Queste istituzioni 110

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Anno XXV - n. 110 - Trimestrale (aprile-giugno 1997)

questo ìstìtuzìunì

Europa: si addensano le questioni dirompenti Taccuino Ribaudo, Starobin, Pistorelli, Zi.caro

Russia: i sentieri interrotti della democrazia Angela di Gregorio, Antonio Chizzoniti

Mappe del non-profit Saveria Addotta, Paul Palmer

L'enigma del fisco europeo Antonio Di Majo, Enzo Russo


queste istituzioni rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno XXV n. 110 (aprile-giugno 1997) Direttore: SERGIO RI5TUccIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttori: MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Comitato scientifico: MASSIME DE FELICE, BRUNO DENTE, SERGIO LARICCIA, MARIA TERESA SALVEMINI, UMBERTO SERAFINI Redattore Capo: SAVRIA ADDOTrA Comitato di redazione: ANTONIO CHIzz0NITI, ROSALBA CORI, ADELE MAGRO, BARBARA NEPITELLI, GIORGIO PAGANO, IGNAZIO PORTELLI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, ANDREA SPADE -I-I-A Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO Responsabile relazioni esterne: MASSIMO RIBAUDO Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Amministrazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8- 00193 Roma Tel. 06/3215319 - Fax 0613215283 Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 20 - 00193 Roma Tel. 0613208732-628 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile: G!OVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: I.G.U. sri. - Roma Chiuso in tipografia il 20giugno 1997 In copertina: foto di Stefano Montesi

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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


N. 110 1997

Indice III

Europa: si addensano le questioni dirompenti

Taccuino i

Esiste un diritto comune europeo? Massimo Ribaudo

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I conservatori ripensano il capitalismo Paul Starobin

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Mafie al Nord Luca Pistorelli

23

Il primo contratto dei dirigenti pubblici Antonio Zucaro

Russia: i sentieri interrotti della democrazia 35

Le istituzioni della "transizione" nella Russia eltsiniana Angela di Gregorio

63

Russia, l'ombra della Mafia Antonio Chizzoniti

Mappe del non-profit 79 98

Non-profir: le aspettative per una nuova era Addotta Saveria Le Charities inglesi verso il futuro PaulPalmer


L'enigma del fisco europeo 113

La tassazione delle imprese nelle politiche dell'Unione Europea Antonio Di Majo

131

Per il federalismo fiscale ricostruire ex novo il ministero delle Finanze Enzo Russo

Rubriche 143

Notizie da...

150

Segnalazioni

I'


editoriale

Europa: si addensano le questioni dirompenti

È difficile lasciar cadere, nel giugno 1997, il discorso sull'unione monetaria europea, a cui avevamo già dedicato l'editoriale del numero precedente. Viviamo mesi di contrasti politici e sociali, di guerriglie sui numeri, di ansie collettive, di complessiva cattiva gestione da parte dei governi della questione Euro: tutti fatti che non possono essere lasciati senza qualche nota a margine. E poi le elezioni inglesi e quelle francesi, inopinatamente volute dal Presidente Chirac, hanno dato diversa fisionomia al fronte dei governi, con il successo della sinistra. Una vittoria quella della sinistra francese tutto sommato, più importante - almeno per quanto riguarda l'Europa e il percorso verso la moneta unica - di quella attesa, anche se rivelatasi poi di maggior dimensione, del Labour di Tony Blair. Innanzi tutto una domanda: cosa si può dire, ora, dell'unione monetaria in Europa? Da fatto dei tecnici, gestito attraverso una logica intergovernativa ormai alle corde, la questione è diventata traumaticamente il grande problema dei popoli europei, un problema con abbondanza di aspetti arcigni. Il mordere delle politiche di convergenza ha rotto ogni residuo incantesimo verso l'Europa come obiettivo di integrazione da conquistare gradualmente e, in definitiva, con il maggior numero possibile di sforzi non dolorosi. L'Europa non è più, ormai, una madre accogliente, ma è diventata una scostante matrigna, come hanno detto vari commentatori. Di più, la difficoltà dei percorsi a cui ci si è impegnati attraverso accordi fra governi, sostanzialmente al di fuori di popolazioni e parlamenti, trasforma i processi di convergenza in una serie di battaglie, se non in una vera e propria guerra, fra i Paesi membri e all'interno dei Paesi membri. In questo senso, se alla fine l'unione monetaria ci sarà e comincerà a funzionare in modo più o meno soddisfacente per tutti, si potrà dire che il test superato sarà altamente significativo: l'Europa, resistendo agli effetti della guerra dell'Euro, o comunque - limitando la metafora - resistendo alle potenzialità di divisione che il problema ha oggi e recuperando poi, per quanto possibile, i costi pagati, potrà III


dirsi più sicuramente costituita. Il test però è lungo: non si tratta, soltanto, di mettersi in certe condizioni per arrivare ad una certa scadenza (la prima fase dell'Euro), ma di mantenersi per un non breve periodo entro comportamenti economico-sociali che sconvolgono il quadro delle sicurezze quotidiane del cittadino europeo. Come dire che la guerra non è breve e potrà rinfocolarsi continuamente non appena quei comportamenti saranno oggetto di scrutini e verifiche, ovvero saranno sempre più messi in discussione e contestati i criteri di condotta, come sempre avviene nella storia sociale per i vincoli etero-imposti. Siamo, insomma, e a questo dovevamo preparaci dalla fine degli anni Ottanta, ad un passaggio storico, ma assai difficile. Una cosa, intanto, è sicura e va colta per quel che è: il metodo intergovernativo per fare la politica d'integrazione europea è arrivato al suo limite, anzi rischia continuamente di trasformarsi in un boomerang. Più volte un avvertimento è venuto dall'Economist, ( che sull'Euro ha mantenuto una posizione distaccata, auto-definita unusual , fondata sull affermazione un po lapalissiana che I unione europea può essere una buona cosa o una cosa cattiva secondo come è fatta", e che sulla base di questa posizione ha quindi prodotto un bel rapporto sui pro e sui contro dell'Euro): il dibattito pubblico sull'unione monetaria è stato "spaventosamente povero" mentre "senza un ampio ed informato consenso, l'unione (( • monetaria europea può rivelarsi fragile , ma - appunto - 1 informato consenso richiede un appropriato dibattito". Sennonché, chiediamoci, chi avrebbe dovuto suscitare il dibattito? Sempre e soltanto i governi? Ponendoci la domanda ci si accorge che essa è retorica: certamente no; non possono essere solo i governi a creare fronti di dibattito, anche per non essere travolti dal sovraccarico. La rete delle negoziazioni bilaterali e multilaterali è già così complessa che nei riflessi condizionati dei governi sorge la naturale esigenza di ridurre i tavoli di trattativa. Ma che fanno i parlamenti, cosa fa la fantomatica società civile o la comunità degli studiosi o degli opinion leader? A quest'ultimo proposito bisogna dire alcune cose con chiarezza: studiosi, opinion leader (diciamo: commentatori sui giornali), scienziati sociali, o si sono sentiti estranei al tema perché non economisti, ovvero, se economisti, hanno per lo più ritenuto di cavalcare l'argomento "unione monetaria" con lo spirito ben illustrato di recente da Michele Salvati quando annovera fra i vantaggi dell'unione monetaria "il vecchio disegno di una parte (ahimé troppo piccola) delle nostre élite tecniche e politiche: quello di 'legare le mani' a un sistema politico na-

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zionale che troppo spesso è risultato incapace di legarsele da solo. Si può dubitare del significato etnico-politico e del realismo di questo disegno (espresso mirabilmente nell'autobiografia di Guido Carli, per trarre un esempio dal recente passato al posto di quelli che facilmente potremmo trovare nel presente): la virtù coatta non è altrettanto bella e affidabile della virtù spontanea. Ma è difficile negare ogni efficacia a questo tipo di argomenti." (M. Salvati, Moneta unica rivoluzione copernicana, in Il Mulino, n. 1/97). Affermazione, quest'ultima, certamente vera, ma che traligna quando diventi - come spesso è diventata - l'unica ad orientare il dibattito. LE "RAGIONI DELLA CULTURA"

Sappiamo che i nostri lettori sono cinque e tendono a diventare quattro piuttosto che sei, ma pur in questa consapevolezza vogliamo ricordare che nella relazione all'assemblea del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali del 1992, pubblicata su queste pagine (queste istituzioni, n. 90-91, aprile-settembre 1992, pp. IIIXIII), esprimemmo con chiarezza il disagio di un approccio monocorde all'Europa della moneta, che ha distolto molte energie da altri aspetti importanti di una costruzione europea sempre più difficile e contraddittoria. Parlammo allora delle "ragioni della cultura", dove la parola cultura veniva assunta nei suoi significati antropologici, nella sua portata di elemento costitutivo dei modi di vivere e di sentire. Campo di lavoro non tanto per le politiche governative quanto dell'azione di libere istituzioni della società civile. L'impressione è che si sia fatto finora assai poco, ma potrebbe darsi che l'impressione sia solo superficiale. Non è detto, infatti, che le cose che si fanno siano tutte di facile percezione. Nel nostro piccolo, qualcosa abbiamo fatto in coerenza con quel che dicevamo nel 1992. Nel 1994, l'Assemblea del Css scelse l'area delle relazioni interetniche come campo del proprio intervento, per il peso politico dei problemi e per la necessità di un forte contributo multidisciplinare. Ne abbiamo già parlato l'anno scorso, in occasione dell'Assemblea del 1996. La conclusione di quel primo intervento è stato un Rapporto intitolato Interethnic Relations in Europe e realizzato in cooperazione con l'istituto Ercomer dell'Università di Utrecht. Il Rapporto dà un quadro esauriente dei centri di studio dedicati al problema scottante dei rapporti inter-etnici in Europa, secondo la sua accezione più larga. Sono identificati oltre 300 centri e istituti ed informazioni dettagliate sulla attività svolta sono venute da oltre 200 di questi centri e istituti; informazioni che sono state approfondite e discusse in tre riunioni a Parigi, Ferrara e Amsterdam. Il seguito che

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oggi si profila dopo questo primo intervento è un'iniziativa di notevole spessore politico-istituzionale: rendere operativo il network che si è venuto a costituire al fine di una costante analisi e valutazione delle relazioni interetniche e dei problemi delle minoranze nelle diverse aree del Continente. Un servizio di grande interesse per le istituzioni dell'Unione Europea ma, pii in generale, per i cittadini europei. La realizzazione del progetto (denominato Etnobarometro) vede per la prima volta fra i sostenitori alcune fondazioni: la Compagnia di San Paolo, la Fondazione Europea della Cultura, la Fondazione Cariplo, la Fondazione Adriano Olivetti, la Mott Foundation, ed altre che si stanno aggregando all'iniziativa. Proprio nell'ambito che chiamiamo delle "ragioni della cultura" s'intravede un'altra questione dalle forti potenzialità di divisione: la questione delle lingue. Vera e propria "grande questione non detta" dell'integrazione europea, essa è stata trattata finora con estrema prudenza, ben sapendo che assai spesso la questione si è rivelata unicamente "divisiva", in Europa come altrove. Le discussioni che ci sono state hanno dimostrato quanto grandi siano le ansietà o, per converso, le ambizioni non sempre suffragate, le une e le altre, da elementi di fatto o dall'opinione degli esperti. In realtà, quando si giunge alla lingua, le promesse di ulteriore integrazione europea non sono così credibili come molti pensano. La questione della lingua si lega naturalmente alla "febbre identitaria" che percorre il continente. Allora: si continua nella politica del non parlarne ovvero è meglio affrontare la questione, cercando di disinnescare una bomba ad orologeria di notevole potenza? La Fondazione Europea della Cultura, a conclusione del workshop dei suoi "governors" di fine maggio, ha ritenuto che convenga affrontare il problema, sdrammatizzandolo per quanto possibile con il prospettare le vie di soluzione a medio termine, in gran parte fondate su adeguate politiche educative (la seconda lingua fin dalla prima scolarizzazione anche per gli anglofoni, la ricerca sull'apprendimento linguistico e la diffusione dei metodi acquisiti in questo campo, il riconoscimento e miglioramento di un "inglese internazionale" e così via). Intanto, il Parlamento Europeo avverte l'urgenza della questione lingue: un grande consesso dove si parlino quasi venti lingue "ufficiali", come avverrà dopo l'ulteriore allargamento dell'Unione, rischia di essere soltanto per questo quasi ingovernabile. Il nodo delle questioni dirompenti si va, dunque, infittendo e la logica dell'integrazione intergovernativa rischia di non farcela più. O, meglio, già non ce la fa più. Ma non è detto che ad essa si possa supplire, semplicemente, con gli stru,j1


menti istituzionali cui si è pensato di fare ricorso tutte le volte che si è fatta la critica di questa logica. Non è soltanto un problema di aggiustamenti istituzionali. Pensiamo, appunto, al Parlamento Europeo: esso è di fronte a formidabili problemi di funzionalità. L'impressione è che le questioni dirompenti possano fare massa critica se non affrontate e seguite per tempo distribuendo ed impegnando tutte le energie sui diversi fronti. Quando nelle guerriglie dell'Euro si sente dire, da qualche tempo, che l'Europa non è solo moneta o solo parametri da ragionieri ma è anche politica, vorremmo che - al di fuori delle ovvietà tardive - ci fosse la consapevolezza delle altre questioni da affrontare. Temiamo che non sia così. LE QUESTIONI CRUCIALI IN AGENDA

Autorizzati da quel che abbiamo realizzato, o stiamo cercando di realizzare, in coerenza con le preoccupazioni espresse nel 1992 ad uscire fuori dal coro dei conformismi del ccgiorno per giorno", possiamo elencare delle questioni sulle quali, a nostro parere, è urgente lavorare. La Costituzione d'Europa dopo il Consiglio Europeo di Amsterdam: il discutere su che cosa sia l'Europa istituzionale vuole ormai una riflessione delle più approfondite. La stagione delle ratifiche nazionali alle correzioni al trattato suii'unione non può passare sottotono, ma dev'essere un'importante stagione di verifiche, anche dure e radicali, a pena di rendere tutto il sistema barocco, contraddittono e alla fine fragile. Si tratta, poi, di valutare la coerenza fra costituzione europea e costituzioni nazionali; tema assai rilevante per il nostro Paese, come già sottolineavamo nell'editoriale del n. 109. Il capovolgimento delle mentalità dopo l'unione monetaria. È da raccogliere la forte raccomandazione di Michele Salvati che, nell'articolo citato, fa di questo capovolgimento la chiave di volta di un sistema che colga e valorizzi l'opportunità dell'Euro. C'è un punto che va, tuttavia, sottolineato anche al di là di quel che faccia l'autore: la mentalità va cambiata non solo nei sindacati e nella sinistra europea ma nella stessa classe imprenditoriale. Ci chiediamo, infatti, quanto di questa classe abbia recepito messaggi e indicazioni di quel libro-manifesto del più recente pensiero strategico americano che fa, della capacità di progettare e investire per il futuro, con orizzonti temporali almeno di dieci anni, la regola base per ogni affermazione duratura sul mercato globale. Questo grande mercato non è più soltanto l'opportunità data ai manager, allenati ai grandi tagli, di spoVII


stare stabilimenti e di ricercare in giro per il mondo le risorse a minor costo, ma è quello di inventare il futuro con forte autonomia intellettuale nei confronti delle ragioni e dei vincoli del "mercato servito" e delle intenzioni consequenziali di mera conquista di quote di mercato a bocce ferme. Certo, Gary Hamel e C.K. Prahaland, autori di Competingfor the Future (Harvard Business School Press, tradotto in italiano dal Sole 24 Ore con una bella post-fazione di Gianfilippo Cuneo), scrivono fondamentalmente per le grandi imprese multinazionali, ma poi conquistano con il loro best seller tutti coloro che credono di avere un patrimonio di competenze particolari (core competences) da far valere nel difficile mercato della "globalizzazione". Occorrerebbe andare alla ricerca dei casi europei di efficace progettualità. Quanto sia in ritardo gran parte dell'imprenditoria europea sembra dimostrato dall'iniziativa della Commissione, presa d'intesa con il Consiglio Industria, di stimolare la pratica del benchmarking, cioè dell'analisi comparativa della competitività o delle prestazioni delle industrie europee. Si tratta di una pratica importante, ma tutto sommato appena propedeutica alle strategie di "conquista del futuro".

Europa e febbre identitaria: "da soli non potremmo sopravvivere in quanto Stati nazionali nell'economia globalizzata. In quanto alla storia ha ragione Kohl: l'integrazione è una questione di pace o di guerra nel prossimo secolo. Non penso alla guerra fra Francia e Germania, quanto ai secessionismi latenti che senza l'Europa rischierebbero d'esplodere ovunque". Così Joska Fischer, leader dei verdi tedeschi in un'intervista recente al "Corriere della Sera" (14 giugno). Anche per questo egli ritiene che sia "nell'interesse di tutti che l'Euro parta nei tempi previsti". Un successo, bene o male, unitario non è detto però che calmi la febbre identitaria. Tornano, come alcuni dicono, i caratteri nazionali o essi si moltiplicano alla ricerca di un numero assai ampio di subcaratteri? La questione è al centro dell'agenda europea con una evidente carica esplosiva. Post-scrzptum. Mentre già l'editoriale era pronto per la stampa, all'alba del 18 giugno, i rappresentanti dei governi europei riuniti nel vertice di Amsterdam che avrebbe dovuto fissare i caratteri del dopo-Maastricht, hanno trovato un accordo. La loro intenzione, probabilmente, era quella di non lasciare la capitale olandese con un nulla di fatto. Ma forse il rimedio è stato peggiore del male. Quanto innanzi detto sulla deriva dell'approccio intergovernativo per la risoluzione delle questioni istituzionali nell'Unione ha trovato una sin troppo scoperta conferma. Che non ci rende allegri. !4T1J


Leggiamo i "lanci" d'agenzia, ascoltiamo i commenti di "chi c'era". Certo, un accordo si è fatto: per rinviare quasi tutto. Di riforme istituzionali si parlerà dopo l'allargamento. Non c'è stato il coraggio di fissare, ora, le regole sulla ponderazione dei voti nelle future istituzioni. Si è soltanto deciso che, in occasione del prossimo allargamento, si dovrà attribuire un Commissario ad ogni nuovo Stato membro a condizione che, prima dell'allargamento stesso, sia stata varata una riponderazione del voto. Dopo quindici mesi di negoziato nella Conferenza Intergovernativa (Cig), la "wider e deeper community" di Schumann perde sempre più il suo secondo aggettivo, (quello denso di idealità). Sarà più larga, più spazio di mercato, ma sempre meno spazio politico per le strategie "alte" che si sono prospettate. Gli unici risultati raggiunti dal vertice sono la comunitarizzazione della politica di immigrazione (con l'opting out, divenuto ormai consueto, per Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda) e la prospettiva - ma la definizione dei casi è, anche qui, rimandata a scelte future - di un maggior ricorso al voto a maggioranza qualificata.

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taccuino

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Esiste un diritto comune europeo? di Massimo Ribaudo

continui moniti delle sedi istituzionali e degli operatori mediatici "pro" o «contro" Maastricht ci fanno spesso dimenticare che c'è un'Europa che già esiste e della quale facciamo parte da tempo. È l'Europa del diritto, e quindi delle libertà. Un tessuto di regole comuni, di modalità e principi uniformi che assicurano standard qualitativi e performance professionali simili sull'intero territorio della Comunità. Certo, il cammino è ancora lungo, ma sottolineiamo la necessità Uno spazio di ricordare che al di la' di qualsiasi propensione monetarista del- di regole comuni la futura costruzione europea, questa si è formata e consolidata come spazio di diritto comune. Un coacervo di esperienze giuridiche la cui comparazione ed integrazione reciproca comportano un nuovo modo di utilizzare ed interpretare i diritti nazionali.

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Le democrazie occidentali si sono fondate proprio sul primato del diritto, inteso come sistema coordinato di prescrizioni e di sanzioni, sorretto da un organismo rappresentativo di un popolo, che prevede meccanismi di garanzie e canali di promozione per i cittadini. L'Europa che esiste e che, ci auguriamo, rimarrà, con o senza moneta unica, è quella che, tra mille difficoltà, assicura la libera circolazione dei lavoratori, delle merci, dei capitali, dei servizi, delle comunicazioni. Proprio in virtù di regole omogenee, chiare ed applicabili sull'intero suo territorio. E gli studiosi, nonché le Corti nazionali, si stanno da tempo ponendo il problema di identificare le tipologie di rapporti esistenti


tra regole e principi giuridici comunitari e tradizioni giuridiche nazionali. Il dibattito sulla convergenza degli ordinamenti è stato ripreso di recente nell'editoriale del direttore del «Maastricht Journal of rturopean anai Lomparative Law ea iii•ipresente articoioi al-i tro non vuole che fare eco all'invito ad un dibattito che torni a privilegiare i ragionamenti sulle questioni del diritto (anziché, aggiungiamo noi, sugli zero percentuali, per quanto importanti). 1'

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Esiste, o no una convergenza>

Bruno De Witte, alla fine dello scorso anno (Maastricht Journal, n. 2, vol. 3, 1996, pp. 107) ha fatto il punto sulla controversia esistente tra gli studiosi, come Pierre Legrand, i quali affermano che la convergenza dei sistemi giuridici è soltanto apparente, in quanto saremmo in presenza di diverse culture giuridiche e chi, come Walter Van Gerven, approfondendo le analisi proposte sullo stesso Maastricht Journal, dimostra che un "sistema legale Europeo sta effettivamente prendendo piede e che, 9e differenze tra sistemi giuridici possono dimostrarsi, come risultato dell'Unione Europea, meno irriducibili che in passato, almeno in certe aree del diritto". Ricordiamo come lo stesso Maastricht Journal si è posto quale elemento promotore della creazione di una "Common Law" europea, e che in tale programma si riconosce anche il progetto editoriale della nostra rivista. Sia i partigiani della differenziazione, che quelli dell'unificazione dei diritti presentano interessanti argomenti. Il punto di partenza della controversia è offerto dai due articoli pubblicati nel 1996 dall'International and Comparative Quarterly: quello di Pierre Legrand (European Legai System are not converging), ed il parere opposto di Walter Van Gerven (Bridging the Unbridgeable: Community and Nationai Tort Laws afler Francovich and Brezserie). Pierre Legrand, in un erudito e provocatorio articolo, protesta contro l'eccessivo entusiasmo dei molti fautori di una "nuova common law" in Europa. Secondo l'Autore, questi giungono troppo facilmente alla conclusione che i sistemi giuridici europei 2

La "common

law" europea è ancora lontana


si stanno avvicinando per fondersi agevolmente in regole, concetti e principi, senza però prendere nella debita considerazione le sottostanti culture giuridiche. Per Legrand, tali culture giuridiche sono fatti concreti densi di significato laddove regole e concetti sono fenomeni giuridici superficiali. Egli, quindi, arriva a dimostrare che le culture giuridiche dei Paesi di common Iaw e quelle dei Paesi dell'Europa continentale continuano ad essere distanti come sempre sono state. Un diritto comune europeo è quindi impossibile. "Nell'assenza di chiare premesse epistemologiche, i mondi della common law e della civil law, non possono, dunque, raggiungere un reciproco scambio che porterebbe l'uno ad essere l'equivalente dell'altro" Walter Van Gerven afferma, invece, che la convergenza dei sistemi giuridici europei sta avendo luogo, e che "le differenze tra i sistemi giuridici, possono mostrarsi meno inconciliabili di prima, grazie all'Unione Europa, almeno in certe aree del diritto". Egli esplora il settore della responsabilità per danno - dove ie differenze tra i sistemi tedesco, francese ed inglese non potrebbero sembrare più inavvicinabili -, e quindi la sentenza Francovich (Francovich e Bonifaci Vs. Italia C-6 e 9/90) della Corte di Giustizia Europea, la quale ha posto un'interpretazione della responsabilità per danno da parte delle autorità governative che ogni ordinamento nazionale dovrà d'ora in poi rispettare. In estrema sintesi, i giudici della Corte hanno sancito il principio della responsabilità per danno delle autorità nazionali per omessa applicazione di una direttiva comunitaria. In questo caso, i criteri per stabilire l'entità del danno e la sua risarcibilità dovranno essere desunti dalla prassi giuridica comunitaria più favorevole al danneggiato e non espressi dal diritto interno. Questo processo di ricezione, proprio su uno dei campi ritenuti più incomparabili tra i sistemi giuridici nazionali comporterà, secondo l'Autore, la necessaria affermazione di un diritto comune europeo.

Il ruolo della Corte di Giustizia Europea

C'è da dire che questa posizione è rimasta alquanto minoritaria nella dottrina europea, come ricorda proprio il direttore del La sentenza Maastricht Journal. Non vi è stato ancora un tentativo di com- "Francovich" mento della sentenza Francovich da parte della dottrina europea


che abbia analizzato, in chiave unitaria, gli effetti della sentenza stessa. Chi l'ha studiata, insomma, si è preoccupato di identificarne gli effetti rispetto al proprio ordinamento, ignorandone la portata sulle altre esperienze giuridiche dei Paesi membri. De Witte punta l'indice sulle cause di questo silenzio, e noi di queste istituzioni vogliamo sottoscrivere le sue ragioni, per quel che riguarda il dibattito italiano, troppo preso dalle questioni UME per preoccuparsi dell'Europa che, come abbiamo detto, già esiste. Come ci riferisce De Witte, anche in Germania c'è chi denuncia il fatto che gli studiosi tedeschi nulla o poco sanno di quanto affermato sulla sentenza in questione da parte dei loro colleghi europei. Per Christian Tomuschat, infatti, tra gli studiosi di diritto europei, nonostante i frequenti programmi di scambio, le giornate accademiche, le erudite affermazioni, vi sarebbe assenza di comunicazione e di scambio d'informazioni sul significato delle diverse fattispecie. La critica prende toni aspri: mancanza di capacità linguistiche, biblioteche universitarie impoverite, mancanza di tempo per ricerche in chiave comparata in grado di tenere dietro all'enorme incremento di scritti su temi giuridici in Europa. Tutto ciò porta all'inevitabile risultato di una decadenza del diritto europeo. E in questo modo, le culture giuridiche europee si allontanano sempre più. Insomma, un importante caso come il precedente della sentenza Francovich, che denoterebbe un tentativo di riavvicinamento dei sistemi giuridici europei, ha provocato una reazione degli studiosi chiusa all'interno dei concetti giuridici nazionali. Chi ha ragione, allora? La cattiva comunicazione tra i cultori del diritto enfatizza le differenze, o è l'eccessivo attaccamento alle culture giuridiche nazionali ad impedire la costruzione di ponti tra sistemi giuridici diversi? Insomma, per chi ha fatto l'esame di Diritto Comparato, un po' di ragioni Legrand sembra averle. Rammentiamo qui la fondamentale (ma lo è ancora?) distinzione tra il diritto che è prodotto dall'attività dei giudizi tramite il valore dei "precedenti" negli ordinamenti di Common Law, contrapposto a quello fondato sul diritto scritto scaturente da forme politiche, di ispirazione romano-germanica, definito di Civil Law. 4

I mali della cultura giuridica in Europa

Common law vs. Civil law


Semplificando un po ' , confrontiamo opinioni e mentalità in campo. Da una parte ci sono quanti ricordano che spesso nel mondo anglosassone si giudica il nostro sistema un "diritto degli schiavi", scandito da norme decise da un "principe" più o meno occulto, per una serie di casi diversissimi accomunati soltanto dalla volontà di questo mitico "Legislatore" del quale gli Inglesi non hanno mai voluto sentir parlare. E la britannica supremazia del Parlamento? Prima di tutto è oggi più che mai legata ai libri di storia: il Parlamento inglese, fatti salvi rarissimi casi, discute quello che vuole il Governo. E poi, il Parlamento della tradizione britannica non è quello della Rivoluzione Francese: non è un Parlamento legislatore. Controlla il Governo, discute di entrate e di spese: al limite interviene sulla legislazione in materia di amministrazione a livello nazionale. È il Giudice, nelle persone delle tre Corti di vertice, (nell'ordine la House of Lords, la Court of Appeal e la High Court), a formare le fonti primarie del diritto. E questo con buona pace di chi vede il giudice-legislatore come un attentato alla democrazia. Negli Stati Uniti vige il principio della paramountcy della Corte Suprema e mai nessuno si è sognato di definirlo un attacco ai principi democratici. Quindi, le tradizioni giuridiche continentali e quelle dell'Inghilterra e di alcuni Paesi dell'Europa del Nord non potrebbero divergere di più. Ma qui interviene la Corte di Giustizia Europea, che sta appunto creando, e non citerò le innumerevoli decisioni in tal senso, un diritto omogeneo, fatto di norme e di visioni concrete, di astrazioni giuridiche, ma anche di principi di diretta valutazione giurisprudenziale, quali la razionalità della norma da applicare, la sua congruità a raggiungere lo scopo che si è prefissa, la sua compatibilità con l'intero sistema di norme. Insomma, cerca di valutare se il comando o il divieto sono necessari, razionali ed economici. Altrimenti le decisioni della Corte, ove possibile, superano il diritto statale ed introducono comportamenti omogenei ispirati a principi diversi da quelli che hanno ispirato il contenuto della norma nazionale.

Quando la legge emana dal giudice

Solo norme razionali e necessarie

Ecco perché è nel giusto anche, e soprattutto, Van Gerven.

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Gli atteggiamenti nazionali stanno cambiando. Così come le classi dirigenti che li promuovono. Sono manager, leader, opinion maker che viaggiano e comunicano in più lingue, in più modelli mentali. E parlano a razze, sessi, età diverse. Non possono più permettersi di legarsi eccessivamente a tradizioni escludenti. Come ci rammenta sempre De Witte, si sta affermando una comunità di studiosi del diritto di lingua anglosassone, comprendente Inghilterra, Irlanda, Belgio e Olanda, che oltre a dialogare nello stesso linguaggio, usa modelli e prassi giuridiche molto simili, scrive sulle stesse riviste ed occupa posti di vertice in vari Paesi, diversi da quello di appartenenza. Ma il cammino verso un diritto comune europeo non passa soltanto dalla loro volontà. Insieme al direttore del Maastricht Journal vogliamo esaltare il ruolo dei programmi europei culturali di scambio, per la formazione continua dei giuristi e degli operatori del diritto in Europa. Durante tali periodi di formazione, i giovani ricevono ed assorbono le principali peculiarità del diritto del Paese ospite. In questo modo, come afferma De Witte, si ottiene una contaminazione di tradizioni giuridiche ed interferenze straniere che porterà interessantissimi sviluppi per il nostro futuro. Purché se ne parli. Purché si discuta di contratti, di inadempimenti, di sanzioni in uno spirito di partnership che è il vero collante dell'Unione Europea. Con un metodo induttivo che consolidi un percorso diverso da quello, strettamente deduttivo, seguito per una moneta unica (traguardo pur importante) che per adesso serve più a dividere che ad unire.

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L'importanza della formazione dei giuristi


I conservatori ripensano il capitalismo di PaulStarobin

E

possibile "civilizzare" il capitalismo? Guardate un po' chi ci vuole provare. No, non si tratta di qualche nuovo circolo di noiosi progressisti riformatori nostalgici del New Deal, ma di un gruppo di conservatori "comunitaristi" che nei loro discorsi ricordano molto, sì, proprio Karl Marx. Il capitalismo fine a se stesso, proclamò Marx nel Manifesto del Partito Comunista, ha "trasformato il valore della persona in valore di scambio" e "non ha lasciato alcun legame tra gli uomini adeccezione dell interesse privato e del mero «pagamento in denaro (Marx parlò anche di come il capitalismo potesse sortire effetti negativi sulle famiglie). Questo accadeva nel 1848. Ora trasferiamoci all'incontro del National Press Club dello scorso novembre 1996. Sul podio era William J. Bennett, l'uomo dei valori conservatori, intento a parlare, come sempre, di quello che non va negli Stati Uniti. Tuttavia, Bennett non ha limitato le sue critiche solo allo statalismo. "Il capitalismo senza regole è un problema", ha dichiarato Bennett. Forse non sara un problema per la produzione, ma e certamente un problema per gli esseri umani. È un problema per tutta quella dimensione che chiamiamo il regno dei valori e dei rapporti umani. In sostanza, Bennett si è fermato a un passo dall'incitamento alla rivoluzione socialista. Il pensiero conservatore in America non ha ancora raggiunto il punto in cui ai lavoratori viene detto che essi non hanno "nulla da perdere ad eccezione delle proprie catene". Tuttavia, qualcosa di importante sta accadendo nei circoli conservatori americani, qualcosa che ha delle importanti implicazioni per il modo in cui il Paese e la classe politica di Washington concepiscono i problemi economici e sociali. Un numero crescente di importanti teorici conservatori del mondo accademico, delle fondazioni e dei circoli intellettuali sta perdendo la moderna infatuazione per il capitalismo come motore del progresso non solo economico ma anche sociale. Punto, e

Vi ricordate

Karl Marx?

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a capo. Le osservazioni di Bennett rientrano in una crescente ondata di critiche al capitalismo lanciate dai conservatori che miiitano in quello che è noto come il movimento della società civile. Il movimento in sé non è nuovo, ed iniziò non con la critica del capitalismo, ma con un attacco contro le intrusioni dello Stato sociale progressista in istituzioni come le chiese, le scuole, le organizzazioni caritatevoli, le associazioni e altre ancora. La crescita di un'amministrazione pubblica remota, impersonale e burocratica, sostengono da tempo i membri del movimento, è avvenuta a spese di queste piccole istituzioni operanti a livello locale, che i comunitaristi indicano come le vere risolutrici dei problemi sociali della nazione. Ora, gli esponenti del movimento della società civile iniziano a discutere del capitalismo moderno grosso modo negli stessi termini nei quali essi discutono dello statalismo, e cioè come di una forza destabilizzante, invadente e priva di scrupoli morali in grado di lacerare il tessuto della vita delle comunità. Le istituzioni comunitarie americane vengono indebolite da un "governo federale invadente" e da un "matrimonio infausto tra il mercato e l'individualismo pii sfrenato", come sostiene William Schambra, un ideologo comunitarista della Fondazione Bradley di Milwaukee, di orientamento conservatore. I comunitaristi conservatori non credono che la nuova economia dell'Era dell'Informatica possa riuscire a rinsaldare i legami all'interno del Paese. Al contrario, riducendo le occasioni di contatto personale tra le persone, avvertono, potrebbe favorire l'anomia sociale. Essi condannano il diffuso ethos della gratificazione immediata di Hollywood e di Madison Avenue, e i paraocchi morali di Wall Street. Inoltre, temono che la rapida crescita delle catene della grande distribuzione come la Wal-Mart Stores Inc. possa corrodere il tessuto sociale delle comunità mettendo fuori mercato i piccoli esercizi commerciali locali. "Io sono contro Wal-Mart", ha dichiarato Don E. Eberly, un conservatore che negli anni Ottanta è stato consulente del repubblicano Jack F. Kemp, sostenitore dell'economia dell'offerta, e che ora dirige il C'ivil Socieiy Project ad Harrisburg (Pennsylvania). «La vita economica , sostiene Eberly, deve affondare le proprie radici nel tessuto morale e sociale della nazione".

"Un pensiero conservatore maturo


In sostanza, la critica del capitalismo si ferma qui, i comunitaristi non hanno saputo mettere assieme una linea politica sufficientemente articolata. "Si tratta di un enorme cambiamento nel modo in cui i conservatori guardano al funzionamento del sistema economico in America", ha dichiarato Schambra. "Si tratta di una consapevolezza ancora indefinita, e siamo ancora lontani dalla possibilità di individuare una linea politica". Schambra ha anche sottolineato come i conservatori come lui non stiano tentando di tutelare e difendere la sacralità delle comunità, essi si limitano a sostenere che un "pensiero conservatore maturo" deve riconoscere l'esistenza di un inconfutabile (e spesso salutare) attrito, nella società, tra la libertà di perseguire le opportunità economiche e la necessità di mantenere l'ordine. Ciononostante, anche questo tipo di discorso preoccupa i conservatori sostenitori del "laissez faire". "Io ritengo che le tendenze destabilizzanti siano uno degli aspetti più attraenti del mercato", ha dichiarato Loren Lomasky, un libertario che insegna scienze politiche alla Bowling Green State University dell'Ohio. "Gli americani", ha aggiunto Lomasky, "hanno sempre scelto la dmamicità e le opportunità, e tutto quanto c'è di innovativo nel campo delle attività umane". All'altro estremo dello spettro filosofico, un attivista del movi- La "mano mento della società civile, radicato nella sinistra, ha dichiarato di invisibile" non è PÙ essere lieto della disponibilità espressa da alcuni conservatori a attendibile? sottoporre ad analisi critica 1 ethos capitalista. «Ritengo che le loro intenzioni siano sincere, e credo che ciò stia accadendo perché questi uomini hanno una profonda conoscenza dei meccanismi che fanno funzionare una società, e di alcune delle ragioni per le quali la nostra società, attualmente, sembra avere qualche problema", ha dichiarato l'esperto di opinione pubblica Richard C. Harwood del Harwood Group di Bethesda (Maryland), che ha lavorato come consulente politico per i candidati Democratici. Numerose nuove commissioni finanziate da fondazioni e istituite allo scopo di diagnosticare i problemi della società civile e di ricercare soluzioni adeguate metteranno alla prova la capacità dei comunitaristi di costruire ponti tra la destra e la sinistra in grado di scavalcare le barriere ideologiche e di parte. 9


Harwood, Eberly e Schambra sono tutti consulenti della National Commission on Civic Renewal, presieduta da Bennett e dall'ex Senatore Sam Nunn (Democratici, Georgia). Il direttore della commissione, Wi!liam A. Gaiston, è un ex assistente di Clinton alla Casa Bianca, e con forti legami con il Democratic Leadership Council, di orientamento centrista. "Ritengo che Bennett abbia chiarito molto bene che le spiegazioni del declino della società in chiave degli effetti dell'economia di mercato saranno al centro delle discussioni", ha detto Gaiston a proposito dell'attività della commissione. "La mano invisibile non è più affidabile nel generare un sano ambiente culturale di quanto lo sia nel generare un sano ambiente naturale". La nuova critica conservatrice del capitalismo, naturalmente, non è svincolata dall'attuale contesto politico. Il pensiero conservatore risente negativamente delle percezioni popolari che lo vedono animato dal desiderio di consentire ai ricchi di diventare ancora più ricchi, e all'inferno tutti gli altri. Una linea più morbida consentirebbe al movimento di allargare la propria base, in particolare tra le donne, in un momento in cui gli slogan edonisti degli anni Ottanta sembrano essere ormai superati. Oggi, l'idea "dell'essere felici con meno" viene resa efficacemente nel nuovo film campione di incassi Jerry Maguire, ne! quale Tom Cruise è un agente sportivo alla ricerca della propria anima che rinuncia alla sua cieca devozione al denaro e al successo a favore dei valori della famiglia, dell'amicizia e dell'amore, evitando così di impiccarsi usando la corda di Adam Smith. Lo spirito comunitarista è addirittura riuscito a pervadere gli editoriali del Wall Street Journab di norma secondo a nessuno nel cantare le lodi del capitalismo più sfrenato. In un articolo del 27 dicembre 1996, l'editorialista Paul A. Gigot ha bacchettato l'editorialista conservatore Fred Barnes, direttore del Weekly Standard per aver scritto che la squadra dei Dailas Cowboys, guidati dal magnate rampante Jerry Jones, è un chiaro esempio di "squadra conservatrice". Obiettando che "questo è alla base dell'errore dei progressisti americani, che confondono il pensiero conservatore con la mentalità affaristica", Gigot ha affermato che la vera squadra amen-

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I conservatori non sono affaristi


cana è quella dei Green Bay Packers, la piccola squadra locale del Wisconsin di proprietà di una società per azioni non-profit impegnata nella comunità, i cui dirigenti sono quasi tutti volontari non pagati. "Se davvero esiste una squadra conservatrice, si tratta di una squadra che incarna la tradizione e l'impegno per la comunità, proprio come questa squadra", ha aggiunto Gigot. Inoltre, tra i conservatori cresce la delusione per le grandi aziende che si sono schierate a fianco dei progressisti a sostegno della riforma dell'assistenza sanitaria sostenuta dal Presidente Bili Clinton e in opposizione alla proposta 209, l'iniziativa della California finalizzata ad eliminare i piani di assistenza a favore delle minoranze finanziati dallo Stato. "Di recente, i conservatori hanno iniziato ad accorgersi che i'affarismo è problematico almeno quanto lo statalismo", ha dichiarato Schambra. Anche se questo punto di vista potrà sembrare un'eresia nella chiesa del pensiero conservatore, da molti punti di vista, i comunitaristi del movimento della società civile stanno tornando alle radici del pensiero conservatore. Stanno riscoprendo voci da lungo tempo dimenticate, come quella di Russell Kirk, che nel suo libro del 1953, The Conservati ve Mmd, si schierò contro "una società basata sui consumi, prossima al suicidio", e sostenne che i conservatori avrebbero dovuto cercare di evitare di consentire che "i loro veri princìpi venissero confusi con semplici apologie della 1ibera impresa7. Il filone di pensiero conservatore di Kirk era schierato al fianco di tradizione, ordine, autorità e gerarchia, tutti valori che, come egli stesso era pienamente consapevole, tendono ad essere minacciati da un capitalismo dinamico. Kirk, scomparso nel 1994, magnificò non Adam Smith, ma pensatori dei diciottesimo e diciannovesimo secolo come Edmund Burke e Alexis de Tocqueviile, che enfatizzarono il ruolo delle organizzazioni volontarie su piccola scala ("i piccoli plotoni", per usare un'espressione di Burke), nel sostenere la solidità delle collettività. Tocqueville ammonì severamente che la democrazia in una America affannata nella corsa alla ricchezza avrebbe potuto generare un malsano individualismo che in un primo momento "indebolisce le virtt della vita sociale" e "con il tempo si trasforma in puro egoismo".

Pensando alle "organizzazioni ,, volontarie

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Ma Kirk era costretto a nuotare contro la marea dell'America del dopoguerra, nella quale sia i progressisti che i conservatori erano prevalentemente interessati alla prosperità materiale, e non ai problemi riguardanti la collettività. I programmi economici, come la richiesta da parte dei progressisti di politiche finalizzate al pieno impiego e la richiesta da parte dei conservatori di politiche monetarie restrittive e minore pressione fiscale, erano considerati come il percorso verso una società migliòre. Tutti volevano la Cadillac, o almeno una Buick. Il Paese non era pronto per affrontare un dibattito su come la sua perenne ricerca di beni di consumo sempre nuovi e sempre migliori potesse risultare in conflitto con la sua capacità di dare forma a una collettività stabile e in buona salute. In ogni caso, non esistevano molti elementi di prova a sostegno del conflitto tra questi due elementi; inoltre, l'America stava combattendo una Guerra Fredda nella quale il suo sistema economico, per quanto perfettibile, era sottoposto alla minaccia del modello dell'economia pianificata socialista. Ora i tempi sono maturi per questo dibattito. La Guerra Fredda è I tempi sono stata vinta, e il sogno del dopoguerra di una diffusa prosperità per maturi per il ceto medio è stato ampiamente, se non completamente, esaudi- un grande i attito to. Bennett nel suo discorso al National Press Club, ha sostenuto: "Siamo il popolo pii ricco e prospero nella storia della civiltà", tuttavia, ha poi aggiunto che questa scalata verso l'alto è stata accompagnata da un costante deterioramento del tessuto sociale. LAmerica è al primo posto tra i Paesi industrializzati anche per gli omicidi, i crimini violenti, la criminalità giovanile, la popolazione carceraria, i divorzi, gli aborti, le famiglie con un solo genitore, i suicidi adolescenziali, il consumo di cocaina, il consumo pro capite di tutti i tipi di droghe, la produzione e il consumo di materiali pornografici", ha sottolineato Bennett. "La questione", ha poi aggiunto, "è stabilire se siamo o meno in grado di sopravvivere alla prosperità". Nella destra di oggi, questo interrogativo non viene accolto da tutti con favore. Molti libertari, come quelli de! Cato Institute di Washington, continuano a ritenere che il ridimensionamento dello statalismo sia la chiave per la cura dei malesseri sociali 12


dell'America. I sostenitori dell'economia dell'offerta, come Kemp e Malcolm S. Forbes Jr. continuano a ritenere che la riduzione della pressione fiscale rappresenti l'unica soluzione possibile. Molti intellettuali conservatori, in particolare tra i rappresentanti della Destra Religiosa, continuano a sostenere che il problema principale sia rappresentato dal radicalismo degli anni Sessanta con i suoi valori permissivi, istituzionalizzato in roccaforti progressiste, laiche e colte come Hollywood, Manhattan, le facoltà letterarie delle università e i media. La colpa della disgregazione, essi sostengono, è di Oliver Stone e del New York Times. Tuttavia, i conservatori del movimento della società civile stanno dicendo: "È inutile continuare a negare". La società civile si è ulteriormente deteriorata durante i 12 anni dei governi anti-statalisti dei presidenti Reagan e Bush, durante i quali la maggior parte delle soluzioni proposte dai sostenitori dell'economia dell'offerta fu messa in pratica. E Hollywood, notano i comunitaristi conservatori, è assolutamente allineata a Wall Street nella ricerca dei prodotti che vendono di più. Lofferta culturale che i conservatori trovano spesso così offensiva viene prodotta non solo dai progressisti come Stone, ma anche da conservatori come Rupert Murdoch, tra le aziende controllate da Murdoch troviamo infatti la società di produzione cinematografica Fox e il Weekly Standard. "È veramente assurdo assolvere il mercato per il tipo di decadenza culturale che tutti oggi condannano." Eberly, che si definisce un "conservatore alla Russel Kirk", ha detto: "La decadenza è frutto dell'economia di mercato".

La grande connivenza

Ma quanto in là può spingersi questa analisi critica? In quale modo i conservatori propongono di addomesticare il capitalismo e di metterlo al servizio degli interessi più ampi della società? Giunti a questo punto, in termini di soluzioni pratiche, i critici non sono in grado di offrire molto più di quella che un progressista degli anni Sessanta avrebbe potuto definire come "sensibilizzazione". L'idea è quella di rendere tutti consapevoli, comprese le aziende, dei propri doveri di buoni cittadini. In maniera molto evidente, i conservatori guidati da Bennett hanno tentato, mediante attacchi pubblici, di indurre vergogna e imbarazzo nelle aziende per spingerle a «fare la cosa giusta7.

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Questa strategia è senz'altro in grado di agitare le acque, ma ha dei limiti evidenti. Esposta agli attacchi di Bennett per le sue vendite di dischi del genere "gangsta rap", inneggianti alla delinquenza, la Time Warner Inc. lo scorso anno rinunciò alla sua quota azionaria del 50 per cento in Interscope Records, un'etichetta di Los Angeles che distribuisce la produzione artistica di alcuni dei gruppi pii noti di questo genere. Ma la McA Inc., di proprietà di Seagram Co. Ltd (Canada), ha acquistato la quota di Time Warner, e Interscope ha continuato a distribuire la musica che Bennett e il suo alleato, C. Delores Tucker del National Politica! Congress of Black Women hanno definito come pericolosa. Ora Bennett sta stigmatizzando il direttore della Seagram Edgar Bronfman Jr. per aver rotto la sua promessa di non distribuire il gangsta rap. Tanti auguri. Seguendo un'altra strategia di contestazione, i conservatori comunitaristi stanno iniziando a mettere gli occhi su Wall Street. L'ex broker Scott Fehrenbacher ha di recente fondato l'Institute for American Values Investing, con sede a Seattle, che controlla i portafogli di oltre 7.000 fondi di investimento per valutare, tra l'altro, se un fondo investa o meno in aziende che traggono profitti da pornografia, aborto o "forme di spettacolo contrarie ai valori della famiglia". L'istituto vende alle società di intermediazione un programma software contenente un database con i punteggi ottenuti dai diversi fondi. Nella sua documentazione promozionale, l'istituto fa appello al monito di Tocqueville che sosteneva che "Se mai l'America cesserà di essere un buon Paese, cesserà anche di essere un grande Paese", e sostiene di voler offrire agli investitori "degli anni Novanta l'opportunità di evitare che i loro soldi possano finire con il sostenere e finanziare proprio i problemi culturali contro i quali essi si battono "Ho fatto il broker per 14 anni, e sono stato testimone della crescita esponenziale del settore dei fondi di investimento", ha dichiarato Fehrenbacher, che è stato a lungo un attivista del Partito Repubblicano. "I fondi, non intenzionalmente, finiscono con l'erigere un muro", ha aggiunto, "tra chi riceve i capitali e chi li dà. La gente invece vuole essere sicura che i propri soldi non ven14

"Se mai l'America cesserà di essere un buon Paese..."


gano utilizzati per finanziare l'etichetta discografica Death Row Reco rds". Per decenni, gli attivisti progressisti hanno tentato di fare in modo che la "responsabilità sociale" diventasse uno dei princìpi ispiratori di Wall Street. Ma si tratta di una strada in salita, lungo la quale i successi - il maggiore dei quali fu quello di riuscire a convincere i grandi investitori istituzionali, compresi anche molti fondi pensionistici, a non comprare azioni di società multinazionali con interessi nel Sud Africa del periodo precedente a Mandela - sono spesso offuscati da grandi delusioni. Quindi, perché non utilizzare la forza dello Stato per controbilanciare gli effetti del capitalismo? Questa è la domanda più difficile e complessa, sia in termini pratici che teorici, per i conservatori del movimento della società civile. Da un lato, i conservatori sono decisi a non ripetere quello che essi considerano come il grande errore commesso dai progressisti durante questo ultimo scorcio di secolo, ossia costruire un nuovo assetto legislativo federale per smussare gli spigoli dell'Era Industriale, con l'unico risultato di creare un quadro normativo ingombrante ed oppressivo. D'altro canto, molti dei conservatori del movimento della società civile non si fanno scrupolo di agire politicamente a livello locale per infilare bastoni tra le ruote del libero mercato. Diversamente dai libertari, che spesso condannano la tirannia dei piani regolatori locali, i comunitaristi sono solidali con i vincoli normativi al settore del commercio, che godono del consenso popolare. Schambra ha dichiarato che non si sarebbe mai schierato a favore di qualsivoglia norma federale finalizzata a impedire a WalMart di espandersi nei piccoli centri, ma che come cittadino di una piccola città avrebbe certamente votato per tenere Wal-Mart alla larga. Come i conservatori sostengono di voler evitare di affidarsi a Washington o addirittura ai governi federali per l'individuazione delle soluzioni, anche il movimento della società civile potrebbe seguire la stessa direzione. C'è crescente sostegno attorno a una proposta avanzata dal Senatore Dan Coats (Repubblicani, Indiana), per una "esenzione fiscale di solidarietà" di 500 dollari per donazioni individuali a organismi di beneficenza che assistono i poveri. Questo costerebbe al Tesoro circa 25 miliardi di dollari

A quale livello dare spazio allo Stato regolatore?

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l'anno, un prezzo che varrebbe la pena pagare, sostengono i sostenitori, se l'iniziativa contribuisse a ricostituire il tessuto delle associazioni non governative impegnate nel campo dei servizi sociali. Nel frattempo, gli attivisti del movimento della società civile provenienti dalla sinistra vogliono convincere i propri fratelli conservatori della auspicabilità di misure più coraggiose. David Blankenhorn, ex volontario VISTA e presidente dell'Institute for American Values di New York City, ha dichiarato che le strategie di persuasione di Bennett non sono sufficienti a proteggere le famiglie e le comunità "dall'invasione del mondo del denaro". Blankenhorn, che è anche un consulente della Galston's Civic Renewal Commission, vorrebbe incoraggiare i novelli genitori a lasciare le rispettive occupazioni per quattro o cinque anni dando loro diritto a ottenere dei buoni per programmi di formazione e istruzione, rimborsabili al momento del loro rientro nella forza lavoro. Ma la conversione in legge di questa misura non sembra davvero in vista. Nei circoli del Partito Repubblicano continua a prevalere il pensiero conservatore ispirato ai principi del laissez-faire, in modo particolare tra gli ideologi della leadership repubblicana in Parlamento. "La gamma delle riforme politicamente praticabili per risolvere il problema che l'economista Joseph Schumpeter ha definito 'di,,, struzione creativa , ha riconosciuto Eberly, non è molto vasta , .

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L'idea di addomesticare il capitalismo è forse un sogno irrealizzabile? Forse. Il capitalismo non è solo la forza più dinamica della società americana, ma anche la più insensibile alle influenze esterne. Anche se alcuni conservatori si sono finalmente accorti delle sue caratteristiche meno attraenti, l'associazione tra le soluzioni innovative da introdurre sul mercato e il progresso della società rimane uno dei miti più potenti della cultura americana. I profeti dell'Era Informatica non risparmiano le lodi a questo modello di società. In The Road Ahead, il magnate del software Bill Gates sostiene che Internet renderà più economico e più semplice lo shopping per i consumatori (il capitolo in questione si intitola «Capitalismo Senza Ostacoli ) e che potra contribuire a creare legami più forti tra le persone. 16

Un viaggio a ritroso verso il fUturo?


Molti sostenitori del movimento della società civile tendono a dubitare di questo, sostenendo che per rafforzare i legami all'interno di una comunità, nulla potrà sostituire il contatto diretto tra le persone. Gli entusiasti di ferrovie, automobili, telefoni, aeroplani, radio e televisione sostengono inoltre che queste forme di progresso tecnologico contribuiscono a unire il Paese, ma la storia mostra che in maniere diverse essi hanno agito come potenti forze di destabilizzazione e disorientamento. Malgrado il movimento della società civile sia costretto a nuotare contro potenti correnti sociali, le sue prospettive future non dovrebbero essere trascurate. I suoi sostenitori, sia di destra che di sinistra, attingono a una ricca tradizione della storia americana che trascende tutte le strettoie ideologiche e va dritta alle idee che sono alla base della creazione del Paese. Per i padri fondatori dell'America e i loro discepoli, come sottolinea il politologo Michael Sandel nel suo nuovo libro, Democracy's Discontent, era una professione di fede sostenere che la vita economica di una società dovesse essere subordinata ai più importanti valori della sua vita civile. Thomas Jefferson voleva che l'America fosse una nazione di agricoltori non perché egli ritenesse che una società agricola avrebbe reso tutti ricchi, ma perché riteneva che questa fosse la soluzione migliore per produrre un solido senso civico in grado di garantire l'autogoverno. Ma a mano a mano che gli Stati Uniti si trasformavano in una società di consumo di massa, "la correlazione tra i valori della società civile e la vita economica è gradualmente sparita dal dibattito politico nel Paese", scrive Sandel, "e gli americani sempre più diffusamente consideravano i programmi economici come strumenti finalizzati al consumo, e non come scuole di valori civici". Tornando alla "correlazione tra i valori della società civile e la vita economica", i conservatori impegnati in questo esame di coscienza stanno concentrando l'attenzione su quello che è un interrogativo senza risposta non solo per il loro movimento ma anche per la vita moderna stessa. LAmerica è pronta per un viaggio a ritroso verso il futuro?

La vita civile è più importante della vita economica

© The NationalJournal

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Mafie al Nord di Luca Pistorelli*

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on v'è commentatore che non si dica allarmato dal rischio latente di un calo di tensione nella "lotta" alla mafia nel nostro Paese. Si sottolinea - e non senza qualche ragione - come, dopo le stagioni del terrorismo mafioso, che avevano risvegliato coscienze per lungo tempo assopite, l'attenzione dell'opinione pubblica nei confronti della "questione" mafiosa sia scemata e che, invece, vada diffondendosi un crescente disinteresse - se non, addirittura, un vero e proprio fastidio verso le notizie concernenti la criminalità organizzata. Tutto vero, probabilmente. Certo, onestà vorrebbe che si evidenziasse, allo stesso modo, come i media abbiano da tempo abbandonato ogni tentativo di analizzare seriamente il problema mafioso, per tuffarsi invece in un sensazionalismo che, alla lunga, non può che generare crisi di assuefazione e stanchezza, piuttosto che crescita civile. Ma, in realtà, v'è di più: infatti, non può non sottolinearsi che la "questione mafiosa", tra uno scoop ed un altro, ancora oggi viene alla fin fine confusa, proprio da giornali e televisione, con la "questione meridionale", limitandosi a reportage folkloristico-cinematografici di sicuro impatto, ma di assai scarsa utilità, quando addirittura non fuorvianti. In altri termini, alla vigilia del terzo millennio, si ingenera ancora nei cittadini, a volte esplicitamente, altre quasi inconsciamente, l'errata convinzione che il problema mafioso continui ad essere legato esclusi vamente allo storico ritardo socio-economico in cui versano le Regioni meridionali del nostro Paese. Certo, non si può negare che tali condizioni hanno rivestito, e tutt'ora rivestono, un ruolo importante nello sviluppo delle organizzazioni criminali. La questione, però, oggi, è anche un'altra: e cioè se le stesse organizzazioni abbiano esteso i propri tentacoli anche altrove e se si, come e perché.

* Gip al Tribunale di Milano 18

La "questione mafiosa" non più questione meridionale" '


È collaudato luogo comune quello per cui la mafia nel nord d'Italia non esisterebbe. Tale affermazione si fonda, prevalentemente, sulla convinzione che il tessuto sociale del settentrione del nostro Paese - in quanto più evoluto grazie al diverso grado di sviluppo economico che ha conosciuto nel dopoguerra - risulterebbe maggiormente impermeabile al diffondersi di quella cultura di omertà che rappresenta il presupposto della crescita del cosiddetto "anti-Stato". Nel corso degli ultimi cinque anni, i risultati delle indagini condotte dalle Procure del nord Italia hanno impietosamente demolito tali luoghi comuni: si è accertato, infatti, come alcune delle più importanti organizzazioni criminali di tipo mafioso si siano saldamente radicate anche nelle Regioni settentrionali, dove sono sbarcate o in conseguenza dei provvedimenti di «confino" cui sono stati improvvidamente sottoposti numerosi loro appartenenti nel corso degli anni, ovvero, molto più semplicemente, al seguito dei flussi migratori interni succedutisi negli ultimi trent'anni nel nostro Paese. Si registra, ad esempio, la costituzione di "locali" 'ndranghetiste in tutta la Lombardia, né più né meno che in territorio calabro, e la presenza di cellule camorriste direttamente collegate alla realtà mafiosa napoletana. Meno intensa appare, a prima vista, la presenza, per così dire, " istituzionale" della Cosa Nostra siciliana, più legata al vincolo territoriale della Regione d'origine; il che, peraltro, non significa che sempre più numerosi risultino essere gli "uomini d'onore" sorpresi ad operare nel nord d'Italia, tanto nella gestione dei traffici illeciti, che di attività economiche apparentemente lecite. Ciò che appare più drammatico Il "problema" è che tali insediamenti non risultano essere né recenti né, tanto- è da tempo meno, avulsi dall'ambiente in cui sono stati costituiti. In realtà, anche settentrionale le straordinarie risorse economiche di cui le organizzazioni mafiose hanno dimostrato di poter disporre a partire dagli anni Settanta - e ricavate in larga parte dal traffico di stupefacenti, non ché dalla gestione degli altri principali mercati illegali - sono loro servite per penetrare agevolmente in una realtà sociale che sembrava immune da fenomeni di questo tipo, ma che è apparsa distratta nel riconoscere la provenienza di questo imponente fiume di danaro, abbandonandosi con lasciva impotenza alla sua corrente. Non è un caso se i recenti sondaggi condotti in seno al19


le singole categorie economiche rivelano come un terzo degli esercizi commerciali siano, in qualche modo, invischiati nei tentacoli della piovra mafiosa, vuoi perché direttamente posseduti dalle organizzazioni criminali, vuoi perché oggetto delle attenzioni estorsive delle medesime. Non è un caso nemmeno che, rileggendo carte processuali a lungo sottovalutate o dimenticate, ci si accorga come negli ultimi vent'anni Milano,la Lombardia, il Veneto ecc. siano stati il teatro delle scorribande criminali (e non solo il luogo di deposito dei sudati risparmi) di Luciano Liggio, piuttosto che dell'esercito in rotta della Nco di Raffaele Cutolo (il cui unico figlio maschio venne ucciso, guarda caso, proprio in terra lombarda all'inizio degli anni Novanta), ovvero del grande traffico di stupefacenti riconducibile alle famiglie mafiose calabresi. Si ribatte spesso all'illustrazione di questi dati che, al più, può ammettersi che il ricco nord attiri i capitali mafiosi, ma che le comunità residenti siano immuni alla devastante capacità inquinatoria di cui le organizzazioni criminali sono portatrici. A parte la superficialità insita in una obiezione di questo genere ed a parte il fatto che, come si è già detto, proprio il danaro reinvestito nelle attività economiche ha rappresentato il grimaldello che ha permesso la polluzione mafiosa, non può che rispondersi a tali argomenti ricordando, ad esempio, che l'Autorità Giudiziaria milanese ha emesso negli ultimi tre anni quasi tremila provvedimenti cautelari nei confronti di altrettanti membri di organizzazioni mafiose residenti in Lombardia, mentre altre centinaia sono stati emessi dai magistrati veneti e piemontesi, sempre con riguardo a personaggi residenti in quelle Regioni. Ancora. Le risultanze dei processi tenutisi in molte sedi giudiziarie dell'Italia settentrionale hanno permesso di ben comprendere come le organizzazioni mafiose venute dal sud abbiano saputo inglobare le realtà criminali locali, subentrando loro agevolmente in quel controllo del territorio sul quale hanno costruito la loro forza. Ma v'è di più, purtroppo. Sempre più spesso, le indagini svolte dagli organismi preposti a contrastare le organizzazioni mafiose hanno messo in luce fenomeni crescenti di omertà tra le popolazioni locali, quando addirittura non di vera e propria connivenza o complicità. Un 20

Quando la mafia si sposa con il pragmatismo


episodio recentemente emerso nel corso di una indagine giudiziaria chiarirà meglio quanto si sta dicendo, evidenziando in quali termini il pragmatismo tutto settentrionale, qualora sia sradicato dai valori che tradizionalmente lo hanno caratterizzato, possa sposarsi agevolmente con l'imperialismo mafioso delle organizzazioni criminali. In un piccolo centro, in una delle piii ricche provincie lombarde, un imprenditore di un certo successo, titolare di una avviata e fiorente azienda da lui stesso creata alcuni decenni prima, fu oggetto di una estorsione da parte di alcuni mafiosi a partire dalla fine degli anni Settanta. Egli ritenne di cedere alle richieste dei suoi aguzzini, piuttosto che denunziare il fatto alle autorità, convinto che comunque la "protezione" promessagli ad un costo, tutto sommato, ragionevole - gli avrebbe permesso di non subire intimidazioni da parte di altre cosche, consentendogli al contempo di proseguire nello sviluppo dell'impresa. La relazione tra il nostro imprenditore e i suoi estorsori continuò e si consolidò nel corso degli anni, fino ad assumere i contorni di un vero e proprio rapporto istituzionale, tanto che l'estorto si sentì nel diritto di ricorrere ai servigi (è facile intuire di qual natura) dei suoi anomali "collaboratori" per convincere dei coriacei dipendenti dell'azienda, troppo impegnati sul piano sindacale a suo avviso, a licenziarsi spontaneamente Un episodio isolato, si dirà. Può darsi, ma certamente appare sintomatico di una incapacità latente di erigere un muro culturale all'insidiosa, e spesso trasversale, infiltrazione del mondo mafioso. In realtà, quella che si registra oggi è la mancanza assoluta di attenzione da parte delle istituzioni extragiudiziarie ad un fenomeno in evidente espansione e nei confronti del quale la mera attività di repressione appare certamente insufficiente. Lo scetticismo che, ancora, appare radicato nelle popolazioni settentrionali, circa il progressivo rafforzamento delle organizzazioni criminali nelle regioni del nord Italia, rischia di frenare quella preziosa attività di "prevenzione culturale", soprattutto nei confronti delle fasce pii giovani di età, che meritoriamente alcune associazioni tentano di promuovere, spesso in condizioni di isolamento. Ancor pit inquietante, poi, appare l'incapacità dimostrata, come si è già accennato, dagli operatori economici di resistere alle sire-

L'importanza

della prevenzione culturale

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ne mafiose e al flusso finanziario che da quel versante discende; incapacità che è sinonimo di scarsa eticità nei comportamenti economici, non meno che rifiuto di una seria e moderna regolamentazione del mercati. A questo punto appare evidente a tutti come l'allargamento del divario tra sud e nord d'Italia, a tutto svantaggio del primo, non può che comportare l'incremento degli investimenti mafiosi nel settentrione, che garantisce, sotto questo profilo, maggiori garanzie di redditività e dove il possesso di ricchezze dà meno nell'occhio. È lecito, perciò, attendersi una presa di coscienza da parte di tutti di un fenomeno sottovalutato e che rischia, con l'andar del tempo, di divenire non più controllabile.

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Ildivario tra sud e nord non conviene a nessuno


Il primo contratto dei dirigenti pubblici di Antonio Zucaro

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1 Contratto nazionale di lavoro dei dirigenti dei ministeri, firmato il 9 gennaio 1997, ha praticamente concluso la prima stagione contrattuale dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nel nuovo sistema di relazioni sindacali introdotto dal d. lgs. n. 29 del 1993. Si è realizzata, così, la piena contrattualizzazione del rapporto di lavoro anche dell'alta burocrazia ministeriale, nocciolo e cuore di tutte le burocrazie. Questa trasformazione è stata prescritta dal d.lgs. n. 29 del 1993, cogliendo esigenze forti ed obiettive di modernizzazione della PA, di distinzione di ruoli tra direzione politica e gestione amministrativa e di unificazione del mondo del lavoro, avvertite da tutto il Paese e perseguite da tutti i Governi che si sono avvicendati negli ultimi cinque anni. In particolare, la legge di riforma ha sancito tre principi: uno. la contrattualizzazione della dirigenza, in una autonoma area di contrattazione per ciascun comparto (art. 46); due. l'unificazione delle precedenti due qualifiche in una sola qualifica di dirigente (art. 15), avente una retribuzione accessoria differenziata e correlata alle diverse responsabilità (art. 24); tre. l'imputazione di una responsabilità per i risultati conseguiti, con rilevanti conseguenze sul rapporto di lavoro, fino al licenziamento previsto dalle norme del codice civile (art. 20). Si è unificato in tal modo, su un terreno contrattualistico di tipo privato, il regime delle diverse burocrazie delle pp.aa., prima distinte in due grandi categorie: quelle regolate dalla legge, ovvero il d.PR n. 748 del 1972, come i ministeriali, e quelle delle Autonomie locali, regolate dagli accordi di comparto recepiti in Regolamenti, secondo la disciplina della legge quadro sul pubblico impiego n. 93 del 1983.

I principi alla prova dei fatti

* Funzionario Aran. 23


In coerenza con tale unificazione, nel giugno 1995, l'Ait&N ha concordato con le Confederazioni sindacali più rappresentative le Linee guida per i contratti di area dirigenziale , articolando e specificando i suddetti principi di riforma in una griglia di posizioni da tener ferme nei successivi contratti da negoziare per ciascuna area dirigenziale, pur nella differenziazione delle diverse situazioni. E così è stato, dal primo contratto stipulato per la dirigenza degli enti locali fino al contratto della dirigenza ministeriale ed a quello per le Aziende di Stato, ancora sul tavolo di trattativa. Le più importanti di tali linee guida possono essere sintetizzate nel modo seguente: ogni posizione organizzativa di livello dirigenziale è connotata come «incarico di funzione , da attribuire - ed eventualmente revocare - al singolo dirigente. Alla qualifica di dirigente che, come s'è detto, è stata unificata dal d. lgs. n. 29, si aggiunge un incarico che può essere più o meno pesante quanto a poteri, responsabilità e, conseguentemente, retribuzione; la retribuzione dei dirigenti, in tutti i comparti, è ristrutturata su tre voci: stipendio (uguale per tutti), retribuzione di posizione (vedi sopra), retribuzione di risultato (da diversificare in ragione di ciò che si riesce a fare); l'attività del dirigente e la sua responsabilizzazione sono oggetto di valutazione attraverso la previsione di una serie di misure, dalla revoca dell'incarico meglio retribuito (vedi sopra) al collocamento a disposizione (già previsto dall'art. 20 del d. lgs. n. 29), fino alla risoluzione del rapporto, con previsione del ricorso a collegi arbitrali per risolvere eventuali controversie e con forme di tutela nei confronti del recesso discriminatono; t/) il dirigente organizza il proprio tempo di lavoro con conseguente soppressione dell'orario di lavoro predeterminato e quindi dello straordinario. Sulla base di queste linee guida, e tenendo presenti sia il contratto stipulato per i dipendenti dello stesso comparto, sia i contratti già concordati per altre aree dirigenziali, una lunga trattativa (oltre un anno) ha definito anche per i dirigenti dei ministeri i ter24

Il nuovo status del dirigente

Tra maggiori responsabilità e migliore retribuzione


mini di quello scambio tra maggiori responsabilità e migliore retribuzione che ha costituito l'essenza del contratto. Con ciò superando, in primo luogo, l'orientamento assai diffuso nella categoria, e strenuamente difeso dalla giurisdizione amministrativa, che tendeva a negare la possibilità stessa del contratto, in virti del collegamento "ontologico" tra il carattere pubblicistico delle funzioni svolte e la natura conseguentemente pubblicistica del rapporto di lavoro, anche e soprattutto per i dirigenti. Superamento reso possibile dalla nota sentenza della Corte costituzionale, n. 313 del luglio 1996, e concretamente realizzato dalla stipulazione e dall'entrata in vigore del CCNL. Questa lunga premessa serve a comprendere quali sono i punti salienti di questo contratto. In primo luogo, la parte normativa, che ha ridefinito in termini privatistici gli istituti fondamentali dello stato giuridico, finora disciplinati dal Testo Unico (d.PR n. 3 dcl 1957), anche per i dirigenti. Questa prima stagione contrattuale, infatti, si è dovuta far carico per tutte le categorie di dipendenti da PA della trasformazione dello stato giuridico in senso privatistico, che sarà completata con i prossimi contratti. Ciò ha comportato una nuova stesura di tutta una serie di norme-chiave. La stipulazione di un contratto individuale all'atto dell'assunzione (art. 14), il regime della prova (art. 15), il regime delle assenze per malattia (art. 20) e delle altre assenze retribuite sono stati definiti in termini analoghi a quelli degli altri contratti. Anche da un punto di vista meramente terminologico, che i "congedi" sia» I no diventati rene e ieI aspettative « assenze na contriDuito a dare il segno della privatizzazione. Altri istituti sono stati ripresi dal regime dei dirigenti d'azienda, marcando al riguardo sensibili differenze, finora inesistenti, con la disciplina del restante personale. Sull'orario di lavoro (art. 16), aderendo alle linee guida, si è previsto che il dirigente non ha l'obbligo formale della presenza sul posto di lavoro in un arco temporale predeterminato, ma quello di organizzare il proprio tempo di lavoro in modo da far fronte alle esigenze connesse all'espletamento del proprio incarico. Sul licenziamento (art. 27), l'applicazione degli artt. 2118 e 2119 del codice civile ha (CC

Né congedi né aspettative...

CC

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ampliato i margini di discrezionalità da parte dell'amministrazione, fermo restando l'obbligo di motivazione del relativo provvedimento e la nullità del licenziamento discriminatorio (art. 28); tuttavia, l'applicazione della disciplina privatistica ha comportato che, a fronte di una insufficiente motivazione del licenziamento - purché questo non sia discriminatorio - il dirigente non ha una tutela reale, ovvero il diritto alla reintegrazione in servizio, ma una tutela risarcitoria, ovvero il diritto al pagamento di una penale, stabilita da un collegio arbitrale (art. 30). Si tratta, com'è evidente, di innovazioni forti, cui si aggiungono quelle relative alla flessibilità della retribuzione, collegata alla maggiore o minore importanza della posizione ed ai risultati ottenuti, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo. Ed è intorno a questo punto che si giocherà la vera partita dell'attuazione del contratto. La parte normativa, infatti, è già in applicazione per quanto riguarda gli istituti generali; il licenziamento avverrà comunque in situazioni patologiche, e dunque eccezionali; la stessa attivazione dei Nuclei di valutazione dipenderà dall'efficacia concreta delle pronunce di questi organi, ovvero, nella maggior parte dei casi, della possibilità di pagare meglio chi fa meglio e peggio chi fa peggio. Perciò, è sulla parte economica che conviene soffermarsi, ed in particolare sul funzionamento degli istituti di flessibilità. Come si è detto, la retribuzione base - ovvero lo stipendio - della qualifica unica di dirigente è stata allineata in tutti i comparti a 39 milioni annui lordi, con la tredicesima mensilità e senza l'indennità integrativa speciale; naturalmente, i dirigenti superiori conservano adpersonam il differenziale di retribuzione già in godimento, così come viene congelata e conservata, per tutti, la retribuzione per classi e scatti maturata al 31.12.1996, come retribuzione individuale di anzianità (art. 41). Per quanto riguarda la retribuzione accessoria, in ciascuna Amministrazione viene creato un Fondo (art. 36), alimentato dalle risorse già destinate agli istituti di retribuzione accessoria finora vigenti, ovvero le indennità di ministero, il compenso incentivante ed il lavoro straordinario, da una percentuale degli incrementi contrattuali e da una quota dello stanziamento aggiuntivo 26

Scompare la tutela reale

La conquista della flessibilità


di 50 miliardi, previsto dalla legge finanziaria 1996, spettante a quella amministrazione. A questo riguardo, va sottolineato che tale stanziamento, destinato esplicitamente dalla legge al riequilibrio delle retribuzioni di posizione nelle amministrazioni dello Stato, è stato impiegato dal CcNL in modo fortemente perequativo, ovvero attribuendo (Tabelle B e C) cifre più elevate alle amministrazioni aventi minori risorse per la retribuzione accessoria (£ 9.300.000 annue lorde pro capite), e via via meno elevate per le amministrazioni meglio dotate (E 2.440.000). Inoltre, in futuro, verranno versate sul Fondo anche le retribuzioni individuali di anzianità dei dirigenti che andranno in pensione; questo meccanismo, applicato anche negli altri contratti di area dirigenziale, da un lato garantisce, per i prossimi anni, degli apprezzabili incrementi di retribuzione ai dirigenti in servizio, a ristoro della mancata fruizione degli incrementi automatici di retribuzione (classi e scatti), che come si è detto il CCNL ha soppresso, in applicazione dell'art. 72, 30 comma, del d. lgs. n. 29. Questo, in entrata; in uscita, il Fondo, in ciascuna amministrazione, andrà a pagare: a) la retribuzione di risultato, per una quota di risorse corrispondente pari a 3 milioni a lordo pro capite, sulla base di criteri generali definiti in contrattazione decentrata ed in relazione al grado di realizzazione dei compiti istituzionali (art. 40, 6 0 c.); b) il premio per la qualità della prestazione individuale (art. 40), per una quota di risorse corrispondente pari a 2 milioni a lordo pro capite, da attribuire, sulla base dei criteri stabiliti dal CcNL, ad una percentuale di dirigenti non superiore al 10% dei dirigenti in servizio; c) la retribuzione di posizione (artt. 37 e 38), collegata a ciascuna posizione dirigenziale in relazione ad una serie di criteri di graduazione delle responsabilità previsti dal CCNL, che ciascuna amministrazione dovrà applicare nella propria realtà attraverso un esame congiunto con le organizzazioni sindacali. Questa voce retributiva può andare, in generale, da un minimo di 12.000.000 annui pro capite ad un massimo di 70.000.000; comunque, in ciascuna amministrazione, il CcNL prescrive che la retribuzione più elevata individuata o di in concreto dovra essere compresa tra il 180 /o ed il 400 /o quella minima.

Il quadro delle retribuzioni

Tra riorganizzazione e confronto

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È, questo, uno dei punti più delicati dell'applicazione del contratto, perché vi si intrecciano un momento di forte riorganizzazione dell'amministrazione, centrato sulla graduazione degli impegni e delle responsabilità connesse a ciascun posto di funzione, con un momento di confronto con le organizzazioni sindacali sulla retribuzione che vi è collegata. Sul primo aspetto, il CCNL offre un ampio ventaglio di criteri e di modalità per procedere alla graduazione; sul secondo, lo strumento dell'esame congiunto, disciplinato dall'art. 10 del d.lgs. n. 29, consente la ricerca del consenso delle organizzazioni sindacali sempre preferibile, senza pregiudicare la potestà decisionale dell'amministrazione in materia, se tale consenso non si dovesse realizzare. Va detto, inoltre, che il meccanismo del Fondo "storico", così come definito dal CCNL, è tale da premiare i dirigenti delle Arnministrazioni che procederanno alla riduzione degli organici dirigenziali, in quanto una massa di risorse crescente nel tempo, per effetto del recupero delle retribuzioni individuali di anzianità dei pensionati e per effetto - si spera - dei prossimi contratti, andrà a distribuirsi tra un numero decrescente di dirigenti. È prevedibile, perciò, che nell'arco di due anni una quota consistente di dirigenti ministeriali si troverà ad avere una retribuzione complessiva dai 120 ai 150 milioni annui, e dunque, prossima alle medie dei dirigenti deisettori privati. Il contratto, dunque, ha sostanzialmente realizzato il proprio obiettivo: avvicinare contestualmente sia il regime giuridico che il trattamento economico dei dirigenti ministeriali agli standard della dirigenza privata. Il sensibile aumento delle retribuzioni paga un forte incremento dei rischi, ed è per questo che non vi sono state, a differenza del passato, reazioni negative né dell'opinione pubblica né degli altri operatori pubblici. Le organizzazioni sindacali, sia confederali che autonome, hanno superato posizioni, (comunque legittime), di difesa delle forti garanzie finora esistenti. C'è, dunque, il coraggio di cominciare la traversata di una fase di transizione difficile e dagli esiti ancora incerti? Spetta ora al vertice delle Amministrazioni la prova di saper uti28

Verso una riduzione degli organici

Il sindacato ha dimostrato coraggio


lizzare gli strumenti normativi ed economici ed i margini di flessibilitĂ offerti dal contratto per avviare una politica di innovazione nell'organizzazione e nella gestione delle risorse umane. Del resto, la recente contrattualizzazione degli stessi dirigenti generali fa entrare questi ultimi sulla prima linea della partita dell'innovazione. Che dimostrino, subito, anch'essi di avere il coraggio di mettersi in mare aperto.

mi


dossier

Russia: i sentieri interrotti della democrazia

Parlare della Russia ed evitare i titoli ad effetto: ma è davvero possibile? Tanti sono gli stereotzpi sulla situazione dell'ex impero sovietico che si accalcano sulla scrivania dei corsivisti. Magma, caos, continua tensione tra le sue due anime, occidentale ed orientale, matrjoske, puzzle ed altri rompicapi. Tutto e più di tutto si è utilizzato a livello letterario per spiegare gli ultimi cinque anni di vita della Russia. Ed intanto scompare l'ultima ombra sui rapporti NATO-FRSR. A quanto detto, sin con eccessiva veemenza dal Presidente E41n, nel corso dell2lccordo di Parigi del 27 maggio scorso, non vi sono più armi atomiche puntate sull'Occidente. La Russia, quindi, non è più un avversario, ma un partner. E, come ha scritto Ugo Tramballi, sul Sole 24 Ore (28 maggio, p. 5), "Il vecchio ordine fondato sul terrore nucleare tutto sommato aveva flinzionato, almeno in Europa; quello nuovo fondato sulla cooperazione deve ancora essere messo alla prova" La Nato può dunque allargarsi e coinvolgere nei suoi interessi strategici i Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia. In cambio E4ìn riceverà importantissimi, ma imprecisati, aiuti economici efinanziari. Che, probabilmente, gli permetteranno di allargare la base del suo consenso. 31


Allora è meglio far calare ilpolverone dei facili aggettivi. E cominciare a discutere di un Paese, che attraverso il, forse, inevitabile passaggio autoritario-cesarista si avvicina, senza averla mai conosciuta, alla democrazia di stampo occidentale e quindi ai tre suoi più evidenti risultati: il costituzionalismo, ilfederalismo, l'economia di mercato. A nessun popolo è mai stato chiesto di ottenere e soprattutto mantenere questi "prodotti" della civiltà in un solo giorno. Per questo lo sforzo della Federazione Russa di continuare, tra contraddizioni e aporie, la strada verso una compiuta realizzazione delle istituzioni democratiche è da seguire con fiducia. Una di tali istituzioni è certamente, nel modello occidentale, il sindacato costituzionale delle leggi. Disponendo di una ricchissima bibliografia giurisprudenziale, Angela Di Gregorio, nel suo puntuale saggio, tra gli altri temi, approfondisce in modo particolare l'analisi del comportamento della Corte Costituzionale che, nella Federazione, sarà chiamata sempre più a definire finzioni e modalità di esercizio del potere delle nuove istituzioni. Uno snodo centrale nella complessa dinamica Presidente-Parlamento-Soggetti territoriali. Vogliamo poi segnalare la descrizione, compiuta dallAutrice, del sistema delle fonti del diritto in Russia. Tra normazione e comando effettivo si gioca la sicurezza dei rapporti tra i cittadini e tra questi e un'autorità semprepiùframmentata. Talmenteframmentata, o inesistente, da permettere l'inevitabile e scomoda presenza di poteri parallelifiori della legalità. Quella «mafia russa" che dalle pagine dei romanzi e dalle scene spettacolari dei film, giunge nei preoccupati verbali delle polizie di tutto il mondo. Di questo ci parla l'articolo di Antonio Chizzoniti, quasi avvincente come un romanzo ed, al tempo stesso, cronaca reale del fenomeno mafioso che a torto viene ritenuto come uno dei frutti infetti del processo democratico, ma che invece questo ha soltanto contribuito a svelare come retaggio dei passati regimi. Certamente le nuove possibilità di comunicazione planetaria della Federazione, impensabili nel chiuso blocco totalitario, facilita oggi i loschi traffici delle organizzazioni criminali russe, imponendole come uno degli attori internazionali più destabilizzanti degli ultimi decenni. Come detto, l'ex- «impero del Male' da nemico comodo è diventato un partner economico la cui affidabilità sarà tutta da dimostrare. E questo il paradosso del Nuovo Ordine Mondiale. La Russia serviva più alle strategie occidentali quando poteva rappresentare una minaccia, che adesso. Ma questo è un pensiero miope. Una federazione democratica di popoli, che, seppure attraverso travagli e agitazioni sociali, riesca a convivere pacifi camente sullo stesso territorio, è una conquista di civiltà da promuovere e di cui condividere le idealità. Anche se queste dovessero essere attuate da 32


personaggi come Boris E4ìn, lontani anni luce dagli stereotipi delle politica occidentale. Se il carisma e4'iniano adesso è l'unico collante sociale per far accettare le "rivoluzioni' immanca bili per un modello di vita che dallo Stato a partito unico si muove verso il pluralismo democratico, è necessario accettarlo. Da solo, però, crediamo non basti: e le due analisi che presentiamo lo dimostrano. Serve una cultura federale che faccia della Costituzione quella 'rammatica della libertà "a cui si affidarono i Padri Fondatori degli Stati Uniti dAmerica. Come ricordavamo in un editoriale scritto nel pieno dello sfaldamento del blocco sovietico ("queste istituzioni' n. 87-88, 1991, pp. 5-10), crisi costituzionale russa e costruzione europea rappresentano fenomeni destinati ad incrociare speranze efrustrazioni comuni. Le speranze e le idealità di questi due processi vorremmo conducessero ad una nuova stagione federale.

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Le istituzioni della "transizione" nella Russia eltsiniana di Angela di G regorio *

A circa un anno dalle elezioni del Presidente russo, che hanno riconfermato la posizione e le strategie politiche di Boris Eltsin, è il momento di fare una serie di considerazioni sullo scenario giuridico e politico che si presenta in Russia. La questione della legalità diventa in questo Paese ogni giorno più scottante, e chi credeva di aver seppellito per sempre un regime antidemocratico e illiberale, non deve illudersi di essere approdato di colpo, dopo un breve e sofferto traghettamento, in un Paese paragonabile alle democrazie occidentali mature. I sintomi che la realtà è del tutto diversa sono innumerevoli ed evidenti, nonostante la retorica ufficiale. La parola d'ordine di questa fase storica del regime istituzionale russo sembra essere ccperiodo di transizione" (perechodnyj period), e così come nel recente passato il termine perestrojka ha caratterizzato un'epoca, adesso tutto si svolge all'insegna della transizione, compresa l'adozione degli atti normativi.

* Collaboratrice del Prof. Mario Ganino, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Milano.

MOLTE LE LEGGI APPROVATE

Se si prova a fare un'analisi quantitativa delle leggi adottate dal Parlamento russo negli ultimi tempi osserviamo che il loro numero è cospicuo, tuttavia, per quanto riguarda la qualità e l'efficacia, nonché l'effettiva traduzione in pratica di esse, la questione diventa più complicata. Sono state approvate leggi sulla difesa, la sicurezza, la lotta alla criminalità, i nuovi Codici civile e penale, il Codice di correzione, la legge sui reati economici, la legge sul mercato dei titoli, ed anche una serie di editti presidenziali non normativi (direttive) riguardo alle questioni del federalismo e delle nazionalità2 . Analizzando tale breve elenco si possono sottolineare alcune direttrici fondamentali, che evidenziano le preoccupazioni più urgenti sia del Governo che del Parlamento: la lotta alla criminalità dilagante, i problemi della difesa militare e della sicurezza interna (questioni strettamente collegate), la ridefinizione dell'assetto federale e dei rapporti tra il centro ed i "soggetti" della Federazione 3 , i problemi dell'economia. 35


Come già detto, c'è una certa interconnessione tra tali questioni. La lotta alla criminalità, ad esempio, deve affrontare una serie di reati connessi alle attività economiche (la transizione al mercato è alquanto cruenta): in primis l'evasione fiscale, che soltanto adesso comincia ad essere percepita come problema grave, sia dal punto di vista economico che penale (il nuovo Codice penale comprende un intero capitolo dedicato ai reati economici, finora poco considerati); le questioni nazionali, inoltre, sono strettamente legate allo sviluppo economico del Paese e rappresentano anche un urgente problema politico (e militare, in alcuni casi). La situazione politica successiva alle elezioni presidenziali del giugno 1996 ha assistito, oltre che alla formazione del nuovo Governo, alla riorganizzazione dell'Amministrazione presidenziale (con un nuovo dirigente, Cubajs4), all'istituzione di un nuovo organo, il Consiglio di Difesa (stabilendone i necessari rapporti col Consiglio di Sicurezza, anch'esso organo di recente riorganizzazione), alla concretizzazione dei principi annunciati dal Governo sulla lotta alla criminalità organizzata ed, infine, al Congresso delle forze nazional-patriottiche. Quest'ultimo ha rappresentato un sintomo degli umori politici delle forze dell'opposizione le quali, avendo perso le elezioni presidenziali, hanno cercato di riorganizzarsi per quelle locali, per36

seguendo un mutamento della propria veste ideologica allo scopo di accattivarsi l'elettorato. Le situazioni che destano preoccupazione sono molte, ma l'attuale struttura dello Stato, coi suoi equilibri istituzionali segnati dalla precarietà e dall'improvvisazione, non aiuta certamente a risolverle.

LIMITI E PRIORITÀ DELL'ATTIVITÀ LEGISLAT[YA

La costruzione di uno Stato moderno di diritto passa, in primo luogo, attraverso le assemblee parlamentari. Queste sono chiamate a creare le strutture normative di base, indispensabili per la prosecuzione delle riforme. Queste ultime, infatti, sono essenzialmente riforme normativo-istituzionali ed, in quanto tali, hanno bisogno di un Parlamento attento, veloce, e perfettamente in sintonia coi bisogni prioritari del Paese. La Duma di Stato della Federazione Russa 5 , responsabile secondo il dettato costituzionale dell'adozione delle leggi più importanti per la società e lo Stato, può già contare su un'esperienza di lavoro sufficiente a servirle di rodaggio per le future fatiche (dal momento che non si può dire che il più sia stato fatto). Qual è, allora, la situazione attuale? All'inizio della sessione autunnale del 1996 si trovavano presso la Duma, a diversi stadi d'esame, più di 50 progetti di legge presentati dal Governo


nei primi 6 mesi dell'anno (esclusi quelli riguardanti la ratifica di trattati internazionali) e circa 30 presentati nel 1994 e nei 1995 alla Duma precedente. Il capo del Governo aveva inviato alla Camera una lettera per ricordare che molti progetti di legge di presentazione governativa e presidenziale, aventi grande rilevanza socioeconomica, non erano stati ancora esaminati ed esortando, pertanto, i deputati ad accelerare l'esame delle iniziative legislative del Governo. La Duma sembra tuttavia aver ignorato il monito. Il problema è che si tratta di atti riguardanti la prosecuzione delle riforme a favore dell'economia di mercato, ostacolate dalla maggioranza di sinistra presente alla Camera bassa. Uno dei problemi politici attualmente piii gravi, che si somma al marcato presidenzialismo, è infatti proprio il sostanziale conflitto tra la maggioranza parlamentare (di sinistra) e quella presidenziale-governativa (riformisti liberali). Pur essendo già state approvate (seppure con notevole ritardo) leggi di una certa rilevanza, il processo di edificazione normativa presenta notevoli carenze. Mancano ancora atti importantissimi quali la legge sui rapporti federativi (una sorta di Codice federativ06), indispensabile per decidere che tipo di struttura statale sia necessaria a! Paese, il Codice fondiario (che preveda la commercializzazione della ter-

ra), inoltre, le leggi sulla struttura del Governo, sulla Procura, sull'Avvocatura, sulla Corte Suprema, sulle zone economiche libere, sull'ipoteca, sulle privatizzazioni, sulla bancarotta, la legislazione fiscale, etc. Da quando il Parlamento russo ha iniziato a funzionare (dopo l'adozione della nuova Costituzione 7) esso ha approvato quasi un migliaio dileggi che tuttavia, nell'attuale situazione del Paese, non sono ancora sufficienti. Non tutti, ovviamente, sono d'accordo con tale visione delle cose: secondo il vicepresidente della Duma Michail Jurev, la Camera bassa starebbe gradatamente acquisendo un ritmo normale nell'effettuazione del suo compito più importante, cioè l'attività legislativa. Tale processo sarebbe cominciato circa 4 anni fa (la continuità dell'attuale Duma con quella precedente è molto sentita) e da allora la Duma cercherebbe di trovare una propria collocazione nell'edificazione politica e sociale del Paese 8 . Finora, però, non sembra che vi sia riuscita del tutto, tant'è vero che alcuni deputati avvertono la limitatezza del proprio potere, facendo sì che la Duma continui ad avere un atteggiamento duro, d'opposizione, nei confronti del Governo e del Presidente. E qui non c'entra soltanto l'appartenenza di partito. Si può, quindi, affermare che la Duma stia adempiendo con più efficienza agli obblighi assegnatile dalla Costituzione? Difficile dirlo. Alcuni sostengo37


no che nell'ultimo anno essa abbia adottato piui leggi che in qualsiasi sessione di lavoro della Duma precedente. Altri sostengono che si tratta di leggi poco importanti. È vero che la quantità non è un parametro di giudizio, ma non è neanche chiaro quali siano le leggi importanti e quali quelle di poco conto. Giudicare dell'attività legislativa è difficile: i vuoti in tale campo (dove c'è, cioè, assenza totale di normazione) diminuiscono e pur essendo ancora molti il processo di "riempimento" sembra continuare. Purtroppo, però, le leggi sono spesso considerate pRi che in se stesse come uno strumento di opposizione politica. Gli esempi da fare sarebbero molti. Una legge fondamentale come quella sull'Avvocatura, di presentazione presidenziale, è stata appoggiata anche dai gruppi di sinistra, tuttavia tale documento, importantissimo per la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini, incontra ulteriori ostacoli. Il Codice fondiario è stato approvato in prima lettura e poi si è arenato. La questione principale in esso rimane quella della proprietà privata della terra. I gruppi di sinistra ritengono che bisognerebbe introdurre una moratoria di 5 anni in attesa di decidere, quelli di destra invece vorrebbero subito la libera commercializzazione della terra. Come si vede, sono posizioni del tutto contrastanti. C'è anche chi propone una soluzione intermedia: introdurre '1;]

effettivamente una moratoria sulla proprietà privata della terra per alcuni anni, limitando i diritti d'affitto per 5 o 10 anni ma prescrivendo che questi diritti siano oggetto di libera compravendita (non si potrebbe cioè medio tempore comprare e vendere la terra ma si potrebbe vendere il proprio diritto di affitto). Ci sono anche problemi legati all'organizzazione interna della Duma, che non ne migliorano certo l'efficienza. La struttura attuale della Camera andrebbe migliorata: i comitati sono troppi (in teoria se ne possono costituire a volontà) ed anche i vicepresidenti (attualmente 6). C'è una certa ridondanza degli organi interni, ad esempio il Dipartimento di analisi, composto da un organico di 59 persone, dovrebbe approntare materiale analitico per il presidente della Camera, quest'ultimo ha però già un proprio staff di collaboratori che gli offrono servizi analoghi. C'è poi un Dipartimento giuridico, utilissimo sì, ma composto da ben 117 persone! Esistono, poi, problemi di raccordo con il Consiglio della Federazione, che bisognerebbe semplificare e razionalizzare a livello legislativo o regolamen tare, onde evitare che le leggi inviate dalla Duma e soggette all'approvazione obbligatoria da parte del Consiglio, vengano spesso rimandate indietro, raIlentando ulteriormente la produzione legislativa. Altra questione delicata è quella del


rapporto tra il potere legislativo e quello presidenziale. In molti casi per i quali la Costituzione prevede la partecipazione dell'assemblea legislativa questa, con vari espedienti di tipo tecnico, viene spesso emarginata e le decisioni più importanti per la vita del Paese, compresa la creazione di organi di tipo costituzionale o para-costituzionale, vengono prese senza consultana. Ritornando alla questione dell'attività legislativa, la Duma ha ultimamente adottato (ed inviato al Consiglio della Federazione) alcune leggi federali per la tutela dello Stato sociale, tra cui l'importantissima legge sulle "Modalità di determinazione e di elevazione delle pensioni statali", oltre ad una legge di modifica del Codice della RSFSR sugli illeciti amministrativi favorevole ad una maggiore tutela dei diritti dei cittadini. La sua attività, nell'ultimo anno, ha invece subito un rallentamento (a causa degli "istenismi" elettorali) per quanto riguarda la produzione codicistica. Non è stato adottato il Codice tributario, fondamento dell'elaborazione del bilancio, oltre al già citato Codice Fondiario ed al nuovo Codice del lavoro. Spesso le discussioni parlamentari si attardano intorno a questioni riguardanti modifiche al regolamento interno, lo status e le prerogative dei deputati e simili. La situazione della legalità è poi compromessa da altri fattori: manca l'applicazione puntuale e tempestiva degli

atti normativi adottati poiché la mentalità burocratica stenta ad abbandonare vecchie abitudini che rendono difficile recepire ed appoggiare i cambiamenti. In questo modo, si continuano a perpetrare abusi, soprattutto a danno dei cittadini, dal momento che le leggi e gli altri atti normativi restano inapplicati, compresi gli editti presidenziali 9 . Un altro problema da sottolineare è quello della confusione legislativa: al centro non si conoscono le leggi locali e nei soggetti della Federazione si eludono quelle statali; sono inoltre ancora in vigore molte leggi della RSFSR'°, in attesa che la Duma acceleri la nuova produzione legislativa. Manca, insomma, un sistema normativo unitario e troppo spesso succede che gli editti presidenziali prendano il posto della legge. SITUAZIONE DELLA LEGALITÀ E DELLA GIUSTIZIA

Strettamente legata alla questione della legalità è quella della giustizia, in particolar modo la situazione dell'apparato giudiziario. A tale proposito il Governo ha emanato nel luglio 1996 una "Concezione sulla riforma degli organi e degli uffici della giustizia nella Federazione russa", i cui punti fondamentali prevedono l'equiparazione dello status e delle garanzie tecnicomateriali degli uffici giudiziari del ministero della Giustizia alle condizioni 39


degli uffici analoghi funzionanti negli organi degli Interni e della Difesa; inoltre, si prevede di trasferire il finanziamento di tali uffici dal capitolo del bilancio dedicato alla scienza (sempre penalizzato) a quello degli organi per la difesa dei diritti. In questo modo, il ministro della Giustizia vuole sottrarre " ii zona i suoi runzionarialaiia ai rischio" rappresentata da un finanziamento attuato sempre per via residuale. Il problema di un apparato giudiziario indipendente è, infatti, anche quello del suo finanziamento. Molti tribunali locali si sono visti comunicare all'improvviso la cessazione dei finanziamenti a carico del bilancio federale (per la mancanza di fondi!). I poteri locali, dal canto loro, sembrano non desiderare giudici indipendenti, piuttosto funzionari che siano ai loro servizio (perciò li finanziano). Secondo l'art. 124 della Costituzione il finanziamento del sistema giudiziario deve effettuarsi esclusivamente a carico del bilancio federale. Tale norma, in pratica, obbliga a finanziare i tribunali in modo da garantire l'indipendente e completo adempimento dei loro compiti, cioè in modo sufficiente, onde evitare di chiedere aiuto ai poteri locali. Nella realtà succede, però, che senza il sostegno finanziario dei soggetti i tribunali non potrebbero funzionare. Tale finanziamento diventa quindi necessario, pur essendo un'arma a doppio taglio. Insomma, non si può sostenere che ci sia un'e•

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quivalenza automatica tra il contenuto delle sentenze e il sostegno politico al potere locale, però ci sono forti rischi che ciò accada: lo Stato non vuole (o non può) garantire l'indipendenza dei giudici e ciò rischia di compromettere l'obiettività del loro giudizio. Sistema dei partiti e controllo di costituzionalità Tra gli organi di recente costituzione (anche questo senza l'intervento parlamentare) bisogna menzionare il Consiglio politico consultivo, cui ha dato vita un editto di Eltsinu. Secondo le intenzioni presidenziali esso dovrebbe favorire la pace ed il consenso sociale, sulla scia dell'Accordo sul consenso sociale sottoscritto da tutte le forze politiche e sociali nel 1993. Ciò è ritenuto indispensabile per proseguire nelle riforme. Inoltre, le ultime elezioni politiche alla Duma (dicembre 1995) hanno evidenziato l'incompletezza della legge elettorale: 40 milioni di russi hanno votato per i 4 partiti risultati vincitori ma gli interessi di altri 40 milioni di elettori, che avevano votato per gli altri 39 partiti, non sono rappresentati a livello parlamentare. Nel Consiglio politico consultivo sarebbero invece rappresentati tutti i partiti, che abbiano superato o meno lo sbarramento del 5% dei consensi. Altro compito del Consiglio dovrebbe essere la valutazione dell'opportunità sociale, politica ed economica delle leggi e degli altri atti normativi riguar-


danti tutte le questioni di interesse sociale. Dovrebbe, inoltre, essere la sede per amalgamare ed avvicinare le forze politiche, per far sì insomma che alle prossime elezioni si presentino solo 4-5 partiti e non più 43. Suscita, però, perplessità il fatto che in tale organo non siedono rappresentanti di partiti quali Jabloko, gli agrari e i comunisti! Questo fa pensare che si tratterà, probabilmente, di un ulteriore strumento di pressione presidenziale a livello politico. Non possiamo fare a meno di menzionare anche la comparsa, nell'attuale stagione di riforme istituzionali, di una Corte costituzionale, indispensabile ed autorevole garante del consolidamento della democrazia. Il controllo di costituzionalità, effettuato da un organo destinato appositamente a svolgere questa funzione, è apparso in Russia solo negli ultimi anni. Una delle esigenze fondamentali manifestatasi nel corso delle riforme è stata quella di garantire l'effettività del principio della separazione dei poteri e, quindi, l'instaurazione di uno Stato democratico di diritto. Proprio per questo è sorta la necessità dell'istituto del controllo di costituzionalità. Durante il periodo sovietico, il controllo di costituzionalità, pur esistendo nominalmente (con affermazioni importanti a tale riguardo nelle Costituzioni di quegli anni) aveva, com'è facile intuire, un significato semplicemente teorico. Era, infatti, impossibi-

le da attuare in un regime fortemente accentrato, che non conosceva la separazione dei poteri. L'assenza di uno speciale meccanismo di controllo della costituzionalità degli atti dei supremi organi del potere statale aveva fatto in modo che per decenni la Costituzione restasse soltanto nominalmente la Legge Fondamentale. Qualsiasi atto di un organo legislativo del Paese aveva, in pratica, la stessa forza giuridica della Costituzione. La situazione era aggravata dal fatto che la Costituzione sovietica prevedeva una periodicità insufficiente per le sessioni del Soviet Supremo dell'URss (il supremo organo legislativo del Paese), il quale si riuniva soltanto per pochi giorni l'anno ed era praticamente incapace di adempiere le proprie funzioni. Viceversa, c'era uno sviluppo ipertrofico dell'attività degli organi esecutivi, cosa che portava ad una ampia ed evidente violazione della Costituzione. Sotto il peso delle numerose direttive del Governo, degli innumerevoli ordini ed istruzioni di ministeri e dipartimenti, si calpestavano e si falsavano i principi e le norme costituzionali. Nell'URss, quindi, l'attività del Soviet Supremo non poteva essere soggetta al controllo di nessun organo. Per quanto riguarda il controllo di costituzionalità di tutti gli altri atti di natura normativa (escluse le leggi e gli atti del Governo), esso era effettuato dalla Procura. Ma questa non riusciva a controllare 41


l'enorme massa di atti dei ministeri e di altri organi. Con la perestrojka le cose erano iniziate a cambiare anche in questo campo, avvertendosi sempre più la necessità del rispetto della Costituzione. Si era, quindi, dato vita ad un Comitato di sorveglianza costituzionale con la legge di revisione costituzionale del 1/12/1988 che aveva modificato l'art. 125 della Costituzione dell'URss. La configurazione iniziale del Comitato era stata per buona parte modificata nel 1989, con la legge "Sulla sorveglianza costituzionale in URss". Inoltre, nel 1990, con la creazione della carica di Presidente dell'URss erano mutate del tutto le competenze del Presidium del Soviet Supremo, il quale aveva completamente perso le funzioni di "controllo di costituzionalità", passate così interamente al Comitato di sorveglianza costituzionale, il quale ha funzionato dal 26 aprile del 1990 all'ottobre del 1991. Il Comitato era però essenzialmente un organo consultivo e del resto non c'era alcuna garanzia di osservanza dei suoi pareri (essi andavano semplicemente inviati al Presidium del Soviet Supremo e con la creazione del Presidente dell'URss a questi) i quali non erano obbligatori, non avevano forza giuridica. Per denominazione, poteri, struttura e modo d'agire, il Comitato appariva un organo amministrativo di tipo consultivo. Esso, in realtà, aveva rappresentato una soluzione di com-

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promesso tra la necessità del controllo di costituzionalità dell'attività del potere legislativo e la concezione, ancora radicata, della supremazia dei Soviet; inoltre, si trattava di "sorveglianza" e non di vero e proprio controllo 12 La Russia è andata molto più lontano, infatti nell'ottobre del 1991 ha cominciato a funzionare una prima Corte Costituzionale (della RSFSR). La sua attività era tuttavia iniziata in un contesto politico molto difficile, al centro del quale si svolgeva un aspro conflitto tra il potere legislativo e quello esecutivo. In tali condizioni la Corte, pur tentando di svolgere funzioni di mediazione, non è riuscita alla fine a mantenere una posizione indipendente (o meglio a non farsi travolgere dagli eventi), cosa che ha indubbiamente segnato la sua sorte. .

Bisogno di garanti La nuova Costituzione della Federazione Russa ha introdotto significative modifiche per ciò che riguarda l'organizzazione e l'attività della Corte Costituzionale. In particolare, questa è stata riconosciuta quale organo indispensabile per la costruzione ed il consolidamento dello Stato democratico di diritto in Russia. Uno strettissimo legame, infatti, sussiste tra lo Stato di diritto e il controllo di costituzionalità. Senza quest'ultimo è difficile che si affermi nella vita di uno Stato di diritto la sua caratteristica più importante: la supremazia della legge. Senza un con-


trollo della costituzionalità delle leggi e degli altri atti di natura normativa, è difficile che si possa verificare questo dominio. Da ciò scaturisce anche la garanzia del principio della separazione dei poteri: con l'aiuto degli organi che effettuano il controllo di costituzionalità, infatti, si possono comporre i conflitti che insorgono tra i supremi organi statali, soprattutto tra i poteri legislativo ed esecutivo; tali conflitti spesso nascono nell'esercizio della funzione legislativa e dei poteri direttivi all'interno dell'apparato statale, e pesano nella sfera delle libertà personali, dove molto ampia è la possibilità dell'abuso e della violazione delle leggi da parte degli organi amministrativi. Agli organi di controllo costituzionale spetta, quindi, anche un'altra importante missione: garantire l'uguaglianza formale dei cittadini. Così come il consolidamento della democrazia richiede tempo e porta con sé inevitabili mancanze e contraddizioni, esigendo uno sforzo continuo in condizioni non certo facili, allo stesso modo l'affermazione di un organo che garantisca la supremazia della Costituzione ricalca questo difficile processo, risentendo delle stesse difficoltà e contraddizioni. Molti hanno paragonato la situazione in Russia negli ultimi anni a quella di altri Stati europei all'indomani della seconda guerra mondiale ed alla caduta dei regimi totalitari. Forse è un paragone eccessivo, che non tiene conto di dif-

ferenze storico-ambientali essenziali, ma non del tutto lontano dalla realtà di una società che si ritrova a doversi ricostruire, circondata dalle rovine ancora fumanti di un recente passato. Ciò di cui questa società ha ora bisogno è di garanzie. E di garanti. Non basta una nuova Costituzione se non c'è la certezza della sua applicazione. Ovviamente il garante non è uno soio. Meccanismi di controllo sono previsti dalla nuova Costituzione russa in capo a più di un potere dello Stato, ma l'istituzione di una Corte Costituzionale segna un notevole passo in avanti, rispetto al passato, nella realizzazione di un controllo indipendente, altamente qualificato e possibilmente super partes. Come già detto, il processo è in atto. La Corte Costituzionale dovrebbe essere il controllore più autorevole del rispetto della supremazia del diritto, della reale separazione e dell'equilibrio tra i poteri dello Stato, dell'intangibilità dei diritti dell'uomo, della responsabilità reciproca tra lo Stato ed i cittadini, della difesa della società dall'arbitrio statale: la "coscienza" dello Stato di diritto. Per la piena realizzazione di tali esigenze si sviluppano, sull'arena delle riforme, altre importantissime novità legislative: un nuovo status giuridico dei giudici (compresi quelli della Corte Costituzionale), nuove regole processuali, il pieno riconoscimento agli organismi per la difesa dei diritti umani, etc. 43


Molto importante è la presenza di una Corte Costituzionale anche per il completamento dell'operatività delle norme costituzionali, grazie alla sua opera di interpretazione della Costituzione. Non bisogna dimenticare, infatti, che attualmente in Russia è ancora in vigore un grandissimo numero di norme adottate al tempo del regime sovietico. Il Parlamento è difatti ben lungi, come abbiamo visto, dall'aver completato l'opera di rinnovamento legislativo, ed in molti campi si rischia di perpetrare veri e propri abusi di diritto, dal momento che alla proclamazione dei nuovi principi costituzionali non sono sempre seguite leggi in grado di dar loro effettività. Si pensi alla fondamentale sfera del diritto privato dei cittadini, alle norme che regolano i rapporti di lavoro (ed i conflitti in materia di lavoro), alle garanzie socioassistenziali, etc. Ciò che allo stato attuale ancora manca alla Corte costituzionale (oltre ad una consolidata esperienza di lavoro) è l'analisi teorica del proprio ruolo. Non essendovi tradizioni patrie in merito, essa cerca di sopperirvi con l'esame e "l'apprendimento" dei modelli occidentali. I

RAPPORTI FEDERATIVI E LE RELAZIONI

TRA IL CENTRO E I SOGGETTI

I rapporti federativi rappresentano attualmente per la Russia una questione basilare, di cui si avverte l'urgenza sol44

tanto in modo confuso ed insufficiente. È indispensabile stabilire solide basi normative, economiche e sociali in questo campo, per garantire la stabilità ed il progresso del Paese: è la struttura stessa dello Stato russo che lo esige e che rende improcrastinabile affrontare il problema. Negli ultimi tempi, la questione locale ha assunto i contorni della competizione politicoelettorale, dalla quale sembra uscire un nuovo assetto politico dei governi locali. Le incognite, tuttavia, sono innumerevoli. Il Parlamento russo non ha ancora adottato la legge, prevista dalla Costituzione, "Sui principi generali di organizzazione degli organi rappresentativi ed esecutivi del potere nei soggetti della Federazione Russa". Ciò rende la situazione ambigua, dal momento che il mandato di diversi organi legislativi dei "soggetti" è scaduto, pur continuando essi a restare in carica. La loro legittimità è quindi dubbia e, di conseguenza, anche quella del Consiglio della Federazione (in relazione ai presidenti di tali assemblee che vi siedofl0 1 3).

In attesa dell'adozione della legge Eltsin aveva emanato (il 17/9/1995) 1 Editto n. 951 "Sulle elezioni degli organi del potere dei soggetti della Federazione russa e degli organi dell'autogoverno locale", secondo il quale le elezioni degli organi locali il cui mandato scadeva nel 1995 e nel 1996 venivano "congelate" fino al dicembre


1997. In seguito, tuttavia, alle reazioni dei giuristi, i quali sostenevano che fino all'adozione della legge federale gli organi del potere statale dei soggetti avessero il diritto di decidere da sé tale questione, egli aveva emanato il 2/3/1996 un altro Editto (n. 315) in cui affermava che la data delle elezioni sarebbe stata stabilita dagli stessi organi dei soggetti, in base a leggi da essi adottate. I soggetti pero si sono comportati in modo diverso, chi applicando l'Editto n. 951 (fissando le elezioni nel 1997 o, addirittura, nel 1998), chi attenendosi all'Editto n. 315: come risultato il caos, in attesa che la Duma decida 14 .

Le elezioni locali Entro il 31 dicembre 1996 si sarebbero dovute concludere le elezioni in circa 75 "soggetti" della Federazione. Si trattava del rinnovo delle assemblee rappresentative, dei presidenti di alcune repubbliche, dei governatori e dei dirigenti dell'Amministrazione di regioni, territori e circondari autonomi. La situazione istituzionale nei "soggetti" è però, a tutt'oggi, alquanto variegata: alcuni non hanno ancora provveduto alle elezioni, altri sono incerti se tenerle o meno ed in altri casi i deputati, per non rischiare sorprese, hanno addirittura deciso di prolungare il proprio mandato. Appare stupefacente l'inerzia anche del potere giudiziario locale di fronte alle pretese di essere deputati a vita. Nonostante i

chiarimenti della Corte Costituzionale sulle priorità della democrazia, le cose non sono cambiate. La giovane e non consolidata democrazia parlamentare si basa, con sempre maggiore convinzione, sui principio dell'autogoverno, confondendolo però spesso con l'arbitrio: ci sono soggetti che non hanno ancora adottato nuove carte costituzionali o statuti, né leggi elettorali; altri che si comportano in modo eccessivamente "indipendente". Non c'è affatto chiarezza riguardo al concetto di sovranità territoriale. Non bisogna dimenticare che le elezioni locali rivestono, oltre ad una rilevanza politico-economica, un altro importante motivo di interesse per il centro, relativamente cioè alla formazione del Consiglio della Federazione. La legge sulla formazione di tale Camera è apparentemente semplice: in essa entrano "d'ufficio" i dirigenti del potere esecutivo e legislativo dei "soggetti" della Federazione 15 . Non è chiaro, tuttavia, cosa voglia dire entrarvi d'ufficio. Il regolamento interno della Camera non chiarisce bene quale sia la procedura di entrata in carica. Quale eredità dal Consiglio di prima formazione è rimasta una procedura di verifica, conferma e cessazione dei poteri dei membri che, in base al regolamento interno, andrebbe attuata tramite votazione. Non si capisce, però, perché i membri del Consiglio della Federazione debbano votare per la verifica dei propri poteri, dal momento 45


che i dirigenti dei poteri esecutivo e legislativo dei "soggetti" della Federazione sono, in quanto tali e cioè d'ufficio, anche membri della Camera. È evidente il motivo di applicazione di tale procedura alla Camera di prima formazione: in essa sedevano rappresentanti eletti 16 . Oggi però, conservando tale procedura, potrebbero verificarsi situazioni paradossali: sindaci o presidenti di assemblee legislative, regolarmente eletti, potrebbero vedersi non confermati a membri del Consiglio della Federazione dal voto dei senatori. Su quali basi ciò sarebbe ammissibile? La commissione per la verifica dei poteri, che dovrebbe soltanto comunicare chi, dopo le elezioni locali, sia diventato nuovo membro del Consiglio e chi viceversa sia decaduto dalla carica, effettua ogni tipo di verifica. Sono state già proposte modifiche al regolamento affinché la Camera abbia soltanto il diritto di registrare il mandato dei nuovi membri e affinché la decisione venga presa senza ricorrere al voto. Da un punto di vista strettamente politico le elezioni locali vedono una tendenza all'affermazione delle forze di sinistra, o per meglio dire, esistono vere e proprie enclaves "rosse" nel Paese. Per questo, esse sono pRi significative di quelle presidenziali. Qual è il motivo che spinge tanti soggetti della Federazione a votare contro le riforme economiche? I politologi 46

moscoviti ne addebitano la causa alla nostalgia per il passato sovietico. Ma i russi non hanno dimenticato le aberrazioni di tale passato e, tra l'altro, i comunisti attuali appaiono diversi dai loro predecessori. Le ragioni sono altre e pRi profonde. La brusca conversione al mercato ha letteralmente gettato i russi allo sbaraglio, privandoli di sostegni e direttive. Alcuni si sono rapidamente adeguati, altri stentano a farlo ed altri ancora non hanno imparato a darsi da fare. In molte realtà locali, la situazione economica è disastrosa, con milioni di disoccupati ufficiali (ed un numero effettivo sicuramente superiore) i quali, data la loro condizione di disagio, non riescono a cogliere i segnali positivi e ad apprezzare il nuovo regime democratico. Gli operai, inoltre, divenuti azionisti delle fabbriche in cui lavoravano, accusano di ogni problema il Governo, che non fornisce loro i mezzi finanziari. Il vecchio convincimento che «lo Stato ti aiuta" è ancora radicato nella coscienza comune. È difficile far capire a questi nuovi proprietari-azionisti che adesso bisogna lavorare con efficienza, producendo merci di qualità, concorrenziali, cercandosi partner e compratori. L'influenza dei comunisti su tali lavoratori è enorme. Lo stesso è successo anche nel settore agricolo. Cambiando il nome dei kolchozy e sovchozy in "società a responsabilità limitata", queste aziende non sono certo rifiorite. La terra è stata, in


alcuni casi, divisa tra i contadini, ma questi ultimi non sanno come utilizzarla in assenza di macchinari, combustibile, fertilizzanti e sementi (oltre che dei fondi per acquistarli). L'agricoltura individuale non attecchisce e le cooperative non possono rifornire i contadini delle merci e dei prodotti di cui essi hanno bisogno. In molte zone, più della metà delle aziende agricole individuali ha cessato di esistere, a causa degli elevati tassi d'interesse, delle imposte e di altri gravami. Benché ora si possa acquistare tutto liberamente, i soldi sono pochi e la gente non ha imparato a guadagnarseli. Quei pochi che lo hanno fatto, si sono serviti di mezzi illegali. Perciò il risentimento cresce, portando inevitabilmente voti ai comunisti. Un altro problema è la rotazione dei quadri dirigenti locali. Ogni nuovo governatore, ad esempio, sostituisce i quadri dirigenti, prima che questi possano costruire qualcosa, ed i nuovi quadri dirigenziali hanno bisogno di tempo per rendersi conto della situazione. In questo modo, l'economia locale non si risolleva mai. Ci sono poi molte città "ex-partigiane", dove i sentimenti della guerra patriottica sono ancora vivi, soprattutto presso le vecchie generazioni, le quali non gradiscono che questi vengano dimenticati. Anche per questo, votano l'opposizione comunista che raccoglie le loro nostalgie. Altro fattore di malcontento è il mancato adempimento delle pro-

messe presidenziali e governative: si vede, da un lato, l'arricchimento (a danno dello Stato) dei nuovi (e pochi) ricchi e, dall'altro, l'impoverimento della maggior parte della popolazione, l'inganno dei risparmiatori, il proliferare di banche e banchieri che sembrano raccogliere fortune dal nulla, le operazioni mediche e l'istruzione a pagamento, il costo elevato dei medicinali, dei trasporti ferroviari ed aerei, la crescita della criminalità, la morte dei propri figli in Cecenia. Tenuto conto di tutto questo, come si può evitare che le scelte politiche si indirizzino verso i comunisti?

Le insufficienze dell'autonomia Il fatto che non sia stata ancora adottata la legge sui "Principi generali di organizzazione del sistema degli organi del potere esecutivo e legislativo" significa, tra le altre cose, che gli amministratori locali non hanno alcuna responsabilità di fronte alla legge. La prima versione della legge è stata respinta dal Consiglio della Federazione ed in seguito la Duma ha apportato notevoli modifiche, elaborando una legge del tutto nuova. La prima versione era stata respinta perché, invece di stabilire i principi generali di organizzazione del potere statale, limitava l'autonomia del potere locale, usurpandone le competenze. Oltre a ciò, essa non rispettava l'equilibrio tra i poteri esecutivo e legislativo. Per quanto riguarda la responsabilità degli 47


amministratori locali, l'articolo 16 dell'attuale versione della legge prevede la possibilità di destituire, su iniziativa dell'organo legislativo, il funzionario supremo nel caso in cui questo violi la Costituzione federale, le leggi o gli altri atti normativi federali oppure la Costituzione o lo Statuto della propria repubblica, regione, territorio, ed anche in caso di grave malattia 17 La procedura di destituzione è però molto complessa e l'applicazione di questo articolo risulterà estremamente difficile. Ciò significa che un dirigente dell'esecutivo, eletto localmente, sarà irremovibile? Circa la metà dei governatori sono stati eletti e metà nominati dal Presidente, con editto. Questi ultimi vorrebbero essere eletti, essendo sicuri della vittoria. Il Presidente ha infatti destituito diversi dirigenti da lui stesso nominati, e anche per motivi non gravi. Un governatore eletto dal popolo, che abbia sottoscritto col centro un accordo sulla delimitazione delle materie di competenza, può dormire tranquillo, almeno fino alle successive elezioni. Ciò vuol dire che dopo le elezioni dei capi del potere esecutivo delle regioni, il vertice esecutivo smetterà di esistere e il centro non potrà controllare in alcun modo i nuovi "principi indipendenti"? Come conciliare la buona idea dell'eleggibilità con quella della responsabilità? La legge dovrebbe garantire in ogni situazione la difesa dei cittadini dall'ar.

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bitrio del supremo funzionario statale locale. Va detto, tuttavia, che esiste un Editto presidenziale (n. 810) del 6 giugno 1996 "Misure per rafforzare la disciplina nel sistema dell'impiego statale" 18 il cui punto 6 recita "la Procura generale della Federazione russa ed il Dipartimento Centrale di controllo presso la Presidenza della Federazione russa, devono proporre al Presidente della FR sanzioni, che potranno arrivare sino alla rimozione dall'ufficio, per i dirigenti degli organi federali del potere esecutivo e per i dirigenti del potere esecutivo dei soggetti della Federazione (indipendentemente da come essi siano entrati in carica) qualora violino o non adempiano correttamente le leggi federali, gli editti del Presidente e le sentenze dei tribunali della Federazione russa". La norma è chiara ed indica che la "verticale" esecutiva funziona ancora, toccando i dirigenti locali indipendentemente dal fatto che questi siano stati eletti oppure nominati dal Presidente. Un'altra incongruenza è data dal fatto che in nessuna scheda elettorale per l'elezione dei dirigenti dell'amministrazione regionale o dei presidenti delle repubbliche è stato specificato che il popolo elegge non soltanto un governatore o un presidente ma anche un membro del Consiglio della Federazione. Eppure la cosa è automatica: si viene eletti contemporaneamente ad entrambe le cariche, anche se nelle campagne elettorali locali nessuno lo dice. La ,


doppia carica dovrebbe comportare una doppia responsabilità. Ciò dovrebbe essere precisato a livello giuridico, con una norma ad hoc inserita nella nuova legge. Altra legge basilare che tarda ad essere approvata è quella "Sulla delimitazione degli oggetti e dei relativi poteri di competenza tra il centro federale ed i soggetti della Federazione russa". Nonostante l'assenza ditale legge quadro, sono stati firmati quasi tutti gli accordi sulla delimitazione delle competenze coi singoli soggetti , ma una parte di essi presenta seri dubbi d'incostituzionalità. SVILUPPARE IL FEDERALISMO

Le carenze nella legislazione federale hanno causato in molti territori membri della Federazione la paralisi dell'attività legislativa e conflitti tra gli organi legislativi ed esecutivi. Tuttavia, negli ultimi mesi, per supplire alle deficienze legislative, sono apparsi una serie di atti, che potremo definire per lo più dichiarazioni di principi, direttive cioè prive di cogenza normativa. I più importanti sono: le "Basi della politica regionale nella Federazione russa7 19 e la "Concezione della politica nazionale statale della Federazione russa" 20 entrambi introdotti con editto presidenziale. Bisogna, inoltre, ricordare la legge federale "Sull'autonomia culturale nazionale" 2 ' e diversi decreti del Governo per sostenere l'iniziativa e lo ,

sviluppo economico di alcuni soggetti della Federazione. Le "Basi della politica regionale nella Federazione russa" sono state introdotte il 3 giugno 1996. Secondo le intenzioni presidenziali, la politica regionale dovrebbe rappresentare un sistema di finalità e di compiti per gli organi del potere statale, allo scopo di indirizzare lo sviluppo politico, economico e sociale delle regioni 22, oltre a prevedere i meccanismi per realizzare tali obiettivi. Le finalità di base sono: sviluppare il federalismo nella Federazione russa; creare un unico spazio economico, sociale, giuridico-costituzionale; garantire l'autogoverno locale; garantire a tutti i cittadini della Federazione lo stesso livello di vita e di sicurezza sociale previsto dalla Costituzione federale; rendere uguali le condizioni socio-economiche di sviluppo delle regioni. Le direttive più importanti della politica regionale prevedono la decentralizzazione del potere, tramite l'attribuzione alle regioni o territori membri del maggior numero possibile di poteri nelle materie di competenza congiunta, inoltre, il rafforzamento dell'influenza della popolazione nell'adozione delle decisioni prese dagli organi federali, la garanzia dell'operatività del principio dell'uguaglianza di diritti dei "soggetti" (tra di essi e nei confronti degli organi federali), pur tenendo conto delle specificità di ognuno. Nella concezione della politica regionale 49


sono state distinte tre sfere d'azione: rapporti federativi; politica economica regionale; politica sociale regionale. I rapporti federativi presuppongono una forma tale di costruzione dello Stato che, da un lato, ne garantisca l'integrità, l'indivisibilità e l'unità, e dall altro, aumenti i poteri dei soggetti" membri e la loro autonomia. La questione principale riguarda il trasferimento dei poteri statali dal centro alla periferia: per questa via il federalipolitico diventerebbe anche federalismo socio-economico. Vengono sensibilmente accresciuti i diritti delle regioni di disporre di mezzi finanziari, soprattutto in campo fiscale. Si dovrà tenere maggiormente conto delle opinioni dei soggetti della Federazione nell'elaborare i progetti di legge e ciò permetterebbe di rendere conformi alla Costituzione federale i loro Statuti. Lautogoverno locale dovrà completare l'interazione tra gli organi federali del potere a livello locale sulla base dei principi costituzionali. Soltanto però quegli organi dell'autogoverno locale che siano autonomi, indipendenti a livello giuridico, organizzativo e finanziario, saranno adatti a realizzare la politica regionale, tenendo conto degli interessi e delle necessità della popolazione delle regioni e di tutte le etnie ivi presenti. Compito principale della politica economica regionale del prossimo decennio dovrà essere la stabilizzazione produttiva, la ripresa della crescita econo50

mica in tutte le regioni, l'elevazione su tale base del livello di vita della popolazione. Le norme della politica economica regionale si legano con la politica nella sfera sociale. È previsto che alla risoluzione dei più diffusi ed aspri problemi sociali debbano partecipare gli organi federali del potere statale, ai fini anche della realizzazione di un'attiva politica statale. Le priorità sono: migliorare la situazione demografica, scongiurare l'impoverimento della popolazione, minimizzare le conseguenze negative della disoccupazione (soprattutto nelle regioni meno sviluppate), frenare il processo di differenziazione patrimoniale tra regioni più povere e regioni più ricche. UN GRANDE MOSAICO MULTIETNICO

Partendo dalla considerazione che la Federazione russa rappresenta uno dei più grandi Paesi multietnici del mondo, la politica regionale fissa un sistema di misure dirette al rinnovamento ed al successivo sviluppo della vita nazionale di tutti i popoli della Russia all'interno di uno Stato federativo, ed anche alla creazione di rapporti paritetici tra i popoli del Paese ed alla formazione di meccanismi democratici per risolvere i problemi nazionali ed infranazionali. La politica regionale nella sfera dei rapporti etnico-nazionali prevede, a livello giuridico-statale, la formazione di un nuovo modello di struttura federativa dello Stato, che


corrisponda alla realtà socio-economica e politica contemporanea, all'esperienza storica della Russia e sia diretta alla conservazione dell'integrità statale. Nella sfera «spirituale" si segnalano i seguenti principi: rispetto dei diritti e delle libertà di ogni uomo e cittadino, uguaglianza dei diritti dei popoli qualunque sia la forma della loro autorealizzazione, criteri per scongiurare e comporre pacificamente i conflitti infranazionali, tutela da parte dello Stato della cultura originaria dei piccoli popoli, cioè della lingua, delle tradizioni e dei modi di vita originari. Si prevede di tutelare lo sviluppo delle lingue e delle culture nazionali soprattutto a livello d'istruzione, tenendo tuttavia conto delle reali possibilità che il russo serva da lingua statale comune, cioè come mezzo per i rapporti infranazionali; si vuole permettere, infine, la diffusione di un'informazione obiettiva sulla vita ed i problemi dei popoli della Federazione. L'altro documento che ci interessa esaminare, strettamente legato al precedente, riguarda la politica nazionale statale. Alcuni ritengono che la guerra in Cecenia sia stata causata anche dall'assenza (o dal ritardo) di una politica nazionale statale, dall'assenza cioè di una regolamentazione costruttiva dei rapporti nazionali e federativi in condizioni di democrazia. La mancanza di una politica nazionale unitaria e ufficiale, ha fatto sì che si prendessero

decisioni individuali per ogni questione. Soltanto il 15 giugno del 1996 (dopo tre anni di lavoro) è stata approvata con editto presidenziale la "Concezione della politica statale sulle nazionalita Alla caduta dell'URss molti "entusiasti" si erano dedicati alla soluzione dei conflitti tra le nazionalità, si erano tuttavia prodotti documenti contingenti (riabilitazione di alcuni popoli, agevolazioni concesse ad altri), capaci solo di acutizzare il problema. Attualmente, in Russia coesistono due tendenze principali: il nazional-separatismo delle regioni e il nazional-sciovinismo che dal centro si apre in direzione locale, sfruttato un po' da tutti i leader politici. Elaborando la Concezione, si è tenuto conto anche del fatto che l'attuale situazione etnopolitica della Russia è caratterizzata da una serie di contrasti: uno) tra la raggiunta libertà a lungo attesa e l'assenza di meccanismi democratici e giuridici per difenderla e per realizzare, a tutti i livelli, la vita delle etnie ed i rapporti tra di esse; due) tra l'anelito dei popoli all'autonomia, alla difesa della propria singolarità etno-culturale ed il loro differente livello di sviluppo socioeconomico (e, quindi, un differente grado d'integrazione nel comune spazio panrusso); tre) tra la reale necessità di riformare la vita dei popoli in base ai nuovi principi di sviluppo e di cooperazione e la non corrispondenza delle riforme agli interessi particolari 51


di molte popolazioni; quattro) tra gli accresciuti poteri ottenuti dai soggetti per uno sviluppo indipendente e l'incapacità di utilizzarli nelle proprie comunità locali al fine dello sviluppo dei popoli e dei territori, del rafforzamento delle libertà e dei diritti dell'uomo e delle nazioni, del potenziamento di tutto lo Stato russo. Gli studiosi che hanno elaborato la Concezione, tenendo presente il pericolo crescente di conflitti tra lo Stato e le varie comunità locali, hanno cercato di creare condizioni ottimali per lo sviluppo socio-economico e culturale delle etnie. Secondo loro, tale Concezione dovrebbe costituire una base "filosofica" per orientare l'azione degli organi del potere statale e le strutture della società civile a tutti i livelli di funzionamento, ed anche per elaborare programmi concreti, locali, regionali e federali, di sviluppo e regolamentazione dei rapporti nazionali, al fine di prevenire e risolvere i conflitti infranazionali. Non basta proclamare la libertà dell'uomo e dei popoli per evitare di calpestarne i diritti: lo Stato deve sostenerli materialmente. Attualmente, c'è ancora una visione stereotipata della questione nazionale, anche a livello legislativo. Il problema non sono, quindi, le etnie ma l'atteggiamento di indifferenza e di mancato sostegno nei loro confronti. In Russia ci sono piii di 100 popoli: l'obiettivo della politica nazionale è di 52

trasformare questo enorme potenziale da fattore di debolezza in fattore di forza e di sviluppo. Per far questo, servono strumenti socio-economici, politico-giuridici e organizzativi per la valorizzazione ed il sostegno degli interessi delle popolazioni. Non basta piii il formale riconoscimento dell'identità culturale, come accadeva in epoca sovietica. I problemi sono politici, non soltanto culturali. Non basta incoraggiare il folklore e dettare poi, dall'alto, direttive uniformanti. Ci vogliono sedi di effettiva partecipazione al potere, alle decisioni prese al centro in materia di questioni nazionali. A livello statale non si è ancora affermata una visione sistematica dei problemi nazionali: non di rado, essi diventano oggetto di semplicistica speculazione politica ed i differenti aspetti dei problemi federativi e nazionali non trovano le giuste regole. La tragicità degli attuali rapporti federativi e nazionali è dovuta, infatti, all'assenza di una base giuridica ufficiale e comune per la loro regolamentazione. L'assenza di leggi precise e di tradizioni di regolamentazione giuridica trasforma tali rapporti in fonte di perenne conflittualità. Finora il Parlamento, nonostante le decine di progetti avanzati, non ha emanato alcuna legge sui rapporti federativi e neanche il Governo ha affrontato la questione etnico-politica o preso misure per stabilizzare i rapporti federativi. La politica nazionale riguarda soprattutto la creazione di condizioni eco-


nomiche, politiche e culturali tali da conferire a tutti i popoli le stesse opportunità ed un uguale sostegno, in modo che essi siano parte della stessa società e che godano di pari opportunità. Nella preparazione della Concezione statale della politica nazionale si è partiti, innanzitutto, dalla considerazione che la Federazione russa, in quanto parte dell'ex impero zarista e poi dell'URss, non è nata all'improvviso e non ha iniziato il suo sviluppo nel 1990, quando fu adottata la dichiarazione di sovranità statale del Paese. La Federazione russa è, dunque, vista come erede naturale della millenaria storia della Russia. Si è tenuto conto dell'esperienza dell'impero russo, sottolineando come sia importante conservarne la continuità, la particolarità, la lingua. Si è cercato di evitare gli estremismi, senza condannare in maniera acritica la politica sovietica sulle nazionalità, anche se tutti i popoli della Russia, incluso il russo, hanno sofferto a causa del regime totalitario deportazioni, repressioni e mortificazioni dei valori nazionali. Dopo il crollo dell'URss è iniziata nel Paese una nuova tappa di sviluppo, basata sui principi del federalismo e della società civile, della pace e del consenso infraregionale, dello sviluppo delle culture e delle lingue nazionali, della cultura nazionale e giuridica dei piccoli popoli. Ma anche qui, i punti dolenti non sono pochi.

La Concezione è un documento programmatico a lunga scadenza. La sua efficacia non consiste nelle tesi pronunciate, ma nell'applicazione pratica del programma. Una delle proposte concrete, inserita nella sezione Meccanismi di realizzazione della politica nazionale statale", è la formazione dell'Assemblea dei popoli della Russia, la quale dovrebbe avviare il dialogo tra gli organi del potere statale e le comunità nazionali e partecipare al processo di creazione legislativa. Il Governo ha dettato disposizioni al ministero per gli Affari delle Nazionalità e dei Rapporti Federativi ai fini della realizzazione della Concezione, in particolare per creare a Mosca "la casa panrussa dei popoli della Russia", per trasmettere via radio e televisione dei programmi nelle lingue dei popoli della Federazione, per lo sviluppo delle attività produttive tradizionali dei piccoli popoli, per la risoluzione dei problemi sociali ed ecologici dei popoli originari del Nord, della Siberia, del lontano Oriente. Questi sono gli intenti. Quanto essi siano lontani da un'effettiva realizzazione, lo testimoniano i conflitti interetnici e quelli tra centro ed etnie, oltre alla delicata posizione (in alcuni casi quasi di annientamento culturale e dell'identità nazionale) dei milioni di russi che si trovano a risiedere fuori dei confini della Federazione, soprattutto nei Paesi baltici. Mancano, inoltre, stanziamenti di bilancio adeguati 53


al sostentamento della politica nazionale, sottintendendosi quindi per essa un finanziamento di tipo residuale.

L'URGENZA DELLA CRISI ECONOMICA: POLITICHE A BREVE TERMINE

Le strategie pre-elettorali nella Russia eltsiniana non cambiano. Così come nel periodo precedente alle elezioni presidenziali si improvvisavano decreti ad hoc (elevazione dei minimi salariale e pensionistico; agevolazioni varie e sgravi fiscali: tutte cose che hanno portato ad un pauroso aumento del deficit) allo stesso modo, nell'urgenza delle elezioni locali, si è assistito all'emanazione di numerosi atti volti a sostenere (finanziariamente) una serie di economie locali. Si tratta, però, di un'arma a doppio taglio: dal momento che le risorse del bilancio statale sono limitate (anzi, sempre più deficitane) si devono restringere i cordoni della borsa in altri settori, magari dove prima si era "largheggiato" con false promesse. Si pensi alle pensioni, ai rimborsi dei risparmi erosi (anzi del tutto cancellati) dall'inflazione galoppante che non accenna a fermarsi, all'agricoltura, settore questo che non trova pace, mancando ancora una legge sulla privatizzazione della terra ma non essendoci neanche più le fattorie statali. A questo proposito, non si capisce bene quale sia la situazione dei contadini. A tutt'ora, sulla terra non vi sono proprietari benché i contadini, 54

formalmente, in molte imprese agricole trasformate in società per azioni, abbiano ricevuto la propria quota di terra. Al burocrati non resterebbe che riconoscere il pieno diritto del contadino alla terra, tuttavia, l'inerzia e l'inapplicazione delle norme perdurano, nonostante i pochi ben intenzionati. La Duma stessa ha bloccato un editto presidenziale di sostegno alle condizioni dei contadini ed anche l'approvazione del Codice fondiario. Ciò proverebbe come gli interessi dei partiti siano lontani dai bisogni effettivi della popolazione. Si avverte l'urgenza di una giusta politica agricola che preveda il sostegno dell'agricoltura a livello locale. Quali sono le strategie del Governo per arginare la crisi economica? Per quanto riguarda gli atti normativi "d'urgenza", cioè improvvisati per cercare di tamponare i buchi spaventosi nel bilancio, ci si muove sostanzialmente in due direzioni: lotta all'evasione fiscale (uno dei problemi economici più attuali e scottanti) 23 e miglioramento del sistema di raccolta delle imposte; tagli ai settori che non godono di priorità economica (pensioni, salari, rivalutazione dei risparmi, finanziamenti alle imprese, finanziamento della scienza e della cultura, costruzione di infrastrutture, abitazioni, ecc.). La Duma ha di recente approvato diverse leggi di sostegno allo Stato sociale, aa esempio, queiie suii tievazione I

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dell'importo delle pensioni minime, modalità di indicizzazione e di rivalutazione delle pensioni statali della FeIIT'l I(( I 1 aerazione russa e sull J,ievazione aei salari minimi". Il Consiglio della Federazione ha però dovuto respingerle a causa proprio della situazione economica: soltanto per l'indicizzazione delle pensioni ci sarebbero voluti 8,7 trilioni di rubli, non contemplati in bilancio. L'approvazione di tali leggi avrebbe portato al completo sconvolgimento del bilancio statale ed anche di quelli locali. La Duma ha dichiarato eccezionale la situazione socio-economica della Federazione russa, indicando le seguenti misure urgenti, indispensabili per uscire dalla crisi: elaborazione di strategie a lungo termine ai fini dello sviluppo socio-economico della Federazione russa che abbiano un ampio sostegno sociale, contemporaneamente alla realizzazione di una politica macroeconomica che crei condizioni favorevoli alla crescita dell'economia; incentivi agli investimenti; stimolazione della domanda dei beni di consumo; reintegrazione dei risparmi privati e del capitale circolante delle imprese; regolarizzazione dei rapporti di proprietà ; effettuazione di una riforma fiscale che preveda la diminuzione del carico impositivo e la semplificazione del sistema fiscale; difesa degli interessi dei produttori russi di merci; conservazione del potenziale dell'industria scientifica e incentivazione del pro-

gresso tecnico-scientifico, quali elementi principali della crescita economica; creazione di un efficace sistema di preparazione e di aggiornamento professionale del personale; introduzione di un sistema di pianificazione indicativo dello sviluppo socio-economico della Federazione russa; elaborazione e realizzazione di programmi a lunga scadenza per la modernizzazione dell'economia, il progresso tecnicoscientifico, l'elevazione delle condizioni di vita del popolo; riorganizzazione della struttura degli organi federali del potere esecutivo e potenziamento dell'efficienza della loro attivitĂ . La Duma ha anche stabilito di inviare una raccomandazione "Sulla concezione dello sviluppo economico e sociale della Federazione russa per gli anni 1996-2000" al Presidente, al Consiglio della Federazione, ai comitati ed ai gruppi di parlamentari della Duma, al Governo ed agli organi legislativi (rappresentativi) dei soggetti della Federazione russa. I deputati hanno, in particolare, espresso una grande preoccupazione per la situazione di crisi presente nel comparto dell'energia elettrica ed hanno effettuato un'audizione parlamentare in merito all'approvvigionamento di energia elettrica alle imprese ed alla popolazione. I membri del Consiglio della Federazione, a loro volta preoccupati per la situazione del Paese, hanno proposto al Governo di formulare un progetto 55


di legge sui "Fondamenti della sicurezza economica Anche in campo economico non mancano, quindi, i buoni propositi. Il problema è che in Russia, per adeguarsi ai parametri inflazionistici dettati dalle organizzazioni internazionali (FMI), continuano ad essere seguite delle politiche che penalizzano gli strati più deboli della società.

IL VUOTO DI IDEALI NAZIONALI DOPO IL CROLLO DELL'IDEOLOGIA

È da un po' che Eltsin cerca di dare al Paese la formulazione di un'idea di nazione, una sorta di collante che sostituisca l'ideologia socialista ed il successivo vuoto-rifiuto di ogni valore che la gente, in questo periodo di capitalismo selvaggio e senz'anima, non è più disposta a tollerare. Il modello? Probabilmente quello americano o gollista24 . I democratici eltsiniani vorrebbero così battere sul tempo i comunisti ed i nazionalisti: è più che altro un disegno strategico. Quali ideali, in concreto, vengono proposti? L'idea di una Russia forte e rigogliosa; l'idea dello Stato, del patriottismo e della solidarietà; le idee di libertà, di benessere (agiatezza), di fede; le idee di ordine costituzionale e di sicurezza statale; di uguaglianza, pace e del consenso civile; l'ideale della solidarietà internazionale. Ci si è resi conto, in sostanza, che la democrazia da sola non basta ad unire 56

un popolo anzi, visto che attualmente le riforme mostrano il loro lato più duro e cruento, è necessaria una giustificazione di principio, per non immiserirsi nella ricerca di un qualche benessere (che per i più, intendiamoci, significa sopravvivenza). Negli ultimi anni sia i democratici che i comunisti si sono sempre più spesso serviti di idee nazionali e sembra ora che il Presidente, vincitore nella dura lotta contro i gruppi di sinistra e di estrema destra, si sia rivolto alla terminologia propria ditali gruppi. I russi non comprendono ancora cosa si intenda per «nazione russa . La questione non è semplice e nessuno vi si dedica con serietà. L'idea nazionale dovrebbe essere l'espressione ben precisa, espressa a livello ufficiale, degli interessi dello Stato e della società russi. Tali interessi dovrebbero essere proclamati pubblicamente e recepiti dalla società affinché possano poi essere utilizzati nella politica interna ed estera, nella sfera sociale, nel campo della scienza e dell'istruzione. Ogni Stato evoluto formula la propria idea nazionale e vive in conformità ad essa. Ovviamente, col passare del tempo tale idea muta, a volte tramutandosi nel suo opposto. Le idee nazionali sono sempre esistite, sin dall'epoca della formazione di uno Stato russo unitario: alla fine dei secoli XV-XVT il fulcro dell'idea nazionale era il motto "Mosca terza Roma"; tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo era


l'idea di un grande impero ortodosso, sopranazionale, di ceto ed autocratico. L'URss non ha fatto eccezione: l'idea del potere sovietico e l'aspirazione ad un dominio pacifico rappresentavano la più pura idea nazionale, anch'essa avente radici nel passato (dominio della burocrazia, comunità agrarie, tendenze imperialistiche). Anche l'impero sovietico, come la Russia pre-rivoluzionaria, dichiarava la propria sopranazionalità, tuttavia in esso, come in precedenza, continuavano ad esistere un fratello fratel"maggiore" e tanti CC I ii minori Adesso la Russia è rimasta senza fratelli "minori" e ciò ha causato un grandissimo shock psicologico per la stragrande maggioranza della popolazione. Sono, tuttavia, bastati pochi anni a far si che le aspirazioni alla ricostituzione dell'Uiss per tale maggioranza vengano oggi considerate per lo meno stravaganti. La nuova realtà gradualmente entra a far parte nella coscienza dei russi. Ovviamente, la mortificazione dei propri connazionali all'estero continua a rappresentare per essi un cruccio e, pertanto, si continua a chiedere al Governo di difendere i propri parenti, conoscenti o semplici ex-concittadini i quali, per volere della storia, si sono venuti a trovare fuori dei confini della patria (la cosa riguarda soprattutto le repubbliche baltiche). La nuova Russia ha bisogno di una nuova idea nazionale, diversa da quelle precedenti, un insieme di valori .

unificanti che favoriscano il raggiungimento di uno spazio comune, nonostante le divisioni (e le enormi differenze, in molti casi) ed i conflitti. Lo Stato russo va gradualmente trasformandosi da impero multietnico in una vera federazione (il differente status dei suoi soggetti permette di usare il termine "federazione asimmetrica" 25), tuttavia sia i governi locali che la popolazione multietnica, avvertono sempre di più oltre all'unità panrussa i reciproci conflitti. Non a caso, al posto dell'originario termine "multinazionale" sene usa un altro, "popolazione multietnica . Si assiste, quindi, alla formazione di una nuova società. Questa entità storica del tutto nuova si sta formando molto rapidamente a livello di coscienza di massa, di processi economici e politici affini, di struttura sociale molto simile da un angolo all'altro del Paese. La nuova e complessa nazione, non ancora completamente formatasi, ha i propri interessi, che necessitano di esprimersi in una nuova idea nazionale. In che cosa essa dovrà consistere, secondo gli intellettuali?

Componenti dell'idea nazionale Innanzitutto, parte indefettibile della nuova idea nazionale russa dovrebbero essere i valori della democrazia e soprattutto il rispetto dei diritti dell'uomo. Infatti, proprio l'incapacità di unificare le idee di democrazia e di patriottismo aveva prodotto il crollo 57


della maggior parte dei partiti e dei movimenti politici nati tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta. In secondo luogo, è indispensabile una chiara definizione del federalismo a livello legislativo. Attualmente, tale definizione procede per lo più in maniera spontanea, generando pretese e conflitti reciproci. L'idea federale sarà "assorbita" a livello sociale nel momento in cui si creerà la possibilità per tutti i popoli della Russia di essere partecipi, alle stesse condizioni, ad un'unica nazione e quando tale idea si sarà rafforzata nella coscienza di massa. La Russia dovrebbe, inoltre, chiarire i propri legami coi Paesi della CSI (Comunità di Stati Indipendenti). Il processo di avvicinamento alla Bielorussia, al Kazachstan ed alla Chirghisia è senza dubbio positivo, ma continua ad essere accompagnato da difficoltà e problemi. La nuova Comunità dovrebbe avere uno status giuridico chiaro (attualmente di difficile definizione), riconosciuto a livello internazionale e caratterizzato da stabilità. È assolutamente indispensabile che alla base della Comunità vengano posti l'osservanza dei diritti dei cittadini di tutti gli Stati membri, un'unica politica economica e finanziaria, un'unione politico-militare, un chiaro coordinamento della politica estera. Infine, ci vuole una maggiore uniformità nell'approccio alla storia russa. La storia di una nazione è così impor58

tante che può servire alla creazione di una concezione ufficiale piìi o meno unitaria, che diventi parte dell'idea nazionale. Attualmente, l'idea nazionale non si è ancora formata. Lo Stato russo è molto giovane ed ha cominciato soltanto adesso ad avere percezione di sè. Ma ciò non vuole dire che un'idea nazionale non sia necessaria alla Russia, piuttosto che è indispensabile elaborare nel più breve tempo possibile, in conformità alla nuova realtà ed agli interessi della società civile che si sta formando, le basi della nuova nazione. QUALI POSSIBILI SCENARI

Prevedere i futuri scenari della situazione istituzionale russa non è semplice. Innanzitutto perché, data l'incompletezza del regime democratico, dovuta alla sua breve esistenza ed all'mesperienza dei protagonisti, non ci sono basi sufficientemente solide per azzardare previsioni. Inoltre perché la situazione economica disastrosa funge da deterrente per affrontare con serenità le ulteriori scelte istituzionali. Come abbiamo già sottolineato, si agisce sulla spinta dell'improvvisazione, scavalcando passaggi ritenuti fondamentali nelle democrazie occidentali più consolidate. Si può parlare di vera democrazia in Russia? Per quanto riguarda l'equilibrio tra i poteri, osserviamo che i li-


miti in questo Paese sono innumerevoli, sussistendo un rapporto difficile tra l'attività del Parlamento da un lato, e quella del Governo e del Presidente dall'altro. Il Presidente Eltsin, in particolare, esercita troppo di sovente i propri poteri di veto nei confronti dell'attività legislativa, quando non ne gradisce il contenuto. Ciò gli è possibile dal momento che la Costituzione approvata nel dicembre 1993 è stata scritta a sua immagine e somiglianza", cioè a favore di un potere presidenziale forte e quasi del tutto privo di limiti. Questo fa sì che il Presidente possa praticamente legiferare da solo, emanando di continuo editti dettati dalle contingenze del momento (e non soltanto), per risolvere i problemi più scottanti. In questo modo, le basi della legalità e del diritto risultano compromesse, vigendo un "ignorarsi" reciproco tra il potere legislativo e quello esecutivo-presidenziale, cosa non certo favorevole alla costruzione dello Stato di diritto. Sia il Presidente che il Governo giustificano la propria posizione d'egemonia a causa del manifestarsi nel Paese di diverse situazioni d'emergenza, tali da non sopportare i lunghi tempi parlamentari: i problemi bellici, nucleari, le questioni della criminalità organizzata. In questo modo, si finisce col rafforzare gli organismi forti, militari e civili, oltre che dare un notevole potere all'Amministrazione presidenziale.

Le questioni della difesa e della sicurezza nazionale sono giustamente considerate prioritarie nell'attuale congiuntura politico-istituzionale. Vengono tuttavia risolte con metodi dirigistici, altamente presidenzialisti e militaristi (nel senso del dominio dei militari), come si è fatto per la questione cecena, invece di affrontarli e risolverli a livello delle istituzioni democratiche. In questo campo bisogna segnalare l'adozione di una serie di atti normativi: le leggi federali "Sulla sicurezza statale" e "Sulla difesa" (15/5/96)26 ; l'editto di Eltsin sulle "Misure urgenti per rafforzare la legalità e la lotta alla criminalità nella città e nella regione di Mosca"27; la Creazione del Consiglio di Sicurezza e del Consiglio di Difesa della Federazione russa con i relativi Regolament1 28 (organi entrambi creati con editto presidenziale); il Programma federale finalizzato al rafforzamento della lotta alla criminalità per gli anni 19961997 29 ; l'editto di Eltsin sulla lotta al terrorismo (7/3/96); il decreto del Governo sulle "Forze e mezzi di un unico sistema statale per la prevenzione e l'eliminazione delle situazioni d' emergenza 30". Eltsin ha deciso di affiancare al Consiglio di Sicurezza un Consiglio di Difesa. Quest'ultimo, dovrebbe essere un organo atto a realizzare le decisioni strategiche del primo nelle questioni riguardanti la politica di difesa e a controllare l'andamento dell'industria

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bellica. Tale organo, dovrebbe inoltre realizzare (da solo?) la riforma militare globale, non soltanto delle forze armate (tale è il desiderio del ministro della Difesa). Per quanto riguarda la questione cecena, gli strascichi politici e militari sono numerosi. Non si fa che premere, da parte sia dei ceceni che dell'opinione pubblica russa, per il ritiro immediato delle forze armate federali, senza però valutarne appieno le possibili conseguenze. Gli scenari possibili sono diversi: che si verifichi ciò che si è verificato in Afganistan; che si scateni una guerra civile in tutta la regione del Caucaso settentrionale a discapito della sicurezza nazionale dell'intera Russia; che si provochi la mortificazione nazionale dell'intero Paese; e così via. A prescindere dai problemi della sicurezza militare, la questione della legalità in Russia è strettamente dipendente dalla congiuntura politica. A tale proposito, la situazione delle forze in campo è la seguente: da un lato i democratici-riformisti, congerie eterogenea di partiti ed in sostanza "nonpartito" (i quali hanno sì avuto successo alle elezioni presidenziali, ma presentano notevoli problemi di sopravvivenza e d identita) e dall altra parte i comunisti che, vincitori delle ultime elezioni alla Duma, si stanno risollevando anche a livello locale (e quindi, potrebbero ritrovarsi in maggioranza anche al Consiglio della Federazione). 60

Nel campo dei democratici ci sono molti limiti e difetti. Innanzitutto, essi si organizzano e si coalizzano in blocchi soltanto in occasione delle sfide elettorali. Tali blocchi si disgregano subito dopo. Essi hanno vinto le elezioni presidenziali ma sono rimasti in minoranza a quelle della Duma del dicembre 1995 (anche a quelle del dicembre 1993) e in parte anche di quelle locali. Tali recenti sconfitte elettorali (la vittoria alle presidenziali si spiega soltanto col carisma eltsiniano) sono giustificate dallo spirito di protesta, di reazione alla durezza delle riforme ma anche dai conflitti e dal frazionamento presenti nella stessa area democratica e dalla disorganizzazione di partito. Come già detto, i democratici si organizzano soltanto in vista delle elezioni (si veda l'esperienza di "Vybor Rossii" e del blocco di Cernomyrdin e Rybkin e, da ultimo, il Movimento panrusso di sostegno sociale per le elezioni di Eltsin), non avendo una reale struttura di partito. Nel creare tali blocchi, essi hanno attribuito troppa importanza alla questione contingente del voto, senza far caso alle gravi divergenze interne, rivelatesi poco dopo. Funica cosa che, come già detto, li ha uniti è stato un leader del carisma di Eltsin. Altro fattore di debolezza delle forze democratiche è l'avversione per le questioni teoriche e, quindi, l'assenza di chiare strategie d'azione che non siano dettate dalle opportunità del


momento e dalla semplice volontà di distinguersi dai comunisti. Ciò è spiegabile, appunto, come reazione al passato comunista ma tale mancanza di basi teoriche porta a non comprendere la logica dello sviluppo post-comunista nelle attuali condizioni della Russia e, quindi, alla cieca copia dei modelli del liberalismo stranieri, inopportuni per la realtà russa. Da parte dei comunisti c'è, invece, una vera e propria organizzazione di partito (l'unica esistente attualmente in Russia) ed il sostegno di chi, pur non volendo pit il comunismo, è stanco di riforme crudeli e della fame (e tale massa di scontento sta crescendo sempre più. Secondo l'opinione di alcuni, in futuro ci potrà essere un'alternativa socialdemocratica ma attualmente la Russia, Paese ancora giovane e immaturo, deve attraversare lo stadio della costruzione nazional-statale. Per il proseguimento delle riforme sarebbe, quindi, auspicabile la formazione di un partito «statal-democratico", che non sia né liberale né socialdemocratico. Il problema, però, è che i liberal-democratici russi non sopportano l'idea dello Stato forte che non può esistere senza idee nazionali, quali il patriottismo, la solidarietà panrussa, l'idea del popoio, tutto ciò insomma che i liberali avversano. In questo modo le forze riformiste, per varie ragioni, non riescono a creare un movimento o partito "statal-patriottico" e le forze

dell'opposizione ne sono ben contente. L'avversione per le teorie si coniuga all'incapacità di avere un dialogo aperto e rispettoso con il popolo, creandosi un'indifferenza reciproca tra questo e le forze al potere, alle quali sarebbe invece necessario spiegare senza falsità, passo dopo passo, le riforme, le strategie, le difficoltà, le azioni insomma del potere statale. In sostanza, l'unica possibilità per i democratici rimane la presenza di un leader forte, autorevole, carismatico e deciso, qual è stato Eltsin finora. Ma che succederà poi, chi sarà in grado di sopportarne l'eredità, come verrà utilizzata la Costituzione presidenzialista in altre mani? Chi vincerà le prossime elezioni politiche? La democrazia è in Russia ad uno stadio di non-ritorno o no? Perché si finisce con l'identificare la democrazia col mercato e basta? Sono domande alle quali non si sa rispondere. La democrazia è difficile da costruire in un Paese dove non c'è mai stata. Bisogna educare alla democrazia sia l'élite politica che il popolo. Bisogna poi imparare a fare l'opposizione e non soltanto ad insultarsi reciprocamente (e soltanto con una vera opposizione politica la democrazia cresce). Bisogna darsi da fare per costruire lo Stato e l'economia di mercato e soprattutto la società civile, apportando profondi cambiamenti nella sfera socio-economica e della coscienza di massa, per evitare ritorni al passato, tenendo però conto che questo è un 61


lavoro che impegnerà più generazioni. Molti russi intendono la democrazia come libertà di fare quel che si vuole, anche contro gli interessi della società, le leggi, la Costituzione. Ciò ricorda alcuni tratti dell'anarchismo russo. Manca una chiara distinzione, nella coscienza civile e politica, tra la politi-

ca reale e l'imperativo morale. Per il futuro della democrazia russa è pericoloso confondere le due cose. L'utopia liberale da un lato, il massimalismo dall'altro e la sfiducia verso il potere e le istituzioni statali in terzo luogo, rischiano di vanificare tutte le migliori iniziative di questo popolo.

Espressione usata diffusamente dalla stampa ed anche dai protagonisti della scena politica. 2 In particolare si tratta degli editti seguenti: "Basi della politica regionale nella Federazione Russa" e "Concezione della politica statale nazionale della FR". 3 La Federazione Russa (FR) si compone di 89 membri, definiti dalla Costituzione "soggetti". i Con l'Editto di Eltsin dell'11.3.1997 sulla riorganizzazione del Governo, Cubajs è stato nominato primo vice-ministro del Governo e quale nuovo dirigente dell'Amministrazione presidenziale è stato nominato Jumaiev. 5 Il Parlamento russo si divide in due Camere: la

Rossijskaja Gazeta, 4.6.1996. Si tratta della legge del 13.12.1995 (cfr. nota 13). 1611 punto 7 delle disposizioni finali e transitorie della nuova Costituzione prevede che il Consiglio della Federazione di prima legislatura debba essere for-

Duma di Stato e il Consiglio della Federazione. Rossijskaja Gazeta, 29.1.1997. 7 12 dicembre 1993. 8 Rossijskaja Gazeta, 31.12.1996. 9 Ne abbiamo un esempio a proposito della pena di morte: pur essendo previsto dalla Costituzione e dal nuovo Codice penale la limitazione di tale pena, le esecuzioni sono aumentate negli ultimi mesi. IO Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. 6

Ross. Gazeta, 28.6.1996. Ganino M., La riforma costituzionale in Unione Sovi etica, Torino 1989. 1311 Consiglio della Federazione è composto da due rappresentanti per ogni• "soggetto" della Federazione e cioè il Presidente dell'organo legislativo e quello Il 12

dell'organo esecutivo. 62

4

15

mato da membri "eletti" per la durata di due anni (il mandato ditali membri è scaduto nel dicembre 1995). Rossijskaja Gazeta, 23.8.1996.

'7 8

Rossijskaja Gazeta, 11.6.1996.

19

Rossijskaja Gazeta, 11.6.1996.

20

Rossijskaja Gazeta, 10.7.1996.

21

Rossijskaja Gazeta, 25.6.1996. Per "regione" l'editto intende quella parte del ter-

22

ritorio della FR che abbia comunanza di condizioni naturali, socio-economiche, nazional-culturali ed altre. La regione così intesa può coincidere con il territorio di un soggetto o comprendere i territori di più soggetti della FR. 23

Allo stato attuale le imposte vengono pagate da

meno del 20 % degli obbligati! 24

Rossijskaja Gazeta, 2.8.1996.

25

Rossijskaja Gazeta, 2.8.1996.

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Rossijskaja Gazeta, 6.6.1996.

27 28

Ross. Gazeta, 16.7.1996. Ross. Gazeta, 27.7.1996.

29

Ross. Gazeta, 24 e 25.7.1996.

30

Ross. Gazeta, 21.8.1996.


Russia, l'ombra della Mafia di Antonio Chi zzon iti*

"Io non ruberò mai, controllatemi". Sfida avversari e opinione pubblica al suo debutto nella stanza dei bottoni Boris Nemtsov, il giovane irruente e molto telegenico nuovo primo viceprimo ministro che, accanto all'altro "giovane leone" dell'ala riformista, Anatolij Chubais, il presidente Eltsin ha affiancato a metà marzo allo spento premier Viktor Chernomyrdin dopo aver licenziato, in blocco e in tronco, il precedente governo. La missione affidata a quelli che potrebbero diventare i due futuri cavalli di razza dell'alta politica moscovita è semplice quanto disperata: tirar fuori la Russia dalle secche economiche e sociali in cui sta morendo, pagare stipendi e pensioni, fronteggiare i monopoli, che a Mosca significano qualcosa di diverso che altrove. A differenza dell'introdottissimo Anatolij Chubais, già portavoce di Eltsin (e, a quanto si dice, amico di famiglia), che da anni si aggira tra le mura del Cremlino con il passo consapevole di chi sa dove sono le insidie e dove le virtù, Nemtsov proviene dalla periferia dell'antico impero, da Niz* Giornalista parlamentare.

ny Novgorod, uno dei grandi centri di produzione automobilistica dell'ex Unione Sovietica, dove però ha percorso una fulminante carriera fino a diventarne, a 38 anni, il governatore provinciale (amatissimo, a quanto pare, dai suoi concittadini). Ed è proprio sulle auto, al suo impatto ministeriale con i giornalisti e la Tv, che Nemtsov lancia il suo primo ukaz, un editto di sapore nazional-populista: tutte le vetture di Stato in dotazione alla nomenclatura dovranno essere fabbricate in Russia. Niente più, quindi, Mercedes e Volvo nere, fino ad oggi grande status symbol della dirigenza dello Stato, a volare a 150 all'ora sulle immense strade moscovite, ma ritorno alle più semplici, modeste,, lente e un po' vecchiotte Volga, quelle auto di produzione nazionale che i visitatori di Mosca imparano a conoscere quando chiamano un taxi. All'alba della sua missione, Nemtsov, in accordo con Chubais, presenta così un biglietto da visita ben mirato lanciando segnali precisi alla Nomenklatura e a milioni di russi umiliati e impoveriti, disegnando una immagine di leadership rassicurante, che faccia in63


tendere una rottura radicale con il passato, vicino e lontano. E in cima al biglietto annota la più sorprendente e insidiosa promessa che un uomo di governo possa fare ai suoi amministrati: "Io non ruberò mai". È un p0', mutatis mutandis, come quando i media italiani, tra i sogghigni dei corrispondenti esteri, non seppero trovare altro che l'aggettivo "galantuomo" per definire il neonato presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi: come se, appunto, in precedenza a Palazzo Chigi si fossero seduti soltanto cialtroni o imperdonabili «gaffeur". Fuori dai denti, Nemtsov, con la sua enfasi e attraverso la solfa delle auto nere, vuol far capire ai suoi connazionali che l'epoca delle malversazioni a palazzo è finita, o che perlomeno lui ci prova a demolirla. Al di là di ciò che sarà nel futuro, il fatto stesso che l'astro nascente del "neoriformismo" di tutte le russie, benedetto da zar Boris I in persona, inizi la sua corsa moscovita giocandosi la faccia sull'abbattimento della corruzione, sta a dimostrare quanto reale, pericoloso e politicamente primario sia questo problema rispetto alla stessa possibilità di lanciare quel "nuovo corso" col quale si vuoi trasformare il caos in democrazia. Parlare di malaffare all'ombra del Cremlino, cioè a livello nazionale ed istituzionale, non significa altro che intrattenersi su quella che i'Fbi e l'Interpol definiscono da tempo una delle più potenti organizzazioni criminali 64

del pianeta: la mafia russa. La quale, a loro avviso, per certi aspetti e in certi settori, avrebbe superato in pericolosità, giro d'affari e spregiudicatezza la madre di tutte le mafìe, quella siciliana. Al di là del credito che si intende dare alle statistiche e alle informazioni di intelligence, e al di là di un troppo facile pessimismo, è del tutto fuori discussione quanto possa essere temibile anche sul piano internazionale, il coagularsi di una potente criminalità organizzata nel più vasto, potente e popolato Stato d'Europa.

LE RAMIFICAZIONI NEL MONDO

Secondo uno che ha avuto, ed ha, le mani in pasta, Anatolij Nikolaevic Volobujev, ex ricercatore dell'istituto di ricerca scientifica del ministero degli Interni dell Urss, la mafia russa i cui redditi annuali ammontano a decine di miliardi di dollari", è già «entrata attivamente nell'arena internazionale e ben presto potrà esercitare un forte influsso anche sui cambiamenti geo-politici delle grandi centrali criminali internazionali". Uno scenario che prefigura un terzo millennio da apocalisse, percosso da conflitti planetari tra le forze del bene e del male. Un po' troppo anche per le fantasie più sfrenate, ma non per questo è prudente girare lo sguardo altrove, potrebbe anzi essere molto pericoloso perché è innegabile che le "ramificazioni" ed il business all'estero della mafia russa


proliferano, come si conviene per il lignaggio dei protagonisti, tra business di ogni tipo, donne pRi o meno vistose, fiumi di champagne, patti di sangue e soggiorni dorati negli alberghi pRi esclusivi. Un esperto del settore, il giornalista Jurij Shekocikin della "Literaturnaja Gazeta", contesta l'opinione riduttiva di alcuni esperti occidentali che paragonano l'attuale situazione in Russia a quella degli anni Trenta a Chicago ("È una malattia come il morbillo, passerà"). Non è così, replica, in un colloquio riportato da Cesare Martinetti nel suo libro Il padrino di Mosca, edito da Feltrinelli: "È una malattia del tutto diversa. Negli anni Trenta la mafia degli Stati Uniti si arricchiva con le importazioni, soddisfacendo un'esigenza della società americana generata dall'introduzione del proibizionismo. I nostri padrini invece vivono oggi in Occidente - il Giapponesino negli Usa, Petrik in Germania, Mikhas in Austria, Juzbashev in Israele, Serghej Gorshkov, detto Sergo, in Francia dove stanno benissimo e da dove dirigono l'attività criminale in Russia come la dirigevano una volta da Solnzevo o da Puskin, a cinquanta chilometri da Mosca". Il braccio armato e affaristico della mafia russa è presente anche in Italia, naturalmente, anche se non compare in questo elenco. Proprio di recente, a Madonna di Campiglio, è stato arre-

stato con i suoi amici il munifico capo della "Brigata del Sole", luri Ivanovich Essine, detto "Samosval", nato 45 anni fa a Vladivostok, residente in una favolosa villa a Santa Marinella, ed "esperto" di import-export: oro, petrolio, tecnologie elettroniche, riciclaggio di partite di dollari provenienti dalle mille attività illecite che prosperano a Mosca. Getta altra benzina sul fuoco una fonte molto qualificata, il generale Gennadij Fedorovich Cebotarev, primo vice capo della direzione centrale per la lotta alla criminalità organizzata del ministero degli Interni russo. In un •dossier sui sistemi criminali nel mondo sostiene che la mafia russa ha "un potenziale molto elevato nel suo aspetto internazionale". L'analisi delle informazioni a disposizione attesta la tendenza ad un continuo incremento dei legami tra le organizzazioni criminali nazionali e i gruppi criminali di altri Paesi, limitrofi e non. Nel 1992 sono stati scoperti 174 gruppi con collegamenti internazionali, l'anno dopo il numero è salito a 307".

UNA GALASSIA IN MOVIMENTO

La chiamano mafia, ma lo sarà davvero? La criminalità organizzata in Russia, "già rilevabile" all'inizio degli anni Settanta, si struttura negli anni Ottanta, si sviluppa rapidamente dopo il 1985, con la Perestrojka, la privatizzazione delle compagnie di Stato, la li65


bertà di impresa e di mercato, e fa un nuovo e definitivo balzo in avanti dopo il tentato golpe del '91. "Nella genesi della criminalità organizzata, dice Oboluiev, ha svolto un ruolo fondamentale lo spezzarsi dell'economia monopolistica statale e, quindi, lo sviluppo dell'attività imprenditoriale privata". Nascono le cooperative, si aprono attività commerciali e industrie, si diffonde il terziario, ma il tutto avviene in un contesto politico e sociale degradato. È caduto il vecchio impero centralizzato, non c'è ancora qualcosa che lo rimpiazzi efficacemente, c'è una diffusa crisi di legalità. Tutto sembra, ed è, possibile, per chi ha pochi scrupoli. Per quello che appare oggi, la criminalità russa è efficacemente organizzata, ma non ancora così rigidamente e in maniera così centralizzata come quella siciliana o giapponese. A volo d'uccello, si presenta piuttosto come una gigantesca galassia nella quale ruota un po' di tutto: pezzi di nomenklatura e dei servizi segreti, ex manager di Stato, criminali professionali, politici, truffatori, bande armate, "mediatori". I traffici sono quelli di sempre: traffico di droga, racket, pizzi, prostituzione, riciclaggio, usura e, in piii, contrabbando di materie prime, anche strategiche. Col terremoto seguito al crollo dell'impero sovietico sono saltate quelle poche regole che ancora stavano in piedi, i funzionari di Stato corrotti escono alla luce del 66

sole come nuovi imprenditori, le banche concedono a qualificati amici crediti a fondo perduto o a tasso zero, fioriscono dal nulla brasseur d'affaires potenti e ben introdotti, la "bustarella" esce dall'anonimato e diventa il criterio base di qualunque trattativa. Un universo incontrollabile che sembrava destinato a deflagrare se qualcuno o qualcosa non avesse incanalato il magma. La "rete" di protezione in effetti era già pronta da tempo. Il collante, il nucleo spregiudicato e spietato, il tribunale al quale non si può impunemente disobbedire, era già vivo e prospero. Lo si può definire un "ente anomalo", nel senso che ha caratteristiche insolite perché obbedisce a severissimi criteri "monastico-cavallereschi", e insieme convenzionale, perché conosce obbedienza e omertà, come tutte le mafie. I vory v zakone Sono in maggioranza caucasici. Vory v zakone tradotto letteralmente sta per "ladri in legge", ma il significato reale è quello di criminali obbedienti ad un loro codice interno. C'è già, quindi, il nucleo organizzativo comune a tutte le mafie. Ma con alcune caratteristiche peculiari: spesso questi criminali non si sposano, non vogliono avere contatti con lo Stato e l'ordine costituito, ritengono un punto d'onore indispensabile essere già stati in carcere, hanno una cassa comune per assistere gli affiliati, disprezzano (o perlomeno disprezzava-


no) l'ostentazione di agi e ricchezze, difendono (o difendevano) i poveri ed i deboli, la famiglia (degli altri). Il generale Gurov ne tratteggia così identità e storia recente. "I vory v zakone sono coloro che negli anni Quaranta e Cinquanta ricevettero questa specie di titolo nel corso di uno specifico raduno convocato per la loro iniziazione, il loro 'battesimo' Di regola si tratta di persone pluricondannate e che hanno ben assimilato la sub-cultura criminale. Non esiste a questo livello un nucleo dirigente, c'è però un organo dirigente che è il raduno. Tutti i vory si considerano uguali tra di loro e sono soggetti alle leggi non scritte della fraternità criminale. L'accesso a questo gruppo di élite è limitato ed è legato all'osservanza di una serie di formalità". I requisiti richiesti sono: la dedizione alla vita malavitosa, il possesso di una determinata esperienza, la conoscenza del codice malavitoso, la mancanza di dati 'compromettenti' nella biografia (cioè non devono aver lavorato nell'esercito, nella polizia, non devono essere stati membri del partito, non devono avere onorificenze statali), poi, naturalmente, devono avere una certa autorità nell'ambiente criminale; non manca anche il requisito di determinate raccomandazioni, scritte o orali. Tutte condizioni molto precise, anche se sembra che anche nella società criminale ci siano gli stessi fenomeni di corruzione di quella legale; ci sono

stati dei casi in cui alcuni delinquenti sono stati accettati in questa élite in seguito a una bustarella o a una protezione particolare.

L'evoluzione dei «ladri in legge" "Gli attuali vory sono presenti all'interno delle cooperative dove conducono i loro affari, conciliandoli naturalmente con l'attività criminale, e alcuni hanno anche legami con la malavita internazionale. I Vory, all'interno della categoria, si dividono in due gruppi principali: i vecchi e i giovani. In genere, gli anziani mal sopportano i giovani e il loro modo di concepire l'attività, li accusano di eccessiva avidità di guadagno (li chiamano curiosamente 'custodi dei pescecani del capitalismo') e cercano di scalzare la loro reputazione nell'ambiente criminale. I giovani, conoscendo l'autorevolezza ed anche il 'disinteresse brigantesco' degli anziani, hanno cercato di attirarne molti dalla propria parte comprandoseli con una serie di privilegi, altri 'vecchi' sono stati eliminati fisicamente. Questa lotta si evidenziò soprattutto negli anni '85'87, quando in molte regioni ebbero luogo dei regolamenti di conti nei confronti dei vecchi vory e si tennero dei congressi nei quali si decise di pagare una specie di pensione ad alcuni in cambio della decadenza del loro diritto di voto nei raduni". In effetti, Gurov non fa altro che dare notizia del grande regolamento di conti che segnò il passaggio dalla vec-

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chia generazione "ascetica" alla nuova mafia vincente , spregiudicata e insofferente di vecchi codici e delle conseguenti limitazioni. "Per questi criminali di professione, prosegue il generale - è tipico avere una serie di norme informali di comportamento, sia in libertà sia in reclusione. Ad esempio, i vory hanno il dovere di propagandare il modo di vita criminale, l'etica e la morale malavitosa e di tenere stretti contatti con i leader delle altre caste dell'universo malavitoso. Essi hanno altresì il compito di organizzare dei fondi finanziari, di aiutare materialmente gli esponenti del gruppo che sono stati condannati e le loro famiglie, di esaminare eventuali discussioni e dispute insorte onde adottare le decisioni conseguenti e inoltre anche quello di predisporre i raduni per prendere in esame le questioni piu importanti Prosegue ancora Gurov: "Un significativo esempio, è quello di una adunanza di vory dedicata alla questione del nazionalismo nel mondo criminale. Qui venne bollata ogni manifestazione di nazionalismo come una provocazione degna della condanna a morte. Comunque pare che non si sia riusciti a conciliare i Vory arzebaigiani e quelli armeni, insomma il nazionalismo è stato pii forte dell'idea malavitosa". Fino ad un certo punto, però, perché la condanna del "nazionalismo" non ha un significato ideologico, ma serve essenzialmente a cautelare la fortissima 68

mafia georgiana, e comunque quella caucasica, dall'insorgere di una xenofobia popolare che le metterebbe al bando dal territorio russo. Gurov accenna anche ad un codice di comportamento per i luoghi di reclusione "dove i vory non soio svolgono una funzione dirigente ma una precisa attività mirante ad insidiare l'amministrazione, risolvendo le dispute nate tra reclusi. I vory entrano in contatto solo con persone di un determinato livello, inoltre hanno dei canali illegali di relazione con il mondo esterno e dispongono di posti particolari sia nelle camerate che nelle celle In una inchiesta sul "Moskovskie Novosti", il giornalista Igor Baranovski conferma che i ladri in legge sono un fenomeno sovietico nato negli anni Venti, consolidatosi nelle prigioni e nei lager staliniani. Oggi in Russia, secondo varie stime, ci sono da centottantasette a duecentoquattordici membri di questa casta Baranovsky racconta di un suo incontro con un rappresentante del mondo criminale. "I comunisti, dice quest'ultimo, hanno macellato i battisti, gli intellettuali, gli ufficiali, i ceceni, i dissidenti. I ladri invece sono sopravvissuti. La loro forza sono le tradizioni: non lavorare, non collaborare con lo Stato, non fare il militare, pensare al bene dei ladri, pagare l'obshak (la cassa comune), non fare lo stronzo con i fratellini, non fare commercio, non esagerare. Io, aggiunge, avrei potuto essere uno


di loro. Ma ho indossato prima il foulard rosso, quindi il distintivo del Komsomol e poi la cintura da ufficiale. Ho avuto persino un libretto di lavoro. La mia è una biografia che puzza e per questo non sono stato ammesso al rango di ladro. Peccato". Ma anche ai "ladri" è toccata una certa perestrojka. Delle regole ascetiche non avere moglie, casa, residenza, beni e vivere in zona , cioe in carcere non è rimasto che fumo. Adesso la musica è cambiata anche se si cerca, quando si può, di salvare le apparenze. Intestano le macchine, gli immobili e le ditte a parenti e amici. Sono sempre più attivi nell'economia e nel narcobusiness. Di solito amministrano i loro affari per mezzo di esecutori fidati, salvando così capra e cavoli. Fimportante è rispettare le apparenze, avere il senso della misura, mantenere l'immagine di eterni detenuti incorruttibili. Se qualcuno perde la testa (o non si cura delle apparenze) viene convocato dall'assemblea, la Skhodka, dove viene "picchiato sulle orecchie", cioè privato della corona o, in casi gravissimi, ucciso. Molti, spiega ancora Baranovsky, paragonano la confraternita dei ladri a quella dei comunisti. Anche nel partito il membro del comitato centrale e la donna delle pulizie avevano una tessera uguale. E formalmente avevano un solo privilegio, essere i primi nella battaglia. Ma poi c'era chi comandava e chi no. Così è anche qui. Dei circa duecento ladri russi, solo dieci o quin-

dici governano realmente il mondo criminale attraverso i loro protetti, colleghi di casta. È il cosiddetto "centro moscovita". In altre parole, il Politbjuro del mondo criminale. Ne fanno parte i rappresentanti più autorevoli della casta: balene come il Giapponesino, Rafik Svo, Arsen, Givi lo Sfregiato, Zhemal, Nonno Khasan, Dato di Tashkent, Shakro, Zakhar. La maggioranza sono caucasici. Più precisamente georgiani, ma residenti a Mosca da decenni. Il nazionalismo, come abbiamo visto, non viene incoraggiato in questo ambiente, e non certo per ragioni umanitarie. I ladri in legge hanno acquisito un peso particolare nel mondo criminale e non solo negli ultimi tre, quattro anni, quando in Russia nacquero uno dietro l'altro, gruppi criminali potenti e bene armati. Questo avveniva sullo sfondo del rapido sviluppo delle cooperative e poi dei settori privati verso le quali i settori mafiosi si sentono attratti come calamite. "Lo Stato stava perdendo il controllo della situazione. Ma non c e vita senza ordine

LA CRIMINALITÀ COME ORDINATORE SOCIALE

Era necessario un arbitro qualificato, capace di sbrogliare i conflitti più intricati, sciogliere nodi apparentemente insolubili. I ladri in legge hanno ricoperto questo ruolo grazie alla loro "cultura" in tema di regolamento di 69


conti. "Se non fosse per i ladri - dice l'interlocutore di Baranovsky - Mosca ormai sputerebbe sangue. Loro invece riescono a portare la pace, puniscono quelli che se lo meritano, e danno buoni consigli Oggi, i ladri controllerebbero buona parte dei duecentoventotto gruppi criminali moscoviti ufficialmente "censiti". Ma nella ricerca di "giustizia" si rivolgono ai ladri non solo i banditi, bensì anche i banchieri ed i businessmen. Riscuotere un debito non pagato, indagare su un impegno non rispettato: le "autorità" lo sanno fare molto più rapidamente ed efficacemente dell'arbitrato statale. Naturalmente con una loro percentuale e, ovviamente, con i propri metodi ben collaudati. La loro influenza è diffusa e sotterranea. Quando il Giapponesino, Vladimir Ivankov, considerato da molti il vero "capo dei capi" per essere riuscito a riportare la pace tra tutti i "dan", fu condannato a quattordici anni per banditismo, ne scontò solo dieci. Il vice presidente della Corte suprema russa, Merkushev, inoltrò due proteste contro la detenzione di Ivankov; un altro personaggio, il chirurgo oculista Svjatoslav Fiodorov, di fama mondiale, ha usato lo status di deputato dell'Urss per intervenire in suo favore. Il Giapponesino ha vissuto a lungo prima in Germania e poi negli Stati Uniti. Contro di lui è stata aperta, in quest ultimo Paese, un inchiesta per ripetute violazioni del regime amministra70

tivo, è stato ricercato a livello federale, ma la procura russa ha sempre, puntualmente, protestato. È però finita che l'Fbi, nel giugno del 1995, lo ha egualmente catturato nel suo sontuoso quartier generale di Little Odessa a New York. "Dunque - conclude Baranovsky - i ladri in legge si sono trincerati bene nella Russia contemporanea. Ma sarebbe ingenuo ritenere che siano una forza autosufficiente che governa da sola il mondo criminale. Io sono incline a credere a un vecchio ladro che un giorno mi disse: 'Dio non ci ha fatto mancare la forza, ma non possiamo lottare contro la mafia'. E questo è forse il giudizio più azzeccato: l'élite della criminalità come cmghia di trasmissione tra il mondo criminale e il vertice corrotto. In questo caso sono davvero insostituibili. Usando i loro legami con la criminalità internazionale possono svolgere con la massima efficacia ogni operazione, dal contrabbando di droga, metalli strategici e armi fino a truffe su larga scala con documenti di accrediti bancari falsi. Le strutture corrotte del potere finanziano l'azione e garantiscono la copertura della legge. Non possono vivere 1 uno senza 1 altro.

UN MOSTRO GENERATO DA UN GENITORE MOSTRUOSO

Quindi, mafia e strutture corrotte del potere. L'urlo di Nemtsov comincia ad avere un senso più chiaro.


Volobujev definisce la mafia sovietica un "mostro generato da un genitore mostruoso". E cioè l'effetto inevitabile di un "rigido sistema di distribuzione dei beni nell'economia pianificata sotto il monopolio statale. Questo sistema ha generato una grande carenza di merci, che è l'ambiente adatto per la nascita delle strutture mafiose". Un altro fattore, dice, fu la nomenclatura e la sua inamovibilità, oltre al fatto che "la legalità fosse piuttosto sostituita da considerazioni di carattere politico, ovvero dagli interessi personali dei dirigenti della élite di partito a tutti i livelli". Volobujev si spinge anche oltre, e afferma che 1a criminalita organizzata, di fatto, conquistò i vertici del potere nelle repubbliche nell'Asia centrale, in Azerbaigian, in Armenia, in Georgia". E poi che "in presenza di una rigida centralizzazione di tutto il sistema distributivo a Mosca, è naturale che questa criminalità sia penetrata anche negli organi direttivi supremi del Paese, cosa che è testimoniata da diversi episodi e dalle risultanze dei processi dei giudici che istruirono le cause sugli scandali dopo la morte di Leonid Breznev. È noto il legame del segretario del presidium del Soviet supremo dell'Urss, Georgadze, con uno dei leader del mondo criminale, il t'or v zakone Kucolorija. Dopo la sua morte, a metà degli anni Ottanta, Kucolorija venne sepolto a Mosca, nel cimitero dei 'grandi e dei potenti', il Vagan'Kovskije, e si ricorda che ai suoi fune-

rali parteciparono non solo l'élite del mondo criminale, ma anche molti noti uomini politici, artisti ed altre persone per bene. "Sulle reali dimensioni di questa alleanza tra criminali e dirigenti politici si possono fare solo delle ipotesi dato che il sistema sovietico di amministrazione non consentiva alla legge di 'toccare' l'élite dei dirigenti dello Stato". Già dal 1987, conferma Volobujev, con la nascita del nuovo settore dell'economia privata, la burocrazia economica del vecchio sistema sovietico e partitico, "che naturalmente non intendeva accettare alcun controllo sul proprio operato" divenne una stretta alleata della mafia. E così "nelle fondazioni di beneficenza, nelle associazioni di grosse ditte, accanto a diversi personaggi politici e noti operatori nel campo scientifico e artistico apparirono anche i leader di strutture mafiose, ben noti agli organi di tutela dell'ordine. Dando l'impressione di applicarsi a risolvere i problemi della società, in realtà, spiega Volobujev, incominciarono in grande scala a finanziare diversi programmi pRi o meno gonfiati. I mezzi assegnati per queste attività andavano a depositarsi nelle tasche dei furfanti, sia nell'Urss che nelle banche estere". MAFIA E NOMENKLATURA

La spregiudicatezza, garantita dalle "coperture" di cui godevano gli uomini della mafia giunse a livelli impensa71


bili, se è vero che a discutere del problema delle privatizzazioni con le autorità di Mosca si presentò nientedimeno che Vladimir Ivankov, il famoso e famigerato "Japoncik", il Giapponesino, il "capo dei capi". Anche Volobujev è del parere che una ulteriore spinta alla criminalità organizzata è venuta come conseguenza della vittoria delle forze democratiche della Russia sui golpisti, nell'agosto del 1991, "cui è seguita la disgregazione dell'Urss e la transizione a un sistema di mercato". Alcuni fattori contribuiscono all'impetuoso fiorire della mafia. "In primo luogo il fatto evidente che il potere, sia al centro che nelle periferie, è rimasto, di regola, nelle mani dei rappresentanti della vecchia nomenclatura, degli apparati economici del sistema sovietico che già avevano trovato un accordo con i leader dell'ambiente criminale". In secondo luogo, c'è "la conservazione del potere assoluto dei funzionari. Praticamente in tutte le sfere dei rapporti sociali, le persone sono completamente in balia del 'beneplacito' dei burocrati. Mosca, come sempre, è il centro di distribuzione dei beni economici e della benevolenza dei funzionari governativi. Dalle strutture esecutive che controllano dipende se dare una licenza per l'esportazione di materie prime o di altre merci, oppure no, se concedere determinate agevolazioni fiscali o doganali, oppure no. In più, spesso questi bene72

fici vengono concessi non ai produttori ma a coloro che sanno frequentare i corridoi del potere e spesso lo foraggiano". Terzo fattore: "la partecipazione attiva dei funzionari dello Stato, i livelli, nel mondo degli affaAnche l'esercito si è attivamente inserito in questo processo imprenditoriale. Da un'indagine del 1992, effettuata dal ministero della Difesa, si evince che in grande maggioranza gli ufficiali hanno fondato o partecipato alle più disparate imprese commerciali. Funzionari del Kgb ("che fino a ieri commenta Volobujev - vigilavano in modo così opprimente e totale sui nostri pensieri") hanno cominciato ad evitare di controllare chi non vuole essere controllato o spiato. Funzionari del ministero degli Interni si sono messi a far commercio dell'informazione e a lavorare in strutture commerciali, che non sempre sono di tipo legale. Una struttura commerciale che ha sede nel Cremlino, racconta sempre Volobujev, ha stabilito una vera tassa, naturalmente in dollari, per coloro che desiderino avere interviste da parte dei dirigenti dello Stato, compreso lo stesso Presidente. Gli ispettori del fisco "non sono tanto interessati a scoprire chi infrange le leggi fiscali e quindi a rimpolpare il bilancio statale, quanto a trarre dei vantaggi personali dagli evasori scoperti. Un altro business di non pochi funzionari dell'amministra-


zione fiscale è la vendita a strutture criminali di informazioni riservate relative alle aziende più ricche". Il fenomeno "non risparmia i funzionari statali di alto livello. Le autorità moscovite (tra cui il sindaco Luskov), sia direttamente che attraverso altre persone, sono entrati a far parte di numerose strutture commerciali, fondazioni di beneficenza, associazioni e così via. Sotto la copertura di queste società, si svolge spesso una attività commerciale su larga scala e proprio a simili strutture le autorità assicurano un regime di particolare favore. Tra di esse, ve ne sono non poche basate su mezzi finanziari di provenienza mafiosa". Volobujev cita la "scandalosa polemica" tra il noto giornalista Jurij Scekocikhin della Literaturnaia Gazeta e il sindaco di Mosca Luskov "sul quale ha riversato una caterva di accuse rimaste lettera morta". Ma non tutti i giornalisti si comportano così. Alcuni, aggiunge, "sono lontani dall'obiettività e spesso la sacrificano ai propri interessi personali. Sovente, dei materiali informativi, che servono a mettere in buona luce qualche mafioso russo vengono pubblicati su ordinazioSempre Volobujev cita come un esempio di corruzione la lotta, condotta alla fine del 1991, dall'allora capo dell'amministrazione moscovita Luskov contro il "precipitoso", a suo dire, progetto di privatizzazione proposto dall'economista, e a quel tempo vice

sindaco della città, Larissa Pijaseva. "I suoi avversari, ed in particolare Luskov, argomentavano che se si fosse varato il progetto della Pijaseva per la rapida distribuzione della proprietà municipale ai privati, quest'ultima sarebbe stata accaparrata dalla mafia. La verità era che la mafia, in ogni caso e con qualunque sistema, avrebbe comunque tutelato i propri interessi mentre invece la validità del progetto della Pij aseva consisteva esattamente nel fatto che "una privatizzazione molto rapida avrebbe sottratto alle mani dei funzionari un grande strumento di corruttela, cioè la possibilità di disporre ditale proprietà. I funzionari moscoviti, guidati dall'espertissimo Luskov bloccarono il progetto". Non si può dire, a giudizio di Volobujev, che le autorità non abbiano reagito a questo stato di fatto. Nel biennio 91-92 sono state pubblicate non meno di tre leggi con le quali è fatto divieto ai funzionari statali di svolgere attività imprenditoriale. Disposizione che, a tutt'oggi, è inattuata. Nel 1992 è stato emanato un decreto del presidente Eltsin sul rafforzamento della lotta alla criminalità nel quale, accanto ad altre misure, si prevedeva la costituzione di una speciale commissione per la lotta alla corruzione e si ribadiva il divieto per gli impiegati statali di svolgere attività commerciali, prevedendo una specie di verifica. Tuttavia, "in mancanza di saldi meccanismi di controllo sull'applicazione 73


della legge e nella situazione di generale illegalità della Russia, non c'è da stupirsi se anche questo decreto sia rimasto lettera morta. È successo che i funzionari del ministero della Sicurezza e degli Interni, dopo aver consegnato ai loro dirigenti le previste dichiarazioni, hanno continuato ugualmente ad occuparsi di commercio o di altri affari a livello imprenditoriale". Un'altra delle principali circostanze che hanno contribuito all'inarrestabile rafforzamento della criminalità organizzata è quello che si può definire l'assoluta mancanza di controllo sui poteri pubblici, e cioè del problema dell'illegalità in Russia. "A me, sostiene Volobujev, come giurista, sembra che la Russia oggi sia uno Stato totalitario con piccoli germogli di democrazia (in forma di una relativa libertà di stampa e di pensiero, libertà che tuttavia le autorità spesso, volenti o nolenti, limitano). Le norme e le leggi che vengono emanate risultano ambigue, con molti punti indeterminati che consentono interpretazioni a seconda delle convenienze". Insomma, "uno spazio di illegalità è perfettamente confacente per la criminalità organizzata perché l'illegalità genera solo altra illegalità". Al sindaco di Mosca Luskov e alla sua squadra sono state fatte dai mezzi di informazione, tante dirette accuse di corruzione "che avrebbero indotto qualunque uomo onesto al suo posto a chiedere un controllo preciso sull'at74

tività delle persone e dell'amministrazione da lui guidata. Ma è successo il contrario e ogni accertamento è finito nel nulla. "Luskov, che ha sempre servito fedelmente il presidente Eltsin, è difeso, commenta Volobujev, dallo 'scudo' presidenziale rispetto a qualunque tipo di accusa. I funzionari delle forze dell'ordine sono ben informati sulle attività delle strutture mafiose che controllano Mosca e le principali città, conoscono i loro legami con l'estero e, soprattutto, i legami con esponenti politici e alti funzionari dell'apparato statale: sono proprio questi legami altolocati a non consentire di rivolgere le dovute accuse ai mafiosi e chiamarli alle loro responsabilità". LA SCONFITFA DI SHEVARDNADZE

Un esempio della potenza della mafia, delle difficoltà di combatterla e nello stesso senso della sua "inevitabile" commistione con il potere politico è vistosamente dato dalla straordinaria vicenda che ha avuto come protagonista Edward Shevardnadze. Quando, verso la fine del 1985, Shevardnadze diventò ministro degli Interni della Georgia, (la grande maggioranza dei ladri in legge è georgiana) convocò i capi della polizia e ordinò che la si facesse finita una volta per tutte con questi vory v zakone. Scattò la macchina repressiva e fu condotta un'operazione massiccia contro i leader del


mondo criminale georgiano. Alla fine del 1986 erano stati arrestati cinquantadue "ladri in legge" nel corso di una lunga operazione che venne battezzata terrore rosso . In molti casi, non si riuscì ad entrare in possesso di alcuna prova nei confronti di queste persone, la polizia si arrangiò con metodi disinvolti e infine gran parte dei ladri in legge, scacciati dalla Georgia con i pretesti più vari, ripararono in altre regioni, soprattutto in Russia, Ucraina e Kazakistan, dove continuarono con successo le attività che esercitavano. Oggi, Edward Shevardnadze, l'uomo che fu tra i primi a dichiarare guerra alla criminalità organizzata, ha nominato suo primo consigliere Dzhaba Joselliani, che, secondo vari esperti, è un noto e rispettato vor v zakone. Ecco come lo racconta Cesare Martinetti nel suo libro: "I distinti diplomatici dell'Onu di Ginevra, delle conferenze di pace, dei tavoli negoziali sulla sicurezza e degli organismi internazionali di difesa che radunano rappresentanti deIl'Ovest e ambasciatori improvvisati di quella galassia esplosa che fu l'ex mondo comunista, probabilmente non hanno mai saputo di aver stretto la mano ad un famoso ladro in legge, convenuto nelle loro riunioni in sale vellutate a rappresentare un nuovo e ruvido soggetto diplomatico come la Georgia, nota nel mondo per aver dato i natali a Stalin e per avere come presidente quel pallido gentiluomo, Edward Shevardnadze,

ministro degli Esteri dell'Urss negli anni eroici e sconvolgenti di Mikhail Gorbaciov. Eppure è accaduto, perché oggi il povero Shevardnadze è costretto a tirare avanti annoverando tra i sostenitori del suo equilibrismo sul filo dell'instabile scacchiere del Caucaso un personaggio equivoco e leggendario come Dzhaba Joselliani. È una storia che vale un capitolo nel grande mondo dei ladri assunti al potere Un esempio tipico della commistione tra vecchi burocrati e altissimi livelli dell'attuale potere in Russia è quello denunciato recentemente da Le Monde. Il quotidiano parigino ha rivelato che l'anno scorso, in un dibattito a porte chiuse a Washington davanti alla Camera dei rappresentanti, sul tema "La minaccia del crimine organizzato in Russia", il direttore della Cia e il capo dell'Fbi avrebbero informato i loro deputati che Viktor Chernomyrdin era già in possesso di un patrimonio personale di 28 milioni di dollari (45 miliardi di lire) al momento in cui diventò primo ministro nel '92, e che da allora lo ha moltiplicato fino a toccare la straordinaria vetta di 5 miliardi di dollari (8 mila miliardi di lire). Circostanza che lo classificherebbe come uno degli uomini più ricchi del mondo, più di Agnelli e Berlusconi, tanto per fare un paragone. Chernomyrdin ha definito "un insulto" le indiscrezioni di Le Monde riprese dall'Isvestia, ma non le ha smentite né si è spinto fino a denunciare i 75


due giornali per diffamazione. Le voci sulla sua fortuna personale, in effetti, circolavano già da tempo a Mosca e venivano collegati alla sua attività, svolta per decenni in era sovietica, come dirigente e poi presidente del Gazprom, il colosso del settore energetico nazionale, o come ministro per l'industria del gas. Quando il Gazprom è stato parzialmente privatizzato nel '94, il 40 per cento della società è andato al governo, il 35 ai. cittadini, il 15 ai dipendenti, il 10 è rimasto al management interno. Il valore della compagnia viene stimato tra 600 mila e un milione e 200 mila miliardi di lire, pari pRi o meno al prodotto interno lordo dell'Italia. Sarebbe tra le prime cento aziende del mondo per fatturato e la numero due, nel settore petrolifero, dopo la Royal Dutch Shell, per profitti. Con quasi 400 mila dipendenti, un terzo delle riserve del gas mondiale, interessi diversificati in tutti i campi (banche, giornali, agricoltura) è, insomma, il gioiello della corona dell'economia russa. L'anno scorso il Gazprom ha messo all'asta, a Londra, l'i per cento delle sue azioni, incassando in un lampo 600 miliardi di lire. Se Chernomyrdin, come sospetta-

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no in molti, si fosse procurato anche una piccola quota della sua ex azienda, sarebbe dunque un ultramiliardario. Potrebbe anche non essere vero niente, ma il legame tra il primo ministro e il Gazprom, fatto di mille favori reciproci, sembra essere una delle poche certezze della vita politica russa. In effetti, la grande costellazione della mafia o delle mafie di tutte le russie è in continua espansione ed evoluzione, così come è accaduto alle organizzazioni consorelle che l'hanno preceduta. E così il nuovo fronte è oggi quello pii raffinato e insidioso delle attività criminal-finanziarie, da dove si pompano i miliardi delle attività illecite e, talvolta, lecite, dove si riciclano enormi quantità di danaro, dove si intrecciano affari, business e alleanze, dove si formano imperi finanziari. Sembra tutto perduto ma c'è sempre la grande anima russa che mette tutti d'accordo e lascia la porta aperta alla speranza. "La crescita della criminalità organizzata - profetizza Volobujev - è il nostro tributo allo sviluppo della vita civile, bisogna solo fare tutti gli sforzi affinché questo tributo non ci carichi addosso un onere insopporta-


dossier

Mappe del non-profit

Di non-profit queste istituzioni si occupa ormai da tempo. In particolare, ci sembra utile ricordare i diversi articoli scritti sull'associazionismo e sulle fondazioni, soprattutto bancarie, pubblicati a parti re dal 1993. L'elenco è lungo, per cui prefe riamo rimandare il lettore agli indici delle ultime annate che pubblicheremo su uno dei prossimi numeri. Il dibattito su1 cosiddetto "terzo settore" si è fatto acceso anche nel nostro Paese riteniamo, soprattutto, su spinta di studiosi che ad esso hanno posto attenzione sulla base di interessi diversi. Il Gruppo di Studio su Società e Istituzioni, lo ricordiamo, è stato fra i promotori di una ricognizione - avviata agli inizi del 1993 e sostenuta dalla Banca di Roma sui punti critici della normativa sulle persone giuridiche private senza fini di lucro, con lo scopo di riproporne linee concrete di riforma. Il panei, diretto da Pietro Rescigno, ha organizzato sulla base di una prima fase di analisi, un convegno, tenutosi a Roma nel marzo 1993 le cui relazioni ed interventi sono stati poi pubblicati in un volume del 1995 - Fondazioni e Associazioni - della casa editrice Maggioli. Nel volume, è stato presentato anche un documento di principi elaborato da un gruppo

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di lavoro più ristretto, costituitosi in seguito al convegno, sempre presieduto da Pietro Rescigno e di cui hanno fatto parte, tra gli altri, anche Pipo Ranci e Sergio Ristuccia. Nel primo articolo che presentiamo in questa occasione, Saveria Addotta presenta alcuni aspetti del più recente dibattito riguardo il non-profit nel nostro Paese. Dibattito che si va arricchendo, fra l'altro, anche di studi e riflessioni su alcuni aspetti specflci riguardanti l'organizzazione degli enti non-profit. Ormai da tempo, infatti, è emersa la necessità, anche per gli organismi non a scopo di lucro, di adottare alcuni criteri di gestione e di rendicontazione. Ciò è tanto più visibile proprio nei Paesi dove gli studi sul non-profit e i confronti su di esso sono più numerosi. Ci riferiamo, ovviamente agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Proprio di recente, la rivista Iter Legis ha pubblicato un interessante articolo di Valerio Melandri su 'Il controllo interno nelle organizzazioni nonprofit USA: confronto con la realtà italiana". L'autore vi afferma che, nonostante sia da tempo riconosciuta l'importanza dell'analisi finanziaria e del controllo di gestione, anche per i manager e i direttori di organismi non a scopo di lucro americani tali aspetti rimangono 7a le aree più sconosciute e dfti ci li da gestire". La questione dei controlli interni degli organismi non-profit è il tema del secondo articolo che qui viene presentato. Anche in Gran Bretagna, gli enti di beneficenza rappresentano un settore di grande rilevanza e curano la fornitura di importanti servizi sociali. Il quadro normativo è stato peifezionato, ed è stata introdotta una metodologia contabile completamente innovativa. Poche ricerche, tuttavia, sono state svolte sugli enti dotati di una fi€nzione di revisione interna e sul modo di operare di tale frnzione. Il saggio di Paul Palmer offie una approfondita analisi della letteratura esistente e due importanti studi condotti in questo settore nel 1987 e nel 1991, e tende a chiarire quanto possano essere significativi i risultati di questi studi trasferiti nel contesto inglese del 1995. L'articolo prosegue con un'analisi di recenti ricerche qualitative. La tesi finale è che la revisione interna non troverà una maggiore diffi.€sione tra gli enti di beneficenza di grandi dimensioni fino a quando non verranno rafforzate le aspettative relative a questo strumento e non verranno prese iniziative divulgative abbinate a indicazioni del legislatore.

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Non-profit: le aspettative per una nuova era di Saveria Addetta

È scoppiato il boom del non-profit? A guardare le nostre ultime cronache sembrerebbe proprio di sì. In particolare a partire dallo scorso anno, libri, articoli, convegni e tavole rotonde si susseguono come mai era accaduto prima. Le pubblicazioni sul cosiddetto "Terzo Settore" - ma la terminologia internazionale comprende ormai pii di dieci definizioni -, cominciano a essere presenti anche nel nostro Paese. Il fenomeno, come è ormai noto anche ai lettori di quotidiani, nasce e si sviluppa soprattutto nei Paesi anglosassoni Gran Bretagna e Stati Uniti in testa dove, quindi, la letteratura e il dibattito sono da qualche anno ben articolati. Come mai tanto interesse per una realtà sociale presente, storicamente, da sempre? Ad un primo sguardo sembrerebbe emergere, anche nel nostro Paese, l'interesse per i! "profit del non-profit". Si scopre, infatti, che il non-profit in realtà "fa profit", nel senso che offre opportunità di impiego e quindi di guadagni. Si scopre, inoltre, che il settore può divenire un valido e comodo

sostituto dello Stato sociale - ormai in crisi ovunque - a cui già toglie, da tempo, varie "castagne dal fuoco" in campo socio-sanitario e assistenziale. Analisi recenti rilevano un continuo sviluppo di questo fenomeno anche in Italia, seppure minore rispetto ad altri Paesi; ma dal momento che la crescita degli occupati nel nostro Paese (come nella maggior parte degli altri in Occidente) si ha in particolare proprio nel settore dei servizi sociali, alle persone e alla comunità (campo in cui le organizzazioni non-profit svolgono già un ruolo rilevante), con il 4,3% sul totale nazionale, si ritiene che la crisi dello Stato sociale consenta un ulteriore sviluppo appunto delle organizzazioni del settore. NON-PROFIT E CRISI DELLO STATO SOCIALE

Nell'attuale dibattito italiano sul tema, molti tendono a fare un sillogismo semplice: dal momento che lo Stato sociale è in crisi ma che la domanda in campo assistenziale è addirittura in aumento (soprattutto per la presenza di pi1 anziani) e, visto che lo 79


Stato non è in grado di realizzare un'adeguata offerta e che questa è già in parte realizzata dal non-profit, allora quest'ultimo può e dovrebbe occuparsene maggiormente. Sembra quasi verificarsi un pericoloso ritorno indietro nel tempo, in Italia al periodo pre-unificazione, quando l'assistenza, sanitaria e d'altro tipo, era svolta essenzialmente dalle cosiddette "Opere pie". Ci sembra, quindi, interessante ricordare il percorso di questi prototipi delle attuali organizzazioni non-profit. Le Opere pie, infatti, erano - ma alcune sono sopravvissute fino ad oggi - "istituzioni di beneficenza per il soccorso dei poveri" che provvedevano ad erogazioni di sussidi scolastici, contributi economici agli infermi, elemosine e persino "doti alle giovani povere". Le istituzioni cantative italiane erano le più numerose d'Europa (l'Albergo dei poveri, a Napoli, era il più grande in assoluto) e secondo un'inchiesta pubblicata tra il 1868 e il 1872 godevano di un patrimonio superiore al miliardo (ovvero, più del doppio delle entrate statali di allora). Si trattava, quindi, di un'incontrollata potenza economica. La storia di quella che può definirsi una vera e propria battaglia tra lo Stato e le Opere pie per il controllo dell'attività assistenziale è utile alla comprensione dello sviluppo del concetto di protezione sociale che soppianta quello di beneficenza. Quindi, la storia di questa lotta cammina parallela allo 80

sviluppo dello Stato sociale che, per scopo precipuo, ha teso a garantire dei diritti fondamentali, quelli che saranno poi riconosciuti definitivamente dalla nostra Costituzione, a tutti i cittadini. Accenniamo, sia pur brevemente, a tale storia. Un concetto dello Stato sociale: il diritto all'assistenza Già con Crispi la carità era divenuta oggetto di ordinamento e fonte di diritti riconosciuti e le istituzioni di beneficienza iniziarono a subire una "pubblicizzazione", diventando Istituzioni pubbliche di beneficenza (nel 1923 diverranno IPAB, Istituzioni di assistenza e beneficienza, molte delle quali presenti tuttora). Ma la legge Crispi, che voleva stabilire il monopolio pubblico delle attività assistenziali, rimase largamente inattuata: per la resistenza della Chiesa, da un lato, e la scarsa capacità dell'apparato amministrativo, dall'altro (a partire dalla mancanza di personale preposto ai controlli). Anche Giolitti tentò una riforma delle Opere pie, ma il progetto manteneva comunque il rifiuto di una responsabilità diretta del potere pubblico nel garantire il benessere economico-sociale degli strati più disagiati. Soltanto a partire dal primo dopoguerra, lo Stato assume un diretta responsabilità nell'erogazione di specifiche prestazioni sociali (in particolare,


la cura e il mantenimento degli invalidi di guerra, degli orfani e di altre vittime del conflitto). La tendenza dei poteri pubblici - che si affermò anche nel periodo fascista a superare la frammentazione del vecchio sistema delle Opere pie, mediante il coordinamento statale degli interventi, ebbe ulteriore sviluppo negli anni Cinquanta. In quegli anni, ci fu un quasi completo assorbimento da parte dello Stato dei mezzi patrimoniali destinati a scopi di assistenza e beneficenza, al fine di ottenere una organizzazione razionale dei servizi e una maggiore generalità dell'assistenza. La Costituzione aveva affermato principi improntati alla «liberalizzazione" del sistema di beneficenza (l'ultimo comma dell'art. 38 garantisce la libertà dell'assistenza privata) e il trasferimento delle funzioni di assistenza e beneficienza alle Regioni. Con il d.PR 24 luglio 1977 n. 616 furono attribuite ai Comuni le funzioni amministrative relative all'organizzazione e all'erogazione. Con lo stesso decreto si stabilì che anche le funzioni, il personale e i beni delle IPAB (non religiose) venissero trasferiti ai Comuni (anche se questa norma verrà dichiarata inconstituzionale nel 1981). Negli Stati liberali, quindi, i pubblici poteri sono tenuti ad assumersi le attività di controllo dei servizi sanitari, mentre la attività di gestione possono essere attribuite sia a strutture pubbliche, sia a privati, sia a strutture "mi-

ste". In realtà, la latitanza dello Stato e delle Regioni ha sancito, almeno nel nostro Paese, il trionfo del «localismo". Ma Comuni, associazioni di Comuni e Comunità montane non sono stati in grado di sussidiare o sostituire i livelli superiori nelle funzioni d'indirizzo. Le pratiche di erogazione della spesa sono state ideate, gestite e finalizzate in loco dove è mancato un serio tentativo di raccordo sul versante dei controlli. Tale mancanza ha comportato, oltre alla creazione di costi aggiuntivi, anche un calo verticale delle prestazioni erogabili dal servizio pubblico. L'inefficienza o, in alcuni casi, la mancanza di servizi fa ritenere, appunto, inevitabile un ruolo più importante del privato e soprattutto del non-profit che di assistenza e beneficenza si è occupato finora senza chiedere nulla (se non qualche sgravio fiscale). Se del non-profit facciano parte o meno le ex Opere pie ora allo Stato importa poco; la battaglia statale per il predominio è stata vinta ma gli oneri non sono più sopportabili: allora, si torna indietro!

Dallo Stato sociale alla "Comunità locale sociale" Non vorremmo apparire statalisti in un periodo storico in cui lo Stato centralizzato non sembra rappresentare più la migliore delle soluzioni istituzionali possibili. Diciamo, soltanto, che è ancora imprescindibile la «pubblicità" di alcuni servizi, almeno nel 81


senso che, dalla logica dello "Stato" sociale non più possibile, bisognerebbe passare ad una "Comunità locale sociale". Riteniamo, infatti, che se si riuscisse a realizzare un'effettiva autonomia dei Comuni, in particolare sul lato dei tributi, potrebbe essere maggiore il sostegno ad attività autorganizzate e di "utilità sociale negoziata" (A. Lipietz, Choisir l'audace, La Découverte, Paris, 1989). Il non-profit potrebbe svolgere, più che una funzione di sostituzione del pubblico, una di pressione, di advocacy, rispetto alla domanda dei servizi. In un volume del 1995 (La domand4 nel territorio. Ricerche sui distretto di base, Ediesse, Roma), Francesco Ripa di Meana ed Ernesto Veronesi propongono la costituzione di un "Consiglio dei cittadini utenti", che abbia la funzione di interlocutore delle istituzioni locali. Il comitato promotore di tale consiglio dovrebbe essere composto da rappresentanti delle associazioni culturali, ricreative, sportive, assistenziali e sindacali operanti sul territorio. Tale comitato dovrebbe operare concretamente sui bisogni sociali insoddisfatti, sulle risorse disponibili sul territorio e su una progettazione di servizi da attivare secondo priorità esplicite ed accettate. FARE LE DIFFERENZE

Le organizzazioni non-profit operano in diversi altri campi che non quelli 82

tipici del Welfare State, ma anche la loro presenza in aree quali la cultura, lo spettacolo, la ricreazione, la tutela e la valorizzazione delle risorse ambientali, la promozione di diritti civili e politici incide in modo rilevante sull'economia del Paese. Da qui l'interesse da parte delle istituzioni di adattare le norme giuridiche a questa realtà in sviluppo e l'avviarsi e l'accrescersi, anche in Italia, di un dibattito sul terzo settore per conoscerne le diverse e non sempre facilmente individuabili articolazioni. Prima di affrontare questo dibattito ci sembra importante, innanzitutto, fare delle differenze. Perché, ciò che si rischia di fare, in questo momento, è di strumentalizzare un settore la cui forza è stata finora l'indipendenza. Ciò che caratterizza, e che dovrebbe continuare a caratterizzare il non-profit, è la presenza del volontariato. Nel senso che se il non-profit è tale lo è in quanto, benché possa fare degli utili, questi devono essere spesi per gli scopi prefissati, a loro volta di "utilità sociale", e non ridistribuiti tra coloro che fanno parte dell'organismo. Il problema è costituito dall'ambiguità che talvolta sembra derivare dal fatto che anche per organismi non-profit è spesso inevitabile usufruire di un apparato con persone stipendiate che vi lavorano a tempo pieno. Ovviamente, ciò non cambia le caratteristiche non-profit: il compenso al lavoro "fuli time" non è distribuzione di utili. Ma que-


sto, d'altra parte, non deve nemmeno far ritenere che le organizzazioni nonprofit possano (e debbano) incrementare l'occupazione, a meno che non si cominci a fare delle importanti distinzioni che delimitino nettamente le diverse tipologie di organizzazioni. Se per terzo settore si intendono quelle strutture che hanno sempre più occupato quegli spazi che lo Stato non era più in grado di gestire (o di cui non ha mai voluto effettivamente occuparsi) e che il mercato non aveva interesse (né capacità, né mezzi tecnici) a fare propri - strutture come la cooperazione sociale, la cooperazione internazionale o la protezione civile queste non possono definirsi tutte non-profit in egual misura, poiché, per continuare l'esempio, un organismo di cooperazione internazionale può stipulare contratti con margini di utile e riconoscere ai propri collaboratori interessanti trattamenti economici, assistenziali e previdenziali; le cooperative sociali implicano soci che acquistano almeno una quota che dà diritto alla retribuzione e alla rivalutazione del capitale investito; della protezione civile possono far parte anche soggetti che fruiscono di aspettative e di permessi retribuiti. Rimangono organismi di puro non-profit quelli composti esclusivamente, o in grandissima maggioranza, da volontari. Naturalmente, i volontari possono partecipare in misura e a titolo diversi sia alla cooperazione sociale che a

quella internazionale, alla protezione civile come alla vasta gamma di istituzioni private indicate nel codice civile come non lucrative (associazioni, fondazioni, comitati) ma anche svolgere attività volontarie nella pubblica amministrazione e addirittura nel mercato (che non per questo divengono non-profit!). Il volontario è tale perché "è una persona che esplica una qualsiasi attività solidale, in modo personale, spontaneo e gratuito". È, quindi, la prevalenza di volontari a caratterizzare un organismo nonprofit. In questo senso, il settore non può e non deve porsi l'obiettivo di far crescere occupazione remunerata. Gli organismi non-profit si pongono come apportatori di valori ideali; sono spesso osservatori delle mutazioni dei bisogni sociali e, quindi, riescono ad essere creatori di forme d'intervento adeguate anche a prevenire il formarsi di nuovi disagi e bisogni. Da qui, l'importanza della loro indipendenza. Come osserva giustamente Angelo Noli sulla Rivista del Volontariato (Terzo Settore?, 15 giugno 1996), il volontariato deve continuare ad agire "da coscienza civile, da stimolo, da sollecitazione, da pungolo, quando non addirittura da controllo e da denuncia nel senso più ampio del termine, dalla pubblica opinione alla magistratura.

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8893 organizzazioni di volontariato, cifra stimata pari all'85% delle organizzazioni presenti sul nostro territoDunque, anche il dibattito sui terzo rio. Si è così potuto osservare che mesettore italiano si è arricchito di nuovi tà delle organizzazioni sono al Nord, e interessanti contributi. Fra questi, siin prevalenza nel nord est; il 17% del curamente il lavoro svolto negli ultimi totale è al Centro, mentre nel Sud e anni dalla Fondazione Italiana per il nelle Isole vi è un terzo del totale. Il Volontariato e dai suoi ricercatori. maggior numero di organizzazioni si La Fondazione ha provveduto, fra l'altrova, quindi, in Lombardia (18%), in tro, a creare una banca dati sul volonEmilia Romagna (14%), in Toscana tariato sociale italiano, pubblicando (8%) e in Puglia (8%). Dalle date anche un Rapporto di ricerca nel giud'inizio delle loro attività, la ricerca rigno del 1995. Si tratta di un'indagine leva la relativa giovane età di queste eseguita dal settembre 1992 al maggio organizzazioni: il 36,6% di esse, infat1993 sulla base di un questionario ti, è nato dopo il 1985. Laumento del somministrato ad "unità operative del loro numero si registra, attualmente, volontariato", sulle quali si è poi conin particolare nelle zone meridionali centrata la ricerca, ed anche ad orgaed insulari. nizzazioni "orribrello» o di raccordo Le utenze a cui il volontariato si rivoldel volontariato, ad associazioni con ge sono perlopiù i malati, gli anziani, i volontari e ad organizzazioni di mugiovani, le famiglie in difficoltà, gli tualità o mutua solidarietà. immigrati ma gli incrementi maggiori Lelaborazione della definizione di vosi verificano nell'interesse per i beni lontariato adottata è stata fatta sulla ambientali (41%), per i territori a ribase di alcuni precedenti contributi schio (39%), la tossicodipendenza, teorici e di altre ricerche (soprattutto i (34%), per i sieropositivi e malati di rapporti sull'associazionismo sociale AJDS (28%). Le prestazioni erogate si dell'IREF). Per cui sono state considedividono quasi equanimamente fra rate «realtà di volontariato quelle quelle di primo soccorso al disagio con: a) un criterio organizzativo; b) (accoglienza, segretariato sociale, sergratuità delle prestazioni per più del vizio mensa, ecc.) e quelle assistenziali con una certa continuità (assistenza 50% dei membri; c) un'attività totalsociale, sanitaria o legale, ascolto, ecc.) mente o parzialmente a favore di terzi; a cui si aggiungono prestazioni proa un'azione su forme di disagio sociamozionali ovvero per il reinserimento le (anche ambientale o del patrimonio sociale, la formazione professionale, la culturale); e) una certa continuità. difesa dei diritti civili ed altro. In questo modo, sono state censite

LE ULTIME RICERCHE SUL TERZO SETTORE

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Un'organizzazione su 5 opera in convenzione con una o più unità sanitarie locali, una su 7 con i Comuni. Soltanto il 7% del totale opera in convenzione con Provincie o Regioni. Altre organizzazioni operano insieme alle articolazioni territoriali di alcuni ministeri; in particolare di quelle dell'Interno, degli Affari Sociali, dell'Ambiente, della Sanità, della Pubblica Istruzione, di Grazia e Giustizia e del ministero dei Beni Culturali. Secondo la ricerca della Fondazione Italiana per il Volontariato sono, quindi, pRi di 10.000 le organizzazioni di volontariato sociale operanti in Italia. Si dividono quasi perfettamente a metà tra organismi derivanti dal mondo cattolico e organismi derivanti dal mondo laico. In ogni caso, quasi i due terzi sono di orientamento laicale o non-confessionale. I volontari impegnati attivamente sono circa 600.000. Si tratta di persone di ambo i sessi, con vari titoli di studio e con un età compresa soprattutto fra i 30 e i 45 anni.

La ricerca dell'Iref A tale ricerca, si aggiunge quella presentata nel 50 Rapporto sull'associazionismo sociale 1995 pubblicato dall'Iref (Istituto di ricerche educative e formative), con il patrocinio del Cnel. Tale rapporto riguarda rilevazioni demoscopiche e indagini di settore, compiute dall'Istituto, dal 1983 al 1994. Come avverte nelle interessanti

"Considerazioni di sintesi", all'inizio del volume, il curatore Alberto Valentini, nel progettare e realizzare il Rapporto si è tenuto conto dell'importanza di "contestualizzare" il fenomeno dell'associazionismo sociale, dell'azione volontaria e dell'economia sociale nel "quadro complessivo del mutamento socio-culturale" del nostro Paese e dell'Europa. Quindi, il Rapporto si pone lo scopo di far conoscere la consistenza e l'importanza del fenomeno "proprio come soggetto di infrastruttutturazione sociale", per "valutarne le realizzazioni come soggetto di innovazione sociale ed esaminarne le problematiche normative e organizzative interne, come soggetto istituzionale... che può fornire importanti orientamenti sia di democrazia, sia di iniziativa produttiva". Dall'analisi svolta dall'Iref, si registra una crescita diseguale dell'associazionismo. Infatti, benché si abbia un costante aumento degli iscritti (accompagnato da una diminuizione delle adesioni a partiti, sindacati ed organizzazioni professionali e di categoria), la tendenza non è, però, univoca. Mentre alcuni settori sono in espansione (ricreativo, culturale, educativo, socio-assistenziale, ecologista e per la difesa dei diritti civili) ve ne sono altri (sportivo, religioso, socio-sanitario, pacifista, cooperazione allo sviluppo) che, tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta, rimangono stazionari o addirittura hanno un calo di 85


adesioni. In ogni caso, all'aumento di persone coinvolte nel fenomeno non corrisponde un livello di impegno maggiore, nel senso che la partecipazione è perlopiù sporadica ed occasionale. Infatti, all'aumento del numero di persone coinvolte nel volontariato sociale (quasi 4 milione e 900 mila) corrisponde, ancora, un tempo medio di impegno di 6 ore settimanali per 40 settimane all'anno. Per quanto concerne il punto di vista territoriale, il Rapporto conferma quanto rilevato dalla ricerca della Fondazione per il Volontariato, ovvero la crescita dell'associazionismo nel nordest, nel Mezzogiorno e nelle Isole. Il Rapporto, questa volta a differenza della ricerca della FIvoL, individua una diversità fra i centri a vantaggio di quelli medio-piccoli, rilevando che aumentano "la diffusione capillare e 1 importanza della dimensione locale e che queste coincidono in particolare "con alti o medio-alti livelli di sviluppo economico e sociale". Il Rapporto rileva, inoltre, un'altra differenza rispetto alla ricerca FIvoL: la prevalenza degli uomini, in particolare dell'area meridionale "in centri urbani di medie dimensioni, con lavoro prevalentemente di tipo dirigenziale-impiegatizio, imprenditoriale o autonomo, ad alto livello di scolarita Dobbiamo considerare, comunque, che le differenze tra le rilevazioni delle due ricerche nascono dal fatto che il Rapporto Iref considera l'intero feno86

meno dell'associazionismo sociale, mentre il contributo della FIVOL considera soltanto il volontariato che dell'associazionismo è soltanto un aspetto, sia pure molto importante.

UNA

SOLIDARIETÀ

EFFICIENTE

Un altro contribuito interessante è quello di Ivo Colozzi e Andrea Bassi, sociologi dell'Università di Bologna e promotori del RITZ (una rete di Ricercatori Italiani sul Terzo Settore). Nel loro volume Una solidarietà efficiente (edizioni La Nuova Italia Scientifica, 1995), Colozzi e Bassi analizzano il terzo settore secondo un'ottica sociologica e di teoria delle organizzazioni presentando i principali contributi sociologici ed economici del dibattito terminologico e interpretativo in corso, proponendo una rassegna dei pRi significativi contributi di studiosi di management e affrontando il tema "del coinvolgimento delle organizzazioni di terzo settore in un nuovo modello di Stato sociale". Gli autori elencano quali sono le definizioni prevalenti del settore. Si tratta di termini in maggioranza inglesi dal momento che - lo ricordiamo ancora - sia il settore che la letteratura su di esso nascono e si sviluppano, almeno nella forma attuale, soprattutto nei Paesi anglosassoni. I più diffusi sembrano essere quelli di: nonprofit sector, charitable sector, philanthropic sector, third sector, independent sector e volun-


Ci sono almeno seimila pagine di differenza tra chi ha una sua opinione e chi ripete le opinioni degli altri0 6.000 pagine di economia, sociologia, diritto, politica, demografia, psicologia sociale, antropologia culturale, storia delle religioni scritte dai piĂš insigni studiosi italiani e stranieri per la prima Enciclopedia delle Scienze Sociali pubblicata in Italia. Uno strumento indispensabile per conoscere meglio noi stessi, gli altri, il mondo in cui viviamo.

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Saggi: Serra, Sulla crisi del progetto di «democrazia posfascista»: Augusto Del Noce 19451948 • D'Ambrosio, La ri-teorizzazione della scienza politica in Eric Voegelin

Il dibattito: Scoditti, Discorrendo su «Democrazia e diritto» Europea:

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La rzforma del Welfare negli Stati Uniti di PAOLO MASSA

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La nuova normativà sulla protezione dei dati personali

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Project Financing: applicazioni in Italia e scenari normativi di MARCO CARPINELLI, PAOLO Novi e MARCO ZuPPi

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tary sector. Ma Colozzi e Bassi ne elencano ancora altri cinque. In Italia, sono diffuse anche le terminologie: "terzo sistema , terza dimensione , e "privato sociale". Le diverse terminologie non sono casuali, anzi denotano la multiformità di questo settore che, in ogni caso, rappresenta quelle strutture che si pongono accanto a quelle statali - le istituzioni - e a quelle private - il mercato - (da cui la definizione di "terzo"). Negli ultimi vent'anni, economisti, politologi, antropologi e sociologi hanno sviluppato un numero consistente di teorie sulle organizzazioni non-profit in generale e su quelle di volontariato in particolare. Colozzi e Bassi ricordano le più importanti. Le ripercorriamo rapidamente. Fra le teorie degli economisti vi è quella di Burton Weisbrod definita della "domanda insoddisfatta", secondo la quale il non-profit nasce come risposta al fallimento in alcuni servizi dello Stato. In seguito, Weisbord preciserà meglio la sua teoria sostenendo che nelle società caratterizzate dalla compresenza di gruppi di popolazione di razza e di religione diverse, l'uniformità dei servizi offerti dallo Stato (ad esempio, nell'ambito dell'istruzione) non può soddisfare tutti i gruppi (è il cosidetto problema della "eterogeneità" o "differenziazione della domanda"). Per tale teoria, fra non-profit e Stato vi sarebbe, quindi, un rap-

porto di antecedenza o sostituzione: soltanto quando la domanda viene sostenuta da una maggioranza subentra l'organizzazione pubblica. La teoria di Weisbrod prenderebbe qualche spunto anche da quella di Estelle James, la quale focalizza il suo discorso sull'offerta in generale: ad alimentare il non-profit sono persone che hanno motivazione (membri di organizzazioni religiose o ideologiche) e che hanno accesso ad un conto capitale. Secondo la teoria di Henry Hansmann, i consumatori addirittura preferirebbero in generale il non-profit al mercato poiché non si fidano di quest'ultimo: preferiscono organizzazioni che non hanno il vincolo della ridistribuzione degli utili. Alcuni cittadini, poi, si servono delle organizzazioni non-prof'it come intermediari per aiutare gli altri, dal momento che non possono o non vogliono farlo direttamente. Altri economisti, al contrario di Hansmann, sostengono che proprio la mancanza di "diritti di proprietà" per le organizzazioni non-profit sia causa di una loro tendenzà all'inefficienza. Colozzi e Bassi ricordano anche le teorie dei politologi. Fra le più importanti, quella secondo la quale "in tutte le società democratiche esiste un forte settore volontario perché non c'è una sola volontà del popolo ma ce ne sono molte e spesso in contraddizione non 87


sanabile fra di loro.., le organizzazioni volontarie, quindi, possono essere lette come una versione privata del governo, nel senso che, grazie ad esse e alle sue relazioni con esse, il governo riesce ad essere insieme e contemporaneamente laico e cattolico, ebreo ed islamico, di destra e di sinistra, abortista e antiabortista, a favore della famiglia e dei movimenti omosessuali". Ovviamente, tale teoria non è valida nelle società in cui ie contrapposizioni sono troppo radicate e radicali (gli autori ricordano, a proposito, gli esempi dello Sri Lanka e del Nord Irlanda). Altri politologi hanno teorizzato il terzo settore in base ad una sua funzione politica di mediazione degli interessi. Le organizzazioni non-profit medierebbero fra gli interessi degli individui e quelli della società in generale ma il senso di tale funzione muterebbe a seconda del modello politico in cui esse sono inserite. «Nei sistemi pluralisti le organizzazioni nonprofit possono contribuire ad arricchire il pluralismo creando centri di influenza esterni allo Stato, che consentono anche ai gruppi sociali minoritari di farsi ascoltare ed esercitare influenza ( ... ). In un sistema di tipo neo-corporativo, invece, possono servire a riprodurre situazioni di disuguaglianza, attraverso la creazione di 'cartelli' o di oligopoli nell'offerta di servizi sociali. Nei Paesi che adottano modelli neo-corporativi, quindi, strutture nate per comporre i conflitti sociali e per integrare la società ( ... ) 88

esercitano anche funzioni di dominio e di controllo". Infine, ricordano ancora i nostri autori, le organizzazioni non-profit: nelle democrazie consociative come il Belgio e l'Olanda, invece, servono a creare quell'infrastruttura istituzionale che consente la convivenza di pubblici segrnentati e potenzialmente antagonistici Secondo le interpretazioni di alcuni sociologi - ricordano ancora Bassi e Colozzi - il non-profit si sviluppa adattandosi alle condizioni ambientali che, naturalmente, sono diverse secondo i periodi storici e i contesti geografici. Quindi, non è possibile contare su una teoria generale delle organizzazioni non-profit ma si deve sviluppare "una comprensione maggiore delle origini e del comportamento di queste". Per l'approccio sociologico di «ecologia delle popolazioni organizzative" il centro dell analisi e 1a relazione fra organizzazione e ambiente", tale teoria ipotizza che "per sopravvivere le organizzazioni devono sviluppare certi comportamenti e funzioni che corrispondono alle sollecitazioni poste dall'ambiente". Tali organizzazioni fanno riferimento ad un tipo-ideale "che presenta strutture differenziate sia verticalmente che orizzontalmente in base ai compiti e ai ruoli e che è diffuso sia nel settore profit che in quello pubblico". Il terzo settore, quindi, rappresenterebbe una sorta di


forma "deviata" che o finirà per uniformarsi ai modelli organizzativi del pubblico e del privato oppure servirà "a soddisfare una necessità funzionale ,I CI'' CI' cne non e ne, iP erricienza ne i erricacia Il fatto che questo settore sia presente nelle società più avanzate potrebbe essere spiegato dalla cosiddetta «teoria della nicchia", secondo la quale organizzazioni non competitive possono influenzare l'ambiente servendosi di protezioni legali o sussidi pubblici. Anzi, proprio l'inefficienza e l'inefficacia costituirebbero la forza delle organizzazioni di terzo settore poiché "esse servono allo Stato proprio perché e in quanto affrontano problemi senza risolverli e senza che la loro mancata soluzione possa venire imputata allo Stato che, invece, se intervenisse direttamente produrrebbe le soluzioni, ma a rischio di squilibrare l'economia di mercato . Bassi e Colozzi osservano, giustamente, che benché tale teoria sia molto interessante si basa su un presupposto da tempo messo in discussione: il fatto che il modello offerto dall'organizzazione burocratica sia quello in grado di fornire la maggiore efficacia e la maggiore efficienza possibile. Secondo, invece, l'approccio del sociologo Lester Salomon "il libero associarsi dei cittadini in gruppi è il 'meccanismo preferito' per produrre beni collettivi... sono i limiti e i fallimenti di questo meccanismo a rendere necessario l'intervento dello Stato che si

configura, quindi, come una istituzione residuale". Lo Stato, quindi, dovrebbe intervenire per correggere gli errori del non-profit, ovvero "l'insufficienza, il particolarismo, il paternalismo e il dilettantismo". Tale teoria è stata poi sviluppata da altri sociologi che ritengono elemento centrale, per comprendere il terzo settore, una nuova societa civile , consapevole che ogni individuo ha una sua identità in quanto è posto in relazione con altri. Quindi, "il benessere di una comunità nel suo insieme, quale essa sia, è costitutivo del benessere di ciascun individuo". Il non-profit, così, sarebbe costituito da particolari comportamenti, soggetti e prodotti sostanzialmente diversi da quelli che si hanno nello Stato e nel mercato. Secondo tale teoria, il non-profit svolge attività definite di empowerment cioè tendenti a rafforzare "la coscienza democratica, sociale e civile della gente". Si tratterebbe, appunto, di un settore specifico regolato da principi quali la solidarietà o il senso d'appartenenza, i cui prodotti sono definiti (secondo la definizione di Paolo Donati) come "beni relazionali Colozzi e Bassi, nella parte finale del loro libro, presentano una sorta di analogia tra terzo settore e una parte specifica del mercato: quella rappresentata dalle organizzazioni imprenditoriali strutturate secondo modelli "di rete". Per l'Italia si tratta del modello 89


delle piccole imprese indipendenti dei cosiddetti "distretti industriali", modello tipico delle aree definite di "terza Italia" (l'Emilia Romagna, te Marche, il Veneto e l'Umbria). Tali modelli, infatti, sono caratterizzati da "un insieme di relazioni preferenziali, stabili e bilaterali di scambio fra associazioni di 20-30 imprese che operano in settori diversi dell'economia e che comprende sempre una banca di riferimento . Lanalogia con il terzo settore consisterebbe nel fatto che tali reti si basano su relazioni di tipo fiduciario, di solidarietà fra gli appartenenti. Bisogna, però, dire che l'analogia non è del tutto convincente, poiché i distretti industriali non escludono al loro interno forti tensioni competitive orientate al far profitto. Ma il confronto che interessa più in particolare i nostri autori e quello fra terzo settore e Stato. Il caso italiano dimostra quanto i due settori siano fortemente interdipendenti, anche se "le modalità di rapporto sono state sovente connotate da confusione, contraddittorietà, e hanno ubbidito più a logiche di consenso politico che a chiare e univoche regole del gioco". Sarebbe, quindi, necessaria una nuova impostazione ditale rapporto che Golozzi e Bassi vedono possibile nel modello della "relazione fiduciaria piena da parte dello Stato". Ovvero, questo dovrebbe impegnarsi a "sostenere e promuovere reti eterogenee di associa90

zioni non solo allo scopo di aumentare le possibilità di scelta fra i servizi, ma insieme per far crescere l'azione democratica diretta, la partecipazione, la solidarietà, la cultura e la pratica dei diritti di cittadinanza anche per riferimento ai nuovi problemi posti dalla formazione di comunità multietniche e multiculturali". Lo Stato, quindi, anche attraverso il suo rapporto con il non-profit, dovrebbe aiutare a porre le condizioni per quel perseguimento del bene comune, che è poi lo scopo della sua costituzione. LE DIMENSIONI ECONOMICHE

Al dibattito sul terzo settore in Italia ha dato un altro notevole contributo, lo scorso anno, la pubblicazione dei risultati della più importante ricerca internazionale svolta finora in materia (dal titolo "Toward an understanding of the international nonprofit sector"), diretta da Lester Salomon e Helmut Anheier dell'Institute for Policy Studies della John Hopkins University di Baltimora. Si tratta di un progetto che ha coinvolto dodici Paesi in diversi continenti, nei quali è stato compiuto uno studio comparato. La parte italiana della ricerca è stata svolta da un gruppo di ricercatori dell'Istituto della Ricerca Sociale (IRs) e dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, coordinati da Gian Paolo Barbetta che ha poi curato il volume Senza scopo di lu-


ero (il Mulino, 1996) contenente i risultati dello studio compiuto. Secondo i dati di questa ricerca, che segue un modello definito preliminarmente da Salomon e Anheier, fanno parte del settore non-profir quelle organizzazioni che siano: a) formali, cioè istituzionalizzate in qualche misura; b) private, cioè separate da amministrazioni pubbliche ed istituzioni governative; c) non distributrici di utili; a dotate di autogoverno (self-governing; e) volontarie, cioè tali da realizzare la partecipazione non retribuita di più persone nei vari aspetti dell'attività e della conduzione gestionale. Secondo tale definizione, pertanto, il non-profit riguarda organismi che operano in diversi campi (salute, istruzione, ricerca, cultura, difesa dei diritti civili e politici, ambiente, attività sindacali e religiose, tempo libero, ecc.) con il solo scopo del soddisfacimento dei bisogni dei beneficiari delle diverse attività. Le organizzazioni di questo tipo possono svolgere anche delle attività economiche, produrre degli utili ma questi sono strumentali alloro obiettivo principale: appunto, soddisfare le esigenze dei loro utenti. La ricerca coordinata da Barbetta traccia le dimensioni economiche, la legislazione e le politiche del non-profit italiano. L'attenzione è centrata soprattutto sulle prime poiché proprio la consistenza economica del fenome-

no è stato, indubbiamente, l'aspetto finora più trascurato dal dibattito italiano. A ragione, gli autori della ricerca ritengono che tali informazioni siano, invece, "essenziali per comprendere il ruolo e le funzioni che le organizzazioni nonprofit già ora esercitano nella società italiana, sia per disegnare scenari futuri e per predisporre interventi pubblici - di sostegno, di regolazione o di controllo - che consentano di realizzarli". I dati ditale ricerca sono stati rilevati attraverso la somministrazione diretta di questionari, da altri studi in materia, da indagini ISTAT e da informazioni provenienti da fonti amministrative. Attraverso tali rilevazioni è emerso che le dimensioni economiche del nonprofit in Italia, pur essendo più modeste se comparate con quelle di altri Paesi, dimostrano di avere una consistenza rilevante. Secondo tale stima, il numero degli occupati del settore, in Italia (nel 1991) è simile a quello che si aveva nel settore del credito e delle assicurazioni: 434.000 persone, per un valore di prestazioni - comprese quelle dei volontari - superiore ai 25.000 miliardi (pari all'1,8 % del PIL). Emerge, poi, la presenza di strutture organizzative molto diverse tra loro: "strutture di dimensioni ridotte, con numero limitato di dipendenti e una presenza piuttosto elevata di volontari, nell'area delle organizzazioni culturali, ricreative ed ambientaliste e, al contrario, im91


prese di dimensioni molto elevate, con un buon numero di dipendenti ed un ruolo modesto dei volontari, soprattutto nell'area della sanità, dell'addestramento professionale e dei servizi sociali . Maggiori differenze si riscontrano fra i "fornitori di servizi" dove si trovano da una parte, grandi strutture residenziali (ospedali, case di cura ed IPAB) e dall'altra, "le diverse 'croci', i centri di medicina non convenzionale e le associazioni per la cura di malati terminali, come pure, nel settore dei servizi sociali, i diversi tipi di comunità residenziali (per i tossicodipendenti, minori)". La ricerca coordinata da Barbetta prova quanto già si era rilevato riguardo al rapporto del settore non-profit italiano con lo Stato: il finanziamento pubblico ha un ruolo rilevante. Ma altrettanto importanti sono le entrate derivanti dalla vendita di beni e servizi, che mostrano quanto il nostro settore non-profit dipenda dalla sua capacità commerciale: "tra le organizzazioni che ottengono dal settore pubblico meno del 50% delle proprie entrate (con l'eccezione dei sindacati), quelle che si finanziano per oltre il 45% attraverso la vendita di beni e servizi rappresentano oltre il 90% dell'occupazione e circa l'87 della speAnalizzando i motivi per i quali il fenomeno risulta meno rilevante in Italia che in altri Paesi, Barbetta ritiene che vi siano almeno due serie di ragio-

ni: la prima riguarda la metodologia della ricerca poiché questa ha trascurato, per mancanza di dati statistici aggiornati, alcune aree del settore quali le associazioni sportive locali. La seconda concerne almeno tre fattori: "la regolamentazione giuridica del settore in Italia, il ruolo dello Stato, delle famiglie e delle organizzazioni informali e, infine, il grado di sviluppo economico complessivo del Paese . Per quanto riguarda il primo fattore, il nostro autore ci ricorda che in Italia non esiste la figura giuridica dell'organizzazione non-profìt e tale incertezza normativa tende a non far conoscere il fenomeno in tutta la sua ampiezza, spesso, infatti, esso è "nascosto dentro il settore cooperativo, quello mutualistico e persino dentro il settore delle imprese a fine di lucro". Anche il peso del ruolo dello Stato tende a nascondere e ridimensionare il non-profit: 'l'estensione della amministrazione pubblica e del 'parastato' contribuisce a sottrarre alle organizzazioni nonprofit spazi potenziali di azione . Un altro fattore può dipendere dal ruolo della famiglia, delle organizzazioni informali e dallo sviluppo del Paese: "beni e servizi (soprattutto quelli alla persona) che in Italia sono ancora in gran parte forniti dalla famiglia, o da comunità ristrette che non danno vita a strutture organizzative stabili e a rapporti di tipo mercantile ( ... ), in Paesi pii 'avanzati' del nostro verso la società e l'economia pos't-industriale


passano invece attraverso la mediazione del mercato". Barbetta conclude la sua analisi osservando che, probabilmente, nessuno di questi fattori è stato più importante nel caratterizzare le dimensioni del non-profìt italiano ma che sia stato il loro insieme ad influire. L'autore aggiunge che, altrettanto importanti, sembra siano stati ragioni di tipo "politico» le quali avrebbero indotto governi e parlamenti a non intervenire in modo organico sulla materia, protraendo nel tempo una situazione normativa imprecisa e poco incentivante Egli ritiene, infatti, che data la forte ideologizzazione del dibattito politico nel nostro Paese vi siano state mediazioni che "hanno condotto allo sviluppo dell'intervento pubblico diretto nella fornitura di servizi, alla creazione di un settore nonproflt assai legato agli schieramenti politici e partitici parlamentari e, in un certo senso, alla 'collettivizzazione' delle stesse organizzazioni della società civile". Quindi, soltanto "una caduta della tensione ideologica nel dibattito politico ( ... ) ed un maggior grado di pragmatismo ( ... ) consentiranno forse di aprire una sta gione di riflessione più attenta sull'opportunità di favorire, oppure no, la crescita delle organizzazioni nonproflt e di regolarne l'azione". Barbetta, infine, auspica che vengano fatte ulteriori indagini statistiche sul settore che possano consentire di mi-

surarne le reali dimensioni con minore approssimazione di quanto vi sia stata finora. Il fenomeno potrebbe rivelarsi più rilevante di quanto appare ora. Sarà a tal fine necessario, inoltre, identificare tutti i vari "sottotipi", la cui conoscenza potrebbe risultare utile anche in funzione di indirizzo delle politiche pubbliche di regolazione e controllo". Come altri studiosi del fenomeno, anche Barbetta nota che il non-profit, pur svolgendo attività importanti è "molto poco trasparente ed aperto alla valutazione esterna, così che risulta difficile sapere quale sia la reale destinazione delle risorse, private e pubbliche, che ad esso vengono indirizzate". Quindi, anch'egli reputa quanto mai necessaria, accanto ad un sistema che incoraggi lo sviluppo del settore, anche una serie d'interventi per una maggiore trasparenza di questo. Per quanto riguarda, inoltre, il rapporto tra non-profit, il settore pubblico e il mercato, Barbetta ritiene auspicabile, per il nostro sistema di servizi alla persona, che si faccia "uno sforzo di riflessione e di valutazione dei vantaggi e dei costi delle diverse alternative".

FINE DEL LAVORO E TERZO SETTORE

Al di là della motivazione della crisi del Welfare State e delle ideologie come cause principali del sorgere (o risorgere) dell'importanza del libero associarsi della società civile, sembra 93


emergere nel pRi recente dibattito sul terzo settore l'importanza quasi vitale di esso per gli uomini nel prossimo futuro. Come afferma, forse un po ' categoricamente, Marco Revelli in un suo recente libro (Le due destre, Bollati Boringhieri, 1995), questi anni di fine secolo sono ormai caratterizzati da uno sviluppo che è entrato in conflitto con la società: "in un mondo sempre pRi uniformato in un sistema integrato di mercato, la crescita economica non alimenta, ma divora socialità, socievolezza, coesione... Stato e mercato - i due grandi sistemi di regolazione che hanno garantito l'ordine sociale nel Novecento maturo -, rivelano appieno la propria distruttività (il secondo) e parzialità (il primo)". E Revelli, a sostegno della sua tesi cita anche "il pur moderatissimo Ralf Dahrendorf quando denuncia la crescente difficoltà di far 'quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza e coe„, sione sociale e libertà politica . Il discorso del nostro autore verte, in particolare, sulla crisi del lavoro: sul dibattito riguardante la crescente disoccupazione e le possibili alternative ad essa, quali la riduzione degli orari di impiego o la cosiddetta flessibilità e le altre formule proposte. Revelli vede nel settore non-profit la possibilità per . I I I i eiatorazione aiI• uno spazio sociaie autonomo, in cui far confluire il tempo 'liberato' - dal lavoro - e in cui generare risorse complementari ed immagina la costituzione di "una rete di ',,

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comunità solidali capaci di sostituire al vincolo astratto e istantaneo dello scambio di mercato... la logica della processualità e della reciprocità tipica della socievolezza primaria”. Il timore di Revelli è che il terzo settore possa trasformarsi in una sorta di "agenzia di collocamento di forza-lavoro precaria, motivata, flessibile e mobilitata... al servizio dell'impresa sociale integrata che, quindi, venga anch'esso divorato "da una logica di mercato onnivora e vincente". Ma tale dimensione sociale è ora l'unica alternativa possibile: vale la pena, quindi, svilupparla e ponendo attenzione a che anch'essa non venga "colonizzata?'. Il terzo settore viene visto come "salvezza" anche da colui che si può ormai definire il cantore della fine del lavoro, Jeremy Rifkin. Nel suo volume La fine del lavoro (Baldini & Castoldi, 1995), l'economista americano traccia un quadro che può sembrare apocalittico circa le prospettive future del lavoro per le nostre società ma che si rivela realistico. Rificin, infatti, parte dal presupposto che "Oggi, su scala globale, la disoccupazione ha raggiunto il livello pRi elevato dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta. Nel mondo, più di ottocento milioni di persone sono disoccupate", e non è tutto: "questo numero è probabilmente destinato a salire ulteriormente negli anni che ci separano dall'inizio del


nuovo millennio, poiché milioni di individui si affacceranno per la prima volta sul mercato del lavoro per ritrovarsi senza possibilita di occupazione Oltre ai giovani in cerca di una difficile prima occupazione, vi saranno (come già vi sono) molte "vittime di un'innovazione tecnologica che sostituisce sempre più velocemente il lavoro umano con le macchine in quasi tutti i settori e i comparti dell'economia globale". Rifkin ritiene che l'unica alternativa possibile a tale cupo futuro possa venire soltanto da una serie di decisioni che consentano ai lavoratori di beneficiare di un orario di lavoro ridotto (con adeguato reddito) e, quindi, di un maggiore tempo libero che "potrà essere indirizzato a consolidare i legami della collettività e a rinnovare l'eredità democratica". In un periodo storico in cui l'economia di mercato si allontana sempre di più dalla vita sociale delle nazioni e lo Stato si ritira dalla sua posizione di supporto, soltanto "uno sforzo concertato e determinato da parte del terzo settore, sarebbe in grado di fornire i servizi sociali di base e avviare il processo di rivitalizzazione dell'economia sociale a livello mondiale". Anche Rifkin ci avverte del rischio che il settore possa essere manipolato, soprattutto dalle forze politiche. A questo proposito, l'esempio da considerare è quanto accaduto negli USA negli anni Ottanta. Sotto la presidenza dei Repubblicani (Reagan, prima e

Bush a seguire), all'insegna del motto restituire lo Stato al popolo , sono state concesse, infatti, diverse agevolazioni che, in realtà, hanno teso soprattutto a deregolamentare l'industria, diminuire l'imposizione fiscale sulle imprese e a tagliare i servizi sociali e i programmi di riqualificazione dei lavoratori. Mentre, nello stesso tempo, la Casa Bianca faceva pressioni per restringere le categorie di attività nonprofit passibili di esenzione fiscale e per diminuire il numero e i tipi di deduzioni fiscali per contributi di beneficenza dei singoli cittadini. Jappello - strumentale - al volontariato da parte dei Repubblicani aveva creato una forte avversione a quest'ultimo da parte della sinistra americana. Ma il vero significato dell'apporto dei volontari non poteva essere a lungo mistificato - sostiene ancora Rifkin - e, quindi, anche l'amministrazione Clinton ha cominciato a prendere le difese del ruolo del settore non-profit ed ha creato il Non-Profit Liaison Network, un organismo composto da venti funzionari governativi con l'incarico di costituire una rete tra ministeri e agenzie che rappresentano organizzazioni di terzo settore. L'iniziativa viene considerata positivamente da Rifkin che suggerisce anche alcune soluzioni per incoraggiare una maggiore partecipazione alle attività nel terzo settore, fra queste il cosidetto "salario ombra", una deduzione dall'imposta sui redditi per ogni ora di 95


lavoro volontario: lo stesso principio della deduzione fiscale sulle donazioni applicato, invece, all'offerta in natura. Nel "salario ombra", Rifkin vede notevoli vantaggi proprio perché ritiene possa agevolare "la transizione di milioni di lavoratori ad un impiego formale nell'economia di mercato a servizi alla collettività nell'economia sociale", fatto che "sarà essenziale se il consorzio umano vorrà davvero gestire il declinare dell'occupazione di massa nel XXI secolo . Insieme al «salario ombra" potrebbe prevedersi anche un "salario sociale" per disoccupati che accettano di essere formati e impiegati in organismi non-profìt. Lo Stato potrebbe anche offrire eventuali finanziamenti e sovvenzioni a quelle organizzazioni non-profit che si fanno carico di formare e impiegare persone senza lavoro. Da parte loro, le organizzazioni del terzo settore dovrebbero formulare una classificazione delle mansioni per chi opera al loro interno e un sistema di valutazione e una scala retributiva simile a quella nella pubblica amministrazione. Collegare un reddito minimo garantito a servizi per la comunità svilupperebbe l'economia sociale e "agevolerebbe la transizione di lungo periodo verso una cultura centrata sulle comunità locali e orientata al servizio sociale... la costituzione di una nuova alleanza funzionale tra il potere politico e il terzo settore aiuterà a costruire comunità autosufficienti e in grado di autososte96

nersi in tutto il Paese". Con toni quasi millenaristici, Rifkin afferma che il terzo settore "diventerà necessariamente il rifugio verso il quale si dirigeranno i lavoratori spiazzati dalla Terza rivoluzione industriale alla ricerca di un nuovo significato e di un nuovo scopo della vita" poiché questo regno e 1 unico che difficilmente potrà essere invaso dalle macchine, dal CI I I momento cne i economia sociale si fonda sulle relazioni umane, sul senso di intimità, di comunione, sui legami fraterni, sullo spirito di servizio

IL NON-PROFIT COME ULTIMA SPERANZA?

Il non-profit, quindi, come ultima speranza per i pRi disagiati e per quelli che potrebbero diventarlo? Sembra che questo sia ciò che pensano o che si illudono (o fanno finta) di pensare Clinton e gli ex-presidenti Bush, Carter, Ford e Reagan. Il presidente americano e i suoi predecessori, infatti, proprio in questi giorni (27-29 aprile) hanno invitato, a Filadelfia, con il Presiclents' Summitfor Americds Future, 5.000 intellettuali, Vip della cultura, dell'industria, degli affari e della politica. La conferenza, volutamente apartitica, sul futuro degli Stati Uniti è stata aperta da un appello di Clinton agli americani a "scendere in campo" per trovare soluzioni "credibili e durature" ai problemi dei meno abbienti, aperti dalle riforme del Welfare State. Il progetto è molto concreto: si


tratta di salvare dall'abbandono, dall'ignoranza e dal degrado due miliohi di bambini entro il 2000 garantendo loro cinque risorse fondamentali (un supervisore adulto che ripari ai danni di una scarsa istruzione; spazi sicuri di gioco e di socializzazione per il dopo scuola; un'adeguata assistenza sanitaria; formazione professionale e la possibilità di impiego all'interno della comunità di appartenenza). L'invito, rivolto, in particolare, alle grandi imprese e ai colossi della finanza è a donare fondi, a consentire ai propri dipendenti di dedicarsi al volontariato, a istituire corsi di formazione e a finanziare strutture mediche. Ma già qualcuno ha giudicato "ipocritamente velleitario" il progetto del summit. Tra questi, l'immancabile Jesse Jackson, il quale in modo molto deciso ha affermato che: "contare su1 volontariato per turare le falle dello Stato sociale è pura illusione e cinico calcolo politico e d'immagine". Non sappiamo se il reverendo nero abbia ragione, una cosa è però certa: sul non-profit gli americani hanno già contato abbastanza rispetto a qualsiasi altro popolo e, almeno finora, non sembra essere provato che la libera iniziativa di singoli individui possa garantire dei diritti per tutti. Con il mega summit americano ci troviamo di fronte ad una ben visibile

materializzazione di una delle più importanti aspettative che si hanno attualmente verso il settore non-profit: che sostituisca lo Stato sociale. Il rischio, lo abbiamo ripetuto più volte, è che gli organismi del settore finiscano per trasformarsi in qualcosa di profondamente diverso rispetto alla loro natura originaria. Non è certo se l'eventuale smantellamento dello Stato sociale avvantaggi o meno la nascita di organismi del terzo settore. Vi sono altre letture che sottolineano fattori diversi come cause dell'accrescersi del fenomeno, quali l'affievolirsi dell'associazionismo collaterale alle chiese, ai partiti politici o ai sindacati a favore di un'associazionismo più libero nelle scelte dei campi e dei modi in cui operare. È certo, comunque, che al di là di ogni possibile interpretazione del settore non-profit (economica, sociologica, ecc.), sua caratteristica propria e fondante rimane e dovrà essere la solidarietà accompagnata alla gratuità. Il valore di un'organizzazione non a scopo di lucro è il suo essere tale: ovvero un'organizzazione che - pur offrendo opportunità di lavoro e producendo utili secondo i moderni criteri di efficienza, efficacia ed economicità - dispone di volontari; cioè di individui che, qualsiasi siano le loro motivazioni, svolgono attività solidale: spontaneamente e gratuitamente.

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Le Charities inglesi verso il futuro. Il problema dei controlli interni di PaulPalmer *

I radicali cambiamenti apportati dal governo conservatore eletto nel 1979 all'assetto complessivo del Regno Unito quale si era consolidato nel periodo del dopoguerra, si sono tradotti in una drastica ridistribuzione delle competenze nella fornitura dei servizi sociali personali; si è affidata, cioè, la fornitura di questi ad altri organismi. Il principale "beneficiano" ditali cambiamenti è stato il settore degli enti di beneficenza (charities). I nuovi enti di beneficenza registrati nel 1994 sono stati 11.616, e la Charities Commission stima che ogni anno, in futuro, verranno registrati tra 8.000 e 9.000 nuovi enti di beneficenza ogni anno. Il Registro della Commissione riguarda esclusivamente gli enti di beneficenza registrati in Inghilterra e nel Gailes con reddito superiore a 1.000 sterline. Nel 1994, il numero totale delle charities registrate era di 178.609. Il numero totale di organismi di volontariato non registrati come enti di beneficenza è stato stimato a oltre 400.000. Molte di queste orga-

* Direttore del Moores Rowland, Centre for Chariry and Trust Research, South Bank University, Londra.

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nizzazioni sono di piccole dimensioni, mentre non figurano tra gli enti di beneficenza registrati, a seguito della decisione di non registrare determinati organismi di volontariato, alcune grandi organizzazioni come Amnesty International e Greenpeace. Il settore degli enti filantropici è numericamente molto grande, e in termini di reddito complessivo viene stimato attorno a 12,8 miliardi di sterline. Attualmente, soltanto 37.500 charities hanno redditi superiori a 10.000 sterline, tuttavia, a queste organizzazioni si può ascrivere il 98 per cento del reddito totale. Ai vertici della scala, oggi, troviamo un buon numero di enti di beneficenza con redditi superiori a 100 milioni di sterline, e oltre 2.000 con redditi superiori al milione. FARE BENE I CONTI

Con la crescita del settore verificatasi negli anni Ottanta, l'interesse si è mevitabilmente concentrato sulle procedure in base alle quali questi enti rendono conto dei propri fondi, e sui meccanismi di controllo delle loro attività.


L'organismo di controllo è la già citata Charities Commission, istituita nel 1853. Ufficialmente indipendente dal Governo come articolazione dell'Alta Corte, la Commissione, per esprimere il proprio voto e per sottostare al controllo da parte del Parlamento, riferisce attraverso il Department of National Heritage. Nel 1987, sono state fatte due importanti relazioni incentrate sull'effettiva regolamentazione degli enti filantropici, che contenevano osservazioni critiche sulla portata delle attività di controllo effettuate dalla Commissione. A queste, fece seguito la triplicazione delle risorse a ciò dedicate nell'arco di cinque anni, la riorganizzazione e una nuova legge (Charities Act) entrata in vigore nel 1992. Nel 1995, la Charities Commission ha dichiarato la sua intenzione di sottoporre a regolare vigilanza gli enti dotati di redditi superiori a 10.000 sterline. L'attività di controllo si basa sulla trasmissione di una relazione annuale, di rendiconti e di relazioni contabili. È stato messo a punto un programma software in grado di elaborare i moduli e di individuare eventuali problemi, e il numero di contabili qualificati alle dipendenze della Commissione è passato da zero nel 1987 a cinque all'inizio del 1995, ma sono in progetto nuove assunzioni. Per le charities con redditi superiori a 100.000 sterline, è richiesta la contabilità basata sui flussi dei fondi (Fund Accounting), mentre più in generale,

si fa riferimento alle Normative sulle Pratiche Raccomandate (Statement of Recommended Practice, SORP) riguardanti la "contabilità delle charities". Tali nuove norme SORP, introdotte nel 1995, combinano tra loro, in maniera controversa, capitale e redditi, sostituendo il conto profitti e perdite con un "rendiconto delle attività finanziarie" incentrato su un'analisi di tutte le risorse in entrata e del loro utilizzo. I nuovi poteri riconosciuti alla Charities Commission consentono a questo organismo di affidare a un amministratore fiduciario e a un manager la gestione di un ente di beneficenza: un potere cui la Commissione ha fatto ricorso soltanto quattro volte nel 1994. I PRIMI STUDI SUI CONTROLLI INTERNI

Negli ultimi anni, gli studi nel settore delle charities hanno registrato un forte aumento. Oltre cento rappresentanti delle università britanniche hanno partecipato alla Conferenza del Consiglio Nazionale delle Organizzazioni di Volontariato per le attività di ricerca in questo settore, tenutasi nel 1995. 1assetto normativo in materia è stato impostato sulla base di numerose relazioni e gruppi di lavoro, e su una intensa consultazione con il settore delle charities con quello della professione contabile. Minore attenzione, però, è stata dedicata alla questione delle procedure di controllo interne, e in particolare, alla revisione contabile interna. 99


Nel 1987, due studiosi, Billis e Harris, hanno avuto incarico da parte dell'Istituto dei Revisori Interni del Regno Unito di esaminare il possibile contributo della professione. La ricerca effettuata dai due si è basata su metodologie di ricerca qualitative e si è valsa della cQllaborazione di tre importanti enti di beneficenza, dotati di revisori interni e di altri tre enti non dotati di revisori. Lobiettivo della ricerca sugli enti dotati di revisori interni era quello di stabilire le motivazioni del ricorso a tali professionisti, la loro percezione del contributo offerto da questi e il rapporto tra il ruolo del revisore interno e le attività del settore del volontariato nel senso più ampio. La seconda fase della ricerca, riguardante l'esame della posizione degli enti attualmente non dotati di revisori interni, era finalizzata a verificare se tali enti fossero consapevoli del potenziale contributo offerto da tali professionisti e se ritenessero che all'interno delle proprie organizzazioni la revisione interna potesse svolgere un ruolo. Le conclusioni della ricerca possono così riassumersi. Uno. In prima approssimazione, è parso ai più che ci fossero poche ragioni per l'introduzione di revisori interni negli enti filantropici e di beneficenza, ad eccezione dei cosiddetti "colossi" del settore. Due. Molti degli interpellati hanno sostenuto che tali funzioni venivano 100

già svolte all'interno delle proprie organizzazioni, anche se non sotto l'etichetta della revisione interna. Tuttavia, non è stato possibile esaminare la fondatezza di queste affermazioni. Tre. Inoltre, sembra che vi siano numerosi problemi minori emersi nella pratica degli enti di beneficenza che non vengono, a tutt'oggi, considerati come questioni di competenza dei revisori interni. Per esempio, il controllo sull'uso dei sistemi informatici, per quanto riguarda gli uffici regionali e i responsabili locali della raccolta dei fondi. Quattro. Il problema finanziario è il più spinoso; e una funzione separata di revisione interna non risulta fattibile, dal punto di vista degli oneri finanziari da sostenere, per la stragrande maggioranza delle piccole charities. Tuttavia, non è da ritenere che la carenza di fondi o le considerazioni di economicità debbano rappresentare, necessariamente, i fattori determinanti. Per gli enti di maggiori dimensioni e complessità, ulteriori ricerche potrebbero rivelare che i consigli di amministrazione siano più favorevoli al ruolo della revisione interna rispetto ai più tradizionalisti dipartimenti finanziari e contabili. Questo sviluppo è forse prevedibile, in considerazione del fatto che i consigli di amministrazione e gli alti dirigenti degli enti di beneficenza sono sempre più consapevoli delle necessità di trasparenza nel settore del volontariato. Pertanto, essi


sono probabilmente più aperti a suggerimenti riguardanti le misure, come la revisione interna, finalizzate a incrementare trasparenza e controllo. La ricerca effettuata da Billis e Harris ha dovuto affrontare numerosi ed evidenti problemi metodologici, come per esempio quelli relativi alle dimensioni del campione e alla sua rappresentatività; problemi dei quali Billis e Harris, come ricercatori esperti, erano consapevoli, ma che non sono andati a danno delle finalità della loro ricerca. Mentre la ricerca qualitativa non può garantire la vasta gamma di risultati generati da metodi quantitativi come i sondaggi, essa è in grado di garantire una maggiore comprensione delle questioni reali. In settori nuovi, come nel caso del ruolo della revisione interna negli enti di beneficenza, anche un campione di piccole dimensioni si rivela prezioso per le indicazioni che può fornire per eventuali ulteriori iniziative. I PROBLEMI APERTI L'eccellente ricerca investigativa e pionieristica svolta dai due studiosi ha aperto numerose questioni e ha toccato argomenti in grado di stimolare ulteriori iniziative. Tuttavia, sono rimasti senza risposta due quesiti che forse avrebbero dovuto essere affrontati. Si tratta, da una parte, dei "problemi minori" e, dall'altra, della questione della

definizione della problematica riguardante i cosiddetti "colossi" del settore. La prima questione potrebbe in parte essere legata al vivace dibattito sulle conclusioni di questa ricerca avviato tra i ricercatori e il Comitato per le Charities dell'Istituto dei Revisori Interni (ft-UK) che mise in dubbio alcune delle conclusioni. L'allora presidente ditale Comitato, Jeffrey Ridley, già segretario generale dell'IIA-UK, quando venne intervistato su tale questione, non volle entrare nel dettaglio, ma lodò "l'integrità dei ricercatori che non avevano voluto modificare una sola parola del proprio rapporto". Durante una conversazione con uno dei ricercatori, David Billis, ci fu anche un commento sul lavoro che i revisori interni stavano effettivamente svolgendo. Apparentemente, infatti, mentre le pubblicazioni specialistiche descrivevano attività di elevato livello, i compiti effettivamente svolti risultavano di profilo relativamente basso e si incentravano su attività contabili tradizionali. Pertanto, rimane l'interrogativo se le funzioni di revisione interna degli enti di beneficenza oggetto della ricerca fossero più vicine al tradizionale ruolo di semplice revisione contabile interna piuttosto che a una concezione più dinamica. Sawyer, a questo proposito, ha dichiarato: "La revisione interna ... è stata creata e si è affermata perché i titolari e i dirigenti avevano necessità di determinate 101


garanzie funzionali. Essi temevano che i propri dipendenti, fornitori e agenti avrebbero potuto compiere errori o tentare di raggirarli, così sono stati assunti dei controllori interni incaricati di verificare tutte le transazioni per individuare eventuali errori e frodi. Sfortunatamente, oggi questa concezione della verifica come principio e fine dell'attività dei revisori interni è ancora presente se non dominante".

munque alcune delle caratteristiche che la ricerca di Billis e Harris aveva identificato come sufficienti per dare necessariamente luogo all'introduzione di una funzione di revisione interna, e cioè: organizzazione decentrata; tendenza alla crescita; controlli esterni; necessità di un'immagine di affidabilità.

Pertanto, un campo di ricerca che avrebbe potuto descrivere nel dettaglio i ruoli effettivi dei revisori interni negli enti filantropici e di beneficenza rimane ancora inesplorato. Una critica pii seria dello studio di Billis e Harris è quella relativa alla carenza di una definizione precisa dell'espressione "colossi". Lo studio, infatti, non offre una definizione concettuale o quantitativa. A seguito della pubblicazione del Rapporto sulla Ricerca sulla Revisione Interna negli Enti di Beneficenza dell'IIA-UK, Ridley e Palmer e Finlayson e Palmer hanno portato ad esempio un ente dotato di un reddito di 2 milioni di sterline che aveva introdotto una funzione di revisione interna. L'ente era finanziato principalmente dai contributi del ministero della Sanità e della Previdenza Sociale per i centri di recupero per tossicodipendenti, e aveva 70 dipendenti. Pur non essendo considerato come uno dei "colossi", questo ente presentava co-

Billis e Harris non hanno fornito alcun modello per la determinazione dei criteri in base ai quali avrebbe potuto essere introdotta una funzione di revisione interna negli enti di beneficenza, come per esempio un'indicazione sulle dimensioni del reddito o dell'attivo patrimoniale, delle attività operative o del numero dei dipendenti. L'accento è stato posto, invece, sulle caratteristiche specifiche dell'organizzazione e della sua situazione gestionale. La ricerca ha sollevato, quindi, molte questioni e interrogativi, e questo non deve sorprendere. I ricercatori avevano ricordato infatti "la mancanza di ricerche precedenti in questo settore Ad eccezione delle raccomandazioni delle associazioni professionali sulle migliori pratiche contabili, l'unica altra ricerca riguardante la revisione interna negli enti di beneficenza era rappresentata da un altro progetto di ricerca dell'ILk-UK. Si tratta di una vasta indagine nazionale sulla revisione in-

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terna nei Regno Unito e in Eire realizzata da Marpian, che comprendeva anche le 200 più importanti charities. Soltanto dieci enti risposero, e di questi dieci, soltanto uno risultò dotato di un ufficio di revisione interna. Pertanto, non sono risultati disponibili neanche i dati più elementari riguardanti il numero delle funzioni di revisione interna esistenti negli enti di beneficenza. Importanti interrogativi rimasero così senza risposta; come, per esempio, perché un ente di beneficenza avrebbe dovuto introdurre una funzione di revisione interna. Forse per la rapida crescita dell'organizzazione e la diversificazione delle fonti di finanziamento? O per reazioni riflesse conseguenti a una crisi scatenata, per esempio, da una frode? Le incombenti modifiche normative nel settore delle charities, conseguenti al Libro Bianco del Governo, avrebbero innescato l'introduzione delle funzioni di revisione interna? E ancora: era forse più probabile che la funzione di revisione interna venisse introdotta in enti con caratteristiche specifiche? Esistono determinati denominatori comuni riferiti, per esempio, a tipi di attività, composizione degli organici, dimensioni finanziarie e fonti di finanziamento, copertura geopolitica, numero di volontari? Sarebbe stato possibile individuare le caratteristiche degli enti di beneficenza dotati di funzione di revisione interna? Inoltre, vi erano numerosi aspetti ope-

rativi della funzione di revisione interna degli enti di beneficenza, che andavano dai rapporti con i controllori esterni alla portata e ai poteri delle funzioni di revisione interna. Quesiti ulteriori possono riguardare le differenze nelle funzioni di controllo esercitate nelle charities in confronto a quelle esercitate nei settori pubblico e privato. Per esempio: come sono organizzate? Si tratta di una funzione interna (ossia l'ente di beneficenza assume il personale responsabile della revisione interna) o di una funzione svolta da una società esterna di revisione? Risultano, e con quale frequenza, accordi consortili sulla base dei quali la funzione di revisione interna viene condivisa con altri enti? Fu subito evidente la necessità di ricerche quantitative finalizzate a tentare di fornire un più ampio fondamento logico e di dati. Nel 1991, l'IIA-UK finanziò chi scrive per lo svolgimento, presso la South Bank University, di un'indagine riguardante oltre 200 enti di beneficenza, con l'obiettivo di dare risposta a questi interrogativi. LE INDAGINI DEL

1991

SULLA REVISIONE

INTERNA

Furono messi a punto due questionari. Il primo fu inviato ai membri del Gruppo di Lavoro dei Direttori Finanziari delle Charities (CFGD, 211 organizzazioni). Il secondo fu inviato ai revisori interni degli enti, Charities 103


Discussion Group (IIAcDG) dell'hAUK, composto da 19 enti di beneficenza. Pertanto, il campione fu intenzionalmente scelto con criteri opposti a quelli della selezione basata su un sistema di campionamento probabilistico. Questa scelta fu motivata dal fatto che allora era impossibile costruire tale sistema per il settore delle charities. Con l'informatizzazione del Registro della Charity Commission, avvenuta successivamente, questo sarebbe oggi possibile. Malgrado vi fossero evidenti problemi metodologici legati all'impiego della selezione finalizzata, lo scopo della ricerca era quello di stabilire le dimensioni e la portata della revisione interna. Dalla CFGD furono ricevute 139 risposte su 211 (66 per cento) e dall'IIAcGD 14 su 19 (73 per cento). 29 delle 139 risposte provenute dagli enti CFGD indicavano la presenza di una funzione di revisione interna. Entrambi i questionari furono strutturati con l'obiettivo di ottenere un profilo degli enti di beneficenza per categoria istituzionale, forma giuridica, area operativa, fonti di finanziamento, personale, volontari e revisori esterni, e funzioni di controllo. I questionari si orientarono, quindi, verso gli enti di beneficenza dotati di funzione di revisione interna. Alcune domande erano comuni a entrambi i questionari, per consentire la realizzazione di confronti, mentre altri riguardavano in maniera specifica i soggetti intervistati 104

per un'analisi degli approcci e delle pratiche correnti. QUAL È UNA CHARJTY RILEVANTE PER LA REVISIONE?

Il profilo di un "tipico" ente filantropico o di beneficenza dotato di funzione di revisione interna sembra essere quello di un ente nazionale o internazionale, caratterizzato da numerose fonti di reddito, compresi i redditi da attività commerciali, e dotato di una unità gestionale (di norma un ente principale, sostenuto da un'affiliata commerciale). Quello dell'introduzione della funzione di controllo interno è un fenomeno relativamente recente. Infatti, è risultato che oltre la metà degli enti di beneficenza dotati ditale funzione l'avevano introdotta soltanto nei quattro anni precedenti. Una struttura di revisione interna risulta abitualmente composta da un revisore principale e da un assistente. Come sarebbe stato facile immaginare, i risultati della ricerca hanno evidenziato che, con il crescere delle dimensioni e della complessità degli enti di beneficenza, la giustificazione per l'introduzione di una funzione di revisione interna diventa molto più evidente. La soglia in termini di dimensioni sembra corrispondere a un livello di reddito pari a i milione di sterline, anche se nella pratica soltanto il 21% di enti con tale reddito è risultato dotato di una funzione di controllo interno.


I fattori di rischio e il desiderio di aumentare la trasparenza sono stati indicati come le motivazioni principali per l'introduzione della revisione interna. È stato anche citato il ruolo dei revisori esterni, non come ragione determinante, ma come considerazione legata all'introduzione di una funzione di revisione interna; in particolare nelle dichiarazioni dei revisori interni, che hanno fatto riferimento anche alle dimensioni dell'organizzazione. I direttori finanziari hanno assegnato maggiore importanza alla crescita. Malgrado la ricerca abbia evidenziato come il fattore «costJ rappresenti spesso la ragione principale per la mancata introduzione di una funzione di revisione interna, si è anche riscontrata una scarsa consapevolezza dei potenziali benefici. Sono stati riscontrati, inoltre, la completa assenza di accordi di collaborazione e pochi dati che testimoniassero l'impiego di volontari nella revisione interna. LE PRINCIPALI AREE OPERATIVE DELLA REVISIONE INTERNA

L'obiettivo della revisione interna è quello di rassicurare, in maniera obiettiva, la direzione dell'ente del fatto che verrà svolta una continua valutazione dell'adeguatezza delle misure di controllo. Tutti i revisori interni che hanno risposto al questionario hanno dichiarato di svolgere revisioni finalizzate a valutare l'efficacia del sistema di controllo delle proprie organizzazioni.

Tutti, tranne uno, hanno dichiarato di eseguire revisioni basate su criteri di economicità. Le principali aree coperte sono risultate i settori finanziari e contabili, e i sistemi informatici. Dattenzione è risultata concentrata sulle aree gestionali piuttosto che sugli obiettivi di beneficenza in senso più ampio. In questa seconda area, risultavano impegnati appena il 25 per cento dei revisori interni. Agli intervistati sono state poste domande sulle caratteristiche specifiche e sui problemi gestionali degli enti di beneficenza, secondo il metodo di indagine di Billis e Harris. Secondo i direttori finanziari, questi problemi non avevano una rilevanza particolare, e venivano trattati alla stregua di altre problematiche. Tre quarti dei revisori interni hanno dichiarato di essere impegnati in attività di consulenza interna. Tuttavia, meno del 50 per cento dei direttori finanziari ha dichiarato che i propri revisori interni erano impegnati in questo tipo di attività. I due gruppi mostravano, inoltre, una significativa differenza riguardo allo sviluppo di sistemi computerizzati; infatti, il 64 per cento dei revisori interni ha dichiarato di essere coinvolto in questo processo, contro poco più del 40 per cento dei direttori finanziari. Malgrado vi siano rilevanti differenze tra le due categorie, con una tendenza da parte dei revisori interni a dichiarare" un'attività più intensa, questi risultati non sono sufficientemente di105


versi da suggerire che i revisori interni, pur essendo impegnati nei settori finanziari e contabili, godano di maggiori margini di libertà dal punto di vista operativo. È importante sottolineare che meno di un terzo dei revisori interni è risultato impegnato in attività contabili, comprese le operazioni di fine anno. La maggior parte dei revisori interni degli enti di beneficenza ha dichiarato, invece, di partecipare allo sviluppo delle applicazioni computerizzate. Tuttavia, l'impiego in prima persona di tecnologie informatiche è risultato limitato a meno di un quarto del campione. Tutti gli enti sono risultati sottoposti a revisione esterna svolta da una società di revisione del gruppo delle 18 società più importanti. Gli enti dotati di una funzione di revisione interna hanno descritto i propri rapporti con i revisori esterni. La maggior parte risultava avere accesso ai piani degli uni e degli altri. Una minoranza ha dichiarato che i revisori esterni giocavano un ruolo attivo nello sviluppo delle attività di revisione interna. Questa collaborazione genera, di solito, una vasta gamma di suggerimenti, dallo svolgimento delle revisioni all'organizzazione di attività di formazione. È risultato, inoltre, che la maggior parte si scambiava i resoconti. 1150 per cento degli enti ha indicato l'esistenza di programmi congiunti, mentre un terzo di essi ha dichiarato di aver svolto una parte del programma dei revisori esterni. 106

Ai direttori finanziari è stato chiesto a chi dovrebbero inviare i propri resoconti i controllori interni, e ai revisori interni è stato chiesto a chi avessero inviato i propri resoconti. È risultato che quasi la metà dei revisori interni faceva riferimento al direttore finanziario, mentre un terzo di essi faceva riferimento all'amministratore delegato. È risultato, inoltre, che un solo revisore interno faceva riferimento a un comitato di revisione formato da amministratori fiduciari. La metà dei revisori interni ha dichiarato che il proprio ente di beneficenza era dotato di un comitato di revisione, e un terzo di essi ha sottolineato che il comitato finanziario aveva il controllo delle attività di revisione interna. Tre quarti dei revisori interni facevano riferimento a un comitato che discuteva i resoconti finanziari come compito principale. Due terzi dei revisori interni ha dichiarato di avere istruzioni scritte. La ricerca ha evidenziato che le funzioni di revisione interna erano presenti in una minoranza degli enti di maggiori dimensioni. Anche se dieci enti hanno dichiarato la propria intenzione di introdurre tale funzione nell'arco dei tre anni successivi, questo dato avrebbe dovuto evidenziare una diffusione molto maggiore, in quanto molti direttori finanziari di enti non dotati di revisione interna risultavano insoddisfatti dei meccanismi correnti di controllo interno. Tuttavia, quando a quegli stessi diret-


tori finanziari è stato chiesto come mai non fossero dotati di una funzione di revisione interna, oltre il 60 per cento ha risposto: "attualmente, non ritengo che una funzione di revisione interna sarebbe la soluzione adeguata per la mia organizzazione". Un ulteriore 30 per cento ha dichiarato che avrebbe gradito la presenza di una funzione di revisione interna, ma di non disporre di risorse finanziarie adeguate. Queste risposte sono state messe a confronto con le dimensioni dei dipartimenti contabili, ed è risultato evidente che questo tipo di reazione proveniva dagli enti di beneficenza caratterizzati da organici ridotti. Non è stata riscontrata particolare ostilità nei confronti della revisione interna, nessuno ha barrato la casella contenente questa opzione, e meno del 5 per cento ha dichiarato di ritenere che i revisori esterni fossero in grado di fare meglio dei revisori interni. Il problema sembrava essere quello della necessità di giustificare la revisione interna a fronte di altre necessità pressanti. Per esempio, un direttore finanziario ha dichiarato che avrebbe avuto maggiori benefici dalla presenza di un contabile addetto al controllo di gestione. AGGIORNAMENTI E VERIFICHE

Per verificare l'estendibilità al 1995 dei risultati dell'indagine del 1991, un gruppo di nove direttori finanziari e controllori interni ed esterni di enti di

beneficenza è stato invitato per una mattinata di discussioni sulla validità dei risultati dell'indagine e sul futuro della revisione interna negli enti di beneficenza. Il gruppo è stato scelto tra coloro che parteciparono all'indagine del 1991. Tre direttori finanziari sono stati scelti tra coloro che avevano dichiarato di essere impegnati nella valutazione dell'opportunità di introdurre o meno una funzione di revisione interna. Due di essi avevano deciso per l'introduzione, mentre il terzo la stava ancora progettando. Come ordine del giorno è stato utilizzato il questionario originale dell'indagine. Il gruppo ha dichiarato di ritenere che nell'indagine non fosse stata data sufficiente importanza alla frode come motivazione per l'introduzione della revisione interna. Numerose recenti introduzioni di funzioni di revisione interna erano, invece, state sollecitate dalla scoperta di frodi. Il gruppo non riteneva che gli amministratori avessero fatto i passi necessari per l'introduzione delle funzioni di revisione interna. Malgrado l'attenzione dedicata al ruolo degli amministratori a seguito del Charities Act del 1992, nessuno ha dichiarato che gli amministratori stessi avessero preso l'iniziativa. Questa carenza di iniziativa da parte degli amministratori, tuttavia, risultava colmata dopo l'introduzione di una funzione di revisione interna. Gli amministratori, infatti, si mostravano attivamente interessati a questa funzione 107


dopo la sua introduzione e al momento di ricevere i resoconti. La preoccupazione eccessiva per le spese amministrative, in particolare negli amministratori, è stata identificata come l'ostacolo principale per l'istituzione di una funzione di revisione interna. È stato, inoltre, valutato l'approccio pii regolamentato adottato nel settore contiguo delle cooperative edilizie. Lente responsabile (Housing Corporation) aveva dato maggiore rilevanza alle cooperative di grandi dimensioni, assicurandosi che queste fossero dotate di adeguati sistemi di controllo interni, e suggerendo l'introduzione di una funzione di revisione interna. Se anche la Charities Commission adottasse un approccio del genere, impartendo direttive analoghe, questo potrebbe rivelarsi un fattore determinante per l'introduzione di una funzione di revisione interna in numerosi enti di beneficenza. La suggerita correlazione tra le dimensioni dei dipartimenti finanziari e contabili e l'esistenza di una funzione di revisione interna è stata, quindi, confermata. Infatti, la «soddisfazioriè espressa dai direttori finanziari è stata considerata come un elemento determinante. Da un punto di vista pratico, questa veniva considerata come una questione centrale, perché la revisione interna non dovrebbe interferire con la contabilità. Sarebbe opportuno realizzare ulteriori ricerche qualitati-

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ve" per valutare tali questioni "organizzativo-politiche". Esiste una correlazione tra le spese e le dimensioni dei dipartimenti finanziari e contabili degli enti di beneficenza che suggerisce che i direttori finanziari, posti di fronte a una scelta tra un "addetto al controllo di gestione" e un "revisore interno" sceglieranno sempre il primo? La combinazione delle due funzioni, la soluzione adottata da un ente, comporta la potenziale compromissione dell'indipendenza della revisione interna. Il dilemma relativo alle risorse veniva considerato come indicativo della diffusissima disinformazione riscontrata presso i direttori finanziari e gli amministratori riguardo al valore positivo e al contributo offerti dalla revisione interna. Uno dei problemi principali è risultato quello della denominazione revisore interno , che veicolava un immagine molto diversa rispetto alla realtà effettiva della concezione moderna della revisione interna. Llstituto dei Revisori Interni fu ritenuto responsabile di aver mancato l'obiettivo di combattere questa immagine negativa. La questione della tecnologia è stata discussa alla luce della considerazione che le charities erano ancora in una fase di sviluppo nell'impiego di strumenti tecnologici. La possibile riduzione dei costi di revisione esterna ottenuta mediante l'introduzione della revisione interna, non risulta sia stata presa in considerazione. I direttori fi-


nanziari ritenevano che la riduzione dei prezzi ottenuta mediante la concorrenza sul mercato dei servizi di revisione forniti agli enti di beneficenza significasse che l'attenzione avrebbe dovuto concentrarsi sulla certificazione di bilancio annuale. La possibilità che i revisori esterni incoraggiassero la revisione interna negli enti di beneficenza è stata considerata materia per progetti di ricerca futuri. Il gruppo, ad eccezione di un ente, riteneva unanimemente che i propri revisori esterni fossero favorevoli alla revisione interna. Nessuno ha fornito un esempio di revisori esterni impegnati nel tentativo di aggiudicarsi le competenze della revisione interna. Si riteneva che la revisione interna fosse naturalmente destinata a ricoprire un ruolo vantaggioso , che avrebbe potuto contribuire al suo sviluppo e all'aumento del suo prestigio tra gli enti di beneficenza. In particolare, la revisione interna potrebbe avere un ruolo da giocare nel dibattito sull'amministrazione delle charities, rassicurando gli amministratori che si riteneva opportuno non interferire nella gestione quotidiana degli enti. Parallelamente al desiderio di evitare generalizzazioni, si è diffuso un certo consenso attorno alla seguente constatazione: "i migliori controllori dei volontari non possono che essere i volontari stessi". Si faceva riferimento all'esperienza fatta dall'Oxfam con l'impiego di revisori

interni volontari. Tuttavia, fu sottolineato che questa non avrebbe dovuto essere considerata come un opzione «a buon mercato". I volontari richiedevano formazione, sostegno e coordinamento, tutte attività che comportavano costi elevati. Fu presa in esame la revisione consortile, e alcuni membri del gruppo sostennero che gli svantaggi legati a questo strumento, con particolare riferimento al settore della beneficenza, avrebbero dovuto essere approfonditi. Un punto di vista diffuso è risultato il seguente: la revisione consortile comporta tutti gli svantaggi noti ai revisori esterni e conseguenti al loro ruolo di C(non interni" all'organizzazione e, quindi, non in grado di comprendere appieno le dinamiche culturali del settore. Lincredibile diversificazione, per esempio, nel campo degli aiuti all'estero, è stata citata per sostenere che sarebbe stato troppo semplicistico affermare che un revisore interno, per esempio del Salvation Army, avrebbe potuto curare anche la revisione di un progetto Oxfam nello stesso Paese. Per la questione della revisione consortile e della collaborazione, si è ritenuto chè fossero necessarie ulteriori ricerche. Il gruppo di lavoro, infine, fece una osservazione conclusiva su un futuro progetto di ricerca e sulle iniziative che avrebbero dovuto essere intraprese dai sostenitori della diffusione della revisione interna negli enti di benefi109


cenza. Un interrogativo da risolvere nel futuro avrebbe dovuto riguardare l'impiego di "indagini sulla soddisfazione dei clienti", e la diffusione di questi strumenti presso i revisori interni. Il lavoro di sensibilizzazione sulla portata, sulle caratteristiche e sulle finalità della revisione interna era considerata essenziale. La ricerca aveva accertato una carenza di informazione e di fiducia. L'indagine ha dimostrato che le funzioni di revisione interna ottimali si stanno sempre più avvicinando al concetto più ampio di un servizio manageriale. Tuttavia, risulta anche evidente che molte funzioni di revisione interna sono tuttora di portata

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ridotta, e prevalentemente orientate agli aspetti contabili. In conclusione, si può dire che esiste un ampio margine per l'introduzione delle funzioni di revisione interna nelle charities di grandi dimensioni, anche se si riscontra ancora una certa resistenza. Tale resistenza è certamente legata ad una riluttanza a destinare risorse all'amministrazione. Perché il controllo interno possa essere introdotto e mantenuto con successo negli enti filantropici di beneficenza occorrerà dimostrarne l'utilità per dare valore aggiunto alle organizzazioni. © ManagerialAuditingJournal


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dossier

L'enigma del fisco europeo

L'aveva evocata già Schumpeter, agli inizi del secolo, nel suo saggio La crisi dello Stato fiscale. Gli ha fatto eco, da tutt'altra impostazione teorica, O'Connor nel 73, parlando di collasso fiscale dello Stato. Oggi, il dibattito sul ruolo dello Stato e del Governo, (europeo, nazionale, locale), ruota sempre sullo stesso perno: la crisi della fiscalità. Il coordinamento in un sistema omogeneo di regole del diritto di chiedere (e di prelevare) ai cittadini quanto necessario per la continuazione della vita democratica della comunità ha bisogno di soluzioni pratiche che sappiano mediare tra le due eterne rivali: equità ed efficienza. Altrimenti, come affermato proprio da O'Connor, si "genera una frattura strutturale tra richiesta di interventi pubblici e capacità pubblica difinanziare questi interventi, finché si determina una crisi fiscale strutturale". È questo lo squilibrio che abbiamo sotto gli occhi. Nel secondo periodo postbellico sono state create troppe posizioni di privilegio alfine di azzerare il conflitto sociale in Europa. Era il tempo, lo ricordano i sociologi, delle "aspettative crescenti". Le aspettative, come la domanda interna, non crescono più. Ed allora è inutile rispettare parametri rigidissimi fissati dalle autorità della moneta.

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Vi è una diffusa propensione a conferire all'Europa il compito di legittimare i sacrifici che i cittadini devono compiere non per stare "dentro ofliori"Maastricht, ma per rimanere "dentro o Jiuori" la civiltà occidentale, il mercato, le libertà democratiche. Lo si dica chiaramente, altrimenti si continueranno a perdere turni elettorali (ecco il perché di tante facce nuove sulla scena politica d'Europa) e ad intensificare una pericolosa tensione tra le masse: lo Stato sociale del dopoguerra non è più flnanziabile, con o senza Maastricht. Le sue conquiste in termini di civiltà e prosperità non possono e non devono essere cancellate. Il "chi paga?" è una domanda, per quanto sconveniente, ormai all'ordine del giorno. Ed il soggetto Stato non può essere il solo ente erogatore e finanziatore di tutto il sistema. Lo sarà l'Europa, da una parte, e l'Ente locale, dall'altra, secondo ilprinczpio di sussidiari età? È quello che cerchiamo di analizzare sulla nostra rivista. Lo abbiamo già fatto negli scorsi numeri (si veda, tra gli altri, l'articolo di Barbara Nepitelli, Il federalismo fiscale: tesi a confronto, "queste istituzioni" n. 105, 1996) e continuiamo con gli articoli di Antonio Di Majo, (che aveva già affiontato il tema su "queste istituzioni" con il saggio Una finanza pubblica federale per l'Europa, sul n. 98 del 1994), e di Enzo Russo. Il primo come compiuta rappresentazione dei rapporti fra livelli di governo della fiscalità. Sì, perché questa dovrà coordinare risorse tra Enti locali, autorità centrali e centri decisionali dell'Unione in modo di non alterare l'ottima allocazione delle stesse e il libero gioco della concorrenza. IVIa dovrà anche essere espressione di solidarietà e sostegno nei confronti delle zone dell'Europa più povere. Di Majo, appunto, espone la teorizzazione dei vari approcci sistematici per evitare che il giusto principio di sussidiarietà leda quelli di solidarietà e di equità che devono coesistere come base unitaria. Con l'articolo di Russo si entra, invece, nello specifico del caso italiano. A livello di amministrazione statale. Come dovrà essere organizzato il ministero delle Finanze al fine di permettere questa necessaria dinamica tra più livelli di governo? Quale professionalità dovrà assumere e chi comincerà a dare l'esempio? Domande reali, sui quali si gioca il vero frturo dell'Europa, che dzende sempre meno da un punto percentuale del PiI, e sempre più dalle domande e dalle idee innovative della società civile (quali lo sviluppo del non-profit), della dirigenza amministrativa e dell'imprenditoria e del mondo delle professioni. Saranno ricevute queste idee e questi bisogni ad Amsterdam, nel corso del Vertice dei Capi di Stato europei che dovrebbe fissare i principi del dopo-Maastricht? Nessuno per il momento ne parla, ci sembra.

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La tassazione delle imprese nelle politiche dell'Unione Europea di Antonio Di Majo *

La progressiva costruzione dell'unità europea, così come si è venuta realizzando in questa seconda metà del ventesimo secolo, ha finora incontrato particolari difficoltà nel campo dei tributi. Naturalmente, questo dipende anzitutto dalle inevitabili e "forti" implicazioni sulla sovranità di qualunque attribuzione del «power to tax ; anche altri processi di costruzione di esistenti realtà federali hanno attraversato difficoltà nella redistribuzione dei poteri tributari. A maggior ragione, questo vale per l'Unione europea in cui non è ancora visibile alcun embrione di "Stato federale". D'altro canto, non è immaginabile un trasferimento di sovranità tributaria a organismi non dotati dello stesso grado di legittimazione democratica dei parlamenti e dei governi dei singoli Stati membri dell'Unione. La diffidenza di questi nei confronti dell'Unione in materia tributaria, insieme alla intransigente difesa delle loro prerogative, ha comportato il mantenimento del principio dell'unanimità per le decisioni del

* Professore di Scienza delle Finanze, Università di Firenze.

Consiglio dei ministri europei nelle questioni fiscali. Inoltre, accordi unanimi sono resi difficili, anche per il solo coordinamento delle legislazioni nazionali, dai numerosi e spesso contrastanti interessi di diverse categorie di cittadini e di agenti economici. In realtà, la mera attuazione dei principi fondamentali del Trattato di Roma ha consentito progressi rilevanti nell'armonizzazione delle imposte indirette, in particolare per quanto concerne l'imposizione generale sulle vendite che, prima con l'adozione generalizzata dell'IvA e successivamente con l'avvicinamento degli imponibili e delle aliquote della stessa imposta, hanno portato tutti gli Stati membri a gestire un tributo di "concezione" europea. Anche nel campo delle accise, ossia delle imposte speciali sul consumo e sulla produzione, sono stati compiuti, negli ultimi anni, significativi passi verso un coordinamento, anche se non ancora paragonabile a quello dell'IvA. Sostanzialmente irrilevante, invece, il cammino compiuto in materia di imposte dirette (sul reddito e sul patrimonio). 113


LA FILOSOFIA DELL'ARMONIZZAZIONE DELLE IMPOSTE INDIRETFE

Il fondamento, per così dire "filosofico , dell armonizzazione delle imposte indirette si trova nel Trattato di Roma. 1obiettivo di questo accordo era l'Unione doganale prima e il mercato unico successivamente; per realizzare questi obiettivi era necessario abolire i dazi doganali tra i Paesi membri (processo compiuto nel 1968), abbattere le frontiere ed eliminare tutte le altre "barriere" al libero esercizio della concorrenza all'interno dell'Europa comunitaria. Il beneficio di questo processo è l'allocazione migliore possibile delle risorse, consentita dall'operare pieno della concorrenza. Tra le "barriere da rimuovere, per evitare che l'allocazione delle risorse sia determinata da convenienze diverse da quelle risultanti dal puro operare delle forze economiche, sono da annoverare quelle fiscali. L'attenzione è rivolta anzitutto alle merci scambiate e ai servizi e, attraverso tappe successive, si dovrebbe arrivare a rendere completamente "neutrali" le imposte indirette (per l'IvA il processo è quasi completato, per le accise è stato avviato). Non è stato possibile, o non è stato ritenuto rilevante (od opportuno), finora, affrontare il coordinamento del trattamento tributario dei rendimenti dei fattori di produzione, anche se la liberalizzazione dei movimenti di capitale (specialmente finanziario) sem-

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brava dover richiedere una preventiva armonizzazione del trattamento dei redditi del capitale finanziario. Inoltre, il trattato di Maastricht, com'è noto, ha avviato il passaggio all'adozione di una moneta unica nel territorio dell'Unione europea. Dal punto di vista dei tributi, questo Trattato ha posto le basi per una destabilizzazione della struttura tributaria dei Paesi membri; destabilizzazione in atto e recentemente enfatizzata dallo stesso Commissario UR responsabile per i problemi fiscali. La destabilizzazione, che trova fondamento generale nei processi di unificazione internazionale dei mercati finanziari, è rafforzata da due aspetti particolari del Trattato: a) il mantenimento, nello "spazio finanziario europeo", senza frontiere e controlli all'interno dell'UE, del trattamento tributario differenziato (più favorevole) per i residenti di Paesi membri diversi da quello di produzione del reddito; b) l'introduzione della moneta unica, con l'eliminazione, all'interno dell'Unione, dei rischi di cambio, che rappresentano pur sempre un limite all'operare degli arbitraggi basati sulle convenienze originate dai differenziali tributari. Le conseguenze delle caratteristiche di cui al punto a) sono pienamente operative: da più parti (comprese le autorità dell'Unione) si pone in rilievo la continua diminuzione del "peso" relativo della tassazione dei frutti dei ce-


spiti più mobili (i capitali finanziari, compresi quelli investiti nelle imprese) rispetto alle remunerazioni di quelli meno mobili (il lavoro, gli immobili). Questa tendenza rischia, quindi, di aggravarsi in futuro se si lascerà, in regime di moneta unica e di libertà di movimento dei capitali, alla competizione tributaria tra gli Stati il compito di fronteggiare gli "arbitraggi", con conseguente ulteriore diminuzione del prelievo sui cespiti "mobili". Processo che a sua volta può avere, in assenza di ulteriori coordinamenti europei, due esiti: a) la riduzione della spesa pubblica; b) lo spostamento ulteriore del "peso" tributario sul lavoro (e, forse, sui consumi), se, com'è probabile, l'alternativa precedente non è accettabile, almeno per dimensioni rilevanti. Del resto, come si dirà più avanti, significativi passi in questa direzione, e non per mezzo di processi di evasione ed elusione internazionale, ma attraverso un esplicito "tax design" sono stati compiuti in anni recenti dai Paesi scandinavi. I TENTATIVI DI ARMONIZZAZIONE DELLE IMPOSTE DIRETTE E IL DOCUMENTO MONTI

La storia dei tentativi di armonizzazione delle imposte dirette è, quindi, legata all'evoluzione più generale dell'integrazione europea. La creazione del mercato comune

comportava l'abolizione di così tante barriere che il problema degli ostacoli al libero operare della concorrenza provenienti dalle imposte dirette poteva considerarsi del tutto secondario, e in effetti, nessun accordo è maturato nei primi decenni di vita della comunità europea. Studi e progetti elaborati in sede comunitaria non hanno avuto alcun esito pratico, anche se si trattava di tentativi pregevoli dal punto di vista tecnico. Il primo di questi progetti fu messo a punto dal comitato Neumark nel 1963 (suggeriva un sistema armonizzato di imposte sulle società); successivamente, nel 1967, la Commissione della CEE avanzò una proposta di sistema comune di imposizione societaria. Nel 1971, il Comitato Vari den Tempel ripropone un sistema comune di tassazione dei redditi delle imprese. Questa fase si conclude nel 1975 con la proposta della Commissione della Cee di un sistema di imposizione societaria, con credito di imposta sui dividendi e aliquote comprese tra il 45 e il 55 per cento del reddito di impresa. Questa proposta di direttiva si ferma al Parlamento europeo, che sospende a tempo indeterminato l'esplicitazione del suo parere in attesa di una parallela proposta della stessa Commissione sull'avvicinamento degli imponibili (e non solo delle aliquote); ovviamente si tratta, in parte, di un pretesto per rimandare qualunque decisione. Nel frattempo, il procedere, anche se fati115


coso, dell'integrazione economica chiarisce che la "federalizzazione" dell'Europa è ancora molto lontana (ancora a tutt'oggi improbabile), mentre le prospettive di un mercato unico si fanno più concrete. In questo contesto, diventa più importante mettere ordine nel trattamento tributario dei movimenti trans-frontalieri dei capitali. Labolizione dei controlli dei movimenti di capitale diverrà, così, più facilmente accettabile da parte dei Paesi membri.

SEMPRE UNANIMITÀ PER IL Fisco

La Commissione Cee elabora, quindi, proposte di direttive in materia di tassazione di fusioni di imprese di differenti Paesi membri, di "prezzi di trasferimento" di imprese operanti in più Paesi, di rapporti tributari tra sedi principali e filiali di società site in diversi Paesi membri. In effetti, fino al 1990, nessun progresso concreto viene realizzato nell'armonizzazione delle imposte dirette, anche se le prospettive dell'integrazione stanno cambiando radicalmente. Con l'inizio degli anni Novanta, maturano gli accordi che portano al Trattato di Maastricht. Gli aspetti più rilevanti per l'imposizione dei redditi sono: a) l'esplicita possibilità, già ricordata, da parte di ogni Paese di riservare un trattamento diverso ai non residenti (anche se cittadini di un altro Paese membro) rispetto ai residenti; 116

la decisione di rimuovere gli ostacoli alla libertà di movimento dei fattori di produzione, fondamentalmente dei capitali, con l'abolizione delle frontiere "fisiche" interne all'Unione europea; il mantenimento del principio dell'unanimità sulle decisioni dell'Unione sulle questioni tributarie. La prospettiva vicina della liberalizzazione dei movimenti finanziari accelera la ricerca di qualche accordo sulla tassazione dei redditi di capitale e di impresa. Non mancano proposte di armonizzazione della tassazione degli interessi e degli altri frutti del capitale, ma apparentemente (o pretestuosamente) l'impossibilità di un accordo unanime si rivela il "solo" motivo della mancata approvazione di una direttiva in materia. L'unico tentativo organico di armonizzazione delle imposte societarie si era avuto nel 1975: il suo infelice accantonamento spinge la Commissione a istituire un Comitato di esperti indipendenti (provenienti da tutti i Paesi membri) per definire un progetto. Il comitato, presieduto da un ex-ministro olandese delle Finanze, Otto Ruding, nel 1992 presenta in un voluminoso rapporto le sue proposte. Le principali raccomandazioni, quelle di più immediata importanza, riguardano l'eliminazione della doppia imposizione dei flussi trans-frontalieri di reddito; quelle di rilevanza permanente riguardano la struttura dell'imposta


sulla società (con adozione generalizzata del credito di imposta sui dividendi). Anche questa proposta non ha avuto seguito, ma l'entità dei movimenti finanziari "cross-borders" ha costretto finalmente, nei primi anni Novanta, l'Unione ad adottare le tre direttive in materia di imposte dirette sulle società da tempo proposte e che concernono: a) la regolazione dei rapporti tributari tra società madri e figlie situate in Paesi membri diversi; b) le fusioni trans-frontaliere di imprese; c) le procedure di arbitrato nel "transfer pricing" delle multinazionali. A tutt'oggi, non si sono avuti altri progressi concreti e la preoccupazione per questa situazione è testimoniata dal "discussion paper" sulle questioni tributarie presentato dal Commissario UE, Mario Monti, alla riunione informale dei ministri finanziari circa un anno fa.

Il «tax planning" intracomunitario e il gettito Com'era prevedibile, l'abolizione delle frontiere (specialmente) finanziarie ha consentito un più intenso "tax planning" intracomunitario da parte delle imprese e degli altri operatori finanziari con conseguenze negative sul gettito incassato da diversi Paesi membri. Di fronte a questa situazione, la Commissione UE propone al Consiglio dei ministri l'adozione di provvedimenti di coordinamento tributario che evitino doppie tassazioni dei redditi conse-

guiti nell'Unione, ma anche consentano "adequate and effective taxation at least once" (Consiglio Ecofin del novembre 1992). Questo obiettivo, di semplice enunciazione, comporta in realtà la soluzione di numerosi problemi tecnici e soprattutto la composizione di molti interessi in conflitto. La crescente importanza dei differenziali tributari è paradossalmente dimostrata: a) dall'avvicinamento "spontaneo" delle strutture dell'imposizione diretta; b) dalla modifica nella composizione del gettito prelevato dai Paesi membri, con un peso sempre più lieve sui redditi di capitale e di impresa. Dal primo punto di vista, il confronto tra le aliquote dell'imposizione societana e la stessa struttura degli imponibili e dell'integrazione con l'imposizione del reddito delle persone fisiche mostra che nel corso degli anni Ottanta e Novanta si sono avuti rilevanti avvicinamenti (se si esclude il "caso" dei Paesi nordici, dove il sistema è stato profondamente innovato, come si vedrà più avanti, CER 1994 e Cnossen 1996). Sul punto b) è sufficiente far riferimento al "Tableau de bord" pubblicato nel 1996 dalla Direzione generale XXI della Commissione UE (E. Commission, 1996). Questa tendenza sembrerebbe, comunque, confermare la "forza" della concorrenza fiscale sui redditi di capitale tra i Paesi membri. 117


I CRITERI INTERNAZIONALI DI TASSAZIONE DEI REDDITI

Come si è detto, fino al Trattato di Maastricht (e, in pratica, anche oltre) la politica tributaria europea trovava il suo unico fondamento nella rimozione delle barriere al libero operare della concorrenza all'interno dell'intero territorio dell'Unione. Anche l'imposizione diretta può essere coinvolta in questo processo, specialmente per gli aspetti più connessi con la mobilità dei cespiti, ossia la tassazione dei frutti del capitale finanziario e dell'attività di impresa (principalmente societaria). La ricordata inefficacia dell'azione comunitaria trova rimedio, come si è ricordato, nella concorrenza fiscale (al ribasso), ma anche negli accordi bilaterali che mirano a regolare la tassazione dei flussi trans-frontalieri di reddito (accordi normalmente basati sull'apposito Modello OCSE di accordo fiscale). Per evitare che i rendimenti dei capitali investiti oltre le frontiere nazionali siano legalmente tassati due volte, la teoria e la pratica economica fanno idealmente ricorso a due diversi principi, conosciuti con le sigle CEN ("Capita1 Export Neutrality") e CIN ("Capital Import Neutrality"). Se si adotta il primo principio, i redditi sono tassati solo nel Paese di residenza del percettore, nel caso opposto, invece, i 118

redditi sono tassati solo nel Paese di produzione del reddito. La situazione pratica, anche se ci si limita all'area interna alla UE, non è così netta e i due principi spesso convivono, in soluzioni di compromesso. Il compromesso più generale raggiunto in sede OCSE prevede che "the source country is assigned the right to tax business profits earned by permanent establishments within its borders, income from immovable property and income from the provision of independent personal services. The source country also levy withholding taxes on dividends at a low rate as well as on interest at a rate not exceeding 10 per cent. By contrast, taxation of royalties, capital gains (except those arising from the sale of immovable property), the remainder of dividends and interest and pensions is assigned to the residence country. Insofar there is an overlap between the two jurisdictions, as in the case of dividend and interest payments, relief for double taxation is typically achieved by the residence country allowing a credit for taxes levied by the source country or exempting the income from taxation altogether" (Daly, 1997, p. 13). Il modello OCSE prevede anche lo scambio di informazioni tra le autorità fiscali dei vari Paesi per evitare evasioni, ma spesso si è trattato di buone intenzioni senza alcun seguito. Il ricordato Rapporto Ruding ave-


va auspicato che si seguisse la strada degli accordi bilaterali tra i Paesi membri dell'UE, nell'ambito di "guidelines generalmente condivise, e piu stringenti di quelle previste dal Modello OCSE ma, come si è detto, ci troviamo in una situazione di stallo. I singoli Paesi possono preferire, per varie ragioni, l'adesione a uno dei diversi principi di "neutralità" (ad esempio, per questioni di distribuzione internazionale del gettito) dei flussi trans-frontalieri di reddito; in pratica la competizione, interna all'UE, sull'attrazione dei capitali ha condotto a una sostanziale esenzione (di diritto o di fatto) dei frutti del capitale percepiti da soggetti non residenti, successivamente all'abolizione dei controlli dei movimenti di capitali, e in assenza di un accordo generalizzato sulla tassazione. Con il trattato di Maastricht è stato introdotto nella vita dell'Unione un principio aggiuntivo (rispetto a quello della "neutralità"), quello della "sussidiarietà", che, sotto certi aspetti, ha reso gli Stati membri ancor più guardinghi e "gelosi" della loro sovranità tributaria (ceduta, con la moneta unica, quella monetaria). La situazione attuale all'interno dell'Unione è piuttosto confusa: convivono una pluralità di trattamenti transfrontalieri difficilmente riconducibili a inequivocabili principi e, in ogni caso, con pluralità di aliquote (Di Majo, 1997) che consentono e, più ancora

consentiranno con l'attuazione della moneta unica, una miriade di "arbitraggi" che possono inficiare l'obiettivo fondamentale della "neutralità", ossia l'indirizzo delle risorse verso gli impieghi "economicamente" più redditizi, fondamento delle auspicate benefiche funzioni allocative della concorrenza, a meno di non arrivare all'annullamento della tassazione dei redditi di capitale. QUALE FUTURO PER LA TASSAZIONE DELLE IMPRESE NELL'UE?

È difficile prevedere le possibili linee di un accordo sul futuro della tassazione dei redditi in Europa, particolarmente per quella che ha un impatto immediato sulle imprese. I possibili conflitti di interesse non rendono agevole l'abbandono dello status quo che, come si è visto, significa però, l'accettazione delle modifiche imposte dalla concorrenza fiscale principalmente connessa con la mobilità dei capitali. Senza scendere in analisi dettagliate, a proposito dei conflitti di interesse, si può far riferimento a quelli più "nobili" tra chi pensa all'attuale Unione come una tappa intermedia verso un'Europa federale e, quindi, al fisco del futuro bilancio federale e chi, invece, ritiene che l'Unione doganale e il mercato unico siano, con la moneta unica (se sostenibile nell'ambito di una mera unione doganale), il punto di arrivo dell'integrazione europea. Rispetto a 119


queste due posizioni estreme, l'imposizione dei redditi di capitale e d'impresa viene vista da un lato come una delle future entrate "federali" (anche se eventualmente condivisa con i governi nazionali) e, quindi, assumono rilievo i problemi della transizione a un unico design" (da raggiungere attraverso progressivi avvicinamenti delle regole di definizione degli imponibili, ecc.). Se si assume l'altropunto di vista, invece, solo qualche ulteriore "avvicinamento e possibile (da raggiungere attraverso l'approvazione unanime, prevista dai Trattati), con particolare riguardo ai movimenti trans-frontalieri, in modo da rendere piu «correttJ e "fluido" il funzionamento del mercato unico. Questo è solo un esempio degli interessi in conflitto sul futuro del fisco europeo; altri se ne possono individuare, anche se ci si limita ai problemi dell"architettura" del sistema. Si pensi al "big business" (i cui interessi sembrano attualmente svolgere un ruolo preminente nella costruzione comunitaria in generale) e alle piccole e medie imprese; agli intermediari finanziari, che possono guardare con avversità a modifiche tributarie che indirizzino la struttura finanziaria delle imprese verso direzioni auspicate, invece, da parte di imprese industriali, e così via. In questo contesto, le proposte che vengono avanzate, in tema di armo120

nizzazione della tassazione dei redditi di capitale e di impresa (principalmente societaria), cercano di individuare le linee di minor resistenza a un'approvazione unanime da parte degli Stati membri, mantenendo necessariamente punti di vista in qualche misura particolari. La discussione di queste proposte, da parte degli economisti specializzati, serve almeno a chiarirne i meriti relativi, nel senso che vengono così esplicitati, di solito, i diversi giudizi di valore (ossia a quali degli interessi in conflitto si attribuisce maggior rilevanza). Come uscire da un mosaico confiso Il punto di partenza non può, ovviamente, non essere quello della situazione attuale: un mosaico di regole diverse di definizione degli imponibili, e di aliquote, che anche se si sono in qualche misura avvicinate nel tempo (a parte il caso dei Paesi scandinavi) consentono un sempre più limitato "governo" della situazione da parte dei singoli Paesi membri, oltre a causare una palese e crescente violazione del principio originario del Trattato di Roma: la neutralità. L'apparente lontananza (al momento) della prospettiva "federale" rende impossibile recepire le soluzioni dei grandi Stati federali come gli Stati Uniti e il Canada, anche se vengono raccolte alcune indicazioni. Il Rapporto Ruding (del 1992) aveva osservato che la concorrenza fiscale non è sufficiente a condurre gli Stati


membri ad un accettabile grado di avvicinamento e, quindi, un'esplicita attività da parte dell'Unione era necessaria. Questo punto di vista è stato ripreso pRi di recente dal Commissario alle questioni fiscali, Mario Monti, che nel ricordato documento (del 1996) ha fatto leva: a) sull'opportunità di evitare la tendenza all'esenzione dei redditi di capitale; b) sulla necessità di adattare le strutture tributane in modo da assicurare un funzionamento «fluido" (smooth) del mercato unico. Concretamente, l'obiettivo immediato è diventato quello di ottenere da ogni Stato membro l'indicazione di comportamenti tributari degli altri Stati membri ritenuti dannosi; questo all'interno di un gruppo di lavoro costituito dai rappresentanti personali dei ministri delle Finanze di tutti i Paesi membri dell'UE. I principi espliciti che la politica tributaria dell'UE dovrebbe seguire sono ancora quelli ricordati al tempo dell'istituzione del Comitato Ruding: neutralità, autonomia tributaria, indipendenza amministrativa, equa distribuzione degli imponibili (e, quindi, del gettito) tra i vari Paesi membri. L'ultima caratteristica si riferisce, ovviamente, all'esistenza di rilevanti movimenti transfrontalieri dei redditi. Il fulcro della possibilità di raggiungere un accordo europeo si trova principalmente nel "trade-off" tra i primi due principi: neutralità (ossia efficien-

za allocativa nell'ambito dell'intero territorio dell'Unione) e autonomia dei singoli Stati membri nel «disegno" dei tributi diretti. Le soluzioni proposte cercano, quindi, o di limitare gli accordi al trattamento dei flussi trans-frontalieri (scegliendo tra il principio del Paese di residenza del percettore e quello di produzione del reddito) in modo da realizzare la neutralità senza intaccare l'autonomia (ad esempio, Mc Lure, 1997) ovvero, invece, richiedono, all'altro estremo, una necessaria "cooperazione" nel disegno di strutture fiscali che assicurino la neutralità, ma che, pur rispettando il principio di sussidiarietà, comportino una qualche limitazione della sovranità tributaria dei Paesi membri (ad esempio, P. Musgrave, 1997). Tali diverse opinioni si sovrappongono alle discussioni, attualmente in atto in Europa e negli USA, sulla riforma della tradizionale forma di "corporation tax e del connesso trattamento dei frutti del capitale finanziario. ARMONIZZAZIONE E RIFORMA DEI TRIBUTI SULLE SOCIETÀ L'aspetto principale delle proposte di riforma è quello concernente il finanziamento dell'attività produttiva: volendo semplificare, la deducibilità degli interessi passivi dall'imponibile delle "corporation taxes" determina una preferenza per il debito (scoraggiando l'apporto di capitale proprio, o 121


di rischio) e, inoltre, a causa della diversità delle aliquote nei vari Paesi, viene favorita l'attività di elusione fiscale internazionale (attraverso rapporti di finanziamento tra imprese localizzate in Paesi diversi, privi di altra motivazione), solo in minima parte contrastata in alcuni Paesi da apposite norme (cosiddetta "thin capitalization"). Inoltre, oltre alla diversità delle aliquote e delle regole di definizione degli imponibili, anche la diversa regolamentazione dei rapporti tra la tassazione del reddito delle società e di quello spettante all'azionista rende sostanzialmente difformi i rendimenti netti dell'investimento nei vari Paesi e difficoltosa l'omogeneità di trattamento tra i residenti dei differenti Paesi membri dell'UE. Se si trascurano altre questioni di minore rilevanza, su cui un accordo è forse possibile senza incidere profondamente negli attuali sistemi (ad esempio, il riporto delle perdite delle società tra Paesi diversi), è principalmente per tali ragioni che le proposte di armonizzazione si accompagnano quasi sempre a proposte di riforma della tassazione del reddito delle imprese societarie, con le connesse implicazioni per il trattamento degli altri redditi di capitale.

Tassazione globale o separata per tipi di reddito? Da questo punto di vista, va anzitutto rilevato che le proposte di riforma si

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possono distinguere a seconda che mantengano o meno il principio della tassazione del reddito globale del contribuente ovvero, perchè si ritiene tale principio impraticabile o non condivisibile, si preferisce passare a una tassazione separata dei vari tipi di reddito. Incidentalmente, si può osservare che il sistema tributario adottato in Italia con la riforma dei primi anni Settanta condivide ambedue gli orientamenti; si stabilisce il principio della tassazione globale del reddito (prodotto), ma si prevedono fin dall'inizio numerose forme di tassazione sostitutiva , principalmente per i redditi di capitale (interessi, ecc.). Le proposte di riforma del primo tipo attualmente in discussione sono sostanzialmente riconducibili: alla tassazione del "cash-flow" delle imprese, inizialmente prevista nel 1977 in Gran Bretagna da una Commissione di riforma delle imposte (Meade 1977); all"Allowance for corporate equity" (AcE), proposta all'inizio degli anni Novanta dall"Institute for fiscal studies" di Londra (IFs 1991). Senza entrare in particolari tecnici, ampiamente trattati nella letteratura di Scienza delle Finanze, in entrambi i casi si mira ad eliminare il trattamento privilegiato del rendimento dell'indebitamento: nel primo caso, escludendo la deducibilità degli interessi passivi dall'imponibile (ma ammettendo quella dell'intera spesa di investimen-


to), all'interno di un sistema che può (ma non necessariamente) comportare il passaggio complessivo delle imposte dirette al criterio della tassazione della spesa (al posto del reddito prodotto). Nel secondo caso, si manterrebbe l'impianto essenziale del sistema delle imposte dirette, aggiungendo, a fianco di quella degli interessi passivi, la deducibilità di un rendimento "normale" e figurativo del capitale proprio investito nell'impresa. Le proposte che, invece, prevedono una tassazione separata, ma omogenea, del reddito dell'investimento del capitale sono: la Comprehensive Business Income Tax" (CBIT), proposta dal Tesoro americano nel 1992; la "Dual Income Tax" (DIT), introdotta nei Paesi scandinavi nei primi anni Novanta. Secondo la prima proposta, verrebbe eliminata la deducibilità degli interessi dal reddito imponibile delle imprese; i dividendi non verrebbero tassati presso il percettore, e neppure gli interessi. La tassazione avverrebbe per entrambi con un'aliquota fissa (la proposta del Tesoro americano era del 31%) e i redditi di capitale (anche quelli connessi con l'utilizzo di strumenti finanziari cosiddetti "derivati") pagati dalle imprese non sarebbero inclusi nel reddito complessivo dei percettori persone fisiche, assoggettato ad imposta personale progressiva.

Caratteristiche in parte simili presenta la "Dual Income Tax": il reddito di capitale (e dell'impresa societaria) è soggetto a imposta proporzionale. A livello di impresa, gli interessi rimangono deducibili, ma la società effettua una ritenuta liberatoria (attualmente intorno al 30%) per conto del percettore, al momento del pagamento degli interessi. I dividendi, invece, sono (in generale, perchè esistono casi particolari su cui qui si sorvola) esenti da ritenuta, in quanto già assoggettati al prelievo sul reddito della società. Il reddito da lavoro (incluso quello dell'imprenditore delle società di persone o individuali, non riconducibile all'investimento del capitale) è aggregato, invece, nell'imponibile assoggettato a progressività; l'aliquota della ritenuta sui redditi di capitale coincide con (o si avvicina a) quella iniziale della scala di progressività dell'imposizione personale sul reddito (ad esempio, in Svezia la prima è pari al 30% e la scala della progressività va dal 31 al 51%). Per inciso, la riforma attuata a fine 1996 in Italia con legge delega (non sono ancora stati definiti i decreti delegati) si ispira esplicitamente alla "DIT", ma in realtà, per quanto concerne le società di capitali, si tratta di un compromesso tra "DIT" e "AcE". Non è questa la sede per un approfondita discussione delle caratteristiche di queste forme di tassazione, perchè se ne discute nell'ambito della ricerca della possibilità di un accordo euro123


peo sul trattamento tributario delle imprese. UNA PROPOSTA DI ARMONIZZAZIONE COMPATIBILE CON IL PRINCIPIO DI SUSSIDARIETÀ Come si è recentemente osservato, il gettito della tassazione basata sui principio della residenza (nei rapporti internazionali) ha subito una costante erosione. La tassazione del reddito delle società che, invece, rispetta il fondamentale principio del prelievo nel Paese di produzione (anche se integrato e compensato attraverso crediti di imposta all'estero), ha salvaguardato finora in certa misura il suo gettito. Per gli altri redditi di capitale: "Una potente combinazione di deducibilità degli interessi nominali, alta inflazione, arbitraggi fiscali, innovazione finanziaria e evasione fiscale internazionale, regolata da un principio di residenza virtualmente inapplicabile, è servita a creare difficoltà pressoché insuperabili che seriamente minacciano la sopravvivenza della tassazione dei redditi di capitale, inclusa l'imposizione delle società, all'interno della cornice della tassazione globale del reddito" (Head, 1997, p. 90). Questo spiega, come si è visto, le tendenze a rifugiarsi nella tassazione separata delle varie fonti di reddito. Ma affinchè queste proposte servano a trovare un accordo europeo, è necessario regolarne l'applicazione trans-fron124

taliera in maniera accettabile da parte di tutti i Paesi membri dell'UE. A questo scopo è rivolta la proposta recentemente avanzata da S. Cnossen (Cnossen, 1996). Questi cerca una via per rispettare i principi di neutralità (Trattato di Roma) e di sussidarietà (Trattato di Maastricht) nella tassazione, evitando le tendenze all'annullamento dell'imposizione dei redditi di capitale. La "neutralità" della tassazione delle imprese va realizzata, in particolare, evitando distorsioni nelle scelte di finanziamento e di forma legale dell'impresa (società di capitali, di persone, ecc.) all'interno stesso degli stati membn, per evitare che queste "non neutralita esplichino i loro effetti anche attraverso i rapporti trans-frontalieri. La sussidarieta , in campo tributario, comporta, almeno per ora, che la politica tributaria sia lasciata ai Paesi membri "ma gli Stati sono obbligati a considerare gli effetti delle loro azioni sugli altri Stati membri" (Cnossen, 1996, p. 77). In altri termini, "mentre la neutralità tributaria richiede un consistente grado di coordinamento, la sussidarietà, per contro, implica che a ciascuno Stato membro sia concessa tutta l'indipendenza compatibile con gli obiettivi del libero commercio e della libera concorrenza all'interno del mercato unico" (idem), con il vincolo, aggiungiamo noi, del mantenimento di certi livelli di gettito.


La regola del gioco tributario Ciò detto, come possono aiutare questi due principi a cercare concretamente un coordinamento tributario nella UE? Secondo Cnossen, la sussidarietà deve comportare una cooperazione tra gli Stati membri nella fissazione delle regole del gioco tributario (tra cui la trasparenza), ma allo stesso tempo deve consentire un'ampia autonomia di gestione che eviti ad esempio, scambi quotidiani di informazioni, controlli trans-frontalieri, ecc. tra le singole amministrazioni. In sintesi, la sussidarietà, secondo Cnossen, comporta che "bisogna cedere sovranità tributaria nel fissare le regole in modo da consentire una maggiore indipendenza fiscale nell'amministrazione ditali regole (idem). La combinazione di queste opinioni sui principi di neutralità e sussidarietà, consente di definire alcuni criteri "ottimali" (anche rispetto al trattamento dei redditi trans-frontalieri) del "tax design" delle imposte sui redditi delle imprese nell'UE: maggiore uniformità nel trattamento effettivo dei rendimenti dei diversi strumenti di finanziamento; maggiore uniformità nel trattamento effettivo dei redditi degli investitori interni e degli investitori esteri; minimizzazione delle potenzialità di evasione ed elusione, e dei costi di adempimento dei tributi concernenti le imprese; a attribuzione dell'imposizione dei

dividendi, dei guadagni di capitale e degli interessi allo Stato di produzione del reddito (principio della fonte o CIN), invece che allo Stato di residenza del percettore (principio della residenza o CEN). L'ultimo punto è quello sicuramente più discutibile sia dai teorici della Scienza delle Finanze, sia dai portatori di vari interessi pratici. Il rispetto di consolidati principi di equità tributaria, elaborati principalmente con riferimento a economie chiuse, vorrebbe che tutti i redditi affluissero nell'imponibile per essere poi, con varie modalità, assoggettati ad imposizione progressiva. La realtà attuale, per contro, mostra che in economie aperte, e con il grado di integrazione dell'UE, l'alternativa non sembra di fatto quella della scelta del Paese in cui tassare, ma piuttosto quella tra tassare nel Paese di produzione o non tassare per nulla, con le conseguenze più volte ricordate. Senza voler approfondire molti aspetti tecnici particolarmente interessanti, va ricordato che, tra le varie possibili alternative compatibili con i principi enunciati, Cnossen sceglie l'adozione generalizzata della "Dual Income Tax" in tutti i Paesi membri dell'UE. Anzittutto perché permette, per sua natura, di basarsi sul principio del Paese fonte del reddito: gli interessi, i dividendi, ecc. corrisposti da qualunque impresa sarebbero assoggettati alla ritenuta 125


(uniforme) indipFndeneITiente dalla nazionaIità1 dl peiceore, ; C .questa. ritenutanon dovrebbeessere fatta valere corneaccpntodi 4 impostedovute dai percettorj nei t loro: Paesi j 4i,, residenza. Per evitare ampie possibiltà)di arbiraggio(per? esempo spostandolesdi legali delle società), si riconosce, co munque, 1 la necessità4i ;unLaccor.o sulla ? misura di) un'aliquota 1 minima dell'i,iiposon . societaria (ad, esem pio, il 30%) e ; di quella1 4e1!aritenuta sui redditi,di capitale (in ,Syezia,an ch'ssa : deL3,Q%). La 4 pogresiv.it dell'imppsizione pelsonale sul reddito potrebbessere mantenuta sui redditi da lavoro, (in. Svezia le aliquote vanno dal 31 al 51%) ovvero abbandonata, ma questo sarebbe una scelta dei singoli Stati membri, in base al principio di sussidarietà. Certamente l'adozione della "Dl Inome Tax" europea, come la propo ne Cnossen, può rappresentare una uscita dall'alternativa: tassazione zero dei redditi di capitale e impresa ovvero rinuncia allo spazio finanziario europeo (ormai, realizzato) e, possibilmente, alla moneta unica con gravi pericoli per, il proseguimento dell'integrazione europea. Dal punto di vista dell'architettura tributaria, si tratta di un tributo già in vigore nei Paesi scandinavi; il nostro Paese, inoltre, può ritenersi un "precursore" della tassazione separata dei redditi di,capitale, avendo introdotto - come si è detto - tassazioni sostitutive dei frutti 126

del capitale finanziario già all'inizio degli anni Settanta. Gli aspetti di difficile accettazione, in alcuni Paesi membri, dovrebbero rigua'rdare l'apjlicaòne dèlla pogressività'i soli redditi da lavrò e, per altri, la rinunci ai vantaggi derivanti dagli innti capitali attatti'dai differenziali iibiitai Iriòltre, la DIT 'compoita la ,, . spaccatura dei redditi degli imprenditori iidividuali (e delle società di pèrone) tra quello definibik come frutto del capitale investito nell impresa (sggetto alla' riteuta proor1onaIr lé) ' quelo attribiiibile al lavoro dell'ii1prhditore (che subisce l'imposizione progresiva). Questa ripartizione richiede l'adozione di criteri convenzionali, la cui applicazione può avveniresolo in presenza di un'amministrazione tributaria efficiente e corretta. Un altro tipo di problemi, da affrontare e risolvere in ogni caso, si pone nei rapporti con gli Stati exta-UE, con i quali si dovrebbe negoziare l'adozione dello stesso principio valido all'interno UE (nel caso, la tassazione nel Paese fonte del reddito). Da questo punto di vista sembra diffondersi, anche per contesti più ampi dell'UE, 1 idea che i problemi posti ai sistemi di tassazione del reddito di capitale in ambito internazionale, suggeriscono una forte raccomandazione a favore di imposte sostitutive, alternative ai sistemi di tassazione globale del reddito' (Head, 1997, p. 96).


LE DIVERSITÀ DI AMMINISTRAZIONE DEI TRIBUTI Non ci sembra proficuo limitare le discussioni alle sole questioni concernenti il "tax design", ma bisogna occuparsi dell'Amministrazione del fisco. La scarsa considerazione di questo aspetto impedisce spesso una corretta individuazione del complesso delle alternative di politica tributaria, dovendo essere i diversi "pacchetti" definiti dall'insieme del "tax design" e della tax administration La questione dell'amministrazione dei tributi (intesa in senso lato) presenta profonde connessioni con la riforma e l'armonizzazione delle imposte nell'UE. Anche se ci limitiamo a considerare la neutralità e il rispetto del principio di sussidarietà nelle politiche tnbutarie europee, le disparità di gestione dei tributi nei diversi Paesi membri rischiano di compromettere il raggiungimento di un accordo europeo e di distorcerne gli effetti, nella eventuale fase di attuazione. La conferma dell'importanza delle diversità di funzionamento dei sistemi tributari viene da un recente studio del Fondo Monetario Internazionale (Silvani eBaer, 1997) che ha valutato, in chiave comparativa, le differenze di "performance". Differenze che risultano molto forti anche tra i Paesi dell'UE. È evidente che l'esistenza di diverse possibilità di evasione e di elusione dei tributi può rendere inaccettabile la ni-

cerca della "neutralità", anche dal punto di vista delle semplici norme giuridiche. D'altro canto, le differenze nel "tax enforcement" non nascono oggi, ed è quindi presumibile che gli interessi che premono per il mantenimento dello status quo siano particolarmente potenti, all'interno dei singoli Paesi membri, ma anche attraverso le frontiere interne all'Unione europea. Per quanto riguarda le normative che possono facilitare un avvicinamento dell'amministrazione dei tributi, vanno ricordate quelle che regolano la contabilità delle imprese, ancora molto diverse nonostante alcuni progressi siano stati compiuti nel campo della redazione dei bilanci. Particolare rilevanza, assume la disciplina (formale e sostanziale) dei controlli sulla corretta applicazione delle regole contabili (comunque da avvicinare). Invocare la sussidarietà può, in questo campo, essere un alibi potente per vanificare la ricerca di un assetto neutrale della tassazione dei frutti delle imprese e del capitale; probabilmente in molti Paesi, come osserva il ricordato studio del FMI, "modifiche legislative sono spesso richieste per introdurre standard contabili moderni" (Silvani e Baer, 1997, p. 13) e, si può aggiungere per quanto riguarda i Paesi dell'UE, per concordare standard minimi comuni. Inoltre, qualunque accordo europeo basato sulla c000perazione delle amministrazioni dei Paesi membriin materia di scambio di informazioni (co127


me auspicato, ad esempio, da P. Musgrave, 1997) può essere reso inefficace se alcune amministrazioni non sono in grado (per inefficienza ovvero per mancanza di volontà) di raccogliere i dati richiesti. Le disparità nel "tax enforcement" possono quindi rappresentare un ostacolo insuperabile a un accordo europeo (con il pretestuoso ricorso alla salvaguardia della sussidiarietà da parte degli interessi contrari all'armonizzazione delle imposte). Di fronte alla difficoltà di realizzare un'armonizzazione della "tax administration" si è provocatoriamente suggerito (McLure e Weiner, 1997, p. 44) di affidare la gestione amministrativa dei tributi sul reddito delle società a un organismo centrale europeo. Si tratta di una proposta di difficile attuazione, vista la connessa "carica" di federalismo, che potrebbe, in ogni caso, essere vista come l'inevitabile premessa dell'istituzione di un tributo "federale" europeo sul reddito delle società. A meno di una spinta politica a forte contenuto innovativo, un migliore assetto «europeJ della tassazione dei frutti del capitale e delle imprese va cercato attraverso la difficile individuazione, anche nel campo amministrativo, di standard minimi accettabili da parte di tutti i Paesi membri. Perché questi minimi non siano altro che lo status quo, ma comportino standard minimi comuni di performance si devono immaginare regole 128

comuni di amministrazione, come ad esempio la formazione comune del personale impegnato nel controllo tributario delle imprese e dei capitali, l'individuazione di trattamenti economici minimi dei funzionari delle Amministrazioni dei tributi, ecc. D'altro canto, come si è visto, anche le proposte meno vincolistiche di armonizzazione del "disegno" dei tributi (come quella ricordata di Cnossen) richiedono accordi sui livelli minimi delle ritenute di imposta. È probabile che l'accettazione di tributi ad accertamento relativamente semplice, come la "Dual Income Tax", non possa prescindere, per ottenere l'accordo (unanime) dei Paesi membri, da un avvicinamento dell'efficacia del "Tax enforcement". Qualunque accordo sui "tax design" potrebbe, infatti, essere reso reversibile dalla forza degli intèressi lesi dalla diversa efficacia delle amministrazioni tributarie. COME USCIRE DALLINCONTROLLABILE CONCORRENZA TRIBUTARIA FRA STATI?

La crescente mobilità dei capitali, connessa solo in parte con la rimozione degli ostacoli legali ai movimenti finanziari, erode progressivamente l'imposizione dei frutti del capitale. La stessa Commissione dell'Unione europea ha espresso timori per il futuro sviluppo dell'integrazione nel caso di prosecuzione nell'attuale situazione di incontrollabile concorrenza tributa-


ria tra gli Stati membri. D'altro canto, la ricerca di un accordo di armonizzazione dei tributi sul reddito non sembra possibile se non si abbandonano, secondo l'opinione di molti economisti, sia la tassazione globale del reddito del contribuente (con il conn.esso carattere progressivo del prelievo tributario) sia il principio del Paese di residenza nella tassazione dei redditi transfrontalieri. La prospettiva di una "federalizzazione" dei tributi europei sembra molto lontana (anche per la stessa IvA), e il principio dell'unanimità nelle decisioni dell'UE a carattere tributario non pare attualmente in discussione. È, quindi, necessario cercare un accordo tendente a un minimo di armonizzazione che consenta di conciliare i principi di neutralità e di sussidarietà. L'opinione prevalente tra gli economisti è che questo possa avvenire basandosi su tassazioni separate dei frutti del capitale e del reddito delle imprese societarie (sulla scia della Dual Income Ta)e" dei Paesi scandinavi), con ritenute minime concordate tra i Paesi membri dell'UE. Naturalmente sarebbe auspicabile qualche coordinamento anche con i Paesi terzi (principalmen-

te USA e Giappone, oltre ai famigerati paradisi fiscali). L'opinione di chi rifiuta un abbandono generalizzato del principio della tassazione progressiva del reddito globale del contribuente si basa sulle possibilità offerte dall'informatizzazione dei movimenti finanziari e dalle anagrafi tributarie che potrebbero consentire efficaci scambi di informazioni tra Paesi diversi. In realtà, questa cooperazione si è finora dimostrata di difficile realizzazione, sia per la scarsa volontà delle autorità dei vari Paesi, sia, in qualche caso, per l'inefficienza delle amministrazioni tributarie. Anche se si prescinde dalle diverse preferenze per possibili accordi di armonizzazione a livello di "tax design", il differente "modus operandi" delle Amministrazioni tributarie può costituire un ulteriore ostacolo sia nella ricerca di un accordo sia per la sua efficace attuazione. Un avvicinamento nelle caratteristiche sostanziali del "tax enforcement" nei vari Paesi dell'UE può diventare la premessa indispensabile per un'armonizzazione europea della disciplina tributaria del reddito dei capitali e delle imprese.

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-Per il federalismo fiscale ricostruire ex novo il'niinistero delle Finahz. ;gjfjU

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diEnzo Russo *

In un convegno alla Luiss del giugno 1995, organizzato dall'allora ministro delle Finanze Gallo, si è approfondita la proposta di costituire una speciale agenzia per l'accertamento, al, fine di superare lostacolo - dai proponenti ritenuto insuperabile - di un'amministrazione finanziaria inefficiente ed inefficace nella lotta all'evasione fiscale. L'argomentazione fondamentale a favore di tale tesi è che la tradizionale struttura burocratica mal si presta ad assolvere il compito sempre più complesso dell'accertamento, che deve inseguire realtà economiche sempre più dinamiche. Occorre premettere che la legge delega di riforma dell'amministrazione finanziaria n. 358/1991, arrivata venti anni dopo quella tributaria, nel frattempo è stata attuata negli organi centrali e intermedi ma resta al palo per quanto riguarda la sua struttura fondamentale: l'ufficio periferico. Alcuni esperti non condividono l'impianto di tale legge, specie in relazione al modello unico di ufficio delle en-

* Professore di Scienza delle Finanze, Università La Sapienza, Roma.

trate; le ,t ecn ostruttureministeriali sembrano ancora convinte della' sua validità ma mentre neauspicanol'attuazione più rapida nonsono in grado di realizzare uh minimo di mobilità orizzontale del 1personale, nonostante la riforma dellà diigenza e del pubblico 'impiego nelfrattempo.intervenuta.' Anche i proponentidell'agenzia tra scurano che in seguito ai ,dlgs. nn. 29, 470 e 54611993 e alla leggen. 537/1993, che .incorpòrano moderni criteri di management per obiettivi e soprattutto disciplinano più compiutamente la distinzione tra responsabilità di indirizzo politico e digestione amministrativa,, tutta la PA, italiana, e non soltanto il ministero delle Finan ze si trovano in una delicatissima fase di transizione. Le leggi di-riforma varate sono sostanzialmente buone ma sono ancora attuate soltanto in piccola parte. . Si tratta, comunque, di riforme parziali e limitate che si inseriscono in un sostrato di norme e regolamenti rispondenti al tradizionale modello am 7 ministrativo. Si viene a determinare quindi un difficile connubio tra principi nuovi e regole vecchie dove, anco131


ra, di fatto, prevalgono queste ultime. Le ragioni sono note: ci sono resistenze, o comunque inerzie e soprattutto manca una cultura manageriale nell'alta dirigenza, per lo più formatasi sui vecchi schemi di una certa cultura giuridico amministrativa, abituata a "galleggiare con ministri di qualsiasi colore politico, pronta a servirli in cambio di protezione e coperture politiche. A complicare la situazione concorre la delicata crisi politica e costituzionale che sta attraversando il Paese che, ormai da cinque anni, per un motivo o per un altro, non è guidato da governi nel pieno dei loro poteri. Ne consegue che la chiara - anche se non omogenea - spinta verso l'obiettivo della modernizzazione della PA che si era manifestata nel periodo 1992-94 con i governi Amato e Ciampi, si stemperi, anche quando riconfermata, nel pro lungarsi del tempo. Di tale situazione, in qualche modo, ha "approfittato" la dirigenza che teme il nuovo. Ora se questo è vero, è chiaro che prospettare agenzie private o forme organizzative pubbliche dotate di maggiore autonomia, introduce varianti inopportune alla strategia implicita nelle citate leggi; rischia di ritardare il processo complessivo; concede spazi di manovra a chi non vuole attuare 1e riforme. Del resto, i proponenti sempre più numerosi di agenzie, authority, enti pubblici strumentali e quant'altro non spiegano come, d'improvviso, in una 132

palude di inefficienze, possano nascere organismi nuovi dotati di personale migliore ed in tutto efficienti. Non spiegano come si possano ottenere isole felici di efficienza senza ammodernare tutto il resto, senza riflettere attentamente sui modelli di ufficio, sull'organizzazione del lavoro, sui sistemi incentivanti, sulla formazione permanente del personale, e così via. Non tengono conto che nelle strutture amministrative non bastano da soli computer e attrezzature più moderne o alti salari. Servono anche e soprattutto elementi immateriali quali: alta qualità del management, relazioni mane diverse, motivazioni forti, etica della responsabilità, senso della giustizia, spirito di corpo, prestigio, autorità morale. Non ultimo, - se si considera la concatenazione che non di rado si viene a determinare tra complessità delle leggi, applicazione delle medesime, inefficienza del contenzioso tributario e, più in generale, del meccanismo giudiziario civile e penale e le difficoltà dei controlli, in presenza anche di un grosso settore di economia sommersa - si capisce come tali elementi possano minare l'efficienza non solo dell'apparato pubblico ma anche di quello privato; in un simile contesto si ritiene che la privatizzazione non possa funzionare. Tornando al nostro tema, diciamo allora che il corretto accertamento delle imposte è grossa parte dell'ammini-


strazione della giustizia economica e che presenta problematiche del tutto simili all'amministrazione della giustizia. E, allora, come non si può pensare di risolvere il problema della giustizia penale con la privatizzazione della polizia, dei giudici e delle carceri, così non si può pensare di risolvere i problemi della perequazione tributaria "privatizzando" l'accertamento delle imposte. Un conto è privatizzare alcuni servizi ed un altro è privatizzare le frnzioni. FEDERALISMO E REINVENZIONE DEL GOVERNO

Su questi due argomenti che si intrecciano tra loro non sono infrequenti gli equivoci e i fraintendimenti. L'idea della reinvenzione del governo è stata lucidamente prospettata nel libro di Osborne D. e Gaebler T. (1992). Si tratta di un "modello di governo" venuto alla luce per soddisfare le necessità dell'era informatica. Tale modello viene contrapposto a quello burocratico ritenuto, per alcuni aspetti, un sottoprodotto della rivoluzione industriale. Il modello burocratico-amministrativo, come noto, si ispira alla imparzialità, alla garanzia dei diritti e degli interessi del cittadino, alle regole, alla trasparenza del procedimento. La gestione del nuovo modello, invece, è ispirata ai risultati, alla massima soddisfazione dell'utente, ad un ma-

nagement economico di tipo globale, alla ricerca della cosiddetta "qualità totale", all'introduzione di momenti di concorrenza nei servizi pubblici, al management per obiettivi, alla responsabilizzazione dei dirigenti, ecc.. Linstaurazione di "mercati interni" alla pubblica amministrazione è il modello estremo. Esso prevede la generalizzazione del metodo delle aste, la brevità delle concessioni, alti costi di transazione. Fattori tutti che ne rendono poco realistica l'applicazione concreta. Si può esemplificare nella realtà italiana il caso dei tre corpi (i carabinieri, la polizia di Stato e la Guardia di finanza) che si occupano di ordine pubblico. La concorrenza che dovrebbe esserci tra di loro non riduce lo spazio che nel Paese ha la criminalità economica organizzata. Posso ricordare come il metodo delle aste generalizzato sia oggettivamente di difficile implementazione nel caso dell'anagrafe tributaria e delle sionarie della riscossione. Non è realisticamente pensabile che le concessionane possano essere facilmente sostituite da altre dopo che abbiano effettuato consistenti investimenti per migliorare il servizio. Ma immobilizzi ed ammortamenti a parte è cruciale il fatto - dice William Stewart - che il management e tanto importante quanto il denaro per ottenere una pubblica amministrazione di elevata qualità". A detta dello stesso Stewart, i fautori della reinvenzione 133


del governo mostrano scarsa dimestichezza con i concetti fondamentali del federalismo. Non sono molto interessati al ruolo che i responsabili dei diversi livelli di governo devono svolgere nel perseguire le diverse funzioni-obiettivo, più o meno distinte ed autonome. Sono più interessati alla riforma amministrativa tout court in quanto l'eccessiva preoccupazione per gli attori dei vari livelli di governo, non di rado, è andata a scapito degli interessi degli utenti. Tuttavia, è chiaro che le problematiche dell'efficienza e della qualità totale interessano qualsiasi struttura amministrativa e di governo e che l'efficienza delle procedure che attuano le relazioni tra i diversi livelli di governo è essenziale per meglio soddisfare gli interessi degli utenti. Federalismo e reinvenzione del governo hanno più di una caratteristica in comune: entrambi gli approcci vogliono lo spostamento del potere verso il basso in linea con il principio di sussidiarietà; entrambi gli approcci sono contro i poteri delle burocrazie centralizzate e gerarchiche. A ciò va riportata la differenza di approccio amministrativo e approccio manageriale. FEDERALISMO E PROBLEMA AMMINISTRATIVO IN ITALIA

Ci sono almeno due aspetti a cui guardare. Il primo riguarda la pluralità degli at134

tori ai vari livelli di governo: certo "una pluralità di governi può creare problemi di coordinamento, duplicazione degli sforzi, proliferazione dei rapporti, verifiche, ispezioni e regolamenti". In Italia siamo in presenza di una vera e propria polverizzazione degli enti locali (8.103 Comuni, oltre 100 Province, 20 Regioni). I Comuni sono quasi sempre troppo piccoli; il 58% di essi ha popolazione inferiore a 3 mila abitanti; non hanno strutture idonee ad affrontare efficacemente i problemi; c'è, quindi, una ineludibile esigenza di accorpamento. Chi deve affrontare questa problematica? La lasciamo al governo centrale? L'affidiamo alle Regioni? La lasciamo all'iniziativa autonoma degli enti locali? Le Regioni meridionali non hanno la capacità amministrativa per gestire i tributi propri che richiedono complesse attività di accertamento, riscossione, gestione del contenzioso; ci sono già due associazioni di imprese che si occupano di accertamento e riscossione dei tributi degli enti locali; c'è il consorzio nazionale dei concessionari della riscossione che offre di svolgere molte di queste funzioni per conto delle Regioni e degli enti locali: ma è questa vera autonomia impositiva? Se si accetta questa linea non si rischia di ricadere nella situazione pre-riforma 1971-73, quando buona parte del gettito degli enti locali, specialmente nelle Regioni meridionali, veniva fagocitato dagli esattori?


La Regione Emilia-Romagna propone che solo Irpef, Irpeg ed Iva restino a livello federale e che tutte le altre imposte siano attribuite alle Regioni e agli enti locali. Se questa proposta non priva di fondamento dovesse andare avanti - ed io auspico che vada avanti - ci sono grossi problemi da affrontare. C'è un problema immane di mobilità del personale dal ministero delle Finanze alle Regioni e agli enti locali. Ma questo passaggio deve avvenire a parità di remunerazione o deve essere incentivato? In ogni caso, il ministero delle Finanze non può mantenere il personale di cui dispone attualmente. Non è, per altro verso, pensabile che le Regioni si dotino di personale assunto totalmente ex novo; da dove lo prendono? Che cosa significa la fase di transizione e di avviamento delle nuove strutture? Ed ancora, c'è una seconda considerazione: la riforma dell'amministrazione finanziaria, per quanto riguarda l'ufficio unico periferico, è ferma al palo ormai da cinque anni. Il modello pensato venti anni fa è ancora valido? Bisogna rivederlo? Certamente si. Le ragioni della mia opposizione a tale modello sono presto dette: il modello unico è la negazione della specializzazione e senza questa non si aumenta la produttività. A sostegno della mia tesi vi sono Tanzi e Pellechio, che illustrano le esperienze positive di tanti Paesi che hanno creato degli organismi spe-

cializzati per il controllo dei contribuenti più grossi. Su questo c'è qualche segnale di ripensamento da parte della dirigenza dello stesso ministero delle Finanze ma ancora non sappiamo cosa ne pensa il nuovo ministro. Nelle sue dichiarazioni, rese davanti alla commissione finanze di Montecitorio, Visco non ha detto niente in proposito; so che bisogna dargli del tempo ma di tempo ne abbiamo poco'. Più in generale, "questo modello amministrativo è funzione di un determinato rapporto tra centro e periferia, sicché ogni tentativo di agire sulla seconda senza toccare il primo è destinato al fallimento. L'esperienza deludente della regionalizzazione degli anni Settanta costituisce la più evidente controprova di quanto appena affermato" (Cammelli, 1996). Vogliamo ripetere negli anni Novanta l'esperienza negativa degli anni Settanta? "I principi intorno ai quali ripensare per intero all'amministrazione pubblica in un'ipotesi a forte decentramento istituzionale, sono già stati in più occasioni tratteggiati. Si tratterebbe di un sistema ricostruito dal basso e in funzione delle autonomie, che lascia ai livelli superiori (e al pubblico) ciò che non può utilmente essere esercitato in sede periferica (e in ambito privato), che affida prevalentemente alla collaborazione al centro tra le Regioni la soddisfazione delle esigenze e degli in135


teressi indivisibili (ivi compresi quelli perequativi tra zone e zone del Paese), che lascia allo Stato funzioni limitate (ancorché fondamentali) e limita a quest'ultime le sue funzioni dirette. Dunque: un centro amministrativo molto piìt leggero di quello che siamo stati abituati a vedere finora, perché quasi completamente privo di ministeri e semmai costituito da organi di garanzia, da autorità indipendenti di regolazione2 , e dalla collaborazione al centro delle Regioni. Un sistema amministrativo spostato al livello regionale, secondo il modello tedesco, ove la forte integrazione ordinamentale e amministrativa degli enti locali è bilanciata da robuste forme di partecipazione (per le decisioni pi1 importanti: sistema bicamerale con Camera rappresentativa degli enti locali) e di garanzia (alla Corte costituzionale). Se il problema è così vasto e assorbente, possiamo lasciare la riforma dei vari ministeri all'iniziativa e buona volontà dei singoli ministri? La risposta è no. Nuovi

SOGGETTI PER GESTIRE IL

PROCESSO DI RIFORMA

Per tali motivi è utile riflettere su quelli che sono gli «Elementi di una strategia di rforma delle4mministrazione Finanziaria Preciso che le considerazioni che seguono sono tratte quasi tutte da un recente working paper del Fondo Monetario Internazionale, che riassume 136

l'esperienza internazionale maturata da tale organismo delle Nazioni Unite, che ho modificato molto marginalmente per riferirlo pii da vicino alla situazione italiana. Cerchiamo gli elementi fondamentali di tale strategia di riforma. Innanzitutto, un impegno politico esplicito e stabile nel tempo. Come realizzarlo in presenza di governi deboli e di breve durata? È un problema comune a molti Paesi. Occorre identificare dei soggetti, non necessariamente a livello governativo, che s'identificano con tale obiettivo e che siano in grado di portarlo avanti anche nello spazio di più legislature3 . In Paesi come gli USA, per le riforme fiscali, ciò è avvenuto anche grazie all'opera di influenti capi delle commissioni Finanze e Tesoro. Per l'Italia, Cammelli propone di "affidare il processo di riforma a personaggi di indiscussa competenza, prestigio e capacità operativa la cui responsabilità è definita, e dunque verificabile, esclusivamente in rapporto alla realizzazione dell'obiettivo affidato (e dunque al di fuori da quella governativa e ministeriale, dell esecutivo in carica) "Per l'intera durata del processo, agli altri ministri-ministeri andrebbe precluso ogni intervento riguardante la disciplina della propria organizzazione amministrativa e del proprio personale pubblico che non abbia il benestare del responsabile della riforma".


Un altro soggetto può essere identificato all'interno delle tecnostrutture ministeriali (o di strutture istituite ad hoc nell'ambito della funzione pubblica) in una squadra di alti funzionari che con determinazione e impegno si dedichino a tempo pieno ai problemi della riforma della macchina amministrativa. È necessario un ben definito piano strategico. Bisogna identificare tutti i problemi e le disfunzioni che causano l'inefficienza, ordinarli per gravità, e attuare le relative soluzioni; con riguardo all'Italia, non basta aver identificato il modello di "ufficio unico"; occorre vedere se tale modello è adeguato o meno all'obiettivo della lotta all'evasione. Se questa è la priorità, allora, è cruciale l'identificazione delle strutture e dei nuclei che devono portarla avanti. Dato l'obiettivo, nel nostro caso, è chiaro che la legge 35811991, non ha affrontato e risolto in maniera appropriata, fra l'altro, il problema del coordinamento e della integrazione dell'attività di verifica della GdF e quella degli uffici civili. Sottolineo al riguardo come il corpo della GdF, a tutti gli effetti, si configura come un'agenzia americana in senso tecnico ma questo, sfortunatamente, non basta a far valutare come efficiente ed efficace la sua azione di verifica contabile e, più in generale, di contrasto dell'evasione. È vero che la stessa legge contiene alcuni elementi di un piano strategico; è

stato emanato il regolamento degli Uffici n. 287/1992 ma non si sono precisati tanti altri punti non secondari; non si sono operate neanche scelte di metodo pure essenziali. L'esperienza internazionale del FMI, a questo riguardo, individua due alternative: l'approccio cosidetto globale e quello cosidetto puntuale. Tanzi e Pellechio ritengono più promettente il secondo, sempre che sia adattato alle esigenze della situazione del Paese. Mi sono occupato di tale questione ripetutamente in precedenti occasioni e nel mio libro sul ministero delle Finanze; mi pare chiaro che l'approccio di tipo puntuale può funzionare quando la macchina complessivamente è efficiente e presenta disfunzioni limitate che possono essere affrontate con provvedimenti particolari. Quando invece la macchina è vecchia e sgangherata, allora occorre cambiarla; occorre ricostruirla ex novo o, come dire, sottoporla ad una revisione generale. Un problema come quello del coordinamento dei verificatori militari e civili può e deve essere affrontato comunque come un obbiettivo mirato, con approccio puntuale e con priorità assoluta rispetto agli altri. Anche perché, a questo riguardo, non si tratta di inventare chissà quali moduli organizzativi; qui si tratta di importare quelli che utilizza, ad esempio, la DR (Direzione investigativa antimafia) coordinando ed integrando forze diverse come i Carabinieri, la 137


GdF, la Polizia di Stato. Allargando il discorso ad altri comparti della PA ne discende che il modello non può essere unico, che le strategie e gli apprqcci debbono essere appropriatamente modulati e differenziati. Ciò che vale per il ministero delle Finanze non va necessariamente bene per il ministero della Pubblica Istruzione o per quello di Grazia e Giustizia. ALCUNI PUNTI DI ATTACCO DELLA STRATEGIA

Formazione e aggiornamento professionak siamo nell'era della formazione permanente ma questo non significa che qualsiasi addestramento vada bene. Occorre anche in questo campo un'azione mirata. Osserva il FMI che, se si vuole vincere la maratona, bisogna allenarsi per tale tipo di corsa; un allenamento generico non va bene; quindi la raccomandazione è che le attività di addestramento devono tener conto delle prioricà del piano strategico, altrimenti si sprecano risorse e non si affrontano i problemi più gravi. Risorse l'opinione prevalente è che per fare una buona riforma amministrativa servono ingenti.risorse (più personale, più attrezzature, e soprattutto più calcolatori). Il FMI contesta tale opinione e parla di elaboratori sofisticati abbandonati in uffici dove nessuno li utilizza, oppure sono largamente sottoutilizzati. Non gli si può dare 138

torto; sprechi e carenze possono essere riscontrati anche da noi. Tuttavia, osservo che, in non pochi casi, non si può pensare che un più alto grado di efficienza dell'azione amministrativa possa venire semplicemente dal migliore utilizzo di quello che già c'è. La raccomandazione è che l'acquisto di elaboratori ed altri materiali deve seguire e non precedere la riforma; deve essere funzionale alle priorità definite nel piano strategico. Personale valutazioni analoghe valgono secondo il FMI per il personale; spesso il problema è di redistribuzione, nel nostro caso, anche territoriale. In Italia, il problema più grave è notoriamente quello della mobilità che non può essere intesa solo verso l'alto ma anche in senso orizzontale. Cito per tutte l'esperienza degli uffici del registro. Nel 1986 la riforma del compianto prof. Visentini doveva liberare risorse da impiegare in altre attività più proficue; come è noto, non un so lo uomo è stato spostato a tal fine; e qui delle due l'una: o si è in grado di affrontare questo problema o non c'è riforma che si possa attuare; anzi, al riguardo, ritengo che la riforma abbia confermato l'istituto vecchio e decrepito della pianta organica che si pone come un grosso ostacolo alla mobilità, perché dubito fortemente che le piante organiche possano essere continuamente modificate come le moderne esigenze di gestione richiedono.


Sopra ho accennato al problema della GdF. È chiaro che se si.riuscisse a risolvere seriamente il problema' dell'a integrazione dei verificato-ri civili e militari non 'ci sarebbe bisogno d'i pensare anu6vestrutture; ,ma' talfi ne bisogna risolvere due nodi molto delicati: a il carattere militare.- della GdF e b. quellO' della osizione del Segretario generale del ministero delle Finanze. La 'smilitarizzazio'ne faciliterebbe l'affiancamento della Guardiadi Finanza ai .v,erificatori 'civili; consertireb,be 'la sua piena. integrazione 'neL programma annuale, di véi'ifiche -e- controlli fiscali. Si porrebbe:, recidere il suo, rapporto diretto col Ministro,é, ,er,'contro,.farla dipendere 'o dal Sègretario generale o dal' Consiglio d'amministrazione. La posizione di entrambi q:uesti' drgani do"rebbe essere rafforzata sostanzialmente per dare un vero boardofdirectors al ministero. Non. ha senso- che il SG - sia un mero ,assistente-collaboratore del ministro e che il CdAsi'occupi solo di trasferimenti-e promozioni. L'altro -probléma. gravissimo è quello delle. qualifiche:troppo bassé; soltanto il 1 5%dei.laureati, contro, l'85 0/6 in Giappone.. Soltanto parzialmente. questo problema può essere affrontato con l'addestramento professiànale; occorroné, quindi, assunzioni selettive di giovani laureati in discipline econo miche(econtabili.. ,'.-, i.»'. Occorre: subitoit-t-uare la' flessibilità

nell'utilizzo,delle forze dis'ponibil-i; non'èco:ncepibile che'la Direzione Generale- dd1ntra.-te utilizzisolo )l 1:0% ca,del.perso,naledisponibile1 (40.000 unità) in. :attività di controllq sostanziale;- noti èpossibile che.la GdF utilizzi appena un terzo della suafr.za (60.000 uomini) per i fini.istituzicinali del,ministerp delle Finane. Ocòrrorio,' :pertanto, non: solo, assunzioni selettive ma soprattutto: la ,m,bi1-ità :interna; aqu.esto rigiirdo i:l FM suggerisceinon' sQlò .-ia jedistnibuzione dai posti meno a quelli più pròdutivi ma -anche il .licenziamento; deve ess&te pòsihile assumere persnale nuqvoe licenziare, qullo i'rnpioduttivo.L'amministrazione 'finaflziaria deve sere considerata come un'azienda che massimizza 'iFproprio:.prodotto con dativincoli e- risorse,. -..,.

Sdiari e.incentii'i el'1994'gli-ìncehtivi alla.produttività in senso.-strettQ si sono -ragguagliata 246 miliardi, pari al 4,17% di tutti1gli;oneti-relativi al personale :(Relaione delia o,rte di dòn.ti,.'94)'È vero; chéI bisogna cons,i derae le,altre indennità,: lerqualpiù che, raddoppiano.'tale percentuaJ, ma, resta il fatto' che il' modo in cui sono attribuite.non, inceniia: iné.'lo,vsfòrzo di lavoro xié la mòbilitLQ6rrè, pr, tàntò, ua n,u6ò isterna di incefitivi per iLpersonale e'p,er :,i contrib.ue,nti. Bisogùa butar,e via- 'le: "rnde1rna,rce ' , allontanare il personale corrotto;. biso: gnal incentivare mèglio '.quellò' produt-. 139


tivo. Ci sono i metodi ma bisogna superare la contrattazione centralizzata del sistema degli incentivi (su questo punto si veda anche Cammelli); bisogna dare fiducia e discrezionalità ai direttori degli uffici; gli incentivi devono essere rivalutati per portarli a quote significative del salario (30-35%) e soprattutto devono essere amministrati a livello di ufficio periferic0 4 . Bisogna superare il meccanismo delle promozioni sulla base della mera anzianità e reintrodurre le note di qualifica a tutti i livelli; anche se questi elementi hanno valenza generale, su alcuni di essi è possibile costruire una specificità per i verificatori e gli accertatori del ministero delle Finanze. L'onesto adempimento del contribuente deve essere premiato con sconti e facilitazioni; come si è introdotta una "finestra" per chi versa in ritardo così si può pensare ad uno sconto, basso ma emblematico, per chi versa in anticipo oppure nel termine previsto. Deve migliorare l'assistenza al contribuente; se si adottasse l'electronicfiling, come è stato fatto, in misura considerevole, in Australia e negli USA, Si potrebbero ottenere significativi risparmi nel costo di trattamento delle dichiarazioni; il contribuente potrebbe andare presso l'Ufficio periferico con i suoi dati e l'addetto alle dichiarazioni li immetterebbe direttamente nel sistema. Si sono rivelate inadeguate le sanzioni 140

abnormi che arrivano 10-15 anni dopo e/o gli arresti quando i soggetti che dovrebbero essere arrestati sono troppo numerosi. La chiusura temporanea di imprese e/o esercizi commerciali potrebbe essere più efficace, sempre che il procedimento contenzioso venga reso efficiente e tempestivo, altrimenti neanche questa misura può risultare efficace. Nel caso italiano, infatti, c'è un parallelismo tra inefficienza nell'accertamento ed inefficienza nel procedimento contenzioso. Anche quest'ultimo risente non poco delle carenze organizzative e della composizione non professionale delle commissioni tributane. Anche la riforma del contenzioso è un caso di scuola dell'approccio sussultorio, incerto e confuso, con cui non si attuano le riforme in Italia. Varata la delega con la legge 413/1991 e i d.lgs. nn.545 e 546 nel dicembre successivo, in modo del tutto inadeguato rispetto alle esigenze, per oltre un anno, non è stato fatto niente per attuarla. Poi è arrivato il ministro Tremonti che non ne condivideva i contenuti e l'aveva accantonata. Quindi, arriva il ministro Fantozzi che la "rilancia". La riforma formalmente è partita dal 10 gennaio 1996 ma alcune commissioni regionali non hanno potuto insediarsi per mancanza di sedi e personale. Concludo ribadendo le mie considerazioni sulla necessità dell'approccio


di tipo globale per respingere l'idea degli interventi di tipo puntuale, per cui si interviene soio sulla parte della macchina che mostra le maggiori disfunzioni pensando che il resto, in qualche modo, si aggiusterà da sé. Se questo è vero, è chiaro che da soli non bastano né un ente pubblico strumentale, per ipotesi superefficiente né alti salari. Occorre il concorso di una molteplicità di fattori, anche immate-

riali (nuova organizzazione del lavoro, nuovi criteri gestionali, ecc.). Occorre una precisa strategia da seguire con coerenza e perseveranza. Ripeto: se la macchina è vecchia e sgangherata, non basta sostituire un pezzo o metterci sopra la centralina elettronica più sofisticata. Occorre ricostruirla ex novo. Non è facile ma è questa la sfida che abbiamo davanti a noi.

È di qualche mese fa la notizia (vedi «Italia Oggi» del 28.11.96), che il ministero avrebbe bloccato l'attuazione del progetto di ufficio unico. Si attende ancora una conferma da parte del ministro Visco ma il nuovo segretario generale delle Finanze Roxas mi ha detto che la notizia è infondata. 2 Come già avvenuto da tempo in Inghilterra, anche in Italia comincia a levarsi qualche voce contraria al proliferare di autorità vecchie e nuove, esistenti e da istituire che si contendono il mercato del controllo e che oscillano irresponsabilmente tra compiti di indirizzo e di sorveglianza. Vedi al riguardo I. Cipolletta, Chi autorizza l'Autorità?, in «Quale Impresa», n. 9, settembre 1996. 3 Di per sè, l'intenzione del governo di durare una legislatura non è sufficiente a garantire una strategia coerente e stabile né un approccio unitario e coordinato dei diversi ministri. Un caso emblematico a proposito di riforma federalista è l'incertezza del modello di federalismo o di autonomia che si persegue: rafForzamento delle attuali Regioni; federalismo municipale o modello incerto e confuso cosidetto a tre punte con Governo, Regioni e Comuni che dialogano confusamente nelle varie conferenze, con ministri che anticipano pezzi di riforma senza che il governo abbia preliminarmente chiarito quale sia il modello compiuto che intende realizzare. 4 A proposito di agenzie e di modi di rivalutare le retribuzioni, sottolineo l'errore di chi intende agire attraverso la costituzione di agenzie che ex ante preve-

dono livelli salariali più elevati e, invece, la superiorità di una rivalutazione graduale e progressiva degli stessi attraverso gli incentivi. Solo con questo secondo metodo la remunerazione seguirebbe la produttività, mentre con il primo si presume una maggiore produttività sulla base di superiori qualifiche - tutte da dimostrare - e la produttività verrebbe dopo (se mai verrebbe!).

Note bibliografiche AAVV, Rfbrmare la Pubblica Amministrazione. Italia, Gran Bretagna, Spagna, Stati Uniti, scritti di B. Dente, M. Cammelli, D. Sorace, G. Falcin, S. Cassese, C. Lacava e G. Vecchi, R. A.W. Rhodes, J. Subirats, B. G. Peters, Studi e Ricerche, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995. CAMMELLI M., Forma di Stato, regionalismo serio e rforma amministrativa, intervento al seminario su "Federalismo e solidarietà. Sistemi a confronto e proposte emergenti", Sala del Cenacolo, 26 marzo 1996, Roma. Idem, in «Regione e governo locale», n. 4, agosto 1995, pp. 474, 509-511. CL'.RIcH M. su il «Sole 24 Ore)) dell'11.04.96. DENTE B., In un diverso Stato, il Mulino 1995; GALLA G., Gli strumenti per il rinnovamento e la modernizzazione dell'amministrazione finanziaria", in «il Fisco», n. 4, 1996. 141


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blicani al Congresso e la 'reinvenzione' del federalismo, in «Federalismo e Società)) n. 1, 1995. Tzi V., vedi Pellechio.


Notizie da...

FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTARIATO

promozione di una cultura operativa della solidarietà.

La Fondazione Italiana per il Volontariato (FivoL) e la Rivista del Volontariato istitui-

In particolare, la Fondazione Italiana per il Volo ntariato e la Rivista del Volontariato istituiscono: - due premi (di lire 50 milioni ciascuno), da attribuirsi ad associazioni e gruppi di volontariato, a cooperative sociali che abbiano, in modo originale ed efficace, nel rispetto dei criteri sopra indicati, operato nel campo nel volontariato o sostenuto le attività sociali da esso promosse; - undici premi per specifici settori di intervento o di sostegno dell'azione volontaria. In particolare: 1-2) due premi per associazioni, gruppi o movimenti di volontariato che abbiano operato sul territorio con attività promozionali di prevenzione, reinserimento ed integrazione di persone a rischio di emarginazione e devianza, con particolare attenzione ed impegno nell'attivazione ed autorganizzazione dei destinatari del servizio (10 milioni ciascuno); 3) per un'associazione italiana che abbia operato per la promozione di iniziative di volontariato locale di uno o più Paesi in via di sviluppo (10 milioni); 4-5-6) per tre scuole (una media superiore, una media inferiore ed una elementare) - o strutture scolastiche - che abbiano condotto un'iniziativa di informazione e sensibilizza-

scono il Premio nazionale della Solidarietà 1997, riservato ad organizzazioni o iniziative particolarmente significative nel campo dell'azione volontaria, della solidarietà e della cooperazione sociale sui territorio nazionale ed internazionale. Le attività presentate per la partecipazione al concorso dovranno avere le seguenti caratteristiche: - capacità innovativa e propositiva del servizio; - modalità di lavoro integrate con i destinatari, il territorio e i referenti istituzionali, nell'ottica del coinvolgimento operativo; - capacità di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sui temi della solidarietà sociale e dell'azione volontaria. Con la diffusione ditale iniziativa - che si realizza per il sesto anno consecutivo - la Fondazione Italiana per il Volontariato si augura inoltre di mobilitare, attorno all'azione volontaria, la collaborazione attiva di organizzazioni pubbliche e private, in particolare degli enti locali, delle scuole, dell'associazionismo e delle imprese, che con le proprie risorse umane, finanziarie, organizzative e progettuali sono in grado di òffrire un contributo importante e originale alla

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zione sulla solidarietà, il volontariato e l'educazione interculturale, coinvolgendo alunni, genitori e comunità locale, ottenendo risultati apprezzabili (Targa); per un'iniziativa di volontariato rivolta all'accoglienza ed integrazioni nel contesto sociale e lavorativo di immigrati a grave rischio di esclusione sociale (10 milioni);

per una cooperativa di solidarietà sociale che attraverso l'apporto di soci lavoratori e di soci volontari si sia affermata come impresa sociale, creando posti di lavoro e servizi per la comunità (10 milioni); per un'iniziativa di informazione e sensibilizz.azione dell'opinione pubblica sulle tematiche del volontariato e della solidarietà, attivata dai mass-media (giornali, periodici, TV radio) e da singoli professionisti dell'informazione (Opera d'arte contemporanea); per un periodico gestito da volontari o da cooperative sociali, che contribuisca in modo particolare alla creazione di un circuito informativo e operativo, a livello nazionale o locale, fra organizzazioni non profit (10 milioni); per un'azienda o impresa che abbia attuato la promozione di servizi "reali", cioè l'utilizzazione di propri mezzi, strutture e competenze tecniche, a sostegno di iniziative di solidarietà o di gruppi (Opera d'arte contemporanea). MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE

a) Il materiale di presentazione e di documentazione relativo alle iniziative per le quali si propone il premio dovrà pervenire a mezzo raccomandata postale A.R. o con consegna a mano, alla Fondazione Italiana per il Volontariato entro e non oltre il 30 settembre 1997 (della data di ricezione faranno fede il timbro postale di. spedizione o la ri144

cevuta che il personale della Fondazione rilascerà a chi effettuerà la consegna a mano). Le candidature dovranno essere accompagnate da materiale illustrativo dei progetti e delle attività, con particolare attenzione alla storia dell'iniziativa ed alle modalità di svolgimento. È necessario precisare nome e cognome del referente per l'iniziativa denomi-

nazione, indirizzo e recapito telefonico dell'ente o associazione. I premi saranno assegnati da una commissione composta da persone che, a diverso titolo, si occupano del volontariato sociale. La Fondazione Italiana per il Volontariato si riserva di modificare - eventualmente con il sostegno finanziario di enti ed aziende - il numero o l'entità dei premi, qualora, in uno o più settori, fossero segnalati numerosi soggetti o iniziative particolarmente valide. I vincitori saranno tempestivamente avvisati tramite telegramma, mentre a tutti i partecipanti sara data comunicazione scritta sull'esito del concorso; nessuna informazione sui vincitori potrà essere richiesta telefonicamente prima dell'assegnazione dei premi. I premi saranno ufficialmente consegnati orientativamente nel mese di dicembre. I materiali inviati rimarranno patrimonio della Fondazione e non saranno perciò restituiti, verranno invece inseriti nell'archivio storico-documentario della Fondazione. A tal fine, si pregano le associazioni di voler inviare, oltre ai progetti, anche il loro statuto, l'atto costitutivo, eventuali regolamenti e convenzioni. '

FivoL - FONDAZIONE ITALIANA PER IL VoLONTARIATO Via Nazionale, 39 - 00184 Roma Tel. 06/474811- Fax 06/4814617


ISTITUTO LUIGI STURZO

Programma di attività prevista per il triennio 1997-1999 Obiettivo dei prossimi anni è un sempre miglior utilizzo di Palazzo Baldassini, sede dell'Istituto. È previsto un ampliamento degli spazi per sale di lettura, per la ricerca, per una eventuale foresteria per consentire a palazzo Baldassini di assumere in pieno il suo ruolo di centro di servizi per la cultura. Si impongono alcuni impegnativi lavori di restauro: particolarmente urgente è il recupero dei tetti e la ristrutturazione dei seminterrati, iniziata nel corso del 1996 e sospesa per il ritrovamento di manufatti architettonici di epoca imperiale nel lato di vicolo della Vaccarella. Tali interventi sono necessari per consentire il pieno utilizzo dei depositi dell'ultimo piano e lo spostamento dei carichi maggiori nel serninterrato. Nel corso del triennio 1997-1999, l'Istituto Luigi Sturzo proseguirà nel programma di lavoro tracciato nel corso degli anni precedenti, svolgendo la sua attività di ricerca nel campo delle discipline sociologiche, storiche, politologiche, economiche e giuridiche.

Nell'ambito della storia della repubblica e delle istituzioni, l'Istituto ha avviato due importanti progetti di ricerca. Il primo progetto su Il ruolo svolto dai democratici cristiani nell'elaborazione della Carta Costituzionale è finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde nell'ambito delle iniziative culturali per il cinquantennale della Costituzione. Le due prospettive nelle quali si muove il progetto di ricerca sono essenzialmente due: la prima mira a ricostruire l'ambiente culturale nel quale emerse l'elaborazione

costituzionale cattolica. In secondo luogo, l'analisi verterà sugli elementi politici e giuridici relativi alla suddetta progettazione. L'impegno è di riportare alla luce una documentazione medita (Archivio De Gasperi, Archivio Sturzo, Archivio Bartolotta, Archivio Ambrosini, Archivio Mortati, Archivio Tosato, Archivio Storico della Democrazia cristiana). Il coordinamento scientifico della ricerca è affidato a G. De Rosa, U. De Siervo e N. Antonetti, I risultati saranno discussi in un convegno di studio e pubblicati della casa editrice Il Mulino. Il secondo progetto di ricerche che l'Istitu-

to promuove è su Costituzione e Costituente nella XIX Settimana sociale dei cattolici italiani. Si tratta di una ricerca biennale che analizza i diversi confronti che si realizzarono sia intorno ai temi di grande spessore teorico (la natura e di limiti del potere costituente, il rapporto fra "diritto naturale" e i processi costituenti, in cosa poteva consistere una "Costituzione cristianamente ispirata"), che di aspetto più strettamente politico (quali dovessero essere i poteri da riconoscere all'Assemblea costituente, l'atteggiamento da tenere sulla "questione istituzionale", quale modello di Stato sostenere). Il Comitato scientifico del progetto, presieduto da G. De Rosa, è composto da E. Balboni, B. Bocchini Camajani, U. De Siervo, A. Giovagnoli, R. Moro, P. Pombeni, A. Riccardi. Gli esiti della ricerca saranno presentanti in un convegno di studio da svolgersi entro il 1998, cui seguirà la pubblicazione degli atti. Per la parte dedicata più specificatamente alle strutture istituzionali, il programma 145


trieniile futuro 'dell'Istitùto revede una' serie di ifrlpòrtantihir!iiziative a'òminiàre dal ifiihrià itàlo-dèscd' òrganizzato in c6l1ab6àzione con 11Gòéth Institi.it-Rom, -A le 'Fondazioni Konrad Adenauer, Lelio e Lisli1 Bassb,' Frié'dridi Ebrt è'l'Ititiito Grm-' La rsfi. sci rfei giòriii' 6'e 7'febb'raio 1997 dfederdlistii. Italià Geaia:serieni di due sistemi politici in Europea. L'iiiiativàiftk6lérà in -dtieèiniriari di ._. I " -(1 studio ristretti e una tavola rotonda aperta al' pubblico, secondo il seguente progriiìih: .A L)1) III'.) 110

£ib Federalismo: 1 esperienza tedesca, i progetti li'ahi"J ',fLf"JI1 Il) o; 'it'. ;1Lì.ì- » Il - fìuUtflO1c UI IfiíèìWììt2 1 .- ----------- ---- -i .".\._,.,._,_.__'_ -F. Bassanini Ministro'deI1a-Funzione LJIL!J I \ - i -------- -

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EnzoBa1boni, :Universita-Cattolica di ib irn-n rt rnhlolrli Mili6 Gitlib 1 Urb'fiiPVice Peiden'eCofh-' iiiidAffa Esei

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pressò 'il Gév'efii6'dèlUàtid SàsòiiiaAn}altlD Geor BéiWdt - Stefn6 11JI .h ('J(V.IIflfihJ Lelici'e EiliBs ncj? tU li! .,bofl 4i Jp -, ilrtc iI-Séioii?1°1 hb (IJa!irl2 uIZIItTIO) Il "Psidrzialish'6'ò aèlf érato -f6m{i , . ,, ,. ' i • ,,.; , 0u ' t 110 governo a-confro.nto -. ' A Domenico ' j'- --l Fisichella; --'-•---Universita«La Sa-. pienza" di Roma 'Aù'iò Brbéii Univ€fsità diBolòn 3 li U'D'Sie/o,Uiiveisitàdi Firene' fl " - ..__ . . .• I Universitardi _! 'LudgerL Kuhnhardt, Friburgo ._1. i-------------, Hans-Jurgen. Puhle,' Universitadi -Frani ,' ' !,flC

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— Giuseppe Vacca, Direttore Fondazione Istituto Gramsci 1 -

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Tavola Rotonda "Rif6rme"istituzinaIi e tempi dell'Europa" . —'Joàchini JehHésé; Università 'di Oxfàid --> Dieter Kastrù, A'mbasciaore' della' Re' le '; pubblica Fdéralè'ii Gdrmnia19 'M riàMdiui,!Coiri thiss àiò -Europeò' ì'l I Giòiò'INap6lita hò Minis'tro 1ell'Inernd'Li)i 11 sCdsi',' Sènatore 'a'vita' ' t' -- F Giiiliah6 Aii to'UHiversità "L'a SapiénlI -' I' I'.,' 1' z " di Rorìui 'm .,i.! )lruiiII —Léopoldo 'Elia,DèpLt ird Sa6pòla,Urihèfsità 3 "La Sàpienza" diRài-ha' j1,.ii'i;1 ì..uqJ ib ---- ----- - --- e--- ---- - --- .1 l'lavori stsvolgeranno m'lingua italianate in li

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Itmq orn'ifij'll:jk; t3l.C' l In occisic5rie idl' cin iantiiiiò' ainivera' I - lì , • 'rio 'del Piano - Marshall 1 Istituto -promuove iEà?ìuiale é'duè cohvegni'iiterha ziàhàli ditudiosiiL'Italianella guerra fredNuoziJrÒsùéttive di rice;-ca - tra 'politica i',t

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Il oinitto scikrjtifico del pogetoul Pid: %'\ -- -no: Marshall e -presieduto da G.- De IRosa 'e còmpòtada G. Serra, F. Traniell6; L V.- Ferraris»DDe1

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rlcerca;-gla avv1ata'promuove approfondiieriti ettòrialittraverso' la òniltazi nè 'dè1i 'arhivi sorkidl rmihistèro degli Affari 'Esteri, della- POA - (Pontefìcie - Oper Assisten'ziali)t' dlla Confindustria;'dell'IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), della'Svimez(Svihppo per il Mezzogior! nò),-della'Democrazia Cristiana e nei diversi foi'di 'criservatipresso l'Archivio Cen•- 4. trale dello Stato.'' - -- ;- '


i1analisi sarà svolta inoltre sugli archivi personali di L. Sturzo, G. Gronchi, P. Saraceno e P Malvestiti. Un convegno che dia conto della ricerca svolta si può prevedere per l'autunno '97. L'istituto nel prossimo triennio intende promuovere studi e ricerche relative alle

fonti per la Storia contemporanea italiana, utilizzando il materiale riordinato dell'Archivio storico della Democrazia Cristiana depositato in Istituto. Del progetto, in via di elaborazione, è stato incaricato un comitato scientifico formato dai professori De Rosa, Antonetti, Camajani, Scoppola, Traniello, Talamo, Ghisalberti, Della Peruta, Arf& Margiotta Broglio, Villani. Per quanto riguarda gli Studi e ricerche sulla storia socio-religiosa, l'istituto promuove una indagine sulla Società di San Vincenzo de Paoli a Roma tra Ottocento e Novecento. Per la ricerca, l'Istituto ha assegnato due borse di studio. I risultati del progetto di ricerca saranno presentati in un seminario di studio da svolgersi in collaborazione con la Società di S. Vincenzo de Paoli e Consiglio Interregionale per il Lazio e l'Umbria. Nell'ambito del bicentenario della nascita di Antonio Rosmini, l'Istituto Sturzo promuove una ricerca sulla vita e le opere del filosofo cattolico. I risultati saranno presentanti in due seminari di studio e di convegno nazionale, di cui saranno pubblicati gli atti. Il comitato scientifico preposto al progetto, presieduto da G. De Rosa, è composto da Mario D'Addio, C. Ghisalberti, F. Mercadante, V. Paglia, A. Riccardi, G. Rumi, M. Scotti, G. Talamo, F. Traniello. Per quanto riguarda la storia della Chiesa, l'Istituto promuove un progetto di ricerca

biennale e due convegni internazionali di studio sui giubilei del XIX e del )(X secolo, in collaborazione con la Fondazione per la pace e l'École Franaise de Rome. La ricerca intende ripercorrere la storia del pellegrinaggio cristiano, attraverso i giubilei dell'Ottocento e del Novecento. I risultati della ricerca saranno presentati in due convegni internazionali, il primo da tenersi nel 1998 darà gli esiti parziali e ancora provvisori del lavoro svolto, il secondo si svolgerà entro il 1999 offrendo un quadro esauriente e definitivo della storia dei giubilei del XIX e XX secolo. È intenzione dell'Istituto procedere alla pubblicazione completa della ricerca e degli atti dei convegni. Il comitato scientifico che definirà le linee di ricerca del progetto è presieduto da G. De Rosa e composto da E Malgeri, A. Riccardi, V. Paglia, G. Martina, G. Rumi, F. Traniello, J. M. Mayeur, J. Kloczowski, L. Tulaba. Per quanto riguarda la parte sociologica, l'istituto a conclusione di un primo ciclo di ricerca triennale intende rilanciare per i prossimi anni la tematica della rappresen-

tanza degli interessi in Europa a partire dagli anni Novanta. Tema cruciale e complesso che affronta, in modo comparato, i modelli e le funzioni dei Consigli economici e sociali, come forme tradizionali presenti nell'organizzazione istituzionale negli Stati europei a partire dai primi decenni del Novecento a fronte delle nuove forme di rappresentanza in Europa che, a somiglianza del modello anglosassone del lobbying, affollano l'arena del policy-makinga Bruxelles. Più in particolare, le ricerche condotte portano ad una ampia revisione sia della 147


struttura di rappresentanza, formale e non, sia delle modalità e delle dinamiche, in una situazione in cui profonde mutazioni intaccano l'impostazione tradizionale della rappresentanza politica. Partiti e organizzazioni formali fìno ad oggi mediatori ed elaboratori di interessi, mutata la loro genesi e le motivazioni aggregative (sempre meno ideologiche e sempre più pragmatiche e tipologicamente riarticolate), impattano con una pluralità di interlocutori, istituzionali e non, ove la presenza di rappresentanze orizzontali e transnazionali, oltre ad essere sempre più scopertamente visibile, in più situazioni mostra non solo di orientare ma di impiantare e dirigere vere e proprie agende politiche nazionali e internazionali. Si prevede la presentazione attraverso seminario o convegno, dei risultati della ricerca triennale Istituto Luigi Sturzo e CNR (coordinatrice del progetto professoressa Gloria Pirzio Amrnassari) su "Rappresentanza degli interessi e lobbysmo in Europa". Il seminario o convegno muoverà dalla tematica:

quali forme di rappresentanza degli interessi nell'Europa degli anni Novanta e nel decennio prossimo venturo? L'Istituto, nei prossimi anni intende inoltre ampliare il dibattito e le attività di ricerca nell'area dell'analisi sociologica e socio-pedagogica dell'impatto sociale dei nuovi media e dei mezzi di comunicazione di massa. A tale progetto di attività collaboreranno i Corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione e Scienze della Formazione della Libera Università Maria SS. Assunta - LUMSA - di Roma, le Cattedre di Sociologia delle Università "La Sapienza" e Roma III di Roma, di Milano-Cattolica, di Perugia, Sassari e Teramo. A partire dalle note problematiche sugli effetti di impatto sociale ascrivibi148

li ai media, si aprono nuovi e pressanti interrogativi sugli impatti delle innovazioni tecnologiche multimediali nell'ambito della comunicazione che sembrano, di già, porre più questioni di quante non ne possano potenzialmente risolvere. L'Italia con il suo abnorme numero di televisioni private (molte centinaia) rappresenterà una peculiarità anche rispetto all'Unione Europea, con l'aggravante di una normativa regolamentare non ancora completata e ben lontana da praticabilirà applicate in tempi ravvicinati. La rivoluzione tecnologica, tuttavia, continua e produce nuove opportunità sulle quali interrogarsi: televisione digitale e interattiva, computer multimediali, reti planetarie dei sistemi satellitari e internet. La telematica impatta ormai pervasivamente sul quotidiano e sulla organizzazione minuta di ogni singola agenda personale e di gruppo, interessando l'intero spettro delle classi di età. A fronte di tanta rivoluzione si pongono problematiche del tutto nuove e complesse, fra le quali le più urgenti vanno nella direzione dell'analisi degli impatti e dei potenziali effetti sui "bambini" (sin dai primissimi mesi/anni di vita), sulla loro socializzazione di base che è sempre più attraversata dalla video-socializzazione e dalla multimedia-socializzazione. Genitori, docenti ed educatori, studiosi delle comunicazioni sociali e responsabili istituzionali, non possono ignorare le trasformazioni tecnologiche in atto che, oltre a cambiare le modalità di socializzazione, fanno, di fatto, crescere "bambini nuovi" profondamente diversi - dal punto di vista delle percezioni e rappresentazione del mondo e di s - anche solo dai fratelli maggiori. L'impegno che per tutti ne deriva è che i "nuovi bambini" siano aiutati a trarre i


frutti migliori da queste inedite possibilitĂ tecnologiche: ma si tratta di terreni del tutto nuovi e scarsamente esplorati per cui occorrono idee, luoghi in cui scambiare esperienze, formulare progetti, attivare le promozioni di laboratori comparati, impiantare veri e propri vivai di nuove culture videomediali.

Una prima iniziativa programmata sarĂ quella di un ciclo di seminari di studio o convegni di una intera giornata su quale so-

cializzazione in una societĂ multimediale? ISTITUTO LUIGI

Smi'zo

Via delle Coppelle, 35 -00186 Roma Tel. 0616892390 - Fax 0616864704

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Segnalazioni

M.T. PAOLA CAPUTI JAMBRENGHI, Profili

dell'organizzazione pubblica del volontariato, Giuffré Editore, Milano 1997. Il testo di Caputi Jambrenghi intende, come afferma la stessa autrice, "rispondere all'interrogativo sulle cause della difficoltà assai di frequente incontrata dalle società intermedie nel sostituirsi allo Stato... in alcuni suoi compiti fondamentali". Lo Stato liberale - ci ricorda Caputi jambrenghi - sarebbe andato in crisi proprio a causa del suo "eccesso di organizzazione e di ordine". Attraverso tale crisi si sono potute far strada le cosiddette comunità intermedie ed "una società nuova che ha finito per 'costringere' lo Stato ad assumere nuova connotazione". Soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, si sono affermati partiti politici, sindacati, ordini professionali, associazioni di categoria, culturali, sportive, di volontariato che hanno rappresentato interessi particolari che hanno costituito uno stimolo per la vita della comunità nazionale. Lo Stato ha potuto, così, fungere da "organizzazione superiore" per unire, contemperare ed armonizzare tali organizzazioni minori. A partire da tali considerazioni, il volume di Caputi Jambrenghi si sviluppa attraverso vari approfondimenti. Dapprima, l'autrice delinea un quadro delle associazioni nonprofit nell'ordinamento giuridico italiano; quindi, affronta il tema del rapporto tra vo150

lontariato e "persona umana" nell'organizzazione sociale dell'assistenza, i profili costituzionali dell'organizzazione del volontariato e il "difficile" esordio di questo nel diritto positivo. Prima di delineare il tema dell'organizzazione del volontariato nelle leggi regionali italiane, Caputi Jambrenghi analizza le associazioni di diritto francese per ricercare antecedenti storici alla nostra legge sul volontariato. È noto che il nostro ordinamento ha condiviso con quello francese, almeno Lino ad un certo punto, la stessa avversione per i corpi intermedi. Nei "Spunti ricostruttivi" che concludono la sua ricognizione, infine, l'autrice afferma giustamente che "è dunque all'interno del soggetto associativo nato sulla spinta del volontariato che si condensa, non soltanto un proprium, ma una autentica diversità da qualsiasi altro organismo associativo privato o pubblico, presente nell'ordinamento". Le associazioni di volontariato hanno, quindi, caratteristiche proprie di cui, - raccomanda Caputi Jambrenghi -, la nuova figura juris delle ONLUS dovrà tenere conto. NIcCOLÒ SALANITRO, Società per azioni e mercati finanziari, Giuffré Editore, Milano 1996. Il testo di Salanitro prende spunto da un corso di lezioni da lui tenute negli anni ac-


cademici 199411995 e 199511996 presso l'UniversitĂ degli studi di Catania. In una bibliografia di settore, composta essenzialmente di studi specialistici e di guide pratiche, l'opera di Salanitro colma il vuoto della trattazione manualistica del "mondo" dei mercati finanziari. L'analisi focalizza, immediatamente, il problema economico-giuridico relativo al reperimento del risparmio collettivo destinato al finanziamento delle imprese commerciali per esaminare, poi, la disciplina dell'investimento in valori mobiliari e l'intervento a tal fine dei cosiddetti "intermediari". La rilevanza pubblica ditali operazioni richiede l'adozione di strumenti legislativi ed amministrativi idonei, da un lato, al conseguimento degli interessi generali della collettivitĂ e, dall'altro, alla conservazione di uno spazio autonomo (e di corrispondente responsabilitĂ ) a favore degli operatori dei

mercati finanziari per il soddisfacimento dei loro interessi, particolari, nella convinzione che proprio in tale contemperamento risieda la migliore realizzazione dell'interesse comune. Si segnala, in particolare, il capitolo quarto: 1 servizi di investimentoin strumenti finanziari. Le societĂ di intermediazione mobiliare", in quanto vi sono illustrate le recenti modifiche conseguite all'emanazione del decreto legislativo 23, luglio 1996 n. 415. Provvedimento, quest'ultimo, che ha recepito nell'ordinamento nazionale la direttiva comunitaria dell'li marzo 1996 n. 6, concernente l'adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e delle imprese bancarie, nonchĂŠ la direttiva comunitaria del 10 maggio 1993 n. 22, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, miranti entrambi alla realizzazione di un "mercato unico" anche in tale campo.

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queste ìstìtuzìunì La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi, dunque, è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato. I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. —Il taccuino, con il primo numero del 1996 si ha un nuovo utilizzo del taccuino: non più contenitore di rubriche, ma spazio da dedicare a temi di attualità. —I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'»Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. È stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne' può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Le rubriche, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni, fondazioni e centri studi, e le recensioni di testi che trattano temi di nostro interesse. —Gli opuscoli, La serie ha lo scopo di: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del lo numero con il dossier «Cultura della valutazione» estratto dal n. 99) o argomenti tra loro omogenei, per uso professionale o didattico, (è il caso del 30 opuscolo dedicato a "L'informatica delle pubbliche amministrazioni"); presentare materiali complementari alla rivista (come nel 2° opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").


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