queste istituzioni il
interventi e inchieste
Come governare le Partecipazioni Statali
i Per un progetto alternativo: ana- In queste pagine non si vuole offrire l'ennesima denuncia dell'incapacità di gover lisi e proposte di Paolo Leon
16 Salvataggio, fallimento, occupa-
zione (note sull'analisi di Leon) di Sergio Ristuccia
nare le imprese pubbliche (più propriamente le aziende a partecipazione statale) che il sistema italiano ha manifestato in questi anni. Di tali denunce sono ormai piene le biblioteche: ciò non significa che non sia lecito continuare a denunciare, bensì che è giunto il momento di accompagnare le denunce con analisi più approfondite del problema, anche allo scopo di proporre misure per ricondurre questo formidabile aggregato produttivo entro l'ambito di decisione proprio del Governo (in senso lato). Non mi porrò problemi istituzionali come tali, ma condurrò una breve indagine di carattere economico o, meglio, logico-economico. Non è nemmeno mia intenzione rivedere il lavoro del « Comitato tecnico consultivo sulle aree di perdita'> dell'IRI, o quello dei rapporti annuali del Ministero per le PP.SS., o quello della Commissione Chiarelli. Assumo tutto ciò per noto. Questo studio si divide in due parti. Una prima esamina le caratteristiche del governo delle PP.SS. allo scopo di astrar-
ne il « modello di equilibrio" (o di « squilibrio ») attuale; è una tappa necessaria, anche per fare giustizia di ogni posizione volontaristica, pregiudizialmente a favore o avversa all'intervento pubblico produttivo nell'economia. Una seconda parte esaminerà uno schema possibile di ristrutturazione del settore- -per alterare il « modello>' attuale così da tener fede agli obiettivi politici da sempre indicati per le PP.SS. Per quanto « provocatorio' per il modo in cui le proposizioni verranno avanzate, questo testo non cerca di delineare circostanze o avanzare proposte irrealistiche o paradossali dal punto di vista tecnico. È invece possibile che quanto si verrà leggendo, sia considerato irrealistico dal punto di vista politico, nelle presenti circostanze. Chi scrive, però, si è dato un'ipotesi politica: quella della partecipazione al governo dell'intera sinistra italiana. Nelle conclusioni ho comunque cercato di individuare quali elementi, dell'attuale settore a PP.SS., non sembrano necessari quando sono visti in rapporto ad una struttura completamente alternativa.
ANALISI
1. La prima domanda cui occorre rispondere è quali siano stati negli anni recenti (almeno a partire dal 1964) gli obiettivi effettivamente perseguiti dal complesso delle aziende a PP.SS. Gli obiettivi solitamente' attribuiti (1) alle PP.SS. sono, con maggiore o minore approssimazione, i seguenti:
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a - supplenza alla mancata iniziativa privata sia dal punto di vista settoriale, sia da quello territoriale;' b - andamento anticiclico degli investimenti delle PP.SS. (e simile andamento della produzione e dell'occupazione); c - azione antimonopolistica, o producendo in concorrenza con i (pochi) privati o sostituendo un monopolio privato con un monopolio pubblico. 2. L'obiettivo sub a) si compone di due azioni distinte - settoriali e territoriali. Quella settoriale, successivamente all'entrata in vigore del Mercato Comu-
(1) Più dalla pubblicistica e dalla propaganda, che dalla normativa. Questa raramente assegna obiettivi alle imprese a PP.SS. Piuttosto assegna vincoli' (la « riserva» per il Mezzogiorno, ad es.).
queste Isfituzioflì dicembre 1976- gennaio 1977
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Arti Grafiche Città di Castello.
ne e, comunque, in presenza di una politica economica almeno formalmente libero-scambista, non avrebbe ragione di porsi. Se, ad esempio, « mancasse » una qualche parte dell'industria nel nostro sistema economico, non perciò le PP.SS. sarebbero legittimate a costituirla. Soltanto in un ambito di politica economica protezionistica si giustificherebbe la presenza dello Stato imprenditore dal punto di vista settoriale. Altro problema è quello di una mancata espansione delle PP.SS. ad alcuni settori che rispondessero ad altri obiettivi delle stesse PP. SS.: questo caso va semmai esaminato sotto gli altri obiettivi, non sotto quello settoriale. Per la verità, in tal modo si arriva ad escludere l'intervento settoriale troppo cavallerescamente. Personalmente resto convinto che il significato profondo di un settore a PP.SS. - come si vedrà più avanti - è proprio nel suo essere parte di una politica protezionistiCa; e in ogni caso, quale che sia la dedizione di un sistema economico al libero scambio, si tratterà sempre di grado, non di sostanza: qualsiasi sistema potrà essere giudicato possedere un grado maggiore o minore di protezionismo. Si può dire ancora di più: tanto più libero-scambista è un sistema economico, caratterizzato allo stesso tempo dalla necessità di non squilibrare troppo spesso e troppo a lungo la distribuzione del reddito (o l'equilibrio tra le classi), tanto maggiore sarà il settore (protezionistico) a PP.SS. Da ciò non deriva, però, che obiettivo delle PP.SS. è quello mercantilistico di riempire dei buchi settoriali. 3. L'altra azione è quella territoriale. In questo caso, l'impresa pubblica ha sicuramente operato meglio di quella privata, almeno per la quantità relativa di investimenti effettuati nell'area della Cassa per il Mezzogiorno. Tuttavia, è difficile riconoscere che le PP.SS. abbiano supplito alla carenza di iniziativa privata. L'azione meridionalista delle PP.SS. ha un carattere diverso: sono state localizzate al Sud tutte quelle nuove attività che i diversi gruppi e aziende avrebbero dovuto compiere comunque (c'è forse l'eccezione dell'Alfa Sud). Non vi è sta-
ta, invece, una espansione delle PP.SS. che avesse come obiettivo quello di avviare un processo di industrializzazione nel Sud. Non si tratta di una nuance, ma di una differenza capitale: dagli investimenti motivati dalla semplice necessità aziendale o di gruppo, lo sviluppo industriale del Sud diventa un risultato casuale, non necessario. Quello meridionalistico non ha, dunque, la caratteristica di un obiettivo nell'operare delle PP.SS.; se mai ha la natura di un vincolo imposto dall'esterno rispetto ad obiettivi di altra natura. Non è poi da dimenticare che anche il carattere di vincolo che riconosciamo alle decisioni di localizzare al Sud i nuovi impianti (e, ricordiamolo, non i nuovi investimenti) delle PP.SS. è reso poco stringente dalla applicabilità degli incentivi finanziari anche alle aziende a PP.SS.; si può facilmente arguire, infatti, che almeno in parte le decisioni di localizzare impianti al Sud sono state incoraggiate dal più facile ricorso al sostegno finanziario e al più basso costo del capitale. Opportunità finanziaria, quindi, e non soltanto vincolo. 4. L'obiettivo sub b) per ciò che concer ne gli investimenti non è confortato dai risultati statistici se non in casi sporadici. Anche qui vale ciò che si è detto a proposito dell'obiettivo meridionalista: l'azione delle PP.SS. non è rivolta specificamente a contrastare la congiuntura. Se talvolta essa l'attenua, ciò è risultato casuale o al massimo una forma di vincolo rispetto ad altri obiettivi. In questo caso, peraltro, all'azione anticongiun. turale osta il c.d. principio di economicità, ovvero quello dell'equilibrio del bilancio (del massimo saggio del profitto, o del minimo costo: nessuno ha mai precisato la forma specifica del concetto di economicità). Si potrebbe, è vero, immaginare che l'obiettivo delle PP.SS. sia appunto quello di attenuare l'avversa congiuntura, vincolando tale azione alla minima perdita possibile. Ma che l'obiettivo effettivo delle PP.SS. non sia nemrfieno questo lo dimostra il fatto che nessun bilancio degli enti di gestione o delle aziende è mai condotto in senso congiunturale, nessuna politica specifica ha
contenuto congiunturale, nessuna analisi di convenienza è condotta sulla base di parametri che riconoscono alla correzione della congiuntura un valore, un beneficio di qualsiasi genere. Ancor più decisiva è l'osservazione che la struttura delle PP.SS. dovrebbe essere molto flessibile e variabile nel tempo, se le PP.SS. dovessero preoccuparsi, come obiettivo della propria azione, della correzione della congiuntura. Se questa, ad esempio, fosse determinata da problemi di bilancia dei pagamenti, le PP.SS. dovrebbero essere in grado di concentrare la propria azione sui settori che risparmiano importazioni o che sviluppano esportazioni (sulla base di calcoli di «sostituzione effettiva » e di «promozione effettiva » tenendo cioè conto degli effetti di tali preferenze su tutta la matrice interindustriale dell'economia) (2), allargando o restringendo i propri confini e programmando - appunto - i propri investimenti. Di tutto ciò non vi è traccia non soltanto nei dati statistici, ma nemmeno nelle dichiarazioni, formulazioni verbali e giustificazioni pubbliche da parte delle PP. SS. o del competente Ministero. 5. È vero che i risultati in termini di occupazione del settore a PP.SS. sono migliori di quelli dell'industria nel suo complesso, per tutto il periodo che va dal 1965 al 1974 (un risultato che però dipende anche dalle acquisizioni di aziende private fatte dalle PP.SS.), ma non per questo può dirsi che l'obiettivo delle PP.SS. è quello della piena occupazione. Questo obiettivo, come gli altri, avrebbe dovuto informare di sé tutta la politica delle aziende, e gli investimenti - per tipo, qualità e localizzazione - avrebbero dovuto essere stati pensati in relazione a quell'obiettivo. Di ciò non vi è traccia - di nuovo - né nelle procedure di scelta degli investimenti, né nelle dichiarazioni o pubblicazioni ufficiali. Si può dire, invece, che molta parte del comportamento delle imprese a PP.SS. per ciò che concerne l'occupazione può spiegarsi se lo
riferiamo all'obiettivo della salvaguardia dell'occupazione, cioè a qualcosa che ha a che vedere piuttosto con la mobilità (o l'immobilità) della forza lavoro che con il volume occupazionale. È difficile poter dire se questo sia l'obiettivo centrale (occorrerebbero molte analisi per provare ciò), ma è possibile dire che questo è cer tamente uno degli obiettivi delle PP.SS. È significativo che tale obiettivo non trovi alcuna legittimità nelle politiche esplicite del Governo, delle forze politiche e dello stesso management delle PP.SS. Si tratta, è evidente, di un obiettivo informale del sistema. L'obiettivo sub c) non è nemmeno più invocato come una giustificazione dell'esistenza e dello sviluppo delle PP.SS.; di azione antimonopolistica non c'è traccia nei dati; forse l'unica eccezione può essere quella dell'Alfa Sud, che nasce chiaramente in contrasto con gli interessi del monopolio automobilistico italiano. Ma il contrasto non sembra essere il frutto di una azione cosciente per ridurre il grado di monopolio sul mercato automobilistico. Gli ultimi episodi di incremento dei prezzi su questo mercato (in proporzione alla svalutazione della lira) applicati anche dall'Alfa (Sud e Nord) mi sembrano una chiara indicazione di comportamento collusivo, non antimonopolistico. Forse non si può accusare tutto il settore a PP.SS. di price fixing, ma è certo che se in Italia vigesse una legislazione antitrust simile a quella americana, quasi tutte le aziende pubbliche italiane sarebbero riconosciute colpevoli. Del resto, la stessa regola dell'economicità rende difficile l'azione antimonopolistica, a meno che essa fosse vista come un vincolo. Così non è, e su questo obiettivo non può non calare il silenzio. Si può dire con maggiore sicurezza che esiste un obiettivo generale che comanda l'azione - o meglio che giustifica l'esistenza - delle PP.SS., ed è molto semplicemente il sostegno alla doman-
(2) R noto, infatti, che un'azione immediatamente - poniamo - rispariniatrice di importazioni può non esserlo per l'economia nel suo complesso, se i settori che forniscono beni e servizi per realizzare quella azione hanno una propensione ad importare molto grande.
5 da globale che il settore nel complesso, indipendentemente dalla sua maggiore o minore economicità intrinseca, fornisce. Tale obiettivo, del tutto informale, è così generale che non è in grado di determinare alcun comportamento particolare, se non appunto quello dell'autoconservazione del settore a PP.SS. o della sua espansione, se la propensione ad accrescere il livello di attività da parte dell'industria privata è bassa. In questo senso c'è supplenza delle PP.SS. rispetto ai privati; ma una supplenza non diversa da quella che potrebbe essere esercitata attraverso mezzi diversi dalla PP.SS. (attraverso imprese nazionalizzate, detassazioni, opere pubbliche, ecc.). Questo obiettivo si specifica, tuttavia, in aspetti più particolari e interpretabili, quando il sostegno alla domanda globale avviene in condizioni di scarsa redditività del settore a PP.SS. (qui occorrerebbe distinguere tra aziende industriali e aziende produttrici di servizi, e riferire quanto si dice soltanto alle prime). In queste condizioni, infatti, le PP.SS. diventano una forma di protezione non tariffaria offerta a tutta -l'economia italiana, e più in particolare all'industria privata. L'obiettivo, sempre informale, delle PP.SS. diventa dunque, per sua natura, simile a quello settoriale indicato sub a), nel senso che l'azione delle PP.SS. proprio nella misura in cui sono passive, o più passive della media dell'industria italiana - serve a fornire protezione e sussidio, a dirigere l'investimento verso i settori protetti, a far crescere tali settori isolandoli - sia pure parzialmente - dalla scala di prezzi e costi vigenti internazionalmente. Potrà sembrare un paradosso, ma la FIAT gode di una protezione rappresentata da una quota del passivo dell'intero settore industriale pubblico. 8. Questo obiettivo è, però, informale: non nasce da una precisa coscienza o direttiva politica, e la protezione che esso
garantisce ha effetti del tutto casuali. Non siamo in presenza né di politica industriale, né di politica protezionistica, né di politica di sostegno congiunturale. Sembra piuttosto di essere in presenza di una formazione che più che essere, risulta. Più che da una volontà specifica, il settore delle PP.SS. sembra vivere e crescere dall'incontro di volontà che hanno come scopo tutt'altro: quella del sistema politico, che tende ad utilizzare l'impresa pubblica come strumento per la salvaguardia localistica dell'occupazione (per lo meno, questo è l'unico indirizzo politico specifico che la dirigenza politica è stata in grado di impartire alle imprese a PP.SS. durante l'ultimo decennio) (3), e quella della classe imprenditoriale che, pur in un arco di tempo che ha visto posizioni diverse, ha favorito la continuata presenza delle PP.SS. sia come settore rifugio (cui accollare le proprie imprese decotte) sia come settore fornitore di domanda, sodidsfatta dal settore privato, sia come settore sul quale maggiormente poteva dirigersi la necessità politicistica e clientelare dei partiti moderati. 9. Da questa analisi, certamente troppo rapida, è possibile estrarre una indicazione rilevante. Il Governo non dirige né controlla le aziende a PP.SS., se non assicurandone l'esistenza ed imponendo loro il vincolo localistico della salvaguardia dell'occupazione. Ne deriva che le aziende stesse sono state (e sono) in grado di impedire che il Governo le diriga e le controlli, preferendo che il Governo eserciti la propria azione piuttosto nel senso della salvaguardia dei posti di lavoro, e sacrifichi a questo obiettivo qualsiasi altra funzione esercitabile nei confronti delle PP.SS. Ne deriva anche che le aziende non fanno riferimento nella propria programmazione ad alcun indicatore di efficienza: non al mercato dei prodotti, rispetto al quale sono protette dall'obiettivo governativo di salvaguardare l'esistenza delle aziende, che permette loro l'accumulare
(3) È certamente riduttivo considerare il rapporto tra dirigenza politica e PP.SS. come fondato soltanto sulla salvaguardia dell'occupazione. Ma non mi pare che gli interpreti siano stati in grado, finora, di individuare rapporti chiari e permanenti, diversi da queato.
6 perdite di gestione; non al mercato finanziario, anche rispetto al quale sono protette dalla garanzia offerta dall'obiettivo della salvaguardia, che permette loro un ricorso teoricamente infinito al sistema bancario (non diversamente da quanto accade per gli enti locali). È proprio da questo rapporto con il Governo che deriva l'impossibilità attuale di definire le imprese a PP.SS. come pubbliche o come private. 10. Una analisi del fenomeno italiano delle PP.SS. rivela anche come il Governo sia cosciente sia dello status particolare riservato a tali aziende, alla loro natura promiscua, sia del loro essere allo stesso tempo elemento di politica economica generale - come strumento di domanda globale e di protezione non tariff aria per il settore privato - ed elemento di politica economica particolaristica - come strumento per la salvaguardia territoriale dell'occupazione. Dimostrano tale coscienza non tanto la mancanza di una politica industriale che faccia perno sulle PP.SS - deprecabile, ma non l'unico modo di fare politica industriale - quanto il fatto che imprese a PP.SS. e imprese private sono poste sullo stesso piano di fronte ai provvedimenti di politica economica generale. È tipico il caso del credito agevolato. Questo si dovrebbe, in qualche modo, sommare alle peraltro inesistenti direttive di politica economica dello Stato alle PP.SS.; è, invece, straordinario come tale somma non sia mai stata fatta o - meglio - come la necessità di tale somma non sia mai nemmeno venuta in testa agli organi di Governo (Ministero delle PP.SS., ad esempio). Del resto, non c'è da stupirsi eccessivamente: non mi pare che alcuno l'abbia notato, ma se si fosse imposto alle PP.SS. uno o più obiettivi diversi dalla semplice sussistenza e dalla semplice salvaguardia localistica dei posti di lavoro, sia la sussistenza sia la salvaguardia sarebbero state perennemente in pericolo, o comunque non avrebbero potuto essere assicurate ad ogni singola parte del settore delle PP.SS. Perciò è possibile dire che il settore delle PP.SS. è, sì, un risultato più che uno scopo,
ma che tale risultato è frutto di consapevolezza, non di non cale. A parziale scusante dei dirigenti governativi, c'è da dire che anche le forze politiche della sinistra non hanno osato gran che su questo tema. Altrimenti, molto recentemente, avrebbero preteso che lo strumento principale della riconversione industriale fossero le PP.SS., invece del credito agevolato accompagnato dal rifinanziamento del settore a PP.SS. tel quel.
Anche questa inerzia della sinistra va interpretata. A me sembra che essa, co me il comportamento governativo nei confronti delle PP.SS., possa farsi risalire alla natura di sistema - in senso proprio - che hanno via via assunto le PP.SS. nell'ultimo decennio. Le PP.SS. sono, infatti, governate da svariate autorità: - il mercato, che fissa i prezzi di vendita; - le forze politiche, che impongono la salvaguardia dell'occupazione; - l'industria privata, che ha bisogno di un acquirente per le proprie aziende in perdita, della domanda di beni e servizi espressa dalle PP.SS., della protezione non tariffaria rappresentata dai deficit delle stesse aziende a PP.SS.; - il sistema bancario, per il quale le PP.SS., con la loro pressoché infinita capacità di indebitamento, rappresentano una fonte di rendita (alti saggi, nessun rischio); la burocrazia (l'oligarchia) interna, che opera per la conservazione del sistema. D'altra parte e contemporaneamente, le PP.SS. governano a loro volta queste stesse autorità: - il mercato che, come si è visto, le PP.SS sono in grado di corto-circuitare attraverso il ricorso al credito e l'espansione del disavanzo; - le forze politiche, dalle quali pretendono credito agevolato e capitale di rischio (fondi di dotazione); - l'industria privata, dalla quale esigono l'eutanasia finanziaria (in relazione, appuntcz ai particolari legami tra
PP.SS. e banche) e patti di non concorrenza; - il sistema bancario, dal quale non possono essere discriminate perché debitori troppo massicci; - la stessa oligarchia interna, ai fini della propria conservazione.
fitto, investimenti e credito bancario si legano in rapporto molto stretto, sostanzialmente indipendente dalle classiche regole del gioco bancario. Ciò fornisce alle imprese a PP.SS. un potere nuovo e maggiore nei confronti del sistema creditizio (in larga misura interno alle PP.SS.). Questi stessi eventi hanno un effetto sul rapporto tra Non pretendo, - con questa descrizio- PP. SS. e classe dirigente politica (che dine affrettata e semplificata, di indicare stribuisce il credito, e le agevolazioni rel'esistenza di un sistema sociale perfetlative): quest'ultima può, più facilmente, tamente autonomo, e caratterizzato da fare della prima un proprio strumento. propria volontà: ben altre ricerche sa- Non è, però, l'avvio di un processo di conrebbero necessarie. Mi propongo, più sem- trollo effettivo sulle PP.SS. Al contrario, plicemente, di far vedere come un tale si rafforza la natura clientelare dello strusistema è altamente plausibile, e la sua mento PP.SS. (la difesa, appunto, dell'ocesistenza ci permetterebbe di spiegare cupazione). facilmente la scarsa necessità, per le Alla base di questo processo, c'è forse un PPSS., di istituzioni realmente direttri- cambiamento del rapporto tra impresa prici, il ruolo inesistente del Ministero del- vata (grande impresa) e Stato. In altre le PP.SS., la perenne mancanza di intesedi ho avanzato l'ipotesi di una creresse del Governo in quanto tale rispetscente anarchia della produzione in Itato al sistema delle PP.SS. Si può dire, lia, legata al crescere dell'apertura inter però, che il sistema delle PP.SS. è in nazionale dell'economia. equilibrio instabile rispetto al sistema Se vera, questa ipotesi implica una ridueconomico complessivo o che è stato in zione del vincolo che la grande impresa equilibrio, e ha avuto le caratteristiche impone allo Stato, ed un aumento delpiene di un sistema, soltanto fino al 1973. l'autonomia delle PP.SS. dallo Stato. A Lo rivela il rapporto con l'impresa privapartire dal 1964, allora, assisteremmo alta, più che quello con qualsiasi altra del- la caduta di potere del resto dell'econole forze descritte sopra: la necessità del- mia sulle PP.SS. e alla formazione di un l'eutanasia finanziaria che la presenza cre- vero e proprio sistema delle PP.SS. Doscente delle PP.SS. sul mercato creditizio po il 1973 (ma forse anche a partire dalimpone al settore privato, costringe que- la crisi del 1971), il sistema si scontra sto a diventare fautore obiettivo di un &on vincoli che si irrigidiscono di nuoprocesso di svalutazione-inflazione tenden- t'o. Sia lo Stato sia l'impresa privata te ad allargarne i margini di profitto. Ciò, debbono fare i conti con una riduzione come è noto, crea una situazione di con- relativa delle risorse: e le PP.SS., come flitto tra settore privato e sindacato (per sistema, entrano in crisi. il blocco della scala mobile). Non voglio Questo modo di vedere le PP.SS. e dire che la causa del conflitto risieda sol- il loro rapporto con il Governo, può antanto nel modo di operare delle PP.SS., he aiutarci a criticare alcune recenti ma ritengo che questo abbia una profonproposizioni in questo campo. In primo da responsabilità in quel conflitto. È, in luogo, il problema centrale non può esogni caso, dalla situazione di equilibrio sere quello delle nomine ai ruoli direttiinstabile dei rapporti tra sistema PP.SS. vi. Se esiste un sistema delle PP.SS., che e sistema economico che siamo oggi spin- pur essendo in crisi ha rapporti come tati a cercare di comprendere cosa sia il le con i sistemi esterni, una dirigenza primo sistema e come occorra modifirinnovata non potrebbe non ricadere nelcarlo. le distorsioni, negli sprechi, nelle palesi Non è mia intenzione fare la sto- assurdità denunciate con tanta chiarezria delle PP.SS. Dopo la crisi del 1964, la za in questi ultimi tempi. Ciò non assolfine di ogni potenzialità del mercato dei ve affatto gli attuali amministratori ancapitali e la riduzione dei margini di pro- che perché, quale che sia la struttu-
ra ed il ruolo delle PP.SS., è sempre responsabilità degli individui comprenderli e cercare di dominarli), né considera irrimediabili gli errori, le distorsioni e gli sprechi. Ma tende a mettere in luce come non sia in alcun modo sufficiente la definizione di procedure di nomina in assunto più corrette che nel passato. La stessa pratica della lottizzazione tra partiti va vista soprattutto nella sua incapacità di cambiare lo stato del sistema, non in una sua pretesa inefficacia morale. Se le PP.SS. sono un sistema, e un sistema economicamente e finanziariamente molto rilevante, la lottizzazione non funziona come metodo di controllo, nemmeno se i rappresentanti dei partiti sono altamente qualificati e al di sopra di ogni sospetto. Abbiamo già notato, dei resto, che le forze di sinistra non sembrano essersi accorte della natura di sistema delle PP.SS. In secondo luogo, per cambiare gli obiettivi delle PP.SS., non saranno sufficienti nuove pratiche contabili. Se le PP. SS. sono un sistema, le nuove pratiche contabili - quali che esse siano - da un lato verranno piegate alle necessità di sopravvivenza del sistema, dall'altro lato serviranno a dimostrare inoppugnabilmente la necessità di sopravvivenza dei sistema (e sprechi, errori e distorsioni appariranno con altro nome: dagli oneri impropri a tutto ciò che la fantasia della necessità suggerirà al momento). Di nuovo, ciò non vuoi dire che una nuova contabilità non sia necessaria: si vuole sottolineare invece come innovazioni di dettaglio vengono normalmente fagocitate da sistemi che, come quello delle PP.SS., sono elementi rilevanti per lo stato del sistema economico e politico complessivo. Terzo. Una distinzione da operare sulle singole aziende a PP.SS. in termini di monosettorialità o di polisettorialità stabilite ex ante, non ha alcun effetto sullo
stato del sistema. La particolarità del sistema - essere soggetto ed oggetto di governo nei confronti delle stesse forze non risiede nella polisettorialità (meglio dire confusione) attuale: quelle forze condizionerebbero il sistema delle PP.SS. e ne sarebbero condizionate quale che fosse la divisione settoriale. Lo stesso può dirsi per una maggiore pluralità di enti di gestione, o per la concentrazione in un unico ente. Quest'ultima proposta ha il merito di concentrare molto la responsabilità di conduzione del sistema, e perciò - almeno apparentemente - di rendere più efficiente la sua conduzione. Ma si tratta di una ben nota fallacia illuministica. Una maggiore concentrazione implica anche un maggior potere, e addirittura una maggior forza e stabilità del sistema delle PP.SS. in quanto tale. Quarto. Il controllo parlamentare non sembra essere affatto risolutivo dei problemi posti dall'esistenza di un sistema, a meno che non si pensi ad una tale ornogeneità parlamentare da farne un ersatz del Governo. In parte anche il Parlamento ha esigenze localistiche - una caratteristica di tutti i sistemi parlamentari, e nemmeno da disprezzare moralisticamente per se stessa - che possono rafforzare l'obiettività della salvaguardia dei posti di lavoro, che tanto contribuisce a distorcere il rapporto tra PP.SS. e forze politiche. Soprattutto, però, non si vede come il controllo parlamentare possa essere altro che un evento a posteriori; un ruolo di programmazione della politica economica complessiva affidato al Parlamento non è seriamente proponibile. Le decisioni tenderanno - così come è stato nel passato - a presentarsi ogni volta in forma ultimativa, senza alternative, sempre basate su un auto da fe riguardante la sopravvivenza o meno dell'intero sistema (4). Ancora, non voglio dire che un serio controllo parlamentare non debba essere parte di una strumentazione volta alla riforma delle PP.SS., ma - e questo
(4) Per avere una prova della natura di sistema delle PP.SS. basta osservare l'assenza di reazione da parte dell'IRI, dell'ENI e dell'EFIM a proposito della vicenda EGAM, pur essendo gli altri enti di gestione interessati al futuro smembramento dell'EGAM e al finanziamento che lo accompagnerà.
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9 mi preme mettere in luce - non c'è da illudersi che la costruzione di organismi esterni al sistema sia in grado di alterame lo stato. A questo proposito, c'è forse da ricordare che la discussione si svolge nell'ambito di una ipotesi politica determinata: la partecipazione non esclusiva dellà sinistra al Governo. Diverso sarebbe il ragionamento nell'ipotesi di un Governo delle sinistre: il controllo parlamentare, in tal caso, non sarebbe sulle PP.SS. ma sul Governo. Questo dimostra, a mio parere, la caducità delle proposte di controllo parlamentare. Quinto. Mi sembra del tutto irrilevante il Ministero delle PP.SS., per ragioni molto più forti di quelle avanzate ora a proposito del controllo parlamentare. Già l'esistenza del Ministero (almeno a partire dal 1964) fornisce una prova ulteriore dell'esistenza di un sistema PP.SS.; è facile osservare infatti come un Ministero specializzato del genere si sia trasformato in un'esigenza del sistema, piuttosto che diventare esigenza di governo sul sistema. La abolizione del Ministero, d'altra parte, può al massimo indebolire le relazioni pubbliche del sistema - peraltro ricostruibili anche in altri modi non certo il sistema stesso. Sono sicuro che su ciascuno dei temi ora toccati si può andare più in profondo e con minore schematicità. Però mi è sembrato utile usare come test il concetto di sistema delle PP.SS., perché esso rivela bene le parzialità di un approccio riformatore fondato su strutture o eventi esterni al sistema stesso. Il fatto che il sistema sia in crisi non vuoi dire che esso non esista. Peggio: la crisi oscura la natura del sistema, senza indicare alcuno sbocco plausibile. In ciò che segue, il mio sforzo sarà allora concentrato sulla ricerca di elementi interni al sistema, il cambiamento dei quali possa farne cambiare natura e, perciò, obiettivi (o gli obiettivi, e perciò la natura). PROPOSTh
Prima di affrontare il tema delle proposte innovative occorre premettere al-
cune considerazioni sullo stato della politica economica italiana. È banale osservare che, a seconda delle direzioni che questa assume, cambia il significato, il ruolo e quindi il compito e la struttura delle PP.SS. È banale l'osservazione: ma l'interprete resta stordito, quando gli mancano i mezzi per' poter affermare quale sia la futura possibile direzione della politica economica italiana. Anche in questo caso non c'è forse da stupirsi: se una direzione della politica economica ci fosse stata, nel passato (nel senso che i suoi obiettivi fossero stati riconoscibili ed espressi in criteri, non importa quanto precisi, di valutazione delle azioni conseguenti), le PP.SS. non avrebbero potuto trasformarsi in sistema, impervio ad altri obiettivi che a quelli della propria conservazione e della salvaguardia dell'occupazione. Mancata direzione politica e nascita di un sistema delle PP.SS. sono allora, come si usa dire, facce diverse dello stesso fenomeno. Senonché, volendo innovare, ci sarebbe appunto bisogno di conoscere, o di assumere, una linea di politica economica: un compito particolar mente ostico attualmente, quando stiamo proprio assistendo alla difficoltà di tutte le forze politiche di scegliere la linea da perseguire. Esemplificando, se la linea di politica economica fosse effettivamente quella di garantire la piena occupazione, molti dei problemi che abbiamo di fronte non sorgerebbero o sarebbero di facile soluzione (o sorgerebbero soltanto in momenti di congiuntura difficile). Il problema della salvaguardia del posto di lavoro perderebbe ogni caratteristica di drammaticità, anche se non cambierebbero i comportamenti delle parti sociali, e questo aspetto non costituirebbe più né un vincolo né un obiettivo delle PP.SS. In circostanze del genere, il rapporto tra PP.SS. e dirigenza politica non si distorcerebbe (o si distorcerebbe molto meno, come avviene in altri paesi), ed il potere delle PP.SS. in campo politico si ridurrebbe, creando le premesse per una diversa finalizzazione del sistema, o per un suo completo cambiamento di stato.
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10 Non è possibile sostenere che quella della piena occupazione sia la linea di politica economica attualmente prevalente; è anche difficile sostenere che questa sia stata la linea tradizionale della sinistra italiana. Potrebbe dunque sembrare arbitrario fondare una discussione sul sistema delle PP.SS. su una ipotesi del genere. D'altra parte, almeno verbalmente, non vi è forza politica o sociale che neghi di voler perseguire questo obiettivo. Inoltre, nel caso di un governo a partecipazione di sinistra, non si vedono altri obiettivi generali su cui poter impostare la politica economica. Nel fare proposte, adotterò coraggiosamente l'ipotesi - pur conoscendone la debolezza. In questo modo, siamo in grado di indagare il fenomeno delle PP.SS., liberi dalla strozzatura rappresentata dalla tradizionale inoccupazione italiana, e perciò di quel rapporto PP.SS. - dirigenza politica che tanto contribuisce a rendere le PP. SS. il sistema particolare che conosciamo. Possiamo allora entrare nel sistema, per studiarne modi alternativi di funzionamento. L'unico ambito di discussione propositiva sulle PP.SS. che considero lecito è quello del « socialismo decentrato » (per intenderci, il filone aperto da Lange-Lerner negli anni '30 fino alle più recenti riforme ungheresi). Il nostro problema, infatti, non è quello di cercare di strutturare le PP.SS. così che esse rispettino un concetto di astratta razionalità - sia pure in termini di benessere collettivo che si sovrappone, in qualche modo, alla
realtà del sistema delle PP.SS. Un concetto di ottimo sociale, comunque definito, su cui misurare la struttura delle PP. SS. è per sua natura centralistico e soprattutto guarda alla realtà in modo troppo univoco. Con tale concetto si affida al centro (ad un centro) la capacità di scelta, presupponendo che non si pongano vincoli (o interessi o forze) che dalla periferia possano condizionare (se non addirittura modificare) la natura stessa del centro. In altri termini, un principio di astratta razionalità, présupposto, implica l'immediata divisione della realtà in ruoli centrali e periferici, e la sottordinazione dei secondi ai primi. Non è un caso che ogni idea di programmazione, in Italia, si sia sempre fondata sul principio gerarchico: gli indirizzi o il coordinamento o altre forme di attività <(superiore)) sono state sempre considerate l'attività centrale di pianificazione. Né è un caso che la prima norma pianificatrice nel nostro paese. la legge urbanistica del 1942 - rappresenti la realtà in modo, appunto, gerarchico. Successivamente, non si è riusciti a cambiare questo modello (il modello di pianificazione del territorio non è cambiato nemmeno con le Regioni), e non deve stupire se la visione delle PP.SS. resta anch'essa ancorata ad un dibattito che vede come desiderabile il centralismo implicito nelle razionalità e come deprecabile l'autonomia del sistema come si realizza giorno per giorno (direi che anche la Commissione Chiarelli si muove su queste linee)(5).
(5) Sono convinto che, in parte, questo modo di pensare deriva da una distorsione del concetto economico di investimento. Questo è ancora oggi visto come cosa in sé, largamente modificabile senza riferimento alle strutture che lo mettono in opera (le aziende), discreto nel tempo e nelle quantità, sempre bene distinguibile dai costi correnti di produzione, determinato da una autorità centrale all'interno stesso dell'azienda. Le cose, a ben vedere, non stanno così. L'investimento all'interno di una azienda è attività non meno corrente della produzione, e deriva anch'esso dalla fisiologia dell'azienda, dal suo operare quotidiano, piuttosto che da un processo decisionale separato da quello di gestione. È vero che nelle grandi aziende è comune l'adozione di procedure formali di decisione per gli investimenti separate da quelle per la gestione: ma è mia convinzione che anche questo modo di vedere la realtà da parte delle aziende deriva da un loro errore di prospettiva, da una loro scarsa comprensione del vero processo che muove gli investimenti. La mia idea è che quale che sia la procedura formale di decisione degli investimenti le forze interne alle aziende che li determinano non sono rappresentate affatto nei parametri usati in quelle procedure. Questa considerazione vale, a maggior ragione, per l'attività di programmazione in ambito centralistico, che condivide lo stesso errore che si compie in azienda. Il socialismo decentrato non è dunque tanto un tentativo di approssimare una
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11 La discussione sul « socialismo decentrato » ha tutt'altra visione. Per questa, si tratta di fare in modo che le diverse istituzioni (che col modello centralistico chiameremmo periferiche) rispondano, nel loro operare quotidiano, fisiologico, nella loro inevitabilmente continua azione di programmazione, e perciò nei propri meccanismi interni e nell'equilibrio tra le forze che compongono le stesse istituzioni, ad obiettivi generali di politica economica, i quali, a loro volta, sono definiti tenendo conto di quel modo di operare. Usando un linguaggio non rigoroso, mentre nel modello centralistico l'obiettivo di politica economica si sovrappone alle istituzioni (che formano un sistema autonomo rispetto all'obiettivo), nel socialismo decentrato l'obiettivo di politica economica e le istituzioni formano un sistema, e l'una cosa non è autonoma dall'altra. 26. In questo quadro, l'istituzione necessaria per governare le PP.SS. non è soltanto uno (o più) organi « centrali» alle imprese, ma è anche lo stesso modus operandi delle imprese. Più avanti si capirà meglio il significato di questa espressione. Ora vorrei sottolineare come ciò non neghi necessariamente l'esistenza di un organo (o di una funzione)(6) centrale, anche se non sovraordinato. Quest'organo (o funzione) definisce obiettivi per il sistema delle PP.SS., ma non descrivendone le parti, bensì costruendo un equilibrio simultaneo (o di continuo aggiustamento) tra operare delle aziende e realizzazione di obiettivi più generali di quello che deriverebbe dalla somma degli obiettivi delle singole imprese. Un organo, dunque, che agisce al margine, ai confini del sistema delle PP.SS., e al quale è affidato il compito - ma, di nuovo, in modo fisiologico, automatico, non discreto ed imperativo - di correggere le possibili deviazioni sistematiche che potrebbero prevalere qualora ogni impresa a PP.SS. si regolasse anarchicamente. Vorrei chiarire che quest'organo (o fun.
zione) non ha alcuna ragione di essere unitario, né particolarmente centrale: la sua definizione non è infatti un a priori rispetto al sistema di PP.SS. che si vuole costruire. Per spiegarmi meglio, è utile descrivere brevemente la filosofia delle riforme economiche nell'est europeo. In questi paesi pur con molta varietà di mezzi e di interventi, si accentua l'autonomia formale dell'impresa (l'autonomia sostanziale, quella che è responsabile di tante deviazioni tra piano e realtà, è sempre esistita), soprattutto permettendo un maggior grado di autofinanziamento, e regolando la produzione essenzialmente attraverso la manovra del credito a lungo termine (oltre che dell'imposta, ma è campo diverso in cui non mi vorrei addentrare). Le imprese si fanno concorrenza e decidono sulla produzione e sugli investimenti (questi divengono, come si diceva sopra, più fisiologici che discreti, quando l'autonomia dell'impresa è riconosciuta anche formalmente). In questo modo, i prezzi sul mercato dipendono anche dalle decisioni d'impresa, e tali prezzi possono essere considerati dal programmatore centrale come indicatori validi per determinare la politica economica (e del credito). L'organo (o la funzione) centrale di cui si parlava prima è, in questo caso, la funzione finanziaria: quella, cioè, che regola i prestiti a medio lungo termine per realizzare obiettivi determinati di politica economica sulla base di un sistema di prezzi che dipende in buona misura dall'autonomia di comportamento dell'impresa e che, a posteriori, rifletterà sia gli obiettivi di politica economica sia la autonomia d'impresa. Credo sarebbe possibile ragionare in analogia anche per l'Italia, se potessimo assumere che il complesso delle imprese a PPSS. presentasse in partenza conti in nero. In questo caso, ciascuna impresa godrebbe dell'autonomia derivante dall'autofinanziamento. Il finanziamento del-
realtà complessa che il calcolatore del Gosplan centrale non riuscirebbe a cogliere per difett di posizioni di memoria, quanto un modo diverso di concepire gli investimenti, le aziende e quindi le PP.SS. (6) Mi perdoneranno i giuristi per il linguaggio non rigoroso.
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la parte degli investimenti non coperta da mezzi propri proverrebbe da un organo finanziario che distribuirebbe risorse - a medio-lungo termine, o anche nella forma di capitale di rischio - sulla base di indicatori di profittabilità (corretti continuamente in relazione agli obiettivi di politica economica, o anche in base ai possibili vincoli esistenti per il sistema economico generale - come lo equilibrio della bilancia dei pagamenti). L'organo di finanziamento dovrebbe essere rigidamente separato dalle imprese: questa sarebbe la principale garanzia di autoregolazione del sistema delle imprese a PP.SS. A sua volta, tale organo ha diritto ad essere finanziato dal Governo, soltanto se il complesso delle proprie operazioni rispetta indicatori di profittabilità stabiliti dal Governo (7). È interessante notare come in questo modello non sorga la necessità di enti di gestione o di finanziarie, ma l'impresa l'organismo presente sul mercato - sia l'unico elemento costitutivo del sistema a PP.SS. 29. Ciò non significa, naturalmente, che una volta data una struttura per aziende (crié par hazard) questa debba mantenersi. Anzi, è implicito nella logica del modello che le imprese pubbliche possano fallire senza peraltro implicare che il costo del fallimento ricada sulle spalle dei lavoratori delle aziende pubbliche decotte. È facilmente immaginabile, infatti, una procedura di acquisizione di patrimoni delle aziende pubbliche « fallite» da parte di altre aziende pubbliche, senza che tali patrimoni siano appropriati dall'organo finanziatore centrale. L'interesse per tali acquisizioni deve nascere nell'autonomia delle imprese pubbliche acquirenti, e si dovrebbe sostanziare in genere in un basso (o comunque « giusto ») prezzo di acquisto. La perdita dovrebbe ovviamente essere assorbita dall'organo finanziatore.
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In questo modello, le aziende determinano autonomamente i propri organi dirigenti; ciò crea una burocrazia aziendale, piuttosto che di gruppo (come avviene oggi) ed una tensione conflittuale tra burocrazie espresse dalle diverse aziende. Tanto maggiore l'autonomia, tanto maggiore deve restare la conflittualità aziendale: il modello non è facilmente compatibile con la cogestione (che, a ben pensarci, è forma tipica di organismi determinati gerarchicamente: non a caso vengono definiti corporativi). Al contrario, in questo modello si colloca bene un potere di controllo (conflittuale) del sindacato rispetto alla gestione. Il management aziendale avrà così due conflitti organici in cui misurarsi: quello con l'organo finanziatore da un lato, e quello con il sindacato (o il consiglio di fabbrica) dall'altro (è bene ricordare che questo secondo conflitto è assente nei paesi dell'est). All'interno di questo sistema, e se l'economia tende alla piena occupazione, il potere sindacale è limitato dalla possibilità di mobilizzare la forza lavoro da una impresa all'altra: una garanzia perché non si generino collusioni tra azienda e lavoratori, avverse all'organo finanzia- tore. In una economia .mista, e per di più aperta (sia pure attraverso ogni sorta di intermediazioni amministrative) al commercio internazionale, il nuovo sistema delle PP.SS. sarebbe in grado di influenzare in misura limitata il mercato dei prodotti. Vi è in ciò un'altra differenza con i modelli dell'est europeo, tutti rigidamente protezionistici. Le difficoltà che ne possono scaturire per il sistema a PP.SS., peraltro, nascono soprattutto nell'ambito finanziario. L'organo finanziatore è in grdo di correggere (di sovvenzionare) le divergenze tra mercato in generale e condizioni di produzioni all'interno del sistema a PP.SS., per la realizzazione di obiettivi di politica economica, usando appunto
(7) Indicatori di profittabilità per l'organo finanziatore e per il Governo non debbono necessariamente configurarsi come i parametri di una funzione del benessere collettivo. Poiché, come si è visto, i prezzi sono quelli di mercato, gli indicatori di profittabiità possono non essere altro che le preferenze dell'organo finanziatore e del Governo nella loro espressione giornaliera, fisiologica, non discreta e imperativa. Tali preferenze già includono, in qualche modo, l'autonomia delle aziende a PP.SS.
13 criteri di valutazione nella concessione del credito corretti per tener conto delle divergenze: è in questo, anzi, che si sostanzia la capacità di regolazione complessiva dell'organo finanziatore e perciò la possibilità di fare politica economica. Difficoltà sorgono, invece, per il credito a breve, di esercizio. Tale credito è facilmente utilizzabile dalle imprese a PP.SS., dotate dell'autonomia di cui si è detto, per finanziare l'espansione aziendale anziché il semplice fabbisogno di circolante, e rappresenta una alternativa al ricorso all'organo finanziatore. Ciò è tanto più realistico in quanto la banca di credito ordinario può essere invogliata a finanziare a breve, se non corre il xi schio di perdere (come avviene oggi) i propri crediti. 32. Due soluzioni sono possibili: la più semplice, è di rendere rischioso il prestito a breve per le banche, attraverso la già indicata possibilità di fallimento dell'impresa pubblica; - l'altra, più complessa, è di creare un circuito di credito a breve, specifico per le imprese a PP.SS., magari controllato dallo stesso organo finanziatore a medio-lungo termine già ricordato. La seconda soluzione ha un ostacolo strutturale: l'organo finanziatore diviene necessariamente interessato allo svolgersi quotidiano della vita aziendale e dato il volume di credito a breve necessario in qualsiasi sistema industriale (molte volte superiore al volume di credito a medio-lungo termine), tenderebbe a diventare il proprietario dell'azienda finanziata, distruggendo lo schema di checks and balances descritto sopra. La prima soluzione, più semplice e congma con il modello descritto, presenta però una sua difficoltà (anche se meno grave). La profittabilità delle imprese a PP.SS. non è necessariamente quella di mercato, anzi normalmente non sarà quella di mercato (dominato dalle imprese private e dalla concorrenza internazionale), ma una versione corretta di questa. Spesso si tratterebbe di una profittabilità, espressa in lire, minore di quella di mercato (anche se nulla esclude che
possa essere maggiore: è il caso in cui si vogliano penalizzare alcuni investimenti). Poiché il credito a breve verrebbe erogato a saggi di mercato, si crea un aggravio di costo per l'impresa a PP.SS. che rischia di allontanarla ulteriormente (o al di là del voluto) dal mercato. È vero che, come si è detto, ciò può correggersi con sgravi sul costo dei finanziamenti a medio-lungo termine da parte dell'organo finanziatore. Tali sgravi, d'altra parte, dischiano di indurre scelte di investimento da parte delle imprese a PP.SS. non corrispondenti a quelle previste, o addirittura a spingere queste verso un eccesso di esposizione verso il credito a breve. Il problema è reale: non mi sembra tuttavia di grande rilevanza, o tale da non poter essere corretto in altro modo (ad esempio in sede fiscale, o con accordi ad hoc tra Stato e sistema delle imprese a PP.SS.). i
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33. Nella realtà italiana, l'ipotesi di base del ragionamento ora condotto - essere le imprese a PP.SS. in equilibrio economico-finanziario - non regge. Con i conti in rosso, l'efficacia dello strumento finanziario (basato sugli investimenti) nel regolare l'intero settore a PP.SS. si riduce grandemente. La soluzione più semplice, che ricalca il modello sopra tratteggiato, sarebbe quella di permettere il fallimento delle singole imprese, garantendo la rioccupazione in altre imprese a PP.SS. della forza lavoro ora disoccupata. Se, però, tutte le aziende (o la maggioranza di esse) presentano conti in rosso (un rosso strutturale, non meramente temporaneo), tutte (o la maggioranza) potrebbero dover fallire, e l'intero disegno si annullerebbe. È certo possibile immaginare un periodo transitorio di ristrutturazione, durante il quale l'organo finanziatore provvede risorse - sempre in presenza di concorrenza tra le imprese a PP.SS. - in base a programmi di progressivo aumento della profittabilità. Tuttavia, se la condizione deficitaria delle aziende è strutturale, l'organo finanziatore potrà soltanto fondarsi su programmi di minimizzazione delle perdite. Per tutto il periodo transitorio, l'autonomia aziendale fondata sull'autofinanziamento
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14 si dilegua. Non è infatti possibile, ai fini dell'autonomia aziendale, assimilare un determinato margine di profitto ad un determinato volume di riduzione di perdite. E in ogni caso, quando la condizione è generale, sarà sempre difficile per l'organo finanziatore distinguere tra per dite strutturali, perdite congiunturali, perdite dovute a cattivo management aziendale. Peggio ancora, se l'organo dovesse essere condotto a decidere direttamente sul fallimento di ciascuna impresa, finirebbe non per regolare il sistema ai margini, ma per determinarne lo stato in ciascuna sua parte, ricreando un disegno gerarchico e centralistico. 34. In questo modo si è, d'altro canto, estremizzato il ragionamento. La realtà è più varia, e la si può forse schematizzare come segue. Nel sistema a PP.SS. coesistono - in questo momento - imprese in nero e imprese in rosso; di queste ultime una minoranza resterebbe in rosso se la congiuntura economica non fosse negativa. Lo schema iniziale potrebbe allora applicarsi. Se - ad una analisi più approfondita - dovesse riconoscersi che la parte in rosso delle imprese a PP.SS. è così ampia che non sarebbe sufliciente azzerare il valore del patrimonio relativo a queste perché le imprese in nero siano invogliate a farlo proprio (così da garantire la piena occupazione all'interno del settore a PP.SS.), è possibile pensare a qualche rimedio. Uno tra questi è quello di fornire una «dote'> ai lavoratori delle aziende non recuperabili (all'incirca equivalente al loro costo se posti in Cassa Integrazione), che diventa un premio per le imprese che li riassumano. Ciò significa, è chiaro, introdur re nel sistema, almeno durante il periodo transitorio iniziale, una risorsa finanziaria che privilegia il fattore lavoro rispetto al fattore capitale, e fornire una possibilità alle imprese che riassumono lavoratori di avere finanziamenti che altrimenti non avrebbero necessariamente avuto dall'organo finanziatore centrale: se anche vi fosse concorrenza per tale manodopera (e cioè per il premio che essa porterebbe con sé), le imprese che si trovano al margine tra conti in nero e
conti in rosso tenderebbero ad assicurarsi la « dote» al di là di una reale convenienza economica aziendale, e principalmente ai fini dell'equilibrio finanziario aziendale. t un rischio: può essere di proporzioni modeste, se la procedura valesse « una tantum » e il sistema potesse funzionare a regime rapidamente. CoNcLusIoNE
35. Qualcuno può ritenere che anche lo schema descritto può ricadere nelle storture attuali: non vi è dubbio che sia possibile. Altri potranno pensare che si sia sacrificato il potere di programmazione, usando solo lo strumento finanziario e l'autonomia d'impresa: andrebbero invitati a riflettere sul concetto di programmazione e a domandarsi se non implicano un potere programmatorio del tutto irreale in qualsiasi società. Mi rendo conto che quanto ho scritto ha il sapore del falansterio, se visto contro le circostanze politiche italiane, e soprattutto contro le ultime decisioni in tema di PP.SS. (legge sulla riconversione, caso EGAM, caso Montedison). Né vorrei contribuire a creare fumo illuministico. Mi sembra, però, che immaginare un sistema completamente alternativo abbia come minimo il merito di liberare la fantasia istituzionale, e di demistificare alcune concezioni, che mi sembra tendano ad ossificarsi. In sintesi, dal confronto tra lo schema proposto e la realtà istituzionale attuale, scaturiscono le seguenti osservazioni: - non vi è alcuna necessità di immaginare un sistema gerarchicamente ordinato per il governo delle PP.SS.; - non vi è alcuna necessità di immaginare enti di gestione, finanziarie, enti di settore, Ministeri, ecc. Un coacervo di singole imprese, lasciato libero (con regolazione finanziaria) di raggrupparsi ad libitum, crea di per sé una grande varietà di configurazioni aziendali, più rispondenti di volta in volta sia alle circostanze della realtà sia alle direttive di politica economica. Non è escluso che da tale limitato laissez faire rinascano dei gruppi di aziende;
15 ma tali gruppi risponderanno più a reali economie di « integrazione » che a pretese economiche del genere, sempre invocate dagli attuali enti di gestione, ma mai dimostrate (anzi negate, con la discussione sugli oneri impropri); - vi è necessità di separare rigidamente la funzione finanziaria da quella gestionale, impedendo che l'organo (o gli organi) finanziatore venga coinvolto in rapporto organico o direttivo, nella vita quotidiana delle singole imprese a PP.SS.; - non vi sono limiti a priori da porre all'espansione (o alla restrizione) del sistema a PP.SS., se non in relazione agli obiettivi di politica economica; - né vi è necessità di immaginare che uno schema di organizzazione - anche quello qui proposto - debba pre-
servarsi quali che siano le direttive di politica economica; - non vi è nemmeno alcuna necessità di immaginare che eventuali organi finanziatori abbiano l'cc aspetto» di enti o di organismi; nessuno ci vieta infatti di pensare ad una « borsa » di capitali pubblici dotata di proprie regole. 36. Quest'ultimo concetto è forse il più difficile da visualizzare, ma è anche quello che, a mio parere, è più produttivo di idee: ogni volta che è possibile rendere astratta anziché concreta, generale anziché particolare, sistematica anziché per sonalizzata, una istituzione, si evita di costruire corpi sociali dotati di propria'volontà, direttiva, di autorità gerarchica, di burocrazia autoritaria.
Paolo Leon'
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Sa/va taggio, fallimento, occupazione (note sull'analisi di Leon) di Sergio Ristuccia essi si tratta di un obiettivo naturale come avviene per tutti i soggetti che, ai vari livelli, esprimano la volontà di un sistema sociale istituzionalizzato. Tuttavia sarà importante tornare in seguito sul punto per precisare, a questo proposito, alcune qualificazioni importanti soprattutto sui legami fra sistema delle partecipazioni statali e sistema di governo come parte importante di ciò che deve esser fatto sopravvivere. La consapevolezza andrebbe dimostrata invece sul versante del sistema politico che ha costituito e/o legittimato il sistema delle partecipazioni statali. A questo proposito, basta ricordare - secondo me - non tanto le intenzioni e l'azione del partito di governo (per il quale il discorso è scontato), ma piuttosto quelle della sinistra. È un fatto che la critica delle partecipazioni statali da parte della sinistra sia, tutto sommato, piuttosto recente. Per un lungo periodo, malgrado la GLI OBIETTIVI REALI DELLE PARTECIPAZIONI conventio ad excludendum - come usaSTATALI. no dire gli studiosi della costituzione ma1. La prima conclusione che si trae dal teriale del nostro paese nello scorso trendiscorso di Leon è che gli obiettivi più tennio - abbia ricompreso nella propria o meno dichiarati delle Partecipazioni sfera di effettività non solo il governo ma Statali, o teoricamente ipotizzati per es- anche il « sotto» o « sopra» governo, la sinistra ha nutrito un pregiudizio favorese, non sono mai stati gli obiettivi reali. Gli obiettivi reali non sono tuttavia igno- vole alle imprese pubbliche: ben comprenti: possono oggi essere identificati nel sibile nella prospettiva di critica e di antagonismo al capitalismo privato come fine della sopravvivenza come « sistema'> figura tipica del capitalismo tout court, e in quello della salvaguardia territoriale dell'occupazione. Che si tratti di obiet- ma tale da risolversi spesso in imprutivi o scopi e non di meri risultati dipen- denza e approssimazione. È certo, questo, de dal fatto rilevato da Leon che sono un capitolo di storia politica ed ideologica che andrebbe ricostruito. Vi entra, per frutto di consapevolezza. Aggiungerei che gran parte, il ruolo storico di Enrico Matla consapevolezza per il primo fine (la sopravvivenza) è ovvia e non va dimostra- tei e, tanto per ricordare brevemente, il ta per quanto riguarda i soggetti del si- pdrinato da questo concesso alla sinistra stema delle partecipazioni statali: per democristiana (1).
Il saggio di Paolo Leon, scritto per il programma di ricerche sull'« Istituzione Governo» del Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti è di quelli che sanno stimolare la discussione: per la sua sistematicità - anche se sommaria - e per le dosi ben calibrate di provocazione e di realismo che contiene. Con una formula si può riassumere il tema del contributo in questi termini: come passare dalla logica del salvataggio che garantisce l'occupazione esistente alla logica del fallimento che realizzi (o si avvicini a) la piena occupazione. Il tema è meno paradossale di quel che sembri ed ha bisogno di riflessioni serie e approfondite. Qui - per iniziare una discussione che potrà svolgersi anche in altre sedi - mi limito ad una prima disordinata serie di note a margine sulla parte del saggio dedicata all'analisi.
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(1) Certo, se si ricorda la capacità di « pubbliche relazioni » e di pressione sulla stampa degli anni felici, aveva ragione nel 1968 Goffredo Zappa ad osservare che « ogni fatto triguardante le imprese pubbliche suscita entusiasmi nella stampa quotidiana »: « salvo eccezioni sempre più rare, e raramente registrabili nel settore della sinistra>' (Gestione economica e indirizzo politico nelle imprese pubbliche. Il caso dell'IRI, in « Questitalia », marzo-maggio 1968).
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17 Per quanto riguarda la consapevolezza del secondo fine, basta rifare la storia dei cosiddetti oneri sociali impropri. Il recen-
te Rapporto conclusivo sulle « aree di perdita » del Gruppo IRI. (in « Mondo Economico », n. 46, 4 dicembre 1976), redatto da un comitato tecnico consultivo istituito nell'ottobre 1975 daI Consiglio di Amministrazione dell'IRI (un rapporto molto deludente che vale solo come memoria difensiva del management dell'ente di gestione), afferma che le situazioni di crisi aziendale cronica rappresentano nor malmente la conseguenza di condizionamenti esterni di questi tre tipi: (a) esigenza di <csalvataggio di complessi industriali falliti o giunti alle soglie del fallimento sotto la precedente gestione privata »; (b) « necessità di mantenimento in attività sia di imprese o stabilimenti del gruppo, operanti in perdita e divenuti, per l'evolversi delle tecnologie o del mercato, non risanabili, sia di aziende non integrabili nell'ambito del Gruppo »; (c) « oneri conseguenti a localizzazioni disadatte, stabilite per espressa volontà del Governo, o per legge (Mezzogiorno) Mi pare, in realtà, che per quanto riguarda (a) e (b) si dica in due modi diversi la stessa cosa: al gruppo è stato chiesto di mantenere il singolo impianto così com'è, nel posto dov'è. Al più, quando il salvataggio in senso proprio fosse del tutto inattuabile, si è chiesta la realizzazione di « iniziative sostitutive'> in loco. Se a ciò si aggiunge ciò che è detto sub (c) si intende come la casistica si possa riassumere nella formula usata da Leon come salvaguardia territoriale dell'occupazione. Naturalmente, non è affatto vero che tutte le « aree di perdita » dell'IRI si spieghino attraverso gli oneri impropri, cioè attraverso l'obiettivo della salvaguardia dell'occupazione localizzata. I <cdifetti manageriali », quando il Rapporto pudicamente vi fa cenno, saranno pure « inevitabili'> come gli stessi autori del Rapporto affermano, ma converrebbe esam,inarli partitarnente. Peccato che ciò non sia stato fatto. Certo è che di perdite non così facilmente riconducibili agli oneri impropri l'IRI ne registra di sicu-
ro: basta prendere atto dei dati dell'ultimo bilancio consolidato. Comunque, ai fini della dimostrazione che l'obiettivo di cui Leon parla è ben individuato si può dire questo: tutte le volte in cui c'è un rapporto fra autorità politica e partecipazioni statali questo si incentra su richieste di salvataggio motivate dalla necessità di mantenere l'occupazione così come di fatto localizzata. E la motivazione è molto più esplicita e formale di quanto lo stesso Leon ritenga (egli parla, infatti, di obiettivo del tuttoinformale). Dunque, la supernorma che regola il rapporto fra governo e partecipazioni statali è quella che s'è detta. Ed è una super-norma attraverso il cui uso - diretto o per rinvio allusivo - il principio di economicità (certamente, debole e indeterminato per sua natura) viene ridotto ad una pura legittimazione della richiesta d'intervento delle casse dello Stato. La disputa sulla consistenza giuridica del concetto di « oneri impropri» è tutta qui. IL SALVATAGGIO INDUSTRIALE IN EUROPA: VALUTAZIONI COMPARATI VE 2. Il problema dei salvataggi industriali è d'attualità in tutti i paesi industriali. perciò opportuno introdurre alcune valutazioni comparative. Giunge perciò opportuna la recente inchiesta di Enzo Pon-
tarollo (Il salvataggio industriale nell'Europa della crisi, ed. Il Mulino, Bologna 1976). L'inchiesta riguarda alcuni paesi della CEE, fra i quali non è l'Italia. Nelle considerazioni d'insieme si colgono tre osservazioni importanti che metterei in quest'ordine: 1) <(se nelle economie stagnanti il salvataggio si giustifica prevalentemente con il bisogno di difendere i livelli di occupazione, nelle economie più dinamiche questo aspetto rimane in secondo piano, mentre prevale l'esigenza di proteggere quello che i francesi chiamano Foutil industriel» (cioè il capitale fisso ancora valido e non facilmente rimpiazzabile anche se destinato a produzioni non concorrenziali del mercato internazionale);
18 « quasi tutti i casi di salvataggio che abbiamo esaminato hanno implicato una drastica riduzione dell'occupazione, almeno nel breve periodo, per cui se utilizzassimo questo parametro per valutare il successo dei salvataggi, il quadro tenderebbe ad essere piuttosto nero »; « la politica dei salvataggi è stata caratterizzata da un continuo learning by doing ( ... ). L'empirismo assoluto che ha caratterizzato questa politica, causato dall'urgenza dei problemi che esplodevano continuamente, ha permesso l'adozione di politiche spregiudicate ed innovative ». Si potrebbe, infine, tenere presente la distinzione che fa Pontarollo fra i vari tipi di politica di aiuto che caratterizza la linea seguita dai vari paesi: il ricorso ai contributi a fondo perduto o la concessione di crediti a basso tasso d'interesse. Ora, nei limiti in cui è possibile assumere che le partecipazioni statali sono state uno strumento fondamentale della politica di salvataggio, consideriamo le differenze confronto alle caratteristiche rilevate da Pontarollo negli altri paesi. In breve si può dire che il salvataggio è nella situazione italiana un obiettivo da tempo assunto dal sistema e pertanto istituzionalizzato. Ciò potrà essere segno, fuor di ogni dubbio, della natura di economia stagnante che, più o meno camuffata anche in epoche più felici, è propria del nostro sistema economico. L'aspetto positivo è che la drastica riduzione di occupazione non si è avuta, quando si considerino soprattutto le operazioni attuate per il tramite delle partecipazioni statali. Ma, d'altra parte, lo schema d'intervento offerto dal sistema delle PP.SS. ha certo fossilizzato i modi di intervento, riducendo sostanzialmente le possibilità empiriche del learning by doing. Quanto alle modalità d'uso delle risorse finanziarie i contributi a fondo perduto (che altro sono, in sostanza, i fondi di dotazione?) e il credito agevolato si sono sommati indiscriminatamente. C'è da aggiungere qualcos'altro. L'obiettivo del salvataggio, inteso come salvaguardia territoriale dell'occupazione, è un obiettivo non molto recente anche se non di antica data, come vedremo. La
sua realizzazione era possibile, a costi assai alti ma in gran parte latenti, in condizioni di relativa tenuta del sistema industriale nel suo complesso. La sua realizzazione dopo Io scatenarsi della crisi economica degli ultimi anni sembra sempre più improbabile: mette in questione la sopravvivenza medesima dell'intero sistema delle partecipazioni statali. RIPRENDENDO ALCUNE PREVISIONI DEL SUL SISTEMA INDUSTRIALE ITALIANO
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3. Dal 1973, ma forse fin dal 1971 - dice Leon - il sistema delle partecipazioni statali, dovendo fare i conti con una riduzione relativa delle risorse, entra in crisi. Ripercorrere le vicende recenti della crisi economica non avrebbe qui impor tanza se non per misurare -la gravità della svolta intervenuta nel sistema economico, tale da capovolgere le prospettive di cui fino a qualche anno fa si accreditavano le partecipazioni statali. A questo fine potrebbe essere utile tentare, in breve, un esercizio: partire dalle previsioni che sullo scorcio del '72 faceva Franco Momigliano nel considerare globalmente il sistema industriale italiano (v. l'articolo apparso su « Tempi Moderni » e ripreso per ampi estratti su « Queste Istituzioni », 1973). Il quadro delle ipotesi di Momigliano era il seguente. Le grandi imprese industriali private subirono un progressivo indebolimento strutturale: « il nodo di una crisi - che era già implicita nei modi stessi di realizzazione della fase del "miracolo" - è stato fatto esplodere, paradossalmente, dall'emersione dell'unico fatto nuovo che non era affatto imprevedibile: l'affermazione di un nuovo potere contrattuale dei sindacati ». Di conseguenza, le grandi imprese nor riusciranno a superare quel punto critico « di non ritorno » che le porterebbe a trasformarsi in grandi imprese multinazionali: « lo squilibrio tra progresso tecnologico e incultura manageriale, tra spreco di risorse non ben finalizzate nelle attività di ricerca e sviluppo e incapacità di valide scelte di diversificazione dei prodotti e dei mercati, tra perseguimento di elevati livelli di capacità produttiva
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19 e incapacità di previsione si aggraveranno in queste imprese nei prossimi anni ». Si avrà invece un crescente dinamismo dell'azione delle multinazionali straniere. In conseguenza di ciò, si avrà « un'ulteriore progressiva spinta verso l'espansione dell'impresa pubblica (a partecipazione statale) alla cui crescente leader ship nel contesto italiano (rafforzamento relativo nell'ambito della nostra industria nazionale) non corrisponderà però un'analoga crescente forza (anzi una crescente debolezza) nel contesto europeo e mondiale della competizione internazionale ». Dopo quelle previsioni è scoppiata la grande crisi che ha cominciato col chiamarsi «energetica » per divenire una più generale crisi strutturale del sistema occidentale. In realtà, l'economia internazionale aveva già cambiato alcune fondamentali caratteristiche in confronto a tutto il precedente periodo post-bellico, da quando - abbandonati i cambi fissi - si era arrivati alla svalutazione del dollaro che si era venuta realizzando a cominciare dal 1971. L'improvviso e forte aumento dei prezzi del petrolio che trasse occasione dal conflitto arabo-israeliano del 1973 - la guerra cosiddetta del Kippur - e che poi divenne elemento centrale dei nuovi assetti dell'economia internazionale, è venuto ad aggiungere un fattore di deterioramento delle ragioni di scambio dei paesi industrializzati e soprattutto di quelli europei. Con ciò creando una forte spinta deflazionistica per l'intera economia mondiale, date le condizioni attuali dei rapporti finanziari internazionali. Per il sistema economico italiano è divenuto di drastica evidenza il vincolo della bilancia dei pagamenti: la forte dipendenza dall'estero della nostra economia passa sempre più attraverso le regole di un mercato internazionale costituzionalmente squilibrato. In ragione di questi sviluppi internazionali una delle ipotesi di Momigliano non sembra si sia avverata: quella della maggiore presenza e/o del maggiore dinamismo delle multinazionali - straniére nel nostro sistema economico. Ciò dipende - certo - dalla decrescente profittabilità aziendale della nostra economia, ma
anche dal carattere prevalentemente « speculativo» proprio della precedente diffusione delle multinazionali americane. Carattere - quest'ultimo - al quale, in accordo con opinioni dello stesso Leon, ho fatto cenno in un precedente numero di « Queste Istituzioni ». Sulle altre due ipotesi di Momigliano il giudizio è diverso: con alcune modifiche e qualificazioni sembrano essere rimaste valide. Già a tre anni di distanza, Michele Salvati osservava che «la base strutturale del ragionamento di Momigliano non ha fatto che rafforzarsi », malgrado i cambiamenti nella situazione sociale e politica. Dopo sei anni il giudizio mi pare debba essere confermato. Vale vedere bene perché. Certo, non si può dire, per prima cosa, che ci sia stato recupero dal lato delle grandi imprese private. Il dinamismo finanziario della FIAT non sembra aver mutato le tendenze strutturali segnalate allora. Per gli altri gruppi non sono noti dati positivi di alcun significato. In generale si può dire che l'illusione della managerialità finanziaria ha raggiunto ormai il suo trionfo in negativo con i livelli record dell'indebitamento e della sottocapitalizzazione. Ma a fronte di ciò nessun sostanziale accrescimento e, meno che mai, nessun progresso qualitativamente importante si è avuto per quanto riguarda il settore dell'industria a partecipazione statale. In verità, non è questo un punto fondamentale del ragionamento di Momigliano. Egli affermava, è vero, che «l'impresa a partecipazione statale sarà l'operatore che insieme al sindacato probabilmente accentuerà la sua funzione di protagonista (conservatore e stabilizzatore) di un certo assetto sociale e di un certo processo di sviluppo, in questa particolare fase di profonda crisi dell'economia italiana », ma nel seguito delle sue considerazioni rendeva chiaro che non si sarebbe trattato tanto di un'espansione a macchia d'olio dei gruppi industriali a partecipazione statale, quanto del modello che essi rappresentano di rapporti fra Stato e industria. Premesso che «il problema dell'antagonismo tra grande impresa privata e impresa pubblica risulterà ovviamente nei
20 prossimi anni superato» (oggi, ben possiamo correggere il « superato» con « sepolto »), Momigliano notava: « l'interesse della difesa dell'occupazione (sostenuta da partiti e da sindacati) e l'interesse della tutela dei crediti (volontà delle banche di non determinare il fallimento delle grandi imprese da esse finanziate) potranno determinare congiuntamente una tendenza che permetterà per qualche anno, il proseguimento di un tipo particolare di vita di certe grandi imprese. In esse non si sanzionerà giuridicamente il passaggio del potere di controllo all'operatore pubblico, proprio perché l'operatore pubblico risulterà in molti casi ancora abbastanza adeguato finanziariamente a sostenerle, ma risulterà inadeguato strutturalmente e burocraticamente (crisi profonda della programmazione economica nazionale, ulteriore peggioramento della efficienza burocratico-ministeriale) a gestire e orientare queste attività industriali ». Nei termini qui precisati il processo mi pare sia andato avanti con questa sola variazione: che la crisi petrolifera - aggravando per tutti le dif ficoltà finanziarie - ha eliminato —anche l'ipotetica adeguatezza finanziaria del settore a partecipazione statale ad assumere nella propria sfera altre imprese. Beninteso, operazioni di questo genere sono state ancora compiute: vedi la cessione alle partecipazioni statali di quelle che fino a qualche anno fa venivano presentate come le aziende della Montedison non congrue alla sua caratterizzazione chimica. Ma ciò ha messo in ginocchio queIl'< adeguatezza» finanziaria delle partecipazioni statali che già stava deperendo naturalmente. Si è trattato di operazioni senza strategia complessiva, meramente sospinte dalla logica del giuoco delle tre carte. 4. Lo sbocco che veniva indicato dal discorso «profetico» (come qualcuno l'ha chiamato) di Momigliano era quello di un neo-protezionismo. Egli pensava allora (eravamo nel periodo del Governo Andreotti neo-centrista) che questo dovesse essere uno sbocco che il governo avrebbe in qualche modo deliberatamente perseguito: immaginava come probabile
«una politica del governo che incominci a privilegiare, con precise azioni di protezione, in particolari settori industriali, singole imprese pubbliche con politiche di sostegno, destinate appunto a compensare la debolezza, nell'area oligopolistica mondiale, di queste nostre imprese pubbliche assunte a livello di 'quasi-monopoli nazionali' ». L'argomento del protezionismo per mezzo del sostegno dato alle PP.SS. è ripreso nel saggio di Leon, ma come interpretazione di un fenomeno già in atto, non come previsione di un processo futuro. «Potrà sembrare un paradosso - scrive Leon - ma la FIAT gode di una protezione rappresentata da una quota del passivo dell'intero settore industriale pubblico ». Infatti: «tanto più libero-scambista è un sistema economico, caratterizzato allo stesso tempo dalla necessità di non squilibrare troppo spesso e troppo a lungo la distribuzione del reddito (o l'equilibrio tra le classi), tanto maggiore sarà il settore (protezionistico) a partecipazione statale ». Anche se l'af fermazione è da considerare valida in via generale e sottolinea le profonde inter connessioni fra grande impresa privata e PP. SS., si tratta di un protezionismo di risulta il cui peso è da stabilire. Non si tratta dell'azione esplicita che era immaginata come probabile da Momigliano. Quell'azione che non è stata realizzata compiutamente non tanto perché in troppo palese incompatibilità con gli obblighi della CEE, quanto per la crisi di credibilità che ha colpito le PP. SS. come ma-
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nagement. RAGIONI POLITICHE DELLA CRISI DELLE PARTEcIPAZIONI STATALI S. Il punto è proprio questo: pur ammesso che l'ipotesi di una ulteriore affer mazione delle partecipazioni statali come protagonista non avrebbe significato necessariamente ampliamento e rafforzamento dei gruppi esistenti, è certo fuori dalle previsioni di Momigliano del '72 la grave crisi delle PP. SS.. Il fatto è che questa crisi non ha solo cause economiche, ma politiche. Discende direttamente dall'indebolimento del sistema di forze
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21 politiche da cui la dirigenza delle PP.SS. ha tratto lungamente la propria origine. È questa la variabile « esogena » (e vedremo poi che è esogena per modo di dire) che vale a spiegare l'attuale perdita di importanza delle PP.SS. come punto di riferimento e di supporto per l'intero sistema industriale. O, più semplicemente, la perdita di prestigio delle PP.SS. È ben vero che la crisi economica mette di per sé in moto processi di messa in questione delle responsabilità dirigenziali, ma questi non sarebbero gravi se il sistema di governo riuscisse ad assorbirli con operazioni di ricambio interne e manovrate. È che nella realtà italiana il sistema politico ha subìto sostanziali modifiche attraverso i mutamenti di indirizzo, per la prima volta così consistenti dopo circa un trentennio, espressi dall'elettorato italiano: il successo comunista del 15 giugno 1975 e del 20 giugno 1976 è il fatto nuovo di crisi. A me pare che questi cambiamenti negli equilibri del sistema politico hanno avuto una portata proprio sul sistema del «sottogoverno », e soprattutto sul settore delle partecipazioni statali: una portata tanto maggiore quanto più incerte e precarie sono le intese e gli equilibri fra le forze politiche sul piano del Governo e su quello parlamentare. In questo senso va intesa, a mio parere, l'importanza assunta negli ultimi tempi dal problema delle « nomine>' nel settore delle partecipazioni e, ancor più, nel settore bancario. Queste considerazioni conducono a riprendere il problema delle partecipazioni statali come sistema per tentare una sua storicizzazione. Necessaria, quest'ultima, per intendere le qualità del sistema PP.SS. e le regole interne di coerenza. Aggiungerei che, oltreché necessario per intendere le cose, questo esercizio è anche molto opportuno quanto più il termine « sistema » si presta ad utilizzazioni « razionalizzatrici », più o meno enfatiche, cui indulge la pubblicistica più vicina ai grandi enti di gestione. Penso, per esempio, a quanto ha scritto Pasquale Saraceno nel libro intitolato, appunto, Il
sistema delle imprese a partecipazione statale
nell'esperienza italiana, (Milano 1975). Saraceno scrive che il complesso delle imprese a partecipazione statale « può essere concepito come un vero e proprio sistema », rilevando che sul piano formale l'elemento unificante è dato dal Ministero delle partecipazioni statali. Subito dopo corregge l'affermazione notando che, in fatto, « sono di ostacolo al conseguimento della natura di sistema due circostanze: vi è in primo luogo il fatto che mentre un gruppo privato si espande secondo le leggi che presiedono al proprio sviluppo, il sistema delle PP.SS. ha, dal momento stesso della sua costituzione, dovuto acquisire imprese private e dar vita a nuove iniziative che non rientravano nella propria convenienza, ma a esigenze cli ordine politico In secondo luogo la sopravvivenza delle unità del sistema è continuamente messa in difficoltà ... da pressioni mosse dall'aspettativa che le gestioni, in quanto si svolgano nella sfera pubblica, non debbano essere condizionate dai costi ». Si tratta in sostanza di aspetti dello stesso fenomeno: i vincoli politici delle imprese a PP.SS. Ma appena fatta questa correzione, in fatto, della concezione delle PP.SS. come sistema, ecco repentinamente una conclusione di ottimismo: « deve quindi considerarsi un successo che la pioggia di imprese disparate come attività svolta, come dimensione e come ubicazione, cadute nelle braccia dello Stato nel corso di un quarantennio possa oggi essere descritto facendo riferimento all'idea di sistema ». Senza indugiare in battute polemiche, è dunque inteso che il termine sistema - senza opportune qualificazioni - oltre ad essere generico può essere infido, nel nostro caso più che in altri data la sua sotterranea carica gratificante nei confronti del management delle PP.SS.. I SOGGETTI DEL « SISTEMA ».
6. La prima qualificazione da apportare alla concezione delle partecipazioni statali come sistema concerne i soggetti che lo compongono: tutti gli enti e gruppi fanno sistema? Direi proprio di no. La storia di venticinque anni dice che il sistema ha due soggetti primari, l'IRI e l'ENI, ed uno comprimario e interstiziale che è l'EFIM. Non c'è, invece, alcuna integrazione nel sistema degli altri cosiddetti <centi di gestione », come l'Ente Cinema, l'EAGAT e da ultimo I'EGAM. Ciò non tanto perché il dato formale di per sé non sia costituitivo del sistema - e ciò è ovvio - quanto per le ragioni storiche dell'evoluzione delle partecipazioni statali. Per storicizzare cominciamo col fissare una data: il 1953, anno dell'istituzione dell'ENI. La data è importante perché se-
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22 gna la fine di un'epoca delle partecipazioni statali: l'epoca della ricostruzione post-bellica che aveva visto il settore delle PP.SS. - allora identificate soprattutto con l'IRI — via via ristrutturarsi attraverso non solo l'abbandono delle attività produttive dell'industria bellica ma anche attraverso l'abbandono di stabilimenti con eccedenze vere o presunte, di occupazione. La ristrutturazione del settore pubblico era avvenuta fino allora all'insegna delle liquidazioni e delle smobilitazioni. Viene spesso ricordata come fatto simbolico la vicenda di Enrico Mattei che, chiamato a liquidare l'AGIP, si trasforma in fondatore di un grande impero industriale di Stato quale l'ENI è progressivamente divenuto. Ma non direi che tutto si spiega come effetto, anche imitativo, dell'azione di Mattei. Nel periodo intorno al 1953 altri fatti sono significativi per intendere i caratteri fondanti del sistema. È da dire, in questo senso, che giustamente Ada Collidà parla del 1953 come di un ((anno chiave », come di « un anno di eccezionale importanza nella ricostruzione degli eventi che hanno coinvolto le partecipazioni statali dal dopoguerra » (La formazione del-
l'imprenditorialità pubblica: i gruppi dirigenti delle partecipazioni statali, in Probiemi del movimento sindacale in italia: 1943-1973, Fondazione G. Feltrinelli, 1976). Viene posto in quell'anno il problema del rapporto fra l'IRI e il sistema politico venutosi a creare dopo il 1948, cioè il sistema politico a egemonia democristiana. La Commissione Giacchi (in Ministero dell'Industria e Commercio, L'istituto per la ricostruzione industriale, Torino, Utet, 1955-56) fu costituita allora proprio sulla spinta di riconsiderare non solo i problemi economici, ma la collocazione istituzionale complessiva dell'IRI. Il rilievo principale che si legge nella Relazione conclusiva del presidente, consegnata nel 1954, è lo stato di «individualismo aziendale, residuo della casuale ed eterogenea formazione del gruppo ». « Un immenso patrimonio dello Stato è gestito da un'amministrazione praticamen-
te avulsa dallo Stato », sì da configurare l'IRI come il più cospicuo esempio di quella formula « di nuovo feudalesimo>) per cui una grande porzione di potere è attribuita a persone che, una volta ricevutane l'investitura, io esercitano a proprio giudizio, con una specie di sovranità [...] fondata soltanto sul titolo di nomina. (Proposte conclusive, in L'IR!, cit., voi. I, pp. 22.23).
La Commissione Giacchi aggiungeva che, qualora lo statuto del 1948 fosse rimasto senza modifiche, l'IRI finirebbe con l'essere strumento di se stesso [ ... ]. Se poi per politica si intendesse, secondo l'interpretazione deteriore dei termine, l'azione dei partiti, o peggio ancora delle singole personalità politiche, per procurarsi vantaggi di ordine ideale o materiale, si tratterebbe appunto di ricavare un'utile esperienza dall'attuale situazione dell'IRI, nella quale gli interventi singoli e per ristretti motivi di politica locale o di temporanea convenienza non sono ignoti [ ... ]. (Proposte conclusive, in L'IRI, cit., voi. I, pp. 32-33).
Queste indicazioni critiche hanno valenze in più direzioni. Ci si possono vedere dentro le motivazioni di un'ideologia classica dello stato liberale come soggetto unitario munito di autorità, bene o male da identificare sempre secondo uno schema piramidale (uno stato che può non essere programmaticamente interventista ma che se interviene deve bene o male rappresentare il vertice effettivo di un procedimento decisionale), come ci si possono vedere invece le motivazioni di un sistema politico che deve mettere radici nei centri del sistema economico e rivendica la propria egemonia. Se queste radici e questo legame nell'ambito dell'ENI vengono costituiti attraverso l'intraprendenza politica ed economica di Mattei e la rivendicazione da lui fatta di un interesse nazionale a base dell'ente energetico, il problema dell'IRI viene posto attraverso una attenzione ai meccanismi istituzionali e organizzativi. Comunque, l'importante è segnalare questo punto: non passa la riforma dello statuto dell'IRI — indicato dalla relazione Giacchi come causa del potere feudale - e la ri-
23 forma si focalizza intorno alla costituzione del Ministero delle partecipazioni statali e al distacco delle imprese a partecipazione statale dalla Confindustria. Per le vicende storiche dell'epoca rinvierei sempre al saggio della Collidà. Quanto ad un giudizio sul processo allora realizzato direi che fra le motivazioni identificabili dietro le proposte della Commissione Giacchi, via via emergenti e vincenti sono le ragioni del sistema politico ad egemonia democristiana che si riser va, mantenendo l'assetto in atto del settore, gli strumenti « feudali » e ne legittima a monte l'uso attraverso la formalizzazione di un settore rappresentato a livello di governo. È ben vero, dunque, che la costituzione del Ministero nel 1956 è un momento importante per la fondazione del « sistema »: non perché con la legge sia stato disegnato nella sua interezza il modello con tutti i suoi livelli (ministero, enti di gestione, holdings, società operative) e ne sia stato formulato il principio base (il cosiddetto criterio dell'economicità), ma perché viene sancito un legame anche istituzionale fra l'industria pubblica e il sistema politico a egemonia democristiana. Quanto all'interpretazione delle spinte che confluirono nella genesi della legge del 1956, mi paiono rievocativamente suggestivi gli spunti di Giuliano Amato: « Come sempre accade per i fatti innovativi, le motivazioni che confluirono nella scelta furono diverse. È assai poco credibile che le ragioni che per prime portarono al modello fossero quelle, conservatrici, banali e assai poco chiarificanti, della razionalizzazione amministrativa. Dietro di esso c'è, con tutta probabilità, l'incontro fra le diverse posizioni, diverse fra loro ma tutte innovative, rappresentate rispettivamente da La Malf a, Mattei e Fanfani. La Malfa aveva in mente da tempo la necessità di un'azione pubblica intesa a razionalizzare uno sviluppo capitalistico che dello Stato aveva bisogno, ma che nei nostri vecchi apparati amministrativi avrebbe trovato presto gli ostacoli; dei complici magari nella bassa cucina dell'ausilio a questo o a quell'imprenditore, ma delle strutture incapaci di eliminare le strozzature che ci separavano dal neo-capitalismo. Le imprese pubbliche come strutture parallele che doppiassero uno Stato da buttare, sulla scia dell'esperimento già avviato con la Cassa del Mezzogiorno, erano tra i suoi obiettivi. Erano diversi gli obiettivi di Mattei e sicuramente lo
erano quelli di Fanfani, che al capitalismo di stato pensavano non come supplente della Pubblica Amministrazione nei compiti di razionalizzazione del mercato capitalistico, ma piuttosto come agguerrito competitore di questo (Mattei) e come fortilizio per trattare con esso da posizioni di indipendenza (Fanfani). Certo è che questi molteplici obiettivi poterono riconoscersi in un modello organizzativo che alla sinistra sembrava sensato solo in quanto strumentale all'avvio di un qualche dirigismo economico di governo (e monco perciò senza questo), ma che in realtà aveva ed esauriva il suo significato nella separazione delle imprese a partecipazione statale da quelle private. Era questo il minimo comune denominatore degli innovatori, divergenti poi nell'uso delle imprese pubbliche così separate, e fu questo ciò che in concreto la legge del 1956 realizzò ». (G. AMATO, Il ruolo del-
l'Esecutivo nel governo delle Partecipazioni statali, in AA. vv., Il governo democratico dell'econmia, Da DONATO ed. 1976, pp. 138-139).
LA CENTRALITÀ DELLA « FORMULA IRI '> 7. La conclusione appena raggiunta significa assai poco di per sé. C'è il rischio di fermarsi a mettere in rilievo ancora una volta il peso avuto nelle magagne della vita italiana dall'egemonia democristiana e ad acquetarsi, attraverso le suggestioni di una logica demonologica, a questa denuncia. Che è, tutto sommato, assai sfocata. Il discorso interpretativo, in realtà, deve ancora cominciare. L'unica cosa che si può dire è questa: che attraverso i legami sostanziali fra industria pubblica e sistema politico-istituzionale, così come sanzionati formalmente nel 1956, si è probabilmente compiuto quel passo che - nei termini della teoria generale dei sistemi ha fatto scattare il processo oltre quella soglia critica al di là della quale si creano schemi d'azione diversi da quelli precedenti, e ad essi non più riconducibili. L'obiettivo della sopravvivenza annunciato da Leon assume, in questo punto, un suo rilievo particolare ed esce dal generico: è l'obiettivo della sopravvivenza dei caratteri storici che il sistema è andato via via assumendo nel periodo innanzi detto. La sopravvivenza soprattutto del legame fra partecipazioni statali e partito di governo. Ha ragione allora Ada Collidà nel definire l'imprenditorialità pubblica come
24 «capacità di programmare, organizzare e dirigere un'attività produttiva sottoposta al controllo pubblico in funzione della massimizzazione della stabilità politica del sistema » (op. cit., p. 496). E ancora: è evidente che il modello emblematico, il laboratorio reale di questa imprenditorialità è il gruppo IRI: in ragione della sua articolazione e complessità che consente un maggior ventaglio di interventi combinatori a più livelli, in ragione della sua stessa minore personificazione dei ruoli «storici ». La fortuna fino a pochi anni addietro della « formula IRI », non è un caso di buone relazioni pubbliche, ma la giusta centralità di .un modello altamente rappresentativo. Un modello, pertanto, da esplorare a fondo. Un primo quesito che si pone a questo punto concerne le ragioni dell'instaurarsi della legge della salvaguardia territoriale dell'occupazione. A tal fine bisogna riandare alla natura del partito democristiano che, a mio parere, resta quella indicata su questa Rivista da Alberto
Benzoni (L'accordo di comportamento del « bipartitismo » imperfetto, in « Queste Istituzioni », 1973, pp. 44-50), riprendendo alcune tesi di Giorgio Galli: <(variante italiana » del partito conservatore di massa. Elemento importante della variante è stata l'ideologia del gruppo integralista che realizzò l'operazione di presa del potere nel corso degli anni cinquanta. Una ideologia per nulla aliena da privilegiare soluzioni «sociali » per molti aspetti avanzate, combinando insieme rozze trascrizioni economiche del provvidenzialismo cattolico e dell'ideologia della carità e uso istintivo di tali soluzioni come valvola di sfogo per mantenere sotto controllo l'equilibrio fra le forze politiche. Di qui - a mio parere - il favore per un certo sindacalismo di pura rappresentanza di interessi (che è pur sempre un elemento fondamentale - a parte le for. me - del movimento sindacale), di qui il rifiuto di ogni politica di riforma istituzionale d'ampio respiro. In questo contesto la crescente spinta sindacale, naturalmente rappresentativa di interessi puntuali e localizzati, ha sempre trovato una canalizzazione precosti-
tuita di ascolto in termini di soluzione empirica di casi concreti. Tanto più se queste andavano nel senso dell'accrescimento di un'area soggetta all'influenza diretta del partito, qual'è appunto l'area delle partecipazioni statali. LE FASI DI ESPANSIONE DELLE PARTECIPAZIONI STATALI 8. Il discorso interpretativo deve ancora cominciare, dicevo poco innanzi. A questo scopo bisogna interrompere il filo dei ragionamenti fin qui svolti e partire da quest'ùltima soluzione: l'accrescimento dell'area delle partecipazioni statali. Che ci sia stata una notevole espansione delle partecipazioni statali nel periodo che va dalla metà degli anni '50 fino agli inizi degli anni '70 è certamente un fatto. È stato notato che in termini quantitativi questa espansione non è stata molto significativa (è stato calcolato che dal 1963 al 1971 la quota delle imprese pubbliche nel fatturato industriale sarebbe aumentata solo del 2,3%). In termini qualitativi, d'altra parte, non è possibile esprimere un giudizio, data la diversità di elementi di cui bisognerebbe tener conto. Vari sono i profili da indagare: sul lato dei beni prodotti, sul lato dell'organizzazione della presenza delle PP. SS. (società acquisite e/o società di nuova costituzione). La questione principale a cui bisognerebbe rispondere è comunque la seguente: quali sono le ragioni dell'espansione? Manca una ricostruzione delle vicende industriali del nostro paese negli ultimi vent'anni che dia conto, in modo sistematico, delle vicende aziendali delle partecipazioni statali. È quindi possibile solo qualche spezzone di ricostruzione storica. Nel periodo che va dal 1953 al 1963 e che comprende tutto il « miracolo italiano» fino alla crisi del '63-'64 si hanno - nell'ambito del gruppo IRI - iniziative come la costruzione del centro siderurgico di Taranto, la costruzione dell'autostrada del Sole e di altre importanti parti della rete autostradale, il passaggio alla Stet del controllo dell'intera rete telefonica in concessione, la riunificazione in un'unica com-
25 pagnia di bandiera dei servizi aerei. Dal 1963 si pone per l'IRI il problema del reimpiego dei fondi di indennizzo per la nazionalizzazione dell'industria elettrica. La Società Meridionale di Elettricità vie-. ne trasformata in società finanziaria: i fondi di indennizzo vengono in parte destinati al finanziamento di settori nuovi, quale soprattutto l'alimentare. Si tenta di dare impulso al settore elettronico passandolo sotto il controllo della finanziaria STET e operando acquisizioni di società fuori dal gruppo. Viene costituita, nel settore meccanico, l'Alfasud. Si ten ta una prima riorganizzazione del settorè nucleare intorno all'Ansaldo di Genova, mentre a Trieste viene costituita la Società Grandi Motori (con partecipazione paritetica IRI e FIAT). È sicuramente esagerato ed enfatico dire, a proposito dell'espansione realizzata nell'ultimo periodo, che « l'azione del gruppo IRI ha inciso sulla struttura dell'industria manifatturiera' in un modo che trova precedenti solo nell'adozione, nel dopoguerra, dei piano proposto dal Sinigaglia per la siderurgia'> (così Saraceno, op.. cit., p. 19). Ed infatti tali operazioni non sono mai riùscite a decollare pienamente e a dare risultati di segno sicuro. Tuttavia non si tratta sempre ed esclusivamente di una espansione di risulta come fenomeno indotto, per esempio, da operazioni di salvataggio. Molti sono stati anche i fattori esogeni di tipo diverso dai salvataggi che hanno sospinto verso queste iniziative (basti ricordare, per tutti, la nazionalizzazione dell'energia elettrica). Ma quali sono state le ragioni endogene e in che modo si sono andate formando le decisioni .imprenditoriali? Non si tratta di rispòndere sul piano meramente. storicocronachistico (spesso fortemente viziato dal gusto aneddotico), si tratta anche di darsi ipotesi interpretative teoricamente consistenti. Quale logica economica (una c'è di certo) ha guidato il comportamento imprenditoriale nell'espansione delle PP. SS? Probabilmente si può arrivare, a parlare di una logica solo attraverso l'analisi di più logiche o motivazioni relative ai diversi settori e tipi di intervento. Si possono notare alcune diverse tendenze
di comportamento: 1) nel settore meccanico si è inseguito un disegno di razionalizzazione attraverso riassetti e scambi di aziende passate da un ente di gestione all'altro (soprattutto fra IRI ed EFIM: cessione a quest'ultimo delle società costruttrici di materiale ferroviario e di società costruttrici di armi; passaggio all'IRI della Breda e di altre società, eccetera); 2) nel settore elettronico si è puntato allo sviluppo attraverso acquisizio ni delle maggioranze di controllo di alcune società, come la SGS, la maggiore impresa privata operante nel ramo dei componenti e l'attivazione del gruppo nell'attività di informatica. Si è trattato di cercare una presenza nazionale di qualche consistenza in un settore di rilievo strategico fortemente presenziato dalle imprese multinazionali. Per altro verso si è trattato di entrare nell'informatica come servizio di pubblica utilità (l'informatica applicata ai grandi sistemi amministrativi); 3) nel settore alimentare una logica di accorpamento ha portato ad un gran numero di acquisizioni societarie di controllo o al 50% (Star, Motta, Alemagna, Alimont e altre). Anche qui è stata adottata una motivazione di interesse nazionale qual è quella di far fronte alla penetrazione dei gruppi multinazionali (perseguita tuttavia - a parere di R. Prodi sulla base del « rozzo pregiudizio secondo il quale più un'impresa è grande, meglio funziona », iaddove in settori come l'alimentare e il dolciario, il mercato dovrebbe essere lasciato a piccole e medie imprese). A tale motivazione è stata aggiunta l'altra di cercare iniziative nel Mezzogiorno; 4) nel settore delle telecomunicazioni, così come 'in quello autostradale, nei quali l'espansione si è compiuta attraverso cospicui investimenti. La motivazione dell'espansione è stata quella di realizzare. « pubblici servizi » e opere pubbliche con efficienza industriale. Naturalmente, si potrebbe ancora continuare, per altri settori, con una enumerazione di carattere empirico di motivazioni e/o obiettivi, dichiarati o riconoscibili. Si continuerebbe tuttavia a rimanere fuori di categorie analitiche di qualche rilevanza. Mi pare che non sia giustificato perpetuare un'interpretazione che si riduce
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26 al puro empirico o rinvia puramente e semplicemente all'esterno come fonte non solo di vincoli, ma anche di impulsi. In realtà - osserva Franco Momigliano (Econo-
mia industriale e teoria dell'impresa, Bologna, 1975, p. 267) - « gli obiettivi politici più importanti, cioè quelli che si risolvono in iniziative di ristrutturazione, espansione, diversificazione e allargamento delle aree di influenza e di potere delle singole imprese a partecipazione statale, non solo vengono ispirati, ma imposti, nella maggior parte dei casi, dal management delle imprese stesse ». Sicché si giustifica l'affermazione di Saraceno secondo la quale « l'IRI si è presentato fin dall'inizio come una centrale di management a disposizione dello Stato », più che « un complesso tecnico posto in atto per perseguire dati obiettivi di produzione quali sono invece le aziende nazionalizzate » (op. cit., p. 10). Se ciò è vero, qual è il modello di condotta proprio del managernent delle imprese a partecipazioni statali, considerate - queste ultime - una « particolarissima esperienza italiana »? Trovo, tutto sommato, assai singolare che non sia stato fatto un compiuto tentativo per definire questo modello di condotta applicando, verificando e/o modificando, per il caso italiano, le teoriche del capitalismo manageriale. UN CASO DI CAPITALISMO MANAGERIALE? 9. Diciamo una prima cosa: il problema storico delle partecipazioni statali è lo sviluppo della grande impresa in Italia. Ancorché considerare come significativa la contrapposizione fra imprese private e imprese pubbliche al punto da organizzare intorno ad essa il discorso sulle le partecipazioni statali, anche quando si giunge ad attribuire alla contrapposizione un peso via via minore, bisogna par tire da una constatazione assai semplice: attraverso le partecipazioni statali si diffonde per tutto il sistema economico italiano la grande dimensione industriale. Voglio dire che lo sviluppo delle partecipazioni statali va considerato non solo in riferimento alle vicende dell'economia
• del sistema politico italiano, ma anche • soprattutto in riferimento alle caratte ristiche dimensionali e organizzative del capitalismo occidentale nel momento storico. Ora nel periodo della grande espansione capitalistica che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale l'organizzazione capitalistica si è tutta andata orientando verso la grande dimensione. Questa dimensione, quali che siano le necessità - vere o presunte - in termini di economia di scala sul piano produttivo, ha bisogno di formidabili sostegni finanziari: cioè, vuole di per sé l'intervento dello stato finanziatore. A seconda del grado di sviluppo, delle tradizioni ideologiche e degli assetti politico-economici di ciascun paese, l'intervento può essere diretto o indiretto, contrattuale o dirigistico. Le partecipazioni statali sono una delle modalità dell'intervento che si realizza in Italia per raggiungere le grandi dimensioni industriali. L'intervento si realizza, qui da noi, in un contesto economico che, via via più aperto in termini di libero scambio, rimane sempre rigidamente inscritto - quanto a strutture e modi di funzionamento - entro i vincoli (istituzionali e politici) del sistema nazionale. In questo senso torna a proposito ricordare l'argomento di Leon sul valore protezionistico del disavanzo del settore industriale pubblico. Nell'esperienza del venticinquennio postbellico il grande progresso economico dei paesi capitalistici - che oggi viene dif fusamente ed autorevolmente considerato come un'esperienza eccezionale e non ripetibile - aveva aperto la strada ad una riconsiderazione della realtà « impresa » come il soggetto sociale connaturalmente portato a crescere e svilupparsi, avendo in se stesso l'autonomia sufficiente a scegliere il percorso di crescita. D'altra parte l'ampliamento crescente delle dimensioni appariva sempre più una riprova dell'argomento in auge nella pubblicistica economico-giuridica fino dagli anni trenta, della dissociazione fra proprietà e direzione (o controllo nell'impresa capitalistica: la proprietà dispersa su un universo sempre più diffuso di azionisti, la direzione concentrata negli amministratori privi di titoli di pro-
-
27 prietà). È stata più volte dimostrata la mancanza di rigore di questo argomento e soprattutto la mancanza di novità: infatti, altro non si tratta che del fenomeno - ora giunto a piena evidenza e maturità, ma già esaurientemente illustrato da Marx nel Capitale - della socializzazione della proprietà che è un portato storico del capitalismo attraverso l'ingegneria del diritto societario moderno. Tuttavia, la conseguenza dedotta da questo argomento, e cioè il costituirsi di una sfera sempre più importante nella conduzione dell'impresa che è occupata dalla classe manageriale o direttoriale, viene a trovarsi confermata dall'osser vazione diretta dello sviluppo capitalistico degli ultimi decenni. Di qui l'importanza delle teorie dell'impresa che si fondano sulla rilevazione di questo fenomeno. Si può ben dire oggi che tali teorie costruite sull'assunto dell'impresa growth oriented appaiono più che mai datate: portato anch'esse di un eccezionale periodo di progresso economico quantitativo. Ciò non toglie però che per intendere i meccanismi di conduzione dell'impresa in quel periodo tali teorie mantengano notevole validità. Ora, l'espansione delle partecipazioni statali si è svolta in quel periodo e la conduzione delle stesse è stata in mano ad un ceto che ben può definirsi manageriale e/o direttoriale. Di qui l'appropriatezza di un tentativo di verifica, o meglio di adeguamento e modifica, della teoria del capitalismo manageriale sulla scorta del caso italiano delle partecipazioni statali. In questo senso, si potrebbe dire che se è uno pseudoproblema quello - pur variamente discusso in sede internazionale - dell'tpplicabilità della formula italiana delle partecipazioni statali ad altri contesti economici « occidentali », costituisce un problema più proprio verificare come, in quale misura e con quali modifiche, resista a fronte dell'esperienza italiana la teoria dell'impresa manageriale. 10. Per affrontare il problema - la cui soluzione non è certo nelle competenze di chi scrive - occorre uno studio d'ampio respiro cui non sfugga, in sede di
preliminare ricognizione, l'andamento delle vicende aziendali più significative per quanto concerne sia gli aspetti produttivi e contabili sia la selezione e la for mazione del management. Un'indagine sociologica sui dirigenti delle partecipazioni statali sarebbe a questo proposito molto importante (qualcosa - a questo proposito - cominciarono a fare negli anni scorsi il CIRIEC e il Club Turati). A titolo di pura enunciazione di problemi si possono ora offrire degli spunti della cui congruità non saprei io stesso cosa dire. Prendiamo le mosse dalla teoria di Robin Marris (La teoria economica del capitalismo manageriale, trad. it. Torino 1972), fra tutte certo la più nota ma anche la più datata. Secondo Marris, le funzioni di utilità che tendono ad essere massimizzate dal potere discrezionale dei managers sono due, fra loro autonome e, comunque, eterodosse in confronto a quelle del profitto, ipotizzate dal pensiero economico tradizionale: la crescita e la sicurezza. Non vale qui richiamare le motivazioni, tratte a piene mani da analisi di vario tipo (e ricomposte alluvionalmente in un insieme non sempre coerente), che sarebbero alla base, sul piano sociale e psicologico, di queste funzioni. Vale solo ricordare una conclusione traibile dalla teoria di Marris: che - per usare le parole di Momigliano - <'esiste incompatibilità tra massimizzazione della crescita e massimizzazione del profitto, e la funzione del gruppo manageriale è appunto quella di scegliere la coppia dei due tassi (di crescita e di profitto) che realizza il sacrificio ottimo del secondo al primo» (Momigliano, op. cit., p. 310). Ebbene, sul piano delle semplici impressioni ed approssimazioni, ritengo si possa dire che nell'esperienza italiana funzioni di utilità alla Marris siano abbastanza chiaramente percepibili. O, forse, sono soprattutto percepibili le motivazioni che sottendono a tali funzioni (i diiigenti tenderebbero a massimizzare il raggio di crescita perché questo aumenta, fra l'altro, stipendio, potere, prestigio, carriera senza necessità di mobilità interaziendale).
28 Naturalmente qualcuno potrebbe obiettare che se passiamo a considerare la conclusione innanzi riportata c'è da mettere in dubbio subito - anche sul piano di prime approssimazioni - che la funzione del gruppo manageriale sia stata, di fatto, quella del sacrificio ottimo del profitto alla crescita. Qualcuno potrebbe dire che si è realizzato soltanto il sacrificio lout court del profitto e basta. Ma si tratterebbe - per ora - solo di battute. Quanto alla funzione di sicurezza ci troveremmo probabilmente di fronte all'esigenza del maggior numero di correzioni del modello. La sicurezza viene identificata nel modello originario nel mantenimento del controllo azionario della società e viene perseguita attraverso il vincolo di un rapporto di valutazione minimo fra reinvestimento di utili (a scapito dei dividendi). e quotazione delle azioni tale da non favorire scalate di «aggressori» esterni. Siamo evidentemente del tutto al di fuori di ipotesi attendibili per la realtà italiana (data la misura raggiunta, e non da ora, dalla sottocapitalizzazione delle società, in particolare dalle partecipazioni statali, dato il venir meno del mercato azionario e della borsa ecc.). Eppure se la funzione di sicurezza riguarda le possibilità di finanziamento dell'impresa, la problematica non decade all'irrilevanza di un « c'è sempre Pantalone che paga ». La varietà delle fonti di finanziamento delle partecipazioni statali pone non poche questioni interpretative e di modello. Si tenga presente, a questo riguardo, « la possibilità, caratterizzante tutti i gruppi imprenditoriali pubblici inquadrati nel "sistema" delle partecipazioni statali, di ricorrere ad una serie molteplice di atti di finanziamento in corrispondenza di ciascuno dei tre livelli che normalmente compongono la struttura piramidale dei gruppi stessi (o che comunque sono presenti almeno in quelli di dimensioni maggiori); con effetti moltiplicativi della capacità di finanziamento, ma con conseguenze talvolta negative per la chiarezza e la trasparenza delle gestioni aziendali» (Alberto Massera, Tendenze delle partecipazioni statali dal 1956 al 1975, in « Riv. Trimestrale Di-
ritto Pubblico », 1976, p. 152). Ciò è certamente ragione di una ulteriore minimizzazione del vincolo di sicurezza, ma non al di fuori di un rapporto di valutazione sui generis, in qualche modo identificabile e formalizzabile. I
« VANTAGGI» DELLA POLISETTORIALITÀ.
11. Lasciamo a questo punto le suggestioni di una possibile applicazione della teoria del capitalismo manageriale al caso italiano. Un'applicazione che allo stato delle cose - dovrebbe essere volta più ad interpretazioni retrospettive che ad una modellistica di valore attuale. Del resto, scriveva Marris a suo tempo: « nell'analisi che segue i lavoratori manuali sono nominati di rado; non manchiamo di renderci conto che essi, come produttori e consumatori, sono i cittadini principali del sistema, ma ci pare che essi siano stati studiati adeguatamente altrove, mentre, al contrario, un'attenzione del tutto insufficiente è stata rivolta agli uomini che fanno, anziché limitarsi a subirlo, l'ambiente capitalistico contemporaneo » (op. cit., p. 60). Oggi sarebbe comunque assai poco realistico non introdurre in un modello, sia pure di capitalismo manageriale, le relazioni con classe operaia e sindacati. Ciò vale in generale, per quanto riguarda tutti i paesi industriali, ma in particolare per quanto riguarda l'Italia. Il tema della grande dimensione e della grande impresa richiama tuttavia un discorso ricorrente in materia di partecipazioni statali: la natura di polisettorialità dei grandi gruppi. Il termine non ha, anch'esso, altro significato che non sia puramente empirico e constatativo. Merita comunque qualche considerazione. Andrew Shonfield ha osservato, a proposito dell'IRI, che « conglomerate di questa mole esistono, fuori d'Italia, solo negli Stati Uniti» (L'impresa pubblica: modello internazionale o specialità locale, in Il caso italiano a cura di Cavazza e Graubard, Milano 1974, pp. 270-291). A questa polisettorialità si è giunti in ragione della motivazione generale della crescita, in ragione di strategie elabora-
29 te all'interno e approvate all'esterno dalle autorità di governo, in ragione di esigenze esogene di salvataggio. Ci si può chiedere: nell'uno o nell'altro caso e comunque ove possibile al di fuori di imposizioni esterne, sono stati ricercati vantaggi di mercato o solo vantaggi finanziari? Cioè: l'acquisizione o la creazione di società ha costituito una applicazione di strategie di diversificazione dei prodotti o, piuttosto, si è cercato di perseguire intenti di ripartizione del rischio e (di occultamento) delle perdite? Che non siano state seguite strategie produttive come finalità di fondo potrebbe ricavarsi dal fatto che dalla polisettorialità non è derivato alcun particolare coordinamento ed impulso all'attività di ricerca. In settori avanzati particolarmente bisognosi di un'azione di Ricerca e Sviluppo non pare siano stati raggiunti successi importanti. Certo, in un campo come l'elettronica è mancata qualsiasi azione di stimolo da parte dello Stato attraverso finanziamenti ad hoc (si ricorda che nei paesi europei tali finanziamenti coprono dal 30 al 50% della spesa per la ricerca), ma non si può nemmeno dire che l'azione del gruppo sia stata di qualche rilevanza. Dunque, di tipo finanziario i vantaggi ricercati per mezzo della proliferazione polisettoriale. Nonché - bisogna aggiungere - quelli più strettamente connessi ai meccanismi degli investimenti azionari: e qui torniamo alla caratteristica fondante del sistema delle partecipazioni statali, il legame con il sistema politico. Il meccanismo azionario è un mezzo di de-
signazione e di nomina e dunque serve ad un particolare reclutamento del personale. Sotto questo aspetto non si può negare che, a suo modo, il sistema sia stato « alternativo» nei confronti di quello privato: ma solo perché, in concreto e storicamente, ai canali tradizionali di selezione del personale imprenditoriale (quindi famiglia, banche, carriere interne d'azienda) si è aggiunto quello che fa capo al potere di designazione del partito di governo e delle sue interne diramazioni. Con il risultato di avere un certo numero di cavalli fatti senatori da Caligola, ma anche - tutto sommato - senza differenziazioni troppo clamorose fra per sonale <'pubblico>) e « privato ». L'omogeneità culturale è risultata più compatta di quanto non appaia. Si tratta, comunque, di una questione del tutto aperta all'analisi. L'uso giornalistico. di for mule denigratorie del personale dirigente <pubblico », per quanto serie possano essere le ragioni che l'hanno determinato, non raggiungerà più sicura validità se non attraverso un'analisi comparativa precisa delle qualità dell'intero universo imprenditoriale italiano in questi ultimi decenni. Còme ho detto all'inizio queste sono alcune note in margine all'analisi di Leon. Sono note problematiche, senza coerenza sistematica. Occorrerà continuare a discutere un po' su questa « analisi » e sulle aperture che essa consente per riprendere il discorso delle proposte. Cosa che faremo per il libro a più voci che è in preparazione a cura del Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti.
PROBLEMI dell'informazione ANNO I, n. 4, OTTOBRE-DICEMBRE 1976 Verso un nuovo assetto generale del nostro sistema di informazione, di Enzo Cheli Campo comunista e campo non comunista nell'analisi delle comunicazioni di massa e dell'organizzazione della cultura, di Franco Rositi I maestri del colore (Appunti per una storia del giornalismo letterario in Italia),
di Nello Ajello .Quotidianità della violenza e scatenamento nel processo di costruzione del « mo-
stro », di Loredana Sciolla I bilanci dei quotidiani .nel 1975: nodi e contraddizioni della crisi, di Luigi Guastamacchia Si farà ancora ricerca alla RAI-TV?, di Giovanni Bechelloni Notiziario, a cura del CESDI Rivista trimestrale diretta da Paolo Murialdi, Giancarlo Carcano e Piero Pratesi. Un fascicolo L. 2.500 - Abbonamento annuo L. 9.000; (estero L. 10.000). Abbonamento sostenitore L. 30.000. Versamenti sul CCP n. 8/12926, intestato alla Società editrice il Mulino, Bologna. Direzione: Paolo Murialdi, Viale Ferdinando di Savoia, 5 - 20124 - Milano.
Rassegna I taliana di Sociologia Anno djcjassettesimo - Numero 4 - Ottobre/Dicembre 1976 La riforma della scuola secondaria superiore e le FRANCESCO REMOTTI scienze sociali SAGGI E RICÉRCHE La tradizione sociologica: origini, confini, modelli SAMUEL N. EISENSTADT di innovazione e crisi RASSEGNE Un classico dell'antropologia sociale trent'anni doANTONINO COLAJANNI po: I Nuer di E. E. Evans-Pritchard e la teoria delle società segmentarie MATERIALI DI RICERCA L'istruzione come consumo di status CELESTINO COLUCCI Il comportamento elettorale a Milano RENATO MANNHEIMER e GIUSEPPE MIcHELI LIBRI. E RIVISTE, RECENSIONI, SCHEDE, INDICE DELL'ANNATA 1976 La Rassegna Italiana di Sociologia esce trimestralmente a Bologna per i tipi della Società editrice il Mulino. Direttore responsabile: Camillo Pellizzi Redattore capo: Giovanni Bechelloni La Direzione e la Redazione hanno sede in Roma, Viale Giuseppe Mazzini, 88 (Tel. 31.29.51). Ogni numero costa L. 2.500. L'abbonamento a quattro numeri, L. 9.000 (estero L. 10.000). Per i versamenti utilizzare il dc postale n. 8/12926 intestato a Società editrice il Mulino, Bologna.
CENTRO STUDI' - DELLA FONDAZIONE ADRIANO OLIVETTI
Gli studi sulle istituzioni politiche costituiscono l'impegno prevalente del Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti. Alle indagini riguardanti il Parlamento e le Regioni si aggiunge ora un programma di ricerche sui problemi del Governo. Di questo programma sta per uscire il primo volume:
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Contributi di Franco Bassanini, Enzo Cheli, Andrea Manzella, Fabio Merusi, Pietro Ricci, Stefano Rodotò, Vincenzo Spaziante.
Il libro è pubblicato dalle
Edizioni di Comunità Via Manzoni, 12 - 20121 Milano
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