Anno XXIV - n. 105 - Trimestrale (gennaio-marzo) - spedizione in abb. postale - 50% Roma
queste ìstìtuzionì Oltre le elezioni d'aprile I nuovi "poteri" locali: verifiche a metà percorso Antonio Chizzoniti, Barbara Nepitelli
Il mercato tra etica e diritto Stefano Zamagni, Andrea Ventura
Pubblica amministrazione: formare gli uomini Diari Schefold, Silvestro Russo, Adele Magro
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n. 105 1996
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rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno XXIV n. 105 (gennaio-marzo 1996) Direttore SERGIO RISTUCCIA; Vice Direttori: MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Condirettore: ANTONIO DI MAJO Responsabile redsj.zione SAVERIA ADIDOTTA Responsabile organizzazione GIORGIO PAGANO Responsabile relazioni esterne: MASSIMO RIBAUDO Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Amministrazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8- 00193 Roma Tel. 39/6/3215319 - Fax 3215283 Direzione e Redazione Corso Trieste, 62 - 00198 Roma Tel. 39/6/8419608 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile GIOVANNI BECHELLONI Editore QUES.I.RE sri QUeSTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN: 1121-3353 Stampa: I.G.U. sri. - Roma Finito di stampare nel mese di aprile 1996
Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
N. 105 1996
Indice
In
Oltre le elezioni d'aprile
x
Auguri Ulivo
Taccuino XI
Presidenzialismo e Sartorismo Francesco Sidoti
XVII
Europa leggera, Europa dei forti o che altro? Massimo Ribaudo
)O(JII
L'Italia virtuale secondo Delphi Massimo A. Conte
I. nuovi "poteri" locali: verifiche a metĂ percorso 3
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Le debolezze del sindaco forte Antonio Chizzoniti Il federalismo fiscale: tesi a confronto Barbara Nepitelli
Il mercato tra etica e diritto 35
L'etica del discorso economico Stefano Zamagni
46
Il diritto nell'economia di mercato Andrea Ventura
I
Pubblica amministrazione: formare gli uomini 61
Sistema elettorale e amministrazione pubblica in Germania Dian Schefold
73
Dalle percezioni retoriche all'effettivitĂ dell'innovazione Silvestro Russo
92
Pubblica amministrazione e sistema maggioritario Cronaca di un dibattito in redazione
Adele Magro
Rubriche 105
Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura
107
Notizie da...
115
Segnalazioni
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editoriale
Oltre le elezioni d'aprile
Che cosa significa candidarsi a governare il Paese? Non èfacile trovare una risposta a questa domanda. Normalmente, il discorso che si fa è molto semplice o addirittura elementare: considerato che chi sta al governo cerca fermamente di rimanerci, chi vuole sostituirlo usa tutti gli argomenti sull'utilità di alternare i governanti ma soprattutto uno: quanto sia cattivo o incompetente o, comunque, da qualficare negativamente chi vuole andare a sostituire. Ovviamente, chi sta al governo risponderà agli avversari nella stessa maniera. Insomma, l'argomento princzpe è quello «contro ' Il sistema maggioritario, di per sé, valorizza questo argomento. Se poi la posta governo è, in definitiva, da conquistare per la prima vo fra, sia per l'uno che per l'altro schieramento, il candidarsi guerreggiando avrà altre ragioni e, forse, nessuna possibile alternativa. È inutile illudersi. Di tutti i vizi e le (poche) virtù di questo candidarsi guerreggiando nell'epoca della videocrazia, qui non ci interessa parlare. Pur trattandosi, lo sappiamo bene, di un problema grave. Vogliamo, piuttosto, riprendere il discorso dal tema delle opportunità che ritenevamo potessero esistere nelle fasi storiche di agitato cambiamento del sistema politico, altrimenti dette di «transizione", e cioè chiederci se basti e, in ogni caso, se sia giusto candida rsi in questo modo quando, come oggi in Italia, si sta vivendo un riequilibrio di sistema assai travagliato e conflso. VINCERE LE ELEZIONI E GOVERNARE
Innanzitutto, basta o no? Se la domanda significa basta o no a vincere le elezioni, c'è da ricordarsi soprattutto che nel 1994 a Berlusconi e alla destra bastò per vinvere le elezioni politiche inventarsi un bel pericolo comunista e, in qualche modo, assimilare i comunisti al sistema di governo vigente attraverso la metafora del consociativismo. Se si aggiunge che la sinistra appoggiava dall'esterno il governo dei tecnici che era in cariIII
ca ecco, dunque, ben concretizzarsi il peso allora avuto dal candidarsi guerreggiando. Non bastò, invece, alla sinistra. Innanzitutto per la ragione, appena detta, del sostegno dato al governo in carica. In secondo luogo, perché la guerra era troppo contro il solo Berlusconi. E qui non è il caso di ricordare la lunga serie di critiche o auto-critiche che si sono fatte sulla demonizzazione dell'avversario Berlusconi (ma, francamente, diciamolo: c'erano delle buone ragioni) e che si accompagnarono alle analisi delle novità della campagna della destra berlusconiana, in termini di una valutazione non negativa, e men che mai irridente) della politica dello spettacolo. Sono cose ormai lontane di cui già ci siamo occupati nell'editoriale del n. 100 (ottobre-dicembre 1994). Il fatto è che il successo della destra nel 94 - che aveva motivi forti nel risveglio di molti animai spirits dell'italiano medio - muoveva da quel fondo di lungo periodo che aveva ben colto Adolfo Battaglia dopo le elezioni (ma sulla base di valutazioni, già anticipate prima, che la sinistra perdesse nel 1994) quando scriveva che 'kli equilibri di fondo fissati nel '48 non furono mai sostanzialmente modflcati" e che non volendo il Paese alcuna «rivoluzione né costituzionale né anticostituzionale" ma «ordine, stabilità e cambiamento" ha finito per prendere "ciò che c'era sul mercato senza stare a fare tanti distinguo" (v. Anatomia di una sconfitta che viene da lontano, in «PoI. is. », giugno 1994). Osservazione che ben si combina con quella di Francesco Ciafaloni secondo cui, in definitiva, 'kli elettori hanno votato per ideologia e per schieramento più di ogni altra volta" magari con ciò credendo (anche una parte di elettorato precedentemente di sinistra) di potersi scrollare di dosso un bel po' di doveri e di debiti (v. La sconfitta dei doveri, in ((Politica ed Economia», marzo-aprile 1994). Però il discorso non finisce qui. Come non finì qui nel 94 visto che, appena due anni dopo, gli italiani sono stati chiamati di nuovo a votare. Avevamo previsto che la 194 sarebbe stata, per chiunque, una vittoria di Pirro. Nella storia convittoria del creta le cose sono andate in modi ovviamente imprevedibili, ma sostanzialmente quella previsione (tutto sommato facile) si è realizzata. Ed è una buona ragione per dire che - quindi - candidarsi guerreggiando può bastare a vincere una tornata elettorale, ma non basta a governare. Naturalmente, governare non è andare al governo. Governare significa intendere, il meglio possibile, i fenomeni maggiori che caratterizzano una società nazionale, cioè la sua condizione storica e quel che ne discende in termini di problemi e in termini di agenda politica. L'agenda politica, in gran parte, deriva dalle cose, ma in parte dev'essere suggerita e "imposta" da chi sa governare. Tutto ciò vale in generale. Ancora di più vale per periodi di forte incertezza e di "transizione".
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PROGRAMMI FUORI DI RETORICA
In tali periodi, può assumere un peso reale e non soltanto retorico il programma. Sempreché questo sia elaborato sulla base di una buona interpretazione di ciò che accade e di una accorta previsione/simulazione di ciò che può accadere in seguito. Se il programma nasce da queste capacità di interpretazione politica, allora si tratta di un esercizio fondamentale anche per definire l'identità di chi si propone di essere soggetto di governo. Una definizione o ridefinizione che in questo caso opera assai in profondità, perché derivante da un esercizio che guarda avanti. Ed il programma avrà la dimensione che l'esercizio di scrutare problemi reali, guardando in avanti, può consentire. Allora, nessun libro dei sogni né alcun assemblaggio del desiderabile potrà essere consentito. Né, ancora, nessun beneficio potrà essere presentato senza costi. Tuttavia, gran posto nelformula re il programma potrà avere la capacità creativa, cioè la fantasia, anche quando si debba lavorare «ai margini" cioè senza che la condizione storica consenta ampi gradi di libertà. Fare un programma non equivale, dunque, a fare promesse. Signflca decftare e interpretare una condizione storica con i suoi problemi e dare indicazioni per risposte adeguate. Ora, mettiamo che a fare questo lavoro sia la sinistra. Di per sé, significa mettersi in una prospetti va che ha come punti di rfirimento le grandi mutazioni avvenute o in corso, la fisionomia cangiante della popolazione, ilfiauro del lavoro umano, la consistenza e permanenza del mondo simbolico e dei valori come bisogni simbolici. Alfredo Pieroni, in un pamphlet uscito all'inizio del 96 (Perché le sinistre non vinceranno mai piit. A meno che, ed. Longanesi, Milano) riassume con efficacia le questioni cruciali che stanno come macigni sulla strada della sinistra (il culto del denaro, i costi della politica, la disoccupazione, la finanziarizzazione dell'economia e i "nuovi padroni del mondo ", la televisione e la videocrazia e via via elencando). Sono macigni da rimuovere, spostare o comunque in qualche modo da scalare e scavalcare ben sapendo che qualche sommovimento, alcuni macigni, lo produrranno da loro medesimi. Nessun grado di definitiva «impossibilità" è del tutto convincente. PDossI DELLA SINISTRA DI GOVERNO
Paradossalmente, la "sinistra di governo" si trova in una posizione assai contradditoria. Ha appreso e digerito lentamente tutte le regole di una politica economica indotta dall'integrazione del Paese nel sistema competitivo mondiale, e in quello europeo in particolare, conosce il peso dei «mercati" ed anzi ad essi si richiama spesso, crede nelle privatizz.azioni e se nefa promotrice e nello stesso momento vede sollevarsi intorno l'onda dei disagi sociali più radicali: accanto ai mercati (o tramite i mercati?) I1
il "terzo mondo" si introduce sempre più nei Paesi evoluti. E non si tratta soltanto delfenomeno incontenibile dell'immigrazione, ma della crescita della povertà e della riduzione a "terzo mondo" di molti strati della popolazione bianca occidentale. Il cuore delfar programmi sta nella capacità di confrontarsi con una serie di questionimacigno. L'impressione è che, per non cadere in vecchie trappole e gabbie ideologiche, ovvero per non apparire vecchia sinistra apocalittica, tali questioni siano al momento messe assai spesso dii parte. Sta però avvenendo che, di fronte a nuovi problemi sociali di crescente gravità, cambino anche i paradigmi del moderatismo. Che non sarà tanto quello stare nell'equilibrio di mezzo fra posizioni ideologiche contrapposte ma nell'adeguatezza delle risposte e delle soluzioni per tali problemi. Questa adeguatezza potrà essere, in un prossimo flauro, la richiesta delle classi medie tradizionalmente considerate "moderate". A questo riguardo sembra giusto ridare spazi, nella sinistra, alle anime che non s'identificano con quella di un post-comunismo preoccupato di affermare la propria ormai completa alterità in confronto alla grande "illusione" comunista, tanto a lungo condivisa. In questo senso aveva ed ha un senso richiedere, come faceva Battaglia nel citato articolo del 1994, che nella sinistra da ricostituire fosse presente «quanto rimane valido di tradizioni importanti". Non nel senso, occorre però precisare, difederare residui di vecchi gruppi minoritari o di gloriose micro-organizzazioni (anche per evitare ogni rischio di patetici raduni) o recenti piccoli raggruppamenti che si auto-proclamano eredi di aree laiche liberali e socialiste in spirito di sovrana vaghezza. È importante r:percorrere i percorsi ideali della sinistra, a suo tempo accantonati per gli esiti della guerra ideologica combattuta, nefastamente, nei suoi settant'anni dal comunismo reale. Ed è importante rivisitare queste tradizioni ricordando l'importanza del momento pre-politico (e qui vale riprendere la lezione di Croce). Con questo metodo, non c'è rischio di operazioni inutili o retoriche perché nel crogiolo di una riflessione di molti sul programma, sull'identità di una sinistra che si candida a governare, non cpericolo diparadossali 7ederazioni di idee" ma tutto si confronterà e verflcherà nel realizzare un soggetto ben diversamente attrezzato che nel passato. In realtà, un'entità che potrà chiamarsi nuova anche perché ha recuperato, nella sua storia di lungo periodo, gli aspetti più negletti. FoRmARE CLASSE DIRIGENTE
Tutto quanto detto (affiontare i macigni o, ricordando le metafore usate da Lord Reveridge nel secondo dopoguerra, i giganti che sospingono verso cammini distruttivi rivitalizzando, anche attraverso l'azione pre-politica, gli apporti migliori delle varie VT
tradizioni della sinistra) conduce ad un migliore incontro con il Paese, coniugando passato e presente/futuro. Manca, però, un passaggio o un anello di congiunzione fondamentale: la classe dirigente, cioè le persone che devono interpretare, se possi bile governando, la nuova fisionomia del Paese. Ricordiamo, candidarsi a governare può voler dire un discorso dal seguente tenore: "venendo da una certa storia, che è storia ricca e complessa, partendo da certe interpretazioni della realtà che viviamo e proponendo alcuni, sobri obiettivi da conseguire, riteniamo di poter meglio rappresentare e conseguire gli interessi del Paese e, nella loro essenza, gli interessi di tutti. Attraverso gli obiettivi che proponiamo, molto più che attraverso 'elenchi di desideri potremo condurre al meglio tutti gli affari del Paese anche quelli - oggi non prevedibili - che le contingenze porteranno nell'agenda politica. Per questo chiediamo la fiducia degli elettori". Questo è lo schema di un discorso che può fare una classe dirigente. Ma quale classe dirigente? Ricostruire la politica, soprattutto alfine di governare, impone un problema centrale: la selezione della classe dirigente attraverso curricula di professionalità e percorsi di legittimazione democratica. Problema diffìcilissimo e per questo sempre trascurato. La crisi del reclutamento attraverso carriere di partito non può essere risolta con il ritorno all'antico. L'appello retorico e generico alla società civile non può continuare a legittimare il nulla, il gratuito o peggio ancora. Dunque, sui punto della selezione della classe dirigente non si può glissare. Il momento storico sembra rilanciare l'esigenza di leadershzp carismatiche, ma sembra, sempre più, che secondo l'opinione dei più il carisma consista nel "bucare lo schermo " Il che è importante per contribuire a risolvere il proble ma della comunicazione, croce più che delizia di ogni governo, ma è appena un aspetto del carisma o, più modestamente, delle capacità di base di una classe dirigente e dei suoi uomini di spicco. Bisogna insistere con durezza sulla necessità di formare un'opinione pubblica esigente quanto al merito della classe dirigente. La sinistra imponga prima a sé epoi agli avversari il cruciale dilemma della selezione e dei percorsi richiesti alla classe dirigente. Non è un problema che si risolve con la campagna acquisti dei momenti elettorali. "QuESTIoNE FISCALE" IN PRIMO PIANO
Nel momento in cui la rivista va in stampa, la campagna per le elezioni d'aprile è a metà strada. In questa fase abbiamo assistito ad una rapida sostituzione di temi. Il fallito tentativo di Antonio Maccanico di costituire un governo di larghe intese, cioè in qualche modo bipartisan, per le rfbrme istituzionali, sembrava che avesse deVII
finito il tema della campagna elettorale: appunto, quali nuovi assetti dare alla forma-Stato? Gianfranco Fini ci ha creduto, e per una decina di giorni ha fatto dffondere manifisti con la sue effigie accanto al motto "coerenti per ilpresidenzialismo h' Sono bastati, però, pochi giorni perché il leit motiv cambiasse. Al tema delle nuove istituzioni si è sostituito quello della questione fiscale. E ciò soltanto in parte per iniziativa delle forze in campo e delle destra in particolare ma anche, e soprattutto, per le iniziative assunte dalla Confcommercio e poi, sulla scia, da altre organizzazioni degli interessi. Il fatto è da rimarcare, sia per valutare quali saranno, alla fine, le questioni di maggiore interesse per l'elettorato, sia per cogliere i profondi cambiamenti di comportamento che gli scontri elettorali in sistema maggioritario stanno inducendo. Qui, ai fini del discorso sul governare, vogliamo ragionare sugli esiti che avrà alla fine questo fatto: la questione fiscale si è imposta sulla scena, e ha preso ilprimo piano. Nell'affermarsi della questione fiscale come tema elettorale dominante, molti sono rimasti sorpresi perché è stata messa in ombra la questione del riequilibrio del peso impositivo tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. Su tale questione si era largamente basato il consenso alle manovre fiscali degli ultimi governi, manovre che erano state viste dai più come la premessa per un attenuarsi del peso sulle categorie tartassate. Poiché la questione è ancora irrisolta, ci chiediamo se la mancanza di attenzione a tutti gli aspetti ad essa legati non indichi un cambiamento fondamentale di clima nei confronti di una politica fiscale che appare caratterizzata, invece, dalla necessità di generare l'avanzo primario richiesto per la partecipazione all'Unione Monetaria. Dunque, una politica sempre più percepita come fattore di impoveri mento. Anche se dall'esito elettorale non venisse una conferma in questo senso, se cioè non venissero premiati quelli che hanno fatto le promesse più populistiche, ci sembra dftìcile evitare una conseguenza del cambiamento di clima: che non èproponibile, da nessun governo, una manovra fiscale dalle dimensioni richieste per garantirsi, già nel 1997, la parteczpazione all'Unione Monetaria (si tratta di decidere, entro lafine del 1996, una manovra che faccia passare l'avanzo primario da 60 mila a 125 mila miliardi, stando all'ultimo «Documento di programmazione economica efinanziaria"). Ma è anche da chiedersi quale consenso possa avere una manovra anche più diluita, ma sempre caratterizzata dall'obiettivo fiscale di avere un surplus primario mirato a compensare le spese per interessi fino a determinare un deficit complessivo dei conti della PA superiore al 3% del PIL (condizione per l'ammissione successiva all'Unione Monetaria). E, quindi, quale governo possa avere una maggioranza sufficiente per dare spalle forti a tale politica. VT"
TASSE SOLTANTO PER PAGARE INTERESSI?
Oltre all'aspettativa di un riequilibrio del carico fiscale, le manovre corretti ve di biLancio avevano fatto sperare in una riduzione dei tassi d'interesse e nei suoi benefici in termini di maggior occupazione: certamente è la delusione di tali aspettative, dovuta al comportamento "attendista" dei mercati finanziari, ciò che ha determinato un cambiamento di attitudine nei confronti di un'ipotesi, quella della moneta comune, alla quale erano state affidate, soprattutto alla fine degli anni Ottanta, tante speranze. Oggi si vede, invece, che per qualche oscura ragione, agli italiani vengono chiesti sacrfìci che non vengono chiesti, per esempio, ai belgi: questi hanno un rapporto debito/PIL superiore al nostro, ma bassi tassi d'interesse tali che, se li avessimo anche noi, non avremmo bisogno di ulteriori manovre fiscali. È, dunque, un sistema sempre più incomprensibile, quello prospettato dal trattato di Maastricht, e genera un rifiuto proprio nella classe dei piccoli e medi produttori, e nei loro dipendenti. Qualora, peraltro, dalle elezioni dovesse venire confermato questo clima sostanzialmente avverso ai vincoli dell'unficazione monetaria, ci chiediamo se sia ancora possibile che un governo possa condurre, con successo e consenso, una manovra di entrate in un secondo tempo. T'7 è il rischio che tale clima si estenda anche all'altra faccia della questione, quella del taglio della spesa pubblica, soprattutto quando appaia evidente che l'unica via veloce perseguibile in questo campo è quella dello spostamento della produzione - e del costo - di alcuni servizi da/settore pubblico a quello privato. Il che signflca una drastica riduzione nella fornitura di questi servizi (per pessimi che siano). In assenza di consenso ad una politica di ulteriore aumento dell'avanzo primario, si porrà alfrturo governo i/problema dei costi, e dei benefici, della parteczazione ad un eventuale accordo di cambio con i Paesi facenti parte dell'Unione Monetaria (il cosiddetto nuovo SME). Sarebbe necessario, cioè, prendere in seria considerazione la terza alternativa, quella di cui finora hanno parlato solo quegli stessi che hanno attizzato la rivolta fiscale, ma che non per questo può essere tenuta fiori: che l'Italia assuma la posizione inglese di «opting out' cioè di stare fiori dall'Unione Monetaria (ma dentro l'Unione Economica) lasciando alla lira la stessa libertà di flutt'uazione che ha la sterlina. Ovviamente, e ancora, i/punto rilevante di questo terzo scenario riguarda i tassi d'interesse: saranno più alti o più bassi rispetto agli altri scenari della partec:pazione, in prima o seconda battuta, all'Unione Monetaria? A nostro parere, la risposta non è nelle cose, ma nel modo in cui la politica fiscale e del debito si disporranno: nuove fresche idee saranno certamente necessarie. Per ben governare e per salvare l'Europa, con ilfondamentale contributo italiano, come grande progetto di pace e di civile unione. Lb1
Auguri Ulivo
Questo numero della rivista doveva uscire rigorosamente entro il primo trimestre '96 (questo il nostro proposito), come si conviene per una rivista che ha conquistato una sua reputazione e ha un buon rapporto con i suoi abbonati. Ma spesso i buoni propositi di una rivista povera rimangono tali, soprattutto quando capita di incrociarsi o scontrarsi con le esigenze, anche tipografiche, di una campagna elettorale come quella appena conclusa. Di qui il nostro ritardo a uscire, del quale ci scusiamo con i lettori. Felice ritardo, comunque. La rivista può uscire salutando con soddisfazione e qualche emozione l'esito della campagna elettorale, cioè la vittoria dell'Ulivo. I ragionamenti che abbiamo fatto su queste pagine durante gli ultimi anni negli editoriali, così come negli interventi di molti collaboratori, amici e lettori, trovano ora, vittorioso, il suo naturale referente politico. I compiti e le responsabilità si precisano per tutti e sono grandi e gravosi. Nel quadro che ormai si va delineando in termini di sistema politico, con l'effetto del maggioritario progressivamente digerito anche nei suoi aspetti positivi, un nuovo rapporto si può instaurare fra schieramenti politici e mondo, tutto da rimobilitare, degli studiosi e degli intellettuali di buona qualità. Un rapporto che potrà anche essere di appartenenza, e comunque di stretta collaborazione, ma fuori da intollerabili vincoli d'ideologia o di clientela. Quei vincoli che nel passato prossimo di questo Paese hanno raggelato molte energie intellettuali tenendole lontane da quella "nobile arte" che è la politica. In questo spirito, facciamo i nostri migliori auguri all'Ulivo per i due grandi compiti che lo aspettano: creare un soggetto politico che sia insieme solido, snello, aperto e, in ogni caso, capace di guidare su una buona rotta una società complessa, frammentata ma ricca di grandi energie e di grandi retaggi; e governare rinnovando a fondo orizzonti, mentalità e modalità del "fare governo". Del saper amministrare e governare, dovremmo ripetere secondo una nostra consolidata linea di riflessione e proposta. Un augurio particolarissimo a Romano Prodi. Tempo addietro egli ci scriveva per dirci quanto sia stato duro, nel 1995, insistere nell'idea di una coalizione fuori dalle regole e dai comportamenti usuali della vita politica italiana, e aggiungeva che per insistere era giusto accettare ie amarezze degli attacchi e delle incomprensioni. Perché - egli diceva - la coalizione è nata. Finora ha avuto ragione. Le feste postelettorali all'medita insegna dell'Ulivo ne sono il segno emozionale. Far crescere la coalizione mantenendone, e anzi valorizzandone, le fresche caratteristiche originarie sarà una bella fatica. Che vale la pena di affrontare. Auguri Ulivo!
taccuino
Sartorismo e Presidenzialismo di Francesco Sidoti
S
econdo alcuni osservatori, i momenti più interessanti del dibattito istituzionale in questa legislatura sono stati il confronto televisivo tra Giovanni Sartori e Piero Chiambretti, le domande di Valeria Marini a Gianfranco Fini, le risposte di Enrico Cuccia a Francesco Salvi. Malignità, certo, però è anche vero che la babele dei principianti e dei teledipendenti ha travolto qualche barriera tradizionale di troppo. Ad esempio, l'ignoranza, che da disvalore, momento di vergogna e di mimetizzazione è diventato passaporto per scorribande senza confini e senza remore. Davanti all'entusiasmo di alcuni neofiti e alla sentenziosità di alcuni accademici, a qualcuno, in questa rivista, poteva venire la tentazione di guardare dall'alto in basso il recente dibattito sulle riforme istituzionali. A proposito del modello francese, infatti, potremmo ricordare che quasi trent'anni fa, dentro la Fondazione Adriano Olivetti, alcune persone che oggi lavorano a questa rivista vararono un ampio programma di ricerche e pubblicazioni comparate che portò, tra l'altro, alla traduzione di vari volumi importanti sul sistema politico e amministrativo francese. Ad esempio, un'opera magistrale per chiarezza e convinzione: Il Parlamento francese nella Quinta Repubblica, di Pierre Avril che illustrava in maniera esemplare i contenuti e i limiti del parlamentarismo nella Francia della Quinta Repubblica (opera che fu apprezzata dagli specialisti e che ha ancora tanto da insegnare). Da quelle ricerche, risultava chiaro, già molti anni fa, che la forza dell'esperienza francese non è questione di meccanismi elettorali e di ingegneria costituzionale.
Rileggere AVrII
'4'
Se, adeguandoci al clima dominante, fossimo anche noi costretti a semplificare in due parole, potremmo dire che tutta la storia dei vari meccanismi elettorali nelle cinque repubbliche è stata superficiale rispetto alla storia delle grandi istituzioni francesi, che hanno vertebrato il Paese e lo hanno portato avanti indipendentemente o nonostante gli sconquassi politici e i connessi cambiamenti di ingegneria costituzionale. Checché ne dicano i principianti, non possiamo confondere la forza del modello francese con i suoi meccanismi elettorali; e il modello francese non può Prego, un essere copiato facendo riferimento ai meccanismi elettorali. Sarebbe una maniera di ragionare equivalente a quella di quel tizio abito da che vedendo passare un elegantone (anzi un tombeur defemmes, tombeur des femmes per rimanere nella metafora francese), chiede al suo sarto di confezionargli immediatamente un abito uguale a quello del tizio che vorrebbe imitare. Con la differenza che l'elegantone è alto, ventenne, atletico e nerboruto; il secondo è piccolo, novantenne, rotondo e flaccido. Ovviamente, il modello che va bene per uno, può non andar bene per l'altro. I1abito non farà il monaco e i risultati deluderanno le aspettative. I modelli vanno adattati a storie e situazioni diverse, che richiedono soluzioni non prefabbricate, ma adattate ad esigenze specifiche. Nella babele delle proposte e dei modelli, il caso di Giovanni Sartori è davvero rivelatore. Impagabili le scenette di D'Alema, Berlusconi, Fini nelle vesti, finalmente umili, di scolaretti secchioni sotto le sue bacchettate professorali. Ma, non me ne voglia il professor Sartori, che da sempre consideriamo un vero maestro e uno dei più autorevoli intellettuali contemporanei, la deferenza dei neofiti non sempre è un metro sicuro di giudizio. Molti anni fa, quando ero un giovanottino alle prime armi, l'indimenticabile Alberto Spreafico mi fece un discorsetto che al nocciolo mi ricordo così: "Se vuoi andare avanti, fai sempre attenzione alle scelte di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori". L'invito era fondato sull'esperienza. Bobbio non ne ha mai sbagliata una: per rimanere perennemente grandi in mezzo a tanti tracolli politico-ideali, dal fascismo all'antifascismo, dal comunismo all'anticomunismo, dal socialisno all'antisocialismo, ci vuole un fiuto che non si vende a ogni angolo di strada. Tutto l'opXII
posto si può dire di Giovanni Sartori, che è riuscito a dimostrare un fiuto politico altrettanto sicuro e infallibile di quello di Bobbio. Ma al contrario! A distanza di tanti anni, quel ragionamento scherzoso qualche volta mi è tornato in mente, e mi sono chiesto: poiché Sartori è diventato il più autorevole proponente del modello francese, ovvero del presidenzialismo alla francese, dovremmo dunque forse insospettirci? Sì, secondo un'agguerrita schiera di osservatori, da Stefano Rodotà a Leopoldo Elia. In larga misura stiamo riprendendo un dibattito antidiluviano. La condanna sartoriana del proporzionalismo e la correlata dei i i scrizione aeii sistema italiano come irrazionaimente poiarizzato e centrifugo, è stata molto discussa negli anni Sessanta e negli anni Settanta. Da Bobbio a La Palombara, da Barile a Passigli, quell'analisi fu attentamente discussa e per varie ragioni contestata. Ora, sulle macerie di Tangentopoli ritrova una seconda giovinezza; gli oppositori adesso sottolineano soprattutto il pericolo della "democrazia d'investitura" o della "deriva plebiscitaria", per ragioni ovvie e contingenti. Non ha avuto grande spazio, invece, un'altra critica che a suo tempo fu decisiva; la critica di coloro che parlavano non in quanto esperti a tavolino in ingegneria elettorale, ma in quanto esperti del funzionamento della macchina politico-amministrativa del Paese. Conoscitori sul campo, dall'interno, per diretta, personale, pluriennale esperienza a vari livelli. Circa vent'anni fa, le analisi di Predieri contrastavano (pur nell'ambito di una vecchia amicizia e di una fortissima stima reciproca) con quelle di Sartori proprio in riferimento a questo punto decisivo: il sistema italiano, frammentato e polarizzato come giustamente descritto da Sartori, era sopravvissuto o aveva conseguito rilevanti successi nonostante o grazie ai meccanismi proporzionalisti e consociativi? Quella maniera di ragionare ha ancora una sua forza di persuasione, tanto è vero che ragionamenti simili si ritrovano in alcune delle pagine più cospicue sulla crisi in corso, quella Intervista sulla fine della Prima Repubblica, in cui Antonio Maccanico invita a non demonizzare la proporzionale e a non demonizzare gli uomini e i risultati della Prima Repubblica, facendo di tutta l'erba un fascio. Con un esplicito riferimento a Sartori, Maccanico sot-
Ricordate gli anni Sessanta?
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tolinea che sarebbe illusorio credere nelle virtù conclusive della legge elettorale, e fa un riferimento al modello tedesco in termini perentori, che lasciano poco spazio alle alternative, seccamente definite "baggianate". Al nocciolo, le osservazioni di Maccanico mettono a fuoco un punto decisivo: il sistema più adatto alla nostra storia dovrebbe contemperare esigenze diverse, raccordando stabilità e diversità. In questo senso, va visto il recupero della proporzionale, integrata con numerosi e importanti correttivi, come la clausola di sbarramento e la sfiducia costruttiva. Al fondo, nella visione di persone come Predieri e Maccanico, c'è l'idea di un Paese caratterizzato dalle sue differenze e dalle sue discontinuità. Per questo Paese la terapia adatta non è un astratto esprit de géométrie, ma un intenso periodo di rinnovamento istituzionale. Il che può voler dire qualcosa di più delle solite, scontate chiacchiere sul bicameralismo, sulla riduzione del numero dei parlamentari, e così via. In un numero precedente di questa rivista (cfr. Sergio Ristuccia, Mettere la democrazia al lavoro, n. 96), è stato svolto un discorso più ampio, che riprenderemo in merito ad un punto soltanto. A partire del 1968 è avvenuta una "rottura della continuità dello Stato" di importanza pari, se non superiore, a quella avvenuta alla caduta del fascismo; questa rottura non è stata seguita da una coerente opera di ricostruzione. In Italia, come ha detto Wolf Lepenies, per la Germania, le élites hanno senso soprattuto se riusciranno a legittimare pubblicamente decisioni impopolari. Tra Maastricht e le possibili rivolte fiscali dell'imminente futuro, il senso dei prossimi anni sarà giocato fondamentalmente su questi temi. Il rinnovamento istituzionale deve dunque puntare ad una nuova costruzione morale del Paese. Opera quanto mai complessa, secondo alcuni disperata, secondo altri necessaria, perché su questo o riusciamo, o cessiamo di essere una nazione. Sul punto è bene che ricordiamo una delle ragioni d'essere di questa rivista, che nacque anche come risposta all'anti-istituzioi i nansmo cne pervaaeva tutta iai cuitura sessantottesca, aa iviarcuse a Foucault, da Basaglia a Goffman, e che culminava nel rifiuto delle istituzioni, viste come crepressive "totali", "sovrastrutture", "epifenomeni". Per contrastare la cultura anti-istituzionale ritenemmo che non
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L'importanza (11 tuia ctura c e .. istituzioni .
bastava fare un appello semplificatore alle virtù taumaturgiche delle riforme elettorali. Sarebbe stato un errore di valutazione perfettamente simmetrico e speculare alla cultura sessantottesca. Un altro estremismo. Lestremismo dei professori contrapposto a quello degli studenti. La contestazione globale generò spontaneamente alcuni anticorpi. Un esempio particolarmente interessante furono le osservazioni di Pasolini, e la sua riflessione su come "le istituzioni sono commoventi". Nella sua capacità profetica e visionaria (che qualche volta lo portò a straparlare, ma non in questo caso), Pasolini reagiva all'anti-istituzionalismo della cultura sessantottesca sottolineando un aspetto fondamentale delle istituzioni: la loro capacità di dare regole, significato, continuità, stabilità, alle azioni ùmane. Per Pasolini, a differenza di tanti intellettualoidi di quell'epoca sovreccitata, le istituzioni non creano un momento "totale" di puro dominio amministrativo. Da buon antropologo dilettante, Pasolini capiva che le istituzioni nascono per impedire la guerra fratricida, il bellum omnia contra omnes, e da buon poeta scriveva versi celebri, che fra.l'altro dicono: "le istituzioni sono commoventi: e gli uomini in altro che in esse non sanno riconoscersi... Sono esse che li rendono umilmente fratelli". Probabilmente, il momento recente della storia patria in cui gli italiani hanno ritrovato un senso "commovente" e "fraterno" delle istituzioni fu il settennato di Sandro Pertini, che salvò il Paese dal baratro oscuro sul quale era inclinato negli anni Settanta e verso il quale, secondo alcuni, abbiamo ricominciato a rotolare. In questo senso, agli ammiratori del modello francese, è bene ricordare la frase di De Gaulle che a suo tempo abbiamo citato su questa rivista: "Quando mi chiedete qual è il migliore sistema, ditemi anche per quale tempo e per quale Paese". E siamo sicuri che quel presidenzialismo sarebbe la formula migliore per questo nostro Paese, in questo tempo di grandi lacerazioni? I lettori dell'ultima, monumentale e non agiografica biografia del Generale (The last Great Frenchman. A ift of Generai de Gaulle, di Charles Williams, Wiley 1995), hanno osservato giustamente che Germania, Austria, Giappone, Italia, emersero dai disastri della Seconda guerra mondiale con sistemi ritagliati sulle necessità delle rispettive culture nazionali; invece, la Francia della
11 sistema migliore
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Quinta Repubblica è un Paese compresso dentro un sistema che non lascia valvole di sfogo se non nello scontro di piazza, com'è avvenuto nel 1968 e nel 1995. Non è certo la previsione migliore che si possa fare per un Paese tanto meno solido e meno istituzionalizzato come l'Italia. E proprio quando la pace sociale risulta essere il bene più prezioso e più sorprendente dell'attuale momento politico. Intervistato dal "Corriere della sera" all'inizio della campagna elettorale, a Ferruccio de Bortoli, che gli chiedeva cosa l'aveva "deluso di più di questo Paese", il senatore Agnelli rispondeva: "Le dirò invece la cosa che mi ha sorpreso di più. Che alla grande svalutazione non sia seguita una grande inflazione. Merito di una pace sociale che altri Paesi ci invidiano".
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Europa leggera, Europa dei forti o che altro di Massimo Ribaud
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1 clima è quello dei grandi cambiamenti. Si cerca l'accordo su linee guida e comportamenti che non portino solamente ad una revisione del Trattato di Maastricht (scopo istituzionale della Conferenza Intergovernativa che si è aperta a Torino), ma che cerchino anche di prefigurare il modus vivendi dell'Unione in vista di due obiettivi prioritari: gli aggiustamenti istituzionali da operare in previsione dell'allargamento ad altri Paesi e la realizzazione dell'Unione Monetaria (che, peraltro, non è ufficialmente questione prevista nei lavori della CIG). Queste due issues strategiche hanno determinato gli orientamenti dei vari partner europei. Vediamo di analizzarne brevemente i contenuti, partendo, come base del discorso, dalla posizione britannica, che pur non condivisa pienamente da chi scrive, ha almeno la bontà di essere coerente e chiara. E poi, per costruire un'Unione concreta è forse meglio ascoltare con attenzione la «campana" degli euroscettici. Innanzitutto dobbiamo ricordare come sulla Conferenza Intergovernativa peserà proprio l'ambivalente situazione del governo britannico, in bilico tra una posizione euroscettica e le necessità di indennizzo per l'abbattimento di milioni di capi di bestiame in seguito al, fin troppo pubblicizzato, caso dell'epidemia della «mucca pazza". Abbattimento deciso a livello di riunione dei ministri comunitari dell'Agricoltura. A due settimane dall'apertura della Conferenza Intergovernativa per le modifiche al Trattato di Maastricht, il segretario agli Esteri Malcom Riflcind aveva presentato la posizione che il Regno Unito intendeva seguire. Il documento, pur dovendo scivolare verso alcune velleità della La bibbia destra più eurofoba, (Major, come si sa, sente sul collo il fiato degli dei labouristi di Blair, le cui vittorie nelle frequenti elezioni sup- euroscetticl pletive ne mettono in pericolo la.permanenza a Downing Street), XVII
non era estremista. Anzi, si apriva con una professione un po' retorica di europeismo. Naturalmente all'inglese vecchio stile: un'Europa che si presenti come un Commonwealth, ma niente di più e niente di meno. Quindi, grande propensione all'allargamento ad altri Paesi e alle facilitazioni fiscali e commerciali. Totale chiusura verso estensioni del voto a maggioranza in aree cruciali quali Esteri, Difesa ed Affari Interni, che devono restare di piena competenza dei governi e necessitano quindi dell'unanimità. Il documento fissava delle priorità che poi, in definitiva, sono state evidenziate anche da altri partner europei, trasformando le tesi di Londra da paletti delimitativi in punti di partenza per rinnovati scenari di unificazione. Riferendosi al Libro Bianco il Segretario agli Esteri Rifldnd aveva detto: "Vorremmo un'Europa che rispetti La diversità politica e culturale, che faccia a livelli) europeo solo le cose che è necessario fare a quel livello, che guardi all'esterno, pratichi il libero scambio, sia democratica eflessibile: una partnership di nazioni che collaborano insieme per potenziare i loro interessi nazionali". Così come John Major, nella prefazione al testo affermava che "We can best shape our national destiny by working in partnershzp with our closest neighbours ( ... ) We shallpursue our national interests, as our partners pursue theirs, yet with a strong sense ofshared purpose and common enterprise". L'approccio alla Conferenza Intergovernativa era quindi, delineato in tutta una serie di concisi paragrafi, il cui riassunto specificava che i rappresentanti inglesi avrebbero proposto una linea di fondo che intendeva potenziare: - la sussidiarietà nel Trattato: "una chiave per assicurarsi che l'Unione si concentri esclusivamente nel fare ciò che deve essere fatto a livello europeo e soltanto quello"; - la qualità, la chiarezza e quindi la comprensione della normazione europea; - il ruolo dei Parlamenti nazionali nella formulazione di decisioni da parte dell'UE; - l'efficacia della Politica estera e di sicurezza comune (PESc), assicurandosi comunque che mantenga un carattere intergovernativo; - la cooperazione nel campo della difesa europea, mediante una
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Le tesi di Londra come punti di partenza
miglior collaborazione fra l'Unione Europea e l'Unione Europea Occidentale (UE0), mantenendo sempre la NATO come base fondamentale della sicurezza occidentale; - la collaborazione nel campo della giustizia e degli affari interni. Il terrorismo, la criminalità organizzata, l'immigrazione illegale ed il traffico di droga sono alcuni dei nodi d'interesse che comunque devono rimanere affidati ad una collaborazione intergovernativa; - un miglior funzionamento della Corte Europea di Giustizia (sulle cui tendenze espansive il documento è particolarmente severo). In relazione alla politica sociale, la posizione britannica consiste in una completa opposizione ad ogni ingerenza dell'UE nelle competenze nazionali, in quanto ritiene che l'eccessiva regolamentazione comporti "rigidities in the labour market and some examples ofill-conceived, intrusi ve and unnecessary legislation" con influenze negative sulla possibilità di creazione di nuovi posti di lavoro. Per quanto riguarda i problemi istituzionali dell'Unione, le proposte del Governo Major erano nell'ottica di una ferma opposizione ad un'estensione del voto a maggioranza qualificata, il tutto in piena adesione ai compromessi, fortemente voluti proprio dagli inglesi, ma poi appoggiati da altri Stati europeisti pii a parole che nei fatti, del Lussemburgo e di loannina (vedi, in questa rivista, n. 98, aprile-giugno 1994). Chiaramente, vista la notevole enfasi che Downing Street pone rispetto alle ipotesi di allargamento a 27 Stati, il Libro Bianco propone una revisione nel numero dei membri della Commissione (dove potrebbero coesistere a detta di Londra « voting and non voting members") e diverse forme di nomina per la Presidenza del Consiglio dei Ministri dell'UE. Concludendo, dunque, meno Europa integrata (anche considerando quella, come l'attuale, soltanto idealmente proto-federale) ma più larga. Migliore, in ogni caso, sosteneva il Libro Bianco. E a Torino, come detto, alcune di queste posizioni sono state riprese, modificate nei fini, ma non negli aspetti sostanziali. Due indicazioni sono da sottolineare. La prima concerne la qualità della normazione.
Meno Stato 1U lavoro
A light
Quando, attraverso questa indicazione, non si voglia far passare una méra richiesta di drastica diminuzione dell'area normativa, ma si persegua invece l'esigenza di un'attenta riqualificazione delle leggi europee in termini di chiarezza ed applicabilità, non si può che essere d'accordo. Anzi, c'è da chiedere un modello europeo stilistico e metodologico del "far bene le leggi" utilizzabile anche dalle legislazioni nazionali e regionali. D'altro canto non possiamo dimenticare le interessanti annotazioni del• "Gruppo Molitor" (pubblicate su Europe-dvcumenti del 4 agosto 1995) che hanno evidenziato come "la legislazione a tutti i livelli (comunitario e nazionale) potrebbe inibire le capacità dei cittadini e delle aziende con riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro e ad una maggiore dinamica negli affari. Questi effetti negativi potrebbero risultare dai costi elevati, dalle incertezze legate ad una legislazione eccessivamente complessa e rigida, come pure dagli eccessivi oneri amministrativi e dagli impedimenti frapposti all'innovazione". È quindi necessaria una semplificazione delle normative grazie all'armonizzazione delle legislazioni divergenti o confluenti, in quanto "la sovrapposizione delle legislazioni ... potrebbe avere effetti cumulativi che in luogo difacilitare impedirebbero il conseguimento degli obiettivi voluti in fatto di occupazione e competitività". Ampio spazio ai criteri di comprensibilità, di adeguatezza e quindi di sussidiarietà, intesa rettamente come principio formale di avvicinamento dell'azione comunitaria al cittadino. Il summit di Torino che ha aperto la Conferenza Intergovernativa è stato categorico sul punto. Il fine del processo comunitario è il cittadino e i suoi diritti. (E quindi i suoi interessi). In primis, i suoi diritti economici, per un miglior funzionamento del mercato. Ma soprattutto, novità messa in luce da Andrea Manzella in uno dei primi commenti ai risultati del Vertice (su la Repubblica del 3 aprile 1996), ampio spazio nell'agenda europea alla tutela dei diritti "non economici" come quelli relativi alla sicurezza, personale e familiare, contro la criminalità internazionale e contro il traffico delle droghe; al controllo dei confini contro l'immigrazione illegale; alla tutela di disastri ecologici senza frontiere. Ecco, quindi, un'altra importante indicazione da raccogliere: una maggiore collaborazione europea in materia di giustizia e non soltanto per quel che riguarda la lotta alla criminalità.
Leggi fatte bene: una sfida europea
L'Europa come tutela del diritto alla sicurezza
Giustizia ed equità che non possono non rimandare al discorso del diritto al lavoro, che da Torino è subito rimbalzato alla riunione aei ministri e capi ai governo per ie poiiticne sociaii cii Lilla dove, per la prima volta, si è approvata l'istituzione di un piano globale per coordinare le politiche dei singoli governi in vista del raggiungimento degli obiettivi del progetto Delors (per la competitività, per l'occupazione, per lo sviluppo). La lotta alla disoccupazione è stata quindi elevata al rango di "compito principale" per l'Unione. Sul punto riteniamo sia costruttivo riportare proprio le conclusioni di Jacques Delors nel suo discorso all'Università di Lovanio sulle "Poste in gioco sociali di un'Europa in mutamento" (si veda Ferdinando Riccardi su Europe, 27 marzo 1996). Il "sindacalista di formazione" (come Delors ama presentarsi) ha evidenziato come le strade da percorrere comporteranno: "la revisione delle politiche di sostegno all'occupazione", abbandonando la logica di indennizzo delle perdite di attività e Capovolgerla in quella dell'offerta strutturata di cambiamenti o di possibilità di lavoro a tempo ridotto; la promozione del tempo scelto come modello che permetta di alternare, durante tutto l'arco della vita, il tempo dedicato alla formazione, all istruzione ed agli «anni sabbatici per dedicarsi a scopi umanitari ed alla famiglia; la riconsiderazione di nuove fonti di attività e di occupazione, come quelle afferenti alla protezione ambientale, al riassetto urbano, all'incitamento alle "occupazioni di prossimità", per l'affermazione di inediti modelli di sviluppo.
Europa sociale? Sì, ma sui serio
A complicare il quadro, tutto sommato ricco di valenze positive, è però intervenuta l'ipotesi (fin troppo smentita per non essere i. i i . i. i r reaie ai accorcio rranco-teaesco su un turopa monetaria e poiiti,, . . . ca che è esplosa su tutti gli organi di stampa come la compiuta creazione di un futuro europeo demandato alle decisioni di Francia e Germania. Personalmente non ci crediamo. Perchè non converrebbe soprattutto ai due principali attori. Certo è che nell'Unione monetaria, così come è fissata negli accordi, nel 1997 o nel 1999 non ci potrebbe entrare nessuno.
Francia e Germania:
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L'insegnamento di Delors
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Giustamente alcuni commentatori, tra i quali Marcello De Cccco (in la Repubblica-Affari Finanza del i aprile 1996), paventano il rischio che i due giganti del continente possano determinare unilateralmente parametri e criteri per creare un "nucleo duro" d'integrazione, escludendo arbitrariamente partner scomodi, perchè poco affidabili dal punto di vista finanziario e politico, quali l'Italia. Alcuni Paesi, insomma, potrebbero dichiarare tra loro l'Europa monetaria, obbligando chi vuole entrare a far parte della stessa a "trasformare in immediata svalutazione ogni deviazione dalla parità dei poteri d'acquisto della propria moneta con l'Euro". Un difficile scenario per Paesi come l'Italia, la Spagna e la Grecia. I quali, perciò, dovrebbero prontamente affidarsi ad iniziative forti in grado di rendere visibile alle proprie opinioni pubbliche ed ai governi di Francia e Germania, che senza di loro l'Europa è impossibile. È fin troppo chiaro che le iniziative di cui si diceva dovranno essere prese da leader che siano convinti del destino europeista del proprio Paese: e su questo non c'è da essere troppo ottimisti. Entro l'anno, quando la Conferenza Intergovernativa avrà fatto buona parte del lavoro, alcuni giochi saranno chiari. Non si può, quindi, continuare a delegare ad ambiti ristretti la formulazione della politica italiana per l'Unione Europea.
E chi sta fuori2
L'Italia virtuale secondo Delphi diMassimoA. Conte
n genere, l'indagine previsionale elaborata dalla S3 Acta sul sistema Italia è costretta a registrare, a causa della grande incertezza e dello stato di perenne confusione in cui il nostro Paese è immerso come in una pittoresca dannazione dantesca, la smentita delle poche intuizioni possibili, alla luce degli avvenimenti in corso durante l'elaborazione dello studio. Smentita che, puntualmente, viene resa pubblica in occasione del rapporto dell'anno successivo. Quest'anno, invece, i dieci esperti hanno prodotto - durante lo scorso mese di dicembre - una serie di previsioni che, per ora, sembrano "come d'incanto avverarsi". L'ultima è quella della clamorosa discesa in campo, del presidente del Consiglio Lamberto Dini. La metodologia adottata per produrre il rapporto consiste nella consultazione in due stadi di un gruppo interdisciplinare di dieci esperti, ciascuno dei quali non conosce l'identità degli altri nove colleghi. Nella prima fase, ogni esperto produce in modo libero alcune previsioni relative al proprio ambito d'indagine, a partire da domande aperte e sulla base, ovviamente, delle proprie competenze scientifiche e professionali. Nella seconda fase, le previsioni di base sono elaborate, tradotte in nuclei previsionali (item) e sottoposte al giudizio di tutto il panel. Ciascun esperto ha così la possibilità di analizzare e valutare le opinioni degli altri, potendo eventualmente riconsiderare e modificare anche le proprie posizioni iniziali. Infine, per conferire maggiore stabilità alla costruzione degli scenari, l'analisi si concentra sulle aree di maggiore convergenza, su quelle previsioni, cioè, che hanno accolto un alto e significativo grado di consenso (o dissenso) sulla probabilità di accadimento. Vediamo sinteticamente alcuni dei punti più significativi messi in risalto dal rapporto, per quanto riguarda le previsioni dell'anno in corso, tenendo naturalmente nel debito conto che le analisi
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Previsioni impossibili o che s'avverano d'incanto
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degli esperti sono appunto avvenute durante lo scorso mese di dicembre. Gli esperti consultati quest'anno sono: Achille Bonito Oliva (critico d'arte e docente di Storia dell'arte contemporanea), Giuseppe Bonazzi (docente di Sociologia dell'organizzazione, Università di Torino), Sergio Cherubini (docente di Management Università Tor Vergata di Roma), Francesco Chirichigno (amministratore delegato Telecom Italia), Paolo Flores d'Arcais (direttore di Micromega), Sergio Mariotti (docente di Economia industriale al Politecnico di Milano), Mario Morcellini (direttore del corso di Scienze della comunicazione presso l'Università "La Sapienza" di Roma), Cosmo Francesco Ruppi (arcivescovo metropolita di Lecce), Michele Salvati (professore di Economia politica, Università di Milano), e Giuliano Zincone (editorialista del Corriere della Sera). Secondo il rapporto, si scateneranno in Europa nuovi conflitti, in particolare nell'ex im ero sovietico. • I I. . Litafla, tuttavia, maigraao iaI presenza ciiI. truppe itaiiane in• missione di pace ma armate, si mostrerà ancora poco sensibile agli aspetti pii drammatici della vita internazionale che, come già avvenuto per la guerra nella ex Jugoslavia, continueranno ad avere un'influenza trascurabile sul Paese. L'effetto maggiore del semestre di presidenza italiana dell'Unione Europea sarà il rafforzamento dell'interesse dell'Italia nei confronti dell'Europa, che costringerà il Paese a un maggiore rigore economico e alla riduzione dei tassi d'interesse. Nonostante la presidenza dell'Unione Europea, nel medio periodo l'influenza dell'Italia sullo scenario internazionale sarà davvero scarsa, a causa dell'instabilità politica interna. L'influenza diretta e costante del contesto internazionale sulla vita politica italiana sarà concentrata nella rinegoziazione dei trattati europei, i cui vincoli, comportando margini ristretti di manovra economica e imponendo notevoli tagli alla spesa pubblica per ridurre il deficit di bilancio, daranno luogo a una situazione di latente scontento e conflitto sociale. Sul versante europeo la richiesta da parte degli Stati membri di stabilità politica ed economica favorirà il processo di convergenza del quadro politico italiano verso un centro moderato. Per molti anni, il sistema Italia si è caratterizzato per una partico-
Scenari europei fra COfl ttiC
indifferenza
lare brevità dei governi, per una imprevedibile stabilità dei governanti e per una pericolosa instabilità dell'economia. Oggi il sistema economico è più stabile del sistema politico che è, invece, dominato dall'incertezza e dalla confusione. Tale fattore connoterà la dinamica politica italiana anche per tutto il trienn'o 96-98. Sotto il perdurante titolo di "stallo", si replica in scena una pièce dai contenuti contraddittori, che finiscono per favorire il confronto diretto fra i partiti egemoni dei due schieramenti - Pds e An - attribuendo a questa forma sui generis di bipolarismo imperfetto la valenza di dato irreversibile, di variabile indipendente nel sistema politico italiano. È ancora presto per dire se davvero il sistema elettorale evolverà o meno in direzione del doppio turno e chi, eventualmente, potrà trarne vantaggio. I nomi dei protagonisti, vecchi e nuovi, sono noti, ma molti dubbi rimangono circa i loro ruoli e sulle conseguenze delle loro entrate in scena. C'è il fondato sospetto che attorno a Lamberto Dini si affermerà un nuovo polo. Gaia la tenuta di scena di Silvio Berlusconi quale protagonista moderato, in grado di catalizzare le aspettative delle classi medie e dei ceti dirigenti. Il processo a suo carico non si sa quanto potrà durare ma, finché non sarà concluso, finirà comunque per influenzare il comportamento di Forza Italia e, quindi, dell'intero scacchiere politico italiano. Il movimento del Cavaliere sarà sempre più percepito come una forza non moderata, radicata solo superficialmente nel tessuto sociale, con fortune direttamente proporzionali all'appeal (calante) del suo leader. Il progressivo consolidamento di una forza di centro diverrà il fattore determinante della politica italiana. Ma lo spazio dell'elettorato moderato non verrà occupato né dai piccoli partiti, (i "cespugli") incapaci di accreditarsi come elemento di moderazione del quadro politico, né tantomeno da una formazione trasversale che ha come punto di riferimento l'ex giudice Di Pietro. L'accentuarsi di questa tendenza, naturalmente, porterà alla radicalizzazione delle punte estreme dello schieramento politico. Rifondazione Comunista resterà attiva all'estrema sinistra, gestendo quasi tutto il blocco del dissenso popolare. Alleanza Na-
Stabilità del sistema economico e bipolarismo imperfetto
Radicalizzazione alle estreme
zionale, invece, verrà sempre più percepita come forza moderata e ciò favorirà il proliferare di formazioni dissidenti alla sua destra. La voglia di protagonismo del partito di Fini trova conferma, al di là dei numeri, in un certo declino di Forza Italia. La Lega accuserà stanchezza e, data la convergenza al centro del nuovo assetto politico, si radicalizzerà sempre più sulle proprie posizioni. UUlivo apparirà poco definito nelle sue strategie globali, e non vi sarà un'affermazione decisa del Pds. Incertezza e confusione, dunque, rimarranno le dominanti del prossimo triennio, anche perché il nuovo governo avrà il compito di promuovere una fase costituente che durerà almeno due anni, mentre il bipolarismo non sarà riuscito a dimostrarsi concludente e fruttuoso. Il sistema elettorale a turno unico resterà immutato nel '96. Malgrado ciò, esso verrà percepito come incapace di garantire maggioranze stabili e sarà oggetto di accanito dibattito l'introduzione del doppio turno. Non si tornerà a proporre un nuovo sistema proporzionale, anche se di proporzionale corretta si parlerà ancora, ma più che altro per mera polemica. Mentre il polo di sinistra sosterrà il sistema elettorale francese a doppio turno, il polo di destra non sarà altrettanto deciso nel sostenere quello americano a turno secco. Comunque, sia la destra che la sinistra saranno paralizzate dalla paura che uno dei due modelli elettorali favorisca l'avversario, mentre è più probabile che venga scelto il sistema del doppio turno con sbarramenti alla tedesca. Entro il triennio, comunque, ci saranno ulteriori elezioni politiche, in occasione delle quali verrà varato una sorta di baratto tra introduzione del doppio turno, forme di elezione diretta del capo dello Stato, o di designazione del premier, mentre perderà vigore l'urgenza di una riforma del sistema elettorale in termini più proporzionali. La situazione nel mondo dell'informazione resterà sostanzialmente immutata nel breve periodo e la regolamentazione del sistema televisivo, in particolare, lascerà invariata la ripartizione attuale di spazi e risorse. All'evoluzione naturale del sistema televisivo mancheranno risposte consapevoli e articolate da parte del mondo politico che si limiterà a fornire soltanto input in chiave di neo-lottizzazione, con il ripristino del controllo politico sul si-
Indeterminatezza delle strategie: nuove elezioni nel prossimo triennio?
Neolottizzazione dei mezzi di comunicazione
stema mass-mediatico. Allo stesso modo la par condicio difficilmente si realizzerà per il settore della stampa. Il rapporto tra proprietà dei mezzi di comunicazione e sistema politico costituirà ancora un elemento di anomalia e di conflitto sulla scena italiana senza essere affrontato, almeno nei primi mesi dell'anno, in termini risolutivi. La questione della par condicio verrà affrontata guardando alle elezioni e le norme che la regoleranno saranno dettate da esigenze prevalentemente elettorali. L'operazione Mediaset andrà avanti con il sostegno delle banche e Berlusconi cederà ancora quote di proprietà, ma resta ancora da definire il futuro di chi abbia interesse a entrare o a restare in politica, controllando nel contempo i mezzi di comunicazione nella veste di imprenditore. Tale futuro dipenderà in gran parte dall'esito elettorale e dagli sviluppi dello scenario politico italiano. Mentre, sul versante delle tecnologie per la comunicazione, c'è da attendersi l'apertura di un duro contenzioso per la spartizione delle nuove risorse offerte dalle reti telematiche. Le lacerazioni più acute saranno essenzialmente due: la problematica italiani versus immigrati e la protesta fiscale. In generale diventeranno più acuti tutti i conflitti sociali che avranno come protagonisti i ceti medi in genere, mentre lo scontento dei ceti più abbienti potrebbe assumere i toni di una jacquerie dci benestanti. Il conflitto che scaturirà intorno al problema dell'immigrazione sarà caratterizzato da un atteggiamento verso gli immigrati che, pur senza assumere le caratteristiche della vera e propria xenofobia, sarà comunque permeato da una crescente intolleranza, accompagnata da dichiarazioni di autodifesa psicologica. Il governo, dal canto suo, si dimostrerà incapace di affrontare il problema degli extracomunitari nella sua globalità e lo stesso decreto sull'immigrazione promulgato nello scorso novembre, sortirà effetti di scarso peso su! fenomeno. Sul piano fiscale sarà soprattutto nel prossimo triennio che il conflitto si acuirà ed assumerà toni più accesi. La forte manovra finanziaria attesa per la fine de! 1996, che avverrà con l'accordo del Pds e dei sindacati, avrà come effetto le restrizioni economiche e la conseguente riduzione del potere d'acquisto. Questi fenomeni innescheranno un processo di depauperamento delle fa-
I conflitti sociali: immigrazione e fisco
sce di popolazione con redditi medio-bassi, dai quali scaturiranno forti tensioni sociali: tanto piìi che i tagli alla spesa saranno condotti senza un coinvolgimento effettivo dei cittadini nelle decisioni e mancherà, anche in questa occasione, un rinnovamento radicale delle istituzioni democratiche. Lo Stato italiano si dimostrerà ancora una volta incapace di giungere ad una vera equità fiscale, e i contribuenti, grandi e piccoli, continueranno ad evadere il fisco, contando su periodici condoni. Nel 1996 il settore delle telecomunicazioni avrà un fortissimo sviluppo, anche se si dimostrerà esagerata la speranza che le nuove tecnologie possano allargare l'ambito delle libertà individuali e possano ridurre il tasso di passività nei confronti dei mezzi di comunicazione. Si arricchiranno sia i consumi di intrattenimento audiovisivo, sia alcuni servizi finalizzati al consumo di oggetti e/o servizi turistici. Le nuove tecnologie telematiche comporteranno vantaggi anche nel campo del commercio soprattutto per i produttori e, forse con qualche riserva, per i consumatori. È certo, però, che la telemanca migliorerà tempi e qualità dei servizi pubblici, anche se mancheranno nel prossimo triennio modifiche significative nell'organizzazione sociale. Importanti, invece, saranno le novità nell'organizzazione del lavoro. Ci sarà, infatti, una sia pur graduale diffusione del telelavoro, con un ruolo rilevante della telematica. Si abbasseranno i costi di accesso per gli utenti e si amplierà la tipologia di questi ultimi. Purtroppo il ricorso al telelavoro avverrà soprattutto nelle zone del centro-nord. Esso si estenderà con molti vantaggi per le aree urbane; mentre nelle aree depresse non sortirà effetti univoci. Nel corso del '96 si assisterà all'accentuazione di knowledge gaps, con veri e propri scarti generazionali, a vantaggio quasi esclusivo dei giovani. Nel corso del 1996 la crescita internazionale subirà un rallentamento, ma continuerà tuttavia ad esercitare una forte pressione competitiva sulle imprese italiane, nonostante i buoni risultati che esse hanno ottenuto negli anni passati. A ciò si aggiunga che le severe politiche di bilancio attuate dai nostri maggiori partner commerciali europei limiteranno i loro consumi interni e, quindi, le importazioni dall'Italia. Benché l'integrazione della nostra xxvIII
Le nuove tecnologie dell'informazione e le differenze generazionali.
Minore crescita dell'economia internazionale
economia nel sistema internazionale di scambi sia molto forte, essa non indurrà le altre potenze economiche a salvarci da una eventuale situazione di crisi evitando il deprezzamento della lira. Ciò non toglie, tuttavia, che i mercati esteri continueranno ad avere fiducia in noi e crescerà la presenza del capitale straniero nell'economia italiana. Il processo di unificazione europea continuerà ad agire come fattore di stimolo per l'attuazione di politiche economiche atte a far convergere il Paese sui criteri di ammissione di Maastricht. L'haha riuscirà a "galleggiare", evitando di perdere ulteriore terreno nei confronti dell'Europa; ma sarà impossibile fare progressi sostanziali a causa della perdurante confusione politica: non si riuscirà a prendere provvedimenti davvero efficaci per il riallineamento; non verrà attuata la riforma fiscale; non verrà perseguita una politica dei redditi; l'Italia non riuscirà a superare le soglie fissate per l'ammissione nell'Unione Monetaria. Per connotare l'economia italiana del 1996 si può dire che l'Italia si assesterà in una posizione complessiva di "centralità periferica". A collegare il Paese con l'Occidente ricco penseranno ancora la potenzialità produttiva e i consumi privati, ma le anomalie rispetto ad alcuni standard di civiltà (come l'inefficienza dei servizi pubblici), rimarranno ancora forti. Tra queste anomalie, primeggerà la persistente diffusione di rapporti corrotti tra affari e politica. In questo contesto, lo sviluppo economico sarà più moderato rispetto al 1995 e il tasso di crescita del Pii subirà una decelerazione. Per quanto riguarda l'inflazione, sarà impossibile scendere al tasso programmato del 4%: questo valore verrà superato di almeno mezzo punto percentuale. La spinta sui prezzi permarrà limitata, i tassi di interesse non potranno calare e saranno circa doppi rispetto a quelli della media europea. Lo scenario fiscale si presenta abbastanza contraddittorio. Nel suo insieme conoscerà un certo aumento di efficienza, con la scoperta di grosse sacche di evasione. La rivoluzione fiscale sarà evitata dalla coalizione vincente nelle prossime elezioni politiche. Se vincesse l'Ulivo, eviterebbe la rivoluzione nell'architettura del sistema fiscale italiano e la sinistra si indirizzerebbe verso la razionalizzazione e il contenimento della spesa, verso l'alleggerimento
La "centralità"
periferica
Tornando all'interno: quale politica di bilancio e
fiscale
"dolce" dei tassi di interesse offerti per i titoli di Stato, l'abbandono dell'idea di inasprimento della pressione fiscale. Se vincesse il Polo, esso si troverebbe nel dubbio di riproporre il disegno fiscale del vecchio governo Berlusconi con le relative conseguenze: pesanti perdite di gettito fiscale, tensioni interne e tensioni internazionali. Il Polo potrebbe assumere un atteggiamento opportunistico ma, nell'eventualità di shock esterni, il centro-destra non riuscirebbe a gestire eventuali riaggiustamenti. Se si avesse un nuovo governo tecnico, il miglioramento del sistema fiscale non sarebbe scontato e la questione fiscale potrebbe determinare un clima socialmente pesante con particolare riguardo al rinnovo dei contratti di lavoro. Anche se il governo finanzierà corsi di riconversione e riqualificazione professionale per disoccupati, anche se concederà sgravi contributivi alle imprese sugli incrementi occupazionali, la crisi rimarrà grave e il tasso di disoccupazione rimarrà sostanzialmente stabile: cioè, altissimo. D'altra parte, qualsiasi governo, sia di centro-destra che di centro-sinistra, non farà altro che muoversi nella direzione della stabilità degli attuali livelli occupazionali: eviterà di adottare politiche differenziate circa la formazione professionale o gli interventi moderatori delle crisi aziendali e, anche se avvierà interventi straordinari, questi saranno poco efficaci, perché il problema non è economico ma culturale, il cambiamento potrà essere solo generazionale. Il comportamento dei sindacati dipenderà soprattutto dalla forza, dalla stabilità, dalla natura politica del governo. In presenza di un governo di centro-sinistra autorevole e non troppo travagliato da conflitti interni, i sindacati offriranno moderazione salariale e flessibilità. In presenza di un governo tecnico, le reazioni sindacali saranno imprevedibili. In ogni caso, le Confederazioni respingeranno l'idea delle contrattazioni regionali che tengano conto delle diverse condizioni locali del mercato del lavoro. Si andrà acuendo il divario economico tra le aree del Paese: si consoliderà la marcia in più delle imprese del Nord e del Centro, in termini di competitività e di inserimento nei mercati internazionali. In questo quadro, il Centro e il Nord si integreranno maggiormente nell'economia europea e mondiale, anche se non sempre attraverso investimenti diretti, ma intensificando i rap-
Questione occupazione e comportamento dei sindacati
porti di col!aboràzione con altre imprese e soggetti esteri. Si registrerà uno sviluppo sempre più marcato nelle Regioni con più forte propensione al commercio internazionale, in particolare nelle Regioni dell'Italia Nord Orientale. Da questo processo rimarrà sostanzialmente esclusa l'economia del Sud, con un conseguente arretramento per il Mezzogiorno, il quale si chiuderà nel mercàto interno e rivendicherà una maggiore protezione pubblica. Si farà avanti, quindi, la tentazione nordista, sostenuta anche da qualche Paese del Nord Europa.
dossier
I nuovi poteri locali: verifiche a metĂ percorso
NeIn. 103 di Queste Istituzioni, con il dossier Municipio, laboratorio di democrazia abbiamo iniziato a parlare dei cosidetti "nuovi sindaci' le figure che si sono delineate in seguito alla legge di rfrma n. 81 del 1993. Ora, abbiamo cercato di fare il punto sul percorso compiuto da coloro che, sicuramente, possono definirsi gli attori principali del cambiamento a livello locale. Ne emerge un quadro interessante, composto ancora da burocrazie lente e nuove responsabilitĂ : tra l'ottocentesca figura del Segretario comunale e l'esigenza di un moderno City Manager, tra un centralismo di cavouriana memoria che viene sempre piĂš svuotato, a favore di un maggior ruolo decisionale ed esecutivo della periferia. Gli Enti locali sono chiamati in misura crescente ad off+ire servizi al cittadino e, quindi, a disporre di proprie entrate: da qui l'importanza del reperimento delle risorse (attraverso le tasse ma anche attraverso l'emissione di obbligazioni). Antonio Chizzonitifa, in un certo senso, un "viaggio"fra i diversi Comuni italiani, soffermandosi in particolare su quello di Messina di cui intervista il sindaco, Franco Providenti. Le risposte date da quest'ultimo riassumono bene i diversi problemi che i sindaci 7rti" si trovano ora ad affiontare.
L'anno in corso, come ricorda l'articolo di Barbara Nepitelli, rappresenta finalmente l'anno d'inizio dello stabilirsi di un tanto invocato federalismo fiscale. Confrontando le varie tesi al riguardo, Nepitelli ricorda quali sono state le cause che hanno condotto all'esigenza imprescindi bile di rivedere, decentrandolo, il sistema finanziario efiscale italiano. L'autrice giunge alla conclusione che non può esservi un'unica soluzione ma soluzioni diverse. È necessario, quindi, compiere delle scelte sul tzpo di federalismo (di tzpo competitivo o di tipo cooperativo?), sulla profondità delle modifiche (è necessario toccare la Costituzione?) sul grado di autonomia finanziaria (l'impiego dei vari strumenti) e sul tipo di perequazione attraverso cui far valere ilprincipio di solidarietà.
Le debolezze del sindaco "forte" di Antonio Chi zwn iti*
Al giro di boa del terzo anno dal suo battesimo, la prima, in ordine di tempo, delle riforme elettorali italiane gira su stessa senza ancora dare tutti i frutti che si supponeva fossero iscritti nel suo Dna. "Gli enti locali", scrive il Sole-24 ore, "stanno vivendo il momento più cruciale dei 50 anni di storia della Repubblica", stanno giocando "la carta decisiva per la loro funzione istituzionale e per la loro credibilità su tutti i fronti, dai rapporti con i cittadini e con il sistema economico alla trasformazione delle regole di partecipazione democratica, dalla costruzione di modelli economici meno burocratici e più aziendali per l'erogazione dei servizi, alla soddisfazione dei nuovi bisognidi una società in veloce evoluzioIl giornale della Confindustria guarda forse con occhio troppo "produttivistico" alle prospettive dell'Italia "dalle cento città", ma ciò non toglie che lo slancio iniziale del nuovo assetto politico locale dà segni di un certo sopraffiato e non mostra di aver del tutto * Giornalista.
superato il crinale che separa le buone intenzioni dalle realizzazioni politiche, o per meglio dire i programmi dagli obiettivi. "Autonomia vuol dire efficienza" si disse quando fu combattuta la battaglia per l'elezione diretta del sindaco. Se l'assioma è fondato, come sembra, e se le cose non vanno come dovrebbero andare, viene di pensare che è il primo dei due termini in questione a non aver dispiegato per intero le sue potenzialità. Un'esperienza ancora viva ci ricorda che il nuovo look della guida dei Comuni venne rappresentato come un momento di trasformazione sociale mirato contemporaneamente ad avvicinare il potere ai cittadini ed a garantire al "primo di loro" il possesso degli strumenti politico-amministrativi adeguati a portare a termine i propri obiettivi. Insomma, stabilità ed efficienza, un sogno nazionale. Un sogno che non viene tradito nell'impatto con le realtà comunali, ma che piuttosto si ridimensiona facendo passare il volto incerto di quella che si può definire una rivoluzione a metà, non fallita né mancata, ma an3
cora largamente incompiuta. Forse è vero che si è inaugurato un nuovo stile di governo, più incisivo ed aperto del passato; forse è anche vero che la futura classe politica si sta facendo le ossa in periferia; ma è anche evidente che troppo spesso le nuove virtù non sono riuscite ad avere buon gioco sui vecchi vizi. Generalmente, la crisi profonda dei Comuni non è stata sconfitta: è sempre lì a dare pessima figura di se stessa nonostante, appunto, il dinamismo di molti dei sindaci delle piccole e grandi città. Colpa del poco tempo che finora ha avuto a disposizione il nuovo assetto? Responsabilità indotta dalla friabile situazione politica nazionale, dispensatrice di incertezze e di inadempienze? O, piuttosto, impasse tra funzione di guida politica e lacci e lacciuoli della burocrazia? IL SINDACO VA IN PRIMA LINEA
Il sindaco che viene fuori dall'elezione diretta è un uomo alle prese con un puzzle: deve conciliare grandi poteri con forti disfunzioni. E, naturalmente, è preoccupato. Il viraggio dal vecchio al nuovo sistema è tutto incentrato sulla sua figura politica. Con l'introduzione del vaglio popolare diretto si è modificato il tipo di rappresentanza: mentre prima trionfava la mediazione, e la stessa responsabilità personale si diluiva fino a diventare 4
inafferrabile, adesso è lui il garante di tutto. Sarà lui, da solo, in prima fila a dover rispondere ai suoi concittadini quando scadrà la cambiale elettorale. Normale e legittimo gioco democratico che però nel nostro Paese comporta. insidie formidabili. Pressato dal bagno di folla che, nelle grandi città, lo ha legittimato, il sindaco è portato inevitabilmente, per sfuggire all'asfissia, a chiedere sempre più spazi, maggiore autonomia e minore impacci burocratici. Non può giocarsi il suo appeal su una ribalta dove gli altri attori, di maggioranza e di opposizione, perdono "visibilità" lasciando tutti gli spot della ribalta puntati su di lui. Naturalmente la tendenza, se non ben gestita, può debordare. Come è avvenuto in alcuni piccoli Comuni del Nord amministrati dalla Lega dove, per combattere la microcriminalità, è affiorata anche una delega sull'ordine pubblico (il cosiddetto "sindaco sceriffo"). L'esperienza, quindi, sta dimostrando che all'operatività che la nuova legge impone ai sindaci si frappongono alcuni ostacoli di tutto rispetto. In primo luogo, la resistenza degli apparati burocratici ("disegnati" all'origine per altre funzioni) e la ancora incerta app!icàzione della legge di riforma degli enti locali; in secondo luogò, l'atteggiamento contraddittorio che viene assunto nei confronti del prelievo fi-
scale e della finanza locale; infine, l'esigenza vitale di reperire fondi alternativi per gli investimenti dopo la "stretta" nazionale. TASSE, UNA SCORCIATOIA INSIDIOSA
I sindaci non gradiscono la facoltà impositiva, perlomeno nel contesto attuale. Se ne è avuto un esempio con la levata di scudi che ha accompagnato la possibilità che veniva concessa dalla legge finanziaria ai Comuni di aumentare l'aliquota dell'Ici. Tutto deriva, ancora una volta, dal ruolo che sente gravare sulle sue spalle il sindaco forte È evidente che una tassazione "visibile" crea tendenzialmente malumori verso chi la applica, e ora il "responsabile" è chiaramente visibile nella figura del sindaco. Una prospettiva non allettante per chi può subirne le conseguenze visto che comporta una inversione di tendenza rispetto a ciò che avveniva in passato, quando al cittadino che protestava veniva elargita la ricetta dell'agnosticismo: si scaricava generalmente sul "centro", e cioè sui palazzi romani, la responsabilità delle difficoltà di gestione della cosa pubblica locale. Il "centro", accusato (a torto o ragione) di non fornire, o ritardare, i fondi o i provvedimenti necessari era un comodo alibi e' un fin troppo facile capro espiatorio. La figura del "responsabile unico" favorisce, però, una più concreta menta-
lità dei cittadini che adesso guardano direttamente al Comune per la qualità e la quantità dei servizi e, di conseguenza, cresce la responsabilità politica e finanziaria di chi deve assicurarli. Si spiega, così, perché i sindaci non siano proprio entusiasti di novità fiscali e più portati a chiedere una quota dell'Irpef, una tassa, per così dire, cc anonima che viene riscossa dallo Stato, rifuggendo dall'imposizione di tributi locali che finirebbero con l'esporli agli occhi dei cittadini. D'altro canto, la finanza locale viene ancora vista con un occhio troppo "ragionieristico" e non, piuttosto, come sistema propulsore per lo sviluppo delle comunità. Con un gap notevole rispetto ad altre realtà dei Paesi industrializzati. Il solito esempio degli Stati Uniti può essere indicativo. Negli Usa si dice che "il cittadino vota con i piedi", nel senso che la politica di incentivazione o disincentivazione fiscale sul territorio determina gli spostamenti sociali (in una società che, comunque, è molto più mobile di quella italiana). È noto che le tasse locali sono negli States un forte allettamento per decidere dove andare ad abitare o dar vita ad una nuova impresa. Ovviamente, si va dove le tasse sono più convenienti. Los Angeles, ad esempio, ha diversificato l'incidenza delle imposizioni fiscali sul proprio territorio. Uno dei motivi dello sviluppo della Silicon Valley è dovuto al-
la bassa incidenza di tasse su servizi ed infrastrutture. Per tornare a casa nostra, si possono evidenziare a questo punto, due questioni: il primo problema è chi deve fare l'esattore (lo Stato o gli Enti locali?); il secondo riguarda le mani sempre più libere a cui ambiscono i sindaci. Uno snodo che si trova a fare i conti con un nuovo ordinamento finanziario e contabile ritenuto generalmente, tra luci ed ombre, un passo in avanti. Le virtù riguardano, in primo luogo, un certo ordine che si viene a dare alla gestione finanziaria ed economica degli Enti locali, facendo chiarezza sulla selva di norme disciplinate da un'infinità dileggi e disposizioni ministeriali. In secondo luogo, si avvia il controllo di gestione che consentirà, in particolare, di verificare i costi della macchina comunale in ogni suo settore e di accertare, se - e come, sono stati centrati gli obiettivi programmatici, la qualità dei servizi resi ai cittadini e di valutare la capacità dei dirigenti. Ma, come sempre, non mancano i rischi. Innanzitutto, c'è chi teme che possa essere vanificata l'autonomia degli Enti locali se l'applicazione del nuovo ordinamento non sarà considerato come una legge di principi generali. Una interpretazione rigida e centralistica rischia di ricercare l'errore di sempre: i Comuni più piccoli avrebbero lo stesso regime giuridico delle grandi metropoli. Sarebbe come im6
porre ad una bottega artigianale la stessa organizzazione interna della Fiat. C'è, comunque, un altro aspetto delicato della finanza pubblica. Quindici anni fa si giunse alla definizione del bilancio degli Enti locali sulla falsariga di quello dello Stato, proprio per avere la certezza di poter confrontarsi, con criteri omogenei in un momento di grave difficoltà finanziaria, tenendo conto, fra l'altro, che l'erogatore finale delle somme era sempre lo Stato (la cosiddetta finanza locale derivata). Oggi, la situazione è in parte cambiata. Permane e si aggrava la crisi finanziaria ma sono allo studio nuove forme di bilancio dello Stato e delle Regioni. Anche gli Enti locali si differenziano, anticipando soluzioni che tengono conto della prospettiva che la borsa dello Stato diventi sempre più stretta. SINDACO NUOVO, BUROCRAZIA VECCHIA
La figura "forte" del sindaco che, come abbiamo visto, nasce dalla sua elezione diretta, la sua "sovraesposizione" politica verso i cittadini, l'esigenza di realizzare tempestivamente i propri programmi erano tutti elementi destinati, fin dall'inizio, ad entrare in collisione con un apparato comunale ancorato a forme di amministrazione dove prevaleva la mediazione rispetto alla funzionalità. Chi ha voluto rimboccarsi le maniche
e riorganizzare la macchina è molto spesso rimasto al palo, nonostante da tempo sia disponibile una legge ritenuta generalmente capace di dare buoni frutti. "Da cinque anni - scrive il Sole-24 ore del 29 gennaio scorso - la riforma avviata con una delle rare leggi di principi (la 142190) segna il passo perché si scontra con almeno tre fronti avversi: un sistema burocratico (centrale, ma soprattutto locale) che non intende rinunciare al suo forte potere di interdizione e che spesso non intende accettare le responsabilità che la riforma comporta; una classe politica ove gli sconvolgimenti delle ideologie, della cultura e della prassi hanno confuso il vecchio ed il nuovo con una crisi di identità senza precedenti nella storia italiana; un sistema giudiziario (ordinario amministrativo e contabile) che ha assunto un ruolo che molte volte va oltre quello proprio istituzionale". Questo spiega perché il più delle volte i sindaci sono in polemica con gli apparati burocratici. Qualcuno ha tentato il colpo di mano con la costituzione, come ad esempio a Milano, di agguerriti staff personali. Si è visto che non è questa la strada; il problema rimane e riguarda la figura del segretario generale soprattutto a causa di due sue connotazioni fondamentali: quella di essere un funzionario del ministero dell'Interno e quella 'della sua pratica inamovibilità.
Le origini remote di questa figura (la prima legge comunale e provinciale del Regno d'Italia del 1865) assimilava il segretario agli altri funzionari comunali ed era subordinata ad una "patente di idoneità" rilasciata dal prefetto. Lo Stato, in altri termini, si riservava un controllo indiretto del vertice burocratico degli Enti locali. Questo "filo" statale raggiunse il suo massimo spessore nel ventennio fascista. Sostituito il sindaco elettivo con un podestà, il segretario comunale divenne un funzionario statale. Ritorna la democrazia, e la Costituzione del 1948 ripristina le autonomie locali, ma lascia la veste statale al segretario comunale. Una semplice dimenticanza del legislatore? O piuttosto il segno dell'assenza di una vera cultura dell'autonomia locale? "In realtà - scrive Marcello Clarich - in Italia non ha mai attecchito l'esperienza del self-government tipica dei governi anglosassoni, che è la pietra angolare di una democrazia che si propaga dalla periferia al centro". La posizione dei segretari comunali è tuttora ambigua. La riforma del 1990 ha rinviato ad altra legge (mai varata) la definizione della sua figura. Unica novità, un emendamento alla finanziaria '96 ("il segretario è nominato e revocato d'intesa con il sindaco") che sembrava offrire una scappatoia e che ha invece portato allo scontro aperto tra centro e periferia. Il sindaco di Aulla, in provincia di 'i
Massa Carrara, piglia carta e penna e scrive il 3 gennaio al ministero dell'Intemo invitandolo a non procedere alla nomina del segretario generale senza il suo assenso. Il sindaco vuole tenersi stretto l'attuale reggente, Carlo Barenghi (titolare a Lerici, in provincia di La Spezia), che opera, evidentemente con soddisfazione generale, dall'aprile '94. Sembra un suo diritto, ma il 19 gennaio il Ministero risponde che non c'è niente da fare perché l'emendamento alla finanziaria ha una natura "programmatica", cioè ancora generica e non definita da regolamenti. Il primo cittadino di Aulla ha fama di un uomo risoluto e tenace (si racconta che sia stato capace di convocare il consiglio comunale nel Ferragosto del '94 e nel Capodanno del'95 per protestare contro la mancata apertura di una galleria ferroviaria). Così non demorde e riscrive il 2 febbraio al caro ministro contestando la sua decisione. Ora si attende il "chiarimento definitivo", ma quello che vale nella vicenda è ovviamente il suo valore simbolico. Nello stesso periodo, in provincia di Como, tre Comuni hanno chiesto p.er iscritto di poter revocare, d'intesa con la Prefettura, i propri segretari. Il Viminale non ritiene di dover dare che una risposta verbale, alla Prefettura non rimane che fare il passaparola. I giuristi dicono che l'intesa è un diritto, l'associazione di categoria dei segretari parla di atti illegittimi da parte dei Comuni. Si è così aperta una que-
relle che di per sé avrebbe rilevanza marginale, se invece non mettesse a nudo uno dei nodi fondamentali della futura vita delle amministrazioni comunali. Il segretario generale dovrebbe essere il perno intorno a cui far girare la complessa macchina gestionale dei grandi Comuni, ma questa carica sfugge alla scelta del sindaco: il segretario appartiene ad un'altra amministrazione. In Italia, solo nel Trentino Alto Adige il sindaco nomina il primo dei suoi collaboratori. Il problema si accentua per la separazione tra politica e burocrazia a cui si ispira la 142/90 e che trova terreno fertile dopo l'elezione diretta del sindaco. E cioè, da una parte l'indicazione dei programmi e degli obiettivi (funzione politica) e, dall'altra, chi si occupa dell'esecuzione dei programmi e del raggiungimento dei risultati (funzione burocratica). E, quindi, la inevitabile domanda: chi si propone, nell'amministrazione comunale, di raggiungere gli obiettivi che vengono indicati dal sindaco e dalla giunta? La domanda rimane senza risposta perché la figura del segretario generale, ormai vecchia, risulta inadeguata e finalizzata ad altri compiti. Il principale dei quali è quello di apporre il visto di legittimità agli atti del Comune. In pratica, il segretario si limita oggi ad esercitare una funzione di raccordo tra i vari settori dell'amministrazione comunale. Al sindaco serve, invece,
un responsabile operativo che faccia girare la macchina comunale secondo la sua programmazione. In sintesi: sindaco o segretario comunale possono costituire una squadra omogenea o rischiano di diventare due galli in un pollaio? Ed ancora: tra sindaco e segretari comunali deve esistere un rapporto fiduciario analogo a quello che lega il manager dell'azienda privata al proprietario? Se sì, allora la pretesa del capo dell'amministrazione di scegliersi liberamente i propri segretari è fondata. In Italia, soltanto il Comune di Bologna è riuscito a fuoriuscire dalla strettoia ricorrendo al "direttore operativo", una figura prevista dalla legge di riforma per ottimizzare le attività dell'amministrazione che si rifà al ruolo del "city manager" delle grandi concentrazioni urbane statunitensi.
IL
Crrv MANAGER
È nella società americana, allorché da rurale diventa prevalentemente urbana, che si consolida la tendenza al rafforzamento dell'esecutivo. Si passa da un periodo caratterizzato da forme esasperate di individualismo e da un notevole grado di diffidenza nei confronti dello stesso governo locale ad una fase in cui diventano sempre più pressanti le richieste di maggiori servizi. Le forme di governo che resistono alla selezione provocata dalle trasfor-
mazioni sociali sono quelle del sindaCO forte ("strong") e del suo più stretto collaboratore: il "City manager". Una formula che è ora molto diffusa non soio nelle grandi concentrazioni urbane. In genere, negli Stati Uniti, il modello del sindaco "strong" è assimilato a quello del presidente o del governatore, con una netta separazione dei ruoli tra consiglio ed esecutivo mentre il City manager viene assimilato al primo ministro in un sistema parlamentare (in cui c'è una netta subordinazione all'assemblea parlamentare). Ma questo non è un modello rigido, molte comunità locali adottando variazioni in base alle proprie esigenze. In altri termini non vi sono schemi fissi, ma una serie di coordinate a cui riferirsi. UN "NEW DEAL" DEGLI APPARATI?
L'elezione diretta del sindaco, come l'esperienza di Bologna e delle altre grandi città italiane conferma, non va a modificare soltanto la forma di governo dei Comuni, ma ha bisogno di aprire la strada a profondi cambiamenti ed a percorsi inesplorati nell'assetto organizzativo dei governi locali. È possibile, in base a quanto è stato esaminato finora, ipotizzare un new deal degli apparati comunali, una rimodellazione delle strutture che favorisca i nuovi bisogni? In un Paese in cui la riforma dello Stato è (senza successo) all'ordine del giorno da sempre,
o
la risposta si tinge inevitabilmente di pessimismo. Non si può dire, infatti, che le prospettive aperte dalla riforma degli Enti locali, vadano in questa direzione. Infatti la 142/90, nonostante i suoi pregi, elude di fatto il nocciolo duro del problema rimandando, come visto, ad altra legge il riordino dello status (giuridico ed economico) del segretario generale. Il dibattito, nel quale rischia lo stallo la divisione tra politica e gestione amministrativa, si è aperto e mira, nella sue punte più avanzate, a cambiare metodo rispetto al passato: partire dalle necessità dell'Ente locale per procedere, su queste basi, alla definizione del ruolo del segretario. In altri termini, ribaltando l'annoso problema delle riforme in Italia dove si pensa più agli apparati che alle funzioni da svolgere ed alle finalità da perseguire. C'è da chiedersi, invece, quanto ampio deve essere il riordino degli Enti locali e il loro rapporto con lo Stato e soltanto successivamente provare a delineare il ruolo dei burocrati. Un primo problema viene dalla pratica inamovibilità del segretario generale nelle grandi città. Per liberarsene occorre infatti spostarlo in un altro Comune di equivalente importanza: un evento estremamente difficile. Bologna non ha potuto far altro che affiancare il suo City Manager all'eterna figura del segretario generale. La questione di questo tanto chiac10
chierato funzionario sembra ridursi a tre soli sbocchi possibili: 1) abolirne la figura, e in questo caso ogni Comune potrebbe regolarsi come meglio crede; 2) "aggiustare" i concorsi tra i Comuni interessati; 3) costituzione di un albo nazionale che consenta al sindaco di scegliere direttamente il proprio collaboratore. Ogni scelta rischia però di naufragare, o perlomeno di impaludarsi, sulla rigidità di un vizio strutturale già identificato: quello che obbliga tutti i Comuni, dal più grande al più piccolo, ad adottare gli stessi ordinamenti. È ovvio, infatti, che i piccoli e medi Comuni non possono essere in grado di dotarsi delle grandi strutture (per loro del tutto inutili e straordinariamente costose) dei loro fratelli maggiori. Non tutte le distorsioni vengono però da una sola parte. Le forme consociate di Comuni previste dalla ormai famosa "142" non hanno visto finora la luce, soprattutto per gelosie localistiche. Queste complicazioni non possono che produrre l'impasse (ed in qualche caso l'arretramento) delle capacità di razionalizzazione delle funzioni locali e la conseguente incapacità di far fronte alla crescita vertiginosa dei bisogni delle comunità. Una situazione che, in particolare nel le grandi città, potrebbe portare all'esplosione di due grandi problemi: il sistema di smaltimento dei rifiuti (non c'è raccolta differenziata, non
viene praticata una politica di alleanza tra Comuni interessati); la politica dei trasporti a fronte della mobilità territoriale. REPERIMENTO DELLE RISORSE.
I Boc. Il sindaco "forte", un po' allergico ad esibirsi come esattore delle tasse, messo in angolo dall'avarizia della borsa statale e ciò nonostante deciso a realizzare il proprio programma ha un fame disperata di danaro da impiegare a seconda delle esigenze del suo Comune. Viene individuata una nuova alternativa: la possibilità per gli Enti locali di ricorrere all'emissione di prestiti obbligazionari. Si fa strada l'idea dei Boc, i buoni ordinari comunali, che però sarebbe rimasta forse sulla carta senza l'exploit di una cittadina di 54 mila abitanti della cintura di Torino: Rivoli, l'unico Comune italiano ad avere dei precedenti in materia. Più di un secolo fa, nel 1883, La Città di Rivoli, con deliberazione del proprio consiglio comunale, emetteva 480 obbligazioni per un valore nominale di 120.000 lire, per acquistare il Castello, di proprietà dei Savoia, oggi adibito a museo di arte contemporanea. Inoltre, nel marzo del 1907, il consiglio comunale deliberava l'emissione di azioni per la costruzione della condotta dell'acqua potabile e dodici anni più tarsi autorizzava l'emissione
di un prestito di 300.000 lire per l'acquisto e la trasformazione della ferrovia Torino-Rivoli in tramvia elettrica, per l'acquisto del gazometro e dei terreni della caserma di irtig!ieria, prestito anch'esso suddiviso in 600 obbligazioni al portatore, il cui ultimo sorteggio è avvenuto a luglio del 1972. Le emissioni furono totalmente sottoscritte dai cittadini e regolarmente rimborsate dall'amministrazione comunale. Forte della sua esperienza e della sua tradizione, Rivoli è passata subito all'attacco allorché ha visto che il terreno era propizio ed ha chiesto tre anni fa, battendo sul tempo tutte le altre città italiane, di poter lanciare un prestito obbligazionario di 5 miliardi. Costringendo alcune grandi città, come Napoli, ad affiancarsi all'iniziativa e il ministero del Tesoro ad emanare il regolamento di attuazione del dispositivo sui Boc previsti dalla 142. L'assessore al bilancio della Città di Rivoli, Anna Pachero, spiega quali sono gli obiettivi, non solo finanziari, dell'amministrazione. Innanzitutto il Comune vuole esercitare meglio la propria autonomia... rafforzando il proprio potere contrattuale attraverso il contatto diretto con il mercato dei capitali e così ribaltando una situazione che vede invece gli istituti mutuanti, pubblici e privati, agire in regime di quasi monopolio". Quindi di "sollecitare la partecipazione dei cittadini coinvolgendoli nell'at' 6
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tività della pubblica amministrazione" di «evitare inasprimenti fiscali, come ad esempio l'applicazione dell'addizionale Irpef per il finanziamento delle spese di investimento " , di "svolgere una grande operazione in termini di educazione civica, di diffusione di una cultura di solidarietà e di maggior rispetto per tutto ciò che appartiene alla comunità. I cittadini investiranno i loro risparmi per qualcosa che utilizzeranno concretamente e che avranno sotto gli occhi tutti i giorni". Ed ancora: "di costituire un vincolo per gli amministratori al rispetto degli impegni assunti, nei tempi e nei modi programmati e quindi un incentivo a ben operare". Ed infine "di stimolare e incentivare il risparmio, non per il risanamento dei debiti pubblici, ma per la realizzazione di importati opere, ne cessarie ad un equilibrato sviluppo della città e ad accrescere il livello dei suoi servizi soprattutto in termini di qualità". A seguito del battistrada Rivoli si preparano a scendere in campo molti altri Comuni, ma all'atto dell'emanazione delle norme attuatiye da parte del ministero del Tesoro (febbraio scorso), che devono stabilire le modalità di emissione dei Boc previste dalla legge finanziaria, soltanto due amministrazioni sono al nastro di partenza cin i loro rating Napoli e Ronia. La giunta partenoea ha approvato una delibera per l'emissione di Bond a dieci anni per 200 milioni di dollari 12
mirati al mercato americano, la giunta capitolina sta mettendo a punto un primo collocamento in lire destinato principalmente ai cittadini romani. Il decreto attuativo del Tesoro risente principalmente di due preoccupazioni: una possibile concorrenza con i Bot e il minore credito che potrebbe derivare al cosiddetto "rischio-Italia" da emissioni in valuta estera da parte di Comuni con solidità finanziaria precaria. Nelle norme non si fa riferimento così, salvando capra e cavoli, ad emissioni in valuta estera sulle quali si dovrà esprimere adesso il Consiglio di Stato. Mentre Bassolino - forte dell'apporto di Moody's per il rating (da cui ha ricevuto l'Al, il medesimo rischio della repubblica italiana) e di Merril Lynch per il collocamento sul mercato Usa - tira diritto, altri sindaci di grandi città si mostrano perplessi. A Milano, Marco Formentini non accetta l'impostazione data dal Tesoro, anche se, dice, "ci siamo avviati su questa strada e la proseguiremo". Il minimo che si può dire, aggiunge, è che "ci troviamo di fronte ad un prov vedimento frutto di una visione pro vincialistica del problema del finanzia mento degli investimenti di una , grande città " . Il capoluogo lombardo si farà assegnare un rating, come ha già fatto Napoli, e poi avvierà le procedure. Leoluca Orlando accetta con favore la novità. I Boc, dice, hanno un duplice vantaggio: "consentono di reperire ri -
sorse e di avere un forte controllo sociale sulla spesa finanziaria". Ma, per il momento, ne fa a meno. Il sindaco di Palermo si dice in grado, oggi, di far fronte agli investimenti previsti. "Solo quando avremo finito le provviste, per così dire, ordinarie prenderemo in considerazione i Boc Francesco Boccia, un esperto della London School of Economics, vede nell'emissione dei Boc "un evidente beneficio per gli enti territoriali, sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista strettamente economico Boccia, sottolineando "1' incredibile" aumento del ricorso al credito bancario degli Enti locali, scrive che "oltre al chiaro risparmio sul costo del debito oneroso, il ricorso alla raccolta diretta del risparmio (Boc), consente un utilizzo immediato dei fondi con i conseguenti vantaggi". Ma, sempre a suo parere, "il beneficio fondamentale deriva dalla reale possibilità di utilizzare, attraverso l'emissione dei Boc, i fondi relativi al quadro comunitario di sostegno". E cioè a 40.000 miliardi nel quadriennio 94-99. "Un'occasione di sviluppo unica per l'Italia, secondo gli studi del!'Economic and Social Cohesion Laboratory di Londra". MESSINA, UN COMUNE SICILIANO
A favore dei Boc e della figura della City Manager, vi è anche il sindaco di Messina Franco Providenti. A lui abbiamo rivolto delle domande per valu-
tare meglio l'impatto delle novità legislative sulle concrete realtà comunali. Per il sindaco del Comune siciliano il primo obiettivo è il ripristino della legalità. L'ottica di un uomo catapultato dal voto dei suoi concittadini alla guida di un Comune siciliano dalle aule del tribunale non può che avere una angolazione del tutto particolare. In primo luogo perché, appunto, Franco Providenti viene dalla magistratura, e poi perché si trova ad amministrare una città come Messina che, pur non essendo una metropoli, ne ha in nuce molti vizi e qualche virtù. Ed, infine, perché non gode di una maggioranza stabile in consiglio comunale. "La mia esperienza? Quando si è aperto il sipario ho subito capito che io, che non vengo dalla politica, ma dalla magistratura, non avevo l'abitudine di dialogare, di confrontarmi con il ceto politico. Mi sono trovato alla testa di una città di 260 mila abitanti, carica di problemi di tuito rispetto con un tessuto urbano lungo e disteso sui mare, come Genova. Il che porta ad un'estensione delle sue periferie che assumono l'aspetto di vere e proprie piccole città, specie nella zona sud dove sono stati costruiti una serie di dormitori in cui manca tutto o dove imperversa la criminalità, un tradizionale serbatoio di voti per il potere dominante". E quindi? "E quindi, i problemi si sono molti13
plicati perché la ricostruzione del tessuto urbano in queste condizioni si è subito rilevata una impresa molto difficile, da far tremare le vene e i polsi". Ha tremato anche lei? "Naturalmente non ho chiuso gli occhi. Mi sono posto il problema, ed ho deciso di aggredirlo con quello che mi è sembrato lo strumento più efficace: un forte impegno per il ripristino della legalità. Che si è rilevato un impegno rivoluzionario perché il solo antitetico al sistema prima vigente, e cioè quello dell'accettazione del privilegio: bisognava avere un amico per tutto, dal certificato al Comune fino all'appalto, piccolo o grande che fosse. Addirittura ne serviva uno per ottenere la pulizia della strada davanti al proprio portone o al proprio negozio. Una situazione invivibile". E, dopo essersi rimboccate le maniche, che cosa ha fatto di concreto? cercato di convincere i miei concittadini che non c'era proprio bisogno di avere amici perché il nostro è uno Stato democratico dove è la legge che deve preoccuparsi di tutelare tutti, e che naturalmente esige il rispetto dei doveri. Posso portare alcuni esempi tra i più correnti. Le macchine parcheggiate in doppia fila: abbiamo condotto una campagna per convincere gli abitanti di Messina che così la città soffocava e che il danno che ne veniva era incalcolabile. Grazie all'assunzione di oltre 200 vigili urbani abbiamo iniziato un'azione di vigilanza e di con14
trollo. Adesso a Messina non ci sono più macchine in doppia fila. Sono fioccate naturalmente le contravvenzioni che danno adesso, a differenza del passato, introiti notevoli. Adesso la gente comincia a pagare il biglietto sull'autobus. Sembra incredibile, ma prima nessuno lo faceva e nessuno si preoccupava che lo si facesse. Anzi, ci sono stati assessori che si facevano propaganda elettorale distribuendo pacchetti di tessere per viaggiare gratis. Un lusso superfluo perché, come ho detto, nessuno acquistava il biglietto. Così si è potuto risanare il bilancio dell'Atm, l'azienda municipale dei trasporti, e razionalizzarne le strutture. Credo che il primo impatto con le realtà locali di persone che sono rimaste fuori dalla politica rimane quello di ristabilire l'ordine e la legalità". E le altre difficoltà? "Il panorama è molto vasto. Posso accennare ad un problema centrale: le enormi difficoltà che ci provengono dalle lunghissime attese a cui ci sottopongono le leggi per gli Enti pubblici e locali. Appaltare un'opera pubblica significa, in pratica, avere il via a fine mandato. Una situazione molto poco rassicurante. Certo c'è stata tangentopoli, c'è paura dei ladri, e così si è pensato di potere evitare la corruzione introducendo una miriade di controlli preventivi. Ma questa è la strada dell'impasse. Occorre, invece, selezionare accurata-
mente il personale politico e amministrativo ed introdurre il principio di responsabilità. Chi sbaglia, paga". Tutto ciò introduce il vero nodo della funzionalità dei Comuni, il rapporto tra sindaco e burocrazia... «Certo, avrei bisogno di un buon manager che mi affianchi nei mio lavoro, ma il segretario comunale, la più alta carica dell'apparato, non lo è, non lo vuol fare, e non io sa neanche fare. Il suo compito principale è quello dell'apposizione del parere di legittimità sugli atti dell'amministrazione, che tra l'altro è un doppione di ciò che fa il Coreco. Avrei bisogno di un City manager che riorganizzi l'apparato comunale spesso costituito sulla base di assunzioni clientelari, e rinnovi una classe dirigente demotivata forse perché non riesce più ad elargire i favori di un tempo. Tra l'altro, molti quadri sono andati in pensione precocemente e quindi ci troviamo con un pacchetto esiguo di dirigenti e con ie mani legate perché non possiamo assumere nessuno. Come tutti sanno, inoltre, il fatto che il segretario generale è un funzionario del ministero degli Interni complica molto le cose. Il personale fa capo a lui, ma lui non è il vero capo del personale. Se è vero, come la legge prescrive, che il sindaco detta le direttive politiche e l'amministrazione si assume l'onere e la responsabilità della gestione, allora non si vede come si possa fare a meno
di un City manager. Alla fine, ci siamo risolti ad incaricare un gruppo di Milano per studiare le possibilità reali di messa a punto della macchina comunale che, nel nostro caso, assomma a 3 mila dipendenti. E penso che molti altri Comuni stiano battendo la stessa strada". Ma, come si concila la vostra aspirazione all'autonomia con la ritrosia che vi assale quando il governo, come è avvenuto con le aliquote sull'Ici, vi propone di applicarle voi le tasse? "Noi siamo pronti ad esporci all'esterno, ma vogliamo entrate certe. Siamo pronti ad usare la leva dell'imposizione fiscale, ma le tasse devono essere quelle che vogliamo noi e non quelle che, sulla base delle loro indicazioni, decidono lo Stato o le Regioni. Dobbiamo essere noi a decidere, magari passando una parte dei proventi allo Stato. Siamo noi a dover scegliere come tassare i nostri amministrati, sulla base di bisogni reali. Altro è che lo Stato ci affida una delega per recuperare fondi. Noi vogliamo le tasse per la città, l'imposizione fiscale deve essere finalizzata alle esigenze della città. I cittadini devono controllare come entrano e come escono i quattrini e non fare come si faceva a Genova, nel 1500, quando veniva consentito solo il diritto al mugugno". Come considera la possibilità di emettere Boc? "Con favore. È stata una decisione positiva anche se rimangono molte 15
difficoltà. Per esempio, il fatto che si possono emettere solo in moneta italiana e non estera. Questo penalizza, ad esempio, i meridionali che si trovano all'estero e che vorrebbero aiutare le loro città di origine. L'internazionalizzazione dei Boc sarebbe un fatto molto positivo. Poi occorrono garanzie ben precise sui rimborsi. Il cittadino deve essere assolutamente sicuro di non perdere il capitale che investe, e da questo punto di vista la legge lascia aperto qualche problema. Lo strumento finanziario è, comunque, eccellente perché induce i cittadini a collaborare per costruire il futuro delle loro città. Certo bisogna cambiare mentalità e garantire la sicùrezza assoluta dei capitali impiegati. L'emissione dei Boc comporterà la verifica del bilancio, come avviene per le società quotate in bòrsa". A differenza del resto d'Italia, c'è qualche problema di stabilità nei Comuni isolani... "Purtroppo in Sicilia c'è questo grosso problema. La legge elettorale varata dalla Regione (in ossequi alla nostra autonomia) ha partorito un "monstrum": prevede infatti due elezioni autonome per il sindaco e per il consiglio comunale. Con il risultato che a Messina, Catania, Siracusa e in molti altri Comuni, il sindaco non ha la maggioranza in consiglio. E tutto, naturalmente, diventa più difficile". C'è, per finire, qualche questione che riguarda i rapporti con la giustizia... 16
"Diciamo che c'è l'anomalia legata all'abuso d'ufficio. Un problema delicato che poniamo adesso perché ora il sindaco risponde direttamente ai suoi concittadini ed è, quindi, molto più vulnerabile. Si è creata una forma di responsabilità politica che praticamente assorbe gran parte delle responsabilità amministrative, e che non esisteva in passato. Prima queste forme di responsabilità erano in gran parte assorbite dalla mediazione partitica e soltanto in via di supplenza, gestite dalla magistratura ordinaria, attraverso un uso abbondante del reato di abuso d'ufficio. Oggi crediamo che l'abuso debba essere riportato nei suoi giusti termini. La norma del codice che lo riguarda non ne definisce i limiti né le caratteristiche. È una norma in bianco che lascia aperta la porta ad una discrezionalità troppo ampia della magistratura. Dobbiamo quindi riempire la norma. E poi non ha sensò la presenza di un reato residuale: l'abuso si può contestare se il fatto non costituisce un più grave reato. Anche qui bisogna la chiarezza della disposizione. Devo dire che la magistratura si dimostra sensibile a questo problema. In qualità di presidente della commissione mista dell'Anci incaricata di studiare il problema, ho preso contatti, per l'aspetto penale, con l'associazione nazionale dei magistrati che si è dimostrata molto aperta alla risoluzione di questo problema.
Ci sono anche i rapporti con la Corte dei conti che vanno rivisti, un aspetto per il quale in commissione si è impegnato Sergio Ristuccia. La Corte interviene quando c'è una: 'ingiustificata erogazione di danaro pubblico'. Che significa, con atto legittimo o illegittimo? La dizione 'ingiustificata' va sostituita con 'illegittima'. Va tolta questa forma di discrezionalità sulla giustizia locale. Tutto ciò è anche nell'interesse della magistratura che deve avere norme precise che definiscano i limiti del reato. Nella tradizione giuridica italiana non è ammessa la interpretazione analogica, cioè per analogia, e deve essere sempre chiarita
la fattispecie e cioè la definizione concreta del reato. Vorrei accennare, per ultimo ai reati ambientali. Le leggi sull'ambiente sono benvenute e preziose per lo sviluppo della comunità. Ci sono, però, alcuni eccessi che vanno corretti. In ragione del fatto che il reato è permanente, può capitare che, cinque minuti dopò la sua elezione, il sindaco si veda consegnare un avviso di garanzia perché, ad esempio, una fogna spurga in una spiaggia, in una zona demaniale. Naturalmente il neo sindaco non è per niente responsabile della questione, ma il reato è permanente e rimarrà tale".
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Il federalismo fiscale: tesi a confronto di Barbara Nepitelli*
Il 1996 costituisce, sia pure fra molte incertezze, l'anno di avvio di un processo di decentramento finanziario che ormai è auspicato unanimamente dal mondo politico e da quello accademico. La legge finanziaria per il 1996 elaborata dal governo Dini muove i primi passi in direzione di una maggiore autonomia finanziaria di Regioni, Province e Comuni. Le proposte riguardano, principalmente, l'attribuzione alle Regioni di parte del carico fiscale che grava oggi sulla benzina e la possibilità di istituire una tassa sulle discariche. Sempre a livello istituzionale, ha appena concluso i suoi lavori la commissione insediata presso il ministero delle Finanze e presieduta dall'ex ministro delle Finanze Franco Gallo, con il compito di elaborare ipotesi di lavoro in materia di federalismo fiscale. Le conclusioni devono essere finalizzate in una relazione. Fra le ipotesi allo studio, per i Comuni c'è una maggiore flessibilità nella gestione dell'ici (l'imposta comunale * Giornalista.
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sugli immobili), anche sulla base dei servizi offerti nelle diverse aree. Mentre per le Regioni si esamina la possibilità, tra le altre, di attribuire loro tasse su elettricità, metano e benzina che si affiancherebbero ai tributi erariali già esistenti in modo da .lasciare allo Stato i compiti di accertamento; per il medio periodo viene anche presa in considerazione la possibilità di istituire un nuovo tributo regionale sostitutivo di: contributi sanitari, tassa salute, ILOR e IcIAp 1 . Emerge con chiarezza, dunque, come sia una esigenza recepita a livello istituzionale quella di offrire alle Regioni e agli Enti locali una maggiore autonomia finanziaria che consenta di avvicinare il centro di raccolta delle tasse ai cittadini-elettori in modo da permettere a questi ultimi di controllare più da vicino l'effettivo uso delle risorse raccolte ("vedo, pago, voto": il motto di Tremonti nel Librò Bianco). Come conseguenza, questa operazione dovrebbe comportare una maggiore responsabilizzazione degli Enti locali che finora hanno svolto la funzione di céntri di spesa di risorse raccolte e trasferite loro da uno Stato sempre pron-
to a ripianare i debiti causati da spese eccessive. Grazie all'autonomia finanziaria, inoltre, gli amministratori comunali o regionali potrebbero contare su di un gettito certo, da loro stessi calcolato in base alle necessità locali. Inoltre, e questo è uno dei principali motivi che ha reso urgente una presa di posizione istituzionale sul tema, autonomia finanziaria sarà accompagnata da una riduzione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni e questo dovrebbe facilitare l'opera di risamento del debito pubblico. Se sull'idea dell'autonomia si può quindi registrare un accordo unanime nel mondo politico come in quello accademico, le opinioni divergono quando si passa a esaminare i modelli di federalismo proposti: si va da un semplice decentramento a ipotesi di vero e proprio federalismo. A queste divergenze si devono aggiungere quelle esistenti su un problema strettamente collegato al federalismo: quello della solidarietà fra Regioni ricche e Regioni povere. Il presente lavoro si pone come obiettivo quello di tracciare un quadro (il più esauriente possibile ma senza alcuna pretesa di esaustività) delle principali ipotesi che si trovano al centro del dibattito in questo momento, tramite la comparazione delle posizioni espresse in materia da una serie di autori (anche qui senza la pretesa di rappresentare la loro posizione complessiva sulla questione del federalismo, in
genere, e di quello fiscale, in particolare). IL FEDERALISMO
I2Italia non è l'unico Paese ad attraversare un momento di crisi istituzionale. Ad essere entrato in crisi è il modello dello Stato-nazione che si era affermato nell'800 2 Una delle conseguenze è lo sviluppo di spinte centrifughe. Alla crisi dello Stato-nazione si accompagna quella del Welfare State. Lo Stato sociale, supportato dalla continua crescita dei debiti pubblici, ha ormai costi non più sostenibili ed è soggetto a revisione in tutti i Paesi occidentali. E l'Italia è uno dei Paesi che incontra maggiori difficoltà a contenere e ridurre il proprio debito pubblico. Inoltre in Italia a questa situazione, già di per sé esplosiva, si è aggiunta anche la crisi fiscale. La macchinosità dei prelievi, la loro esosità, accompagnata da una percentuale di evasione altissima, risultano ormai inaccettabili per una parte sempre crescente del Paese3 . Alcuni degli autori, consultati sull'argomento, concordano sul fatto che la riforma degli anni Settanta, che ha accentrato nelle mani dello Stato la raccolta delle entrate riducendo gli Enti locali a soli centri di spesa, ha posto le basi per l'attuale crisi finanziaria e fiscale italiana. .
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L'intreccio di queste concause (crisi dello Stato-nazione, del Welfare State e del sistema finanziario e fiscale italiano) porta, secondo alcuni, alla necessità di yarare una riforma della riforma che vada nella direzione del decentramento, della responsabilizzazione degli enti periferici, della identità fra centri di raccolta e centri di spesa delle risorse; in una parola, nella direzione del federalismo fiscale 4 . Altri, però, avvertono del pericolo di considerare autonomia e decentramento come toccasana che agiscono positivamente, indipendentemente dall'uso che se ne fa 5 Inoltre, il termine "federalismo" può assumere valenze molto diverse. "In realtà il principio, federalista è principio non solo controverso, ma ambivalente ed ambiguo; principio che evoca aspirazioni, interessi sociali e realtà istituzionali profondamente diverse, talvolta confliggenti" 6. La linea di demarcazione principale riguarda il federalismo di tipo competitivo (dualfederalism) di stampo americano, che prevede una forte separazione tra governo centrale e enti periferici e si accompagna al liberismo puro; e quello cooperativo che ha preso piede in Germania, in cui c'è un intreccio più fitto di rapporti sia sulla direttrice verticale centro-periferia che su quella orizzontale e che si accompagna alla presenza dello Stato sociale. La scelta sul modello da seguire, secondo molti autori, dovrebbe cadere sul secondo proprio .
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per la sua possibilità di coniugarsi più facilmente con la salvaguardia di una certa forma di Stato sociale 7 Ma per avere maggiori parametri di riferimento, è opportuno fare una breve rassegna dei principali sistemi federali attualmente esistenti. La panoramica contenuta nel libro di Giorgio Brosio costituisce un'ottima base di partenza per capire, al di là delle teorie, cosa vuoi dire federalismo. Gli Stati sotto esame sono sia quelli storici: Stati Uniti, Svizzera, Canada, Australia; sia quelli nati dopo la TI guerra mondiale: Austria. Germania e, recentemente, Belgio. I motivi che sono alla base della nascita degli Stati federali conoscono una sorta di spartiacque fra i casi più antichi, guidati dagli Stati Uniti e quelli degli ultimi anni. "Nella maggior parte dei casi fino a oggi, i sistemi federali sono nati dall'unione di unità politiche preesistenti. In altre parole, il federalismo è stato finora soprattutto un processo di integrazione. Diventano però numerosi i casi di federalismo come processo che avviene in direzione contraria7 8 Una tendenza che è anche alla base di quanto sta avvenendo in Italia: "la discussione è evidentemente resa aspra dal conflitto politico in atto che tende a ribaltare il contenuto dell'idea federalista, utilizzata nella storia e nella pratica concreta per unire e brandita oggi invece per allentare il vincolo del centro, nonché, nelle sue formulazioni .
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più estreme, per alimentare spinte dichiaratamente secessioniste" 9 Caratteristica principale del modello federale, che lo rende appetibile nel caso sia di spinte centripete che centrifughe, è individuata da Brosio nella "distribuzione delle competenze politiche fra due livelli - il governo federale e gli Stati - che permette di coniugare i vantaggi della diversità con quelli dell'unità". Attenzione, però: "essendo più articolato, il sistema federale è anche assai più delicato di un sistema ii e bisogna rispettare tre condizioni essenziali per la sua sopravvivenza: la prima è "un effettivo sistema democratico", la seconda è "l'equilibrio fra il potere del centro e quello delle unità periferiche" e la terza è "l'equilibrio, in termini di capacità di governo, di ricchezza e altro ancora, fra le unità componenti" 11 . La mancanza di queste condizioni ha causato il crollo dei tentativi fatti nell'Europa dell'est o negli Stati ex-coloniali. Esaminando più nel dettaglio gli elementi che caratterizzano gli Stati federali e che più sono attinenti all'oggetto di questa indagine, si deve ricordare, dal punto di vista istituzionale la presenza di due Camere legislative di cui una composta dai rappresentanti locali; inoltre tutte le Costituzioni, a partire dalla capostipite, la Costituzione americana del 1787, fissano una divisione di poteri tra centro e periferia. .
E bisogna sottolineare che è proprio sulla capacità di estendere nella pratica le proprie competenze (soprattutto quelle in materia fiscale) che oscilla continuamente il pendolo fra tendenze centraliste e decentralizzatrici su cui poggia il delicato equilibrio di uno Stato federale. In campo finanziario, se, in teoria, "ogni livello di governo deve disporre di risorse sottoposte al proprio autonomo controllo e sufficienti allo svolgimento delle finzioni che sono di sua esclusiva competenza", nella pratica "l'evoluzione dei rapporti finanziari ha condizionato e tuttora condiziona quella dei rapporti tra centro e periferia. Più precisamente, essa ha permesso al centro di prevalere, lentamente, ma nettamente sulla periferia". Una situazione consolidatasi con l'avvento del Welfare State che ha segnato la nascita del federalismo cooperativo e, negli Stati federali già esistenti, ha accentuato la dipendenza della periferia dal centro a causa dell'evoluzione delle spese 12 A completamento di questo discorso bisogna ricordare, anche qui, come proprio la crisi dello Stato sociale stia portando in quasi tutti i Paesi verso una accentuata inversione di tendenza13 Inoltre la stessa spinta alla centralizzazione, sia pure importante, non ha mai impedito che nella maggior parte degli Stati federali le unità periferiche traessero, e traggano tuttora, più del 50% delle proprie entrate dall'autofi.
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nanziamento e che soio il resto arrivi, sotto forma di trasferimenti, dal governo centrale. I2unico caso in cui avviene il contrario è l'Australia, dove esiste un sistema per molti versi analogo a quello italiano. Per quanto riguarda i trasferimenti finanziari dal centro alla periferia, negli Stati presi in esame esistono trasferimenti dal centro, sia specifici che generali, anche se la tendenza sembra quella di privilegiare quelli non legati a destinazioni particolari. Spesso i trasferimenti generali sono legati a esigenze perequative del reddito fra gli Stati. Il meccanismo perequativo funziona meglio in Australia e Canada mentre la sua incidenza è molto bassa negli Stati Uniti e in Svizzera 14 . Esaminando il panorama europeo, lo studio che sta conducendo l'IRER, 1' Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia, mette a confronto la situazione di decentramento esistente in alcuni dei principali Paesi europei attraverso l'esame della posizione di 4 Regioni "forti": Baviera (Germania), Catalogna (Spagna), Rhones-Alpes (Francia) e la stessa Lombardia. Dalla ricerca, tra le altre cose, sono emerse le forti differenze di competenze e di autonomia finanziaria di cui gode il livello interregionale in questi Paesi. La Baviera è un Land che ha competenze importanti per assolvere le quali partecipa a pieno titolo al gettito dei tributi riscossi sul suo territorio; poi viene la Catalogna, inserita in un sistema
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di Comunità Autonome che hanno aumentato la propria sfera di competenze ma dal punto di vista fiscale sono ancora fortemente dipendenti dal centro (e comunque, dal 1994, hanno ottenuto una compartecipazione all'Irpef); solo al terzo posto c'è la Lombardia, insieme alle altre Regioni ordinarie italiane, con una devoluzione di competenze più ridotta e, dal punto di vista finanziario, fortemente vincolata dai trasferimenti statali; infine la Regione francese che fa parte di un sistema creato a fini di puro decentramento amministrativo. QUAU PROPOSTE PER L'ITALIA
La maggior parte delle proposte per decentrare il reperimento delle risorse finanziarie in Italia, a partire da quelle elaborate dalla Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (più brevemente Bicamerale o CPRI), ha come soggetto le Regioni, quindi la presente panoramica si concentrerà su questo livello intermedio senza approfondire il ruolo dei Comuni.
La "rivoluzione "fiscale Le Regioni hanno una struttura "fortemente dipendente dai trasferimenti statali e, tra questi, da un insieme di trasferimenti con vincoli di destinazione che ostacolano lo sviluppo di un corretto sistema di governo "15. Questo modello finanziario "ha prodotto le note conseguente negative
dovute alla dissociazione tra le decisioni di spesa e le modalità di reperimento delle entrate, alla deresponsabilizzazione degli amministratori, alla scarsa capacità dell'elettorato locale di valutare l'operato degli eletti. La dissociazione tra decisioni di spesa e prelievo è giustamente ritenuta una delle cause della lievitazione dei disavanzi, dell'inefficienza nella spesa, dell'inadeguata soddisfazione dei bisogni" 16 Da qui, come già detto, nasce la necessità, avvertita da tutti gli autori, di puntare sull'autonomia finanziaria e sull'equilibrio fra livelli di governo. Ma, secondo quali principi dovrà essere impostato il processo di riforma? "Responsabilità, trasparenza, efficienza, solidarietà e sussidiarietà" sono i principi base ricordati dallo studio della Fondazione Agnelli e su cui concordano in linea di massima tutti gli autori' 7 Le divergenze riguardano piuttosto l'estensione che dovrà avere la riforma. La Fondazione Agnelli parte dal presupposto di una riforma della Costituzione per arrivare alla creazione di uno Stato federale (anche se ammette la possibilità di cominciare a realizzare una maggiore autonomia finanziaria delle Regioni basandosi sul sistema attuale). Sulla stessa strada di una riforma costituzionale si pone la Bicamerale, che prevede una profonda revisione della divisione di competenze tra Stato e Regioni. Infine Giulio Tremonti e Giuseppe .
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Vitaletti, pur avanzando anche delle proposte di breve periodo, si pongono nell'ottica di un rivolgimento completo del sistema finanziario attuale ("tra rivolta e riforma, il giusto mezzo, può ormai essere razionalmente trovato solo in una rivoluzione fiscale: 'dal centro alla periferia, dalle persone alle co, ,, se ). Altri autori preferiscono limitare la propria analisi, partendo dalla situazione esistente e considerando più realistico puntare ad aggiustamenti del quadro attuale .piuttosto che costruire da zero un nuovo sistema; senza escludere, peraltro, che questo possa essere un obiettivo da realizzare nel lungo periodo 18 Analizzeremo, ora, le proposte di più ampio respiro per passare poi all'esame di quelle applicabili tramite modifiche del sistema vigente. Partendo dallo studio della Fondazione Agnelli, è interessante vedere più da vicino la valenza dei principi base summenzionati. Per responsabilità si intende principalmente "fare sì che le due responsabilità fondamentali nella gestione della cosa pubblica, la responsabilità delle decisioni di spesa e quella di reperire le risorse necessarie, attraverso la tassazione, non siano più separate". La trasparenza, invece, "impone alle decisioni politiche e operative, a qualunque livello, di fondarsi su procedure chiare e abbastanza universali da poter essere facilmente interpretate e controllate dai cittadini, so.
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prattutto per quanto attiene, da un lato, all'equità del prelievo fiscale, e, dall'altro, alla direzione, all'entità e alla destinazione del flusso delle risorse pubbliche". La necessità di una maggiore effìcienza, si fa notare, "non richiede particolari argomentazioni in un Paese nel quale, ad elevati e probabilmente insostenibili livelli di spesa pubblica, raramente hanno fatto seguito equità redistributiva e servizi adeguati per qualità e tempestività". Per quanto riguarda la solidarietà, nel passato la "opacità delle procedure" e la "complessiva inadeguatezza dei risultati" hanno pro dotto , scontento sia nelle Regioni che dovevano trarre beneficio dai trasferimenti, sia in quelle su cui l'onere di questi flussi è pesato". Una riforma impone dunque, non certo di eliminare, ma sicuramente di rivedere il meccanismo perequativo. Infine "la sussidiarietà richiede che le decisioni da assumere per la soddisfazione delle esigenze comuni spettino alle istituzioni più vicine ai cittadini, mentre alle istituzioni maggiori spettano solo i compiti che non possono essere adeguatamente affrontati dalle istituzioni minori Il ricorso al principio di sussidiarietà, come principio regolatore dei rapporti fra livelli di governo (che tra l'altro si sta pienamente affermando a livello europeo: si veda la Carta delle autonomie locali del Consiglio d'Europa e il trattato di Maastricht sull'Unione europea) è oramai largamente condi24
viso 19. Stabiliti i principi di base, l'esame si sposta alla suddivisione delle competenze fra Stato e Regioni. Un progetto di riforma radicale non può prescindere da un ampliamento delle competenze delle Regioni. La proposta avanzata dalla Bicamerale alla fine della XI legislatura parte da un rove sciamento del criterio di divisione delle competenze attualmente previsto dalla Costituzione (il cosiddetto ribaltamento del principio dell'articolo 70 della Carta costituzionale 20 tutte quelle competenze che non sono espressamente attribuite allo Stato dovranno passare alle Regioni. Non interessa il presente studio un approfondimento dei lavori della Bicamerale sul punto 21 . Vale però la pena di sottolineare che, se apprezzato in linea generale il lavoro fatto dalla Bicamerale, viene però generalmente criticata la decisioiie di proporre un aumento delle competenze in campo normativo e amministrativo senza, parallelamente, fare anche delle concrete proposte dal punto di vista finanziario. Anche perchè un aumento delle competenze delle Regioni implica necessariamente un parallelo incremento delle loro risorse. Collegato al problema dell'ampiezza delle funzioni delle Regioni c'è quello (trattato a fondo dallo studio della Fondazione Agnelli) dell'opportunità di un accorpamento delle Regioni più piccole in macro-Regioni. ):
Resta da ricordare (sia pure in modo estremamente sintetico) la "alternativa fiscale radicale" proposta da Tremonti e Vitaletti che ha una sua specificità rispetto a quanto detto finora perché il federalismo fiscale costituisce soio una parte, sia pure importante, di una riforma fiscale più globale che andrebbe ad incidere anche sul numero e sulla tipologia delle tasse attualmente esistenti22 Passaggio. essenziale della proposta di riforma, insieme a l'altro dello spostamento della centralità del prelievo dalle persone alle cose, è - come già detto - quello che prevede una forte autonomia impositiva della periferia. Il passaggio dal centro alla periferia permetterebbe una migliore applicazione del principio del beneficio perché evidenzierebbe il rapporto tra specifici cespiti di prelievo e flussi di servizi reali dallo Stato e dagli Enti locali nei confronti di imprese e cittadini. Sull'assioma "tributo locale = criterio del beneficio" fa delle interessanti considerazioni Ceriani, il quale afferma che se questo criterio in senso proprio è inattuabile, (bisognerebbe individuare con precisione le preferenze del singolo e su queste graduare il prelievo individuale), la sua applicazione potrebbe però essere utilizzabile per "collegare più strettamente le spese per i beni e i servizi pubblici locali a fonti specifiche di finanziamento". Si giungerebbe così all'applicazione di "imposte di scopo". .
Si deve, infine, ricordare che anche Tremonti e Vitaletti propongono alcuni cambiamenti che possono essere introdotti immediatamente nel sistema vigente: lo sfoltimento delle attuali tasse per arrivare a cinque (IRPEF, IRPEG, IVA, fabbricazione e dogane, imposta sul possesso), l'abbattimento della progressività, l'estensione delle deduzioni, la previsione della "par condicio" tra capitale di prestito e di rischio, l'abbattimento di aliquote troppo elevate per tassare le società, il ripristino dell'autonomia impositiva di Regioni e Comuni.
LA RIFORMA FISCALE
Attualmente, le finanze regionali derivano da: tributi propri, trasferimenti statali a destinazione libera (il fondo comune e il fondo per i programmi regionali di sviluppo), trasferimenti statali a destinazione vincolata23 Fino al 1992, le entrate proprie hanno avuto scarso peso sul totale delle entrate. Dal 1993, grazie alla regionalizzazione dei contributi sanitari, le entrate proprie sono salite fino a circa il 53% delle entrate complessive, i contributi sanitari, però, sono vincolati nella destinazione24 Quindi, il cambiamento dovrebbe andare nel senso di una maggiore autonomia finanziaria che si può ottenere soltanto grazie all'aumento di entrate proprie. .
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Di conseguenza, da un modello di spesa pubblica per la produzione di servizi o la effettuazione di interventi sociali o economici che "presenta un rilevante grado di uniformità nelle diverse Regioni" si deve passare a un altro "che si caratterizzi per una maggiore differenziazione tra le diverse Regioni per quanto riguarda livelli e composizione dell'intervento pubblico" 25 . La differenziazione, naturalmente, deve essere mitigata da interventi perequativi per garantire standard minimi uguali per tutti i cittadini. Si tratta, quindi, di allontanarsi dal mantenimento dello status quo "definibile dal binomio regionalismo e uniformità" non per dirigersi verso un "federalismo senza solidarietà" privo di interventi compensativi, ma per arrivare a un «federalismo fiscale ove il governo centrale interviene per ridurre le differenze nei livelli di spesa o di prestazione per abitante che si avrebbero per il solo operare del decentramento della potestà tributaria" 26 . Dalle considerazioni fin qui svolte, emerge come punto fermo la necessità di eliminare o almeno ridurre drasticamente gli attuali trasferimenti a destinazione vincolata da parte dello Stato. Una necessità che era già stata espressa fin dal 1982 dalla Commissione di studio sui rapporti Stato-Regioni, la quale sosteneva l'opportunità di "riunificare in un solo fondo tutti i trasferimenti statali destinati alle Regioni, ad esse attribuendo il massimo 26
di autonomia e sottraendole alla logica delle destinazioni fortemente prefissate in un regime di 'finanza derivata" e di "superare i finanziamenti di settore attraverso strumenti di autocontrollo parlamentare" 27 . Oggi ci S i spinge oltre, affermando la necessità di sostituire i trasferimenti con entrate proprie. Ma su quali entrate si dovrebbe basare, in concreto, il nuovo sistema? Le categorie prese in considerazione sono le seguenti: tributi propri e compartecipazioni. Accanto a queste si devono necessariamente prevedere dei trasferimenti, a carattere verticale (Stato-Regioni) o orizzontale (fra Regioni) che serviranno a riequilibrare la situazione di disparità che si verrà a creare a causa della maggiore autonomia regionale e del conseguente minore intervento diretto dello Stato in materia.
Trib u ti p rop ri "Le Regioni devono avere la pòssibilità di variare l'ammontare delle risorse a loro disposizione con decisioni proprie, queste ultime ancorate a una potestà legislativa in materia tributaria Sull'importanza di prevedere tributi propri insiste anche Tremonti, il quale sottolinea anche che "il federalismo fiscale non deve essere limitato a valle, nella fase di gestione; deve essere attivo a monte, già nella fase di istituzione del tributo. In specie, la legge dello
Stato deve indicare le opzioni possibili, i criteri legali di massima. Sono poi i governi locali che devono applicarli, scegliendo le opzioni e/o i criteri che ritengono giusti nel loro caso specifiA sua volta Giarda, (in linea anche Ceriani), sottolinea che, perché si possa parlare di tributo proprio, è sufficiente che il titolare del tributo abbia la possibilità di determinare in via autonoma le aliquote su una base imponibile determinata dal governo centrale (questo vuoi dire che rientrano nella categoria dei tributi propri anche le addizionai, aliquote aggiuntive applicate alla base imponibile di un tributo erariale, e le sovraimposte, aliquote aggiuntive applicate al gettito di un tributo erariale, "purché facoltative nel se e nel quando"). In ogni caso, la possibilità di istituire tributi propri (in aggiunta a quelli già esistenti) costituisce il nocciolo duro dell'autonomia finanziaria regionale (cfr. Tremonti) anche se, scendendo nel concreto, si vede che ritagliare nuovi tributi a livello regionale che siano coerenti con quelli esistenti ai livelli statale e locale è meno facile de! previst0 29 . Ecco le proposte principali. - Il settore automobilistico: in questo caso si va dal trasferimento alle Regioni dell'imposta statale sulle registrazioni al PRA30 alla creazione di un "tributo regionale automobilistico unificato, Tiu"31 ;
- l'energia: trasferimento dell'imposta erariale di consumo su gas e energia elettrica32 - immobili: imposta di registro sugli immobili33 - tabacchi, lotto e lotterie: imposta di consumo sui tabacchi, proventi del lotto34 . Si tratta, come si può vedere, di imposte indirette sui consumi perché lo spostamento dei tributi sui redditi prodotti dalle imprese e sui redditi personali "potrebbero indurre mutamenti nella localizzazione delle attività produttive o nella residenza delle persone 35. Le altre imposte sui consumi (Iva e imposte di consumo e fabbricazione su olii minerali, tabacchi e prodotti alcolici) presentano difficoltà amministrative e limiti alla autonomia delle aliquote, perché sono armonizzate a livello europeo 36. A queste ipotesi abbastanza classiche bisogna aggiungerne un'altra (elaborata, sia pure con alcune differenze, da Vincenzo Visco e da Giancarlo Pola) 37 che rappresenterebbe una imposta regionale sul valore aggiunto: IRVAP, nella versione di Visco, o Tip, in quella di Po1a38. A livello europeo esistono già esempi simili come la 'taxeprofessionnelle' francese e la 'Gewerbesteuer' tedesca. ;
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Comparteciazioni Tutti gli autori riconoscono che il sistema dei tributi propri, da solo, non sarebbe sufficiente a sostituire i trasfe27
rimenti statali. Ancor meno, poi, coprirebbe i bisogni delle Regioni se venissero aumentate le loro competenze. E quindi, vedono con favore lo strumento delle compartecipazioni 39. Naturalmente, soltanto per i grandi tributi erariali sono ipotizzabili compartecipazioni e, fra questi, i maggiori candidati sono IRPEF, IVA, imposta di fabbricazione degli olii minerali perché sono legati "a manifestazioni di capacità contributiva quali il reddito o il consumo che sono presenti, sia pure con distribuzione ineguale, su tutto il territorio nazionale" 40 a differenza di IRPEG e ILOR la cui base imponibile "è distribuita nelle diverse Regioni in funzione delle sedi fiscali delle imprese e non della concreta formazione del presupposto del tributo" 41 . Per evitare che il gettito delle Regioni aumenti ogni volta che il governo centrale aumenta le aliquote, aggravando così il problema del contenimento del deficit, Giarda propone di "reinterpretare l'istituto della compartecipazione al gettito nel senso di ipotizzare che alle Regioni venga attribuita non una quota di gettito ma una 'riserva di aliquota' da applicarsi alla base imponibile dei tributi compartecipati".
La perequazione La necessità di riequilibrare la situazione finanziaria delle Regioni con il reddito più basso, per le quali il passaggio a un sistema di autonomia finanziaria comporta una considerevole 28
perdita di gettito, è generalmente condivisa. A cominciare dalla Bicamerale, che prevede l'istituzione da parte dello Stato (cui rimane proprio la funzione. del riequilibrio economico) di un "fondo perequativo, il cui ammontare è definito in misura non superiore a quanto necessario per compensare la minore capacità di produrre gettiti tributari e contributivi rispetto alla media na.zionale" 42 . Il discorso, però, non è così lineare come emerge dalla proposta della Bicamerale. Innanzitutto, molti autori ricordano che a monte c'è la scelta tra perequazione su base verticale o orizzontale. Nella prima c'è un intervento riequilibratore dello Stato, mentre la seconda è affidata esclusivamente a trasferimenti interregionali. Giarda fa uno studio approfondito delle varie ipotesi di costruzione del meccanismo della perequazione, ma si veda anche la Fondazione Agnelli che fra le altre ipotési suggerisce, come anche Tremonti, l'utilizzazione di un sistema misto verticale e orizzontale. La scelta fra i due modelli ha sicuramente una valenza ideologica: la perequazione orizzontale "enfatizza la solidarietà interregionale", mentre quella verticale "enfatizza il ruolo riequilibratore del governo centrale" 43 . Inoltre, il tipo di strumento adottato dovrà tenere anche conto degli obiettivi che si vogliono raggiungere e cioè fino a che punto si vogliono lasciar crescere o mantenere sotto controllo
le differenze nelle capacità contributive che l'autonomia finanziaria farà emergere tra le Regioni. Per decidere il livello di perequazione che si vuole realizzare bisogna definire anche il valore di riferimento: il riallineamento potrà avvenire prendendo come riferimento la Regione più ricca (la Lombardia), le Regioni del Centro-Nord oppure la media nazionale44 Ancora un'altra scelta deve essere operata per definire i parametri di partenza e cioè se ci si vuole basare, almeno inizialmente, sulla spesa storica delle Regioni45 oppure sulla "capacità fiscale potenziale" della o delle Regioni più ricche46 Un'ultima caratteristica che deve essere accuratamente valutata nella predisposizione di un modello di redistribuzione è che questo deve stimolare la responsabilità fiscale, cioè le Regioni meno sviluppate non dovranno poter compensare carenze di gettito dovute all'applicazione di aliquote più basse della media nazionale o all'incapacità di prevenire l'evasione. E, all'opposto, i trasferimenti di carattere perequativo non dovranno frustrare lo sforzo fiscale delle Regioni che si sforzano di applicare aliquote più alte della media, premiandole o almeno non penalizzandole47 .
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Per completare questa panoramica sulle ipotesi di riforma del sistema di finanza pubblica per arrivare a un modello di federalismo fiscale bisogna ri-
cordare alcuni aspetti, che non possono trovare in questa indagine uno spazio approfondito, ma senza i quali una ipotesi di riforma non potrebbe dirsi completa. Si tratta dei rapporti che devono essere instaurati fra Regioni e Enti locali (in particolar modo, in Italia, i Comuni) e dei rapporti tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale. (La Commissione di studio Stato-Regioni, in realtà aveva sottolineato nella relazione conclusiva l'importanza, come ricorda Ristuccia, "di considerare unitariamente la riforma della finanza regionale e quella della finanza comunale e provinciale e di individuare i punti di integrazione"). Per quanto riguarda il primo aspetto, si può dire che l'autonomia degli Enti locali ha seguito finora strade separate ed è già più avanti rispetto a quella regionale. Eppure, c'è un generale consenso sul fatto che debba essere costruita una relazione stabile fra Regioni e Comuni per creare un sistema all'interno del quale i trasferimenti Stato-Enti locali possano essere sostituiti da trasferimenti Regioni-Enti locali48 Esiste, però, un problema di fondo: le autonomie locali hanno una sostanziale sfiducia nelle amministrazioni regionali ed hanno paura di un eccesso di discrezionalità nella ripartizione dei fondi. Una garanzia potrebbe essere data dall'introduzione di una 'clausola di salvaguardia' a livello costituzionale oppure dalla previsione di forme di .
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rappresentanza degli Enti locali a livello regionale49 . Inoltre, le Regioni dovranno approntare le necessarie strutture tecniche per essere in grado di affrontare i nuovi compiti 50 . J2altro punto è quello del collegamento fra la situazione delle Regioni a statuto ordinario (Rso) e le cinque a statuto speciale (Rss): Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Indubbiamente, le seconde si sono assicurate una posizione di "rendita fiscale" grazie a un sistema di compartecipazione al gettito dei tributi erariali riscossi sul territorio regionale e quindi il divario fra le due situazioni dovrà essere colmato. QUALI SOLUZIONI?
Dall'analisi fin qui svolta emergono alcuni punti di riferimento che vale la pena sottolineare. In primo luogo le cause che hanno portato a una diffusa e sentita esigenza di rivedere il sistema finanziario e fiscale in Italia: - crisi deflo Stato-nazione; - crisi del Welfare State e collegata necessità dimettere un freno alla crescita del debito pubblico (problema particolarmente grave in Italia); - crisi del sistema fiscale italiano. La soluzione, su cui c'è ormai concordanza di vedute, è quella del federalismo fiscale. Termine con cui si intendono in realtà soluzioni diverse che
comportano una serie di scelte che possono essere ricordate, in modo schematico, come segue: - opzione sul tipo di federalismo; semplificando: la scelta fra un federalismo di tipo competitivo o dual federalism (il cui modello principale sono gli Stati Uniti) e un federalismo di tipo cooperativo (il riferimento è la Germania); - opzione sulla profondità delle modifiche, in particolare fra le riforme realizzabili a Costituzione invariata e quelle che presuppongono una revisione costituzionale (i principi di base sono comunque sostanzialmente condivisi: responsabilità, trasparenza, efficienza, solidarietà, sussidiarietà accompagnati dal criterio del beneficio); - opzione sul grado di autonomia finanziaria e, quindi, scelta sull'impiego dei vari strumenti: tributi propri, addizionali, compartecipazioni (è comunque condivisa la necessità di ridurre l'ammontare dei trasferimenti statali, soprattutto di quelli a destinazione vincolata, allo .scopo sia di garantire una maggiore autonomia alle Regioni, sia di contenere il debito pubblico); - opzione sul tipo di perequazione attraverso la quale far operare il principio di solidarietà; anche qui semplificando, la scelta fra perequazione verticale, perequazione orizzontale o un mix dei due tipi. Non sono stati approfonditi nel presente studio, ma non possono non es-
sere ricordati, altri tre elementi essenziali per rendere il quadro più completo: - il rapporto che deve essere instaurato fra Regioni ed Enti locali (in primo luogo i Comuni) e l'autonomia finanziaria di questi ultimi; - l'inserimento delle Regioni a statuto specialé in un contesto federalista; - il problema dell'adeguamento delle amministrazioni iocali, dato che l'autonomia finanziaria comporta degli oneri per adempiere i quali sono necessarie apposite strutture.
Un'ultima considerazione, riguarda il collegamento fra autonomia e sviluppo. Le Regioni che si sono assicurate una posizione finanziaria forte, come le Rss in Italia, hanno goduto di una marcia in più per percorrere la strada dello sviluppo, ma non tutte ne hanno saputo approfittare. Fruire di maggiori risorse è, quindi, una condizione necessaria ma non, di per sé, sufficiente a garantire lo sviluppo, dato che le maggiori risorse possono essere destinate anche a politiche di tipo prevalentemente assistenzialistico.
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Si veda in particolare Gallo, che aggiunge a questi principi il criterio del beneficio. 8 Si veda, per tutti, Giarda e Gallo. 9 Ristuccia, nel 1991, è fra i primi a porre la questione della sua utilizzabilità, in "Corte dei conti, Enti locali, Regioni"; ma vedi anche Gallo, Degni, Pedone, Visco-Comandini, Desideri, che lo collegano alla trasformazione di uno dei rami del Parlamento in una Camera delle Regioni, in "Il principio federativo"; anche Tremonti pone la sussidiarietà tra i pilastri del federalismo fiscale. 20 Sul quale A. Bosi. 21 Una estesa trattazione delle previsioni della Bicamerale sulla ripartizione di competenze è fatta da Pagliara in "Il principio federativo"; si veda anche lo studio della Fondazione Agnelli. 22 Cfr. anche il saggio di Vitaletti in "Il principio federativo". 23 Per una descrizione dettagliata di tutte le voci di entrata, A. Giarda. 24 Ibidem 25 Cit. ibidem 26 Cit. Giarda. Su questo punto c'è totale uniformità con le proposte sul breve periodo avanzate dalla
Questa ipotesi sviluppa quella dell'IRvi'-TiP esaminata più avanti. 2 Cfr. Tremonti-Vitaletti, ma vedi anche i saggi di Cotturri e di De Fiores in "Il principio federativo". Un'analisi della situazione si trova in Tremonti-Vitaletti. O finanziario, come precisa, esattamente, Ceriani. 5 Cfr. Lamanna-Ruda, 6 Cantaro in "Il principio federativo", vedi anche Lamanna-Ruda. vd. Cantato, De Fiores e soprattutto Gallo il quale ricorda che il federalismo cooperativo "coniuga l'autonomia con poteri centrali forti, il potere locale di 'votare' l'imposta con i principi di solidarietà e uguaglianza". 8 Cit. Brosio. 9 Cit. Cotturri. IO Cit. Brosio, ma dello stesso parere anche Cantaro. Il Ibidem. 2 Ibidem. 3 Cfr. a questo proposito De Fiores. ' ('tr. Brosio. 15 Cit. Giarda. 16 Cit. Ceriani.
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Fondazione Agnelli; si veda anche Degni, Ceriani. La proposta della Bicamerale prevede l'obbligo per le Regioni di prestazioni minime uniformi, vedi Pagliara e sul timore che questo possa reintrodurre vincoli per le Regioni, vedi Buglione. 27 Cit. Ristuccia. 28 Così la Fondazione Agnelli che suggerisce "la creazione di nuove imposte proprie regionali sostitutive di altrettante imposte statali" e "la creazione di una riserva di aliquota proporzionale alla base imponibile Irpef". 29 Gallo, dopo aver fatto una rassegna dei possibili tributi propri regionali, riconosce che vi sono «limiti seri al possibile ampliamento dei tributi propri". 30 Cfr. Giarda, Gallo, Ceriani, Buglionè, Bosi. 31 Cfr. Tremonti. 32 Cfr. Giarda, Gallo, Ceriani, Bosi. 33 Cfr. Giarda, Bosi. 3° Cfr. Giarda, Tremonti, Buglione, Bosi. 35 Cit. Ceriani. 36 Cfr. Gallo e Ceriani che sembrano dissociarsi dall'idea di regionalizzare l'imposta sui tabacchi. 37 Si veda Giarda. 38 Cfr. Giarda, il quale indica l'ipotesi Irvap/Traep come possibile sostituto dei contributi sanitari. Parere favorevole anche di Gallo e di Ceriani che però la vedono più legata all'aumento delle competenze regionali. 39 Per Gallo, «può costituire l'innovazione principale nel finanziamento delle Regioni". 40 Cit. Giarda. 41 Ibidem. 42 Cit. Pagliara. 43 Cit. Giarda. 4'1 Cfr. Fondazione Agnelli, Giarda. 45 Cfr. Giarda. 46 Cfr. Fondazione Agnelli. 7 Cfr. Fondazione Agnelli, Ceriani. 48 Cfr. Fondazione Agnelli, Giarda, Ristuccia, Buglione, Irer; anche Tremonti, sia pure in un contesto di forte caratterizzazione municipalistica parla di un «fondo di riequilibrio regionale". 49 Della necessità di una "procedura di salvaguardia",
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nel caso di inattività della Regione, parla anche Visco-Comandini. 50 Sui problemi legati al rapporto Regione-Enti locali si veda Bosi che, comunque si dice favorevole all'adozione di uno schema piramidale Stato-Regioni-Comuni.
Note bibliografiche GIoRGIo BRoslo, Equilibri instabili, politica ed economia nell'evoluzione dei sistemi federali, Bollati Bonnghieri, 1994. ANTONIO Crao e MARCELLO DEGNI (a cura di), 11 princzviofederativo, fede ralismo e stato sociale, La Meridiana, 1995. Pio GIARDA, Regioni e federalismo fiscale, Il Mulino, 1995. GIULIO TrtaMoNTI, Il Libro Bianco del nuovo fisco, la Riforma fiscale, ministerodelle Finanze, 1995. (In particolare il capitolo I della parte seconda "Dal centro alla perft ria - Ilfede ralismo fiscale"). TREMONTI-VITALETTI, Ilfederalismo fiscale, autonomia municipale e solidarietà sociale, Laterza, 1994. GIORGIO BRosIo, GIAÌ'1caLO P0Lk e DANIELE BONDONIO (a cura di), Contributi di ricerca - Una proposta di federalismo fiscale, Fondazione Agnelli, Rivista XXI Secolo, n.311994, luglio 1994, Edizioni della Fondazione Agnelli. FRANCO Gi>.u.o, Per un progetto di federalismo fiscale, in «Rassegna tributaria», novembre 1995, n. 11, Eti editore. PAOLO BosI, Regionalismo fiscale e autonomia tributaria: l'emersione di un modello di consenso, in «Rassegna tributaria», ottobre 1995, n.10, F.ti editore, (questo scritto fornisce, a sua volta, una ampia e aggiornata bibliografia sull'argomento e una tabellina di comparazione fra le proposte di regionalismo fiscale). AA.VV., Finanza Stato-Regioni, numero monografico di «Amministrare», agosto 1995, n. 2, Il Mulino. SERGIO RISTUCCIA, Corte dei Conti, Enti locali, Regioni, Maggioli-Queste Istituzioni Ricerche, 1992.
dossier
Il mercato tra etica e diritto
Vi sono territori, settori di studio e di scelta, dove l'economia, il diritto, la politica si incontrano e la riflessione scientifica (analitica) e quella etica (valutativa e prescrittiva) non possono reciprocamente ig'norarsi. Ha ancora un senso (e noi crediamo di si), parlare di diritti indisponibili, di chances di vita irrinunciabili? Ci chiediamo, nella conclamata crisi del welfare state che vuoI preludere forse so/tanto ad una nuova stagione degli egoismi (si veda su Queste Istituzioni: Sergio Ristuccia, nell'introduzione al numero monografico L'economica politica della crisi, n. 25, 2° semestre 1978; Aaron WiLdawsky, Per un'analisi delle "public poikies", n. 41, 1 O semestre 1981; e il dossier Democrazia, privatizzazioni e mercati, n. 101-1 02, gennaio-giugno 1995), se la tutela della salute, la protezione dei rischi da infortuni, la difesa interna ed esterna debbano rimanere oetto di politica pubblica soltanto quando si tratta di comporre interessi o difavorirne alcuni piuttosto che altri. Su queste p1gine abbiamo già spiegato perchÊ propendere per un'alleggerimento delle finzioni statali. L'analisi economica del diritto contribuisce ad una migliore analisi degli effetti economici di determinate scelte, in modo a'i consentire la previsione delle probabili conseguenze sul sistema economico di una, data opzione politica o di una data norma 33
giuridica. Intende, inoltre, dimostrare la non necessari et1Ï dell'apparato statale per - ri muovere gli effetti dello stesso f2z1limento del mercato ". Riguardo a quest'ultima posizione, però, le condizioni di misurabilità di tali 'ffetti sono assunte dalle varie teorie in modo arbitrario, o anche mediante celate tautologie.
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L'etica del discorso economico di Stefano Z amagni*
Il documento Democrazia economica, sviluppo e bene comune (EDB, Bologna, 1994) pubblicato tempo addietro dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana) si caratterizza per non pochi elementi di novità e di interesse. In ogni caso offre l'occasione per riflettere su etica ed economia-partendo da spunti non consueti. L'orizzonte della riflessione in campo economico si trova ad essere grandemente dilatato rispetto alle formulazioni precedenti, molto spesso contraddistinte da una certa povertà dell'apparato categoriale con cui si tenta di interpretare la realtà e da una qualche ripetitività nella riproposizione monotona dei criteri morali di giudizio. Il documento in esame pone invece con forza l'urgenza di una progettualità capace di leggere i problemi dell'assetto economico-istituzionale italiano alla luce delle istanze morali che emergono dalle profonde trasformazioni in atto in una società ormai post-industriale. L'intento delle note che seguono non è di discutere la plausibilità o l'aderen* Preside della Facoltà di Economia, Università di
Bologna.
za alla realtà italiana dell'analisi ivi condotta, ma di cogliere la rilevanza delle proposizioni avanzate per una rivisitazione critica del fondamento etico del discorso economico. Si tratta di un esercizio utile? Penso che la risposta affermativa discenda dal fatto che, come è ormai ai più chiaro, l'economia non possa fare a meno, oggi, di intrattenere uno speciale rapporto con l'etica - proprio come accadeva, sia pure per ragioni diverse, ai suoi albori disciplinari. Invero, se il problema dell'economista è quello di costruire una macchina logica che consente di valutare gli effetti di ogni dato provvedimento economico su una data collettività, la trascuranza feedback sul "carattere" degli uomini è un espediente lecito e appropriato. Ma ciò non deve farci dimenticare che, nella realtà, quella retroazione esiste e che i suoi non considerati (dall'economista) effetti, se anziché compensarsi si cumulano, cambiano la collettività esaminata. Se l'economista, adducendo il motivo che non è suo compito indagare gli effetti delle scelte e decisioni economiche sul comportamento umano, pre-
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scinde da queste vere e proprie mutazioni culturali, lo fa a suo rischio e soprattutto a rischio di coloro che dipendono dai suoi consigli. IL RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE
Prendo le mosse dalla osservazione, oggi largamente condivisa, secondo cui la democrazia economica esige sì delle regole, delle procedure per l'arbitraggio dei conflitti, ma anche, e soprattutto delle convinzioni e dei valori per sostenere e orientare le mediazioni necessarie, per fissare gli ordini di priorità nel processo di distribuzione dei beni tra i cittadini. Per rendersene conto, occorre considerare che fino a poco tempo fa, la dimensione etica del discorso economico ha riguardato essenzialmente due insiemi di questioni: quella dell'efficienza e quella della distribuzione del reddito e/o della ricchezza. Si è così sviluppata un'ampia letteratura volta a fissare, da un lato, i limiti etici cui il raggiungimento dell'efficienza in un'economia di mercato deve sottostare e, dall'altro, i requisiti minimi che una distribuzione dei beni o delle risorse tra gli individui deve rispettare per risultare accettabile sul piano morale. La questione affatto nuova che oggi intriga la coscienza morale dell'economista è la seguente: quanto grande deve essere la sfera del mercato inteso quale istituzione socio-economica? Vale a dire, quali categorie di 36
beni e servizi vogliamo che siano prodotti e distribuiti secondo le regole del mercato? E chi o come è possibile arrivare a delimitare la sfera del mercato in tutti quei casi il mercato sarebbe tecnicamente in grado di intervenire? Come si comprende, una questione del genere ben poco a che vedere con il problema dell'efficienza, o con quello della giustizia distributiva. Essa riguarda piuttosto la scelta fra fini alternativi e non già la scelta dei mezzi migliori per conseguire un dato fine. Questo indica cheia natura del problema economico di oggi è qualitativamente diversa da quella del problema economico di ieri. E dunque che è necessario dilatare l'orizzonte per arrivare a proporre soluzioni economicamente efficaci e sopratutto credibili. Il rinvio alla categoria delle motivazioni e dei valori diviene perciò ineludibile. Ma qual è il "luogo" dove le motivazioni si dispiegano e i valori vengono forgiati? Non certo lo Stato - a meno di resuscitare tesi inaccettabili del tipo "stato etico" - né, a maggior ragione, il mercato - il quale è certamente ancorato ad uno zoccolo di valori ma non è esso stesso in grado di generarli, pur risultando uno strumento assai efficace al loro consolidamento. Questo "luogo" non può che essere la società civile, intesa quale insieme articolato di soggetti collettivi intermedi. Oggi, sembra ormai acquisito che è la società civile che "crea" il mercato ed è lo Stato che lo "sostiene"median-
te una fitta rete di regole e di istituzioni socio-economiche. Il mercato è compatibile con culture diverse - ed infatti c'è mercato sia negli Usa sia in Giappone che in Germania e così via - ma la diversità dei presupposti culturali non è senza effetti sull'efficienza dei risultati del mercato stesso. Il mercato deve dunque essere "progettato" perché esso possa produrre il più grande bene per il più grande numero. Ecco perché occorre ripensare, in modo originale, le relazioni tra mercato, Stato e società civile. Possiamo visualizzare le nostre società avanzate come vasti sistemi di distribuzione di ogni sorta di beni: beni privati (tipicamente beni e servizi mercantili); beni pubblici (istruzione; sanità; sicurezza; previdenza); beni relazionali (quelli la cui utilità dipende essenzialmente dalla particolare trama di relazioni in cui sono inseriti richiedenti e offerenti). Il problema è allora quello di sapere quali tra questi beni siano suscettibili di essere distribuiti secondo le regole del mercato e dello Stato e quali esigano invece un altro modo di distribuzione e, in questo caso, quale. Come si comprende, si tratta di una sfida formidabile che mette in forse non poche obsolete categorie di pensiero economiche. E ciò per la semplice ragione che quanto più un sistema avanza lungo il sentiero dello sviluppo economico tanto più la composizione relativa delle varie categorie di beni
muta nella direzione di un aumento della domanda dei beni pubblici e relazionali rispetto a quella dei beni privati. La sfida, perciò, non è tanto quella di modificare o perfezionare i meccanismi di funzionamento dell'istituzione mercato - lavoro questo comunque necessario e sulla quale c'è peraltro una sostanziale convergenza di vedute - quanto piuttosto quella di tracciarne i confini, di definire cioè il vettore dei beni che si vuole vengano prodotti e distribuiti attraverso il mercato.
REGOLE DI MERCATO E VALORI
La provata superiorità del mercato come generatore di efficienza non esclude, anzi richiede, un insieme rigoroso di regole sia a tutela di quegli interessi diffusi che il mercato non può da solo soddisfare, sia a tutela della libertà di concorrenza contro le varie forme di oligarchia. D'altra parte, la presenza pubblica in economia che le regole della libertà richiedono è quella dello Stato limitato - non minimo - e dello Stato garante. Nello Stato limitato e garante dei diritti, le opinioni sui contenuti della cittadinanza nascono dalle iniziative dei cittadini e da un diffuso associazionismo nelle società civile. Questo approccio sostanzialmente nuovo al discorso sull'economia dei mercato è, in buona parte, dovuto al fatto che, dopo il crollo dei sistemi a socialismo reale, è venuta meno la ne37
cessità della legittimazione ideologica del mercato come garanzia delle libertà democratiche ovvero come baluardo credibile contro i rischi del collettivismo. Giova sottolineare che è stata proprio questa funzione vicaria svolta dal mercato a spiegare perché, per così tanto tempo, si sia andati avanti passando sotto silenzio e sorvolando sulle sue insufficienze e su certi esiti perversi ad esso attribuibili. Quando sono in gioco valori fondamentali come quello di libertà - così si argomentava - non è prudente attardarsi a discettare sui difetti e sui fallimenti di mercato. Si è così passato sotto silenzio che non è vero che c'è libertà perché c'è il libero mercato, essendo invece vero che il mercato è libero in quelle società dove è assicurata e perseguita la libertà. Per afferrare il punto, conviene richiamare alla mente una particolare dimensione del mercato, quella del mercato come istituzione socio-economica e non già quella, assai più studiata, del mercato come meccanismo di allocazione delle risorse e di promozione delle attività economiche. Il mercato si badi - è un'istituzione sociale nel doppio significato di questo termine: rappresenta la cristallizzazione legittimata e tramandabile di comportamenti socialmente sanzionati e, in quanto tale, deve essere "istituita", cioè deve essere creata. Impresa questa che richiede tempo, razionale progettualità e condizioni storiche favorevoli. 38
Non vi sarebbe forse ragione per richiamare l'urgenza di tale prospettiva di discorso se non fosse che pregiudizi, da tempo contestati sul piano scientifico, hanno ancora grande vitalità nella opinione corrente e nella politica. Ne viviamo - con conseguenze inquietanti non soltanto per i Paesi direttamente interessati - un esempio epocale in questi anni in cui si è diffusa l'idea che nei Paesi del socialismo reale bastasse levare il coperchio del sistema burocratico di governo dell'economia per far rinascere "naturalmente" e "spontaneamente" un'economia di mercato. Ormai è a tutti chiaro che così non è. Proprio perché il mercato non è parte della natura umana - ed infatti è un prodotto della storia - i suoi principi regolativi devono essere inscritti nella cultura degli agenti coinvolti. La costruzione di un'economia di mercato è dunque un processo lungo e faticoso e, occorre aggiungere, socialmente costoso. Così è stato originariamente. Perché si potesse giungere a un sistema sociale basato su una rete di mercati autoregolantesi, è stato necessario che si creassero mercati, cioè che si assegnassero prezzi o valori a "merci" che non erano generalmente ritenute tali. E la società reagiva alla estensione delle regole di mercato a comportamenti in qualche modo ritenuti appartenenti a sfere protette della vita associata. Al pari di ogni altra istituzione socia-
le, il mercato incorpora norme che regolano la produzione, io scambio e il consumo dei beni, norme che, mentre sono ricettive di verti calori, sono insensibili ad altri. A loro volta, queste stesse norme favoriscono e sostengono certi modi condivisi di interpretare le relazioni tra individui e, per questa via, pròmuovono l'affermazione di un particolare ideale di persona e di società. L'identificazione precisa delle norme fondative dell'istituzione mercato è indispensabile per arrivare a definire i confini desiderati della sfera mercantile; a definire cioè quali categorie di beni siano propriamente oggetto di transazioni di mercato e quali non Io siano. Non si dimentichi, infatti, che una caratteristica notevole delle moderne società capitalistiche è rappresentata dalla circostanza che il mercato tende a controllare la produzione e la distribuzione di beni precedentemente prodotti e distribuiti all'interno di altre istituzioni socio-economiche. Ecco perché è necessario conoscere quali dimensioni di valore le regole del mercato tendono a incorporare e a sanzionare culturalmente. IL "VOTO" DEI CONSUMATORI
Una caratteristica delle moderne economie di mercato non è stata ancora sufficientemente presa in considerazione in letteratura, nonostante la sua rilevanza per la nozione di democrazia
economica. Secondo il ben noto principio della sovranità del consumatore, questi può vincolare le decisioni dei governanti e, più in generale, indirizzare le loro politiche, acquistando o rifiutando di acquistare beni o servizi sul mercato. Nella misura in cui ciò è vero, in consumatori "esprimono un voto" con il loro denaro anziché con schede elettorali e tale voto risulta, per certi aspetti, ancor più efficace di quello espresso con le schede elettorali. Ma, a ben considerare, si tratta di un voto stranamente limitato. È vero che, in tal modo, il consumatore può votare a favore o contro ciascuna delle varietà di prodotti e servizi che gli vengono offerte dal mercato. Ma nessuno di noi può votare in questo modo per decisioni quali quelle concernenti le scelte della tecnologia, della localizzazione delle attività industriali, dell'organizzazione del lavoro, dei metodo di assunzione dei manager e così via. Ancor più specificamente, non possiamo votare sui grado desiderato di inquinamento dell'aria e dell'acqua. Tali decisioni sono "delegate" ai manager delle imprese senza che le scelte del consumatore abbiano alcun potere sulle loro decisioni. Si osservi che tale problema nulla ha a che vedere con la ben nota questione delle estrenalità o dei danni a terzi. Il problema, piuttosto, è che si tratta di danni che io subisco, quale parte di uno scambio, e rispetto ai quali non posso tutelarmi "votando" con il mio 39
denaro. Il meccanismo del mercato non offre alcuna procedura che consenta che tali decisioni delegate possano essere in qualche modo controllate dal consumatore. L'argomentazione classica secondo la quale i consumatori possono controllare i detentori del potere decisionale nella sfera della produzione di beni e servizi viene così fortemente ridimensionata. Nella teoria economica tradizionale, l'assunto di base è che l'unico interesse dei consumatori, riguardo alle decisioni delegate, consista nel fatto che esse siano attuate nel modo più conveniente possibile. Si assume infatti che è la concorrenza tra imprese a costringere gli uomini d'affari ad adottare decisioni economicamente vantaggiose. Pertanto, per ogni dato bene, il manager non può che scegliere, poniamo, la tecnologia e la localizzazione al costo più basso. Nella realtà, le cose non si pongono in termini così semplici. Data la complessità tecnologica dei moderni processi produttivi, non esiste una unica soluzione di costo minimo per i problemi di soluzione. Di fatto, i manager dispongono di un ampio potere discrezionale sul quale i consumatori non possono esercitare pressoché alcun controllo coercitivo, eccetto quello teso alla riduzione dei costi. Inoltre, proprio per le caratteristiche che la tecnologia moderna ha assunto, i consumatori sono, oggi interessati a questioni quali la localizzazio40
ne delle attività industriali, l'uso di prodotti chimici utilizzati nell'industria e così via - questioni che influenzano direttamente il loro benessere - in un modo che non ha pari nel passato, più o meno recente. Il vecchio assunto in base al quale le decisioni delegate non rivestono alcuna importanza per i consumatori non è pertanto più accettabile: i consumatori si interessano a tali decisioni, eppure, all'interno delle norme di mercato, essi non possono esercitare, rispetto alle stesse, alcuna forma decisiva di controllo. Questo limite della norma democratica nel sistema di mercato può essere corretta, e viene di fatto corretta, con politiche ad hoc. Ad esempio, la regolamentazione governativi dell'attività economica - si pensi alla regolamentazione di ampi settori della produzione industriale o delle stesse relazioni industriali - può sanare tali imperfezioni, alle quali i consumatori non possono porre rimedio "votando" con il danaro. IL MERCATO E IL «PARADOSSO DELLA LIBERTÀ»
Dall'argomento precedente si trae un'importante applicazione. Nel cato, vi sono almeno due parti che si contendono in favore di una terza (compratore o fornitore che sia). I due "attori" tentano di procurarsi il favore del terzo sapendo che solo uno di loro vi riuscirà. Questa è la natura propria
della concorrenza. Il "premio" verrà aggiudicato al più abile, al più capace, al più veloce. Lincapace, il più costoso, il più lento dovrà rinunciare. È così che opera - come si sa - la celebre mano invisibile. Pertanto, un mercato che funziona rappresenta il più sociale dei distributori di beni scarsi. Mi sia consentito porre l'accento sulla qualificazione: un mercato che funziona. Ora, se in un mercato che funziona tende a sopravvivere unicamente la parte più capace, quella meno adatta andrà a scomparire. Alla lunga, rimane solo il monopolista: il mercato ha abolito se stesso. Ci troviamo di fronte al paradosso della libertà, un paradosso che, sul versante della politica, trova il suo correlato nella libertà di eleggere un• dittatore. Nella pratica, i Paesi risolvono tale paradosso introducendo nelle loro costituzioni una legge che vieta di eleggere un dittatore. Come può essere risolto il medesimo paradosso nell'arena economica? In quest'ultima, è come se la mano invisibile lavorasse con un'astuzia fatale: da un lato essa crea "utilità" consentendo a ciascuno di perseguire il proprio interesse, ma il modo specifico in cui tale utilità viene creata genera una tendenza controproducente. Poiché la mano invisibile, nell'accezione smithiana, si basa suila concorrenza degli egoismi, essa è costretta a dare la palma del vincitore all'egoista più capace che riesce a sconfiggere la concorrenza; Sembra, quindi, che politica
e economia siano guidate da due mani invisibili: l'una indirizza l'egoismo dei molti vero il bene comune; l'altra opera mettendo a repentaglio il successo della prima attraverso un intrinseco potere di compensazione. Ecco perché il libero mercato deve essere tutelato dal paradosso della libertà. Questo è un punto importante che deve essere tenuto presente. Ma come tutelano? Per quanto possa sembrare strano, non esiste alcun risposta sicura a tale quesito fondamentale. Si può tuttavia convincentemente argomentare che tre "elementi sociali" si dimostrano necessari - anche se non sufficienti - affinché un'economia di mercato possa dirsi tutelata dal paradosso della libertà. Si tratta: della rete di protezione sociale; della ridistribuzione proprietaria; dell'istituzione e della disciplina di condizioni di scambio libere ed eque. Questi elementi sociali sono altrettante parti costitutive di un ordine economico che vuole dare concreta ed efficace attuazione ad un'economia di mercato. Si badi che non si tratta qui di raggiungere un compromesso tra il libero scambio e le esigenze della solidarietà. Al contrario, questi elementi sociali formano i requisiti costitutivi della struttura di un'economia di mercato che voglia dirsi funzionante. La necessità di una rete di protezione sociale deriva dal riconoscimento del fatto che l'economia di mercato necessita di partecipanti che non solo devo41
no essere tutelati dalla fame, ma che hanno anche il diritto, in quanto partecipanti, di vivere una vita dignitosa e di ricevere un aiuto sufficiente in caso di bisogno. D'altra parte, il mercato necessita non soltanto di partecipanti in grado di sopravvivere, ma anche di una riorganizzazione continua delle opportunità di ricominciare il gioco di mercato. Si tratta di qualcosa di più del semplice obiettivo di assicurare ciò che è essenziale. Si tratta piuttosto di proporre ai soggetti un nuovo patto attraverso la ridistribuzione delle opportunità economiche. Infine, la disciplina dello scambio ha a che vedere con il fatto che le asimmetrie informative e soprattutto la incompletezza dei contratti tendono a modificare endogenamente le regole di funzionamento degli scambi in un modo da provocare crampi - a volte paralizzanti - alla mano invisibile. Si comprende allora perché la mancanza di questi elementi sociali diventi alla fine una minaccia serie alla libertà. COME CONCILIARE LIBERTÀ ED UGUAGLIANZA
Le considerazioni precedenti trovano un'importante campo di applicazione al discorso su un nuovo modello di stato sociale. Uno dei requisiti di equità più ovvi in una società avanzata è che i termini di partecipazione di ciascun membro sia42
no in qualche modo eguali. È d'altro canto ovvio che uno dei tratti umani più comuni è la palese diversità dei bisogni e delle capacità individuali. È dunque assurdo ripartire egualmente ruoli e risorse tra gli individui, col che una teoria credibile dell'equità deve dimostrare come i termini di affiliazione o di inclusione forniscano un'eguaglianza di base quanto ai diritti e ai doveri, permettendo al contempo l'esistenza di disuguaglianze (di reddito, di potere, ecc.) corrispondenti ad alcuni bisogni o contributi rilevanti dei singoli o dei gruppi interessati. Esiste un principio o un insieme di principi secondo cui è possibile affrontare entrambe le questioni (quella dell'eguaglianza di base e quella delle diseguaglianze ammissibili) in modo da poter stabilire se un sistema di relazioni complesso sia equo o meno. Conosciamo, in letteratura, le risposte di Rawls, di Nozick, di Hayek, delle teorie socialiste. Per ragioni diverse, che non è il caso qui esaminare, tali risposte non paiono oggi soddisfacenti, né più accettabili. Una prospettiva di discorso diversa parte dalla constatazione che gli individui hanno alcuni bisogni fondamentali che nascono indipendentemente dalla loro posizione nel sistema produttivo e in quello familiare. Tali bisogni sono comuni a tutti, in quanto sono parte della condizione umana. I termini di affihiazione o di inclusione, quindi, comprendono un'eguale offer-
ta di risorse per soddisfare i bisogni fondamentali comuni, ma non per soddisfare i bisogni e le preferenze individuali, quelli cioè legati ai progetti di vita individuali. In altri termini, l'uguaglianza dovrebbe essere assicurata da una forma di aiuto fornita dallo Stato in una sola sfera, che permetterebbe sia la partecipazione attiva degli individui alle altre sfere, sia la distribuzione di altri beni sociali secondo principi diversi. Un'impostazione del genere consentirebbe la conciliazione di libertà e eguaglianza, entrambi elementi fondamentali dell'equità. Infatti, offrendo un'incondizionata sicurezza rispetto ai bisogni fondamentali a tutti i cittadini, questi vengono messi in grado di partecipare in modo paritetico alle altre sfere. Secondariamente, ogni individuo deve essere libero di perseguire, oltre il livello costituito dai bisogni di base, i propri progetti di vita e di acquisire le risorse necessarie allo scopo. In terzo luogo, gli individui sarebbero in grado di partecipare alle più svariate forme di cooperazione sociale, distribuendo una varietà di beni secondo principi diversi sulla base dell'associazione volontaria. Poiché ognuno vede garantiti i propri bisogni di base dalle misure statali, egli non dipende da alcuna forma di cooperazione per soddisfarli. Col che, la cooperazione potrà dirsi autenticamente volontaria e si potranno negoziare su base paritetica i termini fondamentali di coope-
razione, compresi i ruoli lavorativi e familiari. Un approccio all'equità che tenti di porre l'uguaglianza alla base della cooperazione, invece di servirsi della redistribuzione per rendere equo il risultato finale, offre il vantaggio di lasciare agli individui molta libertà di organizzare le proprie associazioni cooperative e di adattare i benefici alle diverse e soggettive concezioni del benessere personale. Chiaramente, ciò significare che le quote attribuite non saranno uguali ma differenziate e potranno apparire ingiuste agli occhi di un osservatore esterno. Ma se a tutti vengono garantiti i bisogni fondamentali, allora si potrà uscire senza alcun rischio da qualsiasi associazione cooperativa (e persino dall'ambito lavorativo) senza essere privati dei mezzi di autonoma sussistenza. In definitiva, il miglior modo di conciliare libertà e uguaglianza non è quello di applicare gli stessi principi a tutte le sfere della cooperazione sociale e di esigere l'equalizzazione del benessere in ciascuna di esse o dimostrare che tutti traggono benefici da particolari disuguaglianze come vuole cc Rawls col suo principio di differenza". Al contrario, esso consiste nel definire i bisogni di base degli individui e nell'usare la sfera politica per il loro soddisfacimento. A sua volta ciò consentirebbe alle altre sfere di ripartire equamente i beni sociali che sono loro propri. È questa l'idea centrale di un 43
nuovo stato sociale: soddisfare i bisogni di base dell'individuo prima che questi faccia ingresso nel mercato del lavoro o nelle altre sfere della vita sociale. SUPERARE IL PESSIMISMO
Quale il senso ultimo del discorso qui abbozzato? Quello di indicare una possibile nuova via d'accesso della riflessione teorica in campo economico. Si tratta in breve di questo. È un fatto che il clima d'opinione si sta oggi orientando verso una visione pessimistica della natura umana. Pare emergere un chiaro consenso sull'assunto che la maniera più facile e meno rischiosa per realizzare un qualunque progetto sia quella di partire dal presupposto peggiore - che le persone sono egoiste, pigre, edoniste, opportuniste e così via. Il mondo viene visto come la foresta di hobbesiana memoria, privata di ogni senso della comunità e popolata da cittadini che sono incapaci di generare un sia pur minimo cambiamento. Secondo questa immagine, l'unico modo per garantire un ordinato e produttivo funzionamento della società è quello di affidarsi alla disciplina; e la disciplina può essere mantenuta solo attraverso incentivi materiali. Secondo questa interpretazione pessimistica della natura umana, le persone sono intrinsecamente incapaci di creare una comunanza di obiettivi pratici e devono 44
pertanto essere assoggettate ad un sistema di potere e alle dure regole del mercato. In anni recenti, il messaggio centrale proveniente dagli studiosi del comportamento è che gli uomini sono esseri fondamentalmente egoisti. I biologi sostengono che il comportamento è in ultima analisi determinato da stimoli esclusivamente materiali, e che l'inarrestabile funzionamento della selezione naturale finisce per far soccombere tutti gli organismi che non sfruttano le opportunità di guadagno personale loro aperte. Gli psicologi affermano questa stessa tesi, evidenziando il significato pervasivo degli stimoli materiali nel processo di apprendimento. Gli economisti, dal canto loro, fanno fede orgogliosamente sulla forza dell'interesse personale per spiegare e prevedere i comportamenti, non solo nel mondo degli scambi ma anche nei sistemi di relazioni sociali. E tuttavia resta il fatto evidente che non pochi sono coloro che non possono essere identificati attraverso l'immagine cariIC caturaie aen io per primo Ebbene, il punto che si tende troppo spesso a trascurare è che le nostre credenze circa la natura umana concorrono a plasmare la natura umana stessa. Invero, ciò che noi pensiamo circa noi stessi e le nostre possibilità determina, almeno in parte, ciò che aspiriamo a diventare. Non solo, ma le teorie sul comportamento economico concorrono a mutare i nostri comportamenti I
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effettivi. È in ciò il nucleo centrale del problema della «doppia ermeneutica" tra teoria economica ed agenti economici così come esso è stato affrontato dalla riflessione più recente. L'idea della doppia ermeneutica sta a significare che le teorie economiche si applicano a un mondo costituito dalle attività di agenti concettualizzanti e teorizzanti. Ciò vuole dire non solo che chi teorizza sul mondo economico fa costitutivamente parte di tale realtà, ma anche che i soggetti verso cui è rivolta l'analisi, in quanto capaci di riflessione, sono in grado di modificare il loro comportamento sulla base di queste analisi e teorie. In questo senso, l'effetto più deleterio della dottrina del self-.interest e della nozione di razionalità che su essa si fonda è quello di farci credere che un comportamento che si ispiri a valori diversi da quello dell'interesse personale conduce al disastro economico. Incoraggiandoci ad aspettarci il peggio negli altri, tale dottrina del genere finisce col limitare enormemente l'utilizzabilità, a fini pratici, di disposizioni quali l'altruismo e la fiducia, dal momento che essa considera queste
disposizioni come fossero qualità intrinseche del carattere umano anziché connotazioni posizionali dovute a certe configurazioni dell'interdipendenza sociale. L'idea che esiste un conflitto ineluttabile tra opzioni morali e incentivi materiali, tra solidarietà e efficienza o che uno di questi elementi possa operare efficacemente in assenza dell'altro, è un aspetto ingenuo e anacronistico della nostra eredità intellettuale. Esso è smentito dall'esperienza storica oltre che dalla più rigorosa riflessione teorica. Ritengo sia questo il messaggio sintetico che una lettura non distorta e non pregiudiziale del documento della CEI lasci chiaramente trasparire. Esso invita a considerare l'insufficienza della concenzione formalista, ancora prevalente in economia, con la sua pretesa di risolvere ogni conflitto e controversia separando forma e contenuto e ponendosi alla ricerca di norme e istituzioni che siano «neutrali", che non presuppongano cioè alcuna adesione a valori o assunti culturali e dunque siano accettabili da parte di qualunque agente, non importa in quale contesto storico sia inserito.
Questo articolo è già stato pubblicato in «Note economiche del Monte dei Paschi di Siena», anno XXW, n. 2, 1994.
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Il diritto nell'economia di mercato di Andrea Ventura*
Da tempo si parla di "analisi economica del diritto". Nell'affrontare il dibattito sulla validità e sui limiti di questa disciplina o linea di pensiero, si pone l'esigenza di fornire un chiarimento preliminare riguardante l'uso stesso della dizione "analisi economica del diritto", frequentemente utilizzata per definire in maniera estensiva quel vasto campo di studi e di ricerche, di diversa impostazione, riguardanti il rapporto tra il diritto e l'economia. In realtà, anche per esigenze di chiarezza, è opportuno dare a tale dizione un significato più ristretto e corrispondente alla lettera dell'espressione, cioè alle analisi del diritto condotte attraverso gli strumenti propri dell'analisi economica. L'analisi economica del diritto si avvia con il "teorema di Coase", nel tentativo di affrontare le diverse problematiche del rapporto tra economia e diritto a partire dall'affermazione del principio dell'efficienza del mercato. Principio che si trovava già posto in discussione da quella parte del pensiero
* Ricercatore di Politica Economica (Facoltà di Scienze Politiche, Firenze).
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neoclassico risalente a Pigou, che aveva condotto l'attenzione sui "fallimenti del mercato". L'impostazione data al problema del costo sociale da Ronald Coase nel suo lavoro del 1960 si contrappone, infat-' ti, in modo diretto all'analisi piguviana. Secondo quest'ultima, in presenza di effetti esterni, l'insieme dei prezzi e delle quantità prodotte dal funzionamento di un mercato autoregolato è inefficiente perché, in ultima istanza, i prezzi di riferimento a cui avvengono gli scambi non riflettono più tutti i costi e i benefici connessi alla produzione e al consumo dei beni, ma soltanto quelli che trovano un corrispettivo in uno scambio oin un contratto. In mancanza di un intervento pubblico correttivo si alterano, quindi, tutti i termini del calcolo economico. Sulla base del nucleo del contributo di Coase, successivamente noto come "teorema di Coase", le ineflìcienze derivanti dalle esternalità vengono spiegate con la mancanza del mercato, non con il suo fallimento. Ristabilito con Coase il principio dell'efficienza del mercato, si è sviluppatò un vasto e articolato tentativo di utilizzare le me-
todologie specifiche dell'analisi economica per affrontare quell'ampia serie di problemi, direttamente ed indirettamente, connessi agli effetti esterni dell'attività economica; Ne vengono, ad esempio, investite questioni attinenti alla validità del principio pigoviano "chi inquina paga", ai criteri di valutazione delle regole di responsabilità civile, sia in generale (con riferimento al problema del rischio e della responsabilità oggettiva), sia in relazione a specifici settori di applicazione (come la responsabilità del produttore per l'adozione di processi produttivi pericolosi o per prodotti difettosi), alla definizione dei diritti di proprietà e dei conflitti tra lo svolgimento di attività di diversa natura, alla responsabilità contrattuale etc. E, sebbene i maggiori successi dell'analisi economica del diritto si siano registrati negli Stati Uniti, anche per l'esistenza di un sistema di Common Law che ne facilitava l'applicazione, gli effetti di questo filone di pensiero, per la rilevanza dei problemi affrontati e l'apparente linearità delle soluzioni proposte, non sono rimasti affatto limitati all'esperienza statunitense. L'analisi economica del diritto propone, quindi, la verifica della conformità del sistema legale al sistema di mercato, con implicazioni di fondo che possono essere sinteticamente delineate in questi termini: a) in linea di massima, stabilire l'malienabilità di una risorsa è causa di
inefficienza. Essa, ostacolando gli scambi, eleva i costi di transazione che invece devono essere ridotti al minimo con un'adeguata definizione dei diritti di proprietà, oppure assegnando questi ultimi alla parte che può operare sul mercato a costi inferiori. b) Nei casi di incompatibilità o di conflitto tra attività di varia natura, l'analisi economica del diritto propone un criterio di efficienza centrato sulla "compensazione ipotetica". Come è noto, il criterio di compensazione stabilisce che una posizione è inferiore ad un'altra se, nel passaggio dall'una all'altra, coloro che ne risultassero danneggiati non possono essere compensati dagli avvantaggiati, mantenendo per questi ultimi un margine di guadagno. Questo criterio è stato lungamente discusso dagli economisti negli anni Quaranta e Cinquanta nel tentativo di superare la concezione paretiana dell'efficienza, che risultava troppo restrittiva degli ambiti di competenza della politica economica; esso è stato poi ampiamente criticato, sia nella versione di Kaldor-Hicks sia in quella di Scitovsky, perché può risultare indeterminato a causa della modifica dei prezzi di riferimento che si verifica nel passaggio da una posizione ad un'altra, e può dare degli esiti inaccettabili dal punto di vista distributivo perché la compensazione dei danneggiati è soltanto ipotetica. Ma, nell'ambito dell'approccio di Coase, come vedremo, i 47
prezzi sono dati, cosicchè viene cancellata l'indeterminatezza del criterio; mentre i presupposti relativi all'esclusione dall'analisi degli effetti di reddito e alla separazione tra efficienza ed equità, sempre ribadita in nome della "scientificità" dell'analisi economica, impedisce che vengano considerati gli aspetti distributivi connessi al problema della compensazione dei danneggiati. Quindi, il criterio paretiano (dello scambio volontario), che è stato difeso in quanto dovrebbe proteggere la sfera privata del singolo da interferenze esterne, si risolve nel suo opposto, in un diritto all'esproprio assegnato a singoli, ai best users secondo la dizione usata nell'ambito dell'analisi economica del diritto. c) Con l'assimilazione dei costi di transazione agli altri costi economici è possibile, con rigore «logico", difendere il aissez-faire per mezzo di affermazioni del seguente tenore: "Se costa troppo, a chi respira lo smog, allestire uno scambio che induca gli emittenti a ridurre l'emissione di sostanze inquinanti, ne segue necessariamente che, nonostante gli strani odori, si è già raggiunto un livello ottimale di inquinamento"I. Analogamente Guido Calabresi, combinando il teorema di Coase con l'affermazione che la società deve ridurre la somma dei costi diretti e indiretti degli incidenti e di funzionamento del sistema giuridico, trova argomenti a favore della possibilità di lasciare alle vittime il costo de48
gli incidenti stessi criticando, in tema di responsabilità civile, il principio della responsabilità oggettiva2 . Scelte giuridiche che tengano conto di esigenze di giustizia sociale o di tipo distributivo, sarebbero fonte di inefficienza in quanto contrastanti con il riferimento all'analisi economica. L'analisi economica del diritto propone, quindi, l'utilizzo del metro delle capacità di pagamento per la risoluzione di varie questioni giuridiche, anche attinenti alla vita umana. Si genera un contesto in cui, oltre alle conseguenze sopra elencate, può ad esempio essere fornita una giustificazione di tipo "razionale" all'esportazione di rifiuti tossici, di produzioni nocive, ed in genere alla distruzione dell'ambiente nei Paesi più poveri, consentendone parimenti una certa difesa nelle aree a più alto reddit0 3 . Sebbene in Europa questo filone di pensiero non abbia avuto l'ampia diffusione raggiunta invece negli Stati Uniti, e ciò possa essere considerato senz'altro un fatto positivo, i suoi sviluppi e il nucleo teorico che lo sostiene hanno comunque indebolito il principio di derivazione pigoviana secondo cui "ogni attività deve sostenere tutti i costi che genera". Questo, pur accolto in varia forma a livello comunitario e in sede OECD4 , ha trovato finora un'applicazione del tutto insufficiente. Uno dei motivi di ciò può essere ricercato nel fatto che sia ormai
prevalente l'accettazione dell'impostazione di Coase. Con l'aggravarsi delle problematiche ambientali e l'accrescersi della consapevolezza della necessità di correzioni di fondo ai meccanismi del mercato, gli economisti hanno tolto al criterio pigoviano il necessario sostegno teoric0 5 . Non solo, ma va osservato che il messaggio di fondo dell'analisi economica del diritto viene progressivamente assimilato da un'ampia parte della cultura politica e giuridica, sebbene il contrasto tra la presunta neutralità dei principi dell'analisi economica e l'inaccettabilità delle conclusioni che scaturiscono dalla loro applicazione emerga anche all'interno di lavori che pur si richiamano a codesta impostazione. Frequentemente tali conclusioni vengono mitigate, negate, oppure visi contrappongono esigenze di giustizia, o morali , individuando un trade-off tra l'efficienza e l'equità, in un contesto in cui la seconda esce sconfitta dalle apparenti certezze raggiungibili con gli strumenti dell'analisi economica. Non viene, invece, approfondita la ricerca sulla stretta connessione esistente tra il carattere dogmatico dell'analisi economica e la violenza delle indicazioni che da essa discendono logicamente. A monte di qualsiasi valutazione sulle soluzioni specifiche ai diversi problemi prospettate dall'analisi economica del diritto, risulta essenziale condurre l'attenzione sulla solidità e sul signifi-
cato dei fondamenti di questo filone di ricerca, all'interno dei quali il teorema di Coase e la definizione paretiana dell'efficienza assumono un rilievo particolare. IL TEOREMA DI COASE Attorno al teorema di Coase si è sviluppato un ampio dibattito6, che però è risultato focalizzato soprattutto sulla sua coerenza logica, trascurando invece di evidenziare il significato delle ipotesi implicitamente e esplicitamente poste da Coase nel definire il contesto in cui il costo sociale viene discusso. È necessario invece mostrare come le conclusioni sull'efficienza del mercato, a cui si giunge con l'uso del teorema, siano totalmente dipendenti dalla scelta di queste ipotesi che, a loro volta, contengono implicitamente le indicazioni poi evidenziate dall'analisi economica del diritto. Riprendendo sinteticamente l'argomento di Coase, il problema del costo sociale viene esemplificato dal caso in cui un allevatore possiede una mandria che danneggia il raccolto di un vicino agricoltore. Una volta stabilito sul piano legale se sia l'allevatore ad essere responsabile del danno, o se invece sia il coltivatore a dover sostenere i costi della perdita del raccolto, i due soggetti, in assenza di costi di transazione, effettueranno spontaneamente delle contrattazioni relative al49
la dimensione della mandria, trattando l'effetto. esterno dannoso come se fosse una qualsiasi merce di scambio. Coase dimostra quindi che è interesse di entrambi raggiungere un accordo efficiente, cioè quella posizione di equilibrio che massimizza il valore della produzione delle due attività, e che le inefficienze derivanti dalle esternalità possono essere spontaneamente corrette dal mercato senza alcuna necessità di introdurre forme di tassazione pigoviana o di intervento pubblico. Inoltre, l'esito del processo di scambio sarebbe indipendente dall'iniziale assegnazione del diritto. Il costo sociale è così ridotto all'interno di un contesto in cui l'assegnazione e 10 scambio dei diritti non si distinguono più in nulla dall'assegnazione ad un soggetto di una qualunque merce liberamente cedibile sul mercato al miglior offerente. Inoltre, è dato per risolto in partenza il problema dell'efficienza dei prezzi di riferimento per gli scambi che, come accennato, nell'impostazione pigoviana emergeva come uno dei principali motivi di fallimento del mercato in presenza di esternalità. Mantenendo, poi, le stesse ipotesi di assenza di costi di transazione e di prezzi dati per situazioni con numerosi danneggiati e danneggianti, Coase avrebbe dimostrato che, in via di principio, il mercato sarebbe efficiente in quanto in grado, appunto, di condurre automaticamente a quel50
l'equilibrio che massimizza il valore della produzione. In conclusione, le inefficienze economiche verrebbero spiegate con l'assenza del mercato, non con il suo fallimento, e la definizione iniziale del diritto non sarebbe influente sulla posizione di equilibrio. È importante focalizzare l'attenzione sul fatto che ciascuna delle ipotesi, implicitamente o esplicitamente introdotte da Coase nel costruire il contesto in cui è discusso il problema del costo sociale, comporta l'eliminazione aprioristica di ciascuno dei diversi termini in cui esso si presenta: anzitutto la possibilità di effettuare degli scambi, presupposta da Coase, implica che i problemi giuridici posti dalla presenza di effetti esterni siano già risolti con la riduzione del diritto all'ambiente ad un diritto di proprietà e, più in particolare, ad una merce scambiabile sul mercato. Inoltre, come già ricordato, l'analisi è basata sul presupposto che per i beni prodotti e per i danni della produzione (e quindi per questo diritto di proprietà relativo all'ambiente), esistano prezzi efficienti già fissati da qualche altra parte nell'economia; in realtà l'inefficienza dei prezzi di riferimento per gli scambi è una delle principali conseguenze della presenza degli effetti esterni, e la valutazione economica dei danni della produzione sull'ambiente e sull'uomo presenta spesso difficoltà insormontabili.
Infine particolarmente rilevante, anche per quanto si mostrerà successivamente, è l'ipotesi dell'assenza di costi di transazione. Come già osservato, questa ipotesi risulta connessa alla trasformazione del diritto in merce, consentendo di effettuare degli scambi senza alcun genere di ostacoli. Ma, con l'estensione della stessa ipotesi a situazioni dove i danneggiati e i danneggianti non sono solo due ma molteplici, si sviluppa un ragionamento circolare, in quanto si cancella alla radice quella che, dallo stesso lavoro di' Coase, emergerebbe come "causa" ultima delle inefficienze: se queste vengono ricondotte all'impossibilità di effettuare degli scambi, ai "costi di transazione", cioè ai costi di funzionamento del sistema di mercato, è evidente che senza inefficienze (senza tali costi) il mercato diviene efficiente per definizione7 In definitiva, la collocazione dello "scambio" in un contesto di equilibrio parziale 8 - dove i prezzi dei danni e dei beni sono già dati - e l'eliminazione ipotizzata degli ostacoli e delle inefficienze negli scambi, consentono a Coase di dimostrare che la soluzione efficiente è unica e indipendente dalla definizione dei diritti di proprietà 9 Quindi, le due note conclusioni del teorema (secondo cui in assenza di costi di transazione il mercato è efficiente, e la soluzione efficiente è unica) scaturiscono da ragionamenti circolari svolti in un contesto in cui non vi è .
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più traccia delle reali problematiche connesse all'esistenza di costi della produzione che si ripercuotono sull'ambiente e sull'uomo: il "teorema di Coase" è soltanto una tautologia. COSTI DI TRANSAZIONE ED EFFICIENZA PARETIANA L'approccio alle esternalità definito dal teorema di Coase è comunque ampiamente accettato da gran parte della teoria economica, e l'analisi economica del diritto rappresenta una delle implicazioni di quest'impostazione. Essa infatti ha al suo centro tale teorema, come se con esso fosse stata dimostrata in modo scientifico, oggettivo, l'efficienza del mercato e la sua priorità "logica" rispetto al sistema giuridico. Preme ora condurre l'attenzione, non tanto sugli elementi metodologici che hanno condotto ad accettare una proposizione di principio alla cui base vi è l'eliminazione, per ipotesi, dei problemi di cui invece si dovrebbe discutere, ma al significato dell'analisi economica del diritto e, più in particolare, al rapporto tra uso delle ipotesi e loro implicazioni giuridiche, e al modo in cui, sulla base di un presupposto sostanzialmente tautologico, sono stati suggeriti ai giuristi i criteri di efficienza per la definizione e l'attribuzione dei diritti, a cui si è accennato in precedenza. A tal fine, è necessario focalizzare l'at51
tenzione sul concetto di costo di transazione e sui significato che, in sua presenza, assume il criterio dell'efficienza paretiana. In particolare, il costo di transazione risulta centrale sia sui piano delle spiegazioni del fenomeno delle esternalità in termini di "assenza di un mercato", sia su quello delle indicazioni che vengono proposte dall'analisi economica del diritto. È possibile, quindi, evidenziare come tali indicazioni siano già contenute nella scelta delle ipotesi su cui poggia l'analisi teorica. Come si è visto, con il teorema di Coase, per mezzo delle ipotesi dei prezzi dati e dei costi di transazione nulli, verrebbe stabilita "logicamente" l'unicità e l'efficienza dell'equilibrio di mercato. L'importanza di questa proposizione non risiede nel rilievo empirico, affatto limitato, che hanno le situazioni in cui i costi di transazione sono nulli, ma nell'applicazione del teorema in situazioni concrete dove tali costi sono presenti, ed è qui che si sviluppa in modo specifico l'analisi economica del diritto. Questa impostazione infatti utilizza il teorema di Coase per asserire la necessità che, ove possibile, i costi di transazione siano ridotti, onde agevolare il funzionamento del mercato, oppure che i diritti stessi siano assegnati in modo conforme a quella che sarebbe una situazione ideale di efficienza in cui i costi di transazione fossero nulli, pena l'inefficienza del sistema economico. 52
Ma cosa sono, in definitiva, questi costi di transazione? Accettando l'impostazione corrente, secondo cui le inefficienze economiche vengono spiegate dall'assenza di un mercato e questa assenza a sua volta ricondotta alla presenza dei ricordati costi di transazione, risulta evidente che essi sono costituiti da "tutti i costi di funzionamento del sistema economico" (Arrow 1969, p. 60). In altri termini, dai costi di condurre le risorse al mercato e di avere un loro utilizzo conforme al criterio dello scambio, cioè delle capacità di pagamento: così, come diretta conseguenza della spiegazione delle inefficienze, qualsiasi ostacolo al mercato diviene fonte di inefficienza. Per comprendere appieno il significato e le implicazioni di questa impostazione, è necessario proporre un breve inciso sul criterio paretiano, criterio utilizzato come definitorio dell'efficienza economica nell'ambito della III nuova economia aei oenessere . so, definito in un contesto statico, con risorse date, consentirebbe di separare logicamente le questioni di tipo redistributivo, che sarebbero attinenti alla sfera politica e presuppongono dei riferimenti a giudizi di valore, da quelle connesse invece al problema dell'efficienza, di competenza della scienza economica. I miglioramenti paretiani vengono definiti come quelle modifiche dell'esistente che avvantaggiano almeno qualcuno, senza che nessuno venga
danneggiato; questa definizione però rende coincidenti le modifiche dell'esistente conformi al criterio parenano con lo sfruttamento dei margini di guadagno nello scambio, e le posizioni efficienti nel senso di Pareto con gli equilibri nello scambio. Infatti, due individui autointeressati effettuano degli scambi di merci soltanto in presenza di margini di guadagno, cioè se almeno uno di essi può esserne avvantaggiato senza che l'altro ne risulti danneggiato, mentre gli scambi stessi si interrompono se uno degli scambisti dovesse subire una perdita. L'osservazione dell'assoluta coincidenza, nel contesto definito dall'economia neoclassica, tra il criterio paretiano e le leggi dello scambio di mercato, cioè tra inefficienza (o efficienza) paretiana e esistenza (o inesistenza) di margini di guadagno nello scambio, consente di affermare che il criterio paretiano fa riferimento ad un rapporto sòciale: esso, cioè, riprende sul piano logico la definizione dei rapporti di mercato. Con l'uso del criterio paretiano come criterio di scientificità, da un lato, l'economista utilizza come misura dell'efficienza la norma del mercato, riprendendo come cardine metodologico la logica che guida sui mercato le scelte individuali autointeressate' 1 , e dall'altro i rapporti di mercato assumono una veste neutrale, scientifica, e possono essere posti su di un piano prioritario rispetto a legami sociali di altra natura.
Inoltre, assumendo come misura dell'efficienza il criterio dello scambio, e perciò le leggi del mercato, si rendono dogmatiche tutte le varie dimostrazioni dell'efficienza del mercato ottenute con un uso di ipotesi finalizzato all'eliminazione aprioristica dei fenomeni che generano le inefficienze. Ci si soffermi infatti su come è costruito il principio dell'efficienza del mercato e come tale principio è stato riaffermato grazie all'approccio proposto da Coase: l'efficienza è definita riprendendo, come criterio di scientificità, i rapporti di mercato, e quindi senza costi di transazione, cioè senza inefficienze, il mercato è efficiente. In definitiva, questa teoria ha al fondo un nucleo tautologico, il cui significato è costituito dal tentativo di proporre la definizione logica dei rapporti di mercato come criterio di scientificità e di efficienza. Per questo gli ostacoli al mercato, cioè i costi di transazione, sarebbero fonte di inefficienza. CONSEGUENZE DELL'ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO
Cosa rappresenta in definitiva l'analisi economica del diritto? Come possono essere valutati gli spostamenti dei presupposti di partenza dell'analisi economica conseguenti l'accettazione del teorema di Coase? L'analisi qui proposta consente di delineare le risposte a queste domande. Anzitutto emerge il rilievo essenziale, 53
prioritario, non neutrale, che assume la scelta delle ipotesi e lo sviluppo dei ragionamenti a carattere tautologico sopra delineati. Questi, in sintesi, non dimostrano l'efficienza del mercato, piuttosto cercano di definire e difendere una concezione dell'efficienza economica che ha come esclusivo riferimento le regole del mercato. L'analisi economica del diritto propone poi una valutazione della sfera giuridica in relazione alla sua conformità con le regole del mercato. Essa, fondandosi su di una particolare definizione dell'efficienza economica - quella paretiana che, come mostrato, ha alla base il rapporto di mercato - va discussa e valutata nel suo tentativo di riportare sul piano giuridico quel rapporto particolare: va, quindi, valutata come proposta politica e non come applicazione neutrale di una teoria scientifiÈ in definitiva, la particolare concezione dell'individuo e dei rapporti sociali da cui muove l'economia neoclassica - centrata sulla logica della proprietà, della massimizzazione dell'utile economico e dell'interesse individuale - che per mezzo dell'analisi economica del diritto viene estesa, dal terreno strettamente economico dei rapporti di mercato, alla sfera giuridica. Con la centralità assegnata alla logica del mercato si sviluppa una tendenza all'annullamento di tutti quegli elementi sociali e politici ad essa non riconducibili 12 .
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Inoltre, con le tecniche ricavate applicando le regole del mercato al sistema giuridico, la società "automatica" liberale troverebbe un compimento. L'attrattiva dell'introduzione di automatismi nelle scelte collettive va individuata nella circostanza che, per mezzo della loro applicazione, l'elemento politico connesso all'individualismo possessivo, di cui gran parte della teoria economica è portatrice, viene spostato sul piano dei principi teorici e nascosto dal carattere tecnico del dibattito. Anche grazie alla saldatura di questo elemento politico con il carattere "tecnico" del dibattito, esso acquista una valenza di tipo CCoggettivo È anche importante osservare come, impostando l'analisi a partire da ipotesi e presupposti astratti senza che ne venga riconosciuto il carattere arbitrario, si ottiene uno stravolgimento: nel contesto generato da tali presupposti, l'arbitrio sembra invece connesso all'introduzione nell'analisi teorica e nelle politiche pubbliche di considerazioni legate all'equità, o comunque non riconducibili all'interno della logica del calcolo razionale 13 Infine, con l'accettazione acritica di questa impostazione in tutti i suoi elementi (sia cioè nel carattere arbitrario dei presupposti sia nella meccanicità e nella presunta neutralità del metodo), chi studia o interviene in campo politico e giuridico perde la consapevolezza della responsabilità connessa al fatto di agire nell'ambito di un legame .
sociale. Tale consapevolezza viene perduta nel momento in cui, al fondo, riprendendo la logica del mercato, un rappòrto sociale particolare è assunto come criterio di scientificità. Trova così attuazione, anche sul piano delle scelte collettive, una concezione della
giustizia sociale che ricalca quella lucidamente espressa da Hayek, secondo cui nell'ambito dell'ordine di mercato sarebbe impossibile stabilire ciò che è socialmente ingiusto "poiché non esiste alcun soggetto da cui possa essere commessa tale ingiustizia" 13 .
* Questo lavoro riprende e sviluppa alcuni temi proposti in un intervento al "Convegno di analisi economica dei diritto" di Siena dei dicembre 1992: Cari J. Dahlman(1979, p. 57). 2 Cfr. Andrea Ventura(1990). Sviluppando l'approccio di Coase, Buchanan e Stubblebine (1962) definiscono il concetto di "esternalità rilevante in senso paretiano": non è sufficiente l'esistenza di un effetto esterno perché si abbia un'inefficienza economica, ma è anche necessario che chi lo subisce sia teoricamente in grado pagare l'inquinatore per indurlo a modificare volontariamente il proprio comportamento. Così, lo stesso effetto esterno è inefficiente o meno a seconda del reddito di chi lo subisce: "La misura dei costi dei danni sulla salute derivanti dall'inquinamento dipende dai guadagni perduti a causa dell'aumento delle malattie e della mortalità. Da questo punto di vista, una data quantità di inquinamento dovrebbe essere rivolta verso il Paese che ha costi inferiori, che sarà il Paese dove i salari sono più bassi. Penso che la logica economica dietro lo scarico di rifiuti tossici nei Paesi a salari più bassi sia impeccabile, e che dovremmo tener conto di questo" (((the Economist», 812/1992, The World Bank's Green Gaffe, mia traduzione). L'affermazione di L. Summers, ripresa dall'Econornist da un memorandum della World Bank, ha suscitato sconcerto ed è stata successivamente corretta e qualificata. Il problema è che il rifiuto ditali conclusioni non si accompagna ad una critica approfondita del nucleo dell'analisi teorica che le sostiene (Cfr. anche «the Economist», 15/2/1992). Cfr. Marisa Meli (1989). 5 A differenza dell'approccio di Coase, il criterio pigoviano impone la necessità di una internalizzazione
dei costi esterni, e rimane anche aperto alla possibilità di una trattazione parzialmente differente del rapporto tra efficienza ed equità. Questo problema specifico è discusso in modo approfondito in Andrea Ventura (1994). 6 In questa sede, l'analisi critica del teorema di Coase verrà limitata alle sue due proposizioni essenziali (in assenza di costi di transazione il mercato è efficiente, e la soluzione efficiente è unica e indipendente dalla assegnazione dei diritti di proprietà), mentre una discussione più articolata del teorema e del dibattito sul problema del costo sociale è esposta in Andrea Ventura (1994). 7 L'irrealismo dell'ipotesi dell'assenza di costi di transazione è ampiamente sottolineato nella letteratura. Non altrettanto si può dire del suo carattere strumentale. Essendo inftti comprensiva della perfetta informazione, l'assenza di costi di transazione può essere utilizzata per "dimostrare" tutto ed il contrario di tutto. Sulla base dell'impostazione coasiana, con tale ipotesi si riafferma in via di principio l'efficienza del mercato, ma analogamente sarebbe possibile "dimostrare" anche l'efficienza di un'economia interamente pianificata o della imposta pigoviana, divenendo infatti possibile calcolarne l'esatto ammontare al fine di conseguire l'ottimo economico; ed è curioso che l'uso ditale ipotesi risulti affiancato a critiche all'imposta pigoviana basate sulle difficoltà pratiche di applicazione (cfr. ad esempio lo stesso Coase 1988, p. 277 e segg.) Sul costo di transazione (e sull'analisi economica del diritto in genere), si vedano anche le osservazioni di Ferruccio Mengaroni (1989). 8 "Certamente se l'allevamento del bestiame implicasse normalmente la distruzione dei raccolti, la nascita di un'industria dell'allevamento farebbe au-
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mentare il prezzo dei raccolti coinvolti e allora gli agricoltori esteriderebbero le loro coltivazioni. Ma vorrei confinare la mia attenzione al punto di vista del singolo agricoltore" (Ronald Coase, 1960, p. 202). Questa limitazione al singolo (cioè al carattere parziale dell'equilibrio) non è stata rispettata né da Coase né dall'analisi economica del diritto. Se i prezzi non venissero introdotti nell'analisi di Coase come dati, emergerebbe la loro dipendenza dalla definizione dei diritti e quindi cadrebbe la possibilità di definire una assegnazione unica, "efliciente" ditali diritti. La priorità logica del mercato si mostrerebbe insostenibile. Cfr. Staniszlaw Wellicz (1964). 10 Il criterio dell'efficienza come definito da Pareto assume una valenza differente nell'approccio neoclassico, che è quello a cui è maggiormente legata l'analisi economica del diritto, ed in quello neo-austriaco che è invece alla base della "Public Choice". Quest'ultima non accetta la possibilità di una valutazione esterna degli esiti del processo di mercato, piuttosto il mercato ha una sua razionalità che è solo procedurale. Quindi, in via di principio, non si potrebbe utilizzare l'analisi economica per suggerire delle politiche pubbliche in contrasto con gli interessi dei singoli e quindi con i cardini dell'individualismo metodologico (cfr. Andrea Ventura, 1991). L'analisi economica del diritto invece, come vedremo, facendo essenzialmente riferimento al criterio di compensazione, risolve il principio paretiano dello scambio volontario nel suo opposto, in un sistema di scambi imposti, o meglio, essendo la compensazione solo ipotetica, in puri e semplici espropri. 1 Detto in altri termini, la definizione logica di un rapporto sociale particolare, che implica l'annullamento del valore dell'individuo come tale, diviene il criterio di scientificità dell'economia politica. 12 "Il solo genere di preferenze che conta in un sistema di massimizzazione della ricchezza è quindi quello sostenuto dalla moneta - in altri termini - che è registrato sul mercato" (Richard Posner, 1979, p. 119, mia traduzione). Ciò trova corrispondenza nella concezione dell'uomo centrata sul concetto di proprietà, a cui va ricondotta sia la centralità del concetto di costo di transazione, inteso come ostacolo al mercato e perciò alla proprietà, sia l'esteso uso di formalizzazioni matematiche che si osserva in ambito neoclassico: nella teoria e nel metodo vengono annullati tutti quegli elementi sociali (individuali e
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collettivi) non riconducibili all'interno del calcolo razionale, e quindi non trattabili sul mercato, sotto forma di modellizzazioni matematiche. 13 FrederickAugust von Hayek (1982, p. 281).
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dossier
Pubblica amministrazione: formare gli uomini
La recente temperie di nuove leggi ha lasciato tutti frastornati: amministratori e cittadini. Agli entusiasmi iniziali dovuti alla meraviglia per i "nuovi giocattoli" normativi si è sostituito, soprattutto da parte dei privati, un senso di attesa, infastidita ed incredula, di comportamenti e soluzioni innovative ai consueti problemi: disorganizzazione, lentezze, privilegi. La componente burocratica ha certamente delle responsabilità, ma non tutte. Come da tempo stiamo denunciando da queste stesse pagine, la "vacanza" di decisioni politiche legittimate e durature non conduce certo ad un ruolo responsabile degli amministratori. E neppure può ulteriormente protrarsi, in un ordinamento che voglia dirsi democratico, la supplenza delle competenze amministrative nei confronti di quelle atte a delineare un compiuto indirizzo politico. "Formare": termine multisenso che ha valenze preziosissime nel campo delle istituzioni, le quali, poi, sono proprio gli elementi che «mettono informa" la dinamica singolo-società. E proprio di una preparazione culturak e tecnica efficiente ed eticamente motivata che abbiamo bisogno, cioè di persone che non vogliano sempre giocare a somma zero, per prendere o perdere tutto. Il tema frturo andrà quindi scritto utiliz59
zando le attuazioni pratiche del concetto di 7'ormazione' di preparazione civica ai nuovi modelli di sviluppo, senza la quale non c'è amministrazione. Come, ovviamente, non ci sono politica e democrazia.
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Sistema elettorale e amministrazione pubblica in Germania di Dian Schefo ld*
La Legge Fondamentale (GrundGesetz) tedesca, pur disciplinando alcuni principi del diritto di voto - stabilisce che il voto deve essere generale, diretto, libero, uguale, segreto (art. 38 1°c L.F.) - prescinde dalla disciplina del sistema elettorale, così come la Costituzione italiana. Allo stesso modo, la Legge Fondamentale tedesca contiene alcune, poche, regole sull'amministrazione pubblica che per altro è disciplinata da leggi molto diverse, con finalità differenti e per niente uniformi. Si tratta pertanto di due materie, di due campi di diritto, che non hanno nulla a che vedere l'uno con l'altro: le riforme amministrative non riguardano il sistema elettorale, salvo che in relazione ad aspetti marginali come, ad esempio, quando le riforme territoriali coinvolgano anche i collegi elettorali. Sistema elettorale ed amministrazione sono, dunque, due mondi indipendenti? Non esattamente. Per quanto riguarda l'Italia, per esempio, non sfugge che le riforme elettorali del 1993 facciano parte di un dibattito
* Professore di Diritto Pubblico all'Università di Brema.
ben più ampio circa grandi cambiamenti istituzionali. Ne consegue che è sempre necessario inserire la riforma elettorale nel contesto di altre innovazioni, comprese quelle dell'ordinamento amministrativo. Il tema è di particolare attualità, alla luce soprattutto del risultato delle prime elezioni italiane dopo la riforma; risultato che ha già avuto effetti importanti per l'amministrazione, specie per la dirigenza. Se ne possono dedurre due conclusioni opposte: si può p0stulare e giustificare un tale impatto; si può invece criticarlo e dedurre dalla riforma elettorale la conseguenza necessaria, o almeno desiderabile, di riforme istituzionali rispetto alla posizione costituzionale dell'amministrazione. Queste conclusioni, soprattutto la seconda, sono state discusse, fra l'altro, nel saggio di Sabino Cassese su maggioranza e minoranza che mi sembra abbia posto con forza la questione. Ci si può infatti chiedere se riforme istituzionali determinate dall'orientamento maggioritario possano mitigare lo stesso influsso maggioritario, ovvero se le stesse non si risolvano nella costituzionalizzazione di uno spoils system. 61
Lasciando in sospeso i quesiti, tratterò in una prima parte molto breve di questo articolo, la problematica dell'effetto maggioritario nel sistema elettorale tedesco e poi, in modo un po' più dettagliato, i principi e le istituzioni che ne mitigano l'influsso sull'amministrazione. Tenterò, infine, di arrivare ad alcune conclusioni.
GLI EFFEITJ DEL MAGGIORITARIO
Il dibattito sul sistema elettorale tedesco, senza dubbio precedente a quello suscitato dalla riforma elettorale in Italia, non è da quest'ultimo molto differente, sia per i temi che per i toni della discussione. Certo, il sistema tedesco è, di principio, un sistema proporzionale. E le correzioni di questo principio sono molto più moderate di quelle italiane attuali. In particolare, la quota proporzionale nel diritto elettorale tedesco è nolto più alta (50 per cento) che in Italia e, per dirlo nella terminologia italiàna, lo scorporo dei seggi vinti direttamente è totale, cosicchè il totale dei seggi è distribuito sulle liste rappresentate in Parlamento di modo quasi del tutto proporzionale. Fanno eccezione i cosiddetti mandati di "sovrarappresentazione" (Uberhangmandate), tema molto importante per l'attuale legislatura di Bonn, che meriterebbe un discorso a parte. Dall'altro canto, anche in Germania ci sono seggi vinti nei collegi uninominali secon62
do il maggioritario, in presenza fra l'altro di una clausola di sbarramento assai più incisiva del corrispettivo sulla Camera italiana, ma non applicata se un partito vince tre seggi nei collegi uninominali a sistema maggioritario. Tutte queste eccezioni sono state peraltro contestate in relazione alla loro legittimità costituzionale. Inoltre, è in vigore in Germania un divieto di liste collegate, che rende difficile l'esistenza dei partiti minori sotto il limite dello sbarramento. Da questo sistema risulta un modello d'accentramento su pochi grandi partiti, con notevoli difficoltà d'affermazione per le forze politiche nuove. Questa linea è risultata chiara fin dagli inizi della Repubblica Federale, ma si è affermata decisamente dal 1957 al 1980, quando a Bonn erano rappresentati soltanto tre gruppi parlamentari. Ma anche con l'entrata dei Verdi - nel 1983 prima e 1987 poi, tramite i deputati dell'Est ne! 1990 e nuovamente nel 1994 - e con l'ingresso dei deputati del Pds della Germania Est (1990 e 1994), la maggioranza governativa è sempre stata garantita, determinando quella stabilità dell'esecutivo tedesco, tanto nota quanto elogiata ed invidiata da molti italiani. Pertanto, si può e si deve affermare che il sistema elettorale tedesco contiene un pericolo di abuso di potere da parte della maggioranza, soprattutto se questa si impadronisce immediatamente delle leve di comando della
pubblica amministrazione. Ed è questo il problema, molto ben conosciuto ed antico in Germania, che è divenuto particolarmente attuale in Italia. Ma, a prescindere dalla disciplina dell'amministrazione, già sotto il profilo dell'influsso del sistema elettorale sulla forma di governo, sono necessarie due precisazioni per poter valutare il carattere del principio maggioritario. Da un lato, le maggioranze governative a livello federale non sono mai state monopartitiche, ma si sono sempre avuti governi di coalizione. La maggioranza, infatti, presuppone la coalizione e pertanto l'accordo di almeno due partiti, il compromesso e pertanto anche la moderazione. Il reciproco controllo delle parti che costituiscono la coalizione pone un freno al potere maggioritario. Dall'altro lato, i cambiamenti di coalizione non avvengono mai in maniera radicale: è sempre un soggetto della vecchia coalizione che entra anche nella nuova, garantendo così un elemento di continuità. Per di più, occorre sottolineare che l'elettore tedesco, votando il programma di una coalizione di partiti, non ha mai deciso con l'urna un cambio di governo; i cambiamenti di coalizione hanno sempre avuto luogo durante la legislatura. Unica eccezione sono state le elezioni del 1969, quando però non era chiaro, fino al giorno prima, quali partiti intendessero coalizzarsi. Ecco pertanto una prima considera-
zione: malgrado il sistema elettorale tedesco porti a formare maggioranze governative esplicite, il potere di queste maggioranze viene moderato dalla genesi pluralistica, lenta e mediata di queste stesse maggioranze. LE INFLUENZE SULLAMMINISTRAZIONE PUBBLICA
Quando si prendono in esame le conseguenze che il sistema maggioritario determina sull'amministrazione pubblica, occorre tenere in considerazione problemi, regolamenti ed istituzioni molto distanti fra di loro e con rapporti l'uno con l'altro non sempre ovvii. La problematica dell'ingerenza del governo sull'amministrazione pubblica è, in primo luogo, da inquadrarecome disciplina dell impiego pubblico e comprende, quindi, anche la dirigenza. Si tratta innanzitutto delle garanzie per il singolo dirigente, per il funzionario e per l'impiegato sui piano legale, ma anche su quello dei controlli della legalità e sotto il profilo costituzionale. Il tutto poi si collega ai «principi organizzativi" dell'amministrazione federale che, in certi campi, contengono garanzie di indipendenza, in altri, strutture più o meno favorevoli all'assoggettamento di talune attività amministrative al potere politico. Occorre però tener conto che l'amministrazione della Repubblica Federale tedesca è, per la maggior parte, ammi63
nistrazione dei Laender così il problema dell'influenza del governo federale sparisce totalmente o quasi, mentre sorge la problematica di un influsso del governo del Land. Infine, occorre tener conto del fatto ché l'autonomia locale (dei Kreise, circondari, e dei Comuni) complica ulteriormente la problematica.
I tratti fondamentali A differenza di quanto avviene in Italia, il diritto tedesco dell'impiego pubblico non distingue - almeno esplicitamente - tra dirigenti e impiegati. Le differenze sono altre. Fra le più importanti vi è quella tra l'impiego disciplinato dal diritto pubblico dei funzionari veri e propri, e l'impiego di personale disciplinato dal diritto del lavoro - nella gran parte dei servizi tecnici ausiliari, anche con contratti a termine - regolamentato attraverso accordi collettivi tra sindacati e ministeri, e mediante codeterminazione della rappresentanza del personale, i quali prevedono un'efficace difesa dei diritti e dello status degli impiegati e dei lavoratori, lasciando poco spazio allo spoils system. Naturalmente esiste la figura dell'impiegato di diritto privato, cui vengono affidati compiti speciali e temporanei - in particolare per precise esigenze politiche od economiche - che collabora con singoli politici o gruppi parlamentari o ministri. La posizione di costoro dipende direttamente dalla formazione politica
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di governo: in genere godono di poche garanzie, non hanno la "sicurezza del posto"; in questi casi non si può dire di essere nel campo della pubblica amministrazione, semmai in quello della politica. Problemi più seri sorgono sul piano delle imprese pubbliche, in Germania come in Italia, dove lo spoils system può davvero condizionare i vertici degli enti economici pubblici. Molto diversa 'è la posizione dei funzionari di diritto pubblico, disciplinata da leggi speciali: una legge-quadro federale (BRRG) fissa i principi del pubblico impiego che si concretizzano in una legge federale (BBG) per i funzionari federali e nelle leggi dei Laender per i funzionari di questi ultimi. Tutte queste leggi si rassomigliano molto, grazie ai dettati costituzionali e alla tradizione amministrativa tedesca: l'art. 33 della Legge Fondamentale garantisce i principi dell'impiego pubblico, soprattutto l'eguaglianza dei diritti 'per l'accesso che deve avvenire unicamente sulla base dell'idoneità, della capacità, del rendimento, senza vincoli politici ed ideologici, per la salvaguardia della tradizione di una funzione pubblica di carriera. La "legislazione di cornice", la normativa sugli stipendi e quella sulle pensioni sono di competenza della Federazione. Così, il diritto dell'impiego pubblico tedesco è anzitutto garantista e protegge da un lato i diritti del singolo funzionario, dall'altro una disciplina tradizionale, anzi conservatrice del-
la materia, che ha assunto particolari significati, per esempio, nel periodo nazista o nel dopo-guerra. Sulla base di questi principi, l'amministrazione pubblica ed suoi addetti sembrano sufficientemente protetti da ogni ingerenza del governo. Tuttavia, i problemi sono parecchi: il primo, molto antico ma risorto negli anni Settanta, è determinato dall'obbligo di fedeltà che a mio parere si rifà più a una concezione di "servizio per il principe", piuttosto che a quella di un ufficio pubblico. Questo obbligo di fedeltà, escludendo la Sinistra quasi totalmente dalla funzione pubblica fin dal 1918, fu inserito nella legislazione nazista in quanto obbligo di fedeltà al nazional-socialismo, e fu sostituito nel 1953 semplicemente con l'obbligo di fedeltà all'ordine liberai-democratico costituzionale. Pur senza entrare nei dettagli del "Berufiverboi?', è bene accennare anche alla recente critica da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo circa la parzialità di un'amministrazione pubblica determinata da un obbligo con effetti discriminatori. Rispetto al tema in discussione, è più importante analizzare la prassi per la scelta dei funzionari. La base, per stabilire l'idoneità, come criterio costituzionalmente prescritto, del candidato è, di regola, il concorso pubblico (però, normalmente, per numeri di posti inferiori che in Italia), con procedure di giudizio relativamente og-
gettive, in presenza di un controllo giurisdizionale efficiente. Naturalmente, tutte queste garanzie non escludono però eventuali parzialità: la valutazione di un colloquio con un singolo candidato non può essere assolutamente oggettiva; chi decide misura spesso l'idoneità anche con criteri politici. Ciò diventa ancora più vero quando si tratta di promozioni o di funzioni dirigenziali o di situazioni particolari su cui decide una commissione amministrativa indipendente. In tali casi, infatti, si può rinunciare al bando di concorso; un procedimento, purtroppo, molto frequente che lascia ampia facoltà di manovra all'ingerenza politico-governativa. Una volta nominati, però, i funzionari non possono essere destituiti senza procedimento disciplinare e possono essere trasferiti soltanto con garanzie ulteriori.
La questione dello "stato di pensione provvisorio " A questo proposito, comunque, in Germania è in vigore una disciplina speciale che, in un certo senso, assimila il concetto (italiano) di dirigenza a quello presente nel diritto tedesco. I cosiddetti "funzionari politici" possono essere "trasferiti in stato di pensione provvisorio" in ogni momento. Si tratta delle categorie di funzionari più alte. Del gruppo fanno parte, a livello federale: i segretari di Stato, i dirigenti di grado più alto (capi di divisione), gli alti funzionari del servizio Esteri
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(compresi gli ambasciatori) e dei servizi segreti, i dirigenti dell'ufficio informazione del governo federale, i procuratori federali dirigenti, e infine il delegato per il servizio civile. Per tutte queste posizioni, dunque, un cambio di maggioranza risulta più forte dell'inamovibilità del funzionario, eventualità prevista dalla Legge Cornice (§ 31) per "i detentori di funzioni il cui esercizio richiede conformità con le opinioni politiche fondamentali e gli scopi del governo". Secondo la giurisprudenza, ci sono certe garanzie procedurali che devono essere osservate. Ma la discrezionalità della decisione per le rispettive categorie è quasi illimitata. L'AMMINISTRAZIONE CENTRALE: QUALE GRADO D'AUTONOMIA?
A livello centrale, riscontriamo quindi i ministeri federali, che formano l'amministrazione federale immediata e che sono sotto la competenza dei singoli ministri, coordinati nel Consiglio dei ministri, diretti a loro volta dalle scelte del cancelliere federale. Già questa articolazione molto complessa, e simile a quella italiana, mostra però che in un governo di coalizione un azione uniforme verso 1 adozione dello spoils system - pur limitato alle categorie di funzionari menzionate sarebbe poco probabile. Infatti, nelle svolte di coalizione, spesso i ministri rimasti in carica non cambiano la diri66
genza e altrettanto sovente anche i nuovi ministri, pur affermando politiche diametralmente opposte, lasciano in funzione persino i segretari di Stato. D'altra parte, i ministeri federali sono ben attrezzati ed orientati verso la politica del governo, ma proprio per questo rimangono soltanto strumenti dell'indirizzo governativo-legislativo: preparano i disegni di legge ed esercitano un controllo dell'esecuzione, ma non dispongono di una propria infrastruttura. L'amministrazione federale tedesca finisce con i ministeri. Questa osservazione definisce bene la funzione dei ministeri, ma anche i loro limiti. Infatti, senza dubbio in Germania esiste un'amministrazione federale, ma piuttosto distaccata dai ministeri. Indipendenza che, naturalmente, è garantita ad altre amministrazioni speciali autonome, come le Corti federali, la Corte federale dei Conti, la Banca federale, le assicurazioni sociali (che hanno un diritto di autogestione ampio), gli istituti della grande ricerca. In tutti questi casi, l'influsso politicogovernativo è molto ridotto o nullo. La situazione è spesso la stessa per le imprese nelle mani della Federazione. Negli altri casi, le cosiddette autorità federali superiori (art. 87 - 30 comma della Legge Fondamentale) o enti simili non hanno un'indipendenza costituzionalmente o legalmente garantita e hanno quindi la possibilità di nominare, di promuovere, di trasferire
sulla base di motivi politici, anche per un cambio di maggioranza. Se, dunque, opportunità del genere non possono mai escludersi, occorre però tener presente che tali alti funzionari sono di norma tecnicamente molto specializzati, e diventa pertanto difficile difendere la nomina di un dirigente che non ha competenze specifiche. D'altro canto, le amministrazioni possono godere di notevole autonomia di fatto, anche semplicemente perché non hanno sede a Bonn o a Berlino, ma in altre località della Federazione. Gli strumenti tecnici ci sono, e sulla base di rapporti di collaborazione interna, il responsabile di un ente può presentare le sue proposte e, soprattutto se si tratta di un procedimento che coinvolge un alto dirigente, non si potrà mai fare a meno di ascoltare l'opinione dei componenti dell'ente. Benchè queste procedure ed eventuali proposte non abbiano effetto vincolante, influenzeranno comunque la decisione ministeriale e produrranno l'effetto di mediare la decisione politica. Ciò è ancora più vero quando si tratta di posizioni inferiori, più tecniche, in amministrazioni federali decentrate come la polizia, la dogana, le forze armate. Amministrazioni federali di questo genere, cioè amministrazioni che hanno bisogno di basi costituzionali speciali nella Legge Fondamentale sono però casi eccezionali in Germania. I motivi si trovano nel principio del federali-
smo tedesco: l'esecuzione delle leggi emanate dai Laender, di quelle federali e dell'amministrazione indipendente resta di competenza dei Laender stessi, per quanto la Legge Fondamentale (artt. 30, 83, 86 ss. L.F.) non dia oppure ammetta altra soluzione. Le amministrazioni dei Laender sono determinate anch'esse dai principi dell'impiego pubblico, che si rifanno alla Legge Fondamentale e si concretizzano nella Legge Cornice federale. In questo modo, si ottiene una funzione pubblica coerente in tutto il Paese. Gli stipendi, per esempio, disciplinati dalla Legge Federale, sono uguali dappertutto, mentre il potere federale non influisce sulla scelta, sui trasferimenti, sui licenziamenti, sul pensionamento dei funzionari dei Laender, dipendenti dalla struttura amministrativa del Land. A questo principio ci sono pochissime eccezioni. Per certi campi amministrativi lasciati ai Laender, per i quali però un controllo federale forte sembra indispensabile, la Legge Fondamentale tedesca prescrive la nomina dei capi delle autorità medie (cioè, nei distretti amministrativi sotto il livello governativo dei Laender, comparabili ai Presidenti di Provincia in Italia) in conformità con l'autorità federale e del Land. Questo accade per la cosiddetta amministrazione delegata ai Laender, per esempio in ambito fiscale, per quanto riguarda l'energia nucleare, le autostrade federali e pochi altri campi. 67
Bisogna però sottolineare che si tratta soltanto dei capi dell'amministrazione di livello medio e che l'amministrazione, in quanto tale, rimane di competenza dei Laender. Per di più, il consenso della scelta da parte del governo federale prescritto dalla Legge Fondamentale non dà potere unilaterale, con possibili ingerenze fortemente politiche, ma obbliga a compromessi consensuali. Il che, in casi di contrapposizione politica, favorisce scelte che si basano su argomentazioni oggettive, di mediazione e neutralità. IL CASO DEI LAENDER: PRESSIONI PIU CONCRETE
Per tutti gli altri funzionari ed impiegati dei Laender, invece, non c'è influenza diretta del governo federale sulla nomina. Costoro dipendono esclusivamente dai Laender, così come i funzionari federali dalla Federazione. Pertanto, una svolta politica sul piano federale non ha nessuna conseguenza sull'amministrazione decentrata. La stessa cosa non si può dire per quanto riguarda, invece, le ingerenze politiche dei governi, dei ministeri dei Laender. I problemi del patronaggio sono più gravi a livello dei Laender che a quello federale. Ogni governo di un Laender, ogni ministro facente parte dello stesso, tenterà sempre di fare entrare nella sua amministrazione persone affidabili anche politicamente. Inoltre, la stesse leggi dei Laender spesso facilitano la 68
rinuncia ai concorsi, che comunque possono essere banditi in sordina: il numero dei posti è normalmente abbastanza piccolo. Anche a livello di Laender, come per la Federazione, è possibile collocare i funzionari politici in stato di pensione provvisorio, anche quando, talvolta, è dubbia la valenza politica di una determinata funzione. Si sono verificati episodi di questo tipo e si sono accese polemiche, ma occorre tener conto degli effetti dei sistemi elettorali - simili a quello della Federazione - nei Laender. Possono, infatti, avvenire vittorie di un solo partito a maggioranza assoluta. Allora, i controlli intragovernativi della coalizione spariscono o sono molto ridotti. Anzi, il governo di un partito può durare molto tempo: . pensiamo ai più di trenta anni della Csu in Baviera, ma anche alla posizione determinante per un ampio penodò dei socialdemocratici nelle città anseatiche. In questi casi il governo partitico diventa più duro, più consistente, e cresce la tendenza ad abusare della maggioranza. Questo fenomeno, però, non può coinvolgere tutta l'amministrazione tedesca, ma può avvenire soltanto in certe situazioni, in certi singoli Laender e, nello stesso tempo la minoranza in un Land non può perdere totalmente ogni protezione. Semmai, certi cambiamenti di governo possono determinare l'emigrazione di alcuni dirigenti da un Land all'altro o alla Federazione.
Se dunque il potere della maggioranza sul singolo caso è sempre moderato e non si fa ricorso ad uno "spoils system" generalizzato, ciò non vuoi dire che tracce di un tale sistema non ci siano: tuttavia sono meno evidenti, meno scontate: non possono essere attribuite alla responsabilità di un solo partito, e sono infine, forse anche più correggibili. E di ciò va il merito, pur con qualche limite, al federalismo tedesco. LE AMMINISTRAZIONI COMUNALI
Il quadro si completa analizzando il livello comunale, quello cioè dei Circondari (Kreise) e dei Comuni. Qui l'impiego pubblico è disciplinato secondo gli stessi principi e tramite le stesse leggi dei Laender, ma l'impiego del personale, il diritto di scelta, di nomina, di trasferimento e di collocamento in pensione fanno parte dell'autonomia comunale, costituzionalmente garantita a Circondari e Comuni, nel rispetto della Legge Cornice. Valgono, pertanto, le stesse considerazioni fatte per il livello federale e dei Laender. Anche qui, infatti, i cambiamenti politici su un livello non coinvolgono gli altri: la maggioranza assoluta della Csu in Baviera, per esempio, non impedisce la maggioranza socialdemocratica nella città di Monaco. Ne segue una problematica simile a quella dei Laender. Per i Comuni governati da maggioranze politiche chiare e a
lungo termine, la cementificazione del potere è favorevole a scelte unilaterali. In questo contesto, un interessante dibattito giuridico sta attualmente sviluppandosi in una nuova direzione: i sindaci (borgomastri) dei Comuni e, analogamente, i direttori dei Circondan, sono stati eletti fino ad ora dalle rappresentanze parlamentari sui rispettivi livelli, ma sono impiegati come funzionari, il cui incarico ha una durata limitata, normalmente 5 o 12 anni. Quando c'è un conflitto tra la rappresentanza comunale e il sindaco, poichè non si tratta di un governo politico statale parlamentare, non è possibile un voto di sfiducia, non può avvenire una destituzione poichè non si tratta di un governo politico statale parlamentare. Tuttavia, i conflitti possono essere gravi, e possono bloccare le attività del Comune. Perciò, quasi tutti i Laender hanno previsto la possibilità di una destituzione del sindaco da parte del consiglio comunale, però con una maggioranza qualificata e con garanzie procedurali. La giurisprudenza amministrativa e quella costituzionale hanno approvato queste regole, equiparando i sindaci ai funzionari politici. Questa giurisprudenza è sempre stata molto discussa e criticata, ma negli ultimi anni si è sviluppato un nuovo filone. La tendenza è ora quella di introdurre, in luogo di questa disciplina, l'elezione popolare diretta del sindaco, già conosciuta da tempo nel BadenWurttemberg ed in Baviera. 69
L'elezione diretta rinforza la legittimazione, l'autorità e - direttamente o implicitamente - i poteri del sindaco. In Baviera, per esempio, la possibilità della destituzione non è stata mai prevista: chi la dovrebbe decidere? Un consiglio comunale, secondo le idee tedesche, non può destituire un sindaco che è stato eletto dal popolo! Gli altri Laender, introducendo l'elezione diretta, tentano ora di provvedere alla possibilità di destituzione sotto forma di referendum comunale, o per iniziativa del consiglio, o per iniziativa popolare. IL SISTEMA TEDESCO E QUELLO ITALIANO: NECESSITÀ DI PRECISE GARANZIE
Vorrei tornare sulla problematica menzionata all'inizio e tentare di dedurre alcune conclusioni, come spettatore straniero che certo non può giudicare la politica costituzionale ed amministrativa italiana, ma alla cui ammirazione per la ricchezza del pensiero giuridico italiano sia concesso di applicare le esperienze tedesche riferite. In primo luogo, la comparazione degli effetti dei sistemi elettorali in Germania con le esperienze finora vissute in Italia mi sembra consigliaÈe prudenza riguardo alla qualificazione del sistema italiano come maggioritario. Infatti, la maggioranza uscita dalle elezioni del marzo 1994 in Italia si è rivelata una coalizione e non una maggioranza monopartitica; anzi, una coalizione 70
protempore, per un periodo molto breve, come abbiamo visto. Le riflessioni fatte per la Germania sull'effetto mitigante della coalizione mi sembrano, quindi, pertinenti anche per l'Itaha. Non contesto il motivo evidente della formulazione del mio tema: che ci siano stati abusi, del principio maggioritario inItalia. E non esiterei a criticare tali abusi, come li ho criticati per la Germania. Ma non perdiamo di vista i contrappesi e le garanzie dell'ordinamento italiano e, soprattutto, i limiti temporali, grazie al cambio di coalizione. Forse troveremo i rimedi necessari proprio in questi fenomeni. Segue però, e questo è il secondo punto, che gli abusi incontestabili ci insegnano ad essere prudenti con sviluppi ulteriori, nel senso di un principio maggioritario radicalizzato. Certo, aumentare il premio della maggioranza relativa è tecnicamente possibile. Rende ancora più probabile, anche se non sicura, la creazione di maggioranze parlamentari e governative univoche. Ma sono gli abusi già constatabili e le tendenze riferite dai Laender tedeschi con maggioranze troppo chiare, come ad esempio in Baviera, che rendono problematica una tale prospettiva. Desta interesse che, secondo una dottrina recentemente in crescita in Germania, il principio di eguaglianza di possibilità di vittoria di ogni singolo voto (stabilito dal Tribunale Costituzionale Federale di Karlsruhe) renderebbe incostituzionale un sistema elet-
torale maggioritario. Anche chi voglia ammettere argomenti in favore dell'importanza di collegi elettorali e di maggioranze chiare dovrebbe, comunque, essere cauto nei confronti di violazioni dell'eguaglianza delle possibilità di vittoria per il voto di ogni cittadino. I sistemi elettorali svolgono i loro effetti soltanto lentamente. Lo sviluppo tedesco dal 1949 al 1957 ne è un buon esempio. Sarebbe, mi pare, precipitoso, dopo l'esperienza, come ho detto ambigua, di una sola elezione, riproporre già ora il compito di una riforma elettorale ulteriore in Italia. Inoltre, mi sembra una prospettiva discutibile considerare come peculiare dell'ordinamento tedesco il sistema di forze contrapposte agli effetti del principio maggioritario. Ci sono forze, istituzioni, garanzie di questo genere anche in Italia. Si pensi al sistema dei concorsi probabilmente pii sviluppato che in Germania; si pensi all'indipendenza di tante amministrazioni ed enti che hanno le loro strutture e procedure e che possono opporsi ad una ingerenza maggioritaria unilaterale; si pensi alle strutture autonome ai livelli regionali, provinciali e comunali. Con questo non voglio dire che tali garanzie siano soddisfacenti. C'è molto da fare rinforzando le autonomie, per esempio degli enti televisivi pubblici, e le responsabilità anche finanziarie di tali enti; garantendo procedure di scelta, di nomina e di altre decisioni sull'impiego pubblico. Tutte queste
garanzie però richiedono modifiche di dettaglio, soprattutto a livello legislativo, e forse di alcune maggiori tutele costituzionali. Tutt'altro discorso sarebbe una revisione costituzionale poiché toccherebbe problematiche molto più ampie. Chi potrebbe garantire oggi una tale riforma, la quale, lunghi da rinforzare le garanzie nel senso menzionato, toglierebbe addirittura le garanzie già esistenti Con questa domanda sono alla conclusione. Ordinamenti costituzionali, come soprattutto quello italiano, elaborati da una assemblea costituente in un lavoro che fino ad oggi richiede e merita ammirazione, sono, oltre il loro valore normativo, opere di unà cultura generale, politica e giuridica. Riflettono il livello storico di una società civica. L'esistenza garantita con una tale Costituzione, che certo racchiude fra l'altro anche l'esame di modifiche desiderabili e la riflessione su alternative possibili, contribuisce alla coscienza sociale e fa parte dei valori costituenti di un popolo. Il concetto di "cultura costituzionale", spesso utilizzato da Peter Haberle, mi sembra adeguato a questa situazione. Ora, la vita sotto una Costituzione può produrre, come risultato di un esame seriò, la necessità di cambiamenti. Ma in tale caso, l'alternativa politica dovrebbe essere chiara. Analizzando le proposte ed i suggerimenti, anche gli esperimenti spesso elaborati dal laboratorio costituzionale italiano, mi accorgo 71
sempre piÚ della necessità di garanzie costituzionali rinforzate. Ma non vedo un modello che protrebbe essere una vera alternativa alla mirabile cultura costituzionale italiana. Perciò, nella fa-
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se attuale, tenendo fermo il complesso della carta costituzionale, il compito principale mi sembra essere soltanto quello di una mirata correzione di dettagli.
Dalle percezioni retoriche all'effettività dell'innovazione di Silvestro Russo *
Da anni, l'amministrazione pubblica italiana è attraversata da venti innovativi apparentemente forti, originali e inesorabili, che mirano a renderla più attenta al cittadino, consumatore finale dei servizi pubblici. Eppure, la PA si muove ed affronta le sfide dell'innovazione con difficoltà, apparendo affannata in questa fase e, al contempo, esprime il disagio per l'incomprensione dei fini ultimi e del ruolo che essa è chiamata a giocare nella società. Direi di più: questo evidente smarrimento della PA non è che un sintomo di una patologia sociale, che ci deve far riflettere su ciò che sembra serio (e non lo è) nei processi d'innovazione e su quanto si potrebbe mantenere (e non si vuole) negli apparati organizzativi attuali. Qualunque modello organizzativo della PA, a differenza di altri settori dove gli elementi strutturali giocano un ruolo quantitativamente superiore, è un'organizzazione ad alto contenuto umano, di lavoro, d'intelligenza e di volontà, per cui in essa è veramente decisivo il ruolo degli addetti. Costoro * Consigliere del TAR Campania.
risentono personalmente sia di scelte organizzative di bassa qualità, per effetto delle quali il loro lavoro tende a svilirsi, determinando il deterioramento dei rapporti e l'incomprensione con l'utenza; sia di innovazioni su cui essi non hanno capacità di intervento o di progetto, anche se minimo, e di cui essi percepiscono solo il duplice messaggio negativo dell'impotenza a cambiare le cose e di sfiducia nella loro capacità a farlo. La bassa qualità non consiste tanto nell'esecuzione di un lavoro (purchessia) nella PA, sempre uguale a se stesso, indipendentemente dal contesto; si manifesta, invece, nel crescente divario tra quantità di lavoro eseguito e idoneità di quest'ultimo a soddisfare la domanda d'amministrazione della collettività, intesa come destinataria (collaborante) e non come avversaria (critica) dell'azione amministrativa. La frustrazione degli addetti (si pensi, P. es., ai ben noti fenomeni di disaffezione verso il lavoro amministrativo) scaturisce dalla diffusa consapevolezza che il "posto" senza il "lavoro" è fonte di grande destabilizzazione verso se stessi e nelle interazioni sociali ed im73
plica, a sua volta, un reciproco rapporto di estraneità e di ostilità con l'utenza. Infatti, l'ostilità reciproca si enfatizza ogni qual volta ciascuno chiuso nel proprio ruolo - utenti e addetti - non comprende le difficoltà dell'altro. Se è vero che il rapporto con l'utente è ciò che dà valore e pienezza di significato al lavoro degli addetti amministrativi, è pure indubbio che questi ultimi non danno grande valore ai metodi più corretti per comunicare ai terzi le proprie difficoltà - neppure nei casi in cui occorra regolare i comportamenti ultra vires degli utenti -' per cui costoro percepiscono il solo messaggio dell'arroccamento degli addetti a difesa di loro più o meno comprensibili comportamenti. Emerge così soltanto un approccio conflittuale tra soggetti, mentre il procedimento amministrativo e, più in generale, l'azione amministrativa sono i luoghi giuridici ove si mediano conflitti e reciproci interessi, per il raggiungimento di obiettivi dati. Il paradosso è che tale situazione s'acuisce di pari passo con la consapevolezza che vi sono due significative novità, culturali ed operative - non soltanto per gli utenti, ma per tutti gli attori fondamentali della PA -, del fare amministrazione (non importa se d'ordine o di erogazione): a) - l'abbandono d'ogni supremazia della mera legittimità formale dell'atto amministrativo, se essa prescinde da scel74
te organizzative ottimali e dal grado di soddisfazione reciproca dell'interesse pubblico e degli interessi dei cittadini; - il rimodellamento in continuo divenire dei rapporti tra questi ultimi e la PA stessa, con conseguente ripensamento del ruolo costituzionale dell'erogazione dell'attività amministrativa e delle relative strutture. Gli operatori sanno che, nell'agire amministrativo, ciò che più importa non è tanto riaffermare l'autoritarietà del potere pubblico, formalizzata nel provvedimento amministrativo (e messa in forse dall'eccessiva dilatazione delle amministrazioni di erogazione). La legge appare sempre meno disposta a risolvere a priori i conflitti di interesse e tende a spostare il momento decisionale in capo alla PA non soltanto sulle questioni esecutive, ma pure sui programmi essenziali, onde i singoli provvedimenti sono assunti, più che sulla base d'un interesse pubblico generico, in conseguenza alla dialettica delle ragioni organizzative e dei bisogni di tutti i soggetti coinvolti. Spetta all'interprete (e, in particolare, all'interprete che agisce come responsabile del procedimento) risolvere i conflitti degli interessi in gioco, dando loro un assetto sulla base della chiarificazione dell'interesse pubblico e la gerarchizzazione degli altri interessi coinvolti. Il potere pubblico, una volta individuati correttamente quali siano l'organizzazione ottimale (efficiente ed efficace, in relazione alle ri-
sorse) e gli obiettivi con le. loro implicazioni, assume la relativa decisione, ad effetti giuridici costitutivi e, soprattutto, indipendenti da ogni diverso desiderio dei terzi. Quel che appare più rilevante - e di gran lunga più desiderabile - è cercare di trasferire dal piano logico a quello operativo il concetto per cui non è assolto il compito d'amministrazione soltanto per aver emanato provvedimenti meramente conformi al loro modello legale (rectius, alla di loro sola struttura di massima), senza aver tenuto conto dei relativi costi e benefici. Il soddisfacimento della domanda d'amministrazione avviene soltanto grazie ad un continuo processo di costruzione dei principi del concreto provvedere, processo in cui la PA ridefinisce flessibilmente il proprio ruolo nei confronti del cittadinoutente. Ebbene, l'innovazione amministrativa può esser utile a qualcosa soltanto se fornisce non tanto buoni consigli, ma metodi di convincimento all'efficacia, che trasformino cioè il conflitto tra soggetti (amministratori e utenti) in conflitto tra interessi procedimentalizzati. Viceversa, va stigmatizzata una "retorica" dell'innovazione amministrativa che prescinde dal fattore umano esistente nelle amministrazioni pubbliche e dalla profonda diversità tra le culture del servizio pubblico.
EIBoIzIoNI SIMBOLICHE E VERE RIFORME Ogni modello organizzativo della PA esprime valori e media conflitti che esistono nelle di'.'erse contingenze storiche, all'interno dei vari gruppi di potere e tra questi e i soggetti esterni al potere pubblico. Laddove la mediazione risulti difficile - nel senso che gli attori sociali (o istituzionali) confliggono più che trovare reciproca soddisfazione nella loro interazione il modello va innovato, a seconda delle esigenze: coinvolgendo variabili istituzionali e/o organizzative, o singoli procedimenti o, ancora, i criteri (e i livelli finanziario - qualitativi) di prestazione dei servizi pubblièi, utilizzando processi d'adattamento, oppure specifiche politiche di riorganizzazione. Queste ultime offrono un evento riorganizzativo spesso drammatico, perché esso acquista una leggibilità ed una visibilità esterne alla struttura amministrativa di gran lunga superiore a qualunque mero riadattamento. La riorganizzazione diviene una questione di cui s'appropria il ceto politico che ne porta i temi all'attenzione dell'opinione pubblica, dando luogo a dibattiti più o meno ampi intorno alla relative possibili soluzioni, in cui è difficile distinguere tra questioni strumentali e la ricerca di una migliore efficienza della PA -, senza, però, che tale vicenda sia di per sé (come in qua75
lunque altra materia soggetta al pubblico potere) sinonimo di sicuro passaggio dall'agenda politica all'effettiva decisione. Ciò a causa di varie situazioni: d'incapacità del ceto politico a decidere alcunché, di difetto dei contenuti, o di contraddizione tra gli obiettivi manifesti delle scelte politiche, i risultati e le vere intenzioni. Anche se gli effetti delle riforme amministrative possono divergere notevolmente dagli intenti del ceto politico che le vara, esse rappresentano un'occasione fondamentale, indipendentemente dalla loro efficacia, per la dislocazione di elementi simbolici che influenzano l'azione organizzativa, la sua regolazione ed i rapporti con i cittadini. La dimensione simbolica dell'innovazione costituisce una caratteristica decisiva nell'orientamento delle politiche pubbliche e incide sia sulle strategie di intervento che sui contenuti politici. Ogni riforma, quindi, non è valutabile soltanto in sé (come fonte di testi normativi astrattamente idonei a generare nuova operatività per la PA), ma può (anzi, deve) esser vista come dimensione simbolica o, diciamo meglio, come la situazione in cui gli attori politico-amministrativi associano significati e condividono effettive strategie di azione elaborando a livello simbolico le strutture normative. Agli occhi dei riformatori - e, se del caso, dei destinatari -, è preminente non già l'efficacia dello strumento 76
adoperato per produrre innovazioni serie e utili, che siano tali, cioè, da aumentare il grado di libertà e di soddisfazione dei cittadini verso la PA e degli operatori al suo interno Ciò che si rileva è l'effetto retorico dell'innovazione in quanto tale, al riguardo apparendo più redditizio non ciò che si fa per innovare, ma la produzione nella collettività, da parte del ceto politico, della percezione che l'attività svolta è innovativa per definizione, per il solo fatto che così è stata ritenuta dai politici e proposta al pubblico, aldilà di ogni necessario riscontro di efficacia e, se del caso, di ripensamento. Il simbo,' iismo cteii innovazione genera i conformismo del "nuovo è bello" in ogni caso. Dal 1990, in Italia il riformismo amministrativo è stato tanto ampio, che non è possibile, con tutta onestà, sottacere come l'esperienza quotidiana degli uffici non abbia fornito un serio adeguamento della prassi ai principi enunciati dalla tumultuosa - e, spesso, scombinata - legislazione amministrativa. Ciò a causa del deficit culturale delle strutture e delle burocrazie a rinnovare comportamenti antichi e rassicuranti con altri, improntati a valori (d'efficienza e di servizio, più che di potere) non comunemente accettati, né studiati nelle loro implicazioni. Non nego che l'inefficace impatto dell'innovazione derivi dalla mancanza di burocrati che sappiano interpretare il cambiamento come opportuI.
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nità di miglioramento della propria posizione organizzativa e di lavoro. Mi pare, però, altrettanto indubbia la divaricazione culturale profonda tra il significato della riforma e le sue implicazioni reali (cioè, quelle materiali, sfuggenti ad ogni controllo simbolico da parte del ceto politico) ed i valori e le regole che di fatto disciplinano le routines operative della PA. A fronte dell'indubbia resistenza delle burocrazie verso riforme che modificano sia la distribuzione dei poteri amministrativi, sia l'identità stessa degli operatori e dell'organizzazione, manca nel ceto politico un serio e ragionevolmente duraturo approccio all'attivazione di opportuni processi d'apprendimento, all'interno delle strutture amministrative, dei valori positivi dell'innovazione. Se innovazione c'è, essa coinvolge una talvolta stolida rincorsa all'adeguamento acritico soprattutto su suoi elementi marginali o non immediati (p.es., l'allungamento dell'orario di servizio, non coordinato con le esigenze dell'utenza e con l'effettivo lavoro da svolgere), piuttosto che una razionale progettazione dell'ammodernamento organizzativo. Le nuove regole sono state scaricate tout court sui vecchi apparati senza alcun progetto e, quel ch'è peggio, senza nessuna verifica di fattibilità, o di ricerca di alternative possibili e immediatamente praticabili, nei frequenti casi in cui l'innovazione si mostra inutile. Anzi, a dimostrazione patente
d'improvvisazione, se non di vero misconoscimento della delicatezza della materia - soprattutto per le implicazioni culturali coinvolte e non rinnovabili se non con grande pazienza e con molte risorse -, tali regole o subiscono continui aggiustamenti (p.es., il d.lg 2911993) a causa della mancata previsione (e neutralizzazione) degli ostacoli, o restano immutate pur in presenza di difficoltà applicative. C'è un'infestante tendenza del legislatore ad imporre una novità, tutta e subito, incurante dei risultati, i quali, spesso e ben lungi dal realizzarsi secondo le aspettative di riforma dei cittadini, si trasformano in ulteriori "trappole", in quanto i guasti del nuovo sistema si stratificano su quelli del vecchio, senza apprezzabile soluzione di continuità. Il "nuovo" è incompreso e genera incomprensioni, che, a loro volta, giustificano altre "novità", pure esse fonte di guasti. Viene da chiedersi a che cosa mai potrebbe servire una produzione normativa di così gran mole, se essa non s'accompagna ad una sufficiente strategia attuativa, fondata su azioni coordinate e sequenziali, step by step. Viene poi da chiedersi perché la riforma venga imposta in modo ed in termini perentori dall'alto, sic et simpliciter, senza curarsi delle questioni e dei problemi, anche culturali, sollevati dalla sua attuazione. Si dà per scontata la capacità di recepire le riforme da parte degli operatori i quali, nella maggior
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parte dei casi, sono abituati a tutt'altro modo di concepire il lavoro nella PA ed i rapporti con i cittadini. Verrebbe da dire che, come sempre in Italia, la riforma è, a seconda dei casi, o lo specchio dei desideri del legislatore, oppure un intellettualismo di studiosi, oppure ancora il prodotto di maldigerite idee aziendalistiche applicate tout court (o per moda) agli apparati pubblici, o da questi ultimi subite come un dovere increscioso ed ineluttabile. Il complesso delle nuove regole giuridiche non è, di per sé, idoneo a garantire l'effettività dell'innovazione amministrativa, perché il burocratismo, bandito dal nuovo "diritto amministrativo", vi può tornare sotto forma d'applicazione dei nuovi istituti con spirito di rassegnata doverosità, cioè senza spirito critico e senza assunzione di responsabilità nei competenti livelli decisionali, prima in quello politico e poi in quello della dirigenza amministrativa. In altri termini, non basta la mera enunciazione dell'efficienza e dell'efficacia dell'agire amministrativo, perché quest'ultimo diventi realmente efficiente ed efficace. Infatti, l'innovazione, anche quella culturalmente più avanzata, finisce sempre per dover essere ricondotta nell'alveo logico-formale dell'azione amministrativa, secondo i principi vigenti dell'ordinamento, che non appaiono modificati. Allora, la metodologia d'attacco al burocratismo, che colpisca gli atteggiamenti erronei del ceto politico e delle 78
burocrazie, si deve sviluppare attraverso tre strategie possibili: a) - chiarezza dei ruoli istituzionali e prontezza delle risposte ai bisogni sociali; b) - formazione permanente del personale (tutti devono studiare da dirigente), soprattutto per abituano alle sfide dell'innovazione; c) crescente incentivazione della performance del personale, controllata dai cittadini-utenti attraverso il voto sul prelievo e sul bilancio. In particolare, l'accrescimento della cultura del management pubblico discende direttamente dalla formazione del personale, mirata in permanenza ad abituare i soggetti a ragionamenti non più solo giuridico-formali, ma anche aziendalistico-efficientistici. Fuori da questi metodi, ogni altro approccio appare una cosa fatua, quando non un "accanimento terapeutico" con medicine sbagliate ed inutili, messo in opera pour epater les bourgeois, non certo per dare alla PA un nuovo ruolo nelle dinamiche sociali. MODELLI DI CAMBIAMENTO: PUÒ LA PA RIORGANIZZARE SÉ STESSA?
Come appare culturalmente inaccettabile la riduzione dell'innovazione organizzativa a mero simbolo o meglio, a mera apparenza di scelte politiche serie, così non si può condividere la resistenza delle burocrazie al cambiamento. Per l'una, occorre un'analisi seria non delle organizzazioni formali e delle procedure - fin troppo investi-
gate -, ma delle reali dinamiche sociali nelle organizzazioni e, soprattutto, dei metodi progressivi di coinvolgimento delle forze burocratiche culturalmente più vive. Per l'altra, occorre che le burocrazie siano poste di fronte alla secca alternativa, per cui o esse colgono gli strumenti e le opportunità di carriera e di miglioramento che seriamente (con esclusione, quindi, di ogni innovazione - "bidone") il ceto politico offre loro per il coinvolgimento nell'innovazione, oppure di esse bisognerà sapere fare a meno. È indubbia (e talvolta acritica) l"insofferenza" dei cittadini verso il potere pubblico, eppure è ineludibile la loro richiesta di una valutazione periodica della necessarietà degli stessi apparati pubblici, mediante una verifica da condurre, attraverso l'esercizio del controllo interno di gestione, fino all'investigazione in radice della ragione e/o della funzionalità complessiva dell'apparato controllato. La risposta a siffatta richiesta può esser cercata nel rinvenimento di modelli d'amministrazione non burocratica, specialmente nel campo dei servizi c.d. a domanda individuale - per i quali si potrebbero cercare (cfr., per tutti, l'art. 22, c. 3 e l'art. 23 della 1. 8giugno 1990, n. 142) forme giuridico-organizzative non amministrative, se non del tutto lasciate alla dinamica del libero mercato -' eventualmente anche a costi superiori e con metodi di finanziamento non tributari. In alterna-
tiva, si dovrebbe procedere alla (invero, coraggiosa) rinuncia ad apparati amministrativi troppo costosi, in termini di prelievo fiscale, per la pochezza di benefici resi. In una parola, all'insofferenza sociale, bisogna dare un metodo di lavoro della PA non ritualistico, ma aziendalistico e, perciò, leggero e flessibile. E ciò può servire a coinvolgere maggiormente i cittadini nella gestione della cosa pubblica, sorpassando la mediazione politica. Infatti, i politici sospettano o fingono di credere che i burocrati siano inaffidabili e boicottino ogni innovazione - per cui è necessario imporgliela dall'alto ed escluderli quanto più è possibile da ogni intervento discrezionale nella gestione della cosa pubblica -; i burocrati sospettano o fingono di credere di non aver alcun potere reale e che ogni cambiamento amministrativo o è impossibile per "difetto di volontà politica", o è solo penalizzante. Nell'un caso, si reputa necessario gonfiare gli apparati e portarli fuori dalla burocrazia, affinché quest'ultima non se ne possa più appropriare: il risultato è una sostanziale duplicazione degli apparati stessi, con l'aggravante che quelli nuovi, per sfuggire alle odiose regole burocratiche, vengono gestiti con criteri giusprivatisti, maschera efficacissima di un potere assolutamente arbitrario ( assumo e promuovo chi mi pare", ecc.). Nell'altro caso, s'attiva il meccanismo della non-decisione amministrativa: il risul79
tato è che così si ha quell'immobilità che giustifica ogni tipo d'intervento sull'organizzazione stessa e sui suoi addetti, additati a "capro espiatorio" dell'inefficienza del potere. L'EFFICICENZA E L'EFFICACIA COME PARAMETRI DI RIFERIMENTO PER UN GIUDIZIO SULLE RIFORME
Tra tutte le riforme iniziate nel 1990 - e, a più forte ragione, in esito all'esperienza, breve ma intensa, delle riforme amministrative del Governo Ciampi -, l'evento innovativo più cospicuo resta la 1. 24111990, legge generale sul procedimento amministrativo e sul diritto d'accesso ai documenti amministrativi Essa, forse più di molte altre revisioni dell'apparato amministrativo adottate prescindendo dalle dinamiche sociali, incide su quell'aspetto determinante dell'azione amministrativa, che consiste nel comportamento e nei modi di agire della PA nei confronti dei cittadini. Il legislatore ha ritenuto, sia nel. 1990, sia negli ulteriori approfondimenti che dalla 1. 241/1990 sono via via scaturiti (p.es., da ultimo, il citato d.l. 163/1995), che l'assoggettamento dei procedimenti medesimi a tempi operativi predeterminati (dalla stessa PA, a guisa di promessa al pubblico), l'individuazione del responsabile del procedimento, la trasparenza dell'azione amministrativa (mediante la partecipazione alle fasi ed alla documentazio-
ne procedimentali), le varie forme di semplificazione dei procedimenti stessi e di riduzione dei controlli amministrativi previ e la graduale liberalizzazione delle attività economiche costituiscano non mere guarentige per il soggetto privato coinvolto in un singolo procedimento, ma soprattutto il metodo in virtù del quale la PA è costretta ad adeguarsi, scegliendo i sistemi organizzativi più adatti, alle richieste della collettività. In parole semplici, alla base della semplificazione dell'azione amministrativa vi è certamente una pluralità di scopi - che spaziano dalla riduzione dei costi, alla razionalizzazione organizzatoria, alla concentrazione del potere in settori strategici, all'abbandono delle questioni bagatellari, ecc. -, ma vi è anzitutto la rivalutazione dell'autonomia del singolo di fronte alla PA. L'innovazione amministrativa passa per lo smantellamento delle stratificazioni procedimentali che impedivano, o limitavano al soggetto di diritti, l'esplicazione della sua personalità. L'istituzionalizzazjone del contraddittono all'interno del procedimento implica non già lo snaturamento dell'autoritarietà dell'agire (e del provvedimento) amministrativo, quanto, piuttosto, la cessazione del ruolo della PA procedente quale unica detentrice autoritaria del potere d'individuazione degli interessi definiti dalla legislazione, o, nel suo àmbito, da essa perseguiti. Per quanto ampia possa essere la
discrezionalità di cui goda detta PA, la cura ottimale dell'interesse pubblico è sempre frutto di un'attenta ponderazione, effettuata appunto in contraddittorio con il titolare di tutti gli interessi sottesi. Ci si può chiedere perché mai la I. 24111990 dovrebbe essere più efficace, ai fini dell'innovazione amministrativa, di quanto non siano state altre leggi, o le riforme introdotte a partire dal d.lg 2911993 e fino ad oggi. È notorio che l'irrigidimento delle norme sull'organizzazione e sulle pro cedure, poste dalla 1. 241/1990 e ribadite dal d.lg. 2911993, implica (e presuppone, ma non predispone automaticamente) il rinnovamento culturale della PA e dei suoi addetti mediante l'enfatizzazione della norma giuridica, ma in un senso tutto speciale. Se la norma avesse proceduto al rafforzamento delle sole regole procedimentali, della finanza, del personale, della dirigenza, o dell'organizzazione - ciascuna categoria per se stessa considerata -, allora il risultato sarebbe stato il mero miglioramento dell'efficacia interna della PA, intesa soltanto come capacità di produrre atti giuridici di buona qualità rispetto a costi di gestione abbastanza contenuti, indipendentemente dalla soddisfazione della domanda sociale di amministrazione. Ma così la PA non sarebbe in grado di prestare il servizio di soddisfazione (di welfare), in forza del quale esercita il pubblico potere, 'limitandosi tutt'al
più a confezionare atti amministrativi impeccabili, con cui distribuire a sé ed ai terzi benefici. In tale contesto, imparzialità, interesse pubblico, osservanza degli interessi da comparare, procedimentalità della decisione, ecc., non sono che gli elementi d'una mitologia, utile ai burocrati per autoconvincersi ed ai soggetti terzi per rassicurarsi, privi d'ogni efficacia responsiva ai bisogni sociali. Tuttavia, si tratta di un circuito che andrebbe in crisi molto presto, perché nel lungo periodo, il potere pubblico si può (auto)legittimare soltanto attraverso valori e risultati e non mai con surrogati, a pena della perdita progressiva del consenso. Poiché, invece, la 1. 24111990 (e, sulla sua scia, anche il d.lg 2911993) detta le regole deontiche per tutti e per ciascun procedimento attraverso cui la PA può entrare in contatto giuridico rilevante con i terzi ed esercitare le proprie potestà, c'è da credere che le relative norme abbiano indirettamente inteso premunirsi contro l'eventuale elusione dei nuovi assetti da parte d'una cultura burocratica non favorevole, imponendole un cambio di prospettiva non più in termini d'auspicio, di direttiva o d'interpretazione, bensì come regula juris, ossia negli stessi termini culturali in cui finora la burocrazia è stata abituata. V'è una differenza insopprimibile tra la 1. 24111990 ed il d.lg 29/1993 sebbene quest'ultimo sia la naturale continuazione della prima -, perché 81
l'alto contenuto tecnico (aziendalistico) del d.lg 2911993 è tanto forte da non poter essere affrontato, senza incorrere in gravi responsabilità aspramente sanzionate, la qual cosa presuppone sia l'attivazione immediata di un sistema di formazione permanente del personale, sia l'esercizio di penetranti ed efficienti (anche sui piano dell'onestà intellettuale, se non dell'onestà tout court) controlli interni, ossia di due elementi che abbisognano di molti strumenti e di molte persone da mettere d'accordo. La 1. 24111990, il cui significato (e le relative integrazioni) sembra essersi adattato all'evoluzione degli stessi apparati amministrativi e alla congiuntura socio-economica, regola rapporti bilaterali "secchi", ossia, come in altri contesti fa il contratto, la risoluzione di conflitti immediati tra una PA procedente ed un soggetto particolare (ove il juris dicere è soltanto mezzo e grado di valutazione d'un fine preciso, la qualità del prodotto amministrativo). In tal caso, la PA stessa si deve adattare alle richieste del privato e ciò può essere realizzato soltanto mercé la totale riconversione (anche episodica, cioè volta per volta) della cultura legalistica in altre forme più efficaci d'azione. Come modello sociale, quindi, quello delineato dalla 1. 24111990 ha una propria legittimazione, mentre quello del d.lg 29/1993, almeno in parte, non funziona. Non nego che il d.lg 29/1993 fornisce alla dirigenza buro-
cratica un ampio ventaglio di strumenti, utili ad assicurarle il soddisfacimento di un desiderio finora mappagato: il potere direttivo-organizzativo sugli uffici; ma ho motivo di credere che tali risultati, che presuppongono nell'ottica del d.lg 29/1993 la contropartita della responsabilizzazione per i risultati, siano già stati da tempo acquisiti senza troppo sforzo, come ben si può vedere dalle vicende della mancata attivazione dei servizi di controllo interno e del nucleo di valutazione della dirigenza stessa. Si mostra ben più seriamente "rivoluzionario" il contestuale e pur silenzioso aumento delle procedure amministrative semplificate e partecipate, nel senso che, più di altri, tutto l'apparato della 1. 241/1990 e della 1. 537/1993, serve sia a modificare i ruoli della burocrazia verso l'oggetto del concreto provvedere, sia a dar materialità al principio della sovranità popolare, costringendo la PA alla flessibilità organizzativa rispetto alle esigenze dei cittadini. Non escludo che le due leggi menzionate abbiano anch'esse una forte componente retorica, nella misura in cui, se bastasse emanare norme che astrattamente assicurino efficienza ed efficacia dell'agire amministrativo, allora gli atti-fonte menzionati già sarebbero sufficienti a fondare una PA nuova, culturalmente orientata alla realizzazione dei programmi e degli obbiettivi e ben conscia delle esigenze che tali programmi muovono.
Efficienza ed efficacia derivano soltanto dall'effettività dell'azione e della cultura necessaria a produrle - cioè, da situazioni che si traducono in comportamenti lealmente rivolti a chiarire i programmi, a verificarne la fattibilità, a cambiare gli obiettivi laddove essi si mostrino irraggiungibili o sovradimensionati -, più che dalle mere norme poste all'uopo e che, di per se stesse, potrebbero restare sulla carta. Forse la resistenza culturale e operativa nella dirigenza pubblica è forte verso la novità non (soltanto) come tale nella misura in cui essa appare idonea a sconvolgere assetti consolidati di potere -, ma in quanto strumento d'accessibilità e di criticabilità della conoscenza e dell'agire amministrativi. I dirigenti pubblici, più che a fare, sono stati abituati, fin dalla stessa scelta dei metodi del loro reclutamento, a piacere ed a compiacere i propri superiori politici, mentre il modello proposto dagli artt. 14, 16 e 17 del d.lg 2911993 impone la separazione-collaborazione tra la dirigenza politica e la dirigenza amministrativa. Il ruolo della burocrazia s'è involuto da apparato servente le scelte del potere esecutivo a organizzazione che ha sempre prediletto la legalità formale dei singoli atti emanati (in genere, di basso livello qualitativo), piuttosto che l'efficacia complessiva dell'azione amministrativa; come se quest'ultima si potesse realmente scindere, in un corretto giudizio basato sui valori ex art. 97 cost.,
dal grado di soddisfazione concreto della domanda di amministrazione. Poiché, però, non c'è stata una seria repressione dell'inefficienza mascherata dalla prevalenza del giuridico, ogni intervento innovativo che ne prescinda rischia per ciò di essere solo simbolico, com'è stata finora l'enunciazione dei criteri e delle regole di modernizzazione della PA del d.lg 29/1993 e
della 1. 537/1993. Il deficit di effettività dell'innovazione nei modelli organizzativi e comportamentali della PA è inversamente proporzionale al numero, alla qualità e alla funzione non meramente simbolica delle leggi innovative dell'organizzazione stessa. La risposta al problema, questo sì veramente sentito dalla collettività, del raggiungimento dei risultati da parte dell'azione amministrativa si può ottenere mediante il conflitto di interessi: a) - nel procedimento amministrativo (cioè, attraverso il controllo che il privato coinvolto esercita sul corretto ed efficace trattamento dei propri bisogni e della propria domanda d'amministrazione); b) - nel rapporto tra dirigenza politica e dirigenza amministrativa (cioè, attraverso il controllo sulla realizzazione dell'indirizzo politico, a sua volta indotto dall'atteggiamento più o meno soddisfatto dei cittadini - elettori) e tra diversi uffici della medesima PA. Il conflitto di interessi endoammiriistrativi ha un valore strategico non meno importante di quello intersoggettivo, perché, se il 83
grado di soddisfazione (o d'insoddisfazione) del cliente esterno alla PA può per certi versi apparire poco significativo - essendo assai difficile tradurlo automaticamente in un giudizio politico di disvalore verso la dirigenza politica che non sa "domare" le proprie burocrazie inefficienti -, quello del cliente interno (gli altri uffici amministrativi dialoganti o dipendenti da quello interessato) si riflette sull'andamento globale dell'azione amministrativa e, perciò, può essere oggetto di interventi repressivi o di ritorsione sia della dirigenza politica, sia dello stesso ufficio destinatario dell'inefficienza. LA SPADA DI DAMOCLE
DEL VINCOLO COMUNITARIO Infine, più dell'innovazione posta dalla legge, il condizionamento innovativo più forte è quello derivante dai vincoli dell'ordinamento comunitario nell'ordinamento nazionale, perché l'automatismo dell'adattamento di quest'ultimo al diritto comunitario e le scelte amministrative creano priorità di cui la PA nazionale può non aver tenuto conto e che nondimeno sono ben più conformative di quanto non appaiano le riforme propriamente dette. Il "vincolo comunitario", specie dopo l'entrata in esercizio del mercato unico e la trasformazione dell'Unione europea in entità efficacemente sovranazionale, non soltanto rappresenta un metodo di lavoro amministrativo sco84
nosciuto per la PA italiana, ma soprattutto le sottrae quote crescenti di poteri decisionali e di regolazione nelle materie attinenti al governo pubblico dell'economia. Quando si parla di ingerenza comunitaria nel diritto nazionale - aldilà dei problemi di adattamento del diritto dell'UE in Italia -, non bisogna dimenticare due vicende essenziali. Anzitutto, l'antinomia tra i due ordinamenti va risolta nel senso che il diritto nazionale incompatibile non è viziato (e, perciò, andrebbe disapplicato dall'operatore giuridico sprovvisto dei poteri di annullamento), ma perde ogni rilevanza nella regolazione della fattispecie attratta alla norma comunitaria, che resta la sola applicabile per il principio di specialità, divenendo irrilevante ogni eventuale giudizio di disvalore verso il diritto nazionale. Nondimeno, la fattispecie stessa è trattata in prima battuta dalla burocrazia nazionale (recte, dalla PA nazionale competente ad attivare i procedimenti amministrativi che applicano la norma comunitaria), con le categorie logico-giuridiche e gli atteggiamenti sociali del diritto nazionale. Pertanto, occorre, a mio avviso, non enfatizzare l'eventuale effetto benefico che il consolidamento dell'ordinamento comunitario e l'attribuzione sempre più ampia di poteri di regolazione delle attività economiche per l'effettiva realizzazione delle quattro libertà di circolazione potrebbero determinare sull'attività amministrati-
va degli Stati membri e dell'Italia in special modo, ai fini del funzionamento del mercato unico. La crescente incidenza del diritto, delle procedure e della prassi amministrativa comunitari potrebbe riflettersi positivamente sulla PA italiana, razionalizzandone l'organizzazione secondo criteri più omogenei a quelli vigenti presso la burocrazia comunitaria. L'incidenza dell'ordinamento dell'UE resta, però, filtrata dai metodi burocratici nazionali, per cui l'effetto favorevole può derivare soltanto dalla congiunzione di due vicende: a) - la crescente procedimentalizzazione partecipata di tutte le attività amministrative, che concerne pure l'applicazione delle norme comunitarie; b) - l'immediata operatività delle disposizioni dei Trattati comunitari a contenuto precettivo (libertà di circolazione, disciplina della concorrenza) nei rapporti economici e d'impresa, che costringe gli operatori italiani, almeno quelli soggetti alla sfida della concorrenza continentale, ad esigere dalla PA italiana l'effettività della par condicio con gli operatori stranieri, tramite l'attivazione di comportamenti amministrativi di migliore qualità.
BuRocltkzlA: ALLA RICERCA DI UN RUOLO Nello Stato amministrativo, il personale pubblico, segnatamente quello
che in effetti svolge funzioni pubbliche (di scelta e di concretizzazione di pubblici interessi) costituisce un corpo meritocratico di lavoratori subordinati che, di solito, possiede conoscenze tecniche superiori a quelle della dirigenza politica. Si tratta di un corpo a rilevanza politica, che gli deriva dalla professionalità congiunta alla meritocrazia e, perciò, necessario per ogni decisione tecnica,, comprese quelle che sfociano in decisione politica. Da ciò discendono alcuni dati, soltanto apparentemente divergenti. Anzitutto, non soio l'apparato burocratico è, per cosÌ dire, coessenziale e paradigmatico dello Stato-amministrazione - indipendentemente, almeno nell'esperienza contemporanea in Italia, dal numero dei soggetti istituzionali che si avvalgono di amministrazioni pubbliche -, ma pure che non esiste una reale separazione, che non sia mera enunciazione o linea di tendenza o criterio giuridico di ripartizione delle competenze in caso di conflitto, tra dirigenza politica e dirigenza burocratica. Il pubblico potere s'esprime in un continuum, che dà vita a diversi momenti (posizione delle regole, posizione degli obbiettivi, organizzazione degli obbiettivi, concreto loro perseguimento attraverso programmi e procedimenti, statuizione sull'assetto degli interessi rispetto all'obbiettivo dato, ecc.), tutti ontologicamente distinguibili, ma, del pari, tutti coessenziali all'esercizio del pote85
re stesso. Si ha così la procedimentalizzazione giuridica, attraverso le strutture amministrative, di ogni decisione attuativa dell'indirizzo politico e, quindi, la necessaria ibridazione (o, se si vuole, codecisione) dell'azione tra politici e burocrati; fatto che si rende necessario per dare effettività all'azione di governo, attraverso i procedimenti amministrativi e all'azione amministrativa, attraverso la legittimazione dell'indirizzo politico stesso. Esiste una necessaria contiguità, di cui gli artt. 3, 14 e 16 del d.lg 2911992 fanno menzione nel descrivere la collaborazione dei dirigenti nei momenti di predisposizione e d'attuazione degli indirizzi e dei programmi politici, tra la funzione d'indirizzo politico e la funzione dirigenziale amministrativa. La "separazione" tra i soggetti che incarnano tali funzioni e le loro carriere professionali non sta nell'incomunicabilità tra indirizzi ed attività, bensì nell'"apartiticità" dell'agire amministrativo, ossia nella necessaria preservazione dei valori dell'imparzialità anche nel raggiungimento efficiente ed efficace degli obiettivi posti dall'indirizzo politico. Ma la viciniorità di funzioni e di attività dei dirigenti e dei politici finisce qui, essendo a questi ultimi inibito il concreto amministrare nel singolo caso specifico, indipendentemente dalla circostanza che la legittimazione dell'investitura popolare (negli enti locali) o parlamentare (nello Stato-persona) implichi la suprema-
ER
zia organizzatoria degli obiettivi nella stesura dei progetti e dei programmi e, in seconda battuta, dei singoli procedimenti amministrativi attivabili dall'ente, solo questi ultimi rientranti nell'autonoma responsabilità dei dirigenti stessi. Ogni tentativo di modificazione dell'assetto dei pubblici poteri costringe le burocrazie a rivedere le proprie alleanze ed interazioni con il ceto politico emergente, perché i processi decisionali, che talvolta possono vedere la prevalenza dell'uno rispetto alle altre e viceversa, di regola sono frutto di interazioni multiple, per cui la competizione e le alleanze entro il ceto politico s'incontrano e si mescolano con quelle delle burocrazie. Prescindere da questo approccio, significa rendere le burocrazie non partecipi dell'innovazione, se non addirittura sabotatrici di quest'ultima. Una corretta comunicazione delle effettive finalità della riforma, metterebbe in discussione ed accantonerebbe (piuttosto che enfatizzare) la sfiducia sistematica che costituisce ancora la modalità relazionale tra il ceto politico e le burocrazie stesse. La maggior parte delle riforme amministrative, deliberate da diversi tipi di governi, sono destinate a non dare alcun risultato apparente ed a frustrare inevitabilmente coloro che le hanno progettate; eppure, esse generano intorno a loro un intenso campo di retoriche e di azioni simboliche che scandiscono per lungo tempo la vita
amministrativa ed orientano l'agire degli operatori istituzionali e le loro strategie. Per uscire dal circolo vizioso della sfiducia nella innovazione, forse il metodo più serio è quello di non dare ai lavoratori una "partecipazione bidone", ma offrire loro un contratto di fiducia a nome della PA datrice di lavoro, nonché la prestazione, da parte di quest'ultima, della funzione di "assorbimento dell'incertezza". Insomma, l'innovazione amministrativa va anzitutto presentata dal ceto politico alla burocrazia, soggetto attuatore della riforma, non già come una metodologia che automaticamente potrebbe produrre i risultati attesi (definiti come qualità della vita lavorativa, influenza sulle decisioni, controllo sul luogo di lavoro, benessere psicologico, ecc.) e, meno che mai, come una ristrutturazione necessitata e giocata indipendentemente, se non addirittura contro le burocrazie medesime; andrebbe presentata, invece, come l'opportunità d'attivazione la capacità di tutti gli addetti della PA di padroneggiare il proprio lavoro e la consapevolezza del ruolo di necessario tramite tra l'indirizzo politico e la domanda d'amministrazione della collettività. Un'operazione tutta pilotata dall'alto manterrebbe ferma quella sfiducia reciproca tra i due soggetti (politici e burocrati) dell'innovazione amministrativa - senza, però, seriamente mettere in discussione e, anzi, ribadendo la rappresentazione della burocrazia
come inefficiente e sabotatrice -; un'innovazione partecipativa sarebbe più "rischiosa" per il ceto politico. Infatti, un coinvolgimento fittizio o non serio dei lavoratori pubblici non soltanto si ritorce contro una riforma apparentemente concreta, ma soprattutto evidenzia anche alla collettività, l'approccio meramente retorico dell'innovazione stessa, ossia una riforma pensata non per accontentare i cittadini, ma soltanto per anestetizzarne la spinta critica. Tale atteggiamento intende creare, o ribadire nell'opinione pubblica l'immagine della burocrazia come «capro espiatorio" dell'inefficienza delle politiche pubbliche, mentre in realtà quest'ultima è spesso determinata dal difetto di progettualità. Non essendo stato approntato un profondo ricambio della dirigenza burocratica, non si comprende come tale ceto burocratico, reputato incapace di gestire il sistema amministrativo tradizionale - arcaico, ma tutto sommato conosciuto -' potrebbe mai affrontare le sfide dell'efficacia e dell'amministrare per programmi e funzioni, secondo i criteri organizzativi del "nuovo" diritto amministrativo. E qui giova fin d'ora fare un breve riflessione, un po' più approfondita, sulla figura e sui ruolo della burocrazia in Italia. Prima (e, in parte, anche adesso) la burocrazia - che pure è molto rappresentativa di tutte le contraddizioni ita87
liane - è stata rifiutata e malvista dai cittadini e, ove possibile, aggirata a causa dei suoi mille guai, la qual cosa è ben comprensibile se si pensa che la burocrazia dà luogo ad una concezione "proprietaria" del lavoro pubblico. Viceversa, il "nuovo" diritto amministrativo configura un rapporto giuridico ed organizzativo tra lavoratore pubblico (il cui lavoro non è solo lavoro-diritto, ma soprattutto lavoro-. servizio, secondo le regole ex art. 2 cost.) e cittadino-utente, la cui pretesa di servizio pubblico è pur sempre un'obbligazione di risultato. In tal caso, il terreno delle interazioni politico-sociali era (ed è) pronto a ricevere la creazione del caprio espiatorio - da identificare nella burocrazia, appunto a causa dell'allarme determinato nell'opinione pubblica da numerosi fattori di crisi della tradizionale politica dello Stato sociale -' facilitando azioni politiche ed istituzionali che, attraverso la "punizione", possono dar luogo ad una migliore gestione dell'ansia collettiva. Non escludo che, fungendo da capro espiatorio, il pubblico impiego è divenuto negli ultimi anni una delle risorse decisive per difendere la legittimazione sociale del sistema pubblico (rectius, della parte di establishment della c.d. "prima" Repubblica, non toccato da "Tangentopoli" ed ancora saldamente in sella negli alti rami dei ministeri, degli enti statali e parastatali, delle imprese pubbliche, delle banche, ecc.), ritenuta
un'esigenza cruciale dal sistema di potere già dopo le elezioni del 1992. Insomma, ancora una volta, l'occasione costituita dal d.lg 29/1993 non è stata intesa e fatta intendere come il punto di svolta negli atteggiamenti e nei comportamenti della PA, ma è servita soltanto per gestire il consenso e per fornire la più ampia rassicurazione sociale nei casi di decisioni politiche che presentano costi concentrati (segnatamente, mediante il prelievo fiscale su determinati cespiti imponibili) e benefici diffusi (a favore soprattutto di soggetti soio apparentemente sfortunati, in realtà privilegiati). TIIA OPERAZIONI DI FACCIATA E RIVOLUZIONI COPERNICANE: LA VIA DEL PUBBLICO INTERESSE
L'agenda italiana delle riforme amministrative ha preso le mosse dal paradigma della crisi dell'apparato amministrativo e, dunque, della sua inadeguatezza alle esigenze di governo ed è stata riempita da una vastissima, quanto eterogenea (nei fini, nei metodi, negli attori) congerie di interventi destrutturanti il vecchio apparato amministrativo centrale e la forma dei governi locali, con un processo di riadattamento ancora in divenire. Se appaiono sfumate le ragioni dei fattori di crisi, ormai storicamente stratificate, il dato epifenomenico di partenza è semplice: per un verso, la PA crea difficoltà e costi ai cittadini a
causa della propria tortuosità culturale, prim'ancora che operativa ed organizzatoria, ma, al contempo, essa non è seriamente in grado di controllare l'attività dei cittadini e, anzi, più adempimenti chiede, meno riesce a verificarne; per altro verso, la PA spreca le proprie risorse umane e di formazione e, quel ch'è peggio, non individua, né sviluppa i valori e la cultura dell'organizzazione. Anzi, il lavoro nella PA enfatizza un fenomeno assai diffuso in Italia: la crescente divaricazione, cioè, tra merito, reddito e ruolo sociale, laddove il primo è troppo spesso non appartenente a coloro i quali detengono gli altri. Insomma, la PA non si cura dei (e, in certi casi, non conosce i) fattori critici di successo e, in particolare, dell'immagine, mentre è notorio che quest'ultima è parte integrante ed essenziale delle relazioni pubbliche tra utenza e burocrazia. Inoltre, resta ancora in ombra la necessaria distinzione tra amministrazione d'ordine (o di regolazione autoritativa delle posizioni giuridiche soggettive altrui) ed amministrazioni di servizio (o soggetti attuatori pubblici o in pubblica proprietà dell'erogazione di servizi pubblici), per cui i metodi gestionali ed operativi delle due categorie tendono ad assomigliarsi, anzi, tendono ad adeguarsi allo standard delle PA che esplicano solo funzioni pubbliche autoritative. A mio avviso, tali metodi dovrebbero del tutto divergere nei modi della gestione (giuri-
dica e manageriale) del personale e delle procedure, se non addirittura indurre, come si diceva poc'anzi, a ripensare alla necessità di far coincidere funzione pubblica con soggetto pubblico, così desoggettivando l'apparato amministrativo. Ma l'Italia è anche il Paese delle riforme amministrative sempre in cantiere e mai del tutto completate: In alcuni casi, si hanno le rivoluzioni amministrative silenziose, perché operate in giustapposizione (o in alternativa) a innovazioni poco credute o non veramente nuove e, per questo, di gran lunga più durature ed efficaci. In altre situazioni ancora, si hanno riforme apparentemente nuove, in realtà ripetizioni, talvolta inconsapevoli, di scelte operate o programmate in tempi remoti e poi abortite, oppure abbandonate (l'esempio più ricorrente consiste nell'individuazione del metodo ottimale di separazione tra gli uffici di gabinetto e quelli amministrativi, tramite l'istituzione di uffici d'indirizzo politico, ma con compiti nettamente distinti dalle strutture operative, ecc.). Il ceto politico, da parte sua, è passato da un disinteresse colpevole verso le tematiche amministrative - forse nella consapevolezza che si potesse governare (al di fuori delle regole, oppure con le regole del caso concreto) anche senza amministrare -, ad un'eccessiva attenzione verso di esse, sotto le pressioni della collettività, operando in modo convulso e non ben meditato.
Si ha l'impressione che la politica riformista della PA italiana possieda solo un valore meramente "simbolista", nel senso che essa si avvale, nel processo d'innovazione, della forte risonanza che quest'ultimo ha nell'opinione pubblica, cioè dei significati e delle rappresentazioni sociali delle innovazioni, indipendentemente dalla loro reale utilità ed all'evidente scopo di manovrare e lucrare il consenso necessario per adottare decisioni altrimenti impolitiche. In ultima analisi, la PA (o, meglio, la burocrazia), secondo un tentativo del ceto politico (non si sa quanto efficace, perché l'approccio e gli interventi appaiono ondivaghi e non fermano a lungo l'interesse dei cittadini) di sciorinare il cambiamento organizzativo come fosse un evento teatrale, rappresenta un apparato inutilizzabile ed inaffidabile, da riformare subito e anche senza il consenso degli attori istituzionali; (essendo questi ultimi più legati a far sopravvivere le strutture esistenti, che ben disposti verso i processi innovativi). In realtà, un approccio simbolico all'innovazione si mostra fallace almeno per tre ordini di considerazioni. Anzitutto, è inutile asserire la necessità di una riforma organica della PA, profondendovi un forte capitale simbolico (che va dalla drammatizzazione degli eventi, fino alla ricerca, anzi all'individuazione di uno o più capri espiatori, tra i pubblici impiegati, PX
ecc.), se poi se ne investono globalmente e simultaneamente tutti gli aspetti strutturali e funzionali senza, però, che siano assicurati al contempo gli strumenti culturali, finanziari ed operativi necessari e sufficienti per garantirne la riuscita. E. ciò appare tanto più significativo, se si tiene conto, per un verso, che la produzione simbolica è già scarsa in sé, perché promana da un ceto politico (o dirigente) verso cui la collettività non ha aperto un'illimitata linea di credito fiduciario; e, per altro verso, che la vera rivoluzione amministrativa passa per dati molto più prosaici e meno adatti al simbolismo, cioè dalla destrutturazione dell'attuale bilancio dello Stato per capitoli ad un bilancio funzionale per centri d'imputazione dei costi che sono, del pari, attributari dell'intera competenza sulle risorse da spendere. Bisogna dismettere i dati simbolici e disegnare piuttosto un nuovo sistema, da realizzare in modo graduale, flessibile e sperimentale, individuando gli obiettivi passo a passo prioritari, uno delle quali, appunto, consiste nell'esatta individuazione dei centri d'imputazione di competenzalspesa. In secondo luogo, a nulla vale affermare che la dirigenza burocratica (meglio, l'intero ceto impiegatizio) è restia all'innovazione, perché ne è comunque coinvolta in qualità di (primo) soggetto attuatore: il problema è che l'innovazione dovrebbe contenere sufficienti accorgimenti per una propria
"copertura amministrativa". Infatti, la ricerca, da parte del ceto politico, di un soggetto che sabota l'innovazione amministrativa non serve soltanto per mantenere una posizione difensiva che incanali su altri e allontani da sé le spinte destabilizzanti che provengono dall'insoddisfazione della domanda di governo, ma anche per coprire l'evidente suo deficit di progettualità del1 innovazione. Infine, mi pare che nessuna attenzione sia stata rivolta, nei progetti innovativi, al fatto che, per un verso, la grande corruzione politica degli ultimi anni si è consolidata grazie anche all'apporto fattivo o, perlomeno, alla passività colpevole delle burocrazie; e, per altro verso, che, in quattro Regioni della Repubblica, la grande criminalità mafiosa condiziona ogni funzionamento della PA, i cui miglioramenti organizzativi possono aver senso soltanto se cercano di coniugare l'efficacia amministrativa con l'approntamento di metodi di contenimento della presenza pervasiva del fenomeno mafioso. Concludendo, è da ritenere che un approccio globale e palingenetico dell'innovazione amministrativa non è nei fatti vincente, quando non appare addirittura di facciata, tant'è che ci si può chiedere se essa, oltre a potér essere regolata con altri metodi, non sia del tutto inutile. Per un verso, la reingegnerizzazione amministrativa presenta i vantaggi derivanti dall'ampia revisione del modus operandi e dello
stesso ruolo della PA come attore sociale; ma mostra rischi a mio avviso più consistenti e seri - e, soprattutto, tali da determinarne il fallimento - in quanto essa si basa su forte motivazione (degli strateghi e dei soggetti attuatori) e su risorse ingenti (di mezzi finanziari e procedurali), proprio quegli "ingredienti" oggi deficitari in Italia, per evidenti ragioni di finanza pubblica e di pessima qualità del reclutamento del personale pubblico. Per altro verso, non esistono scorciatoie, più o meno retoriche, all'innovazione amministrativa, ma occorre acquisire l'idea che il fenomeno innovativo, che si manifesta con varie metodiche da utilizzare nei tempi e nei modi opportuni, è connaturato al sistema amministrativo, nel senso che quest'ultimo è in continuo divenire. Le riforme non sono altro da sé del sistema, sono il sistema che, attraverso microinterventi o macrostrategie, s'adatta di volta in volta al mutare della domanda sociale di governo ed alle priorità da essa poste. Non è che l'innovazione sia inutile in sé, ma certo ne diventa superflua la sovrastruttura retorica, perché s'innova anche nel piccolo, singolo procedimento amministrativo, attraverso il controllo sociale che vi si può esercitare, soprattutto grazie al concreto e fattivo apporto alle singole decisioni dei corpi intermedi (le associazioni di consumatori, gli interventi massmediali di servizio, ecc.). 91
Pubblica amministrazione e sistema maggioritario Cronaca di un dibattito in redazione di Adele Magro *
L'annuale incontro del Gruppo di Studio su Società e Istituzioni e di Queste Istituzioni, svoltosi lo scorso ottobre a Cortona, è stato l'occasione per ritornare sui problemi della pubblica amministrazione nel nostro Paese in un momento in cui l'attenzione riformatrice pare maggiormente interessata ai cosiddetti "rami alti" dell'ordinamento, come attesta il recente dibattito sulla revisione della forma di Stato e della forma di Governo. I lavori, introdotti e presieduti da Sergio Lariccia, hanno visto la partecipazione di esponenti del mondo accademico e istituzionale, nonché un contributo di diritto straniero offerto dal prof. Dian Schefold, dell'Università di Brema. I principali spunti del dibattito sono stati offerti dalla presentazione, avvenuta durante l'incontro cortonese, del nuovo libro di Bruno Dente, In un diverso Stato. Come rifare la pubblica amministrazione italianal. Tra convergenze e dissensi, l'autore ha fornito la sua visione di un "diverso Stato" espri-
mendo, al contempo, forti perplessità sulle riforme legislative del recente passato e sulla loro effettiva capacità di produrre innovazioni nel nostro sistema amministrativo. Ulteriori momenti di confronto si sono avuti sul tema del ruolo dell'amministrazione in un contesto di "democrazia maggioritaria"; profilo particolarmente problematico della riflessione giuspubblicistica degli ultimi tempi e che ha indotto a ragionare sulle possibili trasformazioni della nostra amministrazione conseguenti al passaggio da un sistema elettorale proporzionale a uno tendenzialmente maggioritario. Nelle brevi note che seguiranno, si tenterà di dar conto, in forma discorsiva, dei principali argomenti di discussione emersi nel corso dell'incontro in relazione ai profili summenzionati, naturalmente senza pretesa alcuna di completezza ed esaustività nei riferimenti agli intervenuti e agli interventi. IL RAPPORTO POLITICAAMMINISTRAZIONE
* Dottoranda in Diritto Pubblico (Università di Perugia).
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Uno dei profili emersi con chiarezza dal dibattito è che il problema del
rapporto tra politica e amministrazione costituisce uno dei nodi più rilevanti, ma anche più controversi della nostra storia istituzionale. Molti sono stati i relatori che hanno ricordato che, già ai sensi della nostra Costituzione, esiste una tensione ineliminabile tra la posizione dell'organo governo - vertice del potere esecutivo e responsabile dell'amministrazione in virtù della sua legittimazione democratica - e la posizione dell'Amministrazione, ricavabile da un complesso normativo (tra cui l'articolo 97 che sancisce, tra gli altri, il principio dell'imparzialità dell'azione amministrativa) che configura l'amministrazione non come apparato servente del governo, ma come attività, o funzione dell'ordinamento generale, finalizzata al perseguimento del pubblico interesse. In altri termini, accanto al riconoscimento della forza e dell'autonomia effettiva dell'amministrazione rispetto al potere politico, si configura una stretta continuità tra l'attività politica e l'attività amministrativa, e l'esigenza di ricondurre quest'ultima nell'ambito del perseguimento degli indirizzi e dei fini che la comunità si è data. È stato, pertanto, opportunamente chiarito, durante i lavori di Cortona, che non si può parlare di una "separazione" tra politica e amministrazione, ma semmai di "distinzione"; se, come ha osservato Carlo D'Orta nel corso del suo intervento, tali attività possono
essere raffigurate come due cerchi che in parte si sovrappongono, il problema sta nello stabilire il quantum della sovrapposizione. Il quesito pare aver trovato una risposta nella recente evoluzione legislativa: il decreto legislativo n. 2911993 sulla riforma del pubblico impiego (ma già la legge n. 142190 in riferimento all'amministrazione locale) distingue, come noto, tra politica e amministrazione definendo la politica come il momento della individuazione degli indirizzi, degli obiettivi e delle risorse per realizzarli, e l'amministrazione come un'attività gestionale che implica, però, anche scelte discrezionali. Tale concezione supera e nega definitivamente quella che contrappone la politica come scelta all'amministrazione come mera legis executio e che, affermandosi di fatto nel nostro ordinamento, ha oscurato, per così dire, la visibilità dell'amministrazione e l'autonoma rilevanza della dirigenza amministrativa, rappresentando, al contempo un alibi per evitare l'assunzione di responsabilità da parte dell'amministrazione medesima. Nella realtà, tuttavia, il disegno del decreto n. 29193 stenta a trovare una concreta attuazione, confermando le perpiessità della più attenta dottrina che già da tempo si era interrogata sulla sua astrattezza. E sono in molti ad affermare che la sua realizzazione sarebbe inficiata soprattutto dalla resistenza degli organi politici a cedere potere e degli organi burocratici ad 93
esercitano, testimoniando così il perdurare di quella «cultura dell'irresponsabilità", definita da Sabino Cassese «scambio di sicurezza contro potere" 2 che aveva già pregiudicato l'attuazione del d.PR n. 748/1972 (il primo tentativo di riforma della dirigenza statale). Nel corso del suo intervento, Bruno Dente ha offerto una diversa chiave di lettura affermando che il motivo per cui la distinzione tra responsabilità per la fissazione degli obiettivi e responsabilità per il loro raggiungimento, prevista dal decreto 29/93, sta trovando una scarsissima applicazione deriverebbe dal fatto che tale distinzione contiene al suo interno una "faII ' lacia inelimina.. Dile cne ia rende irrealizzabile. A sostegno delle sue asserzioni, Dente ha ricordato che lo sviluppo delle scienze politiche e sociali degli ultimi cinquant'anni (ad esempio le teorizzazioni di Albent Simon, Charles Lindblom, il teorema dell'impossibilità di Arrow) ha dimostrato proprio la fallibilità della teoria delle scelte razionali negando la possibilità che esista, in qualunque tipo di organizzazione, un decisore unitario in grado di ordinare i propri obiettivi secondo priorità, di conoscere tutte le alternative di scelta, di valutare per ciascuna di esse i costi e i benefici, pervenendo così alla migliore decisione possibile. In realtà, in ogni organizzazione la razionalità d'azione è necessariamente limitata, il che rende impossibile realizzare una distinzione netta (e sempli-
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cistica) tra la fase della definizione degli obiettivi e la fase dell'attuazione. Da qui il suo giudizio negativo sulla legge 142190 e sul decreto 29/93 i quali, prevedendo la necessità di compiere un'operazione largamente impossibile, sarebbero, al di là delle pur apprezzabili intenzioni, pessimi interventi normativi. Sulla base di questo presupposto, Dente ha suggerito di ripensare profondamente il rapporto tra l'attività del personale politico e l'attività degli amministratori, partendo dalla consapevolezza che si tratta di attori diversi, con diversi meccanismi di selezione e legittimazione, con diverse competenze e, pertanto, logiche d'azione diverse. In particolare, il politico non può prescindere dalla responsabilità di fronte alla popolazione e quindi dalla logica, di breve-medio termine, del consenso elettorale, mentre sulla burocrazia grava, essenzialmente, una responsabilità di tipo tecnico-professionale. Si potrebbe pertanto ragionevolmente 'assumere, secondo Dente, che il corpo elettorale dia mandato alla classe politica per la trasformazione dell'attività pubblica, cioè per le riforme, mentre alle burocrazie professionali spetterebbe il compito di garantire la continuità degli interventi dell'amministrazione. Da qui la formulazione di una proposta concreta e alternativa che consiste nel sostituire al paradigma tradizionale dominante (obiettivi/gestione), una diversa di-
stinzione tra l'attività dei politici e degli amministratori basata sulla dialettica tra cambiamento e continuità. In altri termini: alla sfera politica, secondo Dente, si dovrebbe affidare la responsabilità per le scelte di riforma ovvero per quelle trasformazioni delle politiche pubbliche che, implicando scelte di valore, richiedono necessariamente una legittimazione democratica; le burocrazie tecniche, invece, nell'ottica di continuità delle politiche pubbliche e a parità di risorse disponibili avrebbero la responsabilità di definire il rapporto tra obiettivi da raggiungere e risorse da impiegare. In questa chiave di lettura, ai vertici burocratici non spetterebbe più soltanto la responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi assegnati, ma anche quella di definire il budget, a legislazione costante 3 . Naturalmente, nella riflessione di Dente, la riconcettualizzazione del ruolo delle burocrazie è stata molto più complessa e articolata di quanto si possa sintetizzare in queste brevi righe, implicando anche una serie di corollari ai quali in questa sede si può soltanto accennare: la piena assimilazione della dirigenza dello Stato a quella privata; la riforma delle modalità di nomina dell'alta burocrazia (oggi lasciata alla discrezionalità politica del ministro); la creazione di un top management che funga da policy advisor, ovvero un vertice burocratico professionale esperto di analisi e formulazione delle politiche pubbliche.
La nuova distinzione funzionale tra l'attività dei politici e delle burocrazie professionali proposta da Dente, comporta una fondamentale conseguenza sul versante dell'organizzazione, traducendosi in una distinzione anche strutturale. In altre parole, secondo Dente il tradizionale modello organizzativo ministeriale andrebbe sostituito con un modello basato sulla distinzione organizzativa tra apparati serventi dei responsabili politici (i nuovi ministeri, strutture estremamente snelle preposte alla formulazione di proposte e programmi per l'innovazione delle politiche e con funzioni di vigilanza e controllo) e nuovi apparati "scorporati dai ministeri (i dipartimenti) con compiti di amministrazione attiva, ovvero regolazione, erogazione ed eventualmente anche gestione diretta dei servizi pubblici. La stessa presenza nel nostro sistema di settori dell'ordinamento sottratti alla responsabilità politica (la Banca d'Italia, le diverse amministrazioni indipendenti) confermerebbe l'idea per cui non tutta l'amministrazione è riconducibile alla politica. Anche sotto questi profili, il ragionamento di Dente è stato molto più ampio e articolato, prevedendo (soltanto per fare un esempio che introdurrebbe la complessa problematica del rapporto tra garanzia ed efficienza nell'amministrazione) che la modificazione organizzativa sia accompagnata anche da profonde innovazioni sul piano
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dell'azione amministrativa - vero punto d'attacco per la trasformazione dell'amministrazione, secondo Dente - che portino a un'estensione dell'uso del diritto privato e al mantenimento della procedimentalizzazione in funzione di garanzia solo in caso di attività a rilevanza esterna nelle quali siano in gioco i diritti dei cittadini. Anche il processo di allocazione delle risorse all'interno dell'organizzazione statale, in senso stretto, subisce una modificazione: la proposta di Dente, a riguardo, è che il bilancio (unitario) approvato dal parlamento non contenga più l'assegnazione delle risorse alle diverse unità organizzative, ma sia organizzato per politiche e per programmi, mentre l'assegnazione ai ministeri e dipartimenti è disposta dal governo sulla base delle missioni (ovvero l'attività da svolgere) e del budget. La relativa attività di controllo, poi, è strutturata intorno a una parola chiave: ridondanza. Sul rispetto delle regole di contabilità e di bilancio, sull'efficacia e l'efficienza dell'azione pubblica vigilano, infatti, una pluralità di soggetti: l'ufficio di controllo interno del singolo ministero o dipartimento, l'ufficio di controllo del ministero sui risultati del dipartimento, e infine la Corte dei conti. In conclusione, si può ricordare che la teorizzazione di Bruno Dente, riportata sommariamente in queste pagine, ha suscitato molti consensi durante l'incontro di Cortona. La sua propo96
sta di un intervento drastico di macroriforma, più che di microinnovazione, ha avuto il pregio di essere basata su una diversa cultura della riforma amministrativa, lontana dagli schemi tradizionali che hanno finora generato interventi di riforma poco in grado di incidere profondamente e di modificare il generale stato di degrado della pubblica amministrazione. Inoltre, e in linea generale, si può osservare come nell'impostazione teorica di Dente la modernizzazione dell'amministrazione sia profondamente legata alla trasformazione complessiva dello Stato. Secondo Dente, infatti, trovarsi "in un diverso Stato" implica innanzitutto rifare l'amministrazione, sicché i diversi progetti di revisione della forma di Stato, della forma di governo o della legge elettorale possono essere giudicati utili, inutili o, addirittura, dannosi a seconda del tipo di trasformazione amministrativa che prefigurano. Alcuni profili hanno, tuttavia, suscitato una serie di rilievi critici: ad esempio, Giuseppe Cogliandro e Carlo D'Orta hanno rilevato che l'enfasi posta da Dente sulla distinzione tra politica e amministrazione contenuta nel decreto 29/93 come distinzione netta tra indirizzi e gestione non corrisponderebbe al dato positivo dello stesso decreto 29/93. Quest'ultimo, infatti, alla luce degli articoli 3, 14 e 16, prevede un rapporto interattivo circolare tra i politici e la dirigenza secondo il quale, non solo la dirigenza
concorre alla formazione degli indirizzi e alla individuazione degli obiettivi di cui poi sarà destinataria con la sua capacità propositiva, ma ha anche il potere di proporre al.soggetto politico la ripartizione del budget disponibile a legislazione vigente fra gli obiettivi prefissati. Pertanto, la critica al decreto 29/93 non andrebbe espressa come rifiuto totale del modello che esso propone, ma come stimolo alla espIicitazione di un modello che dal decreto 29/93 forse non emerge con sufficiente chiarezza e coerenza. Circa, poi, la questione del possibile scorporo dalle amministrazioni centrali delle amministrazioni erogatrici di servizi, l'opinione generalmente condivisa nel corso del dibattito si è orientata nel senso di evitare l'equivoco di ritenere che le amministrazioni scorporate debbano diventare amministrazioni indipendenti dall'organo di governo, dando così luogo, per dirla con D'Orta, a una sorta di amministrazione anarcnica ' .L a aistinzione da fare, cioè, è tra settori, per così dire, sensibili nei quali si è resa fino ad oggi necessaria e utile la creazione di una serie di autorità indipendenti dall'indirizzo politico del governo e settori nei quali, invece, la creazione di un'amministrazione separata dal governo non deve significare sottrazione all'indirizzo governativo. In fondo gli enti pubblici, sottòposti a indirizzo e vigilanza del governo non sono altro che amministrazioni scorporate «
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dai ministeri ma rimaste sotto l'indirizzo politico del governo. Il cosiddetto scorporo, pertanto, è un'operazione che consiste nel togliere dalla diretta dipendenza del ministro queste branche per consentire di distinguere meglio tra politica e amministrazione senza sottrarle nè all'indirizzo del governo, nè al controllo governativo sui risultati. Se tale distinzione organizzativa si accompagna con un sistema che coniuga indirizzo e controllo sui risultati dell'amminsitrazione scorporata, rimane quel legame che consente al governo di perseguire i suoi obiettivi; lo scorporo, dunque, serve soltanto a distinguere più nettamente il momento dell'elaborazione degli indirizzi che possono essere confermativi o di cambiamento - e il momento, invece, più strettamente gestionale ma che conserva, comunque, una sua quota di discrezionalità. Sempre sul tema della distinzione organizzativa, Andrea Mancinelli, in particolare, ha evidenziato una potenziale contraddizione con la tendenza, attualmente in atto nel nostro ordinamento, alla proliferazione di amministrazioni indipendenti. Secondo Mancinelli, infatti, il processo di entificazione dei servizi che sta già interessando l'apparato pubblico centrale, sta determinando una riduzione delle funzioni del medesimo, il quale, in prospettiva, dovrebbe trattenere esclusivamente compiti di regolazione, indirizzo, coordinamento, controllo, sii97
pulazione di contratti di programma con i gestori dei servizi, definizione di standard di qualità, tariffe e così via. Ebbene, se questi sono i compiti che rimarranno, pian piano, al "centro" nei più svariati campi, è evidente il rischio di creare duplicazioni, confusioni e conflitti di competenze con gli organismi indipendenti, dotati spesso di' quegli stessi compiti che dovrebbero essere residuali agli apparati centrali dello Stato. Sarà necessaria, pertanto, una scelta strategica chiara: o seguireil percorso della più completa entificazione, lasciando al centro quelle funzioni strategiche essenziali in capo alle strutture ministeriali, o affidare queste funzioni ai nuovi organismi indipendenti, abolendo però i ministeri. Per ribadire la necessità di una chiara scelta, Mancinelli ha menzionato l'esempio del settore delle telecomunicazioni, affidato alla competenza di un'autorità indipendente (l'OFTEL) in Gran Bretagna e a una direzione generale fortemente autonoma, ma incardinata in una struttura ministeriale (ministero delle Poste) in Francia. RIFORME ELEYFORALI E RIFORME AMMINISTRATIVE
La riforma dei sistemi elettorali per l'elezione dei nostri rappresentanti alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica rappresenta una prima introduzione, al livello del sistema politico nazionale, del principio maggiori-
tario, anche se temperato con un forte correttivo proporzionalistico. Come dimostrano, tuttavia, gli studi politologici, il sistema elettorale, pur essendo un fondamentale strumento di ingegneria istituzionale, non è suscettibile, in sè e per sè, di conformare il sistema partitico nè tanto meno il sistema politico nel suo complesso, sicchè nel nostro ordinamento non si è ancora giunti all'avvento di una democrazia maggioritaria in senso proprio, ma si è in presenza di una transizione che appare largamente incompiuta. Con queste avvertenze, durante i lavori di Cortona, si è cercato di immaginare il ruolo e le eventuali trasformazioni della pubblica amministrazione dinnanzi alla possibile affermazione di un sistema maggioritario compiuto ed è riemerso, ancora una volta, il problema del rapporto tra politica e amministrazione. Si è posta, cioè, in termini più netti la questione se la pubblica amministrazione debba o meno diventare l'apparato servente di un'autorità di governo che gode di una più forte legittimazione democratica e che è al contempo investita di maggiori responsabilità per l'attuazione del suo programma. Come osservato durante il dibattito da Sergio Ristuccia, in tale contesto possono darsi due alternative de iure condendo: privilegiare il profilo dell'efficienza dell'azione del governo, immaginando, ad esempio, l'introduzione in Italia di un qualche "sistema del-
le spoglie", sui modello americano 4 oppure privilegiare il profilo della garanzia e dell'indipendenza dell'amministrazione, prefigurando possibili rimedi ai limiti insiti nella stessa logica maggioritaria. Circa il primo aspetto, in via preliminare è opportuno precisare che quando parliamo di spoils system in riferimento al modello statunitense ci riferiamo a un sistema che per larga parte appartiene al passato, trovando attualmente un campo di applicazione assai ridotto. Il sistema delle spoglie, infatti, nella sua pienezza, ha caratterizzato l'amministrazione ottocentesca americana, la democrazia jacksoniana, ma contro di esso già agli inizi del secolo le forze progressiste hanno vinto una battaglia che ha rappresentato uno dei più significativi momenti di trasformazione e modernizzazione della democrazia americana. Attualmente, nel nostro ordinamento può essere significativo il richiamo alla vicenda degli Enti locali, nei quali, in seguito all'adozione della legge n. 81 del 1993 (cosidetta legge sull'elezione diretta del sindaco); si sta realizzando l'unica effettiva esperienza di sistema maggioritario, peraltro coniugato con l'investitura diretta dei vertici di governo che consente di garantire un effetto politico più chiaro e immediato alle scelte degli elettori. Tuttavia, come osservato da molti relatori, questa tendenza ad affermare i vantaggi dell'elezione diretta da parte del corpo
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elettorale nel garantire una migliore qualità, tecnica e morale, dei governanti, si scontra con il modello di distinzione-separatezza tra politica e amministrazione negli Enti locali, contenuto nella legge n. 142 del 1990. Anche se concepito con l'intento di rimediare allo sconfinamento della politica e quindi ai meccanismi degenerativi che in passato si erano instaurati tra politici e burocrati, tale modello sta creando forti condizionamentj all'effettivo dispiegarsi della logica della 1. 8 1/93, secondo la quale il sindaco risponde direttamente all'elettorato della gestione dell'amministrazione comunale, che è il necessario termine di confronto del suo operato. A riguardo, si può essere d'accordo con Ristuccia quando osserva che vivere il maggioritario unicamente in termini di ricerca di garanzie e di spinta al moltiplicarsi delle indipendenze, pur necessarie in taluni casi, in realtà poi non risolve il problema del rapporto tra la politica e le amministrazioni della continuità, col risultato di aggravare le difficoltà del far politica. Allora, una via percorribile potrebbe essere quella che porta a raccogliere le opportunità del maggioritario ai fini della riforma dell'amministrazione, senza che questo significhi passare da un sistema di indipendenze e garanzie a un sistema in cui tutto è in mano al governo (la recente esperienza italiana, poco edificante, costituisce un monito PE
contro questa tentazione), ma provando invece a fornire al personale politico un certo numero di uomini di squadra anche all'interno dell'amministrazione, perchè possa perseguire quegli obiettivi in ordine ai quali ha ricevuto la sua legittimazione. In questa direzione si è orientato anche il ragionamento di Maria Teresa Salvemini, secondo la quale il problema del rapporto tra maggioritario e riforma dell'amministrazione andrebbe però letto in chiave diversa a seconda dei tipi di amministrazione: una amministrazione che eroga servizi e che, sulla base delle tendenze in atto, soprattutto negli Enti locali, si può immaginare sempre più incardinata in strutture autonome, forse anche privatizzate, non si vede perchè debba essere soggetta alla logica dello spoils system, mentre per quella parte della pubblica amministrazione che svolge altro tipo di funzioni (programmazione, regolazione, coordinamento, grandi scelte redistributive, allocative), si potrebbe immaginare una maggiore omogeneità delle burocrazie al potere politico, prevedendo ad esempio che il ministro possa scegliere i suoi uomini chiave per il periodo della sua durata in carica. E da questo punto di vista forse può essere opportuno ricordare che nel nostro ordinamento è già operante un meccanismo analògo: la legge di disciplina della Presidenza del Consiglio dei ministri (la legge n. 400 del 1988) 100
prevede che con la nomina e il giuramento di un nuovo governo cessino, automaticamente, dalla carica il segretario generale e i capi dei dipartimenti della Presidenza del Consiglio, rimanendo libero il nuovo Presidente di confermare o mutare, in tutto o in parte, l'organizzazione ereditata dal precedente governo. Nel corso del dibattito, sul tema in questione sono state registrate, anche opinioni di segno contrario. L'idea espressa, ad esempio, da Maurizio Meschino, ma condivisa anche da altn, come Sergio Lariccia e Giovanni Vetritto, è che in un sistema maggioritario la pubblica amministrazione pur senza essere separata debba veder rafforzata la propria indipendenza, per evitare gli evidenti problemi che la subordinazione della PA alla forza vincente può creare anche rispetto alle garanzie dell'opposizione. La burocrazia, come espressione della continuità istituzionale - contro le ragioni del consenso a breve termine - e in quanto portatrice di una propria e autorevole identità professionale non può essere sottoposta al sistema delle spoglie. A riguardo, però, forse sarebbe opportuno intendersi sul significato di Cci dd" dell'amministrazione rispetto al potere politico, accettabile se significa garanzia della legalità e dell'imparzialità dell'attività amministrativa contro le influenze della (cattiva) politica, ma non anche se si traduce in una sorta di "fuoco di sbarra-
mento" degli amministratori di fronte alle iniziative del ministro. Durante l'incontro, ha destato vivo interesse, su1 tema, la relazione conclusiva del prof. Dian Schefold relativa all'esperienza istituzionale tedesca; relazione pubblicata in questo stesso dossier alla cui lettura, pertanto, si rinvia.
ALTRE CONSIDERAZIONI SULLE RIFORME DELLA PA
Una delle conclusioni che sicuramente si può trarre dal dibattito svoltosi a Cortona è che la riforma della pubblica amministrazione si configura come un processo complesso che solo in piccola parte dipende dagli interventi del legislatore, risolvendosi invece in un'azione complessiva che necessita di un disegno strategico, di soggetti ben delineati che "presidiino" la riforma e siano in condizione di portarla a termine. Secondo Ristuccia qui sta il vero legame con il sistema politico: è chiaro, cioè, che un processo di riforma dell'amministrazione non dipende da un meccanismo elettorale piuttosto che da un altro, ma certo dipende da un sistema che in qualche modo garantisca periodi di governabilità stabile e consenta di individuare chiare responsabilità per l'attuazione della riforma medesima. Naturalmente è anche importante, come osservato ad esempio da Giuseppe Cogliandro, che
la riforma non prefiguri un disegno astratto che sovrapponga il proprio contenuto prescrittivo alla effettiva realtà dell'amministrazione che quindi potrebbe respingerla, come un corpo estraneo. Si può far riferimento, a titolo di esempio, proprio al fatto che la riforma contenuta nel decreto 29/93 - riforma ambiziosa ma di elaborazione prevalentemente dottrinale e quindi corrispondente più a una visione ideale che all'effettiva realtà della pubblica amministrazione - ha avuto un avvio stentato e faticoso e, a più di due anni dalla sua adozione, si sta rivelando di difficile implementazione. Anche secondo l'opinione di Vincenzo Spaziante, riforme così impostate hanno un valore più che altro simbolico e spiegano le resistenze dell'amministrazione nel "lasciarsi riformare". In particolare, Spaziante ha anche messo in guardia contro la pericolosità di riforme elaborate nel corso di pochi mesi, da lui definite "avventurose e temerarie", ribadendo al contrario la necessità che la riforma dell'amministrazione sia ragionata e meditata, vista la gravosità e complessità dei problemi in questione. Nel corso del dibattito, il giudizio sulle innovazioni legislative intercorse negli ultimi tempi, a partire dal 1990 e fino alle riforme dell'XlE legislatura, è stato nel complesso positivo nella misura in cui, pur con evidenti limiti e contraddizioni, tali interventi hanno prefigurato un possibile scenario di 101
cambiamento. Il filo conduttore delle vicende normative degli anni Novanta (le leggi di riforma dell'ordinamento delle autonomie locali e sui procedimento amministrativo; la creazione di autorità amministrative indipendenti; le prime privatizzazioni; le semplificazioni procedurali; la riforma del pubblico impiego, per citarne alcune), va infatti ritrovato nella spinta contro l'invasione della politica nell'amministrazione e nella società civile nonchè nella tensione verso un recupero di efficienza dell'amministrazione. Tuttavia, è stato osservato criticamente che si è trattato di interventi frammentari, a volte isolati, a volte troppo "timidi" o addirittura di impossibile realizzazione. A volte, ancora, la riforma non è stata sufficientemente "presidiata": come ricordato ad esempio da Carlo D'Orta, alla riforma dei controlli della Corte dei conti, contenuta nelle leggi nn. 19 e 20 del 1994 - che aboliscono il controllo preventivo di legittimità della Corte su gran parte degli atti delle amministrazioni statali concentrando l'attenzione sui risultati successivi della gestione -' ha corrisposto una espansione di fatto del controllo delle Ragionerie centrali dei ministeri, le quali hanno iniziato ad esercitare un controllo di legalità che spesso sconfina in un controllo sul merito del singolo atto. Altri settori, ancora, attendendo da tempo l'intervento di riforma del legislatore impediscono una effettiva mo102
dernizzazione dell'attività delle amministrazioni pubbliche: Manin Carabba, ad esempio, ha posto l'accento sull'importanza di adottare una nuova struttura del bilancio dello Stato, attualmente eccesivamente rigida e al di fuori di qualunque possibile valutazione delle politiche pubbliche. Anche la redazione di bilanci sperimentali delle amministrazioni pubbliche atti ad evidenziare i profili economici della spesa in relazione a funzioni, programmi, e centri di spesa, prevista dall'articolo 64 decreto 29193 è rimasta un mero esercizio cartaceo. A riguardo, però, si può dire che gli Enti locali ancora una volta si sono rivelati terreno di sperimentazione e di innovazione: il decreto n. 7711995 recante il nuovo ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali, anche se ancora non completamente operante, prevede una struttura nuova del bilancio, articolato in base ai programmi e agli interventi da realizzare. Un aspetto problematico degli interventi di riforma amministrativa, sollevato da Dente ma condiviso da molti, è quello che riguarda i costi della riforma medesima. Contro lo slogan e la retorica prevalente negli ultimi tempi all'interno della policy community della riforma amministrativa secondo cui la modernizzazione della pubblica amministrazione e la connessa riduzione del personale vanno letti in chiave di risparmio di risorse, è stato invece osservato a piut voci che la rior-
ganizzazione amministrativa, come ogni processo di ristrutturazione, si presenta come una riforma a benefici economici differiti, richiedendo invece per l'immediato nuovi investimenti e forti spese. Vincenzo Spaziante, ad esempio, ha ricordato che le riserve della Ragioneria Generale nei confronti del progetto di riforma amministrativa contenuto nella legge n. 537/1993 - provvedimento, come noto, collegato alla legge finanziaria dello stesso anno - sono nate proprio dal
fatto che le misure ivi contenute avrebbero dovuto essere indirizzate a una riduzione del disavanzo, mentre una riforma seria dell'amministrazione comporta necessariamente un impegno economico. Senza considerare, poi, i costi sociali, forse difficilmente sostenibili nel nostro Paese al momento attuale. Si può, pertanto, essere d'accordo con Giuseppe Vegas quando sostiene che i costi dell'innovazione costituiscono uno dei principali ostacoli alla innovazione medesima.
I Bruno Dente, In un diverso Stato. Come riflire la pubblica amministrazione italiana, Bologna 1995. 2 Cfr. Sabino Cassese, La carriera del burocrate: dirigenza politica e amministrativa in Italia, in «Sociologia del lavoro», 1981, p. 105. Cfr. B. Dente, op. cit., pp. 36-37.
Lo spoilr system, o sistema delle spoglie, consiste nella facoltà, attribuita negli Stati Uniti ad ogni nuovo Presidente al momento del suo insediamènto, di cambiare i vertici dell'amministrazione federale, sostituendo i capi dipartimento nominati durante la precedente presidenza con uomini di propria fiducia.
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Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura
Agli inizi del 1986, prima dèlla caduta del muro di Berlino e della Cortina di Ferro, la Fondazione Europea della Cultura decise di fare delle relazioni con i Paesi dell'Europa Centrale e dell'Est una delle sua priorità di lavoro. Tali relazioni si sono rafforzate con il tempo, non soltanto attraverso l'elargizione di grants ma anche attraverso progetti e programmi che la Fondazione ha portato avanti in cooperazione con altre organizzazioni. Il primo di questi progetti, il Ewppp (EastWest Parliamentary Practice Project) ha ora dato vita ad un fondazione indipendente che opera, comunque, congiuntamente con altri due programmi (il CEEBP - Central and East European Book Project e l'Aix un fondo per la mobilità di artisti dell'Europa centrale e dell'est) sotto l'ombrello della Fondazione-madre. Tali progetti hanno consentito anche la nascita di diversi Comitati Nazionali della Fondazione in Paesi come gli Stati Baltici, la Polonia, l'Ungheria, la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca. I2attenzione all'Europa Centrale e dell'Est come ricordavamo nello scorso Taccuino - è ancora una priorità della Fondazione Europea della Cultura,, essendone stata riconfer-
mata l'importanza ancora di recente (riunione del Board of Governors a giugno 1995). Vediamo più in particolare tali programmi. Il Ewppp è stato creato nel 1990 come iniziativa congiunta della Fondazione Europea della Cultura e della Fondazione Ford. Con il tempo si è sviluppato al punto da rappresentare uno dei programmi più riusciti della Fondazione di Amsterdam. Il progetto ha dato vita ad una rete molto estesa di contatti fra parlamentari del blocco orientale ed a più di 40 workshops per parlamentari provenienti da undici Paesi dell'Europa centrale e dell'est. L'APEX è più recente, essendo stato creato agli inizi del 1994. Come è noto, i contatti culturali tra i Paesi dell'Europa centro-orientale durante l'era comunista erano particolarmente controllati. Anche la cooperazione su base volontaria era virtualmente impossibile. Oggi, il settore culturale in questi Paesi si trova di fronte ad altre sfide: esorbitanti costi di viaggio, mancanza di denaro contànte e difficoltà crescenti per ottenere permessi di soggiorno all'estero. Durante gli ultimi due anni, APEx ha sostenuto almeno 150 professionisti (artisti e organizzatori) mettendo a disposizione dei grants per i loro spostamenti. Con il nuovo programma APEXchanges la Fonda105
zione spera, per il 1996, di poter offrire anche altri tipi di sostegno. I! CEEBP, dal 1992 - anno in cui è stato creato - fornisce grants per: a) editori per la pubblicazione di libri e periodici su materie umanistiche nelle diverse lingue dell'Europa centro-orientale; b) per traduzioni di qualità ; c) per assistere editori e traduttori nei contatti professionali e nello scambio di competenze. Nel 1995, infine, la Fondazione Europea della Cultura, in collaborazione con altre fondazioni europee ed americane, ha creato
la Commissione Internazionale sui Balcani
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con lo scopo di esaminare i problemi della regione balcanica. Tale iniziativa è stata ispirata da uno studio condotto nel 1914 da una Commissione d'Inchiesta Europea-Americana (creata dal Carnegie Endowment) sulle cause e sul modo in cui si sono sviluppate le prime due guerre balcaniche all'inizio del ventesimo secolo. Nella nuova commissione, esperti balcanici e stranieri conducono ricerche originali e analisi politiche che sottopongono ai rappresentanti delle istituzioni e delle agenzie internazionali.
Notizie da...
CENTRO
Vlrroruo
BACHELET
11 centro di ricerca sulle Amministrazioni Pubbliche Vittorio Bachelet, operante presso l'Università Luiss-Guido Carli di Roma, ha organizzato il 14 novembre 1995 un incontro-tavola rotonda sul tema «Rappresen-
tanza e rappresentatività nella contrattazione del pubblico impiego. Il "dopo referendum'. Introdotto e coordinato dai proff. Giorgio Berti e Gian Candido De Martin, rispettivamente Presidente e Direttore del Centro Bachelet, l'incontro ha visto la partecipazione e gli interventi del prof. Tiziano Treu, ministro del Lavoro, del prof. Marcello CIarich dell'Università di Siena, del Consigliere di Stato avv. Alessandro Pajno, del prof. Perone docente all'Università di Tor Vergata e Luiss, del prof. Sandulli dell'Università «La Sapienza» di Roma e del prof. Lorenzo Zoppoli dell'Università di Salerno. Il tema oggetto di discussione è stato l'assetto futuro della rappresentanza e della rappresentatività nella contrattazione collettiva, a seguito dell'abrogazione dell'art. 47 del decreto legislativo 29193 e anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali e degli interventi del Consiglio di Stato in sede consultiva. Tra le iniziative in itinere del Centro Bachelet si segnala l'incontro-seminario previsto per il 26 febbraio 1996 presso la sede Luiss
di via Parenzo, 11, dal titolo « Considerazio-
ni sui tipi di autorità indipendenti nel sistema delle persone giuridiche pubbliche» con la partecipazione del prof. Fabio Severo Severi, ordinario nell'Università di Trieste, e del dott. Maurizio Malo, ricercatore di diritto pubblico nella stessa università. Il Centro ha avviato, inoltre, la pubblicazione di una "collana" di Quaderni, presso la casa editrice Giuff& destinata ad ospitare contributi e riflessioni sviluppati nell'ambito di iniziative seminariali o di ricerca. Sono stati pubblicati i primi due volumi: Gli istituti della democrazia amministrativa, a cura di Giorgio Berti e Gian Candido De Martin e Le ordinanze della legge n. 225122 sulla protezione civile di Fabio Severo Severi. CENTRO DI RICERCE SULLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE V. BACHELET
Luiss-Guido Carli Via Parenzo, 11 - 00198 Roma Telefono 67.48.68.92 - Telefax 85.35.12.38
CENTRO STUDI SOCIOLOGICI «IL CAMPO»
È giunto all'ottavo anno di attività 1' Osser-
vatorio Permanente sulla Fiction Televisiva Italiana, istituito presso il Centro Studi «il Campo» di Roma. Attivo dal 1988 e diretto da Milly Buonanno, docente dell'Università 107
di Salerno, I' Osservatorio raccogliere e analizza i dati quantitativi e qualitativi dell'offerta di fiction italiana trasmessa sulle reti televisive nazionali, pubblicando annualmente un ampio rapporto di ricerca. il bilancio di sette anni di attività è largamente positivo: con l'Osservatorio si è costituita una tradizione di ricerca longitudinale unica nel panorama nazionale e internazionale; si è accesa e tenuta desta l'attenzione sulla fiction televisiva, un settore centrale della produzione e della cultura televisive e soprattutto con la pubblicazione dei «Rapporti annuali)), divenuti una fonte di informazioni autorevole e attesa, si è riusciti nel tempo a stabilire una fruttuosa interazione tra mondo della produzione e mondo della ricerca. In sette anni di attività si è dunque consolidata un'esperienza che ha creato le condizioni per un ulteriore passo in avanti, verso l'allargamento della ricerca all'Europa. Nel 1996 è nato infatti EuRoFzcrzoN, 1' Os-
al network sono rappresentati da prestigiose istituzioni di ricerca come il British Film Institut (BFI) per la Gran Bretagna e l'Institut National del l'Audiovisuel (INA) per la Francia; la Germania partecipa attraverso l'Elm institute dell'Università di Siegen, mentre per la Spagna ha aderito l'Università Autonoma di Barcellona. Scopo di EUROFJCTJON non è soltanto offrire una panoramica esauriente e comparativa sulla produzione europea di fiction televisiva, ma anche promuovere seminari, conferenze internazionali e altre iniziative volte a mantenere la fiction tv al centro del dibattito politico e culturale sull'audiovisivo europeo. CENTRO STUDI SOCIOLOGICI «IL CAMPO» Via di Novella, 8 - 00199 Roma Telefono e Telefax 86.21.76.66
servatorio Europeo sulla Fiction Televisiva, allo scopo di effettuare un monitoraggio sistematico della fiction televisiva di produzione nazionale e di coproduzione europea offerta annualmente dalle televisioni nazionali di ciascun Paese europeo. Attualmente EUROFJCTJON è un network composto da cinque équipes di ricerca, provenienti da italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Promotori del progetto di ricerca sono la Fondazione Hypercampo, presieduta dal Professor Giovanni Bechelloni dell'Univer-
sità di Firenze, e l'Osservatorio Permanente sulla Fiction Televisiva Italiana, che in questi anni ha lavorato in collaborazione con la Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi della Rai e con la Direzione Marketing della Fininvest. Gli altri Paesi europei aderenti 108
FONDAZIONE ISTITUTO GaMscI
Pubblicazioni della Fondazione Istituto Gramsci nel triennio 1993-1995 - Studi storici, Rivista trimestrale dell'istituto Gramsci. Anno 34, (1993) - anno 36, (1995); - Europa/Europe. Trimestrale a cura del Centro studi sui Paesi dell'Europa centrale e orientale, Fondazione Istituto Gramsci. Anno 2, (1993) - anno 4, (1995); - Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di Michele Ciliberto, Editori Riuniti, Roma 1993; - I periodici della Resistenza presso la Fondazione (1943-1945), Annale 1991, a cura di Claudia Ciai e Fiamma Lussana, Editori Riuniti, Roma 1993;
- Risorse per la salute, priorità ed equità, valutazioni etiche e scientifiche, Centro di bioetica, Dossier n. 3, 1993; - Guida agli Archivi dalla Fondazione Istituto Gramsci, Annale 1992, a cura di Linda Giuva, Editori Riuniti, Roma 1994; - Cultura ebraica e cultura scientfìca in Italia, a cura di Antonio Di Meo, Editori Riuniti, Roma 1994; - Bibliografia gramsciana, Supplement updated to 1993, by John M. Cammett & Maria Luisa Righi, Fondazione Istituto Gramsci, Regione Lazio - Assessorato alla Cultura, 1995; - Gramsci nel mondo, Atti del convegno internazionale di studi gramsciani, Formia, 25-28 ottobre 1989, a cura di Maria Luisa Righi, Fondazione Istituto Gramsci, regione Lazio - Assessorato alla Cultura, 1995. FONDAZIONE isrinrro GMsc1 Via Portuense, 95 C - 00153 Roma Telefono 5806646 - Telefax 5897167
ISTITUTO LUIGI
SnjRzo
Biblioteca. L'aggiornamento bibliografico della Biblioteca è finalizzato a tutte le discipline di scienze e alle discipline storiche, soprattutto attraverso l'acquisto della produzione bibliografica in commercio e a disposizione sul mercato d'antiquariato riguardante la storia del movimento cattolico, la storia sociale della Chiesa, le storie locali, nazionali ed internazionali del periodo della Resistenza, la formazione politica. Sono stati acquisiti recentemente: Fondo Dc in fase di riordino, comprende monografie, opuscoli stampati e dattiloscritti, materiale audiovisivo, manifesti,
materiale vario a stampa di propaganda, per un totale di circa 3.000 volumi e 45 periodici, alcuni dei quali in doppia copia e di ormai rara reperibilità. Fondo di servizio sociak di circa 300 volumi, riguarda prevalentemente metodologia e storia del servizio sociale italiano ed anglosassone. Fondo Carlo Curcio: di circa 600 volumi, comprende parte della biblioteca personale del giurista Carlo Curcio, donata alla Biblioteca dell'Istituto dagli eredi. Alla Biblioteca sono state donate, inoltre, dal prof. Pietro Scoppola una serie di riviste, alcune delle quali complete dal primo numero di pubblicazione, di storia moderna e contemporanea, religiosa e politica di notevole interesse scientifico. È in corso la schedatura e la catalogazione informatizzata del materiale canonicamente definito come «letteratura grigia)> che la Biblioteca ha già materialmente ordinato, di sicuro interesse alla costituzione della futura <(Scuola Superiore di Teoria e Storia Sociale» perché riguardante tematiche storiche, politiche, sociologiche, economiche e metodologiche. Il lavoro di catalogazione corrente e retrospettiva delle monografie è arrivato a circa 9.000 unità bibliografiche catalogate in ISD(m), completo di soggettazione semantica, collocazione fisica ed inventariazione; per la fine del 1996 si prevede il completamento della catalogazione in SBN del Fondo M. Lelli, il proseguimento della catalogazione retrospettiva del Fondo Dc e del consueto aggiornamento, sempre in SBN, delle nuove acquisizioni. Di estrema importanza è l'accordo definito tra il Polo lEI/Istituti Culturali dei quali la Biblioteca dell'Istituto Sturzo fa parte or109
mai dal 1990, e la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma che sancisce l'entrata di quest'ultima nell'indice informatizzato nazionale tramite il Polo lei. Il patrimonio bibliografico, condivisibile on-line, del polo ammonta così, aggiornato ad oggi dal 1986, a circa 1.100.000 notizie, con un incremento annuo di circa 20.000 titoli. È previsto inoltre l'acquisto di una serie di banche dati su cd-rom di discipline sociologiche in generale (bibliografie di monografie, periodici e di spoglio di riviste), di bioetica e repertori bibliografici a carattere generale di interesse internazionale.
Progetto Conspectus. Costituito con altre biblioteche romane tra le quali quella della Camera dei Deputati. Il gruppo di lavoro al quale aderisce la Biblioteca dell'istituto, il gruppo di Sociologia, prevede la realizzazione di un Catalogo di riviste italiane e straniere attive riguardanti soprattutto le scienze sociali e antropologiche possedute e non dalle Biblioteche aderenti al progetto. Archivio Storico. Proseguirnento del lavoro di schedatura analitica dei fondi dell'Archivio Storico; a questa prima fase dovranno seguire le necessarie fasi di inventariazione sommaria, analitica ed indicizzante dei fondi. - Fondi archivistici il cui riordinamento è ancora da avviare: Fondo Giulio Rodinò; Fondo Dino Secco Suardo; Fondo Giovanni Battista Migliori; Fondo ivo Coccia; Fondo Francesco Luigi Ferrari; Fondo Fiorentino Sullo (circa 500 scatole donate all'Istituto dal titolare del fondo nel mese di luglio 1995); Fondo SosToss (circa 35 scatole depositate all'istituto dalla Società 110
per la Storia del Servizio Sociale. Il riordinamento del Fondo è a carico dei depositanti che si avvarranno della consulenza del personale archivistico dell'Istituto, come da convenzione). Fondo Dc (circa 600 scatole pervenute in uno stato di parziale riordino). Quest'ultimo materiale è suddiviso in cinque settori: Segreteria Politica (19441992); Direzione Nazionale (1944-1991); Consiglio Nazionale (1944-1992); Congressi Nazionali, Assemblee nazionali (1946-1989); Varie. L'Istituto ha provveduto a ritirare altro materiale da palazzo Sturzo all'Eur, al fine di sottrarlo quanto più possibile al pericolo di inevitabile dispersione. In particolare è stata acquisita la documentazione relativa al Collegio Centrale Probiviri, al Dipartimento Spes, all'Ufficio Organizzativo ed Elettorale, al Dipartimento Scuola Ricerca e Beni Culturali, al Dipartimento Formazione, al Dipartimento Femminile, Giovanile, Reduci e Anziani, al Dipartimento Famiglia. Al fine di prevenire eventuali dispersioni di materiale si sta provvedendo a compilare un opportuno elenco di versamento. È previsto, inoltre, un progetto di microfilmatura del fondo fotografico facente parte dell'Archivio Dc, finalizzato ad una ottimalizzazione della conservazione e della consultazione al pubblico ditale materiale. - Fondi archivistici in riordinamento non consultabili: Fondo Luigi Sturzo 19241959; Fondo Giovanni Gronchi; Fondo Mario Scelba; Fondo Giuseppe Spataro; Fondo Vittorino Veronese; Fondo Flaminio Piccoli; Fondo Filippo Meda. - Fondi archivistici riordinati e consultabili: Fondo Luigi Sturzo (I parte 1890-1924; si sta procedendo all'informatizzazione complessiva in rete del materiale archivisti-
co del Fondo mediante l'installazione nei locali dell'Archivio Storico della nuova attrezzatura necessaria per l'avvio e l'utilizzo del sistema); Fondo della Sinistra Cristiana; Carte Sergio Paronetto (documenti relativi al Codice di Camaldoli). - Attivazione di un archivio delle scienze storico-sociali italiane. Il consolidarsi della presenza accademica, istituzionale e culturale delle scienze sociali in Italia e in particolare della sociologia, rendono attuale l'istituzione di un archivio storico avente come fine la raccolta e a conservazione di ogni documento concernente le suddette scienze. L'archivio dovrebbe essere costituito da carteggi inediti, scritti vari, documentazione di iniziative istituzionali, nonché da studi e ricerche non pubblicati relativi alla suddetta materia. - Creazione di un Centro di documentazione e Archivio della Bioetica, la cui struttura è concepita come un vero e proprio centro di ricerca dedicato: al reperimento dell'informazione su differenti supporti (a stampa, on line, cd rom, video, ecc.), con raggio d'azione internazionale e con copertura corrente oltre che storica; al trattamento informatizzato dei dati all'offerta dei servizi e prodotti informativi su vari supporti per la comunità degli studiosi a vario titolo interessati alla bioetica. - Progetto 'Archivi del '900". L'Istituto conferma la sua adesione al progetto 'Archivi del '900" per l'informatizzazione complessiva in rete del materiale archivistico di quattro istituti culturali (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Gramsci, Fondazione Basso, Istituto Sturzo) che conservano, anche per quel che riguarda gli archivi, un patrimonio storicamente e culturalmente complementare.
Nel corso del 1995 è stata installata nei locali dell'Archivio Storico la nuova attrezzatura necessaria per l'utilizzo del sistema ed ha avuto luogo il corso di formazione ed addestramento degli archivisti dell'Istituto per l'avvio operativo del sistema.
Progetti di ricerca. "Il ruolo socio-politico delle élites italiane nel processo di mutamento del sistema istituzionale". Responsabile scientifico prof. Giovanni Aliberti, richiesto finanziamento al CNR. "Cicli delle variazioni climatiche nel Mediterraneo". In collaborazione con l'UA (CNR), progetto sulla climatologia storica e pre-storica nell'area mediterranea, analisi dei dati di valutazione, cicli, predittibilità e interpretazione. Richiesto finanziamento alla CEE. Progetto di costituzione di un laboratorioosservatorio relativo al tema dell'Economia Domestica, da attuare mediante l'acquisizione e la microfilmatura del materiale archivistico depositato presso le famiglie sotto forma di libri dei conti. "Gli scenari conflittuali post-2000 e le tecnologie emergenti. Circolarità del rapporto causa-effetto e centralità dell'uomo-persona". In collaborazione con il Copit, la ricerca è volta all'approfondimento della problematica relativa all'area del bacino del Mediterraneo. "Crescita, competitività, occupazione, le sfide e le vie da percorrere per entrare nel )OU secolo". Analisi sugli studi condotti da Jacques Delors nel Libro Bianco. I2ltalia e la sua ammissione all'ONu. Ricerca, convegno nazionale e mostra iconografica per il cinquantesimo anniversario della fondazione dell'ONu. Approvato finanziamento dal ministero Affari Esteri. 111
La mostra iconografica, organizzata in collaborazione con l'Università statale di Milano e l'Istituto Fondazione Gramsci, sarà preparata con materiale di «letteratura grigia» proveniente dagli archivi dei partiti politici. Il convegno si articolerà nei seguenti punti: atteggiamento dei partiti nel dibattito politico e culturale sul problema dell'annessione dell'italia all'Onu, adesione alle Nazioni Unite, nelle carte d'archivio dell'Istituto Sturzo; la questione delle excolonie e il mandato sulla Somalia; l'italia all'UNEsco, rinuncia alla guerra e difesa della patria a fondamento della convivenza internazionale organizzata. Celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della promulgazione della Carta Costituzionale. Per presentare il progetto di ricerca si attende di sapere l'iter del d.dl presentato dai senatori del gruppo del Pi (nel luglio 1995) per prorogare le disposizioni della legge n. 249 del 14/7/43 e consentire nel biennio '96-'97 la celebrazione del cinquantesimo anniversario della promulgazione della Costituzione. Nell'intento di recuperare una memoria storica indispensabile per valorizzare i significati culturali del Giubileo, gli Istituti aderenti al BAICR intendono, attraverso la costruzione di una banca dati, mettere a disposizione di un vasto pubblico una serie di informazioni sugli anni santi del passato. Tali informazioni riguarderanno i 25 giubilei ordinari celebrati tra il 1800 e 1975, a tale fine verranno scandagliati archivi e biblioteche, per fornire cronologie, contesti culturali e amministrativi, notizie e aneddoti. Convenzioni, il Consorzio BAICR ha stipulato con l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata, l'Università degli Studi di Salerno 112
Facoltà di Scienze Politiche, l'Università degli Studi di Perugia Facoltà di Magistero, convenzioni con lo scopo di istituire una collaborazione scientifica e didattica fra gli istituti culturali e le università citate nell'ambito delle discipline storiche e sociologiche. Sono in attesa di stipulazione convenzioni di collaborazione con l'Università degli Studi di Roma «La Sapienza», la Terza Università degli Studi di Roma, l'Università degli Studi di Parma. Corsi di formazione. "Corso di perfezionamento in psicologia del lavoro e dell'organizzazione", in collaborazione con la Scuola Romana di Psicologia del lavoro e dell'organizzazione. Il corso, la cui direzione scientifica è affidata al prof. Aldo Cascioli, è biennale e si articola su quattro Laboratori. Organizzazione aziendale, selezione del personale, formazione e valutazione delle posizioni, delle prestazioni di lavoro e del potenziale. Obiettivo del corso è formare in maniera molto professionale «Esperti di sviluppo delle risorse umane» destinati ad operare nelle direzioni del personale delle varie organizzazioni produttive, nelle società di consulenza e come liberi consulenti aziendali. "Corso di Storia contemporanea", promosso dal BAICR. Lezioni si storia contemporanea per le scuole superiori in preparazione dell'esame di maturità. "Corso di orientamento: scelta della facoltà, progettazione del piano di studi, informazioni sulle borse di formazione promosso dal BAICR. Serie di incontri con docenti universitari sulle Facoltà umanistiche delle Università di Roma, Viterbo e Cassino.
"Didattica". Corsi e seminari per docenti della scuola secondaria; ricerca sui contenuti ideologici dei manuali di storia dal 1945 ad oggi; laboratorio seminariale sulla didattica della storia.
Club dei Giuristi. Seminario di problemi: "Radici e diramazioni del diritto penale". Il seminario è organizzato con incontri su concetti fondamentali del diritto e della scienza giuridica specialmente rilevanti per il diritto penale e sulle connessioni dogmatiche e operative fra il diritto penale e regioni specifiche del diritto. Seminario di lettura: "Il diritto mite di Gustavo Zagrebelsky". Il seminario, secondo della serie, prende in analisi il libro Il diritto mite di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi, Torino 1992). Scopo del seminario è ottenere un confronto di riflessioni su un libro scelto per le sue caratteristiche di interesse generale per giuristi di competenze e scuole diverse, per saldare l'unità della scienza giuridica e accelerare reciproci influssi di aggiornamento. Pubblicazioni in corso. "Economia Domestica (sec. XIX - XX)". Giadini editori e stampatori di Pisa. "Bicentenario della Rivoluzione Francese", Giadini editori e stampatori di Pisa. "Rerum Novarum", Giadini editori e stampatori di Pisa. "Cesare Balbo tra storia e politica", Casa editrice Laterza. "Sociologia". Rivista quadrimestrale di scienze storiche e sociali dell'istituto, Edizioni Scientifiche Italiane. ISTITUTO LUIGI STURZ0
Via della Coppelle, 35 - 00186 Roma Telefono 6892390.- Telefax 6864704
FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTARIATO
La Fondazione Italiana per il Volontariato è sorta nel maggio del 1991 con lo scopo di offrire servizi utili al volontariato in Italia e all'estero. Promotrice è stata la Cassa di Risparmio di Roma che ne ha garantito l'avvio con una donazione, mentre la crescita delle risorse è stata affidata, come stabilisce lo statuto, a "contributi, donazioni, eredità, lasciti, liberalità ed introiti di qualsiasi genere". Secondo lo statuto, gli scopi della Fondazione sono: 1) promuovere, incoraggiare e sostenere il volontariato; 2) approfondire la conoscenza del fenomeno; 3) curare la più ampia diffusione delle informazioni acquisite e degli studi promossi; 4) stimolare la progettazione, l'avvio, la realizzazione, il rafforzamento, il coordinamento dell'attività di volontariato; 5) garantire la consulenza per materie inerenti l'azione gratuita; 6) sviluppare relazioni pubbliche con altre istituzioni, nazionali e internazionali aventi finalità affini alla propria. Al servizio d'informazione, la Fondazione provvede attraverso il mensile "Rivista del Volontariato" (50.000 copie a numero) con i relativi "Quaderni" e attraverso l'aggiornamento permanente del "Dizionario Tematico" delle leggi sul volontariato. Di grande rilievo è la banca-dati sul volontanato. Quest'ultima iniziativa, necessaria e quasi pregiudiziale a tutto il lavoro della Fondazione, è la prima del genere nel nostro Paese. Sulla base di tale aggiornata serie di dati, la Fondazione ha potuto dare informazioni utili a tutti i cittadini italiani che, servendosi di un "Numero Verde" appositamente istituito, hanno richiesto e tuttora richiedono informazioni sul volontariato. 113
L'iniziativa di una linea telefonica gratuita deriva da una iniziativa statale per la promozione del volontariato svolta anche attraverso spot pubblicitari; in seguito, la gestione dell'iniziativa è stata assunta dalla Fondazione. Importante è anche il settore della formazione. Oltre all'assistenza per la progettazione di iniziative di formazione, di scuole e corsi di preparazione dei quadri e dei gruppi di volontariato vengono erogate borse di studio, nazionali ed internazionali. È stato istituito, anche, un premio annuale, il "Premio Nazionale della Solidarietà" per singoli, organizzazioni od iniziative che si siano segnalate in modo particolare nel campo del volontariato e della cooperazione sociale. Il premio di 100 milioni di Lire viene consegnato insieme ad altri nove premi per specifici settori di intervento o di supporto al volontariato. La Fondazione Italiana per il Volontariato è divenuta un importante punto di riferimento per tutto il volontariato sociale ita-
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liano a cui offre consulenza, oltre che di tipo culturale anche per questioni che sono essenziali per associazioni piccole o nascenti, cioè le questioni legali o fiscali. Su richiesta di organismi di volontariato, di movimenti, gruppi, istituzioni pubbliche, autonomie locali, fondazioni, diocesi, università e centri di ricerca, la Fondazione svolge ricerche e studi e organizza convegni, corsi, seminari e conferenze. Fra le ultime iniziative va segnalata la presentazione il i marzo 1996 dei dati relativi al volontariato femminile. Durante l'incontro "Volontariato in Rosa" sono stati presentati ai giornalisti i dati relativi alla presenza e alle caratteristiche del volontariato femminile, la distribuzione di questo sul territorio italiano e il livello di coinvolgimento secondo le fasce d'età.
FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTARIATO
Via Nazionale, 39 - 00184 Roma Telefono 474811 - Telefax 4871811
Segnalazioni
AJCCRE
Breve Storia del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa Salemi Pro. Edit., Roma 1995 Il progetto federativo europeo è un'idea "forte", che prosegue il suo cammiiib malgrado i moltissimi avversari, i quali, specie in quest'ultimo periodo, vorrebbero veder sparire dai trattati e dalle intenzioni dei politici europei ogni riferimento ad una tendenza unitaria dell'ordinamento comunitario. Eppure, questa tendenza esiste ed è concretamente espressa negli atti fondativi di quel soggetto giuridico che anche gli euroscettici doyranno abituarsi a chiamare Unione. Ma che Unione sarà? Soltanto uno spazio di libero mercato, un Leviatano che riproduca a livello maggiormente oppressivo i guasti degli Stati nazionali, o possono confìgurarsi modelli alternativi? Uno degli organismi sovranazionali che maggiormente ha svolto opera di ricerca e proposta per sviluppare un modello federativo in grado di coniugare unità e particolarismi, che come notava CarI J. Friedrich è poi l'essenza del federalismo, è il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa. Opera, come si è detto, di costruzione culturale ed istituzionale per la formazione di una compiuta federazione europea, vista
come luogo di sintesi e di crescita dei singoli ordinamenti locali. Questa Associazione raggruppa gli amministratori di oltre centomila enti (Comuni, enti intermedi e Regioni), di 24 Paesi dell'Europa occidentale, centrale ed orientale. Il volume presentato dall'Aicci, che costituisce la sezione italiana dell'Associazione, vuole sì rappresentare una fedele cronistoria della sua attività, offrendo però gli strumenti necessari per la comprensione e l'approfon'dimento del modello teorico federalista. Un vero e proprio quadro di riferimento che permette di acquisire le basi fondamentali delle finalità cosmopolite di una concreta e realizzabile "pace mondiale", basata su relazioni tra ordinamenti federali. Nel volume vi è, quindi, una parte dedicata agli aspetti teorici del moderno federalismo con riflessioni sugli scritti di Seeley e Dehio, nonché di Patrick Geddes e Milhaud sugli aspetti della realtà socio-economica maggiormente coinvolti nel processo dinamico che conduce ad ordinamenti di tipo federale. Si passa, quindi, ad una dettagliata disamina degli atti del CcRE tesi ad affermare e promuovere il proprio progetto politico e, vorremmo dire, esistenziale. Una storia che ci dimostra quello che la politica degli Stati 115
europei ha svolto o ha disfatto "in tema di unità democratica sovranazionale nell'ultimo mezzo secolo». Un periodo difficile, che ci lascia in eredità l'incombenza di non ripetere gli stessi errori, di non ascoltare più gli inviti ad una gestione tecnocratica ed iniqua della convivenza civile. Per raggiungere invece obiettivi di non facile crescita che si oppongano a pregiudizi, fanatismi e a quella pigrizia dell'intelletto che, come purtroppo ben sappiamo, genera mostri che negano il nostro essere uomini.
BETFINI (a cura di) Istituzioni e società in Russia tra mutamento e conservazione Franco Angeli, Milano 1996
RoNo
Si parla di Russia e si pensa al caos, ad una situazione non definibile, dove non è possibile avventurarsi in previsioni per scenari futuri, poichè non vi sono parametri certi, né tantomeno accertabili. Ma non sembra utile, specie dal punto di vista scientifico, fermarsi alla prima impressione.
Il volume Istituzioni e società in Russia tra mutamento e conservazione, curato dal prof. Romano Bettini ed uscito in questi giorni per i tipi della Franco Angeli, non si arresta all'evidenza dei magmatici dati del contigente, ma, attraverso gli autorevoli interventi proposti, ricerca continuità storiche, categorie euristiche dove incanalare e correggere vere e falsate informazioni, facili catastrofismi ed ancor più facili (e pericolose) generalizzazioni. Il testo riporta gli atti del Convegno italorusso su "Società e istituzioni russe: quale 116
transizione, quali paradigmi alle soglie del terzo millennio", svoltosi il 27, 28, 29 ottobre 1994 nella Sala congressi dell'Università "La Sapienza" di Roma, organizzato dalla Cattedra di Sociologia del diritto della quale è titolare il prof. Bettini. Lo stesso, nella sua introduzione al Convegno, ci conduce proprio tra gli elementi che "legano" il quadro degli eventi a continuità storicosociali, a topoi, simboli, valori, ineliminabili da qualsiasi tentativo di comprendere la realtà russa. Si analizzano, quindi, le posizioni degli "occidentalisti" e degli "slavofili", per giungere al modello interpretativo del dispotismo orientale, ripreso da Max Weber e soprattutto da Wittfogel, per comprendere il modello di Stato esistente in Asia dove lo stesso "è più forte della società". Si passa, quindi, all'esporazione di dati statistici sul problema della criminalità e sui temi del quotidiano che svelano insospettabili aspetti delle opinioni dei cittadini moscoviti. Si giunge, infine, ad una serie di conclusioni che aprono a scenari tutti da disegnare, ma a partire da elementi di fondo non ignorabili: quali, ad esempio, la consapevolezza che in Russia, una modernizzazione, anche se imperfetta, è certamente avvenuta. Ed è forse inutile (se non dannoso) credere o sperare in una transizione verso il modello della post-modernità occidentale, prima che si completi una reale modernizzazione "azzeratrice dei ritardi storici" e legittimante la formazione di istituzioni economiche, politiche e culturali consolidate. Non è possibile, almeno per ragioni logiche, diventare "post-moderni" senza essere stati moderni Non riteniamo di citare saggi od interventi
particolari. Faremmo un torto agli autori non nominati. Basterà ricordare che i vari approndimenti permettono di uscire da quell"onor vacui" prima ricordato, per lasciare posto ad una seria, ma non meno drammatica valutazione dei "germi" che avevano generato il sistema totalitario sovietico, e che ora sta al coraggio degli uomini sconfiggere per sempre.
Rapporto di Ricerca sul Volontariato Sociale Italiano Edizioni Fondazione Italiana per il Volontariato, Roma 1995 Nonostante la crescente popolarità, il Volontariato resta, nella sostanza, un oscuro oggetto del desiderio. Intorno ad esso circolano informazioni vaghe, incerte e talora contraddittorie. E, tuttavia, l'iniziativa volontaria sembra essere in crescita anche in Italia e rappresenta una parte non irrilevante del sistema sociale nei Paesi sviluppati. La ricerca promossa e realizzata dalla Fondazione Italiana per il Volontariato - i cui risultati trovano una prima esposizione nel
volume intitolato "Il Volontariato Sociale Italiano" - ha voluto "diradare la nebbia" con il tentativo di una prima "messa a punto L'oggetto dell'indagine è, appunto, il volontariato sociale: rivolto ad aiutare gli individui ed i gruppi coinvolti in qualunque forma di disagio sociale, gratuito sia da parte di chi lo riceve che da parte di chi lo eroga, organizzato anche in forme elementari con garanzia di una qualche continuità, volto soprattutto a terzi (non appartenenti al gruppo). L'oggetto dell'indagine non è
dunque tutto il volontariato, né tantomeno tutte le realtà del cosiddetto terzo settore, e neppure l'associazionismo. Si tratta di un oggetto limitato e preciso, circoscritto ai fini della ricerca per una scelta consapevole. La rilevazione sul campo è stata eseguita dall'ottobre '92 al maggio '93, con lo scopo di far emergere le organizzazioni del volontariato, rintracciarle e censirle, conoscerle nella loro struttura organizzativa formale, nella loro operatività, nelle loro dimensioni, conoscere i volontari impegnati, le risorse cui attingono, l'impegno anche quantitativo che vi dedicano, etc. Il primo importante risultato di questa indagine è stata la costruzione di una Banca Dati del Volontariato, funzionante presso la Fondazione ormai da oltre due anni. Il secondo risultato è stata la stampa del volu-
me Annuario del Volontariato Sociale Italiano, uscito esattamente un anno fa in edizione unitaria e con fascicoli specifici per 12 gruppi di Regioni. Il rapporto di ricerca su Il Volontariato sociale Italiano contiene una sobria esposizione dei risultati. Il rapporto riassume i dati di 8.893 organizzazioni rilevate nel '92-'93 (oggi, con i successivi aggiornamenti, sono 9.380) la loro distribuzione nelle diverse aree territoriali e nelle singole Regioni, in rapporto alla popolazione; una stima realistica del numero dei volontari per sesso, età e livello di istruzione. Viene descritta l'operatività del volontariato italiano, che tocca tutte le utenze possibili con una grande varietà di interventi: dai malati e gli anziani (utenze tradizionali) ai tossicodipendenti e immigrati (utenze nuove). Dal rapporto emerge che una caratteristica importante e generalizzata del volontariato 117
sociale italiano, consiste nel decentramento organizzativo ed operativo. Gran parte del fenomeno è costituito da piccole organizzazioni molto decentrate sul territorio, con scarsi legami sia associativi che federativi e di coordinamento. La loro attività si svolge in ambiti molto circoscritti e denota un profondo radicamento e uno stretto rapporto con la società locale. Mediamente ogni organizzazione dispone dell'impegno di lavoro di circa 45 volontari. Anche la struttura organizzativa esiste spesso a livello soltanto elementare, di piccolo gruppo spontaneo, che tenta tuttavia di darsi delle regole soprattutto in funzione del lavoro da svolgere a favore dell'utenza. Si tratta infatti di gruppi non autocentrati ma fortemente centrati sul servizio da rendere al destinatario esterno, quindi sull'utenza e sull'operatività connessa a queste funzioni. Le organizzazioni del volontariato sociale danno molta importanza alla loro autonomia operativa. Le istituzioni nei confronti delle quali si esprime questo bisogno sono quelle - potenzialmente pii invadenti - in primo luogo dello Stato ma anche, se pure con minor peso, della Chiesa. Il riscontro di un difficile rapporto con le istituzioni dello Stato è confermato dalla rilevanza delle organizzazioni che con quelle istituzioni non hanno avuto alcun contatto formale (35%). Soltanto il 59% delle organizzazioni ha notificato con un atto specifico (atto notorio, atto notarile, iscrizione al registro regionale, altre forme di riconoscimento da parte delle istituzioni) la propria esistenza e la propria identità alle istituzioni dello Stato (a livello sia centrale che locale). Da ciò sembra emergere un atteggiamento e una cultura del volontariato sociale verso le istituzioni, che ribadisce l'interesse scarso 118
ad un contatto, anche di sola notifica, con esse, o di un semplice rapporto. Entro queste organizzazioni sono impegnati circa 400.000 volontari, soprattutto giovani adulti e adulti (36-45 anni di età), con una offerta di circa 150 milioni di ore di lavoro gratuito all'anno. Il rapporto sottolinea il carattere pluralistico del movimento, al quale partecipano sia i cattolici che i laici, spesso collaboranti nell'impegno di aiutare le persone ed i gruppi in condizione di disagio. Il rapporto fornisce, quindi, una visione d'insieme della realtà del volontariato, abbastanza precisa anche quantitativamente. Si tratta infatti di dati, per molti aspetti nuovi, su un fenomeno che comincia ad emergere a livello nazionale con alcune caratteristiche specifiche.
ANGELO
M.V.
VALENTI
La realizzazione progressiva dell'Europa Margiacchi Editrice, Perugia 1995
Titolare dal 1970 della Cattedra di diritto delle Comunità Europee nell'Università di Perugia e, prima d'allora, equilibrato magistrato, Angelo Maria Valenti ha avuto l'intuito e la opportunità di poter seguire, passo passo, sin dai suoi inizi, la costruzione comunitaria. Chi meglio di lui quindi poteva, di tale costruzione, rappresentarne lo scenario fisico, in cui, negli anni, essa si è materializzata e rendere così, nella sua opera, percepibile, in una successiàne ordinata e completa degli eventi, l'evolLizione delle norme e delle Isiituzidni che oggi governano l'Unione Europea del dopo.Maastricht.
Valori e finalità dell'integrazione trovano, così, puntuale riferimento nei tredici ampi capitoli in cui l'opera del Valenti è riassunta, senza peraltro che alcun aspetto o particolare di apprezzabile valenza storica o giuridica ne resti escluso. È quindi un percorso serio e documentato che l'A. percorre, conducendo il lettore a scoprire i presupposti materiali e gli elementi storici, politici, economici sociali e giuridici che hanno portato alla formazione di quegli "Enti ad attuazione progressiva", embrione vitale dell'unità politica dell'Europa. Ma, novità ed ulteriore pregio dell'opera del Valenti risiedono, a mio avviso, oltre che nell'aggiornamento meticoloso degli eventi comunitari, anche nell'aver collocato, in posizione assolutamente centrale, il
tema dei diritti fondamentali della persona. E poiché la storia, come Marc Bloch nella sua "Apologia" ci illustra, è mezzo e luce per rendere visibile la "brumosa genesi" dei nostri ordinamenti, così Valenti nel suo excursus storico fà risaltare il contributo che ciascuna istituzione comunitaria, dal Parlamento Europeo alla Corte di giustizia, ha dato nel tempo per la costruzione di una "filosofia" europea in tema di tutela ditali diritti. Da ciò deriva, è la conclusione dell'A., una "funzione internazionale" dell'Europa comunitaria, vera e autentica fonte di legittimazione etica, politica e giuridica dell'assetto sociale del terzo millennio.
(Carlo Antonio Trojani)
119
Notiziario CDP Notiziario del Centro di Documentazione di Pistoia Periodico di informazione culturale e biblio grafica n. 142 Numero speciale sulle Destre Atti del convegno "Le destre in Italia e in Europa nella seconda metĂ del Novecento" - Pistoia, 5 aprile 1995. Introduzione di Andrea Fusari.
Interventi di: Francesco Germinaro, Appunti sulla cultura di destra in Italia; Valerio Marchetti, La destra vista da sinistra; Dario Paccino, La destra italica di sempre. Conclude il numero una segnalazione di libri sui temi: destra/sinistra, fascismo/antifascismo, terrorismo.
n. 143 Numero speciale su antisemitismo, razzismo, minoranze etniche Alberto Burgio, La razza come metafora. Ipotesi storiche sul razzismo europeo contemporaneo; Alain Gussot, Razzismo e antirazzismo nella storia del socialismo italiano prima del primo conflitto mondiale; Pedros
Ceinos, Le minoranze etniche contro la logica dell'uniformitĂ . Seguono segnalazioni, molto utili anche ai fini didattici, su antisemitismo, immigrazione, razzismo, minoranze, carcere.
LIBERI LIBRI Numero speciale sulle edizioni anarchiche Oltre 300 libri segnalati Il pensiero anarchico: gli anticipatori, i classici, gli esponenti del movimento italiano, i produttori di idee e movimenti contemporanei.
La storia del movimento: ricostruzione storica e memorie. Il situazionismo; L'opposizione degli anni '60 e le lotte contadine nel Meridione. Analisi, interpretazioni, proposte per il presente. E ancora: sindacalismo, etnologia, cinema, poesia,femminismo e altre lotte. Abbonamento annuo: L. 25.000 per i privati e L. 30.000 per enti, biblioteche, associazioni, estero, ecc. Un numero L. 5.000. Versamenti sul c.c.p. 123865 12intestato alla Cooperativa, specificando la causale.
democrazia e diritto
trimestrale del centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato
3-4/95 COSTITUENTI DUE
Editoriale (Giuseppe Cotturri) IL TEMA: Sviluppo della democrazia, rforma della costituzione Pietro Barcellona, Una transizione pericolosa Umberto Allegretti, Globalizz.azione e sovranità nazionale Giuseppe Cotturri, Governabilità e rappresentanza alla pro va del maggioritario Salvatore Mannuzzu, Il paradosso del giudice. Giustizia e divisione dei poteri Massimo Luciani, Quattordici argomenti contro l'invocazione del potere costituente LA QUESTIONE: Tra rfor,na e revisione Isidoro Davide Mortellaro, Di nuovo sovrani e principati Sandro Guerrieri, Dopo Maa.stric/.st: quale costituzione europea? Silvia Boba, Riflessioni sui costo del lavoro nel quadro della globalizzazione Marcello Degni, Federalismo sovranazionale efederalismo infranazionale Daniela Giannetti, Decentramento efederalismo Salvatore Bellomia, Federalismo e regionalismo Eligio Resta, Passaggi Maria Grazia Giammarinaro, Una catti va fretta Michele Prospero, Le ideologie del maggioritario Alberto Gianquinto, Pluralità di regole. Considerazioni e proposte a parti re dalla legge elettorale Franco Pizzetti, Costituzione e legalità costituzionale Ernesto Bettinelli, Avventure costituzionali e rforme costituzionali Federico Coen, Modelli di partito e modelli istituzionali Claudio De Fiores, Il presidente della repubblica nella transizione Michele Carducci, Presidenzialismo senza diritti. Carmelo Ursino, Spunti per una rfòrma del parlamento Paolo De Ioanna, Decisione di bilancio eforma di governo Stefano Anastasia, Garanzie costituzionali e legittimazione del pubblico ministero Graziella Priulla, Il cortoci rcuito fra magistratura e media Claudio Lombardi, Authorities e poteri neutrali Amos Andreoni, Costituzione e diritti sociali Giuseppe Vecchio, La costituzione e l'associazionismo non-proflt Giorgio Ghezzi, Sindacato, concertazione sociale e democrazia maggioritaria Giorgio Lunghini, Il lavoro è il fondo: appunti Guido Memo, Formazione e partecipazione politica in Italia IL DIBATTITO: Sul "processo costituente" Interventi di: Giuseppe Chiarante, Pietro Ciarlo, Antonio Baldassarre, Armando Cossutta, Giuseppe Vacca, Luigi Ferrajoli, Alfiero Grandi, Giancarlo Bosetti, Anna Finocchiaro, Aldo Tortorella, Gloria Buffo, Sergio Garavini, Riccardo Terzi, Umberto Cerroni. Tavola rotonda con: Antonio Cantaro,.Franco Bassanini, Francesco D'Onofrio, Pietro Ingrao, Valerio Onida L. 25.000 - abb. 1996 L. 90.000 - c.c.p. 00325803 - Edizioni Scientifiche Italiane, via Chiaramonte 7, 80121 Napoli, tel. (081) 765443
Libertà di scelta. Per molte donne un diritto ancora da scoprire.
Katia Bengana, 16 anni, di Algeri. L'hanno uccisa perché non voleva più portare il velo. Dal 1992 gruppi armati islamici hanno ucciso centinaia di donne che non vestivano islamico, mentre gruppi anti-islamici uccidono chi invece lo fa. Non c'è scelta per le donne algerine. Lotta con Amnesty International per la libertà di opinione nella Campagna Mondiale per i Dii4tti Umani delle Donne. Perché le donne sono forti, coraggiose, caparbie. Ma combattono ad armi impari.
Amnesty International VIeMaazini14OOI95ROMA T06137514860 FaxO6/37515406
Le donne non si arrendono. (i Amnesty International neppure.
- D;dorni:ri informazioni sulla Campagna Donne.
o Desidero iscrivermi ad Amnesey Insernational e verso minimo £ 40000 sul CCP 22340004 accludendo ricevuta del versamento. Nome Indirizzo
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Città C.A.P.
Pro,
UZI Ot
VERSO UNA POLITICA DI LOTTA ALLA POVERTÀ L'ASSEGNO PER I FIGLI E IL MINIMO VITALE
Commissione dl indagine sulla povertà e sull'emarginazione
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DIPARTIMENTO PER L'INFORMAZIONE E L'EDITORIA
Volume li n. 15
novembre 1995 INDICE taccuino
lo scheletro del dinosauro giovanna zincone
129 va' dove di porta I 'opportunismo enzo marzo
131 «dio lo vole!!!» antiguelfo
132 astrolabio
torniamo a condorcet bruno trentin
133 borghesia senza civismo riccardo chiaberge
139 arricchirsi di liberalismo mimmo cari-ieri
141 Direttore responsabile Enzo Marzo
Consiglio di direzione Luisella Battaglia, Franco Corleone, Vincenzo Ferrari, Elisabetta Galeotti, Piero Ignazi, Paolo Manzi, Orazio M. Petracca, Aldo Visalberghi, Giovanna Zincone Critica liberale è mensile ed esce dieci volte l'anno. Un fascicolo costa lire 3.000. Abbonamento per dieci numeri lire 25.000. Abbonamento sostenitore lire 100.000. Fascicoli arretrati lire 5.000. Per abbonai-si inviare assegno o versare l'importo su c.c.p. n. 39311006 intestato a Critica liberale. La rivista è edita dalla Fondazione Critica liberale Si può chiedere una copia-saggio alla redazione: Critica liberale, via dell'Orso, 84 - 00186 Roma - tel. e fax 0616867981
INFORMAZIONE E CRITICA LEGISLATIVA
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ATTUALITÀ LEGISLATIVA
Il ruolo ed il controllo dell'Autorità di vigilanza
sulle Fondazioni di CARMINE LAMANDA Documentazione parlamentare in materia (Atto Camera n. 483, Atto Senato n. 2080)
OSSERVATORIO TESTI UNICI Finanziamento non bancario: nuove opportunità per le imprese di GIOVANNI CASTALDI
MULTIMEDIALITÀ E DIRITTO Il teletavoro: normativa vigente e spunti
"de jure condendo" di GIANFRANCO DI GARBO
La rete telematica unitaria della P.A.: dal progetto alla fase di attuazione Conveno alla Camera dei deputati presieduto dal Vice Awocato generale dello Stato ANTONINO FRENI con interventi di: Cons. FRANCO FRATrINI, Ministro per la Funzione Pubblica; Prof. GUIDO REY, Presidente dell'AIPA; Dott. STEFANO PARISI, Capo dipartimento Affari Economici della Presidenza; Pref. CARMELO CARUSO; Pres. ONOFRIO FANELLI, dir. CED Cassazione ed esponenti di Telecom Italia; Omnitel Pronto Italia, IBM e Fininvest Servizi.
ITER LEIIS
CONTRIBUISCE IRLUI TROSPIERRENZII
RISLS...I
La finanza pubblica italiana dopo la svolta dei 1992 acuradi
Andrea Monorchio
I nodi slrijtlurali ed istilijzionali della politica di bilancio nel nostro approfondimenii e proposte
il Mulino
SI.I
Pubbli n. 5
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Editoriale......................................................................................................2 Pubblico Bene informa Cento Progetti al servizio del cittadini ..................................................... Progetto dl comunicazione istituzionale .................................................. La Fondazione Agnelli si occupa di pubblica amministrazione ............ Collaborazione Anci-Confindustria .......................................................... Progetti "pilota" finalizzati cx articolo 26, legge 67/88 ..........................
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Servizio di ospedilh77vione a domicifio della Usi 8 dl Torino diPaola Baroncini ..................................................................................... 13 La Confindustria scende in campo............................................................... La Regione Liguria intraprende la strada della deregolamentazione diFranco Rizzo .......................................................................................... L'Istituto tecnico industriale "G. Vallauri" di Fossano si Informatizza diGiovanni Fresia ....................................................................................... La Direzione provinciale del Tesoro di Bari va al domicilio dei malati di Vincenzo Gar,ganese ................................................................................ Ordine di servizio n. 33 del 21.9.95..................... . .................................
19 20 30 34 36
Le refezioni scolastiche Roma contrattazione, conflitto e trasparenza di Giuseppina Filacchione ...................... . ............... 37 L'esperienza di Torino: dalle stalle alle stelle? diGiancarlo Dalmaso................................................................................ 44 MenĂš biologico delle scuole dell'obbligo di Torino ............................. 49 . ... . ........................ . ........
Lo sportello per la carta dei sewizi 11 ministero della SanitĂ diventa consulente diMaura Liberatori ...............
. ..............................................
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"Tra il dire e il fare" Le carte dei servizi: non una rivoluzione, ma una opportunitĂ diGiustino Trincia ...................................................................................... 61
queste ìstìtuzìonì La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspettipiù significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi, dunque, è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —Il taccuino, con il primo numero del 1996 si intende iniziare un nuovo utilizzo del taccuino non più contenitore di rubriche, ma spazio da dedicare a temi di attualità. —I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'»Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. È stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Le rubriche, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni, fondazioni e centri studi, e le recensioni di testi che trattano temi di nostro interesse. Gli opuscoli,
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è stato pubblicato il 30 numero degli opuscoli di Queste Istituzioni. La nuova serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del 10 numero con il dossier «Cultura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei, per uso professionale o didattico, (è il caso di questo 30 opuscolo dedicato a "L'informatica delle pubbliche amministrazioni"); presentare materiali complementari alla rivista (come nel 2° opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").
La collana Maggioli - Queste Istituzioni Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. SIof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 In corso di pubblicazione: Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit. Advisory Commission on Intergovernmental Relations La riorganizzazione delle economie pubbliche locali
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