Anno XXIV - n. 106-107 - Trimestrale (aprile-settembre)
queste istituzioni Scienze Sociali e Agenda per l'Italia Sergio Ristuccia
Taccuino Chizzoniti, Serafini, Sidoti e Manzella
Globalizzazioni, localismi, Europa "The Economist' Giuseppe Godano, David Bogi, Fabio Luca Cavazza e Carlo Pelanda
Tensioni ed inquietudini di Francia e Germania Olivier Mongin, Michael Fichter
Alla ricerca del «ben amministrare» Salvatore Teresi, Saveria Addotta e Alfonso Ferraro
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n. 106-107 1996
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rivista dd Gruppo di Stsdio SocietĂ e Istituzioni Anno XX1V n. 106-107 (aprile-settembre 1996) Direttore SERGIo RISTIJCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttori: MAssiMo A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Responsabile redis.zione SAVERIA ADDOTrA Responsabile organizzisziont' GIORGIO PAGANO Responsabile relazioni esterne: MASSIMO RIBAUDO Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI .4 mministrazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 Roma Tel. 0613215319 - Fax 06/3215283 Direzione e Redazione Corso Trieste, 62 - 00198 Roma TeL 0618419608 - Fax 0618417110 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile. GIOVANNI BECHELLONI Editore QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE
ISSN: 1121-3353 Stampa: I.G.U. s.r.l. - Roma Chiuso in tipografia il 20 giugno 1996
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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
N. 106-107 1996
Indice
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Scienze Sociali e Agenda per l'Italia Sergio Ristuccia
Taccuino XIX
Giornalismo. Il lettore, ma chi sarà mai? Antonio Chizzoniti
XXVI
Qualche noticina sul federalismo Umberto Serafini
)OOUII
Il partito tedesco Francesco Sidoti
XXXIX
Tra Roma e Pontida Andrea Manzella
Globalizzazioni, localismi, Europa 3
La globalizzazione dei mercati finaiuiari: lo Stato è inerme? da «The Economist"
54
Problemi e scelte della vigilanza bancaria internazionale Giuseppe Godano
64
Globalizzazione e localismo David Bogi
83
Maastricht: prima, durante, dopo Fabio Luca C'avazza e Carlo Pelanda
I
Tensioni ed inquietudini di Francia e Germania 111
Insicurezze sociali Olivier Mongin
124
Separati in casa: i sindacati tedeschi dopo l'unificazione lvii chael Fichter
Alla ricerca dell'arte del «ben amministrare» 143
Un tentativo di formazione direzionale da meditare: il CEIUsDI a Palermo Salvatore Teresi
166
L'<American Society for Public Administration»: tra passato e presente Saveria A&otta e Alfonso Ferraro
Rubriche 193
Notizie dal CRESME
197
Notizie da...
201
Segnalazioni
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editoriale
Scienze sociali e Agenda per l'Italia
Lo scorso 10 maggio si è tenuta l'assemblea annuale del Consiglio Italiano per le-Scienze Sociali (Css). L'incontro ha avuto anche una sessione pubblica durante la quale è stata letta la Relazione del Presidente che qui pubblichiamo. La maggior parte dei temi trattati sono già presenti nei passati editoriali, anzi la relazione ne rappresenta in qualche modo un "riassunto generale".
L'assemblea costituisce l'occasione per una presentazione aggiornata ovvero una ri-presentazione (il Consiglio, in realtà, sta avvicinandosi ai suoi venticinque anni) suggerita, o meglio quasi imposta, da due fatti: uno esterno ed uno interno. Il primo è la stessa condizione storica che vive la società italiana nei molteplici e, si direbbe, aggrovigliati aspetti di un non facile cambiamento politico. Il secondo è il rinnovamento recente e in corso della composizione del Consiglio con l'arrivo di nuovi soci e dunque di nuove evalidissime energie intellettuali. Consideriamo il primo punto. Ho accennato alla condizione storica del Paese quale è caratterizzata dal processo, ancora pienamente in corso di svolgimento, del cambiamento politico. Sappiamo che tale condizione storica non si esaurisce in questo cambiamento. Anzi costringervela sarebbe un evidente errore. La società italiana subisce tensioni e vive cambiamenti che hanno ben altre origini, peculiari alcune (per esempio, certe estremizzate tendenze demografiche in termini di natalità) pii generali altre riguardanti tutte le società europee (basti pensare ai grandi e, probabilmente alla fine, incontenibili flussi migratori che percorreranno sempre pii il Continente ovvero alla cosiddetta "globalizzazione" dell'economia, anche quando questa venga tarata dall'eccesso di enfasi e di luoghi comuni con i quali usualmente se ne parla). Il fatto è, però, che nel cambiamento politico - il quale significa anche, o dovrebbe significare, possibilità di inaugurare diversi comportamenti e modelli di relazione fra soggetti sociali rilevanti ed in particolare fra mondo della politica e coIII
munità scientifiche - sorgono delle opportunità. Sono le opportunità, in qualche misura preziose, di istituire rapporti migliori in termini di valori e comunque di utilità sociale fra le istituzioni della politica e le istituzioni della riflessione e della progettazione scientifica, fra uomini politici e uomini dedicati a cultura e scienza. Nel frantumarsi di alcuni assetti politici e di alcuni partiti sono state rivolte molte invocazioni alla "società civile". Ne sono nate aspettative molteplici, quanto vaghe. La supposta vitalità e capacità creativa della società civile spesso si sono rivelate inesistenti e comunque inferiori alle immaginarie attese. Forse c'è qualche ambiguità o indeterminatezza nella stessa espressione. In realtà, essa vale piìt in senso prescrittivo che descrittivo, cioè agevola il convincimento che l'insieme di "infrastrutture civili" (associazionismo di vario tipo, presenza di qualità delle professioni e delle amministrazioni pubbliche) che s'usano richiamare con l'espressione, peraltro suggestiva, di società civile vadano costruite o ricostruite o comunque migliorate. Fondamentale in questa opera di ricostruzione è l'apporto di un coordinato lavoro delle scienze sociali. Ma quali sono i presupposti di un nuovo e migliore rapporto fra sistema politico in via di riorganizzazione e liberi organismi di coordinamento del lavoro culturale e scientifico? Nell'esperienza dei sistemi di democrazia rappresentativa maggioritaria avviene spesso che anche il rapporto di appartenenza sia all'insegna di un forte spirito di indipendenza o nell'impronta stessa dell'indipendenza. I vincoli ideologici sono allentati a favore di una verifica intellettualmente onesta di fini e mezzi, nella logica e nel rispetto dei diversi compiti e responsabilità. Mentre s'infrangono consolidate connivenze clientelari, quelle che hanno raggelato spesso le disponibilità di molti studiosi e scienziati tenendoli fuori o ai margini dell'impegno civile. Bisognerebbe, in realtà, considerare a fondo questi aspetti del rapporto fra politica e mondo della cultura e della scienza, per fare un giusto bilancio fra un vecchio tipo di rapporti e le nuove opportunità. A questo proposito giovano poco, a nostro parere, i discorsi che si sono fatti, prima e dopo le recenti elezioni, riguardo alle voglie di schieramento degli "intellettuali", alle presunte propensioni verso acritiche aggregazioni invece che riguardo ai modi con cui studiosi e scienziati organizzano insieme il loro lavoro, e dunque, il loro apporto civile. Del resto, se l'impegno di appartenenza viene valorizzato e segnato dallo spirito di indipendenza si ritrovano le condizioni affinchè gli uomini di studio o, per usare un vecchio termine, gli intellettuali possano seriamente rispondere ai loro compiti quali li ha delineati tempo addietro Wolf Lepenies. Questi ricordava con chiarezza: "Non si tratta di esprimere opinioni o rivolgere appelli il cui scopo
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principale è quello di tranquillizzare la coscienza dei rispettivi firmatari. Essi dovrebbero assumersi l'obbligo di prendere posizione di fronte alle questioni incalzanti del nostro tempo facendo leva sull'opinione pubblica. Non si tratterebbe di manifesti, bensì di prese di posizione accuratamente preparate da gruppi di lavoro che, di regola, verrebbero pubblicate in modo "anticiclo" e conterrebbero sempre anche riguardo all'opinione pubblica e alle opinioni pubblicate, un potenziale di sorpresa, con la ferma intenzione di mettere in discussione le ovvietà del consueto consenso politico, di avviare svolte necessarie nella formazione delle opinioni politiche e di far applicare decisioni politiche impopolari, ma inevitabili". In secondo luogo, è da considerare un altro vantaggio del sistema maggioritario: la governabilità intesa come durata nel tempo dei governi. Ciò dovrebbe consentire di allungare gli orizzonti temporali delle politiche pubbliche e, quindi, di dare respiro ad un dialogo costruttivo fra decisori e studiosi. O meglio, dovrebbe consentire di beneficiare dell'apporto di quanti non operino scientificamente sullo stretto contingente o congiunturale. Se la politica ha bisogno di uscire dall'immediatezza, questo dialogo e questo apporto possono rivelarsi fondamentali. Infine, un ultimo elemento favorevole va segnalato e raccolto: l'attenzione sorta in questi ultimi anni anche nel nostro Paese riguardo il settore cosiddetto non profit, cioè di quell'ampio fenomeno dell'azione sociale disinteressata che ricomprende una vasta gamma di soggetti, attività e iniziative di cui ho compiuto un'ampia ricognizione, in un volume "Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non-profiP in corso di pubblicazione. È importante questa attenzione perché serve a scardinare la logica ferrea del pubblico-privato secondo la quale tutto ciò che non è strettamente mercato appartiene alla sfera pubblica ed è campo di esclusiva competenza delle istituzioni pubbliche. Il rilievo del non profit dà sostanza e prospettive nuove all'esercizio attivo della cittadinanza. È proprio di questa concezione della cittadinanza il contributo all'elaborazione e poi alla valutazione delle politiche pubbliche che venga dalla libera auto-organizzazione di studiosi e scienziati. Con tutti i rischi che derivano da questa assunzione di responsabilità. Ci sono, dunque, sufficienti motivi per dire che il fattore esterno suggerisce o addirittura impone di ripresentarsi sulla scena. Esso, anzi, viene a scandire una nuova fase della presenza del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali. Sorto nella prima metà degli anni Settanta a conclusione e come proseguimento dell'opera compiuta dal Cospos, il Comitato per le Scienze Politiche e Sociali che era stato promosso nel 1966 dalla Fondazione Adriano Olivetti e dalla Ford Foundation al fine di promuovere e sostenere lo sviluppo delle Scienze Sociali in
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Italia, il Css si poneva sulla scia di quelle istituzioni pubbliche o private, associative o del tipo fondazioni che erano nate in molti Paesi occidentali sulla falsariga del Social Science Research Council sorto negli Stati Uniti negli anni Venti con la dichiarata intenzione di contribuire alla soluzione, attraverso conoscenza e progetto, dei grandi problemi sociali. Riaffacciarsi decisamente sulla scena ha significato innanzitutto chiamare a raccolta, come ho già ricordato, nuove energie allargando la membership e favorendo un certo ricambio generazionale. Ha significato e significherà un aggiornamento dello Statuto, anche per agevolare nel prossimo futuro la ricostruzione e il rafforzamento di un altro caposaldo del Consiglio: il gruppo dei soci sostenitori. Certo, sostenitori sul piano finanziario ma anche e, fondamentalmente, sui piano della fiducia e dello stimolo ad operare. Dunque, soci ben radicati nella realtà economica e sociale del Paese. Nelle prospettive che si aprono, il Css terrà in considerazione due punti qualificanti del modello al quale esso si ispira: 1) le iniziative concrete di analisi e di riflessione dovranno essere un punto di incontro fra studiosi e operatori della vita sociale e istituzionale interessati e coinvolti nell'attività riflessiva; 2) le medesime iniziative dovranno essere un circuito privilegiato per raccogliere e utilizzare lo stesso sapere che deriva dall'esercizio migliore delle professioni. A monte di una qualsiasi riproposizione del ruolo del Css c'è la questione del senso di una presenza scientifica attivamente multisciplinare. Di recente è stato pubblicato il Rapporto della Gulbenkian Commission on the Restructuring of the Social Sciences (Open the Social Sciences, Stanford University Press, 1996). Nel rapporto viene fatta un'interessante ricostruzione del concetto e della realtà delle scienze sociali dal tardo Settecento ad oggi che consente di sottolineare alcuni passaggi importanti per quanto riguarda l'ultimo periodo dalla Seconda Guerra mondiale ai nostri giorni. Innanzitutto, subito dopo il 1945, le scienze sociali si impongono come strumenti conoscitivi dell'ampia realtà storica e politica-sociale delle tante aree geografiche relativamente alle quali gli Stati Uniti sono stati chiamati ad esercitare la loro egemonia od influenza, come principale potenza mondiale, senza aver avuto alcun precedente ruolo politico. Gli studi di area (nel senso geopolitico del termine) divengono, perciò, il campo di sperimentazione di una multidisciplinarietà che non si è posta grandi problemi epistemologici e di corrette relazioni interdisciplinari. J2idea era di fare in modo che il maggior numero di studiosi si occupassero dei fenomeni sociali di zone ed aree geografiche ancora sostanzialmente sconosciute.
Gli "area studies" sono stati, innanzitutto, un modello di organizzazione degli studi. Modello che, al di là delle ragioni storiche originarie, ha costituito un punto di riferimento importante nel momento in cui si sono moltiplicate nel mondo le Università anche a seguito del grande sviluppo dell'economia mondiale nel periodo dei Gloriosi Trenta, come s'usano chiamare gli anni che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale. Nella grande espansione degli studi, si sono moltiplicate le sovrapposizioni, sono emerse la specializzazioni di nicchia anche per dare risposta al principio dell'originalità della ricerca scientifica. Sono cresciute le domande di conoscenza: Europei e NordAmericani scoprono di avere le proprie "tribù" interne, cioè grovigli di identità sociali ed etniche che devono essere studiati. Sulla scia del Sessantotto si afferma l'interesse per la gente dimenticata ("the forgotten peoples") e così via. Tutto ciò si traduce facilmente in nuovi filoni disciplinari. Contemporaneamente, si ripropone la questione centrale dei rapporti fra scienze sociali e scienze naturali e fra le diverse scienze dell'uomo. A questo proposito, così riassume Immanuel Wallerstein che ha coordinato i lavori della Gulbenkian Commission: "Due cose fondamentali sono accadute negli anni Settanta ed Ottanta. La prima è una grande rivoluzione nelle scienze naturali. Queste erano epistemologicaiiiente assai stabili dal XVI, XVII secolo fino 'agli anni Settanta, nel senso che le premesse newtoniane/cartesiane rimasero sostanzialmente alla base di tutta l'attività scientifica. La scienza era la ricerca delle leggi più semplici. La scienza era obiettiva. La scienza era neutrale. La scienza era cumulativa. Ciò che accade è che una rivoluzione che si stava preparando dalla fine del XIX secolo, acquisisce piena forza organizzativa negli anni Settanta. Si afferma e si diffonde l'idea che la scienza non è deterministica. Quel che possiamo avere sono soltanto affermazioni probabilistiche riguardo al futuro. È impossibile ottenere accuratezza matematica. Ogni volta che misurate, state misurando qualcosa di diverso. I processi non sono lineari ma si biforcano sempre. La scienza è la ricerca del complesso e non la ricerca del semplice Tutto ciò - rileva Wallerstein - trasforma le relazioni fra scienze naturali e scienze sociali, nel senso che le fa volgere verso i presupposti già propri e fondamentali delle scienze sociali. Il secondo fenomeno è stato l'esplodere dei "cultural studies" che hanno coinvolto antropologi, storici, sociologi ed altri. "Quel che colpisce - nota ancora il nostro autore - è la misura in cui questi studi sono in realtà un movimento degli studi umanistici verso le scienze sociali" nel senso che anche ciò di cui parlano le "humanities" sono processi sociali. ori
Lasciando il rapporto della Gulbenkian Commission, suggestivo anche se sicuramente discutibile nelle sue ricostruzioni storiche, è necessario rimarcare quanto importanti siano i compiti di chi si ponga al crocevia di vari filoni di ricerca sociale - anche sul piano concettuale ed epistemologico - proponendosi di contribuire ad una politica delle scienze che faciliti le politiche pubbliche. Di ciò è ben avvertito il Consiglio. Luciano Gallino, uno dei miei predecessori come presidente del Css, nel bel libro einaudiano L'incerta alleanza del 1992 ha dipanato con chiarezza la matassa delle varie possibili relazioni fra le scienze umane e le scienze naturali. Per evitare o ridurre, nel prendere o attuare decisioni, quelle "formidabili difficoltà di comunicazione" e quella "serie di incidenti cognitivi" al cui paragone - per quanto riguarda effetti e costi - talvolta "impallidiscono molti dei peggiori incidenti tecnologici e ambientali". È anche nella prospettiva della soluzione di questo tipo di problemi che interessa al Css la ripresa di rapporti stabili con gli organismi omologhi di altri Paesi. Lavorare in network è fondamentale, come vedremo più oltre a proposito dell'iniziativa in corso in materia di minoranze e conflitti etnici. Lo è anche, o soprattutto, quando si tratti di affrontare le metodologie di base del lavoro delle scienze sociali. Per questo ci pare importante realizzare l'incontro con le organizzazioni consorelle dell'Europa del sud, ponendo sul tavolo la valutazione della pratica delle scienze. Oltrechè, naturalmente, l'incontro con imprese di ricerca di comune interesse da realizzare anche per mettere alla prova una corretta prassi metodologica. Penso, ad esempio, all'ottimo survey sul Mediterraneo promosso dal CRESME e realizzato da un gruppo di scienziati sociali italiani, fra i quali un socio fondatore del Css qual è Massimo Livi Bacci. Si tratta di un contributo importante all'elaborazione delle politiche pubbliche, non solo nazionali ma dell'Unione Europea, che deve trasformarsi in un filone di costante lavoro ed intervento con la partecipazione di studiosi di tutte le sponde del bacino mediterraneo. Il Css intende dare, dunque, il suo contributo convinto alla prosecuzione di un lavoro ricognitivo, già di per sé di rilievo ma naturalmente destinato a sviluppi, integrazioni, approfondimenti anche al fine della utilizzazione migliore sul piano dell'agenda politica. Nel quadro di una cooperazione ampia anche con altre istituzioni impegnate sul tema Mediterraneo come, per esempio, l'Istituto Affari Internazionali che condivide con il Consiglio origini comuni. Veniamo ad "Agenda per l'Italia", il programma di lavoro sul quale il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali ha cominciato ad operare dal 1995. Oggetto di tale programma sono i problemi della società italiana al di frori VIII
dell'immediatezza, problemi ai quali possono dare soluzione adeguate politiche pubbliche. Ci tengo a precisare che con politiche pubbliche non s'intende intervento dello Stato. Ho varie volte sottolineato quanto fosse fondamentale muoversi nella prospettiva di uno "Stato modesto" (nel senso del libro di Michel Crozier'di alcuni anni fa) e di strutture snelle di democrazia. Ma uno Stato non invadente vuole un surplus di intelligenza e di capacità di governo, come capacità di fare o suggerire scelte giuste, di comunicarle chiaramente e di ottenere, in una corretta interazione, il necessario consenso sociale. Dunque, il Consiglio cercherà di dare il proprio contributo all'elaborazione e alla valutazione delle politiche pubbliche per la quali riteniamo di avere energie e competenze. Un programma di lavoro è stato già avviato con il saggio di Arnaldo Bagnasco e con quelli che seguiranno sul tema delle politiche dell'educazione (che costituisce il ritorno ad un campo di riflessione e proposta che fu coltivato dal Css alle sue origini), e su quello delle politiche della pubblica amministrazione. Tema, quest'ultimo, sul quale mi soffermerò più diffusamente poco più avanti. Quanto ai criteri orientatori del nostro programma, vale affermarne perlomeno due: studiare le basi sociali della politica (e quindi, anche, delle politiche pubbliche, della politica al plurale); non fermarsi mai alla ricognizione difatti, processi e problemi ma definire sempre linee di soluzione Criteri certamente impegnativi ma obbligatori. Il lavoro di Bagnasco, già una prima volta discusso nell'Assemblea dell'anno scorso e poi in altri incontri, fornisce una dimostrazicne chiara dei criteri ispiratori del nostro lavoro. Mi riferisco al saggio L'Italia in tempi di cambiamento politico, appena uscito nella collana di saggi brevi "Tendenze" del Mulino. La ricognizione che vi si compie ha ad oggetto le trasformazioni, avvenute ed in corso, del sistema di organizzazione economica e sociale che, durante i Gloriosi Trenta, era stato dominato dalla produzione di massa, grande motore dello sviluppo. Pur con l'avvertenza ripetuta che le sintesi sono ancora premature, la ricognizione compiuta porta ad individuare tre linee o modelli di trasformazione: l'economia diffusa delle piccole imprese, la nuova fisionomia della grande industria di produzione, il terziario dominato dalla produzione di beni immateriali. Altrimenti detti, questi assetti identificati del sistema economico-sociale, i tre capitalismi. Sono modelli che non corrispondono ai macro modelli di cui spesso si è parlato negli ultimi anni: il capitalismo anglosassone e il capitalismo europeo continentale, qualche volta denominato anche capitalismo renano. Può darsi che i modelli debbano essere fra loro confrontati o incrociati. Ma non è questo lo scopo dell'esercizio ricognitivo, chè, se ciò fosse, perpetuerebbe - per usare le parole di
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un altro collega del Css Giovanni Bechelloni - quel "guardare all'Italia con una chiave comparatista volta a mettere in luce le differenze di situazioni e di percorsi in termini di assenze piuttosto che di presenze". Cioè le peculiari differenze del Paese spesso, sono affrettatamente valutate per ciò che manca "rispetto ad altre situazioni, ad altri percorsi giudicati migliori o vincenti" che non per quel che obiettivamente sono.
L'economia dffiisa delle piccole imprese - "A partire dagli anni Sessanta la piccola impresa industriale ha ritrovato in Italia uno spazio economico che si pensava in declino irreversibile. . ..Imprenditori e artigiani di piccole e medie città, diventate distretti industriali specializzati in una o più produzioni, disegnano una possibilità di crescita forte, quanto di nuovo inattesa, capace di coinvolgere economicamente, ma anche culturalmente e politicamente l'insieme della società". I piccoli imprenditori si riconoscono liberisti, quando si sentono colpiti dalle tasse. E tuttavia sanno, quando pensano ai distretti industriali specializzati che ne hanno favorito la crescita, quanto contino la cooperazione sociale e i beni pubblici diffusi e ben amministrati dagli enti territoriali. Il nuovo mondo sociale della grande industria - "Mercati più ridotti, diversificati e instabili hanno posto problemi nuovi alla vecchia industria di serie, con l'obbiettivo limite di produrre solo quanto si è già venduto". Di qui il rovesciamento della logica organizzativa che porta a forme di produzione snella. Macchine automatiche, robot, macchine a controllo numerico sono utilizzate in funzione dell'elasticità produttiva. Fattori di elasticità sono anche gli uomini addestrati a più compiti, in grado di percepire e realizzare continui aggiustamenti necessari ai processi produttivi, le squadre capaci di gestire autonomamente intere aree di produzione e così via. Gli addetti diminuiscono. In ogni caso, "l'importanza degli impianti fissi necessari per una produzione materiale di grande serie o di grande processo richiede molta prevedibilità organizzativa" e, dunque, ha bisogno di meccanismi di stabilizzazione nel tempo. Il terziario come produzione di ben-i immateriali - Nel valutare l'evoluzione del terziario e, più in generale, del sistema professionale non sono consentite previsioni molto ottimistiche. Sulla base degli andamenti di questi ultimi anni si può dire che nuovi lavori basati sulla conoscenza e, a fronte, lavori semplici e mal remunerati cresceranno, ma senza mutare il loro rapporto. "C'è tuttavia un nucleo in espansione di attività nel terziario, capaci di generare ricchezza e potere sociale, che merita particolare attenzione". È la produzione di beni immateriali. Le
attività toccano mercati in espansione dell'informazione, dalla comunicazione, dello spettacolo, della pubblicità, del software, del tempo libero, della salute, della finanza. "Formazione e esperienze cumulate sono alla base della costituzione del capitale umano, che permette a chi ne dispone di essere imprenditore di se stesso, anche senza disporre di capitali monetari e fisici". Gli imprenditori, o lavoratori autonomi, riescono a valorizzare tanto più pienamente le loro risorse quanto più il mercato del lavoro è libero da vincoli solidaristici e pronto a premiare il frammento differenziato di specializzazione offerto. Per questo sono contrari a uno Stato che limiti l'area dei possibili mercati dei servizi e che ponga vincoli all'azione individuale. Nei termini più sintetici questa è la fotografia dell'Italia vista attraverso il quadrangolare del sistema economico-sociale. Ovviamente, il Paese non è tutto qui. Anche soltanto per quanto riguarda i meccanismi e i sotto-sistemi economici. Basta tuttavia questa ricognizione per intendere quanto risulti fondata l'idea di un'Italia al plurale, l'Italia delle Italie per riprendere il titolo di un libro di Tullio De Mauro. Ricognizione che, ancor più approfondita e verificata, servirà a mettere a punto linee d'azione e politiche pubbliche. Già nel saggio di Bagnasco si danno indicazioni propositive: in ordine al superamento del familismo tradizionale attraverso un uso ragionevole dei rapporti intergenerazionali sulla base del modello di "famiglia contrattata" che i sociologi hanno individuato nei costumi contemporanei del nostro paese, in ordine alla valorizzazione di una certa diffusa imprenditività, in ordine alla realizzazione di un effettivo federalismo. Proprio quest'ultimo tema riporta ai problemi del disegno istituzionale complessivo del nostro Paese. Il che ci consente di dire qualcosa di più sul significato e sulla portata del criterio metodologico al quale si atteniamo in "Agenda per l'Italia":.studiare le basi sociali della politica significa, né più e né meno, che intendere quali possono essere i presupposti e i contenuti per rinnovare quel patto sociale che non può non sottintendere a qualsiasi riforma profonda, se non radicale, dell'architettura istituzionale del Paese. L'importanza delle riforme istituzionali non può, in alcun modo, essere messa in questione. Tanto meno da chi, come me, è stato fra i promotori, come organizzatore di cultura, di iniziative di studio e proposta (penso a quella che.si concretizzò a fine anni Settanta in un libro della Fondazione Adriano Olivetti il cui titolo ha imposto uriespressione: L'Istituzione Governo) e partecipe, per molti anni, al dibattito in maceria. Non c'è dubbio che l'architettura istituzionale è un fattore fondamentale di cambiamento sociale. Si tratta, però, di sapere se sia giusta quella sorta di riduzioiismo delle riforme istituzionali che sembra concentra-
re tutto il discorso sui rami alti dell'albero istituzionale e sulle macro istituzioni rappresentative. Sicuramente il conseguimento, ormai per moltiaspetti maturo, di una democrazia federalista potrà incidere profondamente su un arco assai ampio di problemi di funzionamento dello stesso sistema di organizzazione economica e sociale. Ma ridurre tutto a ciò è una semplificazione ennesima, esposta alla volubilità della politica incatenata all'immediatezza di slogan ed umori. Che dire dei problemi istituzionali e legali da risolvere per garantire un mercato finanziario che risponda alle esigenze di quel sistema di organizzazione sociale ed economica di cui, poco innanzi, si ricordavano alcuni tratti? Che dire del tema del mercato della proprietà e di quello del controllo delle imprese a cui solo la Banca d'Italia, con iniziative del suo Servizio Studi, ha dato negli ultimi anni il rilievo che sicuramente ha per lo stesso sviluppo delle capacità imprenditoriali diffuse nel Paese? Che dire della necessità di un nuovo modello di Borsa e più in generale, dell'idea di mercati finanziari adeguati al mondo delle piccole imprese, problemi per i quali ci si deve rimettere molto alle prescrizioni dell'Unione Europea? Ma, ancora, e guardando ad altre profonde trasformazioni della società - come quella che abbiamo già citato del rinnovato riemergere del settore non profit e del volontariato -, come non ritenere di grande portata, per molti aspetti eguale a quella riguardante alcune parti dell'architettura istituzionale della nostra democrazia, la riforma del libro primo del Codice civile riguardante lo statuto giuridico di associazioni e fondazioni e, più in generale, delle persone giuridiche senza fini di lucro? E ciò anche per valorizzare compiutamente e definitivamente la grande novità, nata a dire il vero un po' inconsapevolmente, delle fondazioni di origine bancaria. Nell'importante stagione politica-istituzionale che sembra aprirsi con la legislatura appena iniziata, crediamo necessari una mappa ben costruita dei bisogni civili della società italiana, alcuni criteri selettivi sicuri, una bussola che faciliti percorsi e raccordi fra i diversi percorsi. Il tipo di lavoro che abbiamo indicato con la metafora del "patto sociale" ci sembra possa essere un contributo di rilievo. Nel quadro di "Agenda per l'Italia" si inserisce l'iniziativa della Commissione per la Pubblica Amministrazione che il Css ha appena costituito. Prima di illustrare il compito ad essa affidato e i risultati che ci ripromettiamo di ottenere è necessario dichiarare alcuni convincimenti da tempo maturati. Uno: la rimotivazione delle pubbliche amministrazioni (è stata sempre nostra cura parlare, per quanto è possibile, di pubbliche amministrazioni al plurale per ragioni concettuali ma anche per uscire dalle intollerabili genericità con cui, )UI
conformisticamente, si parla dell'argomento) si deve realizzare attraverso l'individuazione, la mobilitazione e la riqualificazione delle energie interne. Ci sono e vanno valorizzate. Due la valorizzazione degli uomini migliori delle pubbliche amministrazioni deve muovere da una precisa convinzione che occorre disseminare e che ha da essere la base stessa di ogni valorizzazione interna: gli uomini delle pubbliche amministrazioni ed in particolare i loro dirigenti, hanno bisogno più che altri - essendo i gestori di infrastrutture strategiche per la collettività - di vera "educazione permanente". Quel che da decenni le imprese internazionali più vitali e lungimiranti hanno realizzato per i loro uomini, dev'essere realizzato con intelligenza e passione dagli e per gli uomini delle pubbliche amministrazioni. Deve essere abbattuto il muro della auto-referenzialità tipica della burocrazia tradizionale, il nucleo duro dell'ideologia burocratica che, attraverso l'alibi dileggi e decreti, si ritiene detentrice di un sapere fisso e autosufficiente. Tre: le amministrazioni pubbliche vanno sempre più sollecitate ad azioni concrete ove conta la chiarezza degli obiettivi, ma contano anche e soprattutto i tempi e i modi per raggiungere risultati. Dunque, senza il pieno recupero del fattore tempo gran parte delle attese andranno sempre regolarmente deluse. A questo fine potranno giovare ovviamente tutte le opportune semplificazioni normative, ma queste non dovranno essere considerate premesse indispensabili al ben operare. Bisogna, al contrario, stimolare il saper operare, presto e bene, a legislazione vigente respingendo ogni pressione a cambiar leggi che risulti inutile. Piuttosto, occorre ripristinare la capacità di utilizzare al meglio le leggi attraverso linee interpretative autorevoli e condivise. Quattro: nella prospettiva di governi che durano, i ministri debbono tornare ad essere non i capi gerarchici vecchia maniera delle amministrazioni centrali ma i loro animatori. Sovrintendenti veri, nel senso stretto della parola, al loro funzionamento, conoscitori dei loro problemi fondamentali e responsabili della loro corretta soluzione. Senza essere mai rappresentanti acritici dei loro interessi a mantenere sempre e comunque sfere date di competenze ma promuovendo attivamente il massimo di cooperazione fra istituzioni e fra amministrazioni. Cinque: proprio in collegamento a questa necessità di cooperazione interistituzionale sarà importante recuperare il potere regolamentare come strumento che si era immaginato alternativo a quello legislativo. Bisogna dire che il processo di delegificazione, attraverso un maggiore ma chiaro uso dei regolamenti così come previsto dalla legge n. 400 del 1988 contenente norme sulla Presidenza del Consiglio dei ministri e sul Governo, è finora fallito almeno nel senso che molto s'è perduto nelle secche di un procedimento più lento e farraginoso di quel che si
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pensava e ciò a causa della presenza, lungo il procedimento, di istanze istituzionali portatrici di culture diverse, abituate più a difendersi ed autoconservarsi che a cooperare per progettare - ben s'intende sul piano tecnico - l'innovazione amministrativa. Altro fattore di fallimento della delegificazione va identificato nella corsa che amministrazioni, grandi corpi e gruppi d'interesse hanno spesso intrapreso a definire soluzioni di problemi attraverso decreti-legge. Certe ragioni iniziali per una rapidità d'intervento che, spesso, hanno avuto i governi in mezzo a situazioni parlamentari confuse si sono dilatate e hanno degenerato. Anche quando si sa che la normativa emanata per decreto-legge ha una sua sostanziale precarietà, si preferisce sempre lasciare subito un segno sulla Gazzetta Ufficiale. Con il gioco delle reiterazioni qualcosa, alla fine, rimane. E rimane con il minimo possibile di responsabilità. Nella prospettiva di un Governo che duri, il processo di delegificazione nelle materie più strettamente legate all'"amministrare" deve riprendere correttamente e speditamente. Sei: La "funzione pubblica" come concetto che, sulla falsariga dell'esperienza francese, è servita a definire l'area possibile di un'azione di governo per il miglioramento e la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione, va tutta ripensata. Nell'urgenza di un nuovo disegno dell'architettura istituzionale complessiva del Paese, la predominanza inevitabile e indiscutibile dell'amministrazione centrale come prototipo di amministrazione pubblica ha poco senso e rischia di divenire un elemento di auto-conservazione. Che cosa dev'essere la funzione pubblica oggi al di fuori del contesto del ridisegno istituzionale complessivo, aggiustando in ritardo quanto forse (pensiamo a parti sostanziose di apparato centrale) va messo in liquidazione? Non è facile rispondere se non lungo il percorso di un ripensamento molto libero ed in profondità com'è, per esempio, quello di Bruno Dente nel recente libro In un diverso Stato. In verità e in generale: chi può dire che esista, da qualche parte, una politica amministrativa che abbia vero e solido profilo strategico? Fortunatamente, esistono nel Paese amministrazioni efficienti. Andrebbero meglio conosciute e presentate come esempio; altrimenti, continueremo a ritrovarci soltanto con realtà di malfunzionamento, addirittura ingigantite nelle percezioni diffuse dei cittadini con a fronte una montagna di desideri, di progetti vaghi e magari di tante idee di buon senso che alimentano, con qualche ragione, lo scetticismo o la frustrazione di tanti burocrati e uomini dell'amministrazione. Una politica dell'amministrazione, valida in modi e misure diverse, per i tanti diversi livelli di governo forse non può esistere ed è bene che non esista. Ma una politi-
ca dell'amministrazione come propulsione, in modo sistematico e costante, delle tante energie sopite delle amministrazioni questa sì deve essere attivata. L'esercizio che va fatto è di considerare alcuni fenomeni o processi in atto che possono essere presi come filo conduttore di alcune politiche (amministrative e/o legislative) o azioni strategiche da realizzare al più presto. La scelta è volutamente disordinata ma, tuttavia, suggerita dal rapporto che questi fenomeni hanno con la società.
Pubbliche amministrazioni e mercato pubblico dei servizi - La domanda pubblica di opere, beni e servizi è sempre stata al centro dei rapporti fra pubbliche amministrazioni e mercato. È una domanda ridimensionata in ordine ai grandi investimenti, bloccata e compressa dalla politica di risanamento della finanza pubblica e trattenuta, in seguito a Tangentopoli e all'evidenza assunta dai reati di corruzione, dai vincoli comportamentali che ne sono derivati. Oggi la domanda, sia pure entro dimensioni contenute, riprende. Ma ha una fisionomia diversa e non può non averla. Da un lato, s'impone una logica di controllo dei costi nell'ambito delle amministrazioni che non gioca soltanto nel senso di tagliare contratti o prezzi ma anche nella direzione opposta di sostituire lavori svolti all'interno con servizi acquistati dall'esterno. Da un altro lato, la costruzione del mercato unico dell'Unione Europea costituisce un fattore importante d'innovazione di quello che i francesi chiamano "les marchespubliques": con il recepimento della direttiva concernente l'appalto dei servizi da parte delle pubbliche amministrazioni si chiude la lunga stagione della trattativa privata (uno strumento contrattuale di per sé da non demonizzare, a date condizioni) per entrare in quella delle gare diffuse. Stagione per la quale le pubbliche amministrazioni non hanno ancora la necessaria attrezzatura culturale e tecnica ma che certamente tocca una quantità assai ampia di rapporti fra amministrazioni e imprese, anche quelle piccole e del terziario. Senza dire, ma è fondamentale, che il rapporto pubbliche amministrazioni e mercato ha come quadro di riferimento la necessità di migliorare qualità dei servizi e rapporto fra i cittadini, che sono contribuenti e utenti, e le pubbliche amministrazioni. E non è anche da ricomprendere, nella creazione della cultura delle gare, la possibilità di ridefinire per suo tramite le relazioni fra il settore delle pubbliche amministrazioni e il crescente settore del non profit? Gare fondate sulla qualità saranno spesso necessarie per attribuire risorse pubbliche alle stesse iniziative del volontariato. Le debolezze dei Sindaci forti e il sistema delle responsabilità - La convinzione diffusa che stia funzionando la riforma istituzionale basata sull'elezione diretta dei
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sindaci è certamente una convinzione fondata. E tuttavia è vero che l'organizzazione complessiva dei poteri locali rimane inadeguata confronto all'innovazione introdotta. Ma non è questo il tema che vogliamo richiamare, data la sua complessità. A questo riguardo, vorremmo tuttavia insistere - in coerenza con la linea di politica dell'Amministrazione che abbiamo esposto - che la via legislativa degli aggiustamenti deve essere ridotta al minimo: io stretto necessario soprattutto per superare contraddizioni e anomalie della legislazione pit recente soprattutto per quanto riguarda ruoli e funzioni dei dirigenti delle strutture e di carriera nei confronti degli amministratori eletti. In realtà, è la pratica delle nuove amministrazioni che deve produrre ed imporre il meglio. C'è, tuttavia, una questione delicata e di rilevanza strategica: la definizione, o ridefinizione, del sistema delle responsabilità. Da una parte, occorre rafforzare la responsabilità politica: che periodicamente la parola passi all'elettorato non è sufficiente. E tuttavia non si possono accavallare disordinatamente molteplici rafforzamenti di responsabilità, da quella penale a quella amministrativa e contabile così come di fatto è avvenuto attraverso una legislazione che si è mossa a compartimenti stagni, entro ognuno dei quali l'istanza di pulizia morale e di ricambio è stata raccolta prescindendo da qualsiasi esercizio di coerenza e di sistema. Fermo il rafforzamento delle responsabilità, eliminata l'impunità che spesso ha ricoperto i fenomeni di corruzione, c'è da dire "a ciascuno il suo" secondo criteri precisi e senza pulsioni a ruoli di supplenza le cui ragioni sono venute meno e devono venire meno facendo crescere i correttivi della democrazia dell'alternanza. Un "sistema" disordinato di responsabilità produce l'effetto di ricreare la ragion d'essere delle protezioni politiche di tipo partitico e clientelare mentre contribuisce a rideterminare le condizioni per una rapida demotivazione proprio del non molto personale politico di provenienza dalla "società civile" che è emerso in questi anni e che va incoraggiato ad aprire percorsi di ricambio.
Mettere in rete le pubbliche amministrazioni e creare cultura della valutazione - Ci sono temi dell'innovazione rapidamente consumati dalla retorica che si condensa intorno alle opportunità del futuribile tecnologico. Se si pensa alla società dell'informazione questa appare ormai come una realtà sufficientemente. sperimentata anche nell'esperienza quotidiana, tanto da potersene cogliere meglio che in momenti precedenti i pro e i contro. Anche nelle pubbliche amministrazioni ci sono esempi di utilizzazione delle tecnologie dell'informazione che confermano quanto abbiamo appena detto. Dunque, né retorica né vaghezze di ragionamento hanno piii legittimità. Quel che diviene decisivo è il progetto nei suoi aspetti non meramente tecnologici ma organizzativi e di realistica utilizza-
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zione nella interazione fra pubbliche amministrazioni e cittadini, da una parte, e fra pubbliche amministrazioni fra loro, dall'altra. Molti poteri locali hanno dimostrato piena capacità di cogliere le opportunità delle tecnologie dell'informazione nel rapporto con i cittadini nella produzione dei servizi. Le reti civiche sono già qualcosa di più di una formula. Sono progetti e realtà che meritano apprezzamenti in concreto ed impegnano giudizi approfonditi sotto il profilo degli effetti indotti nella realtà sociale. Ancora, il recente studio di fattibilità dell'Autorità per l'Informatica nella Pubblica Amministrazione relativo alla rete unitaria per l'interconnessione delle pubbliche amministrazioni dà il via ad un progetto che va ben al di là dell'orizzonte tecnologico, per gran parte del tutto scontato. Contiene invece, implicite, le ragioni di una nuova amministrazione. Da verificare, ma poi da valorizzare con forza. Su un fronte che ricomprende, forse, un fattore tecnologico di minore spicco ma che vuole produzione e diffusione di nuovi concetti e metodi - ci riferiamo alla necessità di una cultura della valutazione - appare di grande importanza l'iniziativa già intrapresa dal Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, da quasi due anni, di un "Gruppo permanente di lavoro per la misurazione dell'azione amministrativa". Attraverso la costituzione di una sorta di club informale di molte amministrazioni si sta accumulando un rilevante patrimonio conoscitivo sulle esperienze di valutazione. Esperienze che non possono non avere nel campo delle pubbliche amministrazioni caratteristiche assai peculiari e che sono bisognose di un buon tasso di creatività. I problemi di valutazione sono per loro natura multidisciplinari e chiamano in campo quasi tutte le scienze sociali. Il Css che già aveva realizzato, con il supporto di Ernst & Young, un primo seminario di valutazione delle recenti trasformazioni delle pubbliche amministrazioni, si sente ora impegnato a partecipare a queste iniziative con un contributo sistematico e articolato. Con questa panoramica in materia di pubbliche amministrazioni siamo giunti alla presentazione dell'iniziativa, appena intrapresa, di costituire un'apposita Commissione sulla Pubblica Amministrazione. Il compito che ad essa affidiamo è, innanzitutto, quello di coordinare il contributo del Consiglio alle iniziative che altri hanno preso e che possono utilmente giovarsi del coordinato intervento degli scienziati sociali che di esso fanno parte. Ma c'è un secondo e più ampio compito: quello di promuovere una mobilitazione di intelligenze e di capacità operative intorno alla questione amministrativa. Intendere la portata e studiare le soluzioni agevola, anzi è precondizione per affrontare correttamente ed utilmente la questione del federalismo, altrimenti preda di mere irrazionalità. Così già avvertivamo qualche anno addietro e l'avvertenza torna di grande attualità.
Dunque, questione unificante, quella amministrativa, non nel senso dell'unitarietà di strutture e metodi (vera calamità, questa, del centralismo) ma nel senso che essa, in misure diverse, riguarda tutto il Paese. Trovare soluzioni significa rispondere alle giuste esigenze di valorizzare tutte le diversità e le capacità di self-government che oggi si esprimono nel Paese. I temi della pubblica amministrazione hanno bisogno di trovare promotori, sostenitori, attori al di là e al di fuori dellesedi politiche tradizionali o delle organizzazioni degli interessi interni al settore. Sulla base di alcuni principi o atteggiamenti comuni, l'iniziativa che intendiamo promuovere consisterebbe nel chiamare alla riflessione e all'azione persone coinvolte, ma per ragioni diverse e con o senza appartenenze politiche, nel funzionamento dell'amministrazione. Si può tener conto dell'esperienza dell'American Societyfor Public Administration il cui fine è quello di far "avanzare l'eccellenza nel servizio pubblico facendo avanzare la scienza e l'arte della pubblica amministrazione o i suoi procedimenti, sostenendo l'integrità, l'etica e la reputazione del prestare servizio pubblico, o facendo avanzare l'eguaglianza delle opportunità di tutte le persone entro la pubblica amministrazione". Si tratterà di costituire un'associazione diffusa sul territorio, a composizione mista (studiosi, politici, amministratori, rappresentanti degli utenti) e/o un'associazione di associazioni costruita secondo un modello di organizzazione leggera ma fortemente interattiva. Il Css può essere in grado di realizzare il progetto rendendo, così, un servizio importante al Paese insieme agli altri che già ci vedono coinvolti, primo fra tutti la creazione dell'euro-barometro sulle tensioni etniche sul Continente. Ci auguriamo di poter raccogliere intorno a questi nostri programmi quanti più possibili collaboratori.
Sergio Ristuccia
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Il lettore, ma chi sarà mai? di Antonio Chizzoniti
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Ti piacciono questi giornali?", chiede Piero Ottone su
La Repubblica". E si dà la risposta sconsolata di chi non si fa eccessive illusioni. Non ce l'ha col giornalismo in genere, ma proprio con questi fogli che fabbrichiamo qui, in Italia. Li accusa di approssimazione e di frullare insieme idee e spazzatura senza riguardo per chi legge e ignorando il galateo dei Paesi industrializzati. Non è la sola voce a farsi sentire. Da destra Marcello Veneziani sostiene che i giornali da qualche anno fanno "sceneggiature sul nulla", da sinistra Massimo D'Alema se la piglia con il "suk" di Montecitorio e cioè, tout court, con la stampa politica, parlando di "kitch" e di "impressionante livello di faziosità e mancanza di professionalità". Andrea Monti, un direttore in carica, denuncia "indebolimento delle capacità di denuncia e di indagine giornalistica ; Sandro Viola invita i giornalisti a fare attenzione ai tempi nuovi ed a cambiare rapidamente registro per evitare sfracelli. Si sa che i giornalisti non brillano sempre per serenità quando parlano del loro mestiere e dei loro colleghi e che, inoltre, sull'informazione, gli uomini politici, anche se denunciano problemi reali, non sono generalmente i più indicati ad esibirsi nel ruolo di chi lancia la prima pietra. E ciononostante un malessere ci deve pur essere, ed anche Il "Corriere" profondo, se al recente congresso della federazione della stampa in si è parlato di "crisi grave e devastante" e se i redattori di via So!- minigonna fermo si schierano pressoché compatti contro il "Corrierone in minigonna" imbottito di gadget, così come lo vuole l'Avvocato. E forse è qualcosa più di un malessere. Più di un indizio lasce-
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rebbe dedurre che questa volta il giornalismo italiano non si trovi a fronteggiare uno dei suoi ciclici attacchi di epilessia ma stia piuttosto imboccando il tunnel di .una vera crisi di fondo. Nel giro di pochi anni sono nati e morti in Italia un numero sorprendente di giornali, si sono scialacquate ingenti risorse, si sono cercate improbabili "vie nuove" per spacciare poi solo mercanzie vecchie e stantie. I grandi quotidiani, partiti lancia in resta, non sono riusciti a far decollare le vendite come speravano, i medi si arrabattano fidando nella buona sorte, i piccoli hanno imparato a convivere con lo spettro della chiusura, i news magazine si industriano a cambiare continuamente pelle nella disperata ricerca di nuovi appeal, meno compromettenti forse delle donnine nude in copertina. E intanto le tirature ritornano a calare riavvicinandosi pericolosamente a quelle del 1939, quando l'Italia si chiamava italietta, nelle campagne e in città imperava l'analfabetismo e le notizie erano solite passare più attraverso il tam-tam della voce popolare che non per gli inchiostri delle rotative di regime. Nulla di nuovo sotto il sole si direbbe. Solo che da allora, il sole ha girato per più di cinquanta anni all'orizzonte e forse gli italiani dell'italietta non sono più quelli. E che adesso i conti non tornano più: né quelli economici (che veramente non sono mai tornati) né quelli informativi in senso stretto. Il panorama non è dei più incoraggianti, e neanche inedito; l'unica novità è che, a questo punto, non si può far finta di non accorgersene. Ed allora? Allora, allarmato dai rossi di bilancio, a disagio tra l'informazione che riesce a partorire ed il mondo che cambia, il giornalismo italiano scopre candidamente un soggetto nuovo ed imbarazzante: il lettore. Di regola, e secondo tradizione, nell'arcipelago dei media italiani, il lettore "che non conta", quello che sta in platea o quello che all'edicola non ci va perché non ci trova quello che gli interessa - insomma l'unico deputato a far salire la tiratura'— non ha mai goduto di un.vero diritto di cittadinanza nei pensieri e nei propositi di chi fa il giornale. Troppo spesso l'atteggiamento è quello di chi si imbatte in una tribù fastidiosa che si diverte a disturbare il manovratore, o di chi si acciglia davanti ad un oggetto ingombrante con esigenze stra-
Tirature
come nel 39
Un intruso: il lettore
vaganti. Si direbbe un vecchio trucco che sa di autodifesa e del piglio di chi pensa di sapere di greco e dilatino. Allargando lo sguardo, Indro Montanelli. ammette sui Corriere della Sera che "tutta la cultura italiana non si è mai preoccupata del lettore". Un suo collega di tutt'altra generazione, Andrea Monti, messo alle strette dal dover aggiornare il settimanale che dirige, riconosce anche lui nel vademecum al nuovo look di Panorama che nella stampa italiana "il grande assente, incredibilmente, è il lettore, con i suoi linguaggi ed i suoi bisogni". Piero Ottone ricorda che "la chiave di successo di un giornale è di stabilire un rapporto con il lettore" osservando che "una buona stampa può dare un contributo al miglioramento di. un Paese, una cattiva stampa può peggiorarlo". Sembrerebbe, per i nostri costumi, di essere alla vigilia di una svolta copernicana se non fosse che anglosassoni ed alcuni altri ci hanno preceduto un secolo fa. Scrive sempre Monti che "in nessun'altra parte dei mondo industrializzato la stampa ha rinunciato in modo così plateale al proprio ruolo di mediazione sociale". Il che equivale a sostenere che il giornalismo italiano si occupa molto distrattamente di informazione e che, in ogni caso, dà ancora una volta alla luce un prodotto autarchico, italocentrico, limitato, provinciale. È vero, e da quanto dura questa storia? È certo che l'informazione italiana nasce paludata, barocca, erudita, indirizzata a pochi intenditori e con una forte vocazione governativa (che non perderà mai del tutto) e che troverà la sua massima esaltazione nel ventennio fascista. Nell'immediato dopoguerra, dice uno che ricorda bene come Giorgio Bocca, "la crisi del giornalismo italiano di informazione, la sua modestia, il suo provincialismo, venivano mascherati dalla violenza della lotta politica, dallo scontro tra moderati e comunisti". Subito dopo, nell'ingessata era democristiana imperversa il grigio ammorbidente. La differenza la fanno negli anni cinquanta i settimanali di elite del filone Longanesi, Pannunzio, Benedetti e, a partire dagli anni sessanta, i quotidiani d'assalto: prima il Giorno e poi la Repubblica. Gli altri stanno pigramente a guardare finché l'onda d'urto di Tangentopoli non scuote coscienze e vendite.
Un'informazione di provincia?
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Il giornalismo italiano è ad una strettoia: vorrebbe cambiare, ma, da una parte non sa individuare gli strumenti per farlo e dall'altra trova il muro ottuso di editori che hanno altri interessi. E così si scambia la libertà d'espressione con la confusione ed il dovere di informare con l'enciclopedia dell'effimero, si finisce coll'aprire Ecco a voi le porte a tutte le arie e gli spifferi che salgono, spesso mefitica- l'effimero mente, dal paese. Si pubblica di tutto, ma non sempre c'è posto per le "news that's fitto print", le "notizie che meritano di essere pubblicate", come recita il famoso motto di Ochs Sultzberger disteso sotto la testata del New York Times. E infine, all'insegna del giornalismo-spettacolo che copia la tvspettacolo che imita la politica-spettacolo, finisce col prevalere l'urlo, l'indiscrezione non sempre controllata e il pettegolezzo che sfiora la calunnia, si scambiano le opinioni con le notizie. I titoli dei giornali, dei grandi giornali, sono fatti, il più delle volte, sui risvolti dei "si dice", piovono le articolesse su avvenimenti non-avvenimenti, crolla la gerarchia delle notizie. Trionfa il giornale "generalista", con tanti saluti per la distinzione tra «stampa di qualita e «stampa popolare tanto cara a democrazie più mature. "Nelle pagine dei nostri giornali - osserva Piero Ottone - si trova di tutto, e tutto è rappresentato allo stesso modo, con titoli vistosi ed altitonanti: dal breve saggio sul presidenzialismo e dalla dissertazione sulla musica dodecafonica fino alle imprese del 'mostro' di Firenze. Così si cerca di accontentare, con lo stesso quotidiano, tutte le categorie di pubblico. Col risultato che non se ne accontenta nessuno". E trionfano i luoghi comuni, come quello che addebita alla con- Tutta colpa correnza della tv tutti i mali della stampa scritta. Ma cosa avrà della Tv? mai fatto questa povera televisione? Certo c'è il problema delle risorse pubblicitarie che dove pur trovare uno sbocco, ma sul piano informativo il discorso cambia. La televisione è un temibilissimo concorrente in ogni parte del mondo, e in tutti i Paesi industrializzati la stampa ha sofferto, e soffre, per l'avvento del piccolo schermo. Non siamo i soli, quindi. E pertanto la straordinaria diffusione della carta stampata nei Paesi anglosassoni, in Francia, in Germania ed altrove mortifica i livelli italiani. Paesi che hanno scoperto che stampa e Tv hanno anime diverse, come
diverso è lo spirito delle diverse testate, Paesi dove non è infrequente che la carta stampata porti ramengo la tv. Esattamente il contrario di ciò che avviene in Italia dove nelle redazioni si aspettano i telegiornali della sera per impostare i titoli di prima pagina e dove, come sottolinea Monti, "i direttori (con qualche rara eccezione) amano consultarsi per valutare le notizie e, non di rado, per concordare i titoli di testa". E così i giornali inseguono la televisione e la tv insegue i giornali, come il noto cane che gira in tondo senza mai riuscire a mordersi la coda. Incomprensione e miopia degli editori, scarsa professionalità e conservatorismo dei giornalisti, incapacità di scegliere, mancanza di coraggio, poca propensione a "corrispondere al vissuto del lettore, individuare i suoi interessi reali, informarlo e intrattenerlo usando il suo linguaggio". Questo benedetto lettore, ma chi sarà mai? "È fuori dubbio - dice Piero Ottone - che il pubblico non è tutto uguale. Ci sono lettori colti, ben preparati, che seguono con interesse i temi piìi raffinati: politica, economia, sociologia, arti e letteratura. E ci sono lettori frivoli, superficiali, con una preparazione scolastica un po' sommaria, che quando leggono articoli astrusi si annoiano, ma si appassionano agli argomenti leggeri, alle notizie di cronaca, ai così detti pettegolezzi. Nei Paesi anglosassoni, in Germania, in Francia, la stampa si è differenziata perché ogni giornale ha cercato il suo pubblico: si è messo, cioè, a parlare il linguaggio più adatto per stabilire un dialogo con una particolare categoria di lettori. Si sono delineati, nel tempo, diversi tipi di giornale". E cioè si è stabilita la differenza tra stampa di qualita e stampa popolare, tra il Times ed il Sun in Inghilterra, tra la "Frankfurter Allgemaine" e la "Bild-Zeitung" in Germania, tra il "New York Times" e il "Daily News" negli Stati Uniti, tra "Le Monde" ed i tabloid parigini in Francia, e così via. Quindi un problema di linguaggio, che è per sua natura un problema di cultura. È leggendario lo slogan del magnate inglese dell'editoria Hearst secondo il quale qualunque giornale (sia di "qualità" che "popolare") deve essere scritto in maniera che risulti comprensibile «sia al portiere che al primo ministro . Una lezione di democrazia impartita da un conservatore che naturalmente tiene conto anche dei propri interessi.
Autoreferenzialità e narcisismo
Ma perché non siamo europei?
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In Italia c'è una vera inibizione a guadagnare queste posizioni. L'Italia è il Paese dell'autoreferenzialità, la cui manifestazione più evidente e perniciosa sta nel fatto che i giornalisti tendono a catalogare e descrivere il mondo secondo le proprie categorie. "I giornali in Italia - denuncia Monti - sono scritti da giornalisti che pensano come giornalisti e si rivolgono ad altri giornalisti o a politici che ragionano come giornalisti". Il risultato è che "noi ci rifiutiamo ostinatamente di misurarci con chi ci legge, con i suoi bisogni, con il suo immaginario e persino con la struttura logiconeuronale di ricezione delle informazioni nel cervello umano. L'esito è che nessun giornale riesce più a vedere il mondo con gli occhi del lettore". Si andrebbe fuori strada però se si giungesse alla conclusione che l'autoreferenzialità sia nient'altro che un prodotto del narcisismo, dell'ammirare se stessi incuranti degli altri e di ciò che avviene nel mondo. Questo vocabolo sgraziato nasconde ben altro, un sottofondo autoritario, o perlomeno supponente, che divide il mondo in adulti-adulti ed adulti-bambini, in teste pensanti e parco buoi, che seleziona classe dirigente in ragione dell'appartenenza al club. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se il lettore non beve a questa fonte. Non è la sua, riguarda altri, tanto più che il sapore dell'acqua non gli risulta per niente gradevole. La tecnica per tirar fuori la testa dalla sabbia è ben nota: basta semplicemente scrivere "pensando al lettore" e non ammiccando agli amici, ed agli amici degli amici. Solo che questa apparente semplicità comporta un salto di qualità inaudito, che potrebbe anche apparire a quella parte della cultura italiana di cui si parla un doppio salto mortale dal trapezio e per di più senza rete. Un esercizio pericoloso e sgradito. L'inversione del senso di marcia potrebbe essere più agevole per i giornalisti ai quali, in fin dei conti basterebbe affidarsi alla saggezza di ciò che consiglia Hearst affrontando certo il rischio del salto culturale che l'evento comporterebbe. Più difficile prevedere che anche gli editori siano disponibili a far salti di questo genere. Lo impedisce un motivo squisitamente strutturale: il fatto che, da sempre e come tutti sappiamo, l'Italia non è un Paese di editori, ma - da Agnelli a De Benedetti, fino a. Monti-Riffeser - di proprietari di giornali che hanno interessi
Chi scrive pensando al lettore?
Il caso "Messaggero"
preminenti altrove. Quindi un Paese nel quale un Hearst, che aveva fondato la sua fortuna sulla vendita dei giornali, non ha alcuna possibilità di nascervi, ed infatti non viene alla luce. Con tutto ciò che consegue. Per esempio, che il fenomeno, piuttosto che esaurirsi, si amplia. Come dimostra l'improvvisa travolgente conquista del più grande giornale romano, il Messaggero, da parte del costruttore Gaetano Francesco Caltagirone, già proprietario dell'altro giornale della capitale, Il Tempo, e gestore, in attesa di acquistarlo, del Mattino di Napoli. Il blitz di Caltagirone, è stato reso possibile dalla mancanza di una normativa che regoli il rapporto tra attività industriali ed editoriali, ed è quindi giuridicamente ineccepibile. Ma non mancano certo le perplessità espresse dagli stessi giornalisti del Messaggero. Per esempio, i cento miliardi pagati alla Ferfin in più sulla stima di mercato (a giudizio della stessa Montedison); l'acquisto di un pacchetto chiuso con decapitazione del direttore; la concentrazione dell'informazione capitolina in una sola mano. Non mancano neanche le preoccupazioni perché a Roma ci sarà il Giubileo con la realizzazione di opere pubbliche per migliaia di miliardi e poi, tra un anno, le elezioni amministrative. E perché, infine, si forma una nuova e considerevole forza di pressione informativa che non si sa dove rivolgerà l'ago della sua bussola. In ogni caso, il punto non è quello di stabilire se c'è ancora una volta un imprenditore che entra in editoria per avere utili indiretti, perché il complesso di problemi che sorgono non riguarda Una regola: tanto la persona di Caltagirone (che sarebbe casomai l'ultimo ve- il rispetto nuto) ma il sistema e le sue regole. dei lettori E nel sistema, e fra 'le sue regole, non può non esserci la qualità, la correttezza dell'informazione ed il rispetto del lettore. Un obiettivo che naturalmente non potrà essere garantito o previsto da nessuna legge e che nessuna normativa dovrà mai contenere perché il suo raggiungimento è ovviamente legato al costume, alla cultura ed alla capacità di libertà che riesce a sprigionare un Paese. Non è azzardato prevedere però, che, comunque vadano le cose, vicende come quelle di Roma non incoraggiano a sperare sul futuro. Eppure qualche salto bisognerà urgentemente farlo. Perché o si salta o si rischia di chiudere il circo.
Qualche noticina sul federalismo di Umberto Serafini
onfesso che mi fa sorridere (i neofiti fanno spesso benevolmente sorridere) la passione che corre su gazzette e organi di stampa accademici - almeno in Italia, ma direi anche fuori in Europa, come mi dice spiacevolmente la stessa esperienza più recente del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa (Cci4 - per il "principio di sussidiarietà", considerato la colonna portante del federalismo. Cerchiamo di rimettere le cose a posto. La colonna portante del federalismo è l'opposto del principio di sussidiarietà: è piuttosto il principio di una ascesa ad àmbiti sempre più vasti del "principio della convergenza pattizia", su su dalle comunità locali e regionali agli Stati nazionali, da questi - è il caso nostro - all'Europa, dall'Europa fino all'intero pianeta, ossia fino al livello in cui - seguendo il padre Kant - si dovrebbe (e si dovrà) raggiungere la "pace perpetua". Data la transitorietà della politica dell'equilibrio - la sua precarietà non permette che, col tempo e la democrazia, fra Stati convergenti si pareggino i sacrifici e i vantaggi - si impone il patto che dura, li cioè il federalismo: insomma si pensi a ragazzini che giuocano federalismo . e, inriscnianaosene significa un i. i i ii'arDitro i i ii una partita aii.i caicio aeii cioe aeiia legge comune e del potere per farla rispettare), fatti un paio di patto forte gol abbandonino il campo e tanti saluti. L'ostilità dei federalisti, quelli seri, per la secessione non dipende da schiavitù formale, ma da una logica di convivenza: naturalmente questo non c'entra con la semplice minaccia di secessione, che è un ricatto politico e non riguarda questioni di principio, ma semplicemente di buon senso. Colgo l'occasione per sottolineare - per affinità - che il federalismo non ama in sé e per sé "l'autodeterminazione dei Popoli", principio che, difeso soprattutto da Wilson dopo la prima guerra mondiale, creò un contenzioso irrefrenabile, mentre si potevano evitare tante sciagure costituendo, per esempio, la Federazione danubiana della Mittel-Europa a succedere all'impero absburgico (e qui non è d'obbligo citare gli austro-marxisti, ma è
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pur sempre utile: comunque si veda il paragrafo «limiti e pericoli dell'autodeterminazione" nella pubblicazione del!'AICCRE "Breve storia del Cciu nel quadro di due secoli di lotta federalista", Roma 1995). Purtroppo anche la Carta atlantica - che oggi poco si ricorda - sottoscritta da Roosveelt e da Churchill - per dare un riferimento ideale ad amici e a nemici "incerti" nella seconda guerra mondiale - non superava gli obiettivi wilsoniani. Ma allora il principio di sussidiarietà che fine fa? State tranquilli, ci arriviamo. Con l'amico Costantino Mortati discutemmo a lungo la corretta interpretazione dell'art. 11 della Costituzione entrata in vigore nel 1948: Mortati concluse - nel saggio "Ispirazione democratica della Costituzione" - che detto articolo non prevede semplicemente un lecito costituzionale, ma stabilisce un imperativo programmatico della Costituzione: l'Itaha "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli" - e questo era piuttosto ovvio, anche se non banale - ma anche "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", e quindi " in condizioni di parità con gli altri Stati" consente ecc... ecc... Il principio di convergenza pattizia ci obbliga prioritariamente ad agire, non solo e non tanto per motivi egoistici, ma anche per motivi politico-pedagogici (si dice: "esemplari"), a percorrere la strada del federalismo nell'interesse di tutti, in una stagione della storia - lo vado ripetendo quotidianamente - in cui, caduto il muro di Berlino, siamo passati dall'equilibrio del terrore al terrore senza equilibrio. La Jugoslavia ringrazia per il suo sfacelo (un accordo pattizio tra gli Slavi del Sud era auspicato da diversi spiriti liberi nel secolo )UX) l'esistenza di una finta Unione europea, intergovernativa, che non è un Soggetto politico autonomo, ma un coacervo di Stati nazionali e di interessi divergenti, che hanno favorito la dissoluzione di un complesso di comunita (con - dicono - 5 milioni di matrimoni misti, fra diverse religioni e diverse etnie) e sono stati a guardare, conniventi, la "pulizia etnica". Ciò premesso, il principio di sussidiarietà T eccolo - corre parallelo e necessario al principio di ascesa pattizia , come garanzia irrinunciabile - e sistema di contropoteri - verso le possibili (e probabili) prevaricazioni o anche solo deviazioni del "principio pattizio", se esso non si vo1-
Sussidiarietà e convergenza patta
ge al bene comune e avanza, oltretutto, non rispettando il "principio dell'unità nelle diversità". Come scriveva Walter Lippmann (in "U.S. War Aims"), criticando Wiison: "its rejects the ideal of state which diverse peoples find justice and iiberty under egual laws and become a Commonwelth". Ma, appunto, il "patto" deve rispettare "justice and liberty". Anche Kant aveva qualche preoccupazione che il potere sovraordinato prevaricasse: il massimo pensabile della prevaricazione è dipinto nella geniale favola (del 1932) di Aldous Huxley ("Il mondo nuovo"), ove un Fuehrer diventa il capo oligarca del mondo e "genialmente" (Aldous era di una grande famiglia di biologi) prevede la donazione (il processo Bokanowsky) di tanti ometti a misura di tiranno. Accanto al principio di sussidiarietà è poi di moda idoleggiare il "principio di prossimità". Se questo vuoi dire, genericamente, portare il potere - la valutazione di base e la partecipazione al potere - il più vicino possibile ai cittadini, anzi al singolo cittadino, può trattarsi di una ovvietà. Dal momento che il Trattato di Maastricht ha chiamato in causa (come?) la "cittadinanza europea", questo significherebbe per alcuni artigiani dell'Europa in costruzione una "rivoluzione copernicana", almeno rispetto a una costruzione verticista intergovernativa e per vie diplomatiche. Perchè no? Io mi batto da più di tre decenni a favore di un "fronte democratico europeo". Tuttavia si rischia un pericolo. Al piccolo livello locale - addirittura dal libero Comune al quartiere democratico e al villaggio - si può coinvolgere la grande politica nella concretezza quotidiana: per altro nella costruzione federale, nazionale, europea, planetaria, non bisogna spingere il cittadinò, cioè la persona umana, al localismo più gretto. Il cosmopolitismo, che è alla base del federalismo da cui si attende la "pace perpetua", deve fiorire già all'ombra del proprio campanile: questo esce dal campo delle autonomie territoriali e rientra in quello della filosofia, della religione, dell'etica, e quindi anche dell'educazione civica. Starei per dire qui si fanno valere alcune ragioni della morale anarchica. Paradossalmente sottolineo che nella micro-comunità è difficile, se non scoraggiante la selezione umana - e non penso alla competenza ma allo slancio morale - e non è impossibile che finiscano per prevalere alcune •"constatazioni" XXVIII
Certo: potere vicino ai cittadini
.ma c'è un pericolo
della sociologia criminale, per le quali, ove è difficile la selezione, prevale nel piccolo dan chi è più astuto e prepotente, il Naturalmente continui esempi in contrario possono smentirmi: ho constatato io stesso piccoli Comuni rurali realizzare stupende - e faticose - iniziative culturali, a chiaro sfondo morale. La conclusione è semplicemente che le autonomie istituzionali debbono sposarsi alla scuola: la "scuola dell'uomo", vorrei dire, riprendendo il titolo di un classico libro, uscito durante il fascismo, del mio professore di filosofia e quindi amico assai caro, Guido Calogero (finito poi, naturalmente, in una galera fascista). Prima di procedere mi vorrei togliere un sassolino dalla scarpa. Il sassolino: la nazione che parte ci. fa? Il ragionamento federalista è chiaro. Prendiamo il Risorgimento italiano: come ci insegnava Aldo Ferrari, mio professore liceale di storia e filosofia (dal 1933 al '35), autore del libretto "La preparazione intellettuale del Risorgimento italiano" (Milano, edizione Treves, 1923), il nostro Risorgimento significò il rientro dell'Italia in Europa; d'altra parte i nostri "eroi" risorgimentali si battevano per la libertà degli altri popoli, tutti, senza distinzione di religione o di razza, e furono amati da tutto il mondo che cercava la libertà, fino all'India e alla Cina (e il loro grande, entusiastico storiografo, nella lingua più diffusa, l'inglese, fu Trevelyan, che Jawahalal Nehru conosceva quasi a memoria); non basta: salvo eccezioni, il Risorgimento - sia da parte degli unitari che dei "federalisti" - si è impegnato contro localismi, egoismi regionali e pregiudizi inveterati (l'eccezione sarebbe il piemontesismo, che avrebbe creato la questione meridionale con le sue incomprensioni e prevaricazioni, frustrando lo spirito unitario dei migliori uomini del Sud e favorendo dopo la spedizione dei Mille e, via via, dopo i unita - una borghesia parassitaria e anche una burocrazia meridionale al servizio del Nord "protetto"). Ma se si stravolge la realtà di questo Risorgimento e lo si legge alla maniera degli intellettuali nazionalisti e fascisti, Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe (la cui Italia non era certo "in cammino" verso la fraternità internazionale: ma quella era la stagione di Delio Cantimori filonazista, prima di diventare "maestro" di marxismo), allora la nazione non è nell'alveo del federalismo. E oggi? E il "patriottismo costituzionale"? La
Riandando alle tendenze
f1eraliste iLorgimento
Costituzione è anche - e soprattutto, vorremo esclamare - quella dell'articolo 11. Al momento della Liberazione si è parlato ragionevolmente di secondo Risorgimento, ovviamente quello autentico: insisto, il periodo fascista - non siamo manichei - aveva fatto di tutto, cose cattive e cose buone (oltre i treni in orario), ma purtroppo aveva determinato un dramma, che tutto ha soverchiato. Fatta l'Italia, bisognava fare gli italiani: e lentamente (onore ai maestri elementari e a tanti medici condotti) si erano cominciati a creare parecchi, molti, tanti (quanti? chi lo sa? Ma c'erano e si vedevano all'atto pratico) cittadini italiani: purtroppo il regime fascista li ha trasformati in sudditi - ecco il dramma, ecco perchè il regime fascista è e rimane una vergogna - e qui potremmo fare una dissertazione sui "consenso", che certamente c'è stato, superata la crisi economica generale del '29, e ha toccato il culmine con la "vittoria" etiopica (quanti futuri grandi intellettuali antifascisti plaudenti come beoti in piazza, incuranti del fatto che erano servi privi di libertà!), per ammosciarsi, come una candela che si smorza, con l'Anschluss e soprattutto con la campagna razziale: tanto che la guerra fu vista male dalla grande, grandissima maggioranza della nazione (anche se pit di uno storico non vuole riconoscerlo). Ora siamo ritornati cittadini di una Nazione che sta riconquistando i suoi valori morali: e allora, anche un federalista d'appellation contro1ée può essere, tranquillamente, unpatriota italiano eun patriota europeo, e anche un federalista che si batte per la "pace perpetua". Il permesso lo dà un giudice esterno di fiducia, tale Montesquieu. Torniamo a procedere nel discorso iniziale e concludiamo. Nel passaggio dell'Italia da presunto Stato regionale a Stato federale corre ripetutamente la raccomandazione bizzarra: a patto che si tratti di federalismo che unisce. Diciamo bizzarra, perchè ci sembra irreale, in tema soprattutto di federalismo fiscale .(che Ceriani, ma non solo lui, vuole 1iiù correttamente chiamare "federalismo finanziario"), che si parli in Italia di federalismo competitivo (il quale incorre in qualche difficoltà perfino negli Usa, dove le "Regioni" sono generalmente degli ampi States): evidentemente noi pensiamo esclusivamente a un federalismo cooperativo, alla tedesca. Di quest'ultimo ci occupammo, tra la fine degli anni Settanta
Patrioti e federalisti
Perché mai un federalismo competitivo?
e gli inizi degli Ottanta, Alberto Majocchi e il sottoscritto, guidando una ricerca, che si concluse col libretto della Sigrid Esser su "Il federalismo fiscale della Germania occidentale" (1981). Comunque non vogliamo certo affrontare qui, sbrigativamente, le diverse opzioni in merito, esposte egregiamente da "Queste Istituzioni" nel panorama Il federalismo fiscale: tesi a confronto della Nepitelli: ci limitiamo ad esporre alcune opinioni ed alcuni orientamenti, che ci sembrano meritevoli di approfondimento. Solo ci pare opportuno affermare subito che senza una reale struttura complessivamente federale il semplice Stato regionale o rimane una larva - e non ci interessa - o si spinge alle sue estreme conseguenze, senza il nesso federale (ora vedremo), e allora ci si avvia a quello che vorrei chiamare "anarco-regionalismo". Ritengo che siano essenziali al nostro scopo il Senato delle Regioni - e senza dubbio mi attrae irresistibilmente il Bundesrat tedesco - e lo stabilire, dopo tante delusioni, il ruolo fondamentale dell'ente Regione. Cominciamo proprio dalla Regione. In questi giorni è esplosa l'idea, che sinteticamente.può esprimersi così: facciamo della Regione una "federazione di Comuni" (o, più modestamente, "partiamo dai Comuni"). C'è in questa proposta, del resto assai vaga, una latente, giusta esigenza, ma anche una sottovalutazione della Regione. D'accordo: mentre, anche in base alla nuova legislazione, molti Comuni cominciano, pur coi lacciuoli che ancora li imprigionano, ad "andare forte", le Regio- Se i Comuni ni esercitano un loro burocratismo distaccato e inconcludente. cominciano Infatti, non si è ancora colto l'aspetto essenziale e irrinunciabile ad "andare della Regione. Alla fine degli anni trenta Adriano Olivetti, priva- orte tamente e con una équipe di studiosi di varie discipline, avanzò il primo progetto europeo di "piano regolatore regionale" (che fu modellato per la Val d'Aosta). Saltando i vari passaggi, si arriva con Olivetti, direi per la prima volta, a concepire per una Regione il compito di realizzare una "sintesi a priori di sviluppo economico e sociale e di pianificazione del territorio". Gli ambientalisti sono serviti, avanti lettera, in modo radicale e razionale. Qui la dimensione minima non può che essere quella regionale, e non è certo raggiungibile con una somma di Comuni; e la Regione, a sua volta, non deve vedere un ulteriore affollamento di compiti,
ciò che ha determinato la sua incapacità a programmare o, se vi piace di più, a indirizzare, e mi riferisco al famigerato articolo 117 della Costituzione. Viceversa, aggiungendovi eventualmente il compito di Agenzia del lavoro (essa, accanto ai lavori tradizionali presenta l'intero panorama dei nuovi impieghi di servizio, e non solo quelli in difesa dell'ambiente), la Regione deve essere il campo di incontro delle iniziative e delle attività esecutive devolute interamente alle autonomie infraregionali - le cosiddette autonomie locali -. La Regione Emilia-Romagna, con un intelligente progetto - e venendo incontro a una vecchia aspirazione di molti studiosi federalisti - ha proposto una Regione con un Consiglio bicamerale: una Camera a elezione diretta e una rappresentante direttamente (i modi semplici si possono trovare) i poteri locali del suo territorio. È la santa guerra alla Regione-ministato ed è anche la prefigurazione di una Regione rappresentante l'intero sistema delle autonomie: che, quindi, a buon diritto lo potrà poi rappresentare in esclusiva nel Senato delle Regioni. Giustamente si è ricordato, nel saggio della Nepitelli, che le perequazioni, previste da un federalismo cooperativo, potranno essere verticali (dallo Stato in giù) o orizzontali (interregionali) o ùn mix. Non nascondo il mio interesse per la perequazione orizzontale, dove il mondo delle autonomie si confronta con se stesso. È certamente necessario ricordare che, nell'assetto tedesco, i Laender, cioè le Regioni, sono in maggioranza grandi elettori del Consiglio d'Amministrazione della Bundesbank, e quindi abituati a tenere in conto lo spendibile nazionale (la moneta è quella federale e ne risponde il governo centrale). Pertanto il Senato delle Regioni tiene d'occhio lo spendibile, si confronta senza infingimenti, in maniera trasparente, con la Camera popolare o nazionale (il Bundestag), si autocontrolla altresì efficacemente nelle entrate e uscite finanziarie nel senso che nel suo seno cè chi riceve e chi dà. A questo punto potrei ripetere l'apologo di Menenio Agrippa. Me ne astengo, ma insisto che alla solidarietà si sostituisca la parola amore, amore che, senza ricevere alcun freno per le coraggiose iniziative di base, si sviluppi a tutti i livelli per una costruzione comune. Dispiace, lo so, questa sortita di retorica etica nel campo del diritto e della finanza: ma il federalismo è fatto così.
Regione come punto d'incontro dei poteri locali
La perequazione secondo il modello dei laender tedeschi
Il partito tedesco al potere? di Francesco Sidoti
C
on la fine della guerra fredda, finisce anche il suo linguaggio, e quella specifica maniera di parlare per metafore, o meglio per ammiccamenti, che sono diventati inattuali, mentre altri distinguo e altri sottintesi guadagnano velocemente spazio e attenzione. In un'età che si preannuncia più instabile e variopinta che in passato, nascono nuove forme di aggregazione degli interessi e dei valori, e nascono nuove maniere di parlare di se stessi facendo finta di parlare degli altri o di altro. Ad esempio, il partito americano e il partito sovietico che per Vi ricordate quarant'anni avevano dominato tanta parte del discorso politico del "partito italiano o sono scomparsi o sono diventati due cose molte diver- americano. se da quello che erano. Un altro nuovo e grande protagonista comincia ad occupare stabilmente l'immaginario collettivo: il partito tedesco, che ha fatto la sua apparizione sulla scena politica nella maniera migliore, presentato in primo luogo come scelta compiuta e coerente di un modello economico, sociale, civile. Il partito tedesco infatti non è una scelta di servilismo nei confronti di quelli che si ritiene potrebbero essere i nuovi padroni dell'Europa. Nasce invece da una convinzione di fondo in merito alle necessità di trovare una risposta alla crisi italiana, definendo innanzitutto quello che si desidera e quello che si rifiuta. La scelta del modello tedesco è contemporaneamente anche un rifiuto, il rifiuto del modello americano nella versione reaganiana e del modello inglese nella versione thatcheriana. La scelta in favore del modello tedesco deriva dalla sconfitta del liberismo darwiniano, accusato di avere prodotto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti danni sociali devastanti. A confronto, il modello renano e la soziale Marktwirtschaft rappresentano una risposta coerente e vincente: in mancanza di un alternativa molti sono portati a ritenere che bisogna guardare in questa direzione. Del resto, proprio tra gli anglosassoni è particolarmente vivace il rifiuto della rivoluzione conservatrice degli anni Settanta e la riXXXIII
cerca di un modello alternativo di società. In Gran Bretagna, dalle osservazioni di un conservatore come Lord Gilmour (Dancing with dogma: Britain under Thatcherism, 1992) a quelle di un neo-keynesiano come Will Hutton (The State We're In, 1995), le critiche nei confronti del thatcherismo sono diventate travolgenti; ai governi della Thatcher vengono imputati gli stessi difetti del reaganismo (crescita abnorme della povertà dei ceti popolari, aumento della criminalità, inasprimento delle tensioni sociali), insieme ad altri (la de-industrializzazione del Paese). Anche se, al nocciolo, la rivoluzione che Tony Blair ha impresso al partito laburista sarebbe stata impossibile senza la rilegittimazione del capitalismo imposta dalla Thatcher in Gran Bretagna è diventato dominante elettoralmente e culturalmente il rifiuto del modello di società ispirato ad una sorta di estremismo liberista. Pure in Gran Bretagna, dunque, il modello tedesco appare come vincente, tanto è vero che la proposta più seducente di Blair, lo stakeholder capitalism, viene interpretata da molti come un'ennesima versione del modello tedesco. Certo è che le eredità controverse degli anni di Reagan e della Thatcher hanno segnato l'eclisse del partito inglese, che è tutta un'altra cosa rispetto al partito tedesco. Storicamente, il partito inglese è il primo esempio moderno di aggregazione ideale transnazionale. Nasce nel Settecento, all'epoca d'oro della grande espansione economica e commerciale. Ma anche in quel caso non si trattava di un modello proposto in base a motivi di bassa adulazione: tanto è vero che il partito inglese è stato fondato da non-inglesi e ha sempre contato innanzitutto sulle adesioni spontanee (gli inglesi propriamente detti hanno sempre guardato il fenomeno con ovvio compiacimento, e con qualche condiscenza, perché sapevano che la realtà non era poi tanto rosea come veniva dipinta). Quel che spingeva Voltaire e Montesquieu ad un'adesione incondizionata era innanzitutto una scelta ideale: l'Inghilterra che essi decantavano era la madre del parlamentarismo, della tolleranza, e della divisione dei poteri in un'Europa dove invece erano dominanti le spinte all'intolleranza e alla concentrazione dei poteri. La rivoluzione francese approfondisce e aggrava il senso di una netta contrapposizione. È significativo che i più autorevoli soste-
Anche a Tony Blair piace il modello tedesco?
nitori e propagandisti del partito anglosassone siano stati francesi, da Benjamin Constant a Alexis de Tocqueville, da Michel Crozier a Raymond Aron. Si tratta certamente di un'anima minoritaria, antisciovinista, della cultura francese. Da Alain Touraine ho sentito riassumere scherzosamente l'intera questione; egli sosteneva che in estrema sintesi il partito inglese nel suo Paese aveva sempre sostenuto delle parole d'ordine e dei programmi riassumibili con l'espressione: Lesfranais sont des connards; ilfautfaire comme les anglosaxons. In effetti nella cultura francese, notoriamente, orgogliosamente (e sotto tantissimi profili a giusta ragione) superpatriottica, esiste una componente di incertezza e di autocritica che si esprime a volte in maniera bizzarra, come questa fissazione di chiamare modello renano quello che effettivamente è soltanto il Il modello modello tedesco. Oggi, l'antico complesso nei confronti degli in- renano è glesi è stato lentamente soppiantato da un altro del tutto nuovo una bizzarra fissazione nei confronti dei tedeschi; e non deve essere roba da poco se i governi, senza soluzioni di continuità da Mitterand a Chirac, preferiscono avere a che fare con milioni di disoccupati pur di mantenere un'assurdo livello di parità tra il franco e il marco. Se qualche complesso di inferiorità esiste perfino nella cultura francese, è doveroso riconoscere che ce ne sono di ben più insidiosi (e più motivati) in quella italiana, dove è stato sostenuto che la tanto discussa mancanza di un parricidio (come atto fondativo, alla maniera di quanto è avvenuto in Francia nel 1789 o in Inghilterra ne! 1648) abbia causato, oltre che la tendenza al fratricidio, la ricerca affannosa di un genitore putativo. La vecchia facezia «i tedeschi amano gli italiani, ma non li rispettano. Gli italiani rispettano i tedeschi, ma non li amano», è rispondente al vero almeno per quanto riguarda la mancanza di rispetto che gli italiani spesso hanno riscontrato non soltanto in Germania, ma più in generale in Europa. Non perché siano figli di nessuno, ma perché apparentemente incapaci di vivere senza protettori. A modo suo anche la Germania è una vaterlose Gesellschafi, cioè una società senza padre, nel senso di Alexander Mitscherlicht, ma è storicamente caratterizzata nel suo momento genetico, come Stato unitario, da una fortissima volontà di emancipazione. Di fatto, il modello tedesco nasce separato e distinto rispetto al modello liberale inglese. In particolare, la contrapposizione tra lo
sviluppo di tipo inglese e quello di tipo tedesco fu fissata da Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, nella relazione del 1817 Sulla costituzione del Wurttengberg e nelle aspre critiche del Reform Bili inglese del 1830. Nel corso dell'ottocento l'affermazione di una irriducibile peculiarità della cultura tedesca si ritrova non solo negli esponenti dello statalismo e dell'imperialismo prussiano, ma persino in autori di impostazione liberale come Max Weber. Ci sono volute due guerre mondiali per ridimensionare l'idea del Deutscher Sonderweg, cioè l'idea di una speciale via tedesca alla modernità, la convinzione tutta tedesca di rappresentare un Welt Volk un popolo che ha un compito speciale nella storia universale (la stessa convinzione, sulla base di altri presupposti, è stata coltivata all'interno di altre culture, come è ben noto a tanti intellettuali russi ed ebrei). In un certo senso, il cosiddetto modello renano rappresenta quel che resta dell'ambizione tedesca di contrapporsi al modello inglese: è, per così dire, il modello tedesco depurato di tutto quelle altre caratteristiche che ne facevano espressione addirittura di una <(ribellione contro la civilizzazione» secondo la formula di Ernst Nolte. Un problema non piccolo è che il modello tedesco rischia di diventare un modello per tutti proprio quanto lo «Spiegel» ha annunciato in copertina che Schlaraffenknd abgebrannt un inequivoco «è al verde il paese della Cuccagna». Nella copertina, sotto l'albero dell'abbondanza dipinto da Bruegel, villici e guerrieri giacciono esausti dopo l'indigestione degli anni del benessere. È la fine del Wohlfahrtsstaat, si chiedono molti osservatori? Mentre affronta problemi di adeguamento delle strutture economiche e sociali, la classe politica tedesca sembra consapevole della propria responsabilità e delle proprie limitazioni: in Europa e, soprattutto, nell'Est dell'Europa c'è grande bisogno di una Germania forte (anche se, come ha ricordato il cancelliere Schmitt, una Germania troppo forte farebbe spontaneamente nascere coalizioni anti-tedesche). Se, dunque, il partito che riconosce la centralità della Germania in Europa ha una legittimazione fuori discussione, può invece essere discusso il partito che difende l'imitazione pura e semplice della politica economica e sociale del modello tedesco. In proposito, un altro confronto può risultare istruttivo. È risa-
Può essere un modello per tutti quello fondato sull' irriducibile peculiarità della cultura tedesca?
puto che hanno sofferto problemi di identità pure gli americani, fortemente scossi negli anni Ottanta da un confronto con il Giappone che in alcuni casi è stato addirittura umiliante. Di quel dibattito ricorderò soltanto uno spunto finale, rispecchiato ad esempio in libri come More like us dii. Failows: secondo alcuni osservatori la distanza fra modello giapponese e modello.americano risultava incolmabile; tuttavia essi riconoscevano che sarebbe stato velleitario, e in qualche misura autodistruttivo, puntare ad una giapponesizzazione dell'America. Invece di farsi venire l'infarto nell'inseguimento impossibile del modello giapponese, gli Stati Uniti avrebbero dovuto puntare di più su ciò che è propriamente americano: la grande mobilità orizzontale e verticale, l'immensa disponibilità al cambiamento e all'innovazione, la capacità di fare un falò del passato, in breve quel che è stata chiamata la distruzione creativa in un senso schumpeteriano del termine. Di fatto, questa è l'analisi che sembra avere avuto ragione: la ristrutturazione dell'economia americana ha conseguito risultati che, soprattutto per quanto riguarda la creazione di posti di lavoro, non hanno certo da invidiare quanto contemporaneamente è avvenuto in Europa. Cambiate le cose che debbono essere cambiate, si può fare un ragionamento simile per quanto riguarda l'Italia? Si, se per esempio si guarda ad argomentazioni quali quelle autorevolissime di Paul Samuelson, che ha indicato come un esempio da imitare la politica economica dell'Italia negli anni Novanta, che ha dimostrato una sbalorditiva vitalità proprio perché ha trascurato l'ipotesi di una rincorsa disperata dell'ortodossia della Bundesbank e dei parametri di Maastricht. In questa prospettiva, l'Italia viene proposta nientemente come un modello per gli altri Paesi che si trovano in una situazione grosso modo simile; ad esempio la Spagna, la Francia, la Corea. Dalla cura Khol, l'economia tedesca uscirà ancora più forte, anche se intanto potrà attizzare il conflitto sociale: il grasso da tagliare li è veramente tanto. Ma quanto ne rimane in Italia? Non si può che augurare successo al programma Prodi di un anno e mezzo di sacrifici e tagli alle spese per rimettere in sesto il disavanzo pubblico e partecipare a pieno titolo al processo di inte-
Un confronto istruttivo: i rapporti tra UsAe Giappone
Ma c'è anche, un modello Italia da imitare
grazione europea. Ma è possibile che quel programma incontri tensioni insormontabili, e a quel punto si profilerà minaccioso l'ultimo dei grandi partiti e modelli: il partito latino-americano, quello del possibile collasso che è stato tratteggiato, con abbondanza di particolari, dal Governatore Fazio. Che l'Italia nel 1995 abbia camminato sfiorando il baratro, è stato detto non soltanto da studiosi come Modigliani e Dornbusch, ma dai vertici della Banca d'Italia, che all'inizio del 1995 presero in seria considerazione la possibilità di un tracollo improvviso del sistema Paese: temevano che l'Italia avrebbe potuto subire la stessa sorte del Messico, che qualche mese prima era stato improvvisamente messo in ginocchio da una motivata perdita di fiducia e dunque da un'eccezionale valanga speculativa. Come i vecchi vandali non hanno avuto alcun rispetto per la sacralità della vecchia Roma, così i nuovi vandali (il titolo originale del recente libro di G.J. Miliman, tradotto in italiano con Finanza barbara, era The Vandal's Crown) sono impietosamente pronti a travolgere i sistemi che non hanno la capacità di rinnovarsi e di ristrutturarsi. Contro questi rischi, e contro gli innumerevoli altri che ci riserva Contro i ilturbocapitalismo, la rete di sicurezza è costituita dalla credibi- rischi del turbo lità nazionale e dalle alleanze corrette nelle grandi istituzioni incapitalismo ternazionali. In conclusione, in Italia il partito tedesco puo essere soltanto un pezzo del partito dei conti in ordine, della stabilità e dell'affidabilità: un partito fondamentalmente ostile ad ogni visione degli enormi problemi del futuro in una cornice invidiosa, gretta, meschina di interessi rivali, particolari, locali. Nel nuovo ordine internazionale che faticosamente si sta costruendo intorno alla ristrutturazione di organismi come l'ONu, il FMI, la NATO, c'è posto a tavola sia per la Germania sia per l'Italia.
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Tra Roma e P ontida* di Andrea Manzella
N
cile immagini, certo, la celebrazione del cinquatenario della Repubblica tenutasi a Montecitorio, paragonata alla kermesse di Pontida, non ne ha avuto i colori né la eversiva vitalità. Giunge ciclicamente il momento in cui quell'Aula appare "sorda e grigia". Ma è anche il momento in cui - come le dure esperienze insegnano - occorre elevare tipi e toni del ragionamento politicoistituzionale: per rompere la stagnazione, per dare nuove speranze allo stare insieme degli italiani. Il tempo si è fatto veloce. È giustissimo, ma non è già più il vero problema del Paese, essere intelligenti con gli italiani che sbagliarono la loro guerra civile (l'8 settembre ci furono due patriottismi a confronto; non vi fu la "morte della patria" ma due sue opposte interpretazioni politiche e morali, ciascuna parte credette di essere più "italiana" dell'altra). È giustissimo - ma interesserà più la memoria che la politica fare rientrare i Savoia (basta un'interpretazione del Consiglio di Stato che ci andò, qualche anno fa, assai vicino: non è neppure necessario abrogare formalmente la tredicesima disposizione della Costituzione, che si è già biodegradata). È giustissimo parlare contro gli errori, o peggio, eccessi giudiziari (ma tutti sanno che di quegli eccessi furono prima causa i governi del malaffare succedutisi ne! Paese). E, infatti, non sono stati questi i punti importanti del discorso del Presidente della Repubblica. Il suo fulcro è stato un altro: il passaggio dalla difesa all'attacco nella vita politica e istituzionale. L'altro giorno Sca!faro aveva preannunciato questa svolta. "Sulla Sulla tomba mia tomba vorrei che ci fosse scritto soltanto par condicio". E una scritta: P' condicio aveva aggiunto: "Sarà sufficiente a parlare di me". In realtà chi "legge" gli ultimi due anni di presidenza della Repubblica, scor* Da "La Repubblica" del 3 giugno 1996. XXXIX
ge un filo unitario. È quello di un'implacabile, coerente battaglia perchè l'anomalia istituzionale e morale sorta con il successo elettorale di un'azienda fatta partito (e holding di partiti parassiti) potesse in qualche modo essere contrastata se non assorbita. Il lungo temporeggiare sullo scioglimento (che, se fatto quando lo invocavano indimenticabili editoriali, avrebbe comportato il sicuro consolidamento di una situazione di disuguaglianza costituzionale) ha permesso infine un riequilibrio nella cittadinanza elettorale. Ecco perchè ora che il suo compito di garanzia di fronte all'emergenza si è concluso, Scalfaro può chiedere con forza che "la politica riprenda il suo spazio". E, con la politica, i partiti, oggi resi rachitici dallo stupido referendum che gli ha tolto l'onesto finanziamento pubblico e resi confusi nelle loro anime dalle coalizioni-firmamento in cui si sono dovuti involucrare per vincere (o perdere) le elezioni. Ma, insomma, ancora necesssari per la "intermediazione" tra le istituzioni ed i cittadini. In questa nuova politica campeggia, come a Pontida, la questione dell'articolazione dello Stato. Ma - sorpresa - la modernità istituzionale è stata tutta nel chiuso di Montecitorio e non sotto il cielo di Lombardia. A Pontida, la Lega ha continuato a puntare, alzando i toni ma non la persuasione, su uno Stato ad identità nazionale ridotta (e fittizia: la Padania) e su Regioni a funzioni maggiorate. Scalfaro, nella cara aula che io vide giovane protagonista, con i superstiti padri costituenti seduti a semicerchio intorno a lui, ha cominciato a parlare di diritti originari delle comunità, delle città. Diritti riconosciuti e non creati dallo Stato: così come sono riconosciuti e non creati dallo Stato i diritti inviolabili della persona. Il confronto tra gli articoli 2 e 5 della Costituzione è scattato immediato. Ha parlato, cioè, del federalismo municipale come della vera chiave di volta per una diversa amministrazione, per una diversa amicizia tra il potere pubblico ed i cittadini e ha difeso le autonomie locali contro il pericolo di nuovi accentramenti a livello regionale. Così facendo, ha indicato la terra su cui la riforma dovrà poggiare i piedi. Ha rivelato il movimento reale di una sussidiarietà che, gradualmente, attraverso i diversi livelli di governo territoriale, giunge sino al cittadino e alla sua residenza. Non solo un movimento italiano ma un XL
Le posizioni della Lega...
e quelle della Costituzione
Il movimento europeo che disconosce il principio di nazionalità come criterio di funzionamento dello Stato e, anzichè "naziona- federalismo lità" artificiose, è tutto volto alla istituzionalizzazione di una su- murnclpale percittadinanza europea. Il capo dello Stato non ha parlato di Europa (e forse è stato un peccato, con i nostri deputati al Parlamento europeo per la prima volta a Montecitorio, per iniziativa del Presidente della Camera). Ma la modernità della Repubblica era, in questo suo discorso di costituente invecchiato di cinquant'anni, nella contrapposizione al linguaggio anacronistico di Pontida del profondo legame europeo. Europa, insomma, come nell'antico tempio di Apollo: "Invocato o non invocato, il dio sarà presente".
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dossier
Globalizzazioni, localismi, Europa
Il notissimo slogan della Big Blue, il colosso IBM, recita: "Soluzioni per un piccolo pianeta" Ed effettivamente il "villaggio globale" di Mac Luhan, fin troppo citato, talvolta sembra proprio realizzarsi compiutamente con la possibilità, ormai alla portata di un pubblico sempre più grande, di inserirsi (più o meno consapevolmente) in un flusso di informazioni provenienti da ogni parte del mondo. Ma quanto viene correttamente recepito questo pianeta Terra che per immagini viene portato nelle case di tutti, ma che influenza anche il valore dei nostri risparmi, così come l'occupazione dei giovani, la struttura sociale ed economica in cui viviamo, e così via? Uno degli aspetti fondamentali del villaggio globale è il grande mercato transnazionale della finanza. Ce ne siamo già occupati ma ci torniamo ampiamente in questo numero, per poi aprire in uno dei prossimi un dibattito approfondito. Insomma, i mercati finanziari sono o non sono un fattore decisivo per le politiche economiche nazionali? Ovvero essi vengono evocati dalle classi dirigenti come espediente per allontanare da sé responsabilità di fronte alla propria opinione pubblica, puntando il dito, talvolta, su oscure manovre economiche internazionali, non meglio precisate, mentre, in altre occasioni, ci si rimette acriticamente al loro volere?
Per gentile concessione deltEconomist in questo numero pubblichiamo una analisi di fine 1995 nella quale, al termine di una disamina come al solito chiara e penetrante, si perviene ad un apprezzamento positivo dei mercati, come «inonitori" delle politiche economiche. Politiche che però rimangono nei poteri dei governi. Al di la' delk prospetta.zioni di moda, pensiamo dunque che il tema della globalizzazione (e delle globalizzazioni, anche culturali) sia meritevole di attento dibattito. Intanto, è importante cogliere il rilievo della riorganizzazione in corso del sistema di vigilanza internazionale in materia finanziaria. È il tema del saggio di Sodano. Poi occorre rzprendere, senza interruzioni, la riflessione sulla "questione Europa". Il dibattito dovrà essere alimentato anche dalla ricognizione realistica dei problemi relativi al punto d'arrivo dell'Europa, che Cavazza e Pelanda offrono nel saggio, già uscito su Daedalus, che riproponiamo ai nostri lettori. Le opinioni pubbliche, specie quelle «medie" più preoccupate di altre di conservare status e piccoli privilegi, reagiscono alla mondializzazione inneggiando a localismi, tradizioni antiche, "villaggificando" il loro habitat, costruendoci attorno un recinto territoriale e culturale di abitudini e certezze. È queste una delle tante possibili chiavi di lettura dell'apparente contraddizione tra modelli interplanetari di decisione e gestione dell'economia e tensioni localiste neppure più verso le Regioni, ma verso i Comuni, le circoscrizioni, le serene consapevol.ezze di un ambito politico quanto possibile chiuso e prossimo alla nostra porta di casa. Il dossier si diana così, anche grazie all'ausilio del saggio di Bogi, fra vari aspetti della mondializzazione attraverso sondaggi eprovocazioni che attendono un ragionevole seguito di opinioni costruttive.
La globalizzazione dei mercati finanziari: lo Stato è inerme? Un rapporto dell'«Economist»
Nel corso degli anni, i governi democratici hanno combattuto molti nemici, dai fascisti ai comunisti, dai monopolisti allo strapotere dei sindacati. In un modo o nell'altro, li hanno sconfitti tutti. Ora, però, un nuovo e più insidioso nemico è comparso sulla scena: l'armata elettronica degli specu'latori che operano sui mercati valutari e obbligazionari, esono in molti a sostenere che, approfittando della distrazione generale, questo esercito abbia già accumulato fin troppo potere. L'economia mondiale sembra passare da una crisi all'altra, e la responsabilità viene addossata ai mercati finanziari. La sovranità economica nazionale, sostengono gli esperti, viene erosa dai grandi flussi internazionali di capitali, lasciando i governi inermi nella difesa degli interessi economici dei rispettivi Paesi. Le turbolenze finanziarie vengono sottolineate con particolare enfasi. Le crisi dello SME del 1992 e 1993 hanno visto i governi e le banche centrali umiliati da grandi speculatori sulle valute come George Soros. Analogamente, il crollo dei mercati azionari registrato nei Paesi industrializzati nel 1994, il tracollo del Messico e la discesa del dollaro ai mi-
nimi storici all'inizio del 1995 hanno dimostrato con quanta crudeltà i mercati finanziari mondiali siamo capaci di punire i Paesi che applichino politiche ritenute inadeguate. James Carville, uno dei consulenti elettorali del presidente Clinton, sintetizza così un'opinione diffusa sul mercato finanziario: "Una volta pensavo che se davvero la reincarnazione esiste, avrei voluto reincarnarmi nel presidente o nel papa. Ora, però, vorrei diventare il mercato finanziario: così potrei intimorire chiunque". I politici europei hanno disprezzano ancora più apertamente i mercati. Jacques Chirac, il Presidente francese, ha descritto gli speculatori come "l'AIDS dell'economia mondiale". Ma forse ancora più eloquente è il graffito, forse apocrifo, che è stato visto campeggiare su un muro in Polonia: "Volevamo la democrazia, abbiamo ottenuto la Borsa". CHI TIENE IL TIMONE?
Nel corso degli ultimi due decenni, abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione: l'apertura dei mercati finanziari nazionali e la creazione di un 3
gigantesco mercato finanziario mondiale, al di là delle possibilità di controllo di qualsiasi governo. Il comportamento di questa enorme massa di capitali può determinare il successo o il fallimento delle politiche economiche. Questo significa, secondo gli allarmisti, che le politiche non vengono decise da governi eletti democraticamente, ma da irrazionali ed egoisti speculatori valutari, e dai "vigilantes" dei mercati finanziari, il cui unico obiettivo è quello di accumulare montagne di denaro. C'è chi sostiene che sia l'instabilità dei mercati finanziari, insensibili alle principali variabili economiche e indifferenti alle tematiche sociali, a stabilire il volume degli occupati e il costo del credito. Queste preoccupazioni si sono tradotte in pressioni esercitate da più parti sui governi per la riduzione del potere del mercato. La nostra analisi propone di evitare eccessive esagerazioni e mira ad osservare il rapporto effettivo che lega i mercati finanziari e i responsabili delle politiche economiche, per stabilire con certezza chi sia oggi al timone dell'economia mondiale, e se per i governi avrebbe senso tentare di contenere il potere dei mercati finanziari. LA CORSA AGLI ARMAMENTI DELL'ECONOMJA
Venticinque anni or sono, i governi disponevano di un imponente insieme 4
di strumenti di politica economica con cui governare l'economia: tasse, spesa pubblica, tassi di interesse, controlli sul credito, tassi di cambio, controlli sui capitali e politiche dei redditi. Con il passare del tempo, questi strumenti hanno perso di efficacia a seguito della deregolamentazione dei mercati finanziari nazionali, della liberalizzazione dei flussi di capitali, dell'avvento di potenti computer e sistemi di telecomunicazioni, e del rapido processo di rinnovamento che ha caratterizzato il settore finanziario. Tutti questi cambiamenti si sono tradotti nella crescita esplosiva dei mercati finanziari e del loro potere. Dal 1980 ad oggi, la consistenza complessiva delle attività finanziarie è aumentata a un tasso due volte e mezzo superiore rispetto al tasso di crescita del PIL delle maggiori economie industrializzate, e il volume degli scambi di valuta, obbligazioni e azioni è aumentato a ritmi ancora superiori. Inoltre, l'ulteriore espansione dei mercati finanziari mondiali in atto è destinata ad aumentare ancora il loro potere. La liberalizzazione finanziaria ha portato con sé grandi benefici. Un mercato dei capitali libero garantisce che i risparmi vengano convogliati verso gli investimenti più produttivi senza tenere conto dei confini nazionali. Il capitale può dirigersi dai Paesi sviluppati, ricchi di capitali, verso le economie emergenti, ricche di opportunità. L'accresciuta concorrenza ha creato un
sistema finanziario più efficiente, in grado di offrire migliori opportunità ai risparmiatori e costi inferiori agli imprenditori. Nuovi prodotti sofisticati come gli strumenti derivati (fiaures, swaps e opzioni) contribuiscono a migliorare l'efficacia della gestione del rischio finanziario da parte delle imprese. Nel lungo termine, tutto ciò dovrebbe tradursi in un aumento degli investimenti e della crescita. Ma nessuno dà niente per niente. Il prezzo che i governi devono pagare è un indebolimento del loro tradizionale arsenale economico, in termini sia di scelte di politica economica disponibili che di efficacia degli strumenti che possono ancora essere utilizzati. In particolare, lo spostamento del potere dai responsabili delle politiche ai mercati finanziari ha alimentato tre diffuse preoccupazioni: in primo luogo, c'è chi sostiene che la potenza dei mercati valutari e obbligazionari possa sopraffare le politiche monetarie e fiscali, lasciando i governi inermi di fronte ai tassi di interesse e ai tassi di cambio. I mercati finanziari sono diventati i giudici e la giuria della politica economica. Per esempio, i mercati che non approvano una riduzione dei tassi di interesse reagiranno scatenando un rialzo dei rendimenti delle obbligazioni a lungo termine; in secondo luogo, le banche centrali e i governi vengono accusati di essere troppo inclini a soddisfare i desideri dei mercati finanziari piuttosto che a
perseguire obiettivi economici e sociali di lungo termine nell'interesse dei propri Paesi. I più pessimisti temono che per eccessiva indulgenza nei confronti dei "vigilantes" dei mercati obbligazionari, ossessionati da timori inflazionistici, i responsabili delle politiche monetarie possano imporre misure deflazionistiche eccessive per le economie; in terzo luogo, da più parti si sostiene che la liberalizzazione finanziaria a livello mondiale e la vasta gamma di nuovi strumenti finanziari abbiano ridotto l'efficacia degli strumenti monetari e fiscali, diminuendo l'impatto che le variazioni dei tassi di interesse e dei livelli di indebitamento pubblico hanno sull'economia. Tra gli esempi che vengono fatti troviamo l'espansione della moneta elettronica, che potrebbe condurre le banche centrali a perdere il controllo dell'offerta di moneta, e il crescente utilizzo degli strumenti derivati, che dovrebbe consentire alle aziende di proteggersi dalle variazioni dei tassi di interesse; in quarto luogo, la liberalizzazione e le innovazioni hanno reso i mercati finanziari molto più volatili e molto più vulnerabili alle crisi finanziarie, con allarmanti implicazioni in termini di stabilità economica. TRE ARGOMENTAZIONI A FAVORE DEL MERCATO
I mercati finanziari sono diventati troppo potenti? Ciascun episodio di
turbolenza finanziaria scatena nuove pressioni sui governi perché tengano sotto controllo i mercati mediante un maggiore coordinamento internazionale nel campo delle politiche e l'imposizione di controlli sui capitali o di imposte sugli affari. Questo articolo, al contrario, sosterrà che in generale i condizionamenti che i mercati finanziari impongono alle politiche governative non dovrebbero alimentare particolari preoccupazioni. A un esame più ravvicinato, si nota che non solo i governi sono riusciti a mantenere gran parte del proprio potere, ma anche che la perdita di parte di questo potere ha sortito solo effetti benefici: i mercati garantiscono una disciplina salutare che, nel lungo termine, incoraggerà la messa a punto di migliori politiche e l'ottenimento di migliori risultati. Se i mercati mondiali dei capitali puniscono gli sperperi dei governi richiedendo tassi di interesse più elevati, questo potrebbe contribuire a convincere quei governi a perseguire politiche più sensate. Richard O'Brien, un economista del Global Business Network, una società di consulenza internazionale, sottolinea' come il potere dei governi sulle economie sia stato tradizionalmente basato sul potere di imporre tasse, stampare moneta e indebitarsi. Un mercato dei capitali liberalizzato e integrato a livello mondiale limita le possibilità di abusare di questi tre poteri. Se un governo dovesse tentare di 6
esercitare una pressione fiscale eccessiva sulle imprese, le imprese si limiterebbero a trasferire le proprie attività produttive altrove. Analogamente, se un governo dovesse aumentare a dismisura il proprio indebitamento, o dovesse consentire un'eccessiva crescita dell'inflazione, gli investitori si rifugerebbero in un'altra valuta. Per quanto riguarda lavoratori, aziende e risparmiatori, la riduzione dei poteri dei governi dovrebbe essere causa di soddisfazione e non di timori: è stato perduto soltanto il potere di perseguire politiche dannose, e di minare l'economia consentendo all'inflazione di aumentare. Nella realtà, con la crescente integrazione dei mercati finanziari, che agiscono come un mercato unico nella valutazione dei rischi, gli incentivi per il perseguimento delle politiche corrette saranno maggiori. Le politiche economiche più efficaci garantiranno i risultati migliori, mentre le politiche errate saranno punite in maniera più severa. Sotto questo punto di vista, i governi avranno di fatto un ruolo più importante da giocare. Ma i mercati finanziari hanno le carte in regola per agire come giudici dell'economia? Il grado di incoraggiamento che i mercati finanziari liberalizzati possono dare alle politiche macroeconomiche più efficaci dipende dall'efficienza del funzionamento dei mercati stessi. I mercati dei cambi e dei titoli
sono stati tradizionalmente dipinti come irrazionali case da gioco impegnate in un'orgia speculativa. Si parla del "Mercato" come se si trattasse di una sinistra cospirazione messa in atto da ricchi individui pilotati da una sola mente, un'immagine del tutto 9collegata dalla realtà. NeI 1992, alcuni governi si sono convinti che questa mente diabolica fosse quella di George Soros, titolare del Quantum Fund, che guadagnò i miliardo di dollari durante il cosiddetto Mercoledì Nero, contribuendo all'esclusione della sterlina dallo SME. In realtà, i mercati finanziari riflettono le percezioni del rischio e delle possibilità di profitto di milioni di singoli investitori: dai fondi pensionistici alle banche, dai fondi bilanciati a facoltosi privati e a uomini d'affari interessati a guadagnare denaro, acquirenti di case e pensionati alla ricerca di opportunità per investire il proprio gruzzolo. Il mercato mondiale dei capitali è semplicemente un meccanismo che assicura la valutazione dei capitali e la loro destinazione agli impieghi più produttivi. I mercati agiscono come raccoglitori ed elaboratori di informazioni. In senso lato, rappresentano semplicemente uno specchio nel quale l'economia si riflette. La rottura di questo specchio non potrà cancellare l'immagine che esso rifletteva. Se i mercati prevedono un aumento dell'inflazione, potranno prevenirlo spingendo subito verso l'alto i rendi-
menti delle obbligazioni, nella speranza di poter evitare i guai nel periodo successivo. Gran parte delle maggiori oscillazioni dei prezzi delle attività finanziarie, come nei casi della caduta del dollaro o della crisi del peso messicano, possono essere ricondotte a squilibri economici o a errori di politica economica. Questo non vuol dire, tuttavia, che il mercato abbia sempre ragione. Nel lungo termine i mercati possono mostrare tendenze razionali, ma la potenza e i tempi delle loro reazioni potranno apparire irrazionali. I mercati finanziari applicano la propria disciplina in maniera erratica: possono risultare lenti nella punizione dei colpevoli, per poi magari correggere se stessi bruscamente, con conseguenze dolorose. In certe occasioni potranno addirittura inviare segnali perversi che potrebbero incoraggiare i governi a perseguire politiche più, e non meno, dissennate. In questo scenario sempre più incerto, una cosa è sicura: ci attendono scontri sempre più frequenti tra i mercati mondiali e i governi nazionali. Il pericolo è rappresentato dal fatto che alcuni governi potrebbero essere tentati di rispondere agli eccessi dei mercati tentando di rimettere la camicia di forza al mercato mondiale dei capitali. Ma questi tentativi sarebbero votati al fallimento. I governi farebbero meglio a riconsiderare il proprio modo di gestire le politiche per evitare la destabilizzazione delle aspettative dei merca7
ti, e a fornire un maggiore flusso di informazioni ai mercati stessi per garantirne la migliore disciplina. L'obiettivo è quello di contribuire ad aumentare l'efficienza dei mercati mondiali dei capitali incoraggiando i comportamenti migliori. Ai politici crescentemente frustrati, questa apparirà come una sconfitta dei governi. Le loro possibilità di promettere il paradiso agli elettori (per poi dare loro l'inferno) sono sempre più ridotte. Tuttavia, nel lungo termine, i veri vincitori non saranno solo i mercati finanziari, ma anche le aziende, i lavoratori, i risparmiatori e i pensionati.
RITORNO AL FUTURO
Nell'ultimo decennio, il mondo della finanza è stato effettivamente teatro di grandi rivoluzioni, tuttavia, la recente crescita del potere dei mercati finanziari viene spesso sopravvalutata. Il passaggio dai mercati finanziari nazionali, regolamentati e segmentati, a un unico mercato mondiale dei capitali è stato graduale. Inoltre, sotto alcuni aspetti, questo cambiamento si è semplicemente tradotto in un ritorno alla vecchia tradizione di ispirazione più internazionale. Durante il quarto di secolo che precedette la Prima Guerra Mondiale, in regime di gold standard, i flussi internazionali dei capitali dominavano le economie. La crescita dell'offerta mo-
netaria era legata ai movimenti internazionali dell'oro, che non lasciavano alcun margine di azione ai governi. Anche i politici del diciannovesimo secolo si accanivano contro l'eccessivo potere degli speculatori e la loro capacità di destabilizzare i mercati delle materie prime. Keynes si unì al dibattito negli anni Trenta, sostenendo, nella sua Teoria Generale, che "gli speculatori non possono arrecare alcun danno, essi sono come delle bollicine in un flusso costante di attività imprenditoriali. Ma quando le imprese diventano la bollicina nel gorgo della speculazione e lo sviluppo del Paese diventa il sottoprodotto delle attività di una casa da gioco, è molto probabile chei risultati del processo siano negativi Inoltre, non vi sono prove che dimostrino che negli ultimi anni le crisi finanziarie si siano fatte più gravi. Negli ultimi anni, sono poche le "bollicine speculative" che potrebbero rivaleggiare con la situazione che venne a crearsi sul mercato dei tulipani olandesi nel 1630, quando i frenetici scambi spinsero i prezzi a livelli vertiginosi prima che questi crollassero nuovamente a livelli inferiori al 10% dei picchi raggiunti in precedenza. Tre secoli più tardi, accentuate oscillazioni dei mercati finanziari contribuirono a scatenare la Grande Depressione degli anni Trenta. Fu proprio la terrificante esperienza della disoccupazione di massa e dei fallimenti generalizzati delle ban-
che che spinse i governi a gravare i propri sistemi finanziari di così tanti meccanismi di controllo. Henry Morgenthau, ministro del Tesoro americano negli anni Quaranta, riassunse efficacemente il generale senso di sfiducia nei mercati quando sostenne che il sistema di Bretton Woods, istituito dopo la Secònda Guerra Mondiale, avrebbe "scacciato gli usurai dal tempio della finanza internazionale". Oggi, i capitali sono caratterizzati da livelli di mobilità molto superiori rispetto a quelli di due o tre decenni or sono, tuttavia, sotto certi aspetti, la mobilità è la stessa che si registrava prima della Seconda Guerra Mondiale. In rapporto alle dimensioni delle economie, i flussi internazionali netti di capitali erano allora molto superiori rispetto a quelli che si registrano oggi. Per fare un esempio, tra il 1880 e il 1913, la Gran Bretagna registrava un saldo positivo medio della bilancia commerciale pari a quasi il 5% del Pa. Oggi, pochi Paesi sarebbero disposti a mantenere uno sbilancio superiore al 3% del Pa per qualsiasi durata di tempo. Anche il mercato obbligazionario internazionale, all'inizio del secolo, registrava gli stessi livelli di attività di oggi. Nel 1920 Moodys assegnava il rating alle obbligazioni emesse da circa 50 governi. Dieci anni or sono, appena 15 governi accoglievano fondi sul mercato dei capitali americano. Solo recentemente il numero è tornato a 50.
Nel corso della storia, i controlli sui mercati valutari hanno rappresentato l'eccezione piuttosto che la regola, pertanto, l'odierno mercato dei capitali liberalizzato è adatto a un'ottica di lungo periodo. L'anomalia non è rappresentata, come molti ritengono, dall'attuale potere della finanza mondiale, ma dal periodo compreso tra il 1930 e il 1970 durante il quale, in misure diverse, i controlli sui capitali e la severa regolamentazione hanno isolato i mercati finanziari nazionali, attribuendo ai governi maggiori poteri di controllo sulle rispettive economie. Tuttavia, i controlli sui capitali registravano numerose falle già molto tempo prima del loro smantellamento. All'inizio degli anni Settanta, da queste falle era nata una vera e propria inondazione. Uno dei metodi per aggirare le normative era rappresentato dal mercato dell'Eurodollaro, sviluppato inizialmente dalle banche. americane per sfuggire alle normative bancarie nazionali. Il collasso del sistema di Bretton Woods, all'inizio degli anni Settanta, ha segnato la rinascita del mercato mondiale dei capitali. Gli Stati Uniti, il Canada, la Germania e la Svizzera, che già negli anni Sessanta attuavano politiche marcatamente liberali sui movimenti internazionali di capitali, nel 1973 avevano tutti abolito i controlli. In altri Paesi, il processo ha richiesto tempi più lunghi. Le pressioni per l'abbandono dei controlli non provenivano esclusiva-
mente dalle ideologie liberiste, ma dalle forze economiche che contrastavano l'efficacia delle normative e spingevano le aziende a spostarsi verso contesti finanziari meno regolamentati. La Gran Bretagna abolì i controlli sui cambi nel 1979 e, nel 1980, il Giappone fece lo stesso. Ma la Francia e l'Italia mantennero i propri controlli fino al 1990, e la Spagna e il Portogallo fino al 1992. Questo può contribuire a spiegare come mai gli europei tendano ad essere più allarmati per il nuovo potere del mercato mondiale dei capitali. Dal lato opposto, l'economia americana è da tempo aperta ai movimenti internazionali di capitali. LA GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI
Malgrado la mobilità dei capitali a livello mondiale sia semplicemente tornata ai livelli del passato, vi sono grandi differenze tra l'attuale mercato globale dei capitali e quello di due decenni or sono, o anche del secolo scorso. I movimenti netti di capitali tra i Paesi potranno anche essere ridotti rispetto al periodo del gold standard, ma il volume lordo delle transazioni e dei movimenti di capitali, e la velocità con cui i capitali attraversano le frontiere, hanno registrato grandi aumenti. Un finanziere, Nathan Mayer Rothschild, utilizzò i piccioni viaggiatori per avere informazioni rapide sull'esito della Battaglia di Waterloo. Oggi, 10
grazie ai computer e ai moderni sistemi di telecomunicazioni, il signor Rothschild, o chiunque altro, potrebbe disporre delle notizie quasi in tempo reale. Anche le transazioni su1 mercato dei titoli si svolgono oggi istantaneamente mentre potenti sistemi computerizzati individuano le opportunità di arbitraggio. Negli anni Cinquanta, la valuta estera poteva essere acquistata e venduta solo durante i normali orari di ufficio. Oggi le transazioni avvengono 24 ore su 24, dando così vita a un mercato finanziario completamente integrato a livello mondiale. Altri due fattori hanno modificato la natura dei mercati dei capitali, favorendo la globalizzazione dei mercati. Il primo è rappresentato dalla crescente concentrazione del potere contrattuale nelle mani di istituzioni come i fondi pensionistici e le compagnie assicurative che sempre più di frequente effettuano movimenti internazionali di titoli. Gli investitori istituzionali gestiscono oggi quasi due quinti delle attività finanziarie delle famiglie americane, un quinto in più rispetto al 1980. Il volume totale delle attività finanziarie degli investitori istituzionali americani è aumentato dal 59% del PIL nel 1980 al 126% nel 1993. Il secondo fattore è rappresentato dalle innovazioni finanziarie. La cartolarizzazione dei crediti (che consente alle aziende di contrarre prestiti direttamente sul mercato piuttosto che attra-
verso le banche) ha aumentato l'offerta di attività finanziarie negoziabili, il cui prezzo si forma quindi liberamente sui mercati mondiali. In America la cartolarizzazione è molto avanzata, mentre in Europa inizia soio oggi a svilupparsi. Un elemento ancora più importante è quello della proliferazione degli strumenti derivati, che hanno contribuito a collegare tra loro i mercati nazionali agevolando l'arbitraggio (lo sfruttamento delle differenze di prezzo tra i diversi strumenti finanziari). Malgrado l'entusiasmo che hanno suscitato, gli strumenti derivati non rappresentano di fatto una novità. I babilonesi li utilizzavano per la produzione agricola. Nel diciassettesimo secolo, opzioni e contratti non molto diversi dai fiaures di oggi costituivano la maggior parte delle transazioni effettuate alla borsa di Amsterdam. Nel diciottesimo secolo, Osaka poteva contare su un mercato dei future perfettamente organizzato, il mercato del riso di Dojima. Ciononostante, all'inizio degli anni Ottanta, gli strumenti derivati su valute e tassi di interesse erano molto rari. Eppure, alla fine dello scorso anno, il volume totale di strumenti derivati trattati nelle borse o venduti fuori borsa ha raggiunto il valore di 20 trilioni di dollari. Le transazioni basate sugli strumenti derivati costano all'incirca un decimo rispetto a quelle effettuate sui mercati monetari di riferimento, e questo ha conse-
gnato nelle mani degli operatori di mercato un altro insieme di potenti armi con cui contrastare i governi. ALCUNE ANTICHE VERITÀ SUGLI "GNOMI"
Anche prima della liberalizzazione finanziaria, la storia recente è piena di esempi di mercati che hanno costretto i governi a modificare le proprie politiche. Tra questi esempi troviamo il collasso del sistema dei cambi di Bretton Woods, all'inizio degli anni Settanta e le svalutazioni della sterlina nel 1967 e del franco francese nel 1968. In tutti e tre i casi la responsabilità è stata addossata agli speculatori, che all'epoca erano i cosiddetti "gnomi di Zurigo" (i banchieri svizzeri), o forse gli aristocratici francesi impegnati a portare fuori dal Paese le loro valige zeppe di soldi. Oggi, i sospettati principali sono gli speculatori anglosassoni, o questo è quello che i politici francesi vorrebbero far credere. Chiunque siano i responsabili, la loro azione si fa sempre più efficace. Negli anni Sessanta, i governi potevano resistere molto più a lungo alle svalutazioni. Harold Wilson, l'allora primo ministro britannico, ha combattuto gli gnomi di Zurigo per tre anni prima di essere costretto a svalutare la sterlina nel 1967. La crisi dello SME del 1992 ha condotto agli stessi risultati nel giro di pochi giorni. Il mercato dei cambi è stato il primo 11
ad avviare l'integrazione mondiale a metà degli anni Settanta, quando furono aboliti i controlli e le innovazioni tecnologiche crearono nuove possibilità di arbitraggio; ancora oggi, questo è il più grande e il più genuinamente globale tra i mercati finanziari. Il mercato obbligazionario ha raggiunto l'integrazione nel corso degli anni Ottanta, con l'esplosione dei movimenti internazionali di obbligazioni. Dieci anni dopo, nel 1993, il totale delle vendite e degli acquisti internazionali di obbligazioni del Tesoro americano è passato da 30 miliardi di dollari a 500 miliardi. La globalizzazione dei mercati azionari ha richiesto più tempo, frenata dalle differenze tra le procedure contabili nazionali e dalle restrizioni sulla possibilità per i fondi pensionistici di detenere titoli esteri. Alcune aziende apparentemente simili registrano ancora valutazioni diverse su mercati diversi. La liberalizzazione, le nuove tecnologie e le innovazioni hanno creato un vasto bacino di fondi internazionali ad alta mobilità. Purtroppo, però, non sono disponibili misurazioni complete del totale dei movimenti internazionali di capitali (o di valuta). Alcuni dati statistici possono contribuire alla ricostruzione di un quadro complessivo. Nel 1973, il volume medio di transazioni sui mercati valutari ammontava ad appena 10-20 miliardi di dollari; nel 1983 il dato era ancora piuttosto modesto, circa 60 miliardi di dollari. 12
Ma già nel 1992, circa 900 miliardi di dollari passavano di mano in mano sui mercati valutari internazionali. Il rapporto tra transazioni di valute estere e commercio mondiale è balzato da 10:1 nel 1983 a oltre 60:1 nel 1992. I dati pubblicati dalle banche centrali nazionali indicano che il volume di affari quotidiano si aggira oggi attorno a 1,3 trilioni di dollari. Nei giorni in cui i mercati sono particolarmente vivaci, il dato può essere ancora superiore, dando un'idea di cosa potrebbe avvenire in situazioni di turbolenza. Il totale delle riserve in valuta estera dei governi delle maggiori economie industrializzate ammonta ad appena 640 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti, il volume lordo di vendite e di acquisti di obbligazioni e azioni tra residenti e non residenti è passato dal 3% del Pii. nel 1970 al 9% nel 1980, e al 135 6/o nel 1993 (vd. grafico 3). In Gran Bretagna, le transazioni internazionali di titoli sono passate dalla percentuale trascurabile del 1970 al 1.000% del PIL nel 1993. Il FMI stima attorno a 2,5 trilioni di dollari il volume totale di titoli negoziabili detenuti all'estero nel 1992. La consistenza degli impieghi bancari internazionali (al netto dei rimborsi), è balzata a 4,2 trilioni di dollari lo scorso anno rispetto ai 265 miliardi registrati nel 1975. Il volume di titoli internazionali in circolazione è balzato lo scorso anno a oltre 2 trilioni di dollari rispetto ai 259 miliardi del 1982.
La quota complessiva di attività finanziarie detenuta in titoli esteri dai fondi pensionistici è passata dal 10% del 1980 al 20% del 1993; i fondi pensionistici americani sono stati meno temerari, ma hanno comunque aumentato le proprie quote di titoli esteri dallo 0,7% al 6% delle attività finanziarie nell'arco dello stesso periodo. La crescita del mercato obbligazionario mondiale è stata alimentata dai forti problemi di indebitamento dei governi. Il volume complessivo dei titoli di Stato è aumentato dal 18% del totale delle attività finanziarie nel 1980 al 25% nel 1992. McKinsey, una società di consulenza, prevede che entro il 2000 la percentuale salirà al 35%. Una quota crescente di queste obbligazioni è nelle mani di stranieri. Nel 1980, meno dell'l% dei titoli di Stato francesi era nelle mani di investitori stranieri, nel 1992 questo dato aveva raggiunto il 43%. In Gran Bretagna, la quota di investitori stranieri è aumentata dal 9% al 17%. Negli Stati Uniti, la percentuale degli investitori stranieri si è attestata attorno al 20%. I titoli di Stato detenuti da non residenti hanno una mobilità più elevata rispetto a quelli in possesso di residenti, e questo sembra suggerire una maggiore sensibilità ai cambiamenti delle aspettative degli investitori. Quando il mercato mondiale dei capitali non apprezza una politica economica, la reazione è immediata.
E QUESTO E SOLO L'INIZIO
Uno studi02 pubblicato lo scorso anno da McKinsey ha stabilito che i mercati dei capitali hanno raggiunto solo la fase intermedia di un processo della durata di 50 anni, e la piena integrazione sarà raggiunta solo tra alcuni decenni. La diversificazione internazionale dei portafogli è ancora agli inizi. Alcuni governi impongono ancora limitazioni sulla quota di attività finanziarie che i fondi pensionistici possono investire all'estero. Inoltre, con l'apertura dei mercati finanziari dei Paesi emergenti e l'accresciuto spirito di avventura dei responsabili della gestione dei fondi nei Paesi sviluppati, c e un ampio margine per i espansione dei movimenti internazionali dei risparmi. Con la sua progressiva espansione, il mercato mondiale dei capitali continuerà ad accrescere il proprio potere. McKinsey ha stimato che il volume complessivo delle attività finanziarie scambiate sul mercato mondiale dei capitali è aumentato dai 5 trilioni di dollari del 1980 ai 35 trilioni del 1992, pari al doppio del Pii, complessivo dei Paesi OCSE. L'Istituto prevede che il mercato raggiungerà gli 83 tnlioni nei 2000, pari a tre volte il Pii. delle economie OCSE. L'espansione dei singoli mercati finanziari in relazione alle dimensioni dell'economia reale e il rafforzamento dei legami tra i mercati stessi farà sì che questi agiscano 13
come una struttura unica nella valutazione dei rischi. McKinsey sostiene che i rendimenti dei titoli di stato caratterizzati dagli stessi livelli di rischio abbiano registrato una convergenza. Se questo è vero, allora le differenze in termini di rendimento riflettono in maniera più accurata il giudizio del mercato sui rischi relativi a ciascun Paese. Con il crescere dell'integrazione dei mercati, il mercato mondiale dei capitali giocherà un ruolo sempre più ìmportante nella determinazione dei tassi di cambio e dei tassi di interesse. Ma quale sarà, a questo punto, il ruolo delle politiche monetarie e fiscali nazionali? SCRUTANDO ATFRAVERSO LA NEBBIA MONETARIA
Secondo alcuni, la globalizzazione e l'innovazione dei mercati finanziari hanno ridotto l'efficacia della politica monetaria. Di norma, questi osservatori hanno due preoccupazioni principali: che i governi abbiano perduto il potere di fissare i tassi di interesse, in quanto i movimenti di capitali sono in grado di neutralizzare le misure monetarie nazionali; e che le variazioni dei tassi di interesse abbiano oggi effetti molto più blandi e ritardati sulle economie di quanto non avvenisse in passato. Queste opinioni tendono a confondersi con due regole poco conosciute che riguardano quello che le politiche 14
monetarie possono e non possono fare. La prima è che quando i capitali hanno libertà di movimento a livello internazionale, i governi sono costretti a scegliere tra una politica dei tassi di cambio e una politica monetaria indipendente; non è possibile attuare entrambe le misure. Con un tasso di cambio fisso, i governi di fatto perdono il potere di controllo in campo monetario: i tassi di interesse nazionali devono muoversi in linea con quelli esteri. Questo spiega come mai le accuse più forti in materia di perdita di sovranità monetaria causata dai mercati finanziari siano venute da quei Paesi europei che hanno cercato di fissare i tassi di cambio. Se i mercati internazionali dei capitali fossero perfettamente integrati e i tassi di cambio fossero fissi, allora il capitale si sposterebbe fino a livellare il costo dei denaro in tutti i Paesi. Le politiche monetarie nazionali non sarebbero in grado di influenzare i tassi di interesse reali, e quindi neanche l'attività economica reale. I tassi di cambio fluttuanti, al contrario, consentono ai governi di seguire una politica monetaria indipendente. Anche in presenza di elevata mobilità dei capitali, i Paesi possono comunque fissare i tassi di interesse nazionali in maniera indipendente, purchè essi siano disposti a rinunciare al controllo dei rispettivi tassi di cambio. Infatti, Paesi come la Gran Bretagna, che attualmente consentono la fluttuazione dei propri tassi
di cambio, godono di maggiore autonomia monetaria nazionale oggi di quanto non fosse ai tempi del sistema di Bretton Woods. Un secondo fraintendimento della politica monetaria è rappresentato dalla convinzione (oggi piuttosto antiquata), che nel lungo termine esista un rapporto inverso tra inflazione e disoccupazione, e che la politica monetaria possa essere utilizzata, a costo di leggeri aumenti dell'inflazione, per accelerare la crescita dei Paesi e per ridurre la disoccupazione. Chiunque abbia ancora queste convinzioni potrà facilmente concludere, in base agli attuali elevati livelli di disoccupazione, che la politica monetaria non è più in grado di rilanciare l'occupazione. Ma la verità è che non lo è mai stata. Una politica monetaria più espansiva può stimolare la crescita solo per un breve periodo; nel lungo termine, l'effetto si tradurrà in un'accelerazione dell'inflazione. Questo è il motivo per il quale gli economisti sostengono che la politica monetaria debba concentrarsi sulla stabilizzazione dei prezzi, perché questa garantisce il contesto migliore per gli investimenti e per la crescita. Considerate le limitazioni dei poteri della politica monetaria, è vero che le innovazioni finanziarie e l'integrazione dei mercati l'hanno resa meno efficace? I due interrogativi sollevati dagli osservatori più apprensivi, e cioè se le banche centrali sono ancora in grado
di pilotare i tassi di interesse e se le variazioni dei tassi di interesse possono ancora influire sulla produzione e l'inflazione sono semplici. La risposta non può essere che affermativa in entrambi i casi. La Federal Reserve americana o la Bundesbank tedesca possono naturalmente ancora fissare i tassi di interesse a breve, e le banche centrali di tutto il mondo hanno di recente dimostrato di essere ancora in grado di utilizzare elevati tassi di interesse per provocare una recessione e contenere l'inflazione. Ciononostante, il lavoro delle banche centrali è sicuramente diventato più difficile. La deregolamentazione e le innovazioni in campo finanziario hanno reso più difficile la misurazione degli aggregati monetari. La liberalizzazione finanziaria ha modificato la domanda di moneta ed ha quindi stravolto il tradizionale rapporto tra offerta di moneta e inflazione. Considerato che i risparmi si spostano tra i diversi strumenti disponibili, ad aggregati monetari diversi corrisponderanno diversi segnali di politica economica. Per esempio, nel 1993, la crescita dell'i 1,6% della Ml americana, la misura della moneta in senso stretto, sembrava indicare che l'inflazione fosse sui punto di decollare, mentre il modesto aumento dell'1,5% deil'M2, la misura della moneta in senso ampio, sembrava segnalare un rallentamento dell'economia. Di fronte a una simile confusione, tutte le maggiori econo15
mie, ad eccezione della Germania, hanno più o meno abbandonato i propri obiettivi monetari formali. Questo significa che le banche centrali non possono più impostare le politiche semplicemente sulla base delle indicazioni della propria bussola monetaria, ma dovranno riferirsi a una più vasta gamma di indicatori economici e finanziari, e fare scelte più ponderate. IL "CYBERCASH EXPRESS"
A prescindere dal tipo di misurazione, il potere di controllo della moneta da parte delle banche centrali appare sempre più debole. La deregolamentazione ha incoraggiato la crescita di nuove istituzioni e di nuovi strumenti finanziari, e il settore bancario, sui quale le banche centrali hanno tradizionalmente basato le proprie politiche monetarie, si sta riducendo. Trent'anni or sono, negli Stati Uniti, le banche garantivano i tre quarti dei crediti a breve e medio termine concessi alle imprese; ora grazie alla crescita della cartolarizzazione (che consente alle aziende di reperire i fondi direttamente sul mercato), questo dato si è più che dimezzato. La quota delle banche commerciali rispetto al totale delle attività finanziarie è scesa da oltre il 50% ad appena il 25% durante gli ultimi 70 anni. Questa tendenza è probabilmente destinata a rafforzarsi ulteriormente. Alcuni analisti sottolineano i pericoli di 16
una società dove i contanti vengano sostituiti dalle smart card e dalla moneta elettronica ("E-cash"), che si muove attraverso reti di computer, scavalcando le banche e al sicuro dagli occhi attenti delle banche centrali. Alcuni hanno sostenuto che con la crescente diffusione di moneta elettronica, le banche centrali finiranno con il perdere completamente il controllo della moneta e dei tassi di interesse a breve. Tuttavia, le stesse preoccupazioni si diffusero in occasione della prima comparsa delle carte di credito, eppure le banche centrali sono ancora saldamente al timone. A prima vista, questa circostanza pone un interrogativo. Come sottolinea Benjamin Friedman 3 , economista presso l'Università di Harvard, la Federal Reserve americana si muove in una economia da 7 trilioni di dollari, con circa 25 trilioni di dollari di crediti finanziari in essere. Come potrebbe controllare i tassi di interesse quando le sue operazioni sui mercato aperto (e cioè le vendite o gli acquisti di titoli) ammontano ad appena una manciata di miliardi di dollari nell'arco di un intero anno? La risposta è che la Federal Reserve esercita un controllo monopolistico sulla creazione di moneta e sulle riserve che le banche sono tenute a mantenere. Come fornitore di riserve in regime monopolistico, una banca centrale può influenzare il prezzo delle ri-
serve stesse (e cioè il tasso al quale le banche si prestano reciprocamente tali riserve) modificandone l'offerta attraverso le operazioni di mercato aperto. In America, alla fine del 1994, il totale delle riserve bancarie ammontava ad appena 61 miliardi didollari, pertanto, farà una grande differenza se la Federal Reserve dovesse aumentare le riserve delle banche di i miliardo di dollari o 10 miliardi di dollari nell'arco di un anno. Quindi, fino a quando le banche saranno tenute ad avere delle riserve, e fino a quando le banche centrali manterranno il proprio monopolio, queste ultime conserveranno i propri poteri di controllo sui tassi di interesse a breve. Se tutti passassero dall'utilizzo della moneta convenzionale alla moneta elettronica, questo potrebbe in teoria minacciare il monopolio delle banche centrali. Tuttavia, anche se tutti usassero la moneta elettronica per le proprie transazioni, il regolamento dei saldi avverrebbe comunque attraverso il sistema bancario. I creditori esigerebbero comunque qualcosa di affidabile: i fondi delle banche centrali. E questo non per negare che il ruolo sempre meno importante delle banche, unito al rapporto più elastico tra le riserve delle banche e la moneta, rendano più difficile per le banche centrali controllare i flussi di credito mediante le operazioni di mercato aperto. In America, per esempio, nessuno può dire quanto ancora dovrà ri-
dursi il ruolo delle banche perché il monopolio della Federal Reserve sulle riserve divenga ininfluente. Tuttavia, per il momento, come sostiene Charles Goodheart4, (un economista della London School of Economics), la tradizionale capacità delle banche centrali di controllare i tassi di interesse a breve non è seriamente minacciata. STRUMENTI MENO EFFICIENTI.
Cosa possiamo rispondere a chi sostiene che i cambiamenti verificatisi nei mercati finanziari abbiano ridotto la reattività dell'economia rispetto alle oscillazioni dei tassi di interesse? La deregolamentazione dei mercati finanziari ha chiaramente alterato il funzionamento delle politiche monetarie. Prima della deregolamentazione, i governi potevano controllare direttamente il volume degli impieghi bancari mediante i controlli sul credito, e potevano fissare dei tetti per i tassi sui depositi che rendevano le politiche monetarie molto più efficaci di quanto non lo siano oggi. Prendiamo per esempio la "normativa Q" americana (abolita nel 1985), che imponeva tetti massimi per i tassi di interesse sui depositi a risparmio. Quando la Federal Reserve sollevava i propri tassi al di sopra di questo tetto, il flusso di fondi verso le casse di risparmio era inevitabilmente destinato a prosciugarsi rapidamente, chiudendo così il rubinetto dei finanziamenti per l'edilizia e 17
creando il blocco istantaneo di questo settore. L'eliminazione dei tetti massimi per i tassi di interesse ha fatto della politica monetaria una scienza molto meno esatta. Ora le banche centrali, per influenzare il livello della domanda nell'economia, sono costrette ad affidarsi esclusivamente alle modifiche dei propri tassi di interesse. Pertanto, per ottenere un determinato impatto sulla spesa, potrebbero rivelarsi necessari maggiori aumenti dei tassi. D'altro canto, la crescente apertura delle economie ha aumentato l'importanza del tasso di cambio come strumento di politica monetaria. Se un aumento nei tassi di interesse dovesse causare un innalzamento del tasso di cambio, questo rafforzerebbe l'effetto della politica monetaria, anche se i risultati di questo processo sono in qualche misura imprevedibili. L'impatto dei tassi di interesse sull'economia potrebbe essere stato ridotto anche dall'uso di strumenti derivati, come futures, swaps e opzioni. Si ritiene che l'85% delle aziende americane Fortune 500 faccia uso di strumenti derivati per cercare difese rispetto alle oscillazioni dei tassi di interesse e delle valute. Il grosso di questi contratti è sui tassi di interesse, e c'è chi sostiene che essendo l'uso degli strumenti derivati in continua espansione, le modifiche dei tassi di interesse avranno effetti sempre minori sulle economie. 18
Tra la miriade di studi sui potenziali rischi degli strumenti derivati, sorprendentemente, solo alcuni si occupano delle possibili implicazioni in termini di politica monetaria. Il migliore tra questi, pubblicato dalla Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI) 5 , conteneva una valutazione dell'influenza degli strumenti derivati sull'efficacia della politica monetaria sui livelli di spesa complessivi e sull'inflazione. L'impiego degli strumenti derivati può ovviamente ridurre la sensibilità delle singole aziende alle variazioni dei tassi di interesse; ma il vero effetto, sostiene la BRJ, è quello di redistribuire il rischio relativo ai tassi di interesse sull'intera economia. Chiunque sia intenzionato a ridurre la propria esposizione ai rischi di variazioni dei tassi di interesse dovrà trovare una controparte disposta ad accollarsi quei rischi, pertanto sarà impossibile proteggere l'economia nel suo complesso. Inoltre, sostiene la BRI, malgrado gli strumenti derivati isolino temporaneamente i crediti preesistenti dai cambiamenti dei tassi di interesse, essi non possono modificare il costo marginale dell'indebitamento (e cioè i tassi di interesse che si formano sul mercato), che rappresenta il parametro fondamentale per tutte le nuove decisioni di investimento. D'altro canto, se le controparti hanno livelli di sensibilità diversi rispetto alle variazioni dei tassi di interesse, gli
strumenti derivati potrebbero influenzare la reazione della spesa aggregata a tali cambiamenti. Per esempio, un'azienda caratterizzata da scarsa propensione al rischio la cui spesa sia altamente sensibile alle variazioni dei tassi di interesse sarà presumibilmente incline a pagare un'azienda con maggiore propensione al rischio, la cui spesa è meno sensibile, per sostenere i rischi delle fluttuazioni dei tassi di interesse. Di conseguenza, l'impatto di qualsivoglia variazione dei tassi di interesse sulla spesa risulterà ridotto per tutta la durata del contratto. Tuttavia, nessuno ha ancora stabilito se tra le controparti vi siano differenze sufficientemente significative da causare effetti misurabili. La BRI conclude sostenendo che gli strumenti derivati possono posticipare l'impatto di variazioni dei tassi di interesse per l'intera durata del contratto, ma non possono eliminarlo. I debitori non possono proteggersi in eterno, quindi alla fine le decisioni di spesa verranno influenzate dai tassi di interesse di mercato più elevati. Se necessario, sostiene la BRI, per ottenere l'effetto desiderato sulla produzione, i tassi di interesse potranno semplicemente essere modificati in misura superiore rispetto al passato.
funzionamento. In realtà, questi strumenti garantiscono alle banche centrali nuovi indicatori per l'interpretazione degli andamenti dei mercati. Essendo caratterizzati da una maggiore liquidità, i mercati degli strumenti derivati offrono più informazioni dei mercati a pronti. I mercati dei future forniscono utili indicazioni sulle aspettative dei mercati in relazione ai tassi di interesse e di cambio, e i mercati delle opzioni riflettono il punto di vista degli investitori sull'incertezza. Per esempio, la Banca d'Inghilterra osserva l'andamento dei future sui titoli di stato a lungo termine e sulla sterlina a breve per la sua analisi quotidiana delle aspettative relative ai tassi di interesse. Complessivamente, l'effetto della deregolamentazione finanziaria e delle innovazioni finanziarie è stato quello di rendere l'impatto sull'economia di una variazione dei tassi di interesse meno certo di quanto non fosse in precedenza, e di aumentare i possibili margini di errore. Ma la politica monetaria non è mai stata comunque una semplice questione di causa ed effetto: i ritardi di reazione sono sempre stati variabili, e spesso anche prolungati (fino a due anni). LE MANI LEGATE DELLE BANCHE CENTRALI
In sostanza, gli strumenti derivati possono rendere più difficili le politiche monetarie e meno prevedibili i loro effetti, ma non possono impedirne il
Anche se la politica monetaria mantiene la sua efficacia, i governi potrebbero avere la sensazione di aver perso 19
parte della propria autonomia su un altro fronte: i governi sono infatti vincolati dagli investitori che detengono le loro valute, in particolare da chi detiene titoli. Le banche centrali possono fissare i tassi di interesse a breve, ma non possono pi1 controllare i tassi a lungo termine. L'effetto che una modifica della politica monetaria ha sui rendimenti delle obbligazioni dipende dalla valutazione espressa dal mercato sul suo impatto sull'economia, e questo aggiunge un ulteriore elemento di aleatorietà. Per esempio, se una banca centrale tenta di mitigare la politica monetaria in una fase caratterizzata da crescenti aspettative inflazionistiche, i suoi tentativi verranno in parte neutralizzati da una crescita dei tassi di interesse di lungo termine. In una certa misura, quindi, le banche centrali devono condurre la politica monetaria influenzando le aspettative. In termini generici, i rendimenti delle obbligazioni a lungo termine sono composti dal rendimento reale, dall'inflazione attesa e da una remunerazione del rischio. Se, per esempio, i mercati dovessero sospettare che un governo intende correre il rischio di un innalzamento dell'inflazione, essi spingerebbero verso l'alto i rendimenti delle obbligazioni a lungo termine. Questa situazione ha due effetti. In primo luogo, comporterà un irrigidimento automatico delle politiche. In America, Germania, Giappone e Francia, piìi del 60% dell'indebitamento 20
del settore privato è legato ai tassi di interesse a lungo termine. In secondo luogo, questo potrebbe spingere i responsabili delle politiche ad aumentare i tassi di interesse a breve prima di quanto avrebbero fatto altrimenti. La marcata crescita dei rendimenti obbligazionari avvenuta poco tempo addietro ha probabilmente contribuito a innescare il rallentamento dell'economia americana prima ancora che si avvertissero gli effetti della graduale riduzione dei tassi di interesse a breve decisa dalla Federal Reserve. Alcuni sostengono che questo vada interpretato come una parziale "privatizzazione" della politica monetaria che riduce il potere delle banche centrali. Alcuni critici accusano i governatori delle banche centrali di essere troppo ossessionati dal mercato obbligazionario, e di piegarsi a tutte le sue richieste. Questo, sostengono, ha effetti deflazionistici sulla politica monetaria. Naturalmente, le banche centrali devono seguire con attenzione i mercati finanziari, da una parte perché il funzionamento della politica monetaria si basa sui prezzi delle attività finanziarie, e dall'altra perché i mercati delle obbligazioni veicolano le informazioni sulle aspettative future, e quindi guidano i banchieri nella scelta della politica più adeguata. Tuttavia, sostenere che le banche centrali seguano ciecamente i mercati è un'assurda esagerazione. Prendiamo, per esempio, il Rapporto Trimestrale sull'Inflazione
della Banca d'Inghilterra. Delle 50 pagine del numero del mese di agosto del 1995, solo cinque sono dedicate ai mercati finanziari, molto meno rispetto all analisi dell economia reale, dei costi e dei prezzi. Nell'ultimo quarto di secolo, in molti hanno sostenuto che la politica monetaria abbia mostrato in più occasioni di aver perso efficacia. Eppure notiamo che le banche centrali hanno ancora molte frecce al proprio arco, l'unica differenza è che devono colpire più forte per lasciare il segno. Il potere del mercato dei titoli rende oggi più complessa la gestione delle politiche inflazionistiche da parte delle autorità monetarie. D'altra parte, però, i mercati finanziari liberalizzati hanno moltiplicato il potere delle banche centrali impegnate nella lotta all'inflazione, per esempio spingendo verso l'alto i rendimenti obbligazionari in presenza di aspettative inflazionistiche. Se la politica monetaria sembra incapace di assolvere i propri compiti, l'ostacolo potrebbe essere rappresentato non dai mercati finanziari, ma dalle politiche fiscali troppo indulgenti. La politica monetaria non può fare tutto da sola. LA PERDITA DI EFFICACIA DELLA POLITICA FISCALE
Quanti speculatori finanziari ci vogliono per sostituire una lampadina? Nessuno: il mercato ha già scontato la
sostituzione. Con la crescita del peso delle opinioni degli speculatori internazionali nei Paesi contraddistinti da elevato indebitamento pubblico, questa vecchia storiella ha acquistato un nuovo significato. Negli ultimi anni, i mercati dei titoli hanno spesso negato il voto di fiducia a molti governi fortemente indebitati, tra i quali quelli di Canada, Italia e Svezia. In teoria, gli investitori incoraggiano i governi indecisi a stringere la cinta, richiedendo rendimenti obbligazionari più elevati o spingendo le loro valute al ribasso. Eppure, al tempo stesso, l'accresciuta mobilità internazionale dei capitali ha garantito ai governi maggiore libertà di indebitamento rispetto al periodo in cui questi erano costretti a finanziare i propri deficit sui mercati interni. In un'economia chiusa, se un governo aumenta il proprio disavanzo di bilancio, esso sarà costretto a pagare tassi di interesse più elevati per convincere gli investitori nazionali a detenere maggiori volumi di titoli. Ma quando i governi hanno accesso al mercato mondiale dei risparmi, essi possono indebitarsi a costi inferiori, in quanto anche un modesto innalzamento dei tassi di interesse sarà in grado di attrarre istantaneamente i fondi esteri. Su scala mondiale, i disavanzi pubblici elevati continuano a spingere verso l'alto i tassi di interesse reali, ma il prezzo da pagare a livello nazionale è ora più ridotto. Non può certamen21
te essere una coincidenza se a fronte della crescente integrazione del mercato internazionale dei capitali verificatasi negli ultimi due decenni, l'indebitamento del settore pubblico dei Paesi industrializzati ha registrato una rapida crescita, e i tassi di interesse reali sono aumentati. Nei tre decenni antecedenti al 1974, i Paesi OCSE hanno registrato una costante diminuzione dell'indebitamento netto del settore pubblico in proporzione al PIL. Dal 1974 in poi, questo dato è cresciuto dal 15% al 40% del PIL. Quando era in vigore il sistema di Bretton Woods, i tassi di cambio fissi e le restrizioni imposte sui movimenti dei capitali imponevano il finanziamento dei deficit delle partite correnti mediante le riserve ufficiali. Questo impediva ai governi il raggiungimento di livelli di deficit troppo elevati. Prima dell'esaurimento delle riserve, i governi erano costretti a irrigidire la politica fiscale per riportare il saldo delle partite correnti verso i! pareggio. L'accresciuta mobilità dei capitali ha rimosso questa limitazione, consentendo il mantenimento di deficit di bilancio e delle partite correnti per periodi più lunghi. Nell'ultimo decennio, in alcuni Paesi, i valori medi dei saldi delle partite correnti misurati come percentuale del PIL hanno registrato forti aumenti. Pertanto, malgrado le opinioni degli economisti sull'inflessibile disciplina del mercato mondiale dei capitali, è 22
stato proprio quel mercato che ha difatto incoraggiato i governi ad aumentare gli sperperi. Per esempio, se il governo americano avesse dovuto finanziare soltanto a livello interno il massiccio aumento del deficit di bilancio registrato all'inizio degli anni Ottanta, piuttosto che con i risparmiatori esteri, allora o i tassi di interesse avrebbero dovuto crescere in misura molto maggiore o, diversamente, l'offerta americana di moneta sarebbe esplosa, causando un aumento dell'inflazione. Invece, gli Stati Uniti si avvalsero della liberalizzazione del mercato mondiale dei capitali per il mantenimento di elevati disavanzi fiscali e commerciali che trasformarono il maggior creditore del mondo nel maggior debitore. Apparentemente, tutto questo sembra indebolire l'argomentazione secondo la quale i governi avrebbero perso parte del proprio potere a vantaggio dei mercati finanziari. Tuttavia, le recenti esperienze mostrano come i mercati, alla fine, riescano sempre a riprendere quello che è stato loro tolto. Dopo essere stati indulgenti per anni nei confronti dei governi, e dopo aver consentito loro di accumulare debiti senza ostacoli, i mercati stabiliscono che la misura è stata superata e si trasformano in severi istitutori, richiedendo compensi più adeguati per bilanciare il rischio di collassi o di spinte inflazionistiche. Nel passato, i governi fortemente in-
debitati hanno spesso avuto la tentazione di cavarsela con misure inflattive finalizzate ad erodere il valore reale del proprio indebitamento. Oggi questo trucco non è più utilizzabile, in quanto gli investitori spingerebbero verso l'alto i rendimenti obbligazionari, innalzando quindi il costo del servizio del debito, ai primi sospetti di spinte inflazionistiche. Quello che è certo è che l'integrazione mondiale dei mercati ha ridotto la capacità dei governi di aumentare le tasse, in particolare quelle sulle imprese. Le multinazionali dotate di strategie di investimento mondiali possono rapidamente trasferire la produzione verso Paesi caratterizzati da regimi fiscali più attraenti. Pertanto, se i governi vogliono ridurre i propri disavanzi, lo strumento principale dovrà essere quello della spesa pubblica. MA KEYNES È DAVVERO MORTO?
La domanda è se, malgrado tutto questo, i governi siano ancora in grado di utilizzare con successo la politica fiscale. Per esempio, sono essi in grado di introdurre uno stimolo fiscale in una recessione senza essere ostacolati dai "vigi!antes" dei mercati obbligazionari? L'impatto di tale stimolo sulla produzione dipenderà dal suo effetto sui rendimenti dei titoli. Questo, a sua volta, dipenderà dall'opinione della gente riguardo alla sostenibilità di tale politica fiscale.
Se l'indebitamento pubblico di un Paese è già elevato e crescente, allora anche un piccolo aumento dell'indebitamento potrebbe causare un marcato rialzo dei rendimenti delle obbligazioni, contrastando l'impatto dello stimolo originale sulla domanda. Con la crescita progressiva del debito pubblico, tutto questo può innescare un circolo vizioso: un aumento dei tassi di interesse comporta l'aumento del costo del servizio del debito, e quindi delle dimensioni del disavanzo, il quale a sua volta spinge i tassi di interesse ancora più in alto. Se questo può apparire allarmante, è bene ricordare che anche ai vecchi tempi la politica fiscale non aveva mai agito come una vera e propria bacchetta magica. La possibilità per i governi di utilizzare politiche fiscali discrezionali per l'ottimizzazione dei cicli economici è stata sempre ostacolata dalla pressoché totale impossibilità di indovinare i tempi e il volume delle misure distimolazione. In genere i governi finivano con l'agire troppo e troppo tardi, innescando così spinte inflazionistiche. Probabilmente, la cosa migliore da fare per i governi è quella di consentire l'azione dei cosiddetti "stabilizzatori automatici". Durante una recessione, questo significherebbe consentire l'aumento della spesa per i sussidi di disoccupazione e la caduta degli introiti fiscali legata alla caduta di redditi e consumi; il processo finirà poi con 23
l'invertirsi automaticamente durante la successiva fase di ripresa. Le simulazioni effettuate dall'OcsE indicano che gli stabilizzatori automatici (escludendo le variazioni dei tassi di interesse) possono ridurre le fluttuazioni cicliche in media di circa il 40%, e in alcuni casi anche di più. Tuttavia, in alcuni Paesi, il debito pubblico potrebbe risultare troppo elevato perché gli stabilizzatori automatici possano fare il miracolo. Se i mercati finanziari non hanno fiducia nella possibilità che un aumento di spesa pubblica possa venire controbilanciato durante la fase di ripresa, richiederanno tassi di interesse più elevati. L'esperienza degli anni Ottanta evidenzia comportamenti razionali: in molti Paesi, compresa la Gran Bretagna, l'aumento ciclico degli introiti fiscali durante l'espansione è stato in parte utilizzato per finanziare livelli di spesa più elevati o per ridurre la pressione fiscale, piuttosto che per ridurre il disavanzo. Al contrario, durante la recessione dei primi anni Novanta, governi come quello canadese e quello italiano, a fronte delle preoccupazioni espresse dal mercato per la crescita dell'indebitamento, furono costretti a controbilanciare parte dell'effetto degli stabilizzatori automatici con una stretta fiscale, a causa delle preoccupazioni espresse dal mercato sulla crescita dell'indebitamento. In quella situazione, una riduzione del disavanzo pubblico avrebbe potuto 24
avere effetti espansivi anziché contrattivi. Se i mercati finanziari hanno realmente fiducia nell'effettiva volontà di effettuare i tagli al bilancio, i detentori di obbligazioni richiederanno ai governi premi di rischio minori. La conseguente caduta dei tassi di interesse a lungo termine avrebbe poi l'effetto di stimolare l'attività economica. Il FMI accertò l'esistenza di questo effetto dopo i marcati tagli di bilancio effettuati dalla Danimarca e dall'Irlanda negli anni Ottanta. In precedenza, l'indebitamento del settore pubblico in entrambi i Paesi si era mantenuto su livelli insostenibili, spingendo verso l'alto i premi di rischio compresi nei tassi di interesse. Il recupero di questi Paesi dimostra come un credibile programma di tagli alle spese possa contribuire a trasformare un circolo vizioso in un circolo virtuoso. Quali livelli di indebitamento sono da ritenere eccessivi? Una risposta immediata non può essere fornita né dalla teoria economica né dalla storia economica. Tuttavia, in molte economie industriali i livelli appaiono già ora troppo elevati, in particolare se si tiene conto del peso che avranno le pensioni statali con il progressivo invecchiamento della popolazione. Se è vero che la politica fiscale è diventata ormai inutile come strumento per la gestione dell'economia, la responsabilità va addossata ai decenni di sconsiderato indebitamento pubblico, e non ai "vigilantes" dei mercati obbligazionari.
GIUDICE E GIURIA
Il dibattito per stabilire se i mercati finanziari abbiano effettivamente potere porta inevitabilmente a chiedersi se il potere dei mercati sia un fatto positivo o meno. Se il giudizio che i mercati danno delle economie è esatto, allora la risposta non può che essere positiva. Se il giudizio è sbagliato, la risposta è negativa. Alla ricerca di conferme per l'una o l'altra tesi, un recente studio dell'OCSE6 ha esaminato la correlazione tra tassi di interesse e numerosi indicatori economici. Per ciascuno dei maggiori Paesi OCSE, gli autori hanno tracciato l'andamento dei tassi di interesse a lungo termine in relazione al disavanzo pubblico, ai saldi delle partite correnti e all'inflazione. Il risultato (che l'OCsE ha documentato con un'analisi econometrica) mostra con chiarezza come i Paesi caratterizzati da grandi disavanzi pubblici, grandi deficit della bilancia dei pagamenti e trascorsi di inflazione elevata paghino oggi una penale sotto forma di tassi di interesse reali più elevati. In Italia, per esempio, dove lo scorso hanno si registrava un disavanzo strutturale pari al 7,4% del PIL, i tassi reali sono di cinque punti percentuali più elevati rispetto a quelli del Giappone, che ha un disavanzo pari a meno del 3% del PIL, e un'inflazione notevolmente più bassa. Non tutti i risultati sono così assoluti. Per esempio, il tasso di interesse reale
registrato in Australia è pressoché identico a quello dell'Italia, anche se il disavanzo pubblico è pari ad appena il 4% del PIL. Ma l'Australia ha registrato il maggior deficit della bilancia delle partite correnti di qualsiasi. altro Paese OCSE, mentre il saldo con l'estero italiano, nel periodo considerato, era vicino al pareggio. Nell'arco dell'ultimo anno, i mercati sembrano essersi fatti più severi, e ai più indebitati sono state richieste penali molto più salate. Nel 1994, i Paesi caratterizzati dai disavanzi pubblici più elevati e da trascorsi di inflazione elevata hanno registrato la crescita maggiore dei rendimenti delle obbligazioni. I rendimenti in Australia, Italia, Spagna e Svezia sono aumentati di oltre tre punti percentuali, a confronto dei dati del Giappone e della Svizzera, di poco superiori a un punto. Questi divari, da allora, si sono in qualche misura ridotti. Tuttavia, i mercati dovrebbero darsi da fare di più per mostrare il loro valore e, cosa non meno importante, come buoni cani da guardia, dovrebbero garantire tempestivi segnali di avvertimento; eppure i mercati dei capitali abbaiano spesso in ritardo. Gli economisti del FMI sostengono che "la disciplina imposta dai mercati dei capitali alla politica economica non è infallibile, e non viene applicata in maniera uniforme e coerente". Queste misure disciplinari vengono spesso imposte in maniera erratica, con onde di eccessi25
vo ottimismo seguite da eccessivo pessimismo. Tre chiari esempi di questo comportamento sono l'ascesa e il crollo del dollaro degli anni Ottanta, l'espansione e il crollo dei mercati obbligazionari mondiali del 1993 e 1994 e la recente crisi del peso in Messico. In tutti e tre gli esempi citati, le forti oscillazioni dei prezzi delle attività finanziarie erano correlate ai principali indicatori economici, ma i mercati reagirono troppo lentamente all'inizio e troppo bruscamente in seguito. L'iniziale ascesa del dollaro all'inizio degli anni Ottanta era un riflesso del cocktail della politica economica americana, il "Reagan slammer": una politica fiscale di manica particolarmente larga combinata con una politica monetaria rigida. Tuttavia, il rialzo finale del 20% registrato dal dollaro tra il mese di luglio del 1984 e il febbraio del 1985, malgrado il calo dei tassi di interesse, in rapporto agli altri Paesi, non appariva giustificato dagli indicatori economici fondamentali. Eppure, l'amministrazione americana interpretò l'apprezzamento del dollaro come un unanime voto di fiducia nei confronti delle proprie politiche, malgrado l'enorme aumento del disavanzo e del deficit commerciale incombessero minacciosamente sul futuro del Paese. Il tonfo registrato dal dollaro a partire dalla metà degli anni Ottanta (circa il 60% sia contro il marco che contro lo yen) rappresenta probabilmente il vero giudizio sulle politi26
che economiche americane di quel periodo. Anche in Messico, come "cani da guardia", i mercati finanziari si rivelarono un vero fallimento. Inizialmente furono troppo inclini a investire, consentendo al Messico di mantenere enormi deficit della bilancia dei pagamenti per diversi anni (8% del PIL nel 1994), e quindi improvvisamente decisero di ritirarsi. I massicci affiussi di capitali in Messico all'inizio degli anni Novanta furono in parte una risposta alle riforme economiche del Paese, e in parte il risultato della diversificazione di portafoglio effettuata dagli investitori dei Paesi ricchi nel periodo in cui i tassi di interesse americani si mantennero bassi. Con l'afflusso della valuta straniera, il rendimento delle obbligazioni quinquennali del governo messicano registrato alla fine del 1989 cadde da Otto punti percentuali al di spra dei corrispondenti titoli americani a meno di un punto e mezzo alla fine del 1993. I mercati internazionali fecero bene a premiare le riforme messicane ma, sostiene Andrew Crockett, il direttore generale della BRI, "essi non riuscirono a rendersi conto del momento in cui sarebbe stato necessario sostituire la carota con il bastone." Infatti, una recente relazione del FMI7 sostiene che non furono gli "speculatori stranieri" a comandare la carica sul Messico nel 1994, ma i cittadini messicani. I dati mostrano come i messicani, forse me -
glio informati, iniziarono ad abbandonare il peso molto prima degli investitori stranieri. Ancora alla fine del 1994, molte società di investimenti di Wall Street erano ancora molto interessate al Messico. Fu solo nel mese di febbraio del 1995 che gli stranieri iniziarono a vendere alla chetichella i titoli messicani. La fuga dal peso era ampiamente giustificata dalle turbolenze politiche, dall'aggravarsi del saldo negativo della bilancia delle partite correnti, dalla crescita pre-elettorale della spesa pubblica e da una politica monetaria espansiva. Ma questi fattori, da soli, non potevano giustificare il volume del deflusso dei capitali o del deprezzamento del peso; molto semplicemente, i mercati persero la testa. IL MISTERO DELL'INSTABILITÀ DEL MERCATO OBBLIGAZIONARIO
Ancora eccitati dalla frenesia del 1993, nel 1994 i mercati obbligazionari internazionali registrarono un crollo. Il primo trimestre dello scorso anno registrò uno dei più elevati aumenti bimestrali dei rendimenti delle obbligazioni dal 1945, con vendite frenetiche in molti Paesi, che prescindevano dallo stadio dei relativi cicli economici. I rendimenti delle obbligazioni decennali americane scesero di un punto e mezzo per cento tra la fine del 1992 e il livello minimo toccato nell'ottobre del 1993, per poi salire di
due punti nel corso del 1994. I rendimenti dei titoli di Stato britannici registrarono una caduta di oltre due punti nel 1993, per poi rimbalzare di tre punti lo scorso anno. In parte, l'aumento dei rendimenti (o la caduta dei prezzi delle obbligazioni) fu il riflesso di livelli di crescita superiori a quelli attesi, e quindi del rischio di un'inflazione accelerata. Ma il collasso del mercato obbligazionario fu anche la reazione all'eccesso di crescita del 1993, quando le banche, i fondi bilanciati e altri investitori istituzionali raggiunsero posizioni troppo arrischiate sulla base di aspettative eccessivamente ottimistiche in materia di inflazione e di disavanzo pubblico. Anche il FMI sostiene che la caduta dei prezzi delle obbligazioni sia stata aggravata da fattori tecnici. Le banche che seguono politiche più aggressive sempre più spesso valutano i titoli in proprio possesso ai prezzi di mercato, e fissano precisi limiti alle perdite nell'ambito dei propri sistemi di gestione del rischio, quando le perdite superano questi limiti, le posizioni vengono automaticamente liquidate, e questo, frequentemente, amplifica le oscillazioni dei prezzi. Inoltre, il rapporto di indebitamento che sostiene le istituzioni nel raggiungimento di grandi posizioni si rivela un fattore negativo quando i prezzi delle obbligazioni iniziano a scendere, moltiplicando le perdite e sottolineando ulteriormente l'urgenza delle vendite. 27
L'America aveva sicuramente bisogno di tassi di interesse più elevati, ma l'aumento dei rendimenti delle obbligazioni ha causato anche un irrigidimento della politica monetaria in Giappone e nell'Europa continentale, e queste economie non avevano davvero bisogno di un freno. Come mai la crescita dei rendimenti fu così diffusa e indiscriminata? La spiegazione sta proprio in quei mercati sempre più integrati. Molti operatori finanziari si muovono simultaneamente su numerosi mercati, e in alcuni casi i sistemi di gestione del rischio impongono loro di coprire le perdite registrate su un mercato con vendite su altri mercati. Tuttavia, lo scorso anno il mercato obbligazionario ha mostrato un comportamento leggermente diverso: i rendimenti sono cresciuti maggiormente nei Paesi caratterizzati da elevata inflazione e pesanti disavanzi pubblici. In maniere diverse, questi tre episodi sono tutti esempi del lato meno accettabile della liberalizzazione finanziaria internazionale. Le regole del gioco più elastiche consentono ai governi di mantenere maggiori deficit pubblici e della bilance commerciali, fino a quando, con un certo ritardo, il mercato mondiale dei capitali non irrompe sulla scena per ristabilire l'ordine. In uno studio condotto per la banca di investimenti Lehman Brothers 8 Keld Holm sottolinea come le economie abbiano la possibilità di seguire a lungo strade insostenibili prima di su,
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bire marcate correzioni nei tassi di interesse e di cambio. Questo, sostiene Holm, solleva dei dubbi sul fatto che i nuovi poteri punitivi del mercato siano all'altezza delle capacità del mercato stesso come "cane da guardia". Ma qual è la differenza tra il modo di operare dei mercati e quello dei governi con i loro strumenti tradizionali? I mercati finanziari sembrano avere alcuni vantaggi. In primo luogo, essi hanno forti incentivi a fare bene perché scommettono con i propri soldi, o con i soldi dei propri investitori. In secondo luogo, a differenza degli economisti e dei responsabili delle politiche, sono pronti ad ammettere i propri errori e a reagire rapidamente per correggerli. Molti gravissimi errori economici sono stati causati dalle scelte dei governi piuttosto che dai mercati finanziari, e malgrado l'applicazione della disciplina sia stata erratica, gran parte dei cambiamenti di rotta imposti alla politica economica dal mercato internazionale dei capitali si sono rivelati opportuni. IL DOLLARO SI FERMERÀ QUI?
Uno dei problemi dei mercati dei capitali, tuttavia, è rappresentato dal fatto che essi impongono la propria disciplina più ai giganti che ai nani. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono stati tra i principali "trasgressori" della rettitudine economica. Anni di deficit commerciale hanno trasformato gli
Stati Uniti dal maggior creditore al maggior debitore nei confronti dell'estero. Una simile posizione non è compatibile con il ruolo del dollaro come principale valuta di riserva. Il dollaro, infatti, rappresenta ancora il 60% delle riserve mondiali in valuta estera, e all'incirca il 50% del totale delle attività finanziarie in possesso di privati, malgrado gli Stati Uniti generino solo circa il 20% della produzione totale e il 14% del commercio totale. Eppure il dollaro non ha più le caratteristiche per svolgere il tradizionale ruolo di valuta di riserva internazionale e di affidabile riserva di valore. Il governo degli Stati Uniti, ai tempi in cui il Paese era un creditore netto a livello internazionale, era più interessato a garantire bassi livelli di inflazione e stabilità finanziaria. Ma nella attuale posizione di forte indebitamento, potrebbe avere la tentazione di consentire all'inflazione di erodere gradualmente il proprio indebitamento e di favorire l'indebolimento della valuta per ridurre il proprio deficit commerciale. La cattiva salute del dollaro ha segnalato questa incoerenza ai responsabili della politica economica americana da anni. Tuttavia, fino a poco tempo fa, i governi americani hanno dato l'impressione di non interessarsi al valore del dollaro. Essendo la più grande economia del mondo, caratterizzata da un peso relativamente ridotto del commercio estero, gli Stati Uniti sono
meno vulnerabili alle oscillazioni dei movimenti di capitali e dei tassi di cambio rispetto ai Paesi più piccoli, e risentono meno del dominio del mercato mondiale dei capitali. Essendo la principale valuta di riserva, il dollaro può anche contare sull'appoggio delle banche centrali estere, interessate a prevenire eventuali crolli repentini. Questo potrebbe spiegare come mai, considerate le dimensioni del disavanzo con l'estero degli Stati Uniti, i rendimenti dei titoli di Stato americani siano relativamente bassi a confronto con quelli di altri Paesi. Nel bene e nel male, gli Stati Uniti hanno un controllo maggiore del proprio destino economico e sono meno sensibili ai segnali del mercato riferiti a squilibri nelle politiche adottate rispetto ai Paesi più piccoli e maggiormente legati all'evoluzione dei fattori esterni. Tuttavia, il cattivo stato di salute del dollaro contiene di sicuro un messaggio importante: gli Stati Uniti dovranno ridurre il proprio elevato deficit commerciale, riducendo il disavanzo pubblico o incentivando i risparmi privati. Diversamente, il recente rialzo del dollaro sarà destinato a rivelarsi solo temporaneo, e questa valuta andrà incontro allo stesso destino che nel passato fu della sterlina, del fiorino e del ducato. È pressoché inevitabile che gli investitori diversifichino i propri portafogli rivolgendosi a valute diverse dal dollaro, e il mondo si sposterà ancor più da 29
un'unica valuta dominante a un sistema a più valute nel quale lo yen e il marco tedesco (e forse anche un'eventuale moneta unica europea) giocheranno ruoli più importanti. Tuttavia, molto dipenderà dalle modalità di questo cambiamento. Un passaggio graduale non creerebbe grandi problemi, ma un movimento troppo brusco potrebbe sbilanciare pericolosamente il dollaro, e scuotere l'intero sistema finanziario. I! mondo ha già vissuto questa esperienza. Una gestione errata del passaggio dal predominio valutano della sterlina a quello del dollaro, all'inizio di questo secolo, causò turbolenze finanziarie che costrinsero i governi a mettere le camicie di forza ai propri mercati finanziari. Il mercato mondiale dei capitali inizia solo oggi a riprendersi da queste misure. DIETRO LE LINEE NEMICHE
I tassi di cambio e i prezzi delle obbligazioni sono stabiliti da eserciti di agenti poco più che ventenni immersi in una selva di braccia che si agitano, schermi luminosi e telefoni che lampeggiano. È evidente, dicono alcuni, che i mercati finanziari sembrino spesso fuori dalla realtà. I movimenti dei mercati finanziari dovrebbero riflettere gli indicatori macroeconomici fondamentali, ma in questa grande sala da gioco, sostengono i critici, i mercati sembrano spesso impazziti, esposti 30
come sono a tendenze e mode del momento che generano un'elevatissima volatilità e iperreazioni speculative. In realtà, gran parte delle eccessive preoccupazioni sul crescente potere dei mercati finanziari è basata sulla diffusa sensazione che, grazie ai nuovi sofisticati strumenti finanziari e agli elevati volumi di scambi, i tassi di cambio e i rendimenti obbligazionari stiano diventando sempre più volatili. Questa volatilità, sostengono in molti, danneggia la crescita economica. Ma questa diffusa sensazione è giustificata? A confronto con gli anni Sessanta, quando il sistema di Bretton Woods manteneva i tassi di cambio stabili all'interno di bande di oscillazione ristrette, i tassi di cambio e i rendimenti obbligazionari sono evidentemente più mutevoli. Negli ultimi cinque anni, la volatilità media mensile dei tassi di cambio, ponderata al volume del commercio estero, delle sette maggiori economie industrializzate è stata superiore di circa quattro volte rispetto agli anni Sessanta. Ma anche la mutevolezza degli indicatori macroeconomici fondamentali, come l'inflazione e i saldi commerciali negativi, è aumentata. L'incremento della volatilità finanziania è in parte, una conseguenza di questi fattori. Un'analisi dell'ultimo quarto di secolo potrebbe rivelarsi più istruttiva. In base a gran parte degli studi condotti, la volatilità dei tassi di cambio, dei rendimenti obbligazionari e delle quota-
zioni azionarie non ha registrato alcuna tendenza all'aumento durante questo periodo. Uno studio OCSE9 mostra come per i sette maggiori Paesi industrializzati nel ibro complesso, la volatilità su base mensile dei rendimenti obbligazionari sia aumentata, durante gli anni Settanta, abbia raggiunto un picco all'inizio degli anni Ottanta e sia in calo da allora; la volatilità dei tassi di cambio è in leggero calo a partire dagli anni Ottanta; e la volatilità dei mercati azionari si è mantenuta, negli anni Novanta, sui livelli più bassi dagli anni Sessanta ad oggi. I dati, quindi, non confermano la convinzione secondo la quale la liberalizzazione finanziaria internazionale abbia reso più turbolenti i mercati. Il periodo di massima volatilità registrato dal mercato obbligazionario americano negli ultimi 130 anni non corrisponde agli anni Novanta, ma all'inizio degli anni Ottanta, quando le transazioni internazionali in obbligazioni erano di volume irrilevante. Nel 1980-'85, i rendimenti dei titoli di Stato americani avevano, in media, una volatilità doppia rispetto a quella registrata fino ad oggi, negli anni Novanta. Le turbolenze dei primi anni Ottanta sono da imputare principalmente a errori di politica economica che causarono un brusco balzo delle aspettative inflazionistiche e dei tassi di interesse. Un'ulteriore analisi della Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI), basata su misure diverse della volatilità,
conferma che le variazioni mensili dei rendimenti obbligazionari e dei tassi di cambio registrate negli ultimi anni non sono state più marcate rispetto a quelle dei decenni precedenti. È vero che lo scorso anno la volatilità dei rendimenti obbligazionari è aumentata, ma si è comunque mantenuta ben al di sotto dei livelli raggiunti durante gli anni Ottanta. I dati della BRI indicano anche che, a confronto con gli anni Ottanta, gli anni recenti hanno rappresentato un periodo di relativa stabilità dei tassi di cambio. Tuttavia, le variazioni giornaliere offrono un quadro diverso. A partire dalla fine degli anni Settanta, le oscillazioni giornaliere del tasso di cambio del dollaro contro marco tedesco e yen sono risultate crescenti. Secondo la Bru, le differenze tra la volatilità mensile e gionaliera farebbero pensare che i prezzi oggi reagiscono più rapidamente alle informazioni. Le variazioni dei prezzi che prima richiedevano settimane o mesi, ora avvengono nel giro di poche ore. Se questo è vero, vuoi dire che i mercati sono diventati più efficienti, e non meno. A parte questo effetto di accelerazione, non c'è una ragibne intrinseca per cui la iiberalizzazione e l'innovazione finanziaria debbano condurre a un aumento della volatilità. Caso mai, l'aumento della liquidità conseguente a queste innovazioni (con l'ingresso sul mercato di nuovi operatori) dovrebbe contribuire a ridurre la vQlatilità. 31
Malgrado ciò, sono in molti a temere che l'espansione degli strumenti derivati possa condurre a un aumento della volatilità dei prezzi delle attività finanziarie, in quanto questi rappresentano per il mercato strumenti speculativi più potenti. Il crollo della Barings, e le abbondantemente pubblicizzate perdite su strumenti derivati sofferte da Metallgessellschaft e Orange County hanno portato all'attenzione di tutti i potenziali rischi legati all'uso di questi nuovi strumenti. Tuttavia, lo studio condotto dalla Bi sugli strumenti derivati indica che in circostanze normali gli strumenti derivati non aumentano la volatilità dei prezzi delle attività finanziarie, e potrebbero addirittura ridurla. Lo sviluppo degli strumenti derivati, sostiene la Biu, è una conseguenza piuttosto che una causa dell'accresciuta volatilità dei tassi di cambio e dei tassi di interesse registrata a partire dal collasso del sistema di Bretton Woods. Gli strumenti derivati, in maniere diverse, contribuiscono ad aumentare l'efficienza dei mercati finanziari. In primo luogo, consentono la ripartizione di vari tipi di rischio, consentendo alle aziende di essere più selettive riguardo ai rischi a cui si espongono. Se utilizzati adeguatamente, gli strumenti derivati ridistribuiscono i rischi, rendendo il sistema finanziario più elastico. In secondo luogo, gli strumenti derivati riducono il costo delle transazioni finanziarie, essendo in genere 32
molto meno costosi da utilizzare rispettò ai mercati a pronti. In terzo luogo, questi strumenti aumentano la liquidità presente sui mercati finanziari espandendo le possibilità di speculazione, copertura e investimento e, quarto aspetto, semplificano l'arbitraggio tra mercati diversi. In sostanza, gli strumenti derivati dovrebbero contribuire a migliorare il funzionamento dei mercati. Aumentando la liquidità e la capacità di sfruttare le opportunità di arbitraggio, gli strumenti derivati dovrebbero contribuire sia all'allineamento dei prezzi con gli indicatori macroeconomici fondamentali dell'economia che a stabilizzare i mercati. Tuttavia, in periodi di tensione, avverte la Biu, le strategie di copertura (hedginj possono amplificare le oscillazioni dei prezzi. Le crisi dello SME nel periodo 1992-93 e il crollo del mercato obbligazionario dello scorso anno rappresentano due esempi concreti a sostegno di questa tesi. Per esempio, la cosiddetta "copertura dinamica" (dynamic hedging) delle esposizioni in opzioni costringe le istituzioni all'acquisto delle attività finanziarie sottostanti sui mercati in crescita, e la vendita sui mercati dove si registra un ribasso, con la conseguente accentuazione delle oscillazioni dei prezzi. I depositi minimi a garanzia e le richieste di garanzie collaterali su posizioni in derivati, durante fasi caratterizzate da accentuata volatilità e
prezzi decrescenti, possono sortire lo stesso effetto. Se durante i periodi di tensione gli strumenti derivati amplificano i movimenti dei prezzi, la lezione che i responsabili delle politiche devono trarne è ovvia: dovranno garantire che le proprie politiche non siano causa di tensioni e di incertezza. Il rischio di oscillazioni estreme dei prezzi aumenta l'importanza delle politiche orientate alla disciplina fiscale e alla stabilità dei prezzi. La volatilità finanziaria tende ad essere maggiore nei Paesi caratterizzati da inflazione elevata e da grandi disavanzi pubblici. Tra le principali economie industrializzate, l'Itaha, durante la prima metà degli anni Novanta, ha registrato la massima volatilità nei rendimenti dei titoli; la Germania e la Svizzera hanno registrato invece i livelli più bassi. UNA STRADA PIENA DI BUCHE
Molte persone sono preoccupate per le oscillazioni dei tassi di cambio, perché ritengono che queste possano arrecare danni ai commerci e agli investimenti. Ma gli economisti non sono riusciti a individuare un rapporto preciso tra la variabilità dei tassi di cambio nel breve periodo e il volume dei commerci. Per esempio, uno studio di Joseph Gagnon'°, un economista del Dipartimento de! Tesoro degli Stati Uniti, ha evidenziato come il passaggio dal sistema a tassi di cambio fissi
di Bretton Woods ai tassi di cambio fluttuanti potrebbe di fatto aver ridotto il volume del commercio internazionale di appena l'l%. Inoltre, i dati dimostrano che l'eventuale impatto della volatilità dei tassi di cambio sui commerci, con il passare del tempo, si è gradualmente ridotto, grazie alla proliferazione di strumenti finanziari di copertura che le aziende possono utilizzare per proteggersi. Un altro fattore che riduce l'impatto della volatilità dei tassi di cambio sui commerci, suggerisce Morris Goldstein, un economista dell'Institute for International Economics di Washington, DC, è l'espansione delle imprese multinazionali. Queste imprese possono proteggersi da movimenti nei tassi di cambio diversificando la localizzazione dei propri impianti produttivi e mediante il bilanciamento interno dei flussi di valuta. Nelle economie industrializzate, gli scambi internazionali interni alle aziende rappresentano oggi oltre un terzo del commercio totale. In teoria, la volatilità dei tassi di cambio dovrebbe anche ridurre gli investimenti, perché di norma le aziende cercheranno un tasso di remunerazione più elevato sui progetti di investimento per compensare le incertezze legate alla redditività delle proprie esportazioni. Tuttavia, negli ultimi vent'anni, il tasso medio degli investimenti delle imprese nelle maggiori economie industrializzate, misurato 33
come percentuale del PIL, è rimasto pressappoco sugli stessi livelli del periodo 1950-73, quando i tassi di cambio erano fissi. Uno studio curato da Linda Goldberg", economista presso l'Università di Princeton, ha mostrato come negli Stati Uniti la volatilità dei tassi di cambio abbia effettivamente disincentivato gli investimenti negli anni Ottanta, ma l'effetto è stato molto ridotto, e i risultati complessivi dello studio sono stati incerti. Pertanto, non vi sono prove inconfutabili del fatto che la variabilità degli interessi nel breve termine possa aver significativamente danneggiato i risultati economici. Inoltre, gli eventuali costi della volatilità dovrebbero essere messi a confronto con i benefici garantiti dalla liberalizzazione. Se i controlli sui capitali fossero rimasti in vigore, e i mercati finanziari interni fossero rimasti strettamente regolamentati, la crescita del commercio mondiale e degli investimenti esteri diretti sarebbe stata certamente molto minore. GLI SPECULATORI SONO DAVVERO IRRAZIONALI?
Comunque, anche se non esiste alcuna ragione per preoccuparsi delle oscillazioni di breve periodo, persistenti disallineamenti dei tassi di cambio possono causare seri danni all'economia. La copertura per periodi più lunghi è difficile perché richiederebbe previsioni di costi e ricavi molto affi34
dabili, e diventerebbe troppo costosa. I disallineamenti valutari possono indurre le imprese a investire troppo quando la valuta è a buon mercato, o a lasciare troppa capacità produttiva inutilizzata quando la valuta è molto apprezzata. Eccessive rivalutazioni dei tassi di cambio, inoltre, possono alimentare le tendenze protezionistiche. Durante gli ultimi due decenni le valute hanno registrato continue oscillazioni. All'inizio degli anni Ottanta, il dollaro fece un balzo del 100% rispetto alle altre principali valute, per poi ridiscendere al di sotto del punto di partenza della sua scalata. Nel lungo termine, gli indicatori macroeconomici fondamentali, come l'inflazione e il deficit della bilancia commerciale, sono in grado di spiegare a sufficienza i movimenti dei tassi di cambio. Guardando agli ultimi due decenni, la correlazione tra le oscillazioni dei tassi di cambio e i differenziali di inflazione è stata piuttosto diretta. I Paesi caratterizzati dai tassi di inflazione più elevati hanno registrato i maggiori deprezzamenti delle rispettive valute. Il problema è dato dal fatto che, nel breve e medio periodo, le oscillazioni dei tassi di cambio mostrano una palese indifferenza nei confronti degli indicatori macroeconomici fondamentali. È opinione di molti che questo dimostri che i tassi di cambio sono legati a fattori psicologici e a bolle speculative. Nel diciassettesimo secolo, gli specula-
tori erano considerati persone dedite allo studio dell'occulto. La speculazione è ancora oggi oggetto di colorite e spesso denigratorie definizioni: orge finanziarie, psicologia delle masse. Eppure la speculazione ha spesso basi completamente razionali, e può sortire benefici effetti di stabilizzazione. Gli speculatori cercano opportunità di profitto, e così facendo ottengono l'effetto di livellare i prezzi tra mercati diversi; gli speculatori offrono liquidità, contribuendo a bilanciare il confronto tra compratori e venditori. In assenza di speculazione, i mercati risulterebbero altamente instabili. Negli anni Cinquanta, Milton Friedman, un economista vincitore del premio Nobel, sostenne che l'effetto della speculazione è quasi sempre stabilizzante. Per fare soldi, gli investitori devono comprare quando il prezzo è basso e vendere quando il prezzo è alto. Gli speculatori ad azione destabilizzante, e cioè quelli che comprano a prezzi alti e vendono a prezzi bassi, perderanno denaro, e quindi usciranno dal mercato. Assolutamente vero; tuttavia, durante una bolla speculativa, sarà redditizio acquistare anche quando il prezzo è elevato, purché sia ancora in crescita, e questo fino a quando la bolla non esploderà. Gli investitori che non seguono la tendenza generale perderanno denaro. Anche le iperreazioni speculative sui tassi di cambio non sono necessariamente un segnale di inefficienza dei
mercati o del comportamento irrazionale degli speculatori. Negli anni Settanta, Rudiger Dornbusch, un economista del MIT, in un lavoro destinato poi a diventare un classico, spiegò come le iperreazioni speculative possano essere perfettamente razionali. Queste situazioni si verificano perché i prezzi sui mercati finanziari hanno aggiustamenti istantanei, mentre quelli del mercato dei prodotti sono meno fluidi. Considerata la lentezza del livello generale dei prezzi nell'adeguarsi a improvvise scosse, i tassi di cambio devono superare il proprio punto di equilibrio di lungo termine, per mantenere uguale la remunerazione attesa sulle valute. Una tesi condivisibile, che non è però in grado di giustificare le marcate oscillazioni valutarie registrate negli ultimi anni. Un'altra diffusa preoccupazione è che la speculazione sia mossa esclusivamente dall'obiettivo di guadagni nel breve termine. Gli orizzonti dei giovani speculatori dalle bretelle rosse sono certamente limitati al breve periodo, ma la maggior parte dei responsabili della gestione dei fondi esamina con accuratezza le politiche economiche e i rendimenti. I fondi pensionistici, in particolare, sono tenuti a ragionare in ottica di periodo molto più lungo rispetto a quella dei governi dei rispettivi Paesi, che di norma non guardano al di là della data delle prossime elezioni. I fondi bilanciati, che sono stati indi35
cati come i responsabili di gran parte delle turbolenze finanziarie degli ultimi anni, sono meno regolamentati rispetto ad altre istituzioni finanziarie, e questo consente loro di agire con maggiore flessibilità. Sostenuti da ricchi investitori privati, questi fondi sono anche in grado di sopportare meglio il rischio, e possono esporsi a elevati livelli di indebitamento, a volte fino 20 volte le dimensioni del proprio capitale. Alcuni sostengono che i fondi bilanciati aumentino l'instabilità dei mercati; e in certi casi questo è vero. Eppure il fondo Quantum di George Soros e altri fondi analoghi dedicano molte risorse allo studio dei principali indicatori economici e politici, cercando quelle situazioni di ccsquilibrio che offrono maggiori opportunità di profitto. Un attacco speculativo potrebbe essere semplicemente una risposta razionale a politiche economiche percepite come irrazionali, per esempio, un tasso di cambio fisso che risulti in conflitto con gli obiettivi economici nazionali. Se i tassi di cambio vengono allineati rapidamente alle tendenze degli indicatori macroeconomici fondamentali, questo sarà con tutta probabilità un fatto positivo. I responsabili delle politiche amano addossare all'irrazionalità dei mercati finanziari la responsabilità delle inopportune oscillazioni valutarie. Ma spesso i mercati reagiscono per segnalare politiche non equilibrate. Gli eco36
nomisti tendono ad etichettare come "disallineamenti" tutte le situazioni che non riescono a spiegare. Tuttavia, considerato che gli economisti non riescono a mettersi d'accordo nemmeno sul significato di "equilibrio" dei tassi di cambio, quello del disalhineamento sembra essere un concetto piuttosto nebuloso. I
CAPRI ESPIATORI NON MANCANO
Quando le monete erano guidate principalmente dai flussi commerciali, l'equilibrio poteva essere definito in termini di parità di potere di acquisto, il tasso di cambio che equipara i prezzi dei beni scambiati in Paesi diversi. Ma oggi che gli scambi sui mercati valutari hanno un volume 60 volte maggiore rispetto a quello dei flussi commerciali, la parità del potere di acquisto può rivelarsi utile solo a lunghissimo termine. Oggi sono i movimenti dei capitali a determinare il saldo delle partite correnti, piuttosto che il contrario. E questo non per sostenere che qualsiasi oscillazione dei tassi di cambio e dei rendimenti obbligazionari debba avere necessariamente un significato profondo. I mercati registrano anche numerosi fallimenti. Gli investitori si muovono spesso come delle vere e proprie mandrie. Keynes utilizzò un'analogia con i concorsi di bellezza dei giornali degli anni Trenta; per vincere, i lettori non dovevano scegliere la ra-
gazza che preferivano, ma tentare di indovinare quale ragazza sarebbe stata preferita dalla maggior parte dei lettori. Questo processo può facilmente trasformarsi in un fenomeno di massa. I movimenti iniziali dei mercati potranno anche rappresentare delle reazioni agli indicatori macroeconomici fondamentali, ma in seguito, i prezzi in crescita potrebbero incentivare la domanda di attività finanziarie, perché gli investitori prevederanno un'ulteriore crescita. Inoltre, i mercati tendono ad eccessi di reazione basati sulle notizie dell'ultim'ora piuttosto che su conclusioni più ragionate. Ma gran parte delle accuse mosse ai mercati finanziari appaiono poco convincenti. Si può affermare che i governi stessi sono responsabili di gran parte dell'instabilità dei mercati. Malcolm Edey e Ketil Hviding, due economisti dell'OCsE, sono giunti alla conclusione che gran parte dell'instabilità finanziaria degli ultimi decenni possa essere attribuita a una errata politica macroeconomica, a distorsioni microeconomiche nel settore finanziario (come nel caso degli incentivi fiscali concessi a creditori favoriti a livello politico) e all'inadeguata supervisione del sistema finanziario da parte del governo. Per esempio, la bolla speculativa del dollaro che si è verificata a metà degli anni Ottanta fu innescata dagli squilibri delle politiche fiscali e monetarie. Il boom dei mercati immobiliari e
mobiliari giapponesi registrato alla fine degli anni Ottanta fu la conseguenza di gravi distorsioni sul mercato dei terreni combinate con una politica monetaria espansiva. Inoltre, le "crisi" valutarie vengono spesso innescate da governi che tentano di difendere parità che non sono più giustificate dagli indicatori macroeconomici fondamentali, come è avvenuto recentemente in Messico. La morale è che le grandi oscillazioni dei mercati finanziari sono spesso gli effetti, e non le cause, dei problemi economici.
UN INTERVENTO NON PROPRIO PROVVIDENZIALE Tra gli economisti, anche i più ferventi sostenitori del libero mercato sono costretti ad ammettere che i mercati valutari compiono spesso degli errori. Un mondo ideale dovrebbe essere caratterizzato da una minore volatilità e da un minor numero di disallineamenti. I governi possono fare qualcosa per migliorare il funzionamento dei mercati? Alcuni economisti ritengono di sì. Sul menu dei governi vi sono tre scelte principali: interventi sui mercati valutari, coordinamento delle politiche a livello internazionale e controlli sui capitali. La prima scelta del menu si basa sulla convinzione che i governi dovrebbero intervenire maggiormente sui• mercati valutari per ridurre la volatilità e pre37
venire eventuali disallineamenti. Lo scorso anno, la Commissione di Bretton Woods, presieduta da Paul Voicker, cx presidente dalla Federal Reserve, ha consigliato al FMI di istituire un fondo di intervento per aiutare i governi a sconfiggere gli attacchi speculativi. Gli interventi valutari possono essere di due tipi. Il primo è il tipo "non sterilizzato", ciò significa che l'intervento può influire sul volume dell'offerta di moneta. Tuttavia, considerato che questo comporterebbe una variazione dei tassi di interesse, si tratta di misure che non rafforzano il controllo monetario dei governi. Il secondo tipo di misure è "sterilizzato", il che vuoi dire che l'effetto delle variazioni dell'offerta di moneta viene controbilanciato mediante un'operazione di mercato aperto condotta dalla banca centrale. Per sostenere la propria moneta, per esempio, la banca centrale potrà vendere valuta straniera contro valuta nazionale, "sterilizzando" l'effetto di contrazione sulla base monetaria mediante un acquisto proporzionato di titoli di stato. Questa misura non ha un impatto sull'offerta di moneta, pertanto non dovrebbero esserci effetti permanenti sul tasso di cambio. Tuttavia, alcuni economisti sostengono che, in alcune circostanze, si tratti di un'arma molto potente. La gran parte degli interventi delle banche centrali ricade nella categoria degli interventi sterilizzati. Nel passato, gli economisti ritenevano che a meno che i governi fossero preparati a sostenere le misure di intervento con cambiamenti di indirizzo delle politiche monetarie, si sarebbe trattato di una perdita di tempo; tuttavia, negli ultimi anni, alcuni tra di loro si sono mostrati più propensi a queste misure. L'intervento congiunto delle grandi banche centrali, nell'agosto scorso, sembra aver contribuito al rialzo del dollaro, almeno per un periodo.
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Uno studio 12 pubblicato nel 1993 da due economisti americani, Jeffrey Frankel della University of California di Berkeley e Kathryn Dominguez della Harvard University, è giunto alla conclusione che l'intervento "sterilizzato" è più potente di quanto venga considerato convenzionalmente. Lo studio ha mostrato come in dieci casi su undici di intervento sul mercato dei cambi condotto dalle grandi banche centrali, tra il 1985 e il 1991, il tasso di cambio del dollaro contro il marco tedesco si sia spostato nella direzione desiderata durante il mese successivo all'intervento. Gli autori hanno trovato che l'intervento risulta della massima efficacia quando viene annunciato pubblicamente e coordinato a livello internazionale. Ma i dati appaiono controversi. L'intervento concertato è di norma considerato come l'ultima spiaggia, quando le valute hanno raggiunto livelli estremi, e quindi proprio nei momenti in cui le probabilità di un rimbalzo sono più elevate.
I sostenitori degli interventi valutari ritengono che la loro efficacia sia da mettere in relazione con i segnali ufficiali sui tassi di cambio e sulle future intenzioni di politica economica che vengono inviati al mercato, e che spingono gli speculatori a modificare le proprie aspettative. Queste caratteristiche fanno di questi interventi degli strumenti potenzialmente utili per ripianare i disordini che si registrano su1 mercato, e per far sgonfiare le bolle speculative. Tuttavià, se gli indicatori macroeconomici fondamentali sono falsati, non c'é intervento che tenga. Per usare le parole di Frankel, "Il mercato valutano è un gorilla di mezza tonnellata, e le misure di intervento sono un guinzaglio sottile. Quando il gorilla è fermamente deciso a prendere una direzione specifica, .è inutile tentare di fermarlo. A volte, però, il gorilla vuole essere guidato.
Le misure di intervento non possono tenere sotto controllo a lungo il mercato, a meno che non vengano sostenute da cambiamenti di indirizzo delle politiche monetarie. Inoltre, se le misure di intervento agiscono in base ai segnali inviati, perché inviare questo genere di segnali? Di sicuro il messaggio più forte che una banca possa inviare a sostegno di una valuta è quello dell'innalzamento dei tassi di interesse. Se i mercati interpretano gli interventi come un modo per rinviare un aumento dei tassi di interesse, è più probabile che l'effetto sia quello di indebolire la moneta piuttosto che di rafforzarla. Attualmente, le banche centrali hanno poche possibilità di riuscire a contenere la marea dei flussi internazionali di capitali. All'inizio degli anni Settanta, le riserve delle banche centrali nelle maggiori economie industrializzate erano all'incirca Otto volte superiori rispetto ai volumi medi di scambi giornalieri in valuta estera. Le stime più recenti indicano che il volume degli scambi in valuta estera è oggi superiore al doppio delle riserve in valuta estera. La seconda possibilità per la stabilizzazione delle valute è un vecchia conoscenza: il coordinamento internazionale delle politiche. Questo strumento era particolarmente in voga durante la seconda metà degli anni Ottanta » un periodo durante il quale gli accordi per la stabilizzaiione del dollaro fùrono innumerevoli. L'accordo del Plaza del 1985 richiedeva ai Paesi G7 di coordinare le proprie
politiche monetarie e di intervenire per far scendere il dollaro. Con l'accordo del Louvre (1987), i governi si impegnarono a mantenere il dollaro nell'ambito di una determinata banda. Ma il dollaro continuò la sua discesa. Le zone-obiettivo ("target zones") furono proposte per la prima volta, all'inizio degli anni Ottanta, da John Williamson, un economista dell'Institute for International Economics. Stando a questo programma, i Paesi si sarebbero impegnati a utilizzare le politiche monetarie e fiscali, e gli interventi, per mantenere i propri tassi di cambio all'interno di bande di ampiezza pari a +1- 10% rispetto al tasso di cambio reale di equilibrio, che sarebbe stato aggiornato in base ai differenziali di inflazione. L'idea è quella di scoraggiare la speculazione, che potrebbe causare pericolosi disallineamenti, mantenendo comunque alcuni dei benefici offerti dai tassi fluttuanti.
GLI INCONVENIENTI DELLA PASSIONE AMOROSA
Tuttavia, come sostiene Benjamin Cohen dell'Università di California, a Santa Barbara, "la cooperazione monetaria internazionale, come la passione amorosa, è una cosa positiva, ma difficile da mantenere in vita a lungo". L'esperienza mostra come la coordinazione tra le politiche delle tre maggiori economie, Stati Uniti, Giappone e Germania, sia politicaipente impraticabile, in quanto i governi sono poco inclini a subordinare le politiche economiche nazionali a obiettivi di carattere internazionale. Già è difficile raggiungere accordi sulle variazioni dei tassi di interesse, ma sulla politica fiscale questo è praticamente impossibile. Eppure proprio la politica fiscale è responsabile dei due principali scon39
volgimenti dei tassi di cambio avvenuti negli ultimi anni, in America negli anni Ottanta e in Germania dopo l'unificazione. Un altro problema è rappresentato dal fatto che nessuno può dire con certezza quale potrebbe essere il livello "giusto" per il dollaro, o per qualsiasi altra valuta. Non c'è motivo per cui i governi dovrebbero avere capacità di giudizio superiori rispetto a quelle dei mercati. Inoltre, anche se i governi delle tre maggiori economie dovessero trovare un accordo sulle politiche per mantenere le valute all'interno delle rispettive fasce, le zone-obiettivo, risulterebbero ancora vulnerabili agli attacchi speculativi quando i tassi si avvicinano ai limiti fissati. In un mondo caratterizzato da una elevata mobilità dei capitali, potrebbe non esistere un comoda via di mezzo tra tassi di cambio fluttuanti e tassi di cambio fissi. I tassi di cambio fissi ma regolabili tendono ad essere instabili. Gli attacchi speculativi possono essere suddivisi in due tipologie principali. Possono essere motivati da squilibri degli indicatori macroeconomici fondamentali (come la politica monetaria, il tasso di inflazione o un saldo delle partite correnti incompatibile con il tasso di cambio); oppure possono essere "autonomi". Una moneta potrà essere attaccata con successo anche se le politiche monetarie e fiscali sono valide, e questo perché i mercati ritengono che un attacco porterà a 40
politiche monetarie più flessibili, e i fatti danno loro ragione. Le sconfitte degli accordi in ambito SME del 1992 e 1993 dimostrano la vulnerabilità dei tassi di cambio fissi ma regolabili rispetto gli attacchi speculativi anche quando i governi si impegnano ad applicare politiche monetane coerenti con il tasso di cambio vigente. I governanti francesi amano attribuire a una cospirazione anglosassone l'intenzione di distruggere l'Unione Europea; in realtà, invece, gli speculatori reagiscono alle divergenze tra gli indicatori macroeconomici. Il peso fiscale dell'unificazione tedesca aveva imposto alla Bundesbank l'innalzamento dei tassi di interesse tedeschi per mantenere sotto controllo l'inflazione in un periodo durante il quale il resto dell'Europa si trovava ad attraversare una profonda recessione con una crescente disoccupazione. Paesi come la Gran Bretagna e la Francia erano decisi a tenere alti i tassi di interesse per difendere le proprie valute, ma i mercati hanno ritenuto che l'elevata disoccupazione rendesse politicamente insostenibili gli elevati tassi di interesse. Pertanto, l'attacco è diventato "autonomo". Uno studio condotto da Barry Eichengreen, Andrew Rose e Charles Wyplosz' 3 ha esaminato gli attacchi speculativi contro i tassi di cambio fissi in 22 Paesi nei 25 anni precedenti il 1992. Questo periodo comprende lo SME e il suo predecessore, il Serpente Monetario, e Bretton Woods. Gli autori hanno scoperto che, a parte gli episodi legati allo SME, gli attacchi sono stati principalmente del primo tipo, scatenati da
politiche monetarie flessibili o da elevati disavanzi pubblici. Per i Paesi dello SME, tuttavia, gli attacchi speculativi non possono in genere essere giustificati dall'inadeguatezza delle politiche monetarie e fiscali. Gli autori sono giunti a concludere che l'aumentata mobilità dei capitali ha ampliato il raggio di azione degli attacchi "autonomi" contro le valute. Alcuni economisti sostengono che se è davvero così, i governi avranno bisogno di armi più potenti per ridurre alla ragione i mercati. Fin dalle crisi dello SME del 1992 e 1993, gli economisti hanno discusso della reintroduzione dei controlli sui capitali per scoraggiare gli speculatori. Tali controlli avrebbero dovuto essere diversi rispetto a quelli adottati molto tempo addietro, quando alle banche non era consentito di concedere crediti a clienti stranieri e i privati non potevano detenere attività in valuta estera o essere titolari di conti bancari esteri. In un mondo caratterizzato dai moderni sistemi di telecomunicazione e dai nuovi strumenti finanziari sarebbe virtualmente impossibile applicare questo tipo di restrizioni. Anche negli anni Sessanta, le persone escogitavano molti sistemi per aggirare i controlli; oggi sarebbe ancora più facile sfuggire alle normative.
LA TESTA SOTfO LA SABBIA
I sostenitori dei controlli sui capitali hanno in mente qualcosa di pii sofisticato. Piuttosto che tentare di vietare la speculazione, il loro obiettivo è di dissuadere le persone dal praticarla, rendendola costosa. Il programma preferito in questo campo è la cosiddetta tassa Tobin, che porta il nome di James Tobin, premio Nobel per l'economia, che la propose per la prima volta nel 1978 come metodo per "mettere i bastoni tra le ruote della finanzia internazionale", per ridurre il rischio di bolle speculative e aumentare l'autonomia nazionale nelle politiche monetarie.
L'idea è quella di prelevare una piccola imposta, per esempio dello 0,5%, su tutte le transazioni in valuta estera. I sostenitori di questa proposta sostengono che l'aumento dei costi della speculazione concentrerebbe l'attenzione dei mercati sugli indicatori macroeconomici fondamentali di lungo termine. L'imposta avrebbe una forte influenza sulle transazioni a breve termine, ma lascerebbe pressoché inalterati gli investimenti a lungo termine perché potrebbe essere ripartita lungo un periodo di tempo maggiore. Per esempio, una imposta sulle transazioni dello 0,5% su acquisti e vendite di valuta estera sarebbe equivalente a un tasso annuale superiore al 3,5% sulle transazioni a brevissimo termine, a un tasso del 4% su un investimento a tre mesi e a un tasso di appena lo 0,1% su un investimento a oltre dieci anni. Un'alternativa proposta da Eichengreen e Wyplosz' 4 prevede l'obbligo per le banche di effettuare depositi obbligatori infruttiferi presso la banca centrale proporzionati al volume di credito in valuta nazionale concesso a non residenti. Gli speculatori valutari che volessero scommettere contro il franco, per esempio, vendendolo allo scoperto, sarebbero costretti a prendere franchi in prestito dalle banche francesi. Pertanto, i depositi obbligatori aumenterebbero i costi delle vendite di valuta effettuate a fini speculativi. Eichengreen e Wyplosz ritengono che questo ridurrebbe le prospettive di attacchi peculativi "autonomi" lungo il percorso verso l'Unione Monetaria Europea.
L'idea di un'imposta sulle transazioni finanziarie finalizzata a contenere le oscillazioni dei mercati finanziari si ripresenta con la stessa frequenza degli 41
avvistamenti del mostro di Loch Ness. Non sorprende che attualmente il maggiore sostenitore di questa linea sia il governo francese. Tuttavia, molti governi ritengono che l'imposta Tobin risulterebbe inefficace e indesiderabile. Il problema principale sarebbe legato all'impossibilità di applicarla. Grazie all'integrazione e all'innovazione dei mercati finanziari internazionali, l'imposta potrebbe essere aggirata con facilità, a meno che non fosse applicata a livello mondiale. Anche se tutte le economie dei Paesi OCSE dovessero adottare questa imposta, la speculazione potrebbe semplicemente trasferirsi all'estero, a Singapore o a Hong Kong. L'imposta, inoltre, dovrebbe coprire l'intera gamma delle transazioni finanziarie, e non essere indirizzata esclusivamente alla speculazione in valuta estera, diversamente, infatti, gli investitori potrebbero ottenere gli stessi risultati con gli strumenti derivati (che risulterebbero molto più difficili da tassare). Ma anche se fosse possibile applicare l'imposta, non è detto che il risultato debba necessariamente essere la stabilizzazione valutaria. Disincentivando le transazioni, si ridurrebbe la liquidità presente sul mercato, con buone probabilità di aumenti di volatilità. In sostanza, la speculazione a breve termine non è l'unico fattore che allontana i tassi di cambio dai rispettivi punti di equilibrio. Le iperreazioni più spettacolari degli ultimi anni sono 42
state registrate sui mercati immobiliari, dove gli orizzonti temporali sono molto più ampi, e i costi delle transazioni sono più alti rispetto agli altri mercati. Una terza argomentazione a sfavore delle imposte sulle transazioni è rappresentata dal fatto che esse ridurrebbero l'efficienza dei mercati finanziari e aumenterebbero il costo dei capitali. Se applicate, queste imposte scoraggerebbero i flussi positivi dei capitali (come nel caso del credito commerciale e delle operazioni di copertura legate a commerci e investimenti esteri diretti) oltre a quelli negativi. L'Economic Survey delle Nazioni Unite del 1995 descrive l'imposta Tobin come "una sorta di proposta luddista", nel senso che sarebbe finalizzata a invertire la tendenza al calo dei costi delle transazioni finanziarie internazionali. Nei Paesi in via di sviluppo, i controlli sui capitali potrebbero in qualche misura essere giustificati dal desiderio di moderare temporaneamente gli afflussi di capitali a breve termine. Le economie emergenti possono essere gravemente danneggiate da massicci afflussi di capitali, che innalzano i tassi di cambio a livelli non compatibili con la concorrenza o alimentano l'inflazione, per non parlare dei rischi connessi a eventuali repentini cambiamenti di rotta dei flussi stessi. Il FMI sostiene che, nei Paesi in via di sviluppo, alcune misure di controllo sugli affiussi di capitali potrebbero essere
giustificate come provvedimenti temporanei, ma sottolinea anche che queste misure, con il tempo, diventano meno efficaci e più dannose. Nei Paesi sviluppati, dove i mercati finanziari sono più complessi, sono pochi gli economisti che credono nell'efficacia di misure di questo genere, in particolare se vengono utilizzate per bloccare le fughe di capitali. Nessuno dei Paesi che ha adottato queste misure durante la tempesta dello SME del 1992-93 (Irlanda, Portogallo e Spagna) è riuscito a evitare la svalutazione. AMBASCIATORE NON PORTA PENA
Nessuna di queste cure sembra proponibile. Inoltre, malgrado i controlli sui capitali, come abbiamo detto in precedenza, possano rivelarsi opportuni in determinate circostanze, essi potrebbero celare un malessere più grave: gli attacchi valutari sono spesso il sintomo di squilibri economici. Gli speculatori non scelgono a caso i propri obiettivi; la speculazione scommette più spesso sugli indicatori macroeconomici piuttosto che contro di essi. I flussi dei capitali rappresentano il barometro di un'economia, e veicolano utili informazioni basate sulle opinioni di grandi numeri di investitori che analizzano gli indicatori economici. Coloro che sostengono la necessità dei controlli sui capitali si basano sul pericoloso assunto che i responsabili delle politiche siano più esperti di tut-
ti gli operatori presenti sul mercato. Se i controlli sui capitali consentono ai governi di posticipare gli aggiustamenti e, quindi, di dilazionare gli squilibri economici di fondo, col tempo, questo favorirà una maggiore volatilità e disallineamenti più accentuati. Quando la correzione dei mercati arriverà, come è inevitabile, i risultati saranno ancora più dolorosi. Da questo punto di vista, se gli speculatori sollecitano una modifica anticipata di politiche insostenibili, questo contribuirà a stabilizzare i tassi di cambio. Più una svalutazione viene rimandata, più grande dovrà essere. E una crisi dei mercati finanziari può rivelarsi una benedizione se mette un governo in condizione di dover eliminare subito il proprio disavanzo pubblico piuttosto che rinviare. "È meglio rimanere seduti al margine di una strada e morire lentamente dissanguati o venire travolti da un autobus ed essere portati all'ospedale e salvati?" chiede Robert Johnson, che in precedenza lavorava per George Soros e ora è alle dipendenze di Moore Capital Management. Anche tentare di manipolare i tassi di cambio può rivelarsi pericoloso. I mercati finanziari sono oggi talmente integrati che se la volatilità all'interno di un mercato viene eliminata, questa si trasferirà semplicemente altrove. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, gli sforzi della Banca del Giappone per ottenere il rialzo del dollaro hanno condotto a una politica fiscale 43
eccessivamente generosa che causò una bolla speculativa sui mercati immobiliari e azionari. La responsabilità del crollo della borsa del 1987 è stata attribuita ai tentativi di stabilizzare il dollaro. Eppure, anche se i governi non possono controllare gli indisciplinati mercati finanziari, questo non significa che debbano rimanere indifferenti di fronte ai potenziali rischi per il sistema finanziario. Un'elevata volatilità dei tassi di cambio e dei rendimenti obbligazionari può mettere a rischio la sicurezza delle istituzioni finanziarie. La crisi de! Messico ha evidenziato come le turbolenze su un mercato si espandano rapidamente verso gli altri mercati. I governi possono almeno garantire che i partecipanti siano consapevoli dei rischi che si assumono, e che il sistema finanziario sia sufficientemente solido da sopportare la volatilità dei prezzi e un certo livello inevitabile di perdite. La lezione che deriva dal collasso di Barings, e da altri disastri finanziari kgati agli strumenti derivati, è che l'obiettivo non deve essere quello di ostacolare le innovazioni finanziarie, ma di incoraggiare le aziende a potenziare i propri sistemi interni di gestione del rischio. Pratiche contabili più accurate, obbligo di maggiore divulgazione e un maggiore scambio di informazioni tra le banche centrali e gli organi di supervisione dei diversi Paesi contribuirebbero a migliorare la tra44
sparenza del mercato. Questo è quanto gli organi di controllo possono fare senza creare problemi morali o situazioni di pericolo incoraggiando un'eccessiva assunzione di rischi. In sostanza, anche il migliore sistema di regolamentazione e controllo dei mercati finanziari può funzionare soio se le politiche economiche e i risultati dell'economia sono soddisfacenti. La sezione seguente analizzerà le regole con cui i governi devono scendere a patti se vogliono affrontare le nuove sfide dei mercati finanziari mondiali. I
GOVERNI IN UNA CAMPANA DI VETRO
Se i mercati finanziari, con le loro imperfezioni, non possono e non devono essere arginati mediante i controlli sui capitali (come sostenuto finora in questa indagine), cosa comporta questo per i governi? I governi sono completamente in balia della volubilità degli investitori? Solo fino a un certo punto. Infatti, malgrado i governi non siano più in grado di influire direttamente sui flussi di capitali, essi possono influenzare indirettamente i mercati, veicolando le informazioni. Le informazioni rappresentano l'anello mancante del collegamento tra i mercati finanziari e i governi. Non si può sperare che i mercati si comportino in maniera saggia e disciplinata in assenza di informazioni complete sugli obiettivi economici, gli strumenti di politica economica e i risultati. Se i
governi tentano di nascondere le informazioni, aumentano le probabilità di iperreazioni e di situazioni di panico sui mercati, causate da voci incontrollate o da fughe di informazioni. Prendiamo il caso del Messico. Nell'autunno dello scorso anno, la maggior parte degli economisti, a livello internazionale, era ancora fiduciosa in questa economia, e questo perché i ritardi nella pubblicazione delle informazioni avevano lasciato tutti all'oscuro per parecchi mesi. Se gli investitori fossero stati meglio informati, il loro comportamento avrebbe sollecitato maggiormente il Messico già all'inizio del 1994, e le correzioni del mercato sarebbero state di minore entità e gravità. Gli investitori hanno imparato la lezione. In futuro, questi operatori interpreteranno qualsiasi ritardo nella pubblicazione dei dati sull'economia come un'informazione dal significato preciso, e come una valida ragione per vendere. Pertanto, se i governi pubblicheranno tempestivamente le informazioni, buone o cattive che siano, i risultati saranno migliori per tutti. Ma la pubblicazione delle statistiche è solo una parte della storia. Anche la politica economica dovrebbe essere il più trasparente e prevedibile possibile. Nel nuovo panorama finanziario, i responsabili delle politiche sono circondati da tali incertezze che l'ultima cosa da fare è quella di contribuire ad aumentarle. Garantendo l'assoluta tra-
sparenza delle proprie azioni, i governi potranno minimizzare il rischio di contraccolpi e contribuire a stabilizzare ie aspettative dei mercati. Il premio sarà rappresentato da ridotti rischi di iperreazione dei mercati a improvvise variazioni nelle aspettative. Una grande fonte di incertezza è spesso rappresentata dalla confusione sugli obiettivi di politica economica di un governo. Il governo si impegnerà davvero a combattere l'inflazione? Oppure cadrà nella tentazione di forti aumenti di spesa per scopi di propaganda elettorale? Non è sufficiente che i governi si impegnino a seguire politiche valide; per ottenere la fiducia dei mercati, i governi dovranno concepire le proprie politiche monetarie e fiscali in maniera tale da incentivare i responsabili della lorto attuazione a prendere decisioni prudenti, e da garantire le adeguate punizioni per coloro che non dovessero mantenere fede ai propri impegni. Fortunatamente non mancano le idee per ottenere questo tipo di risultati. POLITICHE TRASPARENTI
Il modo migliore per convincere i mercati finanziari che il governo intende tenere sotto controllo l'inflazione è quello di garantire l'indipendenza della banca centrale dalle influenze politiche, e di assegnare a questo istituto un mandato per il raggiungimento della stabilità dei prezzi, preferibil45
mente con obiettivi specifici in termini di inflazione. Un eccellente modello per garantire l'indipendenza della banca centrale è quello adottato dalla Nuova Zelanda, dove la Reserve Bank è pienamente indipendente nella gestione della politica monetaria fin dal 1990. L'inflazione programmata (attualmente pari allo 0-2%) viene fissata dal governo. Se la Reserve Bank non riesce a raggiungere questo obiettivo, il governatore può essere sostituito. Il governo può modificare l'obiettivo, ma deve ottenere l'approvazione del parlamento. Questo ulteriore vincolo contribuisce a ridurre la tentazione di interferire. Un numero sempre crescente di Paesi ha deciso di seguire l'esempio della Nuova Zelanda fissando obiettivi espliciti di inflazione, in genere compresi nell'intervallo tra 0% e 3%. Un tasso di inflazione programmato che costringa i governi a perseguire la stabilità dei prezzi può essere importante quanto l'indipendenza della banca centrale nel rafforzamento della credibilità delle politiche monetarie governative. I tassi di inflazione programmati garantiscono la trasparenza. Un obiettivo annunciato, in caso di fallimento, implica una punizione e riduce la tentazione per i governi di imporre impennate inflazionistiche a sorpresa per l'ottenimento di una crescita della produzione nel breve termine. Un obiettivo credibile consente inoltre ai mercati di poter prevedere il 46
modo in cui la banca centrale reagirà in caso di imprevisti allontanamenti dagli obiettivi. Anche la trasparenza del processo decisionale delle politiche monetarie ha la sua importanza. Tradizionalmente, le banche centrali hanno sempre tenuto comportamenti riservati e misteriosi, giocando con i mercati come il gatto gioca con il topo. Nel nuovo panorama finanziario, le banche centrali, per riuscire a influire sulle aspettative, dovranno comunicare in piana chiarezza con i mercati finanziari. Numerosi Paesi hanno deciso di recente di rendere trasparenti le proprie procedure decisionali e operative. Lo scorso anno, per esempio, la Federal Reserve americana ha iniziato a pubblicare i verbali delle riunioni del comitato federale per le operazioni di mercato aperto. Inoltre, oggi la banca centrale americana annuncia tutte le decisioni sulle variazioni del tasso sulle riserve obbligatorie, e questo semplicemente per evitare che sia il mercato a stabilirlo autonomamente. In Gran Bretagna, le decisioni relative ai tassi di interesse vengono prese in occasione di incontri regolari tra il ministro delle Finanze e il governatore della Banca d'Inghilterra, e i verbali delle riunioni vengono pubblicati a distanza di sei settimane. Anche la Banca d'Inghilterra pubblica un Rapporto sull'Inflazione, una pubblicazione indipendente che aiuta i mercati a
comprendere quali fattori guidano le decisioni in materia di tassi di interesse. Si tratta di un interessante esperimento per la veicolazione delle informazioni verso i mercati. Purtroppo, il messaggio risulta spesso oscuro, perché la Banca d'Inghilterra non è indipendente. È il ministro, e non la Banca, a stabilire i tassi di interesse, e la scorsa estate il ministro ha ritenuto di ignorare i suggerimenti provenienti dalla Banca. La Costituzione impone alla Federal Reserve di perseguire obiettivi di piena occupazione e di stabilizzazione dei prezzi. Tale elemento distingue questo istituto dalle altre banche centrali, e ne rende più difficile il compito, in quanto si tratta di due obiettivi che sono spesso in conflitto tra loro. Questi due mandati conflittuali tra di loro diminuiscono l'efficacia della Federal Reserve nella lotta all'inflazione, aumentano l'incertezza sui mercati e in alcuni casi sollevano il sospetto che l'istituto compia scelte potenzialmente inflazionistiche. Pertanto, i mercati hanno una maggiore tendenza a reagire negativamente di fronte a notizie che si riferiscono, per esempio, a una crescita inaspettatamente forte. Un obiettivo esplicito in termini di inflazione contribuirebbe a rafforzare le credenziali della Federal Reserve, e a calmare ie aspettative inflazionistiche. La fissazione di obiettivi di inflazione è ancora allo stadio sperimentale, ma già vi sono prove di come in alcuni
Paesi queste misure abbiano contribuito ad aumentare la credibilità delle politiche monetarie. Una banca centrale che riesca ad aumentare la credibilità delle proprie politiche presso i mercati finanziari avrà una maggiore flessibilità nel reagire di fronte a circostanze mutevoli. Per esempio, durante una recessione, una banca centrale avrà maggiori probabilità di riuscire a tagliare i tassi di interesse senza suscitare aspettative inflazionistiche, e quindi senza innescare una crescita dei tassi di interesse a lungo termine. Pertanto, paradossalmente, la migliore difesa dei governi contro l'accresciuto potere dei mercati finanziari consiste nel rinunciare a un'ulteriore quota del proprio potere discrezionale. Legandosi da soli le mani e quindi mettendosi al sicuro da ogni tentazione, i responsabili delle politiche potranno avere maggiore influenza sulle economie che amministrano. UN MODELLO STANDARD PER IL BILANCIO
Come la politica monetaria, la politica fiscale, per rivelarsi efficace, ha bisogno di credibilità. Se la migliore cura per l'inflazione è quella di assegnare la responsabilità della stabilità dei prezzi a una banca centrale indipendente, esiste un sistema analogo per consentire alla politica fiscale di essere al di sopra di ogni sospetto? Mentre i risultati raggiunti dai governi in materia di 47
inflazione sono migliorati, le politiche fiscali di numerosi Paesi industrializzati si mantengono su una rotta insostenibile. Con l'invecchiamento delle popolazioni, i conti dei sistemi pensionistici e sanitari di molti Paesi sono destinati a esplodere, con il conseguente ulteriore indebitamento dei governi. In America, per esempio, l'indebitamento netto del settore pubblico è previsto in crescita dal 40% del PIL del 1995 al 108% del 2030. In Giappone, nell'arco dello stesso periodo, il tasso di indebitamento netto in rapporto al Pii, crescerà dall'attuale 13% al 314%. L'eccezione è rappresentata dalla Gran Bretagna, dove, stando ai dati dell'OCsE, l'indebitamento pubblico netto dovrebbe passare dal 47% del PIL registrato nel 1995 a un modesto avanzo positivo nel 2030. Questo accade perché la popolazione è già relativamente anziana, e i piani pensionistici pubblici sono meno generosi rispetto agli altri Paesi. La maggior parte dei Paesi, tuttavia, dovrà trovare una soluzione per i propri crescenti problemi di indebitamento. Sia che si tratti di adottare massicci tagli di spesa, sia che si tratti di imporre nuove tasse, il risultato non potrà essere indolore. Molti governi hanno cercato di risolvere il problema mediante l'emanazione di normative di legge in materia di bilancio. Gli Stati Uniti hanno tentato, senza successo, di ridurre il disavanzo pubblico con la 48
legge Gramm-Rudman-Hollings del 1985. Nel mese di marzo del 1995, il Congresso ha bocciato una legge sul pareggio del bilancio che avrebbe costretto il governo a pareggiare annualmente i conti. Anche in Europa, i criteri di convergenza previsti dal Trattato di Maastricht per l'Unione Monetaria Europea fissano limiti specifici per il deficit di bilancio e il rapporto tra indebitamento pubblico e PIL. Tuttavia, per i governi risulta molto più difficile legarsi le mani in materia di politica fiscale di quanto non lo sia per la politica monetaria. Una legge che richieda bilanci costantemente in pareggio non è proponibile, né politicamente né economicamente. Non esiste l'equivalente fiscale di un obiettivo inflazionistico, non esiste una misura universale che possa stabilire quali iniziative siano prudenti dal punto di vista fiscale: tutto dipende da fattori quali la fase del ciclo economico e il livello di indebitamento. Per esempio, durante le fasi di recessione, i deficit pubblici si espandono automaticamente a causa della caduta del gettito fiscale e dell'aumento del volume dei sussidi di disoccupazione. Se rigide regole di bilancio dovessero ostacolare questi movimenti ciclici, le recessioni si accentuerebbero. Inoltre, mentre nel lungo termine la politica monetaria influenza solo l'inflazione, la politica fiscale ha un impatto economico e sociale molto più ampio, e questo fa
sì che i governi siano (giustamente) riluttanti a delegare questo strumento a operatori non eletti politicamente. Su un piano più pratico, le esperienze di alcuni stati americani hanno dimostrato che i limiti di bilancio imposti per legge possono essere facilmente aggirati con accorgimenti contabili, per esempio trasferendo fuori bilancio i programmi di spesa. Ancora una volta, la Nuova Zelanda sembra aver escogitato un'alternativa efficace, anche se di portata modesta. La legge neozelandese sulla Responsabilità Fiscale, approvata nel 1994, è il provvedimento gemello della legge sulla Reserve Bank. Questo provvedimento non impone limiti al deficit pubblico, ma istituisce degli incentivi per far sì che i responsabili delle politiche operino in difesa degli interessi di lungo termine del Paese. La legge impone tre requisiti: Bilanci veri e propri. La Nuova Zelanda è stato il primo Paese al mondo a predisporre bilanci veri e propri per il settore pubblico, e cioè una situazione patrimoniale completa e un conto dei ricavi e delle spese di gestione di competenza dei singoli esercizi, in tutto simile ai modelli adottati dalle aziende private. I documenti contabili sono revisionati da una società di revisione privata, per scoraggiare eventuali tentativi di raggiro. La tradizionale contabilità di bilancio nasconde molto di più di quanto metta in evidenza, e il bilancio del settore pubblico è un elemento cruciale per stabilire se le politiche attuate sono sostenibili. I bilanci possono contenere trucchi diffusi come la drastica riduzione delle spese in conto capitale, o la vendita di proprietà statali, che nel breve periodo riduce il deficit, ma non contribuisce molto alla soluzione degli squilibri fiscali di fondo. L'obbligo di stilare una situazione patrimoniale incoraggerebbe i governi a concentrarsi sulle conseguenze di lungo termine delle politiche attuali, come gli impegni futuri del sistema pensionistico non coperti dalle contribuzioni. In questo campo, il FMI o l'OcsE dovrebbero assumersi l'onere di incoraggiare maggiormente i governi alla pubblicazione di bilanci basati su criteri standardizzati. Questo semplificherebbe il giudizio da parte dei
mercati finanziari sulla validità delle politiche di bilancio dei singoli governi. Obiettivi espliciti. La legge impone principi generali per una politica fiscale prudente che il governo stesso deve tradurre in obiettivi numerici relativi al saldo del bilancio, al debito e al patrimonio netto del settore pubblico. Per esempio, la legge dice che il governo dovrà mantenere un avanzo di bilancio fino a quando il suo indebitamento non sarà riportato a un livello più prudente. Il governo ha definito "prudenti" gli obiettivi del 30% del PIL nel breve periodo e del 20% nel lungo periodo. Trasparenza. La legge richiede maggiore trasparenza delle informazioni, per garantire al parlamento, al pubblico e, non ultimi, ai mercati finanziari, la facoltà di controllo. Il governo è tenuto a giustificare qualsiasi eventuale allontanamento dagli obiettivi dichiarati, e a dichiarare quali misure verranno adottate per correggere queste situazioni. Quello che conta maggiormente è che il governo è tenuto a pubblicare una valutazione completa delle proprie finanze nei periodi che precedono le elezioni, per ridurre la tentazione di aumenti di spesa pre-elettorali. La legge neozelandese sulla "responsabilità fiscale" non rappresenta una bacchetta magica; i politici dovranno comunque prendere difficili decisioni su dove abbattere la scure dei tagli. Tuttavia, costringendo i politici a rendere più trasparenti le proprie intenzioni e i propri atti, si possono aumentare i costi politici ed economici di eventuali atti di irresponsabilità fiscale. La Nuova Zelanda è oggi dotata di quello che è probabilmente il miglior quadro di politiche fiscali e monetarie del mondo. Questa situazione, da sola, non può garantire la validità delle politiche adottate, tuttavia, rendendo le politiche economiche più trasparenti, si potrà migliorare la capacità dei mercati dei capitali di imporre la disciplina, e ridurre il rischio di iperreazioni dei mercati scatenate dall'incertezza sugli indirizzi di politica economica.
GLI ARBITRI
Tuttavia, alcuni economisti ritengono che questo non sia sufficiente. Istituzioni economiche internazionali come il FMI, ritengono gli economisti, han49
no anch'esse un ruolo da giocare per incentivare un comportamento razionale dei mercati dei capitali. Nel periodo successivo alla crisi del Messico, i governi del G7, hanno deciso di ampliare il mandato di sorveglianza affidato al FMI. I rappresentanti dei Paesi convenuti hanno stabilito che il Fondo dovrebbe utilizzare la propria influenza per incoraggiare gli stati membri a fornire informazioni economiche migliori e più tempestive, che consentirebbero ai mercati finanziari di effettuare valutazioni più accurate. Il FMI dovrebbe anche essere più critico, e dare indicazioni più franche ai Paesi caratterizzati da una cattiva gestione economica. Morris Goldstein, dell'Institute for International Economics 15, sostiene che il FMI potrebbe fare ancora di più. L'accresciuto potere e la maggiore agilità dei mercati dei capitali privati, sostiene Goldstein, hanno reso più necessaria la presenza di un efficiente sistema di preallarme in grado di identificare i disallineamenti emergenti tra i tassi di cambio e le politiche inadeguate. Attualmente, il problema principale è rappresentato dal fatto che i governi rimandano troppo a lungo le misure di aggiustamento, consentendo ai disallineamenti di ingigantirsi. Quando le politiche economiche risultano inadeguate, prima o poi le misure correttive devono essere adottate. t bene che questo sia fatto con anticipo, quando le correzioni potranno essere limitate e più sistematiche. Goldstein sostiene che il FMI, per incoraggiare i governi ad applicare tempestive misure correttive, dovrebbe svolgere attività di monitoraggio, e rendere pubbliche le proprie opinioni sui tassi di cambio e sugli squilibri macroeconomici dei singoli Paesi. In particolare, Goldstein propone che il FMI pubblichi le sue valutazioni annuali sulle politiche e sulle prospettive dei singoli Paesi. Quando i Paesi ottengono accesso sufficiente ai capitali privati, e non hanno più necessità dei finanziamenti del FMI, sostiene
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Goldstein, l'attività del Fondo, attraverso la sua influenza sulle opinioni dei mercati riguardo alle politiche adottate dai singoli Paesi, risulterà ancora più necessaria. Migliorando l'efficienza dcl mercato mondiale dei capitali, il FMI potrà rafforzare il proprio ruolo di organo disciplinare, intervenendo con misure più adeguate e meno drastiche.
Le agenzie private di valutazione dell'affidabilità creditizia (credit rating) che dovrebbero agire come sistemi di pre-allarme, spesso non si rivelano all'altezza di questo compito; di sicuro, nel caso del Messico hanno sbagliato tutto. La pubblicazione delle valutazioni dei singoli Paesi a cura del FMI semplificherebbe almeno la valutazione della capacità del FMI di allenare i governi in presenza di disallineamenti e di errori di politica economica. Il FMI, da parte sua, sostiene che se dovesse compilare una sorta di "lista nera" dei Paesi, il Fondo potrebbe essere incolpato di provocare crisi finanziarie. Inoltre, sostengono i funzionari del Fondo, la pubblicazione delle valutazioni per i singoli Paesi andrebbe a danno della segretezza e della franchezza delle consultazioni del Fondo. Tuttavia, questo sembra indicare che, attualmente, i governi forniscano informazioni di elevata qualità al FMI negandole invece alle agenzie di credit rating. Se i governi desiderano che i mercati finanziari funzionino in maniera più efficiente, allora prima i mercati saranno informati in maniera completa e meglio sarà.
POLITICHE EFFICACI
L'approccio adeguato al mercato mondiale dei capitali non è quello della fiducia cieca, né quello della paura matta, ma quello di un salutare rispetto. Inevitabilmente, i ministri delle finanze e del tesoro che vedono le proprie politiche soffocate dai flussi internazionali dei capitali avranno la sensazione che i mercati godano di poteri eccessivi; tuttavia, la gran parte dei cambiamenti, se non tutti, che i mercati finanziari hanno imposto ai governi negli ultimi anni è stata positiva. Questa indagine ha voluto sostenere che le preoccupazioni per i governi lasciati inermi nella difesa degli interessi economici dei rispettivi Paesi sono state esagerate. Nel complesso, si può affermare che i mercati sottraggono potere solo ai governi che seguono comportamenti sbagliati: eccessivo indebitamento, politiche inflazionistiche o tentativi di difendere tassi di cambio insostenibili. Pertanto, i mercati incoraggiano i governi ad adottare politiche destinate ad andare a vantaggio delle economie e dei cittadini. I cambiamenti intervenuti sui mercati finanziari hanno indubbiamente complicato la gestione delle politiche fiscali e monetarie da parte dei governi, ma nella realtà, la capacità dei responsabili delle politiche economiche di pilotare le rispettive economie mediante questi strumenti è sempre stata più limitata rispetto a quanto normal-
mente si creda. Se oggi i governi hanno possibilità ancora minori di indirizzare le rispettive economie, questo potrà rivelarsi un fattore positivo in considerazione dei precedenti fallimenti; al contrario, i governi dovrebbero concentrarsi su quello che possono fare di utile, e questo significa una lista comunque lunga di importanti compiti. Per esempio, i governi possono migliorare il funzionamento dell'economia rimuovendo le rigidità strutturali che riducono le opportunità occupazionali e ostacolano la concorrenza abolendo le distorsioni fiscali che scoraggiano i risparmi o riformando il sistema scolastico per garantire che la generazione successiva sia pronta per le professioni del domani. Un governo che si impegni in queste direzioni non può davvero essere considerato inerme. Tuttavia, tutti sono d'accordo sul fatto che i governi hanno oggi meno potere di controllo sulle rispettive economie di quanto non fosse in precedenza. Questo significa che i mercati finanziari, sempre più potenti, rappresentano una minaccia per la democrazia? Non ci sono prove concrete che questo sia vero; effettivamente, sotto alcuni punti di vista, i mercati dei capitali, guidati dalle decisioni di milioni di investitori e di creditori, sono altamente "democratici". I mercati si comportano come un sondaggio di opinione attivo 24 ore su 24. Inoltre, i mercati aumentano la trasparenza del 51
comportamento dei politici informando gli elettori dei risultati economici ottenuti dai governi. I mercati finanziari hanno una vista molto più acuta di quella degli elettori. Pertanto, è facile comprendere come mai i governi ce l'abbiano tanto con i mercati, che limitano le loro capacità di ingannare (per esempio, riducendo artificialmente il proprio indebitamento con politiche inflazionistiche), e li costringono ad agire in maniera più trasparente. Ma qualunque governo che tema di essere smascherato dai mercati finanziari deve avere chiaramente qualcosa da nascondere. I mercati sono capaci di evidenziare gli errori economici dei governi in maniera più efficace dei partiti di opposizione o della stampa. I responsabili delle politiche economiche sono chiamati a migliorare ulteriormente i flussi di informazioni che pervengono ai mercati, per rafforzarne la capacità di autodisciplina e per minimizzarne gli eccessi. Rimane, comunque, la diffusa preoccupazione che i mercati possano assegnare il proprio voto solo a chi detiene le ricchezze. Ma i mercati finanziari non rappresentano esclusivamente i ricchi; la gran parte dei cittadini ha dei risparmi, in un libretto di risparmio, in un fondo di investimento o investiti nella propria pensione futura. La battaglia tra i mercati finanziari e i governi si riduce di fatto a una lotta di potere attorno ai risparmi. In futuro, i 52
governi avranno molte più difficoltà nel sottrarre surrettiziamente valore ai risparmi dei cittadini. Cosa rispondere a chi sostiene che i mercati finanziari sono interessati esclusivamente ai guadagni di breve termine? I mercati, si legge nell'accusa, «voteranno" contro qualsiasi cosa che non generi rapidi profitti. Essi saranno ostili nei confronti di aumenti di spesa nei settori dell'istruzione e delle infrastrutture pubbliche, e condanneranno programmi di spesa a favore dei poveri o dei senzatetto In realtà, i mercati tollereranno gli aumenti delle voci di spesa a lungo termine come l'istruzione o l'edilizia popolare, purché i governi dichiarino come intendono coprire queste spese. Quello che i mercati non faranno è consentire ai governi di lasciare tale questione insoluta, accumulando problemi destinati a presentarsi in futuro. I mercati finanziari si limitano a richiedere l'onestà fiscale, e rappresentano un salutare contrappeso per gli elettori che chiedono ai propri governi di spendere ora e pagare in seguito. bene ricordare, tuttavia, che i mercati finanziari si limitano a evidenziare i problemi, e non offrono le soluzioni. Se i governi ignorano i segnali lanciati dai mercati, essi "manterranno comunque il proprio diritto sovrano a restare con le mani in mano (consentendo all'inflazione di dilagare o al deficit di ampliarsi), sostiene Martin Mayer, docente alla Washington
Brookings Institution. "I mercati finanziari si limitano a fare in modo che i problemi vengano alla luce prima di quanto accadeva in passato". Se i mercati inviano segnali di preallarme, e se i governi reagiscono, allora le crisi economiche future saranno neno gravi ri-
spetto al passato. Se questi "se" potranno essere trasformati in realtà, l'economia mondiale potrà avere davanti a sé un futuro piii prospero, anche se la strada sarà sempre piena di buche.
I "Who ruies the World's Financiai Markets?". Di RICHARD O'BPIEN, da «Harvard Business Review», Marzo-Aprile, 1995. 2 "The Global Capita! Market: Supp!y, Demand, Pricing and Allocation". McKinsey Global Institute, Novembre 1994. 3 "The Role ofjudgment and Discretion in the Conduct of Monetary Poiicy: Consequences ofCharging Financial Markets". Di BENJAM1N FRIEDMAN, Federal Reserve Bank of Kansas City Simposium, Jackson Hole, 1993.
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Financial Globalisation, Derivativei, Volatility and the Ghallenge for the Policies of Central Banks. Di CHARLES GOODHEART, Financia! Markets Groups, London School ofEconomics.
Macroeconomics and Monetaiy Policy Issues Raised by the Growth od Derivati've Markets. Bis, Novembre 1994. 6 The Determinanti of Rea! Long- Term Interest Ratei, 5
di Aiiui'a' ORR, Malco!m Edey e Michaei Kennedy, OECD working paper No 155. 7 International Capita! Markets, di DAVID F0LIcaRT5LANDAU E TATosHI ITO, FMI, agosto 1995.
(Traduzione di Stefano Spila)
Governed by the Fiows, di KELD HOLM, Lehman
Brothers, marzo 1995. -
An Assessment ofFinancial Reform in OECD Countries. Di MALCOLM EDEY E KETIL HVIDING, OECD Working Paper No. 154. IO Exchange-Rate Variability and the Leve! of International Trade, di JOSEPH GAGNON, «Journal of International Ecoriomics», Voi. 34, Maggio 1993. Il Exchange Ratei and Investment in the United Statei Industiy, di LINDA GOLDBERG, «Review ofEconomics and Statistics», novembre 1993. 12 Does Foreign Exchange Intervention Work?, di 9
KATHRYN DOMINGUEZ e JEFFREY FRANKEL, Institute for Internationa! Economics, 1993. 13 Speculative Attacks on Pegged Exchange Ratei, di BARRY EICHENNGREEN, ANDREW ROSE e CHARLES WyPLOSZ, documento CEPR N. 1060.
Two casei for Sand in the Wheels oflnternationa! Finance. Di BARRY EICHENGREEN, JAMES TOBIN e 14
CHAIU.Es WYPLOSz, in «Economic Journal», gennaio
1995. The Exchange Rate System and the IMF: A Modest Agenda, di Moiuis GOLDSTEIN, liE paper No. 39. IS
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Problemi e scelte della vigilanza bancaria internazionale di Giuseppe Godano*
Sono passati più di venti anni da quando è stato costituito il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria e da allora esso ha rappresentato la sede principale dove sono discussi i problemi che l'attività bancaria internazionale pone alle autorità di controllo sulle istituzioni creditizie. Nato con lo scopo di creare e di sviluppare la cooperazione fra le autorità di vigilanza del gruppo dei Dieci', il Comitato nel corso degli anni ha elaborato una serie di principi e di raccomandazioni e fornito degli standard che le singole autorità di vigilanza devono rispettare; dal più ristretto ambito dei Paesi del Gruppo dei Dieci ha esteso la sua influenza praticamente su scala mondiale. L'attenziòne rivolta dal Comitato di Basilea ai problemi della cooperazione internazionale in materia di vigilanza bancaria non significa che questa sia l'unica sede dove tali problemi vengono dibattuti: si pensi solo alle iniziative dell'Unione Europea che hanno portato alla realizzazione del mercato
* Dirigente della Banca d'Italia, Studioso di cooperazione internazionale in materia di vigilanza.
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unico bancario. Bisogna tuttavia riconoscere che il rango dei partecipanti al Comitato (i principali Paesi industrializzati) e l'approvazione delle delibere del Comitato da parte dei Governatori delle banche centrali sono circostanze che conferiscono alle iniziative del Comitato di Basilea, e ai principi ad esse sottesi, una notevole rilevanza. L"ccoRDo
SUL CAPITALE"
Il Comitato di Basilea ha perseguito gli obiettivi di rafforzare la cooperazione in materia di supervisione bancaria, di migliorarne la qualità con l'adozione di standard qualitativi e quantitativi e di colmare le eventuali lacune nell'azione di vigilanza. In questo articolo tratterò, in primo luogo, i tradizionali campi di azione del Comitato (l'adeguatezza patrimoniale delle banche, il rafforzamento degli standard di cooperazione, l'attenzione alla complessità sempre maggiore assunta dalla struttura degli enti creditizi e finanziari), in secondo luogo, gli impegnativi compiti che attendono il Comitato di fronte all'evoluzione dei mercati bancari e finanziari.
Nel presupposto che un'adeguata dotazione patrimoniale è fondamentale per la solidità delle singole banche e del sistema bancario nel suo complesso, il Comitato di Basilea ha approvato nel 1988 il documento: "International convergence of capital measurement and capiraI standards", il cosiddetto "accordo su1 capitale", che fissa uno standard minimo vincolante di dotazione patrimoniale per tutte le banche con un'operatività a livello internazionale che hanno la loro sede centrale in Paesi del Gruppo dei Dieci. L'accordo ha costituito un passaggio fondamentale per rafforzare la stabilità del sistema bancario internazionale e per ridurre disparità concorrenziali dovute alla differenza dei requisiti patrimoniali nei singoli ordinamenti. L'accordo di capitale prevedeva che, a regime, e cioè entro la fine del 1992, le banche dei Paesi del Gruppo dei Dieci che svolgono attività internazionale rispettassero un requisito patrimoniale minimo pari all'8 per cento delle loro attività ponderate in base al rischio. Tale standard è stato accolto, ed effettivamente recepito, non solo dai Paesi del G-1O ma anche progressivamente da tutti i Paesi non G- 10 le cui banche svolgono attività internazionale di un certo rilievo, ed ha costituito la base per i lavori comunitari che hanno condotto all'approvazione delle due direttive 891299/CEE (cosiddetta direttiva sui fondi propri) e 89/647/CEE (direttiva sul coefficiente di solvibilità).
L'accordo di capitale del 1988 si occupa specificamente del rischio di credito, cioè del rischio che corrono le banche di insolvenza della controparte, o meglio, del mancato rimborso del credito alla scadenza. Successivamente, il Comitato si è interessato di tutta una serie di rischi attinenti all'attività bancaria, in particolare all'attività di negoziazione in valori mobiliari. Si tratta del rischio che in linea generale può essere catalogato come "rischio di mercato", il rischio cioè che l'attivo bancario perda di valore per ragioni connesse alla variazione del prezzo (nel caso di azioni), del tasso di interesse (nel caso di titoli a reddito fisso), del tasso di cambio (nel caso di transazioni in valute estere). Questa parte del bilancio bancario (a cui solitamente ci si riferisce come portafoglio di negoziazione) è quella sottoposta a maggiori oscillazioni di valore. L'attenzione che le autorità di vigilanza dedicano al portafoglio di negoziazione è giustificata dalla circostanza che l'innovazione finanziaria ha facilitato, negli ultimi anni, lo sviluppo e la diffusione di operazioni bancarie più complesse, come ad esempio, i prodotti derivati; inoltre, la maggiore rapidità nell'esecuzione delle transazioni finanziarie connesse con l'innovazione tecnologica e la cosiddetta globalizzazione dei mercati , frutto della libertà dei movimenti di capitale, facilitano il propagarsi di situazioni di rischio (cd. rischio sistemico).
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Dopo un lungo lavoro preparatorio, alla fine del 1995, il Comitato di Basilea ha trovato un'intesa per modificare l'accordo de! 1988 introducendo requisiti di copertura patrimoniale a fronte del citato rischio di mercato. Metodi differenziati sono stati adottati per la misurazione del rischio di tasso di interesse e di cambio, mentre particolari meccanismi sono stati posti in essere per la copertura patrimoniale dei rischi connessi con le opzioni e con le operazioni in materie prime (commodities). L'accordo entrerà in vigore, o meglio verrà recepito, negli Stati del G-10 a partire dalla fine del 1997. La grande complessità delle transazioni in valori mobiliari di solito induce le banche a dotarsi di particolari metodi per la misurazione del rischio presente in tali operazioni; non è infrequente che le principali banche operanti su scala internazionale sviluppino al loro interno modelli statistici di misura e di rilevazione del rischio. Il metodo standard escogitato dal Comitato di Basilea poteva quindi, nei confronti di tali banche, risultare troppo semplicistico e comunque inefficace per la misurazione del rischio e per la successiva, eventuale copertura patrimoniale. Le banche hanno quindi chiesto di poter utilizzare i loro modelli interni per il calcolo del capitale necessario per l'effettuazione delle transazioni in valori mobiliari. 56
Il metodo si fonda sulla stima del cosiddetto "value-at-risk" (VAR) prodotto dai sistemi interni di misurazione dei rischi, cioè sulla stima delle perdite massime possibili che con una probabilità del 99 per cento un dato portafoglio potrebbe subire nei successivi giorni lavorativi. Tali perdite sono stimate sulla base dell'esperienza storica dei movimenti osservati nei fattori di rischio considerati (tasso di interesse, tasso di cambio, prezzo delle azioni, ecc.). Il Comitato ha accettato che le banche possano usare a tale scopo i loro modelli interni ma ha prescritto precisi requisiti quantitativi e qualitativi, per evitare che l'utilizzo dei modelli costituisca uno strumento di elusione dei requisiti patrimoniali. In particolare, sono previsti un fattore moltiplicativo (pari a 3) che si applica alla media dei valori "a rischio" registrati nei due mesi precedenti a ciascuna rilevazione statistica e delle procedure di verifica, da parte delle autorità di vigilanza, dell'operato dei modelli. Inoltre, se nella realtà operativa vi sono scostamenti rispetto alla previsione del modello (in pratica, se vi sono perdite impreviste), si applicano delle penalità in termini di requisiti patrimoniali. Naturalmente, si pone anche il problema di conciliabilità delle regole emanate a Basilea con quelle similari in vigore nell'Unione Europea, in particolare la direttiva sull'adeguatezza patrimoniale delle società di investi-
mento (CAD). Poiché le soluzioni trovate a Basilea sono più aggiornate e probabilmente più aderenti alla dinamica del mercato rispetto alla direttiva CAD, quest'ultima dovrà essere a tempo debito modificata. GLI STANDARD DI COOPERAZIONE
Il secondo pilastro dell'attività del Comitato è quello del rafforzamento degli standard di cooperazione. Si può dire che l'esistenza stessa del Comitato risponde all'esigenza di trovare modalità concrete di cooperazione tra le autorità di vigilanza di differenti Paesi allo scopo di evitare carenze nell'azione di vigilanza e migliorarne l'efficacia a livello internazionale. Il primo passo in questa direzione fu i! cosiddetto "concordato del 1975" che poneva principi generali per l'esercizio dei controlli sull'attività delle banche con insediamenti al di fuori dei confini, sotto i diversi profili dell'adeguatezza patrimoniale, della liquidità e dell'attività in cambi, sancendo il principio della competenza dell'autorità di vigilanza de! Paese di origine, esclusivo per 1e succursali, temperato da competenze, primarie o residue, dell'autorità del Paese ospitante nel caso di fihiazioni e dijointventures. Il Concordato del 1975 fu approfondito e ampliato nel 1983, successivamente alla crisi del Banco Ambrosiano che ha reso necessario il rafforzamento degli strumenti di vigilanza a livello internazionale, introducendo i
due fondamentali principi che nessuno stabilimento bancario debba sfuggire alla vigilanza di una qualche autorità e che la vigilanza vada, esercitata in maniera adeguata. Veniva così vietato l'interposizione di holding fra le singole componenti bancarie del gruppo (come avveniva nella struttura societaria del Banco Ambrosiano) e non erano consentiti insediamenti bancari in centri del tutto privi di controllo bancario; per altro verso, si dava riconoscimento ufficiale al principio della vigilanza su base consolidata, che le autorità del Paese di origine devono esercitare su tutte le propaggini del gruppo, in qualsiasi parte del mondo esse siano insediate. Successivamente nel 1992, a seguito di un altro dissesto, quello della Bank of Credit and Commerce International (BCCI), vennero ulteriormente approfonditi i fondamenti della cooperazione internazionale con l'emanazione dei cosiddetti "standard minimi", che le autorità di vigilanza del Paese di origine e di quello di insediamento di una banca devono rispettare per poter consentire l'espansione internazionale di una banca o di un gruppo bancario. Ci si riferisce, in particolare, alla necessità di un'autorizzazione sia da parte del Paese di origine sia da parte del Paese ospitante, all'effettivo esercizio di una vigilanza su base consolidata e alla possibilità di "sanzioni" (rifiuto o revoca dell'autorizzazione nel caso che, a giudizio di un'autorità, gli
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standard non siano concretamente rispettati). REGOLE PER I CONGLOMERATI FINANZIARI
La terza grande area di interesse del Comitato di Basilea è quella della regolamentazione dei conglomerati finanziari. Anche in questo settore il Comitato ha preso atto dei fenomeni di globalizzazione dei mercati finanziari e del formarsi di strutture societarie che al loro interno offrono una gamma complessa di servizi bancari, assicurativi e finanziari in genere. La presenza di tali conglomerati, infatti pone alle autorità di vigilanza problemi nuovi rispetto alle formule tradizionali. In particolare: - autorità di vigilanza diverse hanno competenza per le differenti istituzioni che fanno parte del conglomerato; - la misurazione del rischio presenta difficoltà particolari data, appunto, la presenza di entità diverse nell'ambito del conglomerato; - la struttura di certi gruppi può essere stata escogitata proprio per eludere o per ridurre i controlli di vigilanza; - alcuni conglomerati possono essere costituiti, oltre che da istituzioni finanziarie come tali sottoposte a controlli, da società industriali o commerciali non vigilate. Nonostante questi problemi, è importante che gruppi finanziari diversificati siano soggetti a una vigilanza effetti58
va per ridurre il rischio che difficoltà esistenti in una parte del gruppo si ripercuotano sull'intero conglomerato. Il Comitato di Basilea ha istituito insieme a losco (il Comitato che raggruppa le autorità di controllo degli intermediari in valori mobiliari) e a IAJs (il Comitato delle autorità assicurative) un joint forum nel quale sono rappresentate le autorità di vigilanza dei tre diversi settori che si occupa appunto di realizzare metodi efficaci di vigilanza dei conglomerati, per quanto riguarda l'adeguatezza patrimoniale, lo scambio di informazioni fra le autorità di vigilanza delle differenti componenti del gruppo, la possibilità che le autorità di vigilanza dispongano dei poteri necessari per ottenere informazioni sulla struttura giuridica e manageriale dei gruppi e, al limite, per proibire strutture di gruppo che siano di ostacolo a una vigilanza adeguata. Uno dei problemi attualmente all'attenzione del joint forum è quello dell'opportunità o meno di individuare nel conglomerato un lead regulator, cioè un'autorità che abbia poteri di coordinamento e, se del caso, di regolamentazione e di intervento, sulle differenti entità finanziarie (banche, società di intermediazione mobiliare, compagnie di assicurazione) che compongono il conglomerato. INCENTIVI PIÙ CHE ORDINI
Si è verificato, negli ultimi anni, un importante cambiamento nella filoso-
fia del Comitato di Basilea. Anziché imporre. agli operatori bancari regole amministrative vincolanti, il Comitato ha cercato di agevolare un tipo di regolamentazione che fosse quanto pii possibile vicino alle esigenze del mercato, una regolamentazione "market Jriendly", che crea incentivi piuttosto che dettare ordini. Un primo esempio di questo cambiamento si rinviene nel documento, emesso dal Comitato ne! luglio 1994 relativo ai prodotti derivati. Il documento infatti è basato su alcuni principi che valorizzano, anziché l'intervento esterno dell'autorità, l'autonoma capacità di gestione delle banche; i principi ai quali si fa riferimento sono infatti un controllo adeguato da parte della dirigenza della banca, una gestione efficiente del rischio, controlli interni efficaci e procedure di revisione contabile: tutti strumenti, come si vede, di autoregolamentazione e non imposti da una autorità esterna. Il rafforzamento dei controlli interni delle istituzioni creditizie è auspicato dal Comitato anche in relazione a recenti episodi che hanno portato al dissesto o a rilevanti perdite di istituzioni bancarie (Barings, Daiwa Bank) e si applica, non solo al settore dei prodotti derivati, ma anche all'attività tradizionale di intermediazione mobiliare e, in generale, all'attività bancaria nel suo complesso. Occorre, in altre parole, che la banca sia attrezzata al suo interno per valutare con accuratezza tut-
ta la gamma di rischi cui è esposta nello svolgimento della propria attività. Una applicazione particolare, ma di estremo interesse, del principio della valorizzazione dei controlli interni è quella, già vista in precedenza, dei modelli interni di misurazione e valutazione del rischio di mercato. È di tutta evidenza la considerazione che, con i loro modelli, le banche godono di una maggiore autonomia gestionale, senza essere quindi sottoposte a regole vincolanti delle autorità, ma nello stesso tempo sono condizionate dalla valutazione del mercato, che reagirebbe negativamente a cattive performance dei modelli. Un ultimo esempio di regolamentazione market friendly è quella che riguarda l'informativa al mercato della situazione finanziaria della banca. Contrariamente a concezioni del passato che privilegiavano la riservatezza, ritenendosi che una trasparenza troppo pronunciata sui dati di bilancio della banca fosse dannosa per la banca stessa, si va facendo strada ora la convinzione che l'informativa pubblica di dati riguardanti le banche sia un elemento decisivo per rafforzare la disciplina di mercato. L'esigenza di maggiore trasparenza è particolarmente evidente nel campo della negoziazione di prodotti derivati in cui l'informativa al pubblico è estremamente dissimile da un ente a un altro. Consapevole di tale esigenza il Comitato di Basilea ha fornito una
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serie di raccomandazioni per un miglioramento dell'informazione, sia qualitativa che quantitativa, relativa alle attività di negoziazione in generale, e ai prodotti derivati in particolare. I dati che dovrebbero essere resi noti al pubblico riguardano l'esposizione ai rischi di credito, di mercato e di liquidità come pure quanta parte dei profitti della banca sia attribuibile alle attività di negoziazione. IL PIANO GEOGRAFICO DI VIGILANZA
Le regole e i principi elaborati dal Comitato di Basilea non sono rimasti limitati all'ambito dei Paesi del Gruppo dei Dieci. Fin dai primi anni del suo operare, il Comitato ha intensificato i propri sforzi per rendere partecipi di tali regole e principi un più vasto numero di interlocutori a livello mondiale. Quest'opera di diffusione si è realizzata, essenzialmente, su1 piano geografico" nei confronti delle autorità di vigilanza bancaria al di fuori dei Paesi del Gruppo dei Dieci ma, nel periodo più recente, ha riguardato anche aspetti funzionali e istituzionali, coinvolgendo cioè autorità di vigilanza di settori diversi da quello bancario. Tratterò prima quest'ultimo aspetto, per ritornare poi alla dimensione geografica. È fenomeno abbastanza recente, ma ormai assai diffuso, lo svolgimento dello stesso tipo di attività da parte di operatori appartenenti a set' 6
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tori tradizionalmente separati. È il caso dell'operatività in titoli, che costituisce l'attività tipica delle società di intermediazione mobiliare ma che è svolta tradizionalmente anche dalle banche nei Paesi che si ispirano alla concezione della banca universale. Si pensi inoltre a certe forme di capitalizzazione finanziaria, offerte dalle compagnie di assicurazione del ramo vita, che non si distinguono praticamente dai prodotti tipici delle banche quali i depositi bancari. Il Comitato di Basilea, già dalla fine degli anni Ottanta, ha preso contatto con lo lOSCO per sviluppare un'azione congiunta avente come obiettivo finale quello di applicare agli enti sottoposti alla rispettiva vigilanza regolamentazioni identiche, o per lo meno simili, per lo stesso tipo di attività, e in particolare requisiti patrimoniali comuni per i rischi di mercato cui sono soggette le banche al pari degli operatori in valori mobiliari. Tale azione è sfociata in numerose iniziative comuni in tema di prodotti derivati, (definizione di linee-guida per la gestione dei rischi, segnalazioni statistiche e informativa al pubblico) ed ha avuto di recente ulteriore impulso con l'invito rivolto dal vertice G-7 di Haifax al Comitato di Basilea e allo losCo a unire i loro sforzi per realizzare iniziative volte a rafforzare la stabilità del sistema finanziario internazionale. Il traguardo di più immediata realizzazione in questa materia è costituito da
una regolamentazione del rischio di mercato che estenda anche alle principali società di intermediazione mobiliare (in particolare le investment banks americane e le securities houses giapponesi) i requisiti patrimoniali adottati per le banche (v. supra) e che, quindi, colmi in questa delicata materia uno dei principali squilibri concorrenziali che ancora rimangono. Le medesime esigenze di realizzazione di un "level playing field" ispirano anche i recenti contatti con le autorità assicurative raggruppate nell'IMS e costituiscono, del resto, uno dei principali filoni di analisi del jointforum che si occupa delle problematiche dei conglomerati finanziari (v. supra). Ritorno ora alla dimensione geografica. Fin dagli inizi della sua attività, il Comitato di Basilea si è sforzato di rendere partecipi dei principi elaborati nel suo ambito il maggior numero di Paesi a livello mondiale. Questa esigenza si è via via fatta sentire in maniera più viva, col passare degli anni, al crescere dell'attività internazionale svolta dalle banche dei principali Paesi industrializzati e al progredire del fenomeno della globalizzazione dei mercati. Un'indagine condotta dal Comitato di Basilea circa due anni fa sul grado di apertura dei sistemi bancari mostra, infatti, che insediamenti di banche con sede centrale nei Paesi del Gruppo dei Dieci sono presenti nell'87 per cento dei Paesi rappresentati nella Conferenza, mentre il 75%
degli stessi Paesi segnala di essere presente con insediamenti bancari all'estero (Padoa-Schioppa, 1994). Gli interlocutori privilegiati del Comitato di Basilea sono i gruppi regionali di autorità, costituiti sulla base della localizzazione geografica. Il Comitato ha sempre alimentato il dialogo con i gruppi esistenti e incoraggiato la formazione di nuovi gruppi. Attualmente sono costituiti 10 gruppi, che comprendono più di 120 Paesi 2 Alcuni gruppi regionali sono strutturati secondo la falsariga del Comitato di Basilea, con un Segretariato permanente, altri hanno una struttura più semplice: ma tutti i gruppi hanno iniziato la loro attività assumendo come base i principi già adottati dal Comitato di Basilea, il quale a sua volta ha prestato la propria assistenza, sia fornendo documentazione, sia partecipando con propri membri alle riunioni dei gruppi regionali. Riunioni congiunte fra il Comitato di Basilea e i presidenti dei gruppi regionali sono organizzate periodicamente, per la discussione ditemi di comune interesse. Un'altra occasione di incontro e di diffusione dei propri principi di vigilanza è costituita dalle conferenze internazionali, che vengono organizzate ogni due anni congiuntamente dal Comitato di Basilea e da un Paese ospitante. Le conferenze costituiscono uno snodo essenziale nel processo di cooperazione, e difatti hanno rappresentato il momento in cui alcuni dei .
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principi concepiti a Basilea hanno ricevuto l'avallo e l'accettazione formale dei Paesi al di fuori del gruppo dei Dieci, vuoi i principi del Concordato del 1983, vuoi l'Accordo sul capitale del 1988. Sono state finora organizzate Otto conferenze: la prima si è tenuta a Londra, neI 1979; la prossima (la nona della serie) si svolgerà a Stoccolma sotto l'egida delle autorità di vigilanza svedesi. Il Comitato di Basilea svolge un ruolo importante nell'opera di addestramento e di sensibilizzazione delle autorità di vigilanza dei Paesi al di fuori del Gruppo dei Dieci, fornendo documentazione, promuovendo corsi di addestramento e di formazione del personale agli organi di vigilanza, offrendo in generale assistenza tecnica tramite il Segretariato. I
PRO E CONTRO DEI NUOVI CENTRI
FINANZIARI
La circostanza che i principi del Comitato siano condivisi a livello mondiale ha importanza sia per quanto riguarda la vigilanza dell'"international banking" (cioè dei gruppi bancari con insediamenti all'estero), che è all'origine stessa del Comitato, sia per i riflessi sul domestic banking (cioè sul sistema di vigilanza che ogni Paese applica alle proprie banche nazionali). Su entrambi questi fronti è concentrata, attualmente, l'attenzione del Comitato. Per quanto riguarda la vigilan62
za sull'attività bancaria internazionale, si è già ricordato l'importante traguardo degli standard minimi condivisi ormai dalla maggioranza dei Paesi. Lo sforzo del Comitato è rivolto ora all'affinamento e all'effettivo rispetto degli standard, al di là dell'adesione formale, che può risultare in una mera dichiarazione di principio senza un effettivo riscontro nella realtà. Un pericolo concreto ed attuale è costituito dalla proliferazione di nuovi centri finanziari, che offrono alle banche che ivi si insediano vantaggi di vario genere, quali un regime fiscale più favorevole o addirittura l'assenza di tassazione sulle transazioni finanziarie e un regime molto rigido di segretezza. Tale situazione, se generalizzata, costituirebbe un serio ostacolo allo svolgimento, da parte delle autorità della casa madre bancaria con insediamenti in tali centri, della vigilanza su base consolidata, per il cui effettivo esercizio sono necessari sia un libero flusso di informazioni sia la necessità di verificare, se del caso anche con ispezioni in loco, l'esattezza delle informazioni fornite. I nuovi centri costituiscono un pericolo, in termini di perdita di clientela, anche per i centri off-shore già esistenti, i quali svolgono un'operatività ormai collaudata e si stanno già impegnando a rispettare gli standard minimi e a non frapporre ostacoli all'esercizio della vigilanza consolidata delle autorità della casa madre.
Per tale motivo, i! Comitato di Basilea e il gruppo delle autorità off-shore hanno assunto un'iniziativa comune, volta a facilitare quanto più possibile lo scambio di informazioni di natura prudenziale e la loro verifica attraverso strumenti di vario tipo, fra i quali gli accertamenti ispettivi. Una componente essenziale di tale progetto, che sarà discusso in dettaglio alla prossima conferenza internazionale di Stoccolma, è l'impegno all'abbandono, in tempi ragionevolmente brevi, di legislazioni restrittive in materia di segreto bancario e a non opporre comunque il segreto alle autorità di vigilanza estere. Indipendentemente dalla vigilanza sugli insediamenti di banche internazionali, il Comitato ritiene che sia essenziale il controllo esercitato da ciascuna
autorità sulle proprie banche domestiche, in altre parole, la qualità della vigilanza all'interno de! Paese. Al di là del diverso grado di sviluppo dei sistemi bancari, dell'influenza del settore pubblico sull'economia, dell'operare o meno nei singoli ordinamenti delle forze del mercato, esistono dei principi di base che le autorità di vigilanza di ogni Paese devono rispettare: cito soio come esempi un'adeguata dotazione patrimoniale, controlli interni, un sistema di principi contabili idonei a rappresentare la realtà aziendale, un sistema di segnalazioni statistiche affidabile. Il rafforzamento degli standard prudenziali in ogni Paese è un ulteriore mezzo per raggiungere lo scopo, perseguito dal Comitato, dell'affidabilità del sistema finanziario a livello globale.
BANCA D'ITALIA, Bollettino Economico, n. 22, febbraio 1994. Tommaso Padoa-Schioppa, "Opening remarks and Address to the Conference", 8th International Conference of Banking Supervisors, Vienna, 12-13 ottobre 1994 in Banca d'Italia, Documenti, n. 459, novembre 1994 International Banking Survey, «The Economist», 27 aprile-3 maggio 1996, pagg. 67 e segg. I Il Gruppo dei Dieci (G-10), costituito nel 1962 nell'ambito di facilitazioni finanziarie concordate all'epoca a favore del Fondo monetario internazionale, rappresenta i seguenti Paesi: Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti. Del Comitato di Basilea fanno parte anche Lussemburgo e Svizzera. Il Comitato ha sede presso la Banca dei Re-
golamenti internazionali in Basilea e si avvale di un Segretariato composto principalmente da personale distaccato temporaneamente dai Paesi membri. Presidente del Comitato è Tommaso PadoaSchioppa, Vice Direttore Generale della Banca d'Italia. 2 Se si escludono i Paesi della Comunità europea non rappresentati a Basilea, si annoverano fra i gruppi regionali esistenti il gruppo delle autorità off-shore, due gruppi africani, due comprendenti i Paesi arabi, i Paesi dell'Est europeo, il Sud est asiatico, la Transcaucasia, i Paesi del sud America. Fra tali gruppi, il solo gruppo offshore prescinde dalla localizzazione geografica e si caratterizza invece per il tipo di attività bancaria (offihore, appunto) condotta dalle banche del gruppo. 63
Globalizzazione e localismo. Un'indagine sui giovani politici della Lega Nord di Dav idBogi*
Questo articolo presenta alcuni risultati della ricerca "La classe politica prossima ventura "in corso di svolgimento presso il centro Interuniversitario di Sociologia Politica (Ciuspo), con finanziamento MuRsr 40%, diretta dal Prof Gianfranco Bettin.
Le innovazioni tecnologiche, le nuove infrastrutture di comunicazione e di telecomunicazione, l'enorme aumento della facilità e della capacità di circolazione delle informazioni, la liberalizzazione dei mercati e dei capitali, in poche parole la mondializzazione dell'economia, stanno portando una seria sfida al modello di Stato-nazione. Kenichi Omahe (Cfr. K. Omahe, La fine dello Stato-nazione, Baldini & Castoldi, 1996) ha recentemente evidenziato come gli Stati-nazione siano ormai divenuti macchine troppo costose e con gravi difficoltà ad influenzare i flussi dell'attività economica e destinati quindi ad essere superati da nuovi poli di sviluppo: gli Stati -regione, le cui caratteristiche fondamentali sono una dimensione e rapporti sovranazionali, una cultura omogenea, una * Ricercatore presso il Centro Interuniversitario di Sociologia Politica (Ciuspo).
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non troppo ampia estensione territoriale (popolazione media fra i 5 e i 20 milioni di abitanti) ed una vitalità direttamente proporzionale alla libertà ed alla non connessione a referenti centrali e centralistici. Gli Stati-regione nascono all'interno degli Stati-nazione e si ricollegano ad altre entità omologhe agendo nell'ottica dell'economia globale e non in quella dell'economia nazionale costituendo, in una parola, le unità di base del nuovo mercato globale. Il motore che ha spinto il fiorire di tali entità e delle istanze autonomiste ad esse connesse è prevalentemente di natura economica ed affonda le proprie radici nella progressiva ed inesorabile alterazione degli equilibri e delle dinamiche economiche fondamentali, man mano che le logiche di politica economica sono divenute sempre più integrate, complesse, globali. La rivendicazione di una maggiore autonomia (che si spinge in alcuni casi fino alla richiesta di un auto-governo) emerge, infatti, a seguito della consapevolezza della propria sostanziale solidità economica, della maggiore capacità produttiva e contributiva e so-
prattutto a causa del rifiuto di partecipare a politiche di redistribuzione delle risorse a favore delle aree meno sviluppate del proprio Paese nel nome di una solidarietà nazionale che viene vissuta come una sorta di esproprio legalizzato piuttosto che come dovere di cittadinanza. Forzando un poco il ragionamento, si potrebbe assimilare il fenomeno appena descritto ad un fenomeno non analogo ma sicuramente affine che, alterando la dinamica dei rapporti fra gruppi, classi e categorie di individui, ha finito inevitabilmente per modificare la struttura ed il tessuto sociale di alcuni dei maggiori Paesi industrializzati dell'Occidente. Ci riferiamo ad un processo evolutivo complesso ed articolato che, partendo da un aumento sostanziale della polarizzazione economica ha prodotto una più netta stratificazione sociale su base territoriale e, in un secondo tempo, una sorta di secessione privilegiata e cioè la progressiva e crescente aspirazione, da parte delle classi a più alto reddito, ad organizzare la propria vita, sia pubblica che privata, in modo del tutto autonomo. Il tentativo di tradurre divisioni e disuguaglianze di carattere economico in divisioni di carattere territoriale costituisce, in effetti, uno dei motori principali delle spinte autonomiste e separatiste sorte e diffusesi in ormai un numero sempre crescente di regioni ed aree geografiche.
La Lega Nord, il più importante fenomeno autonomista italiano, sembra rientrare a pieno nella fattispecie sin qui descritta; in quest'ottica appare opportuno considerarlo come manifestazione di un fenomeno complessivo, di un trend di carattere sovranazionale, globale, piuttosto che come un'esperienza a se stante, tipicamente italiana. La ricerca che segue, sebbene focalizzata sullo studio di un aspetto abbastanza specifico del movimento Lega Nord, le forme ed i modi dell'attivismo e della partecipazione politica dei giovani parlamentari del partito di Bossi, fornisce comunque alcune utili indicazioni e spunti di approfondimento anche nell'ottica di un'analisi comparata dei diversi movimenti e fenomeni autonomisti. Studiare la "nascita", i criteri di formazione, di reclutamento ed il tipo di militanza che hanno contraddistinto e contraddistinguono l'élite in pectore del movimento, può inoltre contribuire a prefigurare alcune delle nuove tensioni di sviluppo e linee evolutive del fenomeno nel nostro Paese. I
GIOVANI NEI NUOVI PARTITI
La storia dell'Italia repubblicana ha visto i partiti svolgere un ruolo centrale nella funzione di reclutamento, formazione e professionalizzazione della classe politica e parlamentare. Fra i va-. ri meccanismi di reclutamento posti in essere nel corso degli anni è possi-
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bile individuarne due principali, attivati dai due maggiori partiti del dopoguerra. Il primo, facente capo all'exPci e più affine ad un modello di apparato puro, vedeva il partito come l'attore dominante fin dalla fase di socializzazione politica primaria e si realizzava attraverso una fitta serie di controlli diretti ed indiretti, che segnavano la formazione del personale politico di base, intermedio e dirigente. La seconda modalità, tipica della Dc, era più vicina al modello partitico-clientelare, in quanto la formazione della classe dirigente e dell'élite parlamentare avveniva attraverso un percorso meno rigido all'interno dell'apparato e tramite l'acquisizione di requisiti di diversa natura (cariche partitico-sindacali, amministrative locali, associative ecc.). In questo complesso processo di reclutamento, formazione e professionalizzazione del personale politico, una parte certamente non secondaria è stata giocata dalle organizzazioni giovanili di partito e dalle altre realtà dell'attivismo politico giovanile esistenti a latere del mondo politico professionale. L'esperienza in organizzazioni giovanili ha costituito, infatti, per una quota consistente di dirigenti di partito affermatisi nel corso della "Prima Repubblica", un importante periodo formativo ai fini del proseguimento dell'attività e dell'impegno politici nell'età adulta. In questo particolare tipo di militanza venivano trasmessi e appresi gli stru66
menti con cui leggere, decodificare ed affrontare la vita politica attiva. È in questa fase che i giovani attivisti, futuri leader, hanno iniziato ad interiorizzare i valori del partito di riferimento, a sviluppare solide lealtà personali e ad acquisire quel repertorio di tecniche e logiche di relazione e di comportamento che vanno a comporre un certo tipo di "professionalità politica". Una volta portato a compimento il proprio tragitto formativo, raggiunto un livello adeguato di maturazione e superati con successo alcuni importanti riti di passaggio tipici della vita di partito, i giovani attivisti più preparati e sui quali i leader riponevano le maggiori aspettative, venivano avviati ad una vera e propria carriera nell'ambito dei rispettivi partiti. Dopo aver ricoperto alcuni incarichi di rilievo locale (all'interno del partito oppure in assemblee ed organismi rappresentativi di vario genere), ci si affacciava solitamente alla dimensione organizzativa nazionale e si assurgeva, quindi, ad incarichi all'interno degli organismi nazionali di partito e, col tempo, ad una candidatura alla Regione o in Parlamento, in collegi più o meno sicuri. Una convalida di questo itinerario comune alla media dei politici professionali proviene dall'esame della composizione degli organismi dirigenti nazionali dei più importanti movimenti politici giovanili a partire dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri. È un dato di fatto facilmente riscontrabile
che gran parte dei loro componenti abbiano, in seguito, ricoperto ruoii dirigenziali o di !eadership all'interno dei rispettivi "partiti degli adulti". Una recente ricerca 1 ha, d'altra parte, posto in evidenza come quasi un terzo (30,6%) dei parlamentari dell'XI legislatura abbia ricoperto ruoli di leadership locale o nazionale nell'ambito delle organizzazioni giovanili dei propri partiti di appartenenza. Se questo particolare percorso pare aver contraddistinto le carriere di una parte consistente degli uomini politici della cosiddetta "Prima Repubblica", la rivoluzione italiana che ha preso le mosse dall'inchiesta della magistratura milanese sulla corruzione iniziata nel febbraio 1992 e che ha brutalmente investito il sistema politico italiano, alterandone gli equilibri ed i connotati di fondo, sembra aver introdotto, fra le altre e più radicali trasformazioni, nuove e maggiori opportunità di partecipazione e di impegno per i giovani e differenti modelli di carriera politica. Movimenti di recente formazione come Lega e come Forza Italia, sorti in risposta alla profonda crisi che ha colpito i partiti tradizionali, hanno posto in essere, infatti, nuovi modelli di reclutamento ed hanno scelto di investire su un personale politico in gran parte privo di precedenti esperienze. In quest'ottica ed anche con il fine di evidenziare l'invenzione e l'uso di nuovi meccanismi di selezione, si è deciso di coinvolgere direttamente le
giovani generazioni attraverso le strutture dei partito e di non dare vita a veri e propri movimenti giovanili, strutturati ed autonomi come avveniva per i! passato. I giovani militanti in queste nuove formazioni hanno avuto, quindi, l'opportunità di affacciarsi alla politica attiva senza scontare un periodo di formazione preliminare e con la motivazione principale di essere nuovi a questo tipo di esperienza. I parlamentari in giovane età che, nella XII legislatura hanno ingrossato, alla Camera, le fila dei gruppi della Lega Nord e, in misura minore, di Forza Italia, sono la manifestazione di una spinta evolutiva che presenta aspetti sicuramente positivi ed altri, per certi versi, problematici. Se l'aumento delle opportunità partecipative e di carriera offerte ai giovani è da valutare positivamente, la stessa cosa non si può dire del fatto che essi intraprendano questo tipo di impegno senza avere maturato una competenza particolare da acquisire attraverso un percorso graduale compiuto nelle file di un'istituzione, come il partito, che ha svolto una funzione cruciale di socializzazione della classe politica nazionale per quasi mezzo secolo. Nel vasto e variegato panorama dell'attivismo politico giovanile, i giovani della Lega Nord costituiscono un oggetto di studio particolarmente stimolante, sia in quanto all'interno di questo movimento si registra una quota in rappresentanza delle giovani genera67
zioni particolarmente elevata (molto più alta rispetto alle altre formazioni politiche e soprattutto omogeneamente distribuita nei diversi livelli organizzativi), sia a causa del tipo particolare di militanza che i giovani attivisti della Lega tendono a realizzare. L'analisi che segue utilizza, oltre ad alcune ricerche sulla condizione giovanile in Italia, sui giovani attivisti politici e sui giovani militanti della Lega in particolare, una serie di dati originali rilevati attraverso due differenti indagini effettuate la prima fra il giugno 1993 ed il gennaio 1994 e la seconda fra il gennaio e l'aprile 19952. CHI SONO I GIOVANI LEGHISTI?
Nell'indagine IARD sulla condizione giovanile in Italia svoltasi nel febbraio 1992, i giovani che hanno manifestato la propria intenzione di votare Lega sono risultati pari al 15% circa dei componenti il campione, più o meno la stessa percentuale ha espresso la propria preferenza per il PDs e poco più della metà (8% circa) si sono dichiarati vicini alla Dc. Dato che le percentuali di consenso della popolazione adulta nei confronti della Lega nel corso delle elezioni dell'aprile 1992 e del marzo 1994, valutate sulla base dei risultati elettorali relativi al Senato, si aggirano intorno al 7-8%, si può avanzare l'ipotesi di una certa sovrarappresentazione giovanile nell'elettorato leghista rispetto agli adulti. 68
La struttura per età con una tendenziale forte presenza di classi di età basse e centrali non contraddistingue, in realtà, soltanto l'elettorato leghista ma si estende anche ai militanti ed a coloro che sono impegnati attivamente nel movimento ai vari livelli. Un esempio significativo è costituito dal gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera dei Deputati: sulla base di un gruppo parlamentare di 116 deputati ve ne sono, infatti, ben 26 con un'età inferiore ai 35 anni, il 22,5% del totale. Questo dato acquista ulteriore rilevanza se paragonato con le percentuali di presenza giovanile riscontrate nei gruppi parlamentari degli altri partiti (in AN i giovani compresi ne1 medesimo limite d'età sono il 4,5%, nel PPI il 3%, in Forza Italia il 13,3%, nei Progressisti Federativi il 3,6%, in Rifondazione Comunista il 2,5%, nel Centro Cristiano Democratico il 3,7% e nel Gruppo Misto il 3,5%)3. Una elevata percentuale di giovani componenti, nettamente superiore a quelle espresse dalle altre forze politiche, contraddistingue anche il gruppo consiliare della Lega al Consiglio Comunale di Milano. Se si prendono in considerazione, infine, i consiglieri comunali eletti in Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria nelle liste della Lega e delle altre formazioni politiche nel corso delle consultazioni elettorali amministrative del 19904, emerge, fra i consiglieri comunali leghisti delle Regioni in questione, una marcata
presenza di giovani al di sotto dei trent'anni (circa il 30%), in netta controtendenza rispetto alle altre forze politiche (Dc 14%; Psi 5%; PCI 9%; Verdi 21%; Altri 10%). All'elevata presenza di giovani fra gli esponenti della Lega eletti in assemblee rappresentative di varia natura e rilevanza, corrisponde un'altrettanto nutrita rappresentanza giovanile fra i candidati nelle liste elettorali relative a questi stessi organi. Per quanto riguarda le candidature presentate alle elezioni politiche del 1994, la Lega si conferma, come era già emerso nella XI legislatura, la formazione politica più "giovane": quasi i! 23% dei suoi candidati (22,4%) sono compresi nella fascia d'età più bassa (18-35 anni). In tale fascia d'età, in particolare, il movimento di Bossi ha presentato un numero di candidati almeno doppio di quello delle altre formazioni politiche (ad eccezione di Forza Italia, che ha accolto nelle proprie liste un 12,5% di candidati non ancora trentacinquenni). I partiti politici con una presenza parlamentare maggiormente strutturata e consolidata (PDS, Pi ed AN), invece, hanno puntato soprattutto sulla fascia d'età centrale (46-55 anni) 5 . La composizione delle liste elettorali della Lega Nord in alcune province della Lombardia (per l'esattezza nei Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti delle province di Bergamo, Brescia e Varese) in occasione delle consultazioni elettorali
amministrative de! 19906 conferma ulteriormente come, fra i criteri di reclutamento dei candidati del movimento, la giovane età ed il ricambio generazionale siano particolarmente importanti. Ben il 50% dei candidati leghisti presi in considerazione risultano oscillare fra un minimo di 19 anni ed un massimo di 34 anni; mentre i candidati con età inferiore ai 24 anni coprono il 20% circa dei posti disponibili. Anche l'esame dei quadri dirigenti dei partito fornisce risultati che si allineano sostanzialmente alle indicazioni emerse fino a questo punto. Il Consiglio Federale, massimo organo direttivo del movimento, ad esempio, vede la presenza di ben 6 giovani al di sotto dei 35 anni su un totale di 26 membri. Alla base di una così elevata presenza giovanile nelle fila del movimento a differenti livelli organizzativi e all'interno di differenti ambiti rappresentativi sembrano esservi alcune ragioni specifiche. Innanzitutto il tipo di coinvolgimento offerto e proposto dal movimento di Umberto Bossi come effetto di un progetto politico di trasformazione radicale del sistema. Si tratta di un tipo di coinvolgimento non mirato a singoli temi ma tendente a proporre un principio di identificazione forte, totalizzante e proiettato verso un'innovazione politica sostanziale. Sembra operare con efficacia, anche in questo caso, un principio noto sia agli studiosi delle crisi politiche 69
sia ai leader abili: quanto più una visione del sistema politico risulta essere semplificata, maggiore è la sua forza di mobilitazione. Sotto questo profilo, ma soltanto sotto questo profilo, la Lega è stata paragonata ai partiti fascisti del primo dopoguerra 7 . Anche questi, infatti, furono dei late comers politici e per questa ragione raccolsero consensi tra le aree marginali e giovanili dell'elettorato non ancora colonizzate dai partiti di massa allora in espansione. Una seconda considerazione rinvia, invece, alla struttura organizzativa interna della Lega. Il basso livello di presenza di giovani nell'ambito degli attivisti, dei candidati, degli eletti e dei simpatizzanti dei partiti tradizionali, può venir interpretato come un segnale eloquente della crisi della funzione di rappresentanza politica da parte di queste organizzazioni partitiche, ovvero come un indice di un loro avanzato processo di notabilizzazione. Il numero cospicuo di giovani presenti nel partito di Bossi sembra invece riconducibile al progetto di costruzione di un'organizzazione fortemente centralizzata portata avanti con decisione. In terzo luogo, le forti connotazioni "giovanilistiche" evidenziate nel profilo socio-anagrafico degli attivisti leghisti vanno rapportate ai caratteri di rapida affermazione di questo movimento. Una formazione politica nuova, che ottiene in modo repentino un sensibile e diffuso successo elettorale e che in modo altret70
tanto veloce si trova a coprire degli spazi istituzionali anche in aree territoriali con scarsa o nulla presenza organizzativa, tende, in modo naturale, a non sottostare inizialmente ad alcune delle leggi che modellano nel tempo,.e in una forma tendenzialmente rigida, il profilo sociale degli attivisti degli altri partiti. Non si devono dimenticare, inoltre, le esigenze di netta differenziazione dalle altre forze politiche che da sempre hanno animato l'azione ed i contenuti politici della Lega. Il partito di Bossi, infatti, fa il proprio ingresso in un panorama politico nel quale la precedente esperienza organizzativa e la formazione personale all'interno della struttura partitica di appartenenza costituivano gli atout fondamentali per superare i vari processi selettivi che scandivano i gradini di una carriera politica. In un sistema siffatto le possibilità per un giovane di bruciare le tappe e raggiungere importanti traguardi quali la collocazione in organismi direttivi di partito oppure in liste elettorali, se non addirittura l'elezione in organi rappresentativi, locali o nazionali, erano minime. Oltre a questo dato di fondo, emergono dall'analisi sociografica del nostro campione ulteriori elementi di specificità dell'universo politico leghista. Se si confronta, all'interno dei vari organismi presi in considerazione, la presenza femminile con quella maschile si nota il permanere di una sensibile disparità di rappresentanza quantitati-
va su base di genere. Sia all'interno del gruppo parlamentare della Lega alla Camera (23%) che all'interno del gruppo consiliare al Consiglio Comunale di Milano (18%), che all'interno del Consiglio Federale (totale assenza di giovani donne al di sotto dei 35 anni), le giovani risultano sottorappresentate rispetto ai maschi. Tale sottorappresentazione, che sembra persino più marcata di quanto non sia nelle componenti giovanili delle altre principali forze politiche, configura, ancora oggi, l'appartenenza di genere come un fattore influenzante il percorso degli individui che intendono affacciarsi alla vita politica attiva. Nonostante gli evidenti passi avanti compiuti dal processo di emancipazione femminile negli ultimi decenni, la partecipazione politica femminile e le conseguenti possibilità di carriera politica delle donne sembrano essere, nel nostro Paese, tuttora inferiori rispetto a quelle degli uomini. Se persino una formazione politica recente, sorta in aperta opposizione alle forze politiche tradizionali e tendente a concedere ampi spazi partecipativi a figure sociali tradizionalmente periferiche come i giovani, non ha invertito tale tendenza, allora significa che essa ha radici profonde che affondano nelle dinamiche che regolano i rapporti fra i principali gruppi e nuclei presenti nella nostra struttura sociale, oltre che in una concezione della politica che è difficile da innovare.
Per ciò che concerne la qualifica professionale dei giovani attivisti intervistati già inseriti nel mondo del lavoro, la maggior parte svolge l'attività di libero professionista o comunque si qualifica come lavoratore autonomo. I giovani membri del gruppo parlamentare della Lega alla Camera, ad esempio, sono nella maggior parte liberi professionisti od imprenditori 8 . Questo dato sembra ricollegarsi alle caratteristiche generali presentate non solo dai militanti e dai candidati adulti del movimento ma anche dalla sua base sociale di riferimento. Le ricerche esistenti9 infatti, configurano tale base sociale come composta in maggioranza da individui appartenenti ai ceti produttivi autonomi ed indipendenti ed alle libere professioni. Le interpretazioni prevalenti a questo riguardo insistono sulla insofferenza, diffusa in questi gruppi sociali, nei confronti di uno Stato centrale inefficiente e che ha chiesto molto ma non è riuscito ad assicurare servizi adeguati al prelievo fiscale praticat&°: si tratterebbe, in sostanza, di una sorta di protesta modernizzante. Per altri, invece le ragioni sarebbero da cercare nel rifiuto di sobbarcarsi ulteriormente il costo di un Meridione incapace di sviluppo autonomo e nella rivendicazione di un'autonomia fiscale ed impositiva oltre che produttiva!!. In un caso o nell'altro l'attenzione è centrata su un sentimento generalizzato di sfiducia verso la classe politide verso le forze politi,
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che tradizionali. Non altrettanto esplorata, tuttavia, è stata un'altra, e in parte diversa, linea interpretativa secondo la quale la protesta di questi ceti potrebbe venir ricondotta alle difficoltà da essi incontrate nel corso della seconda parte degli anni Ottanta a causa di un incremento della pressione fiscale ma anche a causa di una mutata congiuntura politica. Secondo questa interpretazione la motivazione della protesta non sarebbe nata da una spinta modernizzante ma dalla sensazione che i partiti tradizionali non fossero più disposti a continuare la politica di protezione nei loro confronti che precedentemente avevano condotto. Di qui la promozione di un personale politico a loro omogeneo. Si può approfondire, infine, un ultimo aspetto, relativo al percorso di formazione dei giovani parlamentari oggetto della presente indagine e di grande importanza nella strutturazione delle opinioni, degli atteggiamenti politici e della percezione della politica da parte degli individui: le condizioni familiari di socializzazione politica. Sebbene la maggior parte dei genitori dei giovani politici intervistati (7 1%) non si sia mai interessato attivamente di politica, alcuni importanti indicatori depongono a favore dello svolgimento di una rilevante funzione di socializzazione politica della famiglia nei confronti dei componenti il campione della nostra ricerca. Innanzitutto l'ele72
vata omogeneità delle opinioni politiche dei genitori a quelle dei figli. Quasi la totalità dei genitori dei parlamentari presi in considerazione (95%) colloca le proprie opinioni politiche, nell'ambito del continuum destra-sinistra, al centro od al centro-destra. Ma, soprattutto, il 92,5% di essi condividono le posizioni dei propri figli 12 Si consideri poi l'opinione espressa dai giovani parlamentari leghisti riguardo all'influenza esercitata dalle opinioni politiche dei genitori sulla formazione dei propri valori politici di riferimento. Circa due terzi del campione (65%) ritiene che tale influenza sia stata consistente ed abbia svolto una funzione di indirizzo fondamentale. A detta dei giovani politici leghisti, la reazione che i genitori hanno avuto a seguito della loro decisione di occuparsi di politica attivamente sono state per lo più di "apprezzamento" e "consenso" (57%); anche se si rileva un discreto numero di reazioni di "indifferenza" (43%), risultano essere totalmente assenti reazioni sfavorevoli alla decisione dei figli. .
Le motivazioni all'inizio dell'attività politica La volontà di rottura con il passato ed il desiderio di cambiamento e di miglioramento delle condizioni in cui versa il sistema politico italiano viene indicato come incentivo prioritario all'ingresso in politica. Per l'esattezza il 38% dei giovani intervistati ha for-
nito una risposta di questo tenore confermando, sostanzialmente, lo spirito guida del movimento, teso a combattere ed a distinguersi dalle preesistenti culture politiche e dal preesistente modo di fare politica. Anche la precedente esperienza in associazioni non politiche sembra inserirsi nella genesi della scelta di dedicarsi alla politica attiva. Indagando sulle esperienze di partecipazione sociale svolte dagli intervistati prima di aderire al movimento, infatti, si colgono due aspetti ricorrenti: a) un'elevata presenza nel tessuto associativo; b) un basso grado di contiguità con la politica. Solo una frazione minima dei giovani attivisti leghisti intervistati (12%) dichiara di non aver partecipato alla vita di alcuna associazione prima dell'adesione al movimento di Bossi. L'impegno nella Lega, dunque, pare affiorare dalla rete dell'associazionismo volontario, che ha costituito, per gli interessati, un'esperienza significativa. Le associazioni volontarie, sostengono molti degli intervistati, si presentano come un modo diverso di partecipare alla vita sociale. Ben inseriti nel contesto comunitario e particolarmente disponibili alla mobilitazione ed all'impegno, i giovani politici leghisti paiono portatori di una domanda di partecipazione che si è scontrata con l'impermeabilità e la chiusura dei partiti e delle organizzazioni politiche e li ha costretti a muoversi esternamente ad esse.
Tra le fonti di incitamento all'inizio dell'attività politica viene sottolineato il ruolo rilevante svolto da eventi elettorali o di partito (nel 16% dei casi), ma soprattutto l'attaccamento ad una figura esemplare ed il rapporto diretto con un leader che, nella maggioranza dei casi, si identifica con Umberto Bossi: il 23% degli attivisti intervistati afferma di essere stato affascinato in maniera decisiva dalla personalità e dalle coraggiose posizioni politiche assunte dal segretario federale ed oltre il 39% ammette di aver scoperto in Bossi una vera e propria guida e modello da seguire per tutto l'arco della propria militanza ed esperienza politica. Fra i giovani leghisti sembra esistere un'attenzione estrema per il fondatore della Lega; d'altra parte il ruolo carismatico del leader costituisce ciò che ha cementato un'organizzazione diventata tanto estesa in così poco tempo. Le forme di adesione al partito si articolano in due tipologie fondamentali: sullo sfondo di un diffuso consenso nei confronti del leader, si distinguono processi di identificazione realizzati in forma di simbolizzazione e di ritualizzazione e processi di attivazione politica più complessi e critici vrso il partito-movimento. Alla base dell'esistenza ditale diversità di motivazioni si possono individuare alcune ragioni fondamentali. Innanzitutto, l'origine e la composizione sociale degli attivisti leghisti. La Lega attinge i propri mili73
tanti in gran parte dalla classe media e, nell'ambito di un pubblico così esteso, non potevano che svilupparsi modelli differenziati di adesione. Accanto ad individui per i quali la partecipazione è fondata su orientamenti e scelte di natura individuale, convivono individui che sviluppano atteggiamenti di appartenenza e ritualizzazione tendenti a rafforzare l'identificazione con gli scopi, i modelli culturali, i valori e la leadership del partito. È lecito pensare che una tale diversità di atteggiamenti dipenda da una diversa sensibilità nei confronti degli aspetti, per così dire, rituali. Tra i giovani attivisti più istruiti, tuttavia, i processi di identificazione e di eterodeterminazione che valgono per i settori più tradizionali sembrano avere un peso minore. Un elevato potere di incitamento si può attribuire, inoltre, all'entusiasmo ed alla passione politica personale che caratterizza, in pratica, la totalità dei soggetti intervistati, anche se con differenti livelli di intensità. Fonte di questo sentimento diffuso, emerso con una certa costanza nel corso delle interviste, non sembra essere soltanto il forte desiderio partecipativo che anima i giovani militanti di questo partito la permeabilità dello stesso rispetto all'ingresso di nuovi attivisti. Questa caratteristica viene rivendicata dal giovane leghista come aspetto di diversità per accentuare il contrasto con il modellò burocratico e professionale che si è affermato negli altri partiti. 74
La diversità, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, è un fondamentale connotato di identità del movimento. Essa viene costantemente sottolineata e richiamata in vari modi ed attraverso differenti strumenti, fra i quali spicca, per efficacia e rilevanza, l'adozione di un preciso e particolare stile comunicativo. È Bossi stesso che elabora e gestisce quello che può essere definito il "linguaggio dell'innovazione e della distinzione". Si può parlare di innovazione e di distinzione" soprattutto perchè tale linguaggio pesante, crudo e molto colorito è l'esatto contrario di quello burocratico, ermetico, quasi cifrato che aveva fino ad allora caratterizzato la politica tradizionale ed i suoi soggetti. La maggior parte degli attivisti intervistati sembra avere assimilato fedelmente questo stile espressivo. Nel corso delle interviste, infatti, si è riscontrata una tendenza abbastanza diffusa all'uso di espressioni forti, aggressive ed, in non pochi casi, modellate sugli slogan utilizzati dal partito oppure su motti ormai celebri atribuiti alla facondia eterodossa del leader. L'importanza del linguaggio come strumento per comunicare la propria diversità viene avvertita, quindi, dai giovani attivisti al pari degli attivisti adulti 13 . Tale utilizzo "ideologico" della diversità rispetto ai partiti politici tradizionali ha contribuito, infine, a sviluppare nei giovani leghisti, un forte senso di appartenenza nei confronti dell'organizzazio-
ne, rafforzato, secondo quanto molti di loro hanno riferito, dall'ostilità incontrata nell'ambiente sociale e dalla stigmatizzazione che li ha accompagnati nella prima fase del loro impegno politico. Essi hanno teso a sviluppare una sorta di «sindrome da assedio" 14 motivata dal fatto di essere stati fatti oggetto di critiche, talora aspre, negli ambienti professionali e associativi di cui erano parte.
Orientamenti di valore ed immagini della società Analizzare il quadro valoriale di riferimento dei giovani attivisti politici oggetto del nostro studio è funzionale a definire le dinamiche e le caratteristiche partecipative fondamentali della loro fase iniziale di militanza ed attivismo politico. Ai giovani in questione sono state rivolte una serie di domande specifiche finalizzate all'evidenziazione di valutazioni ed orientamenti rispetto a tematiche precise quali l'immigrazione, le caratteristiche di base che dovrebbe assumere il sistema politico-istituzionale, il problema dell'aborto, il comportamento tenuto all'interno del movimento di appartenenza, il tipo di rapporto intrattenuto con il gruppo dei pari, i rapporti con i familiari. Riguardo al problema dell'immigrazione, gli intervistati hanno manifestato una marcata propensione a favorire l'inserimento dei lavoratori immigrati nella comunità locale, nonostan-
te la posizione differente, sostanzialmente di chiusura, assunta per lungo tempo dal partito degli adulti in merito alla questione. La Lega, in effetti, sin dalla fine degli anni Ottanta ha contribuito a rendere visibile il problema degli extracomunitari ed a stigmatizzarlo. Non solo perché gestire il dissenso su questo aspetto le ha permesso di acquisire consensi, ma anche perchè la stigmatizzazione dell'immigrazione le ha consentito di rafforzare la propria identità e di trasformare l'ostilità xenofoba in una risorsa per costruire una propria caratterizzazione territoriale, seppure con funzioni difensive. Tuttavia, man mano che la Lega ha cominciato ad integrarsi in posizioni e ruoli di responsabilità e di governo (sia a livello locale che a livello nazionale), l'avversione e l'intolleranza verso il diverso hanno incominciato a rivestire un ruolo sempre meno centrale nella strategia politica del movimento. Il differente atteggiamento dei giovani leghisti in merito a questo problema sembra essere determinato, almeno in parte, dalla prudenza suggerita all'intervistato dal contesto nel quale è chiamato ad esprimersi. Il giovane attivista politico, inoltre, in quanto ha iniziato la propria militanza politica in un periodo relativamente recente rispetto all'attivista adulto, tende ad essere meno integrato nell'organizzazione e quindi in possesso di minori legami di fedeltà ideologica con il partito, 75
e di minori obiettivi "tattici" da perseguire. I giovani sono più sensibili alle pressioni della società e portano con sè valori che presentano un grado maggiore di assolutezza. Questo atteggiamento fondamentalista è tipicamente generazionale e si segnala nella sua specificità anche in quanto non ancora sottoposto agli inevitabili adattamenti reclamati dalla mediazione partitica e dalle altre forme di compromesso che si fanno nel corso di una carriera politica. Per quanto concerne la configurazione di base e le caratteristiche ideali che il sistema politico-istituzionale dovrebbe possedere, la quasi totalità dei giovani contattati ha manifestato l'esigenza che esso venga fatto oggetto di profondi mutamenti e trasformazioni ed, in particolare, ha rivolto le proprie aspettative di cambiamento alla realizzazione del progetto autonomista e federalista del proprio partito. Fra gli obiettivi che le trasformazioni in questione dovrebbero perseguire è risultato, invece, quasi assente quello della moralizzazione della vita politica, nonostante i gravi e diffusi fenomeni di corruzione politica che hanno caratterizzato la storia recente del nostro paese. La preoccupazione e la condanna per i comportamenti di corruzione politica non sono stati, infatti, particolarmente ricorrenti nelle interviste. Questo particolare dato è, d'altra parte, in sintonia con i risultati della ricerca IARD del 1993, che ha messo in 76
evidenza una singolare tolleranza dei giovani elettori della Lega nei confronti dei politici ed amministratori corrotti. Tale atteggiamento viene ricondotto da Ricolfi 15 alla particolare etica economica dell'area leghista che ammette tutto ciò che va a vantaggio dei privati senza danneggiare direttamente altri soggetti privati. Anche l'intolleranza verso i "diversi" viene ricollegata a questo tipo di etica economica. I giovani leghisti, infatti, non sono ostili ai diversi in quanto tali ma ai diversi in quanto vettori di specifici interessi economici supposti incompatibili con quelli dei settori produttivi. I meridionali, gli immigrati non sono guardati con ostilità in quanto portatori di una cultura "altra" rispetto a quella delle popolazioni del Nord ma in quanto potenziali concorrenti di queste ultime nella ripartizione del prodotto nazionale lordo (posti di lavoro e risorse pubbliche). Gli alcolizzati, i tossicodipendenti, i suicidi possono essere tollerati, nonostante la loro diversità, perchè i loro comportamenti non hanno alcun contenuto economico: sono portatori di una diversità puramente culturale. Le opinioni raccolte in merito al problema dell'aborto sono di particolare rilevanza. Il 63% degli intervistati ritiene che l'aborto sia ammissibile esclusivamente in presenza di "forti rischi per la salute della madre o di malformazioni gravi del feto", il 6% che "l'aborto è ammissibile solo in ca-
si di grave situazione socio-economica della madre" e la stessa quota percentuale non lo ritiene mai ammissibile. Soltanto il 25% sostiene che "ogni donna deve essere libera di decidere sui figli che si sente di potere o non potere avere Quest'atteggiamento di rigida chiusura sembrerebbe confermare un'opinione abbastanza diffrisa fra gli osservatori politici e gli studiosi, e cioè che i cattolici costituiscano una parte essenziale della base sociale della Lega e che la Dc sia stato un suo serbatoio privilegiato di simpatizzanti e militanti. D'altra parte è necessario ricordare che la Lega ha intrattenuto ed intrattiene con la Chiesa un rapporto che non potrebbe certamente definirsi idilliaco. Il movimento di Bossi, infatti, anche quando si presentava sostanzialmente privo di avversari realmente competitivi fra le forze politiche tradizionali, ha trovato le maggiori resistenze proprio nelle organizzazioni cattoliche. Sul piano dei valori e delle identità la Chiesa si è opposta alla Lega richiamandosi ai valori della solidarietà fra Nord e Sud e rivendicando, nel segno della fede cattolica, la fondamentale unità culturale del popolo italiano, di gran lunga precedente all'unificazione politica. Un altro piano di contrapposizione è costituito dal già ricordato fatto che la geografia dei valori cattolici coincide in larga misura con la geografia dei suffragi della Lega. Anche se esse esprimono iden-
tità differenti, infatti, la loro competizione è stata comunque inasprita dal fatto che ha coinvolto le stesse regioni; la loro offerta di integrazione, cioè, si è rivolta in via prioritaria alla stessa componente territoriale del Paese. In parte collegato al precedente, un terzo piano di contrapposizione fra Lega e Chiesa può essere infine individuato nel sostegno garantito da importanti settori della Chiesa al processo di rinnovamento della Democrazia Cristiana, con lo scopo di garantire la sopravvivenza di un soggetto politico in grado di salvaguardare l'unità politica dei cattolici, che ha poi portato alla nascita del Partito Popolare. Questi evidenti motivi di distintinzione e di contrasto, tuttavia, non hanno impedito ad una giovane esponente della Lega, molto sensibile ai valori cattolici, di assurgere ad uno dei massimi incarichi istituzionali. La velocissima carriera di Irene Pivetti - a trentadue anni Presidente della Camera costituisce una prova evidente non solo dell'ampio spazio che la Lega ha concesso alle giovani generazioni, ma anche di come la sostanziale laicità del movimento non abbia comportato atteggiamenti di chiusura nei confronti di chi avesse un'impostazione valoriale ed una sensibilità religiosa molto sviluppata. Molti giovani attivisti hanno posto l'accento sulla necessaria distinzione tra sfera individuale e sociale, da un lato, e sfera politica, dall'altro. La religione, la fede cattolica, la Chiesa 77
stessa sono ritenute importanti per orientare e sostenere le scelte individuali e sociali, ma debbono restar lontane dalla politica, non debbono condizionarne gli eventi e scelte. Forse anche questa impostazione di fondo, accanto ad altri fattori quali il tradizionale moderatismo e il profondo radicamento nella medesima area geografica, ha comunque consentito ad un movimento laico come la Lega di intrattenere con l'elettorato cattolico ex democristiano un rapporto privilegiato. Il tipo di comportamento e la particolare forma di militanza realizzata all'interno del partito sono stati analizzati sottoponendo al giudizio dei componenti il nostro campione due differenti affermazioni: "è meglio evitare di attaccare in pubblico chi crede nei nostri stessi ideali" e "prima di esprimersi in merito ad una determinata questione è preferibile ascoltare l'opinione di una persona di fiducia". Sia la prima che la seconda affermazione hanno ottenuto un ampio consenso (il 56% di risposte positive la prima ed il 69% di risposte positive la seconda), fornendo alcune importanti informazioni. I giovani politici leghisti, in particolare, manifestano un forte senso di appartenenza al proprio ingroup ed una marcata sottomissione alle gerarchie che caratterizzano tale gruppo. D'altronde solo questa miscela di identificazione personalizzata e di centralità decisionale può spiegare 78
come sia stato possibile uno sviluppo dei quadri e dei simpatizzanti tanto ampio in tempi tanto brevi e senza che ne risentissero la flessibilità e l'efficacia degli orientamenti generali. Diamanti 16 ha sostenuto che il modello organizzativo della Lega, insistendo molto sull'appartenenza e sulla militanza oltre che sull'insediamento palese e formale sul territorio, sembra evocare, differentemente dalla maggior parte dei nuovi movimenti e delle altre forze politiche emerse di recente, il modello storico del "partito ad integrazione sociale". Tra nuovi movimenti collettivi e Lega esiste, inoltre, una radicale diversità anche rispetto alle forme di investimento simbolico sugli aspetti organizzativi. L'investimento simbolico, infatti, non riguarda necessariamente soltanto il linguaggio (slogan, parole d'ordine, giuramenti, et similia) e i mezzi della sua diffusione ma tutti gli aspetti della vita di un movimento, compresa la stessa dimensione organizzativa. Mentre la sfida simbolica dei movimenti di recente formazione ai modelli dominanti si realizza nell'estraneità alla problematica del potere, la sfida della Lega si realizza nella direzione opposta, nell'attribuzione di valore al potere ed alla competizione per il controllo delle sue risorse. I primi tendono a promuovere un impegno reversibile e a termine, che poi viene giocato come sfida alla professionalizzazione della politica Cffiial» La seconda esalta la conti-
nuità, la dedizione, la fedeltà di un impegno che viene esibito come tratto distintivo rispetto alla delega passiva, al rapporto clientelare e interessato e alla burocratizzazione della partecipazione negli altri partiti. Le nuove azioni collettive si organizzano secondo una leadership multipla, sottoposta a verifica e che, quindi, può essere messa in discussione, in polemica simbolica con la rigidità di una divisione dei ruoli tra rappresentati e rappresentanti che assegna a questi ultimi i caratteri di un ceto relativamente separato dagli interessi che interpreta. La Lega esibisce invece una leadership personalizzata ed assoluta, che contribuisce a rafforzare la sua identificabilità nel panorama politico italiano nella misura in cui le regole del vecchio sistema partitocratico sono state delegittimate. PER UNA NUOVA PROFESSIONALITÀ POLITICA
Lapproccio alla militanza politica attiva, il percorso di formazione, le caratteristiche prepolitiche e gli stessi meccanismi di reclutamento descritti dai giovani attivisti della Lega Nord oggetto di questo studio si inquadrano, sostanzialmente, nel generale fenomeno di ricambio, trasformazione e ridefinizione professionale vissuto dalla classe politica e parlamentare italiana a partire dalla fine della "Prima Repubblica" (ben il 70% del personale parlamentare della )UI legislatura, per citare un
dato esemplificativo, è totalmente esordiente). Si tratta di soggetti approdati alla politica attiva, anche a livelli elevati (Parlamento, Parlamento Europeo, Consigli Regionali, Consigli Provinciali e Comunali, organismi dirigenti nazionali di partito ecc.) completamente digiuni, o quasi, di una qualsiasi precedente esperienza politica ed amministrativa. Nei loro confronti, le strutture del partito non hanno Svolto la tradizionale funzione di formazione alla quale gran parte della precedente classe politica e parlamentare è stata esposta, essendosi, l'intervento partitico, limitato quasi essenzialmente al reclutamento del personale ed alla selezione, non di rado affannosa, delle candidature. L'ingresso in politica è stato, dunque, un ingresso prevalentemente laterale , con una provenienza, cioè, dalla società civile, nella quale i giovani attivisti in questione hanno avviato un proprio autonomo percorso di professionalizzazione. Per una quota rilevante di uomini politici affermatisi nel corso della "Prima Repubblica", l'ingresso nella politica attiva ed eventualmente, in un secondo tempo, in Parlamento era quindi un ingresso "dal basso" che seguiva ad un itinerario lungo, predeterminato dai partiti e che combinava molte esperienze (partiti, sindacati, federazioni giovanili di partito, forme di associazionismo politico di varia natura). I meandri di questo itinerario complesso, costituito da una rete di istituzioni interdipendenti e 79
dalle rispettive istanze organizzative, erano irti di ostacoli ma consentivano l'emergere di un ceto politico separato dal corpo elettorale, con una serie di prerogative che lo rendevano quasi intangibile. Essere oggi esordienti e dilettanti della politica connota i giovani attivisti della Lega Nord, per alcuni aspetti positivamente e, per altri, negativamente. Un aspetto positivo è sicuramente rappresentato dal fatto che nessuno di essi vive di politica ma è in grado di ritornare in qualsiasi momento alla propria occupazione ed alla propria professione, senza essere costretto a rimanere a galla sulla zattera della politica professionale, per forza e con qualsiasi mezzo. Una condizione di autosufficienza economica, infatti, pur non inibendo di per sè comportamenti illegali o comunque finalizzati alla conservazione di privilegi o posizioni di potere, può costituire un importante deterrente. È necessario, però, tener presenti alcuni importanti elementi che connotano in maniera problematica il fenomeno del dilettantismo in politica. Il fatto che il professionismo politico abbia conseguenze deleterie, che possono alla lunga corrompere il comportamento degli uomini politici, non può far dimenticare quanto sia importante che coloro i quali si occupano di politica attivamente abbiano sviluppato una solida e specifica professionalità. L'attività politica, infatti, per il fatto di richiedere una capacità di analisi, sintesi 80
e soluzione di situazioni complesse e problemi specifici pretende, da parte di chi decida di cimentarsi in essa, un'adeguata preparazione ed un solido percorso formativo alle spalle. Per queste ragioni, a causa dell'importante processo di maturazione e professionalizzazione politica che sono in grado di promuovere, non appare opportuno valutare negativamente in assoluto le eventuali esperienze, partecipative in un sénso generale e di militanza vera e propria, condotte all'interno di strutture di partito. I partiti politici, infatti, nonostante le gravi disfunzioni che hanno manifestato nello svolgimento del proprio ruolo formale e l'enorme potere di cui hanno potuto disporre, sono comunque stati importanti centri di formazione politico-culturale e potranno tornare ad esserlo. In nome del ricambio e del rinnovamento della classe politica alla guida di un Paese non pare opportuno svilire l'importanza delle agenzie e delle istituzioni deputate alla sua formazione. In qualsiasi altra attività o mestiere le esperienze accumulate in precedenza e, quindi, la competenza e la professionalità sono ritenute molto importanti. Allo stesso modo si dovrebbe desiderare che venga svolta anche l'attività politica, in maniera professionale e cioè da parte di persone in possesso delle necessarie competenze ed esperienze ed in grado di far funzionare un parlamento, un governo come un partito. Oggi, invece, in Italia sembra campeg-
giare un atteggiamento che Pasquino 17 non ha esitato a definire qualunquistico e secondo il quale l'assenza di precedenti esperienze politiche e la provenienza dalla società civile costituiscono non soltanto titoli di merito, ma anche titoli preferenziali per il reclutamento nella sfera politica di cui, peraltro, si denunciano corruzione e parassitismo. Questo qualunquismo applicato alla selezione del personale politico è un altro frutto malsano del profondo deficit di civicness che storicamente affligge il nostro Paese e che ha
inevitabilmente frustrato la costruzione di un normale rapporto fiduciario fra cittadini e classe politica. Naturalmente, le responsabilità di molti membri della precedente classe politica non sono state ininfluenti nella determinazione di questa crisi e della faticosa transizione che stiamo vivendo. La risposta della Lega Nord a questa crisi può essere letta in una chiave funzionalistica, non gratuita, come una prova della capacità della società civile di mantenere vivo il principio della rappresentanza democratica.
Cfr. E. RECCHI, Apprentice leaders. Evidence and effects ofpolitical elite recruitment through party youth organizations in Italy, relazione presentata al XII EcPR (European Cosortium for Political Research) Joint Session-Madrid, 16-22 ApriI 1994. 2 Nel corso della prima tornata dell'indagine sono stati intervistati 16 attivisti, 14 uomini e 2 donne, residenti al Nord del paese e ricoprenti i seguenti incarichi: 2 segretari regionali; 3 segretari provinciali; 5 membri del Consiglio Comunale di Milano; 1 consigliere circoscrizionale del Comune di Milano; 4 deputati con età inferiore ai 35 anni, sulla base di un totale di 12 membri compresi entro il suddetto limite di età nell'ambito del gruppo parlamentare della Lega Nord eletto il 5 aprile 1992. Nel corso della seconda tornata sono stati intervistati i 26 deputati con età inferiore ai 35 anni presenti all'interno del gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera, eletto il 27-28 marzo 1994. 3 Forza Italia, sulla base di un gruppo parlamentare alla Camera composto da 112 deputati, conta 15 giovani con età inferiore ai 35 anni; il gruppo Progressisti Federativo su 167 membri totali vede la presenza di 6 giovani al di sotto dei 35 anni; Rifondazione Comunista 1 solo giovane su 35 membri; il gruppo del CCD 1 membro "giovane" su 27; il
Gruppo Misto 1 su 28; il gruppo di AN 5 su 109 membri totali ed il gruppo del Ppi (prima della scissione fra i deputati che hanno seguito Gerardo Bianco e coloro che hanno seguito Rocco Buttiglione) soltanto 1 membro su un totale di 33. Proprio mentre questa ricerca andava in stampa si sono svolte le consultazioni elettorali (21 Aprile 1996) che hanno inaugurato la XIII legislatura. Nonostante il gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera dei Deputati sia diminuito di numero (passando da 116 deputati a 59) la percentuale di presenza di giovani al di sotto dei trentacinque anni è rimasta praticamente inalterata. Essi infatti sono complessivamente 13, il 22% del totale, quasi la metà dei quali (6) sono stati riconfermati Cfr. V. BELOTTI, La rappresentanza politica delle leghe, in «Polis», 2, 1992. 5 Cfr. L. MivrrINA, Icandid.ati, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», 3, 1994. 6 Cfr. P. SEGA1TI, L'offerta politica edi candidati della Lega alle elezioni amministrative del 1990, in «Polis», 2, 1992. 7 Ibidem. 8 126 membri del gruppo parlamentare della Lega alla Camera non ancora trentacinquenni, risultano essere così suddivisi in base alla propria qualifica
professionale: 9 liberi professionisti, 4 imprenditori, 3 giornalisti, 3 studenti, 3 consulenti di partito o comunque politici di professione, 2 insegnanti, i agricoltore, 1 consulente aziendale. 9 Cfr. R. BIORcIO, Un profilo sociale e culturale dei militanti della Lega Lombarda, Università Statale, Milano, 1993; Ivo DIAMANTI, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma, 1993. 10 Cfr. GIORGIO BoccA, La disunità d'Italia, Garzanti, Milano, 1990. H Cfr. Luici MANCONI, Solidarietà ed egoismo, Bologna, Il Mulino, 1990; RENATO MANNHEIMER, La Lega Lombarda, Feltrinelli, Milano, 1991. 2 Naturalmente, il dato è ricavato dalle percezioni dei figli; quel che si misura, dunque, è la sensazione di sintonia politica dei figli con i propri genitori. 3 Riguardo allo stile comunicativo del movimento è stato osservato come esso tenda a non esplicitare mai in termini dottrinali "universali" i messaggi (se non per i principi del federalismo) ma li faccia emergere dal trattamento riservato ad una serie di problemi concreti (Cfr. R. BI0RCIO, La protesta delle Leghe, in «Nuvole,>, 3-4, 1992). Da questa premessa si potrebbe dedurre che la Lega non sia interessata ad una propria elaborazione ideologica. In realtà la Lega esemplifica il caso di un movimento che, collocandosi in un ciclo post-ideologico, esibisce questa sua collocazione come tratto ideologico distintivo (G. DE LUNA, Figli di un benessere minore: storia della Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze, 1994). La
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predilezione per un linguaggio popolano di cui si enfatizzano i toni grevi e diretti, il richiamo alla concretezza degli interessi e al senso di appartenenza territoriale, la sistematica propensione a dare un volto riconoscibile all'avversario di turno, la tendenza ad elaborare strategie di breve periodo, sono tutti elementi di un disegno che ostenta la deideologizzazione come risorsa polemica contro la politica ideologica degli avversari. Si tratta, in effetti, di un'elaborazione ideologica costruita con materiali antiideologici. Per inquadrare questa ambivalenza, De Luna ha utilizzato il concetto di "schema interpretativo", il quale definisce insiemi di credenze che non hanno dell'ideologia il carattere tendenzialmente totalizzante e la considerevole tenuta nel tempo. De Luna, in definitiva, sostiene che se con gli altri movimenti di recente formazione la Lega condivide un'impostazione antiideologica che rifiuta modelli dottrinari basati su una visione globale del mondo, d'altro canto gli schemi interpretativi che essa elabora si configurano come elementi di un'ideologia informazione. 14 Cfr. Ivo DIAMANTI, La mia patria è il Veneto. I valori e la proposta politica delle leghe, in «Polis», 2, 1992. 15 Cfr. L. RICOLPI, Politica senzl1 fede: l'estremismo di centro dei piccoli leghisti, in «Il Mulino», 1, 1993. 16 Cfr. Ivo DIAMANTI, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma, 1993, p. 14. 17 Cfr. GIANFRANCO PASQUINO, La società contro la politica, in «Il Mulino», 5, 1995.
Maastricht: prima, durante, dopo di Fabio Luca Cavazza e Carlo Pelanda*
Il Trattato di Maastricht si apre con le seguenti parole: «Con il presente Trattato, le Alte Parti Contraenti istituiscono tra loro un'Unione Europea". In fondo, nel testo si legge (art. 03 che l'Unione è stata conclusa «per una durata illimitata". Una lettura del Trattato (un esercizio che non è stato abbastanza raccomandato anche ai suoi acerrimi oppositori) pone varie domande: a Maastricht è nata una unione Europea? Se è così, conie può essere descritta? Le unioni sono basate su regole fondative tecniche, o al contrario, politiche? Conosciamo la configurazione finale dell'Unione? Oppure, ritornando al titolo di un libro di Andrew Shonfield, pubblicato nel 1973, l'Europa è ancora impegnata in un "Journey into an Unknow Destination"? Il Trattato sull'Unione Europea ha sollevato più problemi di quanti non abbia tentato di risolvere. Quel che ri-
* Fabio Luca Cavazza, è stato uno dei fondatori della casa editrice "Il Mulino" ed è uno dei suoi direttori; Carlo Pelanda è docente alla University of Georgia ed editorialista de "Il Giornale".
salta maggiormente è come il Trattato sia allo stesso tempo la più grande vittoria del cosiddetto "approccio flinzionalista", il quale per più di quaranta anni ha ispirato il cammino verso l'integrazione europea, così come la sua prima sconfitta sul campo. Ci sono connessioni sulle quali proveremo a gettare qualche luce, tra ciò che è successo a Maastricht, ciò che è accaduto prima di Maastricht, e quello che potrebbe accadere dopo, specie in sede di quella riforma della quale, per alcuni specifici punti, deve occuparsi la Conferenza Intergovernativa, le cui riunioni sono da poco iniziate. C'è nondimeno un fatto che deve essere sottolineato all'inizio di questo articolo, poiché sta rendendo i cittadini degli Stati membri dell'Unione ansiosi ed incerti del proprio futuro: la crescente difficoltà di andare avanti senza la definizione di una nozione precisa di ciò che l'Unione e l'Europa diventeranno negli anni a venire. Una definizione che, allo stesso tempo delinei il loro ruolo economico nel mondo contemporaneo e la funzione politica che esse si troveranno ad esercitare. 83
Nella riunione del Consiglio Europeo di Copenhagen tenutasi il 21 giugno 1993, riferendosi all'allora presente recessione, non ancora a tutt'oggi riso!tasi compiutamente, Helmut Kohl disse che l'economia europea mostrava "stanchezza e mancanza di dinamismo". Ciò era vero, ma è così irragionevole notare che il disagio europeo è il prodotto non soltanto di una recessione economica, ma anche dell'assenza di un chiaro e comprensibile disegno politico? Noi pensiamo che l'Europa sia pronta a offrire se stessa in cambio di un compiuto programma politico ed economico. Per dirla in termini semplici, la scelta è tra un'unione di politiche e una separazione di destini politici, con adattamento tra diverse culture e trionfanti nazionalismi, cioè in sintesi, tra una saggezza di lungo periodo e orgogli nazionali autocelebrativi. In breve: Unione o divisione? Gli autori di questo articolo si propongono di esplorare tale ipotesi, le condizioni e i modi mediante i quali le prime alternative a queste domande potrebbero prevalere sulle seconde. Certo, siccome gli autori hanno basato il loro articolo su certi assunti, si sentono in dovere di esporli. In primo luogo, nessuno degli Stati membri può essere così temerarario da allontanarsi da quella che fu una Comunità ed oggi è un'Unione, e neppure un'ipotesi del genere potrà prender corpo nel prossimo futuro. Secondo:
l'Unione Europea si farà purché siano create istituzioni comuni che non implichino per forza la fusione degli Stati nazione in qualcosa di completamente nuovo, in un perfettamente strutturato Superstato Europeo, sia esso federale o confederale. Già oggi, con gli accordi di Maastricht per l'Unione Economica e Monetaria (EMu) è stato di fatto ammesso il principio di un'Europa a geometria variabile. Gli autori pensano che le nazioni europee collaboreranno a costruire l'Unione purché essa sia basata sul principio d'asimettria e non sul presupposto di una simmetrica (ma irrealistica) uguaglianza fra le nazioni che ne sono o ne diventeranno parte. Terzo: poiché la Guerra Fredda è finita e non li tiene più imprigionati, uomini e movimenti che evocano le forze demoniache dell'orgoglio nazionalistico stanno riapparendo sotto i cieli d'Europa. Ciò nonostante, gli autori credono che stia per aprirsi in Europa una ricca e fertile stagione politica caratterizzata dalla ricerca della complementarietà fra lo Stato nazione e il regime sopranazionale dei poteri. Quarto: l'Unione Europea (oggi solo un nome) è il terreno potenziale di costruzione di un organismo politico nuovo. Poiché non potrà essere una federazione o una confederazione, almeno nel senso classico di tali termini, e nemmeno una mera zona di libero scambio a causa della necessità di armonizzare e gestire un mercato unificato, di-
verrà probabilmente un'Unione, ma un'Unione difficile da descrivere poiché non ci sono precedenti nella storia. Quinto: gli autori ritengono che la storia degli ultimi due secoli non offra riferimenti affidabili sia per descrivere la situazione politica che l'Europa (ma anche l'Occidente) sta oggi vivendo, sia per evitare il ripetersi di tragici esiti distruttivi. Quanto al futuro,gli autori ammettono che, al momento, la "destinazione" finale del "viaggio europeo" resti ancora parzialmente sconosciuta. Essi, comunque, osservano che si stanno compiendo dei passi nella giusta direzione: è già molto cominciare a capire che alcune destinazioni sono impraticabili e impossibili. Sesto: l'Unione Europea sarà "un'altra cosa". Gli autori non sveleranno che cosa sarà questo "oggetto" poiché non possiedono l'immaginazione dei profeti. Tuttavia, essi sono convinti che il compito che sta davanti all'Europa anticipa e sottolinea l'urgente necessità di costruire in Occidente architetture politiche compatibili, se non comuni, per consentire a un'economia di mercato non protezionistica (l'ossigeno che ci mantiene in vita) di espandersi (o di non perdere terreno) su scala mondiale. Gli autori credono che nessuno, soprattutto coloro che vivono dall'altra parte dell'Atlantico, possa guardare con indifferente distacco o con spirito di sufficienza alla ardua, inusuale sfida posta davanti agli europei.
IL FuNzI0NALIsM0, OWERO IEFFETTO "SPILL-OVER", DAL 1950 AI PRIMI ANNI '60.
Trentacinque anni separano il libro di Ernst B. Haas The Uniting of Europe da quello di Bino Olivi L'Europa d2cile. Storia politica delLa Comunità Europea. Tuttavia, i due autori non utilizzano strumenti concettuali diversi per definire l'approccio funzionalista all'integrazione europea 2. Per entrambi l'espressione-chiave che io caratterizza è "integrazione settoriale". I funzionalisti ritenevano, come scrive Olivi, che "l'obiettivo dell'Unione Europea potesse venire raggiunto soltanto mediante integrazioni settoriali successive" le quali, però, dovevano essere accompagnate da parziali e graduali cessioni di sovranità a nuove istituzioni indipendenti dagli Stati" 3 . Per parte sua Haas scrive che "the spili-over effect in sector integration is believed to lead inevitably tofi.ill economic unity" e conclude che "it is as inconceivabie that this form of co-operation should not result in new patterns of profound interdependence as it is unlikely that the Generai Common Market can avoid a species ofpoiiticai federalism in order to finction as an economic organ"4 Olivi rafforza questo concetto quando scrive che "le integrazioni settoriali di taluni segmenti della vita economica e sociale imporranno forme d'integrazione politica e con esse fatalmente .
RE
l'indebolimento e perfino lo svuotamento delle sovranità nazionali" 5 . Ispirati da Jean Monnet e politicamente sostenuti da Robert Schuman, i funzionalisti vinsero la partita. Il giorno della loro vittoria fu il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman, a Parigi, propose di creare la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), che rappresentò il primo settore dell'integrazione sopranazionale 6. Sulla pietra angolare del futuro edificio della Comunità europea è impresso il sigillo dei funzionalisti: infatti, l'intera storia della Comunità Europa, sino a Maastricht, è stata contraddistinta da una sostanziale continuità di concetti operativi, di metodi di lavoro, e anche di linguaggi0 7. In breve, per l'approccio funzionalista, l'integrazione europea è un processo inteso a trasferire poteri nazionali ad un'entità sovranazionale mediante misure quanto pii possibile indolori richieste (se non resesi necessarie) da interessi economici e per lo stesso buon funzionamento del mercato. Tre regole sono state in genere seguite perché ciò avvenisse. La prima: al fine di mantenere l'esistenza e l'apertura del processo di costruzione della Comunità, gli stadi d'integrazione economica devono susseguirsi senza interruzione. La seconda: ogni stadio deve concludersi con un arricchimento del complesso dei poteri utilizzabili dalla Comunità. La terza: nessuno stadio deve comunque essere completo e 86
perfetto, ma anzi, quanto mai parziale ed imperfetto in relazione a quanto appariva essere necessario, e questo onde rendere inevitabile il prossimo passo. È possibile creare un Mercato Interno Europeo senza strumenti attraverso i quali governano, come una moneta comune e una banca centrale? Certamente no. Così l'Atto Unico non li ha nominati, e nessuno ha obiettato. Lo stesso Atto Unico è stato quindi ritenuto come un passo parziale ed imperfetto, tale da rendere il successivo, Maastricht, inevitabile. Con il passare degli anni, paradossi e contraddizioni inerenti all'approccio funzionalista sono diventati molto visibili, tanto da indebolire la sua efficacia e la sua plausibilità. Di questi, almeno due devono essere menzionati. Il primo è che il successo di un approccio funzionalista in relazione all'Unità Europea dipenda interamente dalla benevolenza politica dei Paesi membri della Comunità. Detto semplicemente, lo Stato Nazione deve con pazienza accettare di essere spogliato foglia a foglia come un carciofo; senza sollevare obiezioni, egli deve consentire un lento, graduale ma irreversibile passaggio delle sue prerogative sovrane alla Comunità. Il fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED) nel 1954, deciso da un voto dell'Assemblea nazionale francese, rivelò rapidamente i! secon-
do paradosso e con esso una verità che sarebbe stata grandemente confermata dagli eventi successivi: tanto è più chiusa, senza margini di manovra, la fase in cui gli Stati nazionali sono chiamati a trasferire alla Comunità gli ultimi poteri che conferiscono legittimazione alla loro sovranità, tanto più forti e maggiormente perniciosi possono diventare i contrasti e i conflitti in grado di trasformarsi in situazioni intese a limitare, se non anche ad arrestare, il processo d'integrazione europea come posto da una Comunità funzionalista. Alla fine degli anni Quaranta ci si trovò in uno specifico contesto storico e politico. In quegli anni, infatti, gli Stati nazione del Vecchio Continente non avevano altra scelta che accettare la prospettiva di unirsi. Distrutti da due guerre mondiali, minacciati mortalmente dall'imperialismo di Stalin, dominati dalle generose politiche degli Stati Uniti, e comunque affascinati dal successo dell'economia americana (cioè di un continente unificato), gli Stati europei non poterono certo opporsi con forza alle iniziative di Monnet e Schuman. Anche se deboli, con opinioni pubbliche spaventate e senza altre alternative pratiche, gli Stati-nazione potevano ancora mantenere le loro fondamentali e sovrane prerogative: potevano coniare moneta, imporre tasse, organizzare la difesa nazionale. Esistevano forti contrasti e decisi conflitti, ma tali da non dover necessarie-
mente scaturire in aperte rotture. Anzi, le parti si trovavano a dover ricercare un modus vivendi che poi rifletterà le relazioni tra le due entità - la Comunità e lo Stato Nazione - i cui interessi vitali non coincidono. È probabile che i funzionalisti siano sempre stati consapevoli di questa opposizione di interessi e che essi non abbiano voluto esacerbarla disegnando, anche in forma d'ipotesi di lavoro, la destinazione politica e istituzionale del viaggio europeo e comunitario. I funzionalisti hanno preferito non spaventare gli Stati membri della Comunità, attendendo invece con pazienza che essi, imprigionati dalle successive sottrazioni di sovranità, compissero nuovi e fatali passi verso la loro integrazione comunitaria e la loro disintegrazione nazionale. Solo allora (ma quando?) la fisionomia della nuova entità sarebbe stata svelata. È così successo che la nave dei funzionalisti sia stata ancorata a formule che sembrano dire tutto mentre in realtà dicono assai poco e quel poco che dicono resta avvolto nei veli dell'ambiguità. Implicito nella formula di Schuman di una "Wider and deeper community" c'era il concetto operativo di una comunità da creare per stadi successivi. Da qui nacque la formula sacramentale di una "ever closer Community". Il Trattato di Maastricht la incorpora al Par. 2 dell'art. A: "The Treaty marks a new stage in the process of creating an ever closer union among the peoples of 87
Europe". Lo stesso paragrafo riformula poi un altro principio dell'approccio funzionalista: "le decisioni sono prese quanto più vicino possibile a! cittadino"9 . Fino ad oggi l'approccio funzionalista non ha mai sottostimato l'importanza di aver creato, insieme ad una Comunità, i primi embrioni di quelle istituzioni che definiscono la classica divisione dei poteri: un Esecutivo a Bruxelles, un Legislativo a Strasburgo, un Giudiziario a Lussemburgo. Non di meno, si deve concludere, la realizzazione di un simile approccio non può essere esposta alle mutevolezze della vita democratica, quali ad esempio i risultati elettorali, che per definizione, sono imprevedibili. Insomma, l'approccio funzionalista può mettersi all'opera soltanto in un contesto democratico, ma non può usare le istituzioni democratiche. E questo è il più imperdonabile dei vizi del modello funzionalista. A MAASTRICHT PREVALGONO GLI STATINAZIONE
Maastricht gli Stati-nazione prevalsero sulla Comunità (e la Germania prevalse sui suoi partner). Nel prossimo futuro gli affari europei saranno maggiormente influenzati dagli interessi e dai bisogni degli Stati nazionali che compongono l'Unione. Questo non significa che lo Stato nazione del XIX secolo sia risorto dalle
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sue ceneri, come la leggendaria Fenice. Piuttosto, ciò che deve attirare l'attenzione del lettore è il fatto che, nonostante sia stato controllato dalle condizioni sancite dalla Comunità in linea con un processo cumulativo e progressivo mosso dall'approccio funzionalista mezzo secolo fa, lo Stato nazione europeo abbia bloccato il processo di "despoliazione" delle proprie facoltà sovrane. I1approccio funzionalista ha perso più di qualche battaglia a Maastricht. Prima esso rappresentava una strategia diretta alla costruzione di una Comunità in costante espansione; adesso, è diventato uno strumento adattabile alle necessità dello Stato nazione. Questo spiega perché in materia di Unione Economico-Monetaria sia stata ammessa la clausola dell'opti ng-out. Bino Olivi ha notato che "è la prima volta che una clausola del genere è contenuta in una legge destinata a far parte del corpus strutturale di un Trattato bo". In breve, come risultato di questa e di altre eccezioni, i Paesi dell'Unione sembrano ora autorizzati a non procedere tutti insieme riguardo alle regole ed ai canoni della dottrina funzionalista. Una fessura è stata creata a Maastricht, dalla quale potrebbe emergere un'Unione piuttosto differente dalla Comunità che abbiamo conosciuto gli scorsi anni: un'Unione asimettrica e multi-strato. Proprio in ragione di questo esito, al momento, non è più possibile elimi-
nare dalla ricostruzione della politica Europea, così come si è sviluppata negli anni successivi al 1950, il sospetto (o la convinzione) che, allo stesso tempo, la Comunità non abbia anche rappresentato un soluzione alla quale gli Stati nazionali europei non abbiano mirato che per recuperare i propri vecchi poteri, semplicemente perché non potevano, per raggiungere tale obiettivo, contare a lungo sulle proprie risorse. LA DIARCHIA FRANCO-TEDESCA E LA
RIVINCITA DEI POTERI NAZIONALI Francia e Germania furono le prime ad intuire questa banale verità. Alla fine degli anni Cinquanta la Francia di De Gaulle era debole, ma desiderosa di essere compensata per la perdita delle sue colonie. Essa doveva in qualche modo dimostrare di essere ancora una grande potenza. La Germania era politicamente "un nano", ma con il passare del tempo diventava sempre pit un "gigante economico"; essa, quindi, anelava ad acquisire lo status di grande potenza. Le aspirazioni di Francia e Germania convergevano nella loro comune constatazione che una Comunità diretta da una diarchia Franco-Tedesca poteva assicurarle loro un maggior peso sullo scenario europeo, se non su quello internazionale. Il potenziale dei due Paesi era perfettamente compIe-
mentare, ed ognuno di essi aveva un interesse da perseguire attraverso tale mutua privilegiata relazione. La prevalenza politica e strategica apparteneva alla Francia, quella economica alla Germania. La diarchia franco-tedesca non era così contraria agli interessi degli altri membri della Comunità, ben contenti di essere parti di un sistema che generava e distribuiva ricchezza a tutti i suoi partecipanti, e nel quale (fino a pochi anni fa) tutte le decisioni richiedevano il voto unanime. Mentre Francia e Germania utilizzavano la Comunità per rafforzarsi, la Comunità era libera di perseguire la sua lenta ma costante marcia verso la creazione di un mercato integrato. Gli altri membri della Comunità non erano eccessivamente allarmati dalle iniziative franco-tedesche. L'incisiva e costante presenza americana in Europa spiega il perché la diarchia franco-tedesca non dominò con forza in Europa. Non solo tale costante impegno bilanciava l'accordo tra Parigi e Bonn, ma garantiva anche una strategia politica dalla quale nessun Paese europeo voleva o era in grado di allontanarsi. La Germania, che ospitava i soldati americani su1 suo territorio non poteva sperare di farlo. La Francia, più interessata che mai a porre le debite distanze tra sé e gli Stati Uniti per sottolineare le sue aspirazioni politiche e strategiche, trovava l'intesa ampiaEW
mente accettabile. Il Regno Unito, successivamente al ritiro del veto di Charles de Gaulle, ed in seguito ad una stagione di ansietà ed incertezza, decideva di entrare nella Comunità lentamente, riassumendo, questa volta dal di dentro l'asse dei Paesi dell'Europa continentale, l'antico ed onorabile ruolo di bilanciare le alleanze. L'Italia, in aggiunta all'utilizzazione della Comunità e dell'alleanza con gli Stati Uniti per una politica di sicurezza per i propri affari interni, trovò opportuno che Francia e Germania annunciassero iniziative per allargare la diarchia alla ricerca di un dialogo con l'Inghilterra. È difficile dire con assoluta certezza se fu la Comunità a ricavare per sé un'autonomo spazio nelle relazioni con l'asse franco-tedesco, o se fu quest'ultimo a riuscire progressivamente ad imporsi come l'elemento fondamentale della Comunità. Le circostanze relative alla stipula dell'Atto Unico (teso a creare dal 1992 il Mercato interno europeo) spingono a credere che probabilmente fu la seconda ipotesi a concretizzarsi. Lanciata nel 1985, l'iniziativa sopravvisse sino al 1988 senza mai colpire l'immaginazione popolare. Nel giugno 1988, Helmut Kohl, al Consiglio Europeo riunitosi ad Hannover, come per magia, trasformò un'iniziativa essenzialmente burocratica in un'azione politica che immediatamente catturò l'immaginazione pubblica. 111992 diven-
ne l'anno delle grandi aspettative, il compimento della rivoluzione europea. Il mondo si chiedeva se la realizzazione del mercato interno, con la sua libera circolazione di cittadini e beni, di servizi e capitali, avrebbe potuto concretizzare una "Fortezza Europa", o se invece avrebbe creato uno spazio aperto nel quale le iniziative economiche potevano mettere radici senza restrizioni. Ciò che successe ad Hannover dimostrò chiaramente che l'iniziativa politica non era nelle mani di Bruxelles, ma rimaneva fermamente sotto il controllo dei suoi Stati membri. Nel 1988 Maastricht rappresentava un imprevedibile evento; tuttavia, guardando a ciò che accadde prima e dopo Maastricht, diventa possibile considerare il Trattato come un tentativo di formalizzare l'unione franco-tedesca, per preparare l'unione politica Europea. Era un'esplicito riconoscimento di un implicito patto bilaterale che, per trenta anni, aveva rappresentato l'autentica spina dorsale della Comunità. Eventi come questi hanno portato sotto il controllo dei singoli Stati nazione, e soprattutto della diarchia franco-tedesca, ogni decisione importante sul trasferimento di poteri alla Comunità. Nel caso del Trattato di Maastricht, con la sua unione economica e monetaria, le condizioni furono stilate ed imposte principalmente da Francia e Germania, dalla seconda più che dalla prima. Infatti, un'attenta
lettura del Trattato di Maastricht conduce all'ovvia conclusione che lo stesso immagina l'Europa come area d'influenza del marco tedesco. E non è un caso che i! Consiglio Europeo convocato nell'Ottobre 1993 decise di stabilire il nuovo Istituto Monetario Europeo a Francoforte, ad un passo cioè dal quartier generale della Bunde sbank. Alla fine, l'inclusione nel 1980 di nuovi membri nella Comunità - Grecia, Portogallo e Spagna, che seguirono la Danimarca, l'Irlanda e il Regno Unito - e i negoziati con i paesi dell'EFTA (l'Europa del Nord più l'Austria e la Svizzera) furono indirizzati a creare un più ampio spazio economico europeo, per favorire l'interscambio commerciale in Europa. Non si deve dimenticare che il flusso di beni che riempie le camere, i frigoriferi, i bagni, ed i garage di milioni di case europee proviene per più del 60% dall'interscambio europeo. Questo allargamento, comunque vantaggioso, ha diluito, e probabilmente continuerà ancora a diluire, il potenziale politico della Comunità. Pur essendo diventata "più larga", la stessa non si è dimostrata "più profonda e più vicina" come previsto e auspicato da Robert Schuman. Lo Stato nazione ha fino ad oggi gestito il proprio riassestamento politico manovrando all'interno dei confini dell'Europa Occidentale e della Comunità.
Di tanto in tanto, qualcuno dei leader europei ha provato a muoversi al di fuori di questi confini, ma è dubbio che le parole di Valery Gjscard d'Estaing possano aver indotto Leonid Brezhnev a cambiare idea quando i due si incontrarono a Varsavia nel 1980 in seguito all'invasione sovietica dell'Afghanistan, o che le missioni di Giulio Andreotti nei territori arabi, possano aver convinto Yasser Arafat a cambiare la sua politica. Poi arrivò la doccia fredda del 1989. Franois Mitterand comprese immediatamente che il crollo del Muro di Berlino poteva rappresentare per la Francia l'inizio di un disastro politico. Il suo andirivieni per l'Europa fu motivato dall'ottenere supporto per un politica di "go-slow". Il 28 novembre 1989, Helmut Kohl presentò al Bundestag un programma in tre fasi per unificare le due Germanie. Otto giorni più tardi, a Kiev, Mitterand incontrò Mikhail Gorbachev, immaginando che il leader sovietico potesse ricomporre i cocci del vaso che lui stesso aveva rotto. Ma così non fu. Sempre alla ricerca di condizioni che facessero rivivere un asse di cui la Germania aveva sempre avuto bisogno molto meno che di Parigi, Mitterand fu costretto a fare di necessità virtù. Il 20 dicembre 1989, in una visita ufficiale nella Germania Est per incontrare Egon Krenz, lo abbandonò al suo destino dicendo solo che egli 91
aveva fiducia "nella maturità delle Germanie dell'Est e dell'Ovest"hl. La Germania non era meno confusa della Francia, ma per ragioni più irresistibili. L'unificazione era a portata di mano, ed Helmut Kohl capì immediatamente che la Comunità non erà più (come invece era stata nella fase iniziale dell'asse con la Francia) lo strumento per compensare la debolezza politica della Germania. Dopo Maastricht la Comunità, ribattezzata Unione, è diventata il veicolo che ha permesso al Cancelliere di consolidare la sua leadership in Europa e di diluire il suo nuovo potere in una più estesa struttura europea. La Francia non aveva altra scelta che accettare la sfida, seguire il carro tedesco e continuare a offrire ai suoi partner europei le proprie specifiche garanzie. I GIORNI DI MAASTRICHT: UNA
CRISI
ISTRUTFWA
PER L'EUROPA
La bilancia del potere in Europa pende sempre più verso la Germania. Nel passato, quando venivano sfidati da un simile squilibrio, gli Stati nazionali reagivano ponendo condizioni tali da condurre ad un riequilibrio delle forze. È molto difficile che questo possa accadere ancora, almeno nei modi del recente passato. Il tempo in cui gli Stati europei erano nella possibilità di attivare i loro mortali giochi di potere sono trascorsi per sempre. C'è al momento un gap economico struttura071
le che impedisce alla Germania di essere reinserita in un equilibrio. È sufficiente affermare che la forza lavoro di Francia e Italia messe insieme non supera quella della Germania. Questa è una delle molte circostanze che obbligano i Paesi dell'Unione, e gli altri Stati in Europa, a raccogliersi intorno alla Germania. Anche se il dinamismo dell'economia tedesca "sta girando lentamente in un modello statico di welfare-state che minaccia seriamente la capacità della Germania di competere efficacemente nel mercato globale", essa mantiene comunque una posizione relativa di incontrastabile forza nel (e anche al di fuori del) consesso europeo. Una conferma di ciò viene offerta dagli eventi monetari del 1992-93. L'adozione di una banda flessibile di fluttuazione di trenta punti (quindici al di sopra e quindici al di sotto) per le valute europee nello SME ha di fatto posto il marco tedesco come monetabase per l'intera regione europea. I timori sono diminuiti in forza del ruolo dell'Unione come scudo nei confronti della Germania; d'altra parte il franco ha continuato a navigare in acque relativamente calme, contribuendo a salvare l'immagine della Francia nel mondo. Il punto importante, comunque, è ancora un altro. La Germania, dal momento che l'asse con la Francia era spezzato, non poteva che essere completamente a favore dell'Unione,
che al costo di mantenere vive soltanto nominalmente alcune organizzazioni che appartengono geneticamente all'Unione, incluse quelle previste nel Trattato di Maastricht. Certamente la Germania deve percorrere un sentiero difficile. Il suo marco non può né essere sopravvalutato, né svalutarsi rispetto alle altre monete europee. La sua svalutazione, infatti, porterebbe inflazione, la quale aumenterebbe le difficoltà del governo a risanare la "debolezza strutturale" dell' economia del Paese, ostacolando i suoi sforzi di porre in essere le diverse iniziative per ricostruire - non solo fisicamente e materialmente - le sue regioni orientali. Ma se il marco dovesse sostanzialmente rafforzarsi, la Germania non potrebbe esportare neppure uno spillo. Nessuna di queste possibilità offre un opzione realizzabile. Anche se la volontà del governo di Bonn fosse nel senso di accettare un modesto compromesso verso un possibile indebolimento del marco, la Bundesbank e la classe media tedesca creerebbero a tale manovra, così come hanno fatto di recente, insormontabili ostacoli. A monte di tutto, non c'è consenso in Germania per iniziative che potrebbero opporsi, anche in minima parte, alla sua autonomia nazionale in merito alle politiche monetane. Il codice di comportamento tedesco deve così coincidere con quello dell'Europa, e non ci sono alternative. L'Unione è il cuore dell'Europa, e la
Germania è il cuore di entrambe. Nel biennio '92-'93 l'Europa ha imparato che non può affrontare il lusso di provocare alla Germania un attacco di cuore. La Francia ha imparato questa lezione meglio di qualunque altro Paese europeo; essa resta profondamente interessata a preservare a qualsiasi costo le sue relazioni politiche privilegiate con Bonn. Successivamente al 1989, le opzioni politiche utilizzabili dai Tedeschi crescevano insieme in numero e qualità. Erano più numerose di tutte quelle gestibili dai partner europei messe insieme. Nonostante gli attuali problemi, la forza dell'economia tedesca è sufficiente a garantirgli un posto al centro di ogni possibile futura configurazione politica dell'Europa. Qualsiasi ipotesi sul futuro europeo deve considerare ciò. A questo punto possono presentarsi tre possibilità: a) come risultato dello stato di crisi della politica interna e sociale determinato dalla necessità di ristrutturare l'economia tedesca, ma anche per affrontare il complesso processo di riunificazione (che sta dimostrandosi più difficile di quanto previsto), la Germania si ripiegherà su sé stessa; b) la Germania gestirà le sue nuove opportunità e le opzioni politiche timidamente ed in modo indeciso, e così commettterà alcuni fatali errori; c) la Germania si muoverà con 93
attenzione, ma con determinatezza, lungo le strade lasciate aperte da tali nuove opportunità. Di queste tre ipotesi, l'ultima appare la più probabile. L'interesse vitale di un Paese in grado di riconquistare la libertà perduta fino a pochi anni fa, consiste nell'avere possibilità di parola nel modello di economia globale, assicurandosi stabili vantaggi competitivi. Per fare questo la Germania deve acquisire una forza negoziale che non può non dipendere dalla costruzione e dal mantenimento di un esteso mercato nazionale tedesco. Questo implica la definitiva trasformazione dell'Unio," Il I I marco teaesco , cne ne in un area aei controlli i mercati del Centro e del Sud-Est dell'Europa e, secondo una normale evoluzione delle presenti condizioni, istituzionalizzi forti e privilegiate relazioni di cooperazione economica e politica con la Russia. Le due principali armi utilizzabili dalla Germania sono l'internazionalizzazione dei marco, che in cambio richiede una pronta e vincente ristrutturazione del potenziale economico ed industriale tedesco, ed il consolidamento di una forma di egemonia politica, non come nazione, non come popolo, ma come sola Grande Potenza dell'Unione. L'Unione Europea è ancor più importante oggi per la Germania che non in passato. Se negli anni scorsi la Germania ha favorito l'Europa, Bonn deve dimostrarsi oggi formalmente, senza 94
eccezioni, saremmo tentati di dire ossessivamente, pro-Europea. Essa ha bisogno dell'Unione per creare gli strumenti essenziali mediante i quali controllare il processo graduale di internazionalizzazione dei marco e modellare la propria egemonia politica. Per la propria parte, l'Unione deve abbandonare la strada senza uscita sulla quale ha indugiato dopo Maastricht. Bruxelles finora si è dimostrata incapace di impedire ai Paesi membri, da quando hanno ratificato il Trattato di Maastricht, (che ha trasformato l'Unione Monetaria in un condominio con appartementi già ufficialmente riservati, da occuparsi in un qualche indeterminato futuro), di rendere la stessa UEM un'istituzione puramente nominale. In questo contesto la Germania, come Paese più forte dell'Unione, è nella posizione di favorire le più diverse soluzioni. La Germania può agire formalmente come il Paese membro più potente dell'Unione senza mettere a repentaglio eccessivamente i propri interessi nazionali. D'altro canto può giocare la preziosa carta di una Europa "a strati", una carta impossibile prima di Maastricht. Non si può neppure eliminare la possibilità che la Germania proponga la creazione di una Unione-direttorio per gli affari politici europei, più o meno informale, offrendo l'adesione a Francia, Italia, Inghilterra e Spagna.
La Germania, fortemente supportata da un'Unione riorganizzata su questi modelli, potrebbe acquisire lo spazio e la flessibilità necessarie per istituire rapporti bilaterali con i Paesi membri dell'Unione e con altri, agevolando le traiettorie di collegamento attraverso un'Europa fatta di cerchi concentrici, ognuno dei quali potrebbe acquisire differenziate e reciprocamente riconosciute funzioni. In un Unione di ordinamenti differenziati l'approccio funzionalista potrebbe trovare nuove applicazioni, risolvendo gradatamente i suoi problemi insolubili. CHE SAPRÀ FARE IL DIRETTORIO DI UN'EUROPA "MULTISTRATO"? C'è da chiedersi se un'Unione composta da più strati differenziati sia meno accettabile di una composta da sedici, o diciotto o venticinque Stati nazionali che non si muovono all'unisono. Saprà un direttorio all'interno di un'Europa "multistrato" essere in grado di prendere posizione su urgenti questioni, come ad esempio per quanto riguarda le relazioni tra Unione e Turchia, o lo dovrà fare un'Unione extralarge senza un nucleo decisionale? Quali lezioni si dovranno trarre dal "fiasco" europeo nella tragedia dell'exYugoslavia? In merito al consolidamento del suo percorso europeo, La Germania sarà obbligata ad offrire qualcosa per la sua intrinseca debolezza militare e strategica.
Non c'è altra scelta ma tutto rimane legato e subordinato alle decisioni della strategia statunitense. Nel 1993, la Germania ha ridotto le sue spese militari, ma non quelle relative agli investimenti per ricerche e sviluppo per una nuova generazione di armamenti. È possibile che la Germania non sarà in grado, vista la precedenza che essa dovrà obbligatoriamente dare alla ristrutturazione della propria economia ed alle domande sociali poste dall'unificazione, di disporre di un potenziale militare moderno e sofisticato prima dell'anno 2010. Ne segue che la Germania (e l'intera Europa) sarà costretta ad affidare la propria sicurezza agli Stati Uniti ed alla Nato. Non è certo irragionevole pensare che la Germania, in quanto in stretta ed inevitabile cooperazione con l'ultima superpotenza rimasta, possa avocare a sé (o per quanto possibile, alla direzione dell'Unione) lo sviluppo dell'Unione dell'Europa Occidentale (UE0), come polo europeo della NATO, dotandola di un minimo di autonomia politica. Non si può dimenticare che questa soluzione è favorita anche da considerazioni economiche e produttive che sono difficili da ignorare: la NATO mantiene una divisione, che segue strettamente i confini degli Stati, tra le industrie di prodotti per la difesa in Europa; una UEO più larga potrebbe non solo favorire, ma accelerare l'integrazione transnazionale, incrementando di certo il tasso di mo-
dernizzazione e l'efficienza economica ed industriale dei Paesi membri. Anche se la retorica ufficiale preferisce non ammetterlo, durante la Guerra Fredda l'Europa visse in una condizione politica menomata. La direzione di un'Alleanza Atlantica assolutamente indispensabile era nelle mani americane. In pii, la Guerra Fredda, con le sue proprie specifiche regole, represse l'esercizio delle sovranità nazionali, specialmente in Europa dove le due superpotenze nucleari erano fisicamente faccia a faccia. Queste sono verità antiche, ma è meglio ricordarle. Per tutti questi anni (almeno mezzo secolo, due generazioni) i governi e l'opinione pubblica dell'Europa si sono dovuti abituare ad una dieta che ha limitato il loro esercizio e la loro comprensione delle responsabilità politiche, per non parlare della loro capacità di ricercare e porre in essere decisioni autonome. In questo contesto, che qualcuno ha chiamato la Pax Americana, l'Europa non ha potuto far altro che integrarsi come mercato e crescere economicamente. Perché non riconoscere che gli Stati Uniti, sempre timorosi del sorgere di un concorrente minaccioso al di là dell'Atlantico, in realtà giocarono il ruolo di primo agente e costruttore dell'integrazione dell'Europa occidentale? In ogni caso, l'America facilitò tale integrazione assicurando la salvaguardia delle frontiere europee. Con la fine della Guerra Fredda, il 96
ruolo dell'America nell'integrazione europea non poteva essere giocato ancora a lungo. Oggi, dopo Maastricht, gli interessi economici, monetari e soprattutto politici determinano una revisione dei vecchi modelli di relazione. Questi, infatti, non possono ancora essere improntati come se la Guerra Fredda fosse ancora una realtà. E poiché tutto il processo d'integrazione europea richiede sia un agente fondamentale che un "costruttore", il compito svolto dagli Stati Uniti verso l'Europa, passa, inevitabilmente, alla Germania. Gli europei non hanno altra scelta che cambiare la loro dieta politica, riacquistando l'abitudine di assumersi responsabilità, di porre in essere ed eseguire decisioni. Più
DI UN'ALLEANZA,
MENO DI UN'UNIONE
Gli autori devono confessare di non poter soddisfare una legittima aspettativa del lettore. Essi credono che la destinazione finale del lungo viaggio degli europei sia ormai in vista. Al Trattato di Maastricht (un testo che ha sposato l'ambigua ed indeterminata formula funzionalista di una "ever dose community"), va tuttavia riconosciuto il merito di aver messo in moto una dinamica politica di reazioni e di contro-reazioni che ha contribuito a precisare quali carte potevano (o non potevano) essere giocate per definire, o almeno circoscrivere, la
destinazione finale dell'Europa. Infatti, oggi, per la prima volta, gli europei possono scartare alcune destinazioni chiaramente impossibili e irrealizzabili: ad esempio, l'auto-annichilimento degli Stati nazionali europei e la loro fusione in un nuovo superStato federale europeo. Tuttavia, gli autori non sono riusciti a definire con una sola parola la destinazione finale verso cui l'Europa sta incamminandosi. Non trovando un nome o una parola, gli autori hanno dovuto ripiegare su una formula. Pur essendo insoddisfacente, è quella che meglio di ogni altra esprime le loro convinzioni: la destinazione finale dell'Europa sarà qualcosa di più di un'alleanza ma qualcosa di meno di un'unione (almeno così come questi termini sono stati storicamente e politicamente definiti dalla tradizione occidentale. Il Regno Unito e gli Stati Uniti sono esempi di Unione). Le seguenti argomentazioni sembrano conferire validità a questa formula. Un'attenta lettura dei sondaggi europei susseguitisi negli anni convoglia in modo netto l'impressione che gli europei siano consapevoli dell'utilità di vivere in un grande spazio economico europeo istituzionalizzato nel quale si possa lavorare, viaggiare e vendere prodotti e servizi senza barriere e senza controlli alle frontiere, tutelati e protetti da un sistema omogeneo e reciprocamente riconosciuto di norme e sanzioni. Inoltre, è opinione degli autori di
questo articolo che la maggioranza dei cittadini dei Paesi europei veda l'integrazione europea come un'irripetibile occasione che permette alle loro rispettive nazioni di diventare più grandi e più importanti nella nuova arena mondiale. Secondo un vecchio proverbio, l'unione fa la forza; le nazioni europeee sono deboli, se sole; più forti, se unite. Ciò significa che il disegno politico che i cittadini dei Paesi dell'Unione sembrano pronti a sottoscrivere ha una sua peculiare caratteristica: una Unione e, quindi, un'Europa che nasce assai più da banali, ma concrete valutazioni di tipo utilitaristico - oltre che, in un certo senso, nazionalistiche -' e assai meno da generosi ma utopici impulsi europeistici. Se questo è vero, allora, per fare un esempio, saranno queste concrete valutazioni e non le generose utopie a convincere gli europei della necessità di dover integrare le loro risorse per la comune difesa in un contesto contrassegnato dal fatto che gli Stati Uniti non potranno più garantire la sicurezza del Vecchio Continente nelle forme perentorie ed assolute che furono tipiche degli anni della Guerra Fredda. (D'altra parte non certo l'Unione, non certo Bruxelles, possono sostituirsi ad alcune nazioni europee nel giorno in cui esse dovranno decidere circa il futuro del loro obsoleto armamento nucleare; ed è decisione questa, che dovrà essere presa con tanto maggiore urgenza quanto più dovessero venire portate a compi-
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mento le intese raggiunte nel gennaio 1994 dal Presidente degli Stati Uniti con l'Ucraina, la Bielorussia e la Russia circa lo smantellamento e/o il controllo delle loro testate nucleari). QUAL È LA DESTINAZIONE FINALE DELL'EUROPA SECONDO GLI EUROPEI? Ma il vero punto su cui occorre attirare l'attenzione dei lettori è che nessuno si è mai preoccupato di chiedere agli europei quali fossero le loro opinioni in merito alla destinazione finale dell'Europa. In particolare, nessuno ha chiesto agli europei di scegliere con precisione fra diverse possibili configurazioni finali del processo d'integrazione europea: ad esempio, una forte alleanza tra le nazioni europee con diritto di voto e di veto, oppure una vera e propria fusione delle stesse in una Unione simile per molti agli Stati Uniti d'America? Ne' le opinioni espresse dagli europei attraverso i referendum tenuti in alcuni paesi dell'Unione per la ratifica del Trattato di Maastricht possono essere assunte come indicative riguardo alle loro scelte circa la destinazione finale dell'Europa. Infatti, in questa occasione, i popoli (ma anche i parlamenti) hanno votato pro o contro l'idea di Europa, vale a dire pro o contro la possibilità di una dissoluzione della Comunità (o dell'Unione) e delle stesse sue fondamenta così come esse erano state poste dal Trattato di Roma
nel 1957. Sotto questo profilo, non è politicamente lecito trasferire all'ambiguo e indeterminato modello di Unione prefigurato dal Trattato di Maastricht il consenso che i parlamenti e i popoli europei hanno espresso in occasione della sua ratifica. Infatti, il voto espresso in questa circostanza era a favore di un oggetto diverso e di valore ben più fondamentale: la vita o la morte dell'idea di Europa. L'idea d'Europa è rimasta viva, ma non grazie ad una incontenibile ed entusiastica ondata di "si". Per queste ragioni non si possono sottovalutare le preoccupazioni espresse dalle opinioni pubbliche quando il discorso cade sui futuro dell'Unione. Gli esempi non mancano: le forti, dure perpiessità manifestate dai tedeschi rispetto alla prospettiva di diluire il D-mark in una moneta europea; la marcata ostilità degli inglesi circa i meccanismi automatici, e perciò incontrollabili, che annullano le prerogative nazionali; il crescente dissenso degli italiani e dei francesi riguardo alle norme europee che, mentre liberalizzano mercato e concorrenza, limitano l'intervento dello Stato nell'economia e vietano gli aiuti alle imprese pubbliche. Oltre a questi, vi sono altri fattori che alimenteranno le resistenze all'Unione Europea in quanto progetto che snaturi le componenti nazionali. Anzitutto, c'è la lingua. E vero: i giovani eu-
ropei sono multilingue assai più di quanto non lo fossero i loro genitori. Ma il primato della "lingua-madre" continuerà ad esistere ancora per molto tempo, alimentando a sua volta le identità nazionali dei vari popoli europei. C'è un altro e ben più concreto fattore (destinato a farsi sentire ancora per molti anni): benché lo stato sociale dei Paesi dell'Europa continentale sia scosso da una profonda crisi, i suoi funerali non sono stati ancora celebrati ed è ragionevole dubitare che un tale evento abbia mai luogo: ne consegue che esso continuerà a prestare le sue garanzie, e che queste garanzie, primo, verranno offerte dalle singole nazioni e non dall'Unione, e, secondo, che esse saranno quantitativamente diverse da nazione a nazione. Un impiegato italiano continuerà ad essere meno socialmente protetto qualora decidesse di lavorare nel Regno Unito. Un agricoltore francese dispone nel suo paese di garanzie sociali (e anche economiche) introvabili in altri contesti nazionali. Un cittadino di uno dei Paesi del Nord Europa incontrerebbe enormi problemi qualora dovesse usufruire dei servizi sanitari e ospedalieri di certi Paesi del Sud Europa. Quel che si vuol dire (senza offendere nessuno) è che non ci sono condizioni sociali omogenee nell'ambiente europeo, e che questa mancanza di omogeneità impedisce nel presente e impedirà per molti anni a venire il sorgere di un reale, concreto senso di cittadi-
nanza europea diffuso a livello di massa. Più del 99% dei cittadini europei continuerà a vivere nel proprio ambiente nazionale: costoro saranno felici di vivere in un mercato interno liberalizzato, ma per la soddisfazione dei propri interessi personali e sociali il loro vero punto di riferimento non sarà Bruxelles, ma la ruling class del loro paese. Essi rimarranno cittadini della nazione in cui sono nati. I veri e nuovi europei non saranno più dell' 1% (e forse, realisticamente, nemmeno lo 0,5%) dell'intera popolazione dell'Unione. Sono manager d'imprese industriali o di banche, tecnici altamente qualificati, analisti economico-finanziari, uomini del marketing, ricercatori scientifici applicati, amministratori pubblici, dirigenti di fondi pensione, analisti degli affari politico-sociali di un paese dell'Unione che lavoreranno per governi o imprese di un altro paese dell'Unione, e così via: persone cioè, che venderanno a caro prezzo il loro know-how e che saranno disponibili a vivere o a spostarsi in qualunque città europea. Nei prossimi otto/dieci anni i cittadini europei, nel vero senso della parola, costituiranno una ristretta élite di persone sparse su un intero continente, consapevoli di appartenere a un gruppo sociale nuovo e del tutto speciale. Gli altri resteranno abbarbicati alle loro nazioni, come l'edera al tronco di un albero. Sotto questo profilo, le nazioni europee rimarranno nazio-
ni separate" nel prevedibile futuro. Una parte del cervello delle nazioni diventerà europeo, ma il resto dei loro corpi (compreso il cuore) rimarrà per molto tempo ancora nazionale. UNA LEZIONE PER LE CLASSI DIRIGENTI
È alla luce di queste considerazioni che devono essere apprezzati due fenomeni fra loro divergenti. Primo: le classi di governo europee hanno assorbito lo schock del dopo-Maastricht (dalle tempeste monetarie ai referendum danese e francese) e sono da tempo di nuovo al lavoro. Sanno di dover onorare dei patti vincolanti; di non potere in alcun modo evadere le obbligazioni connesse al Trattato. Sanno, inoltre, che il Mercato interno europeo impone un'agenda di armonizza'zione che non può essere fermata senza distruggere il mercato stesso; infine, sanno che gli "escamotages" e le decisioni puramente nominali, ricordate più sopra, possono essere soltanto degli espedienti temporanei. In breve, c'è stato anche per le classi di governo un periodo di "learning crisis". La lezione appresa può essere così riassunta: la realizzazione dell'Unione non può essere soltanto l'esito di una costrizione giuridica, ma deve essere anche il prodotto di un'azione politica volontaria. Secondo: ie maggioranze che eleggono nei paesi dell'Unione le ruling classes chiamate ad implementare il Trattato di Maastricht tendono, invece, a man100
tenere in vita i riferimenti politici e sociali di carattere nazionale. Questa tendenza sembra assumere l'aspetto di una ri-nazionalizzazione delle opinioni pubbliche: essa acquista rilevanza e forza nel momento stesso in cui la gente comincia a valutare la prospettiva europea in termini concreti di vantaggi o svantaggi personali. La gente non ama scambiare le certezze di oggi con le incertezze di domani. Fino a quando si parlava di Europa in generale, tutti erano d'accordo; l'accordo decresce quando l'Europa comincia a diventare un oggetto preciso su cui misurare i propri interessi individuali. I due fenomeni divergenti non sono tanto profondi da mettere a repentaglio l'idea di un'alleanza forte fra gli stati dell'Unione, ma, certamente, mette in crisi un eventuale progetto di Unione come fusione degli Stati nazionali in un'entità più o meno federale, che implichi una denazionalizzazione veloce e sostanziale dei corpi sociali dei paesi europei. Non di meno, la costruzione dell'edificio europeo proseguirà: anche se non dovesse essere rispettata l'agenda prevista da Maastricht, anche si dovessero rinegoziare parti del Trattato di Maastricht. Tuttavia, non possiamo attenderci (almeno nei prossimi anni) che l'Europa cammini verso un'Unione intesa secondo il tradizionale senso politico e storico della parola. La costruzione dell'edificio europeo è in
piena evoluzione. Da questo travaglio uscirà "qualcosa": qualcosa che sarà molto di più di un'alleanza forte, ma qualcosa di meno di un'Unione. D'altra parte dobbiamo riconoscere che la storia non ci offre un precedente storico di ciò che sta avvenendo (e avverrà) in Europa. NON C'E IL "FEDERATORE"
Di solito, le unioni (o le federazioni) nascono perché c'è un soggetto che ha la forza politica di essere il "federatore", di "federare" gli altri. Spesso ciò avviene in virtù della forza militare, o della forza economica del soggetto "federatore". Anche un comune nemico può svolgere questa funzione. Molti affermano che, nell'Europa di oggi, questo soggetto "federatore" sia la Germania. Gli autori di questo articolo non hanno esitato a scrivere che la Germania svolge un ruolo cruciale e, per molti aspetti, decisivo rispetto al processo d'integrazione europea; tuttavia, essi pensano che sia sbagliato vedere nella Germania il soggetto «federatore" dell'Europa. Prima di tutto, l'egemonia politica della Germania (in parte esercitata insieme alla Francia) non ha prodotto in Europa una tendenza unionista o federativa di tipo classico. Anzi, in Europa sta accadendo esattamente il contrario: la Germania sta negoziando i limiti alla propria sovranità in una condizione di assoluta parità con gli altri.. Certo, la Germa-
nia, quale supposto agente "federatore" dell'Europa, ha dei poteri d'influenza culturali, ma soprattutto materiali, più forti di quelli utilizzabili dagli altri paesi dell'Unione; ma il punto è che alla fine della storia le decisioni che la Germania dovrà prendere saranno probabilmente più difficili e più complicate, ma sul piano giuridico saranno uguali a quelle che dovranno prendere il Lussemburgo o l'Irlanda. Tutti i paesi dell'Unione devono accordarsi per decidere quali parti della loro sovranità devono cedere al "qualcosa" di nuovo che sta nascendo in Europa. Sotto questo profilo è possibile definire il processo che porta verso qualcosa di completamente nuovo (molto più di una alleanza, ma molto meno di una unione) come un processo necessario e volontario al tempo stesso. Le nazioni sono le legittime proprietarie di poteri sovrani ai quali devono necessariamente rinunciare (per continuare a essere forti, per far udire la loro voce); spetta ad esse la volontaria decisione di diventare una cosa diversa da quella che sono state negli ultimi secoli. UN SENTIERO STRETTO E SCIVOLOSO PER TUYFI
Non soio la Germania, come avevamo scritto più sopra, ma anche l'Europa dovrà camminare negli anni a venire lungo un sentiero stretto e scivoloso. Il viaggio verso la destinazione finale continuerà purché si realizzino certe 101
condizioni fra loro strettamente interdipendenti. Alcune di esse riguardano gli affari interni dei maggiori paesi dell'Unione; altre condizioni riguardano, invece, la ricerca e la messa in opera di almeno alcune delle complementarietà fra lo stato nazionale e il regime sovranazionale dei poteri. Le condizioni qui elencate sono solo degli esempi indicativi degli ostacoli disseminati lungo tale sentiero. La prima condizione è che i sistemi politici dei paesi dell'Unione continuino a rappresentare una larga maggioranza di elettori politicamente moderati, sia di centro-destra, sia di centrosinistra e che si eviti una frammentazione di questi stessi sistemi politici: sbandamenti degli elettorati verso movimenti radicali di destra (di tipo social-nazionale) e di sinistra (di tipo populistico) spazzerebbero via il codice politico europeista che ha permesso di compiere passi decisivi verso l'integrazione economica e di mercato del Vecchio Continente e aprirebbero la via al protezionismo nazionalista. Possiamo chiamarle "ruling classes" o èlites politiche; i nomi non sono importanti, ciò che conta è che nei prossimi tre o quattro anni non vi siano fratture o discontinuità di cultura politica nella successione dei leaders politici e di governo nei paesi dell'Unione, e che i nuovi capi siano altrettanto bravi dei loro predecessori nel raccogliere il consenso e nel tenere unito l'elettorato 102
moderato (sia di centro-destra, sia di centro-sinistra). Non bisogna dimenticare che i partiti dei paesi continentali europei sono macchine pesanti, costose ed anche obsolete. Il loro modello è simile a quello del partito leninista: dal centro alla periferia ogni strato del partito è l'interfaccia di un corrispondente livello dell'organizzazione amministrativa dello Stato. Ciò consente ai partiti di controllare e/o di influenzare i comportamenti degli uffici dello Stato nel momento in cui essi allocano risorse pubbliche. Essendo quello che sono, i partiti europei non possono essere gestiti senza ricorrere a denaro pubblico e, quindi, alla benevolenza del "taxpayer". Tutti i partiti europei (in modo più o meno vistoso, più o meno moralmente indecente) sono diventati dei crocevia ove s'intersecano risorse finanziarie pubbliche e private, lecite e illecite. I partiti politici europei sono scossi da una crisi di credibilità; è probabile che nei prossimi tre o quattro anni, come sta già avvenendo, non pochi degli attuali leader europei scompaiano sostituiti da nuovi capi; è importante che questo passaggio da una vecchia a una nuova generazione non sia accompagnato da fratture di cultura politica e che i nuovi capi riescano a raccogliere il consenso dell'elettorato così come seppero fare i loro predecessori. La seconda condizione postula che il tessuto economico e sociale europeo
continui a produrre (o mantenga una inerente e sostanziale credibilità riguardo alla sua capacità di produrre) una "grande classe media" orientata verso "l'ottimismo politico", e che pertanto, questo processo non sia soggetto a brusche rotture o a tragiche interruzioni. In breve, la coesione di una maggioranza sociale formata da una classe media benestante, non spaventata da un temporaneo indebolimento dello Stato sociale costruito nei passati decenni dai paesi continentali europei, coincide con la probabilità di portare a compimento l'integrazione europea. Tutto questo è molto banale, ma è molto vero. La questione-chiave è la seguente: anche il tessuto economico-sociale e la classe media che ne è il prodotto sarà molto probabilmente colpita da un cambiamento generazionale nei prossimi tre o quattro anni. Sarà importante vedere se questo cambiamento potrà coesistere con il mantenimento di orientamenti politici moderati nei ceti medi. La terza condizione, anch'essa strettamente associata alle prime due, riguarda la profonda crisi economica che sta colpendo l'Europa: se, come e quando essa verrà superata. Possiamo essere ragionevolmente sicuri che dopo un periodo di recessione, l'economia europea rimbalzi verso più alti livelli ed esibisca meno sconsolanti tassi di sviluppo. Tuttavia, non possia-
mo dimenticare i caratteri strutturali della crisi economica europea del 1992-93. Le questioni-chiave sono le seguenti: riuscirà la ripresa economica ad assorbire la disoccupazione, in particolare quella giovanile? Le risorse generate dalla ripresa economica si diffonderanno in modo omogeneo all'interno dei maggiori paesi dell'Unione e, specialmente per quanto riguarda la Germania e l'Italia, queste nuove risorse raggiungeranno ogni area dei rispettivi territori nazionali distribuendosi sui diversi gruppi sociali? Sono questioni destinate, per ora, a restare senza risposta. Tuttavia, proprio perché si tratta di un problema cruciale è opportuno offrire al lettore alcune riflessioni aggiuntive. LE QUATFRO CRISI EUROPEE
Tre crisi distinte hanno generato una quarta crisi e tutte insieme hanno creato questa speciale crisi economica europea dei primi anni Novanta. Prima, le grandi industrie manifatturiere europee non hanno potuto (o saputo) adeguarsi alle nuove regole della concorrenza internazionale. In seguito (seconda crisi), gli Stati europei si sono pesantemente indebitati ed è diventato per essi impossibile ricorrere a politiche economiche di sostegno finanziabili con creazione di deficit. Terza situazione. La crisi dell'economia tedesca, aggravata dalla necessità d'indirizzare ingenti (e non previste) 103
risorse alla ricostruzione della parte orientale, ha reso più difficili i tentativi di stabilizzare la situazione economica e monetaria in Europa. Queste tre crisi ne hanno generato una quarta: l'impossibilità di mantenere in vita senza riforme che ne aumentino l'efficienza e senza diete di dimagrimento la macchina del Welfare State dei paesi continentali europei. Per dirla con altre parole la crisi economica europea dei primi anni Novanta si è presentata come l'evento che ha messo fine ad un ciclo di incontrollata espansione del modello di economia sociale di mercato creato in Germania nel dopoguerra e nei fatti adottato, salvo varianti locali, dai paesi continentali europei. Non è infondato il timore che per uscire da tale crisi l'Europa debba ridurre la propria forza lavoro (e questo mentre la stessa vive un ciclo demografico di forte invecchiamento della sua popolazione complessiva) e tagliare molte delle garanzie sociali finora offerte dal suo Welfare State. È quindi probabile che ciascun paese europeo debba potare il proprio albero per risanano. C'è di più: non si può trascurare la probabilità che in queste condizioni di relativa debolezza dei partiti europei e di abnorme funzionamento dei meccanismi del Welfare, un'eventuale ripresa economica europea sia di tipo selettivo e darwiniano e non invece, come nel passato, omogeneamente diffusa. Diversamente dagli americani, gli eu104
ropei (ma anche i giapponesi) non sono abituati alle forti differenze economiche e sociali: gli Stati europei (a ragione o a torto) hanno sempre cercato di evitare che milioni di persone vivessero in una condizione di semi-occupazione con redditi uguali o inferiori a quelli della cosiddetta soglia della povertà. Non si possono escludere pertanto situazioni che amplificherebbero le incertezze e i timori della classe media, accrescendone sia il pessimismo sociale, sia, per conseguenza, la sfiducia nei riguardi dei partiti che rappresentano ciò che in Europa va sotto i1 nome di «centro politico . In effetti, il sentiero sul quale le nazioni europee dovranno camminare è davvero irto d'insidie. Al riguardo, date queste tre condizioni il cui esito influenzerà fortemente il progetto di Unione Europea, bisogna avanzare un'ultima e importante considerazione: il carico (o il sovraccarico?) di decisioni e di responsabilità che gravano sulle spalle dei paesi europei è certamente straordinario ed inusuale. Nè gli Stati nazionali possono affidare all'Unione il compito di prestare ad essi assistenza finanziaria diretta od indiretta per facilitare la loro uscita dalla presente crisi economica, e ciò per la semplice ragione che l'Unione non possiede risorse autonome da indirizzare a tale scopo. Se gli Stati nazionali, anche ai fini di pura propaganda politica, volessero invocare l'aiuto dell'Unione la distruggerebbe-
ro, rivelandone l'impotenza e ottenendo un solo risultato: quello di farne il capro espiatorio delle loro difficoltà. Allora, per riassumere, le spalle degli Stati nazionali sono schiacciate da due fardelli straordinariamente pesanti: - le sorti future dell'Unione Europea sono nelle mani degli Stati nazionali e non in quelle delle entità sopranazionali dell'Unione; - al tempo stesso, gli Stati nazionali devono, in perfetta solitudine, superare le loro crisi interne, cioè in particolare: a) mantenere inalterato il livello dei consensi politici finora raccolti dai partiti che rappresentano in Europa il cosiddetto "centro politico"; b) non perdere la fiducia delle classi medie come i soli agenti politici capaci di presiedere ad un efficiente funzionamento del processo di creazione di ricchezza (nella libera economia di mercato) e della sua distribuzione in modo omogeneo (mediante lo "stato sociale europeo"); c) soddisfare le condizioni di cui ai due punti a) e b) in una situazione che sarà presumibilmente caratterizzata da: una drastica riduzione delle garanzie sociali finora offerte dalle agenzie del Welafare; dal-' la necessità di accettare una ripresa economica selettiva e darwiniana e, quindi, non omogeneamente diffusa; dalla difficoltà di ridurre a livelli tollerabili (per gli standard europei) il tasso di disoccupazione. Tuttavia, in queste contingenze, pro-
prio perché la responsabilità di evoluzione o di stallo dell'Unione europea è nelle mani degli Stati nazionali, questi ultimi non possono farsi totalmente assorbire dai loro pur gravi problemi interni. Anzi, talune loro iniziative a favore dell'Unione possono essere utili ai fini del mantenimento di una coesione sociale delle classi medie europee e per evitare l'esaurirsi dell'ottimismo politico. L'attuale situazione dell'Unione Monetaria Europea è stata più sopra paragonata a quella di un condominio i cui appartamenti, benché diligentemente prenotati, verranno occupati dai loro nuovi inquilini in una data non specificata. La sfida politica che sta davanti alle classi di governo europee può essere definita come segue: come trasformare la debolezza di un ripiego puramente nominale, adottato "faute de mieux", in una opportunità politica sostanziale e reale. LA VERITÀ FUORI DAL FORMALISMO
I! Cancelliere Kohl ha avuto modo di ripetere che la miglior terapia politica è dire ai cittadini la nuda e cruda verità: se essi la conoscono nei suoi termini esatti, allora si può sperare di mobilitarne le energie. Nel momento in cui si dice ai propri'ittadini la verità su una crisi interna economica e sociale (ma anche politica) che gli Stati nazionali devono affrontare e risolvere in perfetta solitudine, mobilitan105
do le proprie risorse morali e materiali, occorre anche dire ad essi che si continua a costruire la nuova casa dell'Unione in cui ciascun paese (quelli dell'Europa centrale ed orientale inclusi) potrà occupare l'appartamento che meglio soddisfa i suoi desideri e le sue necessità, una volta uscito e fortificato dalla presente crisi. Ciò significa abbandonare l'approccio di Bruxelles del tipo "o tutto o niente" secondo cui il paese che entra nell'Unione deve accettare tutto il cosiddetto "acquis communautaire" e non parti di esso. Questo approccio riflette la simmetria delle soluzioni tanto amate dal formalismo giuridico e nega (o nasconde ai nostri occhi) l'asimetria delle situazioni reali e sostanziali prodotte da Stati i cui rapporti di forza politica e di potere non possono essere resi uguali con un tratto di penna. Il formalismo giuridico dichiara tutti gli Stati uguali e poi lascia che sotto la tavola la forza politica e il potere dettino le loro regole. Compito delle democrazie è il regolare rapporti e conflitti secondo procedure pubbliche ed aperte. Se questo è il contesto in cui può e deve crescere l'architettura politica dell'Unione, allora vanno accolte e favorite proposte come quella avanzata da Douglas Hurd e Beniamino Andreatta, allora rispettivamente ministri degli Esteri del Regno Unito e della Repubblica Italiana, di permettere che i paesi dell'Europa centrale possano associarsi al momento anche solo a due 106
dei quattro pilastri del Trattato di Maastricht, segnatamente, la Politica estera e di sicurezza comune (PEsc), gli affari interni e la Giustizia. La ricerca e la messa in opera delle complementarietà fra Stati nazionali e regime sopranazionale dei poteri consiste appunto nel permettere che l'Unione europea si sviluppi secondo i principi realistici della cultura politica dell'asimetria e le regole ad hoc della geometria variabile. In tal modo, si trasformano le soluzioni nominali politicamente deboli del tipo EMU nella prospettiva sostanziale e reale di accomodare nell'Unione degli Stati nazionali non preparati (e probabilmente nemmeno pronti in un lontano futuro) a fondersi in un super-Stato federale europeo. La ricerca delle complementarietà dovrebbe anche tradursi in un'invenzione politica da attuare nel più breve tempo possibile, concreta, di alto valore simbolico, e attesa da tanto tempo: dovrebbe riguardare la difesa comune. Il Consiglio europeo dovrebbe eleggere un presidente per la sicurezza dell'Europa che acquisterebbe visibilità e pienezza di poteri solo in occasione di emergenze chiaramente codificate: ad esempio, l'intervento in conflitti considerati pericolosi per la sicurezza dell'Europa, oppure in interventi di politica internazionale o di "peace-keeping" sotto l'egida delle Nazioni Unite o dell'Alleanza Atlantica. È un modo per creare un potere
squisitamente europeo, non derivato da congiunturali o da occasionali decisioni dei paesi dell'Unione, e che, nonostante diventi visibile soltanto in momenti straordinari, obbliga, (senza stravolgerli, e senza capovolgerli) gli attuali ordinari poteri dei ministeri delle difese dei paesi europei ad accelerare la preparazione operativa di strutture militari europee integrate da impiegare nei casi d'emergenza. Nello stesso tempo, la ricerca delle complementarietà fra Stati sovrani e regime sopranazionale dei poteri dovrebbe, anche in altri campi, coinvolgere i rapporti fra Unione europea e Stati Uniti d'America. Ad esempio, risoltosi con un happy end I'Uruguay Round, costituirebbe un segnale decisivo, di grande importanza concreta e simbolica, una decisione euro-americana di istituire corti di giustizia sopranazionali per risolvere le dispute commerciali fra le imprese operanti al di qua e al di là dell'Oceano Atlantico. Al termine di un viaggio nel quale gli autori hanno cercato di gettare un po' di luce sulla destinazione finale dell'Europa, essi non possono fare altro
che estendere agli europei (quelli dell'Ovest, quelli dell'Est) l'augurio che Michael Mertes rivolge ai tedeschi. Dopo essersi chiesto che cosa terrà o potrebbe tenere insieme la nazione tedesca, Mertes scrive che "the answer depends on whether the Germans will be able to develop a calm patriotism based not only on their indivisible history (not excluding its darkest chapters), their common cultura1 traditions, but also, and most importantly, on shared democratic values, civic responsability for their own respublica, an active sense of solidarity and togetherness", per poi concludere che "this is the true challenge of normality, a condition neither Germany nor Europe has known for the greater part of the twentieth century12". D'accordo: se nei prossimi anni tanto gli europei quanto i tedeschi affronteranno i loro problemi con sentimenti di "calm patriotism", sarà stata compiuta una delle tappe più difficili del viaggio verso la destinazione finale dell'Europa: quella in cui gli Stati nazionali devono prendere talune deliberazioni per diventare anche degli Stati Europei.
I Andrew Shonfield, Europe: Journey into an Unknown Desti nation, Penguin Books, Harmondsworth, 1973. 2 Ernst B.Haas, The Uniting of Europe, London, Steven & Sons, 1958. Bino Olivi, L'Europa difficile. Storia politica della Comunità Europea, il Mulino, Bologna, 1993.
Olivi, cit., p. 27. Haas, cit., p. 454. 5 Olivi, cit., p. 27. 6 Ci sono alcuni passaggi-chiave spesso citati nel discorso di Schuman che descrivono l'approccio che poi sarebbe stato seguito dalla scuola di pensiero funzionalista: "Europe will not be made at once, or 107
according to a single plan. li will be built through concrete achievements which first create a de facto solidarity In this way there will be realised simply and speedly that fusion of interests which is indispensable to the establishment of a common economic system; it may be the leaven from which may grow a wider and deeper community between countries long opposed to one another by sanguinary divisions By pooling basic production and by instituting a new higher authority this proposal will lead to the realization of the first concrete foundation of a European federation indispensable to the presevation of peace". Keesing's Contemporary Archives, 10701 ff. 1119 marzo 1951, il giorno in cui fu firmato a Parigi il Trattato sulla Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CEcA), Jean Monnet, che ne fu nominato Presidente, definì gli obiettivi della appena nata Comunità, tra i quali quello della "creazione di un mercato unico composto da 150 milioni di consumatori". Trentaquattro anni più tardi, nel 1985, il ....
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"libro bianco" redatto dalla Comunità, che identificava la frontiere fisiche, tecniche e fiscali che dovevano essere rimosse entro il 1992 per creare il mercato interno europeo, apre con un'espressione che evoca il medesimo risultato: giungere ad un mercato unico di 320 milioni di consumatori. Nel frattempo i Paesi membri della Comunità sono cresciuti da sei a dodici, e poi nell'Unione, sono giunti finora a quindici. E la Conferenza Intergovernativa tra i suoi temi dovrà proprio affrontare quello di verificare tempi e strumenti per nuove adesioni. 8 Livre Blanc à l'intention du Conseil Européen, L'achèvement du marché intérieur, Luxembourg, Commission dea Communauts Européennes, 1985, p. 4. 9 Trattato sull'Unione Europea, Par. 2 Art. A. ° Olivi, cit., p. 377. 1 ibidem, p. 33 1-333. 2 Micheal Mertes, Germany's Social and Political Culture: Change Through Consensus?, Daedalus 123 (1), Inverno 1994, p. 23.
dossier
Tensioni e inquietudini di Francia e Germania Nel 1965, nel suo classico Sociologia della Germania contemporanea, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 314, Ralph Dahrendorf aveva scritto che alla base della gestione della società tedesca c'era un «cartello della paura» stipulato da una classe politica ancora troppo schiacciata dal peso del passato e non ancora abbastanza capace di attribuirsi responsabilità realmente innovative. A suo parere, nella Germania di allora al monopolio della tradizione era succeduto un accordo tra protagonisti timorosi, che poteva essere definito un cartello della paura, perché impostato in maniera puramente difinsiva, incline più a mascherare che a modificare le tensioni sociali. Giusta o sbagliata che fosse, quella diagiosi appartiene ad un passato che è ormai remoto sotto molti profili. La ricordiamo però per sottolineare un aspetto: c'è forse oggi un altro cartello della paura, diffuso in Germania come in tutta l'Europa, nei ceti popolari efra gli intellettuali prima ancora che nella classe politica. Il ras le bol dei francesi nel novembre 1995 ha messo in evidenza quanto saranno forti le resistenze ai progetti di mettere a dieta molti buoni europei; gli scioperi hanno mostrato una duplice inquietudine: sul fi€turo dei giovani e sul fi€turo della Francia. Dal deficit della Sécurité sociale ai problemi delle banlieus, dai tre milioni di giovani senza la109
voro ai tre milioni di persone che sono occupate in maniera precaria, fino ai cinque milioni di dipendenti pubblici che sono stati il nerbo della protesta, esiste una diffiisa inquietudine che viene bene analizzata nelle pagine di Olivier Mongin. Negli stessi giorni in cui in Francia scendevano in piazza milioni di persone (quante non se ne vedevano dal 1968), molti sottolineavano che l'ultimo sciopero generale in Germania risaliva al marzo 1920: lzrmonia sociale, la collaborazione sindacale sono stati gli ingredienti fondamentali della ricostruzione prima e del miracolo economico dopo. Dopo poche settimane anche la Germania ha cominciato ad affiontare operazioni di ridimensionamento della spesa pubblica che si teme potrebbero incrinare l'armonia sociale. Cosa faranno i sindacati, che con la loro collaborazione sono stati il punto di forza dell'espansione tedesca? In Francia, il peso di una nuova inquietudine è stato capitanato proprio da quei sindacati che si riteneva fossero il settore più antiquato della società francese; in Germania, spiega bene il saggio di Michael Fichter, ogni tentativo di migliorare lo Standort Deutschland passa attraverso i sindacati, ma essi debbono confrontarsi con un enorme problema strutturale: come la nuova Germania non è semplicemente un'estensione della vecchia Repubblica Federale Tedesca, così il peso economico delle regioni dell'Est graverà per intero sulle spalle dei benessere e della stabilità delle regioni dell'O vest.
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Insicurezze sociali di Olivier Mongin *
Le questioni qui sollevate fanno eco agli avvenimenti a cui abbiamo assistito dalla fine di novembre in Francia e rinviano ad un doppio interrogativo riguardante la società e lo Stato francesi. Il primo interrogativo: come interpretare i problemi che vede attualmente la società francese? Proviamo a rispondere mettendo l'accento su un certo numero di aspetti dove si mescolano elementi congiunturali (debolezza del governo, incapacità di pensare in termini di progetti) e strutturali (crisi d'integrazione, crisi dello Stato-provvidenza, crisi del valore lavoro). Gli scioperi rimandano ad un'inquietudine latente e a dei timori proteiformi che è importante non semplificare resuscitando i buoni vecchi schemi d'analisi. Secondo interrogativo: l'impotenza politica dello Stato francese, la sua incapacità a riformare sono legate al governo attuale, sono una delle conseguenze di cinque anni di non-riforma o il segno di un'usura dello Stato? Di fronte alla frammentazione sociale bi-
* Direttore della rivista "Esprit'.
sogna rompere con le prospettive di riforma o appellarsi nostalgicamente a una rivoluzione sociale? Inquetudini sociali e impotenza politica invitano a interrogarsi sulla capacità politica di condurre una riforma. Disponiamo, oggi, di un altro timone, quello della democrazia d'opinione, quello che lascia credere che bisogna seguire le attese dell'opinione o interpretare le domande? Si veda il risultato: da una parte, si è rigorosamente incapaci di presentare il messaggio politico d'una riforma come quella dell'assicurazione contro le malattie; d'altra parte, la comprensione dell'opinione non è molto facile quando regnano la frammentazione e l'esplosione sociale. Se tali questioni sono legate alla situazione travagliata di oggi, esse permettono di sbrogliare un po' la matassa. In effetti, si ha la sensazione di un crisi globale della società francese ma questa globalità è un sintomo ed è essenziale distinguere bene le questioni: quelle dell'assicurazione contro le malattie e della protezione sociale, quella dell'avvenire dei servizi pubblici in epoca di Unione Eopea e, infine, quella della messa in discussione del 111
sistema redistributivo, di un fisco che deve essere uno degli strumenti della giustizia sociale. L'IMPOTENZA POLITICA
Piìi che mai oggi regna l'impressione che la Francia non arrivi a rispondere sul piano politico alle sfide che ie si presentano dopo la fine dei «Gloriosi Trenta". L'impotenza politica, l'incapacità a riformare, rimandano gli spiriti pessimisti a l'ipotesi di un malessere storico dal quale sarà ormai impossibile ristabilirsi. Un Paese spossato che passa, secondo l'umore del momento, dallo statuto di grande a quello di media, persino di piccola potenza... A leggere tutti i rapporti del Piano attinente la riforma dello Stato o l'avvenire del lavoro, si è costretti a constatare che la maggior parte dei problemi sono conosciuti, che sono disponibili delle proposte e degli strumenti. Perchè la politica, allora, arriva così male ad iniziare il lavoro? Perchè io crnracrnsmo , cne na lasciato credere che un discorso politico potesse di nuovo prendere il sopravvento sulla democrazia d'opinione incarnata da Balladur, ha dato così presto prova di debolezza? Troppo spesso, ci si contenta d'invocare i valori che strutturano tradizionalmente la destra e la sinistra. Il politologo italiano Norberto Bobbio lo ha fatto in un opera che ha conosciuto un certo successo in Italia e Manuel I
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Vasquez Montalban' io ha ricordato agli spagnoli (e ai francesi) in un brillante pamphlet. È lo stesso in Francia: si richiama la sinistra ai suoi valori di un tempo dopo il decennio di Mitterrand, la si invita a ridiventare se stessa come se nulla fosse cambiato. Il Partito Socialista, in apparenza più sicuro di se stesso, pensa che la divisione del lavoro, la lotta contro il lepenismo, l'elogio dello Stato gli permetteranno di rindorare il suo blasone, e d'essere fedele ai prossimi appuntamenti della storia. Da parte loro, i balladuriani si beffano delle difficoltà del governo J uppé ma hanno la memoria corta: hanno dimenticato che la seduzione della pubblica opinione attraverso la mitezza e l'aumento cieco delle spese pubbliche sono le molle di una politica pigra. I liberali populisti prevedono, da parte loro, il crollo dello Statoprovvidenza e la privatizzazione dell'assicurazione. Di fronte alla disinvoltura degli uni e degli altri, si è in diritto d'interrogarsi suiio scenario politico, quello che non vede più lontano della gestione quotidiana e il risultato dei sondaggi, si rifiuta di rispondere politicamente alle angoscie di una popolazione afflitta da cambiamenti che la sconvolgono. Lontani dall'essere soddisfatti da questa costatazione, numerosi sono i cittadini che vedono nell'apertura del mercato europeo e più ampiamente nella mondializzazione economica, la causa di tutti i mali politici, il vero
freno all'azione dello Stato. Che si sia di destra o di sinistra, non ci sarà altra questione che l'accettazione delle costrizioni imposte dalla mondializzazione o l'illusione protezionista che immagina di potere sottrarvisi. Dietro i richiami delle divisioni tradizionali o l'invocazione volontarista del gollismo è, quindi, evidente una inquietudine riguardo la governabilità della Francia e riguardo la deriva europea 2 . Il movimento di scioperi che ha conosciuto la Francia dalla fine di novembre ne è testimonianza. Tutta una retorica mette l'accento sull"impossibile riforma" e riconosce nell'impotenza politica un fenomeno intollerabile: per certi commentatori, come Alain Mmc, la tripla costatazione della crisi dello Statoprovvidenza, della crisi della rappresentanza politica e del regno della democrazia d'opinione consacra ('in mancanza di altri attori" le nuove élites non rappresentative, spesso europee e commerciali, quelle che sono convinte che la Francia non ha altre vie di uscita che seguire il movimento della mondializzazione. In questo contesto,, le polemiche che attraversano la destra e la sinistra tendono a consacrare la mondializzazione economica attraverso lo spettro dell'Europa. Una mondializzazione di cui si esagerano le tare quando la si confonde con il peggiore capitalismo finanziario. Una mondializzazione di cui si accolgono in modo estremistico le virtù, quando si pensa che queste permetto-
no di regolare meglio il mercato e che la giustizia sociale non sia intralciata dall'aumento d'ineguaglianze. L'AUMENTO DELLE INSICUREZZE
Da qualche anno, viene ammesso che il movimento di mondializzazione proteiforme - tecnologico, economico e culturale - s'accompagna ad un ripiegamento d'identità: alla dilatazione del tempo e dello spazio, a l'entrata in un mondo dominato dal virtuale e dalla telecomunicazione corrisponde un ripiegamento su di sè, una contrazione "d'identità" dei corpi e degli spiriti. Da qui i nazionalismi e le guerre a catena di questi ultimi anni, di cui l'ex-Iugoslavia è stata il principale teatro. Da qui le controversie sul "politicamente corretto" e sul mukiculturalismo. Ma questa costatazione ha un'altra faccia: quella di non sottolineare esplicitamente la crisi d'identità che si trova all'origine del ripiegamento su se stessi e il lasciar credere a una riconquista sostanziale dell'identità (la nazione, l'etnia) e delle radici, tanto nei Paesi democratici che nel mondo non democratico. Mentre il male democratico mette a nudo le impasse del soggetto democratico, le sue dipendenze, le sue debolezze, le sue violenze interiorizzate, un mondo post-democratico - quello delle rivoluzioni religiose - si ritrova forse altrove, nella violenza più che in un ritorno alle radici. Si intravede qui uno scherzo del113
la storia ma è impossibile non prendere sul serio lo scenario di un'alternativa alla democrazia. Il ripiegamento d'identità, in tutto il pianeta, si traduce meno in sradicamenti che non nell'espressione di una malattia proteiforme. Ad insistere troppo sul ritiro d'identità e a considerare che ciò sia avvenuto naturalmente, non si capisce che esso accompagna un profondo travaglio e che genera delle violenze inedite. Questa confusione è tanto più alimentata in Francia dove si interpretano le identità rinascenti nel solo quadro di un "ordine repubblicano" incaricato di assottigliare le identità originarie 3. Da qui l'esigenza e l'urgenza di "auscultare" i problemi che affliggono il sentimento d'identità e di prendere in considerazione la loro varietà. Bisognerebbe fare la storia del legame tra la crisi della rappresentanza politica e quella, più diffusa, di un immaginario che accentua il sentimento di vittimismo. Durante gli anni Ottanta, quelli della liberalizzazione economica orchestrata dalla sinistra e durante i quali si è visto come i "Gloriosi Trenta" non fossero passati4, dell'individuo democratico si è conservato il suo carattere dinamico e "intraprendente". Questi anni hanno, in effetti, valorizzato l'individuo, vincente ed imprenditoriale, colui cha accompagna storicamente l'apertura al mercato, l'americanizzazione dei costumi e il superamento del quadro nazionale. L'immaginario eu114
ropeo è partecipe di questo stato d'animo, ma quest'ultimo si è brutalmente rivoltato quando la crisi economica, pure iniziata a metà degli anni Settanta, si è tradotta in un divario tra lo sviluppo e l'occupazione, testimoniato dall'aumento del numero dei disoccupati di lunga durata e di coloro che ben presto sono stati definiti "gli esclusi". Così, la fine dei Gloriosi Trenta economici è stata la rivelazione di un malessere più profondo, che si è espresso in un doppio linguaggio, allo stesso tempo antropologico e sociologico: quello dell'individuo incerto, del soggetto sofferente che tiene a freno le violenze che subisce e la sua aggressività con l'aiuto di medicine, di droghe o altri psicotropi5. A questo stadio, la riflessione sul divenire dell 'homo democraticus incrocia quella che porta alla doppia crisi dell'economia e della città. In effetti, la crisi dell'occupazione e del modello salariale colpiscono una società in cui l'integrazione degli individui è condizionata dall'entrata nel mondo del lavoro. La situazione si è leggermente modificata: le diverse forme d'insicurezza tendono oggi a sovrapporsi e a esacerbarsi reciprocamente. Da qui un sentimento di vittimismo generalizzato che interpreta al contrario il linguaggio politico repubblicano, e non si tratta soltanto di una retorica lepenista costruita sulla difesa della vittima6 In tale contesto, il problema favorisce .
l'impotenza politica e inasprisce la frantumazione sociale ed entrambi si rafforzano reciprocamente. D'altra parte, la globalizzazione favorita dal movimento di scioperi di dicembre ha messo l'accento sulla crisi della società salariale: "Questi scioperi sono il segno di un blocco strutturale del nostro sistema sociale; dell'incapacità della Francia di riformare senza dolore la sua 'società salariale'... Questa crisi è rivelatrice dell'importanza che continua ad avere in Francia, negli spiriti, la 'società salariale' costruita durante i Gloriosi Trenta. A quell'epoca, si è costruito uno statuto salariale, comparabile nel mondo economico a ciò che è la cittadinanza nel mondo politico" 7 Oggi, l'individuo è in effetti meno coinvolto nel modello collettivo (si tratti dell'impresa, del sindacato o della comunità politica) per cui soffre la frammentazione e la separazione. A!cuni parlano a giusto titolo di società parcellizzata: "La società non è più un liquido omogeneo, essa è un'emulsione, e il problema evidentemente è che dentro le bolle dell'emulsione non c'è più nulla. Una società parcellizzata è anche, forzatamente, una società piena d interstizi, i contorni non sono più definiti e ci sono dei buchi. Più le affinità si fanno elettive e più la società si fa selettiva" 8 Se l'esclusione designa il rischio di una rottura della città - ciò che separa gli emarginati dagli altri - mette allo stesso tempo in causa la dinamica .
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d'integrazione repubblicana. Che essa sia esposta nel linguaggio della metropoli e della città non è un caso: molti concludono che la morte della città a vantaggio dei territori e delle reti segna la fine del senso civico 9 . Se la Francia continua a ben integrare, come ripetono autori come Emmanue! Todd o Dominique Schnapper, la sua inettitudine a integrare tutti - una inettitudine economica che ricade in primo luogo sull'immigrazione - pesa nondimeno sull'immaginario repubblicano, sulla concezione della comunità politica che è la nostra. D'altronde, questo fenomeno di slegamento è raddoppiato dalla crisi profonda della solidarietà che anticipa la spaccatura dello Stato-provvidenza. Questo doppio slegamento politico e sociale è ancora esacerbato dalla trasformazione dei legami intergenerazionali che modificano le relazioni complesse tra giovani e anziani: la questione dei pensionati è qui al centro degli inierrogativi e rappresenta il legame tra la crisi della solidarietà republicana e quella della solidarietà intergenerazionale che è sempre stata inseparabile dallo Stato-provvidenza.
Il pro biema dei valori Non senza legame con l'insicurezza psicologica già evocata, l'avanzata della destra, indissociabile dal rispetto dei diritti dell'individuo, esaspera il problema dell'identità con la sua incapacità di chiarire il confine che separa il 115
lecito dall'illecito. Piuttosto che polarizzarsi sull'opposizione di una cultura politica (alla francese) e di una cultura giuridica (all'anglo-sassone), è meglio che si prendano in considerazione gli effetti perversi di una sacralizzazione dei diritti dell'individuo, e soprattutto se li si considera dal punto di vista del rapporto con la norma. Mentre la legge repubblicana esprimeva classicamente la volontà generale, si assiste oggi a un mescolarsi di norme che è all'origine di una inflazione di esperienze 10. Mentre le norme sono divenute incerte, il penale si prende carico di tutto ciò che è considerato come "fuorilegge" e non è trattabile dal corpo sociale. Bisogna insistere, il nuovo codice penale stabilito in Francia nel 1994 presenta una doppia caratteristica: fondato sul principio dei diritti dell'individuo e sulla loro difesa, esso s'accompagna, paradossalmente, ad una intensificazione della penalizzazione. Un aumentato riconoscimento dei diritti dell'individuo viene doppiato da un inasprimento della giustizia penale come se la parte vincente dell'individuo non potesse più nascondere la sua parte sofferente. QUAU VIE DI USCITA?
In questo clima di vittimismo, la rappresentazione della società è sempre più polarizzata sugli estremi; le immagini dei media si focalizzano unicamente sugli esclusi o sugli eletti. Paral116
lelamente, la società francese soffre di un'opacità crescente, la si conosce sempre meno in un contesto dove è difficile tradurre i conflitti in funzione delle sole spaccature socio-economiche tradizionali, quei conflitti attorno ai quali si organizzava la "società salariale . Queste esagerazioni non sono senza effetto sulla capacità di agire "politicamente". Oggi la tendenza maggiore consiste nell'immaginare, ad oltranza, l'azione politica. C'è quindi un errore profondo che genera riflessi di sicurezza: l'azione politica è ugualmente indebolita in ragione di un'inettitudine (passeggera!) a farsi eco della serie di msicurezze che condizionano il cittadino. Quando non si arriva più a comprendere ciò che pensa la gente, ci si rivolge verso gli emissari e si dà la colpa al mercato, agli immigrati... Oppure ci si rifa ciecamente ad una società internazionale in via di formazione grazie alla mondializzazione economica. Invece di analizzare il problema dell'identità, si risponde con la spaccatura che ne è il motore: l'opposizione astratta fra un ripiegamento arcaico e il superamento di un quadro politico senza il quale la coesione sociale minaccia di sfaldarsi. Il problema del dkembre 1995 consiste in questo: s'inasprisce la lotta contro una riforma perché essa è percepita (a torto!) come una minaccia per la coesione sociale! E si parla di tutto tranne che dei fondamenti della comunità politica, cioè del quadro dell-
'azione civica: quello che evita sia il nazionalismo identitario che il cosmopolitismo "beato". Una volta ammesso e delineato questo quadro, quali sono le risorse della politica suscettibili di frenare il movimento di vittimizzazione che inasprisce il sentimento di insicurezza? Bisogna credere che lo Stato diverrà sempre più fonte di sicurezza e sempre meno "provvidenziale"? Il dibattito attuale sulla riforma della previdenza sociale ha il merito di sottolineare l'attualità di questo interrogativo, tanto lo scenario e il messaggio della riforma dello Stato-provvidenza appare poco. comprensibile. Se la questione della violenza e dell'aumento dell'insicurezza non è anodina, il rischio evidente è quello di polarizzare tutto il male, la "malattia della sicurezza", su qualche zona o individui considerati come portatori di violenza. Se non si vogliono vedere i fantasmi nelle insicurezze, il miglior modo per ribaltare il clima di vittimizzazione attuale è quello di affidarsi alla doppia sfida economica rappresentata dalle minacce che pesano sull'occupazione e la mondializzazione. La Francia è stata una "meravigliosa macchina di integrazione", e lo è ancora. Ma allora perché questa focalizzazione sull'immigrazione? Quando la macchina economica conosce dei fallimenti, l'immigrazione diventa la cassa di risonanza dei problemi economici e sociali della società.
L'avvenire del lavoro Una seconda faccia dell'insicurezza concerne l'avvenire del lavoro, il rischio della disoccupazione e le incertezze che essi fanno pesare. Non si può essere soddisfatti dall'idea che l'efficacia del mercato legittimi le ineguaglianze: bisogna ammettere che il male della periferia rinvia alle contraddizioni del centro, cioé alle impasse dell'azione politica e dell'intervento dello Stato. In quest'ottica, è indispensabile riprendere la lotta contro le ineguaglianze, e valutare il carattere inedito delle ineguaglianze contemporanee e delle nuove forme di precarietà. Effettivamente, in diversi campi le ineguaglianze sono diminuite, favorendo in cambio l'aumento di nuove ineguaglianze e soprattutto una dispersione di ineguaglianze non più soltanto tra categorie professionali ma anche al loro stesso interno''. Se la crisi della condizione salariale è il principale motore di queste nuove ineguaglianze (ineguaglianze nel lavoro, nocività della vita urbana moderna, violenza ... ), l'errore consiste nel credere che le forme classiche di lotta contro esse, benché prioritarie, non esigono la ricostituzione di nuovi quadri per l'azione. La questione della città e della sicurezza urbana sono state messe in primo piano poiché esse non sono separabili dall'avvenire dell'occupazione e delle prospettive concernenti il lavoro nella 117
misura in cui quest'ultimo resta il principale fattore d'integrazione e di socializzazione nelle nostre società. Ancora distanti dalle utopie del tempo liberato e dall'assicurazione di una ripresa dello sviluppo e dell'occupazione, bisogna immaginare altri approcci al lavoro e all'occupazione e una pluriattività che non accresca il fossato tra l'economico e il sociale 12. E questo per delle ragioni che non spiegano la sola congiuntura economica e la recessione dell'occupazione: in effetti, l'evoluzione delle curve demografiche è all'origine di un nuovo ciclo di età che esige di preparare differentemente l'avvenire e la pluralità dei tempi della vita.
Difronte alla mondializzazione La mondializzazione economica è spesso invocata magicamente, nel bene o nel male, come il rimedio o la causa di tutti i nostri mali. La focalizzazione sui soli tassi d'interesse mostra la difficoltà di tenere un discorso convincente a proposito di questo fenomeno. Pertanto, degli economisti, sempre più numerosi, ammettono che la mondializzazione economica accelera il processo di differenziazione tra i lavoratori qualificati e quelli non qualificati, nelle società post-industriali come nei Paesi in via di sviluppo. Con tuttavia un'inversione delle situazioni: "Nei Paesi ricchi, gli operai qualificati guadagnano con i cambiamenti, gli operai non qualificati perdono (...). Il
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medesimo ragionamento vale anche per i Paesi poveri, ma all'inverso: al sud, gli operai non qualificati guadagnano e gli operai qualificati perdono',13 Sono, dunque, gli operai qualificati perdenti che generano il flusso migratono. In Francia, la mondializzazione è il rivelatore della separazione crescente che oppone lavoratori qualificati e non qualificati. La focalizzazione sull'esclusione e il sentimento di vittimismo che l'ha accompagnata non è accaduta per caso, essa è stata in effetti attivata dal nuovo spiegamento dell'economia internazionale. La principale urgenza politica è di confrontarsi con il problema della dequalificazione in una società che passa brutalmente da una economia industriale a un'economia di servizio. È per questo che bisogna ritornare sulla formazione e sulla necessità di riorganizzare il mercato del lavoro. Se la lotta contro le ineguaglianze deve essere il principale motore di una politica democratica, essa deve prevenire la dequalificazione, sapendo che la disoccupazione tocca essenzialmente i giovani non qualificati. .
L'interesse alle questioni internazionali Allorché ci si accontenta all'idea di un ribaltament,er dello stato di natura - la violenza che.attraversa dall'interno le società (droga, violenze urbane, mafie...), mentre il movimento di pacificazione internazionale continuerà a
crescere -, è meglio interrogarsi sulle metamorfosi della guerra e della pace su scala internazionale. Lungi dall'opporre la pace internazionale alla violenza delle società, l'analisi dell'evoluzione delle società democratiche e dei radicalismi religiosi che si presentano come alternative storiche, sono due modi di affacciarsi sul divenire storico delle democrazie. Allo stesso modo ci appare indispensabile non trascurare la questione dei totalitarismi: in questo periodo risulta di buon gusto disdegnare pensatori come Hannah Arendt e opporre le loro riflessioni sul totalitarismo a una verifica storiografica. A meno che non si immagini, a torto, che la questione della dominazione e della sottomissione dipenda dalla scienza storica e politica, sarebbe meglio evitare questo genere di antagonismi. in effetti, il totalitarismo non ha a che fare con la sola razionalità storica, esso rinvia anche alla preoccupazione di battersi contro le imprese di disumanizzazione. Bisogna provare ciò che fa male per combatterlo: la critica dei totalitarismi ci ha insegnato che la democrazia non si ha mai preventivamente, e non è mai sicura di resistere alla deriva totalitaria. AGIRE IN DEMOCRAZIA
Se si allarga il quadro della riflessione, la questione portante sull'avvenire della democrazia s'impone più che mai. Niente è veramente sicuro nelle
democrazie, questi regimi che non si sbarazzeranno mai dal pericolo totalitario, contrariamente a ciò che lascia intendere una retorica tranquillizzante sulla vittoria contro il comunismo. Non si può più affermare che il radicalismo religioso sia una cattiva parentesi storica che conduce, per strade traverse, qualche società non occidentale sulla via della modernità. La mondializzazione economica si accorda alle culture che non sono fondate sulla libertà dell'individuo e restano retrive agli imperativi democratici. Gli spiriti pessimisti hanno il diritto di interrogarsi: un secolo dopo Marx non ci chiediamo più se la democrazia sia un paravento giuridico destinato a mascherare i danni provocati dall'aumento della potenza della tecnica e del capitalismo, ma in compenso ci preoccupiamo della capacità di resistenza, cioè di sopravvivenza, delle società contemporanee.
Relativismo e pluralismo Parallelamente alla denuncia ricorrente della mediocrità dei costumi e della cultura, le polemiche si focalizzano sul relativismo dei valori. Il pluralismo democratico si confonde in effetti con la dispersione delle rivendicazioni giuridiche del soggetto di diritto, ma anche con l'erosione di un ordine simbolico, il quale permette agli individui di orientarsi personalmente, di situarsi l'uno rispetto agli altri. Così liberale e così poco sedotto dalle utopie, 119
Franois Furet non esita nella sua ultima opera 14 a sostenere che non esistono democrazie senza la rappresentazione di un'alternativa, senza immaginario utopico. Ma dove si nascondono le utopie contemporanee? Non si confondono con i radicalismi religiosi la cui dimensione utopica accompagna l'ambizione di dare un senso a una modernità che non si ha? Se non abbiamo a disposizione una visione altra della storia futura, non possiamo che affrontare l'avvenire con inquietudine e timore. Lo slittamento da! Principio di Speranza (Bloch) al Principio di Responsabilità (Jonas) è incontestabile, e pesa sulla volontà degli uni e degli altri di inscriversi all'interno di una storia. Il ribaltamento è doloroso: si è passati da una rappresentazione del mondo che aveva come punto di riferimento l'avvenire a un approccio timoroso rispetto a ciò che accadrà. Nelle società tecno!ogiche che avevano creduto di poter risolvere i problemi economici affrontando la questione del male, pretendendo di risolvere definitivamente il problema della povertà, della violenza e delle malattie, il nostro secolo guarda sempre piìt a sé stesso attraverso il prisma del male. Ma questo mettere in conto il male conduce a dei comportamenti quasi gnostici, nella misura in cui lascia credere che il male avrà sempre la meglio, che il mondo è stato mal creato e che a voler fare del bene si esagera e si fa del male. 120
Questo atteggiamento è rinforzato dal pluralismo intellettuale e istituzionale della democrazia, un tipo di società che non può essere fondata su una sola visione del mondo (rivendicazione dei radicalismi religiosi contemporanei, in ciò fortemente antidemocratici) e deve accordare punti di vista e convinzioni. Da qui, come dare nuova forma al pluralismo? Tale questione è all'origine di diversi dibattiti fra autori per i quali la giustizia è ancorata a una cultura, per cui non c'è universalità, e dunque giustizia, che possa sottrarsi ai particolarismi della cultura. Questa polemica filosofica e sociologica attorno al multiculturalismo non è senza legami con il dibattito francese sulla laicità, oggi particolarmente veemente.
Quale spazio pubblico? Ma il pluralismo non rinvia soltanto alla questione dei fondamenti della giustizia, esso è ugualmente legato alla nostra attitudine a organizzare spazi di deliberazione e di discussione. Ciò che esige, secondo noi, di tenersi a distanza da una doppia deriva: quella del divorare mediatico capace di riciclare all'infinito questioni e prese di posizione con termini alternativi pro o contro. Ma anche quella che sempre pii sposa l'ideale delle specializzazioni, lasciando intendere che la complessità dei problemi obliga a ricorrere al sapere di una é!ite. Il potere dei mass media e la specializzazione indeboliscono la volontà democratica: tra l'una e l'al-
tra, bisogna trovare le parole, inventare dei luoghi nei diversi ordini dell'editoria, della vita intellettuale o universitaria, e della stampa. Ma tutti questi problemi sono inseparabili da un'ultima preoccupazione: su cosa basare la nostra azione, la nostra volontà di coinvolgimento nella lotta politica? Su cosa si basano le nostre convinzioni e quali sono le loro radici? L'appello alla responsabilità politica, all'origine della nostra sfiducia verso una stampa che fa raramente la differenza tra una critica legittima della corruzione e una erosione della cosa politica, è in effetti condizionato da convinzioni che non possono ridursi a una critica anarchica, di moda a destra come a sinistra, della sfera del potere, che non riassuma in essa soltanto la vita politica. Spirito di resistenza e convinzioni, ovvero le impasse dell'azione Oggigiorno, pertanto, tutti fanno il proprio appello alla resistenza, l'invocazione all'etica e alla morale. Non ci si è mai preoccupati tanto dei valori e dei principi, ma questa esibizione rassicurante della moralità non ha necessariamente degli sbocchi precisi. In breve, si ha troppo spesso l'impressione che i grandi appelli filosofici o morali riassumano in sé stessi l'azione attesa. Gli intellettuali e i filosofi sono divenuti per molti dei curati laici, ciò significa dimenticare che i preti erano esseri terreni e non unicamente predi-
catori. Parlare di morale non porta necessariamente ad agire: il dibattito porta meno verso i valori messi a nostra disposizione che sulla nostra volontà di metterli in opera. Da qui la lotta da condurre verso le false resistenze, i pigri moralismi, le timide vigilanze, le proteste anestetizzanti che rassicurano più che incitare ad agire. Lo si vede bene nel caso della lotta contro il Fronte Nazionale: questi quanto è più autosoddisfatto e passivo tanto meno si cerca di conoscerlo e lo si stigmatlzza. Non è sufficiente prendersela con un mondo in decadimento, bisogna immaginare e costruire spazi e luoghi suscettibili di provocare nuove forme d'azione. Così, la critica legittima ai partiti politici e alla loro scarsa capacità di rappresentazione non è benefica se non trova sbocchi in altre forme di rappresentazione ma anche in interrogativi concreti. Come ripensare il contratto sociale, i nostri oblighi e doveri, se la questione non viene posta all'interno di un quadro politico? Quanti "giusti" sono pronti a rivedere individualmente i vantaggi da loro acquisiti? A sinistra, come a destra, si evoca una riforma fiscale senza mai mettere l'accento su ciò che essa esige in termini di responsabilità e di implicazioni. Tra i proclami individuali e l'impotenza politica a pronunciarsi sul terreno dell'azione e dei valori bisogna operare d'urgenza sul terreno della cultura, bisogna ricominciare a tessere. 121
Il peso delle responsabilità Siamo ritornati alle buone vecchie questioni della fine del )UX secolo? Che cosa ne è della democrazia, della tecnica e de! capitalismo? L'individuo rischia di esacerbare i suoi egoismi nell'ora della mondializzazione? A meno che le paure e le insicurezze non giungano ad indebolire la sua capacità d'azione: gli individui, oggi, sentono il peso accresciuto delle responsabilità, e tentano frequentemente di sottrarvisi quando esse non danno più luogo ad un'espressione politica dei conflitti e delle ingiustizie, quando non c'è che il discorso morale individuale per tradurre le inquietudini comuni. In breve, quando l'individuo ha troppa paura delle sue responsabilità cerca di fuggirne. Tale è il paradosso democratico attorno al quale non abbiamo cessato di girare: si crede che le democrazie si siano indebolite alla fine del secolo, dopo le barbarie totalitarie, poiché l'esigenza democratica è più intensa che mai. La
Aperus de la planète des singer pamphlet, Paris, Seuil, 19952 Vedere l'opera di PAUL THIBAUD, Et maintenant.... Contributions à l'après-mitterrandisme, Editions Arléa, 1995 3 Per un approccio alla nozione di laicità, vedere il capitolo dedicato a l'educazione in La critique et la convinction, Paris, Calmann-Lèvy, 1995 I
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nostra rappresentazione della democrazia si è arricchita: essa coniuga ormai le rivendicazioni in termini di diritto, il rispetto dello Stato di diritto e la sovranità popolare, ed è divenuto ridicolo opporre due culture politiche, l'anglo-sassone e la giacobina, come se si potesse metterle l'una contro l'altra. Più la democrazia è esigente, più essa moltiplica le nostre responsabilità e più alimenta le paure. Allorché il clima d'insicurezza esacerba il sentimento di responsabilità, il peso delle responsabilità fa paura. L'individuo "incerto" non è divenuto più irresponsabile o egoista, egli ha paura di prendersi le sue responsabilità presenti e future poiché non sa come affrontarle. È proprio là che risiede il principale deficit della politica attuale: nella sua incapacità e rispondere alla domanda diffusa e proteiforme di una opinione pubblica che, comunque, non è ancora ricaduta nello stato di natura.
(Traduzione di Saveria Ad,dotta)
Vedere DANIEL COHEN, Les infortunes de la prospérité, Paris Julliard, 1994 5 Vedere ALAIN EHP.ENBERG, Le cultede la perforinance, Calmann-Uvy e L'individuo incertain, CalmannLvy, 1995 6 "Siamo tutti delle vittime", questa espressione non è nuova, essa organizza il discorso politico da circa una dozzina d'anni ed è la principale risorsa del lepe-
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nismo. Vedere OLIVIER MONGIN, La peur du vide, Paris Seuil, 1991 7 BERNARD PERRET, Libération, 6 dicembre 1995 8 J.-B. FOIJCAULD e DENIS PIVETEAIJ, Une société en quetedesens, Paris OdileJacob, 19959 Su questo punto, vedere OLIVIER MONGIN, Vers la troisiéme ville?, préface de Christian de Portzamparc, Paris, Hachette, coli. «Référence», 1995 IO Vedere IRENE THÉRY, le Dèmariage, Paris, Ed. Odile Jacob
Vedere Quelle autre politique économique. Entretien avecJean-Paul Fitoussi, in «Esprit», aout-septembre 1995 12 Su tutti questi punti la letteratura è abbondante; vedere l'opera collettiva La France mal.ade du tra vai! Paris, Édition, Bayard, 1995 13 DANIEL COHEN, Libération, novembre 1995 14 Fois Fur.aT, Le passé d'une illusion: essai sur l'idée communiste au XX siècle, Laffont/CalmannLévy, 1995.
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Separati in casa: i sindacati tedeschi dopo l'unificazione di Michael Fichter*
A circa cinque anni dall'unificazione, la Germania è ancora costretta a confrontarsi con enormi problemi economici e sociali che non esistevano prima di questo storico evento. Al culmine della fase di transizione iniziale, l'interesse era concentrato sui processi di trasformazione delle istituzioni, sui problemi dei rapporti Est-Ovest e sugli atteggiamenti e i comportamenti dei tedeschi dell'Est durante la fase di adattamento al nuovo ambiente. In quel periodo, per descrivere i problemi del movimento sindacale ricorrevo spesso a una metafora che sembrava adattarsi molto bene alla situazione. Nel CCrivisitare il movimento oggi, ritengo che il contesto e il contenuto di molti di quei problemi si siano ampliati, assumendo la stessa importanza anche per il movimento sindacale della Germania Occidentale, e diffondendosi a tutta la Germania unificata. Se i sindacati vorranno continuare a svolgere il ruolo estremamente positivo di agenti di integrazione che aveva-
* Michael Fichter è docente alla Freie Universitar, di Berlino.
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no svolto nella Germania Occidentale prima dell'unificazione, dovranno sviluppare strategie e strutture organizza tive in grado di affrontare le continue sfide lanciate dalla globalizzazione economica e dall'unificazione della Germania e dell'Europa. I sindacati tedeschi non sono stati esposti a sollecitazioni come queste dai tempi della loro ricostruzione iniziale sotto l'occupazione alleata, dopo il 1945. Problematiche come la disoccupazione diffusa e persistente, i diversi livelli dei salari contrattuali concordati dai sindacati, il futuro delle trattative settoriali e la profonda ristrutturazione del sistema industriale sono tutte questioni che dovranno essere affrontate simultaneamente. Anche la coesione organizzativa dei sindacati viene messa a dura prova, e non solo sul piano orizzontale Est-Ovest, ma anche in termini di attriti verticali, in quelle aree nelle quali le idee presentate dai leader sindacali per la ristrutturazione del sistema industriale nella Germania Orientale dovranno fondersi con le azioni e le iniziative prese dai rappresentanti sindacali a livello delle singole unitĂ produttive.
Oltre agli aspetti economici della stabilità delle organizzazioni, anche la forza democratica dei sindacati è stata messa a dura prova dopo l'unificazione. Da Weimar ad oggi, nella parte orientale della Germania non sono mai esistiti sindacati democratici, ad eccezione di un breve periodo immediatamente successivo al 1945. Malgrado la Federazione Sindacale Indipendente Tedesca (Freier Deutscher Gewerkschaftsbund - FDGB) nella Germania Orientale, fosse stata originariamente fondata come organizzazione non partitica, nel 1949 essa divenne la fedele organizzazione di massa del Partito Socialcomunista Unitario (Sozialistische Einheitspartei - 5 ED). Erano pochi i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) che riuscivano a sfuggire a questa struttura tentacolare, infatti l'iscrizione alla FDGB era a tutti gli effetti obbligatoria. La FDGB era la «cinghia di trasmissione", come disse una volta Lenin, che trasferiva la politica dal partito ai lavoratori nelle singole fabbriche. Trattandosi di una strada essenzia!mente a senso unico, le iniziative autonome venivano scoraggiare. Stando al dogma dominante, i conflitti di classe erano stati aboliti, pertanto non c'era necessità di sindacati tradizionali o di consigli di fabbrica per la tutela degli interessi dei lavoratori. L'apparato proteggeva sospettosamente le proprie prerogative, e agiva al tempo stesso come ammortizzatore sociale e co-
me organo disciplinare. Oltre a garantire il raggiungimento degli obiettivi di produzione, la FDGB gestiva i programmi di previdenza sociale e assistenza sanitaria del governo, oltre alla pii importante agenzia di viaggi della RDT. Per queste ragioni, la FDGB assunse un ruolo cruciale nell'organizzazione dell'integrazione controllata delle attività sociali e culturali. Non solo la leadership della FDGB non ebbe alcun ruolo nell'avvio del movimento di opposizione noto sotto il nome di die Wende (la Svolta), che si estese a tutto il Paese in coincidenza con la caduta del regime della SED, ma si rifiutò di rinunciare volontariamente al controllo sull'organizzazione. Le riforme strutturali non furono avviate fino al congresso straordinario della FDGB, tenutosi il 31 gennaio e il primo febbraio del 1990, in occasione del quale i delegati votarono in massa per la decentralizzazione della FDGB e per la creazione di sindacati industriali autonomi. Si trattÒ di una decisione epocale, e molti riformatori finirono con il lasciarsi trasportare troppo dall'entusiasmo e dal desiderio di rinnovamento. Comunque, giunti a quel punto, anche in considerazione della crescita del consenso per l'unificazione della Germania, i giorni della FDGB erano ormai contati. Prima di questo congresso, la Federazione dei Sindacati della Germania Occidentale (Deutscher Gewerkschaftsbund— DGB), e i movimenti sindaca125
li che la componevano si erano opposti a un coinvolgimento diretto nel crescente movimento di opposizione nella Germania Orientale. La Federazione sosteneva che la nuova esperienza di democratizzazione non avrebbe dovuto essere influenzata dall'intervento della Germania Occidentale. Al tempo stesso, però, la Federazione era del tutto impreparata dal punto di vista organizzativo, e aveva una scarsa o nessuna conoscenza della situazione effettiva nella RDT. All'inizio degli anni Settanta, con l'avvento della Ostpolitik, sotto il governo di coalizione social-liberale del Cancelliere Willy Brandt, la DGB acconsentì a un primo scambio di delegazioni delle rispettive direzioni. I contatti rimasero sporadici fino agli anni Ottanta, quando gli incontri tra le direzioni della DGB e della FDGB divennero più frequenti. Tuttavia, al di fuori di questi incontri al vertice, un vero e proprio scambio aperto di informazioni risultava a tutti gli effetti inesistente. Dopo la travolgente vittoria elettorale della "Allianzflir Deutsch/.and', guidata dalla CDU, nel marzo del 1990, la strategia di subentro finalizzata alla "fusione" ebbe la massima priorità a Bonn. Con la rapida accelerazione di questa iniziativa, i sindacati della DGB si trovavano di fronte all'alternativa tra l'intraprendere uno sforzo enorme per estendere la propria giurisdizione organizzativa alla RDT oppure lasciare 126
la parte orientale della Germania unita del tutto priva di sindacati funzionanti. Nel giro di pochi mesi, tra il mese di marzo e quello di settembre del 1990, i sindacati dedicarono un immenso ammontare di risorse alla creazione di una piattaforma organizzativa in grado di rispondere alla necessità dei circa 9 milioni di iscritti alla FDGB di dotarsi di sindacati democratici in grado di rappresentare i loro interessi nel nuovo sistema. La corsa all'unificazione tedesca modificò i parametri di valutazione della solidità, della forza e della capacità di evoluzione della DGB. Prima del collasso della RDT, la DGB e i sindacati che la componevano sembravano cavarsela piuttosto bene in confronto ai sindacati degli altri Paesi industriali. La stabilità delle loro strutture organizzative e il loro ruolo attivo nei rapporti con il governo e con i datori di lavoro erano guardati con invidia dai movimenti sindacali in crisi di Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna. Dal lato opposto, gli esperti di questioni sindacali della Germania Occidentale non credevano che la DGB avrebbe saputo trovare le risposte alle sfide poste dal nuovo scenario socioeconomico. I sindacati apparivano in una fase di stallo, in quanto la composizione degli iscritti non rifletteva più le trasformazioni della struttura, occupazionale. Inoltre, dal punto di vista politico, gli sforzi fatti dai sindacati per affrontare i nuovi problemi non
erano andati molto oltre gli animati, ma sostanzialmente accademici, "dibattiti sul futuro". 1enorme sforzo necessario per la costruzione delle strutture sindacali nei nuovi Bundesldnder mise bruscamente fine a tutti i dibattiti in corso sulle riforme organizzative e programmatiche. Nell'estate del 1990, i leader sindacali erano giunti a concludere che "i nuovi iscritti della Germania Orientale sono del tutto indifferenti agli astratti dibattiti sulle politiche sindacali nel settore dell'ambiente e sul mantenimento delle aperture sul piano socioculturale. Questi iscritti sono più interessati alle motivazioni più tradizionali che stanno alla base dell'attività sindacale: i salari, l'attenzione alla disoccupazione e al tenore di vita". In tutta la DGB fu stabilito che, in termini generali, l'apparato della FDGB, sovradimensionata e incompetente, sarebbe stato difficile da riformare: "La FDGB ... ha perso credibilità presso i lavoratori della RDT. Per questa ragione, non è possibile dare per scontato che la FDGB, nell'interesse dei lavoratori, eserciterà un'influenza costruttiva sul processo di trasformazione nella RDT. In questa situazione, la DGB e i sindacati che la compongono possono avere un solo obiettivo organizzativo, e cioè la creazione di un movimento sindacale tedesco unificato sotto gli auspici della DGB ... Al tempo stesso, non è possibile immagi-
nare una fusione delle due federazioni sindacali esistenti." Poco dopo l'avvio dei contatti tra le singole organizzazioni sindacali appartenenti alla FDGB e le loro controparti nella RET, i sindacati della Germania Orientale si resero conto che il loro obiettivo di raggiungere la fusione nell'arco di un periodo compreso tra due e quattro anni era impraticabile. In primo luogo, i loro rappresentanti legali si appellarono a problemi di natura legale e, in considerazione delle forti critiche mosse dall'opinione pubblica al ruolo della FDGB nella Germania Orientale, la DGB desiderava evitare qualsiasi iniziativa che avrebbe potuto indicarla come il successore legittimo della FDGB. In secondo luogo, i sindacati, dopo aver avuto l'opportunità di valutare i meccanismi interni della FDGB, si convinsero della assoluta impossibilità di valutare le possibili ripercussioni finanziarie e i problemi nella gestione del personale che sarebbero emersi a seguito di una eventuale fusione. In terzo luogo, la disponibilità al compromesso, che un processo di fusione avrebbe richiesto a entrambe le parti, era contrastata dalla piega presa dagli eventi politici della primavera del 1990. Nel mese di marzo del 1990, le elezioni per la Volkskammer della Germania Orientale dimostrarono con chiarezza che l'intera gamma delle istituzioni politiche, legali e socio-economiche sarebbe stata trasferita nella RDT, sostituendo il "sistema so127
cialista esistente". Su queste basi, ai sindacati apparve evidente che avrébbero dovuto fare altrettanto, per non trovarsi indeboliti nei confronti di controparti come il governo, i datori di lavoro e le organizzazioni di categoria. Inoltre, i sindacati ricevettero una spinta aggiuntiva in questa direzione dai sondaggi condotti nella RDT, e dalle esperienze fatte dai rappresentanti dei sindacati inviati a svolgere incarichi internazionali e di consulenza nella RDT. Malgrado i lavoratori del "Paese degli operai e dei contadini" avessero scarsa fiducia nella FDGB, essi non erano assolutamente stanchi dei sindacati in senso generale. Al contrario, nutrivano grandi aspetta tiL ve nei confronti dei sindacati della DGB.
Malgrado tutti i sindacati della DGB avessero optato per la strategia di espansione, invece che per quella di fusione, ciascuna organizzazione seguì di fatto un proprio percorso individuale. Molti dirigenti sindacali assunsero posizioni pragmatiche, sostenendo che sarebbe stato opportuno avvantaggiarsi delle infrastrutture e delle risorse della FDGB (costruzioni, uffici, parchi auto, scuole sindacali etc.). I sindacati minori appartenenti alla DGB, in particolare, volevano compensare le proprie deboli posizioni finanziarie utilizzando l'organizzazione della FDGB come strumento per espandersi. Dal lato opposto, molti sindacati non se la sentirono di utiliz128
zare le risorse della FDGB, e preferirono costruire le proprie nuove strutture sindacali partendo da zero. Queste differenze risultarono particolarmente evidenti nel modo in cui i sindacati della DGB affrontarono la questione dell'assunzione dei funzionari dei sindacati della FDGB. Entro la primavera del 1990, i sostenitori dogmatici del ruolo della FDGB come strumento al servizio della SED furono tutti destituiti mediante votazioni o costretti a dimettersi. La maggior parte del personale (sia dipendente che volontario), che sostituì questi sindacalisti faceva già parte della struttura gerarchica dell'organizzazione prima del 1989, anche se non occupando posizioni di rilievo. Altri avevano svolto in precedenza un ruolo non attivo nella FDGB, e ricevettero incarichi dirigenziali a seguito delle attività svolte a favore della spinta per il rinnovamento. In termini generali, tuttavia, considerato che il rinnovo organizzativo non partiva dalla base, il grosso della prima ondata di riformisti godeva di ridotti livelli di legittimazione democratica, il loro mandato, di norma, proveniva da un comitato esecutivo sindacale la cui composizione garantiva una rappresentazione molto marginale della "base". La reazione di alcuni dei sindacati della DGB, invece, fu quella di rinunciare ai contatti con i nuovi sindacati della FDGB, evitando così di dover assumere funzionari della FDGB o di dover colla-
borare con essi. I sindacati che seguirono questa strategia sottolinearono che i dirigenti della FDGB non avevano le qualifiche professionali necessarie per svolgere i compiti dei sindacati. Inoltre, essi rappresentavano la categoria dei tedeschi orientali ancora aggrappati alle macerie del sistema. Questi sindacati desideravano che l'espansione delle proprie organizzazioni venisse curata da funzionari esperti della Germania Occidentale e da tedeschi dell'Est reclutati al di fuori della FDGB, per garantire una fase del tutto innovativa. Alla fine, meno del 10% dei funzionari della FDGB che ancora ricoprivano i propri incarichi precedenti furono assunti dalla DGB, o sono ancora alle dipendenze della DGB e dei sindacati che la compongono. Pochissimi tedeschi dell'Est ricevettero incarichi presso le sedi centrali dei sindacati, e nei nuovi Bundes1inder essi svolgono di norma attività volontarie o alle dipendenze di dirigenti della Germania Occidentale trasferiti nella ex RDT. L'espansione organizzativa di tutti i sindacati della DGB fu completata nell'autunno del 1991. Si trattò di un'operazione straordinaria e impegnativa, che assorbì grandi volumi di risorse umane e che impedì ai sindacati di svolgere un ruolo piìi attivo nell'impostazione dell'unificazione politica. Inoltre, come ho già accennato in precedenza, le necessità e le impellenti scadenze dell'espansione orga-
nizzativa lasciarono a malapena lo spazio per una rapida riflessione sull'auspicabilità delle riforme organizzative discusse in precedenza. Occorre riconoscere che sia le strutture sindacali che gli altri elementi istituzionali chiave del sistema di relazioni sindacali tedesco sono stati istituiti e, in termini generali, funzionano in maniera soddisfacente. Questo risultato è certamente positivo e riflette la solidità e l'elasticità del sistema. Infatti, è proprio questo quadro istituzionale che distingue il caso della Germania Orientale dal processo di transizione che stanno attraversando gli altri Paesi dell'ex blocco sovietico. Tuttavia, se, come ho sostenuto all'inizio di questo articolo, le pressioni dovute alla ristrutturazione complessiva stanno imponendo la modifica di questo assetto nella direzione del modello tedesco delle relazioni sindacali, allora non dovremmo semplicemente dare per scontato che i successi del passato possano automaticamente ripetersi nel futuro, o addirittura che le enormi sfide poste dall'unificazione siano ormai sotto controllo, e che da questo punto in poi la navigazione sarà tranquilla. I contorni e il contesto del sistema vengono riedificati in una maniera che influisce non solo sui processi di trasformazione, adattamento e modernizzazione della fase di post-unificazione attualmente in corso nella Germania Est, ma anche sulla consolidata organizzazione occidenta129
le. E anche se la seguente analisi della situazione attuale dei sindacati e delle relazioni sindacali in cinque settori chiave è limitata alla Germania Orientale, è comunque importante tenere a mente che è ormai inadeguato definire le questioni esclusivamente in termini di integrazione Est-Ovest. LA DINAMICA DELLE ISCRIZIONI
Negli ultimi cinque anni, le fluttuazioni delle iscrizioni ai sindacati nella Germania Orientale sono state estremamente ampie. Alla fine del 1991, la DGB ha dichiarato di avere circa 4,2 milioni di nuovi iscritti, un dato corrispondente a più di metà degli iscritti della Germania Occidentale, su un territorio che ospita soio un quarto della popolazione. Su queste basi, la valutazione della sindacalizzazione, pari a circa il 50%, non doveva sorprendere. A partire da allora, tutti i movimenti sindacali, ad eccezione del sindacato di polizia, hanno registrato grandi riduzioni di iscritti (Tabella 1). Alla fine del 1994, gli iscritti nella Germania Orientale erano scesi a 2,6 milioni, per una perdita complessiva pari a oltre il 37%. I dati preliminari per il 1995 indicano che questa tendenza è ancora in atto. Nel mese di gennaio, la DGB annunciò che le perdite complessive si avvicinavano al 3,9%, e che nella Germania Orientale si registrava una diminuzione degli iscritti pari 130
all'8,4%. Nell'affermazione di questa tendenza negativa è stata decisiva la massiccia perdita di occupazione legata al processo di privatizzazione e alle politiche di disindustrializzazione perseguite dalla holding statale (Treuhand). Ma questa fase di trasformazione si è conclusa nel 1994 senza che si registrasse un parallelo arresto della riduzione di iscritti. Il numero degli iscritti, diminuì anche tra gli occupati, e malgrado i livelli di occupazione abbiano registrato una graduale crescita a partire dal 1992, gli iscritti hanno continuato a diminuire, in particolare tra i sindacati del settore industriale e di quello del commercio. Questa tendenza appare legata a due cause principali. La politica di privatizzazione della Treuhand, sommata alla nascita di numerose nuove aziende, ha evidentemente portato a una significativa decentralizzazione e ristrutturazione dell'economia della Germania Orientale. I grandi gruppi sono scomparsi, e con essi le grandi concentrazioni di manodopera industriale. Oggi, i sindacati devono tentare di raccogliere nuovi iscritti (e di mantenere quelli attuali) nella nuova grande categoria delle imprese di piccole e medie dimensioni del settore terziario, presso il quale i movimenti sindacali non hanno mai raccolto grandi consensi. D'altro canto, i sondaggi di opinione e i contatti avuti con i rappresentanti sindacali indicano che, malgrado si re-
Tab. i - Cambiamenti nel volume degli iscritti alla DGB (1991-1 994) Est
Ovest Categoria degli iscritti
1991
1994 cambiamento % 1991-1994
1991
1994 cambiamento % 1991-1994
uomini
5.773.749
5.361.506
-7,14%
2.136.613
1.387.810
-35,04%
donne
1.868.838
1.817.617
-2,74%
2.021.313
1.201.431
-40,56%
937.178
604.581
-35,49%
413.412
187.016
-54,76%
7.642.587
7.179.123
-6,06%
4.157.826
2.589.250
-37,73%
giovani Tutti gli iscritti*
* La somma delle categorie "uomini", "donne" e "giovani" è superiore alla categoria "tutti gli iscritti" perché i "giovani" sono stai inclusi nelle categorie "uomini" e "donne"
Fonte: Deutsche Gewerkschaftsbund
gistri un atteggiamento generalmente positivo della popolazione nei confronti dell'esistenza dei sindacati, molti lavoratori dipendenti si rifiutano di iscriversi o decidono di lasciare il sindacato. Questi lavoratori si giustificano sostenendo che anche da non iscritti essi godranno comunque dei benefici ottenuti dai sindacati. Questo è il vecchio dilemma dei sindacati che è la conseguenza degli effetti combinati del sistema di doppia rappresentanza in vigore in Germania, delle strategie dei datori di lavoro e delle disposizioni costituzionali sulla libertà di associazione. Al tempo stesso, la maggior parte dei sindacati è ancora dotata di un grande numero di iscritti disoccupati nella Germania Orientale, e in alcuni casi il numero dei disoccupati supera quello degli occupati. Alla fine del 1994, per esempio, la IG Metail aveva un totale
di iscritti pari a 600.000 unità, contro un totale di occupati nel settore pari a 300.000 unità. Questo ha reso estremamente complessa l'integrazione dei nuovi iscritti della Germania Orientale, in particolare perché i sindacati prevalentemente tendono a considerarsi come rappresentanti degli occupati. Il nutrito gruppo dei disoccupati e dei pensionati rimasti iscritti a condizioni di favore ha inoltre eroso le risorse finanziarie dei sindacati. Per fare una semplice considerazione empirica, gli introiti dei sindacati basati sulle quote di iscrizione versate nella Germania Orientale non coprono i costi d'esercizio necessari, che risultano spesso più elevati rispetto a quelli registrati in altre aree occidentali comparabili. Come indicato dalla tabella, nella Germania Orientale la riduzione degli iscritti tra le donne è stata particolar131
mente accentuata. Peraltro, le riduzioni degli iscritti tra i lavoratori più giovani sono state molto elevate in tutto il Paese, sottolineando l'esistenza di un problema strutturale di fondo che va al di là della portata delle problematiche specifiche legate alla trasformazione e all'integrazione nella Germania Orientale. RAPPORTI CON I CONSIGLI DI FABBRICA
Nel sistema tedesco di rappresentanza sindacale a due livelli, i sindacati concordano con le associazioni imprenditoriali dei contratti quadro che definiscono standard minimi relativi a salari, stipendi e condizioni di lavoro per i singoli settori industriali. Il secondo pilastro del sistema è basato sui consigli di fabbrica (Betriebs o Personairat), previsti e tutelati dalla legge, che operano come istituzioni separate in rappresentanza dei dipendenti al livello delle singole aziende. Malgrado questa separazione formale, la capacità dei sindacati di integrare politicamente e strategicamente l'attività dei consigli di fabbrica è stata essenziale, nel passato, per il successo delle politiche di contrattazione collettiva dei sindacati. Con l'obiettivo di istituire una presenza organizzativa nella Germania Orientale, i sindacati hanno concentrato le attività svolte nelle singole aziende sulla creazione di consigli di fabbrica e sulla formazione dei loro componenti. Ciononostante, questi 132
sforzi non sono riusciti a garantire gli stessi elevati livelli di collaborazione esistenti nella Germania Occidentale. In aggiunta alle tensioni e alle incomprensioni tra i dirigenti sindacali della Germania Occidentale e i componenti dei consigli di fabbrica della Germania Orientale, i sindacati hanno scoperto che molti dei consigli di fabbrica di recente istituzione erano gelosi della propria indipendenza. Dopo essersi liberati del giogo politico del controllo della FDGB, erano preoccupati all'idea di una nuova dipendenza, anche se accettavano pienamente il ruolo fondamentale dei sindacati come rappresentanti degli interessi dei dipendenti. In qualità di rappresentanti eletti di tutti i dipendenti, iscritti e non iscritti al sindacato, molti componenti dei consigli di fabbrica considerano se stessi come degli strumenti democratici di base, responsabili solo nei confronti del proprio "elèttorato" diretto. Sotto l'imperativo della sopravvivenza in una economia di mercato, essi hanno frequentemente sviluppato rapporti più stretti con la gestione delle rispettive aziende in questa lotta per la sopravvivenza e nella determinazione della necessità e dell'entità degli eventuali tagli. Tuttavia, con il completamento del processo di ristrutturazione e di privatizzazione effettuato dalla Treuhand, i rappresentanti dei consigli di fabbrica si stanno accorgendo che i dirigenti delle aziende sono sempre più riluttanti a soste-
nere quelle strutture di collaborazione che fino a poco tempo fa erano ritenute così essenziali. Dove i rapporti con il sindacato sono più deboli, i consigli di fabbrica risultano più vulnerabili alle richieste dei datori di lavoro di tagliare i salari al di sotto degli standard minimi fissati dalle trattative con i sindacati. I datori di lavoro tentano di convincere i consigli di fabbrica che, mediante riduzioni dei costi, essi potranno mantenere i livelli di occupazione correnti, evitando ulteriori licenziamenti. I sindacati, a parte l'offerta di sostegno aggiuntivo per i consigli di fabbrica, hanno fatto molto poco per porre rimedio a questa situazione. Non sono stati in grado di mobilitare il sostegno degli iscritti per resistere alla pressione esercitata dai datori di lavoro, e di garantire ai consigli di fabbrica il sostegno diretto del sindacato. Nell'ambito del sistema tedesco di rappresentanza a due livelli c'è poco spazio per l'attività sindacale di base. Al di fuori dei tradizionali settori di produzione di massa, con le loro grandi fabbriche e la loro manodopera fortemente sindacalizzata, i sindacati hanno frequentemente considerato i rappresentanti dei consigli di fabbrica come la propria base organizzativa al livello delle singole aziende. Prima d'ora, nella Germania Occidentale, n i dirigenti sindacali né i singoli iscritti avevano mai messo in discussione questo approccio. Tuttavia, l'acuirsi
delle difficoltà affrontate dai consigli di fabbrica e l'approccio dichiaratamente pragmatico alla soluzione dei problemi che caratterizza i sindacalisti della Germania Orientale, potrebbero spianare la strada per una ridiscussione dell'assetto attuale. Questo compito non sarà comunque semplice, e dovranno essere individuati dei metodi per stimolare l'interesse nelle attività volontarie svolte dagli iscritti al sindacato, la maggior parte dei quali ha una scarsa propensione alla partecipazione. CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E POLITICHE SALARIALI
L'introduzione dell'Unione Economica e Valutaria, il primo luglio del 1991, ha posto le basi per la tranquillizzante dichiarazione de! governo Kohl, che ha assicurato che entro pochi anni le economie dei nuovi Bundesl4nder sarebbero state fiorenti. Con lo stesso spirito, le organizzazioni imprenditoriali della Germania Occidentale e i sindacati della DGB stabilirono che i livelli dei salari di ingresso avrebbero dovuto riflettere la priorità politica dell'integrazione socioeconomica e del livellamento dei salari stessi, e non l'effettiva produttività e il valore di mercato. Inoltre, i livelli salariali avrebbero dovuto essere fissati in maniera tale da garantire il raggiungimento della parità con la Germania Occidentale entro un periodo compreso tra 3 e 5 anni. 133
Con il crescere della consapevolezza che la ripresa economica prevista non si sarebbe verificata, e che la modesta crescita registrata era solo la conseguenza dei massicci trasferimenti (circa 150-200 miliardi di marchi l'anno), i livelli salariali nella Germania Orientale divennero il principale obiettivo delle critiche. Al culmine della campagna per la riduzione dei livelli salariali, le associazioni imprenditoriali del settore metalmeccanico tentarono di cancellare l'accordo contrattuale con IG Metall, ma dopo uno sciopero di numerose settimane furono costrette a fare marcia indietro. Il sindacato fu così in grado di mantenere il contratto di base, ma dovette sottoscrivere un accordo per l'estensione del periodo previsto per il raggiungimento della parità salariale, oltre alla cosiddetta "clausola di avversità". Quest'ultima consente alle aziende di richiedere una sospensione temporanea del contratto di lavoro se la loro situazione economica lo giustifica. Alla fine del 1995, la parità salariale era stata raggiunta solo in pochi settori di minore importanza economica. Nell'industria siderurgica, la parità sarà raggiunta nel mese di marzo del 1996, e verrà applicata a tutti i dipendenti residenti nella ex Berlino Est nell'ottobre del 1996. I contratti relativi alle indennità aggiuntive come le ferie pagate, la tredicesima e via dicendo sono destinati a mantenersi su li134
velli molto inferiori rispetto a quelli della Germania Occidentale ancora per parecchio tempo. Ciononostante, numerosi economisti sottolineano che i livelli dei contratti salariali non riflettono ancora il livello reale della produttività, e che la prosecuzione di questa linea politica non sarà solo di ostacolo per le aziende della Germania Orientale impegnate a lottare per aggiudicarsi una quota di mercato, ma avrà conseguenze negative anche per il futuro della stessa contrattazione salariale settoriale. La resistenza alle revisioni dei contratti salariali condurrà a sempre pit frequenti tentativi di evitare il rispetto dei contratti stessi. Sono già numerosi i casi in cui le aziende hanno deciso di ritirare la propria iscrizione alle associazioni imprenditoriali per evitare i vincoli imposti dai contratti salariali. Altre aziende nella Germania Orientale, dopo la privatizzazione, hanno deciso di non iscriversi alle rispettive associazioni. In un ridotto numero di casi, gli imprenditori aggirano illegalmente le disposizioni contrattuali sottoscrivendo accordi informali con i propri dipendenti e con i propri consigli di fabbrica per pagare, per periodi di tempo determinati, salari e indennità inferiori rispetto a quelli contrattati. Qualcuno potrebbe sostenere che questo è un risultato diretto della situazione economica particolarmente difficile registrata nei nuovi Bundesldnder, e che questi problemi si ridur-
ranno automaticamente quando la situazione si stabilizzerà. Dal lato opposto, analizzando la situazione si potrebbe giungere a una conclusione altrettanto plausibile: la previsione iniziale del periodo successivo all'unificazione, e cioè che la Germania Orientale avrebbe rapidamente raggiunto i livelli di prosperità della Germania Occidentale non è più valida. Al contrario, molti dei problemi che emergono nell'Est del paese sono segnali di quanto accadrà in futuro nella Germania Occidentale. Inoltre, come i sindacati sembrano temere, gli imprenditori si stanno avvantaggiando delle condizioni particolari che caratterizzano la Germania Orientale per sperimentare strategie e obiettivi per la revisione delle strutture delle relazioni sindacali esistenti nella cx RFT. L'INFLUENZA DEI SINDACATI SULLE POLITICHE
In aggiunta al contesto consolidato e altamente stabile della contrattazione collettiva e della contrattazione a livello delle singole imprese, le parti sociali (i sindacati e le organizzazioni imprenditoriali), sono gli attori riconosciuti di un'articolata rete di commissioni tripartite politiche e consultive. Mentre in Germania Occidentale questi assetti istituzionali sono ormai piuttosto perfezionati e lineari, in Germania Orientale risultano ancora deboli e addirittura volatili. Le esigen-
ze che emergono dalla realtà della crisi in atto sembrano essere troppo pressanti, e spesso producono una costruzione fragile basata esclusivamente sulla "alchimia" della composizione e sulla solidarietà tra i componenti principali ("corporativismo di posizione ). Ai sindacati deve essere riconosciuto il successo nella realizzazione di numerose innovazioni nei settori dell'occupazione e della formazione. A fronte dei licenziamenti in massa, il governo e i rappresentanti degli imprenditori sono stati convinti a sostenere le richieste fatte dai sindacati per la creazione di aziende specifiche finalizzate a favorire l'occupazione e la formazione (Geselischaflen zur Arbeitsfiirderung, Beschdftigung und Strukturentwicklung - ABs). I disoccupati e i lavoratori a tempo determinato furono assunti dalle ABS mediante finanziamenti provenienti da vari programmi governativi, dalle imprese private partecipanti e in alcuni casi dall'Unione Europea. I finanziamenti sono stati stanziati anche da alcuni sindacati della DGB. Alla fine del 1991, si contavano circa 330 ABs, per un totale di circa 130.000 partecipanti. Da allora, la portata del programma è aumentata di oltre il 20%. L'obiettivo principale delle Aas è quello di offrire programmi di riqualificazione professionale e di facilitare lo sviluppo dei prodotti, principalmente nel settore della tutela dell'ambiente. Ma come abbiamo già avuto modo di notare, la principale 135
caratteristica alla base del significato e dello sviluppo delle ABs potrebbe essere la seguente: "Le ABS svolgono un ruolo importante come rete di sicurezza sociale, mentre la loro importanza come elementi delle politiche per il mercato del lavoro è minore rispetto a quanto ci si potrebbe attendere dal volume di controversie nate attorno » alla loro creazione. Un'altra importante iniziativa sindacale è stata quella dell'istituzione delle commissioni regionali bipartite e tnpartite per la pianificazione e il coordinamento del rilancio delle imprese che la Treuhand non è riuscita a vendere, ma che risultano importanti per il benessere economico di regioni specifiche, e sono a rischio di chiusura. L'esempio più conosciuto di questa iniziativa è stato il programma ATLAS in Sassonia. Questo è anche l'unico programma nel quale la partecipazione dei sindacati sia stata formalmente istituzionalizzata. Negli altri nuovi Bundesliinder, i sindacati sono rappresentati esclusivamente attraverso comitati consultivi. Il
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SINDACATI E I PARTITI POLITICI
In Germania, la rinascita dei sindacati, nel 1945, fu sottolineata dall'appoggio unanime di tutte le forze politiche socialdemocratici, cristiani e comunisti. Questa vasta coalizione politica si sgretolò poi con l'avvento della Guerra Fredda, e l'unità del movi136
mento sindacale si ruppe lungo la linea che divideva le due Germanie. Tuttavia, la DGB mantenne la sua posizione indipendente rispetto ai partiti politici della Repubblica di Bonn. Nei nuovi Ldnder, i rapporti dei sindacati con i partiti politici sono risultati molto deboli, e di importanza molto inferiore rispetto a quella dei contatti tra sindacati e rappresentanti delle amministrazioni locali e regionali. Una delle cause di questo fenomeno è il ricordo della passata strumentalizzazione della FDGB da parte della SED, che ha spinto i sindacalisti della Germania Orientale a evitare rapporti troppo stretti con i partiti politici, e a opporsi in maniera particolare alla creazione di legami specifici come quelli che esistono tra la DGB e il Partito Socialdemocratico nella Germania Occidentale. D'altro canto, tutti i partiti politici che hanno le proprie origini nella Germania Occidentale sono caratterizzati da basi organizzative deboli e da ridotti numeri di iscritti. La SPD, per esempio, ha un totale di iscritti pari a circa 800.000, e meno di 28.000 di questi si trovano nella Germania Orientale. Fino alle elezioni del 1994, nei circoli sin4acali si era registrato un vasto consenso attorno all'opportunità di evitare rapporti con il Partei des Demokratischen Sozialismus (PDS). Il forte ruolo del PDS in quelle elezioni e la sua presenza nei governi dei nuovi Liinder non hanno innescato un di-
battito aperto su tale questione all'interno dei sindacati, ma hanno comunque convinto numerosi leader sindacali locali e regionali della Germania Orientale a includere il PDS tra i loro normali contatti con i partiti politici. È interessante notare, comunque, che il PDS non segue una linea politica orientata verso i sindacati, e non considera di particolare importanza il rafforzamento della propria influenza sui sindacati stessi. RIFLESSIONI SUI POSSIBILI SVILUPPI FUTURI
Sia al livello politico e socio-economico del processo di integrazione che nell'ambito delle proprie organizzazioni, i sindacati si trovano ad affrontare problemi enormi. Naturalmente, i sindacati appartenenti alla DGB sono ufficialmente vincenti. La loro espansione nella Germania Orientale ha posto fine ai tentativi di riforma all'interno della FDGB e ha creato le basi necessarie per la rappresentanza sindacale organizzata in quella regione. Ancora oggi, questi sindacati hanno un orientamento occidentale, e sono guidati da leader della Germania Occidentale. Se questa vittoria avrà caratteristiche durature, i sindacati dovranno riconoscere le differenze esistenti tra Est e Ovest, e dedicare maggiori energie al loro superamento. Questo è un prerequisito essenziale per riuscire a portare la politica dei
sindacati al di là dell'atteggiamento protettivo e difensivo registrato attualmente nei nuovi Bundesldnder e per poter includere stimoli più creativi, finalizzati a sviluppare un efficiente mercato a orientamento genuinamente sociale e ambientalistico. Entrambi gli elementi, la tutela della vitalità degli iscritti e quella degli impulsi creativi per il miglioramento della posizione dei sindacati, sono strettamente correlati tra loro. Oggi più che mai, la situazione in cui si trovano i sindacati dimostra che se esSI non riusciranno a trovare nuove soluzioni per i molti e complessi aspetti dello sviluppo economico, della produzione industriale e del rinnovamento infrastrutturale, non riusciranno neanche a rispondere alle esigenze di tutela dei propri iscritti. Con il trasferimento delle istituzioni e delle strutture organizzative dalla Germania Occidentale a quella orientale è stata eretta una piattaforma storicamente collaudata per l'integrazione del nuovo territorio e per la garanzia della prosperità economica e di un contesto politico democratico ai suoi abitanti. Ma la nuova Germania non è semplicemente una versione allargata della vecchia Repubblica Federale Tedesca. La Germania Occidentale ha gestito a modo suo la creazione di una Germania unita. Ma i giorni della prosperità economica ininterrotta in un contesto altamente omogeneo appartengono ormai alla storia, così co137
me la RDT. La crisi economica attraversata dai nuovi Bundesldnder influisce sempre di più anche sui benessere dei vecchi Bundesldnder. Fondamentalmente, le previsioni iniziali sulla funzionalità e sull'accettazione istituzionale si sono rivelate inesatte, principalmente per non aver tenuto conto del ruolo delle dinamiche sociali e dell'eredità culturale. Per le organizzazioni come i sindacati, fortemente basate su un forte radicamento nel tessuto sociale, questa carenza può risultare potenzialmente distruttiva. Ed è proprio qui che emerge con chiarezza l'urgenza della riforma, come anche nel caso dell'Italia. Dal punto di vista istituzionale, i sindacati si trovano a dover affrontare una contraddizione strutturale particolarmente complessa in tutta la Germania, divisi tra l'evidenza della crescente divergenza tra le strutture dei mercati e gli interessi degli iscritti e la necessità di un rafforzamento dell'unità. Ciononostante, l'attuale dibattito sulle riforme, con particolare riferimento alla federazione della DGB, si è limitato a evitare di affrontare le questioni specifiche della Germania Orientale. Se non si rafforzeranno legami organizzativi nei nuovi Lnder, sostenendo l'integrazione Est-Ovest e tentando di garantire un maggiore livello di coinvolgimento e maggiori responsabilità decisionali agli iscritti della Germania Orientale, i benefici di qualsiasi riforma organizzativa risulterebbero trascurabili. 138
NUOVE CRISI, NUOVE POSSIBILITÀ
L'iniziativa "Pact for Jobs" presa dal sindacato dei lavoratori metalmeccanici tedeschi, IG Metali, nell'autunno 1995, è stato un coraggioso tentativo di riaffermare e rivitalizzare l'intesa tra le classi sociali per un consenso istituzionalizzato e negoziato. Il sindacato ha offerto una diminuzione del salario in cambio della creazione di posti di lavoro e di un impegno, da parte del governo, a non tagliare i programmi sociali. Dopo diversi colloqui, la IG Metali si è trovata con le mani vuote. L'associazione dei lavoratori, indebolita da una serie di dimissioni dei suoi membri, si è trincerata nuovamente dietro una posizione di linea dura; mentre il governo Kohl, in una crisi di bilancio, ha adottato provvedimenti urgenti neoliberali del più giovane partner FDP per fare drastici tagli nei programmi sociali e di welfare. La proposta "Pact for Jobs" non sembra avere futuro come programma per una politica tripartita, specialmente dopo che il governo ha riaffermato la sua posizione "di non aumento" nell'attuale giro di negoziati con il sindacato del servizio pubblico Ori. È stata gettata benzina sul fuoco dal rifiuto della federazione degli impiegati BDA ad approvare un accordo sui salari raggiunto nell'industria edile, il quale stabilirebbe un minimo salariale e preverrebbe una rincorsa all'abbassamen-
to dei salari per i contratti con i lavoratori stranieri. Ă&#x2C6; stata negoziata un'ampia varietĂ di "Pact for Jobs", sia nella Germania dell'Est che in quella dell'Ovest, a livello di compagnie tra management e consigli di fabbrica, ma questi sono stati generalmente imposti dall'annuncio di incombenti licenziamenti. In questo modo, gli accordi contenogno apprezzabili tagli dei salari in cambio del mantenimento dei livelli di occupazione. Ciò non era il contenuto originale della proposta IG Metali. Con la strada della negoziazione interrotta, i sindacati si
stanno mobilitando per una prova di forza, sperando che la rabbia e la frustrazione dei loro membri vada oltre la chiusura delle fabbriche. Le pretese del governo di rimandare qualsiasi aumento di salario per questo anno e il crescente carico fiscale possono essere trasformati dall'azione dei sindcati. Se avrĂ successo, questo movimento potrebbe servire a rivitalizzare la forza organizzativa del sindacato e a portare lavoro sia nella Germania dell'Est che in quella dell'Ovest.
(Traduzione di Stefano Spila)
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dossier
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Alla ricerca dell'arte del ben amministrare Eccoci ancora a parlare di "arte della buona amministrazione" Nello scorso numero avevamo espresso quasi un'invocazione: 7rmare gli uomini" Ci piace quindi continuare su questo discorso occupandoci di due esperienze che rappresentano a nostro giudizio, seppur nelle loro specificità, modalità interessanti di porsi di fronte a tale esigenza. Alfine di formare i nuovi vertici dell'amministrazione, siano essi operativi a livello europeo, centrale o locale, c2' necessità di libere infrastrutture dove ci si dedichi aprogrammi di educazione permanente (concetto questo peraltro richiamato nell'editoriale di questo numero): programmi debitamente standardizzati e dai risu frati valutabili nel tempo, com metodologie e modelli qualitativi dettati dalla pratica e non stabiliti una volta per tutte tramite decreto. In questo senso si è mosso il Cerisdi, delle cui vicende, (al tempo stesso esaltanti ma cariche di foschi presentimenti di insuccesso indotto dall'esterno), dovrebbero far tesoro tutte le organizzazioni culturali che volessero battere la strada della formazione amministrativa sui registri della managerialità, anzichè su quelli delformalismo burocratico. 141
Vi è poi l'esigenza, anch'essa più volte richiamata nell'editoriale, di iniziative volte a fissare sedi di valutazione di esperienze, coinvolgendo vertici del mondo produttivo, culturale, amministrativo: sedi tanto più funzionali ed autorevoli se create su basi associative libere, svincolate dal legame con l'apparato pubblico, per il quale devono costituire forum di riflessione e proposta per un' azione concreta sui punti critici. Così come si è realizzata nel tempo, lAmerican Society for Public Administration, pur essendo passata attraverso travagliati percorsi che l'hanno condotta da organismo per l'eccellenza della Pa ad un'associazione prevalentemente diflinzionari, costituisce un'esperienza interessante. Oggi sempre più orientata ad offiire standard qualitativi sul piano comportamentale e tecnico in grado di condurre l'amministrazione verso il cittadino, senza ripiegarsi su se stessa.
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Un tentativo di formazione direzionale da meditare: il CERISDI a Palermo di Salvatore Teresi*
Tra il 1983 e il 1984 l'idea originaria di un Centro di Eccellenza localizzato in Sicilia, nacque nel seno dell'Amministrazione Regionale Siciliana. Si voleva dar vita ad una struttura di ricerca e formazione nell'area del management dei settori pubblico e privato per contribuire allo sviluppo di figure imprenditoriali e dirigenziali in grado di attivare e gestire processi di crescita economica e sociale nel territorio siciliano e meridionale. Era già assai diffusa la convinzione che "la insufficiente elaborazione e diffusione di cultura imprenditoriale e manageriale nel Sud d'Italia rappresentava un notevole fattore di ritardo del Mezzogiorno" ("progress report" dello Studio Censis: "Nuova Antropologia Meridionale", aprile 1988). Risultava infatti evidente che nonostante gli importanti finanziamenti effettuati negli ultimi 25 anni in Sicilia e nel Mezzogiorno dalla Regione, dallo Stato e dalla CE, il proliferare di iniziative di taglio e di respiro provinciale non
* Salvatore Teresi è stato direttore delI'INsD e del CEDEP di Fontainebleau.
aveva inciso in modo qualificante su1 livello di professionalità del personale direttivo nel settore privato ed in quello pubblico. Si voleva fare quindi un salto di qualità nel settore della "management education", ancorandola strettamente alla ricerca empirica ed alla elaborazione di nuovi paradigmi e modelli di formazione manageriale ed imprenditoriale, adeguati perché rispondenti ai bisogni reali del contesto ed alle esigenze concrete di sviluppo degli utilizzatori. Loriginalità del Centro fu identificata nella rigorosa osservanza del nesso "ricerca - produzione della conoscenza utilizzazione della stessa", al fine di privilegiare i processi d'interazione sociale che facilitano l'innovazione, integrando gli attori "agenti del cambiamento" nella ricerca stessa delle soluzioni dei problemi reali individuati. La formulazione dell'idea nacque dal fortunato incontro della Regione Siciliana, del Formez, che patrocinò la progettazione del Centro, e dei "soci fondatori" che oltre alla Regione ed al Formez furono: il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio delle Provincie Siciliane, l'ENI, l'IFAr' - IRI (Istituto di 143
Ricerca e Formazione di Direzione Aziendale), la Sicindustria, la Confcommercio, l'Espi (Ente Siciliano per la Promozione Industriale), l'IRcAc (Istituto Regionale per il Credito alle Cooperative) e l'Università degli Studi di Palermo. La progettazione del Cerisdi, avviata nel 1985, fu conclusa nel luglio 1986 e realizzata da un Comitato di esperti di origine assai diversa, coordinati dall'on. Massimo Severo Giannini. Lo studio, messo a punto e pubblicato da un Centro milanese, l'ISGO, costitui il fondamento essenziale del Cerisdi che fu creato il 21-12-1988 in forma di Associazione di diritto privato su iniziativa del governo regionale siciliano presieduto dall'on. Rino Nicolosi e sotto l'egida del ministero per gli Interventi Straordinari per il Mezzogiorno. LA I" CONVENZIONE F0RMEz-CEIUsDI: DUE ANNI DI RICERCA CONOSCITIVA Il primo atto formale del Cerisdi ebbe luogo il 18-1-1990 con una cerimonia tenutasi al Castello Utveggio di Palermo - sede del Centro già opportunamente arredata sul piano didattico e logistico - per la firma della I Convenzione con il Formez che avrebbe consentito il finanziamento del primo biennio di ricerche del Cerisdi, mirate alla produzione delle conoscenze necessarie alla successiva elaborazione di un "Modello Pedagogico-Formativo" 144
capace di sviluppare una nuova cultura manageriale nel "pubblico" e nel privato nel Mezzogiorno ed in particolare in Sicilia. Quell'atto formale si compì alla presenza dell'allora capo del governo, on. Andreotti, e vi parteciparono il presidente della Regione Siciliana, il ministro per il Mezzogiorno, il presidente del Formez, il presidente ed il Coordinatore scientifico del Cerisdi. Il problema di fondo di fronte al quale il Cerisdi si poneva era il ritardo eccessivo accumulato nel processo di sviluppo economico, sociale e civile del Mezzogiorno in generale e della Sicilia in particolare. Alla sua soluzione il Centro intendeva contribuire con un'azione tesa allo sviluppo di una classe dirigente nel "privato" e nel "pubblico", capace di armonizzare le iniziative dei rispettivi settori, organizzare opportune sinergie e gestire la crescita sociale ed economica del Mezzogiorno in un contesto di competitività mondiale. Sin dagli inizi le caratteristiche distintive del Cerisdi furono due: la priorità assoluta che veniva data alla ricerca come ispirazione e come valore dominante di ogni iniziativa formativa del Centro, e l'ipotesi fondamentale (del tutto verificata, in seguito, dalla ricerca) di associare i settori "pubblico" e "privato" in una "comune" strategia di sviluppo manageriale, attraverso l'adozione di un unico "Modello Pedagogico-Formativo" mirato a facilitare la co-
noscenza mutua fra gli "attori" significativi dei due settori e la graduale acquisizione di un linguaggio ed un approccio comuni, per la identificazione e la risoluzione dei problemi concreti dello sviluppo economico e sociale. La convinzione alla base era quella della inadeguatezza dei modelli di formazione esistenti, importati dagli USA ed adattati troppo frettolosamente per il bisogno. Inadeguatezza alla realtà socio-economica del Sud, nel suo momento di sviluppo ed in funzione dei suoi attori e del suo contesto pubblico e privato, quale esso era. Da questa convinzione aveva preso origine la vocazione e la missione de! Cerisdi: lo sviluppo della ricerca. "Una ricerca umile, ma tenace, che veda come reali protagonisti gli utenti finali e non i ricercatori stessi. Una ricerca capace di osservare e comprendere i comportamenti reali degli attori e le ragioni che li determinano, per potere quindi elaborare in positivo gli interventi conoscitivi e metodologici che possono modificare tali comportamenti e le loro razionalità, dando vita così al processo di cambiamento ricercato, compatibile con le risorse esistenti e potenziali e con gli obiettivi di uno sviluppo economico sano e socialmente equilibrato". Con tali parole, pronunciate dal Coordinatore scientifico delle ricerche, veniva in pratica dato il via al programma di ricerca previsto nella I Convenzione Formez-Cerisdi che si
sarebbe di fatto protratto dal febbraio '90 a! febbraio '92. Tale programma prevedeva essenzialmente due linee di azione, entrambe mirate al medio e lungo termine: un'azione di ricerca socio-economica, articolata su cinque progetti connessi fra loro ed integrati per il raggiungimento di un comune obiettivo, ed un'azione di formazione e sviluppo, destinata a preparare un primo nucleo di collaboratori scientifici propri. Questi ultimi, dopo un periodo di 15 mesi di addestramento all'estero nelle più prestigiose Business Schools e Centri di formazione e ricerca Europei (INsD/Fontainebleau; Ecole des Hautes Etudes Commerciales/Parigi; IESE/Barcelona; Centro di Sociologia delle Organizzazioni/Parigi; SDA-Bocconi! Milano; University College!Londra) sarebbero stati inseriti ne! Cerisdi per partecipare come ricercatori e docenti junior ai programmi di ricerca ed agli interventi formativi previsti a partire del terzo anno di attività de! Centro. Questa particolare azione, mirata a dotare il Cerisdi, sin dall'inizio della sua attività, di un nucleo professionale di giovani, formati secondo standard europei, fu possibile ancora una volta per la lungimiranza della Regione Siciliana, che durante la presidenza Nicolosi institul 10 borse di studio annuali (dedicate al funzionario regionale Giovanni Bonsignore, ucciso dalla mafia) per giovani laureati nelle uni145
versità siciliane con spiccata vocazione alle attività di ricerca e formazione. (Va sottolineato, a questo proposito, come una tale politica di sviluppo delle risorse interne, che ha caratterizzato il Cerisdi sin dalla sua creazione, è ancora oggi colpevolmente trascurata dalle maggiori Istituzioni nazionali e meridionali in particolare.) Il carattere originale ed innovativo del programma di ricerche realizzato dal Cerisdi, durante il biennio, emerge dalla particolare metodologia interdisciplinare adottata e dalla struttura stessa dell'insieme del programma. Fu presa la decisione di adottare una metodologia microeconomica notevolmente innovativa, in quanto combinatoria di due metodi d'indagine complementari: l'analisi sociologica delle organizzazioni (Crozier e Friedberg) e l'analisi economica del comportamento competitivo dell'impresa (Porter). Inoltre, per accentuare e garantire una lettura ed un'analisi pluridisciplinare delle realtà studiate, i cinque gruppi di ricerca furono formati da ricercatori ed esperti di diverse origini culturali e disciplinari, con il rischio evidente, ma calcolato, che non tutti fossero ugualmente in grado di applicare entrambi i metodi scelti. Sul piano poi della struttura della ricerca, considerato che l'obiettivo era quello di comprendere il funzionamento del sistema socio-economico siciliano al livello degli stessi attori di questo sistema, delle loro percezioni e 146
dei loro comportamenti decisionali ed operativi, l'intera realtà sociale ed economica siciliana fu divisa in segmenti e ne furono scelti alcuni sufficientemente rappresentativi del funzionamento del settore privato e di quello pubblico. In conseguenza il programma di ricerca fu articolato in quattro progetti d'indagine conoscitiva, su altrettanti settori rappresentativi dell'economia siciliana (la Sanità pubblica - l'Industria privata - il settore Agroalimentare equello del Turismo) ed in un quinto progetto avente l'obiettivo di elaborare (sulla base delle informazioni e delle analisi dei quattro progetti di settore) un nuovo Modello Pedagogico-Formativo adeguato e rispondente ai bisogni reali di formazione e di sviluppo manageriale dei dirigenti del settore privato e di quello pubblico. Uno dei settori - la Sanità pubblica fu analizzato studiando a fondo otto USL, diverse nelle loro caratteristiche ambientali ed operative. In esse si cercò di comprendere il reale funzionamento al loro interno e nei rapporti con l'utenza, con i fornitori e con l'amministrazione pubblica. Un secondo settore prescelto fu l'area di sviluppo industriale di Catania, nella quale si analizzò il funzionamento del sistema riguardo alle sue componenti essenziali e rappresentative private e pubbliche, ai suoi problemi, ai suoi vincoli, alle realizzazioni e agli
insuccessi, per individuarne le ragioni e confrontarlo con aree a più forte sviluppo sia nel Mezzogiorno che nel Centro del Paese. Infine, per il terzo e quarto segmento si scelsero due settori essenziali dell'economia del Sud, quello del "Turismo e dei Beni Culturali" e quello "Agroalimentare". Furono compiuti degli "audit" di funzionamento e di gestione in alcune aziende ed enti operanti nei due settori per comprendere le modalità dei loro rapporti con il mercato, con il sistema finanziaro e del credito, con i fornitori, con le associazioni di categoria, con i sindacati e con ogni altro ente condizionante il loro funzionamento. Infine il quinto progetto di ricerca, detto "fondamentale", fu mirato a completare e ad integrare le analisi nei settori dell'industria (nelle altre provincie siciliane) e della pubblica amministrazione regionale e ad elaborare la proposta di un modello ed un sistema formativo rispondenti alla tradizione, alla logica e alla psicologia, degli uomini e delle donne del Sud, tali cioè da potere riuscire a stimolarli, motivarli ed entusiasmarli perché potessero riprendere nelle loro mani il destino e la rinascita civile ed economica della Sicilia e del Mezzogiorno. Per realizzare un programma di questa ambizione, adottando una metodologia interdisciplinare del tutto innovativa, era stato necessario selezionare con molta cura i componenti dei
"gruppi di ricerca" al fine di ottenere in ciascuno di essi, un equilibrio multidisciplinare sufficiente a garantire complementarietà e rigore di analisi. In seguito, un enorme lavoro fu svolto dal Coordinatore scientifico e dai componenti dei gruppi di ricerca, per ridefinire gli obiettivi dei singoli progetti e discutere in modo approfondito la metodologia di ricerca che era stato deciso di adottare. A tal fine furono organizzati due "workshop", di due giornate ciascuno, al Castello Utveggio, intervallati di quattro mesi, durante i quali i gruppi di ricerca poterono effettuare le rispettive "pre-inchieste" su1 campo. In seguito i risultati delle "pre-inchieste" furono analizzati e discussi, alla luce degli obiettivi e della particolare metodologia adottata, nella Prima Tavola Rotonda Internazionale che si tenne il 15 e 16 Giugno 1990 al Castello Utveggio di Palermo, ed alla quale parteciparono quattordici esperti internazionali a cui il Cerisdi aveva affidato il compito di "monitoraggio" e di "valutazione scientifica" del lavoro complessivo di ricerca da svolgere. Ritorneremo più avanti sul ruolo di questi esperti internazionali e sui risultati finali delle ricerche biennali; per il momento, al fine di completare l'informazione già data, si ritiene utile presentare in nota la composizione dei cinque Gruppi di Ricerca che parteci1a parono al programma previsto dalla Convenzione FormezCerisdi 1 .
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L'APERTURA INTERNAZIONALE DEL CERISDI Il Cerisdi, come si è già detto, era nato per iniziativa della Regione Siciliana e contava fra i suoi fondatori Istituti bancari siciliani, aziende pubbliche siciliane e nazionali, associazioni di categoria nazionali e regionali. Ciononostante, (con grande sorpresa e probabilmente un certo disappunto dei numerosi candidati locali), i dirigenti del Centro avevano deciso di affidarne la conduzione scientifica ad un siciliano, apprezzato docente e ricercatore di "management internazionale" in Usa ed in Europa, creatore e direttore prima dell'INSRAD e poi del CEDEP, rispettivamente la migliore Business School ed il più rinomato Centro di Educazione Permanente per manager di Europa, ambedue localizzati a Fontainebleau, in Francia. Questa scelta consentì al Centro, sin dal suo primo anno di attività, di darsi un immagine internazionale e di inserirsi nel "club" delle istituzioni internazionali, europee ed extraeuropee. D'altronde, in linea con la sua formazione ed esperienza professionale, il Coordinatore scientifico de! Cerisdi riteneva esigenza fondamentale della Sicilia - e probabilmente dell'Italia intera - uscire dall'isolazionismo culturale autosufficiente e spesso autosoddisfatto che la caratterizzava, per stabilire invece una fitta rete di relazioni permanenti ed incrociate di natura 148
culturale e scientifica con il resto del mondo. Questo avrebbe consentito la rapida, anche se graduale, crescita delle risorse professionali ed accademiche locali e contribuito al fiorire di una ricerca empirica di qualità per un insegnamento rispondente al bisogno reale di sviluppo della Sicilia e della sua classe dirigente. Coerentemente con questa posizione, l'orientamento adottato dal Cerisdi fu quello di chiamare a raccolta ricercatori d'indiscusso valore e prestigio scientifico, da altri Paesi e da altri continenti, per proporre loro di formare un "panel" di esperti internazionali, che potesse monitorare le varie fasi del programma di ricerche. Quattordici ricercatori ed esperti, europei ed americani, membri delle più prestigiose università ed istituti di management privato e pubblico, accettarono di far parte di questo "panel" e di confrontarsi con i ricercatori del Cerisdi nell'ambito di tre "Tavole Rotonde", della durata di due giorni ciascuna, fra il febbraio '90 ed il febbraio '92, arco di tempo durante il quale il programma di ricerche del Cerisdi si sarebbe realizzato. Nella prima e seconda Tavola Rotonda il dibattito fu sopratutto incentrato sugli obiettivi e sulle metodologie delle ricerche, sullo stato di avanzamento dei singoli progetti settoriali e quindi sui risultati ottenuti dopo circa un anno di lavoro. La terza Tavota Rotonda si tenne a conclusione dell'iter di svolgimento e
di realizzazione delle ricerche. Il suo obiettiyo fu quello di presentare e discutere i risultati finali e le conclusioni dei progetti, nonché il Modello Pedagogico-Formativo elaborato sulla base dei dati e delle informazioni emersi dalle ricerche sviluppate nei due anni precedenti. L'incontro, inoltre, 'permise di raccogliere reazioni e commenti sul lavoro svolto, nonché di verificare la validità scientifica del Modello PedagogicoFormativo e dell'approccio educativo utilizzato, per favorire lo sviluppo di capacità e di comportamenti manageriali ed imprenditoriali nei settori privato e pubblico del Mezzogiorno e della Sicilia in particolare. La collaborazione professionale e la qualità degli scambi e dibattiti che si verificarono nelle Tavole Rotonde, furono di notevole beneficio personale per i ricercatori del Cerisdi e contribuirono molto alla creazione di un reale spirito di corpo e di una solidarietà scientifica e umana tra i venticinque ricercatori e tra questi e gli esperti internazionali. Il Cerisdi e la Sicilia, da quel momento, poterono in effetti contare su di un considerevole numero di alleati che a loro volta furono i portavoce ed i sostenitori più convinti, negli ambienti internazionali della ricerca socio-economica, dell'azione del Centro, quale promotore e veicolo dello sviluppo di una moderna ed efficace classe dirigente privata e pubblica in Sicilia é nel Mezzogiorn0 2 .
UNA SINTESI DEI RISULTATI DELLE RICERCHE CERISDI
Le ricerche condotte dai venticinque ricercatori del Cerisdi nel biennio febbraio '90 - febbraio '92, furono definite unanimamente eccellenti dai quattordici esperti internazionali che parteciparono alle tre Tavole Rotonde, sia per la metodologia utilizzata che per la quantità e qualità dei risultati ottenuti in termini di dati, informazioni, conoscenze, analisi interpretative e modelli concettuali ed operativi. Nel corso delle cinque ricerche furono realizzate più di cinquecento interviste all'interno di un gran numero di organizzazioni pubbliche (USL - assessorati regionali - Enti pubblici, etc.) e private (aziende - cooperative - associazioni di categoria, etc.). Tali interviste furono oggetto di analisi interpretative sulla base delle quali furono elaborati dei rapporti conclusivi per ogni singolo progetto di ricerca. Ne presentiamo qui di seguito una sintesi essenziale. «
Il
I
Il settore privato L'analisi effettuata su! Mezzogiorno e più in particolare sulla Sicilia, attraverso quattro ricerche settoriali, permise di evidenziare da una parte l'isolamento in cui vivono i singoli attori significativi e le singole organizzazioni private e pubbliche, dall'altra una scarsa capacità degli uni e delle altre a realmente percepire e comprendere l'"ambiente esterno", nazionale ed in149
ternazionale e la sua evoluzione dinamica e turbolenta. Sembrerebbe infatti che la capacità di comprendere e sopratutto di antecipare gli eventi, di percepire i concorrenti attuali e potenziali, diretti ed indiretti, con i loro probabili comportamenti strategici e tattici faccia difetto agli imprenditori ed ai manager (pochi per il vero) delle aziende siciliane. Si osserva, inoltre, una diffusa incapacità degli attori di leggere ed interpretare l'insieme delle relazioni di causa ed effetto e di adottare percorsi logici complessi, a più variabili, nel tentativo di collegare fra loro informazioni differenti ed a volte contraddittorie. Tale incapacità - forse la più preoccupante - impedisce ai più di allargare il campo della propria visione strategica, di analizzare alternative di mercato e di prodotto, e fa loro preferire di restringere o limitare l'azione e le eventuali iniziative, ad ambiti produttivi e mercantili noti e rassicuranti, rifiutando a priori la ricerca di alleanze, di sinergie e collaborazioni orizzontali. Poco sviluppate sono, infine, reali ed efficaci collaborazioni e relazioni a monte ed a valle dell'azienda, la quale sembra allo stesso tempo incapace di presidiare direttamente le funzioni di acquisto e di vendita, e di realizzare opportune collaborazioni verticali per garantire una decentrata efficacia operativa. Le ricerche hanno messo in evidenza inoltre, che gli attori del sistema delle 150
imprese siciliane e meridionali hanno una percezione approssimativa e imperfetta del loro mercato potenziale e della sua segmentazione. La differenziazione dei prodotti è raramente frutto di una ricerca sistematica e di un rigoroso tentativo di caratterizzare la propria offerta in rapporto a opportunità di mercato ben identificate. È evidente che in tale contesto si può mettere in relazione questa modesta e poco dinamica attività mercantile, con l'assenza di una reale concezione competitiva e di una chiara volontà concorrenziale. La competitività, infatti è vissuta spesso come inimicizia e non è in generale interiorizzata come un valore positivo, ambito e premiante. Raramente, infatti, essa è identificata e compresa come una delle forze più efficaci per la creazione di sviluppo economico. Le caratteristiche fin qui evidenziate come peculiari delle capacità, percezioni e comportamenti constatati nelle imprese industriali siciliane, sono da mettere in relazione soltanto con una determinata parte, anche se preponderante, della realtà industriale del meridione. Tale realtà è composta essenzialmente da aziende di piccola dimensione, molto spesso a conduzione familiare di prima o seconda generazione, la cui pr.oduzione in larga parte rientra nell'anpio mercato regolato dalla spesa pubblica a connotazione locale, mosso da meccanismi collusivi piuttsto che da logiche competitive.
Lo studio fatto in altri comparti industriali - ad esempio in quello alimentare - ha messo invece in evidenza attori diversi, aventi percezioni e comportamenti assai più dinamici della media meridionale. Ciò, in particolare, si è osservato in quelle aziende che hanno cercato e realizzato il confronto con il mercato extra-regionale (nazionale ed estero).
Il setto re pubblico Lo studio e l'analisi effettuati nel settore pubblico hanno permesso di mettere in luce il funzionamento politicoamministrativo della struttura di regolazione ed il suo ruolo nella dinamica dello sviluppo socio-economico delle regioni de! Sud. Erogazioni e contribuzioni di vario ordine, protezione discrezionale, unite a lentezza burocratica ed a inefficienza nella implementazione dei provvedimenti legislativi, determinano un circolo vizioso e articolato di scambi fra pubblico e privato. Si riesce così a mortificare l'iniziativa autonoma dei privati ed a perpetuare la produzione di ampie diseconomie, attraverso una gestione costosa della non-aggressione fra gli attori del privato ed una eccessiva complessità nella allocazione delle risorse. La struttura "chiave" dell'organizzazione amministrativa regionale siciliana (a differenza di tutto il resto della PA del Paese) è il "gruppo di lavoro", definizione che si riferisce ad un insie-
me di funzionari coordinati da un dirigente ("coordinatore") "primus inter pares", a cui viene affidata una specifica missione nell'ambito delle attribuzioni dell'Assessorato di appartenenza. In questi "gruppi di lavoro" la ripartizione dei compiti ed il contesto dell'ambiente lavorativo facilitano la costruzione di processi senza sovrapposizioni e senza ridondanza (ognuno ha il suo "angolo"), mentre la forte pressione affettiva dei subordinati sul capo "coordinatore" mira ad evitare che egli intervenga sull'equilibrio de! gruppo. Il rapporto con l'esterno è gestito dalla gerarchia ed al coordinatore è demandata dal "gruppo di lavoro" la difesa dalle minacce esterne della propria identità collettiva che, d'altronde, non tiene assolutamente in considerazione gli altri livelli organizzativi e gerarchici. Nei riguardi dell'impresa, inoltre, è diffusa una sensazione di repulsione - a volte di disprezzo - per una realtà che si percepisce completamente diversa dalla propria nella quale vigono norme e valori che non vengono condivisi. Una realtà diversa, per le sue caratteristiche organizzative e per i suoi modi di funzionamento, è quella messa in luce dalla ricerca sulle Unità Sanitarie Locali del Mezzogiorno e della Sicilia (comparate a quelle di altre regioni nazionali). Le USL appaiono, infatti, deboli strutturalmente poiché dotate di vertici di151
rezionali non adeguati, in conflitto quasi permanente fra le componenti amministrative e sanitarie . Tali vertici sono pertanto incapaci, nel maggior numero dei casi studiati, di imporre all'intera organizzazione logiche unitarie di azione e d'intervento e di coordinare le diverse parti in relazione ai fini da perseguire. Inoltre, la conflittualità cui si è fatto cenno è in molti casi fuorviante e bloccante, poiché espressa da una fondamentale diversità nelle logiche di azione: quelle che sottendono comportamenti amministrativi (normativi, procedurali e autoprotettivi essenzialmente) e quelle che sottendono comportamenti professionali (massimizzazione delle risorse disponobili e destinabili all'utenza, sviluppo tecnologico e professionale, miglioramento della qualità del servizio reso, etc.). Ancora una volta il "fenomeno pubblico", almeno in Sicilia e nel Mezzogiorno, sembra essere caratterizzato da una prevalenza della logica amministrativa "classica" (sopratutto controlli formali preventivi e tutela di tipo garantista), da una carenza notevole di meccanismi operativi normali (pianificazione, programmazione, controllo, gestione del personale, etc.) e da una grande incapacità di realizzare coesione ed integrazione organizzativa ed operativa. Cionostante, anche nella realtà delle UsL siciliane troviamo - come nel privato - delle "eccezioni" di comporta152
mento. Siamo tentati di indicarle come "esempi" di un modo diverso di operare, sui quali occorre far leva per diffonderne lo spirito ed incitarne l'emulazione. Sulla base delle capacità, percezioni e comportamenti riscontrati nei settori privato e pubblico in Sicilia, il Gruppo di Ricerca A potè passare alla fase terminale dell'intero progetto: la definizione degli "obiettivi" dell'azione formativa che si voleva progettare, correlati ai "bisogni" di cambiamento comportamentale che le ricerche avevano identificato come necessari ed urgenti. Questa fase del lavoro del Cerisdi portò sino alla elaborazione del Modello Pedagogico-Formativo e alla realizzazione dei due Corsi Sperimentali che si conclusero contemporaneamente alla sopravvenuta crisi finanziaria ed istituzionale del Centro. UNA FORMAZIONE MANAGERIALE "PUBBLICA" E "PRIVATA" MIRATA AL CAMBIAMENTO DEI COMPORTAMENTI
Non si tratta in Sicilia e nel Mezzogiorno di concentrarsi anzitutto sulle lacune conoscitive, sui concetti, sulle tecniche e sulle metodologie del management moderno che fanno difetto ad imprenditori e dirigenti aziendali. Certo, tali lacune esistono ed il bisogno di colmarle opportunamente dovrà essere preso in considerazione dal Modello Pedagogico-Formativo che è stato elaborato. Prioritario, però, è il
"bisogno-obiettivo" di mettere l'azione educativa al servizio di una messa in discussione dei "valori" che sottendono tutta l'azione imprenditoriale e manageriale nel settore privato ed in quello pubblico. Intervenire al livello dei valori significa modificare le percezioni e quindi i comportamenti, significa, in altre parole, attaccarsi alle radici di un modo di essere e quindi di un modo di gestire risorse, vincoli ed opportunità. Dalla lettura attenta dell'analisi interpretativa delle capacità, delle percezioni e dei comportamenti degli attori dei settori privato e pubblico del Mezzogiorno, si possono evincere alcune indicazioni di fondo sui "bisogniobiettivi" più urgenti da soddisfare.
1) Modificare e ridurre l'esasperato individualismo e l'intera e complessa cultura della sfiducia e del sospetto, assai diffusa tra gli attori primari e secondari dei settori privato e pubblico. Tali tratti culturali e tali valori determinano infatti il rinunziatario ripiegamento sulla propria realtà. In questa, gli individui si rifugiano per sfuggire alle insidie esterne, collocandosi all'ombra di protezioni benefiche ed assistenziali e/o di "patronages" rassicuranti anche se costosi. È quindi un primo ed urgente "bisogno-obiettivo" di cambiamento, al quale dovrà corrispondere in sede didattica un'azione di stimolo alla riflessione, appoggiata su iniziative di ricerca-intervento es-
senzialmente autogestite e condotte in situazione di "monitoraggio".
Modficare sostanzialmente il valore accordato (nel privato e nel pubblico) alla "non aggressione" come antidoto della "concorrenza" fra individui e fra organizzazioni. Si tratta, cioè, di modificare la credenza diffusa che la competizione è una manifestazione d'inimicizia, per stimolare invece gli attori ad accettare ed integrare il valore ed il concetto della concorrenza basata sulla professionalità, sulla competenza, sulla capacità di lavoro e sui reali vantaggi competitivi. L'obiettivo sarà quello di sviluppare nei partecipanti un atteggiamento capace di identificare vantaggi e strategie concorrenziali, facendo largo spazio nella pedagogia a modelli di simulazione competitiva e ad esercitazioni individuali e di gruppo tendenti a far identificare e gestire reali capacità e vantaggi competitivi in situazioni d'incertezza e di turbolenza. Sviluppare negli attori del privato e del pubblico atteggiamenti mentali, attitudini e capacità reali di anticzazione. Occorre far acquisire agli attori capacità di anticipazione socio-economicopolitica e di possibili scenari, dai quali trarre indicazioni di opportunità concrete per la propria azienda e/o organizzazione. L'obiettivo è di risvegliare negli attori 153
autentica curiosità del futuro, sviluppare una capacità di visione prospettica applicata alle dinamiche dei mercati nazionali ed internazionali, per aiutarli a discernere l'evoluzione in corso e a prepararsi ad essa. Sviluppare l'interesse e l'attitudine a percepire e comprendere l'ambiente esterno - quello circostante e quello più distante - nell'intento d'identificare l'esistenza di opportunità (e vincoli) di sviluppo. L'esigenza alla base è ancora una volta quella di allargare l'angolo visuale attraverso il quale gli attori - privati e pubblici - meridionali e siciliani osservano ed analizzano lo spazio economico mondiale, le sue potenzialità settoriali ed i rischi insiti. Sul piano didattico, oltre alle conoscenze trasmesse per mezzo di letture e di seminari di scambio e riflessione, si pensa alla formula dei seminari itineranti, con studio diretto ed ' (in loco" di realtà diverse, organizzato con il concorso di aziende, scuole e diverse istituzioni straniere, sia private che pubbliche.
Estendere, approfondire ed arricchire la percezione che i dirigenti haino della "catena del valore aggiunto" delle loro imprese e/o organizzazioni. Far prendere coscienza della tipologia, delle caratteristiche proprie e dell'importanza relativa delle diverse funzioni creatrici di "valore aggiunto" che consentono all'organizzazione un equili154
brato funzionamento ed un coerente ed efficace sviluppo. In particolare, questa esigenza è apparsa di frequente nelle aziende analizzate, dove si è constatato un mancato sviluppo di alcune funzioni chiave quali la "Ricerca e Sviluppo", il "Marketing" e la "Gestione delle Risorse Umane". Sembra opportuno quindi intervenire, in sede pedagogico-formativa, con apporti conoscitivi sugli aspetti organizzativi, funzionali e strategici dell'azienda, attraverso l'utilizzo ancora una volta di modelli di simulazione aziendale e di casi complessi funzionali ed interfunzionali.
Sviluppare, nel privato e nel pubblico, una capacità di leadership moti va nte e lungimirante, atta a mobilitare intorno ad obiettivi e strategie chiare e credibili le aspirazioni individuali, le competenze e le energie presenti in un'organizzazione. Nell'insieme del sistema privato e pubblico siciliano e meridionale, ancor pit che di dirigenti c'è bisogno di leader e d'imprenditori. La loro formazione ed il loro sviluppo non sarà agevole né evidente. Sarà necessario innovare e sperimentare sul terreno della pedagogia attiva e della "ricerca-intervento", utilizzando al massimo le occasioni offerte dal "terreno" e dalle attività formali ed informali di gruppo. Sviluppare negli "attori" del settore privato e di quello pubblico processi co-
gnitivi e logiche analitiche, capaci di esplorare con rigore la realtt ed identficare rapporti di causalità esplicativi dei fenomeni osservati. Questo "bisogno-obiettivo" deve essere considerato primario rispetto.a tutti gli altri bisogni ed obiettivi enunciati precedentamente. Esso, infatti, rappresenta l'origine e la condizione necessaria per una risposta permanente a tutti gli altri bisogni formativi identificati. Qui si situa, a nostro avviso, la sfida più difficile del processo formativo da mettere in atto, che condiziona largamente la rinascita stessa dello sviluppo culturale e manageriale degli attori privati e pubblici del Mezzogiorno e della Sicilia. Si farà ricorso ad una pedagogia in cui il confronto e la discussione in aula si alterneranno ad una pedagogia di ricerca-intervento sul terreno. IL MODELLO PEDAGOGICO-FORMATIVO Per rispondere all'analisi dei "bisogniobiettivi" è stato elaborato un Modello Pedagogico-Formativo basato su una serie d'ipotesi che è opportuno specificare: 1) Un modello ed una strategia di "management education", mirati ed adeguati al Mezzogiorno d'Italia, devono essere diretti alle aziende private ed alla Pubblica Amministrazione e resi operativi "contemporaneamente" nei due settori.
Il modello e la strategia di "management education" devono costituire un sistema di «educazione permanente", cioè un sistema educativo che si rivolga ai manager ed ai dirigenti attuali e potenziali in momenti diversi del loro iter professionale. Tale sistema deve costituire per sè uno strumento di "integrazione e di percezione comune di opportunità", cioè dare ai leader dei due settori la possibilità di integrarsi fra loro e raggiungere gradualmente, in tal modo, una percezione comune delle opportunità esistenti e di quelle da scoprire per lo sviluppo della Pubblica Amministrazione e dell'impresa privata nel Mezzogiorno. Un sistema cioè, che ha lo scopo e l'obiettivo, non solo di educare, ma di integrare fra loro più persone dei due settori, per fare in modo che esse abbiano in comune un linguaggio ed un metodo di approccio. L'educazione manageriale attraverso gli uomini che vi parteciperanno dovrà costituire un fattore essenziale di coesione per lo sviluppo del Mezzogiorno. L'obiettivo è di formare una "massa critica" di persone che dovranno, sia individualmente che associate tra loro, essere i reali "pionieri" animatori e quindi gli "elementi motore", su cui si potrà contare per il rinnovamento graduale e civile del Mezzogiorno e della Sicilia per la costituzione di un "nerwork" efficace di collaborazione e di sinergie. 155
5) Poiché l'obiettivo è l'incremento della professionalità degli attori privati e pubblici, è fondamentale per dirigere ed implementare un tale sistema d'educazione manageriale, che si possa disporre di un livello di professionalità almeno uguale ai migliori standard europei e internazionali. Lo schema concettuale del Modello è così suddiviso: La condivisione nell'apprendimento. Discende naturalmente dalle constatazioni e dalle rilevazioni fatte dalle ricerche di supporto che il concetto fondamentale ed il principio direttivo del modello è la condivisione ("sharing") come mezzo e fine dell'apprendimento. Condividere, mettere in comune, in una situazione di analisi, diagnosi e risoluzione di problemi, consentirà di rompere gradualmente le riserve e le diffidenze ed imparare ad utilizzare il ccgruppo , le competenze e le conoscenze degli altri, scoprire il valore sinergico della collaborazione. In altre parole apprendere a lavorare con gli altri. Apprendere ad apprendere. Il modello pedagogico assegna volutamente un ruolo fondamentale all'analisi ed alla sintesi delle informazioni, quale base per la soluzione dei problemi. Non si limita alla semplice analisi di 6'casi prefabbricati", ma opta con decisione per l'approccio della "ricerca-azione" (o meglio della "ricerca- in terven to" come continueremo a chiamarla). In questa, l'adozione della metodologia 156
di ricerca, sviluppa negli individui la capacità di esplorare autonomamente o con altri la realtà, discernere fra le osservazioni e le informazioni quelle pertinenti, intraprendere un processo cognitivo complesso ed a più variabili, identificare causalità significative fra gli eventi osservati. Apprendere per differenza. Come è stato chiarito nella prima ipotesi alla base del modello pedagogico, la scelta di fondo è stata la "disomogeneità" fra i partecipanti al processo educativo. In questo senso la selezione e la composizione dei gruppi di partecipanti, che seguiranno il processo educativo, saranno fatte tenendo ben presente la loro differenziazione. Dirigenti privati e pubblici, manager e imprenditori di aziende piccole e medio-grandi, specialisti della produzione e del mercato, si ritroveranno insieme in situazioni cc r i i comune ai conrronto e ci messa n con l'obiettivo didattico e operativo di spezzare la settorialità e creare spazi di "gioco" ed occasioni di intesa. Il confronto infatti si instaurerà fra i partecipanti, si allargherà alle organizzazioni di origine dei partecipanti, si farà anche immancabilmente fra i contesti operativi, tra le realtà stesse oggetto di studio. L'organizzazione che apprende (ovvero: «the learning organization"). Perché il cambiamento sia concretamente introdotto in una organizzazione attraverso la formazione dei suoi membri, è necessario che le conoscenze, la caI
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pacità ed i comportamenti appresi possano essere "trasferiti" nel funzionamento quotidiano dell'organizzazione stessa, da un numero sufficiente di attori rilevanti ed influenti. Solo allora, infatti, l'apprendimento non sarà soltanto acquisizione personale di alcuni individui isolati, ma verrà "condiviso" dalla intera organizzazione od almeno dalla parte di essa che ha il potere d'influire sul resto ("la massa critica").
Lo schema operativo del Modello Pedagogico-Formativo Il Modello Pedagogico-Formativo offerto in momenti diversi dell'iter professionale dei dirigenti rappresenterà un reale sistema di "educazione permanente". Sarà quindi aperto non solo a coloro che attualmente ricoprono ruoli di alta responsibilità nei settori privato e pubblico, ma sopratutto a coloro che per il loro "alto potenziale" saranno chiamati nel breve tempo ad assumere tali ruoli. Conseguentemente è necessario concepire ed organizzare un certo numero di Corsi di Sviluppo Manageriale distinti fra loro per il tipo di "audience" alle quali saranno destinati. Alcuni corsi saranno concepiti tenendo massimo conto delle reali disponibilità di tempo degli imprenditori e degli alti dirigenti dei settori privato e pubblico, per offrire loro delle occasioni brevi ma frequenti d'incontro, di
riflessione e d'approfondimento in comune. L'obiettivo sarà quello di stimolare fra i partecipanti provenienti dai due settori, un confronto costruttivo di esperienze nella ricerca di una maggiore comprensione dei rispettivi valori, percezioni, vincoli e punti di vista, per sviluppare nell'azione concreta opportune integrazioni, collaborazioni, convergenze, un linguaggio comune e delle relazioni di scambio efficaci e durature. Altri corsi saranno concepiti per dare una risposta pedagogicamente valida ai vari "bisogni-obiettivi" di sviluppo manageriale identificati dalle ricerche. Si rivolgeranno ad un pubblico misto di dirigenti ad alto potenziale del settore privato e di quello della Pubblica Amministrazione. Saranno caratterizzati da una struttura pedagogica "modulare" con per.iòdi alternati di attività didattica e di attività sperimentale di ricerca/intervento - realizzata all'interno delle organizzazioni di appartenenza dei partecipanti ai corsi. Benché applicata con modalità diverse, l'innovazione essenziale del "Modello Pedagogico-Formativo" è quella di non limitarsi a trasmettere conoscenze, concetti e tecniche di management moderno, ma di proporre ai partecipanti una reale modifica di fondo del proprio sistema di valori, atteggiamenti e comportamenti manageriali. Per riuscire a realizzare con successo la "formazione per il cambiamento", oc157
correrà in una prima fase, fornire ai partecipanti strumenti concettuali e metodologici per osservare e analizzare la realtà con uno sguardo completamente diverso. In una seconda fase, adottando una logica di "trasferimento delle conoscenze" nella realtà organizzativa, verrà offerta ai partecipanti l'opportunità concreta di "sperimentare il cambiamento". Ciò sarà realizzato attraverso dei lavori progettuali di gruppo consistenti nella "identificazione-risoluzione» di reali problemi organizzativi e/o di conduzione manageriale, nell'ambito delle imprese e degli enti che parteciperanno ai corsi attraverso l'invio di propri dirigenti.
LA SPERIMENTAZIONE DEL MODELLO PEDAGOGICO-FORMATIVO: ULTIMO ATFO DELLA BREVE ESISTENZA DEL CEIUSDI Nel marzo 1992, il Presidente del Cerisdi diede incarico al Coordinatore scientifico del Centro di progettare, organizzare e realizzare la Sperimentazione del Modello Pedagogico-Forrìativo che era stato elaborato e realizzare i primi due Corsi sperimentali del Cerisdi: il "Programma di riflessione e confronto tra imprenditori ed alti dirigenti dei settori privato e pubblico della Sicilia" ed il "Programma di sviluppo manageriale per dirigenti ad alto potenziale dei settori privato e pubblico della Sicilia". 158
Nei tre mesi che seguirono, il Coordinatore progettò in dettaglio i contenuti, i metodi didattici ed i tempi di attuazione dei due programmi sperimentali e riuscì ad ottenere la collaborazione professionale di trenta docenti italiani ed esteri, provenienti da diverse università e scuole europee (SDABocconi, Università Erasmus di Rotterdam, Università "La Sapienza" di Roma, I'INsF.AD di Fontainebleau, le Università di Milano, Verona, Bologna, Palermo, Catania, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione) e da alcuni Centri di formazione e Società di consulenza come l'IsTUD, l'Ergon, Prospecta, Projecta e Rso. Si trattò quindi di definire il ruolo di ogni docente, nell'ambito dei due programmi ed allo stesso tempo far loro cogliere il senso della filosofia didattica e della missione educativa del "Modello" mirato sopratutto al cambiamento del sistema dei valori e dei comportamenti degli imprenditori e dei manager privati e pubblici della Sicilia. A tal fine il Coordinatore scientifico organizzò un primo Seminario di Preparazione a cui parteciparono tutti i docenti e durante il quale furono presentati e discussi le analisi elaborate a conclusione delle cinque ricerche Cerisdi, il Modello Pedagogico-Formativo e gli obiettivi e contenuti dei due programmi sperimentali. Fu quello certamente un importante avvenimento culturale, di grande valore didattico, unico nel suo genere,
perché mai prima di allora si era tenuto, in Italia e in Europa, un seminario di due giornate nel quale trenta docenti avevano potuto discutere un nuovo Modello Formativo, gli obiettivi ed i contenuti dei corsi ai quali avrebbero partecipato come docenti, per definire "insieme" i ruoli rispettivi, le aree disciplinari, che gli uni e gli altri avrebbero coperto, i punti di contatto e i coordinamenti necessari, nonché le zone di "contaminazione" reciproca nel processo d'insegnamento/apprendimento comune. Il risultato del Seminario fu estremamente positivo poiché riuscì a fare di trenta individui - che in molti casi s'incontravano per la prima volta - un gruppo di colleghi affiatati, rispettosi l'uno dell'altro, felici di potere lavorare insieme in un progetto esaltante. L'esperienza fu ripetuta un mese dopo, poco prima dell'inizio dei corsi ed infine, a richiesta dei docenti, una terza volta per verificare il lavoro già svolto, valutarne i risultati ed, ove necessario, apportare delle modifiche per il proseguimento. La reazione unanime degli imprenditori e dei dirigenti privati e pubblici che parteciparono ai due programmi sperimentali fu positiva ed entusiasta sin dal primo giorno dei Corsi (un'apposita ricerca di valutazione fatta a mezzo d'interviste personali alla fine dei due corsi - attualmente in corso di pubblicazione - dà una testimonianza sorprendente del livello rag-
giunto sia nell'apprendimento dei singoli che nel "trasferimento" di questo nell'azione concreta e quotidiana) e per quanto riguarda in particolare il "Programma per gli imprenditori e gli altri dirigenti privati e pubblici" tale reazione trovò una sua concreta manifestazione, alla fine dell'ultimo modulo del Corso, nella creazione da parte dei partecipanti del "Club degli imprenditori e dirigenti privati e pubbliPer la prima volta, nel mondo occidentale, si veniva spontaneamente a creare un'associazione indipendente con lo scopo di riunire le energie sane dell'imprenditoria e del management di un gruppo numeroso di aziende private con una parte altrettanto sana ed innovatrice della PA siciliana. Avendo entrambe le categorie compreso il messaggio del Cerisdi, esprimevano la propria fiducia nella possibilità di attuare un nuovo modello di collaborazione e disinergia tra il "privato" ed il cc pubblico , per un modo diverso di gestire lo sviluppo. Era questo un primo concreto e visibile risultato della validità del Modello Pedagogico-Formativo: la riunione delle volontà e degli sforzi, degli uni e degli altri, dei "privati" e dei "pubblici", per tentare "insieme" di trovare soluzioni innovative ed efficaci ai gravi problemi strutturali, sociali, economici e gestionali che continuano a ritardare il decollo della Sicilia e del Mezzogiorno. 159
CONCLUSIONE DI UN'ESPERIENZA
Mentre però il 19 Marzo '93 si concludeva così brillantemente il primo Corso Sperimentale e si teneva la riunione costitutiva del «Club degli imprenditori e dirigenti privati e pubblici", all'Assemblea Regionale Siciliana, il Presidente della Commissione Finanza, il democristiano on. Capitummino, presentava un ordine del giorno, approvato dall'aula e dal Governo, che autorizzava la Commissione Bilancio del'ARS ad effettuare una indagine conoscitiva sull'amministrazione del Cerisdi. Questo atto di ostilità nei riguardi del Cerisdi fu interpretato dalla stampa del tempo come "una manifestazione della guerra che a diversi livelli si stava combattendo fra l'attuale Presidente della Regione, on. Giuseppe Campione e l"entourage" dell'ex-Presidente Rino Nicolosi". Sempre secondo la stampa, la guerra aveva come obiettivo la conquista dei "fortini" (il Castello Utveggio era uno di questi) che l'on. Rino Nicolosi "era riuscito a costruire durante la sua lunga stagione politica regionale" e l'ultimo esempio dello scontro (fra Campione e 1' 6'entourage" di Nicolosi n.d.r.) sarebbe stato la nomina da parte di Campione del Presidente del Formez dott. Sergio Zoppi, alla presidenza del Cerisdi al posto dell'attuale presidente, Prefetto Pietro Verga. È forse superfluo, a questo punto, descrivere l'enorme stupore ed il profon160
do disagio che suscitarono queste inattese notizie e questi sconcertanti avvenimenti, in tutti coloro che al Cerisdi si occupavano delle attività scientifiche e didattiche e che da sempre erano volutamente rimasti estranei alla gestione amministrativa e politica del Centro. Ciò che però apparve subito chiaro a molti di essi fu che ci si trovava di fronte ad una azione concertata ai danni del Cerisdi, che mirava ad ostacolare seriamente e probabilmente ad arrestare del tutto l'attività di un Centro che da tre anni con tenacia e professionalità, predicava il cambiamento e la responsabilizzazione individuale e collettiva degli attori significativi del "pubblico" e del "privato" per arrestare il processo di degrado della Sicilia e porre mano con coraggio alla sua crescita civile ed al suo sviluppo economico e sociale. I successi di questo Centro, infatti, erano stati indiscutibili sia sul piano delle ricerche, alle quali numerosi riconoscimenti di rilevanza scientifica erano stati rivolti dagli esperti internazionali partecipanti alle tre Tavole Rotonde, sia sul piano pedagogico e formativo per il carattere innovativo ed estremamente stimolante del Modello elaborato. Inoltre, la risonanza, il rispetto internazionale e le alleanze professionali, che il Cerisdi era riuscito a sviluppare in soli tre anni di lavoro, nonché la qualità e la quantità di docenti italiani ed esteri che con entusia-
smo avevano accolto l'invito a collaborare con il Centro, avevano senza dubbio suscitato un certo senso di invidia in coloro che non erano riusciti a porre su un piano di visibilità internazionale la propria attività di ricerca e di formazione. Di tutto ciò i ricercatori, i docenti e lo stesso Coordinatore scientifico del Centro, avevano cominciato recentemente ad avere sentore. Avevano infatti notato una certa «presa di distanza" da parte di alcuni, componenti "universitari" del Comitato Tecnico Scientifico, all'occasione della presentazione del Modello e quasi contemporaneamente erano venuti a conoscenza di una presa di posizione nettamente critica nei riguardi dello stesso Modello, da parte del Presidente di un importante Ente Regionale ed autorevole membro del Consiglio di Amministrazione del Cerisdi. Quest'ultimo tra l'altro, in una riunione del Consiglio del Centro, non aveva esitato a definire "illuminista" l'autore del Modello Formativo, manifestando allo stesso tempo la sua incontrovertibile convinzione che "mai e poi mai gli imprenditori ed i dirigenti siciliani, avrebbero partecipato ai due Programmi Sperimentali del Cerisdi" (sic). Risultava così, adesso, un pò a tutti, sempre più chiaro che un certo numero di "attori", portatori di "ruoli" ed interessi fra loro assai distinti, si erano come pef caso ritrovati sotto gli spalti del Castello Utveggio, probabilmente
accomunati soltanto dal desiderio di espugnano, non veramente per conquistarlo, ma soltanto per "azzerarlo" o meglio renderlo del tutto impotente ed innocuo. La manovra d'attacco era d'altronde iniziata fra la fine del '92 e gli inizi del '93. Proprio allora, infatti, era cominciata a manifestarsi la strategia dilatoria del Formez, che abilmente era riuscito a procrastinare per circa cinque a mesi la firma della TI Convenzione con il Cerisdi (che doveva assicurare il finanziamento della Sperimentazione) nonostante che questa fbsse stata già approvata alla unanimità del Consiglio di Amministrazione dello stesso Formez il 24 Novembre 1992. Questa "strategia del rinvio" d'altronde, era apparsa del tutto pretestuosa, visto che il Formez aveva già concordato con il Cerisdi di dare inizio alla Sperimentazione il 15 Settembre '92, dopo che il Centro aveva portato a termine il recutamento dei trenta docenti, che avrebbero dovuto insegnare nei due Corsi Sperimentali. Procrastinare in una tale situazione la firma della Convenzione significava, in pratica, mettere il Cerisdi in una situazione finanziaria estremamente difficile e senza sbocco, nella necessità da una parte di onorare gli impegni contrattuali presi con i docenti e con lo stesso Coordinatore Scientifico e nell'impossibilità, dall'altra, di ottenere dal Formez la firma della TI Convenzione, peraltro, come si è detto, già 161
approvata. E tutto ciò nonostante che il Centro aveva ampiamente e con sollecitudine risposto alle molteplici "richieste di chiarimenti" che dal dicembre '92 al marzo '93, la burocrazia del Formez era stata capace d'immaginare. D'altra parte, l'estenuante protrarsi dell'iter burocratico ebbe come conseguenza sconcertante il blocco definitivo della Convenzione per il finanziamento della Sperimentazione del Cerisdi. Nell'aprile '93, infatti, era venuta a concretizzarsi la decisione, precedentemente annunciata dal governo, di porre fine all'Azione Organica N. 2 dell'Intervento Pubblico Straordinario nel Mezzogiorno, che comportava l'archiviazione di fatto delle Convenzioni non ancora firmate. Il Cerisdi ormai a due mesi della conclusione del quinto e penultimo modulo del "Programma Sperimentale per dirigenti ad alto potenziale dei settori privato e pubblico" si trovò in una situazione finanziaria assolutamente drammatica con conseguenze assai negative per i suoi numerosi creditori - in massima parte docenti che avevano accettato con entusiasmo di partecipare al progetto. Contemporaneamente, alla Assemblea Regionale Siciliana si compiva l'ultima fase della manovra d'attacco ai danni del Cerisdi, che era iniziata quattro mesi prima a Roma. L'on. Capitummino presentava infatti alla Presidenza della Regione, la ri162
chiesta di bloccare il finanziamento regionale di 2,5 miliardi destinato al Cerisdi, in attesa dei risultati dell'indagine conoscitiva sul Centro, che era stata proposta dallo stesso Capitummino, nella sua veste di presidente della Commissione Finanza dell'As. Solo alcuni giorni dopo, il presidente della Regione Siciliana, on. Giuseppe Campione, designava il dott. Zoppi, presidente del Formez, ad assumere la presidenza del Cerisdi, in sostituzione del Prefetto Pietro Verga ed il 14 giugno seguente l'Assemblea dei Soci del Cerisdi nominava a sua volta il nuovo Consiglio d'Amministrazione del Centro ed il dott. Zoppi alla sua presidenza. In quello stesso giorno, sempre al Castello Utveggio, prendeva inizio il "quinto modulo" del "Programma Sperimentale per dirigenti ad alto potenziale dei settori privato e pubblico". Il programma prevedeva la presentazione in aula e la discussione dei "rapporti" conclusivi dei "gruppi di lavoro" del seminario itinerante diretto del Prof. Gianni Lorenzoni dell'UniversitĂ di Bologna. I vari gruppi di lavoro, coordinati da Lorenzoni avevano infatti condotto un'indagine conoscitiva in Emilia-Romagna, diretta ad analizzare sul terreno l'organizzazione ed il funzionamento di alcune "costellazioni d'imprese", esempi concreti degli "accordi" e delle "reti" interaziendali, di cui i dirigenti siciliani dovevano studiare la potenzialitĂ di una
loro eventuale concreta applicazione in Sicilia. Nonostante il forte interesse del soggetto trattato, né il nuovo presidente né alcun membro del nuovo Consiglio, considerarono opportuno fare una visita, anche breve, all'aula dove 32 dirigenti privati e pubblici stavano dibattendo un tema, che per il suo carattere innovativo, avrebbe dovuto appassionare il nuovo vertice del Centro. Naturalmente il loro disinteresse palese, la disse lunga sulle reali motivazioni dei nuovi arrivati, sia ai docenti che ai partecipanti, i quali al corrente della riunione del Consiglio, che si teneva a pochi metri della loro aula, si attendevano almeno una visita di cortesia ed un cordiale saluto dai nuovi amministratori. Ma in realtà l'operazione "azzeramento del Cerisdi" si era ormai definitivamente conclusa e, come spesso avviene in questo genere di congiure bizantine, gli stessi "attori", dopo solo alcuni mesi dal loro effimero trionfo, caddero vittime del loro disegno. Fu così che uno degli attori principali, i on. Giuseppe Campione, fu destituito dall'incarico di presidente della Regione, da un'Assemblea Regionale come sempre instabile a causa delle crisi che si verificavano periodicamente. Il suo successore, l'on. Franco Martino, liberale e moderato, nonostante che l'indagine conoscitiva sui Cerisdi si fosse chiusa con un nulla di fatto, non ritenne opportuno sbloccare i
fondi della Regione destinati al Centro. La sua onesta perplessità era stata d'altronde rafforzata dall'annuncio della creazione dell'Associazione Internazionale Amici del Cerisdi, presieduta dal Prof. Marco Vitale, alla quale avevano dato la loro adesione i docenti italiani ed esteri, gli esperti internazionali, gli imprenditori siciliani ed i dirigenti privati e pubblici, che avevano partecipato, nei loro diversi ruoli, alle attività del Cerisdi sin dal 1990. L'associazione costituitasi con l'obiettivo di rilanciare il Cerisdi su basi del tutto privatistiche, mirava infatti ad assicurare il finanziamento del Centro esclusivamente con i proventi ricavati dai corsi da questo organizzati per soddisfare i bisogni di formazione e di sviluppo manageriale dei suoi utenti, divenuti di fatto i soli soci sostenitori dell'iniziativa. D'altra parte, perdurando la situazione di stallo relativa al finanziamento pubblico del Cerisdi, sia di provenienza Formez che di provenienza Regionale, il neo presidente Zoppi era stato costretto a presentare le sue dimissioni (e con lui l'intero Consiglio), soffocato dagli onerosi debiti nei confronti dei docenti, dei giovani ricercatori, degli impiegati del Centro e dei principali fornitori di servizi. Zoppi era così ritornato a Roma ed al Formez, senza riuscire a fare concludere la Sperimentazione del Modello Formativo (e cioè il sesto ed ultimo modulo del "Programma Sperimentale per diri163
genti privati e pubblici") da tempo reclamato con insistenza sia dal Coordinatore Scientifico del Cerisdi, sia da tutti i partecipanti del Corso, che avevano fino all'ultimo sperato di concludere in modo onorevole la loro appassionante esperienza formativa. Si concludeva così - in modo incompiuto - la Sperimentazione del Modello e contemporaneamente la breve ma esaltante esperienza del Cerisdi, i cui successi scientifici e didattici, così come l'ingiustificata aggressione subita, meritano certamente di essere registrati nella "memoria storica" dell'isola e di tutti coloro che con passione si sono battuti e si battono ancora per il suo sviluppo civile, sociale ed economico. Questa "memoria", infatti, potrebbe ispirare e stimolare quelle future iniziative - che facendo tesoro dell'esperienza passata - potrebbero ridare spe-
Composizione dei gruppi di ricerca: Coordinatore Scientifico per l'intero programma di ricerca: Prof. Salvatore Teresi (INsD/CEDEP-CERisDI) RICERCA A. Elaborazione di un Modello Pedagogico-
Formativo per lo sviluppo manageriale dei settori privato e pubblico nel Mezzogiorno ed in particolare in Sicilia. Capo Progetto: Prof. Salvatore Teresi (INsn/CEDCERISDI)
Ricercatori Senior: Prof. Claude Michaud (INsEAD/CEDEP); Prof. Jean Claude Thoenig (IN-
ranza e rilancio ad uno sviluppo dell'isola tuttavia ritardato dalle forze congiunte della mafia e di una classe politica corrotta, inetta ed arrogante, che continuano ad ostacolare il cambiamento, perpetuando in Sicilia il disprezzo dei valori più sani e l'esaltazione dell'intrigo, del baratto e della sottocultura. Dopo circa un anno e mezzo d'inattività il Cerisdi è oggi presieduto da un ex Direttore Regionale in pensione. Mancando di una reale leadership scientifica qualificata, il Centro non è ancora riuscito ad esprimere un programma coerente di attività, preferendo probabilmente offrire corsi di addestramento per la PA regionale (nella totale ignoranza del Modello Pedagogico-Formativo che era stato elaborato nel '93) riferendosi agli schemi più tradizionali del diritto amministrativo italiano.
RICERCA B. Il cambiamento organizzativo e gestionale
nell'area della sanità pubblica: analisi organizzativa e processi decisionali ed operativi in un ottica di ottimizzazione delle risorse e di soddisfzioni del mercato. Capo Progetto: Prof. Marco Meneguzzo (Università L. Bocconi) Ricercatore Senior: Dott. Mario Del Vecchio (Università L. Bocconi) Ricercatori Junior: Dott.ssa Concetta Lo Presti; Dott.ssa Teresa Sciortino; Dott. Angelo Tanese; Dott. Alberto Tulumello
SEAD/CEDEP).
RICERCA C. La dinamica dello sviluppo socio-econo-
Ricercatori Junior: Dott.ssa Virginia Costa; Dott. Gaetano Mercadante.
mico dell'area industriale del Catanese: potenzialità, ostacoli, comportamenti ed esigenze innovative.
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Capo Progetto: Prof. Elio Rossitto (Università di Catania) Ricercatore Senior: Prof. Antonio Purpura (Università di Palermo) Ricercatori Junior: Dott. Giorgio Pirrè; Dott. Salvatore Tomaselli; Dott. Sebastiano Torcivia RICERCA Dl. Analisi del sistema competitivo e dei comportamenti gestionali nel settore del turismo nel Mezzogiorno ed in Sicilia in particolare. Capo Progetto: Dott. Nino Lo Bianco (TELOS, Milano) Ricercatori Senior: Ing. Giorgio Giargia (STUDIO TEMPO, Milano); Ing. Massimo Casoli (ERGON, Milano) Ricercatori funior: Dott. Carmine Bianchi; Dott.ssa Concetta Lattanzio RICERCA D2. Analisi del sistema competitivo e dei comportamenti gestionali nel settore agroalimentare nel Mezzogiorno ed in Sicilia in particolare. Capo Progetto: Prof. Eugenio Corti (Università di Napoli) Ricercatori Senior: Dott.ssa Silvia De Martino (Università di Venezia); Prof. Giuseppe Zollo (Università di Napoli) Ricercatore Junior: Dott. Aurelio bn 2 Per completezza di informazione presentiamo qui in nota l'elenco degli esperti internazionali che parteciparono alle tre Tavole Rotonde: Prof. Robert F. Boruch, Trustee Professor, Graduate School of Education, University of Pennsylvania, Usa Prof. Vittorio Coda, Presidente dello Sai, Università L. Bocconi, Milano-Italia Prof. Michel Crozier, Fondatore e Presitknte del Centro di Sociologia delle Organizzazioni (JEP), ParigiFrancia
Prof. Robin Hogart, Wallace W. Booth Professor, Professore di Scienze Comportamentali e Direttore del Centre for Decision Research, Graduate School of Business, Università di Chicago, Usa Prof. Matin Landau, Professore e Direttore del progetto Berkeley-Hong Kong, Institute of Governamental Studies, Committee on the Study of Public Organization, Università della California, Berkeley - Usa Prof. Jean-Pierre Nioche, Segretario Generale del Gruppo NEC, Jouy-en-Josas - Parigi - Francia Prof. Spyros A. Pappas, Direttore Generale dell'Istituto Europeo di Pubblica Amministrazione, MaastnichtOlanda Prof. Gianfranco Rebora, Professore di Organizzazione del Lavoro nella Pubblica Amministrazione, Università L. Bocconi, Milano - Italia Prof. Josep Riverola, Professore di Managerial Economics, lESE (Instituto de Estudios Superiores de la Empresa), Barcellona - Spagna Prof. Juan Rada, Direttore Generale dello IM!) (Internazional Institute for Management Development), Loanna-Svizzera Prof. Jerry Ross, Professore di Comportamento Organizzativo, INSEAD, Fontainebleau-Francia Dr. H.C. Heinrich Siedentopf, Professore di Pubblica Amministrazione, Instituto di Pubblica Amministrazione Speyer-Germania Prof. Daniel Soulié, Responsabile del Master, Programma di Scienze Economiche, Università Dauphine, Parigi-Francia Prof. Joan Subirats, Dipartimento di Scienze Politiche e di Diritto Pubblico, Università Autonoma di Barcellona-Spagna 3 "Capitale Sud" - Anno VII n. 13 del 30 marzo al 5 aprile 1993: "Cerisdi sotto pressione" di A. Naselli.
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L'«American Society for Public Administration»: tra passato e presente di Saveria Addotta e Alfonso Ferraro*
Da oltre cinquant'anni esiste negli Stati Uniti l'American Society for Public Administration (ASPA), un'associazione con molti aderenti in tutto il Paese e con una forte capacità di influenzare alcune politiche pubbliche. La sua storia è interessante sotto vari aspetti e vale perciò raccontarla. Lo facciamo seguendo lo sviluppo dell'associazione a partire da una una sorta di scheda di presentazione per poi proseguire a raccontare i fatti salienti di tale storia così come sono accaduti negli anni. Fondata nel 1939, l'ASPA è la più grande e importante associazione di professionisti e studiosi nel campo della pubblica amministrazione americana. Attualmente, conta circa 11.300 membri tra professionals (circa l'80%), accademici (circa il 15%) e studenti interessati alla materia. Nel corso degli anni, l'associazione è divenuta punto di riferimento fondamentale per intellettuali e professionisti, rivelandosi sempre più luogo privilegiato in cui *
Saveria Addotta è responsabile di redazione della nostra rivista; Alfonso Ferraro è socio dell'AsPA.
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teoria e pratica nel campo della pubblica amministrazione trovano un terreno d'incontro. Per incoraggiare questo importante legame, l'ASPA ha sviluppato al suo interno una struttura e una serie di attività che servono da supporto ai suoi obiettivi. È governata da un presidente e da un consiglio nazionale eletto dai soci. Tradizionalmente, i presidenti dell'ASPA - ex professional o ex-accademici di fama -, e i membri del consiglio nazionale, stabiliscono insieme le politiche e i programmi che riflettono le richieste dei soci e le esigenze maturate in materia di pubblica amministrazione. La struttura dell'associazione prevede, inoltre, uno staff professionale a tempo pieno e un direttore esecutivo. Oltre a questa struttura organizzativa, l'AsPA comprende anche 124 sezioni locali (a cui appartengono circa il 95% dei soci) e 19 sezioni speciali. Sia le prime (presenti in tutti gli Stati Uniti), che le seconde (composte dai soci aventi in comune un particolare interesse professionale) sono servite a stimolare uno spirito di affiliazione tra i soci, ognuno dei quali lavora e vive
nei diversi Stati americani e ormai anche in altri Paesi. Vi sono, infatti, anche qualche centinaio di membri non americani ma, soprattutto, più di 2000 abbonati stranieri alla «Public Aministration Review» (uno dei periodici pubblicati dall'ASPA). Il finanziamento dell'associazione, è dato, per lo più, dalle quote di partecipazione dei membri e, in parte, dagli abbonamenti alle pubblicazioni e da donazioni private. Ogni anno, l'ASPA sponsorizza conferenze nazionali e regionali, con l'intenzione di riunire i migliori studiosi e professionisti e fare in modo che vi sia un effettivo scambio di conoscenze. A ciò si aggiunge una vasta gamma di pubblicazioni sulla pubblica amministrazione: giornali, riviste e libri. Una di queste riviste, la già citata «Public Administration Review», viene considerata come la più autorevole rivista americana in materia. Insieme ad altre organizzazioni, quali la National Association of Schools of Public Affairs and Administration (NASPAA), l'International City Management Association (IcIvIA), e la National Academy of Public Administration (NAPA) -, l'AsPA sponsorizza varie attività nel campo della pubblica amministrazione. In questo modo, l'associazione riesce ad avere una rilevante influenza a tutti i livelli di governo, anche aiutando ad assolvere nuovi compiti e non soltanto
negli Stati Uniti (per esempio, aiutando i nuovi governi dell'ex Unione Sovietica). PIUNcIPI
ISPIRATORI
STORICO
DELL'ASPA
NELLO SVILUPPO
Nel corso della sua storia, l'AsPA si è ispirata a tre valori principali. L'associazione ha cercato, in primo luogo, di sviluppare <(l'arte e la scienza» della pubblica amministrazione, sostenendone la ricerca sia in campo teorico che pratico; ha cercato, quindi, di imporre il concetto di professionalità nel campo del servizio pubblico, a tutti i livelli di governo, e ha mantenuto l'impegno di rafforzare e sostenere il senso della comunità tra la vasta gamma di professional e accademici che ne sono soci. Le prime innovazioni amministrative riguardanti l'esecutivo federale, l'inclusione della pubblica amministrazione fra i temi d'interesse delle Nazioni Unite, il coinvolgimento degli Stati Uniti nella pubblica amministrazione internazionale, l'istituzione della National Academy of Public Administration (NAPA), l'attivazione della National Association of Schools of PuIlic Affairs and Administration (NAsP4, lo sviluppo degli studi comparati sulla pubblica amministrazione e di scuole di pubblica amministrazione sono stati possibili per merito dell'ASPA. L'associazione è stata il terreno princi167
pale in cui sono state migliorate, dibattute, accettate e rigettate teorie normative ed empiriche riguardanti la pubblica amministrazione. L'idea di stimolare e migliorare «l'arte e la scienza» della pubblica amministrazione affonda le sue radici negli inizi della storia della pubblica amministrazione americana, a partire dalla pubblicazione di un fondamentale articolo del 1887 sulla pubblica amministrazione scritto da Woodrow Wilson (The Study OfAdministration, pubblicato su «Politica! Science Quarter!y»). Non fu casuale il fatto che l'AsPA venisse creata e subito incaricata dello sviluppo dell'arte e della scienza della pubblica amministrazione. I suoi fondatori credevano che lo scopo che si erano prefissati fosse fondamentale per il futuro della nazione. Nel corso del tempo, l'associazione ha mantenuto questo ruolo, rimanendo costantemente impegnata nella sua missione istituzionale anche quando i suoi obiettivi prioritari hanno subito variazioni. I leader dell'ASPA, fin dagli inizi, hanno perseguito la professionalità nel servizio pubblico a tutti i livelli di governo. L'orientamento dell'associazione in questo senso è chiaramerfte legato alla richiesta, da parte del movimento progressista americano, di un governo attivo in modo professionale. L'opinione, condivisa da tutti, che l'attività nel servizio pubblico dovesse essere condotta da veri professionisti 168
era condivisa anche da quegli accademici e professional presenti in gran numero negli uffici dei movimenti per i city manager e di ricerca sugli enti locali, agli inizi del secolo. Ancor prima che l'AsPA diventasse una realtà, il concetto di professionalità nel servizio pubblico americano era diventato un credo per molti soggetti coinvolti nella pubblica amministrazione. Tuttavia, l'associazione non adottò il punto di vista corporativistico della difesa della «professione»; optò, invece, per il perseguimento della professionalità tra i suoi soci: una distinzione sottile ma significativa. I leader dell'ASPA cercarono di usare la loro organizzazione come un forum in cui mettere in comune le varie esperienze, impegnandosi per l'eccellenza nella condotta professionale dei soggetti coinvolti. Comunque, la decisione di perseguire la professionalità nel servizio pubblico piuttosto che la difesa delle professioni del servizio pubblico è rimasta come vedremo - sempre problematica. Nella storia dell'ASPA, infatti, sono stati fatti periodicamente dei tentativi per cambiarne l'orientamento, soprattutto da parte di coloro che avrebbero preferito avere un'organizzazione per la difesa delle problematiche del pubblico impiego piuttosto che un'associazione dedita all'eccellenza nella pubblica amministrazione. Benché i due orientamenti non si escludano a
vicenda, l'AsPA ancora oggi continua ad affermare che, comunque, non sono sinonimi. Di conseguenza, pur riconoscendo l'importanza del primo aspetto, l'associazione ha dedicato il suo impegno massimo al raggiungimento de! secondo. Altro valore di fondamentale importanza per l'ASPA è stato - come dicevamo - il rafforzamento e il sostegno del senso di comunità tra i diversi tipi di professionisti e accademici. T1importanza di creare una comunità nella pubblica amministrazione risale almeno ai primi anni Trenta. Sotto gli auspici della Public Administration Clearing House (sorta, appunto, in quegli anni a Chicago), una miriade di associazioni della pubblica amministrazione (dalla American Legislator's Association al Municipal Finance Officers Association) furono riunite sotto lo stesso tetto. L'ASPA divenne parte di questa comunità subito dopo la sua fondazione nel 1939. Lo staff della PACH, infatti, cercò di servirsi dell'AsPA per raccogliere i soci delle diverse associazioni e creare un singolo forum. Quando la PACH cessò di esistere negli anni Cinquanta, l'AsPA divenne responsabile del funzionamento del network. Attraverso la diversità di categorie dei suoi soci, l'associazione ha cercato di mantenere l'originario senso di comunità nella amministrazione pubblica che era stato creato a Chicago. Questo sforzo è rappresentato ancora oggi
dalle numerose sezioni speciali operanti all'interno dell'associazione e dalla collaborazione con altre organizzazioni operanti nella pubblica amministrazione. Oltre a queste, molte altre questioni hanno caratterizzato la storia dell'associazione. Ad esempio: il fatto di aver determinato una propria configurazione organizzativa; l'aver appoggiato il rapporto tra professionale accademici e tra specialisti e generalisti operanti all'interno della pubblica amministrazione; l'aver risolto le tenzioni tra interessi locali e nazionali al proprio interno; l'aver deciso i criteri appropriati per la selezione' della propria leadership; l'aver definito la posizione e i rapporti da intrattenere con altre organizzazioni operanti nel settore. Questi temi hanno delineato la configurazione interna dell'ASPA e incanalato le dinamiche tra le varie categorie e interessi tra loro in competizione. Per pi1 di 50 anni, l'associazione ha lottato per restare in vita e per raggiungere l'attuale posizione. I soci dell'A.SPA, sulla base di uno spirito che si può definire di alto idealismo, hanno sempre cercato di promuovere uno scambio di informazioni e l'importanza di rapporti reciproci. Hanno cercato di formare un'identità comune, benchè aventi livelli e ruoli diversi nel servizio pubblico. È anche per questo motivo che il passato dell'ASPA costituisce una parte importante della 169
storia degli affari pubblici e della pubblica amministrazione americana in generale. Date le caratteristiche costitutive dell'associazione, ben s'intende come la sua storia - come abbiamo già accennato - sia stata influenzata dallo sviluppo della teoria e della pratica della pubblica amministrazione negli Stati Uniti dell'ultimo mezzo secolo. Gli sforzi per promuovere riforme a livello amministrativo, operati da progressisti sia a livello statale che locale, portò alla creazione di una prima rete di attivisti nel campo della pubblica amministrazione. Questi <(pionieri» usarono le loro capacità politiche e i contatti sociali per promuovere l'importanza della pratica nella pubblica amministrazione. I loro sforzi cominciarono ad avere successo quando, dopo gli inizi degli anni Venti e Trenta, cominciarono a rendersi conto dell'importanza della teoria e delle tecniche della pubblica amministrazione anche coloro che operavano nel governo federale. Divenuta evidente l'importanza della pubblica amministrazione nella vita di ogni singolo Stato, divenne altrettanto evidente il bisogno di creare una libera associazione fra studiosi e operatori del campo. Da tale bisogno nacque, appunto, l'ASPA. GLI ANTECEDENTI
La creazione dell'AsPA, alla fine degli anni Trenta, rappresenta il culmine di 170
tre decenni di rapidi cambiamenti nel campo della pubblica amministrazione americana. Tra gli eventi importanti di questo periodo vi è la creazione, nel 1906, del New York Bureau of Municipal Research (NYBMR). Questo centro studi rifletteva l'influenza del movimento progressista nel determinare gli inizi della moderna pubblica amministrazione. Creato con il sostegno di molti famosi uomini d'affari di New York - compresi Robert E Cutting, John D. Rockefeller Jr. e Andrew Carnegie - il Bureau aveva lo scopo di condurre ricerche applicate al campo del management comunale che potessero produrre miglioramenti nella struttura e nel funzionamento del governo locale. I primi successi del Bureau, nel coniugare gli interessi dei cittadini con la ricerca pratica e con un orientamento professionale nell'amministrazione, ebbero risalto nazionale e contribuirono alla nascita di simili organismi di ricerca in molte aree urbane degli Stati Uniti e alla creazione di un'organizzazione nazionale, la Genera1 Research Association, che formalmente legava questi centri fra loro. Nel 1911, il Bureau creò una scuola per la preparazione alla carriera nel servizio pubblico. Uno dei primi insegnanti della scuola fu Luther Gulick, il quale giocherà un ruolo di primaria importanza nella creazione dell'ASPA. Sotto la direzione di Gulick, la scuola fu trasferita all'Università di Syracuse e contemporaneamente - anche dietro
richiesta di John D. Rockefeller, uno dei finanziatori - ridefinì i suoi obiettivi, promuovendo ricerche che potessero contribuire allo sviluppo professionale del servizio pubblico americano. La scuola divenne l'Institute of Public Administration (L'A). Nacque presto l'esigenza di una rete che potesse fungere da stimolo per gli studi e dove le informazioni più importanti nel campo della pubblica amministrazione potessero essere raccolte e messe a disposizione degli interessati. Soprattutto per mancanza di fondi, tuttavia, questa rete non vide la luce che diversi anni dopo, con la creazione della già citata Public Administration Clearing House (PACH), fondata a Chicago nel 1931 sotto gli auspici di John D. Rockefeller.
La Public Administration Clearing House La storia della Public Administration Clearing House ha origine con il movimento di ricerche sulle scienze sociali degli anni Venti. Grazie, soprattutto, ad un eminente professore di scienze politiche dell'Università di Chicago, Charles. M. Merriam, quel movimento fece i progressi che poi portarono alla creazione della PACH. Merriam era convinto che vi fosse uno stretto legame tra la scienza della politica e la pratica della politica; la divisione delle due cose rappresentava una dicotomia speciosa, arbitraria nelle sue costrizioni e inefficace nei risultati.
Dalla convinzione di Merriam, che era necessario integrare le scienze sociali per poi concentrarsi sulla ricerca, nacque il Social Science Research Council (SsRc) nel 1923. Superando alcune resistenze, Merriam convinse l'American Economic Association, l'American Historical Association, l'American Psychological Association e l'American Sociological Society a partecipare al SSRC. Qualche anno dopo, lo studioso riuscì a convincere l'organo direttivo del Consiglio a istituire uno speciale comitato per incoraggiare lo sviluppo di studi nel campo della pubblica amministrazione. Il successo del SSRC e del suo Comitato sulla pubblica amministrazione giocarono un ruolo fondamentale nello sviluppo della Public Administration Clearing House. La filosofia della PACH, e l'aiuto finanziario che era in grado di offrire, attrassero molte prestigiose organizzazioni nella sua sfera di influenza, incluse la International City Manager's Association, la Civil Service Assembly, l'American Municipal Association, l'American Public Welfare Association, la Municipal Finance Officers Association, la Public Works Association e l'American Legislators Association. In quegli anni, Merriam e Gulick erano attivamente impegnati in una commissione presidenziale il cui scopo era quello di rivedere l'organizzazione dell'esecutivo federale. L'idea di un President's Committee on Admini171
strative Management era venuta a Merriam, ed egli stesso aveva raccomandato al presidente Roosevelt di servirsi dell'esperienza del SSRC e del supporto della PACH. Il presidente Roosevelt approvò il progetto di Merriam nel marzo del 1936, nominando un Comitato del Presidente composto da Merriam, Gulick e Bronlow, oltre a vari esperti del settore. Il Comitato lavorò incessantemente per tutto il 1936 su quello che uno studioso definì "la prima ampia riconsiderazione della Presidenza e del controllo del Presidente sull'esecutivo dal 1787". Ai primi di novembre, il Comitato concluse i suoi lavori e Bronlow preparò un rapporto finale che riassumeva le principali conclusioni. Roosevelt approvò i risultati e nel gennaio del 1937 incontrò un gruppo di membri del Congresso per rivedere il progetto di riorganizzazione presentato da quel rapporto. La legge di riorganizzazione che ne seguì fu approvata dal Senato nel 1938 dopo un lungo dibattito, ma fu respinta dal Congresso con l'accusa al presidente Roosevelt di star tentando di «far diventare la presidenza un impero». Ciò nonostante, il Congresso riconobbe la necessità di un cambiamento strutturale nell'esecutivo federale. Nel luglio del 1938, Roosevelt chiese a Merriam, Gulick e Bronlow di elaborare una nuova proposta e nel mese di aprile del 1939 Roosevelt. convertì in legge un Reorganization Act molto limitato. 172
Il fermento intellettuale attorno alle attività del Comitato del Presidente fu notevole e attrasse l'attenzione dei migliori ricercatori e professionisti nel campo della pubblica amministrazione. Proprio l'approvazione del Reorganization Act generò una serie di incontri e discussioni che, alla fine, portarono alla creazione dell'ASPA. I LAVORI PRELIMINARI E LA CREAZIONE DELL'ASPA La prima riunione ebbe luogo a Washington il 13 novembre del 1939. L'argomento principale della discussione fu la struttura da dare alla nuova organizzazione. Furono considerati due diversi approcci: la prima proposta fu quella di una struttura organizzativa con all'interno varie categorie di soci ognuno dei quali avrebbe dovuto possedere requisiti professionali prestabiliti. La proposta suscitò varie critiche, soprattutto tra i membri più giovani del comitato che temevano l'esclusione di molti potenziali soci e, di conseguenza, l'insuccesso dell'iniziativa, in quanto sarebbe stato difficile stabilire gradi di competenza diversi a seconda delle categorie di soci. La seconda proposta contemplava una politica di ammissione all'associazione che permetteva a chiunque avesse un interesse nella pubblica amministrazione (insegnanti, professionisti o studenti) di diventarne membro. E fu
questa la proposta che poi venne accettata. Formalmente, vennero presi accordi con l'American Political Science Association (APSA) per tenere un incontro organizzativo della nuova associazione in contemporanea con la conferenza annuale dell'APsA che doveva aver luogo nel dicembre del 1939, a Washington. Vennero invitati anche tutti coloro che si riteneva potessero essere interessati alla nuova associazione. Il 350 incontro annuale dell'APsA si aprì il 27 dicembre 1939 al Wardman Park Hotel di Washington. La costituzione della nuova associazione fu così presentata: <(Per facilitare lo scambio di sapere e di esperienza tra le persone interessate o coinvolte direttamente nel campo della pubblica amministrazione; per stimolare ricerche e sperimentazioni più estensive sulle politiche e sulle pratiche amministrative inerenti la gestione dei servizi pubblici; per incoraggiare la raccolta, la compilazione e la diffusione di informazioni e difatti inerenti la pubblica amministrazione; per promuovere una continua attenzione ai problemi amministrativi con riferimento alle loro implicazioni economiche, sociali e politiche; e per far progredire la scienza, i processi e l'arte della pubblica amministrazione, viene costituita un'associazione di pubblici funzionari, ricercatori, professori, studenti e altri)). Lo statuto era breve e conciso: meno
di due pagine dattiloscritte. In esso veniva dato all'organizzazione il nome di American Society for Public Administration. L'organizzazione doveva avere due categorie di soci: regolari e junior (sotto i 28 anni), mentre la quota associativa variava da tre a cinque dollari. Un consiglio nazionale avrebbe avuto la funzione di organo collegiale di amministrazione, comprendendo un presidente, un vice presidente, un segretario-tesoriere, nove soci regolari e due soci junior. Inoltre, furono presi accordi per la nomina di un comitato esecutivo composto da cinque soci, il quale doveva assumere responsabilità operative quando il consiglio nazionale non si riuniva. Lo statuto fornì, inoltre, indicazioni per la formazione di sezioni regionali, statali e locali. Primo presidente dell'ASPA fu William Mosher. Nel 1940, e dopo diversi contatti, la PACH ospitò gli uffici dell'ASPA e fornì un valido supporto logistico. Il successivo impegno del consiglio nazionale fu quello di creare una rivista sulla pubblica amministrazione americana. All'epoca, la sola rivista autorevole nel campo della pubblica amministrazione era la «Public Administration)), pubblicata in Gran Bretagna dal British Institute of Public Administration. L'architetto della nuova rivista fu William Mosher, il quale volle che la pubblicazione fosse accademica nello stile e pratica nella sostanza, con articoli il 173
cui contenuto interessasse tutti gli operatori della pubblica amministrazione. Per la rivista fu scelto il nome di «Public Administration Review» e il suo primo direttore fu Leonard D. White, professore di amministrazione pubblica all'Università di Chicago e autore del primo libro di testo americano sulla materia: «Introduction to the Study of Public Administration». Il primo numero di «Public Administration Review», dopo qualche problema dovuto alla mancanza di finanziamenti, fu pubblicato nel gennaio del 1941.
Lo sviluppo dei "chapters" L'attività delle sezioni iniziò nel giugno del 1940. Fu ancora William Mosher, insieme ad altri membri del consiglio nazionale e del comitato esecutivo, a fare personalmente il giro di varie città in tutto il territorio statunitense. Da giugno a dicembre del 1940 furono organizzati 30 incontri in 14 città, con circa 1870 partecipanti. Nel frattempo, furono costituite forma!mente cinque sezioni: quelle di Sacramento, Richmond, New York, Washington, D.C. e Minneapolis, mentre altre attendevano l'approvazione. I soci dell'ASPA erano già 1209. C'erano ancora, però, almeno due importanti questioni da risolvere. La prima riguardava l'eventuale partecipazione da parte dei non soci all'attività dell'AsPA; l'altra riguardava il fatto se le sezioni dovessero riconoscere certe 174
specializzazioni tra i soci. Il consiglio nazionale ritenne che soltanto i soci avrebbero potuto partecipare alle attività, a qualsiasi livello e che sarebbero stati accettati soltanto soci individuali. Per la seconda questione si decise che l'ASPA doveva rimanere un'organizzazione di interesse generale: nessun riconoscimento, quindi, alle specializzazioni, soprattutto per evitare competi-. zioni tra i diversi soci. Quando la seconda guerra mondiale coinvolse anche gli Stati Uniti, nel dicembre del 1941, le attività dell'associazione vennero ridotte notevolmente e per sostenere la sua sopravvivenza dovettero essere superati numerosi problemi, non ultimi quelli finanziari. Alcune conferenze annuali furono cancellate e il numero dei soci - circa 2500 nel 1945 - così come quello delle sezioni, fece progressi limitati. IL DOPOGUERRA
La prima conferenza dopo la fine della guerra si tenne a Philadelphia nel 1946. Le entrate finanziarie dell'organizzazione avevano raggiunto un livello che permetteva di far fronte a circa tre quarti delle spese annuali. Il contesto sociale era notevolmente cambiato rispetto al periodo precedente la guerra. La natura della politica americana, e di conseguenza quella della pubblica amministrazione, avevano subito notevoli trasformazioni. S'intensificarono le richieste per l'efficacia, l'efficien-
za e l'economicità nella organizzazione della pubblica amministrazione e per una sua competenza politicamente neutrale. Così, una una sorta di "rivoluzione comportamentale" nelle scienze sociali cominciò a spiazzare l'orientamento del management scientifico che aveva dominato la pubblica amministrazione nei decenni precedenti. E con l'emergere di nuovi leader anche l'ASPA subì cambiamenti di rilievo. Una risistemazione dei valori nella pubblica amministrazione e una maggiore consapevolezza dell'importanza del legame tra l'associazione e ie sezioni locali divennero sempre più necessarie. La seconda generazione di leader dell'Asi'A (Donald Stone, Herbert Emmerich, John Corson, John Gaus, James Mitche!l, William Parsons e Gordon Clapp) portò l'associazione a giocare un ruolo importante nella comunità della pubblica amministrazione americana. Durante quegli anni, si dovette risolvere un dilemma che l'associazione affronterà in seguito con controversie talvolta gravi: si trattava di prendere o meno posizione sui diversi aspetti della politica del settore pubblico. Il dibattito fu subito pieno di contrasti e di divisioni. L'ASPA, comunque, optò per la neutralità. Già nel 1947, quando la Us Civil Service Commission aveva chiesto all'associazione uno siudio sugli standard di assunzione per gli impiegati federali, la società
aveva rifiutato di occuparsene. Benché il consiglio nazionale fosse interessato al progetto, preferì non parteciparvi temendo di assumere un ruolo attivo indesiderato. Due, almeno, le ragioni che portarono al rifiuto. In primo luogo, secondo molti soci, il prendere posizione in problematiche di politica pubblica avrebbe significato un'esplicita violazione dei principi tradizionali della pubblica amministrazione, i quali si orientavano - secondo l'AsPA - su un impiego pubblico non corporativo e su una ?rosonalità come competenza razionale neutrale dell amministratore pubblico. L'eventuale partecipazione allo studio proposto, e quindi il fare raccomandazioni di tipo politico, avrebbe messo in pericolo la reputazione di neutralità dell'associazione. Anche altre organizzazioni come l'International City Manager's Association, l'American Public Works Association, l'American Civil Service Assembly e l'American Political Science Association, avevano sempre rifiutato di prendere posizioni pubbliche. E così era anche per la PACH, che aveva sempre optato per una politica di neutralità. GLI
ANNI CINQUANTA E SESSANTA
A partire dal 1950, all'interno dell'ASPA si aprì il dibattito sui rapporti con le sezioni locali. Da una parte, queste ultime avevano un ruolo fondamentale nel finanziamento dell'organizzazione, dall'altra non venivano 175
date loro l'importanza e l'autonomia che esse richiedevano. Dopo vari studi e dopo aver preso importanti decisioni sui sostegno che doveva essere dato alle sezioni locali, l'ASPA entrò in una crisi finanziaria di notevoli dimensioni. Nel 1955, la PACH ritirò il suo sostegno finanziario e in quello stesso anno ci si accorse che le entrate non avrebbero coperto che il 70% delle spese totali. Soltanto un fatto eccezionale, l'aumento delle iscrizioni del 40%, sarebbe riuscito a colmare il gap tra entrate e uscite. Invece di perseguire una politica di tagli, il comitato esecutivo sollecitò Gordon Clapp, presidente per quell'anno, affinché trovasse i fondi necessari al sostentamento dell'AspA tra le fondazioni private interessate. Fu così che, nel dicembre del 1955, la Ford Foundation concesse un contributo di $245.000 per cinque anni. Nel comunicare le motivazioni del contributo, la Ford Foundation specificava che l'associazione beneficiaria, prima di ottenere il grant, avrebbe dovuto nominare un direttore esecutivo. Fu così che nel marzo del 1956, Robert Matteson divenne il primo direttore esecutivo dell'ASPA. Subito, insieme al presidente Matthias Lukens, Matteson si impegnò nella progettazione e realizzazione del programma di sviluppo dell'associazione. Il programma conteneva indicazioni su come migliorare la qualità delle varie attività e delle pubblicazioni e per la creazione 176
di un efficace network tra l'AsPA, i gruppi d'affari, le università pubbliche e private e i vari livelli del governo americano. Tra i diversi punti del programma vi era anche uno che indicava eventuali attività di insegnamento dirette agli amministratori pubblici. Il nuovo piano di sviluppo dell'ASPA fu inizialmente studiato da Matteson e da Lukens. Quando furono chiare le linee di sviluppo del progetto, si capì che i costi sarebbero stati tre volte superiori a quelli previsti per il budget del 1957, anche calcolando l'aiuto finanziario fornito dalla Ford Foundation. Quest'ultima, dopo aver analizzato il progetto, acconsentì ad anticipare quanto stabilito. La strategia programmatica di Matteson prevedeva quattro aree di interesse: i rapporti con le sezioni e l'aumento del numero dei soci; progetti educativi e di aggiornamento; pubblicazioni; attività di diverso tipo nel campo della pubblica amministrazione internazionale. Già nel 1958, sotto la spinta del nuovo piano di sviluppo, le sezioni locali erano passate da 46 a 58, mentre i soci erano aumentati de! 17% e avevano raggiunto il numero di 5371. Nel 1957 e ne! 1958, l'Asr'A fu in grado di fornire finanziamenti, anche se limitati, per incontri regionali in diversi Stati. L'attività regionale ricevette un sostegno entusiastico da parte dei soci e migliorò, sostanzialmente, l'immagine complessiva dell'organizzazione tra le sezioni locali.
Fu lo stesso Matteson a progettare e creare, traendo spunto dalla sua passata esperienza nell'Institute of Public Administration, una serie di istituti per il management, con corsi gestiti da riconosciuti professionisti e studiosi. Per quanto riguarda le pubblicazioni, fu deciso di dare nuova spinta alle due pubblicazioni già esistenti (la Public Administration Review e la Public Administration News) e di sponsorizzarne altre. Il quarto punto del progetto di sviluppo ricevette stimoli dal fatto che già nel 1955, con l'espansione degli interessi americani nelle Nazioni Unite, l'interesse di alcuni soci per eventuali attività internazionali crebbe in egual misura. Questo interesse portò allo sviluppo di importanti attività internazionali, come, ad esempio, l'organizzazione di una serie di congressi sugli aspetti internazionali dell'amministrazione e la creazione di un Comitato permanente sulla pubblica amministrazione internazionale. Successivamente, fu creato anche un Comitato per l'amministrazione comparata il quale aveva il compito di analizzare il crescente materiale sull'amministrazione di altri Paesi. Nonostante il programma di sviluppo fosse portato a termine con successo, i problemi finanziari non cessarono di essere un'emergenza. La Ford Foundation, infatti, non avrebbe più sostenuto l'ASPA dopo la scadenza dei termini stabiliti in precedenza. Alla metà del
1959, il deficit dell'associazione ammontava a £ 50.000 e la situazione peggiorava di mese in mese. Si cominciarono a ridurre, quindi, le spese di tutta l'organizzazione: fu riorganizzata la segreteria; fu eliminato il sostegno finanziario ai congressi regionali; furono ridotti i costi per le pubblicazioni con tagli alla Public Administration News, che da mensile divenne bimestrale e poi ancora quadrimestrale, e tagli anche alle altre pubblicazioni; le attività internazionali, così come il Comitato sull'amministrazione comparata, subirono forti riduzioni. Matteson propose un budget di $139.000 per il 1960, una riduzione del 20% rispetto al 1959. La situazione, comunque, peggiorò, anche per la diminuzione del numero degli iscritti di circa il 15%. La posizione finanziaria dell'ASPA si fece ancora più critica nel 1961 e Matteson fu costretto a rassegnare le dimissioni. Al nuovo direttore esecutivo, Don Bowen, fu chiesto di ridurre le spese del 1962 del 17%. Nel 1962, comunque, anche se il contributo della Ford Foundation era cessato, la situazione migliorò, grazie soprattutto all'aumento del numero dei soci e ai contributi offerti da altri. Inoltre, si contrattò un prestito dal Public Administration Service che diede maggior respiro all'organizzazione. A migliorare i conti, venne un contributo di $250.000 offerto dalla 177
Ford Foundation al Comparative Administration Group, un gruppo dell'ASPA di recente formazione. Sotto la direzione di Fred Riggs, un professore di pubblica amministrazione alla University of Indiana, il Comparative Administration Group utilizzò il contributo per sviluppare un programma di pubblica amministrazione internazionale e comparata, teso anche ad una migliore comprensione della pubblica amministrazione americana rispetto alle altre nazioni. Fine della crisi e nuovo ruolo Nel 1963 la crisi finanziaria dell'ASPA poteva definirsi sotto controllo, ma alcune linee di condotta dovevano essere riviste. Il desiderio di espandere il suo campo di interessi aveva comportato un impegno finanziario che superava le possibilità dell'associazione. Si era preteso troppo e non si erano stabiliti criteri di priorità nella realizzazione delle attività. La conclusione era che I'AsPA aveva perso di vista la sua missione e i suoi propositi organizzativi. Ancora una volta, bisognava tornare allo scopo originario di migliorare (<l'arte e la scienza» della pubblica amministrazione. E bisognava ritornare ai congressi nazionali, alle sezioni locali e alla rivista. 111963 segnò anche la fine dell'assoluto divieto per l'associazione di prendere posizione su questioni riguardanti la politica federale. Dopo un dibattito approfondito, e dopo una serie di 178
studi condotti da una apposita commissione nominata dal consiglio nazionale, fu deciso che era ormai tempo di prendere posizione sulle questioni fondamentali. Il campo d'azione fu limitato a tre diversi tipi di problematiche pubbliche: il primo tipo riguardava i criteri degli standard professionali e i criteri di avanzamento nella carriera pubblica; il secondo, le problematiche che implicavano processi amministrativi come l'impostazione del bilancio, la struttura organizzativa o la riorganizzazione; il terzo tipo era rappresentato dai problemi relativi alla difesa, all'assistenza, alla scuola e all'edilizia. Questo cambiamento di cruciale importanza nella politica dell'ASPA era anche indicativo di trasformazioni sostanziali che non riguardavano soltanto l'associazione, ma anche il campo della pubblica amministrazione e la società americana in generale; in particolare, la politica pubblica veniva sempre più vista come una parte inestricabile della pubblica amministrazione. Nell'autunno del 1964, in coincidenza del suo 25° anniversario, l'ASPA trasferì i suoi uffici da Chicago a Washington. Quell'anno e il seguente furono anni di tranquillità finanziaria per l'organizzazione. Per la prima vo!ta le entrate furono superiori alle uscite, grazie soprattutto all'aumento dei fondi per le conferenze nazionali e per la Public Administration Review. Il numero dei soci nel 1965 raggiunse i
6.668, molto vicino al record di 6933 del 1959. Alla luce di questi fatti, i membri del consiglio nazionale decisero di aggiungere nuove attività ai programmi tradizionali. Lo sforzo del consiglio nazionale si concentrò su tre aree: lo sviluppo di attività sulla pubblica amministrazione internazionale, il miglioramento di programmi educativi nel campo della pubblica amministrazione e la creazione della National Academy for Public Administration. Per tutti gli anni Sessanta, le attività internazionali dell'AsPA ebbero come centro l'International Institute of Administrative Sciences (ILks) e il Comparative Administrative Group (CAG). Oltre ad altre importanti attività, l'International Committee dell'AsPA riuscì anche ad ottenere un contributo di $105.000 dalla Ford Foundation per corsi di aggiornamento sulla pubblica amministrazione nelle nazioni emergenti. Il programma, amministrato aa!l'AsPA, raccoglieva il miglior materiale educativo a disposizione e lo distribuiva tra le nazioni in via di sviluppo dietro richiesta. Mentre l'International Committee lavorava per promuovere gli interessi americani nella pubblica amministrazione internazionale, il Comparative Administration Group operò per migliorare la qualità dell'istruzione, della formazione e della ricerca nel campo della amministrazione comparata. Ancora una volta il sostegno per queste attività venne dalla Ford Foundation,
che nel 1965 assicurò un contributo di 2 milioni e mezzo di dollari per un programma di ricerca e di pubblicazioni, il quale prevedeva un seminario triennale da svolgersi nelle università più importanti degli Stati Uniti. Oltre a sponsorizzare attività di tipo internazionale, 1'ASPA curò con attenzione anche il campo della formazione nella pubblica amministrazione. Già nel 1958, l'associazione aveva creato un Council for Graduate Education for Public Administration (CGEPA), composto da accademici esperti di pubblica amministrazione. Nel 1965, il CGEPA trovò una sistemazione più stabile nei nuovi uffici dell'AsPA, a Washington, e ben presto divenne il punto di riferimento per lo sviluppo di opinioni e attività inerenti l'istruzione nel campo della pubblica amministrazione in tutti gli Stati Uniti. Il compito del CGEPA fu anche quello di stimolare sia il governo che le università a migliorare il livello nell'insegnamento della materia. Oltre a molte altre attività di notevole importanza, il CGEPA richiamò anche l'attenzione del governo sulla necessità di utilizzare i corsi di formazione per gli impiegati statali come mezzo per migliorare l'efficienza nei servizi pubblici.
Nascita della NationalAcademy of Public Administration La creazione di un'associazione composta da professional affermati e professori universitari nel campo della 179
pubblica amministrazione, in grado di fornire expertise di alto livello, mosse i suoi primi passi nell'autunno del 1965. James E. Webb, amministratore della National Aeronautic and Space Administration (NASA), espresse il suo interesse nella creazione di un'organizzazione modellata sulla National Academy of Sciences che potesse fornire ad organizzazioni governative, come la NASA, un supporto tecnico sui problemi amministrativi piìt complessi. Lo stesso, promise un contributo di 800.000 dollari per lo sviluppo di tale organizzazione. Era la prima volta che l'AsPA riceveva una richiesta per la creazione di un'organizzazione formata da una élite, facente parte dell'associazione stessa. L'Executive Director, Don Bowen, oppose una tenace resistenza, affermando che una tale organizzazione avrebbe potuto minare la tradizionale composizione popolare dell'ASPA. Nel novembre del 1966, tuttavia, James E: Webb divenne presidente dell'ASPA, e così continuò a insistere affinché venisse creata l'organizzazione che aveva in mente. Webb presentò la sua proposta che, questa volta, fu accettata. Per ragioni fiscali, fu deciso che la nuova organizzazione dovesse figurare come un'affiliata dell'AsPA e operare come un corpo separato. Della NAPA potevano far parte i passati presidenti dell'Asr'A e riconosciuti professionisti o accademici. Il 30 marzo 1967, John Millet, ex pre180
sidente dell'AsPA, divenne il primo presidente della NAPA. Un primo contratto triennale di $675.000 fu firmato con la NASA qualche mese dopo. Nei successivi 14 mesi, la NAPA crebbe in dimensioni e attività al di là delle più rosee aspettative ed era diventata una parte vitale e integrante dell'ASPA. IL PERIODO DELLE RIVOLUZIONI SOCIALI
A dispetto dei successi conseguiti dall'ASPA negli anni precedenti, verso la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, l'associazione dovette far fronte ad una serie di problemi che minacciarono la sua esistenza. Contemporaneamente ai grandi cambiamenti nel campo sociale di quegli anni, vi furono tendenze al cambiamento anche nella pubblica amministrazione, in particolare con il movimento chiamato New Public Administration. I principali esponenti di questo movimento criticarono l'eccessiva importanza che era stata data al positivismo e allo scientismo degli anni Cinquanta e Sessanta. Gli stessi, inoltre, si schierarono a favore di una pubblica amministrazione più centrata sul cittadino e antiburocratica, più basata sulla crescita personale, sulle relazioni interpersonali, sulle dinamiche di gruppo, sulla morale, sull'etica e sui valori. Le problematiche tradizionali della pubblica amministrazione, quindi, come la pianificazione, il bilancio e il personale, così come le tecniche di
ricerca operativa, dovevano essere messe da parte. Queste forze che spingevano al cambiamento emersero durante la riunione nazionale del 1969 a Miami Beach. In quell'occasione, una coalizione formata da alcuni presidenti di sezioni locali e da membri appartenenti al movimento New Public Administration criticò le procedure di selezione per la leadership dell'ASPA e presentò un ventaglio di candidati akernativo a quello proposto dal Comitato per le nomine. Gli emendamenti furono tutti respinti, ma il solo fatto di averli presentati costrinse il consiglio nazionale a formare un comitato, composto dai presidenti delle sezioni, per esaminare le procedure di elezione. Il risultato del lavoro del Comitato portò ad una serie di raccomandazioni che avrebbero cambiato la struttura dell'ASPA. Ad alcuni membri del consiglio nazionale, queste raccomandazioni sembrarono un attacco alla tradizione e a coloro che avevano guidato l'organizzazione. Nello stesso periodo, i rappresentanti della NAPA espressero disappunto nel vedere che molte delle loro entrate erano usate dall'ASPA per finanziare altre attività, mentre avrebbero voluto pagare soltanto i servizi forniti dall'ASPA alla NAPA, in particolare le spese di ufficio. Alla fine del 1969 fu trovata una soluzione favorevole per la NAPA, ma ciò condusse anche ad un peggioramento dei conti ASPA
Il distacco della NAPA e la creazione della Task Force on Soci ely Goals La conferenza nazionale del 1970 produsse importanti cambiamenti nella struttura e nelle tradizioni dell'ASPA. Per la prima volta, infatti, il presidente e altri membri del consiglio nazionale furono eletti tra rappresentanti del New Public Administration Movement, ovvero fra i candidati del fronte critico dell'associazione, Le reazioni ai risultati della conferenza del 1970 non si fecero attendere. Don Bowen, che per tanti anni era stato il difensore delle tradizioni dell'ASPA, rassegnò le dimissioni. La parola d'ordine dalla conferenza di Philadelphia in poi fu "aprire l'organizzazione". Alcuni avevano fatto notare che l'associazione era composta prevalentemente da uomini di mezz'età, di razza bianca. Le minoranze etniche e razziali, le donne e i giovani erano stati per lungo tempo tenuti ai margini. La discrepanza tra l'ASPA e la società reale doveva venir meno, e ciò si poteva fare soltanto aprendo a tutti i soggetti interessati alla pubblica amministrazione e cambiando la politica di reclutamento e di coinvolgimento dei gruppi meno rappresentati. Questi cambiamenti all'interno dell'associazione fecero sorgere molti dubbi ai membri della NAPA, i quali si posero il problema di rivedere il loro rapporto con l'associazione madre. In un incontro successivo alla conferenza di Philadelphia si decise la separazione 181
delle due associazioni. Malgrado tale separazione non fosse condivisa dal consiglio nazionale, il fatto dovette essere accettato. La NAPA divenne, quindi, un'organizzazione indipendente. Mentre avveniva la separazione tra la NAPA e l'AsPA, quest'ultima dovette cercare anche un nuovo direttore esecutivo e la scelta cadde su John Garvey, ex-segretario esecutivo dello State-County-City Service Center. Ben presto, il nuovo direttore si accorse che le finanze dell'associazione avevano bisogno di immediate cure: il deficit metteva in serio pericolo la stessa sopravvivenza dell'associazione. Immediatamente, furono ridotte le spese di molte attività e tutta l'estate e l'autunno del 1971 furono dedicati alla preparazione di un piano finanziario che potesse salvare l'associazione. Soltanto nell'aprile del 1972, dopo mesi di crisi dolorosa e di lunghe ed estenuanti discussioni, si arrivò ad un equilibrio dei conti. In quello stesso periodo, come conseguenza della conferenza di Philadelphia, l'AsPA costituì una Task Force on Society Goals, il cui scopo era quello di valutare il ruolo dell'associazione all'interno della comunità della pubblica amministrazione. Il rapporto della Task Force fu consegnato nell'estate del 1971. Le sue conclusioni affermavano che la missione fondamentale dell'ASPA era quella di cambiare: piuttosto che mantenere il suo tradizionale impegno nel migliora182
mento dell'arte e della scienza della pubblica amministrazione, l'associazione avrebbe dovuto promuovere la crescita di una leadership dirigenziale attraverso una serie di attività che permettessero l'acquisizione di conoscenze professionali da parte di singoli amministratori pubblici. Il rapporto raccomandava, inoltre, la formazione di una nuova Task Force che studiasse strategie atte a fornire ai soci dell'ASPA opportunità di sviluppo della loro carriera. Il rapporto ricevette aspre critiche da diversi membri e dallo stesso direttore esecutivo, i quali considerarono le raccomandazioni troppo limitate e conservatrici. Quando nel 1972 i problemi finanziari dell'associazione trovarono una soluzione, Garvey tentò di ristrutturare l'ASPA secondo le sue idee, ma i membri del consiglio nazionale considerarono i suoi progetti non adatti all'evoluzione più recente dell'associazione per cui egli optò per le tesi esposte dalla Task Force. Garvey interpretò la reazione del consiglio nazionale come desiderio di limitare gli obiettivi dell'ASPA allo sviluppo interno piuttosto che a-quello esterno; ne concluse che il suo disaccordo con le direttive dell'organizzazine era radicale e che non poteva più ricoprire un ruolo così mportante. Nel giugno del 1972 rassegnò le sue dimissioni dopo soli due anni di servizio come direttore esecutivo.
La trasformazione in un'associazione professionale I 24 mesi successivi alle dimissioni di Garvey furono un periodo di intensa attività per l'ASPA. La leadership doveva progettare e sviluppare una struttura organizzativa che permettesse di realizzare l'obiettivo di promuovere l'avanzamento professionale di singoli individui. Lo stesso periodo fu dedicato anche alla soluzione dei problemi urgenti dell'associazione e alle attività già programmate. Subito dopo le dimissioni di Garvey, l'ASPA dovette designare il nuovo direttore esecutivo e la scelta cadde su Seymour Berlin, l'ex direttore, allora in pensione, del Bureau of Executive Manpower nella U.S. Civil Service Commission. Berlin, al contrario di Garvey, era socio dell'AsPA da lungo tempo e aveva maturato una vasta esperienza in vari comitati, oltre ad essere stato membro del consiglio nazionale per un mandato. Il compito iniziale di Berlin fu quello di analizzare la struttura generale dell'AsPA e tentare di dare maggiore efficacia alle attività intraprese dal consiglio nazionale. Il ruolo delle sezioni locali era di indubbia importanza, ma l'affermazione del!'ASPA dipendeva soprattutto da una limitata élite operante all'interno della pubblica amministrazione. Di conseguenza, la maggior parte delle risorse dell'associazione dovevano essere utilizzate affinché l'influenza sul governo federale diven-
tasse effettiva. Ma ci fu anche un riconoscimento delle diverse realtà facenti parte dell'AsPA. La nuova struttura dell'associazione venne concepita come un'umbrella organization che doveva rappresentare il punto di riferimento per tutto ciò che si muoveva nell'ambito della pubblica amministrazione. Accanto alle tradizionali attività pubblicazioni, convegni e attività delle sezioni - Berlin propose non soltanto un maggior riconoscimento alle specializzazioni, ma anche lo sviluppo delle organizzazioni affiliate e l'impulso per nuove attività in aree di interesse comuni ai soci. Oltre a ciò, Berlin propose di rivedere il luogo comune che voleva i soci impegnati nel difendere valori come l'avanzamento dell'arte e della scienza della pubblica amministrazione, poiché questo impegno aveva creato difficoltà nell'attrarre nuovi soci. Bisognava puntare, invece, sul fatto che l'ASPA poteva, tra le altre cose, offrire opportunità di sviluppo professionale. Frank Sherwood, presidente per il 1973-1974, definì l'AsPA in questo modo: «The American Society for Public Administration is composed essentìally of individuals who are in the organization of their own free will. While we are bound together by our concerns for the public service and the interests it seeks to serve, we are free to identify those obligations in highly in183
dividual ways. We are not representatives ofanyone but ourselves». Così, il ruolo dei soci veniva completamente ribaltato. L'importanza dell'ASPA come organizzazione 'zeniva definita dal valore che ogni singolo membro dava al suo essere diventato socio. La rottura con il passato era ormai definitiva: da associazione impegnata a promuovere il dovere civico e il servizio pubblico per il bene generale, era diventata un'organizzazione tesa a promuovere gli interessi del singolo appartenente.
Il ruolo di "umbrella organization" e la nascita delle sezioni "speciali" In quegli anni fu portato avanti il progetto di associare altre organizzazioni. Furono tre le organizzazioni che ottennero il sostegno maggiore: la Conference of Minority Public Administrators (COMPA), la Women's Task Force e la National Association of Schools of Public Affairs and Administration (NASPAA). Oltre a questo fenomeno, la metà degli anni Settanta vide anche la nascita delle sezioni "speciali" che sarebbero diventate il punto di incontro per i soci con interessi simili. Una volta create, le sezioni potevano eleggere i loro leader, progettare le proprie attività, influenzare i convegni dell'ASPA e richiedere fondi al consiglio nazionale. Fu così che nacquero la Section on International and Comparative Administration (SIcA), la Section on Criminal 184
Justice (Scj), la Section on Human Resources Administration (SHR4, la Section on Management Science (SMs) e la Training Resources and Network Section (TRNS). Benché lo sviluppo e il rapido successo delle sezioni speciali fu visto come un buon risultato da parte dei leader dell'ASPA, allo stesso tempo esse crearono dei problemi: le sezioni cominciarono a dominare i programmi dei convegni nazionali e, benché le sezioni speciali dovessero essere finanziariamente autosufficienti, in misura crescente l'AsPA ne pagava i costi con le sue entrate generali. La situazione si fece sempre piui critica, poiché il numero delle sezioni speciali aumentava velocemente. Sulla questione dei finanziamenti si crearono dei problemi perfino tra le organizzazioni associate. Le continue richieste di finanziamenti misero in allarme i membri del consiglio nazionale e ben presto ci si accorse che la stabilità dell'associazione sul lungo periodo poteva essere messa in pericolo. Inoltre, l'eccessivo potere acquisito dalle sezioni speciali e dalle associate rischiava di sminuire il ruolo del consiglio nazionale.
Il tentativo di ritorno alla natura originaria La nuova struttura organizzativa, inaugurata nel 1973, aveva ricevuto l'approvazione di tutti, ma dopo soli quattro anni, durante il mandato presidenziale di Nesta Gallas del 1976-
1977, la nuova struttura dovette essere messa in discussione. In contrasto con i suoi predecessori, la Gailas era incerta sul futuro dell'ASPA, in particolare a causa degli interessi rappresentati dalle sezioni speciali. Al contrario dei precedenti leader dell'associazione che avevano apprezzato quel tipo di diversificazione, il nuovo presidente ne percepiva le implicazioni negative. Per la Gallas, il mantenimento della caratteristica tradizionale dell'Asr'A - l'essere un'associazione professionale allargata e orientata verso il servizio pubblico - avrebbe evitato la competizione con altre organizzazioni specializzate e di conseguenza l'eccessiva frammentazione in campi tecnici e interessi particolari. La GaIlas si accorse, inoltre, che, i punti di contatto tra professional e accademici all'interno dell'associazione stavano diventando sempre più flebili e convocò una riunione per convincere i leader di entrambi i gruppi che la loro interdipendenza era fondamentale per integrare pensiero e azione nel campo della pubblica amministrazione, e che il mezzo più appropriato per raggiungere lo scopo era, appunto, l'AsPA. La durata del mandato, comunque, non fu sufficiente alla Gallas per portare a termine i cambiamenti progettati. Gli anni seguenti, di conseguenza, videro il trionfo di una struttura sempre più orientata verso gli interessi particolari e i presidenti che si succe-
dettero alla guida dell'associazione non riuscirono a imporre il loro punto di vista sulle problematiche sollevate dalla Gallas. Le sezioni speciali erano già 10 nel 1980, e altre tre'stavano' per essere formate. La rapida crescita del numero di queste sezioni stava co-. minciando a minare' la stabilità finanziaria dell'ASPA e già nel 1978-1979 il deficit aveva raggiunto i $120.000, mentre contemporaneamente si era verificato un leggero decremento nel numero dei soci. Gli anni Settanta si conclusero con l'ASPA costretta a fronteggiare numerosi problemi, fra i quali l'accentuarsi della tendenza a difendere gli interessi di carriera nel pubblico servizio. GLI ANNI OYFANTA
111981 doveva essere un anno di cambiamenti, segnato dall'elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti. Tra gli addetti ai lavori circolava una scarsa fiducia nelle capacità amministrative del governo e l'elezio'ne di Reagan aveva portato allo scqperto il malessere della gente, che richiedeva una riforma radicale delle funzioni e delle responsabilità del governo. I soci dell'ASPA dovettero affrontare una diffusa mancanza di credibilità della pubblica amministrazione a livello nazionale e furono costretti a lottare duramente per difendere loro stessi e il loro campo di interesse. Gli anni dal 1981 al 1984 furono an185
ni di speranze deluse. Il primo fallimento per l'AsPA fu quello del Public Administration Training Center (PATC). Fondata nel 1979 e concepita come momento centrale delle attività di aggiornamento portate avanti dall'ASPA, la scuola si rivelò un fallimento finanziario. Fallì, soprattutto, nell'attrarre professori competenti e le iscrizioni non furono sufficienti a coprire le spese necessarie, con la conseguenza che molti programmi furono cancellati. Ci furono notevoli perdite per cui, nel 1981, il consiglio nazionale ne decretò la fine. Dal punto di vista finanziario, il fallimento del PATC era indicativo del generale declino finanziario dell'ASPA. Molte attività dell'associazione, ancora una volta, dovettero essere ridotte o eliminate del tutto. Inoltre, queste difficoltà portarono molti soci a dubitare dell'efficienza manageriale della leadership. Nel 1982, il consiglio nazionale apportò un tagliò del 14% al budget annuale. Tra il 1981 e il 1984, comunque, i leader dell'ASPA riuscirono a portare a termine alcuni progetti di una certa rilevanza tesi a migliorare l'immagine della carriera nel servizio pubblico. Tra i progetti più interessanti va ricordato l'istituzione del National Public 4 Service Awards, insieme alla NAPA; lo sviluppo di un Professional Code of Ethics; l'istituzione di una giornata nazionale di riconoscimento per l'impiego pubblico federale; il tentativo di 186
influenzare i programmi elettorali dei repubblicani e dei democratici per le elezioni del 1984. I primi vincitori dei National Public Service Awards furono proclamati nel 1983; nell'aprile del 1984, in occasione della conferenza annuale tenutasi a Denver, il consiglio nazionale approvò un Codice Etico in 13 punti; il 17 gennaio del 1983 fu dichiarato Public Employee Appreciation Day in quanto centenario del Pendleton Civil Service Act. Sempre tra il 1981 e la fine del 1984, l'ASPA prese posizione 28 volte su problematiche inerenti la pubblica amministrazione. Tra le posizioni prese in quel periodo sono rilevanti la denuncia dell'apartheid, il richiamo per l'approvazione dell'Equa! Rights Amendment e l'opposizione alle proposte di cambiamento nel servizio pubblico federale. In generale, le problematiche su cui furono prese queste posizioni potevano essere suddivise in tre categorie: pari opportunità, pubblica amministrazione e management, iniziative legislative.
La Commissione sulfi€turo dell2lsPA Nell'inverno del 1982 fu costituita la Commission on the Future of ASPA. La Commissione fu incaricata di sviluppare un progetto per rendere l'associazione più vitale e fiscalmente solvibile allo scopo di affrontare le sfide che attendevano la pubblica amministrazione negli anni Ottanta e oltre. Nell'aprile del 1983, la Commissione
consegnò un rapporto finale contenente 64 raccomandazioni riguardanti lo scopo, le strutture e le attività. Per quanto riguardava gli scopi, i membri della commissione identificarono tre tematiche di base. L'ASPA avrebbe dovuto: I. riconoscere la grande diversità di esperienze nella pubblica amministrazione e costruire il suo futuro su quella esperienza; incoraggiare i suoi soci a migliorare la qualità della pubblica amministrazione nell'espletamento della loro professione; ispirare e formare la leadership professionale nel campo della pubblica amministrazione. I! rapporto conteneva, inoltre, raccomandazioni su come migliorare le strutture organizzative dell'associazione. Come prima cosa, consigliava di ridurre il numero dei membri del consiglio nazionale; richiamava, poi, l'attenzione sulle sezioni esistenti, raccomandando una profonda analisi dei loro scopi e l'istituzione di criteri più severi per la creazione di nuove sezioni. Era chiaro che la Commissione stava suggerendo un'altra trasformazione della struttura e un nuovo approccio dei soci verso l'associazione. L'accento ritornava ad essere posto sul pubblico servizio attraverso un miglioramento della pubblica amministrazione. L'essere soci diventava una responsabilità verso l'associazione e l'occasione per
contribuire ai miglioramenti nel campo. Malgrado il lavoro della Commissione, gli anni Ottanta terminano, per l'AsPA, nell'incertezza con cui erano iniziati. L'associazione si era, forse, posta scopi troppo ambiziosi ma l'aver tentato di perseguirli le consentì di assumere, in seguito, una conformazione più precisa. Si può vedere quest'ultimo percorso attraverso la lettura dei suoi codici etici.
I Codici Etici Già dal 1981, il Committee on Professional Standards and Ethics aveva presentato al consiglio nazionale una serie di principi per promuovere standard professionali e morali in relazione al servizio pubblico. Originariamente, tali principi erano stati proposti come base per un regolamento ufficiale dell'associazione ma il consiglio nazionale decise che sarebbero stati, invece, la Dase ci un codice, etico cne avrebbe rappresentato la missione e gli scopi dell'AsPA. Il Codice doveva riflettere "I principi e gli standard morali che avrebbero guidato la condotta dei membri, non soltanto nel prevenirne gli errori, ma anche per perseguire il giusto". Il Codice del 1984 è stato rivisto esattamente dieci anni dopo, nel 1994. La riscrittura ha cercato di rendere meno numerose e più uniformi le categorie, rivedendo anche il linguaggio giudicat
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to troppo digressivo. Le dodici categorie del vecchio Codice sono divenute cinque nel nuovo e sono state aggiornate sulla base della più recente letteratura sull'etica del settore pubblico. Il Professional Ethics Committee che si era costituito negli anni Novanta proprio per controllare la validità del primo Codice - aveva notato, infatti, che nel testo degli anni Ottanta, i principi erano posti tutti allo stesso livello: non vi era un'effettiva differenziazione tra principi e concetti subordinati; inoltre, lo stesso stile di scrittura non metteva in evidenza i punti specifici rendendo, quindi, non agevole la lettura. I nuovi cinque obiettivi prioritari individuati dal Comitato nel 1993 furono il perseguimento di alcuni interessi: di quello pubblico ("Essere al servizio dell'interesse pubblico"), di quello legale ("Rispettare la Costituzione e la Legge ), quello personale ( Dare prova di integrità personale"), di quello organizzativo ("Promuovere le organizzazioni basate su principi etici") e di quello professionale ("Perseguire i massimi standard professionali"). L'individuazione iniziale di questi cinque interessi fu sottoposta ad una verifica tramite un accurato dibattito, interno all'ASPA, sulla loro natura. Per perseguire l'interesse pubblico si è reso necessario, ad esempio, tenere in considerazione la questione dell'equità sociale (guardando, in particolare, alle categorie sociali più disagiate) e la no1ff;]
zione di "disinteresse", intesa come imparzialità, ovvero quanto si oppone all'auto-interesse ("essere al servizio del pubblico, prima ancora che al servizio di se stessi"). Per quanto riguarda l'obiettivo del rispetto della Costituzione e delle leggi, si è partiti dalla considerazione del fatto che il senso comune e gli studi empirici avevano dimostrato che mai la legge ha un ruolo così centrale per ogni amministratore come quando sorgono dilemmi etici. Anzi, spesso la legge è proprio il punto centrale del dilemma. Per questo motivo è divenuto prioritario per il membro ASPA: "rispettare, sostenere e conoscere in maniera approfondita te costituzioni e le leggi governative che definiscono le responsabilità degli enti pubblici, dei loro dipendenti e di tutti i cittadini". La discussione preliminare sulla questione dell'interesse "personale", ovvero dell'interesse di ogni operatore a "dimostrare gli standard più elevati in tutte le attività per ispirare la fiducia degli utenti e la fiducia nel servizio pubblico" è partita dal presupposto che "una buona amministrazione ha bisogno di persone oneste che sono incoraggiate a rimanere tali". Le domande alle quali i punti del Codice etico riguardo l'interesse personale hanno cercato di dare risposta riguardano sia il modo in cui viene esercitata l'integrità individuale quando vi sono valori tra loro in competizione che il ruolo e il livello di tali valori. La ri-
flessione su ciò ha portanto a considerare che, ad esempio, non si può definire non etico soltanto un comportamento disonesto: anche l'incongruenza, l'incoerenza e la non reciprocità, ad esempio, possono essere definite non etiche. L'"interesse organizzativo" ovvero l'interesse ad "aumentare le possibilità per le singole organizzazioni di applicare i principi etici e di garantire efficienza ed efficacia nel servizio pubblico" si basa sulla necessità per gli amministratori pubblici di essere vigili affinchè, ad esempio, gli aspetti della produttività, della competenza e del dinamismo della struttura organizzativa giochino un ruolo equilibrato: che i valori dell'uno non sovrastino i valori dell'altro. Infine: 1"interesse professionale". L'ultimo dei principi delineati dal Codice etico dell'ASPA riguarda la volontà di: "rafforzare le capacità individuali e incoraggiare lo sviluppo professionale di ulteriori capacità". Il modo in cui i soci cercano di raggiungere tale obiettivo cerca di evitare, sostanzialmente, le tendenze - spesso frequenti nelle professioni - a perseguire standard irrealistici e a "servire se stessi". Con un'attenta e lucida analisi delle possibilità di migliorare le proprie e le altrui prestazioni, badando costantemente a perseguire il bene collettivo, il membro ASPA pone così le basi per il "miglioramento della scienza, dei procedimenti, dell'arte e dell'immagine della pubblica amministrazione".
ArFUALITÀ DELLASPA Al fine di comprendere l'attuale situazione dell'ASPA è utile considerarne il recente "Piano Strategico", in vigore fino al luglio 1996; piano che ne delinea sia le mete che, in conseguenza di queste, le attività da svolgere. L'associazione si propone di perseguire 5 mete: 1) la qualità della vita; 2) l'apprendimento e l'azione; i bisogni dei soci; 4) le relazioni internazionali; 5) il sostegno e l'incoraggiamento all'istruzione sulla cittadinanza e sul servizio pubblico. Seguiamo, quindi, lo schema del Piano per capire il modo in cui questi obiettivi sono perseguiti. La qualità della vita. L'ASPA persegue questo primo obiettivo fornendo il sostegno per una democrazia efficiente e per un governo rappresentativo; cercando di migliorare la qualità del servizio al pubblico e promuovendo le condizioni per un clima pubblico e politico migliore. Tutto ciò attraverso: l'utilizzo dell'esperienza dei membri e dei propri servizi per affrontare e risolvere importanti problemi di attualità; lo stimolo e la partecipazione attiva in dibattiti pubblici; l'identificazione dei maggiori problemi di politica pubblica e del management, sia attuali che futuri. L'apprendimento e l'azione. Per consentire ai propri membri di lavorare insieme più efficacemente, 1'ASPA cerca di svilupparsi come luogo di apprendimento e azione. Ciò attraverso: il 189
rafforzamento, l'organizzazione e il coordinamento a livello nazionale, regionale, federale e di sezioni; la pianificazione di proprie politiche, priorità e programmi; la promozione di standard e di un'etica professionali per gli amministratori pubblici. I bisogni dei soci. Per raggiungere e mantenere un alto grado qualitativo dell'organizzazione a tutti i livelli, l'ASPA cerca di rafforzare le sue capacità di soddisfare i bisogni dei soci. Ciò attraverso: lo sviluppo di una solida base finanziaria; servizi professionali che anticipano e soddisfano le necessità e gli interessi dei soci. Le relazioni internazionali. In tutte le attività, i membri dell'AsPA fanno in modo di essere sempre più aggiornati sugli aspetti e sulle implicazioni internazionali. Ciò attraverso: la ricerca di modi per incrementare l'interazione con organizzazioni internazionali e con associazioni di pubblica amministrazione di altri Paesi; lo sviluppo dell'interazione con rappresentanti Canadesi e messicani e con istituti di pubblica amministrazione, per apprendere somiglianze e differenze tra le nazioni; la collaborazione con altre organizzazioni federali per assicùrare un approccio coordinato alle attività internazionali. Sostegno e incoraggiamento dell'istruzione sulla cittadinanza e sul servizio pubblico. L'ASPA, infine, si propone di educare: sul servizio pubblico (i sòggetti di riferimento sono docenti di 190
ogni grado e personaggi pubblici); per il pubblico servizio (i soggetti di riferimento sono gli studenti a tutti i livelli); per lo sviluppo professionale (i soggetti di riferimento sono gli impiegati della pubblica amministrazione e i professionisti); sulla cittadinanza (i soggetti di riferimento sono i media, i manager, gli opinion leader, la popolazione in generale). Attualmente, l'ASPA sembra aver risolto la sua problematica più evidente quella riguardante la controversa questione se essere un'associazione che persegue la professionalità nel servizio pubblico o un'associazione che tuteli la professione nel servizio pubblico con la presa di coscienza che non vi è contraddizione fra le due tendenze. Edward T. Jennings Jr, attuale presidente dell'ASPA, sostiene che, data la natura pluralistica della società americana e la natura federale del governo, sia inevitabile che vi siano delle differenze fra i soci nel concepire il significato della loro appartenenza all'associazione. Le scuole di pubblica amministrazione dell'ASPA tentano di creare una identità professionale fra gli amministratori pubblici, ma è inevitale che questi siano comunque condizionati dal loro substrato culturale. Rimane ancora forte, inoltre, la problematica del rapporto fra professional e accademici. Vi sono, infatti, fra i professionisti molti soci che ritengono l'associazione fortemente orientata
verso l'accademismo e soci fra gli accademici che pensano l'inverso, ovvéro che l'ASPA si occupi eccessivamente di problemi professionali. In ogni modo, sostiene ancora Jennings, si tratta di "una tensione creativa, e la bilancia pende da un parte o dall'altra a secon da del periodo" . Tra le questioni affrontate più di re cente dall 'associazione vi è, infine, la ricerca di un modo più efficace di coinvolgere manager del settore non profit al suo interno. I leader dell 'ASPA, considerando la grande quantità di servizi pubblici che vengono gestiti dal settore non profit, ritengono i ma-
nager di queste organizzazioni amministratori pubblici. Quindi, il coinvolgimento di quest'ultimi sarà una delle priorità dell'associazione per i prossimi anni. Questo, dunque il presente e il prossimo futuro dell'ASPA. Si tratta di anni importanti anche per la pubblica amministrazione americana di cui, da più parti, vi è la richiesta per un profondo cambiamento. Il servizio offerto dall'associazione diviene, quindi, quanto mai importante: per gli Stati Uniti ma in qualche misura, anche per le altre democrazie del mondo.
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rubriche
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Notizie dal
Il Centro Ricerche Economiche, Sociologiche e di Mercato nell'Edilizia (CRESME) ha di recente pubblicato la ricerca CRESMEFONSPA su Mediterraneo. Città, territorio, economie alle soglie del )Q([ secolo (a cura di Lorenzo Bellicini), edito dal CRESME (Roma 1995, Vol. I pp. 460, Vol. Il, pp. 957). Nei prossimi anni, l'area del Mediterraneo e il "problema" Mediterraneo sono destinati a dover crescere di importanza. In sintesi, come ci mostra la ricerca curata dal CRESME per il CREDITO FONDIARIO E INDUSTRIALE Spa (FONSPA), ci sono cinque questioni principali che contribuiscono congiuntamente a definire l'insieme delle nuove opportunità e dei problemi che restituiscono all'area del Mediterraneo una centralità nel contesto internazionale: lo spostamento del baricentro demografico da nord a sud; l'urgenza ambientale; l'accrescimento o la riduzione del livello di "turbolenza" dell'area; a la nuova attenzione politica che il Mediterraneo sembra suscitare a livello europeo; e) l'inizio di una fase di grandi interventi che hanno per mercato le aree "della pace", da un lato, e proprio il sistema delle reti di comunicazione tra nord e sud dall'altra.
CREsME
Lo spostamento del baricentro demografico Nei prossimi quindici anni il baricentro demografico del Mediterraneo si sposterà verso sud-est. La forte crescita demografica dei Paesi nord-africani e dell'est mediterraneo (300 milioni di abitanti nel 2010 contro i 200 di oggi, mentre i Paesi del nord rimarranno fermi con 200 milioni di abitanti) comporterà un significativo acuirsi dei contrasti sociali interni, e di conseguenza delle tensioni già oggi presenti tra "occidentalizzazione" e "islamizzazione", oltre a introdurre un forte aumento della pressione dei flussi migratori verso i Paesi del nord. Ma è anche vero che la crescita demografìca può comportare un aumento delle potenzialità della domanda di mercato nei Paesi della riva sud-est del bacino mediterraneo.
L'ambiente e la città "sotto-standard" Le due principali forme di inquinamento che minacciano il Mediterraneo sono, da una parte l'alta concentrazione di petroliere e, dall'altra, una forte concentrazione del mercato turistico internazionale che si rivolge, in particolare, verso le zone costiere. Dal 1990 al 2000 si prevede una crescita degli arrivi internazionali nei Paesi dell'area di 50 milioni di unità (190 milioni di arrivi 193
nel 2000), e una crescita simile per i turisti nazionali. In breve, una pressione demografìca turistica accresciuta di poco meno di 100 milioni di unità rispetto ad oggi, va ad aggiungersi alla forte crescita demografica dei Paesi del sud-est. Allo stesso tempo, come la ricerca ha mostrato, il Mediterraneo non solo è caratterizzato da un forte processo di concentrazione della popolazione nelle città e nelle fasce costiere, ma anche da una rilevante prevalenza, nel modello di costruzione urbana, di una città sotto-standard (60170% della nuova produzione edilizia è illegale, abusiva) che ha nell'assenza di servizi e infrastrutture una delle principali caratteristiche.
Pace e conflitto Il Mediterraneo è l'area di alcuni dei principali conflitti dell'epoca contemporanea anche se il 1995 si chiude con segnali contrastanti ma certo pi1 ottimistici rispetto a quelli del passato. Il processo di pacificazione dell'area medio-orientale è un percorso difficile e non compiuto, ma di certo ormai avviato; la firma dell'accordo sulla Bosnia, anche se presenta evidenti problemi, rappresenta comunque un alto elemento positivo; persino in Algeria le recenti elezioni segnano la possibilità di una nuova timida, speranza di composizione, in ambiti democratici, dell'estremismo islamico. Il rischio del terrorismo permane in ogni caso come uno dei principali elementi di insicurezza nell'area, ma allo stesso tempo il mercato della ricostruzione e della pace è già diventato una delle principali opportunità economiche dell'area. Del resto, l'interesse per l'area si legge anche in un quadro di cambiamenti legati agli accordi politico-commerciali. Nel 1995 è 194
stato firmato l'accordo di unione doganale con la Turchia ed è stato lanciato il progetto di creare una zona di libero scambio euro-mediterranea entro il 2010; mentre per quanto riguarda la sponda sud del Mediterraneo la recente conferenza di Casablanca ha proposto la costituzione di una Comunità economica de! Medio Oriente e de! Nord Africa.
Una politica europea mediterranea? Sia i problemi derivanti dallo spostamento del baricentro demografico, sia quelli relativi alla conservazione ambientale e allo viluppo sostenibile, sia quelli derivanti dal processo di pacificazione e di conflitto richiedono un atteggiamento attivo da parte dei Paesi del nord. Non a caso, il rilancio di una nuova centralità per il Mediterraneo trova conferma nella nuova politica dell'Unione Europea che proprio in questi ultimi mesi ha destinato significative risorse ai Paesi del bacino mediterraneo, aprendo così un'altra direttrice politico-economica che si affianca a quella già consolidata verso i Paesi dell'Europa dell'Est.
Un mercato per le costruzioni: 450.000 miliardi di lire Il mercato della ricostruzione de! Libano e de! Medio Oriente in corso di pacificazione, i programmi per l'Albania, il problema della ricostruzione della ex-Jugoslavia: ecco solo alcune possibilità che fanno del bacino de! Mediterraneo un mercato in espansione per il settore delle costruzioni. Del resto, i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo costituiscono, già oggi, oltre il 50% del mercato estero delle nostre imprese di costruzioni e il quadro dei principali progetti in corso di realizzazione, in attesa di esecuzio-
ne o ancora in discussione che interessa l'area, è valutabile in 450.000 miliardi di lire.
Politiche e contesti locali Questo complesso insieme di problemi costringe l'insieme dei Paesi che si affacciano sul mare, ma in particolare i Paesi del nord, a confrontarsi con il problema delle modalità e delle politiche attraverso le quali affrontare le questioni sul tappeto. Ma anche a confrontarsi con il problema della differenza profonda che esiste nei modi di regolazione della società e dell'economia tra nord e sud e con il problema di un contrasto che va sempre pi1 accentuandosi tra i caratteri e le specificità dei diversi contesti locali e le politiche di intervento che pii facilmente rispondono a esigenze statali e/o internazionali. Se è vero, infatti, che uno dei premi centrali dell'economia contemporanea è quello di far fonte ad una doppia esigenza di "internazionalizzazione" e "contestualizzazione locale" dei mercati, la sfida che si pone oggi ai Paesi mediterranei è quella della "saldatura" tra livello globale e locale. Molte delle politiche in atto, infatti, sottostimano gli impatti che le scelte d'intervento producono a livello locale. Il modello dei poli di sviluppo e delle grandi opere, dei grandi progetti, che ancora prevale negli stili di intervento, sembra non tener conto della presenza dei contesti locali, mentre, nelle esperienze pi1 avanzate, emerge come sono proprio le politiche locali quelle maggiormente in grado di innescare importanti dinamiche di sviluppo.
La leadership sul Mediterraneo Sulla base delle considerazioni svolte, è interessante chiudere queste note chiedendosi
come si comportano i diversi Paesi europei mediterranei, e in particolare l'Italia, rispetto alla nuova centralità che il Mediterraneo sembrerebbe assumere. Nel quadro delle politiche messe in atto emergono posizioni fortemente differenziate: da una parte abbiamo, infatti, la Francia e la Spagna che sembrano aver "puntato" sul Mediterraneo, o comunque essersi resi conto che esiste una serie di problemi/opportunità, dall'altra, l'Italia e la Grecia, che sembrano prive di strategia rispetto al tema. Ciò che appare in gioco tra i Paesi della riva nord è, quindi, la questione delle leadership sul Mediterraneo (quanto meno sui finanziamenti resisi disponibili, per esempio i 4685 milioni di Ecu stanziati dal recente Consiglio europeo di Cannes per le riforme che i Paesi della riva sud dovranno realizzare in vista della creazione della zona di libero scambio). In Spagna, il governo centrale, ma in particolare le comunità regionali hanno messo in atto politiche tendenti a rilanciare un ruolo fortemente simbolico della costa spagnola sul Mediterraneo. Le azioni intraprese riguardano progetti infrastrutturali nell'area di Barcellona, investimenti a fini turistici dell'area della Costa del Sol e la creazione di due istituti promossi dalla comunità catalana: il "Centre d'estudis del trasport per la Mediteerrania" che promuove la cooperazione fra i Paesi mediterranei nel settore dei trasporti, e l"Istitut català d'estudis mediterranis" che svolge attività di ricerca strategica sul ruolo che la Catologna può svolgere nell'ambito delle strategie di riequilibrio tra nord e sud del Mediterraneo. La Francia ha invece concentrato, a livello nazionale, la propria elaborazione strategica verso la costruzione di un Arco mediterraneo: si tratta di una politica tendente a ri195
valorizzare il quadro delle dinamiche economiche sulla costa mediterranea nell'ambito di uno scenario strategico che assegna rilevanza all'asse nord-sud Marsiglia-LioneParigi-Lille. Questo disegno trova conferma e compimento in due grandi progetti espressi a carattere locale: la riqualificazione di una parte del centro urbano di Marsiglia e la creazione di una nuova tecnopoli, l'"Europole Méditerranée de l'Arbois", che dovrebbe avere il compito di sviluppare tecnologie avanzate, legate alle problematiche inerenti allo spazio mediterraneo. Di contro, così come per la Grecia, l'analisi che abbiamo condotto sull'Italia non ha
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messo in evidenza alcun disegno strategico per quanto riguarda il Mediterraneo, se si esclude l'iniziativa, ancora in fase embrionale, del Comune di Roma di creare, in collaborazione con Barcellona, una rete di città mediterranee all'insegna dello sviluppo sostenibile. Nel nostro Paese non esiste, quindi, un'apertura verso il Mediterraneo in termini strategici e progettuali, e non esiste una collocazione del Mezzogiorno nel nuovo contesto mediterraneo: non a caso il principale progetto infrastrutturale nel nostro Paese, la rete ferroviaria ad alta velocità, si fermerà a Napoli, proprio là dove il Mezzogiorno comincia.
Notizie da...
FONDAZIONE
Rui
Cd-rom "Colombo" - L'applicativo presenta tutte le informazioni sull'offerta di formazione superiore in Italia e sui servizi a disposizione degli studenti. Il tutto è corredato da immagini e musiche originali. Le chiavi di accesso principali sono due: quella dei corsi (di laurea, di diploma), per ognuno dei quali sono stati indicati i possibili sbocchi professionali, e quella delle sedi. Per ogni ateneo sono indicati i corsi, i servizi (mense, alloggi, enti per il diritto allo studio, e&.) e le sedi decentrate, oltre ad alcuna notizie storiche. Dal menu principale si accede inoltre ad una introduzione sulla struttura dell'insegnamento superiore in Italia a notizie sui servizi per gli studenti, sugli sbocchi di lavoro delle varie aree di formazione (con tabelle statistiche), sull'università a distanza, sull'Isef e sulla formazione non universitaria (accademie di belle arti, accademie militari, scuole per archivisti, scuole di arti drammatiche e cinematografiche) che completano il quadro della formazione superiore. Il cd-rom Colombo è a cura del ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, della Fondazione Rui, della Università degli studi di Camerino e dell'Ente regionale per il diritto allo studio di Camerino.
Il cd-rom è stampato e distribuito dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.
Guida all'università 1996— 11 ministero dell'Università e Ricerca scientifica ha pubblicato anche quest'anno la Guida all'Università, realizzata dalla Fondazione Rui. La pubblicazione riporta tutti i corsi di laurea e di diploma, la loro durata, gli esami principali che si devono affrontare anno per anno, tutte le sedi in cui sono presenti i singoli corsi e i loro sbocchi professionali. È poi possibile una chiave di lettura che parte dalle sedi universitarie per indicare quali corsi sono disponibili in ciascuna città, comprese le sedi decentrate. Completano l'opera una descrizione della struttura universitaria italiana, e informazioni sui corsi di educazione superiore non universitaria (accademie, scuole militari, ecc.); sui servizi per gli studenti, i collegi universitari, i servizi di informazione e orientamento, gli sbocchi professionali. Stampata dal Poligrafico dello Stato in oltre 500.000 copie, la Guida viene distribuita nelle scuole superiori come strumento di orientamento. Chiunque sia interessato può inoltre farne richiesta al ministero dell'Università.
Convegni internazionali a giugno - Dal 16 al 20 giugno, presso l'Hotel Jolly di Corso d'Italia a Roma, si svolgeranno tre impor197
tanti manifestazioni promosse dalla Fondazione Rui: l'8° Comitato regionale UnescoCepes (si discuterà di una convenzione sui riconoscimento degli studi superiori in Europa), la 30 Riunione congiunta delle reti Enic-Naric di' esperti europei di orientamento universitario e di riconoscimento dei titoli, e il secondo Universitalia, incontro di presentazione della realtà universitaria italiana agli ospiti stranieri. La manifestazione ha il patrocinio di Unesco, Commissione europea, Consiglio d'Europa, ministero dell'Università, Conferenza dei rettori. Fondazione Rui Viale Ventuno Aprile, 36 - 00162 Roma Tel. 39/6/8632.1281 - Fax 8632.2845 E-mail md1044@mc1ink.it
AlCI -
ASSOCIAZIONE DELLE ISTITUZIONI DI
CULTURA ITALIANE
L'Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane (AlCI) è stata costituita nel luglio 1992 da un gruppo di associazioni, fondazioni e istituti culturali di grande prestigio e consolidata attività che, già dalla fine degli anni Ottanta, avevano avvertito l'esigenza di trovare forme di coordinamento per esaminare insieme una serie di punti nodali e per individuare soluzioni coordinate nell'interesse comune. Gli intenti dei soci fondatori si possono così sintetizzare: affermare la presenza insostituibile, nel contesto socio-culturale del Paese, dei grandi istituti culturali, le cui iniziative seminariali e di ricerca hanno segnato tappe importanti nello sviluppo degli studi in Italia; valorizzare l'importante patrimonio documentario messo a disposizione del198
la collettività, coordinandone le modalità di descrizione non solo in ambito italiano ma anche a livello europeo; affrontare i molti problemi connessi con il funzionamento e la gestione delle loro strutture; trovare un più efficace raccordo con le Università nel campo della ricerca; definire corrette modalità di rapporto tra finanziamento pubblico e privato. L'Associazione, che conta attualmente 48 soci, è aperta a tutte le istituzioni culturali italiane in grado di documentare un'attività scientifica consolidata nel tempo e dotate di patrimoni documentari aperti in maniera stabile alla consultazione. Tra i compiti previsti dallo statuto per realizzare gli obiettivi che l'Associazione si propone di raggiungere vi è, innanzitutto, quello di rappresentare gli interessi degli istituti culturali presso i competenti organismi nazionali e internazionali; di promuovere inziative legislative volte a riconoscere e valorizzare il ruolo svolto dagli istituti; di costruire una rete di rapporti con i mezzi d'informazione per ampliare l'ambito dei fruitori dei servizi offerti e far conoscere a un pubblico più vasto i risultati raggiunti nel campo della ricerca; di organizzare un servizio di informazione e di consulenza (anche tramite la spedizione, a intervalli regolari, di una newsletter) per i soci su questioni di interesse comune; di individuare i settori di attività che maggiormente si prestino a forme di collaborazione. La struttura dell'Associazione prevede un presidente, un comitato esecutivo, un collegio di revisori dei conti, un segretario eun tesoriere. Organo sovrano resta l'assemblea che si riunisce per statuto due volte 1'anno per definire le linee programmatiche dell'attività dell'Associazione. La sede è attualmente a Roma, pres-
so una delle istituzioni associate, dove si sono fìnora svolte tutte le assemblee. AlCI - Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane do Fondazione Basso - Via Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma
FONDAZIONE ISTITUTO PIEMONTESE
A.
GRAMSCI
Dopo il ben noto saggio di S. Huntington, The clash of civilizations? (Foreign Affairs, estate 1993), e il dibattito che ne seguì, si è tenuto a Torino, dal 3 a! 4 giugno, un convegno sui seguenti quesiti: "C'è uno scontro di civiltà in Europa? Può la democrazia superare e risolvere tali conflitti culturali entro gli Stati nazionali dell'Europa occidentale, utilizzando le sue culture politiche e giuridiche?". I conflitti culturali in Francia, in Germania e in Italia durante gli ultimi dieci anni sono considerati come i casi più interessanti per un'analisi comparata. Le migrazioni e il multiculturalismo, i movimenti fondamentalisti etnici e religiosi, i movimenti localisti e razzisti della nuova destra e le radici popolari di entrambi sono
forti sfide per la democrazia. La religione e la politica ne sono coinvolte, ben dopo che la modernizzazione ha affermato la separazione tra Chiesa e Stato. Le leggi e le procedure democratiche sono i possibili mezzi di soluzione del conflitto. Ma esse sono portatrici di valori occidentali quali l'universalismo, l'individualismo, l'interesse pubblico, separati dalle credenze e dalle appartenenze personali, che sono al centro del conflitto. Ciascuna esperienza nazionale presenta qualche successo ma anche qualche fallimento della politica delle democrazie occidentali nel dare una risposta a tale problema. Il convegno ha tentato di contribuire ad un bilancio per comprendere se vi sia o no una cultura europea comune che possa vincere questa sfida. E per apprendere lezioni per l'Italia che arriva ora ad affrontare questo problema. Oltre alla Fondazione Istituto Piemontese A. Gramsci hanno promosso il convegno il Goethe-Institut e il Centre Culterel Franais di Torino Fondazione Piemontese A. Gramsci Via Vanchiglia, 3 - Torino tel. 01118395402 Fax 01118395403
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Segnalazioni
Luzzi PAOLO, CASTALDI GIOvNI (a cura di), La nuova legge bancaria, Giuffrè Editore, Milano 1996. FERRO
Impresa e società nel gruppo bancario, Giuffrè Editore, Milano 1996.
LA ROCCA GIOACCHINO,
(a cura di), Investimento finanziario e contratti dei consumatori, Giuffrè Editore, Milano 1996. GUIDO ALPA
Il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia rappresenta il punto di approdo di un dibattito ventennale. L'attuale disegno dell'ordinamento creditizio risponde alle esigenze di un'economia profondamente mutata rispetto a quella di cui era espressione (peraltro tecnicamente assai pregevole) la vecchia legge bancaria del 1936. Non è un caso che alla nuova legislazione si sia giunti attraverso lo stimolo delle iniziative della Comunità Europea che hanno considerato le banche alla stregua delle imprese, hanno cercato l'armonizzazione delle forme giuridiche in funzione di una integrazione dei mercati e lo stabilirsi di una vigilanza forte e coordinata tra i diversi Paesi dell'Unione. La casa editrice Giuffrè ha pubblicato un'opera fondamentale per la comprensione del nuovo disegno: La nuova legge ban-
caria. Il Testo Unico delle leggi sulla interme-
diazione bancaria e creditizia e le disposizioni di attuazione. Commentario, a cura di Paolo Ferro Luzzi e Giovanni Castaldi. Si tratta di tre poderosi volumi per complessive 2351 pagine in cui la materia è trattata con una sistematicità che non ha precedenti. I contributi personali - e tra gli autori si segnalano, oltre ad autorevoli studiosi di diritto bancario anche funzionari della Banca d'Italia che vivono quotidianamente le problematiche esposte - risultano ben coordinati, in modo da evitare omissioni e ripetizioni di solito frequenti nelle operazioni collettanee. Data l'attenzione di questa rivista ai problemi del volontariato e del non profit ci fa piacere segnalare che gli autori dell'opera hanno rinunciato ai loro compensi in' favore della Caritas Italiana. Sempre in materia finanziaria meritano menzione altri due titoli del recente catalogo Giuffrè: Impresa e società del gruppo bancario (di Giacchino La Rocca), e Investimento finanziario e contratti dei consumatori (a cura di Guido Alpa). Il primo volume è una monografia su un tema molto caldo del nuovo testo unico: la composizione dei conflitti di interessi tra banca e società facenti parte del gruppo nella prospettiva di una vigilanza non bancaria tesa ad assicurare la stabilità e la tutela dei depositi. 201
Il secondo, contiene una raccolta di scritti sui rapporti contrattuali tra banche e risparmiatori alla luce degli sviluppo della normativa sulla trasparenza bancaria e degli
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intermediari mobiliari e delle direttive oggetto, peraltro, di recente recepimento sul controllo delle clausole abusive.
• I diritti dell'uomo cronache e battaglie organo dell'unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo direttore Mario Lana
anno VT n. 3 - settembre-dicembre 1995
EDITORIALE
Il processo di pace in Medio Oriente Alberto Benzoni
Mario Lana
Immigrazione, decretazione di urgenza, sicurezza sociale, processo penale Vito Jifazzarelli e Salvatore Orestano
SAGGI Messaggio dell'Alto Commissario Jose Ayala-Lasso
L'Europa di Dayton: grazie America Paolo Rane
Le dittature e diritti dell'uomo Paolo Ungari
RUBRICHE
L'Unione Europa ed i flussi migratori Roberto Magni
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Minori a cura di Sebastiano Ferlito
- Parlamento Italiano a cura di Salvatore Orestano
DONNA E ISLAM NEL MEDITERRANEO GIORNALE A PIU VOCI Le ròle de la femme dans la fmille, la sociéri, le monde du travail: Considération sur les prjugs, menant à la discrimination Thomais Douraki Le ròle de la femme dans la fmille et dans la société Osman ElHa,jjé Le rimoi nage de la femme dana le droir libanais Raimone!Farhat Lo statuto giuridico della donna in Tunisia fra l'eredità laica di Burghiba e le correnti integraliste Milena Modica INTERVISTE Con Milorad Purpovac, leader delle minoranze serba in Croazia a cura di Mario Lana Con Franco Frattini, Ministro della funzione pubblica A cura diAnton Giulio Lana ATFUALITA
MOVIMENTI E ASSOCIAZIONI Ukrainina Center for Human Rights DOCUMENTI Emergenza umanitaria e protezione dei diritti dell'uomo in Cro5Zia Rapporo sui rifugiati in Serbia-Montenegro Raccomandazione dell'Ukrainian Center for Human Rights La Carta della libertà fondamentali nell'Iran di domani Una raccomandazione del consiglio d'Europa sullo sfruttamento sessuale dei minori Tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali. Direttive della Comunità Europa e disegno di legge delega al governo italiano La Corte Costituizionale e la "diseducazione civile" del legislatore Espulsione di straniero Extracomunitario - osservazioni dalla procura della repubblica presso la pretura; -
Turkey and the Europan System ofHuman Rights Protection: Which Perspectives? Fabio Marceii Terza Conferenza dell'Ukrainian Center for Human Rights Maurizio de Stefano e Fabio Raspadori
due ordinanze del Pretore di Roma di Remissione alla Corte Costituzionale; - comunicazione del Procuratore della Repubblica aggiunto presso la Pretura di Napoli; - documento deft'Associazione Giuristi Democratici, Associazione Studi Giuridici sull'immigrazione, Magistratura Democratica al Convegno sull'Immigrazione
Condizioni di abbonamento 1996 Abbonamento annuo (tre numeri) per l'Italia: L. 80.000 - Abbonamento annuo per l'estero: L. 100.000. Modalità di pagamento versamento a mezzo e/e postale n. 33433004 intestato a: I diritti dell'uomo - cronache e battaglie do avv. Mario Lana, via Emilio de' Cavalieri, 11 - 00198 Roma e e/e bancario n. 6526882-01-09 della Banca Commerciale Italiana intestato a: I diritti dell'uomo - cronache e battaglie (Unione Forense per la Tutela dei Diritti dell'Uomo). Editore: Unione Forense per la Tutela dei Diritti dell'Uomo e/o Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori di roma, Palazzo di Giustizia, piazza Cavour, Roma. Direzione e redazione: do avv.Mario Lana, Vis Emilio de' Cavalieri, n. 11 -00198 Roma, tel. 8412940-85300769 - telefax 85300801.
FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTARIATO PREMIO NAZIONALE DELLA SOLIDARIETÀ a Fondazione Italiana per il Volontariato e la Rivista del Volontariato istituiscoo il Premio Nazionale della Solidarietà riservato ad organizzazioni o iniziative particolarmente significative nel campo dell'azione volontaria, della solidarietà e della cooperazione sociale sui territorio nazionale ed internazionale. Per la partecipazione al concorso sono richieste alle iniziative le seguenti caratteristiche: - capacità innovativa è propositiva dei servizio rispetto ad una utenza particolare (barboni, carcere, nomadi, etc.); - modalità di lavoro integrante con ì destinatari, il territorio e i referenti istituzional;; - capacità di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sui temi della solidarietà sociale e dell'azione volontaria.
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on la diffusione di talé iniziativa - che si realizza per il quinto anno consecutivo - la Fondazione Italiana per il Volontariato si augura inoltre di mobilitare, attorno all'azione volontaria, la collaborazione attiva di organizzazioni pubbliche e private, in particolare degli enti locali, delle scuole, dell'associazionismo e delle imprese, che con le proprie risorse umane, finanziarie, organizzative e progettuali sono in grado di offrire un contributo importante e originale alla promozione di una cultura operativa della solidarietà. In particolare la Fondazione Italiana per il Volontariato e la Rivista del Volontanato istituiscono: •un "Premio nazionale" (Lire 100 milioni) da attribuirsi ad associazioni e gruppi di volontariato, a cooperative sociali, ad imprese, ad istituzioni pubbliche e private che abbiano, in modo originale ed efficace, nel rispetto dei criteri sopra indicati, operato nel campo del volontariato o sostenuto le attività sociali ad esso promosse. • N. 10 premi per specifici settori di intervento o di sostegno dell'azione volontaria, in particolare: * 1-2. Due premi per associazioni, gruppi o movimenti di volontariato che abbiano operato sul territorio con attività promozionali di prevenzione, reinserimento ed integrazione di persone a rischio di emarginazione e devianza, con particolare attenzione ed impegno nell'attivazione ed autorganizzazione dei destinatari del servizio (10 milioni ciascuno). * 3. Per un'associazione italiana che abbia operato per la promozione di iniziative di volontariato locale in uno o più Paesi in via di sviluppo (10 milioni). * 4-5. Per due scuole (una media superiore ed una inferiore) - o strutture scolastiche - che abbiano condotto una iniziativa di informazione e sensibilizzazione sulla solidarietà, il volontariato e l'educazione interculturale, coinvolgendo alunni; genitori e comunità locale, ottenendo risultati apprezzabili (Targa). * 6. Per un'iniziativa di volontariato rivolta all'accoglienza ed integrazione nel
contesto sociale e lavorativo di immigrati a grave rischio di esclusione sociale (10 milioni). Per una cooperativa di solidarietà sociale che attraverso l'apporto di soci lavoratrici e di soci volontari si sia affermata come impresa sociale, creando posti di lavoro e servizi per la comunità (10 milioni). Per un'iniziativa di informazione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulle tematiche del volontariato e della solidarietà, attivata dai mass-media (giornali, periodici, 1V, radio) e da singoli professionisti dell'informazione (Opera d'arte contemporanea). Per un periodico gestito da volontari o da cooperative sociali, che contribuisca in modo particolare alla creazione di un circuito informativo e operativo, a livello nazionale o locale, fra organizzazioni non profit (10 milioni). Per un'azienda o impresa che abbia attuato la promozione di servizi "reali", cioè l'utilizzo di propri mezzi, strutture e competenze tecniche, a sostegno di iniziative di solidarietà o di gruppi. (Opera d'arte contemporanea).
MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE Il materiale di presentazione e di documentazione relativo alle iniziative per le quali si propone il premio dovrà pervenire a mezzo raccomandata postale A.R. o con consegna a mano, alla Fondazione Italiana per il Volontariato entro e non oltre il 30 settembre 1996 (della data di ricezione faranno fede il timbro postale di spedizione o la ricevuta che il personale della Fondazione rilascerà a chi effettuerà la consegna a mano). Le candidature dovranno essere accompagnate da materiale illustrativo dei progetti e delle attività, con particolare attenzione alla storia dell'iniziativa ed alle modalità di svolgimento. E necessario precisare nome e cognome del referente per l'iniziativa, denominazione, indirizzo e recapito telefonico dell'ente o associazione. I premi saranno assegnati da una Commissione, presieduta dal Presidente della Fondazione Italiana per il Volontariato, composta da persone che a diverso titolo si occupano di volontariato sociale. La fondazione Italiana per il Volontariato si riserva di aumentare - eventualmente con il sostegno finanziario di enti ed aziende - il numero o l'entità dei premi, qualora, in uno o più settori, fossero segnalati numerosi soggetti o iniziative particolarmente valide. I vincitori saranno tempestivamente awisati tramite telegramma mentre a tutti i partecipanti sarà data comunicazione scritta sull'esito del concorso; nessuna informazione sui vincitori potrà essere richiesta telefonicamente prima dell'assegnazione dei premi. I premi saranno ufficialmente consegnati nel mese di dicembre, orientativamente in occasione della giornata del volontariato. I materiali inviati rimarranno patrimonio della Fondazione e non saranno perciò restituiti, verranno invece inseriti nell'archivio storico-documentario della Fondazione. A tal fine si pregano le associazioni di voler inviare, oltre ai progetti, anche il loro statuto, l'atto costitutivo, eventuali regolamenti e convenzioni. Fondazione Italiano per il Volontariato - Via Nazionale, 39 00184 Roma Tel. 06/474811 - Fax 06/481 4617
queste Isti ozioni La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi, dunque, è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —Il taccuino, con il primo numero del 1996 si intende iniziare un nuovo utilizzo del taccuino: non più contenitore di rubriche, ma spazio da dedicare a temi di attualità. —I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'dstituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sogli argomenti trattati. stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione.
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—Le rubriche, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni, fondazioni e centri studi, e le recensioni di testi che trattano temi di nostro interesse. Gli opuscoli,
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è stato pubblicato il 3° numero degli opuscoli di Queste Istituzioni. La nuova serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del 1° numero con il dossier «Cultura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei, per uso professionale o didattico, (è il caso di questo 3° opuscolo dedicato a "L'informatica delle pubbliche amministrazioni"); presentare materiali complementari alla rivista (come nel 2° opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").
La collana Maggioli - Queste Istituzioni Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Siof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VY. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit. In corso di pubblicazione: Advisory Commission on Intergovernmental Relations La riorganizzazione delle economie pubbliche locali
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