Gli atteggiamenti politici e i valori degli individui continuano ad essere di primaria importanza anche - forse, soprattutto - in un periodo di profondi cambiamenti sociali. Su queste tematiche sono state svolte una serie di survey in Italia e all'estero, che hanno fornito dati individuali e dati aggregati ora raccolti nella Banca Dati SISIFUS
(Sistemi di indicatori informatizzati per lo studio dei fenomeni urbani e socioambientali dell'Istituto Superiore di Sociologia). La Banca Dati è stata costruita al fine di mettere a disposizione di studiosi, ricercatori e amministrazioni pubbliche un ampio sistema di dati accessibili mediante microelaboratore. I dati aggregati fanno riferimento a varie unità territoriali (province, comuni, comuni urbani, grandi città). Si tratta dei principali indicatori sociodemografici: dalla popolazione al reddito, al livello di istruzione. Sono inoltre disponibili una serie di informazioni per il trattamento longitudinale dei dati aggregati e per la rappresentazione cartografica, oltre a varie classificazioni in base a tipologie territoriali. Tutti i dati vengono forniti con un'ampia documentazione, secondo lo standard dei Social Science Data Archive europei e nordamericani. Per i dati individuali la documentazione riguarda il questionario utilizzato per la rilevazione e il codebook, nel quale sono inserite alcune note metodologiche riguardanti la costruzione del campione e degli indicatori. Viene inoltre fornita una distribuzione di frequenza di tutte le variabili suddivise per nazione. Per i dati aggregati vengono forniti l'elenco delle fonti e il codebook. I dati sono forniti in system files SPSs/PC+. La Banca Dati SIsIFUs, come il nome lascia intendere è in continuo aggiornamento. In particolare per quanto riguarda i dati individuali sono in preparazione: - Eurobarometro n. 39 (primavera 1993); - Indagini speciali Eurobarometro n. 314 n. 34.1, n. 34.2, n. 354 n. 37.2, n. 37.A. Per quanto riguarda i dati aggregati sono in 237
corso di acquisizione i dati del Censimento della Popolazione del 1991. Istituto Superiore di Sociologia, Via G. Cantoni, 4 -20144 Milano Tel. 4986187- 463291 (Fax)
FONDAZIONE Rui Una ricerca sull'Università che parte dal punto di vista degli studenti è nel nostro Paese un fatto nuovo, che evidenzia il riconoscimento di un ruolo centrale a chi fruisce dei servizi - didattici e organizzativi forniti dai nostri atenei e rappresenta quindi la vera ragion d'essere dell'istituzione universitaria. La Fondazione Rui, da sempre attenta al problema della formazione delle giovani generazioni, ha lanciato con l'Università di Camerino il progetto EuroStudent, e con l'alto patrocinio del Ministero dell'Università ha svolto un'indagine su un campione di 20.000 studenti di tutta Italia che hanno risposto ad un questionario sulla loro espe-
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rienza universitaria. Dai risultati della ricerca emerge un identikit dello studente italiano: le sue condizioni di vita, il rapporto con l'istituzione e i docenti, l'approccio con lo studio, la proiezione verso il mondo del lavoro, anche in un'ottica europea. L'indagine verrà presentata ufficialmente in un convegno in programma a Roma per il 25 e 26 maggio, alla presenza di rettori, docenti, rappresentanze studentesche, responsabili dei servizi per la didattica e per il diritto allo studio, operatori dell'orientamento e della comunicazione universitaria. È prevista una folta rappresentanza straniera, visto che la ricerca è inquadrata in un piìi ampio progetto di indagine sullo studente europeo, promossa dall'Ecsta. La prima parte del convegno verrà dedicata alla presentazione del primo Rapporto nazionale sull'orientamento universitario, svolto sempre dalla Fondazione Rui. Fondazione Rui Viale XXI Aprile, 36 - 00162 Roma Tel. 86321281-86322845 (Fax)
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Fondazioni e Associazibni Proposte per una riforma del primo librò del Codice Civile
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Problemi dLlla eo1uzionc degli apparati statali dall'Unità ai giorni nostri
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queste istituzionI La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti piii importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri. del settore pubblico. L'»Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, leassociazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. E stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.
Gli opuscoli, è stato pubblicato il 1° numero degli opuscoli di Queste Istituzioni. La nuova serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso di questo 1° numero con il dossier «CuItura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei (per uso professionale o didattico); presentare materiali complementari alla rivista.
La collana Maggioli - Queste Istituzioni Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Slof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe SS Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli ap parati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp .4 55, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 SS
In corso di pubblicazione: Advisory Commission on Intergovernmental Relations La riorganizzazione delle economie pubbliche locali
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