Queste istituzioni 104

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Anno XXIII - n. 104 - Trimestrale (ottobre-dicembre) - spedizione in abb. postale - 50% Roma

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Agenda Europa: da Maastricht a Messina Privatizzazioni in Europa: primi bilanci Luigi Sai, Marilena Saraceno, Francesca Pieran tozzi

L'acqua fra le "pubbliche utilitĂ " Paola Fabbri, Antonio Chizzoniti

Vicende di pubblica amministrazione Romano Bettini, Rosa Maiorino

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n. 104 1995


queste Muzioni rivista del Gruppodi Studio Società e Istituzioni )OUII n. 104 (ottobre-dicembre 1995) Direttore SERGIO RISTUCCIA Vice Direttori MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SID0TI Comitato di red.azione- SAVERIA ADIDOTrA, ANTONIO AGOSTA, BERNARDINO CASADEI, ROSALBA CORI,

Anno

DANIELA FELISINI, GIORGIO PAGANO, MARCELLO ROMEI, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SERE, ANDREA SPADETI-A, PAOLA ZACCHINI

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Responsabik

GIOVANNI BECHELLONI

Edito re QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE

ISSN: 1121-3353 Stampa: I.G.U. s.r.i. - Roma Finito di stampare nel mese di gennaio 1996

t1

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


N. 104 1995

Indice

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Agenda Europa: da Maastricht a Messina Massimo Ribaudo

Privatizzazioni in Europa: primi bilanci 3

14

La privatizzazione nella ex Germania orientale: un processo concluso solo in parte Luigi Sai Privatizzazioni in Francia MarilÈna Saraceno, Francesca Pierantozzi

L'acqua fra le "pubbliche utilità" 29

46

La questione acqua Paola Fabbri Gran Bretagna: le sorprese di una secca estate Antonio Chizzoniti

Vicende di pubblica amministrazione 53

73

Privatizzare il pubblico impiego o reinventare il governo? Romano Bettini Il

CIPE:

è possibile una riforma? Rosa Mazorino I


Taccuino mostri temi 89

Cultura del servizio e pubblica amministrazione

92

L'Ec'rF e il telelavoro Massimo A. Conte

98

Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali

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Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura

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Notizie da...

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Recensioni

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Agenda Europa: da Maastricht a Messina

Europa. Dove eravamo rimasti? Coinyolti nel nostro difficile tentativo di mutare classe politica e resi scettici dalle sempre più frequenti débkle diplomatiche in relazione alla guerra civile nella ex-Jugoslavia, sembravamo esserci quasi dimenticati di essa. L'Unione, ormai estesa a ben 15 Paesi, sembrava un immenso cantiere abbandonato, dove soltanto nei giorni degli incontri ufficiali si trovava la volontà di parlare di programmi ed iniziative per il futuro. Eppure il "progetto Europa", questa strana congerie di idealità, astrattezze e minuziose descrizioni di standard tecnici, continua a muoversi. E lo fa perché, sin dall'inizio, quasi involontariamente, i politici dei Paesi membri hanno predisposto una serie di meccanismi istituzionali, di appuntamenti apparentemente informali, di scadenze precise che, pur tra mille dichiarazioni contrastanti, conducono 400 milioni di persone verso un comune destino geopolitico. Tutta l'area geografica circostante l'Unione è però in fermento: dal bacino del Mediterraneo (Egitto, Algeria), fino alla crisi senza fine dei Balcani, dove per ora soltanto i tentativi statunitensi hanno ottenuto una qualche illusoria speranza di pacificazione; senza dimenticare le non sopite tensioni tra Grecia e Turchia. Riguardo. a queste aree di crisi esterna, l'Europa è chiamata ad una risposta per quanto possibile unitaria. Vi sono poi i settori di crisi interna, quali la disoccupazione, lo squilibrio delle risorse tra Paesi del Nord e quelli del Sud, il deficit democratico che si registra nel procedimento di approvazione e di attuazione delle norme dell'ordinamento comunitario. Tutte questioni €ontinuamente rinviate (in attesa che i problemi si risolvano da soli?). Ma la Conferenza intergovernativa del 1996 è alle porte, gli emendamenti al Trattato di Maastricht necessari, la configurazione di una strategia unitaria, indispensabile. Si cercherà, nello spazio. di queste brevi note, di rammentare il percorso dell'Unione da Maastricht ad oggi, sottolineando le tematiche che dovranno esIII


sere affrontate dalla Conferenza intergovernativa per proiettarsi, attraverso un programma finalmente compatibile con le esigenze di tutti gli Stati membri, di tempi e di luoghi, alla fine del secondo millennio, in quel 1999 dal quale vorremmo che la storia ripartisse. Possibilmente dall'Europa.

IL CAMMINO PERCORSO

Il disegno europeo si trova in uno stadio delicato. Dopo un periodo di grande attività (gli anni Sessanta), un decennio di sclerosi (gli anni Settanta) ed un altro di fondamentali iniziative (1982-1992), l'Europa è di nuovo ad un punto di svolta. Non si è più sicuri sui tempi, talvolta anche sul percorso; in termini operativi si dubita se davvero sia realizzabile il progetto originario del Trattato di Maastricht. Proprio quando tutto sembrava pronto per la definitiva realizzazione del mercato unico e dei primi fondamentali embrioni di un'unione federale, la caduta del Muro di Berlino, la fine della Guerra fredda, l'implosione dell'Impero sovietico, l'unificazione tedesca e la crisi dei Balcani hanno trasformato il contesto strategico, raffreddato l'impeto comunitario e fatto riemergere velleità nazionalistiche mai del tutto sopite. L'unificazione tedesca ha rappresentato forse il principale fattore d'instabilità per il processo d'integrazione comunitaria, sconvolgendo i delicati equilibri politici ed economici che erano stati conseguiti alla fine degli anni Ottanta. Essa ha posto il problema dell'istituzione di nuovi modelli di difesa in Europa, ha aumentato l'incoerenza nelle politiche monetarie, ha ricreato l'instabilità nel mercato dei cambi. La decisione della Germania di finanziare il processo di unificazione interno attraverso l'indebitamento ha aggravato, in una fase recessiva, le tensioni tra vincoli esterni e condizioni interne nelle economie dei Paesi membri e posto le premesse per la crisi dello SME (1992 e 1993). La strategia di Maastricht, che prevede la preparazione graduale della Fase Tre del processo di unione monetaria, con l'aumento della convergenza tra le economie dei Paesi membri, è parsa così in pericolo. La dinamica del mercato unico, programmato per il 1° gennaio '93, aveva rianimato fin dalla seconda metà degli anni Ottanta discussioni e progetti: si diffuse allora la convinzione che la piena libertà di circolazione di merci e capitali non sarebbe stata sopportabile a lungo senza cambi fissi. Ma è soltanto dopo il 1989 ed 1991 che si registra un'accelerazione crescente negli atti dei Dodici: fra la presentazione della prima relazione Delors sull'Unione economica e monetaria (12 Iv


aprile 1989) e la firma solenne del Trattato tra i ministri degli Esteri e delle Finanze riuniti a Maastricht il 7 febbraio 1992, passano meno di tre anni, densi di vertici europei straordinari, conferenze intergovernative ad hoc (senza contare l'attività diplomatica sollecitata da shock esterni: dalle rivoluzioni democratiche dell'Est alla guerra del Golfo, dal tentato golpe di Mosca alle prime secessioni della Jugoslavia). Dietro quel colpo d'acceleratore che consentì l'accordo su Maastricht c'era la volontà determinante di Parigi e Bonn. I francesi tendevano a diluire la futura potenza tedesca in una cornice istituzionale di tipo federale, sottraendo alla Germania quote di sovranità nazionale da trasferire all'Unione Europea. La Germania, d'altro canto, voleva rassicurare se stessa ed i propri partner di' non rappresentare un pericolo, vincolata ai destini comuni degli altri Paesi europei. È stato, comunque, il rigido modello tedesco a prevalere nella configurazione economica del Trattato. I severi parametri di convergenza fissati per accedere all'ultima fase della UEM sono stati fissati per imporre a tutti i Paesi stabilità monetaria, equilibrio delle fipubbliche e pace sociale: le virtù associate al modello federale tedesco. In quale misura sono riusciti ad imporle? Studiata per incanalare la superpotenza tedesca, la previsione di Maastricht è entrata in crisi quando le difficoltà economiche dovute all'unificazione hanno spinto la Germania sulla strada degli alti tassi d'interesse. Per quanto transitoria, ed in parte riassorbita, questa fragilità economica e sociale del Paese egemone ha sbilanciato la Comunità, ha logorato l'alleanza franco-tedesca e ha liberato spinte centrifughe. Il momento peggiore per l'Europa di Maastricht si è determinato tra la fine del 1992 ed il 1993 con il "no" al Trattato nel referendum danese, ed un "si" francese appeso ad un solo punto percentuale. Quando poi la Germania ha cessato la sua politica di difesa del franco ed ha abbandonato (1 0 agosto 1993), le sorti dell'Unione sono 'apparse sempre più fosche. Ma, come detto, le riunioni e gli appuntamenti istituzionali sono proseguiti, le scadenze sono state rispettate e le fratture diplomatiche si sono placate, fino a far parlare illustri esponenti degli ambienti diplomatici francesi e tedeschi di una possibile intesa tra i due Paesi, per fare da polo unificatore per il futuro sviluppo federativo dell'Eur9pa. Chiacchiere accademiche? Non sembra, visto che, come vedremo, proprio in conseguenza dell'allargamento attuato e di quelli futuri, si dovrà per forza giungere a tecniche d'integrazione differenziate, alla previsione, LA


insomma, di "geometrie variabili" per le diverse aree territoriali che comporanno la «Grande Europa del terzo millennio.

ESPERIENZE FEDERATIVE O LIBERO SCAMBIO: SEMPRE E DI NUOVO AL BIVIO

Le attuali difficoltà dell'Unione riflettono l'insoddisfacente strategia di costruzione federale dell'Europa e l'indisponibilità dei Paesi membri a dare vita in modo chiaro e diretto a istituzioni federali. Gli architetti dell'Europa hanno finora operato su una visione limitata del concetto di sovranità applicato ad un ente sovranazionale. Non si è dato corso allo sviluppo delle funzioni che storicamente caratterizzano gli Stati sovrani (tranne che per le funzioni attribuite alla Corte di Giustizia, la quale sempre più accentua il suo carattere di istituto trainante delle istanze federali dell'Unione); i rappresentanti degli Stati europei hanno concentrato gli sforzi su altri obiettivi immediati, quali l'aumento del benessere sociale ed il rafforzamento delle economie e delle loro prestazioni. La strategia di integrazione economica e commerciale è indubbiamente riuscita, determinando importanti benefici per l'area. Allo stato attuale, l'edificio comunitario presenta indiscutibili elementi di statualità nelle istituzioni, nelle procedure e nello status, ma non ci si è volutamente preoccupati di verificare quanto fossero adatte le istituzioni comunitarie ad assumere le responsabilità centrali degli Stati sovrani (la difesa, la moneta, la tassazione) e, soprattutto, si è rinviato sine die il dibattito sull'effettiva volontà comune di realizzare un simile spostamento di competenze. Di fronte alle speranze federaliste dei Padri Fondatori della Comunità, si è posto il veto dei governi continentali a tradurre la strategia d'integrazione comunitaria in un autentico ordinamento sovranazionale ad ispirazione federale. L'atteggiamento prevalente verso la Cee, in definitiva, è stato quello di conseguire, attraverso lo strumento del Mercato Comune, importanti benefici economici. Una volta raggiunta una notevole integrazione ec6nomica e al momento di trasformare questa in un'unione che superasse la fase del Mercato Comune, per giungere ad un'Unione politica, la contraddizione di fondo si è riproposta in tutta la sua evidenza. La strategia di realizzare gradualmente la trasformazione federale della Comunità, spingendo sull'acceleratore dell'integrazione economica, presenta il limite che oltre un certo livello viene a determinarsi un conflitto tra il mantenimento dell'autonomia degli Stati sulle politiche rilevanti e la realizzazione di quelle stesse politiche sul piano comunitario. VI


Le istituzioni comunitarie continuano quindi a mancare di centri decisionali propri ed autonomi a cui fare appello quando è il momento di prendere decisioni difficili. Il Consiglio Europeo, in quanto semplice somma dei dodici governi nazionali, non si è dimostrato e non potrà essere in futuro l'istituzione adeguata dalla quale partire per realizzare definitivamente l'Unione a vocazione federalista. La questione decisiva è se i Paesi comunitari, allo stato attuale, siano realmente disposti a realizzare esperimenti di organismi a tendenza federale nell'Unione Europea ed a rinunciare a parti importanti della loro autonomia nelle politiche nazionali. Rimane di peso strategico decisivo la Terza Fase dell'Unione Economica e Monetaria, vale a dire quella caratterizzata da cambi intra-Unione irrevocabilmente fissi o dalla moneta unica. Due sembrano essere, allo stato attuale, le strategie politiche d'integrazione sulle quali l'Europa può fare affidamento: la concorrenza istituzionale tra centri di potere comunitari e nazionali, oppure la strategia di coordinamento fondata su strumenti di programmazione inevitabilmente implicanti un certo grado di centralizzazione a favore degli organismi dell'Unione. I sistemi federali, ma anche quelli che comunque si articolano su pi1 livelli di decisione, si fondano su meccanismi complessi, su equilibri delicati tra centro e periferia che sono in continua ridefinizione secondo "cicli" di centralizzazione e decentramento. Vi sono stati esempi recenti di spinte fortissime al decentramento che hanno condotto alla scomparsa di alcuni Stati federali (l'Urss, la Jugoslavia, la Repubblica Federale Ceca e Slovacca), come anche l'insorgere di forti tensioni a sfondo secessionista: Quebec e Alberta in Canada, Australia Occidentale in Australia. Il fondamento di uno Stato federale è il contratto esistente tra i diversi livelli di governo. Non esiste però una soluzione unica, un contratto ottimale ed irreversibile tra i livelli inferiori e l'entità federale: lo status tra le parti è da ritenersi sempre reinterpretabile, quando addirittura non rinegoziabile e/o ridefinibile. Si deve dire che il principale e conclamato obiettivo del Mercato Comune è stato raggiunto: il Mercato esiste. Un nuovo interesse collettivo dovrebbe fondare, adesso, l'esistenza dell'Unione e rappresentare la fonte delle attese per la sua sopravvivenza. Il patto federale trae linfa vitale, si rafforza e trova le sue ragioni spirituali, politiche ed economiche, nell'operare dei due principi contrapposti ma contigui della concorrenza e della cooperazione, siano essi applicati verticalmente (asse centro-periferia) od orizzontalmente (tra le istituzioni delle rispettive orbite di competenza), in vista di un fine comune. Ma la strategia della conVII


correnza tra i livelli (ogni Paese può decidere livelli di tassazione, d'imposizione sui redditi di capitale, d'interventi sulla scuola, sul mondo delle comunicazioni, etc., all'interno di ranges di variazioni massime e minime determinati dalle autorità centrali), implicitamente supportata da una delle possibili interpretazioni del principio di sussidiarietà, può anche comportare situazioni rischiose, dove i Paesi più deboli potrebbero trovarsi costretti a comportamenti di concorrenza strategica (nella tassazione, nei sussidi, nella politica ambientale, etc.) riducendo in tal modo il benessere nell'area dell'Unione. LEuropa a "geometrie variabili", insomma, anziché aumentare la convergenza, potrebbe - e cercheremo di analizzare se e come sia possibile scongiurare un simile effetto - approfondire il divario tra le varie economie e tra i diversi sistemi democratici. È certamente vero che vi sono ambiti nei quali un'Europa unita serve di più ed altri nei quali non è affatto necessaria un'istanza di decisione superiore. Ma se si lascia ai singoli Stati il potere di stabilire quali siano questi ambiti si va verso la forma Mercato, allontanandosi sempre più dal modello dell'Unione. Assumendo concetti propri delle scienze economiche, si potrebbe affermare che le aree dove è auspicabile un maggior ruolo dell'Unione sono quelle dove è più forte il grado di purezza del bene pubblico fornito: la difesa, l'ambiente, la moneta, le reti infrastrutturali europee, la politica della concorrenza, la tassazione dei capitali. Questi sono campi nei quali la distribuzione dei benefici dell'offerta del bene non è limitata al contesto statale, ma ricade ampiamente al di là dei confini del singolo Paese membro. Alcuni Stati europei hanno già natura federale, altri, come è noto, hanno realizzato da poco una decisa trasformazione in tal senso (il Belgio) o sembrano essere sul punto di farlo (la Spagna), altri ancora stanno decentrando molte funzioni un tempo di pertinenza dello Stato centrale (la Francia, dove si sta facendo ricorso alla delocalizzazione di istituzioni nazionali da Parigi verso altre città). Alla fase di transizione e d'incertezza in sede europea si associa un mutamento profondo nella struttura del potere centrale e degli enti sottordinati in quasi tutti i Paesi europei. Gli Stati nazionali, pertanto, sono soggetti a due tensioni che cercano di ridurne autorità e poteri: una, in fase ascendente, che cerca di trasferire funzioni degli Stati nazionali al livello comunitario; l'altra, in direzione discendente, che tenta di snellire il governo centrale, attribuendo parte delle sue competenze ai livelli locali. Ma da più parti si comincia a capire che, se è difficile gestire un'Unione a 15 e domani a 20, sarebbe impossibile far funzionare un'Europa attraverso legaVIII


mi diretti con qualche centinaio di Regioni. È necessaria, quindi, una ridefinizione dei compiti delle tre istanze territoriali principali (Comunità, Stato, Regione) senza dimenticare il valido apporto di quelle minori (comunità locali). Questo cambiamento di prospettiva è la vera dimensione costituzionale del problema comunitario. Ed in un momento di grande confusione geopolitica, quale quello attuale, nessuno pare avere visione e coraggio per proporre un approccio operativo per la sua soluzione.

ANCORA SUL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ

Individuato il nodo del problema europeo nella definizione dei rapporti tra le varie sedi di decisione territoriale (problema costituzionale, politico, prima ancora che giuridico), definizione dalla quale dipenderà lo sviluppo o la decadenza della comunità sociale europea, è necessario formulare alcune considerazioni su uno dei principi del Trattato sull'Unione europea, che sembra più di ogni altro destinato a dettare soluzioni per tale qualificazione delle competenze: il criterio di sussidiarietà. Negli accordi di Maastricht, si respirava un'intenzione "federativa" che andava ben al di là delle formule diplomatiche. E proprio tale intenzione continua ad essere bloccata dai governi più refrattari all'idea di Unione, magari affidandosi proprio ad un principio che era sembrato ai più, quando fu inserito nel Trattato, come un compiuto tentativo di fornire alla Comunità strumenti federali di intervento nella competenza degli Stati. L'atteggiamento dei governi sul tema della sussidiarietà si è rivolto verso interpretazioni completamente contrarie a quelle che scaturiscono dallo spirito della sua inserzione nel Trattato. Gli scopi dell'Unione sono stati individuati dall'articolo "B" del trattato di Maastricht e potremo così sintetizzarli: promuovere il progresso economico e sociale all'interno della Comunità, mediante la creazione di uno spazio europeo senza frontiere; rafforzare la coesione economica e sociale, già considerata nell'art. 23 dell'Atto Unico e instaurare l'unione economica e monetaria, già prevista dall'art.20 dell'Atto Unico, per giungere alla creazione di una moneta unica; affermare l'identità dell'Unione nel contesto internazionale, attraverso l'attuazione di una politica estera e di sicurezza comune e, in futuro, di una politica di difesa comune; rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini degli Stati membri, attraverso l'istituzione della cittadinanza dell'Unione; Ix


d) sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni. Si può ben comprendere come un simile programma, seppure naturale prosecuzione del cammino iniziato con gli accordi di Roma, dovesse poi, alla prova dei fatti, comportare una serie di rimostranze tra i membri del club europeo, tutti intenzionati ad essere sempre più numerosi quando si tratta di spartirsi i benefici dell'Unione economica, ma ben attenti a non concedere nulla a quella politica. Settore fondamentale dell'analisi dei governi e della dottrina giuridica è stata, quindi, la riflessione sui rapporti tra ordinamenti normativi interni ed ordinamento comunitario e l'opportunità di politiche nazionali autonome in settori di interesse comunitario. È proprio in questo contesto che emerge l'ambivalenza, tutta densa di future applicazioni, del principio di sussidiarietà, considerato a ragione uno dei cardini di Maastricht, ma del quale, come si è detto, siamo ben lontani dal comprendere quale sarà l'effettiva utilizzazione da parte delle istituzioni comunitarie e delle politiche nazionali e regionali. Si deve però dire che ad un tentativo di lettura esegetica del principio, seguendo il senso "fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", la portata dello stesso si ridimensiona e sembrano perciò fuori posto molte prese di posizione pro e contro aspetti totalmente estranei all'effettiva ampiezza della sua operatività all'interno del Trattato. Il Trattato di Maastricht (art. 313) dispone che "nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, possono essere realizzati meglio a livello comunitario. L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato". In tale articolo sono rinvenibili, essenzialmente, tre regole sulle quali valutare la legittimità dell'intervento comunitario. In primo luogo è specificato che l'azione della Comunità deve essere svolta nell'ambito delle sue attribuzioni. Principio fondamentale del diritto comunitario resta, quindi, quello per il quale la Comunità non può agire, se la relativa competenza non le sia stata espressamente attribuita. La competenza nazionale è quindi la regola, mentre quella comunitaria rappresenta l'eccezione. Al secondo cap9verso è iiìvece indicato il principio che la Comunità deve segui-


re, ogni qual volta si trovi a decidere se esercitare o meno l'azione, nei settori che non rientrano nella sua competenza esclusiva. È questo il "principio di sussidiarieta in senso giuridico stretto , che permette di verificare la necessita dell azione prevista nei settori che non sono di esclusiva competenza della Comunità. Al terzo capoverso è indicato, infine, il criterio per stabilire quale deve essere la natura o l'intensità dell'azione comunitaria: questo dovrebbe valere sia per le azioni relative agli ambiti di competenza esclusiva, sia per quelli che rientrano nella sua competenza concorrente e richiede (sulla base dell'esperienza giurisprudenziale della Corte di Giustizia) che i mezzi impegnati dalla Comunità siano proporzionati all'obiettivo perseguito (principio di proporzionalità o di intensità). Nei primi commenti delle sedi istituzionali europee la sussidiarietà è stata intesa come una regola dinamica da applicarsi, alla luce degli obiettivi del Trattato, in modo che, l'azione della Comunità si estenda quando le circostanze lo esigano e si ridimensioni, sempre e soltanto nei settori a competenza non esclusiva, quando queste non giustificano più il suo impiego. La cosa che però è importante sottolineare è che, in alcun modo, l'inserzione esplicita del principio di sussidiarietà muta il quadro generale delle competenze affidate dal Trattato alla Comunità. Non agisce sull'acquis comunitario, ma necessariamente influirà sui passi futuri delle istituzioni comunitarie. Il meccanismo delle competenze può essere così semplificato. Per quanto riguarda quelle esclusive, il criterio non opera. Mentre il principio di sussidiarietà non assume rilievo quando la Comunità deve necessariamente agire, esso può generare, nei casi di competenza concorrente, i maggiori attriti circa l'ampiezza del ruolo comunitario rispetto a quello degli Stati membri. La sua assegnazione alla competenza comunitaria o meno dipenderà dalle singole disposizioni, dai tempi e dai modi del concretarsi dell'azione stessa. Ricordiamo, comunque,. che tanto più è specifica una disposizione del Trattato, tanto meno si ha possibilità di applicare il principio di sussidiarietà. Insomma, sia che venga vista come muro di contenimento ad un'eccessiva quantità di azioni comunitarie incidenti su ambiti dove l'intervento dei centri decisionali locali sarebbe più efficiente, sia che, al contrario, la si rappresenti come criterio per un ampliamento dei poteri comunitari nell'ambito delle competenze concorrenti, si deve riconoscere che il riconoscimento esplicito del principio di sussidiarietà è un elemento di razionalizzazione e di organizzazione efficientedel rapporto tra più sfere di governo del territorio. È quindi un fattore di equilibrio, strumento di difesa delle libertà ed identità nazionali e di maggiore integrazione delle stesse in un'ottica federativa.


Tale principio, lungi dall'avere una troppo estesa qualificazione "politica" che lo porterebbe fuori dall'ambito di conoscibilità da parte della Corte di Giustizia, è essenzialmente un criterio formale di regolazione dei modi e dei tempi dell'esercizio delle competenze comunitarie e non di attribuzione delle medesime, la quale può discendere soltanto dai trattati. Tutto dipenderà dai momenti in cui tale principio verrà applicato. Non si è voluto, all'interno della costruzione di Mastricht, prefigurare un ambito limitato che costituisca un criterio oggettivo ed applicabile indefinitivamente, ma piuttosto si è cercato di definire un criterio formale e relativo per adattare le scelte comunitane al reale stato dei rapporti tra i suoi membri. Un criterio tanto più necessario quanto più la Comunità si allargherà a nuovi soggetti aventi caratteristiche diversissime rispetto alla maggioranza dei partner già inclusi. La sussidiarietà, infatti, permette di indirizzare azioni diversificate verso un ristretto numero di Paesi. Si ritrova quindi il tema, prospettato precedentemente, dell'Europa a "geometrie variabili", termine tanto contestatato nell'ufficialità delle riunioni, ma invocato spesso dagli esperti più autorevoli dei singoli Stati. Ha sostenuto in proposito il Consiglio europeo di Edimburgo che, nei casi di difficolta localizzate che riguardino soltanto alcuni degli Stati membri ,l azione comunitaria potrebbe interessare unicamente tali Stati e non altri. Con ciò si potrebbe prefigurare la costruzione di quell'Europa "a più velocità", per la quale il criterio di sussidiarietà verrebbe a giocare un ruolo finora non immaginato: quello di strumento per un'ulteriore emarginazione degli Stati meno progrediti sul piano legislativo, e quindi anche economico. L'armonizzazione finirebbe per riguardare quei Paesi, il nocciolo duro della Comunità, che sono già sufficientemente attrezzati per la realizzazione dell'Unione. Al fine di scongiurare detta prospettiva, riteniamo che il tema della sussidiarietà sarà il più illustre "convitato" alle riunioni che porteranno alla Conferenza intergovernativa del 1996, che sarà istituita con l'obiettivo "di mantenere integralmente l'acquis communautaire e svilupparlo al fine di valutare in quale misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal pnite Trattato, allò scopo di garantire l'efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie VERSO LA CONFERENZA INTERGOVERNATIVA DEL

1996

L'art. N del Trattato sull'Unione Europea, al secondo punto, prevede che "Una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri sarà convocata nel 1996 per esaminare, conformemente agli obiettivi stabiliti negli artt. A e B delle disposizioni comuni, le disposizioni del presente Trattato per le quali è prevista XII


una revisione". Saranno, in particolare, le disposizioni relative al campo di applicazione della procedura di codecisione, alla politica estera e di sicurezza comune ed agli aspetti inerenti la difesa. Ad essi si dovrebbero poi aggiungere le tematiche della procedura di voto in seno al Consiglio, (voo ponderato, soglia per le decisioni adottate a maggiornaza qualificata, numero dei membri della Commissione), in seguito al cosiddetto "compromesso di Joannina", e le procedure di esecuzione degli atti comunitari, in seguito alle rimostranze del Parlamento Europeo, che sono state espresse nella "risoluzione De Giovanni" del 16 dicembre 1993, le quali hanno avuto come primo effetto la firma di un modus vivendi interistituzionale il 20 dicembre 1994. Sempre nella Conferenza intergovernativa del 1996 dovranno essere riesaminate le disposizioni del Trattato relative alle procedure di bilancio, ivi compreso il regime delle spese obbligatorie e non obbligatorie. Come stabilito dal Consiglio Europeo di Corfu, si è riunito a Messina il 2 giugno 1995 il "Gruppo di riflessione" che sta preparando una bozza di revisione sulla quale poi lavorerà la Conferenza. Il Gruppo che ha da poco terminato i suoi lavori e presenterà a fine i risultati degli incontri svoltisi tra i propri componenti, ha esaminato le disposizioni del Trattato per le quali è prevista una revisione, al fine di presentare una proposta alla Conferenza, onde ottenerne ogni possibile miglioramento, in uno spirito di democrazia e di sviluppo delle istituzioni comunitarie, nell'ottica del funzionamento del Trattato come espresso nei documenti che le diverse istituzioni hanno inviato al Gruppo di riflessione stesso. A tale proposito, si ritiene utile soffermarsi sul rapporto inviato al Gruppo da parte del Parlamento Europeo, massimo consesso democratico e rappresentativo della Comunità. Obiettivi principali della riforma del Trattato, secondo il documento, dovranno essere: - il riassorbimento del citato deficit democratico; - la revisione del processo decisionale; - la preparazione a futuri ampliamenti dell'Unione, senza per questo indebolire l'integrazione già raggiunta dagli Stati membri. Essenziale, nel contesto delle istituzioni, è il mantenimento di un quadro istituzionale unico: ciò significa che i trattati esistenti, comprese le disposizioni in materia di PESc (Politica per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e di affari interni, vanno unificati. Se al termine della Conferenza del 1996 dovesse mancare l'unanimità, bisognerà ventilare l'ipotesi di procedere senza la partecipazione della minoranza e di prevedere, per i Paesi che lo volessero, gli strumenti per una loro uscita dall'Unione.


Nel rispetto del principio di trasparenza, che dovrà essere enunciato esplicitamente nel nuovo Trattato, le deliberazioni de! Consiglio dovranno essere pubbliche, così come tutti i documenti, salvo che per le decisioni prese a maggioranza dei due terzi. Per il Parlamento andrebbe fissato a 700 il numero massimo dei deputati. All'Assemblea spetterà il parere conforme per tutte le nomine alla Corte di Giustizia ed al SEBC (Sistema Europeo delle Banche Centrali). Parlamento e Consiglio dovranno disporre di uguali poteri in materia legislativa e di bilancio, mentre vanno rinforzati i poteri di controllo dei parlamenti nazionali. In futuro le procedure decisionali - eliminata la cooperazione - dovrebbero essere ridotte a tre: - codecisione; - parere conforme; - consultazione. Anche il bilancio va modificato, razionalizzando le relative regole e creando una distinzione tra decisioni sulle risorse proprie, da un lato, e regolamento finanziario e disciplina di bilancio, dall'altro. L'Unione dovrebbe disporre di un bilancio che comprenda il Fondo europeo di sviluppo, i crediti ed i prestiti comunitari e le spese derivanti dalla PESC e dagli affari interni. Inoltre, l'Assemblea chiede di sopprimere l'articolo 223 del Trattato che impedisce il controllo della vendita di armi; di rafforzare i poteri del Parlamento nel settore agricolo; che la politica economica esterna sia di competenza dell'Unione; di poter partecipare alle decisioni relative alla scelta della propria sede e di poter intervenire, con un parere conforme, anche sulle entrate in materia di bilancio. Si auspica, infine, una particolare tutela per le minoranze nazionali di antico insediamento nel quadro dell'adesione dell'Unione alla Convenzione sui diritti dell'uomo del Consiglio d'Europa. Chiaramente, il dibattito sulla riforma deve dunque tener conto che si dovrà discutere su come definire l'Unione al suo interno, sotto il profilo della sua influenza sulla società e sotto quello delle strutture e dei principi istituzionali e come situarla sul piano internazionale. Sul piano interno sembra difficile che si possa finalmente aprire il discorso sulla Costituzione europea e sugli sviluppi federalistici dell'Unione. Molto pii realisticamente sarà bene riuscire a definire, per quanto già analizzato, l'ambito di operatività del principio di sussidiarietà, sia come rapporto tra autorità pubbliche di diverso livello, sia come rapporto tra politiche pubbliche ed iniziativa privata.


Tutto questo razionalizzando e rafforzando il quadro istituzionale acquisito, dotando il Parlamento di maggiori poteri d'influenza sulle decisioni del Consiglio. Altro tema fondamentale è quello di un futuro allargamento ad Est e verso il Sud del Mediterraneo. Si deve sottolineare che detti allargamenti non potranno sconvolgere i risultati già acquisiti dell'integrazione, ma anzi rafforzarli. Dovranno, quindi, essere ridotte al minimo le approvazioni parziali di intese e trattati attraverso il proliferare di clausole d'opting out che frastagliano il quadro europeo in un puzzle d'ineguaglianze e previlegi per i Paesi più ricchi. 1996:

UN PASSAGGIO CRUCIALE

La Conferenza intergovernativa dovrà rispondere a due sfide principali: l'adattamento delle istituzioni dell'Unione al futuro allargamento che potrebbe raggiungere la dimensione di 25 membri, ma per far questo in modo da non annullare i risultati d'integrazione conquistati, dovrà riconquistare la partecipazione ed il pieno supporto dei cittadini dell'Unione. Il Gruppo di riflessione che ha iniziato il 2 giugno scorso i suoi incontri a Messina (in occasione del 400 anniversario dell'apertura, tenutasi nella città siciliana, della Conferenza per la negoziazione del Trattato istitutivo della Cee, siglato a Roma il 25 marzo 1957) ha esaminato ed elaborato le proposte concernenti il Trattato, nel quadro di ogni possibile miglioramento, in uno spirito di democrazia e di sviluppo. Il suo compito è stato quello di predisporre opzioni sulle questioni istituzionali già affrontate dal Consiglio e nell'accordo di Joannina, nella prospettiva del futuro allargamento. La procedura descritta all'art. N del Trattato si applicherà per la Conferenza del 1996. Gli emendamenti che verranno approvati in tale sede entrano quindi in vigore dopo essere stati ratificati da tutti gli Stati membri, conformemente alle rispettive modalità costituzionali. Non sarà quindi né semplice né immediato il cammino europeo durante e successivamente la Conferenza intergovernativa del 1996. Essa dovrà contemperare gli interessi degli Stati del Nord-Europa, entrati da poco nel club dell'Unione e desiderosi di chances di mercato, ma anche di mantenimento della propria autonomia decisionale - secondo la linea tradizionale del Regno Unito - con quelli degli Stati meridionali, come Italia, Spagna e Grecia, che usano spingere per una maggiore integrazione e per un'evoluzione delle procedure decisionali verso criteri di stampo federalista. Arbitri e decisori saranno francesi e tedeschi, i quali hanno nuovamente nelle mani, come ai tempi dell'impero carolingio, le chiavi di una rinascita europea o di un'inesorabile, lenta decadenza.

xv


Saprà la Conferenza adottare un sistema a tal punto flessibile da permettere a tutti gli Stati membri, compresi quelli futuri, di partecipare alle decisioni politiche della Comunità, secondo i ritmi della loro crescita economica e sociale, senza sacrificare la coerenza e l'identità dell'azione comunitaria, onde presentare l'Unione sulla scena internazionale come un soggetto di sovranità unitaria? Sarà quindi capace di conferire all'Unione quell'insieme di principi costituzionali e di regole procedurali omogenee necessarie per adottare progetti comuni e farne comprendere ai cittadini europei il valore, onde ottenerne partecipazione e consenso? Se anche il 1996 dovesse rappresentare una tappa interlocutoria, dove tra le parti rimbalzeranno questioni senza risposta, probabilmente l'Europa vista come spazio economico non ne soffrirà. Abbiamo, tuttavia, una forte sensazione: adagiandosi nell'interlocutorio, l'occasione di trasformare l'opportunità del '96 in una cc scelta esistenziale per i popoli che vivono sul Continente sara persa in modo irreparabile.

Massimo Ribaudo


questo. isiduiludi

Privatizzazioni in Europa: primi bilanci

Di privatizzazioni in Europa Queste Istituzioni ha già trattato in diverse occasioni. In particolare, diprivatizzazioni in Francia e in Germania si è parlato nel n. 77-78 (1989) con l'articolo di Federico Rampini (Privatizzare in Francia) e sul n. 90-91 (1992) con l'articolo di Priewe Jan (I compiti dell'amministrazione fiduciaria sono irrisolvibili) e, a cura dell'Istituto Tedesco per la Ricerca Economica, l'articolo su Sovvenzionamento e privatizzazione mediante la "Treuhandanstalt" Oggi, dopo la tempestiva conclusione in Germania della vicenda Treuhand, èpossibile tirare i primi bilanci. Così si può intendere che la storia della privatizzazione non è finita; anzi, continua andando ben al di Là di una serie, pur assai ampia, di vendite e dismissioni. Sta maturando, infatti, la necessità di interpellare la molteplicità dei fenomeni di privatizzazione, formale e sostanziale, nell'ambito di un più generale processo di trasformazione dei sistemi economici e dei rapporti società/economia. The Economist (dicembre 1995) nel parlare della recente "impopolarità" delle privatizzazioni raccomanda ai governi di essere più attenti nelle loro politiche. La raccomandazione va rivolta anche agli analisti per cogliere il senso e rideterminare gli obiettivi delle grandi trasformazioni in corso nelle economie pubbliche. Si chiamino o no privatizzazioni.


La privatizzazione nella ex Germania orientale: un processo concluso solo in parte di Luigi S ai*

Sono passati poco meno di cinque anni dalla unificazione tedesca, un avvenimento che ha rappresentato un momento di svolta fondamentale nella recente storia europea e le cui conseguenze di lunga portata forse non sono state ancora comprese appieno. Sotto il profilo macroeconomico l'unificazione ha messo severamente alla prova l'economia tedesca e in particolare la finanza pubblica. Poche cifre sono sufficienti per chiarire i termini del problema: la Germania chiude gli anni Ottanta, nei quali forte era stato l'impegno del governo in termini di consolidamento della finanza pubblica, con un indebitamento pubblico che superava di poco il 40% del PNL. Alla fine del 1995 esso sarà pari a circa il 58% del PNL, essendo passato dai 928 miliardi di marchi del 1989 ai 2015 previsti per il 1995. Lo stesso deficit pubblico dovrebbe rientrare nel '95 nei parametri di Maastricht, ma per ben 4 anni (91-94) esso ne è stato fuori avendo superato il 4%. Certamente ci vorranno ancora molti * Professore incaricato di Economia Politica all'Istituto C. Alfìeri di Firenze.

anni, molti di più rispetto a quelli previsti dalla grande maggioranza degli osservatori al momento dell'unificazione, perché l'economia tedesca ritorni alla normalità ma nel complesso non si può non osservare con una certa stupita ammirazione come essa sia riuscita ad assorbire nel breve volgere di qualche anno lo shock dell'unificazione. Lo stesso forte aumento del debito pubblico e il conseguente aumento, che persisterà negli anni, della voce 'interessi' fra le poste del bilancio non ha generato una situazione di virtuale. rigidità del bilancio pubblico quale stiamo sperimentando in Italia. L'unificazione tedesca rappresenta un caso degno di interesse per l'economista anche perché essa ha segnato l'avvio di quello che, non a torto ma un p0' enfaticamente, è stato definito come il più grande processo di privatizzazione della proprietà pubblica (o 'popolare') mai avviato: un processo di privatizzazione che ha avuto come oggetto non un particolare settore o un gruppo di imprese pubbliche ma virtualmente l'intero apparato economico di un Paese industrializzato. Occorre altresì ricordare un aspetto spes-


so trascurato nelle analisi economiche e cioè il fatto che l'unificazione ha rappresentato per le regioni tedescoorientali (NL - Nuovi Under), per i suoi consumatori e per le sue imprese un fattore decisivo di deregolamentazione, vale a dire di liberalizzazione dei mercati a tutti i livelli, allentando i vincoli statali al comportamento delle imprese e dei consumatori. Le imprese sono state proiettate quasi da un giorno all'altro, a causa dell'adozione della moneta unica, nel vivo della competizione interna e internazionale per la quale non disponevano di esperienza e capacità adeguate, mentre i consumatori hanno per così dire perso la rete di protezione e le garanzie di sicurezza, se pur molto basse, di cui avevano goduto fino ad allora. In questo articolo ci occuperemo tuttavia soltanto della privatizzazione, cioè della vendita delle attività produttive (le cosiddette VEB - imprese di proprietà del popolo) Come è noto, il motore e il centro responsabile delle privatizzazioni è stata la Treuhandanstalt (THA). Essa nasce ufficialmente il 1 Marzo 1990 con la cosiddetta prima Treuhandgesetz in quella che era ancora la Ddr, alla vigilia delle prime elezioni libere del Paese, sotto il governo Modrow. Suo scopo esplicito era quello di rappresentare il fulcro economico dal quale fare partire una sorta di terza strada tra capitalismo e socialismo. Ad essa venneET

ro cedute le circa 8.000 VEB, che però non avrebbero dovuto in alcun modo essere privatizzate. La privatizzazione avrebbe riguardato invece e solamente le piccole imprese e le attività economiche che erano state nazionalizzate nel 1972 nel corso dell'ultima grande ondata di espropri. Questa prima TI-lA doveva essere una sorta di grande ministero il cui compito principale, in un momento di grandi cambiamenti politici, era quello di procedere alla ristrutturazione delle imprese di proprietà pubblica, promuovendone la modernizzazione ma mantenendone inalterata la proprietà nelle mani dello Stato. Non passano che pochi mesi e la situazione politica subisce una brusca accelerazione: l'ipotesi di una terza via tra capitalismo e comunismo rivela tutta la sua fragilità di fronte alla crescente spinta in favore dell'unificazione con la RFT. 1117 giugno 1990 il nuovo Parlamento vara la cosiddetta seconda Treuhandgesetz che definisce i nuovi obbiettivi dell'ente: non più il mantenimento e la valorizzazione, ma la privatizzazione, il risanamento, la reprivatizzazione, la comunalizzazione e anche l'eventuale chiusura di tutte le imprese di proprietà statale. Il trattato di unificazione delle due Germanie, che verrà siglato il successivo 31 agosto, si limitò semplicemente a recepire con l'art. 25 questa seconda legge, confermando che l'ente responsabile


sarebbe stato ancora la THA. I suoi compiti vengono significativamente richiamati, consistendo nel "ristrutturare in maniera da renderle competitive e nel privatizzare" le aziende di proprietà statale. La TI-LA viene sottoposta all'autorità del ministero delle Finanze (una scelta presto molto criticata per il suo implicito significato) e la formula strategica adottata fu sostanzialmente la seguente: privatizzare il più rapidamente possibile tutte le imprese come strumento di risanamento. Osservava recentemente uno studioso tedesco U. Priewe, 1994) che la TI-LA diventa e vede se stessa "in modo del tutto prevalente come un ente di privatizzazione che amministra le sue imprese su base fiduciaria, ma non le dirige con criteri imprenditoriali". LA SCELTA TRA PRIVATIZZAZIONE E RISTRUTTURAZIONE

Le recenti esperienze in materia di grandi privatizzazioni, come sono quelle in corso con il passaggio da sistemi di tipo socialista a sistemi di mercato, ci mostrano che gli obbiettivi di tipo distributivo entrano quasi sempre in conflitto con gli obbiettivi di tipo allocativo. Il problema della 'giusta' distribuzione tra i cittadini delle proprietà statali (imprese, immobili, esercizi commerciali etc.) ha una rilevanza notevole dal punto di vista politico e la sua risoluzione attraverso l'equa distribuzione tra i cittadini di

buoni o 'voucher' rappresentativi di quote della 'proprietà popolare' ha condotto a forti ritardi e grandi disillusioni nei Paesi in cui tale sistema è stato adottato. La TI-LA ha potuto condurre in porto nel giro di quattro anni la privatizzazione delle imprese dell'ex Germania orientale concludendo, come rivendica la sua presidente (B. Breuel, 1994), qualcosa come 80.000 contratti di privatizzazione e circa 100.000 contratti di affitto. Ma tutto ciò è stato possibile, né siamo fermamente convinti, perché la TI-LA non ha dovuto tenere conto dei problemi di tipo distributivo e perché non è stata costretta a perseguire la massimizzazione dei proventi delle privatizzazioni. Il suo vincolo di bilancio, originariamente molto rigido, è stato rapidamente allentato' e in questo modo essa ha potuto 'permettersi' forti perdite nel perseguire una strada originale di lungo periodo che puntava più che a vendere aziende ad 'acquistare investitori'. Si può supporre inoltre che la distribuzione di buoni ai cittadini, dati gli altissimi costi connessi con la ristrutturazione e la modernizzazione dell'apparato produttivo dei NL, avrebbe condotto a reazioni di tipo politico ancora più gravi di quelle che si sono avute. La TI-LA non ha quindi dovuto scegliere tra i due classici obbiettivi conflittuali di efficienza ed equità quanto

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piuttosto tra privatizzazione e ristrutturazione. Il trattato di unificazione imponeva sì di privatizzare le VEB con la massima rapidità ma anche di metterle in condizioni di essere competitive. Ciò che mancava era l'indicazione chiara di una precisa gerarchia e priorità tra questi due obbiettivi. Questa sostanziale ambiguità aprì ampi spazi alle critiche nei confronti dell'operato della TI-LA che si polarizzarono su due estremi: da un lato vi erano coloro che accusavano l'ente di essere responsabile della liquidazione, a prezzi notevolmente inferiori al suo effettivo valore, dell'intero apparato industriale dei NL e in definitiva della loro deindustrializzazione. Costoro non negavano che il settore industriale richiedesse costosi e dolorosi interventi di ristrutturazione e modernizzazione, ma proprio per questo motivo essi ritenevano che il risanamento dovesse avere la precedenza sulla privatizzazione. All'altro estremo vi erano coloro che partendo da una visione alquanto rigida dei meriti del mercato criticavano la THA perché, dando la precedenza in taluni rilevanti casi al risanamento delle imprese, dava il suo avvallo al mantenimento in vita di imprese incapaci di sopravvivere senza bisogno di continue sovvenzioni pubbliche. Per costoro la privatizzazione, rapida e decisa, doveva avere la priorità su1 risanamento. Il mercato avrebbe determinato la selezione darwiniana di quelle imprese che meritavano di vivere e di prosperare. 6

La strategia che la TI-LA perseguì "era focalizzata non soltanto sull'obbiettivo ma anche sul percorso che conduceva all'obbiettivo" della privatizzazione. Si doveva cercare, per quanto possibile, di mantenere in piedi le imprese. "La TI-LA richiedeva ai potenziali investitori un progetto che dimostrasse in maniera convincente che essi erano in grado di continuare l'attività operativa con buona speranza di successo (K.D. Schmidt, 1995). Per usare le parole di B. Breuel (B. Breuel, 1994) si cercavano «investitori che apportassero capacità e capitale, in grado di collocare con successo un'impresa sul mercato e di creare duraturi posti di lavoro, che inoltre avessero conoscenza degli sbocchi di mercato e che fossero in condizione di colmare il pit rapidamente possibile il gap di tecnologia e di innovazioni delle imprese tedesco-orientali". Questa scelta veniva a restringere notevolmente il numero dei potenziali investitori, dal momento che erano esclusi coloro che intendevano destinare l'impresa a usi diversi oppure intendevano venderla in tutto o in parte. Ciò che la THA voleva evitare in tutti i modi erano i rischi di un'ampia delocalizzazione che avrebbe comportato costi sociali e occupazionali molto gravi a livello locale e regionale. In questo senso, si può affermare che la THA ha perseguito nella sua attività anche una politica industriale. Alla luce di quanto abbiamo finora


detto, si può comprendere come il prezzo di vendita di una determinata impresa fosse uno dei molteplici obbiettivi, non l'unico né il principale, che dovevano essere definiti e raggiunti nell'ambito di una trattativa individuale e difficile con l'investitore che era stato individuato. Il risultato era un contratto che specificava sì un prezzo (che poteva anche risultare negativo), ma anche promesse e impegni vincolanti in materia di posti di lavoro mantenuti o creati e di investimenti che l'investitore si assumeva. Se si leggono i resoconti dell'attività di privatizzazione della TI-lA si incontra sempre il termine "impegni" in termini di occupazione e di investimenti, garantiti o meno da penalità (nel caso dei posti di lavoro non realizzati la penalità può variare da 5.000 a 40.000 DM). Secondo i dati più recenti disponibili (OcsE, 1995) essi ammonterebbero a 207 miliardi di marchi di investimenti e 1.5 milioni di posti di lavoro Una domanda sorge spontanea a questo punto, alla quale cercheremo di dare risposta più avanti: la privatizzazione è stata davvero completata con la chiusura della Ti-LA? o non rimangono aperti una serie di problemi tali da condurre ad una sospensione del giudizio? I

PROBLEMI: L'OCCUPAZIONE E GLI

ASPETTI FINANZIARI

Quando la THA inizia la sua attività nel 1990 essa controllava circa 8.500

imprese, alle quali facevano capo complessivamente circa 45.000 unità produttive. Il totale degli occupati in queste imprese era di 4,1 milioni, pari a circa l'80% degli occupati nel settore industriale. A ciò si aggiungevano circa 20.000 tra negozi, farmacie, pensioni etc., e le proprietà immobiliari che rappresentavano circa il 60 % della superficie dell'intero Paese. Come rileva la Bundesbank in un suo rapporto (Deutsche Bundesbank, 1994) il primo grande successo della TI-LA venne raggiunto con la cosiddetta 'piccola privatizzazione' dei piccoli esercizi commerciali che alla metà del '91 risultano praticamente tutti ceduti a privati. A beneficiarne furono in prevalenza i cittadini dei NL, cosa che non avverrà invece con la vendita delle imprese industriali. Fra le 8.500 imprese originarie molte avevano delle dimensioni assolutamente abnormi, come ad esempio i circa 120 Kombinat che non potevano certo essere messi sui mercato e venduti così come erano. Il rischio era che si facessero avanti investitori aventi uno scopo meramente speculativo, interessati solo ai pezzi pregiati e privi di un progetto industriale di lungo periodo. La Ti-LA procedette perciò alla suddivisione di molte grandi aziende e dei Kombinat in tante imprese di dimensioni più contenute, al punto che risulta difficile ancora oggi stabilire il numero esatto delle imprese in portafoglio alla THA che sono state privatizzate. La Tavola 1 7


offre un bilancio sintetico, non definitivo ma abbastanza vicino alla realtà, delle cifre della privatizzaione delle sole imprese industriali. Spiccano alcuni dati significativi. Innanzitutto il numero relativamente basso di imprese vendute ad investitori stranieri, in prevalenza francesi, americani, inglesi e svizzeri. Pochi quelli di nazionalità italiana e pressoché inesistenti i giapponesi. È un dato comunque, preso nel suo complesso, che non sorprende molto, poiché è già da tempo che la Germania non è più un Paese privilegiato per quanto riguarda i flussi di invèstimento internazionali. Come si

nota, circa il 50% delle imprese risultanti dopo i numerosi scorpori e suddivisioni sono state privatizzate e un ulteriore 13% sono state restituite ai vecchi proprietari. Delle prime, quasi la metà rappresentano imprese cedute ai vecchi dirigenti (MB0), anche se all'inizio la THA non era favorevole a questo tipo di operazione, nel presupposto che questi nuovi proprietari non avrebbero potuto apportare nuovi capitali. In seguito, fu giocoforza modificare la strategia quando per mancanza di acquirenti molte imprese avrebbero dovuto semplicemente chiudere ed essere liquidate.

Tavola 1 - Bilancio delle attività della THA a131.5. 1994

A. Consistenza delle imprese I. Imprese privatizzare al 100% di cui — Managementbuyouts - a investitori stranieri Imprese privatizzate con partecipazione di minoranza della THA Imprese restituite a precedenti proprietari Imprese cedute ai Comuni Altre situazioni Imprese liquidate di cui - già liquidate - in corso di liquidazione Imprese ancora in possesso della THA

Numero

%

12.335 6.089 2.664 844 288 1.586 264 60 3.399 105 3.292 649

100 49.4 21.6 6.8 2.3 12.9 2.1 0.5 27.6 0.9 26.7 5.3

Fonte:J. Priewe, 1994, p23.

L'attività della Ti-LA ha comportato una severa perdita di posti di lavoro. Dati esatti e definitivi non sono disponibili e le numerose fonti consultate presentano cifre spesso discordanti. La ragione principale di questa incertezza risiede nel fatto che non è facile definire

esattamente il numero degli occupati nelle aziende della TI-LA per la grande varietà di tipologie che si incontrano. Vi sono gli occupati delle aziende privatizzate, vi sono occupati in aziende in via di liquidazione, vi sono posti di lavoro promessi e garantiti e posti di


lavoro promessi e garantiti da penalità ma non ancora esistenti, vi sono numerosi lavoratori che seguono corsi di riqualificazione, etc. L'idea che ci siamo fatti è che complessivamente ie operazioni della THA abbiano comportato una perdita di posti di lavoro pari a circa il 72 % della consistenza originaria di 4.1 milioni. Secondo la THA i posti di lavoro promessi ammonterebbero a circa 1.5 milioni: un po' pii delle metà di questi rappresenterebbero qualcosa di piìt di promesse, si tratterebbe cioè di impegni stabiliti contrattualmente e comportanti il pagamento di una penale in caso di mancato rispetto. Restano molti dub-

bi circa il fatto che la restante parte possa essere effettivamente realizzata, anche perché, come vedremo alla fine di questo lavoro, risulta difficile 'imporre' il rispetto degli impegni occupazionali ad aziende la cui situazione di mercato sia radicalmente mutata. Non meno difficoltosa risulta l'analisi degli aspetti finanziari dell'attività di privatizzazione della Ti-ij. Per tutti gli anni della sua esistenza i conti della TI-lA sono stati tenuti separati dal bilancio statale. Si può pertanto calcolare l'entità dei trasferimenti pubblici ai NL come risulta dalla seguente Tavola 2, prescindendo dalla attività della T.

Tavola 2— TrasJè rimenti pubblici alla ex Germania orientak (miliardi di DM)

Trasferimenti lordi Entrate dai nuovi Lnder Trasferimenti nerti

1991

1992

1993

1994

1995

139 33 106

152 37 115

168 39 129

181 42 139

200 45 155

Fonte: OCSE,1995.

Nel suo rapporto del 1994, dedicato all'analisi delle finanze della TI-lA, la Bundesbank conclude affermando che "alla fin dei conti il totale dei pagamenti associati alle operazioni della THA raggiungerà probabilmente un ordine di grandezza di circa 340 miliardi di marchi a fronte di entrate stimate inferiori a 70 miliardi di marchi" (Deutsche Bundesbank, 1994). Con

la chiusura della Ta&, il trasferimento al bilancio pubblico dei debiti da essa accumulati per circa 230 miliardi di DM comporterà un aggravio annuale di 17 miliardi di marchi, per cui ci vorrà 'un'intera generazione per ripagare questo debito'. Nella Tavola 3 riportiamo in dettaglio le entrate e le uscite della THA stimate alla metà del 1994.


Tavola 3-Entrate e uscite della THA 1990-94 (Miliardi di DM) 1990 (LI. semestre) Uscite totali di cui -spese peril corebusiness' interessi Entrate totali Fabbisogno finanziario netto -

Indebitamento totale

1991

1992

1993

1994

1990-94

5.9

27.6

41.2

46.6

49.8

171.1

1.5 4.3 1.6 4.3

6.8 10.4 7.7 19.9

27.0 13.3 11.6 29.6

34.1 9.9 8.5 38.1

46.4 3.0 12.3 37.5

125.8 40.9 41.7 129.4

14.1

39.4

106.8

168.3

230.0

Fonte J.Priewe, 1994 (i dati per il 94 SOflO Stimati)

Per quanto riguarda le uscite si nota il rilevante ammontare degli interessi (circa il 25% del totale) che riflettono il crescente indebitamento della Ti-LA. Per quanto riguarda le cosiddetta spese per il 'core business' si tratta di tutte quelle spese connesse con il processo di ristrutturazione e di risanamento delle imprese, ivi compresa l'assunzione dei loro debiti in essere al momento dell'unificazione e le spese collegate alla cosiddetta presentazione dei bilanci di apertura (i bilanci cioè che dovevano essere presentati da tutte le imprese dopo l'unificazione monetaria). Osserviamo inoltre la modestia delle entrate che sono in gran parte rappresentate dai proventi della privatizzazione. Alla luce dell'analisi svolta finora si tratta di un dato che non ci sorprende. Esso è inferiore a quello stimato dalla Bundesbank perché quest'ultima si riferisce a un ipotesi di consuntivo finale, cioè quando tutte le tessere del complesso mosaico della privatizzazione tedesca saranno andate a posto. Ma non vi è dubbio che i proventi della 10

privatizzazione sono stati largamente inferiori non solo alle stime esagerate fatte al momento dell'unificazione (si parlò allora di una cifra di 6-700 miliardi di DM) ma anche alla valutazione del portafoglio che appare nel bilancio di apertura della stessa TI-LA del i luglio 1990 (78.9 miliardi di DM). Ci sembra di poter confermare che gli scarsi proventi della privatizzazione trovano spiegazione, da un lato, in una difficile situazione di mercato: si trattava di un mercato in cui la forza stava dalla parte dell'acquirente che, a causa dell'abbondante offerta e della rapidità con cui si doveva muovere il venditore, poteva tranquillamente stare alla finestra e imporre le condizioni a lui pii favorevoli. Dall'altro lato essi sono la conseguenza della scelta operata dalla Ti-LA, una volta allentatosi il vincolo di bilancio, di incentivare gli acquirenti con prezzi di vendita bassi, forzando in taluni casi la privatizzazione di imprese con scarse prospettive di mercato attraverso una sorta di socializzazione delle perdite (anche future).


IL DOPO TREUHANDANSTALT

La chiusura della TI-LA con la fine del 1994 segna la fine formale del processo di privatizzazione, non quella sostanziale, perché hanno preso il suo posto una serie di enti e di società alle quali è affidato il compito di concludere un lavoro non ancora definitivamente completato. Va detto che era già stato deciso in precedenza che la privatizzazione dell'enorme patrimonio immobiliare della TI-LA avrebbe richiesto molto pit tempo di quello previsto per le imprese industriali. Una vendita forzata avrebbe semplicemente fatto crollare i prezzi. Sono state perciò utilizzate due società di diritto privato già esistenti alle quali è stato affidato il compito di liquidare progressivamente le attività immobiliari ad esse conferite. Si tratta, rispettivamente, della TLG (Treuhand Liegenschaftsgesellschafl) che è proprietaria dei terreni non agricoli e ancora non privatizzati e della BVVG (Bodenverwertungs-und- Verwaltungs Gmbh) che gestisce i terreni dati in affitto con contratti a lungo termine e i terreni agricoli non ancora privatizzati.

La BMGB (Beteilungs-Management-Gesellschaft Berlin mbFI) può essere considerata il diretto successore della TI-LA, nel senso che ad essa sono state conferite la proprietà e la gestione delle imprese che la Ti-LA non era riuscita a privatizzare in alcun modo o per mancanza assoluta di acquirenti o perché, come nel caso delle miniere e degli impianti nucleari la loro vendita presupponeva la risoluzione di difficilissimi problemi di ordine ambientale. Infine, la Bvs (Bundesanstaltjìir vereinigungsbedingte Sonderaufgaben) ha il compito pi1 delicato di monitorare e controllare che gli impegni assunti dagli investitori in termini di occupazione e di investimenti siano mantenuti. Si tratta, come si può comprendere di un capitolo molto delicato che richiede grande flessibilità, dal momento che il portafoglio' della Bvs comprende circa 50.000 contratti che devono essere sottoposti a controllo e la cui durata spesso copre molti anni. I problemi pii gravi sorgono evidentemente con quelle imprese che non riescono a rispettare gli impegni assunti. Si osservi ad esempio la seguente tavola:

Tavola 4— Contratti della Ti-ti sottoposti ad esame (1990-93) per il rispetto delle garanzie in termini di occupazione

Contratti esaminati Posti di lavoro garantiti —obbiettivoassunto —realizzati Differenza -

1990

1991

1992

1993

38

2.786

7.311

.9205

5217 5.360 +114

202.625 237.018 +34.393

438.816 515.110 +76.294

520.215 596.022 +75.807

Fonte:K.D. Schmidt, 1995.

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Il bilancio dei controlli relativi al periodo 1990-93 sembra dunque essere positivo e di buon auspicio per il futu ro. In realtà, il saldo positivo relativo al '93 che vede 75.807 posti di lavoro creati in più rispetto agli impegni assunti dagli investitori nasconde due gruppi di imprese. Il primo gruppo ha segnato un saldo positivo di 122.836 unità, mentre il secondo (composto da circa 1650 imprese) presenta un saldo negativo di ben 47.029 unità. In altre parole, nel 1993 1650 imprese che avevano un obbiettivo di occupazione contrattualmente definito con la Ti-LA pari a 135.359 posti di lavoro, ne hanno realizzati o mantenuti soltanto 88.330. Un simile risultato, sempre nel 1993, si riscontra per gli impegni in termini di investimento: su circa 2.500 casi esaminati, 2.000 risultavano avere superato l'obbiettivo, mentre in quasi 500 casi esso era stato mancato. Un'applicazione rigida del contratto da parte della TI-LA (allora) o della Bvs (ora), comminando le multe previste o trascinando in giudizio le imprese inadempienti, potrebbe avere un effetto opposto scoraggiando gli investitori e aggravando ulteriormente le difficoltà. È evidente, cioè, che la penalizzazione degli investitori che mancano gli obbiettivi rappresenta un deterrente per mantenere basso il numero dei trasgressori (e nei casi in cui vi sia un chiaro intento speculativo), ma non può funzionare se il loro numero è

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molto alto. In molti casi, ad esempio, molti investitori tedeschi e stranieri avevano sperato di ottenere un rapido accesso ai mercati dell'Europa orientale partecipando alla privatizzazione delle imprese tedesco-orientali che avevano forti legami commerciali con i Paesi comunisti. Il crollo di quei mercati, tuttavia, portò inevitabilmente al fallimento di una simile strategia, mettendo questi investitori nella impossibilità di rispettare i piani di occupazione e investimento contrattati. In questi casi la minaccia di sanzioni non può essere credibile: resta come alternativa o la chiusura dell'attività o la rinegoziazione degli accordi. La questione è, quindi, se un cambiamento sostanziale nelle circostanze che hanno portato l'investitore ad assumere certi impegni nei confronti della Ta& possa essere considerato un motivo valido per la rinegoziazione del contratto. Tale rinegoziazione può riferirsi sia al prezzo di vendita originario che alla penalizzazione, ma può comprendere anche una eventuale 'restituzione al mittente' dell'impresa stessa? L'atteggiamento della Bvs sembra essere improntato a una certa flessibilità circa i primi due punti (prezzo e impegni), ma assolutamente negativo quanto al terzo. A complicare il quadro vi è poi l'opinione di alcuni giuristi secondo i quali, in base alla legge tedesca, clausole contrattuali come gli impegni ad assumere un certo numero di persone o ad effettuare un determi-


nato ammontare di investimenti non sarebbero impugnabili in tribunale. Queste considerazioni rafforzano, dunque, la nostra ipotesi che il processo di privatizzazione nei nuovi Lànder sia tutt'altro che completato. Le scelte fatte dalla TI-LA, la sua strategia e il suo modo di operare hanno spostato in avanti nel tempo la realiz-

zazione di alcuni importanti obbiettivi, dalla realizzazione dei quali dipende in definitiva il nostro giudizio sull'intera operazione. La bontà del suo agire dipenderà in ultima analisi e, in gran parte, dalle performance delle imprese privatizzate e anche dalla gestione intelligente dei contratti di privatizzazione da parte della Bvs.

Bibliografia

tion - Lessons from Treuhandanstalt's approach, in «KielerArbeitspapiere», n. 696, 1995, Kiel.

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Nota All'origine la possibilità per la THA di accendere prestiti venne limitata a 7 miliardi di DM per il 1990 e a 10 miliardi per il 1991, ma già nel 1990 tali cifre vennero portate a 25 miliardi. Nel 1992 il limite di indebitamento per quell'anno e per i successivi venne ulteriormente ampliato a 30 miliardi di DM.

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Privatizzazioni in Francia

Marilena Saraceno * DALLA LEGGE DEL LUGLIO 1993 ALL'AVVENTO DI CHIARAC

Il processo di privatizzazione realizzato in Francia è frutto di una precisa volontà governativa che, senza dar vita a confuse situazioni di diritto, ne ha disciplinato inequivocabilmente ritmo, dimensioni e tempistica. Una precisazione di partenza si impone. L'esiguità dell'arco temporale occorso per la realizzazione delle privatizzazioni francesi (anni 1986-1988) e l'attuale dispiegarsi del recente piano deciso nel 1993 trovano origine e giustificazione nell'altalena politica che ha visto contrapporsi, dal 1986 ad oggi, governi di diversa colorazione e con posizioni antitetiche in ordine al confine tra pubblico e privato. L'avvento del governo di centro-destra capeggiato da Chirac nel 1986 segna, infatti, l'avvio del programma di privatizzazioni che subirà una battuta d'arresto con la vittoria riportata dai socialisti alle presidenziali del 1988; a conferma * Consulente Ernst and Young.

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dell'importanza giocata da ragioni di natura eminentemente politica nell'ambito del processo di privatizzazione francese, ecco originare il nuovo piano di privatizzazioni dalla schiacciante vittoria riportata dal centro-destra, nelle elezioni del marzo del 1993. La neo-presidenza di Chirac lascia ragionevolmente supporre per il futuro che soltanto un processo di progressiva saturazione dei mercati francese ed estero potrà indurre il governo a desistere dalla strada intrapresa. Due testi legislativi disciplinano il piano di privatizzazione deciso dal governo nel 1986: la legge del 2 luglio 1986 e quella del 6 agosto dello stesso anno che ne determina le modalità d'applicazione. La legge 2 luglio 1986 n.793 disponeva il trasferimento (al masimo entro il 10 marzo 1991), dal settore pubblico al settore privato, di nove imprese industriali, una del settore della comunicazione, tredici di assicurazione, trentotto banche e quattro compagnie finanziarie, che venivano distintamente indicate in allegato alla legge. Il governo, in ottemperanza alla delega


contenuta nella stessa legge, per realizzare il trasferimento di proprietà delle imprese menzionate, era chiamato a fissare: - le regole di valutazione delle imprese e di determinazione dei prezzi di offerta; - le modalità giuridiche e finanziarie delle cessioni e dei trasferimenti e le condizioni di pagamento; - le modifiche alle disposizioni che limitano l'acquisizione o la cedibilità di diritti sulle imprese in oggetto; - le condizioni di protezione degli interessi nazionali; - le condizioni di sviluppo di un azionariato popolare e dell'acquisto di quote societarie da parte del personale dipendente; - il regime fiscale applicabile a tali trasferimenti o cessioni. Quanto appena visto trovò definizione e compiutezza nelle legge 6 agosto 1986 n.912 che, per comodità espositiva, può essere analizzata studiando segnatamente i tre aspetti essenziali delle procedure legali della privatizzazione da essa contemplati: determinazione del prezzo di vendita delle imprese; ripartizione del capitale tra gli acquirenti; condizioni di pagamento.

Determinazione del prezzo di vendita delle imprese. La procedura di privatiz-

zazione ha inizio con la determinazione del valore dell'azienda oggetto di cessione, demandata ad una apposita Commissione costituita da 7 membri nominati per 5 anni per la loro expertise in materia economica e finanziaria, con la finalità precipua di garantire indipendenza dal potere pubblico ed equità nel procedimento di valutazione. I principi di valutazione utilizzabili da tale Commissione sono riconducibili ai metodi di cui ci si avvale comunemente nella prassi per le cessioni totali o parziali di società (valore di borsa dei titoli già eventualmente immessi sul mercato, composizione dell'attivo patrimoniale, prospettive di redditività future etc.). La Commissione può anche tener conto dei "pareri" formulati dalle società di consulenza, selezionate seguendo la procedura dell'invito da un comitato che sottopone le sue scelte al ministro dell'Economia, alle quali spetta in prima istanza esaminare le procedure contabili delle società ed effettuare un'analisi dei risultati d'esercizio. Si badi, però, che il valore determinato dalla Commissione per le privatizzazioni andrà a costituire soltanto la soglia minima dalla quale il ministro dell'Economia potrà partire stabilendo, con decreto, il prezzo dell'offerta, quello di cessione o il rapporto di cambio. Particolare attenzione desta la tecnica di privatizzazione relativa alla creazione di noccioli duri , che resta tutt og15


gi una delle più importanti peculiarità del processo di privatizzazione realizzato in Francia. Tale procedura risulta così articolata: determinazione da parte del ministro dell'Economia della percentuale del capitale dell'azienda oggetto di cessione da destinare ai membri del nucleo duro (in genere questa quota si colloca intorno al 18%-30%); ogni membro del nucleo duro otterrà una quota ridotta dallo 0,5% al 5% dei titoli e sarà soggetto al pagamento di un premio, ossia di un sovraprezzo compreso generalmente tra il 3% e l'8% rispetto al prezzo delle azioni offerte con l'Opv; impegno da parte dei membri del

nucleo duro, attraverso un contratto privato con lo Stato francese, a non rivendere i loro titoli prima di due anni e nei tre anni successivi e, in caso di vendita, ad ottenere l'approvazione del Consiglio di Amministrazione della società privatizzata che quindi ha un diritto di veto sui nomi dei nuovi soci; in seguito all'avviso dato alla stampa finanziaria della percentuale destinata agli azionisti del nucleo duro, gli interessati all acquisto nell avanzare le proprie offerte dovranno illustrare le loro intenzioni circa lo sviluppo futuro dell'impresa e la loro scelta risulterà essere condizionata dalle garanzie fornite.

Schema delle modalità operative utilizzate per trasmettere le propri età delle imprese dallo Stato aiprivati

Tecniche finanziarie di privatizzazione sul mercato

Tecniche finanziarie di privatizzazione fuori mercato

Offerta Pubblica di Vendita (Opv)

Creazione di gruppi stabili di controllo "Noyaux durs"

Offerta Pubblica di Scambio'

"Ripresa" dell'impresa da parte dei dipendenti (MB0)

Aumento del capitale

Acquisto delle azioni da parte dei salariati e dei piccoli azionisti

Ripartizione del capitale tra gli acquirenti. La legge 6 agosto '86 nel disciplinare la ripartizione del capitale tra gli acquirenti, stabilisce che, qualora si ricorra al mercato, per ogni 16

operazione di privatizzazione il 10% delle azioni offerte deve essere riservato ai dipendenti o ai pensionati della società; non più del 20% ad investitori esteri; il restante 70% deve essere


assegnato a persone fisiche o giuridiche francesi o residenti in Francia. La determinazione puntuale di tali percentuali da parte del legislatore origina dalla volontà di dare impulso, attraverso il processo di privatizzazione, all'asfittico mercato borsistico francese, consentendo così una rivitalizzazione che soltanto una politica di sostegno allo sviluppo dell'azionariato popolare avrebbe potuto assicurare.

Proventi netti delle società privatizz.ate. Operazioni Saint-Gobain Paribas Sogenal

Proventi netti

Altre operazioni

8393,7 12844,4 630,2 403,7 411,7 2187,4 8570,2 2770,3 17242,3 4386,4 14862,5 968,5 6791,2 1229,6

Totale

81692,1

BTP BIMP

CcF e CFPB CGE

Havas Société Gnéra1e TF1

Suez Matra CNCA

Fonte: Direzione del Tesoro francese Cessione della Banque Parisienne de Crédit, del Crdit du Nord e della Banca Sofinco.

Condizioni di pagamento. Al fine di incoraggiare l'azionariato popolare gli articoli 13 e 14 della legge 6 agosto '86 sanciscono che:

- i piccoli azionisti, nel limite di 10 titoli, saranno serviti in maniera prioritaria; - potranno loro essere accordate dilazioni di pagamento per un massimo di tre anni; - potranno beneficiare di una azione gratuita ogni 10 azioni acquistate direttamente dallo Stato e conservate per almeno 18 mesi. Quanto ai titoli destinati ai dipendenti delle società privatizzate, la disciplina giuridica prevede condizioni preferenziali d'acquisto e cioè: dilazione di pagamento che non può eccedere i tre anni (i titoli così acquistati non possono essere ceduti prima del loro regolamento integrale); sconto sul prezzo (che comunque non può eccedere il 20% del prezzo d'offerta al pubblico); attribuzione di azioni gratuite.

Pri vatizzazioni del 1993 Il nuovo piano di privatizzazione disciplinato dalla' legge 21luglio 1993 n.923 prevede la vendita di 21 megacorporations suddivise in due paquets del primo fanno parte Agf, Gan, Uap, BuIl, Thompson, la Banca Hervet, il Crédit Lyonnais, Bnp, Péchiney, Rhone-Poulenc, E!f Aquitaine e la Société Marseillaise de Crédit; del secondo Renault, Aérospatiale, Air France, la Selta, la Caisse Centrale des Réassurances, la Caisse Nationale de Prvoiance, la Compagnie gnérale maritime, la Snecma e Usinor-Sacilor. 17


L'importanza economica e finanziaria delle 21 imprese privatizzabili in base alla legge 923 è considerevole, se si pensa al fatto che complessivamente impiegano circa un milione di dipendenti e realizzano un volume di affari dell'ordine di 1.200 miliardi di franchi. La legge 923, dunque, da un lato amplia il numero di imprese trasferibili al settore privato rispetto a quelle previste nel 1986 che, per le ragioni politiche già viste, non erano state ancora cedute al mercato, dall'altro apporta modifiche alla preesistente disciplina governativa dettate dall'esperienza, dall'evoluzione dei mercati finanziari e dal mutato contesto economico. Il ministro dell'Economia, oggi come ieri, è responsabile di tutte le decisioni concernenti la privatizzazione di un'impresa. Tuttavia il legislatore, nel tentativo di assicurare maggiore trasparenza nell'utizzo di tale potere 2, ha ampliato i poteri della Commissione per la privatizzazione che, in aggiunta a quanto previsto dalle passate disposizioni normative, è chiamata ad esprimersi in merito alla scelta dei membri del nocciolo duro effettuata dal ministro dell'Economia, in modo da garantire l'imparzialità della decisione; più in generale, in ogni caso di privatizzazione di imprese pubbliche mediante trattativa privata, la Commissione emette un parere sulla identità degli acquirenti e sulle condizioni di cessione (in particolare il prezzo) 18

che legano il ministro. La legge del 1993 prevede, inoltre, che la Commissione per la privatizzazione sia competente anche nel caso di cessione di filiali di imprese pubbliche direttamente detenute dallo Stato, purché queste impieghino più di 2500 persone ed abbiano un volume di affari superiore ai 2,5 miliardi di franchi. Protezione degli interessi nazionali. La legge del 19 luglio 1993 prevede, come quella del 6 agosto 1986, principalmente tre meccanismi per garantire la protezione degli interessi nazionali: - possibilità di trasformare un'azione ordinaria detenuta dallo Stato in un'action spécifique 3, ossia in un'azione privilegiata che gode di specifici diritti con la preventiva modificazione dello statuto sociale prima dell'inizio dell'operazione di privatizzazione. Laction spécifique attribuisce al ministro dell'Economia il diritto di esprimere il proprio gradimento sulla detenzione delle partecipazioni eccedenti il 10%, siano esse nelle mani di un solo soggetto o di più persone agenti congiuntamente. Laction spécifique, rispondente alla finalità di stabilizzare gli assetti azionari delle privatizzate e proteggerle da scalate straniere, può essere trasformata, in qualsiasi momento, in azione ordinaria con decreto ministeriale e tale trasformazione diventa automatica trascorsi 5 anni dalla sua istituzione; - approvazione del ministro dell'Eco-


nomia delle cessioni ad investitori stranieri di partecipazioni eccedenti il 5%, in imprese operanti nei settori della sanità, della sicurezza e della difesa; - possibilità per gli investitori stranieri di acquistare al massimo una percentuale del 20% del capitale dell'impresa privatizzanda. A riguardo, va però sottolineato che tale disposizione è stata notevolmente temperata dalla legge del luglio '93. Difatti tale limite riguarda i soli investitori stranieri non appartenenti alla Comunità Economica Europea e va rispettato unicamente al momento del collocamento sul mercato dei titoli e separatamente per ogni eventuale tranche ceduta successivamente; restano quindi escluse le cessioni non contemplate nelle precedenti ipotesi. La legge ha, inoltre, reso possibile che un decreto, preso dopo avviso conforme della Commissione per la privatizzazione, possa prevedere che le cessioni di titoli effettuate in vista della conclusione di un accordo finanziario, commerciale o industriale tra un investitore non appartenente alla Comunità Economica Europea e una delle società direttamente controllate dallo Stato, non rispettino il limite del 20%. Gli investitori stranieri possono, inoltre, in base alla recente normativa entrare a far parte del nucleo stabile di azionisti, e questo è sicuramente un fatto abbastanza nuovo. Difatti la scelta, effettuata in occasione della prima ondata di privatizzazio-

ni, dei membri del nucleo duro sembra essere stata dettata da motivazioni di natura prettamente nazionalistica per scongiurare il pericolo di gettare i grandi colossi dell'industria francese alla mercè dei raiders stranieri. La selezione della Fiat e del Crédit Suisse come membri del nocciolo duro creato per la privatizzazione di RhonePoulenc, quella della Dresdner Bank e della Generai Electric per la privatizzazione della BNP (per citarne alcune) testimoniano l'avvenuta inversione di tendenza.

Innovazioni tecniche. Le innovazioni tecniche previste dalla legge 923 del 1993 possono così riassumersi: - Collocamento di titoli presso gli investitori istituzionali: la precedente disciplina normativa prevedeva per gli investitori istituzionali la possibilità di partecipare alle offerte pubbliche di vendita, in occasione delle quali i loro ordini di acquisto potevano essere ridotti in maniera significativa riconoscendosi alle persone fisiche un diritto di priorità. Oggi, invece, è prevista l'offerta di titoli nell'ambito di un collocamento a sé stante, concomitante all'offerta pubblica di vendita, garantito da un sindacato bancario. - Préplacemént: il precollocamento si sostanzia in una fase di sensibilizzazione degli investitori (persone fisiche e istituzionali) e di raccolta delle loro intenzioni di sottoscrizione. Si badi che in tale fase vengono fornite le ca19


ratteristiche generali dell'operazione ma non vi è alcuna indicazione sul prezzo delle azioni cedute. - Fissazione del prezzo dei titoli ceduti agli investitori istituzionali francesi ed esteri mediante la procedura di "costruzione dei libro degli ordini": agli investitori viene chiesto di indicare il prezzo al quale sono disposti a sottoscrivere la quantità di azioni domandate, il prezzo loro praticato risul-

terà dal confronto tra prezzo dell'Opv. e le domande degli investitori. - la "Greenshoe": utilizzata per la privatizzazione d'Elf e dell'UAP, la greenshoe è un'opzione di acquisto accordata al sindacato di collocamento presso gli investitori istituzionali, in vista di coprire, al prezzo di offerta, delle sovrallocazioni praticate per stabilizzare il corso delle azioni a collocamento avvenuto.

Le tecniche di privatizzazione utilizzate

Società

Tecnica utilizzata

Prezzo dell'OPV

Prezzo pagato dagli investitori istituzionali

BNP

Prezzo fisso Libro d'ordini Libro d'ordini Libro d'ordini

240 franchi 135 franchi 385 franchi 152 franchi

240 franchi 146 franchi 403 franchi 155 franchi

Rhone-Poulenc Elf Aquitaine UAP

Differenza in

%

O 8 4,7 1,97

Fontr. Direzione del Tesoro francese

Privatizzazioni effettuate in base alla nuova disciplina giuridica. Nel corso del secondo semestre del 1993 il governo ha privatizzato due imprese di primaria importanza: la BNP (nell'ottobre 1993) la pit grande banca francese con 4,5 milioni di clienti e Rhone-Poulenc (novembre 1993) il primo gruppo chimico e farmaceutico francese nonché l'ottavo gruppo chimico mondiale. Il primo semestre del 1994 è stato caratterizzato dalle privatizzazioni della Elf Aquitaine (febbraio 1994), prima impresa industriale 20

francese e gruppo petrolifero di dimensioni mondiali, e dell'UAP (aprile 1994), primo gruppo assicurativo francese e secondo europeo. Queste operazioni hanno suscitato l'interesse di tutte le categorie degli investitori. Lofferta pubblica di vendita della BNP ha attirato 2,8 milioni di piccoli risparmiatori a cui è stato attribuito il 28,5% del capitale; il numero dei sottoscrittori a seguito dell'Opv per Rhone-Pou!enc, E!f Aquitaine e l'UAP è stato pari rispettivamente a 2,9 milioni, 3 milioni e 1,9 milioni. In tutti i


casi la domanda è stata di gran lunga superiore all'offerta (tanto che il governo ha dovuto ridurre il quantitativo di titoli destinato agli investitori istituzionali e al nocciolo duro) a testimonianza della volontà delle famiglie di indirizzare i propri risparmi verso forme di investimento a più lunga durata. Anche i dipendenti delle società privatizzate hanno aderito massivamente all'offerta loro destinata: il 90% dei dipendenti della BNP, l'83% dei dipendenti diRhone-Poulenc, l'80% dei dipendenti della Elf Aquitaine e il 78% di quelli dell'UAP sono diventati azionisti delle loro imprese. Allo stesso modo la domanda di titoli da parte degli investitori istituzionali francesi ed esteri è stata considerevole. Questo successo, imputabile innanzitutto alla qualità dei titoli proposti, è riconducibile anche alla costituzione di un gruppo di azionisti stabile e alla presenza di azionisti di rife-

rimento che riducono i rischi provenienti da una eccessiva dispersione del capitale e garantiscono una continuità alla strategia dell'impresa negli anni successivi alla sua privatizzazione. Per BNP circa il 15% del capitale è stato attribuito ad un gruppo di azionisti stabile i cui membri hanno ricevuto una quota compresa tra lo 0,5% e il 2% del capitale; se si considera il 15% detenuto dall'UAP, l'azionariato stabile rappresenta il 30% del capitale. L'azionariato stabile rappresenta il 24% del capitale di Rhone-Poulenc ed arriva al 23% del capitale della Elf se si considera la partecipazione conservata in tale società dallo Stato. Quanto all'UAP il suo capitale a seguito della privatizzazione è detenuto per un 26,7% da azionisti di riferimento (BNP, Suez, Winterthur) e per un 10,8% da un gruppo di azionisti stabile costituito in occasione della privatizzazione.

Le entrare per lo Stato Società privatizzate

BNP Rhone-Po,1enc Elf UAP Totale

Anno di privatizzazione

1993 1993 1994 1994

Entrate nette per Io Stato (MdF)* 27,9 13,5 34,9 18,7 94,4

Fonte Direzione del Tesoro francese * Cifre suscettibili di aggiustamenti per gli ulteriori versamenti dovuti dai dipendenti delle società privatizzate.

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Il piano di privatizzazioni annunciato nel 1993 dal primo ministro Balladur si impose all'attenzione degli osservatori risultando, di gran lunga, più ambizioso rispetto a quello del 1986, visto il numero di società coinvolte e l'importanza di queste nel panorama economico francese. Apparve subito chiaro che eventuali variazioni rispetto al passato sarebbero state imputabili non tanto all'effettiva volontà di cambiamento di chi le privatizzazioni aveva deciso (del resto, la parola d'ordine era riprendere l'opera interrotta dall'ascesa al potere delgoverno socialista nel 1988) quanto, piuttosto, al diverso scenario in cui queste si sarebbero collocate. Un incremento dell'azionariato popolare, ad esempio, sembrava meno perseguibile rispetto al passato, stante la considerazione che il mercato borsistico francese non sarebbe stato in grado di assorbire i nuovi titoli che, nell'ordine di decine di miliardi di franchi, si sarebbero riversati su di esso. Le privatizzazioni della BNP, Rhone-Poulenc, UAP, Elf Aquitaine e quelle della Banque Hervet e della SEITA, dimostrano, invece, che il mercato francese è ancora fortemente ricettivo (ricordiamo, a tal proposito, che la domanda è stata sempre superiore all'offerta) a conferma che l'appetibilità dei titoli offerti (che pure per le privatizzazioni passate ha giocato un ruolo centrale) può essere una sicura garanzia della riuscita di un programma di privatizzazioni. Appare

pertanto necessario il preliminare risanamento delle imprese che si intende collocare sul mercato: e quanto dovrebbe essere fatto con l'Mrospatiale, Air France, BuI!, Crédit Lyonnais, Société Marseillaise de Crédit e Giu'4. Le innovazioni tecniche, apportate dal legislatore francese alla precedente disciplina normativa, indispensabili viste le mutate condizioni del contesto economico, mostrano come il governo sia riuscito a scongiurare qualsiasi pericolo di approssimazione nella implementazione del piano di privatizzazione varato nel 1993: i risultati innanzi esaminati confortano quanto appena detto. All'inizio di questo lavoro era stato ipotizzato che la vittoria riportata alle presidenziali da Chirac avrebbe dato nuovo impulso alle privatizzazioni francesi. A giugno 1995 è stato dato l'annuncio della privatizzazione dell'Usinor Sacilor (operazione da sei mila miliardi) che dà l'avvio alla prima privatizzazione della presidenza Chirac. Mentre Balladur nel 1993 annunciava in maniera accattivante che i miliardi raccolti attraverso la vendita sarebbero stati investiti in progetti tendenti ad alleggerire il peso della disoccupazione, sulla base dell'assunto che lo Stato debba essere più un garante della vita collettiva che un attore della vita economica, Chirac, rispolverando la logica che aveva informato le privatizzazioni del 1986, annuncia oggi, in maniera molto meno accattivante, che


i proventi saranno destinati alla riduzione del debito pubblico. Non sarà certo questo a compromettere il buon esito delle future privatizzazioni, al di là dell'asserzione di questo o di quell'obiettivo: sarà la bontà dei titoli immessi sul mercato a decretarne, ancora una volta, il successo.

Francesca Pierantozzi* RENAULT, NUOVA "BASTIGLIA"?

"È necessario dar prova di realismo. Inutile farsi illusioni: le privatizzazioni dal '95 porteranno nelle casse dello Stato, se va bene, 40 miliardi di franchi, e certamente non 55 come previsto". Anche 1' ultraliberalista ministro dell'Economia e delle Finanze Alain Medelin, congedato lo scorso agosto dal primo Ministro Alain Juppé per "eccesso di zelo", era stato costretto ad arrenaersi ali eviaenza: i inizio aen era Chirac e la fine di 14 anni di socialismo all'Eliseo non hanno giovato alle quotazioni dei tesori pubblici messi all'asta dallo Stato francese. Anche perché nella cassaforte dello Stato restano ben poche pietre preziose. Dopo le "gemme" Elf Aquitaine e Rhone Poulenc, messe in vendita dall'ex primo ministro Edouard Balladur (e che comunque non hanno fatto la gioia degli acquirenti), a Juppè sono rimasti I

* Giornalista.

II

I

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I

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da piazzare i pezzi più difficili: la Renault, con i sindacati pronti a dare battaglia, e il gruppo Pechiney, numero tre mondiale dell'alluminio in un momento in cui il mercato dell'alluminio è ai minimi storici. La "stagione d'oro" delle privatizzazioni sembra essere soltanto un bel ricordo (per i balladuriani) e un incubo per il nuovo governo neogollista. Il futuro si annuncia piuttosto burrascoso. Venti poco favorevoli soffiano sicuramente dalla Borsa di Parigi, precipitata ai livelli di sei anni fa. Tra le società privatizzate con la "seconda ondata" di liberalismo, cominciata nel 1993, soltanto la Seita ha riservato qualche soddisfazione ai nuovi azionisti, con un aumento del 38,7 per cento nei primi otto mesi, mentre le altre, dalla Bnp (Banque Nationale de Paris) alla Uap (Union des Assurances de Paris) hanno collezionato soltanto voti negativi, con perdite delle quotazioni in Borsa fino al 27 per cento. Contrariamente a quanto avvenuto per le tasche degli azionisti, le casse dello Stato hanno comunque beneficiato delle privatizzazioni balladuriane. Stanchi di essere "imbrogliati" dai loro bancari di fiducia, i privati cittadini non sembrano intenzionati a precipitarsi ancora all'asta delle imprese pubbliche. Come confermano gli esperti dell'Observatoire des Privatisations. "L'entusiasmo delle prime privatizzazioni - si legge in un recente rapporto - era legato contemporanea23


mente ad un interesse personale (la speranza di un guadagno a breve termine) e ad un interesse civico (la partecipazione ad un programma di rilancio economico a favore dell'occupazione)". Ora entrambe le attese sono andate deluse e i cittadini-azionisti hanno visto i loro risparmi finire direttamente nel pozzo del disavanzo pubblico. Finiti i tempi dei duelli ideologici e degli ostracismi (già l'ex presidente Franois Mitterand aveva coniato il nuovo concetto economico "né nazionalizzazioni né privatizzazioni"), a pesare sulla de-statalizzazione delle imprese pubbliche sono ora soltanto le dure leggi del mercato. Ecco spiegata la nuova linea più morbida e l'abbandono di una marcia a tappe forzate. Occorre innanzitutto del tempo per rimettere in sesto le imprese da portare sul mercato. Dopo gli sforzi (e i finanziamenti) spesi per migliorare il look della Pechiney, non minore impegno occorrerà per tagliare il cordone ombelicale che lega lo Stato alla Renault, il cui capitale è in mano all'azionista pubblico ancora per 50,1 per cento dopo la "mezza privatizzazione" attuata da Balladur nell'ottobre del 1994. Nonostante un bilancio sorprendentemente in attivo e nonostante la direzione scalpiti per liberarsi quanto prima dallo Stato-padrone, il governo procede con estrema prudenza nell'aprire i battenti dell'ultima e leggendaria "fortezza operaia" del Pae24

se. Negli ultimi tempi anche i tradizionalmente fedeli "colletti bianchi" hanno cominciato ad organizzare una fronda contro la direzione, mentre nel maggio scorso, in occasione dell'ultima movimentata assemblea generale degli azionisti (il 68 per cento dei dipendenti ha sottoscritto l'offerta dei titoli) è venuto alla luce un malcontento serpeggiante all'interno dell'azienda. Una rivolta sindacale alla Renault è l'evento meno auspicabile per il tandem Juppé-Chirac, che fin dall'inizio ha dichiarato di voler ricucire la frattura sociale che spezza in due la Francia, lottando contro disoccupazione ed esclusione. E non è tutto. La cautela e il temporeggiamento sono l'obbligo anche per il ministro dell'Economia e delle Finanze Jean Arthuis, successore di Medelin, che potrebbe prestare il fianco alle accuse di svendere il patrimonio nazionale, critiche già rivolte dall'opposizione di sinistra a Balladur. Vendere a quotazioni inferiori a quelle fissate dall'ex primo ministro è impensabile dal punto di vista sociale e politico, vendere allo stesso prezzo è d'altra parte impossibile per evidenti ragioni borsistico-finanziarie, visto che i primi hanno sborsato 165 franchi (circa 52.000 lire) per azioni che oggi navigano intorno ai 140 (circa 45.000). Un'altra strada potrebbe essere battuta per "aprire il capitale " di France Télécom parola privatizzazione è per l'operatore pubblico delle telecomuni-


cazioni ancora tabù). Gli esperti del ministro delle Finanze stanno studiando le modalità di una "privatizzazione dal basso" che consisterebbe nel mettere all'asta innumerevoli filiali a statuto privato di cui France Télécom detiene la maggioranza assoluta - se non il cento per cento - del capitale. In questo modo resterebbe di proprietà dello Stato il servizio pubblico (telefonia ordinaria) mentre passerebbero in mano ai privati i servizi "a forte valore aggiunto , ovvero il settore multimedia e i servizi via cavo. La privatizzazione dei servizi è diventato argomento di scottante attualità (e non solo economica) con l'esplosione della tangentopoli transalpina. Gli affaires finiti in mano ai giudici nei primi mesi di quest'anno - ha scritto "L'Expasion , settimanale di politica economica - "hanno segnato la fine di un'epoca del liberalismo trionfale e della privatizzazione a tutta birra dei servizi pubblici municipali". E pensare che nel 1986, alla vigilia delle legislative che avrebbero ridato la maggioranza ai neogollisti, l'allora sindaco di Parigi, Jacques Chirac, prometteva con entusiasmo che "quello che abbiamo fatto per Parigi, la privatizzazione di una parte dei servizi municipali, lo faremo per la Francia". Ma erano altri tempi; oggi l'euforia ha lasciato il posto alla cautela. Un filone di " tangentopoli" francese è stato aperto, infatti, proprio sulle concessioni di servizi pubblici (distribuzione dell'acqua, trasporti,

cultura) e società private. Una lunga lista di sindaci —guidata dall'ex primo cittadino di Grenoble ed ex ministro della Comunicazione, Alain Carigno - è in attesa di giudizio con l'accusa di corruzione, per aver ceduto a condizioni particolarmente vantaggiose la gestione dei servizi pubblici a "giganti" dell'economia francese come Générale des eaux, Lyonnaise, Bouygues. Nonostante gli affari di corruzione abbiano un po' offuscato l'immagine delle privatizzazioni e la lotta contro la disoccupazione indebolito il credo liberista, il governo Juppé non intende comunque sconfessare l'operato di Balladur. Al termine di un dibattito infuocato e negoziati estenuanti, e contro tutte le previsioni di Borsa, lo statuto della Pechiney è stato alla fine modificato e il gruppo dell'alluminio messo in vendita. Stessa sorte toccherà alla Renault. Il presidente Chirac è ancora convinto di poter tracciare una "terza via" tra l'economia "lassista" alla Mitterand e quella "robespierriana" alla Balladur. L'ideale perseguito dai suoi consiglieri economici è una politica fantasiosamente eclettica: interventista e assistenzialista per lottare contro la disoccupazione, fermamente liberista nel proseguire le privatizzazioni, rigorosa e senza pietà per risanare il bilancio. Impossibile? Il presidente Chirac è ottimista: "In fondo - ha detto in un'intervista televisiva - sono appena agli inizi, ho ancora diversi anni davanti a me 25


Delle azioni dell'impresa da privatizzare contro titoli di partecipazione e certificati di investimento che la società privatizzanda avesse eventualmente già immesso sul mercato per rinnovare i fondi propri lasciando, nel contempo, immutata la compagine societaria. Tali valori mobiliari, infatti, si caratterizzavano per non godere del diritto di voto ma per l'attribuire, in sede di ripartizione degli utili, un dividendo prioritario. 2 La scelta dei membri del nucleo duro efFettuata con giudizio insindacabile dal ministro dell'Economia,

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bersaglio di numerose polemiche per l'uso fortemente politicizzato che ne è stato fatto, valga come esempio. 3 È quanto è stato fatto con la privatizzazione di Elf Aquitaine. Il governo, infatti, vista l'importanza dell'impresa per l'approvvigionamento energetico del Paese, ha istituito con decreto del 13 dicembre 1993 un'azione specifica al fine di proteggere gli interessi nazionali. A riguardo va sottolineato che il governo per le privatizzazioni di Havas e Matta (società privatizzate in base alla disciplina giuridica dell'86) aveva già fatto ricorso a tale strumento.


questeistRuzioni

L'acqua fra le "pubbliche utilità"

L'acqua è - nelle convinzioni e nell'immaginario dei più - un bene libero come l'aria. Ma l'acqua non è un bene libero, poiché può venir meno. Comunque, è sempre costoso perché per fruirne c'è bisogno di importanti infrastrutture. Quelle esistenti sono obsolete: noto è il drammatico problema delle perdite degli acquedotti così come quello dell'inquinamento. Da tempo, in Italia, ci si prepara ad una diversa gestione del sistema idrico. La definitiva e completa messa a punto di una politica pubblica in materia, dopo la "legge Galli' non dovrebbe tardare. Tenendo anche conto delle esperienze degli altri, non sempre positive in tutti gli aspetti, come testimoniano le recenti polemiche in Gran Bretagna.

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La questione acqua di Paola Fabbri *

La riorganizzazione del servizio idrico in Italia va inquadrata nella più ampia esigenza di riorganizzazione dei servizi pubblici, necessaria sia per garantire ai cittadini livelli di produttività e qualità adeguati al livello economico e sociale del nostro Paese, sia per l'importanza strategica che i servizi hanno per il funzionamento e l'efficienza dell'intero sistema economico. Tale necessità è divenuta negli ultimi anni più pressante, in Italia come in tutti i Paesi avanzati, per l'importanza che l'acqua ha non soltanto per gli usi civili, quindi per la vita quotidiana di ogni individuo, ma anche per lo svolgimento dell'attività produttiva del settore agricolo ed industriale. A ciò si aggiunge l'esigenza di salvaguardare il patrimonio idrico attraverso un uso più razionale, l'eliminazione degli sprechi e la tutela dai sempre più diffusi fenomeni di inquinamento di questa risorsa naturale e scarsa. Quanto pressanti e non più rinviabili siano gli interventi di riorganizzazione in materia delle risorse idriche appare evidente ogniqualvolta si torna a par* Borsista presso il

CERIS

di Torino.

lare di "emergenza idrica", acuita da prolungati periodi di siccità, o quando, al contrario, precipitazioni piovose al disopra del normale provocano alluvioni o, ancora, quando le cronache portano alla ribalta fenomeni di inquinamento dei corpi idrici. Tali problemi vanno imputati, da una parte, alla mancanza di una regolamentazione organica, dall'altra, alle modalità gestionali del servizio. La tutela, la pianificazione e l'organizzazione del patrimonio idrico sono state finora affidate ad una serie di strumenti non coordinati tra loro, in molti casi peraltro rimasti inattuati e che spesso hanno implicato una sovrapposizione irrazionale di ruoli e responsabilità tra Stato, Regioni, Province e Comuni. La "Legge Galli", approvata all'inizio del '94, rappresenta perciò un elemento di estrema importanza nell'ambito della riorganizzazione in materia di risorse idriche. 1iter estremamente travagliato, che ne ha caratterizzato la discussione Parlamentare, indica la difficoltà di dare una regolazione unitaria ad una materia così complessa che coinvolge 29


aspetti diversi: politico-economici, istituzionali, amministrativi e gestionali, economici e sociali, ambientali e culturali, che fanno capo alla risorsa acqua. I pilastri su cui poggia il provvedimento sono la gestione integrata del ciclo, la definizione di ambiti ottimali, con cui si intende superare la frammentarietà, gestionale e territoriale, che caratterizza l'industria idrica nel nostro Paese, la realizzazione di una gestione industriale del settore. LA GESTIONE DEL SERVIZIO IDRICO IN ITALIA

Il servizio idrico in Italia è caratterizzato da un'ampia frammentazione. Innanzitutto, le fasi del ciclo dell'acqua (captazione, adduzione, potabilizzazione, distribuzione, allontanamento e depurazione delle acque reflue e ritorno al loro ricettore naturale) sono affidate a gestioni diverse. In secondo luogo, la frammentazione è riscontrabile nella fornitura del servizio sul territorio nazionale: circa 5500 gestioni per l'acqua potabile, 7000 per le fognature e 2000 per i servizi di depurazione. La rete idrica risulta modellata sulla dimensione territoriale dei Comuni, cui per legge è affidato il servizio. La tendenza prevalente è stata la costruzione, da parte di ogni singolo ente locale, del proprio acquedotto per l'utilizzazione interna del territorio 30

comunale; così i confini amministrativi hanno costituito un vincolo per lo sviluppo di impianti di grandi dimensioni. Secondo i dati ISTAT relativi al 1987, il 93.3% degli impianti ha diffusione comunale, il 5.9% raggiunge ambiti intercomunali, in appena lo 0.6% e lo 0.2% dei casi si ha rispettivamente una dimensione interprovinciale e interregionale. Emerge inoltre che l'83.3% degli acquedotti è gestito dai Comuni, il 9.4% da aziende consortili ed il 4% da enti di diritto pubblico mentre le imprese private svolgono un ruolo marginale (1.4%). Se, però, si passa a guardare i dati relativi alla quantità di acqua erogata, si nota che i comuni pesano per appena il 34.4% mentre le aziende speciali e quelle consortili, che insieme gestiscono il 10.4% degli impianti, hanno fornito il 42.5% della erogazione complessiva (rispettivamente il 24% e il 18.5%). Soltanto una bassa percentuale, 2.2%, dei Comuni italiani, corrispondente allo 0.8% della popolazione, risulta priva di acquedotto. Questo dato, in verità, non è rappresentativo della qualità del servizio di distribuzione: se si considera la disponibilità di acqua a favore degli utenti, i dati indicano che il 35% della popolazione denuncia una discontinuità, e quindi insufficienza, nella erogazione di acqua potabile nel corso dell'anno. Un altro elemento fortemente indica-


tivo dell'inefficienza del servizio idrico è senza dubbio il volume delle perdite il 27% dell'acqua addotta, oltre 2 miliardi di metri cubi annui, in grado di soddisfare il fabbisogno idrico di 15 milioni di abitanti, va dispersa a causa degli sfori degli impianti di raccolta e delle perdite delle condotte di adduzione e distribuzione; ciò testimonia uno stato di degrado delle infrastrutture causate da una carenza di controlli, manutenzione e investimenti. Se si passa a guardare la qualità dell'acqua distribuita, gli standard sono certamente bassi; la maggioranza degli enti è sprovvista di un laboratorio di controllo chimico-batteriologico e dei 13.503 impianti di acquedotto solamente 4.489 sono forniti di impianti di potabilizzazione. Passando poi alla fase di raccolta, i dati non sono certo più confortanti: il 15% della popolazione non è collegato alla rete fognaria; più del 50% dei Comuni, pari al 40% della popolazione, non è servito da alcun impianto di depurazione, mentre dati precisi mancano sul numero di impianti attivi e soprattutto efficienti. LA GESTIONE UNITARIA DEL SERVIZIO IDRICO E LE ECONOMIE DI SCALA

L'ampia frammentazione che in Italia caratterizza il servizio idrico ha difatto impedito che, tenendo conto della dotazione e dei bisogni dell'intero territorio nazionale, si svolgesse un'azione

di coordinamento, pianificazione e razionalizzazione necessaria per tutelare e ottimizzare lo sfruttamento del patrimonio idrogeologico. La gestione separata delle varie fasi del ciclo e la dimensione dei singoli enti non consentono una gestione con caratteristiche di efficienza, efficacia ed economicità. La tutela, il razionale utilizzo, il riuso ed il riciclo dell'acqua, che è necessario realizzare nella consapevolezza dell'importanza vitale e limitatezza della risorsa idrica, possono essere garantiti attribuendo ad un unico gestore le diverse fasi che caratterizzano il ciclo idrico. Ciò permette, da una parte, un più valido coordinamento degli intenti, dall'altra, la possibilità di ottenere una riduzione dei costi eliminando funzioni doppie, attraverso l'accorpamento di sedi ed uffici attualmente separati, l'utilizzazione delle stesse squadre di tecnici addette alla manutenzione e di un unico laboratorio per tutte le fasi. Per l'organizzazione aziendale di un'impresa che opera nel settore idrico, il fattore ambientale, cioè geografico e territoriale, assume un ruolo determinante. L'ambiente oro-idrografico influisce sul processo produttivo in ragione della localizzazione e consistenza delle fonti cui attingere, superficiali o sotterranee, più o meno vicine alle aree da servire, con caratteristiche di composizione chimica che rendono o me31


no necessario il ricorso a tecniche di potabilizzazione, di riduzione dei sapori e degli odori. Inoltre la configurazione (pianeggiante, collinosa, montuosa) del territorio, insieme con la differenza di quota altimetrica delle fonti o dei serbatoi rispetto a quella delle abitazioni, determinano l'entità del ricorso al sollevamento dell'acqua nelle reti di distribuzione. Al fattore geografico sono inoltre legate la distribuzione, la densità della popolazione e la variabilità nei periodi dell'anno della densità stessa; queste influiscono da un lato sul fabbisogno idrico, sui volumi erogati e di stoccaggio, dall'altro sulla estensione delle reti. Tali elementi, legati alle caratteristiche del territorio servito, vanno ad incidere sui costi del servizio riferiti alla fase di acquedotto. La localizzazione delle risorse, la distribuzione della popolazione, insieme con l'ampiezza dell'area servita, determinano l'estensione della rete idrica, sia come rete di adduzione (che trasporta l'acqua dal punto di captazione agli impianti) sia come rete di distribuzione (che porta l'acqua agli utenti), con una incidenza sul costo per le voci relative ai trasporti, agli interventi di manutenzione della rete e di riparazione dei guasti, al prelievo dei campioni da sottoporre ad analisi, alla rilevazione dei dati di misura dei contatori. A parità di volumi erogati, un aumento della superficie da servire comporta un aumento dei costi totali ed unitari 32

della fase di erogazione; se però si tiene conto del fatto che ampliare la dimensione territoriale significa aumentare il numero di utenze, e quindi di quantità di acqua distribuita, i costi unitari possono rimanere sostanzialmente invariati. Questo è stato provato nelle diverse indagini empiriche in cui viene evidenziato o un costo unitario che diminuisce, spesso ad un saggio decrescente, con la quantità erogata (come in Ford e Warford, in Clark e Stevie, in Feigenbaum e Teeples, nell'indagine Formez, in Visco Comandini) o un costo unitario costante (come in Pola e Comandini) e quindi economie di scala costanti o leggermente crescenti. Se però si passa a considerare le altre fasi del ciclo idrico, la dimensione territoriale, o meglio l'ammontare di popolazione servita, diventa un elemento di primaria importanza e determinante che consente all'azienda idrica di raggiungere la dimensione economicamente ottima. Le tecnologie dei sistemi di automazione, supervisione e controllo a distanza, permettono oggi di poter gestire, in modo .affidabile ed economicamente valido, ambiti territoriali di vaste dimensioni rendendo possibile la tempestività nella rilevazione dei guasti, nella predisposizione di interventi e nell'adeguamento dell'erogazione alle esigenze e alle richieste dell'utenza. La maggiore dimensione territoriale, che grazie ai più avanzati sistemi è p05-


sibile gestire con sicurezza, è nello stesso tempo la condizione che ne consente l'utilizzo, date le sofisticate e costose apparecchiature ed il personale specializzato necessari per tale funzione. Il laboratorio per il controllo chimicobatteriologico delle acque, i centri di elaborazione dati, di misurazione e fatturazione dei consumi, gli impianti di potabilizzazione e quelli di depurazione, le squadre di pronto intervento, rappresentano quelle strutture organizzative che, indispensabili per fornire un servizio valido, devono disporre di una dotazione minima di attrezzature ed apparecchiature, di impianti e locali, di personale qualificato, e perciò trovano impiego razionale e giustificazione economica solo a servizio di ambiti territoriali di vaste dimensioni. Ad eccezione delle funzioni di rapporti con l'utenza, di manutenzione e pronto intervento (per l'incidenza dei costi di trasporto e comunicazione) per le quali, ferma restante la centralità delle strutture amministrative e tecniche più importanti, è possibile pensare di adottare una struttura organizzativa decentrata, con la costituzione di centri periferici, tutte le suddette fasi del servizio idrico sono caratterizzate da costi unitari che diminuiscono con l'aumentare del volume erogato. Inoltre l'esistenza di molteplici gestioni in un certo territorio porta all'utilizzo di risorse di cattiva qualità e costo elevato, alla moltiplicazione di strutture tecniche ed amministrative

che causano sprechi e diseconomie, a danno dell'economicità ed efficienza del servizio, mentre la gestione unitaria in ambiti ottimali può consentire lo sfruttamento di economie legate ad una più razionale utilizzazione, distribuzione e al risparmio delle risorse. Se si prende in considerazione il servizio di raccolta, scarico e depurazione dei reflui la utilizzazione di impianti di dimensioni medio-grandi garantisce un maggior grado di affidabilità e costi unitari inferiori. I costi unitari di gestione, compresi gli oneri finanziari, hanno un andamento decrescente con minimo che viene raggiunto intorno a 600.000 abitanti equivalenti. Funzioni caratterizzate da rilevanti costi fissi sono quelle relative al controllo chimico-batteriologico con un costo annuo dell'ordine di 500 milioni di lire, i centri di elaborazione dati per la misura e fatturazione dei consumi con costo di circa 300 milioni annui, il centro di informatizzazione, il servizio di pronto intervento e gli impianti di potabilizzazione che comportano ognuno un costo di gestione di un miliardo e 500 milioni (dati Federgasacqua). I costi piuttosto rilevanti, a causa delle apparecchiature e attrezzature sofisticate, dei locali ed impianti, di personale specializzato che è necessario impiegare per svolgere ognuna di queste attività, sono sostenibili soltanto nel caso di volumi adeguati di acqua erogata. 33


Maggiore è la popolazione servita, quindi il quantitativo di acqua che l'ente gestore eroga, tanto inferiore sarà l'incidenza di tali costi sulla tariffa e quindi su ogni singolo utente. E' importante osservare infatti che, secondo la Legge Galli, la tariffa dovrà rappresentare il corrispettivo del servizio idrico integrato e garantire la copertura integrale dei costi, di esercizio e di investimento. La dimensione produttiva dell'azienda idrica, rappresenta l'elemento fondamentale che consente, con incrementi tariffari sostenibili, di coprire i costi legati all'esercizio di ognuna delle strutture organizzative, oggi pressoché inesistenti negli enti che gestiscono il servizio idrico ed inoltre di poter far fronte agli investimenti per gli adeguamenti necessari attraverso l'autofinanziamento. Dei semplici calcoli permettono di esemplificare e chiarire quanto appena esposto. Riferendoci ai dati su esposti, basati sull'esperienza delle aziende che fanno capo alla Federgasacqua, assumiamo come ordine di grandezza un costo di gestione di sei miliardi per le funzioni di controllo della qualità, di elaborazione dei dati per la misura e fatturazione dei consumi, di pronto intervento e di potabilizzazione. Considerando una dotazione pro-capite di 250 litri giornalieri, l'incidenza tariffaria è di 300 lire al metro cubo, nel caso di un volume erogato di 20 mi34

lioni di metri cubi l'anno, corrispondenti ad una popolazione di 200.000 abitanti, è di 100 lire per un volume di 60 milioni di metri cubi, equivalente a 650.000 abitanti, è di 60 lire per un volume di 100 milioni di metri cubi, in grado di soddisfare circa un milione di abitanti. La ricerca di più ampie dimensioni è, quindi, la condizione essenziale per una gestione imprenditoriale del servizio idrico. Questa consente di conciliare e rendere possibili tre punti fondamentali per la riorganizzazione del servizio idrico: il raggiungimento della dimensione economicamente più conveniente (che minimizza i costi di gestione); la possibilità, ove la dimensione dell'ente gestore coincida con gli ambiti ottimali disegnati nel rispetto dei bacini e sub-bacini idrografici, di utilizzare con la massima razionalità le risorse idriche disponibili a livello nazionale; la realizzazione di una efficace azione di regolamentazione da parte del Comitato di Sorveglianza, unico strumento che possa difendere gli interessi dei cittadiniutenti garantendo un servizio quantitativamente e qualitativamente valido con tariffe adeguate.

REGOLAMENTO ATTUALE DELLE TARIFFE. LA TECNICA DEL PRJCE-CAP

Fino al 1974, il blocco tariffario degli acquedotti, instaurato già nel periodo


prebellico, consentì rivalutazioni percentuali rispetto alle tariffe in vigore nel 1942, senza che, però, si tenesse conto degli aggiornati costi di gestione. Dopo tale data il Cip ha stabilito che le singole gestioni debbano conseguire il pareggio di bilancio attraverso tariffe che si riferiscano a reali costi di gestione. Questo orientamento è proseguito negli anni successivi con numerosi provvedimenti, che tengono conto del fatto che il nuovo regolamento di contabilità e di amministrazione delle aziende degli enti, locali (d.PR. 902/86), stabilisce all articolo 40, che il bilancio non possa chiudersi in deficit. Così la quota minima dei costi degli acquedotti da coprire con entrate tariffarie è stata fissata al 60% nel 1987 ed è aumentata negli anni successivi fino alla possibilità, dopo il 1989, di coprire interamente i costi di gestione incluse le spese per il personale, per beni e servizi e per oneri di ammortamento dei mutui. L'importante e necessaria riforma tariffaria raggiunta nel 1974, dopo 40 anni di blocchi tariffari avulsi dai bilanci aziendali, non è stata di fatto applicata. A partire dall'ondata inflazionistica seguita allo shock petrolifero del 1973, infatti, le tariffe in Italia sono state controllate con l'attenzione rivolta, spesso in modo esclusivo, al tasso d'inflazione. Dal 1980, la regolazione tariffaria ha assunto una connotazione palese-

mente macroeconomica, con la formulazione di indirizzi programmatici in materia di tariffe nelle Relazioni Previsionali e Programmatiche del ministero del Bilancio e con la determinazione, ad ogni approvazione di legge finanziaria, di aumenti percentuali consentiti piuttosto limitati. Secondo la normativa vigente le tariffe dell'acqua potabile, aventi natura di corrispettivo del servizio, sono dunque affidate al controllo del Cip e, nonostante la legge lo consenta, non coprono totalmente i costi. I servizi idrici non hanno, però, una regolazione tariffaria unitaria; infatti per i servizi di depurazione e di fognatura, a partire dal 1981, in applicazione della legge Merli n. 319/76, è previsto il pagamento di canoni, aventi natura di tributi, il cui controllo è affidato al ministero delle Finanze. I1entità ditali canoni è insufficiente a garantire la copertura dei costi. Fattuale sistema tariffario, se da un lato ha il pregio di consentire tariffe diversificate per fasce di consumo come meccanismo di lotta agli sprechi, dall'altro, facendo riferimento al bilancio consuntivo dell'anno precedente per attuare variazioni tariffarie, ha di fatto legalizzato la posizione deficitana cronica degli esercizi. Il protrarsi, per così lungo tempo, di una tale politica tariffaria è tra le cause principali di un servizio idrico carente, sia in termini quantitativi che qua35


litativi, ma è responsabile soprattutto di investimenti sottodimensionati che hanno impedito l'adeguata manutenzione degli impianti e la realizzazione di nuove e necessarie infrastrutture, obbligando per il futuro ad un enorme sforzo finanziario per rimediare a tali inefficienze; ciò non potrà che mutare radicalmente il quadro dei costi e dei prezzi. È possibile credere che gli utenti saranno disposti ai conseguenti aumenti tariffari ma, ovviamente, questi dovranno corrispondere ad un miglioramento della qualità del servizio; il sistema del blocco tariffario, che in Italia ha determinato tariffe nettamente

inferiori a quelle degli altri Paesi, verrà volentieri abbandonato quando si comprenderà che il miglior modo per proteggere il consumatore non è quello di imporre tariffe basse, in cambio di un servizio inadeguato, ma di metterle in correlazione con un insieme dei costi ben controllato in termini di incidenza finanziaria e di congruità tecnica. Se si pone a confronto l'Italia con alcuni Paesi europei, di pari sviluppo socio-economico, ciò che emerge è un livello della tariffa media, comprensiva di acqua potabile, fognature e depurazione, di gran lunga inferiore a quella di ciascun Paese.

Tariffe d e ll'acqua* : confronto internazionale (1992)

Germania Belgio

Francia Olanda Inghilterra Finlandia Svezia Lire/mc

* Le tariffe sono comprensive di acqua potabile, fognatura e depurazione. Fonte. World Water and Environmental Engineer. 36

Italia


Questa situazione rispecchia, comunque, un servizio idrico caratterizzato da standard qualitativi inferiori rispetto alla media dei Paesi europei più avanzati e da una posizione deficitaria di numerosi enti gestori che adottano tariffe inadeguate a coprire integralmente i costi. A livello nazionale, la possibilità di fare un quadro sulla situazione tariffaria è estremamente arduo. Innanzitutto è importante tener presente che il sistema attuale prevede un canone per il servizio di fognatura ed uno per quello di depurazione i cui valori massimi, secondo informazioni Cir', sono di 170 £/m3 e 400 £/m3 rispettivamente, mentre per il servizio di distribuzione di acqua potabile il sistema prevede tariffe diversificate per fasce di consumo (agevolata, base e tre livelli di eccedenza). Aree metropolitane Torino Milano Genova Venezia Bologna Firenze Roma Bari Napoli Palermo Catania Cagliari Media Media nazionale Media europea

Tarffa base (/m3) * 410 270 564 380 1016 600 422 500 1020 1200 600 400 615 572 1201

*La tariffa è riferita al solo servizio di distribuzione di acqua potabile. Fonte: Federgasacqua.

Per le aree metropolitane, ad esempio, la tariffa base, riferita dunque al solo servizio di distribuzione, per l'anno 1992, è descritta nello schema. Questi pochi dati, relativi alle più grandi città italiane, con un minimo di 270 £/m3 a Milano ed un massimo di 1200 £/m3 a Palermo, non possono certamente essere rappresentativi della situazione sull'intero territorio nazionale, ma consentono comunque di confermare la forte variabilità delle tariffe tra enti gestori e la mancanza di qualunque criterio di razionalità e significato economico delle tariffe del servizio idrico nel nostro Paese. È opinione ormai consolidata che per i servizi pubblici le tariffe debbano avere natura di corrispettivo del servizio fornito e coprire integralmente i costi, in altre parole, delle spese del servizio devono farsi carico i cittadini utenti e non i cittadini contribuenti. Il problema principale diventa la definizione del «prezzo giusto . Nel caso di un mercato concorrenziale il consumatore partecipa tramite la scelta tra i fornitori, alla determinazione del prezzo di equilibrio; nel caso dei servizi pubblici, invece, non ha scelta. Il servizio idrico è inoltre indispensabile per vivere e quindi il consumatore è obbligato all'acquisto, qualunque sia il prezzo vigente e la qualità del servizio stesso. Per proteggere i consumatori dalla p037


sizione dominante del monopolista, pubblico o privato che sia, non è possibile più rinviare l'istituzione di adeguati meccanismi di controllo e di regolazione. Una risposta alla necessità di coniugare gli aumenti tariffari, necessari per uscire dalla costrizione economica in cui versano le gestioni dei servizi idrici e per rimediare alle carenze strutturali lamentate, con la richiesta di miglioramenti nella qualità del servizio, sembra essere il provvedimento n. 34/91 del Cii' "Nuova Regolamentazione tariffaria delle aziende dei pubblici servizi . Tale provvedimento intende sostituire il sistema attuale, condizionato da motivazioni politiche più che tecniche, con un sistema più adeguato alle evoluzioni intervenute negli ultimi anni nella struttura dell'economia nazionale ed internazionale, che armonizzi nel medio-lungo periodo la politica dei prezzi con le politiche di settore, in modo da legare la dinamica delle risorse aziendali al miglioramento della produttività, dell'efficienza e qualità dei servizi pubblici. Il provvedimento vedrà il Gip stipulare "contratti di programma", di durata pluriennale, con i gestori dei servizi pubblici vendibili, sulla base di elementi come la qualità del servizio percepita dall'utenza, lo sviluppo della domanda e del servizio, l'innovazione tecnologica, la dinamica degli investimenti, l'equilibrio economico-finanziario dell'azienda. 38

L'adeguamento tariffario è incentrato sulla definizione della formula del "price-cap", meccanismo che determina l'aumento delle tariffe sulla base dell'andamento del tasso d'inflazione ridotto di un fattore X, pari al tasso di crescita della produttività che il gestore del servizio, in accordo con l'Autorità di regolazione, "garantisce" alla collettività nel periodo, fermo restando il raggiungimento dei suddetti obiettivi. Tale schema vuole essere un incentivo per le imprese a migliorare la propria efficienza: se esse infatti non riescono ad aumentare la propria produttività ad un tasso almeno pari ad X, realizzeranno un minor profitto (o una perdita) perché la dinamica dei costi risulterà superiore a quella dei prezzi di vendita del prodotto; ogni aumento di produttività superiore al tasso X porterà, d'altra parte, ad un aumento di redditività. Il meccanismo prevede, altresì, clausole per l'aggiornamento del contratto qualora la dinamica del tasso di inflazione, del PIL, del Roi (return on investment), dei costi esogeni, nonché di ulteriori specifici parametri, vari al di là delle soglie prefissate. La creazione di strumenti atti a "misurare" il grado di raggiungimento degli obiettivi vigilerà sul corretto funzionamento del price-cap prevedendo, qualora gli standard minimi di qualità non vengano rispettati, particolari sanzioni quali rimborsi all'utente ed eventuali riduzioni delle tariffe.


Tale metodo consente dunque il perseguimento di tre obiettivi: un aumento tariffario al di sotto del tasso di inflazione, una chiara conoscenza, da parte degli enti gestori, dell'entità e dei tempi di adeguamento delle tariffe, la tutela dei consumatori sul miglioramento della qualità del servizio. La regolazione tariffaria tramite il meccanismo del price-cap in maniera specifica per il servizio idrico è fissata nella Legge Galli. Questa, superando la gestione attualmenté separata delle varie fasi del cido dell acqua, prevede un unica tariffa determinata in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di esercizio e di investimento. Il Cip dovrà definire la tariffa di riferimento, articolata per fasce di utenza e territoriali, tenendo conto delle particolari situazioni idrogeologiche; essa costituirà la base per la determinazione della tariffa da parte degli enti locali anche in funzione del piano finanziario per gli interventi di adeguamento delle strutture, e come base per l'applicazione del meccanismo del price-cap. Il provvedimento emanato dal Ci rappresenta l'adozione in Italia di un meccanismo che viene indicato nella letteratura come il più valido modello di regolazione tariffaria delle public utilities, applicato in Inghilterra, a partire dal 1984, nella privatizzazione della British Telecom, della British Gas, della Electricity Supply Industry,

delle Water Authority e adottato per le telecomunicazioni in Australia e Stati Uniti.

L'ESPERIENZA DEL REGNO UNITO

L'applicazione nel caso specifico del servizio idrico ricalca le orme della Gran Bretagna cui è possibile guardare per trarre importanti spunti ed insegnamenti. Il sistema di regolamentazione dell'industria dell'acqua attuato in Inghilterra è molto complesso in quanto da un lato opera su livelli diversi e dall'altro viene esercitato da tre principali regolatori: l'Office of Water Services (OFWAT), la National River Authority (Ni) ed il Segretario di Stato che interagiscono con vari ministeri e dipartimenti governativi, con il Drinking Water Inspectorate, l'Her Majesty Inspectorate of Pollution e l'Unione Europea. In particolare il controllo delle tariffe e del rispetto degli standard qualitativi è esercitato dall'OFWAT, la cui ottica operativa è descritta dalle seguenti parole del Direttore Generale: "Le compagnie autorizzate ad operare sono, sotto molti aspetti, dei monopoli naturali e le pressioni concorrenziali che ricevono sono molto poche. I consumatori non possono dunque fare affidamento sui meccanismi di mercato per essere tutelati da prezzi eccessivamente alti' e servizi scadenti. Il mio obiettivo sarà di ottenere, attra39


verso i meccanismi di regolamentazione, lo stesso equilibrio che sarebbe presente in un mercato concorrenziale. Dove le pressioni concorrenziali esistono io mi preoccuperò di incoraggiarle" (Byatt 1990). L'OFWAT ha, inoltre, il dovere di garantire alle aziende la possibilità di ottenere un ragionevole ritorno sul capitale, al fine di finanziare adeguatamente le proprie funzioni. L'applicazione del price-cap, che come già detto è il sistema di' regolamentazione adottato dal Governo, è studiata in Gran Bretagna in modo da permettere alle aziende l'autofinanziamento per realizzare il programma di interventi, stimati in circa tre miliardi di sterline annui, atti a realizzare, nel decennio 1990-2000, determinati obiettivi strutturali tra i quali di particolare importanza: - l'estensione della misura a contatore dal 10% al 95% delle abitazioni; - l'estensione della capacità produttiva e distributiva delle strutture di acqua potabile, che oggi si stima forniscano un servizio inferiore al livello di soddisfazione per il 23% della popolazione; - il rispetto della direttiva CEE 91/271 per le acque reflue urbane. La formula Rpi-X, che definisce tecnicamente il price-cap, è applicata ai servizi principali offerti dalle società (erogazione d'acqua, servizi fognari, trattamento e eliminazione degli scarichi industriali); le altre tariffe (per i 40

nuovi allacciamenti, manutenzione) sono aggiustate con l'inflazione. Le tariffe rimanenti non sono soggette ad alcun controllo. La percentuale X di correzione del tasso di inflazione, espresso dal RPI (Retail Price Index), fu fissata a valori diversi per ognuna delle 10 società idriche. I valori di X relativi al periodo 1989-1995 sono riportati nella seguente tabella: Società Anglian Northumbrian North West Severn Trent Southern South West Thames Warer Welsh Wessex Yorkshire Valore medio

Valori diX (1989-1995) 5.5 % 7.0 % 5.0 % 5.5 % 5.5 % 6.5 % 4.5 % 6.5 % 4.5% 3.0 % 5.3%

La decisione fu presa dal Governo principalmente in considerazione dei diversi livelli di investimento che le imprese avrebbero dovuto effettuare negli anni seguenti. Si è cercato, in questo modo, di rendere le varie imprese ugualmente attraenti per l'investitore. La determinazione dell'X iniziale, prestabilito per il periodo decennale, è competenza del ministero dell'Ambiente inglese che tiene conto sì della necessità di nuovi investimenti, ma anche della necessaria gradualità, sia per la sopportazione economica del


consumatore che per l'incidenza sulla economia nazionale. Una volta fissato X, l'OFwAT ne gestisce. le variazioni annuali, aggiustandolo secondo le sopravvenienti necessità e secondo il riscontro degli obiettivi parziali raggiunti; una revisione quinquennale è inoltre possibile da parte del Ministero, su richiesta della Company o dell'OFwAT. Strettamente legato alla questione precedente è il problema di stabilire se tutti i servizi sottoposti alla formula Rpi-X devono essere anche sottoposti allo stesso valore di X. Il Governo decise nel 1989 di adottare un unico valore di X per tutti i servizi. Questa soluzione, che sembrava la più semplice, si rivelò in realtà complicata. Si pensi, ad esempio, al caso di una società che abbia ereditato dalla vecchia Water Authority una capacità in eccesso per i servizi di erogazione d'acqua e una capacità in difetto per i servizi collegati alle acque di scarico. In questo caso un aumento della domanda di acqua comporta una diminuzione dei costi per unità di prodotto, mentre un aumento della domanda dei servizi connessi alle acque reflue comporta un aumento dei costi per unità di prodotto, per poter far fronte ai nuovi investimenti necessari. Una formula che attribuisse valori diversi di X per ogni servizio assicurerebbe il mantenimento di un rapporto corretto tra prezzi e costi, condizione essenziale per un'efficiente allocazione delle risorse.

Inoltre la semplificazione del meccanismo, che l'uniformità di X dovrebbe comportare, nella realtà non si verifica dato che il regolatore, per fissare il valore di X, non può prescindere da un'analisi di tutti i servizi prestati dalla società. Il compito del regolatore non viene quindi semplificato, si potrebbe anzi sostenere il contrario, in quanto esso deve continuamente controllare che la qualità del servizio non peggiori in quelle aree dove i costi aumentano più velocemente dei prezzi. Una caratteristica peculiare del meccanismo di regolamentazione economica a cui sono sottoposte le imprese idriche è la possibilità di effettuare il "cost pass through": le società possono variare il valore di X tra due revisioni. Il direttore generale deve attuare tale procedura soltanto per riportare le società nella situazione finanziaria che si sarebbe verificata in assenza di eventi particolari; le conseguenze politiche del ricorso a questo strumento potrebbero essere comunque rilevanti non essendo la sua applicazione rigidamente stabilita e gli aumenti tariffari conseguenti non prevedibili. Tra le competenze del direttore generale rientrano le regole di servizio agli utenti per le quali le Companies devono raggiungere obiettivi di progressivo miglioramento. Gli standard di performance del servizio idrico, i livelli dei quali le Water Companies devono comunicare al direttore generale ogni anno, sono: 41


I. Disponibilità di acqua corrente. Pressione dell'acqua nelle condutture. Interruzione dell'erogazione. Limitazioni delle tubature. Straripamento delle fognature. 6 Tempi di risposta a richieste di spiegazioni delle bollette. Tempi di risposta alle proteste scritte. Risposte alle richieste di consultazione su progetti di sviluppo. Fonte Ofwat. Per gli standard 3, 4 e 5 le aziende devono inoltre comunicare i target che intendono raggiungere. È questo un sistema di controllo piuttosto stretto che consente di attuare forme di "yardstick competition": La concorrenza comparativa non puo essere efficace come la concorrenza in mercati liberi, ma può essere in ogni caso un utile strumento per stimolare l'efficienza e aiutare il regolatore a stabilire ie tariffe e i livelli del servizio che ci si potrebbe aspettare in una situazione di concorrenza" (Byatt). Il settore dell'acqua è stato il primo tra quelli di public utility, in cui, a norma di legge, è previsto uno schema di indennizzo per particolari deficienze di servizio e per un comportamento scorretto dei gestori. I risarcimenti, non automatici, devono essere decisi dal direttore generale. Nell'esercizio '91 le lamentele pervenute in via ufficiale, raddoppiate ri42

spetto all'esercizio '90, sono state pari a 10.000, le richieste di risarcimento inoltrate circa 800 ed i casi di riconosciuto indennizzo oltre 600. Una tale struttura di tutela degli utenti comprende 132 addetti e incide annualmente per una quota pari circa allo 0.25% del fatturato globale dell'industria idrica. Ciò sembra indicare una ben precisa scelta, da parte del Governo, di proteggere in maniera adeguata i cittadini, utenti obbligati, nel momento in cui li ha affidati alle cure di società private.

LE DIFFICOLTÀ DEL PRICE-CAP NEL CASO DELL'ITALIA

Nonostante il provvedimento del Cii' stabilisca il price-cap come metodo di regolamentazione tariffaria delle aziende di pubblici servizi, la sua applicazione nel caso specifico del servizio idrico, come è attualmente organizzato, risulterebbe estremamente difficoltosa. In Italia, come già detto, il servizio di distribuzione di acqua potabile è gestito da oltre 5.500 aziende, quello di depurazione da 2.000 e quello di fognatura da 7.000; molte di queste redigono bilanci secondo gli schemi di contabilità finanziaria senza alcun riferimento alle variabili che entrano nel calcolo degli indici di produttività. Essendo inoltre molti servizi gestiti in economia, risulta spesso difficile im-


putare correttamente le varie voci di costo, comprese nei bilancio comunale, al servizio idrico. In una tale situazione sia il calcolo della tariffa, che assicuri la copertura integrale dei costi di gestione e di investimento e che tenga conto della qualità del servizio, sia il calcolo del fattore di correzione X, nella formula di adeguamento tariffario che definisce il price-cap, risulterebbero in molti casi impossibili. Inoltre, se in Inghilterra 132 addetti si occupano del controllo dei 33 bilanci relativi alle aziende che gestiscono il servizio idrico (le 10 Water Authority e le 23 Statutory Companies) verificando che gli adeguamenti tariffari siano coerenti con gli standard qualitativi richiesti ed analizzando le domande di risarcimento pervenute, è naturale porsi la domanda di quante persone occorrerebbero per esaminare più di 5.500 bilanci. L'applicazione di tale metodo di regolamentazione sarà possibile in Italia solo in seguito alla riorganizzazione del servizio idrico e quin,di con l'attuazione della Legge Galli. Questa, infatti, come già detto, fissa il price-cap come sistema di adeguamento tariffario ma consente altresì il raggiungimento di quei traguardi indispensabili per rendere possibile la sua applicazione. Innanzitutto prevede l'adozione di un metodo normalizzato che definisca la tariffa iniziale come base per l'applica-

zione degli adeguamentitariffari secondo il metodo del price-cap. In secondo luogo, stabilisce la riorganizzazione dei servizi idrici sulla base di ambiti territoriali ottimali che, ne1 rispetto dell'unità del bacino o del sub-bacino idrografico, superi la frammentazione attuale delle gestioni realizzando in ogni ambito una gestione di adeguate dimensioni, definite sulla base di parametri demografici, fisici e tecnici, e che consenta una gestione secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità e quindi di tipo imprenditoriale con bilanci controllabili. Infine istituisce, presso il ministero dei Lavori Pubblici, un "Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche che, avvalendosi di un Osservatorio dei servizi idrici", il quale raccoglie ed elabora dati statistici e conoscitivi relativi ai servizi idrici, garantisce il rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità del servizio, la regolare determinazione ed adeguamento delle tariffe, la tutela dei consumatori. È da tutti condivisa la necessità per i servizi in regime di monopolio, come è quello idrico, di adottare un sistema di regolamentazione tariffaria e di livelli di qualità; il price-cap sembra permettere l'adeguata soddisfazione del gestore e l'irrinunciabile protezione del consumatore. Il metodo, espresso tecnicamente in modo semplice, non deve essere applicato in maniera semplicistica ma deve 43


esigere adeguamenti tariffari basati su "accordi di programma" che siano opportunamente valutati nella loro corrispondenza, tecnica ed economica, con gli obiettivi da raggiungere. Affinché la funzione di regolazione dei pubblici servizi possa essere svolta in maniera efficace, è fondamentale realizzare la separazione tra gestore del servizio ed autorità di controllo che impedisca quella convergenza di interessi tra regolatore e regolato, tra le principali cause della "regulatory failure" dei servizi pubblici italiani, e che consenta un elevato grado di trasparenza, con periodiche informative alla clientela, sull'andamento dell'efficienza, dei costi e della qualità del servizio. Ma è altresì importante che i gestori del servizio siano aziende con bilanci controllabili, che operino con criteri di imprenditorialità e riescano a fornire un servizio percepito dagli utenti come qualitativamente valido. IL SERVIZIO IDRICO IN PROSPETFIVA

Il problema della riorganizzazione del servizio idrico non può essere pii a lungo rinviato. I bassi standard e le inefficienze che caratterizzano il settore nel nostro Paese sono riconducibili, oltre che all'assenza di una regolazione organica e comunque alla mancata applicazione degli strumenti legislativi esistenti in materia, a due cause. Il livello medio delle tariffe, che in 44

Italia è nettamente inferiore rispetto a quello dei Paesi europei pRi sviluppati, non consente la copertura integrale dei costi, a danno della qualità del servizio, della manutenzione delle infrastrutture e degli investimenti. L'ampia frammentazione, in secondo luogo, ha impedito che, tenendo conto della dotazione e dei bisogni dell'intero territorio nazionale, si svo!gesse un'azione di coordinamento, pianificazione e razionalizzazione necessaria per tutelare ed ottimizzare lo sfruttamento del patrimonio idrogeologico; di conseguenza la dimensione degli enti esistenti non è tale da consentire una gestione con caratteristiche di efficienza, efficacia ed economicità. La riorganizzazione del settore deve quindi basarsi sulla gestione unitaria del ciclo idrico e sulla riduzione nel numero degli enti gestori con dimensione definita per ambiti ottimali. L'adeguamento delle tariffe e l'attuazione, prevista nella Legge Galli, del nuovo sistema tariffario, rappresentano un elemento fondamentale in tale processo. La tariffa dovrà assicurare la copertura dei costi di esercizio e di investimento. L'applicazione del meccanismo del price-cap, che regolerà gli adeguamenti tariffari nel tempo, dovrebbe incentivare aumenti nella produttività e qualità del servizio e quindi funzionare da strumento per la tutela degli utenti. La gestione unitaria e per ambiti otti-


mali, insieme all'adozione della nuova regolazione tariffaria, sono infine le condizioni che consentono, con incrementi tariffari sostenibili dagli utenti,

l'autofinanziamento degli investimenti, per i quali si stima un fabbisogno, nel prossimo decennio di almeno 60.000 miliardi di lire.

Note Bibliografiche

zazione nel settore delle pubbliche utilità. La struttura dell'industria idrica in Italia. La privatizwzione del settore idrico: il caso inglese,

Cii R.M. STEV1E R., A water supply cost model incorporating spatial variables in «Land Economics», n. 1, 1981.

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1991. ISTAT, Acquedotti e reti di distribuzione dell'acqua po-

tabile in Italia, Anno 1987. ISTAT, Approvvigionamento idrico, fognature e impianti di depurazione in Italia, Anno 1987. Po[A G. Visco CoMAÌ'D1NI V., Evoluzione ed efficien-

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«L'Industria», n. 1, 1992. comunale in «Economia Pubblica» n. 12, 1985.

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Gran Bretagna: le sorprese di una secca estate di Antonio Chi zzon iti*

Da argomento di conversazione, sia che cadesse dal cielo sia che rinfrescasse gli orgogliosi giardini dei sudditi di Sua Maestà, l'acqua è oggi lo scandalo nazionale di Gran Bretagna. Titoli cubitali in prima pagina, inchieste impietose, consumatori sul piede di guerra. L'ultimo anello della politica di privatizzazioni di Margaret Thatcher si è rivelato un boomerang che ha minato ancora una volta la credibilità dei fautori del liberismo selvaggio che avevano fatto la fortuna della ex lady di ferro. Sotto accusa le dieci compagnie che hanno rilevato dalla mano pubblica il sistema idrico e delle fognature: condotte in avaria, rubinetti che languono, bollette alle stelle e profitti enormi. Il Financial Times chiama senza peli sulla lingua «robber barons» i dirigenti delle società responsabili della catastrofe. Nicholas Hood, chairman della Wessex ha triplicato in pochi anni le sue retribuzioni, portandole da 55 a 136 mila sterline; il suo collega Keit Court, del South West Water, ha fatto ancora meglio, facendo lievitare il suo Giornalista.

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stipendio del 120 per cento. Gli azionisti, in maggioranza operatori di rilievo della Gity, hanno fatto affari d'oro: l'incremento dei titoli delle compagnie quotate in borsa dal 1990 al 1994 è stato del 99 per cento. Chi ha pagato? Secondo la stampa inglese il consumatore, che ha sopportato un aumento del 62 per cento del costo dei rifornimenti idrici senza usufruire del miglioramento del servizio che la privatizzazione avrebbe dovuto comportare. Certo non era questo il risultato che aveva immaginato il profeta della privatizzazione, Sir Roy Watts, passato nel 1983, dopo trenta anni spesi nella British Airways, alla Thames Water Autority con il compito di tirar fuori il settore dalle stanche braccia del Treasury. Sir Roy però incespicò nei trabocchetti della politica e perse la sua battaglia ma non la fiducia nel futuro. E così riuscì a far convertire sulla via di Damasco un antico fautore della mano pubblica, Nicholas Ridley, ministro dell'Ambiente, sfruttando il buon esito delle privatizzazioni della British Telecom e della British Gas del 1987. L'idea combaciava con la prospettiva 46


di "arretramento" dello Stato tanto vicina al cuore di Margaret Thatcher che appoggiò con entusiasmo l'iniziativa del suo «Secretary for the enviroments» lanciandosi a capofitto nell'impresa incurante, secondo copione, delle obiezioni. Un sondaggio tra i consumatori mostrò subito che il pubblico non vedeva nello stesso modo acqua, gas e telecomunicazioni. La prima veniva considerata un servizio, "un dono di Dio" e non un business. I laburisti si opposero, ma Margaret se ne curò non pii di tanto. A chi le obiettava che l'acqua scende dal cielo e doveva essere libera per tutti, rispondeva che non per questo arrivava gratis tra le mura domestiche: "Le condutture, le stazioni di pompaggio, i sistemi di purificazione costano somme altissime di installazione e di manutenzione". La privatizzazione fu consumata nel settembre del 1989. Con un certo anticipo Ridley espose le ragioni del suo piano al Financial Times in una intervista a Joe Rogaly, ripresa (con l'aggiunta di qualche retroscena piccante) dallo stesso giornalista nell'agosto scorso durante la siccità che mise in ginocchio l'Inghilterra, facendo esplodere lo scandalo delle acque. Rogaly rievoca con spietatezza l'atmosfera di quei giorni. Erano gli anni, racconta, della "massima arroganza" dei conservatori, quando "nell'euforia della terza vittoria consecutiva della Thatcher, i Tories credevano nella loro immortalità politica". Il monumento

innalzato su questa esaltazione fu il piano Ridley. 1autore si spiega così al quotidiano della City: i precedenti governi, dice, hanno fatto cadere a pezzi la rete idrica e delle fognature, ed adesso i Verdi e la Commissione di Bruxelles ci chiedono acqua pRi pura. La somma necessaria per mettere a posto il sistema e enorme, «sarebbe molto meno costoso far uscire acqua Perrier dai rubinetti delle case". In più bisognerebbe rifare ad hoc il sistema di tassazione, una mossa "maldestra" per qualunque governo. Ed allora? Allora, spiega pazientemente Ridley, la risposta è la privatizzazione. Si guadagnerebbe in efficienza, le compagnie potrebbero produrre fondi di cassa risparmiando sui costi e raccogliere danaro sul mercato. Il risultato, magari aiutato da una leggera tassazione, sarebbe la modernizzazione. I consumatori non avrebbero nulla da temere fino alla fine del secolo: pagherebbero sulla base attuale (1989). Solo dopo il 2000 le compagnie introdurrebero una nuova misurazione a contatore, accollandosi il conseguente "pubblico obbrobrio". A quel punto sarebbe chiaro a tutti che il governo è fuori da ogni connessione con l'industria. Fin qui il cinismo di Ridley. Se si salta però di cinque anni in avanti, al 1994, si ha modo di constatare che anche la sua profezia è rimasta sulla carta. Il National Consumer Council, l'organizzazione dei consu47


matori, denuncia l'inadempienza delle compagnie: hanno fatto promesse di investimenti, gonfiate e non mantenute, hanno speso molto più lentamente del pattuito e, contrariamente ai patti, le bollette sono salite del 67 per cento. Per i consumatori le compagnie hanno giocato d'azzardo e perso, e i loro dirigenti si sono dimostrati "bugiardi e scialacquatori". Le società accusano il colpo. L'annuncio nel luglio scorso del piano quinquennale dell'Ofwat, l'ente di controllo sul sistema idrico, viene interpretato come il segnale di una probabile risposta ai disservizi. "Il nuovo regime, racconta Rogaly, attentò alla salute dei dirigenti delle compagnie, ma solo perché rischiarono di morire dalle risate". Che cosa era successo? Il piano prevede un incremento del carico di spesa per gli utenti dell'1,4 per cento fino al 2000, rispetto al previsto 5 per cento, ma, nello stesso tempo, i capitali per la modernizzazione delle infrastrutture vengono indicati molto al disotto delle aspettative e delle necessità. Così, secondo Rogaly, l'aumento delle bollette può salire fino al livello immediatamente inferiore a quello che indurrebbe la gente a scendere in piazza, mentre i dividendi vengono garantiti in una misura tale "da far ballare di gioia" gli azionisti.

ideato da Ridley. La privatizzazione non ha tenuto le forniture idriche fuori dalla politica: il governo è tuttora implicato in alcuni investimenti, nella definizione dei prezzi e nell'affare dei contatori. Non c'è da stupirsi se, alla prima occasione, il sistema è saltato con un certo clamore. Il detonatore si è innescato sulla siccità dell'estate scorsa. Ad agosto, mentre l'Europa meridionale e l'Italia erano inaspettamente turbate dalle pioggie, il settentrione del continente era altrettanto inaspettamente a secco. Dal nord al sud della Gran Bretagna, dallo Yorkshire al Sussex i rubinetti languivano per gran parte del giorno. Un filo d'acqua, ovviamente, non serve a nulla. Sono piovuti così i divieti. Le compagnie proibiscono l'uso dell'acqua per innaffiare i giardini, per lavare le automobili e per ogni uso non indispensabile. Una doccia in più è un lusso per pochi. È solo una calamità naturale? Non solo. Si scopre a questo punto che, nonostante la piovosità del precedente inverno, le riserve sono scarse e che le condutture perdono grandi quantità di acqua in tutto il Paese. Cade il velo: la privatizzazione non ha migliorato il sistema.

Ma, sempre secondo il Financial Times, c'è un ultimo errore nel gioco

I giornali annusano lo scandalo e ci si buttano sopra. Il Sun attacca giorno

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UN BILANCIO NEGATIVO


dopo giorno i lauti profitti dei nuovi water bosses Si cominciano a fare i conti in tasca. Si scopre che il valore in borsa delle 10 maggiori compagnie si è quasi tnplicato dal dicembre del 1989, che chi aveva acquistato 1000 azioni della Northumbrian Water Autority nel dicembre del 1989 per 2.400 sterline adesso poteva venderle a 9.280 dopo aver riscosso un dividendo complessivo di 1.141 sterline. La stessa somma impiegata nella più grande compagnia, la Severn Trent, aveva prodotto 6.250 sterline, poco di più nella Yorkshire Water. I dividendi erano cresciuti considerevolmente anno dopo anno. L'anno scorso, il totale dei dividendi ha raggiunto i 615 milioni di sterline, con un incremento del 44 per cento rispetto al 1991. Si scopre anche che la privatizzazione non aveva favorito l'azionariato popolare, la maggior parte dei titoli sono nel portafoglio di grosse società della City. Da dove viene tanta ricchezza? Per l'Indipendent viene pressoché esclusivamente dalle tartassate tasche dei consumatori. Le compagnie investono molto ma prevalentemente in settori che nulla hanno a che fare con le acque. A questo punto gli imputati escono dall'angolo e si difendono. Le compagnie sostengono di aver rimpiazzato 15.000 chilometri di condotte e 93 mila chilometri di raccordi, che la qualità dell'acqua è migliorata e che il

96 per cento della popolazione è collegato alla rete fognaria, il più alto livello dell'Europa. Sfortunatamente il contrattacco ha anche risvolti ameni. Alcune compagnie se la prendono con gli utenti. La Yorshire Water accusa i consumatori di ignoranza culturale sull'uso dell'acqua. Il portavoce della società, Gerry MacGriogair, spiega che in realtà la gente non dà all'acqua lo stesso valore che attribuisce al gas ed all'elettricità. Insomma, spreca troppo. E si prende così una bacchettata sulle dita dall'Observer. CCL Yorshire, commenta il giornale, si avventura su un terreno delicato accusando i suoi consumatori. Il suo vittoniano sistema di pipelines perde 103 milioni di galloni d'acqua ogni giorno. Per fermare questa emorragia la compagnia sta spendendo solo 11 milioni di sterline l'anno quando gli emolumenti del suo chairman, Sir Gordon Jones, sono aumentati del 169 per cento dal momento della privatizzazione Si scopre ancora che l'acqua è diventata un monopoly business, non c'è la concorrenza che la privatizzazione avrebbe dovuto favorire. Chi si fa il tè nel Sussex o a Manchester deve bere e pagare l'acqua di quel tè, anche se è pessima. Non ha alternative ad un servizio che non funziona o agli alti costi perché non ha un altro fornitore a cui rivolgersi. Le critiche dell'opinione pubblica inducono persino la Ofwat ad uscire dal 49


suo guscio. Lagenzia di sorveglianza si decide finalmente "ad esprimere biasimo" per come vanno le cose. Se le compagnie avessero gestito meglio e con più tempestività la domanda - dice lan Byatt - non avrebbero bisogno adesso di un'azione di emergenza per tagliare i consumi ed incrementare l'approvvigionamento». Questo timido commento fa seguito ad una settimana di pressioni su Ofwat accusata di inazione da Frank Dobson, portavoce per l'ambiente del partito laburista, che minaccia lo scioglimento dell'ente se il Labour andrà al potere. In questo caso verrebbe imposto alle compagnie un rigido obiettivo per ridurre le perdite delle condotte, valutate intorno ai 720 milioni di galloni di acqua al giorno. "È chiaramente un nonsenso - dice Dobson - consentire ad alcune compagnie private un volume di perdite di più del 30 per cento come avviene ora. Se non si interviene su questa emorragia, le compagnie dovranno costruire più cisterne, tirare

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più acqua dai fiumi ed effettuare altre trivellazioni". I laburisti, e non solo loro, considerano però i prelievi un danno per l'ambiente. Sia il National Consumer Council che la National Rivers Authority hanno annunciato che sosterranno il piano laburista. Più controversa l'ipotesi di una possibile abolizione dell'Ofwat. Si sa che i laburisti intendono rinforzare i poteri di controllo della River Authority. sui prelievi delle compagnie dai fiumi e sulle trivellazioni. Dobson, sulla scia dell'irritazione del pubblico per gli alti profitti delle compagnie, propone anche la costituzione di un "watchdog" dei consumatori sulla gestione delle acque. "Ovviamente, commenta, se rafforziamo il ruolo della NPA e costituiamo un forte corpo di sorveglianza da parte degli utenti, ad Ofwat rimarranno solo residuali competenze". Discorsi che suonano anatema agli orecchi degli executives delle compagnie.


queste istROzioni •

I

Vicende di pubblica amministrazione

Il discorso sulle pubbliche amministrazioni continua: per dibattere sulle questioni d'insieme, come fa Romano Bettini, e sui singoli fatti riorganizzativi (con l'articolo di Rosa Maiorino). Il punto sul CIPE è una ricognizione delle vicende di un organismo amministrativo controverso che nella proteforme veste di strumento indefinito di alta amministrazione rinasce continuamente dalle ceneri delle critiche più radicali proponendosi come organo pronto a tutti gli usi (ed abusi). Sintomo, se non altro, che rimane esigenza fondamentale una sede collegiale di alta amministrazione, ausiliaria del Consiglio dei Ministri, mentre è assai intermittente e poco convinta La riflessione (non parliamo di progettualità) riguardante il coordinamento governativo inter-ministeriale.

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Privatizzare il pubblico impiego o reinventare il governo? di Romano B ettini*

La privatizzazione del pubblico impiego italiano operata nel 1993, che lascia al rapporto pubblicistico soio i dirigenti generali, non risponde ad una logica solo nostrana: si veda il caso inglese, in cui il "managerismo" riguarda i funzionari non di vertice 1 , mentre per quelli di vertice, stretti collaboratori dei politici, varrebbero regole professionali misteriosamente diverse. Tale privatizzazione appare così in primo luogo, sul piano teorico, una dualizzazione almeno apparentemente antiweberiana della burocrazia pubblica: l'idealtipo si sdoppia ambiguamente al vertice. Ciò sembra aggiungere una nuova critica al modello weberiano, finora contestato prevalentemente sul piano delle patologie, o su quello della contraddizione tra gerarchia e professionalità. La questione merita approfondimenti. In secondo luogo, anche sul piano fenomenologico, si rivela ambiguo il connubio della dirigenza apicale con i dirigenti politici della PA, e ciò nella misura in cui il "sapere di servizio", che

* Docente di Sociologia del Diritto, Università "La Sapienza", Roma.

questi utilizzano, rischia di essere convogliato così verso le tre aree a rischio tipiche della direzione politica: la concussione, la parzialità, l'indifferenza ai valori dell efficienza e dell efficacia. In terzo luogo, di fatto, il politico sembra arroccarsi ambiguamente in un'area in cui si respira l'aria rarefatta della separatezza della politica dall'amministrazione, nel chiuso dei gabinetti gestiti da magistrati amministrativi e contabili 2 esperti dei meandri del diritto, illegittimamente sovraordinati di fatto a direttori generali (esperti dei meandri degli uffici), da sempre lontani da valori gestionali autentici, e sospetti di manipolazioni amministrative in funzione di interessi "politici" particolaristici.

DUE BUROCRAZIE STATALI DALLA RIFORMA DEL 1993? RETORICA E RICERCA

Il dibattito su questi temi va avviato, a mio avviso, a condizione che si tenga comunque conto anche del mutamento complessivo della situazione della PA: 53


cresce la parteczpazione amministrativa quanto meno virtualmente, data la maggiore apertura e trasparenza degli uffici nei confronti dei cittadini (v. da ultimo la legge 241 del 1990); la burocrazia intermedia sembra consapevole delle situazioni di inefficienza organizzativa di cui non è in grado di venire a capo, come delle responsabilità legislative (circolo vizioso legislativo), magari per mancanza di copertura amministrativa delle leggi, di tali situazioni 3 specie dopo tangentopoli, sembra sempre più difficile utilizzare la burocrazia intermedia come capro espiatorio; l'efficienza e l'efficacia stanno scendendo dall'empireo delle enunciazioni astratte, ripetute da quasi mezzo secolo retoricamente con cadenze da risacca 4, e tentano di risalire dalla palude della loro disapplicazione (per la quale occorre parlare chiaro e forte di illegalità tollerata come forma di sommerso amministrativo) avviandosi verso i confronti con gli standard amministrativi europei (cui rinvia non a caso l'art.l del d.lgs. 29 del 1993 5). La parola deve andare sempre più alla ricerca. Occorrono in particolare ricerche orientate alla comparazione sia nel tempo che nello spazio. Nel tempo, per individuare i veri cambiamenti intercorsi, ed i relativi fattori, dato che la storia delle riforme amministrative è la storia di iniziative, leggi, ;

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progetti di cui si ignora l'efficacia reale al di là della retorica politica e sindacale dei momento e dell'aggressione al passato accampando, per la relativa critica, credenziali non verificate 6 Nello spazio, come confronto tra uffici più efficienti e meno efficienti, più fortunati e meno fortunati, tra nord e sud, tra Italia ed Europa, alla scoperta del vero significato della mobilità di comodo, dei determinismi ambientali, dei feudi locali, per apprendere i modi della modernizzazione e della crescita reale dell'Amministrazione e del Paese. Di fatto, la riforma del d.lgs. 29/1993 è certo lontana dall'essere a regime, ed i principi e le opzioni operative che la ispirano sollecitano a completare la discussione da tempo avviata, e che non dovrebbe, culturalmente, politicamente, amministrativamente, sindacalmente, rimanere incompiuta. La responsabilizzazione della dirigenza burocratica specie intermedia è un connotato certo, o difficilmente contestabile, ditale riforma. Esso ricollega idealmente la riforma del socialista Amato all'introduzione della dirigenza, con il d.lgs. 748/1972 del democristiano Andreotti, ovvero, uscendo dai nostri confini, alla riforma manageristica del Civil Service inglese, dell'ultimo decennio, della conservatrice Thatcher. Ma sembra necessario fare chiarezza soprattutto sulla responsabilità della dirigenza politico-amministrativa, il .


cui ruolo è contrapposto, dalla riforma, a quello della dirigenza burocratica, lasciando il dubbio che si tratti di un ruolo residuo, di cui è esaltata la sovraordinazione ma senza garanzie e sanzioni contro un uso "tradizionale", sostanzialmente informale, comunque non credibilmente correlato all'effiiii ' azione amri' cienza ea aiiil , erricacia aeii ministrativa, dei relativi poteri. Già il citato 748, più di 20 anni fa, prescriveva all'art. 3 annuali "direttive" dei politici. La negatività dell'esperienza relativa, ora che ci si accingerebbe a contenutizzarle di programmi precisi, di obbiettivi e di assegnazioni finanziarie, da cui far derivare le responsabilità della dirigenza burocratica, impone di cogliere l'occasione storica del d.PR 29 per tentare di realizzare veramente la rottura del circolo vizioso burocratico: la dirigenza politicoamministrativa deve cessare di essere un management by exception, che interviene cioè eccezionalmente, a caso e per lo più in modo informale , magari solo elettoralisticamente interessato. Occorre insomma che la dirigenza politica della PA si impegni con il suo giuramento, reso costituzionalmente al Capo dello Stato, al rispetto di un Codice di comportamento 7 ispirato ai principi dell'art. 97 Cost., codice che non può esonerarla da un duro lavoro di definizione di programmi ed obbiettivi fattibili, per i quali si assegnino risorse congrue, credibilmente calcolate: anche la parte politica del gio-

co si convinca che occorre ormai, in un clima di nuova cultura amministrativa, mettere le sue carte in tavola. PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E ANALISI DELLE POLITICHE AMMINISTRATIVE

L'analisi delle politiche amministrative (compresa in esse quella del pubblico impiego) non può correttamente intraprendersi che attenendosi ad un quadro di riferimento concettuale affidabile, da un lato, all'insieme delle politiche amministrative in atto, dall'altro, e, infine, cercando adeguati confronti internazionali.

A. Il quadro di rftrimento concettuale, modellistico, può dualizzarsi, potendosi riferire al personale od all'organizzazione. Per quanto riguarda il personale il modello dominante a tutt'oggi, sul piano positivo, è quello weberiano, quello cioè di una burocrazia professionale cementata da una deontologia giuridicamente predeterminata e dalla dipendenza da una distinta direzione politica. La novità storica che Weber non aveva considerato, se non altro perché non si era ancora manifestata quando egli scriveva "Economia e Società", è quella dell'assedio che le piramidi gerarchico-amministrative subiscono sempre più dalla fine degli anni Sessanta nei Paesi più sviluppati da parte dei cittadini, intesi ormai come cittadini 55


utenti: la più matura e diffusa cultura civica e dei propri diritti di utenti di servizi pubblici (v. le "carte" del cittadino, del malato, del consumatore moltiplicatisi anche in Italia in questo ultimo quarto di secolo) conduce ad istituzionalizzare forme di parteczpazione amministrativa8 Ne vien fuori come un nuovo ideakipo burocratico, un idea fripo burocratico a partecipazione amministrati va9 (partecipazione cioè nè politica nè giudiziaria). Attraverso tale partecipazione la piramide burocratica subisce una continua verifica dal basso verso l'alto, integrante la verifica gerarchica. L'idealtipo burocratico weberiano, tutt'oggi valido, viene così ritoccato in termini di chiarificazione dei dinamismi storici emersi che ne costituiscono una più attuale cornice di riferimento. Sul piano negativo da un secolo e mezzo, e cioè quanto meno da Marx'°, l'applicazione del modello subisce critiche ininterrotte, fino a quelle di Crozier, che evidenziano l'incapacità della burocrazia di correggersi in funzione dei propri errori; mentre all'inizio del secolo, come evidenziato dal classico contributo di D.Waldo sullo "Stato amministrativo", cominciano a lievitare i movimenti culturali e civici per la razionalizzazione della PA e per il miglioramento delle sue prestazioni. In altri termini il modello burocratico è storicamente inteso ormai in un'ottica di permanente controllo della sua .

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funzionalità, ovvero della affidabilità della professionalità burocratica relativa.

Per quanto riguarchz l'organizzazione si può dire che il modello ministeriale sia tuttora quello dominante, variamente integrato da forme organizzative "autonome" (agenzie e simili). Ma la modellistica organizzativa, oltre a risentire delle teorie relativizzanti della "contingenza", rimane circoscritta soprattutto ai temi del decentramento, della differenziazione, della riduzione, la cui discussione è stata finora sempre accompagnata da quella più vistosa sulla burocrazia e sulla burocratizzazione. B. Il quadro complessivo delle politiche amministrative in atto rappresenta l'insieme degli oggetti delle politiche amministrative che condiziona, appunto come insieme, le singole politiche amministrative. Così la politica del pubblico impiego non può non essere relativizzata da quella dei controlli, del procedimento, della copertura amministrativa delle leggi, della regionalizzazione, della informatizzazione e così via. Tale quadro complessivo è segnato, trasversalmente, peraltro, da problemi di efficienza ed efficacia, che non possono risolversi in quelli dei vari settori dell'azione e dell'organizzazione amministrativa (controlli, procedimento amministrativo, dirigenza, riduzione della spesa pubblica e simili): l'efficienza del personale non può sopperi-


re alla mancanza di copertura amministrativa, come la riduzione dei capitoli di bilancio non garantisce nè l'efficienza nè l'efficacia delle prestazioni del personale.

C. I confronti internazionali sono ormai sempre più necessari, quanto meno sul piano comunitario, a voler prescindere dai temi della mondializzazione di modelli procedurali, organizzativi, lavoristici, consumistici, giustizialistici. L'idealtipo burocratico webenano non riguardava già una realtà storico-istituzionale senza specifici confini statali!!? LA "PRIVATIZZAZIONE" ITALIANA DEL PUBBLICO IMPIEGO

Anche se non abbiamo riscontri dalle scienze sociali i giuristi hanno già cominciato, per le loro esigenze soprattutto pratico-giudiziarie e manualistiche, a proporre riflessioni di carattere metadogmatico sulla "privatizzazione" della nostra PA. Virga, ad esempio, commentando il d.lgs. 29/1993, afferma che comunque "rimane ferma attualmente gran parte della legislazione anteriore" 2, e che tra i meriti della riforma c'è la "delimitazione dell'area della gestione tecnica rispetto a quella della direzione politica... (e il) potenziamento della dirigenza, alla quale è stata conferita anche potestà nel campo finanziario, e della quale peraltro è stata ribadita la responsabilità per i risultati della ge-

stione ... ; (mentre) perplessità suscitano alcune innovazioni... (tra cui) la suddivisione del ruolo dirigenziale in due tronconi", dirigenti generali e dirigenti 13, di cui i primi non privatizzati (art. 2, 4°comma del citato decreto, che comunque esclude dalla privatizzazione, tra l'altro, personale prefettizio, diplomatico e polizia di Stato, pur reclutato con analoghi concorsi pubblici! 4). Anche Catelani contesta la privatizzazione del d.lgs. 29: sarebbe "formale e giuridica.., non sostanziale..., artificiosa... Non è che un vuoto nome, che fa riferimento ad un rapporto che fondamentalmente rimane pubblico. (Si tratta di) una riforma che... pur basata su criteri moderni e di efficienza, difficilmente è in grado di eliminare i difetti di fondo dell'organizzazione stessa, e cioè l'inerzia e la dispendiosità del sistema"; tra l'altro "la vastità dell'oggetto delle riforme ne sfuoca i contenuti e ne rende l'applicazione estremamente difficoltosa" 5. In una situazione in cui si va verso un avvicinamento tra diritto pubblico e diritto privato, "verso un diritto comune "16, non sembra bastare quindi l'estensione ai dipendenti pubblici, pur sempre "organi della PA"17, della legge 300/1970 (statuto dei lavoratori del settore privato, ispirato a criteri di garanzia dei lavoratori, però, e non di efficienza!), in un contesto in cui rimane pubblicistica la regolamentazione dell'organizzazione amministrati-

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va18 quegli stessi scopi di efficienza e produttività che la configurazione privatistica dovrebbe assicurare, sono in realtà invece garantiti ...da opposte norme di diritto pubblico" 19 Già da questi riferimenti sembrerebbe doversi prendere atto che la filosofia della riforma del 1993 pii che sulla privatizzazione punta sulla dirigenza, istituto emblematizzante in effetti l'intero corpo burocratico (tanto osteggiata, quando fu istituita 20 anni prima, nel 1972, dal d.PR 748, dai sindacati e dall'opinione pubblica, che ne vedevano solo privilegi retributivi da "superburocrati d'oro"). Ancor oggi l'opinione pubblica italiana sembra osteggiare la dirigenza (tutt'altro che d'oro se se ne raffrontano le retribuzioni, ad es., con quelle dei magistrati, pur reclutati a mezzo di analoghi concorsi). Si veda la recente enfasi dei mass media sulla possibilità di licenziare i dirigenti, omettendo di considerare sia dirigenti generali che impiegati di rango inferiore, pur dipendendo questi ultimi dai dirigenti). Siamo dunque di fronte ad una privatizzazione nominale, di facciata, ad una quasi-privatizzazione una "trovata" per dare in pasto all'opinione pubblica, allarmata per le conseguenze del debito pubblico, un capro espiatorio collettivo nel nome dell'efficienza e della lotta agli sprechi. Vediamo di avviare un'analisi di tale "enfasi", alla luce dei criteri enunciati nelpar. 1. : "

.

Il quadro di riferimento concettuale. L'enfasi sulla dirigenza "privatizzata" non contraddice l'idealtipo weberiano nella misura in cui questo in effetti non esclude certo la verifica delle capacità professionali del burocrate, finora tutto sommato non verificate in maniera soddisfacente (e la cosa riguarda anche e maggiormente i magistrati) data la stabilità di fatto dell'impiego e la prodiga valutazione massima per tutti. La divisione della dirigenza in due tronconi, di cui uno continua a rimanere formalmente di diritto pubblico e comunque di nomina politica, sembra invece contrastare il connotato della professionalità weberiana, essendo interessata da coinvolgimenti politici sospetti per la logica professionale della qualifica burocratica. Per di piiii rischia di inficiare anche la professionalità dei dirigenti di diritto privato, gerarchicamente sottoordinati ai dirigenti generali e certo sensibili alle prospettive di un proprio transito nella dirigenza generale. La contraddizione potrebbe superarsi probabilmente se si oggettivassero i criteri e la procedura della selezione dei dirigenti generali, ferma restando la correttezza dei criteri e delle procedure di valutazione periodica della loro efficienza. Il quadro complessivo delle politiche amministrative in atto. L'enfasi sulla dirigenza "privata" non potrà non fare


i conti, in particolare, con la politica dei controlli in senso lato e con la politica della trasparenza dell'azione amministrativa. La politica dei controlli in senso lato è segnata da un netto trapasso ad analisi di gestioni più che di atti, a valutazioni di produttività più che di legittimità. Certamente, le riforme dei primi anni Novanta sembrano ben indirizzate al riguardo, dalla normativa sui comitati provinciali della PA al controllo sulla gestione della Corte dei conti del 1994. Il loro insieme può in teoria consentire una valutazione adeguata del rendimento, dei costi, dell'efficienza e dell'efficacia di ogni servizio e di ogni dirigente. Vedremo il futuro. Certo è che per il passato le numerose norme in tema di buon andamento costringono a parlare, come si è visto, di leggi risacca, e cioè di norme che si ripetono ritualisticamente nel tempo più o meno eguali ma senza risultati reali. Non è da dimenticare che Massimo Savero Giannini ha parlato di banalizzazione dell'art. 97 Cost. in tema di buon andamento della PA. Insomma le attese sulle performances della dirigenza "privata" non hanno garanzie maggiori di quelle indotte da precedenti riforme, almeno a brevemedio termine, in attesa che la riforma del controllo della Corte dei conti del 1994 entri a regime e sia effettivamente incidente sulla qualità delle gestioni pubbliche (cosa che le precedenti esperienze della Corte in tema

di controllo sulla gestione non fanno peraltro sperare). A breve termine sembrerebbero più probabili invece i risultati della politica della trasparenza (ispirata sostanzialmente al modello dell'idealtio burocratico a partecipazione amministrativa) di cui alla legge 241/1990, che dà sulla carta spazio agli interessi dei singoli cittadini e potrebbe costringere i dirigenti, sentendosi più controllati dal basso, a comportamenti amministrativi più attenti. Ciò sempre che i cittadini abbiano voglia, tempo ed interesse concreto ad andare, per così dire, contro tradizione (anche il cittadino, come il burocrate, sembra lento all'innovazione in tema di PA).

I confronti internazionali. Questi sembrano confermare parti del trend italiano. Vediamo il caso inglese, già gravido di esperienze che, ad esempio, non ha il caso statunitense, ancora allo stato di ipotesi secondo il progetto Al Gore, anche se pervaso da analoga filosofia20 . L'INSEGNAMENTO DEL "MANAGERISMO" (INcoMPIu'ro) DEL

Civu. SERVICE

BRITANNICO

Volendo descrivere i modelli britannici di politica del pubblico impiego, Keraudren 2 ' ne individua tre fasi: quella del secolo XIX, dell'integrazione tra politici e burocrati; quella che va dal 1900 al 1960 22, della differen-

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ziazione o modernizzazione amministrativa; e quella che va dal 1960 al 1994, del managerismo o della strumentalità. Quest'ultima, centrata sulla promozione dell efficienza e del! efficacia e sul riferimento al modello privato di organizzazione (che richiama immediatamente il confronto con le nostre esperienze dirigenziali e di privatizzazione) non viene giudicata positivamente dall'A., secondo cui "l'amministrazione non appare più come il dominio della competenza professionale degli amministratori, ma come lo strumento sotto controllo delle politiche governative" 23 . Inoltre anche per il Civil Service britannico si manifesterebbe, in quest'ultima fase, una spaccatura ambigua: "le relazioni tra ministro ed alti funzionari sono state escluse dal managerismo ... (Si va sempre più verso) una concezione che rigetta chiaramente la deontologia professionale classica" 24 . Per cui l'A. si chiede: "come restituire coerenza a questo doppio scenario politico ambiguo, paradossale?" 25 L'A. dà la colpa della situazione, che avrebbe portato addirittura la burocrazia ad una crisi di anomia endemica e di identità 26 , alle contraddizioni della dirigenza politica, che tra l'altro non si impegna nella realizzazione della sua stessa politica del pubblico impiego, alla politicizzazione dei sindacati, alle carenze progettuali della tessa burocrazia 27. 60

Estremamente interessante l'enfasi dell'A, sulla mancanza di interventi concreti, direzionali dei politici, arroccati a parole sulla politica manageristica, ma indifferenti in pratica alla verifica dei risultati di detta politica 28 . Molto rumore per nulla? Sembrerebbe di sì, visto che i funzionari, dagli anni sessanta, hanno continuato sostanzialmente ad operare nella tradizione dell'epoca classica 29, per cui "il progetto riformatore dominante degli anni 1960-1994" è rimasto "allo stadio di concezione che non ha potuto tradursi nella sua applicazione. Sembra che ... lo status quo della modernizzazione organizzativa del periodo anteriore si sia largamente perpetuato isolando il disegno managerista dalle pratiche amministrative"3 0, ed ottenendo come solo risultato tangibile quello di ridurre le spese, l'output, ma senza migliorare l'efficacia 31 . DUE QUESTIONI CRUCIALI DELLE RIFORME AMMINISTRATIVE DI FINE SECOLO

La questione dell'efficienza della PA è certamente alle radici della "riforma" del 1993, se non altro per il quadro incombente della necessità di ridurre debito pubblico e spesa pubblica. Ma ci sono motivi per ritenere che la riforma si converta in legge risacca sotto il profilo del buon andamento, nonostante il fatto che i! decreto 29 preveda al 20comma dell'art. 30 la ridefi-


nizione degli uffici e delle piante organiche "periodicamente e comunque a scadenza triennale", o che agli artt.17 e 20 preveda responsabilità e controlli interni di costi, rendimenti, realizzazione di obbiettivi, economicità della gestione e, soprattutto, che all'art. i ricordi la necessità di adeguare gli standard della nostra PA a quelli degli altri Paesi della Comunità europea 32 . Per quanto riguarda la questione degli organici in effetti già la legge 775/1970 non prevedeva (inutilmente, ahimè, stando alla sua mancata applicazione) una loro revisione annuale in occasione della Relazione al Parlamento sullo stato della PA da parte del Presidente del Consiglio dei ministri? E le responsabilità dei dirigenti e dei servizi ispettivi non sono state fin ad ora inutilmente previste dal d.lgs. 748/1972? E che dire del fatto che solo 200 enti superflui su 600 siano stati eliminati fino all'inizio del 1995 ai sensi della legge 70/1975? A parte le vistose, pesanti disapplicazioni di precedenti norme orientate agli stessi principi della riforma in questione, è da prendere atto che parte della medesima dottrina giuridica non incoraggia certo a rivedere l'andazzo: vedi la definizione dell'efficienza amministrativa come fatto di costume e del buon andamento della PA come concetto pregiuridic0 33 , come se, ad esempio, il rispetto dell'orario di servizio sia fatto pregiuridico e non diritto vigente, o come se le circolari

della Funzione pubblica sulle analisi di produttività secondo le indicazioni della Commissione Taradel siano materiali non rientranti tra le fonti del diritto amministrativo. In effetti, esistono decine di norme giuridiche (e non solo pregiuridiche) di rango soprattutto legislativo mirate a garantire il buon andamento, fatto che non riguarda solo l'Italia e che la letteratura straniera ha segnalato come "giuridicizzazione dei precetti manageriali" 34; ed è certo da prendere atto della loro mancata applicazione, della loro banalizzazione, come si espresse al riguardo, si è già accennato, Massimo Severo Giannini. Cosa di cui detta dottrina non si cura, affermando comunque che spetta al politico, e non al burocrate, garantire (pregiuridicamente?) tale buon andament035 . Ammesso che il buon andamento non sia questione riguardante primariamente i dirigenti burocrati (come sembrerebbe dal decreto 29), come garantisce il sistema (l'ordinamento) che i dirigenti politici, che non dovrebbero interferire sui "compiti tecnici" 36 dei primi, si impegnino ad assicurare il buon andamento della PA?37 Non resta che sottolineare come l'ordinamento in effetti non lasci dubbi sul dovere di essere efficienti, tra l'altro rispettando precise norme che tendono a prescriverne le modalità; e che proprio il dirigente politico non soltanto è latitante finora per quanto ri61


guarda il rispetto, ad esempio, delle norme che gli imponevano, con il d.lgs. 748 del 1972, l'emanazione annuale di direttive, ma addirittura omette spesso di esigere dai dirigenti burocratici l'osservanza di norme emanate per l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione 38 . La questione dell'immunità39 della direzione politica della PA, d'altro canto, non è al momento ancora sufficientemente approfondita. La dottrina giuridica esclude, finora, l'intervento della giustizia amministrativa rispetto agli atti politici 40, anche se non esclude in via di principio la responsabilità amministrativa, penale e civile degli amministratori pubblici in genere. Emblematico è il caso dei giudizi di responsabilità amministrativa della Corte dei conti, collegati ad un danno erariale che in effetti è difficilmente ravvisato per i comportamenti omissivi, magari come culpa in vigilando, in tema di buon andamento. Ma, ad esempio, quali sono le responsabilità per la mancata definizione delle "direttive" politiche per gli effetti di "mal andamento" della loro omissione, avendo l'omissione stessa lasciato la dirigenza burocratica allo sbando? O quali sono le responsabilità per la mancata o tardiva presentazione in Parlamento dei disegni legge relativi alle variazioni degli organici? La carenza di reale giustiziabilità delle norme relative alla responsabilità della 62

dirigenza politica si risolve in una situazione incerta, così connotabile: la dirigenza politica si chiude, al di là della retorica programmatica ufficiale (programma di governo, circolari, interviste e simili), in una sòrta di management by exception, che interviene cioè soltanto eccezionalmente, e comunque finora mai per garantire responsabilmente, sistematicamente e non sporadicamente il buon andamento dell'azione amministrativa. L'eccezione sembra rappresentata da eventi di giornata, per lo più di interesse politico-elettorale o partitico. Non a caso il trait-d'union tra politica ed amministrazione è costituito, come già ricordato, da capi di gabinetto quasi sempre magistrati, conoscitori cioè, più che delle esigenze operative degli uffici, della soglie di violabilità delle norme vigenti; ed il sopravvissuto carattere pubblicistico del rapporto di lavoro dei "dirigenti generali", pur in qualche modo sottoordinati ai capi di gabinetto, sembra rispondere al criterio dell'acquisizione politica di un "sapere di servizio", in senso weberiano, in funzione di obbiettivi particolari e non "generali" come sarebbero quelli della implementazione efficiente ed efficace delle politiche ufficiali del Governo in linea con la legislazione vigente. La dirigenza burocratica viene giudicata partendo dalla presunzione (cui dovrebbe seguire una dimostrazione parziale o totale, che in genere non


viene mai data) che sia formalista 4 ' e quindi inefficiente (così come si presume che il cittadino voglia ingannare la PA e va quindi trattato come inaffidabile). Il connotato si presta al ricorso a noti modelli dell'analisi sociologica: quello del capro espiatorio, per la dirigenza burocratica42, e quello del circolo vizioso legislativo43, per la dirigenza politica. Quest'ultimo intende superare criticamente il modello del circolo vizioso burocratico, inteso come incapacità della burocrazia di correggersi in funzione dei propri errori, per indicare che in effetti il circolo vizioso è di maggiore ampiezza e si celebra sostanzialmente a livello politico, e che è a tale livello che occorre procedere alla rottura del circolo stesso, carico com'è di errori e di illegalità (sommerso amministrativo tollerato dal sistema) 44, in un quadro fenomenologico che riduce spesso a dimensioni simboliche non solo il principio di efficienza ma anche quello di legalità45 .

IL REFORMS DISPLACEMENT

A proposito di simbolismi c'è da dire che le scienze sociali, forse perché sovraimpegnate da una fenomenologia molto eterogenea, talora non aiutano a riorientare la nostra cultura amministrativa, dandone una lettura che sembra appiattirla sulla cultura burocratica, cioè sulla cultura dei soli soggetti

burocratici del sistema amministrativo. I più recenti studi italiani sul simbolismo organizzativ0 46, a parte i limiti dichiarati dagli stessi sul piano dei risultati47 , rimangono ancorati all'analisi degli aspetti simbolico-culturali dell'attuazione burocratica delle politiche. I simboli e le culture che si esaminano riguardano, in altri termini, prevalentemente 1' implementazione burocratica, e non la dirigenza politica degli apparati burocratici ed il ruolo di quest'ultima. Per questa, si giunge comunque a negare che in Italia, a differenza che in Francia, la relativa cultura amministrativa tenda a ricorrere a "capri espiatori". Si veda in tal senso il contributo della Sebastian148 che, premesso che "l'istituzionalizzazione della figura del capro espiatorio nelle organizzazioni... è un esempio di costruzione istituzionale che non può essere spiegato che privilegiando la dimensione culturale", ritiene di poter affermare che "in Italia la scarsa capacità di produzione simbolica del potere politico si manifesta nel fatto che esso raramente produce capri espiatori credibili". Insomma, se la burocrazia viene attaccata da qualcuno è perche essa ha torto. Così anche questa tesi sembra portare acqua al mulino di una lettura del nostro sistema amministrativo come sistema in cui la dirigenza politica è così indifferente, nella sua cultura ammi63


nistrativa, al corso reale, ai risultati della propria gestione, che non si picca neanche di cercare capri espiatori. Portando in chiaro il discorso si potrebbe dire, forse, che i nostri dirigenti politici non colpevolizzano capri espiatori burocratici perché in effetti le loro politiche - coadiuvante l'opinione pubblica - lasciano quasi sempre all'inerzia burocratica la responsabilità esclusiva di ogni insuccesso. A questo punto non rimane che esplicitare la tesi che il capro espiatorio italiano nelk cultura amministrativa italiana c'è, ed è generalizzato e preventivo. L'interferenza politica, o "ipertrofia di apparenza politica", come la chiama Bonazzi4 9, sulla PA, si muove strisciando sulla propria indifferenza complessiva alle sorti degli apparati. Questa a sua volta snerva, vanifica, frustra, burns out50 in gran parte l'eventuale buona volontà burocratica (si vedano al riguardo i dati empirici sulla variabile organizzativa della nostra PA nel prossimo paragrafo). Dunque anche la cultura accademica puntella talora la separatezza all'italiana tra politica ed amministrazione, separatezza utilizzata non per potenziare autonome responsabilità politiche e burocratiche, ma per degradare queste ultime al servizio degli interessi "estranei" del vertice politico della PA. Ne vengono così avvantaggiati in qualche modo sia il familismo amorale nostrano, da un lato, che le deviazioni di tangentopoli, dall'altro. 64

Le prospettive positive, di lavoro, dei simbolismo organizzativo sembrano dunque rinviare, al di là del microdecisionismo e della frammentazione dei piani simbolici, ad una più attenta, sistematica "frame", o cornice di riferimento delle organizzazioni pubbliche, che riconsideri da un lato la letteratura ormai classica del simbolismo politico sulle risorse ideali della società, del simbolismo giuridico e dell'interpretazione giuridica5 I. Ferma resta, inoltre, la necessità di un impianto storico relativo al ruolo della legislazione nei rapporti politica-amministrazione pubblica 52, ed al susseguirsi delle politiche amministrative italiane; susseguirsi che appare un continuo rinvio a future soluzioni legislative per problemi che non si è voluto risolvere sul piano implementativo, gestionale, delle norme esistenti. Fenomeno che, per parafrasare il classico goals displacement dei sociologi della burocrazia, sembra presentarsi come un vero e proprio reforms dispiacement da parte della direzione politica degli apparat153. ORGANIZZAZIONE DEGLI APPARATI PUBBLICI E RUOLO DELLA DIREZIONE POLITICA

Gli studi empirici disponibili sui nostri apparati burocratici, anche se non affrontano finora sistematicamente il tema dello scivolamento delle riforme relative alle tre "E" (efficienza, effica-


cia, economicità) dei medesimi, mettono peraltro in luce, in modo preciso e concordante, la loro situazione organizzativa quale si è presentata e si presenta negli ultimi dieci anni. Stando all'opinione dei funzionari apicali e preapicali di varie amministrazioni la variabile organizzativa si prospetterebbe in termini così sintetizzabili: le difficoltà di coordinamento ed organizzazione del lavoro sono due volte più pesanti di quelle connesse alla demotivazione del personale e oltre tre volte più pesanti di quelle connesse all'inadeguatezza delle norme 54; l'utenza potrà, nel futuro, essere soddisfatta più con una regolare organizzazione del lavoro che con l'impegno di maggiori risorse od il ricorso ad una migliore legislazione 55; la mancanza di organizzazione e programmazione è più grave, nell'attuazione delle riforme, delle insufficienze e dei ritardi 56; ei) l'assenteismo può essere battuto principalmente con una migliore organizzazione del lavoro 57; per sciogliere i nodi della produttività della PA, nell'interesse dell'utenza, una migliore organizzazione del lavoro è più importante della copertura amministrativa delle leggi e del miglioramento della legislazione 58; in particolare nel settore sanitario, dopo le carenze di personale, il fattore organizzativo risulta il più critico per il funzionamento del sistema59; ancora nel settore sanitario, le mag-

giori difficoltà nel lavoro ddle UsL vengono dalla "organizzazione genera!e"60; le difficoltà organizzative sono identificate soprattutto con l'inadeguatezza dei mezzi 61 ; le responsabilità per il deterioramento della situazione, in campo sanitario, sono più nazionali e regionali che locali e burocratico-amministrativo, anche secondo il parere del personale di nomina, politica dei comitati di gestione della USL62 ; 1) a livello locale, le insufficienze finanziarie sono la causa maggiore delle disfunzioni63; m) per il futuro, vista la riforma del d.PR. 29 de! 1993, le prognosi di peggioramento prevalgono su quelle di miglioramento, ed i motivi del previsto peggioramento vengono massicciamente identificati con quelli organizzativi64. Si tratta di una flottiglia di iceberg la cui base sommersa pone seri interrogativi sui ruoli politici più che su quelli burocratici; e quindi sui ruoli di chi dovrebbe esercitare monitoraggio, controllo cibernetico, incisivi poteri di dirigenza politica rispetto ad una realtà spesso alla deriva. LEGIFERARE SENZA GESTIRE: LA DIRIGENZA POLITICA DELLA PA E L'ALIBI DELLA SUA INIZIATIVA LEGISLATIVA

Nonostante la drasticità della relativa retorica la politica amministrativa rin-

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via dunque a caute ulteriori indagini, dato che ne sono per lo più noti solo gli estremi di pubblicazione delle relative leggi e le dichiarazioni ufficiali degli uomini di governo e dei sindacalisti, nonché l'esegesi dei giuristi, ma ne rimangono per lo più ignoti implementazione effettiva e differenziali di risultato. Nel caso della nostra "privatizzazione", come dell'inglese "managerismo", l'oggetto del dibattito si rivela essere né di sinistra né di destra, essendo solo formalmente di destra la sua versione inglese, thatcheriana 65 , e in qualche modo socialista quella italiana di Giuliano Amato, peraltro sulla scia della creazione della dirigenza operata , come accennato, nel 1972, dal dc Andreotti. Certo, una politica amministrativa deve interessare sia sinistra che destra, dato che per riuscire "deve essere accettata e resa propria, in breve deve essere condivisa e far condividere" 66 . L'esempio del managerismo incompiuto della Gran Bretagna, come quello delle leggi risacca italiane in tema di buon andamento della PA, confermano la nota constatazione degli studiosi statunitensi sul ruolo delle politiche amministrative, sempre aggressive verso il passato ma indifferenti alla verifica di risultati che le legittimi in modo pieno come migliori di quelle adottate precedentemente, Così, il campo delle politiche amministrative si rivela campo privilegiato di osservazione delle contraddizioni di 66

un Paese, della sua modernizzazione impe fetta, prodiga di riforme e avara di successi, appesantita dalla tolleranza dell'illegalità del sommerso amministrativo, coerente con una società particolaristica, centrifuga, clientelare, in cui cittadini, politici e burocrati esercitano gli stessi cinismi cercando di non far divampare il fuoco sacro dell'etica e della giustizia. Il sociologo ha spazio per evidenziare il ruolo e le cause di leggi manifesto e leggi risacca, capri espiatori, sommerso amministrativo, mutamento reale, ambiguità di ceto, timori di gabbie d'acciaio burocratiche. Il politologo ha spazio per rivedere la tesi tradizionale dell'unità sostanziale tra politica ed amministrazione, ormai bisognosa di opportuni distinguo in un quadro storico che sembra negare la trasparenza, la razionalizzazione della politica, razionalizzazione così appassionatamente invocata da Mannheim, per relegarle alla "amministrazione". L'amministrativologo ha spazio per continuare le sua analisi delle condizioni reali dell'efficienza e dell'efficacia, e per cercare di superare quel ruolo apparente di vana Cassandra finora svolto dalla Scienza dell'Amministrazione in campo pubblicistico. Il giurista ha spazio per approfondire i rapporti tra poteri, ed in particolare il ruolo dell'esecutivo, spesso alla ricerca di un alibi nell'iniziativa legislativa, retorica e priva di conseguenze operative significative.


Il comun denominatore dei vari approcci disciplinari possibili sembra essere l'assenza di reale trasparenza e significatività positiva della direzione politica, che tende a trasferire sulla direzione burocratica l'onere della stessa trasparenza ed a mimetizzarsi nello snodo legislativo dei suoi rapporti con il parlamento, di cui resta permanentemente sollecitata l'attività normativa e bloccata quella di controllo. C'è di che impegnarsi in opportuni approfondimenti, cercando di orientare criticamente l'informazione di massa, tuttora incapace di distinguere

tra burocrazia, burocratismo e burocratizzazione, facile alla chiamata in causa della PA, imputandole come sistema burocratico un'inefficienza che, a ben vedere, va imputata ai signori della politica. Gli attuali vincoli del sistema democratico nei confronti dell'esecutivo sembrano non bastare pi1, visti gli effetti perversi che spesso da essi scaturiscono in tema di buon andamento della PA. Reinventare il Governo, secondo la formula dei politologi americani, significa anche questo67 .

P. KERAUDREN, La modernisation de l'Etat et le thatcherisme, Bruxelles, 1994. 2 SuI loro ruolo cfr.: Sono i magistrati contabili e amministrativi a comandare nello Stato, in «Il Messaggero)>, 4-5-1995. 3 Cfr. Comune di Roma (USPE), I quadri intermedi nell'Amministrazione comunale, Roma, 1994. Sulle Leggi risacca cfr.: R. BEUIN!, La politica ammi-

6

nistrativa italiana all'inizio degli anni '90. Leggi risacca e politiche monoculturali, in «Studi parlamentari e

delli italiani di partecipazione del cittadino alla Pubblica Amministrazione, Milano, 1970. Cfr. R. BETTINI, Verso un idealtipo burocratico a partecipazione amministrativa, in »Rassegna italiana

I

di politica costituzionale», 1993-99. Analoghi concetti compaiono in P.C. JOYCE, La natura reiterativa

della riforma del bilancio: ú qualche novità nel processo di formazione del bilancia federale?, tradotto in »Problemi di Amministrazione pubblica», 1995-1, che evidenzia come le riforme in tema di bilancio pubblico non riescano di regola a risolvere i problemi che pretendevano di controllare. La questione degli insuccessi delle riforme amministrative è ormai un topico degli studi organizzativi. Cfr. G. MARCH, J.P. OLSEN, Organizing Political Life: what Administrative Reorganization TelIs about Government, in «American Politica1 Science Review», 1983-2. 5 E successive modifiche di cui al testo unificato comparso sulla GU n.45 del 24-2-1994.

Per tale storia cfr.: Dipartimento della Funzione

pubblica, La rfbrina amministrativa 1918-1992, Roma 1994. L'art. 58 bis, 2° comma, del 19 prescrive che un Codice di comportamento sia pubblicato sulla Gu e consegnato al dipendente all'atto della assunzione (ma soltanto al "dipendente", e non al suo capo!). 8 R. BETTINI, La partecipazione amministrativa. Mo7

di sociologia», 1975-1. IO Circa le basi marxiane dell'atteggiamento del socialismo reale nei confronti della propria burocrazia cfr. R. BE1rnN!, L'URSS nell'era di Gorbacev. Moder-

niz.zazione politica e apparati di Stato negli anni 90, prefazione di V. STRADA, Roma, 1991. 11 "Il modello-tipo burocratico weberiano è certamente, malgrado le sue varianti nazionali, il modello dominante dei paesi dell'Europa occidentale e di certi Paesi del Commonwealth" (Keraudren, cit., P. 270). 12 P. VIRGA, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Milano, 1993, p. 6. Tra le norme in vigore, ai

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sensi in particolare del TU del 1957, vanno qui ricordate - per ridimensionare, se ce ne fosse bisogno, il ruolo della nostra "privatizzazione" - quelle relative alla sanzione disciplinare della destituzione ed ai provvedimenti non disciplinari della dispensa per incapacità o scarso rendimento (artt. 84. 85, e 129 TU). 3 Ibid., p. I. 4 Concorsi esclusi solo per i primi quattro livelli del pubblico impiego, selezionati sulle liste di collocamento tra coloro che sono in possesso del titolo di studio della scuola dell'obbligo (I. 56/1987). IS A. CATELANI, Il pubblico impiego, Padova, 1995, rispettivamente p. 79, 80, 83, 66. 6 Ibid., p. 73. Notisi, per incidens, che il fatto di essere sottoposti ad una sorta di diritto comune non ha sottratto i Paesi del socialismo reale alle accuse di burocratismo da parte dello stesso regime (cfr. BErn-

L'URSS nell'era di Gorbacev.

9 Ibid., p. 67, nonostante le apparenze offerte dall'art.4 del 29: "le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione per l'organizzazione degli uffici al fine di assicurare la economicità, speditezza

208). Ma allora è tutta colpa del managerismo? O di questa anomia come mancanza di identità, di senso di appartenenza ad un ceto, la burocrazia ha sempre sofferto? L'A. ritiene comunque di poter affermare che nel Civil Service britannico "l'esperienza della strumentalità ha posto fine al dominio della virtù" (p. 245); ha portato ad un'imagine negativa d'una

e rispondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa. Nelle materie soggette alla disciplina del c.c., delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi, esse operano con i poteri del privato datore di la-

professione carente di competenza e di ideali democratici nonostante le sue posizioni di responsabilità" (p. 243), ad una professione "al solo servizio del governo" (p. 270), senza poter "opporre a questo ob-

voro, adottando tutte le misure inerenti all'organizzazione ed alla gestione dei rapporti di lavoro". 20 Cfr. R.C. M0E, Reinventare il governo. Fraintendimenti sul problema, malintesi sulla conseguenze, tradotto in «Problemi di Amministrazione pubblica», 1995-1, che analizza il rapporto NationalPerformance Review, del vice-presidente degli USA Al Gore, sulla riforma dell'amministrazione federale, rapporto dopo la cui lettura sembra che il Presidente Clinton abbia esclamato: "questo Governo è in pericolo!". Il rapporto suggerisce che a partire dal Presidente e

bligo di servizio un altro riferimento come 'l'interesse dello Stato', il 'servizio al pubblico' o 'il servizio

NI,

cit.).

concorso pubblico (anche se poi limitatamente applicato) in termini di passaggio dal patronage politico (non più percorribile) al patronage amministrativo come cooptazione amministrativa (p. 18). 23 Ibid., p. 193. Tra l'altro viene incluso nel management anche "la gestione dei compiti esecutivi, cioè una attività di secondo grado riservata a funzionari medi" (p. 203). Sulla questione dei quadri intermedi v. l'introduzione al presente scritto. 24 Ibid. L'A, segnala che nel 1977 "l'Expenditure Committee... ha dovuto constatare... (che) l'alto funzionario rimane lo 'specialista in amministrazione', mentre i compiti di gestione erano sempre relegati a dei livelli subalterni" (p. 203). 25 Ibid., p. 214. 26 Che in effetti riguarderebbe, secondo l'A., tutte le amministrazioni contemporanee (p. 2). Il burocrate sarebbe oggi, à la R.Musil, "uomo senza qualità" (p.

17 CATELANI, cit., p. 33. IS Ibid., p. 47.

fino all'ultimo rango amministrativo tutti debbono ignorare o non applicare rigorosamente leggi e regolamenti sbagliati(!). Comunque, secondo l'A., tra i possibili obbiettivi "non scritti" del rapporto c'è la promozione di un esecutivo più, e non meno, politicizzato. 21 KERAUDREN, cit., p. 9. 22

Ibid., p. 10 ss. Interessante la descrizione dell'istituzione -nel secolo scorso- dell'open competion, del

alla comunità" (p. 263); "il funzionario cessa di essere virtuoso e l'impiego pubblico di essere democratiCO " ( p. 240). Ciò a fronte della "antieticità" della direzione politica dell'amministrazione, incapace di valorizzare "il carattere del funzionario nella sua professione" (p. 239), tra l'altro esprimendosi in una politica salariale che avrebbe allontanato i migliori dal pubblico impiego ed accentuato il pantouflage (p. 196). Insomma "la 'politisation' non è che un caso particolare di 'direzione politica'.., un tentativo di controllo dell'etica amministrativa da parte dei governanti" (p. 208). 27

Circa la crisi di "identità politica e sociale" dei funzionari (p. 251) l'A. asserisce che essa si esprime anche largamente nella loro "incompetenza nell'elaborazione di politiche pubbliche che raccolgano le sfide della modernizzazione statale" (p. 241). Circa la politicizzazione dei sindacati secondo l'A. la That-


cher sarebbe riuscita a "ridurre l'area delle negoziazioni e a restringere i diritti sindacali" (p. 234). Evidenzia per l'Italia la base partitica delle organizzazioni sindacali più rappresentative Catelani (p. 179, 186, 187). Osserverei che il fenomeno, simile a quel10 lamentato per la Gran Bretagna da Keraudren, è probabilmente da collegarsi al deficit di responsabiliz-

zazione amministrativa della dirigenza politica della PA, per cui il sindacato non si trova di fronte ad una reale controparte. 28

"Dopo 30 anni tutte le testimonianze concordano

sull'assenza del personale politico dirigente nel processo di riforma managerialista... Contrariamente all'auspicio dei riformatori, la stragande maggioranza della classe politica non ha mai considerato il managerialismo come una 'virtù in sé' " (p. 201). 29 Ibid., p. 202. 30 Ibid., p. 193. 31 "Solo le misure di riduzione dei costi di funzionamento dell'impiego pubblico, cioè le misure di economia tendenti a ridurre la fatturazione amministrativa più che a migliorare l'efficacia o l'efficienza dei programmi hanno conosciuto un successo certo" (ibid.p. 195). Secondo indagini governative la riduzione di spesa ha ridotto l'output "senza che l'efficacia, a priori, sia stata migliorata" (p. 197). 32 Arti: "(la riforma è volta al fine di) a) accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi della Comunità europea ; b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico c) integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato". Art.17: "al dirigente competono... la verifica periodica del carico di lavoro e della produttività dell'ufficio". Art.20: "i dirigenti generali e i dirigenti sono responsabili del risultato dell'attività svolta dagli uffici... Sono istituiti servizi di controllo interno o nuclei di valutazione, con il compito di verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la realizzazione degli obbiettivi, la corretta ...

... ;

ed economica gestione delle risorse pubbliche, l'imparzialità e il buon andamento della PA". 33 CATELANI, cit., p. 290. "Quello di buon andamento dell'amministrazione è un concetto pregiuridico che fa riferimento a norme di buona amministrazione che come tali sono di opportunità e convenienza o di equità, e che formano il contenuto del merito, della discrezionalità amministrativa. Il buon andamento dell'amministrazione è un concetto pregiuri-

dico, anche se giuridicamente rilevante, e quindi assai difficile da determinare in termini di diritto positivo" (p. 91). 34 Così J. CHEVALLIER, La giuridicizzazione dei precet-

ti manageriali, tradotto in «Problemi di Amministrazione pubblica», 1995-1, che parla di "trascrizione dei precetti manageriali nel diritto", ed in particolare del "principio manageriale dell'efficienza". L'A. si riferisce all' "evoluzione della giurisprudenza costituzionale e amministrativa" secondo cui l'azione pubblica sarà legittima solo se non è inadeguata o troppo costosa per la collettività; l'efficienza diventa in tal modo requisito di regolarità". "Mentre in passato il diritto . . .era un vettore privilegiato della 'razionalizzazione' della vita sociale, oggi... la razionalizzazione attraverso il diritto cede il passo alla razionalizzazione del diritto". L'A. ammette peraltro che "dal momento in cui vengono riversati nel diritto i precetti manageriali tornano ad essere prigionieri della razionalità giuridica classica". Per una sistematica esposizione della distinzione tra le due razionalità cfr. peraltro R. BETrINI, S. B080Tov, Processi legislativi e

teoria generale della flinzi one del diritto, Roma, 1994. 35

"L'efficienza e il buon andamento dell'amministrazione istituzionalmente non sono dissociabili da un corretto esercizio del potere politico mancando il quale l'amministrazione tende a chiudersi in formalismo burocratico deteriore. La responsabilità dell'inefficienza della PA ricade in primo liwgo sulla carenza di

un adeguato potere di indirizzo ...L'efficienza della PA costituisce fondamentalmente un fatto di costume che come tale è sottratto all'influenza di qualunque riforma legislativa, rispetto alla quale appare del tutto insensibile. Ma sul piano giuridico essa corrisponde all'esercizio di un potere politico, che a sua volta è condizionato dal livello di efficienza delle nostre istituzionz' (ibid., p. 150, 151, mie enfasi). "Rendere realmente efficiente iljiinzionamento dell'apparato pubblico.. dipende in realtà da quelle fisnzioni di indirizzo politico che ne condizionano l'agire e che devono essere esercitate in maniera adeguata, perché sia realmente perseguito l'interesse collettivo" (p. 153, mia enfasi). "All'intervento del legislatore deve accompagnarsi un'attività diretta a garantire l'osservanza, all'interno del rapporto di pubblico impiego, di tutte quelle norme pregiuridiche le quali sono in egual misura parte integrante del complesso normativa di settore al quale sono assoggettati i pubblici impiegati" (p. 142).

69


Ibid., p. 121. Specie quando la loro "funzione di indirizzo politico è una nozione sostanziale e non giuridica ... difficilmente defibile, . . .non formale (ibid., p. 128). Tra l'altro come si fa a parlare di nozione non giuridica quando il ministro, ai sensi dell'art.3, 1° comma, del 29, "periodicamente e comunque ogni anno entro 60 giorni dall'approvazione del bilancio, anche sulla base delle proposte dei dirigenti generali: a) definisce gli obbiettivi ed i programmi da attuare, indica le priorità ed emana le conseguenti direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione"? (p. 122) 38 Si veda al riguardo L'inefficienza della burocrazia costa 15 mila miliardi l'anno, in «Il Messaggero», 184-1995, in cui si raccolgono sotto questa titolazione a due colonne le seguenti imputazioni risultanti da documenti della Funzione pubblica: 1 - ritardi operativi, incidenti sul PIL per lo 0.91%; 2— appesantimento dell'azione amministrativa da parte di un numero eccessivo dileggi; 3 - squilibrio nella distribuzione del personale tra nord e sud; 4 - inadempienze legislative degli uffici periferici; 5 - basso livello della spesa per la formazione e per l'informatica. Ma non si tratta di colpe burocratiche, bensì talora legislative (nn. 2 e 5), talora di direzione politica (nn. 3 e 4), per la quale è umoristico che la Funzione pubblica dirami statistiche sullo stato degli uffici ma non notizie sulle relative cause e sugli interventi correttivi tempestivamente e vittoriosamente adottati. Per quanto riguarda il "ritardo" degli adempimenti è ingenuo e rozzo valutare ogni "coda" di attesa come "ritardo", cd è comunque da dimostrare che sia imputabile alla "burocrazia" e non alla dirigenza politica. 39 Sul favore, dagli alti funzionari in su, per "una certa immunità amministrativa" (Keraudren, cit., p. 254). 40 "L'atto di governo si muove fuori del principio guridico di canonizzazione degli interessi pubblici: per questo è giuridicamente libero, rispondendo l'amministrazione solo in sede politica. La funzione propriamente amministrativa si pone in una posizione subordinata... C'è sottrazione dell'atto politico al controllo giurisdizionale di legittimità" (B. CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, p. 3). "La funzione di indirizzo politico è una nozione sostanziale e non giuridica" (CATELANI, cit., p. 60). 41 Catelani parla di "tendenze dell'apparato burocra36 37

70

tico verso il formalismo... Il difetto fondamentale dell'apparato burocratico è identificare l'efficienza con il formalismo" (op.cit., p. 115). Per cui, pur sostenendo l'A. che ciò non costituisce una ragione per una separazione tra "potere politico e quello amminstrativo " (p. 132 n.), di fatto è solo il dirigente che rischia, almeno secondo la retorica del 29 (cfr. Avvertimento ai sindacati. Il dirigente pubblico manca gli obbiettivi? Può essere licenziato, in «Il Messaggero», 24-3-1995, che riporta l'enfasi al riguardo del responsabile dell'ARAN, neonata agenzia per la contrattazione nel pubblico impiego). 42 Si veda al riguardo la nota giornalistica L'inefficienza della burocrazia..,, cit. 43. Cfr. R. BETTINI, Il circolo vizioso legislativo, Milano, 1983; Legislazione e politiche in Italia, Milano,1990. Parla di "complementarità delle funzioni direttive politiche e amministrative rispetto alla funzione legislativa" CATELANI, cit., p. 141. Tale complementarità, invocata sul piano giuridico, sembra peraltro riguardare anche il piano dei "circoli viziosi" sopraaccennati. 44 Cfr. BETTINI (a cura di), Informale e sommerso, Milano, 1987. 45 Cfr. J. CHEVALLIER, La dimension symbolique du principe de legalité, in »Revue de droit publique», 1990-6. 46 A Simbolismo organizzativo e amministrazione pubblica è dedicato il n.1 del 1995 della «Rivista trimestrale di scienza dell'Amministrazione», curato da T. Pipan. 47 "L'approccio simbolico non si presenta come un'unica teoria, né ha prodotto modelli influenti sulla teoria organizzativa... La cultura organizzativa ha significati ambigui, contrapposti e paradossali negli studi organizzativi" (A. STRATI, L'approccio simbolico nello studio delle organizzazioni, in »Riv.trim di Sc. dell'Amministrazione», 1995-1). Limite certo è lo stesso privilegiare il linguaggio come processo di rappresentazione simbolica: "l'approccio simbolista diventa una questione di abilità nel trattare linguaggi e vocabolari - ed è in questa versione che oggi è più sentita l'influenza antropologica negli studi dell'organizzazione" (B. CZARNIAWSKA-JOERGES, Il simbolismo negli studi sull'organizzazione della PA, nella rivista citata). D'altro canto il carattere pluridisciplinare dell'approccio, evidenziato da STRATI (op.cit.), può rivendicare una sua legittimazione solo se dà frutti più o meno sistematici. Che mancherebbero.


' C. SEBASTIANI, Il capro espiatorio: sulla capacità di produzione simbolica del potere, in «Riv.trim. di Sc. dell'Amministrazione», 1995-1. 49 G. B0NAzzI, Colpa epotere. Sull'uso politico delcapro espiatorio, Bologna, 1983, p. 273 Ss. 50 Sul fenomeno nel settore sanitario cfr. L. AGoSTINI, C. PACCHÌ, R. Piusi, Curare stanca... verrà la USL e avrà i tuoi occhi, Istituto di Medicina sociale, Roma, 1991 (supplemento al n. 611991 della «Rivista di difesa sociale»). 5' Per il simbolismo politico cfr la sintesi di G.FEDEL, Simboli e politica, Napoli, 1991; per quello giuridico cfr. D. Cu.zo, Il diritto come retorica dell'interazione, Milano,1992 (per entrambi v. le mie recensioni in «Riv.trim di Sc. dell'Amministazione>, 1993-2 e 1994-1); per l'interpretazione giuridica cfr. R. BETTINI, Lezioni di sociologia del diritto, Roma, 1992. Si tratta di rinvii inevitabili specie per i simbolisti che parlano di azione simbolica come "azione imterpretativa" e di "insita ambiguità del simbolico" (così S. GHEp.rw!, Conoscere ed intervenire nella pubblica amministrazione secondo l'approccio simbolico, in «Riv.trim di Sc. dell'Amministrazione», 1995-1). La da loro invocata differenza dei piani espressivi e di analisi non può escludere il confronto con la devianza interpretativa gravida di conseguenze in azioni od omissioni, nonché con i processi di law makinge law

implementation. 52

Cfr. BETrINI, Legislazione. . .. cit. Sembra un accanimento giustificazionista (nonostante il dichiarato ripudio del "mito della razionalità") l'interpretare le riforme amministrative come"perenni insuccessi" a prima vista, ma che "rivelano una varietà di funzioni simboliche come espediente di legittimazione e di educazione" (CZARNIAWSKA-JOERGES, op. cir.). Sembra comunque difficile dimostrare che nel susseguirsi delle riforme amministrative italiane la varietà ditali funzioni e ditali espedienti più o meno trasgressivi suscitati da una riforma vada in effetti poi a sostanziare le nuove riforme. Le evidenze empiriche del resto dimostrano tali insuccessi come tutt'altro che apparenti, ovvero solo "a prima vista". Sono per Io più permanenti. 54 R. CIP0LLINI, P. DE NAPJ)Is, F. MATrIOLI, Mana53

gement e struttura organizzativa: il caso del Comune di Roma, Milano, 1984, p. 278. Cfr. R. BETrINI, Produttività degli uffici e partecipazione del cittadino nel Comune di Roma, in R. BETTINI, A. SAJTroIU (a cura di), I quadri intermedi nell' 55

Amministrazione comunale, Comune di Roma, 1994, tav. 46. 56 CNEL, Indagine sulle esperienze e le opinioni degli operatori delle USL, predisposta dalla Doxa per incarico della Commissione permanente per il lavoro del CNEL, Roma (testo per uso interno), 1995, p. 55. 57 R. BErrINI, Il sommerso burocratico come sommerso

organizzativo. Ricerche sulle burocrazie pubbliche in Italia, in «Sociologia e ricerca sociale», 1990-3 1. 58 BETTINI, Produttività degli uffici..., cit. 59 CERFE, Rapporto sullo stato dei diritti dei cittadini nel Servizio sanitario nazionale, Roma, 1992, p. 15. 60 IsAs, Le unità sanitarie locali e la dirigenza amministrativa, Palermo,1986, p. 215. 61 BErriNi, Produttività degli uffici..., cit., tav. 65. 62 CNEL, cit., p. 48. 63 Ibid., p. 80 ss. 64 F.P. CERASE, Idipendenti pubblici, Bologna, 1994, p. ll7ss. 65 "Il thatcherismo (1979-1990) non è una rottura di esperienza ma una fase di radicalizzazione dell'esperienza della strumentalità" (KERAUDREN, cit., p. 229). 66 Ibid., p. 270. Il principio è ovviamente giusto. Il fatto è che non sembra rispettarlo nè la destra nè la sinistra. Per la discussione su destra e sinistra non cè che da richiamarsi a N. BoBBIo, Destra e sinistra, Roma, 1994. 67 "Un politico ben vincolato è l'essenza della democrazia", afferma G. GALEOTFI, Spesa pubblica e demo-

crazia. servono le regole economiche di razionalizzazione?, in Fooiazz, Cakola economico e decisioni pubbliche, Napoli, 1994, p. 20. L'A. giunge a questa conclusione dopo aver cercato di impostare una risposta al quesito "perché non c'è domanda di analisi economica applicata?" (p. 12), ed avere espresso il parere che "non serve rendere obbligatoria per legge la predisposizione di adeguate relazioni in termini di analisi costi-benefici... La scelta di percorsi efficienti non è questione di etica, cultura, buona volontà, dedizione al bene pubblico o rispetto della legge. Piuttosto si è costretti ad essere efficienti dai vincoli che si fronteggiano" (p. 13) (per "vincoli" l'A. intende "vincoli concorrenziali adeguati" (p. 14). "Sulla distinzione momento tecnico e momento politico delle decisioni pubbliche riposa una sorta di falsa coscienza, che oggi salva l'anima a studiosi da un lato da un lato ed a politici dall'altro", dato che i mutamenti culturali sono strumenti di conflitti politici: "come osserva Alan 71


Schmid l'analisi economica è solo uno strumento di conflitto informato" (p. 20). LA., commenterei al riguardo, ammetterà certamente, nonostante il suo pessimismo sull'effettività ed efficacia della norma-

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zione giuridica, che il quadro giuridico dell'informazione e delle responsabilità pubbliche contribuisce comunque a porre i necessari paletti dei nuovi percorsi dell'azione governativa (e della lotta politica).


Il

CIPE:

è possibile una riforma? di Rosa Maiorino *

Da circa un trentennio la storia della programmazione economica e il governo dell'economia del nostro Paese sono legati alle alterne vicende del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE); detto Comitato è, infatti, dal 1967 l'organo di direzione e coordinamento della politica economico-finanziaria dell'Italia. La sua istituzione formalel, con legge n. 48 del 27 febbraio 1967, fu determinata, da un lato, dall'esigenza di dare un ordine alla serie di interventi economici settoriali che caratterizzarono l'Italia dal secondodopoguerra al 1967, e, dall'altro, dall'esigenza di coordinare, sulla base di un programma economico unitario, l'amministrazione pubblica dell'economia. Quest'ultima, infatti, si articolava in una serie di organismi fra loro non coordinati, che operava spesso sovrapponendosi con il conseguente risultato di annullare gli effetti previsti per date scelte governative. Al riguardo, va sottolineato che, nel periodo antecedente l'istituzione del CIPE, la soluzio-

* Ha collaborato con il Dipartimento per la funzione pubblica.

ne di problemi economici non avveniva attraverso decisioni di politica economica definite da un piano unitario, elaborato da un solo organismo economic02 , bensì attraverso decisioni settoriali adottate per lo più da comitati operanti a livello di settore. Fu solo con l'istituzione del CIPE che si crea, dunque, una sede unica di direzione dell'economia 3 . Spetta, infatti, a detto Comitato definire gli indirizzi della politica economica nazionale; indicare - su relazione del ministro del Bilancio e della programmazione economica - le linee generali per l'elaborazione del programma economico nazionale e, - su relazione del ministro del Tesoro - le linee generali per l'impostazione del progetto di bilancio di previsione dello Stato; indicare le direttive generali intese all'attuazione del programma economico nazionale e, a tal scopo, promuovere e coordinare l'attività della pubblica amministrazione e degli enti pubblici, nonché esaminare la situazione economica generale ai fini dell'adozione di provvedimenti congiunturali. Al CIPE spetta, inoltre, promuovere 73


l'azione necessaria per armonizzare la politica economica nazionale alle politiche economiche degli altri Paesi della CECA, della CEE e dell'EuiTOM, approvare il programma annuale dell'IsTAT, nonché dare direttive per il coordinamento della ricerca scientifica e tecnologica; promuovere la formazione e il coordinamento dei programmi di ricerca scientifica ad interesse nazionale e sovraintenderne lo svolgimento. In prosieguo di tempo, il CIPE assunse anche attribuzioni già esercitate da altri comitati; si confermò così la tendenza a fare dello stesso l'unica sede di direzione e coordinamento della politica economico-finanziaria. Già nel 1967, con il d.PR. n. 537 del 14 giugno emanato in ottemperanza all'art. 18 della 1. 48/1967, il governo dispose la soppressione del Comitato Permanente per le Partecipazioni Statali e del Comitato Interministeriale per l'ENEL, conferendo le relative funzioni al CIPE. Quest'ultimo risultò posto al vertice di tutto l'ordinamento delle partecipazioni statali con il compito di formulare la politica dell'azionariato di Stato in armonia con gli obiettivi del programma economico nazionale e a tal scopo assunse il compito di approvare i programmi annuali e pluriennali degli enti pubblici, nonché quello di dettare i criteri di attuazione dei programmi medesimi. Il Comitato risultò altresì posto, in base al d.PR. 537/1967, al vertice del74

la politica energetica con il compito di garantire l'armonia di detta politica con gli obiettivi del programma economico nazionale, dovendo a tal fine impartire direttive generali all'ENEL nonché approvare i programmi annuali e pluriennali dello stesso ente. In particolare, l'approvazione di detti programmi rappresenta un momento di controllo da parte del Comitato Economico. Approvando i medesimi il CIPE viene infatti ad acclarare la rispondenza delle scelte effettuate in materia di energia elettrica e di quelle dell'azionariato di Stato agli indirizzi della politica economica. Nel 1968, in base al d.PR. n. 626 del 30 marzo, vennero devolute al CIPE altre attribuzioni. Venne, infatti, soppresso il Comitato dei ministri per il Consiglio Nazionale dell'Energia Nucleare (CNEN) e le relative funzioni, in particolare quella di dare direttive in materia di energia nucleare, furono assunte dal CIPE. Si statuì altresì che il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CIcR) si dovesse attenere alle direttive generali del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, ai fini "della ripartizione globale dei flussi monetari tra le varie destinazioni, in conformità alle linee di sviluppo fissate dal Programma Economico Nazionale" 4 e che il Comitato Interministeriale del Prezzi (Cip) si dovesse attenere alle direttive generali del CIPE per quanto riguarda la determinazio-


ne dei settori economici e delle categorie dei beni e servizi 5, da dirigere e controllare per mezzo di una disciplina particolare dei prezzi 6 . Nel 1971, con legge n. 853 del 6 ottobre, al Comitato Economico spettarono nuove funzioni in ordine alla politica meridionale nonché quelle già esercitate nella stessa materia dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno (C0MEz), che venne soppresso. Le competenze del CIPE, definite dalla 1. 85311971, in ordine alla politica meridionale sono amplissime; a titolo esemplificativo si rammenta che al Comitato spetta dare direttive generali di politica industriale per intensificare lo sviluppo del Mezzogiorno; dare direttive per assicurare la localizzazione di impianti industriali nelle zone maggiormente spopolate al fine di garantire condizioni di equilibrio demografico e produttivo; determinare le direttive per la graduazione dei finanziamenti agevolati e dei contributi a favore della costruzione, rinnovazione, conservazione, trasformazione, riattuazione ed ampliamento di impianti industriali delle piccole imprese. Il Comitato Economico diviene dunque, con la 1. 853/1971, l'organo preposto alla direzione degli interventi del Mezzogiorno; tale ruolo si esplicita sia all'atto della predisposizione degli indirizzi della politica economica nazionale che all'atto della deliberazione sugli interventi predisposti dai piani regionali. Tuttavia accanto a

funzioni di indirizzo il CIPE ha assunto anche compiti di amministrazione attiva, tra questi si rammenta che al Comitato spetta deliberare sui progetti speciali, formulati dal ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, o dalle regioni meridionali; determinare l'ammontare del contributo del finanziamento agevolato concedibile alle imprese per la realizzazione delle iniziative industriali. La 1. 853, dunque, se da un lato attribuisce al CIPE la direzione della politica meridionale, dall'altro investe detto organismo di compiti di amministrazione attiva, snaturando in parte la sua sede dal ruolo di "Gabinetto Economico". Detto processo continuerà nel tempo e. si accentuerà a partire dalla fine degli anni Settanta in poi. CRIsI DELLA PROGRAMMAZIONE GLOBALE E RITORNO ALLA PROGRAMMAZIONE SETTORIALE

Dalla fine degli anni Settanta sino alla legge 537 del 24 dicembre 1993, di accompagnamento alla legge finanziaria, si è infatti assistito ad un progressivo ampliamento delle competenze del CIPE. Si tratta, per lo più, di competenze settoriali che di fatto contrastano con quell'azione generale di indirizzo economico-finanziario che il Comitato, secondo l'intento del legislatore, avrebbe dovuto esercitare. Il Comitato per la Programmazione Economica - benchè abbia conservato 75


la funzione formale di organo programmatore - si è andato via via trasformando in organo con compiti di amministrazione attiva e consultiva; la sua sede - anzichè essere centro di decisione e coordinamento dell'intera economia del Paese - è divenuta luogo di registrazione di decisioni già prese altrove, ovvero già formatesi presso le amministrazioni interessate: TR,, ENI, ENEL, ecc. 8 . Va inoltre precisato che le direttive generali che il CIPE deve emanare nei confronti del CICR devono essere emanate contestualmente alle linee generali per l'impostazione del progetto di bilancio di previsione dello Stato, con la conseguenza che il Comitato per la Programmazione esamina le vicende monetarie una volta l'anno, mentre il ministro del Tesoro, godendo di ampi poteri nell'ambito del settore creditizio9, e dovendo presentare la relazione sull'impostazione del bilancio, è di fatto il solo a poter disporre la Ripartizione globale dei flussi monetari tra le varie destinazioni" 0 . Per quanto concerne invece il potere di direttiva che il CIPE è chiamato ad esercitare nei confronti del Cip è da rilevare che nella prassi tale ruolo non ha mai avuto attuazione completa e ciò per la scarsa attività esplicata dallo stesso Cip. Quest'ultimo, infatti, non ha mai potuto esercitare un'effettiva attività di controllo del mercato per l'indisponibilità di mezzi idonei a ponderare gli effettivi costi di produ76

zione. Di fatto le decisioni del Cip sono quasi sempre prese sulla base di dichiarazioni degli imprenditori, dichiarazioni che non sempre danno una corretta rilevazione dei costi". Lo stesso deve dirsi per le modalità con cui il CIPE definisce i settori da dirigere e controllare per mezzo di una disciplina particolare dei prezzi. È da precisare inoltre che la funzione generale programmatica del Comitato Economico è stata relegata ad una mera funzione di programmazione settoriale del settore assicurativo, edilizio, industriale, energetico, della ricerca scientifica e del settore sanitario, nonché in materia di trasporti, di regioni e di politica del lavoro. In particolare è stato possibile, attraverso un'analisi della normativa con cui il Comitato è stato investito di nuove attribuzioni nei suddetti settori, rilevare che la sua attività sovente si è concretizzata in semplice pronuncia su progetti o programmi settoriali, pareri normalmente affiancati a quelli espressi da altri organi; e come in ordine a date materie, la sua attività si è più semplicemente concretizzata in una mera operazione di assegnazione, ovvero di ripartizione, di fondi tra più enti. Tuttavia sarà l'istituzione, con la legge n. 227 del 4 maggio 1977, del Comitato Interministeriale per la Politica Estera (CIPEs), del Comitato Interministeriale per il Coordinamento della Politica Agricola e Alimentare (Cipi), con legge n. 284 del 27 di-


cembre 1977, e del Comitato Interministeriale per la Politica Industriale (Cipi) a rendere palese il degrado della funzione programmatica del CIPE, nonché ad accelerare il fallimento del suo ruolo di "Gabinetto Economico". Con l'istituzione del CIPES si avvia, infatti, quel processo di frammentazione della politica economico-sociale tra pii comitati che porterà, attraverso il distacco di interi settori dapprima di competenza del Comitato Economico, al progressivo svuotamento del CiPE stesso 12 I predetti organismi, infatti, benchè sorti come sottocomitati del CIPE, di fatto divennero organi autonomi di programmazione e di coordinazione della politica economica del proprio settore. Ciò lo si evince, in primo luogo, dallo scarso potere di direttiva esercitato dal CIPE nei loro confronti e, in secondo luogo, dalle ampie attribuzioni loro conferite dalle stesse leggi istitutive. Pensare dunque che, con le leggi nn. 227, 675, 984 del 1977, il CIPE potesse continuare a preservare il ruolo di unico organo programmatore - nonostante la creazione di nuovi comitati è fuori da ogni logica, soprattutto se si considera che tale ruolo doveva estrinsecarsi attraverso atti di indirizzo generale, atti che non avevano alcuna influenza, visti gli ampi poteri di autonomia degli organi destinatari. In definitiva, con la creazione di nuovi comitati si cercò di porre rimedio al .

fallimento della programmazione globale, sollevando il CIPE dall'arduo compito di programmare e coordinare la politica estera, agro-alimentare e industriale. Il legislatore operò come se la mancata realizzazione degli obiettivi programmatici dipendesse unicamente dall'inefficienza del CIPE, e come se tale inefficienza fosse da imputare all'eccessivo carico degli atti di indirizzo generale, che il Comitato doveva emanare. Si cercò in pratica di trovare un "capro espiatorio" che nulla avesse a che vedere con 1 inefficienza dell amministrazione pubblica dell'economia, nonché con il ritardo del programma economico nazionale rispetto alle condizioni economico-finanziarie del Paese. FALLIMENTO DELLA PROGRAMMAZIONE GLOBALE E DELLA FUNZIONE DEL CIPE

Le cause principali dell'insuccesso della politica economica, ovvero del mancato raggiungimento degli obiettivi programmatici si devono rinvenire nelle carenze della politica tributaria e della politica del bilancio, nonché nella cattiva organizzazione della amministrazione pubblica dell'economia. Il programma economico 19661970 1 infatti, venne elaborato e attuato in un periodo di profonda crisi economica e sociale, crisi che risultò comunque accentuata dal ritardo con cui vennero adottate le manovre della ,

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politica tributaria e della politica del bilancio. A tal proposito è opportuno ricordare che già nel 1963 al disavanzo della bilancia dei pagamenti e all'eccesso della domanda globale si rispose attuando una severa stretta creditizia (decisa tra l'altro quando l'eccesso di domanda cominciava ad esaurirsi) e non adottando specifiche misure tributarie. Quest'ultime furono invece attuate nel 1964, quando ormai la bilancia dei pagamenti era tornata in attivo e si era avuta una riduzione della domanda. Tale errore fu poi ripetuto nel 1969, quando al crescente disavanzo del conto capitale iniziato nel 1965 con un deflusso netto di capitali dall'Italia verso l'esterosi cercò di porvi rimedio attraverso una nubva stretta creditizia e non mediante un aumento del prelievo fiscale, che, da un lato, doveva coprire i consumi - mediante un aumento del prelievo - e, dall'altro, doveva stimolare gli investimenti - mediante misure di incentivazione. Ma ancora una volta tale manovra venne attuata con ritardo, cosicchè tra la fine del 1970 e l'inizio del 1971 l'economia italiana era già entrata in un profondo stato di recessione. Ad aggravare questo stato contribuì, anche, un'errata politica del bilancio. Infatti, benché tra il 1963 e il 1971 si fosse registrato un aumento della spesa pubblica, questa interessò principalmente i trasferimenti alle famiglie e non le spese in conto capitale, ed in 78

particolare gli investimenti della pubblica amministrazione, che subirono invece un calo (dal 1963 al 1971 erano infatti scesi del tre per cento). Ciò determinò, da un lato, una riduzione degli investimenti e, dall'altro, un incremento dei consumi nonché dei prezzi. Con la variazione dei componenti della spesa pubblica si registrò dunque una riduzione degli investimenti, della produzione e quindi dell'offerta, cui si accompagnò un incremento della disoccupazione e del tasso di inflazione. In questo contesto era impossibile che il programma per il quinquennio 1966-1970, finalizzato al superamento degli squilibri settoriali, territoriali, «mediante una politica costantemente rivolta alla piena occupazione e alla più alta ed umana valorizzazione delle forze del lavoro" potesse essere attuato. Come se ciò non bastasse il bilancio dello Stato non costituiva un valido supporto per la politica economica; la maggior parte delle spese veniva infatti già decisa prima della formulazione del bilancio mediante singole 9eggi di spesa" e lo stesso bilancio includeva solo una parte delle spese pubbliche. Non erano infatti previste le spese degli enti autonomi, degli enti imprenditoriali e le spese di gran parte degli enti di finanza derivata. Inoltre, la formulazione del documento di bilancio era affidata ad una vera e propria forma di contrattazione fra i ministeri di spesa e la Ragioneria generale. Il pro-


cedimento di preparazione delle iniziative di spesa non partiva da analisi programmate, collegate agli obiettivi da perseguire e capaci pertanto di misurare le effettive capacità di realizzazione degli interventi stessi. Ed infine, mancando un bilancio pluriennale il significato delle indicazioni del bilancio annuale avevano poca rilevanza, visto che i tempi amministrativi per la realizzazione delle opere pubbliche andavano oltre l'anno. Risulta chiaro, quindi, che la struttura del bilancio, oltre a non dare una visione globale della spesa pubblica, rifletteva esclusivamente l'organizzazione settoriale delle amministrazioni centrali ed impediva così qualsiasi elemento di confronto tra spesa ed obiettivi di programmazione. Oltre alle carenze sopra indicate, rammentiamo che le procedure e gli indirizzi della gestione amministrativa della spesa erano affidate ad un rapporto diretto tra Ragioneria generale e amministrazioni centrali, rapporto che comunque non era influenzato dalle scelte di programmazione; lo stesso dicasi per la fase di formazione della spesa. La Ragioneria generale era l'unico organo competente a ricondurre ad un controllo unitario - visto i suoi poteri di ingerenza in tutti i settori dell'amministrazione - sia i tempi di effettuazione della spesa che l'effettiva messa in opera degli interventi. A tale rigidità di controllo non corrispondeva

un'altrettanta rigidità della gestione della spesa, che invece era lasciata ad un'ampia discrezionalità delle amministrazioni centrali. Continuando ad esaminare le carenze che accompagnarono l'avvio del primo programma economico, ci preme particolarmente sottolineare che oggi, come allora, esiste una frammentazione delle competenze economiche-finanziarie tra più dicasteri. Infatti, la funzione economica-finanziaria è ripartita tra ministero del Tesoro, delle Finanze e del Bilancio. Il primo svolge un'attività di finanziamento non collegata però ad una predeterminazione delle spese, le quali, invece, oltre ad essere definite dai ministeri e dagli uffici periferici da essi dipendenti, sono definite e poste in essere da enti pubblici, provincie e comuni. Al secondo, ossia al ministero delle Finanze, spetta invece la funzione di predisporre, annualmente, i mezzi necessari per procurare allo Stato le entrate di cui ha bisogno. Infine, al ministero del Bilancio e della programmazione economica è attribuito il compito di esercitare un controllo preventivo sulle entrate e sulle spese pubbliche, nonché di provvedere a disciplinare lo sviluppo dell'economia con piani programmati. Come si può constatare si ha, quindi, la divisione di una stessa funzione fra tre dicasteri. Si deve parlare di un'unica funzione economico finanziaria perchè è impensabile - ma a quanto 79


pare non per la nostra amministrazione pubblica dell'economia - che l'emissione dei prestiti e l'erogazione delle spese, possa prescindere da una contestuale determinazione di quest'ultime presso un unico dicastero. Ed è fuori di ogni logica pensare che il programma di sviluppo nazionale possa essere elaborato in sede diversa da quella in cui si definiscono i mezzi necessari per il finanziamento della spesa pubblica. Ricordiamo inoltre che da sempre in materia di intervento pubblico dell' economia, prima della soppressione del ministero delle Partecipazioni Statali, esisteva un frazionamento di competenze minori tra detto ministero e il ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato, e che in ordine alla politica socio-economica attualmente risultano competenti i ministri del Lavoro e della Previdenza Sociale, della Sanità e degli Interni 14 . È in questo contesto che vennero elaborati sia il programma per il quinquennio 1966-1970 che i programmi per i! quinquennio 1971-1975 e 1973-1977 (dei quali si ricorda che solo il primo venne adottato formalmente con 1. 685/1967). Da quanto detto, le ragioni del fallimento della programmazione globale e del mancato esercizio da parte del CIPE della funzione di indirizzo generale devono rinvenirsi nelle carenze della politica del bilancio, della politica tributaria e, soprattutto, nella man-

cata riforma dell'organizzazione dell'amministrazione pubblica dell'economia. L'inattività del CIPE non è dunque da considerare la causa del fallimento della programmazione globale bensì la conseguenza della disorganizzazione della pubblica amministrazione. Quest'ultima, in effetti, costituendo nelle sue varie articolazioni autonomi centri di governo dell'economia, necessita e necessitava dell'azione del CIPE per accreditare le proprie decisioni come decisioni finalizzate all'attuazione del programma economico nazionale o comunque conformi all'esigenza di un'economia programmata e coordinata. Ciò giustifica alcuni degli atti del CIPE quali l'approvazione di progetti settoriali e l'adozione di pareri, nonché la ripartizioni di fondi, cui il Comitato deve provvedere sulla base di programmi già elaborati da altri organi. Si tratta di compiti di amministrazione attiva o consultiva che il Comitato è chiamato a dispiegare nel contesto di un procedimento in cui la sua azione rappresenta un atto del tutto irrilevante a modificare il contenuto della decisione amministrativa. Da qui la definizione del CIPE quale "organo collettore" 15, "sede di registrazione", "organo di amministrazione attiva", definizioni che denotano appunto come il Comitato Economico abbia assunto un ruolo diverso da quello previsto dalla 1. 48/1967. Un'inversione di tendenza a questo


stato di cose c'è stata, invece, con I. 537 del 1993 che ha disposto la soppressione di tutti i comitati economici ad eccezione del CIcR, nonché di altri Comitati per i quali è prevista la partecipazione di più ministri. LE ATTUALI FUNZIONI

Con la legge de! 24 dicembre n. 537 del 1993, recante interventi correttivi di finanza pubblica, sembra esserci da parte del legislatore l'intento di recuperare il ruolo del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica quale organo di direzione e coordinamento della politica economico-finanziaria. Recupero favorito dall'aver statuito, mediante decreti legislativi da emanarsi entro nove mesi dalla presente legge, il riordino dell'organizzazione della pubblica amministrazione, attraverso la soppressione e la fusione di ministeri; l'eliminazione delle duplicazioni organizzative e funzionali; la razionalizzazione della distribuzione delle competenze per l'eliminazione di sovrapposizioni e duplicazioni unificando le funzioni in materia di ambiente e territorio, quelle in materia di economia, di informazione, cultura e spettacolo nonché quelle in materia di governo della spesa. Tutte riforme già definite più volte necessarie perchè il CIPE possa operare come organo di direzione economica. Su questo fronte, il legislatore ha sicuramente dato un ulteriore contributo

prevedendo la soppressione di una serie di comitati per i quali è prevista la partecipazione di più ministri o più delegati, nonché prevedendo la soppressione del Comitato Interministeriale per l'Emigrazione (CIEM), Comitato Interministeriale per gli scambi di materiale di armamento per la difesa (CIDs), Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica per il Trasporto (CIPET), ed infine del CIPES, CIPI e del Cii', ripartendo le relative funzioni tra il CIPE ed altri organi. La 1. 537/1994 prevede, inoltre, che entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della stessa, devono essere definite, mediante regolamento, l'organizzazione e le funzioni del CIPE. Attualmente detto regolamento è fermo al Consiglio dei Ministri mentre, con il d.PR. n. 373 del 20 aprile 1994, è entrato in vigore il regolamento recante la definizione delle funzioni dei comitati interministeriali soppressi e il riordino della relativa disciplina. In particolare le funzioni, dapprima esercitate dal CIPI e dal CIEM rispettivamente in materia di indirizzo e coordinamento del settore industriale, della ricerca scientifica e della politica economica nazionale con quella estera vengono devolute al CIPE. Al CIPE spetta anche, a seguito della soppressione del CIPET, emanare direttive per coordinare la programmazione del settore trasporto con l'economia generale nonché esercitare poteri di indirizzo e di direttiva ai fini 81


della determinazione dei prezzi e delle tariffe, poteri dapprima di competenza del Cip. E ancora spetta al Comitato per la Programmazione definire, a seguito della soppressione del CIsD, gli indirizzi generali nel settore della difesa ed in particolare dare direttive di ordine generale per l'esportazione, l'importazione e il transito di materiale di armamento. Da ultimo va osservato che il d.PR. 373/1994 riconferma al CIPE le attribuzioni già di sua competenza secondo le leggi operanti nonché statuisce che al medesimo spettano "tuttele funzioni in materia di programmazione, di politica economica nazionale e di coordinamento di quest'ultima con le politiche economiche comunitarie, già attribuite ai comitati interministeriali soppressi e concernenti direttive, indirizzi, criteri generali, piani e programmi e ripartizioni di fondi a carattere intersettoriale, nonché i criteri per la ripartizione di fondi a carattere interregionale". Dunque sulla base della suddetta norma il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica deve provvedere ad esaminare lo schema di linea di impostazione dei progetti di bilancio annuale e pluriennale e sulla base ditale esame determinare - in conformità dalle linee di sviluppo del programma economico nazionale - le direttive per la ripartizione dei flussi monetari; approvare la Relazione Previsionale e Programmatica annualmente presentata di concerto

dai ministri del Bilancio e della Programmazione Economica e del Tesoro - e le relative integrazioni; prendere atto della Relazione sull'attività del Nucleo di Valutazione degli Interventi Pubblici e autorizzare la trasmissione della stessa al Parlamento, in allegato alla predetta relazione previsionale; infine, sentire periodicamente la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le provincie autonome di Trento e Bolzano sullo stato di attuazione degli obiettivi disposti dallo Stato. Tuttavia il CIPE, oltre a dover definire gli indirizzi generali di politica economico-finanziaria del Paese, ha conservato, secondo quanto previsto dell'art. 13 del d.PR. 373/1994, il compito di definire gli indirizzi programmatici settoriali, di esaminare ed approvare, a seconda delle competenze previste dalle specifiche normative, i piani e i programmi riguardanti i singoli settori economici.

QUALE FUTURO PER IL CIPE

Al termine di questo excursus su alcuni dei compiti dispiegati dal CIPE ci siano consentite alcune considerazioni. Va in primo luogo osservato che benché il d.PR. 373/1994 restituisca al CIPE il ruolo di organo di direzione della politica economico-finanziaria, attribuendo al medesimo tutte le funzioni in materia di programmazione di politica economica nazionale non-


ché di coordinazione della stessa con le politiche economiche comunitarie, lo stesso decreto non prevede però la completa eliminazione dei compiti di amministrazione attiva e consultiva del Comitato in ordine ai vari settori in cui opera. Dunque, la non completa definizione delle competenze del CIPE e la riforma non attuata della pubblica amministrazione fanno, sì che il CIPE, di fatto, non possa esplicitare appieno la sua funzione di indirizzo e coordinamento. Riguardo alla mancata definizione delle competenze del Comitato per la Programmazione è opportuno sottolineare, ancora una volta, che il regolamento recante la loro definizione è fermo al Consiglio dei Ministri. In base a detto regolamento 16 il Comitato perde il ruolo di organo di programmazione - la sigla infatti sta ad indicare Comitato Interministeriale per la Politica Economica e non più per la Programmazione Economica -, ciò significa che le scelte più importanti di politica economico-finanziaria saranno prese dal Consiglio dei Ministri; viene infatti ridotta drasticamente la discrezionalità delle decisioni del Comitato rispetto agli indirizzi generali del Governo al punto che il Presidente del Consiglio potrà decidere "la devoluzione al Consiglio dei Ministri delle deliberazioni su materie di rilevante interesse generale oggetto di trattazione da parte del Comitato". Ben definiti risultano inoltre i compiti

del CIPE. In particolare esso dovrà definire gli indirizzi di politica economica del Paese mediante la formulazione delle linee generali di programmazione, anche in vista della messa a punto della legge finanziaria. A questo proposito il CIPE assumerà il compito di vigilare che enti locali e amministrazioni pubbliche rispettino le direttive impartite. Il Comitato dovrà decidere, inoltre, su indicazione di diversi ministri, sul fondo sanitario nazionale e sugli aiuti alle imprese, sui prezzi e su tariffe nonché in materia di privatizzazione e di politica ambientale. Altra importante novità riguarda l'organizzazione del Comitato. Membri di diritto saranno solo il ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, de! Tesoro, delle Finanze, dell'Industria e del Lavoro; cinque membri contro i quattordici che attualmente compongono il Comitat0 17 . È previsto inoltre che alle sedute del CIPE potranno partecipare altri ministri quando dovranno essere esaminati provvedimenti di loro specifica competenza e soltanto eccezionalmente e per singole sedute si prevede che il sottosegretario possa partecipare in luogo del ministro. Attualmente invece il sottosegretario sostituisce il più delle volte il ministro. Da ultimo, è prevista la non partecipazione dei funzionari dei ministri e la riabilitazione del Presidente del Consiglio a presidente effettivo del Comitato. Tale 83


ruolo infatti è stato esercitato, sin dall'istituzione del Comitato, dal ministro del bilancio e della programmazione economica. Se detto regolamento sarà approvato, sicuramente il CIPE risulterà fortemente mutato nell'organizzazione e nella competenza. Riguardo all'aspetto organizzativo, la riduzione della composizione del collegio favorirà la celerità dei lavori e la specializzazione della sua funzione, attraverso l'intervento di membri permanenti: in ragione di interesse e competenze specifiche, dall'altro la puntualizzazione delle competenze darà un ruolo costituzionale 18 ben preciso al Comitato.

Tuttavia, con questa trasformazione il nostro Paese, retto da un'economia "mista" - dove il mercato è governato in parte da sue leggi e in parte orientato dagli interventi governativi - perderà ancora una volta la possibilità di avere un organo "tecnico" a decidere obiettivi ed interventi di politica economico-finanziaria. Questo è quanto si evince dalla definizione del CIPE come Comitato per la Politica Economica e per la possibilità che "il Presidente del Consiglio" possa "decidere la devoluzione al Consiglio dei Ministri delle deliberazioni su materia di rilevante interesse generale oggetto di trattazione da parte del Comitato

I Il CIPE operava già dal 1965 come organismo interno al Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (Cm) con lo scopo di coordinare una serie di attività settoriali. 2 Per un'ampia analisi sulla situazione economica e sugli interventi governativi in politica economico-finanziaria, prima e dopo l'istituzione del CIPE, Si vedano A. GItkzIANI, L'Economia italiana dal 1945 a oggi, 1989, p. 41 e SS.; E. PicozzA, Vicende eprocedure della programmazione economica, in «Trattato di Diritto Commerciale e di Diritto Pubblico dell'Economia», vol.1, 1977-1979. 3 Sull'istituzione del CIPE cfr. E. D'ANIELLO, CIPE, RTDP 1973, pp. 93-123; R. CHIARELLI, Il CIPE nel sistema del piano, RTDP 1967, pp. 1072-1079. art. i del d.PR. 30 giugno 1968, n. 626. 5 art. 2 del d.PR. 62611968. 6 In questo senso cfr. E. D'ANIELLO art. cit. p106; così pure C. LiQuolu, I Comitati Interministeriali con

netto economico

Jiinzioni di indirizzo socio-economico tra innovazione e conservazione, in «Rass. Parlamentare», 1990, p. 87. È stato invece sottolineato da G. QUADRI, in Gabi84

CIPE

e indirizzo politico economico,

1970 pp.19-21, che il CIPE, con il d.PR. 62611968, assunse le primitive attribuzioni politiche del Cip e del CICR, relegando quest'ultimi a dispiegare funzioni meramente amministrative. 7 Così G. QUADRI definisce il CIPE, op. cit., p. 5. 8 In questo senso cfr. M.S. GIj%Ì4NINI, Diritto Pubblico dell'Economia, 1989, p. 166; G. AMATO, Il governo dell'industria in Italia, 1972, p. 58; P. CIRIELLO, Or-

dinamento di governo e comitati interministeriali, 1981, p. 223. Va infatti ricordatq che i veri assi portanti della politica creditizia sono stati e continuano ad essere il Ministro dei tesoro e la Banca d'Italia. IO In questo senso cfr. D'ANIaLO, art. cit. piO6. 'S. CASSESE in Sistema amministrativo italiano, 1983, p219, scrive: "Il Civ, pur avendo poteri molto vasti non riesce ad esercitarli in modo razionale, per mancanza di economisti in grado di analizzare i costi. Accade così che i prezzi sono fissati per lo più sulla base dei dati forniti dalle imprese sottoposte al controllo". In questo senso cfr. M.S. GIANNINI op.cit. p.220. 9


2 3

In questo senso cfr. P. CIRIELLO, op. cit. p.241. Riguardo all'impostazione del programma economico 1966-1970, così scrive G. RUFFOLO in Rapporto sulla programmazione, 1973, p. 70 «'L'impostazione 1966-70 era, probabilmente, eccessivamente onnicomprensiva, e appare - letta oggi - sorretta da un eccessivo ottimismo sulle capacità di manovrare le leve dello Stato all'interno delle posizioni di Governo. In realtà, i poteri pubblici centrali, sono in linea generale, estranei all'esperienza di programmazione nei loro comportamenti, nel loro ordinamento, nel loro apparato amministrativo". 4 Al fine di avere un quadro completo sulla situazione che caratterizzò l'avvio alla programmazione economica si riporta un passo di G. RUFFOLO, op. cit. p. 70 "si constata quindi, più in generale, uno scarso collegamento - per non dire l'inesistenza di collegamenti organici - che permettono di raccordare le politiche e le iniziative della Ragioneria e del tesoro alle direttive programmatiche" IS In questo senso G. AMATO, op. cit., p. 72 scrive "il ruolo del CIPE determinato dall'ampio raggio delle attribuzioni conferitogli è .... quello di collettore, nel quale trovano un punto di confluenza interventi e programmi che prima si ignoravano.., esso serve, perciò, a coordinare una funzione utile ma diversa da quella presunta". 16 Riguardo alle modifiche apportate dal nuovo regolamento si veda l'articolo di L. BERLIERI, Un CIPE meno tecnico e più politico in «Italia oggi» del 20 settembre 1994. 7 Attualmente, oltre il Presidente del Consiglio, fan-

no parte del Comitato: il ministro per il Bilancio, degli Affari Esteri, del Tesoro, delle Finanze, dell'Industria del Commercio e dell'Artigianato, delle Risorse Agricole, del Lavoro e Previdenza Sociale, dei Trasporti e dell'Aviazione Civile, della Marina Mercantile, del Turismo e dello Spettacolo, per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno e nelle zone depresse del Centro-Nord, dell'Ambiente e il sottosegretario per il Turismo e lo Spettacolo. 8 Il ruolo costituzionale del CIPE è infatti controverso. Una parte della dottrina lo definisce organo di alta amministrazione (A.M. SANDULU, Manuale di diritto amministrativo, ristampa X ed.; 1971 p. 223 e ss.). Altra parte della dottrina lo definisce, più semplicemente, organo di amministrazione attiva (F.S. SEVERI,

Strutture amministrative per la programma-

zione economica, RTDP 1967, p. 687). Non mancano poi autori come il Quadri (op. cit. p. 19 e ss.) che, considerando le ragioni storiche che indussero il legislatore a formalizzare l'istituzione del Comitato, gli attribuiscono una natura meramente politica ed altri

come E. PicozzA (Profili giuridici del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica con particolare rfirimento all'attività, Giur. Cost., 1976, p. 326) che attenendosi alla funzione reale lo definiscono un organo di natura mista: ossia governativo e amministrativo. Con la riforma potrebbe prevalere per il Comitato la natura di organo di alta amministrazione, tipica di un organismo operante al vertice con funzione di direzione e coordinamento della politica economico-finanziaria in collegamento con l'indirizzo politico.

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Taccuino



I nostri temi Cultura del servizio e pubblica amministrazione

In un Paese come il nostro si sa che fine fanno le "grida", sia di manzoniana memoria, sia quelle della Gazzetta Ufficiale. Dovremmo augurarci che una fine diversa tocchi alla normativa sull'erogazione dei servizi pubblici elaborata dal Governo e dal Parlamento a partire dal 1990 (legge 142, 8 giugno 1990), sviluppata in numerose direttive e decreti, con la sua espressione compiuta nella legge 273, 11luglio 1995. Questa indica le misure urgenti per la semplificazione dei procedimenti amministrativi e per il miglioramento dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni. I vari provvedimenti legislativi assegnano primaria importanza al rapporto fra gli erogatori di servizi e coloro che ne usufruiscono ' cioè i cittadini, ponendo la pubblica amministrazione di fronte ad una prospettiva che non le è consueta. Diciamo pi1 chiaramente: per ottemperare alle recenti disposizioni di legge la pubblica amministrazione centrale e periferica non è chiamata soltanto a compiere uno sforzo di rinnovamento organizzativo straordinario, ma una vera rivoluzione culturale. Una rivoluzione dalla quale dovrebbero uscire mutati valori, atteggiamenti e abitudini che sembrano improntare da sempre mentalità e comportamenti di dirigenti, funzionari, dipendenti e agenti dello Stato, a qualsiasi

ente appartengano, a Roma come in qualsiasi Regione e Comune d'Italia. Se la dimensione del problema è quella di una vera rivoluzione culturale, la previsione del successo che attende i vari provvedimenti non può essere ottimistica, quanto meno nel breve o medio termine. Sulla carta della Gazzetta Ufficiale si può prescrivere anche l'impossibile: resta poi da vedere cosa accade. Così, ad esempio, la legge 273 prevede l'adozione da parte di tutti i soggetti erogatori di servizi pubblici di proprie "Carte dei servizi". Sono state predisposte le tracce per quelle del Servizio sanitario nazionale, dei servizi erogatori di gas ed elettricità. È in corso di allestimento quella per la scuola. Altre 'sono previste per il prossimo futuro. L'adempimento degli obblighi previsti dalla Carta del Servizio sanitario nazionale deve avvenire entro 120 giorni dalla pubblicazione del decreto che ha fissato lo schema generale di riferimento. Il decreto è del 19 maggio 1995, il termine scade quindi il 13 ottobre. Qualcosa del genere accadrà per le altre carte, come pure per l'istituzione degli Uffici Relazioni con il Pubblico (URP), previsti dalla Direttiva PCM 11 ottobre 1994: di questi uffici ne esiste già un migliaio, mentre sono migliaia quelli che devono ancora nascere in Ministeri, Prefetture, Comuni, Camere di commercio, enti vari. In base al-


la legge, che qui sfiora l'assurdo, anche il Comune di 500 abitanti, con due impiegati, un vigile, segretario comunale e sindaco, deve istituire un Uiu'. Non conta se queste cinque persone s'incontrano e parlano ogni giorno per strada, in chiesa o al bar con tutti i loro concittadini. Ii nocciolo del problema che la legge pone non sta nelle prevedibili difficoltà da superare per un nuovo assetto organizzativo degli uffici pubblici, né in quelle dipendenti dalla scarsità delle risorse finanziarie ed umane. Queste ultime sono eccedenti numericamente, è ben noto, ma così mal distribuite da esigere forti interventi di mobilità, che nessuno sembra disposto a accettare. La legge, inoltre, presuppone l'esistenza nel personale delle pubbliche amministrazioni di competenze specifiche, che invece non ci sono. Non si può gestire l'efficienza, la qualità del servizio, la comunicazione interna ed esterna, la relazione con il pubblico e l'immagine con uscieri, contabili, geometri, dottori in legge investiti di compiti assolutamente estranei alla loro formazione e privi della necessaria esperienza. Il nocciolo del problema è un altro. Volendo modificare il rapporto fra pubblica amministrazione e cittadini utenti ci si scontra con la resistenza al cambiamento e la subdola capacità difensiva dei più temibile dei potentati italiani: quello della burocrazia. Sulla strada delle democrazia, dell'uguaglianza e dei diritti civili anche i potentati economico-finanziari, delle corporazioni e dei sindacati pongono ostacoli non da poco, in Italia. Ma questi potentati sono oggetto di una costante critica degli organi d'opinione, soggiacciono al vaglio sociale od elettorale, subiscono le vicissitudini e le limitazioni che il travaglio di governi e as90

setti parlamentari diversi comporta. La burocrazia sfugge a tutto questo: è immobile, immutabile, da sedurre o corrompere, accattivabile insomma, ma non riducibile al ruolo di uno strumento funzionale dello Stato. La burocrazia è il vero Governo-ombra del Paese. Ora, per la prima volta, un insieme di disposizioni di legge e di norme vuole imporre alla burocrazia una rivoluzione. Lo Stato italiano chiede ai suoi funzionari di ogni livello, dal centro Lino alla più lontana periferia, di togliersi galloni, vecchie zimarre e mezzemaniche ereditate da esattori borbonici, copisti piemontesi e inamidati vice-segretari-aggiunti umbertini. Impone loro di deporre la boria burocratica e di trasformarsi in servitori civili, civil servants. Una bella metamorfosi: dal bruco alla farfalla. La legge parla chiaro: la valutazione degli standard di qualità ed efficienza dovrà trovare un riscontro nella soddisfazione dei cittadini che ricorrono all'amministrazione pubblica. Altro che rivoluzione! La nuova esigenza comporta per i burocrati il capovolgimento totale della prospettiva. Come possiamo pensare che essi, padroni e giudici dei cittadini nella certificazione di vita e di morte, della proprietà e del denaro, della chiamata alle armi e dell'occupazione, del reddito e della correttezza Liscale, delle autorizzazioni, delle concessioni, dei permessi, del diritto alla pensione, in definitiva della certezza e tranquillità dell'esistenza di ognuno, come possiamo pensare che si trasformino improvvisamente in servitori civili, attenti e solleciti, se non ossequienti? Come possiamo pensare che ne siano capaci, non diciamo in 120 giorni, ma in 120 anni? Stiamone certi: non cambieranno, quanto


meno fino al giorno in cui gli attuali provvedimenti legislativi non saranno accompagnati da una profonda riforma della gestione del personale dello Stato e dei dipendenti pubblici in genere. Uno Stato moderno esige un diverso profilo professionale di tutti i suoi collaboratori, ma questi, a loro volta, hanno il diritto di essere selezionati, formati, utilizzati ed incentivati in modo totalmente nuovo. Il che non è poco. Per il momento, accontentiamoci di ciò che abbiamo e delle modeste riverniciature di facdata in cui si coricretizzerà la nuova volontà del legislatore e del Governo. Mettiamo in conto tutte le reazioni che i nuovi provvedimenti provocheranno nella burocrazia, il cui potere, lungi dall'essersi sminuito, si è ulteriormente rafforzato durante il Governo dei tecnici e, prima ancora, con i Governi Ciampi ed Amato. Le reazioni prevedibili hanno la specifìcità di cui il potere burocratico gode. Questo si articola in più forme: un potere di inerzia e di blocco del mutamento interno, per il quale i provvedimenti restano lettera morta o poco più; un potere di interdizione e di scoraggiamento del cittadino, il muro di gomma che tutti conoscono; un potere di

ritorsione su chi non si rassegna e ricorre a strumenti di pressione o denunce; un potere di attecchimento e riproduzione - che ha la miglior metafora in quello virale - per il quale la burocrazia si organizza soltanto moltiplicando le sue strutture. Quest'ultimo potere è il più pericoloso: anche i nuovi provvedimenti, che vogliono la semplificazione delle procedure amministrative e l'aumento, dell'efficienza, rischiano di comportare fattualmente un appesantimento di strutture e procedure. In breve: il pessimismo della ragione sull'esito che attende il nuovo orientamento amministrativo dello Stato ha molte giustificazioni. Fa bene al cuore, tuttavia, conservare qualche speranza. Lo spirito di servizio, come nuova cultura del rapporto di cambio, sta faticosamente penetrando anche nel mondo dell'industria e del terziario. Il clima della competizione interna ed internazionale costituisce, a sua volta, un condizionamento culturale cui tutti devono sottostare, pena il rischio di soccombere. La burocrazia non può sperare di sopravvivere se il Paese muore: è immobile ed immutabile per una pessima tradizione, ma non è immortale.

'Già pubblicato in «Social Trend» 1995.

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L'ECTF e il telelavoro di Massimo A. Conte

I giorni 8, 9 e 10 dello scorso mese di novembre s'è tenuta a Roma l'annuale conferenza dell'European Community Telework/Telematics Forum (ECTF), con la collaborazione del Comune di Roma. L'ECrF è un organismo nato nel 1992 con il supporto della Commissione Europea DG)UII. "Costituisce - come si legge in una nota di presentazione - una piattaforma per la concertazione del telelavoro e delle applicazioni telematiche negli Stati Membri dell'Unione Europea, attraverso l'azione di una rete di trenta coordinatori distribuiti nei Paesi dell'Ue, in quelli della cosiddetta Area Economica Europea". La missione è chiara: lo studio e la diffusione del telelavoro. L'evento capitolino è stato, senza dubbio, importante per l'autorevolezza dei relatori e per la stretta attualità dei temi trattati, ma anche perché, forse per la prima volta, ha riconosciuto a Roma e alla Pubblica amministrazione - che in Roma ha il suo punto di riferimento - un ruolo di protagonista. Né deve ormai sorprendere l'imponente dibattito che, universalmente, avviene intorno al telelavoro. Non si tratta soltanto infatti di celebrare l'avvento di una nuova opportunità tecnologica, con ripercussioni positive, anche notevoli, per quanto riguarda il business operatori dell'Information Tecnology. Ma il telelavoro, infatti, rappresenta in primo luogo una nuova modalità di orga-. 92

nizzazione del lavoro che consente di far viaggiare le informazioni piuttosto che le persone. E poiché il telelavoro rientra fisiologicamente in quell'ambito che attribuisce ad "Internet" ed alle "Autostrade informatiche" una valenza fondamentale, per certi versi anche un po' "magica", c'è chi parla di una vera e propria rivoluzione, spingendosi a paragoni con quella "industriale", quando non addirittura con quella che vide l'uomo abbandonare il nomadismo per dedicarsi all'agricoltura. Comunque, ci troviamo senza dubbio davanti a un evento epocale. Le conseguenze più immediate dell'utilizzo delle tecnologie della comunicazione, infatti, trascendono l'ambito produttivo - dove comunque introducono una gestione innovativa del lavoro, perché orientata decisamente al risultato - con il superamento dei vincoli spaziali, con la flessibilità dei tempi. E non è cosa da poco, per una società che, costantemente all'assedio di Troia, viene puntualmente strangolata dai "serpenti marini" che oggi rispondono ai nomi di Spazio e di Tempo. I vantaggi per la collettività

- decongestione del traffico - riduzione dell'inquinamento - occupazione per fse deboli - sviluppo economico di aree rurali - risparmio energetico - desincronizzazione dei tempi


Naturalmente, per inquadrare il problema correttamente occorre trovare una risposta ai primi, fondamentali interrogativi. Che cosa si intende per telelavoro? Da dove si telelavora? Quali attività sono telelavorabili? Con quali tecnologie si telelavora? A chi conviene? Chi corre dei rischi? Non tutte queste domande hanno una risposta e non tutte le risposte hanno l'accordo degli studiosi del fenomeno. Come sempre, c'è chi è a favore e chi contro, chi quantomeno ritiene che il telelavoro non possa essere applicato a certe categorie di lavoratori e chi invece considera composta quasi esclusivamente di telelavorato-

ri praticamente tutta la popolazione attiva dei Paesi sviluppati ("Anche usare il telefono per prendere un appuntamento è un gesto professionale telelavorato..."). Tralasciando le interpretazioni estreme, quasi tutti sono concordi nel rilevare i grandi vantaggi che comporta l'introduzione del telelavoro, per la collettività soprattutto, e per determinate categorie di cittadini, tuttora "discriminate" rispetto non solo al mercato del lavoro (portatori di handicap, anziani, donne-madri, abitanti di zone marginali sul piano geografico), ma anche rispetto al loro essere "semplicemente" cittadini.

Una rivoluzione della cultura organizzata - dalla rigidità - dalla presenza - dal controllo gerarchico - dall'identità aziendale - dalla tutela del "posto"

Ma la resistenza all'innovazione resta sempre la più difficile da sconfiggere. È pur vero che nuovo non significa necessariamente meglio. Ma se si prendono in esame le politiche intraprese recentemente dai Paesi europei, mentre rimane difficile stabilire fin d'ora quali saranno i punti d'arrivo, si possono invece già individuare due grandi direzioni nuove che poi sono, nello stesso tempo, anche due grandi motori di innovazione: la Società globale dell'informazione e

lo Sviluppo sostenibile. Da un lato, la telematica appare in tutto il mondo come il vettore che ha subito la più intensa e rapida penetrazione nei settori più diversi della società. Questo fenomeno di diffusione si è rivelato per certi versi più ve-

alla flessibilità al risultato al controllo orientativo all'idendità professionale allo sviluppo della professionalità

loce della capacità stessa dei Paesi di mettere a punto politiche e strategie d'azione. Né le linee indicate dalla Comunità europea, né la recente riunione del G7 che s'è tenuta a Bruxelles nel febbraio scorso sulla società globale dell'Informazione sono ancora riuscite a dare un definitivo assetto normativo e di mercato nel settore. Eppure, non si può fare a meno di citare il libro bianco della Ue "Crescita, competitività, occupazione, le sfide e le vie da percorrere per entrare nel )O(J secolo" e la recente, interessantissima, e purtroppo ancora unica, iniziativa degli Stati Uniti che, all'interno del Clear Air Act, tra le diverse misure di controllo dell'inquinamento stabilisce l'adozione del telecommuting. 93


Sul fronte delle politiche in ambito ambientale, invece, negli ultimi anni s'è vista affermarsi sempre più la tendenza alla prevenzione dei danni rispetto alla correzione, contribuendo all'introduzione di tecnologie pulite, rispettose dell'ambiente. Sono sempre più numerose le aziende, soprattutto quelle di dimensioni medio grandi, "che hanno progressivamente adottato sistemi di gestione ambientale integrati ed introdotto cambiamenti tecnologici ai propri processi produttivi, con l'intento di ridurre alla fonte la produzione di effetti ambientali negativi". Naturalmente, alla base di questi comportamenti non c'è soltanto la volontà di adeguarsi al rispetto delle leggi, ma anche di adeguare la propria immagine imprenditoriale ad un nuovo costume, ampiamente diffuso, senza danneggiare la propria competitività sui mercati. Ed ecco che l'atteggiamento dell'Amministrazione pubblica capitolina assume una rilevanza particolare. Da un lato, infatti, la disponibilità manifestata da! Comune di Roma ad ospitare il Forum dell'ECFF rappresenta una risposta in controtendenza al costume che vuole l'Italia - anche quando si parla di Information Tecnology in generale e tanto più di Telelavoro - il fanalino di coda rispetto ai partner comunitari. L'innovazione stenta sempre a diffondersi, ancor più quando si parla di organizzazione del lavoro. Le poche iniziative intraprese sono sempre pesantemente condizionate da una mentalità fortemente consolidata e comune a tutti i soggetti coinvolti: lavoratori, datori di lavoro, istituzioni. Fra l'altro, proprio Roma ha già saputo farsi promotrice di un progetto che potrà diventare un punto di riferimento al di dentro e al di fuori dei confini nazionali, collocando la Capita-

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le fra le più coraggiose ed innovative metropoli europee.

I vantaggi per le aziende - riduzione dei costi fissi (locali, attrezzature) - maggiore produttività - maggiore soddisfazione dei clienti - riduzione spese di viaggio - riduzione all'assenteismo - utilizzo di professionalità 'critiche"

Ii nemico da battere, infatti, uno dei fenomeni più diffusi e dannosi di quest'ultima fine secolo, ha un nome preciso: traffico urbano. Il presupposto è che nelle aree urbane dove il traffico rappresenta il principale fattore inquinante e dove risulta difficile l'adozione di politiche efficaci di controllo, le comunicazioni avanzate e soprattutto il telelavoro possono avere un ruolo fondamentale nella rimozione della causa che sta alla base della sua produzione: la mobilità. L'ipotesi viene confermata da un recente studio circa l'adozione di schemi di telecommuting già adottati negli Stati uniti, e ora sperimentati a Parigi, Madrid e Londra. Da queste esperienze emerge che se soltanto il 7 per cento dei lavoratori in queste tre metropoli adottasse uno schema flessibile di telecommuting, si avrebbe la riduzione quasi totale degli ingorghi del traffico, aumentando lo scorrimento dei veicoli, abbattendo le immissioni inquinanti dei tubi di scappamento.

Dove - da casa - da uffici-satellite - da centri comunitari - da postazioni mobili


In Italia, normalmente, si ritiene che l'iniziativa veramente innovativa provenga dai privati. Il pubblico è sempre più lento a reagire; il processo d'introduzione del-

l'informatica nella Pubblica amministrazione, ma anche il tardivo accordo sulle regole che la stessa introduzione deve controllare darebbero forza a questa tesi.

Le difficoltà - limiti di aziende produttive con scarsa IT - condizioni fàmiliari e ambiente domestico (per l'homeworking) - resistenze della cultura manageriale - resistenze della cultura sindacale - mancanza di una politica di sviluppo

Invece Roma s'è mossa. "Roma Trade", un insieme di studi che hanno avuto la Capitale e i suoi problemi sotto la lente d'ingrandimento, ha consentito la formulazione di una tesi: è possibile tentare anche in Italia di sconfiggere l'inquinamento urbano con l'introduzione del telelavoro? La strada imboccata sembra quella buona. Consolidato è ormai il riconoscimento internazionale dell'importanza degli effetti indotti dalle tecnologie di comunicazione sul contesto economico, sociale e comportamentale. Si è anche verificato che la loro crescente introduzione all'interno dei diversi settori produttivi, seppur frequentemente non motivata da strategie in campo ambientale, può presentare una significativa potenzialità di induzione di impatti ambientali indiretti: riduzione dei consumi energetici e delle risorse, riduzione di necessità di spazi fisici e, quindi, riduzione del traffico e dell'inquinamento.

Roma Trade vede impegnato un consorzio di imprese (S3 Acta, DS Graphic Engineering, Fondazione "Ugo Bordoni" e Innova International-EcTF Italia col ruolo di coordinamento) in stretta collaborazione con gli assessorati al Traffico, alle Politiche informatiche e al Personale del Comune capitolino. Perché dunque non sperimentare l'introduzione di uno schema di telelavoro nell'ambito dell'Amministrazione comunale di Roma? Il progetto è partito lo scorso febbraio con lo studio preliminare del campo. Attualmente, si trova nella fase immediatamente precedente quella operativa. I ricercatori stanno individuando circa una ottantina di dipendenti pubblici del municipio disposti a fare da cavie all'esperimento, e le strutture di proprietà del Comune dove potranno mettersi a lavorare a distanza.

I requisiti - volontarietà e reversibilità - garanzia della comunicazione aziendale e sindacale - selezione adeguata su caratteristiche lavorative e individuali - formazione ed addestramento di lavoratori e capi - progetto operativo ad hoc

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Intanto, però, dall'analisi della problematica delle caratteristiche socioeconomiche ed urbanistiche della città di Roma, in riferimento al quadro organizzativo dell'Amministrazione comunale, sono emerse alcune indicazioni rilevanti, in particolare riguardo gli aspetti più strettamente collegati al traffico, alla mobilità e alla qualità dell'aria, e per gli aspetti collegati ai riflessi dell'inserimento dell'Amministrazione comunale sul contesto della città: ogni giorno nella città di Roma, la cui popolazione residente si aggira intorno ai 3 milioni di abitanti, avvengono mediamente 5 milioni e 800 mila spostamenti principali per motivi di lavoro e studio, per una lunghezza media di 10 chilometri, effettuati nel 32,8 per cento dei casi con mezzo pubblico, al 50,8 con il mezzo privato e nel restante 16,4 per cento a piedi; sui 700 chilometri di estensione della viabilità principale e sui 7 mila di quella locale ogni giorno sono in sosta o circolanti un milione 900 mila autovetture, 110 mila autocarri, 300 mila motocicli e 8 mila autobus; i flussi medi di traffico sulle dieci direttrici principali di accesso al centro, in particolare sulla Cristoforo Colombo, sulla Flaminia e sull'Aurelia vanno dai 27.500 veicoli/ora nelle ore di punta ai 13.055 nelle fasce orarie più scorrevoli (dati 1991); i tempi medi di percorrenza su queste direttrici dal Grande Raccordo Anulare al Centro variano dai 30 ai 40 minuti;

la qualità dell'aria rimane preoccupante, mentre i livelli di elementi contaminanti tendono a diminuire significativamente soltanto in concomitanza di favorevoli condizioni climatiche; fra le nove centraline di rilevazione dell'inquinamento distribuite in città (ne entreranno presto in funzione altre tre) il superamento dei livelli medi e di attenzione per il monossido di carbonio ed il biossido di azoto viene registrato nelle stazioni di piazza Gondar e di piazza Fermi; i dipendenti della Pubblica amministrazione con sede a Roma sono quasi 500 mila, distribuiti in diversi comparti, su tutto il territorio comunale; circa 30 mila sono i dipendenti comunali, distribuiti approssimativamente su 800 sedi concentrate per lo più nella I (Centro) e nella )UI circoscrizione (Eur); da una prima analisi delle aree funzionali esistenti nell'ambito del Comune le aree che risulterebbero potenzialmente più indicate per lo svolgimento di attività a distanza sono: l'area amministrativa e contabile, la tecnica e tecnologica e quella di elaborazione dati, per un totale di circa 9.700 dipendenti; i piani di espansione delle dotazioni informatiche del Comune prevedono di passare da un indice di 0,05 pc per dipendente nel 1994, a un indice di 0,19 nel 1995, equivalente a un totale di circa 2.200 personal computer per una popolazione di 11.500 utenti informatici.

Per i lavoratori Pro - autonomia - flessibilità - riduzione tempi di spostamento - minore stress - maggiore produttività

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Contro - ingerenze pubblico-privato - isolamento - cottimizzazione del lavoro - depauperamento professionale - perdita di status


Lo schema di telelavoro che verrà utilizzato da Roma Trade è di tipo flessibile, presupponendo sia la modalità di telelavoro da casa, sia quella da un telecentro, che verrà individuato all'interno di un ufficio già esistente del Comune, possibilmente in una circoscrizione, che potrà essere in prossimità della Cristoforo Colombo, della Cassia, o della zona Est, a seconda dell'indice di pendolarismo prevalente dei dipendenti e della disponibilità di spazi fisici da parte del Comune.. Il progetto prevede il coinvolgimento diretto dei responsabili delle unità operative e dei capi immediati di un'ottantina di dipendenti, selezionati su base volontaria fra quelle unità operative che sono situate nel Centro storico e che presentano un elevato indice di pendolarismo. Il programma di sensibilizzazione e formazione vedrà un numero allargato di dipendenti e di capi, con l'intento sia di creare una cultura del telelavoro all'interno del Comune, sia di giungere alla definizione del campione in modo graduale e partecipativo. Per la formazione è prevista la predisposizione di un apposito laboratorio che curerà gli aspetti tecnologici ed ergonomici e la messa a punto di procedure e strumenti per il monitoraggio della sperimentazione. Le scelte del telelavoro - non sempre lontano dall'azienda - non solo con alta tecnologia - non solo da casa - non solo per professionalitàinformatiche

Una volta effettuata e valutata la sperimentazione, verranno analizzate le potenzialità di allargamento dell'esperimento all'interno dell'Amministrazione comunale, individuando le potenziali ricadute in termini di mobilità e di inquinamento. Uno scenario di una possibile estensione del telelavoro anche all'esterno della pubblica amministrazione potrà infine completare l'analisi. Un altro progetto che si sta realizzando nell'area romana, e che vede coinvolti gli stessi soggetti, riguarda invece la produzione di linee guida per l'implementazione di iniziative di telelavoro mirate a due entità distinte: imprese che possano prendere il telelavoro in considerazione ed autorità locali di sviluppo che possano favorire le iniziative di telelavoro nelle aree urbane. Il progetto, che prevede l'indagine da parte di un consorzio europeo in cinque maggiori aree situate in Francia, Germania, Irlanda, Italia e Spagna, si sviluppa, per quanto riguarda il nostro Paese, attraverso un insieme di casi di studio delle iniziative di telelavoro intraprese nell'area urbana di Roma, con l'intento di evidenziare i risultati pratici e strategici che hanno condizionato il loro sviluppo. Un caso particolarmente interessante si è già rivelato quello dell'Ibm Semea che, nell'area romana, coinvolge circa 500 rappresentanti commerciali che svolgono le loro funzioni secondo una modalità di lavoro mobile.

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Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali

All'indagine conoscitiva sulle ricerche attualmente in corso in Europa sui rapporti inter-etnici e i diritti umani - promossa dal Consiglio italiano per le Scienze Sociali (Css) e dal Comitato italiano della Fec, Fondazione Europea della Cultura - collaborano, ora anche la Maison des Sciences de I'Homme di Parigi e lo Euro-

pean Research Centre on Migrations and Inter-Ethnic Relations dell'Università di Utrecht. Il progetto, che abbraccia tutti i Paesi europei, ivi inclusi quelli già facenti parte della ex Unione Sovietica e della ex Iugoslavia, i Paesi balcanici e la Turchia, si propone i seguenti obiettivi: - recensire i principali centri di ricerca, istituti e dipartimenti universitari che svolgono attività di ricerca e di formazione su problemi e temi attinenti ai rapporti interetnici; - individuare, in relazione alle diverse situazioni, più o meno conflittuali, le priorità di ricerca; - valutare le politiche delle istituzioni scientifiche nazionali ed europee in materia di ricerca su questioni etniche e di diritti umani; - esaminare i problemi teorici e metodologici inerenti a questo tipo di ricerche, in particolare quelli sollevati dalla ricerca interdisciplinare e comparativa; 98

- individuare temi sui quali sarebbero possibili ed auspicabili progetti di ricerca comparativa e interdisciplinare, con la partecipazione di ricercatori ed esperti di più Paesi; progetti eventualmente da incentivare o promuovere; - proporre procedure idonee a migliorare lo scambio di informazione tra i centri di ricerca dei diversi Paesi. Il progetto, iniziato nel novembre 1994, si concluderà nel 1996 con: un Rapporto sullo «stato dell'arte» della ricerca europea in materia di minoranze etniche e diritti umani; un Repertorio (nomi, indirizzi, aree di attività) dei principali centri di ricerca, banche dati, associazioni e altri organismi europei che operano nel campo dello scambio di informazioni; un Documento di sintesi delle valutazioni date da un pooi di studiosi ed esperti europei sulle questioni più importanti, nei settori delle politiche economiche, sociali e dell'educazione, che i governi nazionali e le autorità europee debbono affrontare al fine di migliorare i rapporti inter-ernici in Europa; eventualmente una o più proposte di programmi di ricerca europei, che coinvolgano istituzioni e studiosi di più Paesi. Nel corso del progetto verranno contattati e consultati oltre cento centri di ricerca, in


tutti i Paesi, e organizzati seminari e gruppi di lavoro. Una prima riunione, con la partecipazione di 16 esperti diii Paesi (Spagna, Francia, Svezia, Germania, Russia, Slovenia, Ungheria, Grecia, Portogallo, Spagna, Gran Bretagna), si è tenuta a Parigi il 23-24 giugno 1995, presso la Maison des Sciences de l'Homme. I partecipanti hanno discusso finalità e modalità del progetto, esaminato diverse questioni teoriche e metodologiche relative al lavoro proposto e concordato una procedura per la raccolta e lo scambio

di informazioni sulle ricerche in corso nei diversi Paesi. Tale procedura, già operativa, integrerà il lavoro di rilevazione di documentazione condotto direttamente, dal novembre 1994, dal Css. Una seconda riunione, riservata alla partecipazione di studiosi ed esperti italiani, si è tenuta il 17 novembre a Ferrara. Una terza riunione, allargata a partecipanti italiani e ad alcuni esperti di altri Paesi che hanno aderito al progetto ma sono stati impossibilitati a intervenire all'incontro di Parigi, avrà luogo nei primi mesi del 1996.

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Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura

Nell'ultimo incontro, avvenuto a giugno 1995, del Board of Governors della Fondazione, sono state decise alcune priorità di lavoro. La Fondazione rafforzerà le esistenti attività, accentrando l'attenzione maggiormente sulle dimensioni educative e informative della cultura. In particolare, rimangono prioritarie le aree geografiche: Europa Centrale e Orientale, e la regione Mediterrranea. Per le aree tematiche rimarrà prioritaria la questione delle teorie e delle prassi del "pluralismo culturale" che verrà riformulata in modo da comprendere anche il tema della migrazione/immigrazione. La Fondazione precisa che darà particolare cura alle richieste di finanziamento e a progetti che riguardano in particolare: il dibattito sulle questioni culturali e politiche europee; la cooperazione culturale; la mobilità, la formazione e l'informazione; iniziative culturali ed educative per l'integrazione democratica e sociale; la cultura letteraria, la cooperazione tra Paesi per iniziative di traduzioni e pubblicazioni; la comunicazione tra i diversi Paesi e le diverse culture; l'informazione e i media (l'informazione come strumento della cooperazione e della educazione culturale e il ruolo dei media nella società europea). Per quanto riguarda l'Europa Centrale e 100

dell'Est, i programmi attualmente in corso

sono: l'East-West Parliamentary Practice Project (Ewpp), il Fundfor Central and East European Book Projects (CEEBP) e l'Ar'm. L'East-West Parliamentary Practice Project ha lo scopo di aiutare le nuove democrazie dell'Europa Centrale e dell'Est e dell'exUnione Sovietica a stabilire sistemi parlamentari efficaci. Il Fundfor Central and East European Book Projects ha lo scopo di promuovere la libera circolazione delle conoscenze e delle informazioni sul dibattito culturale e intellettuale tra Europa dell'Est ed Europa dell'Ovest e di sostenere il settore delle pubblicazioni nell'Europa dell'Est. Il Fondo APEX promuove soluzioni pratiche ed economiche per il problema della mobilità di giovani artisti e organizzatori d'arte, ancora dell'Europa Centrale e dell'Est. I! Fondo ha lo scopo di facilitare, ad un livello non istituzionale, la cooperazione culturale incoraggiando progetti di collaborazione artistica. Per quanto concerne l'area del Mediterraneo, la Fondazione sostiene i programmi: Mémoire de la Méditerranfr, Escuela de Traductores, Toledo; Libraires de la Ivlèditerranér, e Diagnoses. Mémoire de la Méditerranée ha lo scopo di stimolare la circolazione della letteratura sul Mediterraneo e di sviluppare la cooperazione tra editori sulla base di progetti concreti.


J2Escuela de Traductores, Toledo è un centro promosso dall'Università di Castiglia-La Mancha - con il sostegno della Fondazione - avente lo scopo di contribuire alla circolazione delle idee e alla cooperazione culturale all'interno dell'area del Mediterrano, non soltanto facilitando il lavoro e la preparazione dei traduttori, ma anche incoraggiando il flusso di informazioni e di idee. Il programma Libraires de La Mèditerranée - di cui abbiamo già parlato nel Taccuino del n. 101-102 - ha i seguenti scopi: promuovere la distribuzione, la vendita e la traduzione di libri d'interesse per e su il Mediterraneo; aiutare i librai a sviluppare le loro conoscenze sulle pubblicazioni attraverso uno speciale bollettino; provvedere i librai di strumenti per ottenere una clientela "fedele" (di individui e istituzioni) interessata a libri scritti da autori mediterranei o riguardanti il Mediterraneo e le sue coste. Diagnoses, infine, è un programma nato con lo scopo di consentire a scrittori e pensatori del mondo islamico di esprimersi più liberamente sulle questioni di loro interesse che non possono essere affrontate in profondità con dibattiti pubblici.

Per l'area tematica riguardante il "pluralismo culturale", la Fondazione ha promosso

il programma Cultural Managersfor a Pluralist Europe con lo scopo di educare e formare manager culturali; è coinvolta in diversi programmi europei in cooperazione con il Consiglio di Europa, con la King Baudouin Foundation e la Commissione Internazionale sui Balcani; coordina progetti interni nel campo delle Art Practices and Social Integration e delle Policiesfor Social Integration oflmmigrant Populations: Educational and CulturalAspects. Per quanto riguarda il primo campo, la Fondazione ha commissionato un'inchiesta sulle più importanti esperienze locali contro l'esclusione sociale, al di fuori dell'ambiente scolastico e riguardante giovani meno fortunati. Lo studio servirà anche a formulare proposte per un'azione concreta. Per quanto riguarda, invece, il secondo campo, la Fondazione ha sviluppato legami di cooperazione con il "Migration Policy Group", il quale sta attualmente lavorando su un programma di politiche di integrazione locale e sugli strumenti culturali disponibili per tali politiche.

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Notizie da

IL POLO TE! - ISTITUTI CULTURALI

I! Polo lei-Istituti culturali è un insieme di biblioteche che, utilizzando le tecnologie informatiche, vuole rendere facilmente disponibile a larghi segmenti di utenza un insieme completo di fonti specializzate. Una consolidata attività di ricerche, studi e pubblicazioni ha consentito agli Istituti culturali la formazione di vaste raccolte di libri e documenti a copertura internazionale, preziosi per la ricostruzione storica così come per qualsiasi percorso di ricerca e documentazione nell'arco delle scienze sociali. Questo ricco serbatoio di fonti viene oggi messo a disposizione come servizio per la città di Roma, non soltanto per studiosi e ricercatori ma per tutti coloro - insegnanti, professionisti, tecnici e giornalisti - cui occorra una documentazione aggiornata e attendibile. A tal fine si è creato, tramite la scelta SBN e il Centro elettronico dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, un catalogo collettivo in linea consultabile in ogni biblioteca del poio e collegato all'Indice nazionale SBN. L'accordo fra istituzioni di prestigio con radici culturali ampiamente diversifìcate intende sperimentare un possibile modello di valorizzazione delle risorse documentarie degli Istituti culturali che, senza snaturarne fisionomia e tradizioni, crei le condizioni 102

per una loro crescita coordinata ed una maggiore vitalità nei circuiti scientifici e culturali. Alla realizzazione dell'iniziativa ha validamente contribuito l'Assessorato alla Cultura della Regione Lazio che ne ha riconosciuto la funzione essenziale nella costruzione dei servizi bibliotecari a Roma e nel Lazio. Ne fanno parte, tra gli altri, anche l'Istituto Luigi Sturzo e la Fondazione Lelio e Lisli di cui <(Queste Istituzioni» ha già dato notizie nei fascicoli precedenti. Vediamo, ora, quali' sono le altre istituzioni. SBN: è una rete di biblioteche pubbliche e private italiane che, tramite la cooperazione, si propone di offrire on line tutte le informazioni bibliografiche sulle raccolte librarie e l'accesso ai documenti su tutto il territorio nazionale. La realizzazione è stata promossa dal ministero per i Beni Culturali e Ambientali (Ufficio Centrale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali, Istituto per il Catalogo Unico delle Biblioteche italiane), dalle Regioni e dalle Università. L'articolata presenza istituzionale gàrantisce continuità ad un progetto di vasto respiro e strumenti giuridici per la partecipazione di biblioteche appartenenti ad amministrazioni diverse. SBN infatti privilegia la conoscenza delle raccolte librarie ed i servizi in un'ottica che connette la


frammentazione geografica e organizzativa rispettando al tempo stesso la totale autonomia degli enti che partecipano. L'indice nazionale SBN, collegato entro il 1996 od oltre 500 biblioteche italiane, consente l'accesso alle basi dati SBN dei Beni Musicali, dei Manoscritti e all'Anagrafe delle Biblioteche Italiane. L'Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, è ente di diritto privato d'interesse nazionale e istituzione culturale ai sensi della legge n. 123, 2 aprile 1980; nasce i! 18 febbraio 1925 come Istituto Giovanni Treccani. È oggi casa editrice, centro di ricerca e di progetti culturali. L'Istituto, che ha la sua sede presso il cmquecentesco palazzo Mattei di Paganica (costruito per Lodovico Mattei su disegno del Vignola, con affreschi della scuola degli Zuccari) ospita una biblioteca, una emeroteca e un archivio storico (circa 100.000 volumi). La biblioteca che è nata con l'istituto come supporto per la ricerca e di lavoro redazionale, è aperta a studiosi ricercatori e docenti. Concepita come biblioteca enciclopedica tende a fornire per ogni argomento un vasto apparato di consultazione generale con possibilità di approfondimento nelle sezioni specializzate: enciclopedie, biografie, bibliografie, storie generali e dizionaria e copertura internazionale oltre a sezioni specializzate in storia della scienza, linguistica, arte e storia dell'editoria. Conserva una collezione di enciclopedie e dizionari dal )(VI secolo a tutto il Novecento. Funziona come centro di documentazione che svolge servizi di ricerca bibliografica e fatturale ed è collegata in linea con un vasto arco di basidati.

L'Emeroteca comprende oltre 900 periodici italiani e stranieri (600 correnti) tra cui quotidiani stranieri: Le Monde, EI Pais, The Times, ecc. L'archivio storico, riconosciuto dallo Stato di notevole interesse in quanto "fonte preziosa per la storia della cultura italiana del Novecento" conserva, tra l'altro, carteggi e documenti dei protagonisti intellettuali di questo secolo in ogni campo del sapere quali Giovanni Gentile, Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Emilio Segré, Gaetano De Sanctis, Agostino Gemelli e Federico Chabod. La Fondazione Gramsci si costituisce nel 1950 e viene giuridicamente riconosciuta dallo Stato con il d.PR n. 1188 nel 1982, con denominazione "Fondazione Istituto Gramsci". Svolge attività di studio e ricerca con sezioni di lavoro, centri di studio, convegni, seminari e borse di studio, nel campo delle scienze sociali, della storia contemporanea e del pensiero politico. La Fondazione pubblica, dal 1959, la rivista di dibattito storiografico Studi storici, dal 1989 gli Annali e dal 1991 la rivista Europa/Europe. Ospita una biblioteca, una emeroteca e un archivio. La biblioteca possiede oltre 90.000 volumi, di cui circa 80.000 catalogati, in parte su schede cartacee e in parte in linea, e a disposizione del pubblico. È specializzata nella storia politica e sociale dell'italia contemporanea. Di speciale interesse sono i volumi del carcere di Antonio Gramsci, le biblioteche di Sibilla Aleramo, Luchino Visconti, Vittorio Vidali, Camilla Ravera, Cesare Colombo, donate alla Fondazione. Importanza documentaria rivestono pure le raccolte del movimento socialista italiano fin 103


dalle sue origini, i fondi riguardati la storia del Pci e della sinistra europea, e il fondo sovietico sulla storia politica e sociale della Russia e dell'Urss. L'emeroteca comprende oltre 600 testate correnti e circa 6.000 tra periodici cessati e numeri unici. Vanno segnalate per il loro valore storico le raccolte dei giornali clandestini dell'antifascismo italiano e dei fogli delle brigate partigiane. Sono presenti le collezioni complete di molti quotidiani, riviste politiche e storiche. L'archivio, riconosciuto dallo Stato di notevole interesse storico, conserva accanto ai fondi storici del Pci e delle brigate Garibaldi, fondi e carte private di diversa personalità della politica e della cultura italiana di questo secolo, quali A. Gramsci, P Togliatti, E. Sereni, M. Scoccimarro, G. Menotti Serrati, E. Curiel, L. Longo, L. Lombardo Radice, L. Luzzato, S. Aleramo, L. Visconti.

La biblioteca conta su un patrimonio di oltre 300.000 volumi e 500 periodici in corso. La biblioteca-cartoteca è altamente specializzata nel complesso ambito della geografia, e tale da essere nel suo genere la più importante del Paese e tra le più cospicue d'Europa. Il fondo storico è composto da stampe e manoscritti relativi ai viaggi ed alle esplorazioni dal )(VII al XIX secolo e e reperti cartografici appartenenti alle diverse epoche storiche a partire dal )(V secolo. La Cartoteca raccoglie la cartografia di ogni parte del mondo e in particolare quella ufficiale dello Stato italiano. L'archivio, costituito sin dalla fondazione della Società stessa (1867), conserva accanto alla documentazione prodotta dalla Società, numerosi fondi relativi a viaggiatori o studiosi in diretta relazione con l'istituzione (carte Antinori, Bove, Cordella, Martinori, Ranuzzi, Ruspoli, Zurla e altri).

La Società Geografica Italiana fondata a Firenze il 12 maggio 1867 e trasferita a Roma nel 1871, è il più antico sodalizio scientifico operante in Italia con fìnalizzazione in campo geografico. Rivolta essenzialmente alla promozione di esplorazioni geografiche, nei diversi continenti ma prevalentemente in Africa, e allo studio e alla conoscenza della geografia dell'Italia, la sua attività si rivolge oggi alla diffusione di una cultura geografica e del territorio oltreché alla conoscenza dei processi di organizzazione geografica dell'Italia e dell'Europa. La Società pubblica il «Bollettino della Società Geografica Italiana», rivista trimestrale fondata nel 1868; la collana «Memorie della Società Geografica Italiana» e la «Bibliografia geografica della regione italiana». Ospita una biblioteca e un archivio.

L'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEo), sorto come ente morale nel 1933 e riconosciuto come ente di diritto pubblico con dCPS n. 1077 del 2 luglio 1947, ha lo scopo sia di promuovere e sviluppare i rapporti culturali tra l'Italia e i Paesi del Medio ed Estremo Oriente e di svolgere programmi di studi e ricerche relativi ai suddetti Paesi nell'ambito delle discipline storiche - inclusa la storia politica ed economica - filologiche, linguistiche, archeologiche, artistiche, filosofiche, religiose, antropologiche, etnologiche e geografiche, sia di diffondere in Italia la conoscenza delle lingue e culture asiatiche. L'Istituto pubblica i periodici «East and West», «Cina e Il Giappone» oltre a numerose collane di monografie tra cui la «Serie Orientale Roma» e i «Reports and Me-

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moirs». Ospita una biblioteca e un'emeroteca. La biblioteca (circa 60.000 volumi) è specializzata in studi orientali e raccoglie prevalentemente opere di carattere storico, archeologico, filosofico, linguistico, filologico e letterario riguardanti i Paesi dell'Asia Centrale e Meridionale e dell'Estremo Oriente. Di grande importanza è il fondo Giuseppe Tucci, costituito dalla biblioteca privata donata all'IsMEo dall'insigne orientalista e composta di circa 25.000 opere. È da segnalare fra di esse un ricchissimo fondo di testi tibetani (stampe silografiche e manoscritti in corso di catalogazione), un cospicuo nucleo di testi buddhistici in cinese, una notevolissima raccolta di opere sull'India e sul Tibet. Altri fondi di particolare interesse sono i fondi Giacinto Auriti, Salvatore Mergé, Pietro Quaroni e Lamberto Ricci. Recentemente è stato acquisito il fondo Emilio Dubbiosi formato da 226 opere arabe, prevalentemente manoscritte. L'emeroteca comprende circa 1.000 periodici, di cui la metà in corso.

La Fondazione Ugo Spirito si è costituita a Roma nel 1981 ed è stata riconosciuta giuridicamente con d.m. 5 febbraio 1994. La Fondazione, oltre a mantenere il carattere unitario della Biblioteca e dell'Archivio già appartenenti a Ugo Spirito, svolge e promuove attività di ricerca sul pensiero del Filosofo e, piti in generale, sulla cultura italiana del Novecento. La Fondazione pubblica dal 1989, la rivista «Annali della Fondazione Ugo Spirito» ed una serie di ricerche scientifiche di carattere storico e filosofico nelle proprie collane editoriali. Inoltre,

nell'intento di valorizzare il proprio patrimonio archivistico, dal 1994 svolge cicli di seminari con frequenza mensile dedicati a "Ugo Spirito nella cultura italiana del Novecento". La biblioteca possiede cinque fondi bibliotecari. Oltre a quello di Ugo Spirito, che comprende circa diecimila volumi, sono consultabili la Biblioteca di Araldo di Crollalanza, ministro dei Lavori Pubblici negli anni Trenta, importante per gli studi ivi contenuti sulle bonifiche, e la Biblioteca di Giuseppe Di Nardi, di particolare rilievo per gli studi di carattere economico; la Fondazione possiede inoltre un fondo relativo agli studi sul corporativismo italiano ed internazionale, frutto di donazioni varie, e un fondo corrente di pubblicazioni di storia e politica contemporanea, filosofia, economia e sociologia. L'emeroteca possiede oltre 150 periodici tra cui diversi giornali degli anni Trenta/Quaranta. L'archivio possiede diversi fondi: oltre a quello di Ugo Spirito, comprende le carte di Riccardo Del Giudice, Camillo Pellizzi e Giuseppe Di Nardi, nonché la parte corporativa dell'archivio di Giuseppe Bottai, un fondo relativo alle organizzazioni sindacali fasciste, frutto di varie donazioni e altri fondi minori. I principali fondi archivistici sono stati dichiarati "di notevole interesse storico" dalla Soprintendenza archivistica per il Lazio.

ISTITUTO LUIGI STURZO

Via delle Coppelle, 35 - 00186 Roma Telefono 688016 19-6875528-6892390 Telefax 6864704 105


FONDAZIONE LELIO E LIsLI BAsso-Issoco

SOCIETĂ€ GEOGRAFICA ITALIANA

Via della Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma Telefono 6879953 - Telefax 68307516

Palazzetto Mattei in Villa Cerimontana Via della Navicella, 12- 00184 Roma Telefono 7008279 - Telefax 7004677

ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA

Piazza della Enciclopedia Italiana, 4 00186 Roma Telefono 68962248 - Telefax 68985115

FONDAZIONE

IsTrnrro

GRAMSCI

Via Portuense, 95 C - 00153 Roma Telefono 5806646 - Telefax 5897167

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ISTITUTO ITALIANO PER IL MEDIO

ED ESTREMO ORIENTE

Via Merulana, 248 - 00185 Roma Telefono 4874273 - Telefax 4873138

FONDAZIONE UGO SPIRITO

Via Genova, 24 - 00184 Roma Telefono 4743779 - Telefax 4820200


Recensioni

GIOVANNI ROMANO - Fwco SARRACINO MAuRIzIO ZE0LI - PIETRO INGLESE

Il dissesto Jìnanziario degli enti locali Giuffrè Editore, Milano, 1995, pp. 196 Muovendo da una ricostruzione normativa dei provvedimenti adottati in materia di dissesto degli enti locali, l'opera illustra puntualmente - grazie anche ad utili appendici di carattere pratico, normativo e giurisprudenziale - il percorso che deve portare al risanamento degli enti in diffìcoltà finanziaria. Vengono, quindi, presentati: le cause; i provvedimenti amministrativi da adottare; la gestione del dissesto; l'esecuzione forzata in danno degli enti locali; la responsabilità amministrativa, contabile e quella specificamente connessa allo stato di dissesto. Il testo, indirizzato soprattutto a coloro che sono chiamati a far fronte allo stato di difficoltà finanziaria dell'ente ma anche ai professionisti interessati alla materia, intende agevolarne i compiti offrendo - in una materia disciplinata da una normativa non sempre sufficientemente chiara e soprattutto assai frammentata - uno strumento agile ed aggiornato, completo nella documentazione normativa (dal d.L. n.66/89 al d.Lgs. n.77195), giurisprudenziale e dottrinale. Il volume è pubblicato nella collana "Cosa & Come", una nuova serie che la casa cdi-

trice Giuffrè dedica agli Enti locali con l'intento di approfondire le più importanti questioni riguardanti l'organizzazione e il lavoro pratico delle amministrazioni pubbliche locali.

ANTONIO

ROSATI

L'ammissione alla quotazione ufficiale di borsa Giuffré Editore, Milano 1995 FEDERICO AuvnNI

Il mercato finanziario per le piccole e medie imprese e il "diritto dei mercati regolamentati" Giuffré Editore, Milano 1995 Nonostante i risultati degli ultimi anni sembrino scoraggiare i risparmiatori dall'investire in borsa, da parte delle autorità di vigilanza si registrano iniziative volte a promuovere la quotazione e ad incentivare il ricorso delle imprese al capitale, di rischio. Tutto ciò in un contesto di integrazione europea che impone agli operatori nazionali di attrezzarsi per far fronte all'inevitabile concorrenza di mercati assai evoluti. Per comprendere i risvolti giuridici e istituzionali di queste iniziative è utile lalettura di due testi recentemente usciti per i tipi di Giuffr: Antonio Rosati, L'ammissione alla 107


quotazione ufficiale di borsa e Federico Almini, Il mercato finanziario per le piccole e medie imprese e il "diritto dei mercati regolamentati' Il primo lavoro offre al contempo un'esaustiva ricostruzione storica dei controlli pubblici sulla quotazione in borsa e puntuali rilievi per la soluzione dei più frequenti problemi della prassi. D'altra parte, la visuale privilegiata dell'autore - da diversi anni responsabile degli uffici Consob preposti alla quotazione in borsa - permette un'analisi che trascende la mera lettura dei testi normativi per offrire uno spaccato di "diritto vissuto" che, in definitiva, è ciò che maggiormente interessa chi è coinvolto in questioni di valori mobiliari. Da rimarcare soprattutto l'attenzione per le questioni di maggiore attualità, a cominciare dall'analisi del requisito della redditività minima dell'impresa per accedere in borsa (redditività da intendersi in termini qualitativi e idonea ad apprezzare un valore dei titoli che trascenda grandezze meramente contabili). Va, inoltre, segnalata la costante preoccupazione di evitare fenomeni di a!lontanamento dal mercato che - specie in occasione delle operazioni di "privatizzazione" - ha giustificato interpretazioni delle

regole tese a contrastare il cosidetto grey markete gli scambi fuori borsa. Il secondo testo rappresenta una prima analisi della normativa Consob attuativa delle previsioni legislative contenute nella riforma dell'intermediazione mobiliare (L. 1/1991) relativa all'istituzione di mercati diversi dalla borsa valori (delibera Consob 846911994). Al di là della descrizione delle regole e delle procedure, il lavoro vuole cogliere i tratti di novità di questi mercati destinati essenzialmente alla negoziazione dei titoli di medie imprese e di banche dalla borsa ufficiale. In primo luogo la concezione privatistica del mercato la quale sebbene temperata nella delibera Consob rispetto a progetti iniziali delle associazioni di categoria - deve guidare l'interprete nell'applicazione delle norme e nello sviluppo del principio di "autoregolamentazione" degli intermediari. In secondo luogo il ruolo degli operatori nello scambio secondo esperienze già sperimentate nei mercati finanziari anglosassoni. In terzo luogo la struttura telematica che, seppur sacrificando una potenziale vocazione locale (cioè legata ad aree territoriali di operatività e conoscibilità delle imprese), consente maggiore !iquidità ed efficienza dei mercati stessi.

Nello scorso numero di «Queste Istituzioni» (n. 103, luglio-settembre 1995) non abbiamo ricordato che l'articolo di Susana Bòrras-A!omar, Thomas Christiansen e Andrés Rodrfguez-Pose e l'articolo di Peter Van der Knaap erano già stati pubblicati su «Regional Politics and Policy» (voi. 4, Summer 1994, Number 2). Chiediamo scusa anche ai lettori.

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I fondi strutturali Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni

Maria Teresa Salvemini


L'informatica delle pubbliche amministrazioni Questioni e prospettive a cura di Rosalba Cori



PubbIiW compie un anna. Nel

fl 0

4 troverete:

La (liffuSiøne (lei COfltoll() di gestione negli enti locali. Molti ostacoli, qualche opportunità

Dal profondo Sud tra tradizione e innovazione: l'Azienda municipalizzata trasl)orti di Catania

cli Pier, 'i, icci12'C' 1301iclQìlK) • Decreto legislativo n.7711 995

(Il Gaetano Fabio San/ilippu

Il controllo economico visto attraverso leSl)ericnza di un ente locale (li /)(/Q/(/

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Introduzione delle nuove tecniche di gestione negli enti pubblici non economici: il caso lnps cli AuI(,IIi(,

Costanzo

L'esperienza (leI controllo di gestione nel comune di Vicenza (liAlauro 13c'lIusia

Difficoltà, limiti, potenzialità itiformative e sviluppi fra amministrazioni comunali diverse li il laitio Bel/c'sia

Il controllo di gestione per il miglioramento (Iella qualità e dell'efficienza (li A ,ICII .io Scianti /! jlinnica Ventine//i Misurazione dei risultati e gestione delle risorse nelle l)irezioni provinciali del Tesoro (Il ilc,i!ao()5(iijdi I/rossi Iiilloìil

La formazione a sostegno della riforma dei sistemi di controllo nelle pubbliche amministrazioni rli (insep/c' 1k-nuda e talc-'ria Spagununio

Un possibile l)Lmflto di riferimento per la cultura dell'innovazione amministrativa (li luaiucc'scn l/eu/uo,n

,Ibbunza,si a i'al,!,iko Bene è facile: OCC(n','e versare 70000 lire (per qua//l'o nu,ue,'i) SII! dc /os/alc a. 17.562208 i,ileSkito (I "F?'alICO Iub'e/i siI, itiiltiuo (specifica,'e la causale i/ei versa,,Ie,z1o: "AbbonamenIo 1996(1 Pubblico Be,,e).

Redaìioiic: 06/3230245 - 3217120


q deste isti"tozioni La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'»Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. E stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Il taccuino, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers.

Gli opuscoli,

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è stato pubblicato il 2° numero degli opuscoli di Queste Istituzioni. La nuova serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del 1° numero con il dossier »Cultura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei (per uso professionale o didattico); presentare materiali complementari alla rivista (come in questo 20 opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").


La collana Maggioli - Queste Istituzioni Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Slof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'Uniti ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 In corso di pubblicazione: Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit. Advisory Commission on Intergovernmental Relations La riorganizzazione delle economie pubbliche locali


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