Queste istituzioni 109

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Anno XXV - n. 109 - Trimestrale (gennaio-marzo 1997)

rU I-

2OOi

200 E vi Di moneta europea e di Costituzione Taccuino Cavazza, Nepitelli, Ristuccia, Ribaudo e Sidoti

La societĂ multietnica e i suoi nemici Alessandro Silj, Alessandra Venturini, Laura Gobetti, Barbara Palleschi

Vizi e virtĂš della comunicazione globale Massimo A. Conte, Giulio De Petra, Renzo Ristuccia Luca Jiifare/li, Stefano Corso

Sull'abuso d'ufficio Antonio Chizzoniti, Giuseppe Morbide/li, Silvestro Russo


queste istituzioni rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno XXV n. 109 (gennaio-marzo 1997) Direttore: SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttori. MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Comitato scientifico: MASSIMO De FELICE, BRUNO DENTE, SERGIO LARICCIA, MARIA TERESA SALVEMINI, UMBERTO SERAEINI

Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: ANTONIO CHIzz0NITI, ROSALBA CORI, ADELE MAGRO, BARBARA NEPITELLI, GIORGIO PAGANO, IGNAZIO PORTELLI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, ANDREA SPADETTA Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO Responsabile relazioni esterne: MASSIMO RIBAUDO Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Amministrazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 Roma Tel. 0613215319 - Fax 0613215283 Direzione e Redazione: Corso Trieste, 62- 00198 Roma TeL e Fax 0618419608 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RiCERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: I.G.U. sri. - Roma Chiuso in tipografia il 15 marzo 1997 In copertina: fotocomposizione di

ENRICO NATOLI

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


N. 109 1997

In dice

III

Di moneta europea e di Costituzione

Taccuino IX

Gli ultimi cinquant'anni di un secolo breve Fabio L. Cavazza

)UX

Cittadini vs. Comuni: la pace arriva in fretta Barbara Nepitelli

XXIII

La "Repubblica dei Comuni": una nuova cultura della gestione Sergio Ristuccia

XXVII

Ragionando di Bicamerale. Cronaca di un dibattito a Cortona Massimo Ribaudo

XLI

I mandanti dei mandanti Francesco Sidoti

La societĂ multietnica e i suoi nemici 5

Movimenti etnici e regionali nella nuova Europa Alessandro Silj

19

Un approccio economico all'analisi delle migrazioni Alessandra Venturini e Laura Gobetti

31

Leggi e immigrazione Barbara Palleschi I


Vizi e virtĂš. della comunicazione globale 45

Informatica e Pubblica Amministrazione Massimo A. Conte, Giulio De Petra

52

Implicazioni giuridiche dei servizi su Internet Renzo Ristuccia e Luca Tufareii

75

Il mercato della telefonia: la lunga strada della liberalizzazione Stefano Corso -'

n'i rn uii abuso ai,urncio

95

Abuso d'ufficio. I! Senato volta pagina Antonio Chizzoniti

103

I delitti contro la Pubblica Amministrazione Giuseppe Morbidelli

112

Abuso d'ufficio e discrezionalitĂ : la difficile armonia Silvestro Russo

Rubriche

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Notizie dall'APE

131

Notizie da...

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Segnalazioni


editoriale

Di moneta europea e di Costituzione

L'Italia potrebbe considerarsi fortunata: comincia una stagione di revisione costituzionale nel momento in cui nell'Unione Europea arriva alle strette il processo di costruzione dell'unione monetaria. L'occasione è fondamentale per pesare le reciproche influenze e mettere a punto una visione politica e istituzionale d'insieme. I nessi sono formidabili. Vale rifletterci bene e non soltanto secondo la logica che sta sotto le formule di banale conformismo, già altre volte deprecate su queste pagine, che si riassumono nell'espressione dell"ingresso in Europa" (per fortuna, l'Europa già c'è, bella o brutta che sia, e ci siamo già entrati, fin dall'inizio. È bene essere intransigenti con ogni sorta di approssimazione su questo punto). Nell'ultimo incontro annuale di Cortona, i collaboratori di questa rivista hanno avuto modo di cogliere e discutere questo legame, da una parte constatando il peso che le norme comunitarie hanno avuto in forma di vincoli quasi-costituzionali e, dall'altra, valutando il significato del silenzio o dell'indifferenza che le questioni europee ricevono sul piano degli effetti e degli intrecci costituzionali, venendo ad essere relegati, più o meno consapevolmente, in una sorta di riformismo costituzionale strisciante. Perché diciamo che i nessi sono fondamentali? Una ragione fra tutte può essere segnalata: i meccanismi della convergenza presuppongono governi centrali forti e tali da dominare con qualche sicurea i fattori principali della politica economica nazionale. Ciò è tanto vero che in sede internazionale il problema è stato posto. Basti ricordare l'ultimo rapporto dell'OECD sulla Germania, nel quale si richiama l'attenzione sulle politiche dei Under. Osservazioni del genere sono state fatte anche a proposito di Paesi come Austria e Svezia, cioè di Paesi membri dell'Unione Europea che hanno minore dimensione. Si dice, in sostanza, che le politiche di decentramento che già sono state seguite in molti Paesi negli anni Settanta ed Ottanta vanno riconsiderate III


alla luce delle esigenze della convergenza che sono proprie dell'unione monetaria. Occorre immaginare pii forti limiti al potere fiscale delle autonomie regionali o locali e alle facoltà di indebitamento. Comunque, si suggeriscono maggiori obblighi di tempestiva informazione dalla periferia al centro. In ragione di queste preoccupazioni, l'OEcD Si interroga sulla stessa formula del federalismo cooperativo che ha operato in Germania da decenni, pur attraverso una variegata vicenda di messe a punto e di correzioni (un convegno dell'Istituto internazionale Jacques Maritain ha di recente consentito di fare il punto sull'argomento). Ma non s'intende bene se così si giunge a criticare il federalismo tout court ovvero ad auspicare invece un federalismo di tipo competitivo (il discorso non è di quelli che si possono affrontare in poche ?arole. Vale tuttavia segnalarlo). Quest ultimo suggerimento, se c e, forse porta il segno dell ideologia o del partito preso (la competizione vale per tutti, anche per le istituzioni). In ogni caso, l'intervento dell'OECD sta a dimostrare in modo eloquente a qual punto sia avvertito il problema delle interconnessioni istituzionali legate alla convergenza. Beninteso, è quasi del tutto medita e sicuramente singolare la figura di Stati nazionali forti e, tuttavia, privi di uno storico potere qual è quello di battere mone ta. Si dirà che ditale privazione gli Stati nazionali hanno già fatto esperienza, sia pure parziale, proprio al loro interno via via che si è affermata la linea di fare delle banche centrali delle istituzioni indipendenti da governi e parlamenti. Ma, a parte la consistenza del tutto diversa che il fenomeno verrebbe ad assumere con la banca centrale europea, c'è poi da chiedersi quanto poi nei fatti questa indipendenza sia stata reale e, dunque, veramente metabolizzata al punto - vogliamo dire - che gli Stati nazionali chiamati ad essere pi1 forti ai fini della convergenza siano poi veramente attrezzati allo scopo, una volta privati del potere monetario. Veramente un bella questione aperta. Il punto è di vedere, dunque, come si possano coinvolgere i vari livelli di governo, regionali o locali, in una logica di convergenza ragionevole. Ed è a tale proposiTh che il caso italiano si può dire fortunato: la revisione dei sistema costituzionale italiano parte all'insegna della necessità del "federalismo" o, comunque, di un forte decentramento dopo che il centralismo di uno Stato centrale sfiancato, e nello stesso momento presuntuoso, ha fatto fiasco. La revisione costituzionale italiana potrà essere portata avanti senza tenere conto di tutti gli effetti possibili, sul piano istituzionale, della "costituzione europea", quella materiale che c'è e si va modificando vistosamente o quella formale che dovrà essere messa a punto prima o poi? Se l'esercizio sarà fatto con consapevole accortezza, allora il

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caso italiano non sarà quello della continua rincorsa, ma della tempestiva risposta ai problemi nuovi e veri del futuro prossimo dell'organizzazione politica e istituzionale dei Paesi europei. (L'auto-ironia suggerisce naturalmente molti sorrisi a questo punto, ma resistiamo alla tentazione di cancellare quanto appena scritto). "Quel che c'è di peggio nell'Unione Europea è la noia mortale che circonda la maggior parte dei temi che vi si affrontano". L' incipit dell'ultimo intervento di Raif Dahrendorf in materia europea sembra accattivante, anche se ad effetto, ma risulta poi un p0' vecchio. I2agenda europea è quel che abbiamo detto: un rebus complesso, anche a prescindere da problemi come l'allargamento dell'Unione. Ma non è un rebus intorno al quale possa sorgere una noia mortale. Possono nascere ansie, anche gravi, ma è un'altra cosa. Piuttosto, egli ha ragione ad osservare che i discorsi sull'Europa e sul suo destino sono normalmente troppo seriosi e che sarebbe meglio parlare pit spregiudicatamente. Il suo pamphlet Perché l'Europa? - Riflessioni di un europeista scettico (trad. it. Laterza 1997) è il frutto di questo modo di affrontare i problemi dell'Europa con grande libertà anche nel senso, per gusto di polemica, di semplificare al massimo e di abbandonarsi a qualche battuta superficiale. Allora, per discutere senza rispetti, discutiamo proprio di alcune affermazioni dell'Autore. Dice Dahrendorf a proposito di unione monetaria: "non stiamo ragionando contro l'unione monetaria franco-tedesca (in ciò consiste l'Euro, secondo il nostro autore), ma solo contro il fatto che questo progetto venga scambiato con l'Unione Europea". Si può essere per metà d'accordo e per metà in disaccordo. Siamo pienamente d'accordo sul punto che l'Unione Europea non può essere ridotta all'unione monetaria come le ossessioni d'oggi sembrano accreditare. Il perché lo abbiamo già detto. Non siamo invece d'accordo nel considerare l'unione monetaria come una faccenda esclusivamente franco-tedesca, per quanto importante questa sarebbe in ogni caso. Storicamente, l'unione monetaria immaginata a seguito dell'Atto Unico dal Comitato Delors composto dai governatori delle banche centrali dei 12 (allora) Paesi membri è stata disegnata come un passo storico dell'integrazione europea. Tommaso Padoa Schioppa che fu relatore in quel Comitato ed ebbe un ruolo importante nei lavori preparatori e nei negoziati di allora ha raccontato a caldo, subito dopo la firma del Trattato di Maastricht, come "l'impensabile" poté accadere (si veda l'introduzione del volume L'Europa verso l'unione monetaria, Einaudi 1992). Impensabile perché ritenuto fino a


quel momento un passaggio troppo audace per la Comunità economica europea nel suo insieme. Certo, egli ricorda anche come venne poi ad imporsi il fondamentalismo della posizione tedesca, contrario ad ogni ipotesi di moneta comune parallela e tale da richiedere, da una parte, la creazione della banca centrale europea (risultato considerato positivamente perché avrebbe poi imposto un salto di qualità nella stessa unione politica) e, dall'altra, i difficili criteri della transizione. A proposito di questi egli annota: "l'insistenza con la quale alcuni Paesi hanno posto, nel negoziato, una 'pregiudiziale di convergenza' riecheggiava impostazioni intellettuali e di metodo che non condividevo. Sul piano dell'analisi economica la tesi secondo cui un elevato grado di convergenza nominale (inflazione, bilancio pubblico, debito pubblico ecc.) fosse una condizione pregiudiziale al realizzarsi dell'unione monetaria mi pareva debole. E mi sembrava che i sostenitori di quella tesi fossero mossi, più che da solide argomentazioni economiche, da pur legittime consideraziòni politiche: il desiderio di allontanare nel tempo il momento di una perdita di sovranità, la necessità di rendere l'unione monetaria più accettabile alla propria opinione pubblica, e via dicendo. Né sul piano intellettuale, né su quello negoziale mi sembrò perciò desiderabile che il tema della convergenza prendesse molto spazio". Tutto ciò per ricordare che la storia dell'unione monetaria subito dopo i suoi esordi e fino ad oggi è anche, sicuramente, un capitolo dell'intesa franco-tedesca, ma non può ridursi a questo.

A proposito di unione monetaria - continua Dahrendorf— "è necessario spendere qualche parola su un tema su cui si registra - e la cosa è interessante - l'accordo di favorevoli e contrari all'EMU: il tema dell'unione politica. Sia i primi che i secondi si sono fatti trascinare dall'illusione di Monnet e Hallstein che si possano realizzare degli scopi politici passando per la porta di servizio e che si possa produrre l'unità dell'Europa senza che i cittadini se ne accorgano. La Comunità Economica Europea fu il primo passo su questa strada, e adesso dovrebbe seguire la Comunità Monetaria Europea". Che l'unione monetaria sia stata concepita nella logica di un ulteriore passo avanti lungo la strada del "funzionalismo" europeo può anche essere vero, ma solo per alcuni e solo parzialmente. Anzi, la testimonianza di Padoa Schioppa porterebbe quasi ad escluderlo. Citiamo un altro passaggio della sua testimonianza. "Durante i lavori del Comitato da lui presieduto, ricordo Jacques Delors, sconcertato dalle tesi fondamentaliste sostenute da alcuni, porsi il problema se la storia potesse ancora ' avancer le visage masque'; e convincersi che - almeno sulla questione monetaria - dovesse essere accettato il VT


rischio di chiamare le cose con il loro nome, di concepire e proporre l'unione monetaria europea negli stessi termini in cui essa è realizzata in un sistema nazionale". Insomma, perlomeno a mezza strada, cade ogni possibilità di iscrivere l'operazione unione monetaria nel metodo di costruzione europea consistente in una successione difatti d'integrazione, anche minori e poco evidenti ma irreversibili, secondo i criteri affermati da Robert Schuman nel maggio 1950 annunciando la creazione della CEcA: "LEurope ne se fera pas d'un coup, ni dans une construction d'ensembie, mais par des réalisations concrètes créant d'abord une solidarité de fait. Cette proposition réalisera les premières assises d'une fédération européenne indispensable à la préservation de la paix". In definitiva, finisce con l'unione monetaria l'epoca del "funzionalismo" europeo e si realizza l'ambiente giusto per proseguire il percorso lungo le linee del costituzionalismo europeo secondo la lezione di Altiero Spinelli. Che poi questo costituzionalismo debba essere pensato, proposto e realizzato con forte spirito pragmatico, senza forzature, sapendo per esempio - come dice Dahrendorf— che non è finita l'epoca e soprattutto l'utilità degli "Stati nazionali eterogenei", questo è certamente un altro discorso. In ogni caso, non è ben fondata la critica di Dahrendorf all'unione monetaria come frutto della concezione funzionalista. Piuttosto, questa critica suggerisce di riandare alle ragioni della povertà del dibattito sull'Europa da quando l'agenda è occupata dalla questione dell'unione monetaria. Povertà - si può obiettare - che non nasce ora ma che sempre ha accompagnato l logica intergovernativa del funzionalismo. Oggi, tuttavia, questa povertà è intollerabile perché rende controproducente il salto di qualità costituito dall'unione monetaria. Fin dall'inizio degli anni Novanta, abbiamo avvertito su queste pagine la gravità di questo pericolo. Il prestigio dell'idea di integrazione europea secondo la linea di Monnet e degli altri padri fondatori - una grande idea che ha potuto modificare la storia europea negli ultimi quarant'anni e creare un poderoso tessuto connettivo fra gli Stati membri perchè proporzionata alla realtà del secondo dopoguerra - è servito a coonestare comportamenti che, al di là di un certo periodo, non avevano più ragion d'essere. È, fra tutti, il comportamento stigmatizzato da Dahrendorf di passare per la porta di servizio: che non è l'essenza del metodo ma certo il suo principale effetto secondario da attribuire, più che ai padri fondatori, ai loro più tardi epigoni. Lo afferma e lo denuncia, del resto, a chiare lettere il Club di Firenze, composto da illustri conoscitori dal di dentro della macchina comunitaria europea: bisogna cercare "di non approfondire ulteriormente - dice il Club VII


quella frattura tra opinione pubblica e classe politica che affligge il processo di integrazione europea piÚ di quanto si sia generalmente disposti ad ammettere" (v. il primo capitolo di Europa: l'impossibile status quo, Il Mulino ed. 1996). In questo senso, e soltanto in questo senso, va raccolta la provocazione di Dahrendorf secondo il quale il problema dell'unione monetaria distoglie da molte altre questioni e "sottrae tempo ed energie a coloro che dovrebbero occuparsi di cose piÚ importanti". Diciamo, piuttosto, che senza dare tempo ed energie anche ad altre questioni importanti, il problema dell'unione monetaria può ben alimenta-' re un assai pericoloso effetto boomerang.

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.j. Gli ultimi cinquant'anni di un secolo b reve* di Fabio L. Cavazza

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rima di guardare al futuro, che non mostra il suo volto perché se ne sta raggomitolato in grembo al presente, permettetemi di dirvi qual è la memoria che ho dei 50 anni che coincidono con la vita di Humanitas. Per quel che riguarda il regno di Cesare - politica ed economia, Memoria e cultura e società - ho memoria di tre eventi epocali che gettano futuro una luce senza la quale, per me, non è possibile leggere e interpretare realtà e fenomeni che si sono dipanati nel mondo e in Italia nell'ultimo mezzo secolo. Ilprimo dei tre è l'avvento dell'era nucleare, subito seguita dalla costruzione di un equilibrio politico fondato sulla bipolarità del mondo. Non c'è stato evento politico ed economico, culturale e sociale, che non ruotasse intorno ai due assi di Washington e Mosca. Conoscevamo le minacce inerenti a questo assetto bipolare, ma sapevamo anche che ben difficilmente le minacce si sarebbero convertite in rischi. Un economista di Chicago, Jacob Viner, fu uno dei primi, se non il primo, nel settembre del 1945, a intuire che non poteva esserci una guerra nucleare preventiva e che, pertanto, intorno al nuovo assetto di forze si sarebbe costituito un nuovo equilibrio politico. E così avvenne. Dietro al paravento delle opposte ideologie, si costituì un equilibrio nucleare fondato sulla presunzione che ciascun contendente, se colpito per primo, avrebbe mantenuto una capacità di risposta sufficiente a distruggere l'altro. Caduto il Muro di Berlino e ammainata la bandiera rossa sulle guglie del Cremlino, l'equilibrio bipolare è andato in frantumi. Dett6 per

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inciso: in virti di questo equilibrio l'Europa è vissuta per tutti gli anni della "guerra fredda" in pace totale nel conforto di una serra ben riscaldata, ricca, contenta e irresponsabile. Non avendo altra scelta, alcuni uomini di genio spinsero l'Europa ad unirsi. Poiché continua a non avere scelte è probabile che giunga al termine di questo cammino. In tal caso, chiuderà per sempre il vecchio libro dove stava scritta una storia di guerre intestine e di laceranti devastazioni per aprirne un altro le cui pagine sono però ancora bianche. Bianche di parole, perché nessuno' si è ancora esercitato a immaginare quale racconto dovrà essere scritto. L'irresponsabilità in cui l'Europa è stata tenùta per mezzo secolo ha affievolito, se non al momento estinto, le sue capacità di assumersi responsabilità non di leadership, ma almeno di cogestione degli affari internazionali. Ne offre testimonianza la vicenda jugoslava.

In una serra al caldo e senza scelte

Il secondo evento capitale è il lungo ciclo economico che ha prodotto ricchezza, benessere, oggetti e consumi in quantità mai sperimentate dall'umanità nella sua storia. Il ciclo vero e proprio terminò nell'agosto 1971, quando Nixon pose fine al regime dei cambi fissi e alla convertibilità del dollarò in oro. Lo stesso meccanismo keynesiano che ne era all'origine sembra essersi inceppato. Come il mondo vaga alla ricerca di un nuovo equilibrio politico - mentre la disponibilità di testate nucleari si diffonde pressoché incontrollata -, così vaga alla ricerca delle modalità di controllo di un sistema economico che però funziona secondo leggi, ritmi ed esiti la cui comprensibilità non è stata ancora compiutamente intesa e razionalizzata.

Una ricchezza senza controllo

Il terzo e ultimo evento epocale è da vedere nell'avvento di tecnologie - e sto parlando del computer, dell'informatica, dei sistemi di comunicazione - la cui caratteristica fondamentale consiste nel fatto che per farle funzionare non occorre "know-how". Se non c era know-how ,la produzione di acciaio con il forno Bessemer o quella dell'estratto di carne Liebig non funzionava. Proprio a causa di questi motivi c'è stata, a mio avviso, nel periodo in cui s'è diffusa in Europa la rivoluzione industriale, una corrispondenza fra i gradi di diffusione di quel "know-how" e le forme gerarchiche di stratificazione sociale che appunto presero ad apparire nel tard3 Ottocento.

Progresso senza know-how


Oggi si usano le nuove "amichevoli" tecnologie ignorando le complessità che si celano dietro alla memoria del computer o al funzionamento di un satellite. In realtà, qui ci troviamo di fronte alla grande mistificazione che è prodotta su scala planetaria delle nuove tecnologie: l'accessibilità delle nuove tecnologie fa dimenticare che l'acquisizione di know-how attraverso processi formativi, anche a livello di mestieri, è pur sempre, e più che mai, necessaria. Se, dunque, il primo effetto prodotto dalle nuove tecnologie è la diffusa convinzione che abbia cessato di esistere una relazione di necessità fra produzione di ricchezza e acquisizione di know-how, il secondo è la nascita del mondo di una sola, grande e omogeneizzata classe sociale unificata dai consumi di massa che, appunto, ritiene di poter usare nella più crassa ignoranza le moderne tecnologie. La conseguenza è presto detta: sono saltati i vecchi meccanismi che davano vita ai processi di stratificazione sociale e quindi alla formazione dei ceti sociali. Negli stessi anni in cui sono andati miscelandosi insieme società del benessere, consumi di massa e tecnologie dell'informazione, dando luogo a una sola, vasta e omogeneizzata classe sociale, si è frantumato il primo equilibrio politico dell'era nucleare. Il risultato è stata l'apparizione di una serie di crepe, di linee di frattura che stanno gettando o hanno gettato in crisi, e talora nel caos, quasi tutti i Paesi, dell'occidente e non. Queste linee di frattura sono uguali o simili ovunque, anche se si manifestano in forme diverse. Insomma, smantellata l'impalcatura della «guerra fredda" e allentate le briglie al mondo, è entrato in crisi il concetto stesso di legittimità e quindi di esistenza dei sistemi politici nazionali. In breve, il mio intervento riguarda le crepe che si sono aperte nelle nostre società; in quella italiana, ma anche in altre, perché le linee di frattura sono comuni a molte società. Ovviamente, ciò che può cambiare da Paese a Paese è la loro intensità e profondità, come può cambiare il loro potenziale esplosivo: esso si forma quando le nuove linee di frattura s'innestano su altre preesistenti. Infatti, ed è ovvio, in ragione della loro storia, alcune società sono più deboli e frammentate, altre sono più coese e più struttu-

Fine dei ceti sociali

e fine di sistemi politici

Le linee di frattura...

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rate; ma il fatto è che tutte sono esposte più o meno alle stesse linee di frattura. Queste partecipano della medesima origine, nascono dallo stesso travaglio: la fine del mondo bipolare che si era eretto a guardiano dell'era nucleare. Per esempio, sono convinto, e l'ho scritto nel '92 per una rivista trimestrale americana, che il sistema politico italiano, pur sotto l'impatto della mutazione culturale indotta dalla società dei consumi e dalle nuove tecnologie, non sarebbe tanto rapidamente crollato se non si fosse rotto il primo equilibrio politico dell'era nucleare. Allora, smantellate le impalcature della "guerra fredda" sono di- ... locali e ventate visibili le linee di frattura che già stavano rendendo peri- globali colanti gli edifici degli Stati nazionali, come le loro società. Queste linee di frattura non risparmiano i Paesi europei, per limitarci a questi, ma si estendono anche agli Stati Uniti, cioè al Paese uscito vincitore dalla "guerra fredda". Toccano, infine, se pure con diverse modalità, i Paesi asiatici e gli, altri più po'eri del mondo. In breve, la specialità delle linee di frattura è quella di apparire delle specialità locali e al tempo stesso di appartenere a un fenomeno, di esprimere una tendenza che è globale. Se non si coglie questo rimpallo fra globale e nazionale, si rischia di non capire sia il contenuto reale sia la dinamica delle linee di frattura. I punti La prima di esse che vorrei portare alla vostra attenzione si può formulare dicendo che all'interno di ogni patria sono sorte altre centrali patrie. In altre parole, il punto centrale, o, meglio, i punti cen- inascoltati trali dove il potere deve poter coagularsi per poter essere esercitato, e ciò secondo un'architettura di pesi e contrappesi che evitano le tirannie e mantengono le libertà, sembrano aver perduto non solo la loro capacità di funzionamento, ma anche la loro 1egittimazione. Nessuno li sta più ad ascoltare. La conseguenza è l'entrata in crisi dei valori di lealtà. In Italia, il fenomeno si è sovrapposto al vecchio dualismo Nord-Sud e appare più grave che in altri. Negli Stati Uniti, il meccanismo del "melting pot", grazie al quale gli immigrati diventavano e si sentivano leali cittadini americani ha smesso di funzionare. Oggi, negli Stati Uniti ci sono le l3atrie afroamericane, messicane, e via via tutte le altre, ognuna con il suo lamento e con il suo vittimismo. In California, un gruppo che rappresenta i messicani parla XII


come Bossi. In un manifesto, quei californiani di origine messicana hanno scritto che bisogna liberarsi «degli europei fascisti e razzisti che si sono insediati nella nostra patria; l'obiettivo di questa etnia europea è quello di erodere i diritti democratici della maggioranza che vive in questa America occupata dai bianchi, i quali ci hanno colonizzato". Le molteplici patrie etniche hanno dato il via ad altre patrie: sessuali, teosofiche, e culturali di ogni ordine e tipo. Tutte pretendono una lealtà che precede quella che si deve avere verso la nazione intesa come civilizzazione, lingua e storia. Poiché nessuna delle patrie vuole essere offesa, si è inventato il linguaggio "politically correct". L'arco delle nuove patrie è vastissimo: trovano una loro sublimazione nelle lealtà a queste patrie tanto il terrorismo di quegli americani che, armi alla ma- Il sorgere di no, secedono nel Montana, o di quei giapponesi che spargono i tante patrie gas nella metropolitana di Tokio, quanto gli interessi economici più banali: i commercianti del sud francese trovano una bandiera nei movimenti etnici alla Le Pen; gli industriali del, nord-est trovano nella Lega il paravento che permette loro di continuare a non pagare le imposte. La domanda è: leali a chi? a che cosa? in quali termini? a quale Italia? a quali Italie. Possiamo parlare di una Repubblica italiana, o francese, o tedesca o americana forti nei loro valori? Che seguito hanno? Hanno un seguito che vive per inerzia e per abitudine, o hanno un seguito che nasce da intima, sofferta adesione? La seconda linea di frattura è che si sono inceppati i meccanismi La forbice si di distribuzione della ricchezza. In ogni Paese la tendenza genera- è allargata le è che i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. Inoltre, i poveri si dividono in due categorie; i finti poveri che vivono per scelta sui cascami (i quali, però, sembrano ora essere in progressiva riduzione) della società del benessere e i veri poveri, assai spesso nascosti alla nostra vista i quali, specie nei Paesi occidentali di più antica industrializzazione, non riescono ad assorbire le modalità di funzionamento della nostra post-moderna economia dei servizi. In altri Paesi, la frattura è tra élites ricche e spregiudicate e poveri che sono tali per ragioni che ineriscono a motivi diversi, quali il permanente sottosviluppo economico, una secolare abitudine alla soggezione sociale, o la secolare assenza di processi )UII


formativi. Essi costituiscono la maggioranza della popolazione. È inevitabile che prima o poi sischierino con qualcuno o per qualcosa. La scelta che i poveri compiranno in almeno cinque Paesi Pakistan, India, Indonesia, Brasile e Messico - influirà in modo cruciale sugli eventi politici dei primi 30 anni del )OU secolo. Vengo ora alla terza linea di frattura. Con l'economia dei servizi sono saltate le gerarchie della società industriale. Non c'è più, come scriveva Marx, la ordinata gerarchia dei "sovrintendenti dei caposquadra e degli operai". Parti sempre più larghe del sistema di lavoro richiedono non solo know-how, ma anche una sua applicazione, in termini di lavoro reso e fornito, che esige indipendenza, gestione personale del proprio talento e della propria specializzazione. Cioè, autonomia, intraprendenza, auto-disciplina e Più auto-responsabilità. Viceversa, larghissimi strati delle nostre so- knowhow e cietà, in Italia, in Europa e nel mondo, continuano a concepire il auto-respon«,, ,, sabilita lavoro come posto e luogo ove si accetta di essere eterodiretti in cambio di un salario. Questi "posti" e questi "luoghi" ci sono ancora, ma possono funzionare, specie nel settore dei pubblici servizi, se gli addetti riequilibrano l'eterodirezione con l'intra-direzione, cioè con l'auto-responsabilità e l'auto-decisione entro sfere di competenza ben definite. La vera frattura sta più fra la moderna capacità di rendere un lavoro auto-responsabile, da un lato, e, dall'altro, il non-lavoro che viene reso a causa della persistenza delle antiche abitudini (o delle nuove per cui il know-how è ritenuto inutile), e assai meno fra lavoro e disoccupazione. La quarta linea di frattura riguarda l'opposizione che si è creata, quasi in ogni Paese, fra lo sfondo "normativo" - leggi e regolamenti amministrativi - e i modi di funzionamento dell'economia moderna. La quale progredisce, come diceva un bello spirito, a patto di accettare che si costruisca il bullone nello Stato di Kerala in India e si disegni il buco a Brescia o a Mannheim. L'ambiente normativo in cui opera l'economia delle nazioni è quasi ovunque arrugginito, se non obsoleto. Il Welfare tedesco e il sistema di relazioni industriali fondato sulla cogestione sono ormai degli organismi affetti da sclerosi burocratica che genera costi Leggi versus producendo sempre meno utili sociali. In Italia, l'ambiente eco- economia

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nomico è caratterizzato da intrusioni intollerabili, legittimate da 150.000 leggi vecchie e incomprensibili nella loro prosa. Il nostro quadro normativo non disciplina niente ed è soio un fattore che produce inefficienza e perdita di tempo. La pubblicazione delle prime, vere leggi fiscali italiane, cioè dileggi che introducono il dovere di pagare le tasse, risale al 1972. È un miracolo che gli italiani paghino tante imposte. Nessun politico italiano lavora sulla scia di questo miracolo per consolidarlo e per estenderlo. Nessun politico sta elevando questo miracolo per consolidarlo e per estenderlo. Nessun politico sta elevando questo miracolo fiscale a livello di un valore sociale condiviso, affinché i buoni e i disciplinati si sentano premiati e i cattivi si sentano messi nell'angolo, in castigo dietro la lavagna, con le orecchie d'asino sulla testa, come Pinocchio. Il nostro personale politico non si stanca di lavorare sui cattivi, cioè sugli evasori, con prevedibili scarsi risultati, mentre invece bisogna lavorare sui buoni ed esaltarli e premiarli, anche con atti simbolici, se si vuole ridurre il numero dei cattivi. Mi si perdoni il gioco di parole, ma la quinta linea di frattura è data dalla progressiva scomparsa di una linea di frattura che viceversa dovrebbe essere molto marcata, e invalicabile. Questa linea di frattura è la crescente indistinguibilità nei confini fra economia lecita ed econòmia criminale. Non esistono più, o si sono Economia fortemente indeboliti i contrassegni di rispettabilità sociale in legale ed economia virtù dei quali i due mondi erano e se ne stavano separati. La scomparsa di questa vecchia linea di frattura ha generato nuove criminale linee di frattura: una di queste, ad esempio, riguarda il tema dell'affidabilità e della credibilità negli affari, specie quando questi viaggiano su reti informatiche fra persone che comunicano senza mai essersi incontrate. Un altro esempio riguarda la frattura che si è creata fra la lettera della legge e la discrezionalità della lettura che ne può essere fatta. A ciò si aggiunga un'ulteriore frattura: in Occidente, un sesto o un quinto del mondo in termini di geografia, vige una tradizione giuridica che non è riconosciuta dagli altri cinque sesti o quattro quinti del globo. La protezione dei diritti di proprietà è, come dicono i venditori di automobili, un "optional".

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La sesta linea di frattura corre fra la società dell'informazione totale e la società della diseducazione e della non-formazione totale. È banale dirlo, ma l'informazione non produce sapere; anzi, insinuandosi in modo totale, genera un'ignoranza, della quale, tuttavia, si perde consapevolezza. Il mito dell'informazione totale ha oscurato la realtà del sapere di non sapere, cioè della necessità d'imparare con mentre critica. Ne consegue che non sappiamo quasi più che cosa insegnare negli stabilimenti ove s'imparte l'educazione. I cosiddetti mass-media hanno occupato le società. I mass-media sono la vita e la vita, per i mass-media, è intrattenimento, è scherzo, è divertimento o al massimo è richiamo superficiale a certi buoni sentimenti che, più di altri, si prestano a una rappresentazione attraverso i media. I mass-media pretendono di farci vivere in una sorta di universalismo governato dai luoghi comuni. I flaubertiani Bouvard e Pecuchet ritenevano, con ragione, che fosse impossibile sollevare obiezioni nei riguardi di un luogo comune. D'altra parte, noi sappiamo che ciò che è intelligibile dev'essere distinto. I luoghi comuni non distinguono e la società di massapiù le moderne tecnologie stanno consumando la intelligibilità del mondo. La linea di frattura è fra informazione totale e arretratezza, se non primitivismo morale e intellettuale sociale e cognitivo. In altri termini, la società del benessere, dei consumi di massa, la società dei computer sta distruggendo il patrimonio umano che ne dovrebbe assicurare la continuità e lo sviluppo. Basta guardare alla scuàla italiana - dove nemmeno più si sa come formare una persona a un'arte o a un mestiere - per rendersi conto della profondità di questa linea di frattura. Che può essere anche formulata in altro modo: la modernizzazione, la universalizzazione dei costumi convive con una vasta arretratezza culturale e morale. La settima e ultima linea di frattura riguarda la separazione fra giustizia, il rendere giustizia, e il dilagare della discrezionalità di chi giudica. È un tema che ho in parte evocato sopra a proposito della indistinguibilità fra economia lecita ed economia criminale. Intanto, se si escludono i Paesi di stretta discendenza dalla cultura ebraico-greca-latino-cristiana, in tutti gli altri, colui che rende giustizia è un politico o un burocrate del potere esecutivo che

I figli ciechi dell'informazione frettolosa

Costumi

moderni, cultura arretrata


agisce su imperscrutabili basi politico-discrezionali. Per dirla con altre parole, non c'è distinzione e divisione fra i poteri. Ma anche i Paesi dell'Occidente, culla della divisione dei poteri, ignorano in pratica questa distinzione. In Italia, nessuna voce grida allo scandalo quando un magistrato viene mandato ad amministrare un organo regolatore che appartiene alla sfera dell'esecutivo o quando il parlamento elegge nel suo seno una commissione che invade un terreno che è proprio degli amministratori di un'azienda (è il caso della Rai). Nei nostri Paesi, in Italia ma anche in Occidente, ci sono due anomalie: la tradizionale divisione fra esecutivo e giudiziario non corre più sul filo dei principi, ma sul filo della concorrenza politica e di potere; inoltre, i tempi con cui si rende giustizia si sono allungati al punto da rendere inefficace le decisioni del giudice. In Italia, la lentezza della giustizia e la velocità della mafia e del "racket" hanno fatto strage dei diritti di proprietà. In Italia, di queste linee di frattura ci si occupa poco. Sono più gravi che altrove, o assumono una forma più drammatica che altrove perché la società italiana è poco coesa, poco strutturata. È una societa debole, che ha preferito servirsi delle armi del familismo amorale" e del "il mio me lo difendo io" per badare ai propri interessi e per organizzare su strette basi di convenienza individuale la propria vita sociale, piuttosto che darsi regole, principi e strumenti collettivi. I politici, dal canto loro, squassati dalla caduta repentina del vecchio regime, si rifugiano nelle rappresentazioni verbali e pseudosimboliche, piuttosto che darsi alle opere. Non è separandosi o secedendo, non è facendo catene umane o di palloncini, non è scendendo il Po o andando per nave da Marsala a Genova (si tratta di iniziative che sembrano opposte ma che in realtà sono le facce della stessa medaglia) che si mette a posto il Paese. Soltanto le opere possono guarire le linee di frattura. È più importante metter fine alle lotte fra notabili arroccati negli enti degli acquedotti meridionali per poi raddoppiare la disponibilità pro-capite di acqua nel Meridione che disquisire su federalismo si o no. Facendo violenza ai suoi sentimenti repubblicani, Cicerone scrisse che la sua Repubblica, al punto in cui si trovava, lacerata e

Due poteri non proprio separati

Agire, non disquisire!

XVII


spaccata, avrebbe forse avuto bisogno di un «rector". Che, infatti, nelle vesti del giovane Ottaviano non tardò ad arrivare. Le linee di frattura che ho ricordato non sono di buon auspicio per una vita sociale fondata su libertà riconosciute e condivise e questo in Italia, in Occidente e nel resto del mondo. Non possia- Il mo negare al mondo e a noi il diritto-dovere di sperare e, magari, pessimismo di confidare che le astuzie della storia si presentino, una volta della tanto, con volto benigno, ma non si può non essere pessimisti o ragione... almeno molto preoccupati. Anche perché la società della informazione totale, nella sua serena e appagante imbecillità, ha arrugginito i meccanismi della catarsi.

* Nel settembre 1996 si è tenuta a Desenzano sul Garda la celebrazione dei 50 anni della rivista Humanitas della Editrice Morcelliana di Brescia, una delle più colte del-mondo cattolico. Fabio Cavazza pronunciò in quell'occasione l'intervento che pubblichiamo nella versione che egli stesso mi diede a Milano, alla fine dello stesso mese, in occasione della presentazione del mio libro Volontariato e Fondazioni presso il Centro Congressi Cariplo (presentazione alla quale egli partecipò come discussant). Una versione più corretta è stata pubblicata a febbraio da Humanitas. Due mesi dopo Fabio è scomparso improvvisamente, colto nel fervore di un'opera di ricerca che molto lo appassionava: la storia del Banco Ambrosiano. Free lance quanto altri mai, curioso conoscitore del mondo imprenditoriale e politico con il quale ho sempre interloquito in spirito di piena indipendenza, organizzatore di cultura - ed in questa veste uno dei protagonisti della nascita del Mulino - egli è stato presente in molte delle libere iniziative che si sono riconosciute nel modello delle grandi fondazioni europee ed americane. Su questo terreno il nostro sodalizio ha trovato le sue più forti ragioni. Anche per "queste istituzioni" la scomparsa di Cavazza è una grande perdita. (S.R.)

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Cittadini vs. Comuni: la pace arriva in fretta di Barbara Nepiteii

inquantamila fascicoli di contenzioso aperti presso l'Avvocatura, che si incrementano ogni anno del 10% (sono circa 5 mila i casi che si aggiungono annualmente). Trentamila cause civili pendenti, nei diversi gradi di giudizio, all'inizio del 1996. Un tempo medio, per compiere l'iter dei tre gradi di giudizio, di 12 anni. È questa, espressa in cifre, la situazione che ha fatto scattare il campanello d'allarme al Comune di Roma e che lo ha indirizzato verso una soluzione innovativa: l'in&oduzione di forme conciliative che permettano di raggiungere risultati soddisfacenti per le parti, in tempi ragionevoli. Una strada che, nel settore della Giustizia, da più parti si sta cercando di percorrere per cercare di alleggerire il numero di cause pendenti davanti ai tribunali e ridurre, quindi, i tempi di definizione delle controversie (basti pensare alla costituzione di "Camere di Conciliazione" su iniziativa dell'Ordine forense oppure alla istituzione della figura del giudice di pace). La definizione di controversie in tempi rapidi diventa ancora più importante quando si tratta di questioni che riguardano importi relativamente ridotti e questo non solo per venire incontro alle esigenze del cittadino ma anche per snellire il lavoro dell'Amministrazione locale.

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Ad esempio, secondo stime fatte dall'Assessorato alle politiche dei servizi giuridici del Campidoglio da cui dipende l'Avvocatura, circa la metà dei fascicoli aperti riguarda controversie di valore limitato. Inoltre, anche se la maggioranza delle 5 mila cause annuali sono relative a diritti che non possono essere, per legge, oggetto di transazione, in quanto indisponibili (come il conteniioso in tema di appalti, di abusivismo, di urbanistica o di autorizzazioni commerciali) e quindi devono seguire la strada delle procedure ordinarie, tuttavia molte altre sono di contenzioso cosiddetto "minore": riguardano diritti disponibili e l'importo in causa è ridotto. Molte di esse sono relative a richieste di risarci-

Piccole controversie crescono

XIX


mento di danni a causa di buche e dissesti del manto stradale o di macchie d'olio sempre sulla strada, ma ce ne sono anche altre in materia locativa e in cui il Comune è parte attiva. A questo tipo di controversie si aggiungono le opposizioni che i cittadini fanno a sanzioni amministrative del Comune (circa 1.500 all'anno di cui l'80% riguarda le contravvenzioni al Codice della Strada). IlComune di Roma, primo fra tutte le Amministrazioni locali, Il ruolo della ha quindi i su iniziativa dell'Assessore alle politiche dei ser- Camera di decso, , , vizi giuridici.. 1 avvocato Pi ero Sandulli, di . sperimentare 1di. Conciliazione uso procedure di conciliazione per risolvere alcune tipologie di controversie minori: quelle che hanno per oggetto diritti disponibili, su beni mobili, di valoré non superiore a 25 milioni. Il Comune ha stipulato, nel gennaio 1996, un protocollo d'intesa con la Camera di Conciliazione di Roma, istituita nel 1995 su iniziativa del Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori di Roma e con la collaborazione della Corte di Appello di Roma, e contestualmente ha istituito presso l'Avvocatura uno "Sportello di conciliazione". Entrambe queste iniziative sono state formalizzate il 24 giugno 1996, con una apposita deliberazione, dal Consiglio comunale. In sostanza, grazie all'accordo, il Campidoglio si avvale, in via sperimentale, delle funzioni di composizione conciliativa extragiudiziale svolte dalla Camera per comporre le controversie con le caratteristiche summenzionate. L'iter inizia presso lo Sportello Inizia l'iter di conciliazione. È lì che il cittadino interessato deve rivolgersi perchè possa essere preparata e presentata l'istanza di conciliazione che viene poi depositata presso la segreteria della Camera di conciliazione. Naturalmente, l'istanza di conciliazione deve essere sottoscritta da entrambe le parti. Si può ricorrere a questa procedura anche per definire controversie già pendenti di fronte all'autorità giudiziaria. Comunqùe, la decisione di tentare una composizione extragiudiziale non fa perdere l'ordine dibattimentale, nel caso in cui non si arrivi a un accordo. Per quanto riguarda i tempi, entro sette giorni dal deposito dell'istanza presso la Camera viene fissata la data del procedimento, e comunque, l'iter complessivo


dell'istanza di conciliazione non deve mai superare i 40 giorni, a 40 giorni per decorrere dalla data di protocollo della domanda avanzata dal un accordo cittadino. La Camera, sentite le parti e le rispettive ipotesi di conciliazione, formula una proposta di transazione che, naturalmente, può essere accettata o respinta dalle parti e non preclude la possibilità di adire o continuare le normali vie giudiziarie. Se accettata, il Comune è impegnato a pagare le somme dovute entro 60 giorni dal momento in cui l'accettazione della conciliazione diventa esecutiva. Infine, viene garantito un "costo zero" sia ... e tutto a costo zero per l'Amministrazione che per il cittadino, Il Campidoglio ha deciso di ampliare il più possibile il campo di utilizzazione di questo nuovo strumento. Infatti, la delibera comunale prevede l'obbligo di introdurre nei contratti, in particolar modo in quelli d appalto, una «clausola conciliativa7 che comporti per la controparte l'obbligo di partecipare, se necessario, alla procedura conciliativa. Naturalmente questo è possibile solo quando si tratti di diritti disponibili. Inoltre, l'Amministrazione comunale può attivare direttamente la procedura conciliativa quando il Comune vanta il diritto a un risarcimento di danni da parte di terzi. Infine, il Campidoglio non esclude la possibilità, se la procedura dovesse funzionare, di estenderla anche alle Aziende del Comune (Acea, Ama, Atac-Cotral). Secondo le stime dell'Assessorato, il ricorso alla conciliazione po- Iprimi trà portare allo smaltimento del 20% delle controversie in corso risultati ed evitare l'aprirsi di un sesto di nuove cause. È presto per dire se queste stime troveranno conferma, tanto è vero che nella delibera viene fissato al 31 dicembre di quest'anno il termine del periodo sperimentale e la verifica dei risultati raggiunti. Tra l'altro, è soltanto dall'autunno dello scorso anno che Sportello e procedura di conciliazione hanno cominciato, concretamente, a funzionare. Tuttavia si può già dare qualche cifra. Sono oltre mille le domande presentate a fine 1996, di cui 57 sono già state depositate presso la Camera. Di queste, sono 12, finora, le vertenze discusse in Camera di conciliazione e altre 14 sono in calendario per il mese di gennaio. Delle 12 prese in esame, cinque sono state definite (una in via preventiva), una è an.


cora in discussione, le altre non sono state conciliate e tornano all'iter dibattimentale ordinario. La proposta accettata dalle parti è, in quattro casi, di valore compreso fra le 200 mila e le 600 mila lire. In tutte le vertenze discusse i danni lamentati riguardano problemi stradali, soprattutto buche. Il valore di conciliazione è stato lievemente inferiore a quello stimato in partenza dal cittadino. Ma l'idea che la vertenza finirà presto fa superare questa piccola delusione.

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La "Repubblica dei Comuni": una nuova cultura della gestione di Sergio Ristuccia

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l confronto fra Comuni, in spirito di collaborazione o anche per sana emulazione è un'attesa che l'esperienza degli amministratori alimenta, giorno per giorno, anche al di là delle stesse differenze politiche fra le amministrazioni. È questa la prima conseguenza, non sempre dichiarata ma reale, del progressivo spostamento in sede locale dei riferimenti istituzionali del buon amministrare: dalle lontane istanze di uno Stato centrale che ha continuato lungo anni e anni a dettare, con sfrenata periodicità, le regole dell'amministrazione locale alle istanze, organizzate o disorganizzate, ragionevoli o talvolta aggressivamente esigenti, della cittadinanza che valuta, chiede o pretende i servizi. Soddisfare i bisogni dei cittadini, rendere efficiente l'azione pub- Le parole blica, ridurre gli sprechi, fare trasparenza sui procedimenti, rin- d'ordine novare i controlli, assicurare una maggiore professionalità dei dirigenti e così via elencando; chi fra noi non ha sentito almeno una volta queste «parole d ordine ormai divenute di uso comune? E quante volte gli addetti ai lavori si sono trovati a verificare (e a lamentare) la grande distanza fra queste parole d'ordine, il dettato normativo che in qualche modo le recepisce e i rapporti quotidiani fra cittadini/utenti e pubbliche amministrazioni? La questione è stata analizzata da mille angolazioni e punti di vista e nel concreto è stata affrontata con risultati positivi in alcuni casi, con assenza di risultati (quando non addirittura con risultati negativi) in molti altri. Ciò è dovuto alle caratteristiche intrinse che delle fasi di cambiamento, durante le quali diviene evidente e palpabile il divario fra i propositi e le realizzazini. Infatti, quando si innesta un processo di cambiamento su un terreno non fertile o non ancora adeguatamente preparato (per il prevalere di comportamenti sedimentati e di interessi consolidati), può essere necessaria una grande fatica. Si tratta di aiutare a legittimare la funzione di governo dell'Ente locale che gestisce e


realizza la "democrazia del quotidiano". Non sembra fuori di luogo affermare che esistono - e che divengono sempre più pressanti - non solamente un bisogno di misurazione delle gestioni degli Enti locali, volto a individuare con sempre maggiore precisione andamenti finanziari, aree di crisi o di eccellenza e a verificare se nel corso del tempo tali situazioni siano migliorate o peggiorate, ma emerge anche la necessità (e l'opportunità) di procedere ad un confronto fra gestioni di enti diversi ma omogenei. Non è infatti un mistero per alcuno che una delle operazioni più difficili da realizzare nel settore degli Enti locali è quella di riuscire a raccogliere i dati che consentano di esprimere un giudizio sulla bontà dell'azione amministrativa, soprattutto se rapportata a quanto messo in opera da gestioni di altro tipo. La difficoltà nasce dalla considerazione che non esiste un'abitudine al confronto e, magari, all'emulazione fra Enti locali. Il campanilismo con le sue sfide rituali e simboliche, non ha sempre permesso una vera e propria benefica emulazione. L'opportunità di procedere ad una misurazione e ad un confronto non nasce dal capriccio di qualche osservatore o studioso ma è conseguenza della riallocazione delle responsabilità e dei poteri e, conseguentemente, delle risorse che devono essere destinate alle autonomie locali e da queste gestite. In questo senso, c'è stato un grande fatto nuovo, di per sé tale da enfatizzare il rapporto di causa ed effetto, fra realizzazione del confronto e buona gestione amministrativa: l'elezione diretta del sindaco da parte della cittadinanza. Rafforzando i poteri di conduzione dell'amministrazione delle autonomie comunali nelle mani dei sindaci, la nuova normativa• elettorale ne ha accresciuto, corrispondentemente, la responsabilità politica verso la cittadinanza. Tanto più che è del pari cresciuto il pesa della fiscalità locale: i sindaci - ricordiamolo - sono anche decisori in materia fiscale. A che punto è la creazione di cultura della gestione adeguata alla nuova situazione istituzionale? Per rispondere partiamo da un'osservazione del sindaco di Napoli, Bassolino: "questa della dimensione comunale è l'esperienza istituzionale più importante nell'Italia degli ultimi anni. Sarebbe molto interessante vedere questa XXIV

Come realizzare la «I aemocrazia del quotidiano"

Misurare e confrontare


novità anche dal punto di vista delle piccole e delle medie città, non solo delle grandi. Si scoprirebbero cose interessantissime". Egli vede, innanzitutto, una rinascita dell'orgoglio delle città fat- La rinascita to di spirito civico, molto più che in epoche appena precedenti. dello spirito civico E cosi Bassolino vede riapparire il lungo filo della storia italiana" che è costituito dalla vitalità sempre rinnovata delle città e dei Comuni. Qui si ritrova il tessuto connettivo fondamentale de! nostro Paese. Se tutto ciò è vero (ed è assai difficile non condividere le valutazioni di Bassolino, anche al di fuori dello spirito di identificazione con il fenomeno che un protagonista non può non avere), bisogna trarre dalle esperienze in corso le necessarie indicazioni in termini di cultura della gestione. Le linee di elaborazione di questa cultura passano necessariamente, occorre ripeterlo, lungo l'iniziativa delle stesse amministrazioni più liberamente costruita e realizzata. Non si tratta di rivendicare agli Enti locali facoltà di innovazione organizzativa e di scelta, sul mercato, dei contributi professionali che possono servire secondo seri criteri di selezione qualitativa - a rinnovare le macchine amministrative. Si tratta di costruire una rete che consenta di mettere in comune il massimo delle informazioni e criteri di utilizzazione che siano dettati al massimo delle esigenze concrete dell'amministrare e della necessità di dare risposta adeguata alla domanda dd cittadini. Questa domanda sociale non è più la rivendicazione indifferenziata di servizi che è ben pronta a passare anche attraverso i percorsi delle amministrazioni clientelari. I cittadini sanno di essere I cittadini sempre più dei contribuenti: quanto più vengono limitati i trasfe- P' « rimenti finanziari dello Stato centrale agli Enti locali tanto piu quindi sceigono stringente, quando è necessario, diviene il ricorso alla capacita contributiva dei cittadini. La prospettiva, dunque, si capovolge. Il vincolo di bilancio lo pongono i cittadini ed è da questo punto fermo che occorre considerare i criteri della gestione. Non più soltanto criteri dettati normativamente dall'alto, ma anche concreta sperimentazione di modi e criteri suggeriti dal confronto e dalla comparazione. Un processo orizzontale più che dall'alto in basso qual è stato finora. MATA


Processo tale da cancellare l'effetto finora indotto che anche le risposte organizzate associativamente dai Comuni hanno spesso avuto il senso di costruire sistemi di dati per soddisfare richieste centrali, di per sé riduttive o costruite per rendere unitario o unificabile ciò che non sempre sopporta fenomeni di semplificazione centralistica. La raccolta, l'elaborazione, la lettura dei dati sono invece, funzioni che in assai maggior misura devono essere governate, in ragione delle esigenze della buona amministrazione così come emergono nell'esperienza concreta. Dalla percezione di questo profondo riorientamento del sistema (o meglio: dei sistemi) delle amministrazioni locali nasce Polis Metrica, un insieme di servizi concepiti quale strumento tecnico, gestito da professionisti indipendenti, per supportare la necessità di confronto utili agli amministratori. Di qui, la crescente caratterizzazione delle nascenti banche dati come banche operanti per aree geografiche determinate dagli Enti locali aderenti. L'esigenza di confronto nasce dalla libera scelta dei Comuni. Del resto, è attraverso scelte di questo genere che si contribuisce a creare quella cultura della gestione responsabile ed efficace che sarà uno fra gli elementi costitutivi - e non certo di poco peso del tessuto connettivo della "Repubblica dei Comuni" di cui parla Bassolino nel libro omonimo (Ed. Donzelli, Roma 1996). Tessuto connettivo fondamentale, in particolare, per i Comuni di media dimensione.

Così nasce Polis Metrica


Ragionando di Bicamerale. Cronaca di un dibattito a Cortona di Massimo Ribaudo

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ine gennaio 1997: la Camera in seconda lettura, come prima aveva fatto il Senato, approva la legge costituzionale che istituisce la Commissione Bicamerale alla quale è demandato il compito di modificare la seconda parte della Costituzione. La stagione delle riforme è cominciata. Ma si potrebbe anche dire che sembra non aver mai fine. E già i pessimisti prevedono che la Bicamerale farà la stessa ingloriosa fine delle sue illustri ma sfortunate consorelle: la "Commissione Bozzi" e quella "De Mita", (poi presieduta da Nilde Jotti in seguito alle dimissioni dell'ex leader democristiano). Carte, pareri, illuminanti disquisizioni: ma niente di più. Tutto fermo dal 1946, in Italia, dunque? Non lo crediamo. Così come non lo hanno ritenuto gli amici del Gruppo di Studio Società ed Istituzioni, l'anima associativa della nostra rivista, che, come ogni anno, hanno organizzato a Cortona il 9 e 10 novembre le loro Giornate di Studio. Questa volta, intorno al tema dell'allora costituenda Commissione Bicamerale. Il presidente del Gruppo di Studio, Sergio Lariccia, ha guidato la discussione che si è articolata in due fasi: la disamina sui problema generale del perché e delle modalità della riforma attraverso l'istituzione della Bicamerale e poi il dibattito sui contenuti possibili della stessa. La funzione di proposta dei temi di discussione, è stata affidata ad Alessandro Pizzorusso. Prima di tutto si è riproposto inevitabilmente il tema di che cosa Cosa si va a riformare, e quindi del valore della Costituzione. Testo andiamo a politico contenente dei valori, opzioni di base, indirizzi, o testo riformare giuridico di norme, precetti che agiscono direttamente sulla vita della comunità? Il nostro testo costituzionale presenta forse entrambe le caratteristiche e per questo se da un lato, quando la soXXVII


cietà cambia, determinati istituti vanno adeguati alla sua dinamica, dall'altro, non si è ancora ritenuto di dover procedere ad un mutamento rivoluzionario dei valori di base della nostra convivenza, tali da portare ad una "rottura" costituzionale con il passato. La Costituzione del 1947 ha così rappresentato un "simbolo" di discontinuità con il passato fascista tale da determinare una sua sacralita Questo per molti anni. Soltanto all'inizio degli anni Ottanta la presa di posizione più incisiva è quella di Giuliano Amato in "Una Repubblica da riformare" -' si comincia a parlare di modifiche al sistema della forma di governo, del rapporto tra Stato e partiti, etc. Si insedia la Commissione Bozzi per elaborare proposte di mutamento del sistema parlamentare, ma questa non giunge, come si è detto, a nessun risultato concreto. Lopera di riavvicinamento tra una società che si trasforma e la sua tavola di valori costituzionali viene realizzata dai giudici della Corte Costituzionale che provvedono ad eliminare dai codici e dal nugolo dileggi, le norme più scopertamente in attrito con quegli stessi valori. D'altra parte, come ricordato da Pizzorusso, le modifiche costituzionali di dettaglio, operate attraverso la procedura di approvazione di apposita legge costituzionale (ex art. 138), hanno sempre rivelato il loro corto respiro, come ad esempio la modifica dell'art. 68 sull'immunità parlamentare che, voluta sull'onda emozionale creata dalle inchieste del pool di Milano, mirava ad una riduzione dei previlegi per i parlamentari, finendo poi, al contrario, per ampliare sostanzialmente l'immunità degli stessi. Negli anni Novanta il tema si banalizza. Per legittimare qualunque presa di posizione si utilizza il termine riforma, cambiamento: senza neppure più dichiarare il contenuto, l'oggetto della riforma stessa. Il clima di acceso antiparlamentarismo successivo Parola alle inchieste giudiziarie del 1992, fa il resto. Con legge costitu- d'ordine: zionale n. 1 del 1993 si insedia una nuova commissione bicame- cambiare rale per la riforma della Costituzione. Il presidente designato, Ciriaco De Mita, si dimetterà presto a beneficio di Nilde Jotti. Cambiamento, cambiamento, cambiamento. A qualunque costo, sembrerebbe. E intanto le Camere si sciolgono e con loro la )O(WII


Commissione per le riforme. Referendum, legge elettorale maggioritaria. Vittoria del Polo, governo Dini, vittoria dell'Ulivo. Il problema resta. Ed in fin dei conti è uno solo. Come formare e rendere stabile una maggioranza di governo per tutta la durata della legislatura. Si è capito che non basta un sistema elettorale per realizzare questo. Quali meccanismi, quali rapporti di potere, quali "ingegnerie" istituzionali per creare una chiara dialettica tra maggioranza ed opposizione, dove la prima pensi a governare e la seconda a controllare l'operato del governo (salvaguardando i diritti della minoranza) e a proporre schemi alternativi per vincere alle prossime elezioni? La Commissione Bicamerale nata da pochi giorni e che in pochissimo tempo (entro il 30 giugno di quest'anno) dovrà generare i suoi "illuminati" frutti, nasce per elaborare progetti e portarli al voto del parlamento, per riformare "soltanto" la TI parte della Costituzione, quella che concerne l'organizzazione e la struttura dello Stato, per modificare, in particolare, la forma di Stato (rapporti Stato centrale-Regioni-Autonomie Locali), forma di governo (rapporti fra poteri dello Stato e soprattutto tra legislativo ed esecutivo), bicameralismo (competenze e rapporti tra Camera e Senato) e sistema delle garanzie (rapporti tra cittadino e sistema giurisdizionale, compreso il ruolo della Corte Costituzionale e della magistratura amministrativa e contabile). C'è dell'altro? Si. Tutto quello che viene ad inferire con tali aspetti, per esigenze di coordinamento e di razionalità giuridica. Quando e se la Bicamerale avanzerà un progetto o più progetti su tutti questi temi, il Parlamento dovrà votarli attraverso due successive deliberazioni emanando un voto unico su tutti gli articoli del progetto, senza la possibilità di proporre emendamenti, e successivamente si dovrà dar luogo a referendum di approvazione delle riforme votate per la cui validità vi dovrà essere la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto. Fin qui la trama de! film. Un thriller, naturalmente. L'elenco è tale da far tremare le vene ed i polsi a qualsiasi cultore del diritto costituzionale ed a chiunque, per spirito illuministico o altruistico si ponga a ragionare per proporre soluzioni.

Proposte entro il 30 giugno


Ilclima dei lavori cortonesi era pervaso dalla polemica di quei giorni sulla possibilità che si giungesse alla proposta di Assemblea Costituente, anzichè di Commissione Bicamerale, proposta che è stata avanzata da alcuni esponenti politici fino al momento del voto che, invece, ha poi legittimato la creazione della Commissione.

Ancora una Costituente?

Era quindi molto preoccupato, Nicola Colajanni. È opportuno parlare di Assemblea Costituente? Di cesura con il passato così ampia e profonda, rivoluzionaria si dovrebbe dire, da necessitare di una nuova assemblea che elabori un nuovo patto tra i cittadini? Colajanni ricorda la posizione del Movimento per la difesa della Costituzione, di cui fa parte, nonchè di illustri costituzionalisti, quali Giuseppe Dossetti, recentemente scomparso, e Alessandro Pace, per i quali i parlamentari eletti non hanno il mandato di votare una riforma organica della Costituzione, né quello di indire l'elezione di un'Assemblea costituente. Il potere costituente si è esaurito nel 1947. Soltanto di fronte ad una nuova contrapposizione di valori (ma dov'è, chi la vede?) come quella che determinò l'abbandono. dello statuto albertino, si potrebbe dar luogo ad un'Assemblea Costituente. Per Colajanni, comunque, anche la Commissione Bicamerale non è un istituto pienamente legittimo per giungere alla riforma di alcuni meccanismi costituzionali. Il sistema indicato nella Costituzione è quello delineato nell'art. 138 e a quello si dovrebbe fare riferimento. Gaetano Azzariti rivolge una critica forte all'attuale dibattito politico. Non vi è una crisi costituzionale. Da anni esiste una crisi politica, per risolvere la quale si pensa di modificare la Costituzione. Il gruppo politico che la cambierà le darà il suo volto e la sua impronta. Questo è il rischio. In verità, è la Costituzione, questa Costituzione a legittimare l'azione politica e non viceversa. È una tavola, un insieme a-sistematico di norme procedurali, di regole del gioco che devono essere messe in pratica, non modificate. È storicamente, ma anche concretamente, la Carta delle limitazioni del potere sovrano, non un modo della politica di ottenere maggior potere. Si parla di riforme costituzionali strumentalmente, magari soltanto per delegittimare la parte avversaria, Ma questo non si può fare con un testo costituzionale. Né attraverso un'Assemblea Costituzionale, non prevista dall'ordinamento né, comunque, attraverso una Commissione Bicamerale la cui istituzione stravolge il sistema fissato nella Costituzione, che viene bellamente aggirato. Ma la Bicamerale è da molti vista come il male minore, visto che il male di un vulnus ordinamentale deve comunque prodursi. Perchè parlare ipocritamente di una modifica che investa la sola seconda parte? Per Azzariti vi è un'unicità del testo costituzionale. Esso è un insieme che ha una sua organicità interna che non si può spezzare attraverso riforme disarticolare e parziali. Il Titolo Y e l'art. 5, ad esempio, sono collegati. Non si può fare la Costituzione a compartimenti stagni. .yl

crisi politica, non costituzionale

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Se per esempio si interverrà sulla forma di Stato, il riferimento all'art.5 non permetterà altro che un federalismo solidale, non competitivo. Per quel che riguarda la forma di governo le opzioni non sono poi così tante. Se si sceglie la forma di governo parlamentare, pur razionalizzandola, si rimane all'interno della tradizione, degli intendimenti dei Padri Fondatori e del rispetto della prima parte della Costituzione. Altrimenti si fa qualcos'altro. Un qualunque presidenzialismo modificherà l'intero quadro di riferimento. Per non giungere a deviazioni sudamericane, si dovranno intensificare limiti e controlli del potere esecutivo, nonché le garanzie per le minoranze. Tutto questo, comunque, uscendo dai parametri del diritto costituzionale italiano. Cosa che nessun mandato ha conferito all'attuale parlamento. Si fa un gran parlare delle riforme alle quali giungere a qualsiasi costo (senza neppure dire palesemente quali esse sono), ma nessuna attenzione è stata prestata, anche dagli stessi costituzionalisti, ai mutamenti istituzionali che sono intervenuti successivamente all'approvazione del Trattato di Maastricht e dopo la riforma elettorale del 1993. La Corte Costituzionale tedesca ha approfonditamente analizzato l'impatto di Maastricht sulla Legge Fondamentale di Bonn, prefìgurando già la posizione dell'ordinamento costituzionale tedesco nei confronti di alcune possibili evoluzioni successive a Maastricht. Niente di tutto ciò è stato fatto in Italia. E, per Azzariti, nulla verrà compiuto dalla nascente Bicamerale. La parola è poi passata a Umberto Cerroni. Guardiamo alla questione nella sua dinamica storica. L'Italia sconta la storia del continente europeo, di aver voluto assumere la giuridicizzazione come base per la vita politica. I1Inghilterra non ha una Costituzione scritta, nonostante questo non ha mai cambiato, nei suoi termini generali, regime politico. Noi vogliamo trasformarci da repubblica di partiti in qualcos'altro. Ma non sappiamo in che cosa. Le modifiche sostanziali non si sono presentate a livello costituzionale, dove forse non ce n'è bisogno, ma a livello di modifiche della legge elettorale, o attraverso referendum. Il nocciolo del problema è se conservare l'idea illuministica della legge come Senza leggi volontà generale, che implica una giuridicizzazione della nostra convivenza, non Ogni comportamento è permesso, tutelato, promosso o proibito da leggi. E sappiamo muoverci queste sono votate dal parlamento che è espressione della sovranità popolare. Ma è ancora così? È soltanto questa la definizione di convivenza democratica, peraltro smentita dal fatto che ormai moltissimi nostri comportamenti sono determinati da decisioni prese da organismi sopranazionali non eletti direttamente dai consociati? Abbandoniamo l'idea "pericolosa" di un'Assemblea Costituente, ma qualcosa si deve cambiare, e si può differenziare tra prima e seconda parte della Costituzione, semprechè il modicare l'assetto stutturale ed organizzativo non stravolga gli aspetti teleologici contenuti nella prima parte. Anche Cerroni, a nostro parere, aderisce al concetto, espresso nei precedenti interventi, che la "politica" vuole strumentalmente occuparsi di riforme costi-


tuzionali per non affrontare la reale crisi al suo interno, che è crisi di strutture (partiti) e di uomini (formazione della classe dirigente, democraticità nelle scelte relative alla leadership che nessuno finora propone all'interno delle coalizioni di destra e di sinistra).

Certo, in un momento in cui tutti gridano "al nuovo!" ci vuole un bel coraggio a schierarsi contro i cambiamenti a tutti i costi, al federalismo, al presidenzialismo ed a tutto quello che rappresenta un palingenetico "fuoco" purificatore. Ma il cronista che scrive confessa di essersi sentito risollevato ad udire, nello strepito generale, un invito alla calma ed alla ponderazione che farebbe bene a tanti. Soprattutto a coloro che accettano le posizioni più estremistiche non per autentica convinzione, quanto per tattico superamento delle posizioni dell'avversario. Un "sorpasso" ideologico che può far andare contromano. Il processo di mutamento è nella società, ricorda Antonio Zucaro. Non c'è stato un mutamento così traumatico da porre l'esigenza di eleggere un'Assemblea Costituente. Non ci sono, ed è una delle prime volte, morti per le strade. Eppure una crisi costituzionale c'è stata. Si è concretizzato un cambiamento dei valori fondamentali "graduale". In sintesi tale mutamento è stato prodotto dalle nuove leggi elettorali, dal dopo-Maastricht, dalla dinamica dei rapporti Stato-Regioni. E il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Bicamerale dovrebbe occuparsi, secondo Zucaro, anche della prima parte della Costituzione. Cancellare l'art. 7, ad esempio. Modificare l'art. 9. Rendersi conto che tutto o quasi tutto è cambiato dal 1947 ad oggi. Che vi sono poteri sovranazionali più forti di quelli nazionali, che non siamo più nell'ultimo stadio della rivoluzione industriale, ma che stiamo già vivendo quelli successivi della rivoluzione telematica. Il mutamento del reale comporta anche una ridiscussione, che non significa abbandono, dei valori fondamentali.

Intanto il mondo corre veloce

È molto critico Marcello Romei. La Bicamerale non riuscirà a fare le riforme. Queste si concretano già, ma mediante altri strumenti: la giurisprudenza della Corte Costituzionale, il referendum, le leggi ordinarie, i trattati internazionali. Il circuito politico non è più in grado di operare riforme, ed allora si approvano anche referenda ai limiti dell'ammissibilità (o non ammissibili), ma che comunque cambiano il sistema. Così come muterà profondamente la forma di governo la recente sentenza della Corte Costituzionale sulla non reiterabilità del decreto legge. Allora sono altri i temi. È preferibile pensare ai problemi della Corte Costituzionale, del suo ordinamento e delle forze che la compongono. È bene contrastare il potere delle burocrazie ancora fortemente presente nella vita istituzionale del Paese. Altro che pensare ad assemblee costituenti che non hanno altro futuro se non quello del disordine e della velletarietà!

Ma se i veri cambiamenti vengono dalla Corte Costituzionale?


La politica è uscita un po' bistrattata da queste prime battute dei lavori cortonesi. I2intervento di Sergio Ristuccia ha teso a ridonarle dignità. È sicuramente scandaloso far politica con le battute, con gli spot che durano l'arco di una giornata, mentre nel momento successivo si può dire tutto il contrario di quanto poco prima prospettatato. Se è questo l'uso della politica, la critica deve essere radicale. Ma una qualche revisione costituzionale che permetta l'efficacia del circuito politico deve essere posta in essere come complemento dell'autoriforma della politica. Ed è la politica con la P maiuscola che può, e deve essere, il motore ditale evoluzione. Una visione alta dell'agire politico che per il momento manca, ma che non può trovare surrogati nel tecnicismo delle Corti. I valori democratici possono essere analizzati, ricostruti, estrinsecati nella loro evoluzione in istituti giuridici dalle Corti, ma vanno enunciati, messi in pratica, tutelati da una classe politica che riguadagni il suo naturale spazio. È la stessa Corte Costituzionale a volere questo, spronando la classe dirigente• a governare "a legislazione vigente" senza affidarsi a decreti-legge, norme d'accatto e quantaltro in voga negli ultimi anni. L'ultima sentenza della Corte, benè in linea con la Costituzione, può essere letta in questo modo. Tuttavia, bisogna prendere atto che i tentativi di modificare il sistema di governo per legge ordinaria, vedi la legge 40011988 sulla Presidenza del Consiglio dei Ministri e la legislazione sulle Regioni, sono ampiamente falliti. È necessaria quindi una manovra politica ampia, dotata di lungimiranza e di tensione morale "alta" per mettere seriamente mano a quelle modifiche strutturali del sistema politico che permettano di creare il contesto giusto per un effettivo funzionamento dell'alternanza insito nel sistema maggioritario ormai entrato nel nostro ordinamento. Il tema della revisione è quindi da affrontare con entusiasmo. Andrea Mancinelli cerca di tirare le fila del dibattito. Dopo la "Bozza Fisichella" (la proposta di riforma organica del sistema politico elaborata da Domenico Fisichella, Giuliano Urbani e Cesare Salvi, volta a configurare maggiore stabilità all'Esecutivo senza determinare una svolta presidenzialista), dopo il tentativo Maccanico, le maggioranze di governo non sono ancora tali. È quindi necessaria una riforma, e l'unico sistema di realizzarla consiste nella Bicamerale, una giusta via di mezzo tra l'Assemblea Costituente (improponibile) ed il rispetto dell'art. 138 (inattuabile, se non per piccole riforme settoriali. Non per una revisione organica come quella oramai necessaria). Non possiamo avere fretta. Lo stesso bipolarismo tedesco, prima di realizzarsi ha avuto bisogno di svariati anni.

Ci vuole una visione politica alta e nobile

Quanto al dibattito in corso durante la sessione di bilancio di questo autunno si deve dire basta alle critiche anacronistiche e fuorvianti. Il problema delle deleghe legislative è soltanto un'arma polemica dell'opposizione. I passaggi istituzionali in Italia, secondo Mancinelli, si sono sempre avuti attraverso deleghe al governo. •I•MIl


È naturale, fisiologico che accada così in un sistema democratico moderno. Si, ma a patto, commenta in una battuta Gaetano Azzariti, che non si pensi di risolvere questioni costituzionali attraverso leggi ordinarie. La discussione a livello costituzionale - osserva Carlo d'Orta - soffre del fatto che si vogliono soddisfre interessi particolari promettendo svolte legislative taumaturgiche. E questo non da oggi. È un "mito" che pervade l'agire politico: basta imporre precetti perchè i livelli di governo sottostante vi si adeguino. È sufficiente fissare norme sulla trasparenza dell'azione amministrativa e subito l'azione amministrativa diviene trasparente. Ovviamente non è mai così. E poi c'è un altro mito da abbattere. Quello della continua frammentazione del potere in tanti centri irresponsabili. Se le vere riforme si vogliono fare bisogna individuare, come si è fatto con la recente riforma del governo locale, soggetti di effettiva responsabilità politica. Individuare soggetti che detengono determinati poteri in merito a particolari funzioni. E quindi, responsabilizzarli.

I tanti "miti"

da abbattere

Stefano Sepe punta il dito sulla eccessiva autoreferenzialità dei giuristi. Conosciamo le differenze interne al nostro campo, ma sappiamo qualcosa di ciò che accade al di fuori? Insomma, una volta approvate delle riforme, sia a livello legislativo che a livello costituzionale, nessuno sa se queste riforme potranno reggere. È uno sforzo intellettuale che andrebbe fatto ma non è compito dei giuristi o soltanto dei giuristi. Maurizio Meloni sembra, invece, preoccupato che manchi una riaffermazione del ruolo dei costituzionalisti nella materia della revisione del testo fondamentale. Un ruolo che deve anche avere una sponda mediologica e non rimanere confinato nei dibattiti per pochi iniziati o nelle aule universitarie. Insomma, la prima parte del dibattito, incentrata sul "metodo" delle riforme individua tre punti cardine. Primo. Alcune riforme devono necessariamente essere apportate, ma nel Parlamento non vi sono i numeri per utilizzare l'art. 138. Non utilizzare tale procedura prefigura comunque una "rottura" costituzionale. Ma a questo punto il male minore è una Commissione Bicamerale quale quella appena costituita. Secondo. Non si può fare una riforma della Costituzione a compartimenti stagni: la riforma della seconda parte provocherà sicuramente un qualche mutamento all'interno della prima. Terzo. È importantissimo che nel processo di revisione si acquisisca l'esperienza dei costituzionalisti e comunque degli "addetti ai lavori", perchè le riforme proposte ed approvate "reggano" poi alla prova dei fatti.

Si è quindi passati a discutere del possibile contenuto delle riforme. Del "merito" quindi delle stesse. Aiìcora una volta Alessandro Pizzorusso ha avuto il comDito di offrire stunti per il dibattito. Innanzitutto, ha riconfermato che non si fanno riforme costituzionali se non per dare sostanza a valori e finalità di alto rilie1IY1

Tanta (forse

troppa) carne al . ruoco


vo. I contenuti devono poi andare a braccetto con le procedure. Un elenco sommario delle principali questioni che la Bicamerale dovrà affrontare viene così tentato. I partiti politici continuano a non funzionare. Non selezionano classe politica, non formano progettualità. L'art. 49 avrebbe bisogno di opportuni cambiamenti. Non sarebbe male richiedere regole di democrazia interna per le associazioni partitiche. Le autonomie territoriali. Tante le questioni. Invece di straparlare di "federalismo" faremmo bene a pensare all'antinomia autonomia regionale-autonomia degli enti locali. E poi, vale chiedersi: avremmo tutte Regioni a Statuto speciale? E che succede in quelle Regioni dove le risorse sono minori e/o dove la criminalità organizzata è più forte? 3)11 mondo dell'informazione. Ci vorrebbe un qualche accenno al fatto che le trasmissioni radiotelevisive sono anche un servizio pubblico. Non si può andare avanti coi decreti "salva-Rai" reiterati (anche perchè l'ultima sentenza della Corte Costituzionale non lo permette più). Sistemi elettorali. Non si può cambiare continuamente la "tecnica" di esprimere la rappresentanza. Fissare regole generali, sicure e forse estendibili anche alle elezioni degli enti locali sarebbe più opportuno. Fonti del diritto. Questo non è soltanto un problema da aule d'università. Il cittadino deve essere posto in condizioni di sapere, specie sui temi che normalmente influiscono sulla vita comune, dove e come reperire la norma che prescrive un dato comportamento. Qual è l'autorità demandata al rispetto ditale norma. Con quali organi dialogare e coordinarsi. Si dovrebbero stabilire regole base su come scrivere leggi chiare ed accessibili. Sarebbe anche opportuno un qualche accenno alla disciplina del potere regolamentare, della quale per ora non vi è traccia. L'istituto del referendum. Va bene la tutela dei diritti della minoranza (il nostro è uno dei rarissimi casi, camparativamente, di referenda chiesti dalla minoranza). Ma un centesimo del corpo elettorale è veramente troppo. Troppo poco per chiedere un referendum. 4 La questione degli ordinamenti delle pubbliche amministrazioni (sono tante e diverse), della giustizia, della Corte Costituzionale.


La questione della tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Unificare le giurisdizioni? L'art. 138 sulle modifiche alla Costituzione. O esiste, e funziona. O se ne può ricercare una modifica. Rapporti esecutivo-legislativo. Forma di governo. È questo forse il punto dal quale si deve partire. In fin dei conti tutta questa domanda di riforme non riflette altro che la giusta constatazione che il nostro sistema parlamentare (fissato dalla TI Sottocommissione dell'Assemblea Costituente.con l'ordine del giorno Perassi) è degenerato in assemblearismo, un sistema cioè dove il Governo è costretto a venire a patti con tutti i singoli gruppi. Per la critica a questo sistema (così vicino alla situazione esistente al tempo della IV Repubblica francese) e per la proposizione dei modi di uscirne si può fare riferimento al testo dello stesso Pizzorusso, presentato tra i documenti di riflessione al convegno, Le virtù nascoste del «modello francese" (in «Industria & Sindacato», Giugno 1996, pp. 4-8). Inizia a parlare Giuseppe Cogliandri e muta subito il quadro di riferimento del discorso. Non crede che i dieci punti proposti, per quanto importanti, rappresentino qualcosa che possa servire alla risoluzione dei problemi del Paese. C'è un divario tra Costituzione enunciata e "costituzione che vive". Per colmarIo bisogna intervenire con regole costituzionali che ci permettano il raggiungimento di due obiettivi specifici: la piena appartenenza all'Europa e l'efficienza dell'agire della Pubblica Amministrazione. Per questo deve essere inserito in Costituzione un nesso tra gestione finanziaria e prassi amministrativa. Finanza ed amministrazione sono temi centrali per la Legge Fondamentale tedesca e per la Costituzione dell'Unione Europea che è il Trattato di Maastricht. In Italia vi sarebbe l'art. 81, ma non ha dato i risultati attesi. I principi innovativi della Costituzione europea valgono adesso per tutti i Paesi membri e prescrivono una crescita sostenibile e non inflazionistica, un coordinaento tra le politiche economiche, finanze pubbliche sane. Tali principi possono avere uno sviluppo puntuale perché sono stabilite a livello costituzionale regole e procedure minuziose. Il rispetto dei vincoli imposti da queste ultime è garantito dalla sorveglianza della Commissione, dalla messa in mora dello Stato da parte del Consiglio; insomma, da tutta la normativa sulle fasi della moneta unica. E tutto questo prevale sulla nostra normativa costituzionale. La quale allora dovrebbe adeguarsi prontamente e non lasciarsi superare ed integrare da fonti esterne all'ordinamento italiano. L'Europa, poi,, vuole garantiti il rispetto del principio di efficienza per quel che riguarda la gestione

C'è già una grande riforma: l'Unione Europea


delle risorse pubbliche, un'attenta valutazione dei comportamenti e dei risultati attesi/raggiunti che passa attraverso le fasi di programmazione di bilancio, esecuzione, gestione e controllo. E visti i risultati sulla nostra moneta, sul rapporto deficit/Pii, sull'inflazione si ritiene che l'intervento del costituente comunitario sia stato molto positivo. Riccardo Acciai, nel suo contributo ha posto l'accento sulla situazione esistente in merito all'autonomia degli enti locali, dove si nota che non basta una legge, per quanto apprezzabile come fattura, per realizzarla. Le aree metropolitane, pur previste, non sono state ancora istituite. Centri di responsabilità sono difficilmente configurabili e quindi conoscibili da parte dei cittadini. È ancora da riformare il ruolo del Segretario comunale nell'ambito del nuovo rapporto triadico Comune-Regione-Stato. E poi, quanta autonomia per ogni entità territoriale? Forse la Costituzione dovrebbe dire qualcosa. Così come dovrebbe farlo sul problema delle fonti del diritto. Sarebbe auspicabile la previsione (si veda I'art. 15 della cosiddetta "Bozza Fisichella", già citata, inserita nei documenti del Convegno) dileggi organiche che vertano sulla tutela generale di diritti e libertà fondamentali, sulla disciplina della materia elettorale e sull'inquadramento nell'ordinamento italiano delle Autorità amministrative indipendenti (si veda sul tema queste istituzioni, n. 108, inverno 1996).

Autonomia vò cercando...

Ancora polemico Nicola Colajanni. Per quale motivo non si può procedere attraverso l'art. 138? È stato detto che tale procedura può essere utilizzata soltanto per riforme particolari, puntuali e non per revisioni organiche. Non sta scritto da nessuna parte. Per quanto riguarda il merito, non ci si dovrebbe limitare ad una revisione della seconda parte: l'art. 7 e l'art. 20 sono "rami sechi" (l'espressione ricorrerà pii volte nel dibattito, ripresa da quanto a suo tempo disse Arturo Carlo Jemolo) che ben andrebbero eliminati. La Costituzione, per Colajanni, resta comunque un documento di principi: non ci si può inserire di tutto. Altrimenti si va verso un tipo di Costituzione lunghissima. Il desiderio di novità che è giustamente presente nel Paese non deve essere strumentalizzato a livello costituzionale, ma dovrebbe trovare espressione nei programmi concreti. Si potrebbe, anche con leggi ordinarie, rafforzare il potere esecutivo senza stravolgere l'attuale regime parlamentare. Secondo Ignazio Portelli, le proposte di riforma che rimbalzano dalle segreterie dei gruppi politici sono troppo legate alle contingenze, alle esemplificazioni dei proclami: senza organicità, senza un'analisi attenta della loro fattibilità. Prendiamo il tema dei rapporti dello Stato con le autonomie. La soglia dei limiti tra le due competenze è data da unà corretta applicazione del principio di sussidiarietà. Corretta, appunto. Cioè attenta alle risorse, ai livelli d'indebitamento. Certo, si possono conferire più ampie funzioni ai Comuni, ma poi, come negli Stati Uniti, vi devono essere degli ispettori federali che blocchino i livelli del debito quanto superano un certo limite. C'è poi un altro problema sotteso al tema dell'autonomia. Progressivamente

ENAil


si arriverà ad un diritto che conosceremo sempre meno, causa un coacervo di norme secondarie, sub-secondarie, da coordinare (e chi lo fa?) con quelle comunitarie. La democrazia non può certo esistere se il cittadino non è in grado di conoscere obblighi, possibilità e centri di responsabilità. C'è un grande proliferare di Amministrazioni indipendenti. Qual è il loro rapporto con gli altri poteri dello Stato, chi rappresentano? Il circuito politico si altera aumentando lo iato tra responsabilità e rappresentanza. Il responsabile delle politiche è un tecnico di carriera, mentre Parlamento e Governo, e con loro l'amministrazione statale, sono in completo disarmo. Autonomie locali, Regioni, Stato procedono per proprio conto. Così non c'è coordinamento tra le normative, e neppure si tenta. Si pensi ai requisiti per l'ammissibilità ed il mantenimento delle cariche pubbliche. Il sistema non potrebbe essere più caotico. Un cittadino condannato con sentenza definitiva per truffa ai danni dello Stato può continuare ad esserne legislatore, ma non può fare il consigliere comunale. Ed è solo uno dei tanti esempi in materia. Principi generali sulla gerarchia delle fonti, ordine nella nomografia: questi sono soltanto alcuni dei segnali forti che una revisione costituzionale dovrebbe mandare agli associati nella comunità.

Moderni Lacoonte "strangolati" da troppe norme

Il dibattito diviene poco a poco un brainstorming ricco di espressioni di desiderio, di qualche provocazione, ma naturalmente disordinato. Il cronista raccoglie liberamente qualche spunto, lasciando il resoconto fedele di tutti gli interventi. Fabio Garella ricorda che nel 1947 c'erano fronti contrapposti. Ferite ancora sanguinanti. Oggi, per bocca di tutti, la società italiana è più omogenea. Sono quindi caduti i m9tivi che inducevano ad immobilizzare l'esecutivo. Adesso gli si può dare maggior forza. Si, ma ci vuole una classe politica preparata, una dirigenza amministrativa adatta. Gli farà eco Antonio Zucaro che si sofferma sul fatto che è sicuramente amiquato lo statuto costituzionale della pubblica amministrazione. Per Zucaro non ha molto senso invocare pedissequamente la separazione tra politica ed amministrazione. I2azione amministrativa non è sempre, (anzi, forse non lo è mai), semplice esecuzione di desiderata politici. Non è neppure gestione e basta. Molte azioni amministrative sono in sé comportamenti politici. Ed in modalità diverse a secondo dell'ambito di competenze, sia funzionale che spaziale. Parlare di amministrazioni al plurale (come sulle pagine di questa rivista da sempre si predica) è una riconosciuta necessità. Si conferma la centralità del problema della pubblica amministrazione anche se non tutti credono che la soluzione risieda (o consista soltanto) in una riforma di livello costituzionale. Per Stefano Sepe, per esempio, bisogna passare per tre stadi strettamente interrelati fra loro: un coordinamento delle regole costituzionali, una riforma della burocrazia che chiarisca una volta per tutte responsabilità, incentivi e sanzioni e la proposizione di modelli ordinamentali differenziati secondo gli ambiti di competenza. )OO(VllI

Non c'è sangue per le strade: si può usare la calma


Il brainstormingsi è mantenuto fin qui su toni sin troppo calmi. A riscaldarlo ci pensa il secondo intervento, acceso e passionale, di Gaetano Azzariti. "Non c'è e non ci può essere separazione fra il metodo, il merito e l'esito delle riforme costituzionali". Certo, alcuni istituti vanno resi maggiormente attuali, ma per far questo bisognerebbe possedere una alta cultura politica che Azzariti non vede nell'attuale dibattito istituzionale. Del resto, la materia costituzionale non può contenere tutto e non si può dequotare. Per questo è assurdo pensare di fare la riforma dell'amministrazione mediante revisioni costituzionali. Piuttosto, torniamo al punto fondamentale che è nella scelta che deve essere fatta tra una forma di governo che rispetti i canoni del neoparlamentarismo razionalizzato e l'opzione presidenzialista. Se si sceglie la prima la coerenza prescrive che il Governo deve ottenere la fiducia del Parlamento, che non c'è alcuna ipotesi di durata fissa del Governo stesso, che non c'è quindi alcuna ipotesi di sovranità sul Parlamento. Si può parlare di un premio di coalizione che rafforzi la maggioranza e la renda stabile, ma sempre nell'ambito delle logiche coerenti del sistema parlamentare. Altrimenti ci si schieri per il presidenzialismo. Ma quello serio, però. Dove c'è la massima separatezza tra Legislativo ed Esecutivo, dove il Congresso controlla come un cane da caccia ogni mossa del Presidente. E soprattutto dove non ci sia una contemporanea elezione di Presidente e delle Camere, onde permettere il formarsi di due diverse maggioranze che è fisiologico in un un sistema presidenziale, dove all'indirizzo programmatico del Capo dello Stato-Capo del Governo si contrappone quello delle Assemblee. Ritorna, Giuseppe Cogliandro, sui temi della finanza, dell'equilibrio del bilancio. Sono questi, riafferma, principi che vanno costituzionalizzati. D'altronde, proprio il controllo finanziario ha fatto nascere i parlamenti. I soli fatti virtuosi della storia repubblicana in Italia si sono avuti grazie alle legislazione comunitaria: affermazione e tutela del principio della libera concorrenza, disciplina degli appalti pubblici, tutela ambientale, fine dei monopoli. Sarebbe ora di ancorare tali principi, ormai prevalenti su tutte le altre fonti, al testo costituzionale. Maurizio Meloni ha voglia di spigolare tra gli articoli della Costituzione (e su ,queste "spigolature" si sono accese disquisizioni tra il serio ed il faceto di "fanta-amministrazione"). Il problema delle fonti del diritto non è esclusivamente un passatempo per giuristi. È questione seria soprattutto in tema di pubbliche amministrazioni, dove, ad esempio l'art. 97 della Costituzione, prescrive che "Ipubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge...". Non sarebbe meglio, secondo un'esigenza pi1 volte proposta, elencare principi generali da fissare con fonte primaria, per poi, attraverso norme regolamentari pii duttili, organizzare gli uffici secondo diversità di funzioni e di mezzi? Per quel che riguarda gli artt. 99 e 100 si dovrebbe operare, secondo Meloni, distinzioni e allontamenti: CNEL, Corte dei Conti e Consiglio di Stato non

Scelte serie o deriva "sudamericarta

Il ruolo dell'economia deve essere costituzionalizzato


sono omogenei. Sono cose diverse e non possono essere accomunate sotto lo stesso titolo. Qualcuno di questi cosiddetti organi ausiliari potrebbe essere addirittura soppresso o completamente riformato. Antonio Agosta osserva che soltanto apparentemente la materia elettorale è rimasta all'esterno dei compiti della Bicamerale. Infatti, ove essa proponesse una riforma strutturale dell'attuale parlamento dovrebbe poi fissare il principio di rappresentanza da adottare per la formazione del vagheggiato Senato delle Regioni. Sarebbe questo un Buna'esrat? Composto da membri nominati, con vincolo di mandato (bisognerebbe quindi abrogare l'art. 67), dalle autorità locali? O si opterà per l'elezione diretta? La questione elettorale è quindi connessa alla natura che avrà la seconda camera. C'è un problema particolare da segnalare: il rilievo delle funzioni elettorali. Cosa accadrebbe se ogni Regione, od ogni singolo Comune dovesse organizzarsi autonomamente per permettere lo svolgersi concreto delle operazioni elettorali? La macchina elettorale dovrebbe rimanere affidata allo Stato centrale.

Alessandro Pizzorusso, per finire, cerca di raccogliere le fila dei discorsi, e chiude ricordando che occorre fidare sulla capacità espansiva della Costituzione. Di qui, la necessità che i temi, in Costituzione, vengano richiamati con norme chiare ma discrete. Poi ci penserà l'opera della giurisprudenza, e dei cittadini a decidere cosa è un elemento basilare e cosa un orpello da dimenticare. Pensiamo all'art. 9. Quell'accenno al "paesaggio" nel secondo comma è stato deriso da molti. Eppure è su di esso che si è fondata la tutela dell'ambiente in Italia. Riformare non è un esercizio da apprendisti stregoni, insomma. E, comunque, al momento c'è preoccupazione per una Bicamerale che sembra a molti partire con il piede sbagliato. Cosa significa limitarsi a revisionare la seconda parte della Costituzione, se da più parti pare invece necessario eliminare l'art. 7, rivedere l'art. 11 per adattarlo alla nostro ingresso in Europa? La carne al fuoco della Bicamerale è molta. Ci vorranno lucidità e ragionevolezza per dipanare la materia. A Cortona, come auspicio da indirizzare ai Settanta, si è respirata voglia di visione politica.

XL

Non lasciamo fuori dalla porta le questioni del sistema elettorale


I mandanti dei mandanti di Francesco Sidoti

J

i numero 4, 1996, della rivista "MicroMega" si apre con un editoriale in cui viene preso di petto "quel sistema criminale, unico in Occidente, che ha minacciato di strangolare la nostra giovane democrazia"; seguono, nella rivista, vari articoli di magistrati impegnati in rilevanti indagini, da Gherardo Colombo a David Monti. In un articolo, il magistrato palermitano Roberto Scarpinato sostiene che per la prima volta nella storia della Repubblica gli investigatori hanno la possibilità di incidere in quel tessuto che sinora "ha protetto i mandanti 'ultimi' di omicidi eccellenti e stragi". La singolarità e la vastità del problema non possono essere sottovalutati. È un magnifico invito ad una riflessione sulle proprietà logiche e storiografiche di una problematica seducente, ma impervia, viste ad esempio le fiere contrapposizioni tra magistrati come Salvini e D'Ambrosio, che sono persone di indubbio valore, appartengono alla stessa area culturale, si riconoscono nello stesso "Movimento per la Giustizia", e tuttavia, a trent'anni di distanza dalle strage di Milano, conducono indagini ancora indeterminate e assai conflittuali proprio su questo intricato nodo. Esistono i mandanti "ultimi"? In che senso debbono essere distinti dai mandanti "penultimi"? Alcune caratteristiche della nostra cultura e della nostra identità nazionale sono state oggetto di studi illuminanti sotto il profilo dei rapporti tra legalità e società. Ci sono analisi che partono da lontano, come il volume di Umberto Cerroni, L'identità civile degli italiani (Manni, Lecce 1996), e ce ne sono altre che insistono spietatamente sulla nostra "tradizione portatrice di illegalità", come fa Alessandro Galante Garrone in L'Italia corrotta, (Editori Riuniti, Roma 1996). Questo aspetto della storia patriaviene spesso messo in rilievo crudamente dagli osservatori stranieri che si occupano, per motivi commerciali o scientifici, dei nostri livelli di correttezza e di onestà. Nelle classifiche di Transparency In-

Il Paese più corrotto

XLI


ternational, che vengono compilate accuratamente e godono di notevolissima credibilità, scopriamo ad esempio di essere considerati, da osservatori qualificati e dalle agenzie di consulenza internazionali, come il Paese di gran. lunga più corrotto tra tutti quelli occidentali. Addirittura più corrotto di moltissimi Paesi non occidentali, alcuni dei quali non proprio noti per la loro buona reputazione; in particolare, la Colombia di Medellin e di Samper, rispetto alla quale l'Italia viene impietosamente considerata meno affidabile. Soltanto questo potrebbe bastare a dire com'è caduta in basso a livello internazionale la nostra reputazione. In effetti, anche in molte riflessioni autoctone sono stati sottolineati aspetti non propriamente luminosi della probità nazionale media. Ad esempio, in materia di lealtà contributiva, è stata stimata una cifra che va dai 100.000 ai 250.000 miliardi di evasione fiscale, che non ha assolutamente confronti nelle nazioni economicamente sviluppate. Il problema è così vasto e ramificato da avere indotto alcuni ad ipotizzare il reato di «concorso esterno in evasione fiscale", ad imitazione di altre fattispecie giuridiche che sono altamente controverse, ma che comunque rispecchiano una situazione di finanza pubblica "che tutti hanno contribuito a dissestare. Tutti, assolutamente tutti, o facendo o omettendo come può capitare di leggere sulla ?1ma pagina di un quotidiano come 1a Repubblica , non particolarmente incline a chiamate di correità generalizzate e indifferenziate. Poiché la materia dell'evasione fiscale di massa è complessa, e gravata da mille distinguo di tipo strettamente tecnico, sarà forse il caso di ricordare un altro aspetto dei rapporti tra popolazione e percezione dell illegalita. In particolare, sulla tragedia della mafia, in molti hanno sottolineato il problema relativo al consenso diffuso che ha accompagnato la criminalità organizzata in Sicilia. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, il magistrato Borsellino ricordava la grandc gioia di Giovanni Falconc quando iitò che fiialmcnre "la gente Fa il tifo per noi". Purtroppo, notava ancora Borsellino, "ben presto sopravvennero il liistidio e linsoferenza" nei confronti dell'azione di contrasto. Vuoi per un motivo, vuoi per un altro, la guerra alla mafia è stata prerogativa di poche persone isolate che si sono affannate spesso inutilmente a trovare alleati e sodali. Senza grandi sostegni né delle masse né XLII

Il rapporto

fra popolazione e criminalità


delle élites. Insomma, la famosa citazione «maledetta la terra che ha bisogno di eroi" vuole dire sinteticamente anche questo: gli eroi sono delle vittime in qualche modo generate dalla inettitudine, dalla codardia, dalle compromissioni di quella terra che per queste sue specifiche caratteristiche viene definita 'maledetta'.

Maledetta la terra che ha bisogno di eroi

Per finire, sul punto, vorrei ricordare l'affermazione perentoria, ma non astrusa, di Sergio Romano, secondo il quale la nostra sarebbe una repubblica "edificata sulla menzogna"; con la seguente conclusione: "Un Paese di cui non si può parlare con orgoglio e che vi costringe a mentire diventa detestabile o risibile... Costretti a mentire su se stessi e sul loro passato, obbligati a dimenticare o a ricordare selettivamente, gli italiani hanno finito per disprezzarsi... L'orgoglio che ogni uomo prova nell'identificarsi con la propria patria si è rovesciato nel suo contrario" (Finis Italiae, Scheiwiller, Milano 1995, pp. 58-59). Parole pesanti, che sollevano fra l'altro il vecchio quesito sulla possibilità di tacere o di nascondere una verità sordida. Tema che non deve essere del tutto pacifico, tanto è vero che schiere di spiriti eletti, da Sant'Agostino a Benjamin Constant, hanno sentito il dovere di chiarire e di precisare. Problema eterno, ma che è stato aggravato dalle necessità della politica moderna: di fronte a noi non c'è soltanto il problema di scoprire la verità, ma la possibilità di rivelarla ad un grande pubblico, sopportando il peso delle reazioni popolari e delle conseguenze elettorali; in proposito mi limiterò a ricordare le penetranti osservazioni di Philippe Braud nel suo L'émotion en politique. Problèmes d'analyse (Presses de Science Po, Paris 1966, pp. 236-237): "Un uomo politico è obbligato a tacere almeno quanto a parlare. Più esattamente, per lui, dire è una maniera di tacere. Non è dunque possibile accontentarsi del testo esplicito... Se esistono delle pagine in bianco della storia, ciò non avviene soltanto perché la memoria ufficiale crede di avere interesse a mascherare le zone d'ombra. Ciò avviene perché i testimoni o i sopravvissuti all'orrore, almeno in un primo tempo, possono soffrire troppo a evocare fatti insopportabili. Ciò avviene anche perché i responsabili di politiche disastrose, di atti inconfessabili o di fiaschi strepitosi,

Rivelare la verità

XLIII


preferiscono sottrarsi ad un passato di cui è psicologicamente impossibile farsi carico, anche se una minoranza di loro opera una scelta inversa, spesso tardiva d'altronde: liberarsi attraverso la parola di una colpevolezza diventata soffocante". Laffermazione "i mandanti siamo noi" non risulterebbe una novità in quelle culture in cui l'orgoglio nazionale si mescola con l'abitudine all'autocritica e con !'anamnesi del proprio decoro morale e istituzionale. Si può essere nazionalisti e severi con se stessi; o (come avviene nel caso italiano) per niente nazionalisti, ma benignamente indulgenti. Ad esempio, nella cultura iperpatriottica degli Stati Uniti, l'affermazione "We have met the enemy and they is us" si può trovare nei contesti pitt differenti, dai fumetti di Pogo ai film di Oliver Stone, sino ai ponderosi tomi di storici e criminologi. In Germania la presa di distanza dalla parte peggiore della propria storia è diventata una sorta di passo obbligato della Bildung dell'intellettuale che si rispetti. L'accoglienza che è stata fatta al librone di Daniel Goldhagen, Hitiers willige Vollstreckér, è assai significativa. Secondo l'accurata ricostruzione di J. Joffe (Goldhagen in Germany, in "The New York Review of Books", November 28, 1996, pp. 18-21), nonostante il libro sia in parte una provocazione in parte una cantonata, la Germania ha ricominciato per l'ennesima volta a farsi l'esame di coscienza. Su "Die Zeit" sono stati pubblicati articoli su articoli, e il carattere approssimativo della denuncia è stato rilevato attraverso l'autorevolezza di un discorso tenuto presso l'Holocaust Museum di Washington (di C. R. Browning, che viene duramente criticato in molte pagine di Goldhagen, cfr. Damonisierung erklart nichts, in "Die Zeit", 19 aprile 1996, p. 7). Nonostante sia vecchio quanto l'uomo, e oggetto di infinite trattazioni, il tema della colpa collettiva mi pare che nel caso tedesco possa essere apprezzato nella sua forma pii compiuta. Perché il senso del tragico non ha finora trovato occasioni altrettanto apocalittiche e interpreti altrettanto consapevoli. Mi limito a ricordare il Dietrich Bonhoeffer di Widerstand und Ergebung, 1944, i! Thomas Mann di Deutschland und die Deutschen, 1946, che ho già citato su questa rivista, e la Hannah Harendt di Besuch im

We have met the enemy and they is us" ' 6

La lezione dell'autocritica tedesca


DeutschLaneh 1950 (Ritorno in Germania, con ampia prefazione di Angelo Bolaffi, Donzelli 1996). Questa predisposizione all'autocritica si inserisce in una tradizione della cultura di lingua tedesca che nasce da presupposti mancanti nella cultura italiana; basti pensare che pure in Austria c'è una consuetudine che, da Karl Kraus a Thomas Berhardt, da Robert Musil a Peter Handke, si fa un punto d'onore della critica sferzante all'Heimat. Nel suo capolavoro del 1946, Die Schuldfrage (pubblicato da La responsabilità Cortina, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica ddla Germania, con prefazione di U. Galimberti, 1996), Jaspers mette i tutti in rilievo la distinzione tra responsabilità e colpa, e tra le diverse gradazioni di responsabilità e colpevolezza. Dal suo maestro Max Weber, derivava a Jaspers la piena consapevolezza di quanto sia velleitaria, in un senso puramente logico, ogni regressione all'infinito nel percorso di causazione, che peraltro può essere inteso soltanto come determinazione di Wahrscheinlichkeit, cioè di una probabilità non esprimibile attraverso il calcolo delle probabilità. Jaspers sottolinea innanzitutto che, per quanto riguarda il rapporto con il proprio governo, ogni cittadino deve essere chiamato a rispondere: ognuno di noi è corresponsabile per quanto viene compiuto in nome dello Stato a cui appartiene. Essere responsabile di una colpa però non significa anche essere moralmente o giuridicamente colpevole. È una tematica di carattere generale che ritorna spesso nella discussione del problema. Ad esempio, nell'agghiacciante vicenda francese del sang contarniné, il ministro competente si drizzò davanti alle telecamere per dire ai suoi concittadini con gli occhi negli occhi: "Je suis responsable, mais pas coupable". Jaspers (tedesco tutto d'un pezzo, che aveva sposato un'ebrea, e per la sua opposizione al nazismo aveva abbandonato Heidelberg rifugiandosi in Svizzera) comincia col sottolineare fermamente che ogni tedesco "senza eccezione alcuna" ha la sua parte . di responsabilità politica. Poi progressivamente allarga a cerchi con- ... lo è centrici le dimensioni della colpa e della responsabilità: c'è una anche la colpevolezza2 responsabilità giuridica specifica per chi si è macchiato di crimini, ma ciascuno è in un certo senso corresponsabile per i torti e


le ingiustizie che avvengono in sua presenza: "Quando uno non fa tutto il possibile per impedirli, diventa anche lui colpevole". È una consapevole dilatazione del senso di colpa, in un significato che va al di là dell'ambito giuridico, politico, morale. In questa prospettiva nessuno si può chiamare fuori: neanche coloro che conducono una vita estranea ad ogni rapporto politico, come i monaci, gli eremiti, gli studiosi, gli scienziati, gli artisti. Anche loro hanno una parte di colpa, come molti altri che si illudono di non avere responsabilità: "sia che nascondessero comodamente a se stessi quel che accadeva, sia che si lasciassero stordire e sedurre, sia che si vendessero per vantaggi personali, o che obbedissero per paura". In questa prospettiva anche le vittime, per quanto innocenti, La colpa possono in varia misura essere considerate colpevoli, qualora ad delle vittime esempio abbiano mancato di aprire gli occhi a coloro che non e degli erano capaci da soli di vedere il pericolo. Il senso di colpa (in una oppositori maniera che deve essere compresa spiritualmente prima di essere confutata razionalmente) non può risparmiare neanche gli oppositori, perché "non basta che io metta a rischio la mia vita per impedire il male. Una volta che quel male ha avuto luogo e io mi sono trovato presente e sopravvivo, dove un altro viene ucciso, in me parla una voce che mi dice che la mia colpa è il fatto di essere ancora vivo". A chiusura del cerchio, Jaspers finisce osservando che anche le potenze vincitrici hanno avuto la propria parte di èolpa: per il loro atteggiamento di condiscendenza nei confronti di Hitler, che non fu efficacemente contrastato né al momento in cui il suo potere si costituì né in seguito; basti pensare al generale atteggiamento di compiacenza durante le olimpiadi di Berlino del 1936 e alle molte manifestazioni pubbliche di rivoltante antisemitismo che prima della guerra furono tollerate dagli altri Paesi, pur di mantenere buone relazioni con il governo nazista. Se qualcuno mi chiedesse sbalordito che senso può mai avere un confronto tra l'Italia di oggi e la Germania nazista di ieri, dovrei dargli il dispiacere di informarlo che comprendo bene il suo sdegno, ma ormai questo confronto è diventato moneta corrente nella letteratura internazionale, nei convegni scientifici e nelle chiacchiere dei bar. Da Washington la professoressa L. Shelley, XLVI.


che è un'autorità riverita nel campo degli studi sulla criminalità, ha inequivocabilmente sostenuto che "poiché è esistita in Italia, per più di un secolo, una relazione simbiotica tra criminalità e politica, è possibile applicare all'Italia il concetto di Stato criminale, tradizionalmente applicato alla Germania nazista..." (cfr. Transnational Organized Crime: An Imminent Threat to the Nation-State?, in "Journal of International Affairs", Winter 1995, 48, 2, p. 469). La professoressa Shelley non è isolata. Arlacchi è alle origini di questa maniera di intendere il nostro presente e il nostro passato. Infatti, più volte, ad esempio, si è pronunciato in termini di estrema gravità nei confronti, fra gli altri, di Vittorio Emanuele Orlando, che "secondo Buscetta faceva parte di Cosa Nostra" (cfr. P. Arlacchi, Il processo. Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Rizzoli, Milano 1995, p. 14). Ovviamente, sono in circolazione varie altre spiegazioni alternative. Ad un estremo, c'è auella che strilla "basta con le infamità, i i , qui onestissimi siamo ; aa un ai tro estremo, c è que iiiia cne traspare (limpida, anche se sottintesa) da vari pronunciamenti di insigni esponenti cattolici, come, ad esempio, in una indimenticabile visita di Andreotti in Vaticano, accompagnata da lunghi minuti di applauso, e culminata (raccontano dettagliatamente le cronache del 26 novembre 1995) con "una calorosa stretta di mano con il Papa". C'è infine un altro tipo di spiegazione, definibile "storicista" (oppure "giustificazionista", o "garantista", se questi termini non fossero diventati una riprovevole occasione di equivoci) del tipo di quella che sorregge il libro di Macaluso, Giulio Andreotti tra Stato e mafia (Rubettino, Messina 1995). Macaluso condivide alcune tesi controverse di Leonardo Sciascia; in particolare la tesi che la lotta alla mafia della droga era stata combattuta dalle istituzioni anche negli anni Ottanta, e la tesi che "gli uomini politici indicati generalmente come mafiosi dall'Unità ad oggi - non sono mai stati propriamente dentro" (si veda L. Sciascia, Aflaura memoria, Bompiani, Milano 1989, pp. 48-49). Molti osservatori autorevoli, da Indro Montanelli ad Eugenio Scalfari, hanno aderito ad un impianto di questo tipo, che si ritrova anche - mi permetto di ricordarlo - nel mio Istituzioni e criminalità (Cedam, Padova 1996).

Italia, uno Stato criminale?

o uno Stato "ontissimo"? es

XLVII


Scegliere tra l'una o l'altra di queste interpretazioni ha conseguenze non secondarie: è in gioco ben più che la nostra memoria storica, è in gioco la nostra identità e la nostra dignità come italiani e come cittadini che chiedono ammissione e rispetto, prima che in Europa, nella società civile mondiale. Questo non significa cercare l'assoluzione ad ogni modo, ma essere capaci di dare agli avvenimenti le dimensioni appropriate. Altrimenti, si perde rispetto non solo nei confronti del proprio passato, ma anche nei confronti del proprio presente. I tedeschi si sono interrogati e Intraprendere h11 opera continuano ad interrogarsi sul loro passato senza evitare le doalla tedesca mande piu scabrose. Goldhagen ha scritto pagine di una gravita senza precedenti, che in Germania sono state solertemente pubblicate, meditate, discusse, con grande attenzione, serietà, pignoleria. Indipendentemente dal piano giudiziario, che è assolutamente separato e distinto rispetto ai temi trattati in questo contesto, ci sono nel caso italiano metodologie e comportamenti che a volte sembrano fittamente associati con quella tendenza "a mentire, a dimenticare, a ricordare selettivamente" sottolineata dall'ambasciatore Romano come una caratteristica della cultura nazionale. Un esempio tra i molti possibili: la mancata nomina di Arlacchi a presidente della Commissione antimafia. D'Alema ha scritto e ripetuto che il suo candidato ideale era proprio Arlacchi, ma in molti hanno invece interpretato quella mancata elezione come una scelta deliberata. Qual è la verità? Non è un problema di persone, ma di linee interpretative e di scelte conseguenti. Arlacchi avrebbe svolto un lavoro di un certo tipo; Del Turco farà delle cose molto diverse. Ma nessuno dei due farà quello che a molti sembra necessario: cominciare, alla tedesca, un'opera alacre di indagine e di riflessione sulla nostra recente storia nazionale, che ci aiuti a chiarire le ragioni e i limiti della nostra colpa e della nostra responsabilità. Un lavoro parallelo a quello della magistratura, ma completamente diverso. Eppure altrettanto indispensabile. Dire che tutti sono colpevoli, non vuol dire che nessuno è colpe- Colpe e vole, ma che ognuno ha la sua parte di responsabilità e di colpa. responsabilità: Quando parla insistentemente di una colpa generale, Jaspers non ce n'è per intende attenuare, ma approfondire la percezione che ognuno tutti XLVIII


deve avere della propria specifica colpa. Solo in questo senso, ce n'è per tutti. Solo in questo senso anche le vittime e i vincitori hanno la loro parte di responsabilità. E innanzitutto chi ammette la propria responsabilità deve stare in campana: "Chi confessa la propria colpa crede, mediante la confessione, di potersi mettere in vista e acquistare un valore che lo distingua. Confessando la propria colpa si vuole obbligare gli altri a fare lo stesso. In questa confessione c e come un Impronta di aggressivita. . . .Nel compromettere se stessi c'è un attacco agli altri che non lo fanno". Ricapitolando: dalle pagine dei maestri che hanno scandagliato gli estremi confini dell'orrore e della stupidità umana, possiamo trarre varie lezioni, inclusa quella per cui ogni qualvolta affrontiamo un. argomento in sé ignobile corriamo il rischio di praticare due opposte perversIoni: 1 autoflaggellazione e 1 arroganza. Davanti a ciò che è umanamente degradante, se si vuole cominciare un'opera sincera di purificazione, occorre riflettere su tutte le dimensioni della responsabilità e della colpa. Riconoscere la nostra finitezza e incompiutezza è il primo passo per incamminarsi sulla via della denuncia. Se si conviene con quanto sopra suggerito e premesso, si può sinteticamente concludere che, a proposito del caso italiano, in un certo senso non c'è bisogno di ulteriori indagini per sapere chi siano i mandanti "ultimi", che erano indubbiamente noti ai milioni di estimatori del Bagaglino e di Forattini. Più o meno tutti sapevamo più o meno tutto. A volte nelle aule giudiziarie si discute soltanto di particolari. Dire soltanto questo non è sufficiente: sarebbe troppo comodo, legalniente nullo, storicamente parziale, moralmente deprecabile. Ma è vero, ci sono i mandanti dei mandanti: siamo noi.

VAMI


dossier

La società multietnica e i suoi nemici Anche queste istituzioni ha deciso di "aprire le porte" all'immigrazione. Finora non avevamo mai affiontato l'argomento ma, considerata ormai la sua importanza crescente come fenomeno sociale anche per il nostro Paese, era da tempo necessario dare anche il nostro contributo. Ovviamente, dal punto di vista di queste istituzioni, ovvero quello di considerare le leggi in materia, gli aspetti economici, ma anche quelli sociali e politici. Diversi sono ormai i libri, gli articoli, i dibattiti sull'argomento immigrazione. Da almeno venti anni, l'Italia si è trasformata da terra d'emigranti in terra d'immigrazione ed i motivi non sembrano dffiisamente accettati dalla nostra opinione pubblica. Tutt'altro. Gli italiani, mediamente, tendono a non capire come mai nel loro Paese, (con tutta la sua disoccupazione!) arrivino così tanti "neri e marocchini" (sono quelli, per una serie di ragioni, più visibili), nella migliore delle zpotesi "per rubare Lavoro" e spesso per "rubare o vendere droga" gli uomini e per prostituirsi le donne. Su entrambi le considerazioni c'è molto da ribadire, come giustamente fanno su queste pagine, Alessandro S4j, Barbara Palleschi, Alessandra Venturini e Laura Gobetti. Nel suo articolo, Alessandro Silj ci ricorda come le migrazioni interne ai singoli Paesi


europei abbiano rappresentato un importantissimo fattore di sviluppo economico, accennando, in particolare, alla Francia, ai piani allestiti durante la presidenza De Gaulle, nel 1945, per promuovere l'obiettivo di «due milioni di immigrati in dieci anni ": qui, naturalmente, giocava un ruolo importante la demografia, avendo la guerra diminuito di molto la pcpolazione dei singoli Paesi. Si trattava di ricostruire paesi e città, di coltivare terre: servivano braccia valide per creare un nuovo sviluppo. Ora ci si è quasi dimenticati di quelle che ormai sono giunte ad essere le terze generazioni di italiani, spagnoli, turchi, portoghesi che vivono in Francia, Germania ed altri Paesi. L'Europa, pur essendo già una società multietnica tende a dimentica rio. A quei primi flussi immigratori del dopoguerra sono seguiti quelli dalle ex-colonie, quindi d'immigrati dall2lsia e dall.4frica. Su questi flussi, ancora non cessati, - come, del resto, non è cessata del tutto l'emigrazione italiana (si pensi, ad esempio, agli operai edili che lavorano per la ricostruzione nella ex-Germania dell'Est) - si sono sovrapposti anche quelli d'immigrati dai Paesi europei centro-orientali anche se questi vengono considerati transitori. Rimangono, quindi, pro blematici soprattutto i flussi d'immigrati di colore che sembrano destinati a continuare, almeno fino a quando - ci ricorda ancora Silj - "i tassi di natalità europei e dei Paesi del terzo mondo si manterranno ai ioro attuali livelli"e quindi, fatto che non sembra possibile possa verificarsi in un immediato fituro: «soltanto un tasso di crescita eccezionalmente elevato dell'economia nei Paesi di origine potrebbe fermare il flusso migratorio ed, eventualmente, inverti rio " Su tale considerazione concordano anche le analisi svolte da Barbara Palleschi e da Alessandra Venturini. La Palleschi, dopo aver ricordato che nel nostro ordinamento giuridico, come in diversi atti internazionali, viene riconosciuto agli individui il diritto ad emigrare ma non quello di immigrare (1) presenta le tre fasi in cui si è divisa l'evoluzione della normativa italiana in materia. L'autrice ricorda che la nostra normativa riguardante "la condizione giuridica dello straniero è stata rappresentata, per oltrecmquant'anni, da alcuni articoli inseriti nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza n. 773 del 18giugno 1931 "1 Fino al 1986, non vi è un legge apposita ma regole stabilite da circolari ministeriali. Con la legge n.943/1986 si ha un primo fondamentale passaggio: Ùur limitandosi ad intervenire in merito al collocamento ed al trattamento dei lavoratori subordinati, essa ha preannunciato, come ulteriore obiettivo da perseguire, la qua4ficazione dell'immigrato non più esclusivamente nel ruolo di lavoratore, bensì come individuio titolare di diritti di cittadinanza"; ma "le felici intuizioni" della legge non sono state realizzate del tutto. Fra l'altro, essa non conteneva riferimenti ai lavoratori autonomi e ai richiedenti asilo politico e, soprattutto, 2


non prevedeva una precisa disciplina rispetto all'ingresso e al soggiorno. A queste esigenze ha cercato di dare risposta la legge n. 39 del 1990 (la cosidetta legge Martelli) che introduce una programmazione degli ingressi affidando/a alla concertazione di vari ministri. 4lfine di stabilire il numero di immigrati da accogliere, viene annualmente approvato un decreto legge": Questi decreti, però, snaturando le indicazioni legislative, tendono ad imporre una vera e propria chiusura delle frontiere. In tale situazione, La clandestinità non appare, quindi, un fattore legittimante il blocco degli ingressi ma la conseguenza di esso. Vi è ormai, in Italia come nel resto dell'Europa, una vera e propria "sindrome da invasione": L'autrice sostiene, e concordiamo con lei, che se anche si attuasse una programmazione degli ingressi questa non sarebbe mai efficace se si prescinderà da precisi accordi con gli Stati da cui provengono gli immigrati e da una seria politica di cooperazione. Politica che, naturalmente, non dovrà essere quella svolta finora sulla base dell"acquisto e vendita" di sviluppo da parte di "imprese e partiti": Il nuovo disegno di legge "sull'emigrazione e per l'immigrazione' approvato il 14febbraio scorso, pur introducendo un fatto importante, co me il diritto di voto alle elezioni amministrative, ancora non tiene conto dell'utilità di una valida politica di cooperazione. Vedremo, poi, cosa farà la legge che verrà approvata. L'articolo di Alessandra Venturini, scritto in collaborazione con Laura Gobetti, dimostra come anche l'analisi del fenomeno dal punto di vista economico provi che è impossibile bloccare i flussi migratori. Venturini ricorda, infatti, che «i Paesi da cui giunge la maggioranza degli immigrati sono caratterizzati da una popolazione elevata e da bassi redditi, per cui la spinta ad emigrare continuerà ad essere, nel breve e medio termine, molto sostenuta": Quindi, sarà più utile una revisione della politica migratoria che renda più flessibili gli ingressi. In particolare, per il caso italiano, si rileva che, in un futuro prossimo, possa esservi addirittura necessità di immigrati, dati i problemi demografici del nostro Paese. L'analisi della Venturini, fra l'altro, tende a riportare nella sua giusta dimensione il fenomeno attraverso dei dati. Innanzitutto, la portata del fenomeno immigrazione in Italia. Il dato è del 1994: gli stranieri sono soltanto l'i, 6 % della popolazione, in confronto al 18,6 della Svizzera, al 9,1 del Belgio, all'8, 6 della Germania e al 6,3 de/la Francia. Altro elemento interessante sono le comunità più rappresentate (dati dei 1995), nell'ordine: Marocco, ex Yugoslavia (ci sono da considerare, naturalmente, i profughi della recente guerra), gli USA (gli americani al terzo posto?), le Filippine e la Tunisia. Vi è sicuramente una crescita d'immigrazione anche dalla Nigeria e dal Senegal. Ma siamo decisamente lontani dall'essere "africanizzati '7 Anche per quanto riguarda i/famoso "lavoro rubato agli italiani ' analizzando la situazione si


rileva che il 659,6 dei lavoratori stranieri è concentrato al Nord dove il tasso di disoccupazione è sempre più in diminuzione. Per quanto riguarda il lavoro informale, si rileva che anche qui la competizione non è maggiore di quella presente fra gli stessi nazionali non-regolari e che, anzi, dato il valore elevato di occupati nel settore agricolo, si ritiene possa parlarsi di una situazione non competitiva. Qualcuno ricorda - lo fa, ad esempio, Guido Bolaffi nel suo Una politica per gli immigrati (Il Mulino, 1996) - che i dati sull'immigrazione non sono ancora certi e che quindi, fra gli stessi studiosi del fenomeno esistono delle divergenze sulle conclusioni da trarre. Alcuni economisti, ricorda Bolaffi, ritengono, ad esempio, (al contrario di quanto verificato da Alessandra Venturini) che l'immigrazione influenzi negativamente i livelli salariali dei lavoratori italiani. Ma, afferma giustamente Bolaffi, i problemi che sorgono dalla discussione non sono dovuti tanto ai dati quanto ai valori. "Quale vogliamo sia il profilo futuro del nostro Paese?... in quale società desideriamo che vivano e lavorino i nostri figli?" Che si voglia o no, anche l'Italia, come il resto d'Europa, è già una società multietnica: non può fare a meno di esserlo. A meno che non riesca ad alzare un muro altissimo sulle sue coste, ai suoi confini, a presidiare i suoi aeroporti con l'esercito pronto a sparare su chiunque forzi il blocco. Forse, così, riusciremmo a rassicurare gli osservatori inglesi che, dalle pagine del «the Economist", ci bacchettano per aver fatto entrare 700mila immigrati clandestini, avendone rìfiutati soltanto 60mila (dati che il nostro ministro Napolitano si è subito preoccupato di respingere come falsi). L'Italia, oltre a Maastricht, deve pensare anche a Schengen.

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Movimenti etnici e regionali nella nuova Europa di Alessandro Silj*

Le relazioni interetniche sono diventate uno dei problemi centrali, e irrisolti, dell'Europa, e rappresentano ormai una seria minaccia alla pace e alla sicurezza del vecchio continente, e non soltanto di questo. La minaccia è resa più grave dalla crisi degli Stati-nazione europei che si manifesta nella loro incapacità di gestire i propri spazi politici-economici, crisi determinata dagli effetti combinati dei processi di globalizzazione, dall'alto, e delle domande di decentralizzazione, dal b asso l. In un recente saggio, seppure ragionando in un diverso quadio teorico, Etienne Balibar ha concluso che oggi lo Stato europeo non è n nazionale né internazionale e che il classico esercizio del potere centrale è scomparso; pertanto, secondo Balibar, oggi la questione dell'identità fa sì che siano presenti tutte le condizioni atte a produrre un senso di panic0 2 Forse parlare di panico e esagerato, ma è indubbio che dei mali che oggi affligguno l'Europa la ricerca di una idenriti non è tra i minori. Il sintomo più visibile ditale patologia è la risco.

* Segretario Generale del Consiglio Italiano delle Scienze Sociali.

perta di tradizionali identità etniche, nazionali e regionali. Tuttavia, se guardiamo al problema in una prospettiva a lungo termine, e alle sue possibili soluzioni, bisogna ritenere che questa ricerca di una identità è un processo molto più complesso di un mero ritorno al passato. Guardiamo, per convircercene, ai fatti più salienti che hanno marcato le vicende europee di questi ultimi cinquant'anni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seguito dei trattati di pace, di protocolli internazionali o taciti accordi tra le grandi potenze: - la Polonia perdeva quasi il 50% dei territori che possedeva sulle sue frontiere orientali, ottenenendo in compenso, sulle frontiere occidentali, territori più piccoli ma economicamente più sviluppati, già tedeschi; ciò ha provocato niassicci spostamenti di popolazione, e oggi cospicue minoranze polacche vivono nei Paesi confinanti, mentre minoranze tedesche e altre minoranze risiedono in Polonia; - l'Ungheria non riusciva ad ottenere la revisione del Trattato di Trianon, del 1920, in seguito al quale aveva perso il 60% del suo territorio e un 5


terzo della sua popolazione; oggi due milioni di ungheresi vivono in Romania, più di 600.000 in Slovacchia, e altri ancora in Serbia e in Ucrania; - i sudeti venivano espulsi dalla Cecoslovacchia; - alcune nazioni (Estonia, Lituania e Lettonia) perdevano lo status di Stati indipendenti che possedevano tra le due guerre mondiali; - il più grande degli Stati europei, la Germania, veniva diviso in due Stati separati; - l'egemonia sovietica "congelava" tutta la mappa geo-politica dell'Europa centrale e orientale; - complesse operazioni di ingegneria istituzionale e amministrativa definivano lo statuto di minoranze storiche, quali quella tedesca in Alto Adige e quella slovena in Carinzia... Oggi basta guardare alla mappa delle "minoranze" che vivono in Europa per rendersi conto della ricchezza e diversità di lingue e di culture che coesistono sul vecchio continente. Soltanto l'Italia conta una dozzina di minoranze linguistiche. Popolazioni di lingua madre tedesca vivono in sette diversi Stati. Il Portogallo è il solo Paese che ha una popolazione storicamente «omogenea" (fatta eccezione, ovviamente, per le comunità di immigrati negli anni più recenti). UN P0' DI STORIA

Nei primi due decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, le mi-

noranze etniche e regionali che popolano l'Europa si sono mantenute relativamente tranquille. La gente era occupata a rimarginare le ferite della guerra, i problemi economici e sociali erano problemi comuni a tutti, e quindi la solidarietà una scelta obbligata senza la quale la ricostruzione non sarebbe stata possibile. Così, in molti Paesi, quel periodo vide un crescente impegno dello Stato in favore delle "colonie interne", le aree più povere, anche se non necessariamente sempre le più periferiche. In Spagna, ad esempio, la Castiglia, la regione politicamente dominante, era meno ricca di altre, e lo sviluppo dell'economia capitalistica avrebbe favorito il Paese Basco e la Catalogna in particolare, così come, in Gran Bretagna, aree economicamente periferiche come il Galies e la Scozia meridionale. In quei primi anni del dopoguerra, in una Europa la cui popolazione era stata decimata dagli eventi bellici, le migrazioni interne ai singoli Paesi e tra Paesi europei, rappresentarono un fattore importante dello sviluppo economico in molti Paesi. Il caso della Francia è embiematico dell'importanza attribuita dai governi alla questione demografica. Nel marzo del 1945, il generale De Gaulle informò l'Assemblea Consultiva che, "affinchè la Francia non resti una luce che si spegne", erano stati allestiti piani per introdurre nella collettività francese "buoni elementi di immigrazione", e che ciò an-


dava fatto "con metodo e con intelligenza". L'obiettivo era di due milioni di immigrati in dieci anni. Secondo interpretazioni ufficiose, buono , riferito a un immigrato, era un eufemismo per "assimilabile" e "prolifico", di conseguenza gli immigranti dovevano essere giovani e in buona salute. Oltre quello demografico, ebbe il suo peso anche il fattore economico. A causa della guerra, scrisse Le Monde, molti civili erano morti e la natalità era diminuita: "In primavera la ricostruzione avrà bisogno di 100.000 muratori, e dove mai potremmo trovarli se non in Italia ?". L'annuncio di De Gaulle fu seguito dalla ordonnance del 2 novembre 1945, che stabilì regole e standard, ma questa fu ignorata di fatto, col tacito accordo delle autorità, e gli immigrati potevano entrare nel Paese con un visto turistico. Subito dopo non avrebbero avuto difficoltà alcuna a trovare un lavoro, e avrebbero ottenuto in tempi brevi un permesso di soggiorno. La Francia aveva bisogno di loro, e poteva dar loro più di quanto il loro Paese di origine avrebbe mai potuto offrire. Gli investimenti del governo italiano nel Mezzogiorno non produssero gli effetti sperati e, quindi, nemmeno frenarono i massicci spostamenti di lavoratori verso le aree più ricche e industrializzate del nord del Paese. L'Italia, il Portogallo, la Spagna, la Grecia e la Jugoslavia (il solo Paese comunista che

non vietava l'emigrazione) fornirono alle economie in rapido sviluppo del1 Europa occidentale mano d opera non qualificata e a basso prezzo. Intanto, dal Nord Africa, dall'Africa occidentale e dall'Asia, ovvero dalle ex colonie, migravano in Europa altri lavoratori. In quegli anni, tuttavia, l'immigrazione veniva generalmente considerata (a torto) un fenomeno transitorio. In Germania (e anche in altri Paesi, per esempio la Svizzera) agli immigrati spettava uno status legale speciale e si presupponeva che sarebbero tornati, un giorno, al loro Paese di origine. Il termine stesso di Gastarbeiter, che letteralmente significa lavoratore ospite, è significativo. Nella maggior parte dei Paesi le posizioni liberali non contrarie all'assimilazione non si materializzarono in proposte politiche, né tanto meno in legislazione. La recessione economica della fine degli anni Sessanta e dell'inizio dei Settanta non poteva che agire come un deterrente, tuttavia, il fatto che la maggioranza degli immigrati non prendesse in considerazione la possibilità di tornare a casa anche quando con la recessione venne la disoccupazione, avrebbe dovuto rendere del tutto evidente che il problema era di quelli destinati a non scomparire. D'altronde, lo stesso atteggiamento degli immigrati non era tale da provocare un pubblico dibattito. Infatti, gli immigrati (eccetto forse in Gran Bretagna) non erano particolarmente consci dei propri diritti e, 7


quindi, nemmeno collettivamente capaci di mobilitarsi per affermarli oppure, quando lo erano, il timore di possibili conseguenze li dissuadeva dall'alzare troppo la testa. IL RISVEGLIO DELL'ETNO-REGIONALISMO

La situazione cominciò a cambiare verso la metà degli anni Sessanta, un periodo che registrò anche i primi segni di una rinascita di molti movimenti erno-regionali, che erano rimasti dormienti per quasi mezzo secolo. Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, quando le minoranze nazionali si erano trovate intrappolate nei nuovi confini stabiliti dai trattati di pace, esse avevano dovuto inoltre prendere atto del fatto che la comunità internazionale mai avrebbe tollerato contestazioni dell'integrità territoriale, ai poteri e all'autorità di quella entità chiamata Stato. Diversi elementi concorsero, direttamente o indirettamente, al risveglio dell'erno-regionalismo. Nel Terzo Mondo, le guerre di liberazione che sfidavano e spesso rovesciavano l'ordine stabilito in numerosi Paesi, diedero un significato nuovo e credibilità al principio dell'auto-determinazione. Nei Paesi industrializzati, il clima creato dal movimento studentesco e dalle proteste operaie, il movimento femminista, le campagne ecologiche che denunciavano i pericoli di un uso indiscriminato delle nuove tecnologie (Limits to Growth, il famoso rapporto del Club di Roma, fu pubbli-

cato nel 1972), produssero nuovi valori, quali il "diritto alla diversità", ed erano generalmente molto critici dei processi di omogenizzazione che erano in corso nella affluent society. Questi valori si propagarono piii diffusamente di quanto il numero delle persone che li rivendicavano pubblicamente avrebbe potuto suggerire, e potevano soltanto incoraggiare la presa di coscienza e la mobilitazione anche delle minoranze etniche e regionali. Quando si tiene conto del clima nel quale tale risveglio ebbe luogo, non deve sorprendere che esso si sia espresso, nelle sue manifestazioni pRi immediate e visibili, essenzialmente come fenomeno culturale. Lingue minoritane che avevano attraversato lunghi periodi di declino, - ivi incluso il cornico, caduto in disuso per quasi un secolo -, risuscitarono. In Francia, crebbe il numero degli studenti che, rifacendosi a una legge del 1951, chiedevano e ottenevano di sostenere gli esami in lingue diverse dal francese (brettone, occitano, basco). La crescita della stampa regionale, in Spagna soprattutto ma anche in altri Paesi (vedi ad esempio la Lapponia), era anch'essa espressione dello stesso processo. Le culture popolari regionali: la poesia, il teatro, la danza, la musica folkloristica, conobbero una straordinaria fioritura, in Occitania, in Sardegna, in Catalogna, in Scozia e nelle regioni di lingua celtica. Associazioni private di cittadini militanti (come la Ikastolas basca) si


fecero promotrici dell'uso della lingua "indigena" nelle scuole e, in alcuni casi, come nel Gailes, le stesse istituzioni pubbliche fecero altrettant0 4 . Naturalmente, per quanto essenzialmente culturale, un siffatto revival non poteva non avere ripercussioni anche nel campo politico ed economico. Così in Belgio, dove la crisi nelle relazioni tra le comunità vallone e fiamminga avrebbe portato, con il tempo, a discutere di un nuovo assetto istituzionale (federale) dello Stato. Così in Gran Bretagna, nel 1977, con i progetti di devolution. Così in Spagna, dove il diritto di Province e Regioni a costituirsi in comunità autonome fu sancito nella Costituzione, nel 1978. Così in Scozia, che rivendicò con successo il diritto a sfruttare le proprie risorse naturali. Nella maggior parte. dei casi, la questione al cuore del dibattito era la decentralizzazione. Questa può significare cose diverse, a seconda delle circostanze e del contesto. Tuttavia, in Europa occidentale non fu mai (eccetto in rari casi, di minòranze nelle minoranze) intesa come strumento per rompere i legami con lo Stato. D'altronde, lo stesso concetto di decentralizzazione non può che presumere l'esistenza (e l'accettazione) di un centro: cosicchè oggetto di dibattito e di conflitto è la divisione del potere e delle risorse tra il centro e le periferie. In quegli anni, va notato, gli appelli alla decentralizzazione esprimevano, tra le altre

cose, anche una critica al modello dominante di una società tecnologica e omogenizzata e il bisogno, molto sentito, di una burocrazia più a misura d'uomo, più vicina alle realtà della gente. Lo scrittore corso Sanguinetti affermerà, nel 1979: "Noi siamo un'isola e una montagna, e non possiamo venire governati da individui che di isole e montagne non sanno nulla" 5. Poiché, come si è visto, il risveglio dell'etno-regionalismo era a tal punto parte dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, quando questi declinarono anche esso non poteva che declinare. Durante gli anni Ottanta, soltanto le fazioni militari degli irlandesi e dei baschi, e occasionalmente delle organizzazioni indipendentiste dei corsi e dei curdi, fecero notizia. La Jugoslavia stava già scollandosi, ma furono in pochi a notarlo. L'attenzione, in Europa, era rivolta ad altre questioni: la recessione economica, il terrorismo, la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il dibattito pubblico sul futuro del vecchio continente si concentrava su questioni come l'unificazione e la sovranazionalità cioè la sfida alle prerogative tradizionali dello Stato - veniva percepita come una sfida proveniente dall'alto e dall'esterno, non certo dall'interno. GLI SCONVOLGIMENTI DOPO LA CADUTA DEL MURO La caduta del Muro di Berlino, nel novembre del 1989, avrebbe cambiato 9


tutto. Da allora, la mappa dell'Europa ha subito trasformazioni drammatiche e profonde. Le due Germanie si sono ricongiunte. L'Unione Sovietica si è disintegrata; la Cis, l'espediente istituzionale con il quale Mosca è riuscita a mantenere sotto il proprio controllo almeno una parte del passato impero, potrebbe finire per rivelarsi poco più di una soluzione transitoria. La Cecoslovacchia si è divisa. La guerra civile ha mandato in macerie e posto fine alla Jugoslavia del maresciallo Tito ed anche in questo caso, bisognerà vedere se e quanto a lungo il nuovo ordine imposto dalla comunità internazionale riuscirà a sopravvivere. E numerosi Stati, dai Baltici alla Macedonia, sono alle prese con i problemi posti dalla loro neonata indipendenza. Diciamo pure che troppi sono stati i cambiamenti, e troppo improvvisi, perché qualcuno possa esprimere giudizi certi sulle loro reali dimensioni e tutte le loro possibili conseguenze. Gli ottimisti osserveranno che, in realtà, il livello di violenza che ha accompagnato tali cambiamenti è stato sorprendentemente basso, e che il caso della Cecoslovacchia dimostra che le divisioni nazionali possono essere risolte anche pacificamente. I pessimisti, d'altra parte, citeranno il caso della Jugoslavia come emblematico di come anche le migliori intenzioni e i più sofisticati meccanismi istituzionali possono rivelarsi incapaci di prevenire e gestire i conflitti etnici. La

lo

Jugoslavia di Tito era organizzata in sei distinte repubbliche e un numero ancora più grande di nazionalità, e tuttavia i musulmani non avevano una propria repubblica; molti serbi vivevano fuori della repubblica serba e gli albanesi si dividevano, territorialmente, tra Serbia e Albania. È interessante notare come sia stato il governo jugoslavo a produrre, nel 1978, la prima bozza della dichiarazione dell'ONu sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, e come sia stata la stessa Jugoslavia a fare pressioni sulla CSCE, contro l'opposizione di francesi, americani e sovietici, affinchè si facesse carico del problema. E ancora, paradossalmente (la guerra civile era già alle porte), la risposta più esauriente al questionario della sottocommissione dell'ONu sulla discriminazione e la protezione delle minoranze, nell'agosto 1991, venne da Belgrado. Tanto che nel luglio 1992 il relatore di detta sottocomissione, il norvegese Asbjorn Eide (l'ultima persona al mondo che potrebbe essere sospettata di indulgenza nei confronti delle violazioni dei diritti dell'uomo), avrebbe scritto: "A parte la questione del Kosovo, sembrerebbe che ie soluzioni elaborate in Jugoslavia erano molto sofisticate e complete, finalizzate a un livello di pluralismo nazionale ed etnico senza paralleli in altre parti del mondo". E tuttavia, Eide precisava: "Sarebbe eccessivamente legalistico ed ingenuo fa-


re raffronti tra le diverse legislazioni nazionali in materia di minoranze partendo dalla presunzione che esiste un modello perfetto, in grado di prevenire i conflitti etnici" 6 .

Spetterà agli storici cercare spiegazioni plausibili e documentate a quanto è accaduto in Europa in questi anni. Qui limitiamoci a chiederci se davvero tutto ciò era veramente e del tutto imprevedibile. Pochi hanno mai dubitato che un giorno, per quanto lontano, le due Germanie si sarebbero riunificate. Pochi hanno creduto che lo Stato federale creato da Tito sarebbe sopravvisuto a lungo dopo la sua scomparsa. Quanto all'Unione Sovietica, alcuni storici avevano previsto che sarebbe "esplosa», individuando nel fattore demografico la causa più probabile dell'esplosione (il decrescente tasso di natalità della popolazione russa, confrontato a quelli dei musulmani e delle nazioni caucasa e ucraina) 7. Pertanto la questione da porre è una questione di tempi: non perchè, ma perchè oggi? Fino agli anni Novanta le rivendicazioni etniche, nei diversi Paesi, erano strettamente controllate dagli Stati, da un lato, e dall'altro dall'ordine internazionale di cui questi facevano parte e dal quale erano legittimati e traevano la loro forza. La fine dei conflitti ideologici tra i due blocchi aveva già allentato la morsa; il collasso dell'Urss ha fornito l'occasione. D'altronde, le

minoranze etniche e le nazioni non sono stati i soli a beneficiare di questo processo, altrimenti oggi l'ex partito comunista italiano non guiderebbe una coalizione di governo. In un saggio sul nazionalismo in Europa pubblicato circa quindici anni or sono Michael Hechter, riferendosi alla "dimensione internazionale" del problema, argomentò che l'istituzionalizzazione della distensione tra gli stati Uniti e l'Unione Sovietica (dopo il 1963), e i grandi mutamenti avvenuti nell'economia mondiale, incoraggiarono mobilitazione politica delle minoranze etniche e regionali, che erano rimaste quiescienti durante il periodo della guerra fredda 8 . Tuttavia, va osservato che la distensione da sola non avrebbe potuto provocare gli eventi che hanno fatto seguito alla caduta del Muro di Berlino. Al contrario, la distensione garantiva l'ordine internazionale, ivi incluse le frontiere allora esistenti. È stata la scomparsa di uno dei due poli della distensione, l'URss, e la sua sostituzione con un polo molto più debole, la Russia, l'elemento determinante. Si può argomentare, d'altra parte, che il processo di riconfigurazione della mappa dell'Europa è appena cominciato e che continuerà ancora a lungo. I problemi che creano tensioni e turbolenze nell'ex Unione Sovietica, e nei Balcani, sono tutt'altro che risolti, e così pure quelli delle minoranze ungheresi... Secondo Anthony D. Smith, 11


indipendentemente da queste o altre situazioni specifiche, esistono almeno due altri fattori di carattere generale che potrebbero minacciare gli status quo: la crescente percezione delle diseguaglianze politiche ed economiche tra i diversi gruppi etnici, e quello che potrebbe essere definito un «effetto dimostrativo globale", laddove il successo di un nazionalismo etnico stimolerebbe le rivendicazioni di altr1 9 . Rimane da vedere se e fino a che punto tale effetto dimostrativo si potrebbe verificare anche in quelle situazioni, nell'Europa occidentale, dove le rivendicazioni delle minoranze etniche o regionali non hanno fino ad oggi incluso anche quella di creare uno Stato separato. Sono in molti a pensare che la nazione-Stato continua ad essere un punto di riferimento cruciale. "Per circa due secoli ha osservato Philip Schlesinger, "questa forma politica ha offerto agli europei un ideale normativo globale di identificazione collettiva, e questo non ha ancora fatto il suo tempo, come testimoniano abbondantemente l'apparizione di nuove nazioni-Stato in Europa centrale e orientale e le tensioni interne in numerosi Stati dell'Europa occidentale" lO Oggi, la sfida principale e più drammatica a un ideale di identificazione collettiva di quella entità emergente che chiamiamo Europa e ai tradizionali valori etici e civili degli europei (e alla capacità degli europei di comportarsi conseguentemente) viene dal 12

continuo flusso di immigrati provocato dal collasso dell'Unione Sovietica e dalla crisi economica che il passaggio ad un'economia di mercato ha indotto nei Paesi europei centro-orientali. Questi eventi sollevano la questione della solidarietà in un momento di disagio e protesta sociali alimentati dalle politiche nazionali tese a conseguire i parametri economici fissati dal Trattato di Maastricht. Questi nuovi flussi migratori, - che possono essere considerati transitori (e che sono spesso "pendolari", nel senso che molti lavoratori migrano nei Paesi dell'Europa occidentale per periodi di un anno o poco meno per poi riportare a casa i loro guadagni, e quindi tornare a emigrare dopo un breve soggiorno in famiglia), e ciò indipendentemente da una futura eventuale adesione o esclusione dei rispettivi Paesi di origine dall'Unione Europea -, non hanno sostituito i pre-esistenti flussi immigratori dai Paesi africani ed asiatici. Questi ultimi sono destinati a continuare, almeno fino a quando i tassi di natalità europei e dei Paesi del terzo mondo si manterranno ai loro attuali livelli, e pertanto questo è un problema con cui l'Europa dovrà continuare a confrontarsi. È del tutto evidente, o dovrebbe ormai esserlo, che la maggioranza di questi immigrati non rientrerà nei Paesi di origine in un futuro più o meno vicino e che sarà molto difficile


per i governi europei costringerli a farlo, come hanno dimostrato, tra l'altro, gli eventi verificatisi in Francia nel 1996. Inoltre, in alcuni Paesi in particolare, come l'Italia, bloccare l'immigrazione clandestina si è rivelata un'impresa quanto mai ardua: anche se si riuscisse a presidiare con l'esercito e le forze di polizia centinaia di chilometri di costa (il che è, nella pratica, irrealizzabile), sarebbe semplicemente impossibile intercettare tutti gli albanesi che nottetempo rischiano la vita su imbarcazioni precarie per attraversare l'Adriatico e raggiungere quella terra promessa che i programmi RM portano quotidianamente sui loro schermi. Così pure i tedeschi della Germania orientale, che rischiavano la vita per valicare il Muro, inseguivano un Paese che la televisione della Repubblica Federale aveva reso loro familiare, non soltanto attraverso i notiziari e ie sitcom, ma anche attraverso le luccicanti promesse degli spot pubblicitari.

IL RUOLO DELLO SVILUPPO DELLE TECNOLOGIE

L'importanza delle reti di trasporto e di comunicazioni (incluse quelle interpersonali) nella formazione della nuova Europa è stata e continua ad essere determinante. La televisione ha fatto molto di più che aprire finestre su altri mondi e altri stili di vita. Quan-

do era un monopolio dello Stato, essa si è rivelata un possente strumento nei processi di omologazione e di integrazione. Lavvento della televisione privata e le nuove tecnologie hanno invertito la tendenza. La moltiplicazione dei canali ha permesso la diversificazione dei contenuti (quindi anche dei destinatari dei programmi) e ha reso possibile l'emancipazione dallo Stato; in un mercato apertosi alla concorrenza, i nuovi media dovevano e potevano servire una pluralità di bisogni, inclusi quelli espressi dalle comunità di immigrati, facilitando in tal modo, se non addirittura promuovendo, la conservazione delle culture e delle lingue originali. Anche tecnologie "antiche", come il telefono, svolgono un ruolo importante. Una volta emigrare significava tagliare i ponti con il proprio Paese. Oggi invece, grazie alle reti di comunicazioni e di trasporto, i lavoratori immigrati "possono mantenere i contatti con il Paese di origine, tornandovi per le vacanze e scambiando telefonicamente con i parenti notizie e pettegolezzi del genere che in passato ci si poteva scambiare soltanto sul posto. Questi legami significano che per gli immigranti oggi è più facile mantenere la propria identità anche in terra straniera. Psicologicamente vivono a casa anche quando sono distanti da casa; o, più esattamente, sono capaci di vivere simultaneamente in due mondi diversi". Conseguentemente, in alcuni casi le comunità di immigrati 13


possono stanziarsi permanentemente come minoranze etniche, integrate nel mercato del lavoro e nell'economia del Paese ospitante, tra l'altro pagando le tasse come tutti gli altri, ma senza acquisirne la cittadinanza, usufruendo talvolta di qualche forma di rappresentanza politica ma senza il diritto di voto, e senza usufruire della protezione e dei diritti che l'OscE ha riconosciuto alle minoranze "nazionali" 12 . Sono situazioni che, ovviamente, possono provocare tensioni e conflitti. Soltanto un tasso di crescita eccezionalmente elevato dell'economia nei Paesi di origine potrebbe fermare il flusso migratorio ed, eventualmente, invertirlo. Ma è escluso che tale eventualità possa verificarsi in un futuro prevedibile. Né la soluzione può consistere nel rimpatrio forzoso. In teoria, i governi europei dispongono degli strumenti idonei a tal fine. Tuttavia le difficoltà non sono tanto legali o di ordine pratico, ma scaturiscono da un dilemma di ordine morale: così come negli Stati Uniti la lotta all'immigrazione clandestina dal Messico e dai Caraibi, per avere successo, richiederebbe un allargamento dei poteri della polizia che molti americani sarebbero restii ad accettare 13 , in Europa occidentale la maggioranza dell'opinione pubblica (o quantomeno una sostanziale minoranza) protesterebbe contro l'uso della forza e il maltrattamento degli immigrati. Il che non vieta a molti contribuenti, non soltanto i più 14

conservatori o i più razzisti, di considerare gli immigrati come uno sgradevole peso. Ed inoltre, sebbene gli immigrati il più delle volte accettino lavori che i cittadini del Paese ospitante normalmente rifiuterebbero, essi vengono visti come una minaccia all'occupazione. LE RISPOSTE AL PROBLEMA

Le misure adottate fino ad oggi dai governi eùropei per ridurre l'immigrazione sono state largamente inefficaci, fatta eccezione parzialmente per la Gran Bretagna (grazie anche alla sua insularità, non soltanto geografica), la cui politica è stata diretta a limitare la concessione della naturalizzazione o della residenza basata su legami di parentela, anche se, bisogna precisare, poi nella pratica l'approccio delle autorità può essere più morbido (per esempio, con la concessione a chi detiene un permesso di lavoro di lunga durata dello status di immigrato permanente). La politica inglese, nel suo insieme, è stata comunque più coerente di quella seguita in Francia (dove l'alternanza al potere di governi della sinistra e della destra ha determinato anche una altalena di provvedimenti più o meno liberali e più o meno repressivi), cosicchè in Gran Bretagna l'immigrazione è diminuita gradualmente negli ultimi venticinque anni per attestarsi oggi a circa 55.000 unità all'anno. Poichè circa il 30 per cento dei lavoratori


stranieri sono irlandesi e molti altri immigrati provengono da Paesi dell'Unione Europea, si sarebbe tentati di giudicare alquanto stravagante la tendenza degli inglesi a considerare la questione dell'immigrazione come una questione razziale. È anche vero, tuttavia, che tensioni etniche e incidenti razziali sono più frequenti in Gran Bretagna che altrove in Europa, e che questo può creare problemi al governo di Londra, specie in periodo di campagna elettorale. Problemi ancora una volta più reali in Gran Bretagna che in altri Paesi, malgrado, anzi precisamente a causa del fatto che in Gran Bretagna non esistono partiti politici di una qualche importanza che sfruttano il razzismo per accaparrarsi voti, così come avviene per esempio in Francia (ma ciò è dovuto, molto probabilmente, soprattutto alle differenze tra i rispettivi sistemi elettorali). Allo stato attuale delle cose, una soluzione ai problemi di integrazione, e prima ancora dei diritti dell'uomo e dei diritti civili degli immigrati, potrà essere trovata, se verrà trovata, soltanto nel contesto di politiche comuni adottate dai Paesi membri dell'Unione Europea. Secondo la Commissione della UE, "nei confronti degli stranieri, l'immensa maggioranza della popolazione nutre sentimenti di amicizia e le manifestazioni di protesta contro le aggressioni razziste sono una prova più convincente di questo atteggiamento che non le aggressioni stesse.

Non mancano, però, coloro che sono sinceramente preoccupati per il numero d'immigrati in Europa, che ritengono eccessivo, percezione questa che poggia spesso su impressioni e non su fatti concreti...". Questa analisi è sostanzialmente esatta. Tuttavia essa è stata espressa'nel 1994. Da allora sono intervenuti altri elementi che inducono a temperare il giudizio positivo sull'atteggiamento dei cittadini europei nei confronti degli immigrati. Sfortunatamente, infatti, il costo sociale imposto dall'enfasi sulle politiche monetarie e finanziarie, i tagli alla spesa pubblica necessari a condurre le economie dei diversi Paesi al traguardo di Maastricht, unitamente alle ripercussioni negative nell'opinione pubblica di episodi legati alla immigrazione clandestina, hanno creato un clima politico che non favorisce, anzi rende più problematica che mai una soluzione, almeno nel periodo breve. Nel febbraio del 1994, in una "Comunicazione sulle politiche d'immigrazione e di asilo indirizzata al Consiglio e al Parlamento europeo, già citata qui sopra, la Commissione della UE osservava che "nel dopoguerra l'immigrazione ha costituito un fenomeno positivo, in quanto da essa sono scaturiti vantaggi di ordine economico e culturale sia per i Paesi ospitanti che per gli stessi immigrati". La Commissione proseguiva: "Non è mancato chi ha chiesto di far cessare del tutto l'immigrazione; in realtà ciò non è fattibile 15


né auspicabile: quel che occorre è un'adeguata gestione della politica di immigrazione. La Comunità nella quale viviamo è sempre stata una entità pluriculturale e plurietnica; è vero però che le sue diyerse componenti arricchiscono la Comunità stessa e recano beneficio a tutti i cittadini e che al tempo stesso suscitano tensioni nel tessuto sociale e nelle comunità di immigrati". La Commissione concludeva raccomandando una riduzione delle pressioni migratorie (migliorando l'informazione dei governi europei sui movimenti migratori, nonchè la sorveglianza degli stessi), sottolineando la necessità al tempo stesso di affrontare le cause profonde di tale pressione (disparità economiche, fattori demografici e ambientali, situazione politica e dei diritti civili, ecc.), auspicando una armonizzazione delle normative, e in particolare un rafforzamento e l'armonizzazione delle politiche di integrazione a favore degli immigrati residenti legalmente nei Paesi membri dell'Unione, nonchè delle loro famiglie, creando le condizioni economiche e socio-culturali in grado di assicurare il successo dell'integrazione. Tra le iniziative suggerite va citata la priorità che, secondo la Commissione, potrebbe essere data ai cittadini di Paesi terzi che soggiornano legalmente in un altro Stato membro, quando i posti di lavoro vacanti non possono essere occupati da cittadini dell'Unione. Ed ancora: l'istituzione di un osservatorio 16

delle migrazioni e misure atte a prevenire l'immigrazione clandestina. Tuttavia, così come è accaduto per altre prese di posizione illuminate della Commissione su altre questioni, anche questa dovrà venire a patti con la Rea Ipolitik degli Stati. Nel giugno del 1994, il Consiglio dei Ministri della Giustizia e degli Affari Interni dell'Unione adottava una "Risoluzione sulle limitazioni all'ammissione di cittadini extracomunitari negli Stati membri per fini di occupazione", nella quale, dopo aver riconosciuto "il contributo dei lavoratori migranti allo sviluppo economico dei rispettivi Paesi ospitanti", si affermava esplicitamente che la disoccupazione nei Paesi membri rendeva necessarie misure di restrizione delle immigrazioni. La Risoluzione prendeva atto del fatto che già oggi gli Stati hanno limitato la possibilità di immigrazione legale duratura per motivi economici, sociali, e quindi politici". Gli Stati membri, osservava la Risoluzione, fatte salve alcune eccezioni (lavoratori stagionali, apprendisti, lavoratori frontalieri), dovrebbero impiegare cittadini di Paesi terzi (ma esclusivamente su base temporanea) soltanto quando, in ragione delle qualifìche richieste, si verifichi "indisponibilità a breve termine di una offerta di manodopera sul mercato nazionale o comunitario del lavoro che pregiudichi seriamente il funzionamento dell'impresa o lo stesso datore di lavoro": in altre parole, l'immi-


grazione è ammessa (ma sempre per un periodo di tempo determinato) soltanto allorché è funzionale agli interessi degli Stati membri. Quanto alle minoranze territoriali nazionali, fino a quando i popoli d'Europa non condivideranno un senso di appartenenza a una comune identità, e un forte impegno comune, non si vede perché dovrebbero abbandonare i loro ideali tradizionali per unirsi a una famiglia europea che, di fatto, non possiede quei comuni valori e quelle comuni regole di convivenza che la qualificherebbero come comunità. La sola motivazione potrebbe essere strategica: di usare l'Europa come un ombrello di protezione dalle maggioranze che le governano. D'altronde, lo stesso può dirsi per gli immigrati: la sola motivazione, nel loro caso, continerebbe ad essere quella economica. "Sembra esserci ancora una distanza molto chiara e profonda", ha scritto Anthony D. Smith, "tra le aspi-

ALAN BIHR, citato da PHILIP SCHLESINGER in Euroin «Innova-

peanness: A New Cultural Battlefield, tion», 511, 1992. 2

ETIENNE BAL!BAR, citato in SCHLESINGER, op. cit.

3 LeMonde,

17.10.1945.

Su questo e altri aspetti del risveglio delle culture regionali, vedi l'interessante articolo di Jeìi CHESNAUX, Dissidences Régionales et Crise de l'Etat-Nation en Europe occidentale, in «Le Monde Diplomatique», no. 325, aprile 1981.

razioni ad una unità politica (ed economica) dell'Europa, e lo sviluppo di una genuina identità culturale europea in grado di competere, nella coscienza e nella fedeltà popolari, con appartenenze nazionali profondamente radicate" 14 LEuropa è già una società multi-etniChiunque passeggi per le strade di Londra e Amsterdam, ma anche di Roma, Parigi, Berlino, ecc. o chiunque osservi il colore della pelle di molti atleti "europei" nelle competizioni sportive, non può che prendere atto di questa realtà. Ormai sono due, e in alcuni casi anche tre, le generazioni di italiani, spagnoli, turchi, portoghesi, che vivono in Francia, Germania e altri Paesi. Eppure, questa ovvia verità non è ancora filtrata nella coscienza collettiva degli europei, oppure se filtrata viene ancora da troppi rifiutata, e tuttavia è questa la più grande sfida con cui l'Europa dovrà misurarsi negli anni a venire.

Citato da CHESNAUX, op. cit. 6 «The Financial Times», December 16, 1992. 7 HÉLENE CARRERE D'ENCAUSSE, L 'Empire Eclaté, Pa-

ris

1978.

The Comparati ve Analysis of Ethnoregional Movements, «Ethnic and Racial Studies», 213, 1979. Secondo gli Autori, il 8 Mici-i.EL HECHTER e MARCARET LEVI in

separatismo è stato incoraggiato anche dall'avvento della tecnologia nucleare e dalla internazionalizzazione dei sistemi di difesa. Essi hanno infatti argomenta-

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to (contraddicendo, si direbbe, quanto da loro stessi scritto sulla distensione) che "se la NATO è responsabile della difesa di grandi Stati come la Francia e la Germania, potrebbe essere usata anche per difendere Stati piii piccoli, come la Scozia e la Catalogna". 9 A Europe ofNations or the Nation ofEurope?, «Journal ofPeace Research», VoI. 30, No. 2, 1993. ° Europeanness: A New Cultural Battlefiel.d?, op. cit. Nel suo saggio, Schlesinger cita tra l'altro la distinzione fatta da Smith tra il modello occidentale di nazione e quello orientale. Il primo sarebbe caratterizzato da una comune cultura civica ed una comune ideologia, una territorialità storica, una comunità di ordine legale-politico, e l'eguaglianza dei suoi membri; mentre i legami veri o presunti di sangue, la mobilitazione popolare, dialetti, costumi e tradizioni, sarebbero i tratti della concezione alternativa, etnica, del modello orientale. 1 WILLIAM H. MCNEILL in Beyond Nationalism?, "Poliethnicity and National Unity in World Histo-

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ry", Toronto University Press 1986. 12 Nella dichiarazione finale della Conferenza di Helsinki del 1975, l'OscE, allora CSCE, sancì l'obbligo degli Stati di rispettare il diritto dei membri di una minoranza all'eguaglianza di fronte alla legge e il "pieno godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Nel giugno 1990, ovvero dopo la caduta dei regimi comunisti, la CSCE riconobbe il diritto delle persone appartenenti a minoranze alla "libertà di esprimere, conservare e sviluppare la loro identità etnica, culturale, linguistica o religiosa", e di non essere soggette a "tentativi di assimilazione contro la loro volontà". Infine, nel 1991, la CSCE deliberò che le questioni concernenti le minoranze nazionali sono materia di' legittima competenza (concern nel testo inglese) internazionale e conseguentemente non costituiscono affari esclusivamente interni degli Stati". 3 MCNEILL, op. cit. 4 Op. cit.


Un approccio economico all'analisi delle migrazioni di Alessandra Venturini e Laura Gobetti*

Quando si discute di migrazioni, spesso si ricorre ad argomentazioni dettate dalle impressioni dell'esperienza soggettiva che, essendo per sua natura parziale e frammentaria, può non fare percepire le linee generali di tendenza de! fenomeno. Ci si chiede se le attuali migrazioni siano inevitabili, se siano positive o negative per il Paese di destinazione, se non sia meglio intervenire sulle cause del sottosviluppo piuttosto che lasciare che la presenza degli stranieri faccia aumentare i problemi economici e sociali nei Paesi europei. Questo lavoro vuole rappresentare un contributo scientifico al dibattito in corso sulle migrazioni, attraverso la presentazione di concetti e l'analisi di problemi rilevanti dal punto di vista economico. Nella prima parte, verranno presentati brevemente i temi analizzati dalla scienza economica ed i modelli interpretativi utilizzati; nella seconda parte verrà preso in esame, in particolare, l'effetto dei lavoratori stranieri sul mercato del lavoro italiano.

* Rispettivamente Dipartimento di Economia dell'Università di Bergamo e Ministero della Pubblica Istruzione.

ANALISI ECONOMICA DELLA MIGRAZIONE

L'analisi della migrazione da parte degli economisti può essere ricondotta a tre grandi temi: le cause delle migrazioni, gli effetti nel Paese di arrivo e gli effetti nel Paese di partenza. Limponenza numerica del fenomeno migratorio che interessa attualmente i paesi del Sud Europa rende evidente che ci troviamo di fronte a grandi trasformazioni sociali, che incidono in maniera determinante sulle scelte individuali. Per capire le cause di queste scelte, possono essere utili dei. modelli che ne spiegano le ragioni economiche. Qui di seguito presenteremo tre modelli di decisione migratoria, diversi tra loro ma, che contribuiscono a spiegare la complessità della decisione migratoria e le sue numerose determinanti. I modelli di decisione individuale riconducono la scelta migratoria ad un'applicazione della "teoria del capitale umano" ed ai suoi sviluppi. Si ipotizza che l'individuo decida di emigrare se ciò costituisce il migliore "investimento" (Sjaastads, 1962) del suo capitale umano, dedotti i costi economici e psi19


cologici del trasferimento. Egli, quindi, emigra se «il differenziale di retribuzione" tra Paese di destinazione e Paese di origine, nel ciclo di vita al netto dei costi economici e psicologici del trasferimento, è positivo. La migrazione sarà più probabile quanto maggiore è il differenziale di retribuzione e tanto più lungo sarà il periodo di godimento dei benefici, per cui sarà tanto più possibile quanto più giovane sarà l'individuo. Per tener conto della possibilità di disoccupazione nel Paese di arrivo, Todaro (1969) costruisce un modello di scelta migratoria in funzione della remunerazione attesa, ossia della probabilità di ottenere dopo l'emigrazione un lavoro ad un dato salario o una remunerazione di disoccupazione. Le differenti formulazioni presentano differenti implicazioni di politica economica. Mentre nel primo caso, per frenare la migrazione, occorre diminuire il differenziale di reddito tra area di partenza ed area di arrivo, nel secondo caso bisogna tenere presente che, anche senza incremento dei salari, l'emigrazione riceve un incentivo dall'aumento dell'occupazione nel Paese di destinazione. La decisione migratoria può essere anche analizzata come una scelta di portafoglio. Mentre la letteratura tradizionale sottolinea una relazione positiva tra individui che emigrano e loro pro20

pensione al rischio, Stark e Katz (1986) propongono una interpretazione diversa della decisione di emigrare. Essa non è riferita all'individuo ma alla famiglia che, per diversificare il portafoglio delle sue entrate e assicurarsi contro i rischi di un cattivo reddito agricolo, investe nell'emigrazione. In questo caso, non è la propensione ma l'avversione al rischio a favorire la scelta migratoria. Le rimesse del familiare emigrato contribuiscono al mantenimento di un reddito stabile della famiglia. Esse, inoltre, possono essere decisive, a livelli molto bassi di reddito, per una modernizzazione della produzione agricola altrimenti improbabile. In questo approccio, diversamente da quanto avviene con la teoria del capitale umano, il reddito non è considerato un bene omogeneo, è invece importante tenere conto della sua fonte perché da essa dipende l'entità del rischio. Tale interpretazione diminuisce l'importanza di un differenziale di reddito atteso quale motore della migrazione, quindi, il maggiore sviluppo locale non sarà determinante per frenare la mobilità. La riduzione del flusso migratorio si otterrà più facilmente con una politica economica che offra maggiori finanziamenti agricoli e più ampie assicurazioni contro i rischi. E per quanto riguarda il mercato del lavoro, sarà utile intervenire nel Paese di partenza in campo previdenziale, ad esempio con sussidi di disoccupazione.


Considerando che i Paesi del Sud Europa hanno redditi superiori di molte volte a quelli dei Paesi di origine degli immigrati, ci si può chiedere non tanto perché si emigra quanto perché non si emigra di più Partendo dall'ipotesi di una maggiore utilità del consumo nel Paese di partenza, Fami e Venturini (1993) assegnano un ruolo fondamentale al reddito nel Paese di origine per la scelta migratoria. La migrazione sarà "desiderata" se il differenziale di reddito è tale da compensare la perdita di utilità dovuta alla diversa localizzazione, in quanto si parte dall'assunto che per l'individuo è preferibile consumare nel suo Paese, insieme alla sua famiglia. Per "poter" emigrare, tuttavia, è necessario avere un capitale umano da investire in tale progetto. Gli emigrati, quindi, sono costituiti da coloro che desiderando emigrare sono in grado di poterlo fare perché hanno un capitale umano, superiore ad una soglia minima indispensabile. In base a questa interpretazione, il differenziale di reddito rimane essenziale per la migrazione (condizione necessaria), ma la dinamica migratoria dipende dall'andamento del reddito nel Paese di origine. Per livelli bassi di reddito pro capite, la crescita del reddito nel Paese di partenza incide positivamente sulla scelta migratoria perché riduce l'insufficienza delle risorse finanziarie e di capitale umano necessarie per poterla intraprendere tra gli individui che vogliono emigra-

re. Per livelli medio alti di reddito pro capite, la crescita del reddito nel Paese di partenza, riducendo tra chi vuole e può emigrare il ritorno della migrazione, scoraggia la mobilità. In questo caso, le implicazioni di politica economica sono diverse da quelle dei modelli precedenti, perché la riduzione del differenziale di reddito a seguito di politiche di sviluppo, in Paesi molto poveri porta paradossalmente a raggiungere quelle condizioni, - ad esempio, maggiore istruzione, inurbamento -, che aumentano la "possibilità" di emigrare ed accrescono i flussi in uscita. Questi pochi modelli presentanti mostrano la complessità della scelta migratoria e la difficoltà di agire sulle cause stesse del fenomeno, sia perché legate alla struttura sociale e produttiva del Paese di partenza sia perché, spesso, non è possibile ottenere i benefici che, nel lungo periodo, una politica di syiluppo economico garantirebbe, senza un aggravamento della pressione migratoria nel breve periodo. EFFETTI NEL PAESE DI ARRIVO

Il corpus teorico sulla migrazione pii ampio è composto dallo studio degli effetti economici nel Paese di destinazione. Quattro sono i principali filoni di ricerca, che si concentrano su: il contributo degli stranieri alla crescita econo21


mica; il ruolo complementare o competitivo da loro svolto nel mercato del lavoro; l'integrazione salariale ed occupazionale; l'incidenza della immigrazione sulla spesa sociale. Per analizzare il contributo dell'immigrazione alla crescita economica, se ne può prendere in considerazione l'impatto sul tasso di crescita del reddito del Paese di destinazione. Esso è stato esaminato da vari punti di vista, ad esempio da quello dello stimolo allo sviluppo tecnologico (Simon, 1989), ma le argomentazioni tese a presentare la società multietnica come più propensa all'innovazione sono difficilmente verificabili. Più interessanti ed univoci sono gli studi che analizzano le conseguenze dell'immigrazione sul reddito pro capite. Si è passati da un generale consenso sugli effetti benefici a posizioni più articolate. Le conclusioni degli studi empirici convergono nel constatare l'effetto positivo della presenza degli stranieri sull'aumento del reddito pro capite del Paese di destinazione soltanto se il loro capitale umano è superiore alla media dei nazionali, mentre l'impatto è negativo se inferiore!. Un altro tema su cui il dibattito è aperto è l'effetto delle migrazioni sulla distribuzione del reddito. Le analisi contraddicono l'ipotesi diffusa che l'emigrazione di individui non qualificati riduca le differenze di reddito nel Paese di partenza e le aumenti nel 22

Paese di arrivo (Davies e Wooton, 1992). L'effetto è, in realtà, ambiguo sia nel Paese di partenza che nel Paese di arrivo perché dipende da tanti fattori legati al capitale umano relativo degli emigrati e dalla loro possibilità di inserimento professionale. Il tema che ha, tuttavia, catalizzato il dibattito sulla migrazione è se il ruolo da essa ricoperto nel mercato del lavoro è complementare o sostitutivo, ossia se i lavoratori stranieri hanno un effetto positivo o negativo sul salario e l'occupazione dei nazionali. In genere, la discussione è pregiudiziale: chi sostiene la complementarietà ipotizza una netta separazione tra nazionali e stranieri, una segmentazione del mercato per cui la competizione risulta impossibile. Chi sostiene la sostituzione, parte dal presùpposto di un numero dato di posti di lavoro, come se l'arrivo degli immigrati non potesse innestare nessuna dinamica di crescita. Inoltre, non si tiene conto di altre variabili, ad esempio se il mercato del lavoro è in una fase di espansione, con crescita della domanda, o di recessione. In un modello che si riferisce ad un mercato del lavoro neoclassico, in cui i salari si aggiustano alle variazioni della domanda e dell'offerta, la crescita dell'offerta di lavoro senza che vari la domanda produce una riduzione del salario di equilibrio e un aumento dell'occupazione. Se l'offerta di lavoro dei nazionali è rigida alla remunera-


zione2 si avrà soltanto una contrazione dei loro salari, mentre se l'offerta è elastica si avrà una riduzione sia del salario che dell'occupazione dei nazionali. In ambedue i casi, l'effetto è di "competizione diretta" e si potrebbe riscontrare in un mercato del lavQro non qualificato in recessione. Se, invece, alla maggiore offerta si accompagna una maggiore domanda di lavoro, ci potrà essere una crescita dei salari e/o dell'occupazione dei lavoratori. L'effetto sarà di "complementarietà diretta" e si potrebbe riscontrare in un mercato del lavoro in espansione. Se in questi mercati del lavoro sono presenti rigidità salariali o salari fissati istituzionalmente, gli effetti si concentreranno sull'occupazione. Oltre alla "competizione diretta", la concorrenza tra gruppi di lavoratori può realizzarsi anche attraverso lo spostamento del capitale da settori ad alta intensità di lavoratori nazionali in settori ad alta intensità di lavoratori stranieri e chiameremo questo fenomeno di "competizione indiretta". Se ipotizziamo, per esempio, che in un sistema economico sia prodotto un unico bene sia nel settore ufficiale sia nel settore informale, una riduzione del costo del lavoro nel settore informale, a seguito dell'immigrazione, può rendere più conveniente al capitale il trasferimento in questa area, ora più remunerativa. E ciò può produrre una crescita dell'occupazione nel settore informale, ove sono intensivi i lavoratori stranieri, ed

un calo in quello ufficiale, dove sono impiegati lavoratori qualificati nazionali (Dell'Aringa e Neri, 1987). Le verifiche empiriche che tengono conto, tra le cause della variazione dei salari e dell'occupazione, della quota di stranieri occupati, rilevano per gli USA che l'effetto dell'immigrazione sul salario dei nazionali è in generale negativo ma presenta valori piccolissimi, vicini allo zero. Questo risultato si deve attribuire alla grande flessibilità del mercato del lavoro e alla mobilità dei lavoratori americani, favorita tra l'altro dalla duttilità del mercato immobiliare. L'effetto dell'immigrazione è negativo e significativo solo rispetto agli immigrati di precedenti ondate, che sono più concentrati localmente e professionalmente. Il tema della possibilità per il lavoratore immigrato di raggiungere in un periodo di tempo, più o meno lungo la parità salariale con il corrispondente nazionale è pure oggetto di molte analisi empiriche. Una prima ricerca sull'assimilazione salariale svolta negli UsA (Chiswich, 1978) portava a ritenere che gli immigrati fossero in grado di eguagliare e superare la retribuzione dei nazionali a causa di una maggiore propensione al rischio e di un capitale umano che, inferiore al momento dell'arrivo, si sarebbe rivelato crescente nel tempo. I risultati sono stati successivamente ribaltati, con la conclusione di una sotto assimilazione 23


degli stranieri. Alcuni autori ne indicano la causa in un peggioramento della qualità del capitale umano degli immigrati più recenti (Borjas, 1985), altri nel peggioramento delle condizioni economiche del Paese di arrivo al momento della loro entrata (LaLonde e Topel, 1992). Altri studi sottolineano l'importanza dell'investimento in informazione e ricerca di lavoro per ottenere un maggiore salario, le variazioni del salario secondo i gruppi etnici, il peso della conoscenza scritta della lingua per l'assimilazione salariale. Una ricerca su l'Olanda propone una riflessione su come negli ultimi decenni sia cambiato il tipo di immigrati, essendo di molto cresciuto il numero dei rifugiati politici e dei familiari ricongiunti (Penninx, Schoorl e van Praag, 1994). Come conseguenza, da un lato, è sempre più difficile l'assorbimento dei lavoratori stranieri, dall'altro, sta cambiando la natura del fenomeno migratono da migrazione di lavoratori a migrazione permanente di famiglie. Un ultimo tema sugli effetti positivi o negativi della presenza degli immigrati, è l'impatto sulla spesa sociale. Queste ricerche, riguardanti materie quali le entrate fiscali, la riscossione delle pensioni, i contributi sanitari, l'utilizzo dei servizi, non permettono di giungere a conclusioni univoche, perché la diversità delle norme sui diritti di cittadinanza sociale per gli stranieri e i 24

diversi sistemi di pubbliche garanzie a favore dei nazionali portano ad usi non confrontabili della spesa sociale. È, inoltre, difficile analizzare un tema che riguarda il ciclo di vita, durante il quale i comportamenti degli immigrati possono modificarsi, sia per scelta propria che per ragioni indotte da variazioni istituzionali. In Europa, l'immigrazione degli anni Sessanta è stata inizialmente temporanea. I lavoratori versavano i contributi, ma tornavano al loro Paese prima di avere maturato i diritti pensionistici. Successivamente, gli immigrati hanno potuto capitalizzare e ritirare la loro pensione al momento del rientro. Se l'immigrazione, inizialmente, era sembrata contribuire alla spesa sociale più che ricavarne benefici, negli anni Ottanta e Novanta si sono dovute affrontare situazioni di elevata, disoccupazione e di più diffuso utilizzo dei servizi sociali da parte degli immigrati. Le indagini empiriche sul rapporto costi-tasse-benefici-trasferimenti da parte dello Stato verso gli stranieri, tendono a convergere nel rilevare che l'effetto dell'immigrazione sulla finanza pubblica è in genere neutrale o dubbio e in alcuni casi positiv03 .

L'invecchiamento della popolazione nei Paesi europei, con un sistema pensionistico a ripartizione, in cui cioè i lavoratori pagano per i pensionati, ha fatto nascere l'idea di poter utilizzare i contributi degli immigrati per ripia-


nare i conti pensionistici. In realtà, le analisi fatte concludono che ciò non è possibile, perché bisognerebbe accogliere flussi di immigrati via via crescenti, a causa dell'invecchiamento nel tempo anche della popolazione di immigrati, creando una situazione insostenibile. EFFETTI NEL PAESE DI PARTENZA

Il dibattito sulle conseguenze dell'emigrazione nel Paese di partenza non è meno vivace di quello sugli effetti nel Paese di destinazione. Esso riguarda, essenzialmente l'effetto che l'emigrazione ha sullo sviluppo economico. Al tema sono particolarmente interessati i Paesi di destinazione che vorrebbero poter conoscerè i modi per frenare i flussi migratori, senza dover ricorrere in modo massiccio a politiche restrittive degli accessi. La ricerca si concentra sull'effetto del capitale umano e delle rimesse. L'effetto del capitale umano dell'emigrante sullo sviluppo economico deve essere analizzato rispetto alla sua partenza e rispetto al suo rientro. Quando l'emigrante si allontana, la diminuzione della forza lavoro che preme sul mercato costituisce indubbiamente un effetto positivo, ma se il suo capitale umano è superiore alla media del Paese, le conseguenze sono negative. Ueffetto sul reddito è perciò incerto e dipende dal prevalere dell'una o dell'al-

tra di queste due componenti. Occorre tenere presente che chi emigra è in genere un individuo dotato di risorse umane: titoli di studio, capacità di ottenere informazioni, abilità nell'adeguarsi al cambiamento. Ricerche empiriche hanno cercato di misurare gli effetti dell'emigrazione sulla riduzione della disoccupazione. Nel caso della Turchia ad esempio è stato calcolato (Barazik citato in Courbage, 1990) che senza emigrazione, dal 1962 al 1982, il tasso di disoccupazione sarebbe stato più elevato del 36,5% (44% contando anche l'emigrazione illegale). In Marocco, nel 1982, l'emigrazione ha fatto diminuire la disoccupazione del 2,3-4,5% (Courbage, 1990). Al ritorno, in genere, l'emigrante porta con sé un arricchimento della sua professionalità ma spesso non adeguata alla struttura produttiva del suo Paese, per cui è difficilmente utilizzabile nel lavoro dipendente. Egli spesso investe in attività autonome, soprattutto commerciali o turistiche, oppure torna all'agricoltura, a meno che non rientri al momento della pensione e, quindi, rivesta un ruolo economico marginale. La decisione di inviare rimesse alla famiglia, viene interpretata da alcuni studiosi come un comportamento egoistico dell'emigrato, in funzione di una valorizzazione dei beni che erediterà, da altri come un comportamento altruistico per massimizzare l'utilità di tutta la famiglia, da altri ancora come 25


una scelta di portafoglio. In ogni caso, il flusso delle rimesse è legato a variabili quali il tasso di cambio reale nel Paese di origine che, se aumenta, permettendo di acquistare più beni, può sia incentivare la crescita delle rimesse sia farle diminuire. Oltre a costituire una voce, a volte molto importante, della bilancia dei pagamenti, le rimesse hanno anche altri effetti. Sono state analizzate le conseguenze sulla distribuzione del reddito nel Paese di origine. Le indagini empiriche danno risultati contrastanti, perché sembra che le rimesse, pur facendo aumentare i consumi e permettendo di alleggerire i vincoli del credito agricolo, non siano investite direttamente nei settori produttivi, per cui non si possa parlare di effetto positivo per lo sviluppo economico, ma se mai distorsivo (Swany, 1988). Glytsos (1993) rileva che se le rimesse possono avere direttamente un effetto limitato di incremento del reddito, hanno però un effetto moltiplicativo rilevante, indotto dall'aumento dei consumi. Nel caso della Grecia viene stimato al 4% del reddito.

to. Dammontare degli stranieri è ancora contenuto, quelli legalmente presenti costituiscono solo l'1,6% della popolazione (1994), in confronto al 18,6 della Svizzera, al 9,1 del Belgio, all'8,6 della Germania, al 6,3 della Francia4 . La migrazione netta totale (emigrazione - immigrazione) è passata dal -93.768 del 1960 al +194.008 del 1993. Le comunità più rappresentate sono nell'ordine quelle del Marocco, ex Yugoslavia, USA, Filippine, Tunisia (dati 1995). Nonostante le presenze siano contenute, il disagio della popolazione appare crescente e spesso ci si chiede se non sia possibile diminuire la pressione migratoria. In realtà, qualsiasi modello di scelta sia alla base delle singole decisioni di emigrare, rimane il dato di fondo che i Paesi da cui giunge la maggioranza degli immigrati sono caratterizzati da una popolazione elevata e da bassi redditi, per cui la spinta ad emigrare continuerà ad essere, nel breve e medio termine, molto sostenuta. Si può cercare di rendere più efficienti i controlli, ma senza illudersi di potere chiudere le frontiere o bloccare completamente le entrate clandestine.

COMPLEMENTARITÀ O COMPETIZIONE DEI LAVORATORI STRANIERI NEL CASO ITALIANO

La normativa

Concentriamoci ora sul caso italiano. In Italia, come negli altri Paesi del Sud Europa, l'immigrazione è ttn fenomeno recente, perciò ancora poco studia26

In linea di principio la legislazione italiana ha cercato di arginare i flussi in arrivo con una politica restrittiva, che va dalla quota O delle entrate programmate, alla richiesta di visti per gli Stati da cui giunge un eccesso di im-


migrati (Nigeria, Senegal, Marocco), a più seri controlli alle frontiere, anche lungo le coste, a più facili e rapide espulsioni. Di fatto, tuttavia, il fenomeno dei clandestini continua ad essere imponente per i costi troppo grandi di una efficace politica di sorveglianza delle frontiere e del territorio. Le sanatorie, inoltre, se da un lato servono a legalizzare il soggiorno di un'ampia fascia di clandestini, non riescono a coprire tutte le situazioni esistenti ed incentivano le entrate con la speranza di ulteriori regolarizzazioni. La normativa italiana sulla migrazione, proponendosi di programmare flussi calcolati sul numero dei posti per i quali non sono disponibili lavoratori nazionali o precedentemente immigrati, sembra voler garantire la complementarità degli stranieri. Tuttavia, la situazione è resa molto più complessa dalla presenza dei rifugiati politici, degli immigrati illegali, dei lavoratori irregolari. Per stabilire se prevale la complementarità o la sostituzione, si devono esaminare gli effetti sull'occupazione e sui salari dei nazionali. Il mercato del lavoro regolare Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un'alta disoccupazione, in particolare giovanile, paragonabile tra gli altri Paesi europei soltanto a quella spagnola, ma che non è diffusa uniformemente sul territorio. Negli anni

1980-1990 è stata del 5% al Nord, del 9,7% al Centro e del 19,9% al Sud, legata com'è al livello di industrializzazione e all'efficienza del sistema produttivo; ma non ha provocato migrazioni interne, in quanto i trasferimenti di reddito, le opportunità di guadagni irregolari, il sostegno familiare e il più basso costo della vita scoraggiano i giovani ad emigrare. Contratti temporanei o part-time, che dovrebbero far crescere l'occupazione di lavoratori nazionali marginali, quali le donne e i giovani, introducendo una maggiore flessibilità, in realtà potrebbero favorire gli stranieri che sono più disposti ad accettare salari bassi e a lavorare temporaneamente, senza riuscire a contrastare lo sviluppo del settore informale, ancora più competitivo, con un effetto finale di scoraggiamento della forza lavoro nazionale. Se, tuttavia, analizziamo la distribuzione territoriale degli immigrati, degli iscritti al collocamento, delle assunzioni regolari, essa rispecchia la distribuzione della domanda di lavoro. I lavoratori stranieri sono concentrati al Nord (65%), dove il tasso di disoccupazione è vicino ai valori frizionali ed è diminuito negli ultimi anni mentre soltanto il 20% è al Sud ove il tasso di disoccupazione è vicino al 20% ed è cresciuto tra i giovani. La correlazione tra tasso di disoccupazione e tasso di occupazione straniera nelle Regioni italiane presenta un segno negativo ed un valore molto elevato -0,7 suggeren27


do che gli stranieri sono occupati ove la domanda di lavoro è elevata con un prevalente ruolo complementare. Se di competizione si può parlare essa è limitata ad alcuni casi di occupazione degli stranieri nel Mezzogiorno. Anche per quanto riguarda l'effetto che gli stranieri possono avere sul salario dei lavoratori nazionali nessuna evidenza esiste. Infatti, ricordando che in Italia nelle occupazioni regolari le retribuzioni sono fissate dai contratti nazionali, emerge che gli stranieri non possono ancora avere avuto un effetto marcato sui salari contrattati: perché costituiscono una quota molto ridotta della forza lavoro e la loro presenza è recente. Mercato del lavoro non-regolare Problemi maggiori potrebbero nascere dal lavoro non regolare. Secondo la stima dell'Istat, esso rappresentava nel 1994 il 23% di tutta l'attività lavorativa. Negli ultimi anni, la presenza degli stranieri è cresciuta anche in competizione con i nazionali non regolari. Nel settore agricolo, ad esempio, c'è stata una diminuzione complessiva dell'occupazione ed è aumentata soltanto la componente stranieri non regolari. La presenza dei non regolari stranieri è più forte nel settore dei servizi, in particolare nei servizi non vendibili dove supera la quota dei nazionali. Occorre tenere presente però che, mentre nel settore agricolo si è avuta dal 1980 ad oggi una riduzione del lavoro sia rego28

lare che non regolare, nell'industria alla diminuzione del lavoro regolare si è accompagnato l'aumento di quello irregolare e nei servizi c'è stata una crescita dell'occupazione sia nel settore regolare che in quello non regolare. L'analisi dell'elasticità incrociata tra lavoro non-regolare degli stranieri ed occupazione regolare mostra valori positivi nei settori dei servizi vendibili e non-vendibili, valori negativi ma molto contenuti nel settore industriale e valori negativi abbastanza elevati (-2) nel settore agricolo (Venturini, 1996). È importante, tuttavia, ricordare che l'effetto di competizione degli stranieri e sempre inferiore a quello dei naziona1inon-regolari, e che il valore elevato del settore agricolo forse nasconde uno scoraggiamento dell'offerta nazionale non misurabile. Evoluzione flaura Il ruolo degli stranieri, tuttavia, non si esaurisce nella competizione o complementarità diretta, ma può passare attraverso una competizione indiretta indotta dalla disponibilità di forza lavoro non qualificata a bassi salari. Gli immigrati non tendono a cambiare il contesto produttivo ove sono attivi. In genere, lavorano regolarmente dove prevale l'occupazione regolare, irregolarmente dove è diffusa l'occupazione irregolare, nell'attività industriale sono concentrati in imprese di piccole dimensioni. Essi potrebbero svolgere un ruolo


competitivo indiretto anche nel Nord nei limiti in cui, essendo in maggioranza poco qualificati, favoriscono il perpetuarsi di produzioni tradizionali o rendono meno conveniente il passaggio al settore formale di produzioni dell'economia sotterranea. Poca evidenza esiste di una simile transizione che è stata riscontrata invece in America. Per favorire il perpetuarsi di un ruolo positivo dell'immigrazione una revisione della politica migratoria sarà, tuttavia, necessaria. L'attuale normativa prevede, infatti, un accesso teorico soltanto in caso di conclamata mancanza di lavoratori sul territorio disposti a ricoprire tali occupazioni ma attraverso regolarizzazioni continue che incentivano il lavoro irregolare ed una selezione, via mercato, del lavoro informale. Come l'esperienza canadese, australiana ed americana insegnano, due "regole" favoriscono il ruolo complementare del lavoro straniero: la selettività della politica migratoria utilizzata specialmente nel caso australiano e canadese e l'elevata mobilità interna della forza lavoro nazionale, tipica del mercato del lavoro statunitense. Dato che la seconda di queste caratteristiche manca al mercato dcl la-

voro italiano, noto per la sua rigidità, è necessario intervenire sulla prima con una normativa che riduca la necessità di continue regolarizzazioni introducendo una politica di accessi regolari più flessibile. Tale direzione è auspicabile soprattutto in un'ottica di lungo periodo, ove l'immigrazione è vista anche per il suo contributo-beneficio rispetto alla spesa sociale. Sul tema si sa ancora poco, ma si è sentito parlare spesso della possibilità di equilibrare il bilancio delle pensioni attraverso i versamenti degli immigrati, strada che abbiamo mostrato irrealistica. Rispetto ai problemi demografici dell'Italia si può, invece, rilevare che la diversa evoluzione tra Nord e Sud porterà, a medio termine, ad un eccesso di domanda generazionale di lavoro al Nord, con la possibilità di riassorbimento della già poca disoccupazione e creando, rispetto al lavoro degli immigrati, una situazione non soltanto di complementarità ma di necessità. Ed allora, in quest'ottica, diventa necessario già ora avere a disposizione una politica migratoria selettiva, che permetta di instaurare i presupposti per una politica di integrazione di lungo periodo.

I La ricerca realizzata da Dolado, Inchino e Goria, (1994) con un campione di 23 Paesi dell'Ocde per gli anni 1960-1985 stimava il valore del capitale

umano degli immigrati tra il 41 e il 72% di quello dei nazionali, con un effetto di riduzione del reddito pro capite. L'aumento dell'uno per mille del flusso 29


immigratorio netto ridurrebbe il reddito pro capite di equilibrio nello stato stazionario (-1,5%) ed il reddito corrente (0,04%) di un valore molto contenuto e, comunque, inferiore a quello che si avrebbe con un aumento della stessa entità della popolazione. 2 Si ha offerta di lavoro rigida alla remunerazione quando i lavoratori non sono sensibili alle variazioni di salario, sia positive che negative. Una ricerca sulla Svizzera (Straubhaar e Weber, 1994) giunge a risultati sorprendenti: il bilancio è nettamente in attivo per il Governo, tanto da far ritenere che, nonostante l'alta percentuale di immigrati, non si sia ancora raggiunta la soglia ottimale. 4 Ricordiamo che la popolazione italiana all'estero rappresenta ancora oggi il 4,8% della popolazione totale (OcsE, 1996).

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Leggi e immigrazione di Barbara Palleschi*

I movimenti migratori hanno da sempre costituito la rappresentazione più evidente della disuguale distribuzione delle risorse. Tre quarti della popolazione mondiale è vittima di problemi economici e politici di tale gravità da motivare la ricerca, fuori dal Paese di origine, di migliori condizioni di vita. Fattori espulsivi nello Stato di appartenenza e fattori attrattivi nel Paese di immigrazione, sono alla base degli attuali flussi. Ricerche sociologiche hanno dimostrato come in essi siano coinvolti soprattutto coloro che, in virtù di un. livello economico e culturale più elevato, maturano con maggiore facilità il desiderio di progredire economicamente o, comunque, di vivere in società libere e democratiche. Sempre più numerosi sono inoltre gli stranieri che imitano parenti ed amici già emigrati, i quali testimoniano la proficuità della scelta di abbandonare la propria terra. Si innesca così una carena.migratoria basata su un "corto circuito" comunicativo dal quale vengono generati equivoci ed aspettative generiche ed illusoriel. * Studiosa di Diritto Amministrativo.

Storicamente, le migrazioni hanno favorito l'incontro e la comunicazione tra organizzazioni sociali differenti, costituendo un essenziale fattore di evoluzione. La poliedricità che caratterizza tale fenomeno ne ha determinato lo studio attraverso un approccio interdisciplinare nel quale i giuristi sono stati coinvolti in particolar modo nel secondo dopoguerra, contemporaneamente alla trasformazione dei flussi migratori da strumento funzionale alla ricostruzione postbellica a fattore di conflittualità sociale. Tale passaggio, individuabile già a metà degli anni Sessanta, in seguito alla crisi che coinvolse le economie occidentali, ha segnato la nascita del concetto, precedentemente ignorato, di immigrazione illegale. Paesi quali la Francia e la Germania, dopo aver sostenuto le presenze straniere, tollerando le irregolarità nell'ingresso, hanno manifestato l'esigenza di adottare strumenti giuridici in grado di ristrutturare il sistema produttivo sulla base di un protezionismo rivolto principalmente nei confronti della forza lavoro. La regolamentazione esistente, incen31


trata soprattutto su atti amministrativi, è stata quindi sostituita da leggi con le quali sono state ridefinite, con maggiore severità, le modalità di ingresso e di inserimento degli stranieri. La rigidità delle nuove disposizioni legislative ha suggerito l'appellativo di "fortezza Europa" per descrivere la mutata posizione degli Stati europei rispetto ai flussi migratori. La chiusura delle frontiere da parte dei Paesi di antica immigrazione, comunque, non ha determinato la diminuzione della pressione migratoria. Al contrario, sono aumentate le presenze clandestine e si è estesa l'area di destinazione degli spostamenti, coinvolgendo prevalentemente quegli Stati che, per la posizione geografica, l'assenza di una disciplina specifica e le condizioni economiche, costituivano una meta attraente: tra questi l'Italia. Da circa venti anni, il nostro Paese è inserito nelle rotte delle attuali migrazioni, dopo aver lungamente assistito all'esodo dei propri cittadini verso altre nazioni. Rispetto a tale fenomeno la posizione del nostro ordinamento giuridico non si discosta da quella sostenuta in diversi atti internazionali, in base ai quali viene attribuita agli individui la libertà di emigrare ma non quella di immigrare. Nessuno ha infatti il diritto di essere ammesso in uno Stato diverso da quello di appartenenza, sebbene a tutti sia riconosciuto il "diritto di lasciare qualunque Paese incluso il 32

proprio" 2. Ciò consente di affermare che la libertà di circolazione transnazionale è affievolita da precisi limiti, attraverso i quali vengono garantiti agli Stati gli spazi di discrezionalità necessari alla elaborazione di politiche migratorie strumentali alla tutela degli interessi nazionali. Così come confermato dalla giurisprudenza costituzionale è, dunque, possibile considerare gli stranieri titolari non di un diritto soggettivo bensì di un interesse legittimo all'ingresso. Per la regolamentazione della loro condizione giuridica, la Costituzione offre un riferimento fondamentale attraverso l'articolo 10. Esso stabilisce una riserva rinforzata di legge la quale, non solo impedisce che la materia sia disciplinata dalla discrezionalità dell'esecutivo, attraverso l'eventuale adozione di misure discriminatorie di carattere poliziesco, ma vincola altresì qualunque intervento al rispetto dei parametri specificati dalle norme e dai trattati internazionali. La riserva rinforzata di legge è stata, però, ampiamente disattesa fino al 1990. Per analizzare le scelte compiute in questo periodo dal legislatore è possibile distinguere schematicanente 3 fasi principali: la prima ha inizio con la promulgazione della Costituzione e si conclude a metà degli anni Ottanta; la seconda è caratterizzata dalla approvazione della legge n. 943 del 30 dicembre 1986 e della legge n. 39 del 28 febbraio 1990; la terza fase, tuttora in pieno svolgimento, è segnata da


una serie di interventi promossi mediante la decretazione d'urgenza e finalizzati ad integrare ed innovare la normativa vigente. LA PRASSI AMMINISTRATIVA PRECEDENTE AL 1986: IL SISTEMA DELLE CIRCOLARI

Nonostante la forte apertura affermata dal costituente nei confronti della comunità internazionale, la normativa italiana riguardante la condizione giuridica dello straniero è stata rappresentata, per oltre cinquant'anni, da alcuni articoli inseriti nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza n. 773 de! 18 giugno 1931 e nel relativo regolamento di esecuzione. Tali disposizioni, essendo espressione di una ideologica diffidenza nei confronti degli stranieri, ne disciplinavano la condizione esclusivamente in funzione della tutela dell'ordine pubblico. Tuttavia, dato il ruolo svolto dall'Italia quale meta turistica e non certo di immigrazione economica o politica, non venivano previste norme specifiche in merito all'ingresso. Tale lacuna, così come altre carenze presenti nel t.u.l.p.s., è emersa con evidenza a metà degli anni Sessanta, determinando l'esigenza di adeguare la disciplina vigente al nuovo ruolo svolto dall'Italia nell'ambito dei flussi migratori, oltre che ai principi costituzionali. Le innovazioni legislative maturate nel corso di questa prima fase sono state perseguite non ricorrendo alla legge,

bensì attraverso una disciplina "interstiziale" 3 basata su circolari ministeriali ossia atti che, oltre al limite di produrre effetti giuridici principalmente nei confronti dei soggetti cui sono indirizzati, non sempre vengono resi pubblici e di cui, spesso, non è semplice controllare la conformità al diritto internazionale. Nella transizione dell'Italia da Stato di emigrazione a Stato di immigrazione il vuoto legislativo è stato, dunque, colmato accrescendo la discrezionalità delle autorità amministrative, con una evidente limitazione delle garanzie riconosciute agli immigrati. Utilizzando una prassi finalizzata non tanto ad interpretare o integrare le disposizioni legislative quanto, piuttosto, a modificarne i principi, sono stati legittimati una serie di istituti da esse non previsti: primi fra tutti l'autorizzazione al lavoro ad il permesso di soggiorno. Attraverso questi ultimi è stato introdotto un duplice controllo discrezionale in merito all'opportunità della presenza dei singoli cittadini stranieri nel territorio italiano ed alla valutazione delle condizioni del mercato nazionale del lavoro. Al di là dei dubbi circa la legittimità di tali strumenti, è necessario sottolineare come essi, essendo il risultato di una insufficiente analisi della transizione in corso, abbiano attuato un processo di "inseguimento di fenomeni già consolidati"4, chiaramente inadeguato a regolamentare aspetti sempre pit rile33


vanti, quali le modalità di inserimento degli stranieri nel sistema produttivo nazionale e la ridefinizione delle condizioni di lavoro loro riconosciute. In questa prima fase, lo straniero è stato identificato esclusivamente nel ruolo di lavoratore subordinato. L'articolo 4 della Costituzione attribuisce il diritto al lavoro ai soli cittadini, legittimando il riconoscimento della manodopera straniera come sussidiaria rispetto a quella autoctona. Tuttavia, al di là della procedura d'accesso al mercato del lavoro, esso non giustifica ulteriori differenziazioni in merito al trattamento da riservare a coloro che vengano autorizzati all'ingress0 5 . Ciò nonostante, con una serie di circolari ministeriali, è stata legittimata l'applicazione di significative discriminazioni nelle condizioni d'impiego dei lavoratori immigrati ai quali sono stati imposti vessazioni e ricatti da parte dei datori di lavoro. Nessuna tutela era prevista nella fase di reclutamento della manodopera così come nei casi di cessazione dell'attività lavorativa con la conseguenza di giustificare le presenze subordinatamente all'esistenza di un rapporto di lavoro. In seguito all'interruzione di quest'ultimo, ed indipendentemente dalle motivazioni, il permesso di soggiorno perdeva il proprio valore autorizzativo, affermandosi, in tal modo, come strumento pienamente funzionale al controllo del mercato del lavoro. L'assenza delle garanzie previste dalla legislazione socia34

le si è inserita in una progressiva limitazione delle possibilità di accesso al territorio italiano culminata, nel 1982, nel divieto di rilasciare autorizzazioni al lavoro. Tale scelta, lungi dal determinare la diminuzione della pressione migratoria, come già dimostrato dall'esperienza di altri Paesi europei, ha segnato il blocco dei flussi legali d'ingresso, con il conseguente aumento delle presenze clandestine. Nella prima metà degli anni Ottanta, dunque, l'immigrazione diviene per il legislatore una vera e propria emergenza. In realtà, se con tale termine si intende descrivere una situazione di pericolo per la sicurezza pubblica, rispetto alla quale sia necessaria l'adozione di misure eccezionali, è pii esatto, nel caso della presenza degli immigrati, parlare non di emergenza, quanto di omissione e di inadempienza da parte degli organi dello Stat0 6 . DAL LAVORO ALLA PERSONA

Sfortunatamente, nell'intervenire in materia dopo anni di colpevole disattenzione, si è proceduto senza un effettivo disegno politico, mediante interventi - la legge n. 943 del 30 dicembre 1986 e la legge n. 39 del 28 febbraio 1990 -' che, per quanto essenziali nell'ovviare all'insufficienza ed incoerenza della regolamentazione fino ad allora prodotta, sono tutt'oggi oggetto di revisione, a dimostrazione


del loro carattere approssimativo. Nel percorso intrapreso per razionalizzare la laconica ed inefficace disciplina amministrativa in materia di immigrazione, la legge n. 943/1986 ha costituito un primo fondamentale passaggio. Pur limitandosi ad intervenire in merito al collocamento ed al trattamento dei lavoratori subordinati, essa ha preannunciato, come ulteriore obiettivo da perseguire, la qualificazione de!l'immigrato non più esclusivamente nel ruolo di lavoratore, bensì come individuo titolare di diritti di cittadinanza. Le disposizioni in essa contenute hanno garantito piena applicazione ai principi portanti della Convenzione n. 143 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, riconoscendo la parità di trattamento e di opportunità del lavoratore subordinato straniero e della sua famiglia rispetto al cittadino, la piena uguaglianza di diritti e impostando la lotta contro le migrazioni clandestine e l'impiego illegale di migranti. Rispetto alla precedente fase, il legislatore ha mutato significativamente la prospettiva attraverso la quale valutare il fenomeno migratorio: è stata abbandonata la tesi, da molti sostenuta, circa il presunto danneggiamento derivante, per i lavoratori italiani, dalla legittimazione della manodopera immigrata. Del resto, il carattere concorrenziale ad essa attribuito, viene smentito dal collocamento dei lavoratori stranieri prevalentemente nei settori meno

qualificati e nelle Regioni con un livello di sviluppo più elevato, dove l'offerta di lavoro non è soddisfatta completamente dalla manodopera locale. Quest'ultima, soprattutto per il maggior grado di scolarizzazione raggiunto ed il sistema di garanzie sociali e familiari esistenti, difficilmente accetta di sacrificare le proprie aspettative professionali7. Le esperienze maturate in materia dai Paesi di antica immigrazione testimoniano, infatti, come da sempre la concorrenza dei lavoratori stranieri sia presente e più forte proprio in conseguenza dei bassi costi derivanti dalla clandestinità. Le nuove disposizioni hanno inteso rimuovere la ricattabilità dei lavoratori stranieri quale effetto principale dell'assenza di una efficace tutela giuridica nei loro confronti. Fermo restando la posizione di sussidiarietà della manodopera immigrata rispetto a quella nazionale, l'uguaglianza di diritti tra lavoratori italiani ed immigrati è stata individuata come l'unica via percorribile per evitare l'inserimento di questi ultimi nel mercato del lavoro sommerso. Le felici intuizioni contenute nella legge n. 943/1986, però, non sono state completamente realizzate. Negli anni successivi alla sua promulgazione sono intervenute circolari con le quali è stata progressivamente sospesa la concessione delle autorizzazioni al lavoro, con la conseguente rivitalizzazione degli spazi di irregolarità. La stessa legge, 35


peraltro, quale provvedimento settoriale privo di riferimenti nei confronti dei lavoratori autonomi e delle migrazioni politiche e, principalmente, di una specifica disciplina generale riguardante l'ingresso ed il soggiorno, ha evidenziato, nella fase applicativa, la necessità di essere affiancata da un provvedimento in grado di ridefinire complessivamente la materia. A tale esigenza il legislatore ha risposto con l'approvazione della legge n. 39 del 1990 la quale, attuando il disposto dell'articolo 10 della Costituzione, ha tentato di introdurre una organica disciplina dei flussi migratori. Il nuovo intervento legislativo, pur non garantendo piena applicazione al diritto d'asilo costituzionalmente sancito, ha previsto norme specifiche in merito alle migrazioni politiche le quali, nonostante la forte incidenza assunta nell'ambito dei movimenti migratori, erano state fino ad allora oggetto di scarsa attenzione. Soprattutto esso ha abrogato la precedente disciplina del soggiorno e dell'allontanamento degli stranieri contenuta nel t.u.l.p.s. e nel relativo regolamento d'esecuzione. La natura e le dimensioni dei fenomeno migratorio impongono a qualunque provvedimento normativo che voglia proporre una adeguata disciplina, l'individuazione di misure in grado di regolamentare la materia sulla base di un'analisi non demagogica od emotiva. Non è certo realistico immaginare la cessazione dei flussi, così come non è 36

possibile elaborare interventi di carattere preventivo che non siano di lungo periodo. La politica di immigrazione, dunque, può essere rappresentata dall'apertura o dal blocco assoluto degli ingressi o, meglio, da forme di regolamentazione dell'ammissione degli stranieri. La conformazione delle coste italiane rende impraticabile la chiusura totale dei canali di accesso al territorio nazionale. Allo stesso tempo, sarebbe illogico consentire un afflusso incontrollato di immigrati senza poter offrire loro adeguate condizioni di vita e strutture di accoglienza. Il legislatore ha quindi introdotto, nella legge n. 39/1990, una programmazione degli ingressi affidata alla concertazione di vari ministri e basata sull'approvazione annuale di un decreto risultato della valutazione di differenti fattori: le capacità offerte dalle strutture amministrative per un'"adeguata accoglienza e reale integrazione", nonché le richieste di permessi di soggiorno per motivi di lavoro avanzate da immigrati presenti in Italia ad altro titolo, il numero degli stranieri già iscritti nelle liste del collocamento e lo stato delle relazioni e degli obblighi internazionali. Nell'adozione dei provvedimenti di programmazione, i ministri interessati sono affiancati da altri soggetti (CNEL, organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, Conferenza Stato-Regioni) che, per le


funzioni loro attribuite, possono ponderare con particolare competenza gli elementi quantitativi e qualitativi che devono essere recepiti nei decreti. Permangono, in ogni modo, alcune perplessità sul contenuto di tali atti: in particolar modo non viene specificato se il contingentamento degli ingressi debba essere riferito ai diversi settori lavorativi o determinato complessivamente, se debba limitarsi ai lavoratori subordinati o coinvolgere anche quelli autonomi. Lo stesso coordinamento di tale programmazione con la precedente disciplina risulta alquanto complesso. Al di là dei dubbi di natura tecnica riguardanti la procedura di programmazione degli ingressi, appare quanto mai improduttiva ed inopportuna la prassi assunta nei decreti finora emanati i quali, snaturando le indicazioni legislative, hanno imposto una vera e propria chiusura delle frontiere. Tale strategia ha riproposto lo scenario dell'obbligatoria clandestinità di coloro i quali, rischiando spesso la propria vita, decidono di sfruttare la permeabilità dei confini nazionali e l'aumento delle richieste di ingresso per motivi politici o per ricongiungimento familiare, considerate possibilità sostitutive di accesso. I presupposti di questa scelta non vengono giustificati dalle analisi demografiche ed economiche le quali, viceversa, hanno evidenziato il carattere per lo più complementare o supple-

mentare del ruolo svolto dagli immigrati nel sistema produttivo. Esse hanno altresì individuato, ne1 rafforzamento dei già diffusi settori dell'economia informale, uno dei principali effetti distorsivi prodotti dalle presenze irregolari sulle politiche del lavoro. La clandestinità non è dunque, come spesso si sostiene, fattore legittimante il blocco degli ingressi bensì conseguenza di tale provvedimento che, alimentato da una sindrome da invasione, comune oramai alla maggior parte delle nazioni europee, ha amplificato una profonda contraddizione della politica migratoria italiana. Sebbene, infatti, il diritto stia maturando il superamento del dualismo straniero-cittadino, riconoscendo agli immigrati legalmente presenti la titolarità di una cittadinanza economica e sociale, occorre registrare come sia sempre più complessa la regolarizzazione a causa della chiusura delle frontiere8 . Mediante quest'ultima, le autorità politiche hanno finora creduto, sulla base di un'analisi approssimativa quanto superficiale, di poter rimuovere la questione migratoria, riuscendo invece a vanificare le potenzialità della programmazione degli ingressi, così come qualunque possibilità di progredire nella ridefinizione del concetto di cittadinanza. Il superamento delle condizioni che favoriscono la clandestinità e l'irregolarità delle presenze appare, dunque, un obiettivo primario da perseguire 37


nell'evoluzione legislativa. Gli interventi a ciò necessari non possono, però, limitarsi a sanare le posizioni irregolari senza influire sui molteplici elementi che rendono l'immigrazione una questione non contingente. La stessa programmazione degli ingressi, per quanto mai resa operativa, non dimostrerebbe sufficiente efficacia qualora venisse elaborata considerando esclusivamente le esigenze del Paese ospite e sottovalutando l'ingovernabilita, mediante politiche nazionaliste" 9, di un fenomeno complesso quale quello migratorio. Il contingentamento delle presenze, infatti, non può essere attuato prescindendo dal ricorso a specifici accordi con gli Stati dai quali proviene il flusso più intenso e senza un adeguato coordinamento con politiche di cooperazione allo sviluppo, mediante le quali incidere sugli squilibri alla base della dipendenza economica dei Paesi del sud del mondo. Le politiche di cooperazione cui si fa riferimento non sono certamente quelle fino ad oggi adottate, basate sull'acquisto e sulla vendita di sviluppo da parte di imprese e partiti 10 Superata l'attuale fase di stallo, conseguenza delle indagini giudiziarie in corso, la riorganizzazione della cooperazione italiana dovrà essere ispirata non soltanto a criteri di trasparenza nella concessione dei finanziamenti e nella gestione dei progetti quanto, piuttosto, alla utilizzazione di nuovi .

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strumenti, quali l'apertura delle frontiere commerciali e l'accoglienza degli immigrati. La presenza di questi ultimi, costituendo un'essenziale fonte di sostegno economico per i Paesi di provenienza, principalmente attraverso le rimesse inviate in patria, dovrà necessariamente essere inclusa in politiche che seriamente intendano promuovere lo sviluppo delle aree depresse. L'ATTUALE DIBATTITO SULLA RIFORMA LEGISLATIVA

L'individuazione di una disciplina delle ammissioni nel territorio nazionale non può non essere affiancata da una efficace politica per l'immigrazione, intesa come l'insieme delle misure finalizzate a stabilire un modello di integrazione degli stranieri nella società d'accoglienza. La definizione di tale modello è un supporto dal quale la regolamentazione degli ingressi non può prescindere. Interventi economici e sociali in grado di affrontare le problematiche dell'insediamento quali l'alloggio, la tutela dell'identità culturale e dei legami familiari, nonché la partecipazione alla vita del Paese ospitante, sono legati alla capacità di leggere l'immigrazione non più come evento eccezionale bensì come fattore integrante l'evoluzione culturale, economica e politica della società italiana. Tuttora, invece, si deve registrare l'applicazione di una "politica dei due tempi "11 la quale, ten-


tando inadeguatamente di rimuovere il problema dell'irregolarità e della clandestinità, continua a rinviare al futuro l'elaborazione di un disegno politico capace di favorire l'integrazione degli immigrati già presenti. La stessa legge n. 3911990, sebbene annunciata come anticipazione di una successiva ridefinizione della materia, è stata integrata esclusivamente da una serie di interventi adottati nella discutibile forma della decretazione d'urgenza. Per quanto sia oramai evidente il carattere strutturale dei flussi migratori, si deve constatare che anche l'attuale evoluzione legislativa è caratterizzata dalla permanente incapacità di elaborare e concretizzare un progetto di politica migratoria attraverso il quale rispondere, razionalmente ed organicamente, alle molteplici implicazioni della presenza dei cittadini stranieri. Nel corso della XII legislatura sono state avanzate varie proposte di legge da parte delle diverse forze politiche finalizzate a sostituire la legge n. 39 del 1990, colmandone le carenze ed adeguandola alle esigenze emerse durante il periodo della sua applicazione. Nell'ambito del dibattito svolto dalla I Commissione del senato, tali proposte furono raccolte in un testo unificato, cosiddetto testo Nespoli, dal nome del relatore. In realtà tale documento, lungi dall'armonizzare le impostazioni contenute

nelle diverse proposte, ha recepito unicamente gli indirizzi di uno schieramento politico. I giudizi negativi prodotti da tale operazione sono stati prontamente sostituiti da nuove critiche in seguito alla decisione, assunta dal governo, di trascurare il dibattito in corso emanando un decreto legge. Non essendo intervenuti elementi nuovi a giustificare l'adozione di un provvedimento emergenziale, la scelta di ricorrere alla decretazione d'urgenza deve essere imputata, ancora una volta, alle pressioni politiche che animavano un clima di diffusa incertezza circa la prosecuzione della legislatura. Il decreto legge 18 novembre 1995, n. 489 è stato reiterato per ben quattro volte, senza subire modificazioni di rilievo ad eccezione dell'ultima reiterazione, attraverso la quale è venuta meno la discussa parte riguardante le espulsioni. Non contenendo alcuna disposizione in relazione al diritto d'asilo, al lavoro autonomo, al riconoscimento e all'esercizio di diritti sociali, economici e culturali, non è possibile interpretare tale atto come un disegno articolato, il quale, del resto, poteva essere prodotto solamente da un approfondito dibattito politico nelle sedi opportune. Tale provvedimento, parziale ed improvvisato, ha offerto l'illusione di delineare misure forti celando, però, dietro la disciplina dei singoli aspetti, l'incapacità di incidere sui presupposti dei processi in corso 12 .

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Nel novembre scorso, dopo mesi di proteste da parte degli immigrati, delle associazioni del volontariato e di alcune forze politiche, i1 decreto, non essendo stato convertito, è decaduto. Il governo ha garantito gli effetti prodotti dalle procedure di regolarizzazione ma la materia è però nuovamente disciplinata dalla precedente regolamentazione. I limiti in quest'ultima individuati non sono naturalmente venuti meno, ancora aperte rimangono le problematiche legate all'ingresso e al soggiorno ma soprattutto al riconoscimento dello straniero quale nuovo cittadino. Non essendo possibile

per le autorità politiche perseverare nell'attuale atteggiamento omissivo ed inadempiente, è auspicabile la rapida apertura di un ampio confronto nel quale siano concretamente coinvolti gli immigrati e le loro organizzazioni. Soltanto il superamento di un approccio emergenziale ed approssimativo, basato sulla valutazione dei flussi migratori come questione di ordine pubblico, garantirà la serenità e la lungimiranza necessarie a regolamentare il fenomeno senza negarne la complessità, favorendo altresì la maturazione dell'opinione pubblica finora ostaggio di informazioni superficiali.

'Cfr. BoNErri P., La condizione giuridica del cittadino extracomunitario, Maggioli editore, Rimini 1993, pag. 19. 2 Cfr. Articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. 3 Cfr. NASCIMBENE B., Lo straniero nel diritto italiano, Giuffrè, Milano 1988, pag. 16.

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Cfr. NEU F., I lavoratori stranieri ed il mercato del lavoro in Italia: un problema attuaLe, in «Affari sociali internazionali», 17 (1989), n. 4, pag. 72. 5 Cfr. CANNIZZARO E., L'assunzione dei lavoratori stranieri: aspetti costituzionali, in GAiA G. (a cura di),

Stranieri in Italia. Problemi giuridici dell'assunzione, il Mulino, Bologna 1984, pag. 78. Cfr. VOLPE G., Profili sistematici del diritto dei cittadini stranieri, comunicazione presentata alla Consuia dell'immigrazione presso il Cnel il 16 maggio 1996, testo dattiloscritto. 6

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Cfr. NERI F., I lavoratori stranieri ed il mercato interno del lavoro in Italia: un problema attuale", in

«Affari sociali internazionali», 17(1989), n. 4, pag. 78. 8 Si veda in merito PUGLIESE E., Passaporto in nero, in «il Manifesto mese», (1995), n. 1, pag. 28. ' Cfr. ONORATO P., Per uno statuto dello straniero, in «Democrazia e diritto», 29(1989), n. 6, pag. 324. IO Cfr. SIvINI G., Cooperazione allo sviluppo ovvero vergogna nazionale, in «Micromega», 7 (1993), n. 6, pag. 76. Il Cfr. CALVANESE F., PUGLIESE E., I tempi egli spazi della nuova migrazione in Europa, in «Inchiesta», 19 (1990), n. 90, pag. 14. 2 Cfr. NASCIMBENE B., Decretazione d'urgenza e condizione giuridica dello straniero, comunicazione presentata alla Consulta per l'immigrazione presso il Cnel il 16 maggio 1996, testo dattiloscritto.


dossier

Vizi e virtù della comunicazione globale Anche noi ci siamo lasciati conquistare dal dibattito su Internet. In genere si discute su una moda. E qui sta la nostra presunzione. Vorremmo cercare di parlare delle applicazioni e dei risvolti comportamentali dell'utilizzazione delle tecniche informatiche senza cadere nei due opposti versanti della iper-specializzazione e della banalizzazione più monocorde. Cercheremo quindi di trattare questo tema, affiancandolo a quelli sulla rivoluzione informatica nelle pubbliche amministrazioni e sulla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni. Tre temi, fortemente interrelati fra loro, alla stregua di ciò che crediamo essi rappresentino. Modalità di comunicazione del pensiero. Di comportamenti, dati, esperienze. La facilità di accesso a tali informazioni comporta un domandarsi dell'adattabilità dei precedenti criteri di tutela dei diritti alla nuova rea Ità: per questo Luca Thfarelli e Renzo Ristuccia nel loro saggio hanno voluto esplorare tutti i possibili settori dove l'utilizzo delle rete di collegamenti, (che noi visualizziamo con il nome Internet) concreta una responsabilità, un comportamento che può essere rilevante per il diritto positivo. Questo, non per limi tare la libertà che si respira navigando tra i siti messi a disposizione dell'utente, ma per fa re in modo che la rete non si trasformi in un'arbitraria ed abusiva modalità di violazione del diritto alla privacy, dei diritti d'autore, della tutela dei minori. 41


La facilità del "trasporto" e della fruizione dei dati influenza (ma quanto in modo determinante?) l'azione amministrativa. Da questa semplice constatazione prendono le mosse gli articoli di Conte, GNET, prototipo di rete unitaria e di De Petra, La Pubblica Amministrazione naviga su Internet, la cui pubblicazione concreta il nostro progetto di seguire da vicino tutti gli ultimi orientamenti del settore 'Informatica per la pubblica amministrazione " Nel primo di questi articoli, si delineano scopi e modalità di realizzazione delle Rete telematica Unitaria delle amministrazioni centrali dello Stato. È chiaro che l2lutorità per l'Informatica nella Pubblica Amministrazione ed i singoli responsabili del sistemi informativi dovranno operare un immenso sforzo tecnico e "culturale" per realizzare l'interoperatività delle procedure e delle consuetudini lavorative. Determinante, a talfine, come afferma lo stesso Conte, la motivazione dell'alta dirigenza a veicolare il cambiamento verso standard omogenei ed obiettivi realistici. Un cambiamento che porterà, si è detto, i cittadini a dialogare meglio con le pubbliche amministrazioni, proprio in forzd della loro visibilità su Internet. Tramite la Rete delle Reti si potranno erogare servizi pubblici, far intervenire, in forum dedicati, le associazioni esponenziali degli interessi delle, comunità amministrate, far partecipare questi soggetti all'azione amministrativa. È questo un esempio del possibile ruolo del "terzo settore' 1, come afferma lAutore, nella erogazione di servizi pubblici per via telematica. De Petra ricorda come la visibilità su Internet, comporterà, per le amministrazioni pubbliche, una serie di questioni relative all'organizzazione, alla gestione ed alle responsabilità, tutte da considerare. Ma una disamina dell'universo "mediatico" che voglia andare oltre la cortina del "si dice" non può non affiontare il quadro normativo della mai completa liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni. Una storia che in Italia, ma anche negli altri Paesi industrializzati si è dipanata attraverso «stop and go" tutt'altro che infrequenti. La velocità di creazione di nuove tecnologie stravolge le posizioni consolidate di monopolio degli attori istituzionali finora protagonisti assoluti del mercato. Nuov'e tecnologie che perm ettono, abbassando i costi e semplicando le procedure, la creazione di un'autentica concorrenza nel settore, impensabile fino a quindici anni fa. E adesso arriva il DECT, oggetto misterioso che elimina la distinzione tra rete fissa e mobile. Avremo un unico telefono con un unico numero, non importa se per comunicare andrà sulfilo o nell'aria. Di tutto questo ci parla Stefano Corso nel suo saggio che percepisce l'insopportabile ritardo del nostro legislatore di fronte ai mutamenti di un settore convulso. Un ritardo non motivato da una saggia ponderazione dei bisogni della collettività, ma dalla propensione del management pubblico a difendere nicchie di potere e sistemi orga42


nizzativi ormai superati. Intanto, dopo l'assenso degli Stati Uniti, &z Nro (l'organizzazione mondiale per il commercio) ha annunciato l'avvenuto accordo sulla completa liberalizzazione, dal 1998, del mercato delle telecomunicazioni. Chiunque potrĂ presentare i suoi prodotti ed erogare servizi nei settanta Paesi che hanno firmato l'accordo il 15febbraio scorso. Il direttore generale della NTQ, Renato Ruggiero, si augura che il costo delle telefonate, ad esempio, possa abbassarsi, grazie alla concorrenza, di quindici volte rispetto all'attuale. Allora sĂŹ, che una telefonata allungherebbe la vita...

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Informatica e Pubblica Amministrazione

Massimo A. Conte GNET, PROTOTIPO DI RETE UNITARIA

In perfetta sintonia con quanto richiesto dagli utenti e dagli addetti, in altre parole in linea con la "nuova" filosofia che vuole la trasparenza per avvicinare sempre di più il cittadino allo Stato, lo scopo fondamentale della realizzazione della Rete telematica Unitaria è quello di migliorare l'efficienza e la qualità delle iniziative di comunicazione che caratterizzano il lavoro della Pubblica Amministrazione. Tali attività sono particolarmente significative per quei ruoli organizzativi che svolgono funzioni di collegamento tra le diverse amministrazioni e con il mondo esterno, o che hanno funzione di coordinamento all'interno dell'amministrazione stessa. Inoltre, non può non avere un'importanza determinante il fatto che, al crescere della complessità delle procedure di gestione amministrativa, cresce in maniera esponenziale la necessità di una sempre maggiore cooperazione, tipica dei processi avanzati di lavoro, che determina il bisogno di sempre nuovi e più sofisticati strumenti di interoperabilità,

per il supporto alle stesse attività di cooperazione. Per queste e per altre ragioni facilmente individuabili - economicità, uniformità, semplificazione delle procedure di formazione, eccetera -' la realizzazione della Rete Unitaria prevede la disponibilità di servizi di interoperabilità realizzati ricorrendo a protocolli standard e a prodotti software commerciali. I servizi previsti nello studio di fattibilità per la messa in opera della Rete Unitaria sono il trasferimento di file, la posta elettronica, rubrica e reperimento di informazioni, ma la disponibilità di questi servizi sarà possibile soltanto dopo la realizzazione del progetto e, quindi, non prima del 1998. Il dominio della Rete Unitaria, naturalmente, metterà inoltre a disposizione degli utenti funzioni inerenti la sicurezza - quali la generazione e la distribuzione delle chiavi crittografiche primarie -, il notariato e la certificazione delle chiavi. Fatte queste premesse, emerge a questo punto la prepotente necessità di anticipare la disponibilità dei servizi di interoperabilità specifici della nuova Rete Unitaria, senza attenderne pe45


rò la completa realizzazione, quanto meno per alcuni uffici nevralgici della Amministrazione dello Stato. E questo, ovviamente, sia per migliorarne immediatamente l'efficienza, sia per esercitare un'efficace quanto indispensabile azione di stimolo e di promozione nei confronti dell'utilizzo di strumenti avanzati di produttività, innescando processi imitativi se non, addirittura, competitivi.

Gli obiettivi Il progetto, dunque, si propone di rendere disponibili a breve termine i seguenti servizi per gli uffici di Gabinetto delle Amministrazioni Centrali (compresi gli uffici stampa e gli uffici legislativi) e per gli uffici dei Responsabili dei Sistemi Informativi delle Amministrazioni Centrali e degli Enti non economici: - Servizi di produttività individuale mediante la disponibilità di un sistema organico di office automation. - Servizi di supporto alla cooperazione lavorativa all'interno degli uffici di Gabinetto, mediante la disponibilità di strumenti di posta elettronica e di trasferimento di documenti. - Servizi di supporto alla cooperazione tra i diversi Gabinetti, mediante la disponibilità di strumenti di posta elettronica e di trasferimento di documenti. - Servizi di supporto alla cooperazione lavorativa all'interno degli uffici dei Responsabili dei sistemi informati46

vi automatizzati e tra i diversi Responsabili, mediante la disponibilità di strumenti di posta elettronica e di trasferimento di documenti. - Servizi di supporto alla cooperazione tra i Responsabili e l'Aipa, mediante la disponibilità di strumenti di posta elettronica e trasferimento di documenti. - Servizi di reperimento di informazioni mediante l'accesso a banche dati, sia sulla rete Internet, sia mediante connessioni dirette. - Servizi di posta elettronica verso l'esterno e navigazione sulla rete Internet. - Servizi di pubblicazione di informazioni e di relazione con il pubblico sulla rete Internet. Posti questi obiettivi, lo studio di fattibilità prevede: La fornitura di stazioni di lavoro individuali e server. La realizzazione di reti locali e la connettività geografica. L'erogazione di servizi necessari alla gestione del sistema in condizioni di sicurezza. L'erogazione di servizi di formazione per un utilizzo efficace del sistema. L'erogazione di servizi di assistenza tecnica ed operativa per un utilizzo corretto ed efficiente del sistema.

Fattori critici di successo Il progetto, per le sue caratteristiche innovative e di larga diffusione, presenta, naturalmente, alcuni elementi


di rischio. La consapevolezza di tali elementi e la capacità di contrastarli efficacemente, sono elementi costitutivi del progetto stesso, che devono essere presi in considerazione da tutti gli attori coinvolti e quindi non soltanto dall'Autorità, ma anche dai capi di Gabinetto, dai Responsabili dei sistemi informativi e dai referenti del progetto. Ladeguamento delle modalità di lavoro alle nuove procedure tecniche sarà, senza dubbio, fra i fattori critici di successo più significativi. Ma la disponibilità dei nuovi servizi di interoperabilità non garantirà di per sé un efficiente utilizzo, se, parallelamente, non verranno modificate le procedure e le consuetudini lavorative che si sono consolidate in ambienti organizzativi finora prevalentemente privi di strumenti avanzati di comunicazione. La capacità degli utilizzatori dei servizi di riprogettare le proprie procedure di lavoro, superando consuetudini apparentemente intangibili, sarà l'elemento chiave per poter superare il rischio di un uso inefficiente delle opportunità innovative generate dal progetto. Fondamentale è anche il coinvolgimento degli utenti nella fase di avviamento del sistema. Il progetto, infatti, presenta elementi di rischio legati al particolare profilo degli utenti che sono, almeno per ciò che riguarda gli Uffici di Gabinetto, prevalentemente sprovvisti di strumenti tecnologicamente avanzati nelle attività di comu-

nicazione. Elemento decisivo nel favorire un coinvolgimento attivo e consapevole è la comprensione dei vantaggi e delle opportunità offerte dalla posta elettronica che, grazie alla gestione asincrona dei messaggi, unisce i vantaggi della posta e del telefono e consente di ottimizzare la gestione del tempo di lavoro, soprattutto in presenza di intensa attività comunicativa. Determinante risulta poi la motivazione dell'alta dirigenza. Il coinvolgimento degli utenti, ai diversi livelli, potrà avvenire in maniera efficace se, fin dall'inizio, l'alta dirigenza delle Amministrazioni mostrerà interesse e volontà di utilizzo dei nuovi strumenti. Una forte adesione da parte dell'alta dirigenza, oltre a produrre comportamenti imitativi positivi, può infatti generare innovazione significativa nei flussi di comunicazione che vedono coinvolti i livelli più alti dell'Amministrazione. Non si può, poi, dimenticare la sicurezza del sistema. Il progetto presenta i tradizionali fattori di rischio associati alla trasmissione elettronica dei dati, dalla vulnerabilità delle apparecchiature e delle reti rispetto a intrusioni dall'esterno, ai meccanismi di identificazione degli utilizzatori. Oltre alla realizzazione delle specifiche contromisure previste dal progetto, è necessario trasferire agli utenti la capacità di servirsi del sistema con piena fiducia, nella consapevolezza che i mezzi di comunicazione elettronica non so47


stituiscono completamente gli altri strumenti di comunicazione, ma si aggiungono a quelli già oggi prevalentemente utilizzati (comunicazione epistolare, telefonica, faccia a faccia), consentendo all'utente di selezionare il modo più appropriato alla natura e alla riservatezza della comunicazione. L'efficacia dell'assistenza non è elemento di minore importanza, in quanto un fattore di rischio del progetto è legato al degrado dell'utilizzo della nuova modalità, subito dopo la fase iniziale di formazione ed avviamento. Difficoltà specifiche, malfunzionamenti, esigenze funzionali non previste possono generare una disaffezione verso il sistema, soprattutto da parte di utenti non informatici, anche dopo una prima fase di favorevole accoglimento. Elemento decisivo nel contrastare questo rischio è l'erogazione di un'assistenza efficace per intensità e qualità. Oltre l'assistenza tecnica e operativa prevista dal progetto è di grande importanza la capacità di assistenza di tipo funzionale, che sarà compito dei referenti del progetto e specifica azione di promozione svolta dai Responsabili dei sistemi informativi. Una decisiva diffusione delle esperienze, infine, ovvero la disponibilità di sistemi di produttività individuale e di lavoro cooperativo, quali quelli resi disponibili da questo progetto e un loro effettivo e intenso utilizzo nelle Amministrazioni, produrranno negli uffici esperienze innovative di detta48

glio, non prevedibili a priori e generate dalla specifica esperienza lavorativa degli utenti. Tali esperienze innovative hanno spesso diverse opportunità di generalizzazione, non immediatamente evidenti ai realizzatori. Un monitoraggio attento del progetto, dal punto di vista delle soluzioni innovative generate, e la diffusione delle esperienze più significative, sarà sicuramente un fattore di successo, contribuendo a generalizzare l'innovazione e a potenziare i risultati delle attività formative.

Giulio De Petra * LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NAVIGA SU INTERNET

Molte sono le amministrazioni pubbliche che stanno avviando l'erogazione di informazioni e servizi ai cittadini, e alle imprese tramite la rete Internet, nella prospettiva di integrare la propria offerta di distribuzione di servizi, con una rete telematica che oggi raggiunge già migliaia di utenti anche in Italia. Vogliamo ricordare, a tale proposito, l'esperienza del ministero delle Finanze, del ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica, del ministero dell'Industria Commercio e Artigianato, del Senato, del ministero dei Trasporti, dell'Antitrust e dell'Aipa stessa, che già da tempo utilizzano

* Dirigente dell'AIPA.


Internet come strumento di diffusione di informazioni e servizi. Più che la reale capacità di servizio è però utile soffermarsi sulle caratteristiche sperimentali di queste iniziative. Ogni rete di distribuzione di servizi corrisponde infatti a specifici segmenti di utenza e la rete Internet, oggi, non è sicuramente ancora uno strumento rivolto al grande pubblico, anche se la sua capacità di raggiungere utenti in tutto il mondo può essere, ad esempio, una utile opportunità di servizio verso gli italiani all'estero. Internet, tuttavia, ha il grande valore di essere un prototipo operante che mostra, sia pure con prestazioni talvolta degradate, le funzionalità possibili dei servizi multimediali in rete e dunque consente alle amministrazioni di sperimentare modalità di utilizzo, strutture organizzative, moduli di erogazione, la consapevolezza dei quali sarà sicuramente utile nel momento in cui le strutture di comunicazione saranno tali da consentire una efficiente e affidabile diffusione dei servizi al largo pubblico per via telematica. Della futura disponibilità delle strutture di comunicazione è naturalmente parte la Rete Unitaria che prevede, con gli opportuni sistemi di sicurezza, di veicolare sulla rete Internet quelle informazioni e quei servizi che ogni amministrazione riterrà utile distribuire, anche attraverso questo canale e di far accedere ai servizi della Pubblica Amministrazione gli utenti degli in-

ternet provider, dei fornitori, cioè, dell'accesso alla Rete delle Reti. Se ci soffermiamo sul valore sperimentale delle esperienze in corso, possiamo citare un dato derivante, ad esempio, dall'esperienza del ministero delle Finanze. La procedura di realizzazione ha visto un effettivo coinvolgimento degli utilizzatori - un esempio per tutti sono i professionisti fiscali - che hanno consentito all'Amministrazione di modificare i requisiti iniziali del progetto e di "apprendere" interattivamente dai propri utenti le opportunità di miglioramento del servizio stesso. Non vi è dubbio che questa caratteristica è strettamente legata all'utilizzo di un mezzo potentemente e facilmente interattivo ed è auspicabile che di questa interattività si faccia efficace uso, evitando di utilizzare Internet ed il Web come strumenti unidirezionali di diffusione di informazioni. In tal caso, meglio sarebbe utilizzare mezzi diversi, quali ad esempio il Televideo, che garantiscono una maggiore diffusione e facilità di utilizzo. Da questa considerazione deriva l'indicazione più generale di utilizzare con discernimento i nuovi canali di comunicazione, sfuggendo alla tentazione di "apparire" innovativi e approfondendo al contrario con attenzione il rapporto di coerenza che lega tipi servizio, classi di utenza e canali di erogazione. Volendo generalizzare, in termini di 49


indicazioni di metodo, possiamo integrare l'esperienza della Pubblica Amministrazione centrale con l'esperienza di molte amministrazioni locali, in particolare i Comuni, che già da qualche tempo stanno facendo interessanti e diffuse esperienze di utilizzo di Internet. Queste esperienze vanno talvolta sotto il nome di "Reti civiche", anche se la loro varietà sfugge a una rigorosa classificazione.

Internet e i Comuni È possibile oggi individuare tre classi di servizio che caratterizzano la presenza dei Comuni italiani su Internet. La prima riguarda l'erogazione tramite Internet di servizi pubblici. Si tratta ancora per lo più di servizi informativi, che talvolta consentono la personalizzazione della richiesta e il trasferimento di grandi quantità di informazioni in formato elettronico. Lo sviluppo dei servizi comunali, più complessi su Internet dipende, anche nel caso dei Comuni, dalla penetrazione di Internet all'interno dei diversi uffici dell'amministrazione, cioè, in altri termini, dalla partecipazione diretta degli operatori comunali alla redazione del web. La seconda classe di servizi riguarda la presenza sul web dell'amministrazione comunale di terze parti , generalmente associazioni di volontariato, associazioni culturali e operatori sociali. Lo sviluppo di questa presenza è un esempio del possibile ruolo degli atto50

ri del "terzo settore" nella erogazione di servizi pubblici per via telematica. La terza classe di servizi riguarda la creazione di gruppi di discussione in rete, che vedono la presenza di amministratori pubblici, di cittadini e di associazioni, con l'obiettivo di aumentare il livello di partecipazione dei cittadini alle scelte dell'amministrazione. Tali servizi vengono talvolta citati come servizi di «derriocrazia elettronica

Alcune questioni da considerare Volendo fornire alcune iniziali indicazioni di metodo ci limitiamo a tre considerazioni. La prima riguarda, ovviamente, il nome Internet dell'amministrazione, rispetto al quale ogni amministrazione deve far riferimento alle indicazioni contenute nelle indicazioni fornite dall'Aipa, tramite specifica circolare in corso di emanazione. Si tratta di una regola di evidente utilità, che evita all'amministrazione di essere inconsapevole veicolo di promozione commerciale e che può consentire di governare la talvolta complessa struttura organizzativa di ogni amministrazione. La seconda riguarda il valore della sperimentazione dell'interattività nella erogazione dei servizi. Internet non è una nuova forma di televisione, ma è uno strumento che consente una efficace e facile interazione tra fornitore di servizi ed utilizzatore. Ciò implica però la possibilità e la capacità, da


parte dell'amministrazione, di rivedere la forma dei propri procedimenti amministrativi, sperimentando un ruolo attivo del cittadino utente. La terza riguarda la dimensione organizzativa interna all'amministrazione. L'utilizzo di Internet per fornire informazioni e servizi richiede la realizzazione di una struttura interna di redazione. Tale redazione può essere centralizzata o distribuita nei diversi dipartimenti dell'amministrazione, ma deve essere composta prevalentemente da personale interno dell'amministrazione. Ăˆ questa una indicazione molto evidente nell'esperienza di alcuni Co-

muni: soltanto il coinvolgimento diretto del personale interno garantisce l'affidabilitĂ e la tempestivitĂ dell'aggiornamento. Inoltre, tale coinvolgimento consente di sperimentare dall'interno possibili riforme dei procedimenti amministrativi e modifica, efficacemente, il ruolo del "dipendente redattore" rispetto al proprio centro di elaborazione dati. Egli, da utilizzatore passivo di strumenti anche evoluti di automazione di ufficio, diventa capace di cpubblice il suo lavoro, introducendo una forte spinta all'innovazione organizzativa all'interno dell'amministrazione di appartenenza.

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Implicazioni giuridiche dei servizi su Internet di Renzo Ristuccia e Luca Thfarelli*

Scopo del presente articolo è di individuare nella realtà quali soggetti intervengono e quali servizi sono prestati sulla cosìdetta "rete delle reti" cioé Internet. Individuate le fattispecie concrete sarà così possibile stabilire le norme eventualmente applicabili, delineando un possibile regime delle responsabilità in cui incorre chi opera (professionalmente e non) in questo campo. Una premessa terminologica è, quindi, necessaria e doverosa sia sotto un profilo oggettivo per stabilire la natura, il tipo e le funzioni dei servizi offerti dai cosidetti Internet Service Providerl sia sotto un profilo soggettivo, per cercare di individuare chi debba ritenersi responsabile degli eventuali inadempimenti contrattuali o degli illeciti civili connessi alla fornitura di detti servizi, in generale detti "telematici". (La telematica viene comunemente definita come l'attività di trasmissione a distanza, con l'ausilio di una rete di telecomunicazioni, di informazioni digitali elaborate elettronicamente 2). Spesso si sente utilizzare la parola "In* Avvocati in Roma.

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ternet" per indicare sia la rete che i servizi offerti dalla stessa ed addirittura, in alcuni casi, il vocabolo è utilizzato per personificare l'entità astratta che deterrebbe la rete telematica mondiale. Internet, invece, nella realtà non esiste né come entità giuridica, né come soggetto gestore della rete, né come entità astratta. Con Internet si intende indicare, piuttosto, il fenomeno telematico conseguente alla interconnessione dei computer che, attraverso l'utilizzo delle reti di telecomunicazioni esistenti, possono così dialogare utilizzando protocolli univoci e servizi di comunicazione standardizzati (si pensi all'accesso alle informazioni del World Wide Web, ai servizi di E-Mail e di News Chat, ai cosidetti Kiosk, alle News Group, alle aree di discussione on line dette anche Chat, ai servizi di trasferimento file o FTP, etc.). Ovunque ci sia una linea telefonica, un modem ed un computer è possibile aggiungere un nodo alla rete o connettersi alla stessa. Rispetto alla telefonia, dove l'intervento statale fu determinante per lo sviluppo delle infrastrutture, la diffusione della telematica non ha richiesto


grandi investimenti e si è potuta quindi sviluppare autonomamente e senza schemi o piani predeterminati. Le regole di sviluppo sono state dettate più dagli standard di mercato (prodotti) e comunicazione (protocolli) che dall'intervento statale. La caratteristica peculiare del fenomeno Internet è che nessuno lo controlla perché "No one owns Internet3". Internet, inoltre, è libera e tutti potenzialmente hanno accesso senza alcuna limitazione alle risorse disponibili sulla stessa4 . Già prima dell'avvento di Internet, il cui tiepido avvio risale alla dismissione da parte dei militari della vecchia rete americana DARPANET5 , il mondo delle telecomunicazioni aveva visto l'apparizione di quelli che oggi comunemente vengono definiti Commercial On Line Services ovvero di entità commerciali (spesso società) le quali, dietro pagamento di un corrispettivo, consentivano agli abbonati di usufruire di una rete telematica e di una serie di servizi in rete quali la posta elettronica, i forum di discussione, lo scambio di documenti e l'accesso a banche dati specializzate. La particolarità di queste società (tra cui le più importanti sono Compuserve, Prodigy ed American on line) era di coprire con una rete telematica privata quasi tutto il mondo industrializzato, a differenza delle piccole banche dati amatoriali locali (BBs6) che consentivano l'accesso via modem a piccoli gruppi di persone. L'avvento di Internet e la ten-

denza delle piccole BBS a sorpassare il proprio limite dimensionale consorziandosi anch'esse in reti amatoriali (Fidonet ne è un esempio) ha di fatto limitato il divario tra grandi e piccoli sistemi telematici, consentendo anche alle BBS amatoriali di offrire ai propri utenti la connessione e l'accesso in diversi Paesi e la possibilità, quindi, di fornire accessi anche ad Internet ed a tutte le risorse disponibili sulla rete telematica globale oggi esistente. Rispetto alle BBS amatoriali e al fenomeno Internet, i Commercial On Line Services ancora oggi si differenziano per la qualità e le garanzie del servizio reso all'utenza. Si tratta, infatti, di soggetti giuridici che spesso gestiscono direttamente sia tutti i nodi della propria rete telematica chiusa 7 che l'organizzazione e la fornitura dei servizi telematici a valore aggiunt0 8 .

Uno sviluppo libero Al contrario di ciò che si è verificato per le infrastrutture di telecomunicazioni telefoniche e telegrafiche, la rete telematica si è sviluppata senza piani regolatori né tantomeno si è assistito, se non a posteriori, alla emanazione di norme specifiche per la regolamentazione dei rapporti giuridici telematici, ovvero di quei rapporti giuridici il cui connotato fondamentale è di avere come veicolo per la realizzazione degli interessi delle parti la trasmissione di dati in forma digitale (e quindi sotto formadiøe 1). 53


Lo specifico problema della responsabilità degli ISP non sfugge a queste considerazioni anche se, come si vedrà in seguito, una attenta analisi delle fattispecie concrete in cui si realizza l'attività dell'Isp ci consente di risolvere molte delle tematiche della responsabilità ricorrendo all'ausilio degli istituti giuridici già presenti nel nostro ordinamento ovvero ai principi elaborati dalla giurisprudenza in materie analoghe. Laddove, invece, si riscontri un'assoluta carenza legislativa sarà nostra cura indicare, de iure condendo, le soluzioni che si ritengono piii idonee a contemperare gli interessi meritevoli di tutela. Per una accurata rassegna sul tema delle normative applicabili ad Internet si rimanda a quanto ampiamente discusso nell'ambito del Forum multimediale "La società dell'Informàzione 9 " visibile a tutti gli utenti presso il sito Mc-link. I

SERVIZI DI INTERNET

Fornitura di accesso. Internet è costituita da un insieme di computer connessi tra loro attraverso reti dedicate o utilizzando le reti fisiche di telecomunicazioni (all'origine quelle telegrafiche e telefoniche) nonché attraverso collegamenti via etere. Ecco perché Internet collegando reti eterogenee, viene definita la "Rete delle Reti". Internet inoltre è una rete aperta: chiunque, rispettando gli standard tecnologici, è in grado di connettersi. Lo 54

scambio dei dati sulla rete avviene per mezzo di protocolli univoci di comunicazione fra computer (ad esempio Tcp/Ip). Il sistema su cui si basa Internet è l'estrema elasticità delle connessioni, che generalmente, si realizzano utilizzando i nodi attivi al momento della trasmissione dei dati da un computer all'altro. Nella maggioranza dei casi e soprattutto per l'utilizzo dei servizi "pubblici", non è possibile sapere come i dati trasmessi sulla rete verranno instradati al computer cui detti dati sono indirizzati. Infatti, l'instradamentp dei dati avviene generalmente utilizzando i nodi attivi al momento della trasmissione, stante l'assoluta impossibilità di prevenire i nodi attivi all'atto della connessione. Altra peculiarità di Internet è di consentire l'accesso alla rete anche in modalità asincrona e, cioè, senza l'esistenza di una connessione permanente o diretta. In questo caso, la connessione così detta Dial-up avviene attraverso l'utilizzo di un modem collegato ad un computer ed alla linea telefonica che consente all'utente di chiamare un altro computer (generalmente definito Host o Gateway) collegato direttamente alla rete. Il computer Host rende disponibile ai computer collegati via modem una connessione alla rete, con piena possibilità di utilizzare tutti i servizi offerti dalla rete stessa. Il primo servizio a valore aggiunto che l'Isp offre ai propri utenti è, appunto, l'accesso alla rete. La fornitura di accessi, da


tenere ben distinta dall'affitto e dalla fornitura delle linee di telecomunicazione, comporta infatti una organizzazione di mezzi e servizi a valore aggiunto non indifferente. È, d'altronde, lo stesso Piano regolatore delle telecomunicazioni del 1990 (DM 6 Aprile 1990) che, nell'enunciare i servizi liberalizzati di cui all'art. 2 lett. "d", indica fra questi quelli applicativi di accesso alla rete portante (cfr. All. 1 DM 6/4/1990). La conferma è contenuta nel recente d.lgs. 103/95 1O La fornitura dell'accessohl alla rete da parte dell'ISP è propedeutica alla fruizione da parte dell'utente di tutti gli altri servizi telematici offerti da Internet quali quelli della navigazione sul cosidetto World Wide Web, i servizi di Email etc. etc. Questa è la prima obbligazione dell'Internet Service Provider: garantire agli utenti la possibilità di accesso alla rete. Ma quale è la reale portata dell'obbligazione gravante dell'Isp? Sul punto la risposta non è facile. Da una parte, i limiti delle obbligazioni assunte saranno ovviamente stabiliti dalle clausole del contratto stipulato con l'utente del servizio di accesso e, dall'altra, è comunque necessario stabilire che cosa debba legittimamente aspettarsi l'utente in una prospettiva di tipizzazione sociale del rapporto fondata sul contesto tecnico in cui il rapporto stesso si realizza. In altri termini, prima di ricorrere alla semplicistica dicotomia "obbligazione di mezzi"-

"obbligazione di risultato" per comprendere quale sia la responsabilità del provider occorre prendere conoscenza di quanto egli sia tecnicamente in grado di controllare e quindi di promettere ai propri clienti. Una cosa è certa: compito dell'Isp è di porre in essere tutte le risorse umane e materiali e gli accorgimenti tecnici necessari per consentire l'accesso alla rete e la fruizione, da parte dell'utente, di tutti i servizi che il Cyberspazio mette a disposizione. Per far ciò, l'Isp dovrà necessariamente ottenere dal gestore della infrastruttura di telecomunicazioni le linee ed i servizi di base necessari per operare la trasmissione dei dati e dovrà, ovviamente, predisporre l'ambiente di sistema ed i servizi aggiuntivi che consentiranno agli utenti di avere le porte di accesso ad Internet ed ai suoi servizi. Sul fatto che le attività eseguite dall'Isp nella fornitura dell'accesso siano configurabili tra servizi a valore aggiunto liberalizzati è già stato detto prima. Una attenta ricostruzione delle fattispecie riconducibili alle attività dell'Isp nella fornitura dell'accesso è stata effettuata da Manho Cammarata e Mario Monti negli interventi sul Forum multimediale 12 Sembrerebbe, quindi, possibile sostenere che l'attività dell'Isp è sempre fornitura di servizi anche quando si tratti di semplice fornitura di accesso. Come giustamente osservato "il servizio di accesso, in questo senso, può definirsi come un servizio telematico a 55


valore aggiunto prestato mediante un servizio di base 3. Sulla scorta di queste considerazioni, a prescindere dal modello contrattuale scelto dall'Isp per regolare i rapporti con gli utenti, possiamo sostenere che oggetto comune del contratto del servizio di accesso è la fornitura di servizi telematici. I connotati essenziali di detti rapporti giuridici assumono diversa forma a seconda che l'ente erogatore del servizio telematico sia qualificabile come imprenditore, ovvero come soggetto esercitante una attività senza fini di lucro. Circostanza, quest'ultima, che assume un ruolo determinante nella disciplina del rapporto e delle responsabilità contrattuali ed extracontrattuali gravanti sull'Isp. Infatti, mentre è pensabile utilizzare le norme del contratto di appalto o di quello di somministrazione 14 per l'Ispimprenditore, non è possibile ricorrere a detti schemi contrattuali per l'Isp non-profit che è da ricomprendere più nel contratto d'opera che in quello di appalto' 5 . In definitiva, si tratta di contratti innominati e misti che hanno un comune denominatore rappresentato, oltre che dall'oggetto - la forninira di servizi telematici - anche dal fatto di coiìsistere generalmente in contratti di durata, dove peculiarità dell'obbligazionedi chi fornisce il servizio è di garantire alla controparte la possibilità di ottenere un risultato (spesso dipen56

dente dall'agire dell'utente) attraverso la predisposizione di tutti i mezzi idonei al raggiungimento dello scopo (nella fattispecie, l'accesso ai servizi di Internet). In tal senso l'obbligazione dell'Isp, a prescindere dalla disciplina contrattuale applicabile, coìisisterebbe in una obbligazione di mezzi e non di risultato. L'assunto troverebbe una conferma, come diremo oltre in tema di Banche Dati, nell'impossibilità in capo all'Isp di garantire il risultato: vuoi perché questo spesso dipende da un azione dell'utente (vedi la ricerca e l'estrapolazione delle informazioni), ovvero dalle attività di terze parti su cui l'Isp stesso non ha alcun poter di intervento o, addirittura; perché la stessa regolamentazione del rapporto con il terzo è imposta da normative specifiche inderogabili (si pensi al rapporto dell'Isp con il concessionario dell'infrastruttura di base che è, spesso, integralmente regolamentato attraverso clausole e condizioni contrattuali imposte da atti amministrativi o legislativi). Si evince, quindi, che il rapporto tra l'Isp e l'utente è un rapporto complesso dove accanto alla regolamentazione privatisca provideri utente è quasi sempre presente un correlato rapporto contrattuale che discende dal disciplinare sottoscritt() tra il provider e il concessionario delle infrastrutture di telecomunicazione di base, ovvero tra quest'ultimo e l'utente stesso. Si pensi, ad esempio, per i collegamenti attraverso linea telefonica commutata,


ai contratti sottoscritti dall'Isp e dall'utente con il concessionario del servizio telefonico. Contratti che sono in grado di influire in maniera consistente nel rapporto tra l'Isp e l'utente, in quanto limitano in modo preciso le responsabilità connesse ai difetti del servizio telematico causati da malfunzionamenti o disservizi dipendenti dalle infrastrutture portanti di telecomunicazione, infrastrutture che rappresentano il veicolo delle trasmissioni telematiche operate tra utente e utente e tra provider ed utente 16 .

Date queste premesse, è evidente come nella fornitura dell'accesso vada distinta la responsabilità dell'Isp che predispone i mezzi per l'accesso logico alla rete da quella del concessionario delle reti pubbliche di telecomunicazione che fornisce "il veicolo" 7 attraverso cui i dati in via telematica vengono trasmessi tra l'Isp e l'utente. Va però rilevato che al di sopra della infrastruttura portante di base per le telecomunicazioni, sia essa individuabile nei cavi o negli altri mezzi fisici di trasmissione, deve essere necessariamente realizzata una rete telematica costituita da nodi di smistamento ed instradamento dei dati. Può essere l'Isp ritenuto responsabile dell'impossibilità dell'utente di fruire dei servizi telematici a causa di malfunzionamenti dipendenti dalla rete telematica? La risposta, in tutti i casi in cui la realizzazione di detta rete sia parte

dell'obbligazione dedotta in contratto dall'Isp, non può che essere positiva anche se nella realtà dei fatti sarà assai difficile stabilire a chi imputare le responsabilità dato il numero dei soggetti interessati (gestore della rete fisica, gestore della rete telematica, rapporto utente, concessionario, provider). A nostro modo di vedere, anche la realizzazione di una rete telematica sia su scala nazionale che internazionale (si pensi ai cosidetti On Line Commercial Services) deve essere considerato un servizio a valore aggiunto e non una semplice rivendita di capacità di linea. Si potrebbe arrivare a sostenere che la validità delle interconnessioni telematiche' 8 rappresenta per gli Isp un elemento essenziale della obbligazione contratta con il fruitore del servizio di accesso. Un approfondimento sul punto è sicuramente necessario. Altra responsabilità dell'Isp è quella connessa al contenuto dei dati o meglio delle informazioni messe a disposizione degli utenti. Una analisi sulle responsabilità gravanti sull'Isp nella erogazione dei servizi telematici non può prescindere da un esame dei singoli servizi fruibili dall'utente attraverso il collegamento ad Internet.

Le Banche Dati ed il World Wide Web Caratteristica principale di Internet e, più in generale, della telematica è la possibilità di offrire diversi servizi tra cui spiccano in maniera determinante 57


i servizi di informazioni on-line. Tanto che ormai si parla di Internet come mezzo di comunicazione alternativo o complementare ai media classici della stampa, della radio e della televisione. Peculiarità ditali informazioni è di essere rappresentate sotto forma digitale e spesso di essere accessibili in maniera gratuita. Si può arrivare a sostenere che la stessa Intenet altro non è se non una immensa Banca Dati. È proprio questa vastità 19 che fa si che più alto è il valore aggiunto della sistemazione critica delle fonti informative, e più è alta la probabilità che le informazioni siano facilmente accessibili da parte dell utente. Dove c e selezione critica della informazione spesso c'è anche una attività esercitata con fini di lucro e, pertanto, l'informazione diviene accessibile solo dietro sottoscrizione di un contratto di abbonamento con il gestore dell'archivio elettronico. Le informazioni sono reperibili dall' utente attraverso un sistema di ricerca interattivo che facilita il reperimento delle informazioni stesse attraverso un software dedicato allo scopo. Come già detto, l'Isp si può quindi limitare a fornire l'accesso alla rete ovvero fornire un suo servizio di banca dati con informazioni ordinate criticamente, in modo diretto o attraverso la sottoscrizione di contratti di abbonamento con altri provider di informazioni (si pensi in ambito informatico agli archivi Dataquest, Dun etc). Il problema è di stabilire le responsabilità in cui 58

incorre l'Isp sul contenuto delle informazioni reperibili sulla sua banca dati o ricorrendo ai servizi di informazioni dallo stesso offerti (w'w, messaggerie pubbliche). Ora, per chiunque abbia un minimo di esperienza nell'utilizzo di Internet è di tutta evidenza che pensare di ritenere l'Isp responsabile del contenuto di tutte le informazioni pubbliche accessibili attraverso la rete è sicuramente esagerato anche perché, sino a qualche tempo fa, non era ipotizzabile nemmeno tecnicamente operare una scelta discrezionale sui contenuti accessibili attraverso l'utilizzo della rete. È però evidente che, laddove l'Isp si ponga direttamente come fornitore della informazione per avere organizzato criticamente esso stesso la banca dati, sussiste una responsabilità diretta del fornitore dell'informazione per il contenuto della stessa e quindi, da una parte, per l'esattezza, la completezza e la consistenza della informazione e, dall'altra, per la possibilità che l'informazione leda gli interessi di terzi, siano essi legati alla sfera della personalità ed inviolabilità dell'individuo ovvero a diritti aventi contenuto di esciusività sotto il profilo morale e patrimoniale. In questo caso, la responsabilità dell'Isp potrà quindi avere natura contrattuale in relazione all'inadempimento connesso alla fornitura di una informazione viziata ovvero extracontrattuale per i danni che l'informazione viziata possa aver arrecato a terzi20 .


Sotto il profilo contrattuale, l'Isp gestore della banca dati ha il dovere di verificare l'attendibilità delle informazioni immesse negli archivi e deve predisporre tutti i mezzi atti a permettere all'utente di reperire le informazioni contenute nella banca dati. In questo senso, l'Isp ha l'obbligo di assicurare la funzionalità delle procedure (o meglio del software) di ricerca ed ha altresì l'onere di appurare la fonte delle informazioni per consolidata giurisprudenza civile e penale 21 secondo la quale, ai fini della mancanza di colpa nell'attività di diffusione di informazioni occorre "che l'agente abbia esaminato, controllato e verificato in termini di adeguata serietà professionale la notizia in rapporto all'affìdabilità della relativa fonte d'informazione, rimanendo vittima di un errore involontario". Se non si può pretendere una vendicità assoluta, si ha però diritto a informazioni serie, quantomeno seriamente e non superficialmente raccolte 22 Questo, per lo meno, è il quadro che si può rilevare dall'esame dei principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di diffamazione a mezzo stampa ovvero di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, nella attività di fornitura di informazioni commerciali. .

I principi in questione non sono, però, sufficienti a risolvere ie problematiche del regime della responsabilità nell'offerta e fornitura di servizi connessi alle banche dati su Internet. In-

fatti, la maggioranza delle banche dati sono fruibili gratuitamente e, spesso, consentono all'utente di ricercare le informazioni in più banche dati, non necessariamente gestite dallo stesso soggetto. Si deve pretendere in questi casi, per esempio, lo stesso criterio di diligenza professionale imposto al direttore del quotidiano che pubblichi una informazione già pubblicata? 23 La risposta non può che essere in senso negativo. Infatti, una delle caratteristiche principali di Internet è la possibilità di accedere a quello che comunemente viene definito World Wide Web e cioè il maggior servizio attraverso cui pubblicare e ricercare ie informazioni su Internet. Chiunque abbia un accesso su Internet è in grado di pubblicare una sua pagina WEB contenente le più disparate informazioni nonché suoni, video ed immagini. Esistono numerosi server anche amatoriali e non a pagamento dove è possibile reperire informazioni tematiche. Non c'è campo della attività umana e dello scibile che non abbia un sito Web dedicato. Caratteristica di tutte le Banca Dati su Internet è di consentire all'utente di navigare attraverso una serie di rimandi elettronici (i cosidetti Link) tra i vari siti Web. Addirittura, esistono banche dati che altro non sono se non raccolte sistematiche di siti Web e quindi di Link. A sua volta, un documento può rimandare ad altri documenti e così all'infinito. I principi coniati dalla giu59


risprudenza per individuare un regime delle responsabilità collegate alla fornitura e diffusione delle informazioni su altri media, costituiscono un bion punto di partenza anche per Internet ma non sono sufficienti, soprattutto considerando che il mezzo diffusivo non presuppone, per il suo utilizzo, una particolare organizzazione di mezzi e servizi e, quindi, una particolare attività di tipo imprenditoriale risolvendosi, per lo più, in una attività di tipo amatoriale del singolo.

possibilità di controllo di tale fonte, avrebbe conseguenze catastrofiche Occorre, invece, far leva su un principio fondamentale in materia di responsabilità civile che è il criterio della diligenza che grava su chi fornisce informazioni sulla rete telematica. Concetto questo che, insieme a quello della professionalità della attività esercitata, è indispensabile per individuare il regime delle responsabilità dell'Isp ed anche degli eventuali altri soggetti responsabili25

Si pensi, poi, che lo stesso legislatore che in precedenza aveva allargato, dove possibile, le norme sulla stampa e l'editoria anche ad alcuni servizi di informazione offerti su Videotel 24, oggi ha provveduto ad abrogare detta norma statuendo poi però all'art. 15 del d.PR 420 del 41911995 che "I fornitori di informazioni e prestazioni sono responsabili del contenuto e della esattezza delle stesse. È vietato fornire attraverso la rete pubblica di telecomunicazioni, informazioni e prestazioni contrarie a norme cogenti, all'ordine pubblico ed al buon costume". Detta norma è stata emanata in relazione ai servizi audiotex e videotex su cui un controllo integrale è possibile, trattandosi di servizi riservati ai soli abbonati e su reti telematiche dedicate. Un'applicazione estensiva ed automatica della norma aWlnternet provider, senza attribuire il giusto rilievo alla provenienza dell'informazione e alla

Si tratta, infatti, di stabilire che condotta debba tenere l'Isp per evitare di dover rispondere dei danni causati dall'inesatto adempimento delle sue obbligazioni ovvero dalla sua condotta colpevole in tema di responsabilità extracontrattuale. Se i contorni della diligenza dell'Isp sono abbastanza chiari laddove ci si riferisca alla fornitura dell'accesso (idoneità dei mezzi tecnici e delle soluzioni sistemistiche impiegate, garanzia della funzionalità dei nodi di interconnessione, etc.) o delle banche dati "chiuse" ed organizzate direttamente, lo stesso non si può dire in tema di "accesso" al World Wide Web. Infatti, l'accesso a Internet comprende anche l'accesso al www. È di fatto impossibile operare una valutazione delle cautele che l'Isp deve predisporre nel fornire l'accesso al w'w, prescindendo dai mezzi tecnici che le tecnologie collegate ad Internet (protocolli, standard di comunicazione,

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software di controllo, etc.) mettono a disposizione dell'Isp stesso. Si pensi, ad esempio, alle limitazioni di accesso per i più giovani a pagine erotiche attualmente presenti sulla rete, agli accorgimenti da adottare per impedire il commercio o la distribuzione di software copiato, alle cautele necessarie per evitare atti diffamatori a danno di terzi, alle limitazioni all'accesso a contenuti contrari all'ordine pubblico o al buon costume etc. In Francia, il Tribunale di Grande Istanza di Parigi è stato già chiamato a decidere su un'azione promossa da un associazione di studenti israeliti contro nove Internet provider per la diffusione di una Newsgroup in cui veniva negata l'esistenza dell'Olocausto. Il presidente del Tribunale ha disposto una consulenza tecnica per valutare se i servizi offerti via Internet possano soggiacere ai servizi telematici "chiusi" in cui il fornitore di accesso risponde delle informazioni che vi transitano 26 Il caso francese ci avvicina ai prossimi servizi di cui dobbiamo parlare. .

Servizi di E-Mail - News Group, Bacheche elettroniche e Chat Nel fornire l'accesso ad Internet, generalmente l'Isp mette a disposizione dell'utente una cassetta postale virtuale attraverso cui poter scambiare messaggi con gli altri utenti collegati alla rete. La Posta elettronica è il metodo principe nello scambio dei messaggi.

Con la cassetta postale virtuale, l'utente riceve anche un identificativo e cioè un suo indirizzo che verrà impiegato anche per l'utilizzo dei servizi di messaggeria pubblica. Con l'accesso ad Internet, l'utente ha anche la possibilità di ricevere notizie aggiornate da siti particolari tematici che vengono definiti "server di news" o newsgroup. Basta indirizzare al gestore del newsgroup, che spesso addirittura è un agente software, la richiesta e si riceveranno messaggi aggiornati su un determinato argomento quasi quotidianamente. Altra cosa sono le bacheche elettroniche, dove ognuno è libero di lasciare pubblicamente messaggi. Esiste poi la possibilità di collegarsi in diretta, ad orari prestabiliti, a determinati server che consentono con appositi programmi, anche dotati di audio, di colloquiare con gli utenti collegati dando luogo ad una vera e propria area di discussione. Esistono, poi, server che consentono di rendere anonimi i messaggi in quanto provvedono a ripulire un messaggio ricevuto di tutti i dati identificativi rispedendolo, poi, alla destinazione desiderata. L'analisi dei servizi di scambio di informazioni sin qui descritti portano alla luce una sostanziale diversità tra la posta elettronica, come messaggio indirizzato a soggetti determinati, e i servizi di messaggeria pubblica volti, invece, a rendere conoscibile un'informazione ad una pletora non preventivamente identificata di destinatari. 61


È evidente, soprattutto per la messaggeria pubblica, la possibilità che attraverso l'abuso del mezzo telematico si possano perpetrare con facilità reati od illeciti civili tra cui quelli a danno dell'onore e della rispettabilità delle persone. Definire i contorni dei doveri gravanti sull'Isp nella gestione del servizio di posta elettronica non è questione di pronta e facile soluzione. Da una parte occorre stabilire, riguardo alla posta elettronica, le possibilità di intervento e di controllo del gestore del sistema. Per far ciò, occorre stabilire la natura della posta elettronica. A ben vedere, non sembrano sussistere fondati motivi per non equiparare la posta elettronica alla posta ordinaria. Ed, infatti, in tal senso il legislatore ha novellato l'art. 616 c.p. (con la L. 547/1993 cosidetta Legge Conso): c .per corrispondenza si intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza". Interpretazione che si riferisce a tutta la sezione relativa ai delitti contro la inviolabilità dei segreti. Anche le recenti modifiche 27 al Codice Postale, istitutive del servizio Poste!, hanno equiparato di fatto la posta elettronica alla posta ordinaria, soprattutto per quanto riguarda i limiti sul controllo della corrispondenza stabiliti dall'Art. 11 dello stesso codice28 Si può, quindi, ragionevolmente escludere che sussista un obbligo del.

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l'Isp di verificare il contenuto della posta elettronica. Al contrario, così facendo, l'Isp incorrerebbe nel reato di cui all'art. 616 c.p. Data la facilità e l'economicità con cui è possibile inviare messaggi attraverso la posta elettronica, alcuni hanno sostenuto però la necessità che l'Isp adotti procedure di accesso al servizio di e-mail estremamente accurate e tali da impedire che un messaggio, sia esso pubblico o privato, possa essere inviato sulla rete senza l'indicazione del mittente29. Si tratterebbe, in sintesi, di introdurre una responsabilità oggettiva dell'Isp che, citato dal terzo per il danno arrecato dall'illecito connesso alla trasmissione del messaggio, dovrebbe dimostrare di aver posto in essere tutti gli accorgimenti necessari per impedire che l'accesso al servizio di e-mail avvenisse in modo anonimo. A nostro giudizio, mentre un siffatto dovere in capo all'Isp è ipotizzabile per i servizi di messaggeria pubblica diversi dall'E-mail, lo stesso dovere per quanto riguarda la posta elettronica privata potrebbe essere contrario ai principi costituzionali di libertà della corrispondenza e di pensiero sanciti dall'art. 15 e 21 della Costituzione. È interessante notare che, ad oggi, non esiste in nessuno Stato una regolamentazione specifica per la posta elettronica e che i primi tentativi sorti negli Stati Uniti di imporre limiti di utilizzo nei termini anzidetti sono già


stati impugnati sotto il profilo costituzionale30 . In fondo, non si vede per quale ragione l'Ente Poste non abbia alcuna colpa qualora taluno sia fatto oggetto, ad esempio, di minacciose lettere anonime, mentre se le stesse minacce gli pervengano via Compuserve il soggetto minacciato avrebbe diritto a chiedere al vettore telematico un risarcimento di danni. A dire il vero, un'accurata messa a punto del diritto alla segretezza della corrispondenza elettronica privata superabile solo dall'autorità penale nel rispetto di precise norme procedurali non sembra ancora entrata nella cultura dominante. In Francia, vige un divieto della criptografia (divieto nato a fini militari); sui giornali capita di leggere dichiarazioni contrarie a Internet perché consente scambi di messaggi tra malavitosi. Vi è da chiedersi se per sconfiggere il crimine sia socialmente giusto imporre ai servizi postali di aprire tutte le buste che ogni giorno vengono spedite con mezzi ordinari? Se la risposta è negativa, perché un diverso principio dovrebbe valere per la posta elettronica? Se invece passiamo alla messaggeria pubblica , la prospettiva cambia. Rientra, infatti, nei doveri dell'Isp, per limitare il più possibile gli abusi perpetrabili attraverso il mezzo informatico - o meglio per permettere ex post all'autorità di effettuare indagini contro gli autori di detti abusi - quello di predisporre un sistema di accesso alla

rete che permetta di identificare, all'atto del collegamento, inequivocabilmente l'utilizzatore del collegamento stesso. Il gestore dovrebbe poi mantenere in memoria le attività connesse all'utilizzo dei servizi di messaggeria pubblica, onde poter risalire a ritroso all'autore di un certo messaggio. In tal modo, il gestore si dovrebbe assumere l'onere di approntare mezzi tecnici per risalire a chi, ad esempio, (il caso è tratto dalla cronaca nera dell'ottobre 1996) istiga al suicidio. Altro onere del provider dovrebbe risiedere nell'imporre per taluni servizi che l'utente utilizzi una parola d'ordine. In altri termini, immagini contrarie al buon costume non devono essere accessibili ai bambini. Per accedere a siti "per adulti", il provider deve garantire che l'accesso sia preceduto da una password consegnata dal fornitore di informazioni direttamente e solo ad un utente maggiorenne. Un esempio di normativa, in tal senso, è rappresentato dal Telecommunications Act del 1996 varato da Bill Clinton. La nuova legge sulle telecomunicazioni prevede, espressamente, la crittazione delle trasmissioni via cavo vietate ai minori, la predisposizione di un sistema tecnologico basato su un chip che inibisca la visione dei programmi TV violenti o contrari al buon costume, attraverso l'emissione di un segnale che attivi i sistemi di protezione sul televisore ricevente nonché l'irrogazione di pesanti sanzioni per chi, via te63


lefono o computer, trasmetta materiali indecenti senza limitazioni (Communications Decency act). Anche la legislazione italiana, seppur con qualche incongruenza tecnologica dovuta alla reazione scomposta alle polemiche sui numeri 144, mirava a qualcosa di simile (cfr. art. 15 d.PR 420/1995). Va da sè che chi si sia appropriato delle chiavi di accesso di altri commetterebbe l'immediata applicabilità del reato previsto dall'art. 615 ter c.p. (non però i bambini che si approprino della password di un adulto). Al di fuori di questo dovere di conservare una memoria della messaggeria pubblica per permettere di risalire agli autori di eventuali illeciti e di limitare l'accesso ad alcune pagine, sinceramente sembra difficile addossare all'Isp responsabilità simili a quelle previste per i direttori responsabili delle pubblicazioni stampate. Da una parte, perché le cause di responsabilità oggettiva sono un numerus clausus e le stesse non possono formare oggetto di interpretazione analogica e, dall'altra, perché nella maggioranza dei casi è del tutto impossibile controllare i servizi di messaggeria pubblica, vuoi per la dimensione quantitativa del fenomeno i' le nodali ii COfl cui un siffatio servizio telernatico è strutturato. CoNI INTERPREm'rIvl Delle possibili linee guida sono state tracciate dalla giurisprudenza, in gran 64

parte americana, in tema di denigrazione e diffamazione. Una delle prime decisioni è australiana, nella causa Rindos v. Hardwick, in cui uno studente si lamentava degli apprezzamenti contenuti in messaggi pubblici sul suo comportamento sessuale. La sentenza, nell'esaminare la responsabilità del provider, sostiene che qualora il gestore del servizio abbia la possibilità di effettuare un controllo continuo sui messaggi (ovviamente pubblici), la sua responsabilità non è da escludere. Su questa linea, seppur con esiti differenti, si muovono anche ie famose sentenze Cubby c./Compuserve Inc. del 1991 e Stratton c./Prodigy3 ' del 1995. In Cubby c./Compuserve, viene affrontato il problema della qualificazione giuridica del provider che viene equiparato ad una libreria il cui gestore non può essere considerato responsabile di ciò che è scritto all'interno dei libri esposti nello scaffale. Viene ipotizzata una responsabilità del provider solo ove si riesca a dimostrare che lo stesso si comporti da editore e non da distributore, occupandosi di effettuare direttamente una revisione critica del materiale da pubblicare nella BBS.

Nella seconda e piui recente sentenza la Corte di New York ha però statuito il principio che l'Isp, nella fattispecie Prodigy, può essere citato in giudizio per rispondere dei danni causati da un atto diffamatorio come se si trattasse di una televisione, un giornale ovvero


da un editore. Nel caso di specie la Stratton Oakmont Inc., società di consulenza finanziaria, aveva citato in giudizio Prodigy asserendo di essere stata denigrata da una serie di messaggi pubblici apparsi in un forum finanziario in cui si asseriva che il Presidente della Stratton era stato incriminato per vari reati. Sulla scorta del caso precedente, la Prodigy si era difesa sostenendo che, nella sua qualità di distributore, non poteva essere chiamata a rispondere di azioni intraprese da terzi e ciò anche perché non aveva alcun controllo sulle notizie pubblicate. In giudizio fu invece appurato che Prodigy operava un controllo, seppur parziale, sui contenuti della messaggistica pubblica attraverso agenti software che provvedevano ad eliminare tutti i messaggi osceni. Sulla scorta di tale considerazione esiste ora un indirizzo prevalente, volto ad estendere al provider le responsabilità oggettive già stabilite in tema di diffamazione a mezzo stampa e ciò, sicuramente, in tutti i casi in cui si dimostri una attività di controllo del provider stesso sui contenuti dei messaggi pubblici. Il caso Prodigy, nel suo tentativo di distiguersi dal precedente Compuserve, sembra avere l'effetto di disincentivare l'attivazione di qualsivoglia controllo da parte del gestore della BBS.

In realtà, la tendenza generale ad equiparare il regime della responsabilità del provider in tema di diffamazione a

quella dell'editore è attualmente riscontrabile anche nel progetto di legge americano relativo allo Uniform Defamation Act ed in quanto già entrato in vigore nello Stato del Wisconsin, dove è stata varata una legge (Wisconsin Bill Act 852 del 1996) che prevede lo stesso regime per il materiale pubblicato su Internet e quello di altri mass media. La legge impone al soggetto che si reputa diffamato di inviare all'Isp una diffida a rettificare od eliminare l'informazione lesiva. Nel caso in cui l'Isp si adegui all'intimazione, questo potrà essere citato in giudizio soltanto per rispondere dei danni verificatisi sino alla rettifica o alla eliminazione della informazione lesiva. La stessa legge si premunisce di precisare la corresponsabilità della persona fisica dedicata al controllo dei contenuti della BBS soltanto nel caso in cui questa fosse stata a conoscenza della falsità della notizia ovvero non si sia prontamente attivata per eliminare le informazioni di cui fosse venuta a conoscere il contenuto diffamatorio. A parere degli scriventi, questa impostazione non sembra potersi condividere integralmente, perché occorre operare le necessarie distinzioni connesse alle differenze tecnologiche msite nei mezzi di comunicazione e di diffusione offerti da Internet, rispetto agli altri mass media. Infatti, a differenza di quanto avviene con la stampa o con altri mezzi di comunicazione, 65


una delle caratteristiche di Internet è di permettere a chiunque di pubblicare e diffondere una informazione in tempo reale interagendo direttamente con il mezzo di diffusione. È, cioè, praticamente impossibile in molti casi per il provider operare un controllo preventivo dell'informazione a meno di non snaturare del tutto le finalità dei servizi offerti. Non rimane che attenersi a quanto già detto in precedenza sulle cautele che il provider dovrà adottare per convalidare e monitorare l'accesso dell'utente al suo sistema ed alla rete. Cautele che varieranno di volta in volta, a seconda dei progressi tecnologici in tema di standard o delle normative che saranno emanate per la tutela dei dati personali 32 , le limitazioni di accesso alla rete, la diffusione in rete di materiali osceni, l'identificazione dell'utente all'atto dell'accesso al sistema, la tutela del diritto d'autore e dei diritti di privativa industriale. In buona sostanza, un obbligo di tenere aggiornate le proprie potenzialità tecnologiche in modo da mantenere traccia del passaggio delle informazioni e di poterne individuare l'origine e l'autore.

RESPONSABILITÀ DEL PRO VIDER PER VIOLAZIONE DI DIRITTI D'AUTORE

Chi è uso a navigare su Internet sa che tra gli obiettivi principali dell'accesso alla rete vi è quello di tenersi costante66

mente aggiornati sulle novità in materia di software. Tutte le principali software houses includono nei propri siti le liste dei programmi a disposizione e spesso ne consentono il caricamento all'utente, gratuitamente o a pagamento, a seconda delle proprie strategie commerciali (fenomeni dello shareware o del freeware che si sono sviluppati proprio con Internet). È anche noto a tutti i navigatori che vi sono BBs in cui si trovavano programmi abusivamente riprodotti che possono essere caricati in spregio alle normative sul diritto d'autore. Tale situazione era particolarmente diffusa qualche anno fa. Si era anche creata una cosidetta "cultura" che, enfatizzando la vocazione spontanea del fenomeno Internet, giustificava un superamento dei diritti di esclusiva e una libera appropriabilità di qualsiasi opera immessa nella rete e ciò a prescindere dalla volontà dell'autore. Una serie di decisioni statunitensi hanno ridimensionato tale modo di pensare, puntualizzando che i diritti d'autore sono tutelati anche su Internet. Sono decisioni assai interessanti ai nostri fini perché analizzano il ruolo del provider nel verificare che i propri servizi non consentano l'abusiva riproduzione di opere dell'ingegno. La materia ai nostri fini può essere trattata unitariamente per qualsiasi tipo di opera - letteraria, audiovisiva, musicale, fotografica -, non soltanto per il software.


Uno studente ventunenne del famoso MIT - Massachussets Institute of Technology - utilizzava il sistema dell'università per accedere a Internet, usando pseudonimi e indirizzi criptati creava un bullettin board. La BBS incoraggiava gli aderenti ad inserire (upload) software e videogiochi per permettere ad altri aderenti di usufruirne (downIoaa) a loro volta. Lo studente, di nome La Macchia, non si riprometteva alcun beneficio economico. Affrontato sotto il profilo penale, il caso si è concluso con l'assoluzione di La Macchia proprio per il difetto di uno scopo di lucro nel comportamento illegittimo (Us District Court District Of Massachusetts, December 28, 1994) e forse a soluzione non diversa si sarebbe pervenuti in Italia applicando le disposizioni penali in tema di diritto d'autore. Situazioni sostanzialmente analoghe hanno dato luogo, invece, a condanne in sede civile; sia sotto il profilo inibitorio che sotto quello del risarcimento di danni (Us District Court N.D. California, 28 marzo 1994 in 857 F. Supp. 679). Il famoso produttore giapponese di videogiochi SEGA ha ottenuto il sequestro delle apparecchiature di una BBS (dal poco felice nome MAPHIA). La BBs incoraggiava l'uploading di videogiochi e - a differenza di La Macchia - chiedeva un compenso per "downloadare" i giochi. Nell'opinione della corte distrettuale è stato valorizzato anche il profitto indiretto

dovuto all'appetibilità della BBs e alle vendite di carte di credito telefoniche vendute da una società collegata. Gli utenti erano soliti collegarsi al sistema usando pseudonimi. Si difendeva la BBS sostenendo di non poter sapere, esattamente, quali videogiochi formassero oggetto di abusiva riproduzione. Ma il semplice approntamento del sistema e la conoscenza di attività abusive sono stati giudicati sufficienti per condannare la BBS; così come è stata rigettata la tesi dell'utilizzazione libera, viste le dimensioni del fenomeno e la presenza di un lucro commerciale, attività svolta dal gestore della BBS.

In precedenza (Playboy Enterprises v. Frena, 839 F. Supp. 1552 MD Fla. 1993) una corte della Florida condannava l'operatore di una BBS perché il sistema consentiva l'immissione e il caricamento di fotografie di Playboy senza autorizzazione dell'editore. Non era stato il convenuto ad inserire nel sistema le fotografie, ma la responsabilità del sysop (system operator) è stata colta nella conoscenza della presenza delle foto collegata allo sfruttamento commerciale e non amatoriale della BBS. Di notevole interesse anche il caso Scientology (Religious Technology Center v. Netcom On-Line Communication Services, Inc., 907 F. Supp. 1361 ND Calif. November 21, 1995) perché ben rappresenta la pluralità di soggetti che possono trovarsi coinvolti 67


in un caso di contraffazione di diritti d'autore: provider, operatore della BBS, utente della BBS che immette opere coperte da diritti di esclusiva. Un ex aderente alla comunità religiosa di Scientology, tale Erlich, entrato successivamente in disaccordo con essa, è tra i 500 utenti della BBS diretta da un certo Klemesrud e nota per ospitare un forum tra fautori e avversari della chiesa. Su tale BBS, Erlich immetteva opere del reverendo Hubbard, fondatore della setta. La BBS non è direttamente connessa a Internet ma si avvale degli accessi forniti dal provider NETCOM. Scientology cita in giudizio tutti e tre - utente, operatore del sistema e provider— per violazione di diritti d'autore. In un giudizio preliminare, la Corte ha rigettato l'argomento del provider di essere un semplice vettore; in particolare ha stabilito che non avendo gli Internet provider l'obbligo - tipico del monopolista legale di trasmettere ogni cosa gli venga "consegnata", essi devono rifiutarsi di trasmettere dati lesivi di altrui diritti. Secondo la Corte è però una questione di fatto la dimostrazione della conoscenza, da parte del provider e della BBS, di una violazione di copyright. Nel caso di specie, Scientology aveva notificato sia al provider che al sysop che vi era tale attività, ma non era in grado di provare una conoscenza precedente alla notifica. Comunque,, prima che il caso entrasse nel merito come afferma un comunicato diffuso 68

via Internet dallo stesso sysop convenuto, sig. Klemesrud, il 22 agosto 1996 - vi è stata una transazione per $50.000 dollari, pagati dall'assicurazione dei convenuti. Qualcosa di simile è stato portato anche all'attenzione delle corti francesi. Si ricorderà che, l'anno scorso, il medico personale di Mitterand aveva pubblicato un libro sul Presidente e le sue malattie. La famiglia aveva ottenuto il ritiro del libro dal commercio per lesione del diritto alla riservatezza e una copia in formato elettronico era disponibile su un sito Internet. Il titolare del sito bloccò la diffusione dell'opera, ma nel frattempo altri utenti del sistema l'avevano caricata e resa disponibile. Il caso rende evidente che Internet non pone problemi in termini di applicabilità delle norme esistenti sul diritto d'autore, su cui - quantomeno in sede civile - la giurisprudenza sembra porsi pochi dubbi, quanto sull'efficacia degli strumenti inibitori tradizionali, vista la velocità di riproduzione e la difficoltà di inseguire sulla rete tutti i contraffattori. Crediamo si debba concludere, anche per l'Italia, che il provider sia responsabile di riproduzioni illecite, perpetrate attraverso il sistema, quando abbia conoscenza ditali attività. Laddove tecnicamente possibile deve, quindi, usare la propria diligenza per im-


pedire tali attività. Ciò però non significa che egli sia oggettivamente responsabile di ogni riproduzione abusiva avvenuta attraverso il proprio sistema, tenuto conto tra l'altro che quando anche fosse tecnicamente in grado di individuare tutti i dati potrebbe non sapere se un'opera (software, opera letteraria, banca dati, ecc.) sia stata messa nel sistema con o senza il consenso dell'autore; sarà questione di fatto da risolversi secondo le circostanze (in linea di massima, se il provider vede che l'ultimo romanzo vincitore del Premio Strega è stato "uploadato" sul sistema, dovrà immediatamente darsi carico di appurare con l'editore la liceità della riproduzione ed essendo questa verosimilmente abusiva provvedere subito a cancellarla; viceversa, non potrà essere responsabile se su un forum di poesia un utente abbia inserito come proprio un sonetto copiato ad altro sconosciuto autore, almeno fintantoché questo ultimo non si faccia vivo con il provider lamentando il plagio). Resta, inoltre, ancora aperto il dibattito sulla possibilità di ricorrere alle norme sulle libere utilizzazioni (tipico l'esempio dell'uso privato per finalità didattiche) che, entro certi limiti, possono temperare la responsabilità del provider. In tema di abusiva riproduzione di opere dell'ingegno è, infine, da segnalare un recente caso statunitense (ProcD, Inc. v. Zeidenberg, 908 F. Supp. 640,

WD Wisc. January 4, 1996) in cui si è stabilito che l'immissione nel sistema dei dati grezzi di un elenco telefonico, ancorché riprodotti da un compact disc, non viola i diritti del compilatore dell'elenco produttore del CD, se non vengono riprodotti i canali di ricerca o il software per gestire i numeri. Probabilmente una decisione in tal senso, che protegge la creatività della banca dati con un diritto d'autore e niente più, sarebbe stata diversa alla luce del diritto sui generis sui contenuto delle banche dati, introdotto con la direttiva comunitaria del marzo 1996. Sarà, comunque, necessaria la prova dell'estrazione o del reimpiego poiché l'esclusiva non incide sul contenuto e, perciò, non è impedito che altri con propri mezzi e investimenti costruiscano una banca dati contenente dati identici. Il soggetto responsabile La giurisprudenza sin qui richiamata ha individuato quale soggetto responsabile o, comunque, corresponsabile degli illeciti commessi il sysop, intendendo con esso il gestore del sistema informatico, sia come persona fisica che come persona giuridica titolare dell'impresa. Il termine sysop, (lo ricordiamo, acronimo di system operator), non è però sufficiente ad indicare tutti i soggetti che intervengono nella predisposizione dei mezzi e dei servizi necessari al funzionamento dei sistemi telematici. Infatti, mentre da una par69


te è necessaria la presenza di figure professionali deputate al controllo sul funzionamento e sulla sicurezza del sistema, dall'altra, sempre più si assiste all'emergere di nuove figure professio.. nali, anch'esse definite sysop che si occupano per lo più di organizzare i servizi di informazioni rivolti al pubblico, quali i servizi di newsgroup ed i forum di discussione. In questo caso, il sysop si occupa prevalentemente di fungere da moderatore delle aree tematiche ed, in alcuni casi, il suo compito è proprio di valutare i contenuti delle informazioni da diffondere sulla rete. Stante anche la continua evoluzione delle figure professionali in siffatto ambito, pensare di codificare un regime delle responsabilità personali, sulla base dei ruoli professionali (come è per la stampa) ricoperti nell'ambito dell'organizzazione del lavoro, è un criterio insoddisfacente specialmente laddove queste responsabilità assumano il connotato della responsabilità oggettiva. Per arrivare ad individuare i soggetti responsabili occorre, quindi, far riferimento alle mansioni effettivamente esercitate nell'organizzazione del servizio telematico. A diverse mansioni corrisponderanno diversi gradi di responsabilità o di corresponsabilità. Altro elemento diversificatore del regime della responsabilità è rappresentato, come già detto, dalla diversa natura della attività esercitata. Da una par70

te, infatti, abbiamo i grandi gestori dei servizi telematici commerciali (Compuserve, AOL, Prodigy, Telecom, VOL, etc.) e, dall'altra, le cosidette BBS amatoriali e/o pubbliche. La differenziazione di regime è già insita nel principio sancito in tema di adempimento dal nostro ordinamento giuridico che, all'art. 1176 c.c., precisa come "nell'adempimento di una obbligazione inerente l'esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura della attività esercitata" e non più con il concetto dell'ordinaria diligenza, di cui al primo comma. Un siffatto concetto è già riscontrabile, in principio, nelle sentenze americane sin qui richiamate ed in tema di BBS commerciali potrebbe essere riassunto nell'esigenza che il gestore, laddove gli sia consentito giuridicamente e dalle modalità di fruizione del servizio telematico, debba operare un controllo sostanziale e formale sui contenuti dell'informazione, dovendo così rispondere sia degli inadempimenti contrattuali che degli illeciti perpretati attraverso l'utilizzo del mezzo telematico. Se da un punto di vista contrattuale, responsabile sarà comunque il gestore dell'impresa commerciale, da un punto di vista extracontrattuale corresponsabile potrà essere anche il soggetto che direttamente abbia, soprattutto nei servizi telematici pubblici, avuto il controllo e la supervisione dei contenuti delle informazioni diffuse.


I

Si definiscono Internet Service Provid.er (Isp) i fornitori di accessi e servizi in rete. Sotto tale profilo occorre distinguere gli Isp dal soggetto detentore, concessionario o proprietario della infrastruttura di base attraverso cui si realizza la trasmissione (generalmente il gestore, per conto dello Stato, della rete fisica di telecomunicazioni). 2 Sul punto vedi V. R. D'Orazio, V. ZENO-ZENCOVICH, Profili di responsabilità contrattuale e aquiliana nella fornitura di servizi telematici, in «Dir. Inf.», 1990, p. 421 e seg. 3 È interessante la descrizione del fenomeno Internet operata dai difensori dell'American Civil Liberties Union nella citazione depositata il 24Settembre 1996 ed avente ad oggetto l'impugnazione del "Communications Decency Act of 1996". Il testo dell'intera citazione può essere prelevato al seguente indirizzo:

(htq'://fip.effiorg/pub/LegaL/Cases/EFF_ACLU_v_DoJ). I Caratteristica principale di Internet nella sua evoluzione è stato poi l'aspetto non-profit e l'obbligo imposto ai collaboratori degli organismi internazionali indipendenti di standardizzazione di rendere disponibili, a titolo gratuito, le opere dell'ingegno o gli altri contributi realizzati per lo sviluppo della rete. 5 Internet è la comunità telematica più grande del mondo. - Collega l'utente a oltre 30 milioni di persone in 50 Paesi, in qualsiasi continente, compresa l'Antartide. - Consente di raggiungere ifik, i programmi, i database e le aree dei messaggi di oltre 1.500.000 computer di enti pubblici, aziende private e singoli cittadini. - Trasmette più di I miliardo di byte di dati al mese. Internet è nata nel 1969 come rete militare di computer, finanziata dal governo degli Stati Uniti, per collegare i centri di ricerca privati e universitari in modo che gli scienziati potessero condividere le risorse informatiche e scambiarsi dati relativi ai progetti di ricerca segreti. Questa rete originale era nota con il nome di DARPAnet (Defence Advanced Research Projects Agency); l'accesso a DaPAnet era severamente limitato agli addetti ai lavori nell'ambito della difesa. Agli inizi degli anni Ottanta, DARPA costituì una seconda rete, Milnet, per consentire comunicazioni non soggette a segreto militare tra università e scienziati; DARPAnet e Milnet furono interconnesse e la nuova rete fu battezzata con il nome di DARPA Internet. Le comunità scientifica ed accademica, che tradizionalmente mal sopportano le costri-

zioni governative, presto realizzarono altre reti più aperte, quali Uuc (per collegare gli utenti dei sistemi Unix), USENET (User's Network) e CSNET (Computer Science Network): queste reti ad hoc finirono per riunirsi sotto l'ombrello Internet. Il grande momento per Internet si presentò nel 1986, quando fu realizzata la rete National Science Foundation Network (NSFNET) per collegare gli scienziati e i ricercatori a cinque grandi centri dotati di supercomputer. Le altre innumerevoli reti fecero a gara per collegarsi con questi enormi supercalcolatori ultraveloci, determinando la leadership di N5FNET rispetto a DAJU'Anet come principale coordinatore delle diverse reti (DARPAnet fu messa onorevolmente a riposo nel 1990). Internet continuò il suo rapido sviluppo sotto il coordinamento di NSFNET e tuttora cresce ad un ritmo del 10-15% al mese. Attualmente, nessuno conosce le reali dimensioni di Internet: secondo un calcolo di Tracy LaQuey (autrice di libri che trattano di posta elettronica e pioniera della Internet Society), il sistema collega oltre 17.000 reti di computer in tutto il mondo, ognuna delle quali a sua volta collegata a decine o migliaia di singoli centri di elaborazione con i relativi numerosi utenti. Internet è poco alla volta diventata la "superhighway" dell'informazione a livello mondiale. Per chi fosse interessato ad una attenta ricostruzione storica delle origini del fenomeno Internet e dei suoi servizi consigliamo la lettura del Libro delle reti di A. Aparo, Edizioni ADN Kronos, 1995. 6 Bulletin Board System ovvero piccole banche dati, spesso amatorial i. 7 I Commercial on line services, pur non possedendo le infrastrutture fisiche, garantiscono la qualità delle connessioni in rete e la continuità del servizio mediante la realizzazione di una propria rete con nodi dedicati, realizzata attraverso contratti di fornitura con i gestori delle infrastrutture. 8 Ai nostri fini preferiamo ricorrere alla nozione di servizio telematico distinto dal servizio di telecomunicazioni. Nei testi legislativi, però, a seconda degli obiettivi che si pone il legislatore, tutti possono essere trattati allo stesso modo. Per esempio, la Direttiva Comunitaria 901388 che punta a un'ampia liberalizzazione delle telecomunicazioni al punto 6 del CONSIDERANDO recita: "considerando che, (omissis) tali re-

strizioni d'uso e tarffè eccessive rispetto al costo, hanno l'effetto di ostacolare la prestazione, proveniente da altri Stati membri o ad essi diretta, di servizi di teleco71


municazioni quali: i servizi aventi ad oggetto il miglioramento delle funzioni di telecomunicazione, ad esempio la conversione di protocollo, di codice, di formato o di flusso; i servizi basati sull'informazione avente ad oggetto l'accesso a basi di dati; i servizi informatici a distanza; i servizi di registrazione e di ritrasmissione di messaggi, ad esempio la posta elettronica; i servizi di transazione, ad esempio transazionifinanziarie, trasferimento elettronico di dati per uso commerciale, teleacquisto e teleprenotazione; i servizi di teleazione, ad esempio telemisura e telecontrollo ". Ai fini dell'individuazione della responsabilità di un Internet provider può essere che la riportata elenca-

Internet presso l'indirizzo http://www.mclink.it/inforum/ . In sintesi, gli autori concludono per l'applicabilità del regime della dichiarazione anche per la fornitura di accesso su linea dedicata, differentemente dai chiarimenti ufficiosi forniti dal Ministero delle

PIrr. 3 Sul punto, vedi il percorso logico già indicato da

Profili di responsabilità contrattuale ed aquiliana nella fornitura di servizi telematici in «Dir. Inf.» 1990, pag. 421 e R. D'Oizio e V. ZENO-ZENCOV1CH in

segg. 14 In effetti, ricorrere alle norme sulla somministra-

zione presenti minore utilità. Lo stesso d.lgs 103195, nel recepire la Direttiva Comunitaria, definisce i servizi di telecomunicazione come: " ... i servizi la cui fornitura consiste totalmente o parzialmente nella trasmissione e nell'instradamen-

zione nei contratti relativi all'erogazione di servizi telematici, per loro natura beni immateriali, non sembrerebbe possibile, attenendosi al principio desumibile dall'art. 1559 c.c. secondo cui il contratto di somministrazione ha ad oggetto cose e non attività e ciò nonostante l'esplicito rinvio dell'art. 1677 c.c.

to di segnali sulla rete pubblica di telecomunicazioni, mediante procedimenti di telecomunicazioni, ad eccezione della radiodiffusione e della televisione In merito alla definizione di servizio di telecomuni-

sull'appalto di servizi. 15 In tal senso, vedi nota 14. 6 Sul punto, vedi quanto dispone il codice postale in tema di esonero di responsabilità dell'amministra-

cazioni è utile segnalare la definizione che di detti servizi dà l'attuale Piano Regolatore Nazionale delle Telecomunicazioni all'art. 2: Premesso che le teleco-

zione per i casi piii disparati (da ultimo, in tema di regolamentazione del sistema di Posta elettronica, art. 15 reg. post. Elettr., le nuove disposizioni sull'abbonamento al servizio telefonico DM 8 Settembre 1988 n. 434 così come modificato dal DM 13

......

municazioni comprendano ogni trasmissione, emissione o ricezione di segnali rappresentanti segni, scritti, immagini, suoni di ogni natura attraverso cavo, mezzi radioelettrici, ottici o altri sistemi elettromagnetici, aifini del presente Piano Regolatore i servizi di telecomunicazioni sono classificati come segue: I. Servizi portanti: si definisce servizio portante un servizio offerto da una rete di telecomunicazioni per il trasferimento di informazioni tra terminazioni di rete, quali definite all'Articolo 6 Ciascun servizio portante è definito da una serie di attributi, generali e di dettaglio, che ne specfìcano le caratteristiche '

Febbraio 1995 n. 191) 7 D'ORAzIO e ZENO-ZENCOVICH, nell'opera citata, parlano infatti correttamente di responsabilità del vettore con riferimento al concessionario delle infrastrutture pubbliche di telecomunicazione. IO Per un dettagliato esame della problematica relativa al concetto di rete telematica ed interconnesione

9 11 forum è consultabile presso il sito MC-LINK

telematica, si veda quanto contenuto nel sito AIPA in merito ai regolamenti attuativi delle Rete Unitaria della PA. Indirizzo http://www.aipa.it . 9 Alcuni autori hanno parlato dell'effetto contrario

della Technimedia di Roma, all'indirizzo http://www.mclink.it. A tal proposito si vedano gli

che l'eccesso di informazioni può realizzare e cioè, a causa della sovrabbondanza, l'impossibilità materiale

interessanti interventi di Andrea MONTI, Manlio CAMMARATA, BUONOMO E CORASANITI.

di reperire l'informazione desiderata. 20 Vedi D'ORAZIO e ZENO-ZENCOVICH, opera citata pag. 453 e segg. 21 Cassazione penale sez. VI, 28luglio 1992 in Giur.

IO Cfr. nota I. Il Sul punto è interessante quanto dibattuto nel Forum Multimediale di Mc-link (infra) e, nello specifico, l'intervento n. 6 di Manlio CAMMARATA e Andrea Morn. 12 Sul punto vedi gli interventi degli autori richiamati sulla applicazione del d.lgs 103195 "pubblicati" su 72

it. 1993, Il, 508; Giust. pen. 1993, Il, 300 (s.m.). In ogni caso, è altresì opportuno richiamare quanto già statuito in sede civile in tema di responsabilità connessa alla attività di fornitura di informazioni commerciali. Da ultimo Cassazione civile, sez. III, 6 gen-


naio 1984 n. 94, Società Dun e Bradstreet c. Breschi, Giust. civ. Mass. 1984, fasc. i per cui: "Sussiste a carico di un'organizzazione che svolge il compito di fornire informazioni commerciali la responsabilità per danni cagionati a terzi, ex art. 2043 cc., qualora, pur senza formulare apprezzamenti o giudizi negativi sulla moralità della persona (fisica o giuridica) sulla quale fornisce le informazioni stesse, riferisca una situazione non corrispondente al vero, costituendo la divergenza tra la situazione reale e quella risultante dall'informazione una violazione delle comuni norme

di prudenza e di diligenza occorrenti nella ricerca della fonte dell'informazione". 22 Cass. 4 Giugno 1962 n. 1342, già citata nel lavoro

di D'Oizio e ZENO-ZENCOVCH. 23 "In tema di reati commessi col mezzo della stampa, il fatto che la notizia incriminata sia stata attinta da un'agenzia di stampa presieduta da un direttore responsabile non limita o esclude il dovere di controllo del responsabile del periodico che l'ha ripresa", Cassazione penale sez. V, 13febbraio 1992; Cass. pen. 1993, 2266 (s.m.); Giust. pen. 1993, lI, 165 (s.m.) 24 Abrogato dall'art. 20, d.PR 4 settembre 1995, n.

tare che nelle corrispondenze o nei pacchi siano contenuti oggetti di provenienza furtiva o spediti in contravvenzione a disposizioni di legge o di regolamento possono, d'intesa con gli impiegati postali, aprire i pacchi e le corrispondenze, fatta eccezione per quelle epistolari. È vietato alle persone indicate nel comma precedente, salvo in caso di flagrante reato, ed a qualsiasi altra persona di introdursi, per procedere a perquisizioni o per altri motivi, negli stabilimenti postali, nelle vetture delle ferrovie o negli scompartimenti destinati al servizio delle poste sulle vetture stesse, sulle tranvie, sui piroscafì, sui velivoli e sugli autoveicoli senza autorizzazione dell'Amministrazione o dell'autorità giudiziaria. È consentito, in ogni caso, alle persone di cui al secondo comma di visitare i veicoli postali provenienti o diretti all'estero. 29 Per una attenta disamina delle posizioni sulla te-

matica in esame, vedi l'attenta ricostruzione operata da B. Donato,

La responsabilità dell'operatore di siste-

mi telematici,

«in Dir. Inf.» 1996, pag. 135 e segg. 30 A tal proposito, si richiama il procedimento attualmente pendente tra l'AcLu e io Stato della Georgia per la declaratoria di incostituzionalità del AcT 1029 dello Stato della Georgia che ha emendato il Georgia Computer Systems Protection Act. Per reperire l'atto, vedi supra 3. Da ultimo, in data 11 Giugno 1996 è intervenuta la decisione della Corte Federale del distretto Orientale della Pennsylvania, reperibile via Internet su http://www.cdt.org . La

420. Articolo 12 DM 27 Gennaio 1986 Regolamento Videotel: [L'utente è obbligato al rispetto delle leggi in vigore in materia di industria, commercio, informazioni e pubblicità, delle disposizioni contenute in convenzioni o trattati internazionali sottoscritti dall'Italia, delle direttive CEE, nonché delle di-

suddetta sentenza afferma, infatti, l'incostituzionalità

sposizioni di cui a]l'art. 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121. Il fornitore di informazioni che realizza e/o distribuisce servizi informativi a carattere giornalistico è obbligato a rispettare specificamente le norme della legge sulla stampa e quella sull'editoria in quanto applicabili.] (2)

delle disposizioni del Telecommunications Act statunitense e, più precisamente, di due norme contenute nel par. 502 dei Communications Decency Act (CDA) che modificano i § 223 (a) e 223 (d) dello United States Code (Usc). Tali disposizioni prevedevano l'irrogazione di sanzioni - consistenti in una

25 Vedi anche D'Oozio e ZENO-ZENCOV!CH. 26 L'intera descrizione della vicenda giudiziale è con-

multa ovvero nella reclusione fino a due anni o in entrambe le pene per ciascuna violazione - per chiunque diffondesse o agevolasse la diffusione, a minorenni, via Internet, di comunicazioni oscene.

tenuta nel testo

Internet aspects juridiques,

Hermès,

Paris 1996. 27 Vedi le modifiche al Codice Postale introdotte

con DM 24 giugno 1987, n. 333 e DM 7 agosto 1990, n. 260. 28 Art. 11. Verifiche delle corrispondenze e dei pacchi. Il controllo sulle corrispondenze, agli effetti doganali, spetta alle persone addette ai servizi postali. Qualora i funzionari ed agenti della dogana, gli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza abbiano ragione di sospet-

La Corte Federale degli Stati Uniti è pervenuta ad un simile risultato, come può evincersi dalla motivazione, in quanto ha ritenuto ie predette misure lesive del diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero sancito dal primo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti. È evidente che, con tale pronuncia, si è minato il primo tentativo organico (Telecommunications Act 1996) di dare una regolamentazione dei servizi usufruibiii via Internet. Ciò

73


non toglie che regolamentazioni del fenomeno siano ammissibili alla stregua delle Carte fondamentali di altri Stati. Si pensi a quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 21 della nostra Costituzione, il quale prevede un limite espresso alla libera manifestazione del pensiero, vietando tutte quelle manifestazioni che si pongano in contrasto con il buon costume ovvero con l'insieme dei precetti che, nella considerazione della pubblica opinione, sono diretti a proteggere, in un determinato momento storico, non soltanto il pudore e la decenza sessuali, ma anche il comune sentimento morale. Per cui è ipotizzabile in un simile contesto, così come avviene per la stampa, che il legislatore italiano possa apporre limiti specifici, giustificati dal fatto che la peculiarità del mezzo può consentire lesioni di beni primari protetti dalla Costituzione. D'altronde, gli stessi limiti prevede

74

l'art. 10, secondo comma, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La sentenza è pubblicata con il commento di un noto giudice americano ed una interessante nota di Vincenzo ZENO-ZENCOVICH su Il Diritto dell'informazione e dell'Informatica, 1996, pag. 604 e segg. 31 Le sentenze in esame possono essere reperite su Internet ai seguenti indirizzi: hup://www.law.emory.edul6circuit/jan96196a0032 p.06.html; http:llseamless.coml; http://www.swiss.ai.mit.edu/; Idaho Courts http://home.rmci.net/uscourts; 32 Nel corso della pubblicazione del presente articolo sono state emanate, in attuazione della Direttiva CEE 46195 sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, le leggi 31 Dicembre 1996 n. 675 e 31 Dicembre 1996 n. 676.


Il mercato della telefonia: la lunga strada della liberalizzazione di Stefano C orso *

Il settore mondiale delle telecomunicazioni ha sempre avuto come predominante, se non esclusiva, caratterizzazione quella di essere assoggettato, sin dalla sua nascita, ad un pressante intervento pubblico. I motivi di questa scelta erano da ricercarsi in varie soluzioni di ordine economico e politico, ormai non più giustificate alla luce del contesto attuale e delle recenti innovazioni tecnologiche in tema di telecomunicazioni: all'inizio del secolo solo l'intervento statale poteva assicurare lo sviluppo e la diffusione a basso costo dei mezzi di telecomunicazione, sviluppo che diveniva tanto più inderogabile con il progressivo prendere coscienza dell'utilità e dei vantaggi che i veloci mezzi di comunicazione potevano apportare alle società dei singoli Stati. Veniva a delinearsi, insomma, quel concetto di "società dell'informazione" che ha caratterizzato nel corso del secolo, in maniera tanto profonda, lo svolgersi delle attività umane; infatti lo Stato e i cittadini cominciavano a sperimentare nuovi modi di comunicazione e * Studioso di Diritto delle Telecomunicazioni

di controllo attraverso l'istantaneo scambio e diffusione delle informazioni (nel senso generale del termine) mediante telefono, radio e televisione, cui si aggiunsero altri potenti mezzi di telecomunicazione nel corso degli anni. QUANDO TUTTI HANNO UN TELEFONO

Le prime esperienze di liberalizzazione nel settore delle telecomunicazioni si ebbero verso la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Stavano infatti crollando i motivi principali della regolamentazione del servizio di telefonia di base: tutte le famiglie potevano ritenersi collegate al servizio, con il conseguente raggiungimento di uno degli obiettivi principali a cui il monopolio statale doveva portare, cioè quello di assicurare alla generalità dei cittadini un servizio telefonico di base i ,, universaie La mancanza di concorrenza in un settore che non giustificava più in maniera sostanziale il mantenimento di un monopolio statale, stava causando numerosi problemi dal punto di vista tariffario, di gestione e tecnologico. I 75


pressanti vincoli del Congresso e del Governo, una volta caduti i presupposti che giustificavano il mantenimento di una situazione di monopolio, tendevano ad orientare la fornitura verso finalità molte volte estranee (ad esempio: investimenti in aree depresse, tariffe sociali, vincoli ali'uso della forza lavoro) alle reali esigenze di ottimizzazione nel funzionamento di tali servizi in un territorio vasto come quello degli Stati Uniti. Enormi problemi si stavano poi verificando dal lato tecnologico: il mercato monopolistico si adeguava lentamente alle innovazioni in questo campo, sia a causa dei problemi politici che solitamente comportano gli investimenti statali, sia a causa degli stretti rapporti esistenti tra i gestori e le imprese manifatturiere che provocavano la chiusura del mercato delle nuove tecnologie e dei terminali a concorrenti stranieri, con conseguenti innalzamento dei prezzi e lenta innovazione nel settore. Il mutamento di questa paradossale situazione, attuato solo in minima parte attraverso lo strumento legislativo, è dovuto ad una serie di sentenze delle Corti di giustizia e soprattutto alle statuizioni della Federal Communication Commission (FCC) 1 , che minando alla base la logica del monopolio hanno permesso attraverso graduali innovazioni l'introduzione, nella prima metà degli anni Novanta, di un sistema basato sulla piena concorrenza. 76

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Una analoga situazione di disagio nella gestione e nella fruizione dei servizi di telecomunicazione si è cominciata ad avvertire in Europa nel corso degli anni Ottanta. In molti Paesi, come la Gran Bretagna, si erano venute a creare nel corso degli anni situazioni che limitavano in parte io storico monopolio statale del settore (come, ad esempio, un regime di duopolio e l'apertura di alcuni servizi ad imprese private, anche estere). Queste situazioni non facevano altro che contribuire alle contraddizioni di un mercato europeo in via di apertura già svantaggiato dalla eccessiva frammentazione delle tecnologie e delle imprese operanti in questo campo, rispetto al limitato mercato di sbocco per le attività in oggetto. La Gran Bretagna, infatti, attraverso la deregolamentazione e le annesse riduzioni tariffarie era in breve tempo diventata il maggior centro di smistamento del traffico privato tra America del Nord ed Europa, con un incentivo alla localizzazione di imprese multinazionali. In piui, la notevole esperienza acquisita in questo campo (in gran parte dovuta al pungolo della concorrenza e all'apertura del proprio mercato) faceva sì che, all'interno di una Europa strettamente e diversamente regolamentata, il Regno Unito e pochi altri Paesi ricoprissero un ruolo altamente competitivo sia nel riempire gli spazi lasciati aperti


agli interventi stranieri dalle varie legislazioni europee, sia nella sperimentazione di nuove soluzioni tecnologiche. La presa di coscienza da parte della Comunità Europea di una situazione che prometteva di divenire sempre più incontrollabile, si registra a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta principalmente attravrso interventi della Commissione Europea e a nuove interpretazioni "estensive" del Trattato Istitutivo. Il settore della telefonia, settore in continua crescita tecnologica e qualitativa, è per molti versi l'emblema delle difficoltà incontrate dall'Unione Europea nella sua opera volta a dare un nuovo assetto concorrenziale e funzionale al mercato europeo delle telecomunicazioni. L'APERTURA DEL MERCATO NELL'UNIONE EUROPEA

Uno dei grossi meriti da attribuire alla Commissione e più in generale all'attività della Comunità Europea è stato quello di aver affrontato, rilevando una incompatibilità tra la situazione esistente e le norme sulla concorrenza presenti nel Trattato Istitutivo (art. 90, in combinato disposto con gli artt. 59 e 86), il problema delle telecomunicazioni nel suo insieme, cercando di limitare gli interventi isolati soltanto a determinate situazioni specifiche che lo richiedevano. Si ricorda che il settore delle telecomunicazioni spazia dai servizi di telefonia (fissa e

mobile) a quelli satellitari, dai servizi televisivi (etere o via cavo) a quelli di trasmissione dati. La lungimiranza della Comunità è stata quella di aver previsto l'evoluzione della nostra società verso una "società dell'informazione", in cui tutti i servizi di telecomunicazione di base con l'evoluzione di nuove tecnologie stanno assumendo un carattere di intercambiabilità o di strumentalità reciproca: si pensi, per esempio, alla possibilità di inviare o ricevere fax o messaggi di posta elettronica attraverso il proprio telefono cellulare o alle possibilità di trasmettere video, voce e dati attraverso le normali linee telefoniche o l'utilizzo di linee ISDN (nuove linee di telecomunicazione ad alta velocità). Per adeguare il mercato delle telecomunicazioni ai meccanismi della concorrenza, come sanciti dal Trattato Istitutivo della Comunità, sono state necessarie principalmente due fasi graduali di attività legislativa. Il primo intervento della Comunità in materia è datato 30 giugno 1987. Si tratta di una comunicazione della Commissione al Consiglio, nota come "Libro Verde sullo sviluppo di un mercato comune dei servizi ed apparati di telecomunicazione" [C0M (87) 290] che costituisce un'evoluzione strategica, limitata al settore delle telecomunicazione, di un precedente dcumento-manifesto, pubblicato dalla Commissione nel 1985, il cosidetto "Libro Bianco". Qui erano presentate nume77


rose proposte con effetti fino al 1992, riguardanti un gran numero di settori economici, atte a smantellare con l'armonizzazione delle legislazioni statali, tutte le barriere tecniche, legislative e fiscali esistenti tra i vari Stati membri. Attraverso il "Libro Verde" venivano forniti gli indirizzi politici mirati ad incentivare e promuovere, nel corso degli anni successivi, lo sviluppo dei servizi di telecomunicazione e degli apparati terminali, al fine sia di guadagnare competitività nelle esportazioni, sia di recuperare, nel contempo, il proprio mercato interno, sempre più minacciato da offerte concorrenziali provenienti dal di fuori della Comunità, anche in vista dell'apertura del mercato europeo de! 1992. Si cominciavano, inoltre, ad intravedere i principi guida che avrebbero dovuto portare ad una apertura del mercato ad imprese private, sia nella produzione che nella prestazione dei servizi.

90/388 relativa alla "concorrenza nei

mercati dei servizi di telecomunicazione" approvata in pari data dalla Commissione, sulla base dell'art. 90 comma 3 de! Trattato istitutivo. Tale articolo, che come si vedrà ricoprirà un ruolo fondamentale per lo sviluppo e la liberalizzazione dell'intero settore delle telecomunicazioni in Europa, consente alla Commissione di adottare direttive, senza la previa approvazione del Consiglio, in tema di diritti speciali ed esclusivi quando questi contrastino con le norme sulla concorrenza e con l'interesse comunitario. E sempre più spesso, infatti, si assisterà a veloci accelerazioni da parte della Commissione, proprio attraverso lo strumento della direttiva, su questioni che avrebbero visto il potere frenante del Consiglio in diversi settori dei servizi di telecomunicazioni. I PRINCIPI CARDINE DELLA LIBERALIZZAZIONE

LA FINE DEI MONOPOLI

Ma soltanto con due successive direttive si può dire iniziata la vera e propria opera di smantellamento dei monopoli del settore: la 90/387/CEE approvata il 28 giugno 1990 dal Consiglio, riguardante la "Istituzione del mercato interno per i servizi di telecomunicazione mediante la realizzazione della fornitura di una rete aperta di telecomunicazioni - (Open Network Provision - ONP); e la direttiva CEE 78

La prima direttiva può essere definita una "direttiva quadro", in quanto suo scopo principale è quello di fissare i principi fondamentali da inserire nelle varie legislazioni statali al fine di raggiungere l'armonizzazione delle condizioni per l'accesso e il libero utilizzo delle reti pubbliche, in modo da agevolare la fornitura di servizi negli e tra gli Stati membri da parte di persone fisiche o giuridiche aventi sede in uno Stato membro diverso da quello di de-


stinazione della fornitura. Per raggiungere questo obiettivo, le condizioni di fornitura delle reti pubbliche, così come stabilito dalla direttiva, devono garantire i seguenti principi fondamentali: a) essere basate su criteri obiettivi; b) essere trasparenti (prevedendo tra l'altro procedure adeguate per la pubblicizzazione delle medesime); c) garantire la parità di accesso. Gli unici vincoli alla fornitura che possono venire posti, da parte degli Stati membri, sono quelli legati alla sicurezza del funzionamento della rete, al mantenimento della sua integrità, all'interoperabilità dei servizi (in casi giustificati) e alla protezione dei dati. Con la seconda direttiva CEE 901388, relativa alla "concorrenza nei mercati dei servizi di telecomunicazione", la Commissione introduce, all'interno della normativa comunitaria, un regime di mercato e di libera concorrenza per alcuni servizi di telecomunicazione. La chiave di lettura di tale ulteriore provvedimento risiede principalmente nell'art. 2, nel quale vengono infatti fissati i seguenti punti: a) "abolizione dei diritti esclusivi per la fornitura di servizi di telecomunicazione diversi dai servizi di telefonia vocale" di base (tale esclusione è inoltre estesa dalla stessa direttiva al servizio telex, alla radiotelefonia mobile, al radioavviso e alle comunicazioni via satellite) e predisposizione, nel contempo, di misure atte alla fornitura dei servizi in que-

stione da parte di ogni potenziale operatore economico (par. 1); b) il rilascio delle autorizzazioni a terzi per la fornitura di tali servizi deve basarsi su "criteri oggettivi, trasparenti e non discriminatori": questo ovviamente solo per quegli Stati membri che subordinino tale fornitura a procedure di dichiarazione o autorizzazione. Viene anche individuato un ente di controllo a valenza statale, di apposita e futura costituzione ed indipendente dai singoli organi di telecomunicazione nazionali, stabilendo al contempo, come ulteriore garanzia, che eventuali dinieghi a tali richieste debbano essere comunque motivati (par. 2) e basati sul mancato rispetto delle "esigenze fondamentali" (sicurezza, integrità, interoperabilità e protezione dei dati) e delle regolamentazioni commerciali sulle condizioni di permanenza, qualità e disponibilità del servizio. Seppur escludendo, in un primo tempo, i servizi di telefonia, di base e mobile, le due direttive ricoprono un'importanza fondamentale per l'assetto e lo sviluppo futuro delle telecomunicazioni in Europa. Sancendo la possibilità che privati possano utilizzare reti pubbliche di telecomunicazione per la fornitura di servizi e abolendo, allo stesso tempo, i diritti esclusivi degli Stati sui quali si basavano le posizioni di monopolio esistenti, le istituzioni comunitarie tracciano la via ad una completa apertura del mercato delle telecomunicazioni alla concorrenza. 79


MA GLI STATI RESISTONO

Le prevedibili resistenze statali a questi nuovi e rivoluzionari principi si estrinsecarono in ricorsi presso la Corte di Giustizia delle Comunità Europee e, in molti casi, in ingiustificabili ritardi in sede di attuazione delle direttive. In particolare due sentenze 19 marzo 1991, causa C-202188, riguardante il mercato dei terminali (direttiva 90/531/CEE) e 17 novembre 1992, cause riunite C-271, C-281190 e C-289-90, riguardante il mercato dei servizi di telecomunicazione 2 - nascono da ricorsi, presentati da diversi Stati membri (tra cui l'Italia), finalizzati all'annullamento delle duè direttive sopra esposte. Il nodo della questione era costituito, in entrambi i casi, dall'art. 90 del Trattato istitutivo, riguardante la concorrenza e, più in particolare, dalla parte in cui disciplina la concorrenza tra imprese private e quelle incaricate della gestione di servizi d'interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale 3 . Si accusava la Commissione di aver utilizzato in maniera illegittima lo strumento concesso dall'art. 90, terzo comma del Trattato ("La Commissione vigila sull'applicazione del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni"), in luogo del procedimento ex art. 169 volto a far constatare alla Corte l'inadempienza dei singoli Stati agli obblighi derivanti dal Trattato stesso. 80

In pratica, i ricorrenti eccepivano in vario modo l'eccesso di potere della Commissione, indicando ne! solo Consiglio il soggetto legittimato ad emanare disposizioni tendenti all'abolizione di diritti speciali ed esclusivi, in base a procedure comunque diverse. La Corte di Giustizia dichiarò, di contro, l'insussistenza della questione sollevata dai ricorrenti, in quanto, sebbene il Trattato attribuisca al Consiglio una competenza generale a legiferare - anche eventualmente nella materia trattata nell'art. 90 -, la previsione dell'art. 90, terzo comma, attribuisce espressamente alla Commissione il potere-dovere di vigilare, anche mediante l'adozione di direttive o decisioni. Di fatto venne aperta alla Commissione la strada per legiferare con pieni poteri, attraverso l'utilizzo di direttive e decisioni, in materia di monopolio e concorrenza. I primi orientamenti programmatici comunitari - frutto di un compromesso tra la tutela di interessi acquisiti da parte dei gestori e la necessità sempre più impellente di apertura del mercato alla concorrenza - dovevano ora più che mai trovare un naturale sviluppo che non fosse più solo limitato ad alcuni servizi di telecomunicazione, e che riguardasse anche il settore delle infrastrutture di base necessarie per la crescita e l'evoluzione di questi servizi, sempre più connessi gli uni con gli altri.


Tutta la politica comunitaria in tema di telecomunicazioni è, come si è visto, essenzialmente fondata principalmente su due grandi aspetti: la liberalizzazione e l'armonizzazione. Con il primo si indica la necessità di rendere la fornitura dei diversi servizi di telecomunicazione aperta alla concorrenza, attraverso la liberalizzazione sia dei servizi stessi, sia delle infrastrutture necessarie per rendere pienamente operativo l'espletamento dei servizi in questione. Con il termine armonizzazione (ONP, Open Network Provision) si indica la necessità di rendere effettiva la circolazione dei servizi liberalizzati in ambito europeo attraverso l'abbattimento di quelle frontiere tra Stati costituite dall'utilizzo di standard non omogenei di fornitura per i diversi servizi di telecomunicazione. Altro importante principio sancito dalla Comunità è quello relativo alla necessaria separazione, in un'ottica di liberalizzazione, tra le funzioni di controllo e quelle più propriamente operative, essendo impensabile la presenza nel mercato di un medesimo soggetto operante nei due ruoli, specialmente se questo soggetto ha ricoperto fino a poco tempo prima il ruolo di gestore pubblico di un settore delle telecomunicazioni (si veda, ad esempio, la situazione italiana).

la prima fase (così come viene individuata dalla dottrina), dell'operato comunitario nel settore della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni. La previsione, infatti, della sola liberalizzazione nella fornitura dei servizi rischiava di bloccare sul nascere tutto il piano comunitario. Tale piano avrebbe dovuto portare alla costruzione di un mercato comune in questo settore e a rendere effettivamente competitiva l'Europa all'interno del mercato mondiale delle telecomunicazioni. Il solo fatto di mantenere una situazione di monopolio in due settori fondamentali come quello della telefonia (sia mobile che di base) e delle infrastrutture di rete (cioè quelle necessarie infrastrutture fisiche, come cavi o ponti radio, necessarie per fornire i servizi), avrebbe significato instaurare un monopolio di fatto anche sui servizi liberalizzati. Il rapido e continuo sviluppo tecnologico nel settore della comunicazione personale - si parlava precedentemente di intercambiabilità sempre più diffusa dei servizi - e le pressanti spinte provenienti dall'estero per fornitura di servizi a basso costo avrebbero in breve tempo reso monca questa prima fase di riforma operata dalla Comunità Europea. 1993: PARTE LA SECONDA FASE DELLA LIBERALIZZAZIONE

Con l'apertura, almeno sulla carta, alla concorrenza del mercato di alcuni servizi di telecomunicazione si conclude

Per un'evoluzione significativa riguardante i vincoli ancora esistenti nel mer81


cato bisogna aspettare il 1993, quando, in via di esaurimento le questioni giuridiche e le resistenze portate avanti dagli Stati membri, si dà il via alla seconda e decisiva fase della riforma. Il 22 luglio 1993 una risoluzione del Consiglio prevede l'estensione della liberalizzazione dei servizi anche a quelli di telefonia vocale di base da realizzare entro il 10 gennaio 1998. Per quanto riguarda invece le infrastrutture, il 25 ottobre 1994 la Commissione pubblica il "Libro Verde sulla liberalizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione e delle reti televisive via cavo" da raggiungere anche queste entro il 10 gennaio 1998. Da sottolineare, inoltre che con la direttiva 95/62/CE del 13 dicembre 1995 del Parlamento Europeo e del Consiglio, vengono estese alla telefonia vocale i principi generali di armonizzazione dell' Open Network Provision espressi dalla prima direttiva "quadro" - la 90/387/CE in tema di telecomunicazioni, la 387/90/CE. Il risultato di questa spinta comunitaria verso una rapida e completa apertura dei mercati si è concretizzato nella recente adozione da parte della Commissione, sempre in base all'art. 90, terzo comma del Trattato, della direttiva 96/2/CE del 16 gennaio 1996 "che modifica la direttiva 90/388/CEE in relazione alle comunicazioni mobili e personali" e della direttiva 96/19/CE del 13 marzo 1996 "che modifica la direttiva 90/388/CEE al fine della completa apertura alla concorrenza

82

dei mercati di telecomunicazione". Con questi due ultimi tasselli si può sostanzialmente dire completato il processo di apertura del mercato europeo ad una completa liberalizzazione delle telecomunicazioni. Infatti, l'abbattimento delle restrizioni esistenti in tema di comunicazione cellulare e in tema di installazione di nuove reti di telecomunicazione (infrastrutture) sanciti con le ultime direttive dalla Commissione decreteranno la fine di ogni vincolo per gli operatori privati, anche esteri, per la fornitura di servizi e di reti in Europa.

VERSO

UN

MERCATO APERTO

I termini per la liberalizzazione sono stati fissati come segue: dal 10 gennaio 1998 per i servizi di telefonia vocale4 ; a decorrere dall'adozione delle decisione del Comitato Europeo per l'assegnazione delle frequenze, e comunque, dal 10 gennaio 1998 per i servizi che si basano sui sistemi mobili DCS 1800 (evoluzione del sistema GsM); a decorrenza immediata per la fornitura di servizi che si basano sul nuovo sistema DECT; anticipati al 1° luglio 1996 per quel che riguarda l'installazione delle cd. reti alternative, cioè quelle reti diverse dalla rete pubblica5 . Con l'apertura del mercato, il sistema europeo delle telecomunicazioni passa da un regime concessorio, in cui servizi e reti potevano essere forniti solo


dietro concessione statale discrezionale, a un sistema di autorizzazione. Per fornire servizi o creare nuove infrastrutture è necessario che venga fornita dall'ente statale preposto un'autorizzazione, una licenza o una dichiarazione, non più discrezionale, ma basata sui principi espressi dalle direttive 387190 e 388/90 e successive modificazioni che assicurano le seguenti esigenze fondamentali: sicurezza, integrità della rete, interoperabilità dei servizi, protezione dei dati, tutela dell'ambiente, utilizzo effettivo dello spettro di frequenze e prevenzione di interferenze tra i diversi sistemi di telecomunicazione. Eventuali dinieghi devono sempre essere motivati e passibili di ricorso. Con la direttiva 96/19 vengono introdotte misure di tutela in settori strumentali, come quello della predisposizione e della prestazione dei servizi in materia di elenchi telefonici, in cui un eventuale monopolio da parte di preesistenti organismi di telecomunicazione avrebbe l'effetto di rafforzare una posizione dominante di fatto che necessita invece di attenuazione. Il problema principale dei prossimi anni sarà quello di impedire che soggetti già operanti nel mercato in base al vecchio regime concessorio possano sfruttare tutti i vantaggi derivanti da una posizione dominante costituita nel corso degli anni anche con l'aiuto statale e, soprattutto, che in questo periodo transitorio, con alcuni servizi ancora in regime di monopo-

ho, non vengano prese misure che possano svantaggiare i nuovi futuri concorrenti nel mercato dei servizi e delle infrastrutture. Questa è una battaglia che si sta combattendo da alcuni anni in Italia soprattutto per quel che riguarda il settore della telefonia mobile e personale. Conviene a questo punto analizzare nel dettaglio la situazione italiana nel settore specifico della telefonia e i nuovi scenari che si stanno preparando. IL REGIME GIURIDICO IN ITALIA

L'Italia, nel corso degli ultimi anni, è stata uno degli Stati che più strenuamente si è opposto all'abbattimento dei monopoli nel settore delle telefonia e più in generale delle telecomunicazioni. La direttiva 90/387/CEE su!l'Open Network Provision è stata attuata solo nel 1993 (d.lgs. 9 febbraio 1993, n. 55), mentre la direttiva 901388/CEE sulla liberalizzazione dei• servizi di telecomunicazione è stata attuata dopo lunghe ed estenuanti vicissitudini solo nel 1995 (d.lgs. 17 marzo 1995, n. 103), cinque anni dopo la sua adozione da parte della Comunità Europea. Si ricorda inoltre che l'Italia è stata più volte ricorrente presso la Corte di Giustizia delle Comunità Europee avverso il potere della Commissione di emanare direttive in base all'art. 90, terzo comma, del Trattato Istitutivo. Ma facciamo un passo indietro e esaminiamo i mutamenti, molti dei quali 83


provocati dalla politica liberalizzatrice della Comunità prima e dell'Unione poi, che si sono avuti nel sistema della telefonia nel nostro paese. Fino al 29 gennaio 1992, data dell'emanazione della legge n. 58, il settore delle telecomunicazioni in Italia era fossilizzato in termini di gestione comune da parte di più entità concessionane del pubblico servizio; infatti la principale normativa di riferimento, che faceva capo al Codice Postale (approvato con RD 27 febbraio 1936 n. 645, rinnovato con d.PR 29 marzo 1973, n. 156, e in seguito modificato dall'art. 45 della legge 14 aprile 1975, n. 103), statuiva l'appartenenza esclusiva allo Stato non solo dei mezzi, ma anche dei servizi di telecomunicazione attribuendogli la facoltà di farne oggetto di concessione a terzi. In dettaglio, ognuna delle società concessionane aveva la gestione esclusiva, seppur coordinata con le altre, del proprio ambito di competenza, che così possiamo schematicamente riassumere: la Sip S.p.a. curava i servizi di telecomunicazione interni, compreso l'esercizio della rete pubblica per dati a commutazione di pacchetto (ITAPAC); l'AssT, Azienda di Stato per i servizi telefonici, il servizio telefonico nazionale interurbano (in collaborazione con la Sip) e le telecomunicazioni da e per l'Europa e il bacino del Mediterraneo, nonché l'installazione e l'esercizio degli impianti ad uso pubblico; l'Italcable S.p.A. i servizi di telecomunicazione

internazionali; la Telespazio S.p.A. i servizi effettuati mediante l'utilizzo di satelliti artificiali; la SInJ%1 S.p.A. i servizi radiomarittimi, anche se con concessione non esclusiva. Si RAZIONALIZZA IL QUADRO DELLE COMPETENZE Come dicevamo, la legge n. 58/1992 ha posto le basi, in un'ottica di riorganizzazione mirata alla distinzione tra compiti di gestione e di controllo, per un riassetto più generale del settore delle telecomunicazioni in Italia. Il primo passo, temporaneo, che la legge ha posto in essere si è concretizzato nel passaggio di quei servizi di telecomunicazione pubblici, nonché di installazione e di esercizio dei relativi impianti, gestiti fino a quel momento dall'ASsT e dall'Amministrazione PT, ad una società per azioni (IRITEL S.p.a.), costituita nel maggio 1992 dall'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), alla quale, il 29 dicembre 1992, il ministro delle Poste e Telecomunicazioni ha affidato la concessione per la gestione dei servizi di cui sopra per la durata di un anno. Il punto focale di tutta la manovra di riassetto si rinviene nei commi 4 e 6 dell'art. i della legge n. 58: questi attribuiscono al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) (su proposta del ministro delle Partecipazioni Statali e di concerto con il ministro delle Poste e Te-


lecomunicazioni) il compito di definire i principi generali di riassetto del settore sulla base di "criteri di omogeneità di funzioni, di efficienza ed economicità di gestione, di trasparenza nell'articolazione tra servizi in monopolio e in concorrenza, nel rispetto della normativa comunitaria e garantendo altresì il necessario coordinaCC mento dei servizi (art. 1, comma 2). Il Cip, in anticipo sui tempi previsti, ha adempiuto a detto compito con delibera del 2 aprile 1993 nella quale viene delineato il futuro assetto delle telecomunicazioni nel nostro Paese, sia per i servizi già liberalizzati che per quelli ancora in situazione di concessione esclusiva da parte delle Stato. A seguito della citata delibera del CIPE il panorama che si viene a delineare è il seguente: a) la rete di telecomunicazione fissa viene gestita da una nuova società, creata a seguito della delibera: la Telecom Italia S.p.a., nata nell'agosto 1994 dalla Sip, che nel frattempo aveva incorporato le altre società operanti nel campo delle telecomunicazioni (Italcable, SIRM, IRITEL, Telespazio); b) il servizio di telefonia vocale viene gestito in regime di concessione esclusiva da parte della Telecom S.p.a.; c) gli ulteriori servizi di telecomunicazione, con esclusione, in base all'originaria direttiva 388/90, della telefonia vocale, del telex, della telefonia mobile, del radioavviso e delle comunicazioni via satellite vengono liberalizzati in base alle norme di attua-

zione della normativa comunitaria (d.lgs. 9 febbraio 1993, n. 55 e d.lgs. 17 marzo 1995, n. 103); all'interno di questi, i servizi che utilizzano collegamenti diretti alla rete pubblica sono sottoposti ad un regime di autorizzazione, basato su criteri obiettivi, trasparenti e non discriminatori, valido anche per lo stesso gestore della rete pubblica. Mentre i servizi commutati dalla rete pubblica sono sottoposti ad un mero regime di dichiarazione preventiva descrittiva dei servizi stessi e possono essere offerti al pubblico decorsi 60 giorni dalla dichiarazione. Con la nascita della Telecom Italia (appartenente al Gruppo STET, holding nel settore delle telecomunicazioni) viene a crearsi così in Italia la figura del gestore unico per la rete pubblica e per quei servizi non ancora liberalizzati. Alla Telecom Italia viene inoltre data la possibilità di costituire società autonome in luogo delle divisioni (si veda, ad es., la Telecom Italia Mobile S.p.a. - TIM, nata il 14 luglio 1995). LIDEA MONOPOLISTA

è

DURA A MORIRE

Per quello che riguarda invece i servizi liberalizzati è da accennare brevemente ai motivi dei ritardi nell'emanazione delle norme di attuazione (marzo 1995) della ormai nota direttiva 388/90 della Commissione Europea. Il processo che ha condotto alla definitiva liberalizzazione di questi servizi è stato lungo e travagliato principalmente a causa del85


le resistenze da parte dell'Italia all'abbattimento del monopolio nelle telecomunicazioni, ma anche per via della complicità di un tortuoso procedimento che ha portato all'attuazione finale della direttiva 388/90 solo nel 1995. Per ben due volte, infatti, il Governo nell'ambito dei disegni di legge comunitaria 1991 e 1993 aveva chiesto ed ottenuto dal Parlamento la delega per recepire nell'ordinamento italiano i principi derivanti dalla direttiva in questione. Tale attività del Governo è stata oggetto di segnalazione da parte dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale ha più volte cercato di far allineare le proposte di attuazione presentate agli effettivi principi che scaturivano dalla direttiva. Da segnalare come questa attività del Garante, che ha contribuito ai ritardi nell'attuazione in nome di una fedele corrispondenza T raggiunta solo nel 1995 - ai criteri espressi dalla direttiva 388/90, ha suscitato diverse critiche in dottrina da parte di quegli autori che avrebbero preferito una liberalizzazione anticipata seppure monca. Il processo che porterà alla definitiva liberalizzazione nel 1998 dei settori residuali è ancora in corso, ma in alcuni di tali settori, come quello dei nuovi servizi di telefonia radiomobile e personale, la battaglia tra i vari soggetti operanti sul mercato è già aperta da diverso tempo.

86

IL LENTO CAMMINO DELLA TELEFONIA "IM-MOBILE" Per ben comprendere l'evoluzione giuridica che si sta respirando in Italia nell'ambito delle telefonia radiomobile è bene ripercorrerne brevemente la storia. Il primo servizio di telefonia radiomobile iniziò in Italia nel 1973 con il nome di RTMI e la sua gestione era affidata alla Sip. A causa del basso numero di canali disponibili il servizio divenne in breve tempo saturo. Nel 1985 fu reso operativo, sempre da parte della Sip, un nuovo servizio denominato RMTS 450 (Radio Telephone Mobile System) con terminali veicolari o trasportabili (a valigetta). La piena copertura nazionale di questa nuova rete venne raggiunta nel 1989 6 . Nell'aprile 1990 venne lanciato, a livello europeo, il sistema cellulare analogico ETACS (Extended Total Access Communication System) a 900 Mhz. Il successo di questo nuovo sistema fece divenire in breve tempo l'Italia il maggior operatore radiomobile europeo, gli abbonati raggiunsero il numero di diversi milioni, anche in virtù del basso costo dei nuovi terminali palmari e delle politiche di piani di abbonamento per famiglie. Questo sistema raggiunse nel 1995 la saturazione del mercato. Nel 1990 la Sip iniziò la sperimentazione del nuovo standard pan-europeo GsM a 900 Mhz. Commercialmente questo servizio, che utilizza la stessa banda di frequenze del sistema ETACS,


venne attivato nell'aprile 1995. Il periodo tra l'inizio della sperimentazione e la commercializzazione del servizio coincide con la rivoluzione delle telecomunicazioni avviata a livello europeo. Sebbene la ormai nota direttiva 388/90 escludesse dal suo ambito di applicazione i servizi di telefonia radiomobile, in molti Stati europei con situazioni di monopolio questa esclusione espressa è stata interpretata come una tacita estensione del monopolio pubblico anche a nuovi servizi (come quello GSM) in attesa di ulteriori specificazioni comunitarie in tema di concorrenza. Una sorta, cioè, di monopolio naturale riservato ai soggetti che già detenevano situazioni simili negli altri servizi di telecomunicazione, tesi questa in parte supportata da una lettura della direttiva 372/87/CEE relativa all'assegnazione di un ridotto numero di frequenze per il servizio GSM, che agli occhi dei sostenitori dell'estensione del monopolio era sembrata come un ulteriore segno della necessaria chiusura alla concorrenza di tale servizio. I nuovi orientamenti e assetti europei delle telecomunicazioni hanno dimostrato invece l'inconsistenza di queste tesi: in un'Europa sempre più avviata verso una completa liberalizzazione del mercato nel settore, sembra perlomeno anacronistica la creazione e il riconoscimento di nuovi monopoli in servizi che in breve tempo rivoluzioneranno il mondo delle comunicazioni interpersonali. In realtà, anche alla luce del

"Libro Verde" sulle comunicazioni mobili e personali, l'esclusione operata dalla direttiva 388190 è da ritenersi come una esclusione funzionale ad una ottimizzazione degli standard e della normativa dei nuovi servizi, che al momento dell'adozione della direttiva erano da intendersi ancora in chiave sperimentale. Il regime di concorrenza aperto agli altri servizi doveva anzi servire, una volta divenuto operativo sul territorio europeo, come terreno di coltura normativa per una estensione ragionata e ponderata della concorrenza a nuove forme di telecomunicazione. La stessa direttiva, limitandosi a escludere una liberalizzazione immediata per i servizi radiomobili, non impediva certo agli Stati membri di procedere per proprio conto ad una progressiva liberalizzazione del mercato. Allo stesso tempo, il limitato numero di frequenze disponibili poteva e può al massimo giustificare la concessione di un ridotto numero di licenze per gli operatori che vogliono entrare nel mercato, ma non certo posizioni di monopolio. Sorgeva, invece, la necessità di operare bilanciamenti all'interno dei diversi Stati europei a fronte di quelle posizioni di monopolio acquisite nel settore, che tendevano a partire già con posizioni dominanti all'interno di nuovi servizi emergenti. L'INTERVENTO DEL GARANTE DELLA CONCORRENZA

Un'importante opera in questo senso in Italia è stata portata avanti dall'AuPA


torità Garante della Concorrenza e del Mercato che ha dato il via, con la decisione del 28 ottobre 1993 n. 1532 (abuso di posizione dominante nel sistema di telefonia cellulare GSM), ad una progressiva apertura del mercato alla concorrenza anche in questo settore. Tale decisione faceva seguito ad una prima indagine conoscitiva del 23 giugno 1993 operata dalla stessa Autorità nel settore della telefonia mobile in cui veniva riconosciuta, tra le altre cose, l'inesistenza di monopoli naturali nel settore. Lallora gestore delle telecomunicazioni Sip era stato inizialmente autorizzato, con lettera dell'Ispettorato Generale delle Telecomunicazioni, ad effettuare una sperimentazione preoperativa del servizio cellulare GSM (settembre 1992) e in seguito ad avviare un'attività commerciale provvisoria e limitata ad utenza amica del servizio in questione (ottobre 1992). In pratica invece la Sip, in base a quanto riconosciuto dallo stesso Garante con la decisione n. 1532 del 1993, era andata oltre le prescrizioni contenute nella lettera di autorizzazione dell'Amministrazione Postale, poiché aveva invece "predisposto una estesa campagna di commercializzazione, promuovendo e diffondendo la propria immagine quale impresa già attiva su questo mercato". Se a questo poi si aggiungono sia il vantaggio temporale nella realizzazione di investimenti mirati alla creazione di una rete GsM, sia la posizione già acquisita dalla stessa Telecom (ex88

Sip) nel mercato del servizio cellulare analogico (ETACS), a livello di infrastrutture e di penetrazione commerciale, ben si riesce a comprendere il pericolo che una concorrenza nel settore avrebbe dovuto scontrarsi con monopolio di fatto già delineato e operativo sul territorio nazionale. In questo importante passaggio, in cui per la prima volta viene infranto lo storico monopolio nel settore della telefonia nel nostro paese, un grosso ruolo è stato ricoperto, oltre che dal Garante, anche dalla stessa Commissione Europea: l'apertura di un procedimento di infrazione da parte della Commissione nei confronti del Governo italiano, per porre fine alla situazione di monopolio nel sistema GSM, provocava da parte dell'Italia la pubblicazione di un bando di gara per una seconda concessione di quindici anni per la gestione di una rete cellulare GSM. A seguito di ciò si è giunti ad un primo ribilanciamento delle posizioni di concorrenza attraverso la stipula di due diverse convenzioni tra il ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni con la Telecom S.p.a. (approvata con d.PR 22 dicembre 1994) e con l'Omnitel Pronto Italia S.p.a. -, società privata capeggiata dal Gruppo Olivetti con partecipazioni anche estere, (approvata con d.PR il 2 dicembre 1994) aggiudicatrice della gara per la concessione quindicennale in regime di concorrenza del servizio


del 15 dicembre 1993 pubblicato in Gu n. 264 del 16 dicembre 1993), che ne! settembre 1995 ha iniziato il servizio sperimentale aperto all'utenza fornendo in seguito il servizio a livello commerciale a cominciare dal dicembre dello stesso anno, con una copertura del 40% del territorio. Con l'apertura del mercato ad un secondo gestore i rilievi mossi dalla Commissione Europea e i ricorsi che hanno provocato decisioni da parte dell'Autorità Garante sono stati numerosi e tutti orientati a bilanciare situazioni di abuso di posizione dominante da parte della Telecom e a interrompere campagne pubblicitarie o promozionali ingannevoli. GSM (DM

IL DUOPOLIO:

E POI?

Attualmente il servizio GsM si configura in Italia come un regime di duopolio legale, si è comunque in attesa della stipula di nuove convenzioni con società consortili (alcune delle quali con partecipazioni straniere) per la fornitura in concorrenza di tale servizio nel territorio nazionale. Bisognerà per altro attendere il 10 gennaio 1998 per una completa liberalizzazione dei servizi di telefonia cellulare digitale e, alla data suddetta, cadrà ogni vincolo di fornitura per lo standard Dcs 1800, ciò segnerà un'evoluzione (con allargamento di banda delle frequenza radio disponibili) del sistema GSM. L'aumento della banda di frequenza per

fornire il servizio permetterà ad un maggior numero di gestori di entrare nel mercato. Da notare, invece, come l'ormai saturo sistema ETACS sia in via di smantellamento da parte del gestore unico TIM, che bioccherà, nei prossimi anni, i nuovi contratti di utenza per raggiungere nel 2003 la definitiva chiusura de! servizio. Un'altra battaglia in corso è quella relativa al servizio di telefonia radiomobile DECT (digital european cordless telecommunications) già liberalizzato dalla direttiva 96/2/CE, che modifica la direttiva 388190 in relazione alle comunicazioni mobili e personali. Questo nuovo servizio può considerarsi un ibrido tra il sistema telefonico di base e quello cellulare, e costituisce il nuovo standard europeo per i telefoni cordless. In breve permetterà, attraverso l'installazione di nuove infrastrutture di rete e l'utilizzo di nuovi terminali, di utilizzare il telefono DEa come un normale telefono senza filo casalingo fino ad un massimo di 300 metri dalla base, e di utilizzano come telefono cellulare fuori di questo limite ma solo all'interno del territorio urbano. Le tariffe varieranno a seconda dell'utilizzo ma dovranno comunque essere, di massima, allineate rispettivamente alle normali tariffe telefoniche di base e cellulari. L'importanza di un'apertura immediata del mercato di questo servizio è costituita proprio dal fatto che si rende alternativo alla normale 89


rete telefonica di base, permettendo a nuovi gestori di crearsi una posizione sul mercato in attesa della completa liberalizzazione delle telefonia di base fissata per il gennaio 1998. Per i nuovi operatori non sarà possibile competere con la Telecom per i servizi telefonici su rete fissa, vista la mancanza e i lunghi tempi necessari per l'allestimento di nuovi cavi telefonici alternativi. L'introduzione di questa nuova tecnologia permetterà, oltre che un miglioramento delle comunicazioni personali, anche l'ingresso immediato nel mercato ai soggetti interessati a operare in regime concorrenziale nei servizi telefonici di base. La Telecom Italia S.p.a. ha già iniziato un periodo di sperimentazione di questo sistema in alcune città italiane e si appresta a commercializzarlo nelle principali città italiane. Un parere dell'Autorità Garante del 25 ottobre 1996 relativo a "Possibili ostacoli nei servizi di telecomunicazioni digitali senza filo DECT" ha evidenziao in maniera chiara e approfondita l'attuale situazione del mercato delle telecomunicazioni in Italia e gli eventuali pericoli di un ingresso del gestore pubblico come primo e unico operatore nel mercato della telefonia DEcr, ritenendo "paradossale che l'unica tecnologia attualmente disponibile per creare possibilità di sostituzione (a costi ragionevoli) con la rete.fissa capi!larmente posseduta in ambito urbano dal monopolista legale fosse gestita e 90

commercializzata in esclusiva dallo stesso monopolista". Se poi si aggiunge che il sistema DEcT può ulteriormente configurarsi come sistema di telefonia cellulare in ambito urbano, in mercato contiguo a quello dei sistemi GSM e ETACS, ben si vedono i pericoli di una gestione prioritaria "da parte di un gruppo imprenditoriale che già detiene posizioni di monopolio legale o dominanti in questi servizi attraverso una sua controllata (Telecom Italia Mobile S.p.a.)". L'Autorità Garante osserva come l'attuale quadro normativo, peraltro assai carente per quel che riguarda l'esercizio dell'attività economica nei mercati dei servizi di telecomunicazione, non fornisca "le basi giuridiche che consentano all'operatore pubblico di effettuare la sperimentazione del servizio in vista di una sua imminente commercializzazione, anche limitatamente alla cosiddetta utenza amica". Né ritiene che tale quadro consenta "una effettiva possibilità per operatori privati di accedere a questo nuovo mercato, pianificando i necessari e cospicui investimenti". UN FUTURO NEBULOSa?

In conclusione, in attesa che vengano attuate nel nostro paese le ultime direttive comunitarie sulla liberalizzazione dei mercati e che si fornisca un quadro regolamentare soddisfacente per la gestione di questi servizi, l'Au-


torità Garante ritiene urgente l'adozione di misure per la rapida attuazione di procedure aperte, trasparenti e non discriminatorie, che permettano, sulla base di un servizio autorizzatorio, l'accesso di operatori alla banda di frequenza destinata al sistema DEcT. Le presenti perplessità, fatte emergere dall'autorità Garante, sono state ultimamente confermate da una lettera inviata i primi di gennaio 1997 dalla Commissione Europea alla stessa Autorità Garante. In questa lettera, il commissario UE Van Miert osserva che il servizio DECF deve essere aperto a tutti gli operatori di servizi di teleco-

municazioni presenti sul territorio, compreso il gestore pubblico. Per giungere a questo è necessario, però, abbattere effettivamente in Italia il monopolio nel mercato delle infrastrutture di telecomunicazione, in quanto un'eventuale offerta del servizio da parte del gestore pubblico - in un mercato delle infrastrutture non ancora liberalizzato - equivarebbe, di fatto, a consentirgli di rafforzare la sua posizione dominante. Nel caso specifico per infrastrutture bisogna intendere le antenne, interconnesse con la rete di base, necessarie per fornire in ambito urbano i servizi di telefonia DEcr.

Ifi Communication Act dcl 1934. aveva attribuito a questa Commissione ampi poteri di regolamentazione per quello che riguardava l'accesso al mercato, le tariffe e gli obblighi di servizio. La Fcc rientra nel novero delleIndipendent Regulatory Commissions, commissioni queste che ricoprono, nell'assetto istituzionale degli Stati Uniti, un ruolo particolare. Infatti, istituite con legge federale, sono composte da un collegio di membri eletti, con parere vincolante del Senato, dal Presidente degli Stati Uniti e, operando in un regime di piena indipendenza rispetto ai tre tradizionali poteri statali, dispongono di un potere regolamentare autonomo e di altri poteri assimilabili a quelli di organi esecutivi e giudiziari. 2 Rispettivamente pubblicate in «Rassegna giuridica dell'energia elettrica», 1991, pp. 613 ss. e in «Foro Italiano», 1993, IV, p. 54ss. 3 Art. 90, comma 2: "Le imprese incaricate della gestione di servizi d'interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale, sono sottoposte

alle norme del presente Trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione ditali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunita. 4 Viene comunque riconosciuto - a richiesta - agli Stati con reti meno sviluppate un periodo transitorio supplementare di ulteriori cinque anni e a quegli Stati con "reti molto piccole" un ulteriore periodo di due anni. 5 In Italia esistono quattro reti alternative nate in base a concessioni "ad uso privato" rilasciate alla Snam, all'Enel, alla società Autostrade e alle Ferrovie dello Stato S.p.a. (quest'ultima ampia circa 20.000 Km.). 6 Alla fine del 1996 questo servizio viene definitivamente disattivato. Alle diverse migliaia di abbonati viene permesso il passaggio gratuito verso i sistemi ETACS O GSM. 91



54,

dossier

Sull'abuso di ufficio

Ormai da tempo, su queste istituzioni stiamo cercando di offrire una mappa della questione amministrativa quanto più possibile completa e concreta. Completa perchè composta di saggi ed interventi tesi ad esplorare tutti i momenti di quell'interazione tra pubblici poteri e cittadini che va sotto il nome di azione amministrativa. Concreta, perchè di questa azione amministrativa ne parliamo con un linguaggio che non è né quello autoreferenziale e crzptico degli specialisti, né quello della denigrazione a tutti i costi, dell'attacco mediatico alla burocrazia qualunque cosa essa faccia. Questi linguaggi non ci piacciono proprio perché, temiamo, siano causa della mancanza di comunicazione tra utenti ed amministratori. Sarebbe ora di sgombrare il campo che divide queste due entità e tentare di ristabilire canali di percezione e comprensione dell'attività amministrativa, rzpuliti da un'antistalismo di maniera che è lontano anni-luce dall'autentica tradizione della cultura liberale e democratica dell'organizzazione statale. Capire l'amministrazione pubblica è il primo passo per costruire. quella cultura civile senza la quale ogui rforma della convivenza sociale è destinata a restare lettera morta. Pensiamo al problema dell'abuso d'ufficio. Il solo nominarlo fa salire lo sdegno (nei PII


privati cittadini) per chissà quanti loschifrnzionari che, al coperto delle loro carriere pubbliche, approfittano quotidianamente delle stesse per organizzarsi clientele, distribuire favori in cambio di chissà quali altri sordidi vantaggi. La realtà è, nella maggior parte dei casi, un'altra. L'amministratore onesto, che vuole raggiungere risultati, dare risposte ai cittadini, realizzare nei tempi giusti le attività che gli competono a vantaggio dell"interesse pubblico", si trova di fronte il rischio forte di essere accusato di tutto: leggi, prassi burocratiche, interpretazioni giurisprudenziali possono motivare qualsiasi lamentela. Tanto meglio se questa lamentela si trasforma in denuncia penale che si riferisce a un reato di configurazione generica come l'abuso. Appena il citato amministratore, per fare in fretta qualcosa di concreto, per decidere e non essere denunciato per omissione di atti d'ufficio, 7'orza" la procedura, apriti cielo: l'abuso è reato. E un reato nato per frenare, certo, i comportamenti troppo disinvolti di alcuni, ma che si rivela come un macigno sospeso sulla testa di chi opera per i propri cittadini (e molti sindaci onesti se ne stanno accorgendo). La situazione viene affiontata nel dossier sotto aspetti giurisprudenziali, normativi e culturali. L'articolo a firma di Giuseppe Morbidelli è tratto dalla relazione della Commissione di Studio, da questi presieduta, istituita presso il ministero di Grazia e Giustizia. Vi è una completa disamina, anche in chiave comparata, della giurisprudenza sull'abuso d'ufficio e sui rimedi per eliminare la genericità del reato, senza compromettere la repressione penale di alcuni comportamenti delittuosi consistenti in 'fizvoritismi ", "prevaricazioni ' "sfruttamento privato dell'ufficio " Nell'articolo di Silvestro Russo, si vuole configurare un terreno culturale favorevole alla comprensione delle logiche dell'agire amministrativo. Logiche nelle quali, discrezionalità dell'amministratore e vincolo dell'interesse pubblico stabilito nella legge non sono termini antitetici, ma due elementi fondamentali dello specifico amministrativo che devono essere entrambi valorizzati per raggiungere il migliore risultato possibile. In apertura, l'articolo di Antonio Chizzoniti rfirisce sull'andamento dei lavori parlamentari che dovrebbero condurre al più presto alla soppressione della figura indistinta dell'abuso di ufficio d alla sua riformulazione in figure delittuose oggetti ve e specfìche.

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Abuso d'ufficio. Il Senato volta pagina di Antonio Chizzòniti

Il reato più "chiacchierato" d'Italia, l'abuso d'ufficio, è ormai dietro le quinte: pronto ad uscire dalle scene, e cioè sui punto di sparire dal nostro codice penale, o perlomeno di diventare qualcos'altro. L'evento era atteso dopo la massiccia offensiva di cui era stato oggetto. Ostilità mossa sostanzialmente da una considerazione che appare condivisa perlomeno dalle forze politiche presenti in Parlamento: la sua genericità e una certa fumosità del testo che si presta troppo facilmente all'incriminazione di pubblici ufficiali rei, in molti (ma non certo in tutti) i casi, di essere scivolati fuori dalle regole con il solo intento di scavalcare il "monstrum" delle nostre soffocanti norme burocratiche. I "nemici" dell'abuso sono tra i più autorevoli. Ad esempio il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che ne ha sollecitato tout court l'abrogazione, giudicando ai limiti della costituzionalità "una fattispecie di reato così indefinita". Oppure il ministro dell'Interno, Giorgio Napolitano, che invita però ad una revisione piuttosto che all'abolizione. Oppure ancora i sindaci riuniti nell'ANCI, che concor-

dano con Scalfaro, o il presidente della Camera, Luciano Violante, che non ha peli sulla lingua: "Per colpa di leggi inadeguate - sostiene - corriamo il rischio che il vecchio centralismo burocratico venga soppiantato da un centralismo di tipo giudiziario". Di fronte a tanti pericoli, il Parlamento si è mosso con la conseguente approvazione da parte del Senato di un nuovo testo dell'articolo 323 del codice penale che è stato giudicato positivamente dal presidente dell'altro ramo del Parlamento, dove si giocherà adesso la seconda manche della partita. Il nuovo testo, dice Violante, "àncora la rilevanza penale del fatto al dato oggettivo della violazione di norme giuridiche e sottrae al giudice il poteredovere di entrare nel merito delle scelte amministrative La nuova stesura dell'articolo 323 dei codice penale è stata approvata in sede deliberante dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama in sei sedute che si sono tenute dal 9 luglio all'8 ottobre. L'iter si è articolato sulla discussione di sei disegni di legge presentati da rappresentanti delle varie forze politiche presenti in Assemblea. 95


Il punto di partenza, comune a tutti, è stato il riconoscimento che la riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione del' 1990 non ha dato i frutti sperati. Obiettivo altrettanto comune quello di giungere ad una nuova formulazione che distingua chiaramente i reati che hanno effettiva consistenza penale dalla semplice violazione di regolamenti amministrativi, spesso dovuti all'esigenza di superare la macchinosità delle procedure burocratiche. Su queste basi, le analisi ed i percorsi individuati per giungere al nuovo testo sono stati ovviamente, l'occasione per rispecchiare culture ed indirizzi diversi. L'ABUSO "FORMALMENTE CORRETTO"

Il senatore Giovanni Lubrano di Ricco (Verdi-Ulivo) punta il dito su ciò che appare perfetto e invece non lo è. Nella sua proposta, la prima in ordine di tempo ad essere presentata, si parte da una difesa del sindacato del giudice penale sull'attività amministrativa che "è imposto dalla sola, banalissima quanto insuperabile ragione che altrimenti il giudice non sarebbe in grado di accertare se, storicamente, il fatto previsto si è realizzato o meno". In definitiva, nei delitti di abuso, "il tema dominante è se un merito amministrativo sussista o invece non ricorra un merito di consistenza, tutt'affatto privata, di natura criminosa". Ne consegue, sostiene Lubrano di Ricco, che "specificare le nozioni di 96

abuso d'ufficio con la condotta di violazione di espresse disposizioni di legge, et similia, ovvero addirittura sostituire quella nozione con tale condotta, significa svolgere un'operazione che mette fuori campo dall'azione penale gli abusi più pericolosi perché formalmente corretti". Nell'abuso, poi, "è insita, oltre alla violazione di espresse disposizioni di legge", la "strumentalizzazione del proprio ufficio per vie più sottili e, come tali, più pericolose". Le modifiche che, quindi, il senatore verde propone all'articolo 323 tendono in particolare "a sceverare e colpire severamente quei casi di abuso a carattere non patrimoniale ma densi di un significato di disvalore accentuato". E, a questo proposito, fa l'esempio dell'abuso "perpetrato allo scopo di stendere una vasta rete clientelare funzionale a corrompere l'integrità dell'azione amministrativa assai più profondamente ed intensamente di quello commesso per lucrare un profitto economico occasionale". Il terzo comma della proposta di modifica tende a chiarire che, "il vantaggio o il danno ingiusto altrui non possono mai riferirsi ad una pubblica amministrazione: un tale abuso incide solo su aspetti formali di regolarità dell'azione amniinistrativa, ma non attinge un disvalore sostanziale sui piano dei diritti ed interessi dei singoli cittadini e nemmeno necessariamente sul piano dell'imparzialità del buon andamento".


Anzi "spesso proprio l'esorbitare dei limiti delle competenze (costitutivo comunque sempre di un illecito amministrativo o disciplinare) serve a supplire le deficienze degli organi tenuti a provvedere". UN REATO DI MERO SOSPETFO

Un giudizio drastico sul 323" viene dato in un successivo disegno di legge, presentato per il centro democratico cristiano (CCD) da Maria Grazia Siliquini ed altri: "un gigantesco contenitore" che "raggruppa un numero indeterminato di condotte, da quelle lievissime a talune molto gravi, prevedendo peraltro, in tutti i casi, sempre la pena detentiva". A favore della riforma, oltre a ragioni strettamente giuridiche, vengono indicate anche circostanze di carattere "sociologico-giuridico". Si è notato in questi ultimi tempi, sostengono i presentatori, che l'operazione "Mani pulite" ha dato finalmente al cittadino comune "la sensazione che egli non è più inerme di fronte alle angherie; pertanto, assai più spesso di prima, colui che ritiene di essere trattato dal funzionario senza la dovuta imparzialità sporge denunzia per abuso d'ufficio". E quindi, mentre l'interesse dell'imparzialità della pubblica amministrazione, affermato nell'art. 97 della Costituzione, "deve essere presidiato da norme penali in ogni caso in cui viene leso gravemente un interesse dell'amministrazione o del cittadino", non è

tuttavia ragionevole "esporre il funzionario ai ricatti di denunce penali in ogni occasione, anche dove il comportamento non sia dettato da un interesse personale e rientri nei poteri attribuiti dalle leggi". Per i proponenti l'attuale articolo 323 configura un reato di «mero sospetto in quanto "gli elementi oggettivi sono evanescenti e quello soggettivo è insufficientemente delineato" e quindi si propone una sua ridefinizione in attesa di una riforma della pubblica amministrazione. L'obiettivo a cui si mira è quello di "restringere l'area dei fatti che richiedono il processo penale" prevedendo alcune cause di non punibilita al fine di escludere l'intervento del giudice penale per scelte del funzionario che dipendano esclusivamente da una mera valutazione discrezionale di carattere amministrativo". Si propone anche la non punibilità quando il danno cagionato è inferiore ai 10 milioni "allorché lo stesso sia stato risarcito, rimanendo ovviamente obbligatoria l'azione disciplinaria". I PERICOLI DEL PANPENALISMO

L'esigenza di contrastare "l'oggettiva dilatazione" dell'impiego del reato di abuso d'ufficio è al centro della proposta presentata da Salvatore Senese ed altri (Ulivo-Pds), proposta che è poi stata assunta come testo-base per la modifica del "323". Ci si rifa, innanzitutto, alla legge del 97


1990 per osservare che "l'intenzione della riforma e la sua ratio consistevano nell'obiettivo di segnare una chiara linea di confine tra il malaffare ed il favoritismo, perseguiti attraverso la strumentalizzazione del pubblico potere e l'esercizio, magari errato o distorto della discrezionalità amministrativa". Solo ai primi, si aggiunge, "s'intendeva riservare il rigore del magistero penale, rimanendo la variegata fenomenologia rapportabile al discutibile uso del potere discrezionale affidata ad altre forme di reazione (responsabilità amministrativa o interventi della stessa pubblica amministrazione o della giustizia amministrativa e/o responsabilità politica). L'intento del legislatore, insomma, era quello di evitare un panpenalismo lesivo del fondamentale principio di civiltà che considera lo strumento e la reazione penale come extrema ratio." La ratio legis della riforma, così sintetizzata, "può considerarsi assolutamente incontestata", altro discorso è se l'obiettivo sia stato raggiunto "in termini di adeguatezza della formulazione normativa e di sua traduzione giurisprudenziale". Si ricorda quindi che "soprattutto a causa del dilagare del malcostume pubblico, la magistratura, specie inquirente è stata chiamata ad un grande impegno per contrastare il malaffare nella pubblica amministrazione e che la fattispecie del nuovo abuso d'ufficio ha assai spesso rappresentato 98

lo strumento attraverso cui far venire alla luce fatti di corruzione o grave strumentalizzazione dell'ufficio pubblico a fini particolari o privati". "Da qui - si osserva - una oggettiva dilatazione dell'impiego di tale imputazione, favorito anche da una certa qual indeterminatezza della descrizione della fattispecie legale, che è oggi riconosciuta non solo dalla dottrina, dalle stesse associazioni dei magistrati, dagli amministratori locali e dalle loro associazioni, da tutte le forze politiche ma soprattutto dal massimo rappresentante dell'ufficio preposto all'imparziale applicazione della legge: il procuratore generale presso la suprema Corte di Cassazione". L'obiettivo diventa quello di "una ridefinizione della fattispecie legale per sottrarla, per quanto possibile, agli elementi di indeterminatezza che oggi esibisce L'attuale formulazione, infatti, affida la descrizione della condotta incriminata " I aiI termine aDuso , e cioe' aaI una espressione verbale "che vanta una lunga tradizione nel linguaggio giuridico e nei testi legislativi", ma che, malgrado ciò, non riesce a sottrarsi ad una connotazione "più suggestiva che analitica". UN PROCESSO ALLE INTENZIONI

Nell'attuale formulazione legislativa, si afferma inoltre, "la inevitabile indeterminatezza della condotta dovrebbe trovare un contrappeso nella sussistenza


del dolo specifico che deve accompagnare i aDuso per renaerio penalmente rilevante". Nella pratica, però, sovente "si muove da tale (reale o supposto) fine per connotare la condotta di cui si tratta come "abuso"; con la conseguenza, non di rado, di trasformare l'accertamento del reato in un processo alle intenzioni fondato su (pochi o molti) elementi sintomatici ma privo di un ancoraggio ad un elemento materiale verificabile o falsificabile". Appare perciò opportuno "ridefinire la condotta punibile, eliminando dalla formula che la descrive ogni riferimento all'abuso» e indicando in suo luogo comportamenti oggettivamente apprezzabili quali l'esercizio del potere in violazione di legge o regolamenti ovvero di norme sulla competenza o del dovere di astensione ovvero ancora l'indebita omissione di un atto di ufficio. Al tempo stesso, è parso opportuno trasformare il reato in delitto d'evento (che non esclude il tentativo) nel senso che l'esercizio (o il non esercizio) del potere in violazione di precisi doveri, per acquistare rilevanza penale deve produrre all'agente o ad un terzo un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero deve arrecare un danno ingiusto." Il vantaggio deve essere "patrimoniale". Ciò, anche alla luce dell'estensione del concetto di patrimonialità operata dalla giurisprudenza, vale ad esciudere dall'area dell'illecito penale comportamenti antigiuridici ma non cI,I

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catalogabili come episodi di malaffare o di favoritismo corruttivo". I presentatori "sono consapevoli che la modifica proposta restringe l'area della repressione penale dei comportamenti scorretti degli agenti pubblici. Alla parte di questa area sottratta al magistero penale, si ritiene debba meglio corrispondere responsabilità amministrative o civili o contabili e, in ultima analisi, responsabilità politiche. Si da poter superare la disperante alternativa tra un panpena!ismo crescente e un malcostume dilagante". UNO STRUMENTO DI CONTROLLO

Una contestazione dell'ipotesi abrogativa dell'articolo 323 del codice penale viene da Ettore Bucciero (AN), presentatore con altri di un disegno di legge. L'abuso d'ufficio, si sostiene, "in più di un'occasione, nelle applicazioni concrete, si è tradotto in strumento di controllo da parte del giudice penale sui rispetto della legalità nell'amministrazione, giungendo al sindacato non solo dell'esercizio distorto della discrezionalità in senso ampio, ma anche delle scelte amministrative rientranti in modo esclusivo nella discrezionalità , tecnica L'indice è anche, in qualche modo, puntato contro l'interpretazione del 323" da parte di settori della magistratura. La genericità della formulazione, sostiene sempre Bucciero, ha spesso consentito ad ogni pubblico ,

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ministero di adottare una propria strategia di intervento e di esercitare "in modo improprio funzioni di controllo strettamente amministrative". Bucciero ricorda che "di fronte a usi strumentali della norma, soprattuto nella fase di indagini", già nella passata legislatura "si era avanzata la proposta di abrogare il reato di abuso d'ufficio, posizione ripresa in coincidenza della nuova legislatura dal capo dello Stato e da alcuni esponenti dell'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani". Una posizione che non condivide, poiché l'abuso d'ufficio "rappresenta una norma di 'chiusura' nel sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione, idonea a sanzionare condotte oggettivamente illecite che altrimenti resterebbero impunite". La gravità di tali condotte "impedisce di procedere alla tacita abrogazione dell'art. 323 del codice penale che conseguirebbe alla proposta avanzata dall'Anci nel 1995 di rendere oblazionabile il reato o comunque delle proposte di punire certi comportamenti in via amministrativa." Né è condivisibile l'ipotesi, pur avanzata nella XII legislatura, di limitare la perseguibilità dell'a: buso d ufficio alla mera sussistenza di interessi o vantaggi patrimoniali". CHIARIRE I CRITERI DISCREZIONALI

Luciano Callera (CDu) e Roberto Centaro (Forza Italia) si rifanno nel loro disegno di legge all'applicazione 100

corretta della divisione dei poteri, sancita dalla Costituzione, di cui è presupposto imprescindibile "la previsione in forma tipica ed esplicita delle fattispecie di illecito assoggettabili a sanzione penale, rispetto a quelle costituenti illecito amministrativo". Nel primo caso si verifica "un radicale stravolgimento della funzione amministrativa volta all'assunzione di un fine collegato all'interesse generale della collettività giacché essa viene piegata al servizio di un interesse particolare". Ove invece "l'attività amministrativa si attui nel solco del perseguimento dell'interesse pubblico di carattere generale ma ugualmente confligga con posizioni giuridiche tutelate dalla legge, si versa in ipotesi di illecito amministrativo, sanzionabile mediante le procedure ed il ricorso all'autorità amministrativa7. I due senatori propongono con il loro testo "di delineare con chiarezza il criterio discretivo tra illecito amministrativo ed illecito penale, individuando altresì cause di non punibilità collegate all'elemento soggettivo, ovvero alla concreta efficacia dell'atto". UNA SPADA DI DAMOCLE

L'unico disegno di legge che prevede tout court l'abrogazione dell'articolo 323 del codice penale viene presentato dal senatore Mario Greco. Per l'esponente di Forza Italia questo testo "a causa della sua inadeguatezza 'fat-


tuale' è diventato innanzitutto, un pericoloso strumento nelle mani di qualsiasi persona che, nel ritenersi danneggiata negli interessi o ritenendo qua!cun altro avvantaggiato da un qualsiasi atto amministrativo, anche generico, sporge denuncia penale Il tutto, poi, "si trasforma in una facile chiave di accesso a disposizioni dell'autorità giudiziaria per penetrare nel territorio della pubblica amministrazione". In definitiva, l'articolato rappresenta una "spada di Damocle" pendente su ogni amministratore, anche su quello più onesto, e, in molti settori della res publica (gare di appalto per lavori pubblici, atti concessori, promozioni o attribuzione di qualifiche superiori ... ) ha creato situazioni di dannoso immobilismo. Le condotte abusive dei pubblici ufficiali e degli incaricati dei pubblici servizi "possono concretizzarsi in tanti infiniti modi che è difficile, se non impossibile, nella situazione legislativa attuale, contemplarli tutti in maniera tassativa, chiara e precisa, in un solo articolo normativo". Qualsiasi formulazione, anche quella accompagnata dai massimo sforzo esplicativo, non sarà in grado di evitare il rischio di incriminazioni per fatti viziati da semplice illegittimità amministrativa". La proposta seccamente abrogativa di Greco "che rinvia ad una legge che faccia chiarezza su una materia cosf delicata ben si inquadra nella preannunciata riforma governativa della

pubblica amministrazione, che tra i primi punti prevede la ridesignazione dei diritti e dei doveri dei dipendenti pubblici, nonché l'obbligo dei funzionari con responsabilità di rilievo (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) di dichiarare i loro patrimoni e di aggiornare periodicamente la loro anagrafe patrimonia-

L'ITER IN C0MMIssI0NÈ

La concordia delle forze politiche nel giungere, per quanto possibile rapidamente, ad una riformulazione del reato d'abuso d'ufficio ha evitato asprezze o momenti di grave crisi nel dibattito al Senato. Già in partenza il relatore, Guido Calvi, concorda con chi auspica "una rimeditazione" del 323" che, dice "ha conosciuto in tempi recenti un'applicazione alquanto ampia, sollevando in più di un caso il sospetto della violazione dei principi di tassatività e legalità" ed ha portato "la magistratura inquirente ad una sovraesposizione che non può durare a lungo". E propone di assumere come testo-base il disegno di legge Senese perché "offre la strutturazione più organica e le soluzioni più soddisfacenti", prende "correttamente spunto dallo sforzo della Corte di cassazione di correggere alcune storture applicati« ve,, , e perché 1 articolo unico di quel provvedimento ridefinisce la condotta punibile indicando comportamenti ,

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oggettivamente apprezzabili (superando così ogni riferimento generico all'abuso) e, al contempo, trasformando il reato in delitto d evento La successiva costituzione di un comitato ristretto registra un "ampio consenso su una nuova formulazione del reato di abuso che, riferisce il relatore, "esordisce con una clausola di salvaguardia (salvo che il fatto non costituisca un pii grave reato ... ) che mira ad evitare il concorso formale di reati; mentre il nucleo centrale del costruendo reato s'impernia sulla patrimonialità del vantaggio". Dopo qualche esitazione, si giunge infine alla sede deliberante in Commissione con l'apertura della discussione generale. Poche le voci critiche, come ad esempio quella della senatrice Ersiha Salvato che avanza riserve di "illegittimità costituzionale e di imperfezioni tecnico-politiche" e che ritiene doveroso "riflettere su vari aspetti delicati, come ad esempio sulle ragioni che hanno reso necessario l'intervento del legislatore su una disposizione redatta pochi anni fa".

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Le votazioni sugli emendamenti non modificano sostanzialmente il testo dell'articolo unico proposto dal comitato ristretto che viene definitivamente approvato l'8 ottobre e, quindi, inviato alla Camera. IL TESTO APPROVATO

Nella formulazione approvata in Senato, l'articolo 323 del codice penale viene così modificato: "Salvo che il fatto non costituisca un pi1 grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nell'esercizio dei suoi poteri,, violando norme sulla competenza o altre norme di legge o rego lamenti ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad, altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".


I delitti contro la Pubblica Amministrazione Dalla relazione della Commissione di studio presso il ministero di Grazia e Giustizia di Giuseppe Morbide/li *

Il principale, più frequente e più contrastato punto di contatto tra amministrazione e giudice penale è rappresentato dalle ipotesi qualificabili come abuso d'ufficio. Si tratta infatti, quasi sempre, di situazioni di frontiera tra illecito amministrativo e illecito penale, ed è ben difficile distinguere dove deve arrivare il sindacato del giudice penale e dove invece, vi sono illegittimità, controllabili e/o sanzionabili all'interno dell'ordinamento amministrativo. In proposito si deve ricordare che l'abuso d'ufficio, nel codice Rocco denominato "abuso d'ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge", aveva una funzione residuale in quanto comprendeva soltanto i casi nei quali l'abuso di ufficio non fosse già presente quale elemento in altri tipi di reato. Infatti, si affiancavano all'abuso (e concorrevano perciò a precisarne i criteri), la malversazione a danno di privati, l'interesse privato in atti di ufficio e l'omissione di atti di ufficio.

* Ex presidente della Commissione di studio sull'abuso d'ufficio costituita presso il ministero di Grazia e Giustizia.

È vero che la stessa nozione di "abuso" è di per sé molto generica, ma di fatto tutte queste altre incriminazioni ne delimitavano l'effettiva portata. Tanto che nella sua formulazione secondo il codice Rocco, la fattispecie di abuso di ufficio non aveva lasciato sorgere particolari problemi nella sua applicazione. Con la 1. 26 aprile 1990, n. 86 che ha ridefinito l'abuso di ufficio, la situazione è radicalmente cambiata. Infatti, il "nuovo" abuso di ufficio, oltre a ricomprendere la previgente figura residuale, di abuso di ufficio, ha assorbito la incriminazione dell'interesse privato (vecchio art. 324 c.p.) che, del resto, era una figura la quale aveva dato luogo a non pochi problemi di determinazione dei suoi esatti confini. In più, ha assorbito, almeno nelle intenzioni dei compilatori e secondo una parte degli interpreti, il peculato per distrazione e la vecchia malversazione per distrazione; e, in quanto, la clausola di sussidiarietà ("se il fatto non è preveduto da una particolare disposizione di legge"), è stata sostituita da una clausola di consunzione ("se il fatto non costituisce un più grave reato"), 103


ha assorbito persino buona parte delle omissioni di atti di ufficio. Così, la figura criminosa dell'abuso di ufficio si è dilatata in modo abnorme, diventando una figura delittuosa, del tutto indeterminata, in quanto caratterizzata da assenza di tassatività, cioè di criteri che delimitino in maniera netta il confine tra ciò che è penalmente lecito ciò che non lo è. In sostanza, si è creato un gigantesco quanto indefinito contenitore - l'abuso di ufficio - che raggruppa un numero indeterminato di condotte, da quelle lievi a talune anche molto gravi, nelle quali il pubblico funzionario effettua dolosamente una cattiva amministrazione. IL LAVORO DELLA COMMISSIONE DI STUDIO

La Commissione, ( ... ) ha provveduto alla disamina della giurisprudenza in tema di abuso di ufficio e ha provveduto anche ad una sua classificazione. È emerso incontestabilmente che, se la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha elaborato tutta una serie di criteri che concorrono a indirizzare la interpretazione di questa figura delittuosa così generica e a dettare, così, tutta una serie di principi che contribuiscono a determinare con maggiore chiarezza la fattispecie delittuosa de qua, tuttavia, stante l'attuale formulazione normativa, ciò può essere solo in esito ad una complessa attività di indagine. In altre parole, la fattispecie delit104

tuosa in questione, per come formulata, si presta con estrema facilità a dare ingresso ad indagini giudiziarie, anche se poi nella stragrande maggioranza dei casi, queste si concludono con decreti di archiviazione o con sentenze assolutorie. Statistiche fornite dall'Anci ci dicono che solo nel 5% dei casi le indagini per abuso di ufficio conducono a pronunce di condanna. In altre parole, sul versante delle indagini l'art. 323 c.p. dà al PM l'occasione per indagare ogni aspetto dell'attività amministrativa, anche perché è spesso considerato la finestrella attraverso cui (eventua!mente) scoprire altri e più gravi reati: al punto che è stato definito "reato civetta". Si è così affermato nella prassi (e talvolta anche teorizzato) che tale reato costituisce la strada (indiretta) per sottoporre a "ispezione" la PA. Tutto ciò ha avuto il risultato di allontanare delle cariche elettive le persone capaci e oneste, che non hanno certamente alcuna intenzione di imbattersi con il codice penale; e di incentivare i dipendenti pubblici verso la fuga dall'assunzione di qualsiasi responsabilità. Si consideri poi che la vicenda definita "mani pulite" ha dato ad ogni possibile intervento la sensazione che di fronte alle vessazioni - vere o presunte - che ritiene di subire dal pubblico funzionario, ha comunque a disposizione una procedura di tutela che non è del giudice amministrativo, ma del giudice penale. Pertanto, molto di frequente, chi ritiene di essere trattato dal fun-


zionario senza la dovuta imparzialità sporge denuncia per abuso di ufficio. Il principio della obbligatorietà dell'azione penale fa si che il pubblico ministero svolga indagini preliminari e che, in relazione a queste indagini, venga inviata al funzionario (o all'amministratore) una informazione di garanzia con la quale, se il funzionario è innocente, il danno è fatto. La conseguenza è che gli amministratori corretti (quelli disonesti sono più preparati nel valutare i rischi e, comunque, hanno il contrapasso di un interesse) operano nel terrore di essere incriminati: preferiscono non fare nulla, piuttosto che adottare atti che hanno in sé sospetti di illegittimità (e stante le difficoltà interpretative della legislazione, ciò è frequentissimo) nel timore che le illegittimità si possano coinvolgere in una responsabilità penale. Il che determina una paralisi nell'amministrazione a danno ai cittadini, senza contare che spesso analoghi danni vengono arrecati alle istituzioni giudiziarie, essendo frequenti procedimenti ex art. 323 c.p. aperti nei confronti di magistrati. COME CONFIGURARE LABUSO

La Commissione, dopo lunga discussione, è pervenuta alla conclusione che non è praticabile la strada della tipizzazione di tutte le condotte sussumibili entro l'attuale figura delittuosa ex art. 323 c.p., anche ridimensionata. Ciò in quanto la legislazione am-

ministrativa conosce migliaia e migliaia di procedimenti e sub-procedimenti, cui si aggiunge poi la frastagliata e variegata attività degli incaricati di pubblico servizio, sicché è praticamente impossibile estrapolare specifiche e circoscritte condotte tipiche. In altri termini, sono sterminati gli atti e i comportamenti capaci di ledere i valori di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa. Da un esame dei codici penali dei Paesi europei, anche di quelli che sono stati approvati recentemente, (come il codice penale francese del 1992 e il codice penale spagnolo del 1995), emerge la presenza di disposizioni a carattere residuale, chiamate "precaricacion (Spagna) o abus d autorité (Francia) o "abuso de poder" (Portogallo). All'interno di questa categoria, si possono fare (e si fanno) distinzioni, così in Francia si distingue tra gli abusi che determinano lesioni a libertà individuali, dalle discriminazioni all'interesse privato. Ma restano sempre fattispecie ad ampio spettro, sicché una tipizzazione delle condotte che, con dolo, impingono sul valore dell'imparzialità e della buona amministrazione, non ha riscontro neppure in altri ordinamenti. Del resto, se si va a vedere la giurisprudenza della Cassazione, le fattispecie sono quanto mai variegate, come è variegato l'agire amministrativo. Si è reso pertanto necessario, per raggiungere le finalità previste dal decreto 105


istitutivo della Commissione, operare su più fronti, e dunque non soltanto agendo sugli elementi della condotta o del profilo soggettivo. Più precisamente, la Commissione ha proceduto secondo le seguenti direttrici: Al posto dell'attuale abuso di ufficio, sono previsti tre distinti reati: prevaricazione, favoritismo affaristico, sfruttamento privato dell'ufficio; in tre distinti articoli di legge. Ciò consente di indicare meglio, per ciascuna di queste tipologie difatti, l'effettivo contenuto dell'illecito. E già il nomen iuris di ciascuno dei reati è estremamente indicativo in proposito. In più, la previsione in distinti articoli di legge renderà più precisa e sicura la contestazione degli illeciti. Nel corpo delle norme è stata abbandonata, perché troppo vaga, la dizione "abuso di ufficio", che è stata sostituita con quella dell'esercitare "in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni e al servizio". Le nozioni di arbitrarietà e strumentalità, in endiadi, vogliono cioè significare la condotta esorbitante rispetto ai principi del corretto agire amministrativo. I tre reati sono stati configurati come reati di evento, in modo da dare il dovuto rilievo all'aspetto obiettivo del fatto. Circa l'elemento soggettivo, per la prevaricazione e lo sfruttamento privato dell'ufficio è richiesto il dolo in106

tenzionale (ciò che esclude la punibilità a titolo di dolo indiretto ed eventuale). Per il favoritismo affaristico, un effetto analogo è ottenuto attraverso l'espresso requisito che il fatto sia diretto a favorire taluno. Si vuole così tracciare una netta linea di confine tra i fatti capaci di integrare i tre reati e, al tempo stesso, evitare l'incriminazione di quei fatti che, commessi per altro fine, hanno come risultato accessorio il prodursi di un danno o di un vantaggio ingiusto.

Restringere l'ambito dipunibilità Un ulteriore delimitazione dell'elemento soggettivo è stata introdotta attraverso il requisito che l'agente sappia che il danno o il vantaggio preso di mira è ingiusto. Ci si è ispirati all'analoga limitazione posta dall'art. 368 c.p. al dolo del delitto di calunnia (dove, invero, la tecnica legislativa in questione appare idonea ad evitare che, con troppa facilità, si proceda per questo reato) nonché al rafforzamento del dolo contenuto nell'articolo 404 del codice penale spagnolo del novembre 1995 (disposizione, questa, riguardante proprio l'abuso di ufficio). Si tratta di un dolo generico, rafforzato dalla certezza di una determinata situazione di fatto, e non di un dolo specifico. Sembra ragionevole aspettarsi che il rafforzamento del dolo conduca a ridurre entro limiti accettabili non soltanto le condanne, ma anche le indagini preliminari.


6) Circa la clausola di riserva, a proposito dell'articolo 323 c.p., si è ritornati alla clausola cosidetta di sussidiarietà ("se il fatto non è preveduto come reato da una particolare disposizione di legge") che era contenuta nel testo originario del codice Rocco. Tale clausola era più rispondente agli scopi della incriminazione di quanto non lo sia la clausola di consunzione ( se il fatto non costituisce un più grave reato"), introdotto con la riforma del 1990. Può essere opportuno quindi riprodurre la clausola di sussidiarietà (adesso meglio formulata), in modo da restituire all'articolo 323 C.P. la funzione di chiusura del quadro delle incriminazioni. 7)11 reato di cui all'articolo 323 c.p. è denominato "prevaricazione" allo scopo di rendere evidente il netto distacco del delitto di abuso di ufficio oggi previsto. Sua caratteristica sarà la non venalità (come, ad es., nell'insegnamento di Carrara) nella forma dell'essere diretto a danneggiare altri (come nell'articolo 175 del codice Zanardelli, che richiedeva un atto arbitrario commesso "contro gli altrui diritti"). Il reato difa voritismo 8) L'abuso a vantaggio di altri è comunemente indicato come "favoritismo"; è per questo motivo che si è prescelta tale dizione nella rubrica dell'articolo 323 bis. Poiché sembra non necessaria la sanzione penale per prevenire e reprimere il piccolo favoritismo, si è li-

mitata la previsione del reato al solo favoritismo patrimoniale (denominato addirittura favoritismo affaristico, per mettere meglio in luce la carica di disvalore che in esso è contenuta). La struttura di questo reato è identica, salvo che per la direzione del vantaggio (qui verso altri) a quella del reato previsto dall'articolo 323 ter. Tuttavia, in confronto al reato commesso al fine di danneggiare altri, nella specie si ritiene opportuno prevedere una pena più grave. Ciò per ragioni criminologiche che avvertono della maggior pericolosità e diffusione dei fatti patrimoniali commessi a vantaggio proprio o altrui, rispetto ai fatti commessi solo a danno di altri (si confrontino, ad esempio le incriminazioni relative al furto e al danneggiamento). 9) L'articolo 323 ter prevede lo "sfruttamento privato dell'ufficio". Si è prescelta questa denominazione, per rendere subito chiaro che, a differenza di quanto taluno pensava (erroneamente), per il vecchio delitto di "interesse privato in atti di ufficio" non basterà a integrare questo delitto il semplice non astenersi quando vi sia coincidenza dell'interesse privato del pubblico ufficiale con l'interesse pubblico. Questa incriminazione è opportuno che sia collocata in un articolo diverso dall'articolo 323, per sottolineare la sua diversità rispetto al fatto commesso per danneggiare. Inoltre, è opportuno distinguere tra quanto commesso per avvantaggiare se stesso e quanto 107


commesso per avvantaggiare altri. La prima ipotesi deve essere considerata più grave - e perciò deve essere punita più severamente almeno nel minimo - in quanto al suo contenuto di disvalore si accosta a quello della corruzione propria. Tuttavia, nell'incriminare il fatto commesso per avvantaggiare se stessi, come del resto anche a proposito del fatto commesso per avvantaggiare altri, può essere opportuno limitarsi a considerare la condotta con contenuto patrimoniale. Per gli altri fatti, cioè per quelli commessi a vantaggio non patrimoniale, si ritene sufficiente una sanzione disciplinare. In questo modo, si ottiene una definizione dell'ambito del penalmente rilevante, con la conseguenza di evitare lo svolgimento di processi penali per fatti che, pur scorretti dal punto di vista amministrativo, abbiano contenuto una modesta carica offensiva. Si aggiunga che, perlomeno nelle amministrazioni locali, hanno preso a funzionare con una certa efficacia i procedimenti disciplinari ed è questa, del resto, la strada più produttiva per prevenire e reprimere scorrettezze del genere sopra indicato. Non v'è condotta illecita ove l'attività, pur arbitraria, sia stata commessa ad esclusivo vantaggio dell'amministrazione, ciò risponde al principio di fondo per cui deve trattarsi di reati che danneggiano l'amministrazione. Circa il soggetto attivo, sembra opportuno mantenere la scelta operata 108

con la legge n. 86 del 1990, di rendere possibile la commissione del reato non solo al pubblico ufficiale, ma anche all'incaricato di pubblico servizio. Si può aggiungere che ciò corrisponde al parallelismo con la corruzione propria. Per quanto si tratti di un principio soventemente affermato dalla giurisprudenza, si è ritenuto stabilire espressamente che la presenza di vizi di legittimità nell'atto amministrativo non integra, di per sé, esercizio arbitrario e strumentale dei poteri.

Ivlantenere la divisione dei poteri Tale disposizione ha un carattere per così dire didascalico nel senso che intende chiarire che la sussistenza dell'elemento soggettivo non può essere ricostruita sulla mera illegittimità dell'atto amministrativo. Il giudice penale deve certo poter esplicare liberamente la sua funzione senza condizionamenti di sorta, ma solo ove si tratti di accertare se si sono verificati fatti che la legge configura come reati; altrimenti, le vicende dell'Amministrazione devono restare estranee a tale giudice, perché il suo intervento si tradurrebbe in una disarmonia del sistema e del reciproco ruolo delle istituzioni. Si sottolinea, peraltro, che la disposizione proposta non introduce affatto una pregiudiziale amministrativa, poiché la Commissione è ben consapevole che l'attuale ordinamento non consente la previsione di una siffatta condizione di proce-


dibilità o di proseguibilità dell'azione penale, come del resto è dimostrato dalle note vicende della pregiudiziale tributaria sulla quale si è pronunciata la Corte costituzionale. Ma, l'innegabile autonomia delle giurisdizioni, che deriva dai principi costituzionali, non può collocarsi in contraddizione di separatezza con l'unitarietà del sistema ordinamentale per ragioni democratiche ed istituzionali. 13) Sempre nell'intento di definire con la maggiore chiarezza possibile ciò che costituisce la condotta penalmente illecita si è ritenuto opportuno far riferimento a definizioni che contribuiscono a descrivere anche in negativo. Quando non c'è illecito Si è così stabilito che non è arbitrario e strumentale il comportamento conforme all'accertamento dei fatti compiuto dal responsabile del procedimento amministrativo ò conforme alle prescrizioni delle Carte dei servizi pubblici. Nel primo caso, infatti, non si può estendere la responsabilità a soggetti titolari del potere deliberativo laddove abbiano seguito gli accertamenti compiuti dal responsabile del procedimento amministrativo: del resto, ciò deriva già dai principi generali in tema di elemento soggettivo, ma si è ritenuto opportuno chiarirlo in relazione di contro alle specifiche responsabilità in tema di accertamento dei fatti che l'art. 6 1. 24111990 assegna al responsabile del procedimento e, quindi, alle

distinzioni dei ruoli ravvisabili tra i vari soggetti e organismi che partecipano alla formazione del provvedimento amministrativo. Quanto al secondo profilo, riferibile alle attività di gestione servizi pubblici, si ritiene che ove ci si attenga alle Carte servizi pubblici non si possa, per definizione, parlare di condotta illecita. L'adozione di Carte dei servizi è un preciso obbligo degli enti erogatori (ai sensi del d.l. 163 del 1995 convertito in legge n. 273 del 1995). Per legge, le Carte devono essere conformi ai principi dettati con direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri ed agli schemi generali di riferimento emanati con decreti del medesimo. Questi ultimi contengono prescrizioni ed indicano procedure di erogazione del servizio preordinate a garantire eguaglianza, imparzialità, continuità e partecipazione degli utenti, ad esempio attraverso la fissazione di standard di qualità e quantità delle prestazioni, cui i gestori si devono attenere. Ove tali prescrizioni e procedure vengano rispettate non vi può essere per definizione un comportamento arbitrario e strumentale. 14) La Commissione, se pure con le perplessità e/o la contrarietà di taluni comportamenti, ha ritenuto di introdurre una clausola di non punibilità in riferimento a quelle ipotesi in cui è stato causato un danno patrimoniale pubblico o privato di ammontare inferiore a dieci milioni, sempre che tale danno sia stato riparato per intero. 109


Trattasi, in sostanza, di una previsione che ha molte analogie con la figura del ravvedimento operoso previsto dalla legislazione tributaria. Da parte di taluni commissari è stato eccepito che una tale previsione, non avendo carattere generale, pone dei problemi di ragionevolezza in riferimento a tutte le altre fattispecie delittuose nelle quali il ripristino delle situazioni precedenti o la tenue entità del disvalore costituisce soltanto una attenuante. Come pure si è espressa la preoccupazione che tale causa di non punibilità incentivi a compiere illeciti essendovi comunque la scappatola della riparazione patrimoniale. La Commissione, tuttavia, pur rendendosi conto della serietà di tali rilievi, ha ritenuto di formulare ugualmente in proposito una ipotesi di disposizione, soprattutto perché essa si completa con una integrazione dell'articolo 129 delle norme di attuazione del c.p.p., in virti della quale il "ravvedimento operoso non e senza conseguenza sanzionatorie. È prevista, infatti, la trasmissione - alle Procure regionali della Corte dei conti e dell'amministrazione o organismo di competenza per l'esercizio delle azioni di responsabilità in materia di contabilità pubblica o disciplinare - da parte del Pubblico Ministero anche della richiesta di archiviazione, in riferimento a fatti per i quali sia comunque configurabile un esercizio arbitrario e strumentale dei poteri: ipotesi questa che, di per sé solo, non 110

costituisce reato per mancanza di taluno degli altri requisiti, ma che per altro può costituire un illecito disciplinare o un'ipotesi della Corte dei conti. Al fine di garantire la massima trasparenza nell'azione amministrativa si è prevista l'istituzione di un apposito elenco tenuto dai Prefetti ove siano documentate tutte le comunicazioni operate dal Pubblico Ministero secondo quanto sopra esposto. 15) Altro punto in ordine al quale nella Commissione sono emerse tesi divergenti, è quello riguardante l'introduzione di una causa di non punibilità laddove l'atto amministrativo produttivo di danno o di vantaggio venga rimosso con efficacia ex tunc.

Casi di esclusione della punibilità Pii precisamente, si tratterebbe di introdurre una disposizione secondo la quale: "nei casi previsti dagli articoli 323 e 323 ter, la punibilità è esclusa se l'atto amministrativo produttivo di danno o di vantaggio viene annullato di ufficio o dal superiore gerarchico o da altra autorità a ciò competente o a seguito di ricorso straordinario o giurisdizionale. La punibilità è altresì esclusa se, trattandosi di atto di incaricato di pubblico servizio, esso viene comunque annullato". Si tratta di un istituto particolarmente propugnato dal precedente ministro Prof. Vincenzo Caianiello che, in più sedi, ha avuto occasione di affermare che "se il danno prodotto dall'azione illegittima


sia rimovibile con un ravvedimento attuoso, come ad esempio l'annullamento di ufficio dell'atto amministrativo oppure mediante ricorso al giudice amministrativo, dovrebbe in radice escludersi ogni possibilità di intervento del giudice penald'. Tale previsione, si tiene a precisare, non è però inserita

nella bozza di articolato. Anche perchÊ, e ciò vale anche in ordine al profilo precedentemente esaminato (art. n. 14) ed afferente il ravvedimento operoso, trattandosi di problematiche che attengono a scelte generali di politica criminale, sulla quale sono necessari specifici indirizzi.

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Abuso d'ufficio e discrezionalità: la difficile armonia di Silvestro Russo *

Due frati, entrambi fumatori, si trovavano in un convento per gli esercizi spirituali e passeggiavano per il chiostro in meditazione: uno fumava, l'altro no. Questi chiese al primo perché fumasse ed egli gli rispose che era stato autorizzato la mattina dal padre confessore. Il secondo frate gli obiettò di aver fatto un'analoga richiesta quella stessa mattina al padre confessore, ottenendo però una risposta negativa. Allora il primo frate fece all'altro: - Scusa, ma tu che domanda gli hai rivolto? - e l'altro: - Gli ho chiesto: "Padre, quando prego, posso fumare?" , ma mi ha detto: "No, perché la preghiera non tollera distrazioni". E tu, invece, che cosa hai fatto per ottenere di fumare? - Il primo frate rispose allora: - Gli ho chiesto: "Padre, quando fumo, posso pregare?" e lui, subito: "Sì, certo, perché si può pregare in ogni momento, qualunque cosa si faccia" -. E così entrambi ripresero a meditare, uno fumando e l'altro no. Quest'aneddoto è la metafora della * Consigliere del TAR Campania. 112

discrezionalità in un procedimento amministrativo (nell'esempio, di tipo autorizzatorio) e, soprattutto, del corretto uso del potere in relazione alla diversa qualità degli interessi introdotti. Il padre confessore non è che la PA procedente; il "fumare" è il bene della vita cui ambiscono i frati e che è nella disponibilità e/o nel controllo della PA stessa; i due frati sono due soggetti di diritto che coeteris pari bus introducono contemporaneamente due domande in apparenza simili, ma con interessi (o bisogni) assai diversi; il "pregare" è l'interesse pubblico astratto, al contempo causa e obiettivo del potere da esercitare, che la PA deve realizzare (al massimo), ma che non è in grado di rendere concreto fintantoché essa non verifica, attraverso l'istruttoria, la consistenza e la liceità degli interessi privati coinvolti. Dall'aneddoto si può dedurre che, a parità di condizioni di partenza, i due soggetti considerati introducono nel procedimento interessi non omogenei e non allo stesso modo comparabili con l'interesse pubblico. Uno dei soggetti (nella specie, il pri-


mo frate) subordina il proprio interesse (il "fumare") a quello pubblico (il ccpregare): egli intende, comunque, adeguarsi all'interesse pubblico. Il soddisfacimento di quest'ultimo determina anzi, a sua volta, un'utilità significativa per la sfera di costui. Il soggetto presenta, dunque, alla PA un programma di attuazione dell'interesse pubblico tale che il godimento del bene della vita richiesto costituisce, al contempo, il modo migliore per realizzare detto interesse. La soddisfazione privata passa necessariamente attraverso quella del pubblico interesse, dando così luogo, per dirla in gergo, ad una fattispecie plurisatisfattiva. L'altro soggetto (nella specie, il secondo frate) invece pretende di strumentalizzare l'interesse pubblico per il soddisfacimento del proprio bisogno. Ciò non solo non è coerente con la causa per cui il potere è attribuito alla PA, ma soprattutto rende il pubblico interesse finalizzato ad un uso particolare del bene della vita, che non è sinonimo d'imparzialità, efficienza e legalità. Per restare nell'esempio, il "voler fumare" (interesse secondario, di natura privata) distrae dal pregare (interesse pubblico, dalla norma ritenuto preminente), verso cui va concentrato ogni sforzo e, quindi, il "fumare" (bene della vita nel potere della PA) non può essere autorizzato, non essendo costui idoneo a realiz-

zare, con il proprio apporto (' 6fumando"), la "preghiera" (massimizzazione dell'interesse pubblico). Aldilà del gioco - per certi aspetti certamente nominalistico - dell'aneddoto, esso serve a chiarire che la differenza di posizioni sta non tanto nella prospettazione dell'interesse operata da ciascun soggetto, quanto nel tipo di gerarchie possibili tra l'interesse pubblico, come interpretato e attuato dalla PA e gli interessi introdotti. Una volta accertato l'interesse pubblico nella sua consistenza e con le sue implicazioni, i risultati sono per forza diversi e ciò deriva, a parità di struttura procedimentale e di oggetto del provvedere, dalla modificazione anche di una sola variabile. Il primo soggetto realizza l'interesse pubblico, il secondo lo strumentalizza: dunque, la scelta discrezionale, che è libera nell'apprezzamento e nel mezzo - ma è legata ad un fine che non le appartiene -, non può che rivolgersi al primo. Iuso DELLA DISCREZIONALITÀ

Lasciamo che i due frati s'allontanino, uno fumando e l'altro no, e cerchiamo la morale della metafora. L'uso del potere amministrativo ha determinato due scelte discrezionali di per sé contrastanti, ma funzionalmente corrette rispetto al fine istituzionale loro sotteso. Diciamo allora che, pur dinnanzi a domande iden113


tiche di beni della vita sottoposte a valutazioni di autorità amministrative, quel che conta è la differenza di risultati. E la differenza consiste nel fatto che la PA compara la qualità dei bisogni espressi e sceglie soio ciò che raggiunge al meglio detto scopo (e, aggiungerei io, finché mantiene tale grado d'idoneità). La scelta viene effettuata rebus sic stantibus, in base cioè agli obiettivi, ai mezzi assegnati, alla domanda sociale ed alla capacità della PA medesima di rispondervi in quel dato contesto sociale e temporale, aldilà del livello di soddisfazione personale che ciascuno dei soggetti possa materialmente ritrarre. Non dico che l'ordinamento è indifferente alla capacità dell'atto amministrativo di soddisfare interessi concreti non pubblici (ciò tradirebbe la regola costituzionale di buon andamento); reputo, piuttosto, che la soddisfazione deve coniugare la massima efficacia possibile nella rigorosa osservanza delle norme che regolano il potere e delineano le reciproche posizioni soggettive. Dunque, è corretto che la PA, qualora abbia svolto un adeguato apprezzamento dei fatti in istruttoria, scelga quello e solo quell'assetto di interessi in varia guisa gerarchizzati che realizzi lo scopo predetto. E tale correttezza esiste anche se in apparenza la scelta compiuta assomiglia ad una disparità di trattamento, che in real114

tà non esiste, se si presuppongono chiari e univoci l'interesse pubblico e gli interessi secondari. Ma, a parte ogni considerazione sulla pluralità degli interessi pubblici e sulla loro segmentazione tra più Ligure soggettive deputate a curarli, ciò si avvera solo se l'interesse pubblico è già chiarito nella sua consistenza. La posizione degli obbiettivi, l'indicazione della priorità di alcuni di loro rispetto agli altri, la realizzabilità dei medesimi, l'estrapolazione dei fini ultimi dell'agire amministrativo dai dettati costituzionale e legislativo costituiscono, non soltanto il punto d'avvio della discrezionalità, ma soprattutto una singolarità non del tutto spiegabile con gli ordinari criteri di razionalità che presiedono alle statuizioni della PA. Questa è una scelta primigenia che la PA trae dall'ordinamento ed in virtù della quale un interesse pubblico meramente amorfo diviene lo "scopo", l'obbiettivo di tutto l'agire amministrativo in un dato settore o in un certo tempo. (Per tornare all'esempio dei frati, il "pregare" è un interesse mero; diventa un obbiettivo, o interesse primario allorquando chi lo governa afferma: "pregare' non tollera distrazioni, tra cui il fumo"). Ebbene, non esiste un a priori della discrezionalità, in quanto non si può prescindere dalle variabili organizzative della PA, né da quelle che, di


volta in volta, si manifestano in ogni singolo procedimento. La PA assume come misura della propria azione l'interesse pubblico che essa, nei limiti posti dalla norma, individua e modella sulla concreta situazione di fatto. In tal caso, si può ipotizzare e prevedere solo uno schema di assetto di interessi tra i tanti possibili, ma non è consentito a nessun interprete sostituire ex post l'assetto concreto determinato dalle circostanze procedimentali con la virtualità d'un assetto ipotetico e aprioristico. Fuor di metafora e fuori di ogni affermazione astratta: nessuno dubita che esista un limite al giudice penale in ordine all'accertamento dell'uso concreto della discrezionalità e del merito amministrativi e, infatti, il reato di abuso d'ufficio ex art. 323 c.p. è (o dovrebbe essere) la terapia alla patologia della relazione tra potere ed interesse. Anzi, dottrina e giurisprudenza amministrative concordano, allo stato del diritto positivo, che, nel sindacare l'azione della PA non si può debordare dal controllo sulla legittimità sostanziale dell'atto amministrativo (per mezzo dell'eccesso di potere) alla verifica del merito amministrativo - stanti i limiti normativi al potere istruttorio del giudice amministrativo -, laddove una norma espressa (propria della giurisdizione amministrativa) non autorizzi a farlo. Viceversa, il giudice penale tende ad inferire e ben

può dedurre dall'analisi di un'attività finalizzata a procurare all'autore o ad altri un «ingiusto vantaggio che essa sia perlomeno inficiata da sviamento di potere. E il giudice penale ha la cognizione integrale dei fatti, attraverso l'esercizio del proprio potere istruttorio, incomparabile con altri settori dell'ordinamento. Egli, a differenza del giudice amministrativo nei casi di cognizione estesa al merito, deve non tanto verificare la legittimità di atti, procedure o comportamenti della PA (come soggetto titolare della funzione e, quindi, senza necessario riferimento all'agente), ma è tenuto ad accertare i fatti e, in special modo, quelli comunque rilevanti in relazione alla decisione da assumere. Non mi sfugge che l'accertamento del giudice penale si può estendere fino al "cattivo" uso del potere, cioè fino alla disamina della congruità e dell'interesse pubblico e della scelta. Ma in che cosa si sostanzia siffatto "cattivo" uso? C'è un ostacolo logico, a mio avviso non superabile senza forzare l'ordinamento positivo: diversamente dal comune sentire, l'interesse pubblico è un dato forse sfuggente, certo flessibile, onde va ricostruito volta per volta e soltanto tenendo conto di tutte tali variabili. La norma determina il fine dell'attività amministrativa, ma lascia spazi per la scelta delle soluzioni adeguate alla sua realizzazione, per cui spetta 115


all'agente ricercare regole e contenuti dei rapporti, tali da soddisfare nei caso concreto l'interesse attribuito alla sua cura. Tale ricerca, però, trae spunto da obbiettivi che l'agente, a seconda dei poteri posseduti, fissa ex se o riceve da altri: nell'un caso, come nell'altro, la scelta di tali obbiettivi deriva da e deve tener conto di altre e numerose variabili (politiche, sociali, economiche, culturali, ecc.), ma è di per sé razionalmente libera. La questione, com'è noto, non attiene all'esistenza o meno di regole logiche e di esperienza che coadiuvano la scelta discrezionale, né alla possibilità di sostituire dette regole con un giudizio individuale anch'esso " ... oggettivamente verificabile nei suo fondamento di probabilità razionale tratto dall'esperienza..."; né tanto meno al collegamento tra la discrezionalità e pubblica funzione. Ciò che qui importa è la "politicità" immanente alla scelta, nella duplice accezione di gestione ed organizzazione dei bisogni collettivi e di riduzione ad unità di questi ultimi. Si badi: scelta libera non vuoi dire sceita irresponsabile - ché comunque essa implica una vaiutazione complessiva di costi e benefici dell'azione da intraprendere (arg. ex art. 3, c. 4 della 1. 14 gennaio 1994, n. 20) —; significa piuttosto che non v'è un criterio sempre predeterminabile razionalmente, grazie a cui ripercorrere il processo logico di colui che ha 116

scelto; significa, quindi, che essa è meramente potestativa. Pertanto, la sua bontà andrà valutata in termini di efficacia (secondo lo schema che s'è prefisso l'agente) del risultato. LA LIBERTÀ DEGLI INDIRIZZI

Non sfuggo all'obiezione per cui, secondo questo potrebbero riernergere i cosidetti atti di pura amministrazione", un tempo sinonimo di atti amministrativi liberi e non sindacabili da nessun giudice e che da tempo dottrina e giurisprudenza hanno assoggettato a controllo per il tramite dell'eccesso di potere. La PA non è ex se sovrana, ma ciascun ente pubblico, a seconda della propria collocazione e dei poteri che l'ordinamento gli assegna, svolge funzioni d'indirizzo, che si manifestano attraverso direttive circa le priorità da raggiungere. Queste ultime sono gli strumenti mediante cui gli enti interpretano i bisogni collettivi e mediano tra questi ultimi e i dati giuridici generali. E qui si fronteggiano due principi: a) l'esercizio del potere si deve effettuare razionalmente, in modo, cioè, pertinente alla realizzazione del fine cui esso è collegato; b) la concreta scelta discrezionale la quale, concerna o no gli obbiettivi o i mezzi per raggiungerli nel miglior modo possibile, rimane comunque un'operazione (di sintesi di valori) esclusivamente concentrata nell'agente. A co-


stui spetta non soltanto realizzare l'operazione materiale, ma anche rinvenire in sé, in qualità di soggetto titolare di una frazione più o meno qualificata del potere di governo, i valori della scelta. Una volta compiuta, questa sarà puro merito amministrativo e, come tale, "autocon,, sistente Il puro merito sarà pure sindacabile dal giudice amministrativo (nei casi espressamente previsti) e dal giudice penale (nei giudizi sulla responsabilità personale dell'agente), non lo nego. Mi sfugge tuttavia l'oggettivo parametro razionale (e, di conseguenza, quello di legalità) in virtù del quale lo si possa concretamente sindacare secondo metodi non altrettanto liberi per non dire arbitrari. Delle due, l'una. O si esclude l'insindacabilità effettiva degli atti di "puro merito" (e quindi si supera l'insita arbitrarietà del parametro prescelto e si evita il pericolo che esso si riveli altrettanto "irrazionale" quanto gli atti stessi), ovvero sia gli atti sia i criteri di valutazione della loro validità, in base a cui se ne censurano la legittimità e/o la liceità, devono rispondere a concetti rigorosamente razionali e oggettivamente verificabili.

concreto contesto di riferimento, ogni valutazione su tali dati è sempre sul punto di essere arbitaria. È illusorio che il giudice (maxime, il giudice penale) reputi di rinvenire un modello razionale a priori valido sempre e comunque per ogni atto d'indirizzo e per ogni procedimento. Invece di effettuàre un giudizio distaccato, egli sostituirà la propria scala di valori a quella dell'agente che ha posto gli obbiettivi, con ciò replicando, più o meno volutamente, la predetta singolarità dell' atto amministrativo. Certo, man mano che si rarefanno i poteri di governo e aumentano i poteri operativo-esecutivi degli indirizzi (cfr., per esempio, la sequenza ministro dirigente generale - dirigente - personale dell'unità operativa), diminuiscono di pari passo le competenze del funzionario d'agire a suo giudizio per il soddisfacimento dell'interesse pubblico. Tuttavia, i soggetti titolari del potere di governo, da un lato e l'opinabilità dell'optimum amministrativo, dall'altro, implicano che, in cima al complesso delle attività amministrative, vengono effettuate decisioni, anche minuscole ma pur sempre strategiche.

L'ILLUSORIO MODELLO RAZIONALE A PRIORI

Se si presuppone che l'interesse pubblico non è apprezzabile se non nel

Non nego che chi vuole il controllo anche sul dato intellettivo, in realtà vuole il governo della cosa pubblica. Se ciò accadesse, s'offuscherebbe qua117


lunque margine di libertà che costituisce l'essenza della discrezionalità e, in ultima analisi, della stessa flessibilità di risposta al mutare dei bisogni sociali. E tale risposta, nel contemporaneo stato di diritto, si legittima solo con la rappresentanza politica e non con il (solo) controllo. Viceversa, l'esercizio dell'azione penale legato alla mera constazione dell'illegittimità piii o meno palese dell'atto amministrativo non è solo una forzatura del dato normativo e dei principi generali, ma è anche una vicenda che, al di là dei grandi eventi criminosi della corruttele amministrativa (i quali, però, sono regolati da altre fattispecie incrimatrici), enfatizza l'odierno malessere esistente tra i vari attori istituzionali (giudice penale e PA). E ciò così non dovrebbe essere, atteso che uno dei metodi più efficaci per la tutela della legalità amministrativa consiste nella funzione didascalica per la PA della giurisprudenza. Invece, se si sposta la valutazione dell'interesse perseguito dal momento del fatto (rectius, dell'attuazione della priorità prescelta) a quello dell'elemento psicologico, viene meno ogni valore oggettivo del concetto di abuso ex art. 323 c.p. Al contrario, occorre rimanere ben saldi alla descrizione che esso contiene, ossia la strumentalizzazione dell'ufficio a scopi personali dell'agente, del tutto al di fuori della sfera delle attribu118

zioni riguardanti la scelta delle priorità. Altrimenti, si degrada il concetto di deviazione dai fini istituzionali a dato puramente formale: lo s'identifica con l'atto illegittimo, con ciò non soio confondendo quest'ultimo con un fatto illecito, ma soprattutto pervenendo a un formalismo pericoloso, tale da far rilevare penalmente ogni erronea interpretazione di legge promanante da un soggetto pubblico. Che ciò sia una sciocchezza ben si può percepire, sol che si pensi che, in tal modo, ogni sentenza annullata o riformata per errore di diritto, ogni domanda del PM respinta per infondatezza giuridica, ogni atto giudiuziario (di cognizione o d'esecuzione) inopportuno sarebbero tutti tout court abusivi. COME SI ESPRIME LA DISCREZIONALITÀ

La PA non si limita alla scelta fra più soluzioni possibili, per raggiungere il fine predeterminato. In alcuni casi, ritenuto che pluralità e frammentazione dei fini costringono ad un selezione variabile a seconda di detti bisogni, la PA completa le norme attraverso apprezzamenti soggettivi di scelta delle priorità,cui deve adeguarsi l'attività procedimentale (i c.d. "fini immediati"). Anzi, la PA sceglie pure gli indirizzi essenziali, ossia i c.d. "fini mediati" e non soltanto i singoli scopi di ciascun procedimento, mediando (cfr., p. es., le conferenze di servizi e gli accordi di programma, gli atti di concerto, le conferenze permanenti tra i vari livelli di


governo, ecc.) tra più soggetti competitori, in vario modo portatori di bisogni sociali da apprezzare o di segmenti di pubbliche funzioni. Così facendo, si possono trovare quelli che, fra gli altri, costituiscono i veri criteri per esercitare un controllo (serio) sui risultati dell'azione amministrativa. Se la scelta non è razionalmente riproducibile, allora ciò che più conta è il soddisfacimento dei bisogni collettivi mercé atti opportuni ed efficaci. Infatti, rispettate le procedure preliminari, il risultato importa tanto quanto il, se non più de!, metodo per individuare l'interesse pubblico concreto ed attuale (momento intellettivo) e per gerarchizzare gli altri interessi coinvolti nel procedimento (decisione-scelta). Da ciò discende che non serve a nulla effettuare il controllo d'efficienza e d'efficacia dell'azione amministrativa solo sul dato di partenza, in quanto esso è o ritualistico, o poco significativo. È più importante effettuano in corso d'opera o sul risultato, affinché l'agente sia costretto all'imparzialità ed all'efficienza non solo (e non tanto) al momento dell'emanazione della singola scelta, ma soprattutto in sede di esecuzione e di riscontro dei risultati. La libertà della PA consiste non in una sua pretesa (o fraintesa?) insindacabilità, quanto nell'inconsistenza di un giudizio di responsabilità (dell'agente) in termini di pura condotta, quando quest'ultima si concentri nella posizione o nella chiarificazione delle priorità. Quando l'agente deve determinare, secondo la propria scala di valori, quali debbano essere rebus sic stanti bus le priorità indicate in modo impreciso dalla

norma, egli non fa che eseguirla, nella misura in cui essa scarica "a valle" la responsabilità di tale scelta. Allora, la statuizione è legittima se immune da vizi o da errori e purché coerente con il concetto impreciso posto dalla norma, ossia se realizza il risultato che questa ha inteso perseguire per risolvere il conflitto sociale. La soluzione legittima e corretta non è dunque una sola, ma è quella che consegue alla razionale valutazione di ciascun interesse ed alla loro comparazione, secondo la nota formula per cui la discrezionalità permette al titolare del potere di valutare gli interessi, ma gli vieta di prescindere da tale valutazione.

LA PA PARTE IMPARZIALE

Di regola, la PA non è sola, ma dialoga istituzionalmente con i vari centri d'interesse pubblici e privati, nel procedimento amministrativo, in cui le antitesi sono sintentizzate in contraddittorio tra tali centri. La PA è, a sua volta, centro di funzioni e di interessi, ma non può "massimizzare" il proprio a scapito degli altri coinvolti, ancor prima di comprenderne la consistenza e di valutare se esso sia veramente dominante. E per sfatare il luogo comune per cui l'interesse pubblico giganteggia comunque sugli altri, basti pensare che le norme attributive del potere discrezionale non indicano gli interessi secondari da tener presente, onde, senza il contraddittorio, la PA potrebbe provvedere senza neppur conoscere l'esistenza di detti interessi che, se conosciuti, avrebbero potuto influire sull'apprezzamento dell'interesse primario. 119


Ciò, però, non toglie che la PA procedente resti arbitra di decidere quando l'istruttoria sia matura per la decisione, se si tien conto che essa deve ricercare non già l'optimum, ossia la soluzione da ritenere più opportuna di ogni altra, bensì quella che alla stregua di apprezzamenti di normali capacità non si presenti inopportuna. Invero, la PA è tenuta a procedere alla puntuale rilevazione di tutti gli elementi di fatto, inerenti agli interessi coinvolti, ma, per ciò che attiene alle operazioni da compiere per conoscere tali elementi ed al momento in cui questa conoscenza si può dire sufficientemente raggiunta, non esistono regole precise. La PA procedente può non solo svolgere le indagini ritenute più acconce rispetto alla dialettica interesse pubblico/interessi secondari, ma anche valutarne autonomamentetare la sufficienza e la congruità, oltre a compiere accertamenti senza la necessità di uniformarsi ad alcuna prescrizione, fermo restando l'obbligo di disporre l'articolazione del procedimento stesso. L'unico limite dell'istruttoria consiste nel pericolo di non giungere a una conoscenza neppure approssimativa della realtà. La PA, nel compiere le sue valutazioni istruttorie, può attribuire maggiore o minor peso a un elemento piuttosto che ad un altro, o reputare pertinente una circostanza, oppure no e via discorrendu. L'art. i della I. 7 agosto 1990, n. 21 Ì stabiIise tuttavia i criteri fondamentali (econoinicità, efficacia e pubblicità) di svolgimento dell'azione amministrativa discrezionale. Tali dati impongono alla PA d'istruire e di procedere, nonché di pervenire non ad un risultato purchessia, ma solo a quello 120

che li attui concretamente, senza aggravare il percorso da fare (se non quando vi siano esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria e della procedura, straordinarie, non prevedibili dal legislatore e motivate). Una volta esaurita la fase valutativa, la statuizione da adottare apparirà una e una sola e, secondo criteri d'imparzialità, la PA non potrà volere che quella, essendo vincolato a una precedente valutazione. L'imparzialità dell'azione si manifesta non già nella mera e puntigliosa annotazione di tutti i fatti istruttori, per la quale la PA dovrebbe già attrezzarsi ex se, per il principio di buon andamento. Essa consiste piuttosto nella (necessaria e obbligatoria) capacità della PA di comprendere gli interessi secondari e, se del caso, di modificare gli obbiettivi (ossia, la consistenza stessa dell'interesse primario), quando essi si mostrino irrealistici. Anzi, l'imparzialità è obbligatoria per precetto costituzionale: per temperare il pubblico potere, affinché esso non sia o non diventi mero arbitrio, ma sia espressivo del valore o dell'interesse che la norma attributiva affida alle sue cure (p. es., in un pubblico concorso, la violazione della par condicio degli altri concorrenti a favore di uno implica la sussistenza del reato ex art. 323 c.p., non solo per il vantaggio patrimoniale del sogetto favurito conseguito ill( ,glttimamente, ma \oprart utto perclo l'interesse pubblico utelato è quello dell'ammissione all'impiego del person ale più capace e meritevole); per redistribuire beni scarsi anche a favore di soggetti meno dotati, o, a seconda dei casi, per accogliere tali soggetti al go-


dimento di servizi alla loro persona, pur in assenza o in ca renza del reddito necessario ad acquistarli nel libero mercato; c) per garantire che le priorità da perseguire rispondano ad esistenti, effettivi ed attuali bisogni collettivi, individuati dalla Costituzione o da altre norme e non, piuttosto, ad interessi (esclusivamente) propri dell'agente; a) per garantire che il bisogno collettivo, oltre ad avere natura e consistenza metaindividuale - e, quindi, da non poter essere soddisfatto se non a vantaggio di tutti e di ciascun soggetto che lo esprime -, sia anche realizzato non con il sacrificio d'un interesse particolare purchessia, bensì con la quantità di sacrificio appena opportuno e necessario a raggiungere il risultato prefisso, in base alle condizioni di partenza. Una precisazione è d'obbligo: l'insopprimibile differenza tra interesse (bisogno) particolare e bisogni collettivi sta non solo nel fatto che il primo concerne l'aspirazione a un bene della vita ad appropriazione necessariamente non concorrente e paritaria, ma soprattutto che esso ben può essere "egoista", gli altri, invece, no. In altre parole, l'interesse (e il diritto) dei particolari regola conflitti e ammette costoro ad appropriazioni di beni della vita, le quali non per forza debbono avere proiezioni sociali. Il soggetto privato, oltre a poter fare tutto ciò che la legge non gli vieta e al di là delle conformazioni che quest'ultima stabilisce, non deve dar contezza delle sue priorità, delle rinunce a queste e dell'inversione del loro ordine. Inoltre, egli è obbligato non a trattare il prossimo imparzialmente, ma solo a salvaguardarne gli affidamenti incolpevoli.

Né tantomeno egli è tenuto a perseguire scopi altruistici, se non lo desidera, tant'è che la funzione "sociale" degli interessi privati, se non è liberamente espressa dal titolare nelle formazioni sociali, si attua solo con la loro ablazione. L'interesse pubblico, invece, è tale perché riguarda beni ed utilitates la cui struttura, o il cui scopo implicano l'appropriabilità per tutti e per ciascun soggetto (e, quindi, non per uno solo o per pochi). E questa non è attuabile se non con la regolazione del conflitto effettuata con l'effusione di un pubblico potere procedimentalizzato che imparzialmente agisca tenendo conto l'obiettivo da perseguire, ma anche le differenze posizionali dei soggetti coinvolti.

DIscREzIoNwTÀ E ABUSO D'UFFICIO

Scegliere vuol dire porsi delle priorità d'intervento, relativamente ad una pluralità di obbiettivi (interessi pubblici) indifferenziaziati, sulla scorta di risorse scarse e non facilmente riproducibili (in ordine di tempo, mezzi, procedure, ecc.). Effettuata la scelta, l'interesse prioritario va perseguito, qualora non sopravvengano altre priorità che ne giustifichino l'abbandono. Perseguire l'interesse prioritario (pubblico) significa far accedere, in coerenza con le regole di volta in volta ali'uo0 dettate, i soggetti titolari dell'interesse collettivo al bene che può soddisfarli, uno per volta, o tutti insieme in modo indifferenziato, o 121


tutti gli appartenenti a quella frazione qualificata che, più di altre, esprime la perfetta identità tra offerta pubblica e capacità di utilizzarla. In tal caso - e ciò evidenzia l'aberrazione semantica, ancor prima che giuridica del continuo e troppo facile ricorso al termine "abuso" -, si deve escludere a priori che ricorrano gli estremi oggettivi del reato ex art. 323 c.p. nel caso di "atti legittimi", laddove cioè l'interesse pubblico sia stato perseguito al meglio. Se il risultato è conforme all'interesse e questo è frutto di una scelta non aberrante e ponderata, se, dunque, il trinomio potere-funzione-risultato è coerente con la priorità, non ci possono essere deviazioni dall'interesse, né strumentalizzazioni dell'ufficio. Laddove non emerga ictu oculi l'esistenza d'una lesione sostanziale dell'interesse pubblico, mancano gli elementi oggettivi del reato. E ciò indipendentemente da ogni "utilità d'immagine" che possa provenire all'agente da tale legittima situazione. Già con l'abrogato interesse privato in atti d'ufficio - ravvisata la compresenza di interessi privati accanto al pubblico interesse -, veniva contestato tale delitto sulla scorta d'un processo alle intenzioni, senza riscontri di natura obiettiva. La giurisprudenza di legittimità ribadì sempre la necessità di dimostrare un'attiva ingerenza profittatrice. In ciò con122

siste, un tempo come oggidì, l'erroneità dell'assunto fatto proprio da alcune decisioni penali: dire che sono stati contemporaneamente perseguiti un interesse privato ed uno pubblico è tecnicamente improprio. Infatti, o l'interesse pubblico è stato perseguito al meglio e allora l'esistenza d'un coincidente interesse privato degrada a motivo interno giuridicamente irrilevante; oppure ciò non è avvenuto e allora si deve ritenere che l'unico interesse realmente perseguito è quello privato. Oggi è, o dovrebbe essere, ben noto che la coerenza del risultato e della procedura adoperata al modello legale prestabilito fanno aggio, laddove non siano stati commessi altri reati, sui motivi che rebus sic stantibus hanno spinto l'agente a dar priorità a un bisogno sociale, piuttosto che a un altro. Anzi, tale "reddito" ideale, ritraibile dall'uso corretto ed efficace del pubblico potere, ben lungi dal creare un'illecita strumentalizzazione dell'ufficio, serve a determinare o a rafforzare la relazione di fiducia e di collaborazione tra cittadini e PA e, quindi, ad ammettere l'inclusione nella cosa pubblica di soggetti che ne stanno fuori. Il modello attuale di pubblico potere è consensuale e, nel sistema della rappresentanza politica, s'incentra proprio nella capacità del titolare della pubblica funzione di proporre credibili e verificabili ordini di priorità


dei bisogni collettivi, nonché strumenti efficaci di realizzazione, sui quali chiedere il consenso dei cittadini. La procedimentalizzazione delle scelte e della loro attuazione esprime il metodo ed il luogo di composizione del conflitto tra il titolare della funzione pubblica e i portatori di interessi concorrenti. La loro efficace combinazione torna a vantaggio sia dei portatori dei bisogni collettivi, sia dell'agente che ha attuato un risultato ottimale (il sindaco potrà aspirare alla rielezione; il dirigente sarà meglio retribuito per la performance ex art. 24, c. i del d.lg. 3 febbraio 1993, n. 29 o, in caso contrario, subirà le conseguenze sfavorevoli di cui al precedente art. 19, C. 9). V'è il rischio, soprattutto per i pubblici ufficiali elettivi, che, in assenza di altre finalità illecite, venga accertato come dolo specifico in re zpsa il mero riscontro della consapevolezza dell'illegittimità dell'atto emanato dall'agente. Si riprodurrebbe una delle nocive forzature emerse in passato in materia d'interesse privato, ravvisato talvolta appunto nell'interesse "elettorale" (abuso d'immagine) del soggetto qualificato. La consumazione del reato ex art. 323 implica la strumentalizzazione oggettiva dell'ufficio, allo scopo di frustrare o di alterare le finalità istituzionali perseguite, per raggiungere fini d'ingiusto vantaggio per l'agente

o per i terzi, oppure per creare un danno ingiusto a terzi. E la giurisprudenza reputa inammissibile l'equiparazione tra l'illegittimità dell'atto amministrativo e l'illiceità penale della condotta dell'agente, posto che la sola illegittimità dell'atto di per sé non prova ancora l'esistenza della strumentalizzazione soggettiva dell'ufficio. Inoltre, non si può inferire la prova del dolo specifico dall'eventuale vantaggio (o danno) patrimoniale che il privato potrebbe conseguire quale effetto giuridico naturale del provvedimento emanato (per esempio, una concessione edilizia o, rispettivamente, un'espropriazione). È necessario provare che il fine di vantaggio (o di danno) rappresenti l'obiettivo preciso e primariamente perseguito dall'agente, atteso che non basta la .mera rappresentazione del verificarsi di un vantaggio (o di un danno) ingiusto quale conseguenza puramente accessoria del perseguimento di un diverso fine. Insomma, una lettura più rigorosa dell' art. 323 c.p., in coordinamento con i profili del Cnuovo diritto amministrativo degli anni Novanta, dovrebbe evitare le forzature interpretative (ed applicative) della fattispecie e, soprattutto, i ricorrenti soprassalti" abolizionisti, altrettanto nocivi quanto il misconoscimento delle esigenze di autonomia della PA.

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rubriche

I1 L'Associazione Pubblica Efficienza (APE), nata alcuni anni fa per volontà di alcuni dirigenti pubblici schierati sul fronte del rinnovamento politico e delle istituzioni, ha organizzato il 2 dicembre 1996 un convegno sul tema "La dirigenza pubblica tra tentativi di riforma e resistenze al cambiamento", ospitato dall'Automobile Club d'italia. Antonio Zucaro e Andrea Mancinelli hanno introdotto i lavori e presentato il documento elaborato dall'Associazione. Ai loro interventi sono seguiti quelli di Gaetano D'Auria, Guido Rey e del Ministro Franco Bassanini, che ha considerato i contenuti del documento ampiamente condivisibili e convergenti con i principi della revisione e integrazione del decreto legislativo n. 29 del 1993 ora all'esame del Parlamento. L'Al'E potrà contribuire alla pluralità di apporti necessaria per realizzare il processo di riforma delle amministrazioni pubbliche, che prenderà avvio soltanto con la legge di delega e con i conseguenti decreti delegati e che dovrà proseguire con un percorso di attuazione dal quale dovrà dipendere l'emanazione di decreti correttivi. Si tratta di un "work in progress", per approssimazioni successive, che deve tener conto della concreta sperimentazione delle nuove norme. Il completamento della riforma del lavoro pubblico è connesso con la semplificazione normativa, a partire dall'organizzazione e

Notizie dall'ApE dall'azione delle amministrazioni, con la riforma del sistema dei controlli e l'accelerazione del passaggio delle controversie al giudice ordinario, quali fattori indispensabili per l'omogeneizzazione del lavoro pubblico e di quello privato. La dirigenza è la chiave di volta dell'applicazione della riforma, a partire dalla distinzione tra la direzione politica, che dev'essere capace di definire indirizzi e obiettivi (e che deve dotarsi di adeguate strutture di collaborazione, diverse da quelle tradizionali), e la direzione amministrativa, che deve avere autonomia di attuazione degli indirizzi e capacità di proposta e di confronto dialettico per la definizione degli obiettivi, del budget, dei programmi di attività. Vanno evitati sia il potere politico disarmato, sia una dirigenza serva del potere politico. La preventiva definizione del metodo degli organidi verifica dei risultati conseguiti dai dirigenti, la cui importanza è soprattutto quella di "affìnare" nel corso della gestione la cultura del risultato, è una condizione indispensabile per sfuggire all'alternativa tra "spoil system" e paralisi dell'indirizzo politico. Gli interventi del Ministro e degli altri partecipanti sono stati ditale ricchezza di stimoli da richiedere ulteriori spazi nei prossimi numeri della rivista. In questa occasione presentiamo il documento di Mancinelli e Zucaro. 12C


LE ANALISI DELL'APE La riforma dello Stato e della forma di Governo comportano un innalzamento della capacità dell'Esecutivo, e dunque anche delle burocrazie, di applicare mutamenti istituzionali assai complessi e delicati, dove è in gioco l'unità stessa del Paese. Occorre cominciare a realizzare una amministrazione federale in grado di rapportarsi con efficacia alle amministrazioni ed alle politiche regionali e locali di settore, conducendole a sintesi e tiportandole a livello di Unione Europea. In tale ottica, diviene necessario considerare le amministrazioni in modo differenziato, favorendo la diffusione delle autonomie e delle responsabilità. L'Associazione Pubblica Efficienza (ApE) intende dare il proprio contributo propositivo all'azione di governo, consapevole dell'importanza degli obiettivi di profonda e contestuale trasformazione ed innovazione nei rapporti tra Stato ed Autonomie territoriali, negli apparati pubblici e nel bilancio dello Stato e degli enti pubblici. Valuta pertanto con favore, su questi temi, la linea politica di riforma e le idee-guida che emergono dai provvedimenti legislativi di delega. Gli ultimi anni hanno visto avviarsi un processo di riforma che ha rappresentato una vera svolta (particolarmente emblematici la legge di delega n. 42111992 e i decreti legislativi nn. 29 e 39 del 1993, la legge n. 53711993, la legge n. 20/1994 e la semplificazione di procedimenti amministrativi). Sennonché, le resistenze al cambiamento hanno trovato conforto anzitutto nell'instabilità politica nei Governi i quali hanno trascurato che la riforma del sistema pubblico è condizione per la piena attuazione di ogni altra riforma. Così, molte disposi126

zioni e principi innovatori sono rimasti sulla carta o hanno trovato attuazione parziale o contraddittoria. Nel percorso di attuazione di un processo di riforma tanto ambizioso, occorre innestare un "metodo per apprendimento", per sperimentazioni e approssimazioni successive, in modo da correggere disfunzioni o obiettivi rivelatisi poi incongrui. Tale metodo va seguito costantemente a partire dal massimo livello di responsabilità politico-istituzionale, fissando le tappe di progressiva realizzazione dei cambiamenti, per seguirne gli avanzamenti, superare ostacoli e resistenze, fornire i necessari impulsi attraverso una "cabina di regia" capace di rappresentare i punti strategici delle amministrazioni pubbliche, nonché attraverso canali di dialogo con realtà rappresentative dell"interno" degli apparati, come la nostra Associazione. Crediamo utili i nostri contributi per verificare Io stato d'attuazione delle riforme (versante finora trascurato); individuare gli ostacoli e le disapplicazioni per rimuoverli o per correggere le scelte normative; individuare le disposizioni della stratificata normativa previgente alle riforme che andrebbero eliminate; prevedere percorsi di semplificazione, di funzionalità e orientamento al risultato e all'utenza. È possibile ricostruire radicalmente il rapporto politica-amministrazione; essendo stata posta al centro dell'azione amministrativa la dirigenza pubblica, su di essa è possibile far leva per un obiettivo tuttora irrisolto, benché sia stato posto già dalla carta costituzionale, cioè quello di coniugare garanzia (legalità) e efficienza nei comportamenti delle pubbliche amministrazioni. A seguito del processo di riforma, è chiaro cos'è, in teoria, l'efficienza, ma essa va cala-


ta nella pratica. La legalità è l'elemento, paradossalmente, oggi pii incerto, anzitutto perché è incerto il diritto da applicare nei casi concreti. Oggi, l'amministratore pubblico rischia non soltanto di faticare per sapere quale norma (e secondo quale indirizzo giurisprudenziale) applicare nelle singole questioni che affronta, ma anche di essere soggetto ad una sorta di "spada di Damode" per le verifiche, successive alla sua azione, per lo pi1 limitate al rispetto pedissequo della congerie di adempimenti e di minuziosi "passaggi" indicati da una molteplicità di norme di dettaglio. Mancanza di autonomia, quindi, anzitutto a fronte di scelte amministrative vincolate da norme, e mancanza di responsabilità per i risultati finché questi ultimi non vengono definiti e finché non è valutabile (nell'attuale quadro di struttura del bilancio, classificazione delle spese, procedure di spesa e controlli) neppure il costo della struttura che si dirige. La miriade di norme e la frammentazione delle voci di spesa in capitoli (come noto, nello Stato pii di 6.000) sono freni all'autonomia e alla responsabilità. La responsabilizzazione effettiva e la diffusione dell'autonomia possono costituire un freno non soltanto alla gestione inefficiente, ma anche alla corruzione. lleliminazione di fenomeni di corruzione è, anzitutto, un compito dell'Esecutivo e dell'Amministrazione. Il "patto" tra organi di direzione politica e dirigenza descritto in passato efficacemente come scambio tra inamovibilità e cessione al potere politico delle competenze esclusive attribuite alla dirigenza non può piii reggere. COSA

à GIÀ POSSIBILE FARE

Vi sono chiarimenti da operare nel testo costituzionale (a partire dagli artt. 95 e 97)

ma anche in attesa che ciò avvenga sono possibili: la delegfìcazione che le fonti normative primarie dettino soltanto disposizioni di principio e di indirizzo e che con fonti secondarie sia regolabile, in via esclusiva, l'organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni; che le leggi evitino di imputare a singoli organi di direzione politica anche l'esercizio di compiti riconducibili all'amministrazione attiva; che il Parlamento o i Consigli regionali abbiano possibilità, ritraendosi dalla disciplina di dettaglio, di verificare l'attuazione delle leggi emanate e di compiere verifiche preventive all'emanazione dileggi sulla loro fattibilità e "copertura amministrativa" (valutazione dell'impatto sul sistema pubblico e sui cittadini e le imprese).

Nuove forme dell'azione amministrativa: anzitutto attraverso la chiara distinzione, in ogni amministrazione, tra le funzioni di indirizzo, di attuazione, di controllo di gestione, di verifica di soddisfazione dell'utenza. A livello ministeriale, un diffuso impegno in tal senso vedrebbe il primo Governo operante per l'attuazione della riforma, attraverso la definizione di programmi di attività, priorità, obiettivi, ripartizione delle risorse per programmi e progetti. Deve risultare evidente che il processo di programmazione, gestione e controllo non è soltanto discendente ma anche ascendente, così da innestare una dialettica da cui scaturisca la definizione degli obiettivi. Occorre avviare, subito, una vasta opera di deregolazione (applicazione delle generali regole del diritto comune invece che di un diritto speciale, amministrativo), ove possibile; ove ciò non fosse possibile, occorrerebbe avviare un'opera di delegificazione; ove neanche 127


quest'ultima fosse possibile, occorrerebbe quanto meno un'azione in sede legislativa che assicura la certezza del diritto vigente attraverso testi unici e l'esplicita abrogazione di norme. 3) Il controllo: quello esterno deve avere scopo di referto e di verifica dell'efficienza dei controlli interni; è necessario separare nettamente le funzioni e gli organi di controllo esterni da quelli della giurisdizione amministrativo-contabile, tenendo conto della tendenziale unificazione delle giurisdizioni. Il nuovo controllo interno deve avere scopo primario di consulenza e di stimolo dell'autocorrezione degli amministratori; occorre chiarire preventivamente i parametri del controllo, riferiti a risultati di efficienza, efficacia e economicità, rapportati ai mezzi concretamente disponibili; occorre che i controlli siano concomitanti alla gestione, per favorire l'autocorrezione degli scostamenti rilevanti che emergono nel corso della gestione rispetto ad indicatori, serie storiche, valori medi e standard di costi e di rendimenti. Gli scostamenti che si verificano possono derivare da inefficienze di gestione, ma possono anche risultare rivelatori della necessità di rivedere gli obiettivi programmati. I controlli di gestione possono essere strumento di funzionalità e di raggiungimento di risparmi di gestione; la finalità sanzionatoria torna utile soltanto nei casi di inerzia rispetto all'esigenza di correzione/rimedio e nei casi più gravi. Da tale impostazione deriva una responsab I ità per mancato raggiungimento dei risultati, ma a seguito di una fase collaborativa e dialettica indispensabile (e presente nella generalità del "terziario"), cui possa seguire una contestazione del mancato raggiungimento degli obiettivi non arbitraria, dalla quale 128

possono scaturire, in caso negativo, varie conseguenze: dal passaggio ad altro incarico, alla perdita di incentivi, al regresso a funzioni di minor responsabilità, fino - nei casi gravi - alle sanzioni più estreme. Tale impostazione può essere resa a partire dalla revisione del decreto legislativo n. 2911993; vanno comunque ancora attuate varie norme innovative, come quella dello stesso decreto che prevede la rilevazione di costi e di rendimenti in ogni ufficio o come quella che prevede la conoscenza/pubblicità dei prezzi praticati sul mercato e da altre amministrazioni nell'acquisto di beni e servizi, per potersi correggere. Il bilancio sperimentale deve essere applicato e non restare sulla carta; deve essere un bilancio "parallelo" per periodi limitati, di sperimentazione concreta e di "formazione sul campo". Ordinamento della dirigenza: la sentenza della Corte Costituzionale che ha rigettato la questione di legittimità sollevata rispetto alla privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti ministeriali, è stata occasione per rivedere l'opinabile distinzione tra dirigenti e dirigenti generali. Riteniamo che utili indicazioni sulle categorie che, in via esclusiva, debbano restare disciplinate da leggi speciali provengano indirettamente dall'art. 98 della Costituzione (magistrati, militari, forze di polizia, diplomatici). Va completata la riforma che ha delineato una dirigenza intesa come funzione invece che come carriera, indicando una regredibilità o progredibilità delle responsabilità di funzione sulla base delle attitudini dimostrate e dei risultati. In quest'ottica, il massimo livello della dirigenza deve essere anch'esso soggetto ad un regime privatistico, da realizzarsi attraverso


contratti a termine, rinnovabili in base ai risultati. Nei casi più gravi la conseguenza può essere il licenziamento; altrimenti, la collocazione in posti di minore responsabilità. Perciò, l'APE condivide l'iniziativa legislativa del Governo circa la revisione del d.lgs. n. 29. Coerentemente, la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dovrà riguardare anche la docenza universitaria. Da più parti, inoltre, si tende a mantenere e teorizzare una specialità di particolari carriere, inserite in Amministrazioni di più lunga tradizione (cosiddette "d'ordine"); anche su questo tema occorre evitare equivoci poiché anche in queste amministrazioni sono necessari controlli di gestione, l'adozione di una logica "per risultati". Comunque, la "specialità" delle funzioni e l'eventuale mantenimento del regime pubblicistico deve essere reso compatibile con l'applicazione del principio di responsabilità, a partire dalla revocabilità degli incarichi e dal collegamento delle retribuzioni ai risultati e alla qualità delle prestazioni. In ogni caso, deve risultare chiaro che le funzioni amministrative non possono essere esercitate da magistrati. 6) Il numero dei dirigenti e le retribuzioni: la riorganizzazione per funzioni obiettivo e i processi di semplificazione e di eliminazione di livelli decisionali superflui faranno emergere l'effettivo fabbisogno di dirigenti. Il decentramento di funzioni costituirà un'occasione di razionalizzazione della distribuzione. Vanno applicate le innovazioni introdotte dal nuovo contratto, il carattere premiante delle retribuzioni a fronte delle nuove responsabilità, il perfezionamento delle indennità di funzione e di risultato, l'omologazione normativa tra lavoro pubblico e privato. Vi sono ipotesi di esodo da favorire; perlomeno, si elimini l'art. 16 del

d.PR n. 50311992 che consente la permanenza in servizio per un biennio oltre i limiti di età. In ogni caso, è questione di grande rilevanza il ricambio, anche generazionale, della classe dirigente. È difficile contestare la scarsa rappresentatività della burocrazia rispetto alla società che essa è chiamata ad amministrare, soprattutto per quel che riguarda il sesso, l'età, la provenienza geografica. Deve valere il principio dell'onnicomprensività e della pubblicità della retribuzione, per attenuare il fenomeno paradossale per cui la retribuzione è tanto più elevata quanto più si è distolti dall'incarico svolto in via principale. Inoltre, occorre eliminare una serie di "agganciamenti" artificiosi, per individuare le figure professionali da porre a confronto con il management privato. Nulla vieta di rettibuire adeguatamente, ad esempio, medici, docenti universitari, ricercatori, ma i loro compiti e la qualificazione professionale rispondono a logiche diverse da quelle che assimilano, invece, parte delle funzioni pubbliche con le strutture aziendali. In una logica di assimilazione in un unico mercato del lavoro, il livello di professionalità si misura comunque con il livello retributivo raggiunto e prospettabile. È, questa, una garanzia di intercambiabilità tra posti pubblici e privati e una garanzia di efficienza dell'apparato pubblico; finché, infatti, il livello retributivo resta quello presente, i giovani migliori non saranno attratti a scegliere il proprio futuro nella PA. Anche per queste ragioni stiamo assistendo a una progressiva fuoriuscita di "pezzi" dell'apparato pubblico dalle condizioni di funzionalità e di retribuzione tipiche (le Autorità, assieme ad altri organismi, non hanno o aspirano a non avere il contratto dei 129


pubblici dipendenti; Camera, Senato, altri organi costituzionali, Banca d'Italia, Antitrust, Consob, ecc. si sono già posti su un piano diverso; altri enti pubblici e le aziende autonome si trasformano in enti economici o in S.p.A.; gli enti locali e le USL hanno vertici a termine, con contratti di diritto privato; i docenti universitari e i medici possono svolgere altre attività. Lo Stato e poco altro rischiano di restare un torso). Una accorta conduzione dei processi di riforma può favorirne l'attuazione. Comunque, il CcNL siglato di recente, presupponendo l'individuazione e la graduazione dei posti di funzione, e consentendo incrementi delle incentivazioni a fronte di risparmi di gestione accertati dai controlli interni, incentiva la ristrutturazione delle Amministrazioni, la razionalizzazione delle spese ma anche la stessa costituzione dei controlli interni. Se, inizialmente, una parte anche ridotta della retribuzione accessoria corrispondesse a obiettivi di qualità dei servizi e di soddisfazione dell'utenza verificati dagli URP, indirettamente si incentiverebbe la diffusione degli URP stessi.

RIORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Il cambiamento dell'organizzazione del lavoro sarà favorito, tra l'altro, da tre elementi, oltre quelli cui si è fatto cenno in precedenza: a) la riconduzione a quattro aree dell'attuale frantumazione del personale in nove qualifiche funzionali, più i ruoli ad esaurimento, più le qualifiche dirigenziali, e dell'ulteriore frantumazione per mansioni e profili professionali; all'interno di ogni area si possono prevedere percorsi differenziati, a seconda della disponibilità di tempo, di formazione, dell'impegno e dell'apporto ai risultati. 130

la formazione e la riqualificazione massiccia (a partire dalla dirigenza), in funzione: del necessario confronto con le analoghe realtà degli altri Paesi dell'Unione Europea (a partire dalla capacità di rapida adozione della normativa comunitaria e dalla capacità di incidere sulle decisioni europee); del nuovo impianto amministrativo-contabile, per centri di costo e di rendimento e del controllo di gestione; dei processi di decentramento (che richiedono riqualificazione e capacità di indirizzo e coordinamento); dei processi di "esternalizzazione" dei servizi (che richiedono capacità delle amministrazioni di fare i regolatori, gli azionisti, gli stipulatori di contratti di programma, i definitori di tariffe e di obiettivi di qualità dei servizi, ecc.); della diffusione dell'informatica e della multimedialità; della verifica della soddisfazione dell'utenza e della comunicazione. La formazione non potrà più limitarsi alla fase di ingresso nelle amministrazioni o di passaggio di carriera ma dovrà divenire continua. Resta aperto il problema se sia sufficiente una formazione on the job o se invece, come si ritiene, sia opportuno preparare il management della pubblica amministrazione già nei corsi universitari. In questo nuovo scenario, va collocata con una diversa fisionomia la funzione della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e il suo rapporto con le altre scuole formative. La realizzazione della Rete unitaria telematica delle pubbliche amministrazioni, quale fondamentale strumento di recupero dell'efficienza nei pubblici servizi, attraverso l'interoperabilità di sistemi informativi tra loro connessi, capaci di integrare progressivamente la trasmissione di voce, dati e immagini.


Notizie da...

FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTARIATO

Il 29 novembre scorso, la Fondazione Italiana per il Volontariato ha presentato

un'indagine su Il Volontariato mrnvpolitano in Italia pubblicata nella collana "I quaderni del volontariato". Il lavoro di ricerca sul volontariato metropolitano ha inteso studiare le caratteristiche strutturali ed operative dei gruppi organizzati in attività solidaristiche SU Otto Comuni italiani a più alto numero di residenti nelle diverse zone geografiche: Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. La scelta ricaduta all'interno della delimitazione amministrativa comunale è naturalmente soltanto convenzionale rispetto alle implicazioni psico-sociologiche che determinano il fenomeno oggetto di studio. Del resto, anche l'aspetto amministrativo, il tentativo fatto di delimitare le "aree metropolitane" con la legge 142/1990 sembra fallito, tanto che tale denominazione è stata resa facoltativa con la 1. 43611993. Tuttavia il focus dell'indagine consisteva nel segnalare le differenze del volontariato operante in aree territoriali diverse adottando la metodologia del confronto sulla base delle statistica descrittiva. A tale scopo, i dati delle organizzazioni attive negli otto Comuni hanno costituito la classe "metropoli" (1376 organizzazioni, pari al 14.7% dell'universo) posta a confronto con

la classe "non metropoli" costituita da tutte le rimanenti organizzazioni (8004 organizzazioni pari all'85.3%). I1ipotesi guida del lavoro di ricerca è stata quella che nelle grandi città, viste come contesti sociali e culturali ampiamente eterogenei, non possono non ripercuotersi le ambiguità e le difficoltà tipiche degli ambienti urbani. Naturalmente, pur non trattandosi di due opposte culture (cultura urbana e cultura rurale), nel passaggio da un'area territoriale all'altra, ci si trova in presenza di diverse concentrazioni di caratteristiche presenti in tutto il volontariato sociale italiano. Il volontariato metropolitano riproduce con toni più marcati i grandi temi dell'azione volontaria: da una parte, l'azione di natura e di spinta spontaneistica e, dall'altra, l'azione organizzativa e "burocratizzata". Un binomio, dunque, che continua a coinvolgere il volontariato - sopratutto urbano - fra "cultura" e "identità", da un lato, e gestione e specializzazione dei servizi, dall'altro. Le risposte del volontariato metropolitano alle contraddizioni della società urbana sembrano spingere nella stessa direzione: il recupero, innanzitutto, della "primarietà" dei rapporti. Una primarietà di relazioni intesa sia nei rapporti con gli individui in quanto tali che con il territorio in quanto luogo di espressione dell'azione volontaria stessa. 131


Entrando ora nel dettaglio dei dati di sintesi, una prima caratteristica che identifica il volontariato urbano rispetto al volontariato non urbano è la presenza decisamente maggioritaria della cultura cattolica. Sempre in area metropolitana sembra costituire elemento di identificazione la ridotta dimensione delle organizzazioni: si tratta, infatti, nella maggior parte dei casi, di piccoli gruppi decentrati che svolgono un lavoro capillare sul territorio urbano. Questi ed altri risultati dell'indagine sottolineano lo sforzo del volontariato metropolitano a realizzare un "contatto solidale", un contatto teso al recupero dell'autenticità dei rapporti umani altrimenti troppo densi e di carattere soprattutto utilitario. Con riferimento ai collegamenti con il territorio i dati confermano - con maggiore intensità nel volontariato metropolitano - la tendenza all'informalità, al decentramento e perfino, in qualche caso, all'isolamento. Ad eccezione di poche organizzazioni le cui dimensioni consentono una presenza sul territorio ad ampio raggio, per la maggior parte dei casi si tratta di organizzazioni che operano su contesti strettamente limitrofi e circoscritti, trattandosi di organizzazioni urbane la cui dimensione territoriale di riferimento è senz'altro quella del quartiere. È evidente che nei centri non urbani il dialogo e il rapporto con le istituzioni locali sembra assumere una dimensione più accessibile e congrua, a sancire un certo grado di legittimità e visibilità sociale delle organizzazioni sul territorio. Ciò appare più difficoltoso quando ci si muove su grandi aree urbane: la lontananza (in senso fisico, ma ancora di più in senso "percettivo") dalle amministrazioni locali, influisce sul carattere più spontaneo ed informale e sull'azione più decen132

trata e isolata che caratterizza, in particolare, i gruppi metropolitani. Il peso delle tematiche urbano-ambientali sembra influire anche per quanto riguarda l'orientamento e l'attenzione mostrata dal volontariato nei confronti dei destinatari del servizio. L'impegno, infatti, delle organizzazioni metropolitane si concentra con particolare attenzione sui problemi dell'emarginazione, assai più diffusi e drammatici in queste aree. Parallelamente, anche i servizi resi sono finalizzati sia al contenimento delle situazioni di emergenza sia alla programmazione di obiettivi a lungo termine per la risoluzione delle cause legate al disagio sociale. Di particolare interesse fra le attività maggiormente svolte sembra la prestazione "ascolto telefonico" che in ambiente urbano assume un'importanza drammaticamente rilevante, data la pesante condizione di isolamento cui molte persone sono costrette a vivere. Per quanto riguarda la composizione dei gruppi attivi nelle aree metropolitane, questi sono di dimensioni più ridotte rispetto alla dimensione media nazionale. Con riferimento al sesso dei volontari appare caratterizzante, nelle aree metropolitane, l'impegno femminile. Nella disgregazione del dato relativo al sesso per fasce di età, nel volontariato di area metropolitana, si coglie una maggiore incidenza percentuale dei gruppi composti da giovani di sesso maschile e, sopratutto, di anziani di sesso femminile. Anche per quanto riguarda il livello di istruzione emergono delle differenze secondo le quali le percentuali più alte per gli alti livelli di scolarizzazione si concentrano nell'area metropolitana. Va comunque sottolineata, per tutto il volontariato in generale, una più alta scolarizzazione rispetto ai dati relativi all'intera popolazione italiana.


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Giwisci

Nel 1996-97 la Fondazione continua la sua attenzione ad alcune tematiche che considera indispensabili alla formazione di una cultura politica, civile, professionale, con un metodo di lavoro propositivo ma anche aperto alla ricezione di sollecitazioni esterne. La trasformazione del sistema politico italiano per comprendere la quale sono essenziali, e di costante attualità, oltre all'analisi delle dinamiche elettorali e di quelle della corruzione, le riforme istituzionali e la storia della Costituzione italiana, vista anche in prospettiva comparata, nell'ambito di iniziative seminariali e di corsi di aggiornamento per insegnanti. Particolari aspettative sono riposte in un corso di ricerca-formazione sull'educazione alla Costituzione che ha ricevuto il patrocinio del ministero della Pi e della Presidenza della Camera dei Deputati. Un importante convegno approfondirà la figura di Terracini costituente. L'equità sociale intesa come reciprocità di trattamento tra individui, classi, generazioni, gruppi etnici e di genere, soggetti a processi di esclusione sociale - come ci ha recentemente ricordato Salvatore Veca in una lezione per la Scuola (1i Formazione politica e civile dJ Comitato per la Costituzione - sono stati oggetto di costante artenzionè, con iniziative sullo Stato sociale e le immigrazioni. Particolarmente lusinghieri i risultati di un ciclo sulle politiche dell'occupazione e del Convegno su Conflitti culturali e democrazia in Europa che ha vi-

sto importanti partecipazioni straniere, e un incontro con Renato Dulbecco sui problemi normativi del progetto Genoma. Verranno presto discussi, inoltre, i risultati di una interessante ricerca sugli episodi di violenza razzista in Italia attraverso la stampa quotidiana. I2attenzione, in genere, verso i fenomeni di esclusione sociale e marginalità è destinata a crescere. La storia e l'attualità dei movimenti sociali sono oggetto di ricerche avviate dall'archivio sui movimenti ambientalisti, di un'analisi dei manifesti politici come strumento di comunicazione di massa, di un progetto di Casa degli archivi sindacali e d'impresa, parte di un museo del lavoro per Torino. Il ricco patrimonio di volumi e fonti di storia sociale della biblioteca viene valorizzato dal suo inserimento nel Sistema Bibliotecario Nazionale. Viene, inoltre, attivato un seminario permanente sulle relazioni industriali e di lavoro che prosegue un rinnovato interesse per l'analisi delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e nelle sue classi dirigenti. Atti vita prevista anno 1997 17 gennaio. Seminario, in collaborazione con: Cie, Centro d'Iniziativa per l'Europa. "La prevenzione della corruzione. Aspetti internazionali, emergenza italiana, risposta politica". Interventi di: U. Spagnoli, A. Vannucci, F. Cazzola, U. E. Savona, G. Bonfanrc, M. Ricolfì, R. Cavallo-Peno, M. Dogliani, S. Belligni, S. Scarnuzzi, A. Monticelli, on. M. Licà, on G. Meloni, on. R. Bontempi. Ciclo seminari in collaborazione con: Ires L. Morosini. "Formale e informale nelle relazioni di lavoro". 133


24 gennaio. Perché confrontare le relazioni industriali a Torino e Milano? 7 febbraio. Relazioni industriali, nuove forme di organizzazione e partecipazione nelle imprese industriali e terziarie. 21 febbraio. Sviluppo delle risorse umane, comunicazione e regolazione sociale nell'imprese industriale terziaria. 28 febbraio. Seminario collaterale per ricercatori su: "Metodi quantitativi e qualitativi nell'analisi delle relazioni industriali". Con interventi di studiosi sindacalisti, dirigenti d'impresa. 14 febbraio. Tavola rotonda con: Università di Torino Dipartimento di Economia, CIE Centro d'Iniziativa per l'Europa. "Contro la disoccupazione: tra macropolitiche e iniziative locali". Interventi di: E. Reyneri, B. Contini, A. Luciano, E Scacciati.

Incontri in date da stabilire, tra gennaio e giugno 1997 Tavola rotonda: "Un museo del lavoro a Torino?" Seminario "Flussi elettorali a Torino e commenti ai risultati delle elezioni amministrative". Interventi di: L. Ricolfi, G. Gabarino e altri relatori da stabilire. Convegno organizzato per il Consiglio Regionale del Piemonte, in collaborazione con la Fondazione Gramsci di Roma, previsto per il 29 e 30 maggio 1997, a cura di A. Agosti. "Umberto Terracini: la biografia politica di un costituente". Programma provvisorio. Umberto Terracini nell"Ordine Nuovo" e nel processo di formazione del PCdI, C. Natoli, La polemica con il partito sulla 134

"svolta" del 1930, M. Giovana. "Terracini dal Conflitto alla 'Repubblica dell'Ossola". F .0. Zorini. "Terracini, il Comintern e il Cominform", S. Pons. "Terracini costituente e parlamentare". E Barbagallo. "Terracini e la questione ebraica", D. Bidussa. "Terracmi e l"indimenticabile' 1956", A. Agosti. "L'ultima fase dell'attività politica di Terraci", G. Gozzini. "Ricordo di Umberto Terracini", A. Natoli. Sono previste altre comunicazioni accanto alle relazioni principali. Seminari di presentazione delle ricerche della Fondazione "Stili di vita e diritto allo studio degli studenti universitari" (a cura di R. Sciarrone e A. Meo). "Violenza razzista in Italia nella stampa quotidiana" (a cura di G. Buso). "Sulla nuova normativa del non profìt" (a cura di G. Bonfante). Seminario, in collaborazione con la Consulta laica di bioetica: "Identità e statuto dell'embrione umano" (a cura di Vitelli e S. Scamuzzi). Seminario, in collaborazione con Cdrl, Fondazione Feltrinelli e altri Istituti Gramsci: "I capitalismi del Nord e le istituzioni" Interventi di: C. Trigilia e altri relatori da definire. Convegno: "Sull'attualità di A. Gramsci, in occasione del 60 0 anniversario". "Scuola di formazione civile e politica". Secondo ciclo (da definire, a partire da marzo) della Scuola, in collaborazione con il Comitato per la Costituzione «Cittadini non sudditi». Lezione di A. Pizzorno e altri da definire. Iniziative in collaborazione con il Comitato "Oltre il razzismo". Presentazione di Mondo Topo!, quattro giochi per le scuole primarie, di G. Torri.


Programma dei corsi di aggiornamento per insegnanti 1997 Formare alla Costituzione italiana. Progetto di ricerca-formazione: costituzione di un gruppo di studio interdisciplinare, formato da costituzionalisti e sociologi. Accanto a questo gruppo lavoreranno due gruppi di insegnanti di 10/15 partecipanti ciascuno: uno delle scuole medie superiori, l'altro delle inferiori. Due formatori accompagneranno i due gruppi in un processo di ricerca e formazione. Gli incontri sono programmati, il mercoledì dalle ore 15 alle 18, nelle seguenti date: 15-29 gennaio, 5-19 febbraio, 5-19 marzo, 9 aprile. Il gruppo di studio ed i due gruppi di insegnanti saranno chiamati a confrontarsi e a declinare le diverse riflessioni e acquisizioni per formulare progetti di ricerca e sperimentazione sul campo. I risultati ai diversi livelli si tradurranno in forma di saggi e materiali didattici. "Sguardi sull'Europa prima e dopo il 1981/'. In collaborazione con: Museo Nazionale del Cinema 18 febbraio. N. Tranfaglia, V. Valli: "Il significato di un crollo". L. Termine: "Cinema e realtà". 25 febbraio. "La fine dell'Urss". Interventi di: M. Buttino, G.L. Favetto. Film: Anna di M. Mikhalkov.

4 marzo. "Le vie al libero mercato". Interventi di: A. Pichierri, G. Volpi. Film: La promessa di M. Von Trotta. 11 marzo. "La guerra etnica". Interventi di: L. Bonanate, S. Toffetti. Film: Undergrounddi J. Kusturica. 18 marzo. "Il 1989 e l'Italia". Interventi di: A. Agosti. G.G. Migone. Film: Lamerica di G. Amelio.

Religione e politica nella società multiculturale 3 aprile. Chiusano, R. Mazzola, S. Sicardi: "I rapporti tra Stato e Confessioni religiose nelle culture costituzionali". 10 aprile. G. Filoramo, E. Fubini: "Le teodicee delle religioni monoteiste e i fondamentalismi". 17 aprile. P. Portinaro, F. Remotti: "Religione e politica nella modernità e altrove". 24 aprile. "I principi di laicità della scuola nelle società multiculturali": tavola rotonda condotta da A. Di Giovine.

Il sistema nazionale di valutazione. Libertà d'insegnamento e controllo di qualità nel sistema formativo. In collaborazione con: Cgil Scuola di Torino. 5 maggio. Interventi di: C. Acciarini, A. Cavalli, G. Farias, M.G. Sestero e altri relatori da definire. ISTITUTO PIEMONTESE A. GRAMscI Via Vanchiglia, 3-10124 Torino Tel. 011-8395402

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Segnalazioni

Il diritto al/a protezione civile, Quaderni della Rivista Giuridica dell'Ambiente, Giuffrè Editore, Milano.

VINCENZO PEPE,

"Non si può parlare di una vera cultura delle catastrofi, ovvero di protezione civile, dove l'uomo preferisce ignorare il pericolo e credere che il rischio riguarda solo, e soprattutto, gli altri e mai se stesso". È quanto sostiene Vincenzo Pepe nel suo volume dedicato alla protezione civile pubblicato nei Quaderni della Rivista Giuridica dell'Ambiente.

Nel suo testo, I/diritto al/a protezione civile, Pepe ricorda che soltanto negli ultimi anni si è comiciato a mutare l'approccio nei confronti delle catastrofi. Si è spostata l'attenzione, infatti, "dall'improvvisazione dei soccorsi, alla previsione e prevenzione". Si tratta di un risultato molto importante che vede, ormai, una vera e propria pianificazione nella gestione delle catastrofi (il cosidetto "Disaster Management"). 11 diritto alla protezione civile, sostiene Pepe, è un diritto fondamentale in quanto "incide sull'esistenza stessa della vita umana, di una determinata comunità e della stessa civiltà umana". Un diritto che, in qualche misura, ne comprende altri: quello all'integrità della vita, alla salute, alla famiglia, alla comunità, alla casa e alla tutela dell'ambiente. 136

Il volume analizza tale diritto in modo approfondito e documentato, a partire da un breve excursus storico su "Le calamità naturali tra storia e mitologia" per arrivare a presentare profili di diritto comparato sulla base di esperienze di diversi Paesi del mondo. Lautore pone a confronto la protezione civile con la politica dell'ambiente parlando, appunto, di Disaster Management e quindi delle diverse fasi della gestione delle catastrofi (la previsione e prevenzione, l'allarme, l'impatto, i soccorsi e la ricostruzione). Analizza, quindi, la nuova protezione civile in Italia presentandone la normativa; descrivendo il Servizio nazionale di protezione civile e il ruolo del volontariato in tale contesto. Attraverso il ricordo delle principali avversità atmosferiche che hanno provocato catastrofi nel nostro Paese dal 1968, Pepe descrive la normativa d'urgenza che ne è seguita e il ruolo avuto dalle autorità centrali, soprattutto dal ministero dell'Interno, e dall'organizzazione periferica (Regioni, Provincie, prefetti e Comuni). Un capitolo del volume è dedicato, poi, al volontariato di cui viene sottolineato il ruolo importantissimo ma anche la necessità di un aggiornamento continuo nella preparazione tecnica dei soggetti coinvolti. Il volontariato ha un particolare significato in


quanto, oltre a collaborare in caso di emergenze, è un valido strumento per "creare una nuova educazione alla protezione civile". Dopo aver parlato del rapporto fra i media e la protezione civile, l'autore dedica un capitolo a "Beni Culturali e Prevenzione" in cui lancia un grido di allarme per la mancanza, in Italia - "lo Stato che detiene il màggior numero di beni culturali presenti su tutto il pianeta" - di un sistema di prevenzione e previsione contro, ad esempio, i danni derivati da fenomeni sismici. Pepe auspica che siano conferiti agli Enti locali maggiori responsabilità e che questi si facciano promotori, oltre che dei "nuclei operativi" di prevenzione, previsione e intervento, anche di una più sistematica attività per salvaguardare i beni culturali "dal rischio di calamità, razzie, catastrofi, atti vandalici o terroristici". I capitoli finali del volume sono dedicati a questioni giuridiche: alla legislazione regionale a difesa dell'ambiente, alle leggi italiane sulla protezione civile e al diritto internazionale in materia di cui si presentano, in appendice, le fonti. Da segnalare, infine, l'interessante capitolo dedicato alla protezione civile in alcuni Paesi dell'Unione Europea. FRANCESCO SIDOTI,

Istituzioni e Crimina-

lità, Cedam, Padova 1996. Con la sua recente pubblicazione ("Istituzioni e Criminalità", Cedam, 1996, pp. 398), Francesco Sidoti affronta con temi e metodo non usuali argomenti fondamentali per le politiche pubbliche dell'ordine e della sicurezza. L'Autore, docente universitario presso le Università di Bari e di Tera-

mo nonché consulente di importanti centri di ricerca italiani e stranieri, è già noto ed apprezzato per alcuni saggi con i quali, ad esempio, ha fatto chiarezza e prospettato questioni di rilievo sulla cultura delle attività di intelligence (in «Per aspera ad veritatem», n. 2, 1995, pp. 89-102) e sulla cultura della illegalità (in ((queste istituzioni», n. 99, 1994, pp. VII-)(VII, e n. 103, 1995, pp. V1I-)(V1I). Questo ultimo studio è una riflessione, in primo luogo, su quanto è avvenuto in questi ultimi decenni con una lettura - diversamente da quanto svolto in altre recenti pubblicazioni - multidisciplinare e comparata dei fenomeni osservati. Inoltre, viene effettuata una ricerca storico-sociologica non rinvenibile in altri libri sulla storia repubblicana. Il titolo, poi, di chiara origine olivettiana, svela subito il contenuto della ricerca incentrato sui nessi esistenti tra le istituzioni e il mondo della criminalità, perché "le azioni sociali debbono essere analizzate come scelte individuali tra alternative istituzionalmente strutturate. Devianti e criminali sono esseri dotati della possibilità di calcolare costi e benefici: sensibili alle politiche pubbliche, alle scelte normative, ai comportamenti delle forze repressive. In quanto esseri dotati di razionalità (pur con molti limiti e anche in condizioni di incertezza), gli individui calcolano i costi e i benefici delle loro azioni all'interno di un contesto istituzionale, che è il risultato di rapporti di potere. Costi, benefici, interessi, potere hanno un significato culturale, che è orientato sia dalle tradizioni, sia dagli individui, sia dai movimenti collettivi, sia dalle strutture istituzionali" (pp. 36-37). Da una premessa così chiara ed inequivoca 137


deriva tra l'altro, che le istituzioni vanno considerate come variabili indipendenti con compiti complessi di mediazione sociale e di dettatura delle regole e che sempre le istituzioni, nate per contrastare i'uso della forza e della frode, possono diventare esse stesse un problema per l'ordine e per la protezione delle libertà. "Il marasma istituzionale in Italia - scrive Sidoti (p. 233) - viene da lontano e per questo è ben più ampio e profondo che in ogni altro Paese occidentale". Uno dei più recenti episodi del perdurante ritardo della cultura istituzionale è il Sessantotto che, con la sua carica utopica e generosa, è stato anche un grande contenitore di buoni sentimenti (ad iniziare dalla sete di verità ed onestà), ma tuttavia ha avuto conseguenze caratterizzate da un accentuato anti-istituzionalismo. Le stesse conseguenze, in fin dei conti, sviluppatesi e radicatesi in precedenza a causa delle egemonie dell'internazionalismo comunista e dell'ecumenismo cristiano. Tutto ciò ha contribuito a minare la cultura della moralità collettiva e dell'interesse pubblico, affievolendo la forza imperativa delle istituzioni. L'approccio al tema della criminalità avviene, secondo Sidoti, partendo dal presupposto che la povertà è un canale privilegiato verso la volontà di delinquere. Inoltre, la povertà non è considerata soltanto un fatto esclusivamente economico, ma anche una complicazione del processo di socializzazione, un fattore di emarginazione di natura ereditaria e cumulativa. La devianza è, pure, favorita e caratterizzata da altri due diversi elementi: 1) tende ad aumentare quando sono molti i benefici derivanti dalle azioni delittuose; 2) tende ad aumentare quando sono pochi i costi 138

dell'azione delittuosa. In definitiva, come appare chiaro ormai da numerosi atti giudiziari, la criminalità effettua un calcolo costi-benefici dei suoi progetti e trae le dovute conseguenze sull'opportunità di conformarsi nei comportamenti alle regole istituzionali, sull'utilitarismo delle azioni da mettere in atto e sul ritiro economico delle stesse. In questo modo si costituisce il binomio dialettico "istituzioni e criminalità". Da queste premesse prende avvio un accurato esame della questione criminale in Italia secondo tre linee direttrici: l'analisi comparata con la Francia, la Russia, il continente asiatico e, in particolar modo, il Giappone; gli atti giudiziari e le relazioni dei procuratori generali; i contesti sociali, politici, economici e giuridici. L'analisi risulta ampia ed articolata fino a registrare diacronicamente, ad esempio, la prolungata insofferenza e il disconoscimento di grandi drammi collettivi (il terrorismo, la mafia ... ) per arrivare alla maggiore consapevolezza dei cittadini. Il terrorismo, la delinquenza comune e le mafie sono analizzate in modo aggiornato e con la attenzione di chi cerca di svelare i nodi strutturali che hanno determinato ed alimentato i fenomeni. La criminalità organizzata, su cui Sidoti si sofferma a lungo, è considerata sotto molteplici aspetti: l'iniziale legame con il latifondo, la scelta politica anticomunista, il misconoscimento delle autorità (documentato con testuali riscontri tratti dalle relazioni, degli anni Cinquanta e Sessanta, dei procuratori generali), lo scarso senso civico, i proventi della speculazione edilizia fino a giungere alle nuove mafie dei grandi affari sulla droga e sulle attività finanziarie. In proposito, si deve notare che il cospicuo


ritardo dell'azione istituzionale non è stato colmato, né si può ritenere di aver sviluppato il massimo dell'impegno globalmente possibile sul piano legislativo e su quello operativo. Con tutta probabilità, si è raggiunto un "punto di non ritorno" nell'azione di contrasto, ma è convinzione ragionevole di dover ancora consolidare, perfezionare ed incrementare i risultati conseguiti. L'analisi comparata del fenomeno mafioso evidenzia che in Francia, dove i presupposti apparivano simili a quelli italiani nel secondo dopoguerra, vi fu ad un certo momento un forte ridimensionamento dell'azione criminale e che in Giappone la yakusa ha trovato due grandi ostacoli nel senso comunitario della vita collettiva e nel sentito spirito di collaborazione dei cittadini con la polizia. Non così, invece, nella Russia degli ultimi anni, dove l'assenza dello Stato e i fallimenti rivoluzionari hanno determinato un impressionante vuoto di potere colmato, in buona parte, dalla mafia locale. Proprio questi ultimi aspetti aiutano a comprendere quanto umana ed effimera possa essere la condizione della criminalità - seguendo anche l'insegnamento di Giovanni Falcone - e che, ad esempio, alla domanda posta ossessivamente negli anni scorsi, sulla data della sconfitta definitiva della mafia ciascuno di noi potrà, uti cives e uti singuli, rispondere. ALESSANDRA VERONELLI, Ijmnanziamenti di progetto (aspetti societari e contrattuali), Giuffrè Editore, Milano 1996.

La finanza di progetto (o projectJinancin,) rappresenta uno degli strumento più innovativi nei mercati avanzati. Particolarmente interessante, specialmente in Italia, è il potenziale di sviluppo nel settore delle opere infrastrutturali e servizi pubblici, dove il fabbisogno di investimento è sistematicamente superiore alle disponibilità dei bilanci pubblici. Il testo di Alessandra Veronelli, recentemente pubblicato dalla Giuffrè Editore nella collana Strumento, si distingue dalle pubblicazioni italiane sul tema per la particolare attenzione prestata ai problemi del projectfinancing nei Paesi di civil law, per la ricchezza di riferimenti e confronti con le esperienze dei Paesi dei common law dove il project financing nasce e originariamente si sviluppa. Partendo dall'analisi dei finanziamento di progetto nell'esperienza anglosassone, l'Autrice passa ad identificare i caratteri e le problematiche del projectfinancing nella realtà italiana, affrontando gli aspetti societari, i profili contrattuali e, in quest'ultimo ambito, la tematica relativa alla concessione di credito e responsabilità della banca manager e la funzione delle garanzie nei finanziamenti di progetto. Di interesse la postilla finale a commento del documento dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato relativo all"Indagine conoscitiva nel settore dell'Alta Velocità" per le riflessioni generali che l'Autrice compie su un'applicazione concreta di projectfinancing in Italia.

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questo ìstìtuzìunì La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi, dunque, è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. Il taccuino, con il primo numero del 1996 si ha un nuovo utilizzo del taccuino: non più contenitore di rubriche, ma spazio da dedicare a temi di attualità. —I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'dstituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Le rubriche, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni, fondazioni e centri studi, e le recensioni di testi che trattano temi di nostro interesse. Gli opuscoli, è stato pubblicato il 30 numero degli opuscoli di Queste Istituzioni. La nuova serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del 1° numero con il dossier «Cultura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei, per uso professionale o didattico, (è il caso del 30 opuscolo dedicato a "L'informatica delle pubbliche amministrazioni"); presentare materiali complementari alla rivista (come nel 2° opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").


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La collana Maggioli - Queste Istituzioni Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Slof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit. In corso di pubblicazione: Advisory Commission on Intergovernmental Relations La riorganizzazione delle economie pubbliche locali


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