Anno XXV - n. 111 - Trimestrale (luglio-settembre 1997)
queste ìstìtuzìunì
La via del Sud Taccuino Sidoti, Chizzoniti, Posani
La sicurezza dei cittadini Giovanni Aliquò, Roberto Sgalla, Francesco Sidoti
L"esternahzzazione" dei servizi pubblici Barbara Nepitelli, Keon S. Chi
La democrazia dell'antipolitica Mattei .Dogan, Jonathan Rauch
qllesteisVtuzioui rivista del Gruppo di Studio SocietĂ e Istituzioni Anno
XXV n. III (luglio-settembre 1997)
Direttore: SERGIO RIrucct& Condirettore: ANTONIO DI MkJO Vice Direttori: MASSIMO A. CONTE, FRANeESCO SIDOTI Comitato scientifico: MASSIMO DE FELICE, BRUNO DENTE, SERGIO LARICCIA, MARIA TERESA SALVEMINI, UMBERTO SERAFINI Redattore Capo: SAVERIA A0001TA Comitato di redazione: ANTONIO CHIZZONITI, ROSALBA CORI, ADELE MAGRO, BAunAM NErITELLI, GIORGIO PAGANO, IGNAZIO PORTELLI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, ANDREA SPADE-I-TA Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO Responsabile relazioni esterne: MASSIMO RIBAUDO Segretaria amministrativa: PA0U ZACCHINI Amministrazione, Via Ennio Quirino Visconti, 8 - 00193 Roma TeL 06/3215319 - Fax 0613215283 Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 20 - 00193 Roma Tel. 0613208732-628 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE JSSN 1121-3353 Stampa: I.G.U. srI. - Roma Chiuso in tipografia il 20 n&tembre 1997 In copertina: Fotografia di Enrico Natoli
o
Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
N. 111 1997
Indice
III
La via del Sud
Taccuino i
Montecitorio. Regolamento in prova Antonio Chizzoniti
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A proposito di Europa Giovanni Posani
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Governo invisibile e malgoverno visibile Francesco Sidoti
La sicurezza dei cittadini 19
Le politiche della sicurezza e dell'ordine pubblico Giovanni Aliquò, Roberto Sgalla, Francesco Sidoti 1
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i
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L esternanzzazione aei servizi 49
66
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1 1 1•
UDD1ii
Esperienze di privatizzazione negli Enti locali Barbara Nepitelli USA:
come si privatizza negli Stati Keon S. Chi
La democrazia dell'antipolitica 101
Il declino del voto di classe, di partito e del voto religioso Mattei Dogan
127
La fine della politica e dello Stato Jonathan Rauch
Rubriche 141
Notizie da...
149
Segnalazioni
I'
editoriale
La via del Sud
E
di grande interesse sapere se lo sviluppo dell'economia americana che sta riducendo a livelli assai bassi il tasso di disoccupazione all'insegna della flessibilità dipenda, anche al di là dei "trucchi" che secondo alcuni osservatori caratterizzano questa flessibilità, dal cambiamento di orizzonti e di capacità direzionali delle aziende predicato qualche anno addietro da Gary Hamel e C. K. Prahalad in un best seller della letteratura manageriale. Ricordate Competingfor the Future? Vi si legge: "Per quanto abbiamo potuto constatare finora, il taglio di posti di lavoro nelle grosse aziende non è quasi mai imputabile alla competizione 'globale' o a forti aumenti della produttività. Il maggior numero delle vittime si ha quando un'azienda si scontra violentemente con il futuro e il top management viene colto di sorpresa dall'improvviso cambiamento di rotta. (...) I top manager non devono cercare di sfuggire alle proprie responsabilità, quando il disastro è la conseguenza della propria incapacità di anticipare e modellare il futuro del proprio settore. Analogamente, nessuno che abbia una coscienza sociale può rimanere impassibile davanti alle condizioni disperate di coloro che hanno pagato un prezzo altissimo a causa dell'incapacità della propria azienda di percepire il futuro del proprio settore". E allora: andando oltre la fase dei "managers del denominatore", cioè quelli specializzati nel tagliare i costi (che sono soprattutto, necessariamente, costi di lavoro), occorre ricreare imprenditoria del "numeratore", cioè dell'aumento del fatturato. Fatturato vero, senza trucchi meramente finanziari o contabili. In altre parole, fatturato derivante dall'aver intercettato con tempestività le esigenze dei consumatori, dall'aver migliorato qualità di prodotti e servizi, dall'aver offerto al mercato i prodotti o servizi nuovi che traggono origine dall'esperienza e dalla conoscenza accumulate, poi affinate e rielaborate attraverso la ricerca, da chi ha inteso concentrarsi su specifiche competenze per acquisire o mantenere posizioni di avanguardia o di leadership. E non basta: perché la qualità o il saper venire incontro al consumatore può alla III
fine essere soltanto un pedaggio, cioè un modo per rimanere sul mercato o per affacciarvisi mentre non è detto che tali obbiettivi, ben chiari alle imprese più vitali già negli anni Ottanta, costituiscano un vantaggio competitivo a tempo indeterminato. In realtà, dicono i nostri autori, "un'azienda deve essere in grado di riconsiderare se stessa dalle fondamenta, di rinnovare le strategie fondamentali e di reinventare il proprio settore industriale". In tale riconsiderazione, in cui il più bravo sarà il più umile ad apprendere e il più pronto ad immaginare, c'è un punto fermo intorno al quale non si può girare alla larga: non esiste mercato "servito" o "protetto" o "domestico" che tenga. Si dirà, e forse è stato già detto più volte, che questi sono discorsi per le grandi aziende multinazionali e che, comunque, vale poco parlare in questi termini, per la realtà italiana (dove, come si sa, alhignano i "diversi»). Sennonché - come scrive Gianfihippo Cuneo all'inizio della sua postfazione all'edizione italiana del libro di Hamel e Prahalad, non meno lucida e suggestiva del testo che commenta - questi sono discorsi "per imprese che competono in un mercato globale", cioè "per quasi tutte le imprese, solo che la maggioranza delle imprese italiane ha ancora l'illusione che la competizione possa rimanere limitata al mercato domestico". Se volessimo applicare quest'ordine di idee non soltanto alle singole imprese ma, in termini più generali, ad un sistema economico preso, per esempio, nell'insieme delle sue caratteristiche regionali, se cioè collocassimo oggi una riconsiderazione della "questione meridionale" in tale contesto, molte coordinate mentali proprie di ragionamenti e politiche abitudinarie verrebbero meno. Si afferma che molti sono i "segnali nuovi presenti nella società meridionale, una società vitale e capace di impegno che, con la fine dell'intervento straordinario, ha saputo mettere in campo uno slancio progettuale e propositivo a livello locale di assoluto rilievo. Proprio questo nuovo slancio progettuale costituisce l'aspetto più innovativo di una politica di riequilibrio territoriale che non fa ricorso solo a uno 'strumentario' tradizionale fatto di contributi, finanziamenti agevolati, sgravi, ma che è in grado, anche con il concorso delle forze produttive endogene, di valorizzare capacità e 'saperi' locali". Così si legge in una nota, datata 3 luglio 1997, del Centro Studi della Confindustria. Certamente se ne vorrebbe sapere di più in termini difatti e fenomeni concreti. Anche per evitare nuova retorica e wishfi1 thinking. Ma le ricognizioni riguardanti la situazione del Mezzogiorno sono al momento povere nell'illustrare questo emergere di energie vitali proprie. L'impressione che esse ci siano è diffusa ma rimane da provare quali siano le reali dimensioni. Né dà elementi di prova al riguardo l'annuale "Rapporto sull'economia del Mezzogiorno" pubblicato dalla Svimez. Il suo classico impianto in ter[l'A
mini di contabilità economica non dà spazio a ricognizioni e inchieste mirate a cogliere, raccogliere e interpretare i supposti segnali nuovi dell'emergere, e qualche volta, dell'esplodere di energie proprie. Né si vorrebbe che si confondesse per sintomo di questa realtà il moltiplicarsi dei "patti territoriali" che di per s altro non sono che la riconduzione ai soggetti istituzionali locali di procedure e forme contrattuali necessarie per accedere alle residue risorse finanziarie, nazionali e comunitarie, all'insegna della logica del cofinanziamento e del partenariato imposta dalla Comunità europea. In ogni caso, ammettiamo pure che energie proprie in misura significativa ci siano. Chiediamoci: come si pongono nei confronti della competizione per il futuro in quella logica necessariamente non domestica, né rinnovatamente protetta, che non concede molte alternative se si vuole pensare a imprese che durino? Questo è il quesito fondamentale. Sulla linea di interrogazioni di questo genere si era mossa appena qualche anno fa la breve fase dell'esperienza del CERISDI di Palermo affidata alla direzione di Salvatore Teresi: singolare quanto paradossale esperienza, sorta nella fase di scorcio di un sistema politico degradato e corrotto nel quale, tuttavia, l'intelligenza politica e l'onestà intellettuale di uomini come Rino Nicolosi, pur radicalmente coinvolto da presidente della Regione nel peggiore sistema spartitorio così come egli ha recentemente riconosciuto, consentivano di vedere la necessità di forti iniezioni di qualità per la rinsecchita classe dirigente meridionale in un confronto diretto con il mondo migliore della formazione manageriale internazionale. Di qui, dopo decenni di grande esperienza nella creazione e direzione dell'Insead di Fontainebleau, il richiamo in Sicilia di un emigrato illustre che non aveva perso la speranza di una rinascita della sua terra. L'illusione fu breve, come su queste pagine abbiamo già illustrato (vedi queste istituzioni, n.106/107, 1996 pp. 143-165). Ed ora? Non si dovrebbe ricominciare con quel metodo di formazione che presupponeva la ricerca delle energie nascoste e delle capacità di progettare e realizzare che nel Sud ci sono? La fine dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno con la chiusura dell'Agensud decisa nel 1993 con il decreto legislativo n. 96 (che fu in gran parte guidato dalla necessità di evitare il referendum promosso da Massimo Severo Giannini) esaurì molta della sua spinta in una logica, tutta romana, di passaggio di competenze da organi "straordinari" ad organi "ordinari". E tuttavia consentì la riforma del sistema degli incentivi, sulla linea di meccanismi automatici e non a gestione discrezionale che già nel 1982 sembrava possibile e che, invece, la resistenza dello stesso sistema bancario che gestiva gli incentivi e poi la caduta del Governo Spadolini resero impossibile. In termini più generali, la fine dell'intervento straordi-
nano ha minato le basi di quel rivendicazionismo che la classe politica meridionale alimentò ed esercitò, sostituendosi ad ogni altro ceto dirigente ed approfittando di molti argomenti del meridionalismo tradizionale o tecnocratico. In sostanza, con la fine dell'intervento straordinario si sono compiuti dei passi, con effetti importanti ma non certo indolori (si pensi all'impoverimento di molte aree del Sud), nella direzione del taglio del "denominatore". Si è aperta la strada a quanti sanno di dover "fare da soli", ma partendo da una situazione dove comunque una crescita economica c'è stata, a seguito di una politica di redistribuzione territoriale dei redditi. Inizia la fase dell'aumento del numeratore, a voler usare, almeno in modo analogico, la metafora di Hamel e Prahalad. Ma una politica intesa a far crescere le imprese nel Mezzogiorno non può che fondarsi sulla valorizzazione delle risorse locali, quelle che ci sono e lì dove emergono. Che in quest'opera di valorizzazione possano svolgere una funzione di rilievo le istituzioni locali, rianimate dal rapporto diretto fra cittadinanza e sindaci, è sicuramente vero. Ma la questione non ha soltanto soluzioni istituzionali né può averle. L'imprenditoria non nasce ad opera dei sindaci. Una precondizione in ogni caso è inderogabile: non ricreare in alcun modo la sindrome delle "tavole palatine" e l'indotta mortificante abitudine di un Sud che si mette in fila a chiedere qualcosa a Roma. Riccardo Musatti nel pamphlet "La via del Sud", pubblicato nel 1955 dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, ricordava che il tempio dedicato ad Atena o ad Apollo nella piana del Metaponto, veniva chiamato "ie tavole palatine" perché, secondo la leggenda, "fra quelle colonne, attorno a grandi mense, si riunivano i consiglieri e paladini dell'Imperatore per tenervi banchetto e deliberare intorno a supreme, misteriose questioni". Mentre, "lì presso, sotto il piede di un fico, un sotterraneo mulino macinava la polvere d'oro per il tesoro regale". Musatti temeva che nella fantasia contadina di allora (eravamo ai tempi della riforma agraria degli anni Cinquanta) "le lussuose sedi dei consorzi di bonifica e degli enti di riforma" rischiassero di diventare le nuove tavole palatine. Scomparsa gran parte di quella civiltà contadina, superata la stagione politica che aveva ereditato e trasfigurato sindromi e attese di quelle plebi in un grande rivendicazionismo spartitorio, in nessun modo le nuove "agenzie" di cui si parla per il Sud devono rinnovellare la leggenda castrante delle "tavole palatine". La grande agenzia per l'occupazione di cui ha parlato il Presidente Prodi nel chiudere la crisi di governo di ottobre potrebbe resuscitare, nell'inconscio collettivo, vecchie attese sbagliate al di là delle stesse intenzioni. Altrettanto si può dire degli stessi primi progetti di "razionalizzazione" delle società pubbliche operanti, in varie forme, per la promozione di iniziative imprenditoriali nel Mezzogiorno. Quel che serve è soltanto spingere queste VI
società (Itainvest, Spi, Insud, Enisud, IG, ecc.), ad operare al meglio rafforzando la loro progettualità e, soprattutto, la capacità di individuare e partecipare ad ogni valido tentativo di far stare il Mezzogiorno nella competizione per il futuro, secondo le regole difficili ma inderogabili di questa competizione. Coordinamento ed emulazione sono comportamenti che l'azionista Stato può stimolare, pretendendo risultati e verificandoli con spirito esigente. Senza bisogno di nuove architetture istituzionali. Negli anni Cinquanta, l'"eresia" (di un federalismo rigoroso attento al rapporto migliore fra territorio e livello di governo) di cui Riccardo Musatti si faceva portavoce era che "il problema meridionale è più che problema nazionale, problema europeo e mediterraneo". La lungimirante eresia d'allora può apparire oggi una banalità, nell'ambito delle tremende e grandiose trasformazioni dell'economia mondiale e allo stato della costruzione europea. Eppure, perché la lezione di allora ha, per molti aspetti, la freschezza dell'attualità? È che del federalismo non si è ben appreso il rigore. È allora facile chiedersi cosa c'è di sbagliato e vecchio nel dibattito politico di questi giorni, prodigo addirittura di citazioni della TVA (Tennessee Valley Authority) gloriosa istituzione del New Deal roosveltiano, quando a proposito di quest'ultima si poteva leggere appunto nel pamphlet di Musatti una critica severa: "La TVA, che alcuni novatori in ritardo vanno tutt'oggi esaltando fra noi come insuperabile esempio, ha ormai rivelato tutti i suoi difetti ( ... ) assumendo la fisionomia di un 'braccio esecutivo' del potere centrale".
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Montecitorio. Regolamento in prova di Antonio Chizzoniti
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tretta da una BicameraJe che a settembre sembrava ancora lontana dal traguardo e dall'assetto bipolare zoppo che tutti conosciamo, la riforma del regolamento della Camera ha visto la luce senza riuscire a sottrarsi da limiti e fardelli di un contesto politico-giuridico che le appartiene solo in parte. Naturale, quindi, che si sia già convenuto che tra un anno la Giunta del regolamento dovrà effettuare un monitoraggio sulle novità che funzionano e su quelle che intralciano; per il momento sono già in cantiere altre proposte che saranno sottoposte al giudizio dell'aula, sempre che la legislatura lo consenta. Un regolamento in prova, dunque, in un mondo politico segnato dalla transizione. Non c'è ancora un vero bipolarismo, non c'è più il sistema proporzionale, ed è quindi difficile stabilire regole così delicate come quelle che regolano la vita di un organismo parlamentare in maniera sufficientemente coerente. L'attenzione si è così rivolta soprattutto a quelle modifiche di funzionamento neutre e comunque valide in ogni caso, e a quelle limature e integrazioni adatte a consentire uno snellimento dell'ipertrofico lavoro legislativo. Dopo un lungo dibattito nei mesi precedenti le ferie estive (vedi "queste istituzioni" n. 108), il provvedimento è stato ancora discusso alla ripresa dei lavori ed approvato il 24 settembre. Le maggiori novità riguardano l'organizzazione dei lavori e la formulazione della Agenda, la costituzione di un Comitato per la legislazione, l'introduzione, su modello inglese, del "premier question timd'. Lorganizzazione dei lavori è vincolata per la prima volta alla cer-
Soltanto regole neutre
tezza dei tempi, naturalmente con la garanzia di un esame approfondito dei provvedimenti. Una norma già presente in quasi tutti i parlamenti occidentali, ma che per quello italiano costituisce una vera e propria rivoluzione. Una volta giunto in aula, il provvedimento dovrà essere approvato o respinto entro una scadenza fissa. Una decisione che dovrebbe segnare il tramonto, si spera, di lungaggini oratorie spesso fini a se stesse e l'avvio di una procedura piìt sintetica e rigorosa. Iltutto immerso in una programmazione dei lavori che "istituzionalizza" tempi precisi per gli interventi di maggioranza ed opposizione, a garanzia di quest'ultima. Cambiano anche le modalità di decisione dell'agenda politica, cioè del programma e del calendario dei lavori. Uno dei passaggi più delicati perché, a differenza di quello parlamentare, in un assetto bipolare si dovrebbe in via di massima presumere che sia il governo a decidere o, comunque, a dire l'ultima parola sulla compilazione dell'agenda (per la parte che riguarda lo stesso governo e la maggioranza). Si e così trovato un compromesso: è stata abolita l'unanimità della conferenza dei capi gruppo (in mancanza decideva il presidente della Camera) sostituendola con una maggioranza basata sui consenso dei presidenti dei gruppi la cui consistenza numerica sia pari almeno ai tre quarti dei componenti della Camera. In assenza anche di questo consenso, torna a decidere il presidente. Il calendario dei lavori inoltre è predisposto sulla base delle indicazioni del governo (che indice le proprie priorità) e delle proposte dei gruppi. Una via di mezzo che non elimina il rischiq di ritardare anziché sveltire il lavoro parlamentare. Sarà sempre la conferenza dei capigruppo a stabilire i tempi riservati a ciascun gruppo: oltre che ' ( in dissenso", inoltre, il singolo deputato potrà parlare a titolo personale, sempre all'interno del contingentamento generale dei tempi. Un tentativo viene anche fatto, oltre che per migliorare la qualità dei testi (che ci è stata più volte rimproverata persino dall'Ocse), per migliorare la qualità della legislazione. È stato così istituito un comitato ad hoc composto di Otto deputati scelti dal presidente della Camera sulla base di una rappresentanza paritaria 2
cambiamenti
... e i miglioramenti
della maggioranza e delle opposizioni, che sarà presieduto con una turnazione di sei mesi da uno dei componenti. Questo Comitato legislativo esprime pareri alle commissioni che li hanno richiesti sui progetti di legge in discussione. All'esame presso il Comitato partecipa un rappresentante del governo ed il relatore di commissione. Il parere definitivo viene comunicato anche all'assemblea. Le commissioni che decideranno di non adeguare il testo del provvedimento al parere de! comitato debbono indicarne le ragioni in una relazione all'aula. Anche l'istituzione del "premier question time" finisce con l'apparire una via di mezzo tra le esigenze italiane e le norme Westminster. L'istituto nacque per soddisfare l'esigenza di risposte rapide, tempestive ed esaurienti direttamente dal capo dell'esecutivo in quanto rappresentante e responsabile del governo. La formulazione italiana è un p0' annacquata: prevede che nello svolgimento di "interrogazioni a risposta immediata" intervengano "per due volte il Presidente o il Vicepresidente del Consiglio dei ministri e per una volta il ministro ed i ministri competenti per le materie sulle quali vertono le interrogazioni presentate". È naufragato invece il tentativo per consentire la costituzione di gruppi "linguistici" di almeno tre componenti (la soglia è di venti) che avrebbe dovuto garantire una più incisiva presenza delle etnie non italiane rappresentate in parlamento e che attualmente confluiscono nel gruppo misto. Un gruppo che si è dilatato a dismisura (conta 47 deputati), nel quale confluiscono esponenti delle più svariate componenti politiche che non raggiungono la soglia dei venti deputati e che risulta in questa legislatura dominato, per ragioni numeriche, dalla massiccia presenza dei Verdi. Il nuovo regolamento prevede, adesso il riconoscimento delle "componenti politiche" presenti nel gruppo stesso purché abbiano almeno dieci deputati. Il risultato soddisfa contemporaneamente esigenze amministrative e politiche. Alle singole componenti vengono assicurate, per le loro funzioni, disponibilità di locali ed attrezzature e assegnati contributi a carico del bilancio della Camera. Inoltre, le componenti politiche devono essere rappresentate negli organi direttivi del gruppo misto ed hanno la
Il "premier question time"
Un riconoscinto per i dispersi
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facoltà di rivolgersi al Presidente della Camera se ritengono pregiudicato un proprio fondamentale diritto politico. Un assestamento del limbo dei gruppi "dispersi". Un ulteriore argomento che conferma l'impressione di fondo: una riforma che appare a miglior ragione un aggiustamento al tempo che passa e una riformulazione che timidamente assicuri, per quello che è possibile, uno snellimento dei lavori di un Parlamento che non ha mai brillato per la speditezza e concisione dei suoi lavori.
A proposito di Europa di Giovanni Posani*
seguito dello scorso editoriale (Europa: si addensano le queAsti oni dirompenti), un nostro lettore ci ha inviato un comento che riteniamo interessante pubblicare. Vorremmo, così, inaugurare un nuovo rapporto con i nostri lettori, che invitiamo a parteczpare più attivamente al dibattito, gia avviato da qualche tempo sulle nostre pagine a proposito di Europa, cittadinanza attiva e riJrme delle istituzioni.
Gentile Direttore, ho molto apprezzato lo sforzo che la Sua Rivista ha fatto per far comprendere l'importanza della fase di transizione dell'Unione monetaria, soprattutto lo sforzo per uscire dal coro di banalità sull'Euro si o Euro no, condito da semplicistiche prediche sui ragionieri comunitari Sono molti anni che mi occupo di politiche comunitarie, in particolare di problemi agro alimentari, e da tempo sto cercando di far capire ai settori interessati che quello che sta accadendo in campo agro alimentare non è semplicemente un'evoluzione, una logica conseguenza degli accordi in sede Gatt o del trattato di Maastricht, ma una vera e propria rivoluzione che riguarda tutti quanti. Qualcosa si muove, ma per non correre il rischio di restare in quella ristretta cerèhia dei quattro suoi lettori, dovremmo fare uno sforzo di fantasia e cercare di convincere i cittadini con esempi sulle cose che più da vicino li riguardano: una potrebbe essere il cibo, il mangiare.
La termodrnamica nell aAllora per descrivere quello che sta accadendo nell agricoltura gricoltura europea si può ricorrere ad un paragone termodinamico: il siste- europea ,,
* Direttore del centro studi Aapes.
I II
ma nel quale viveva la Pac era un sistema isolato che aveva raggiunto un equilibrio e quindi un grado elevato di entropia. Oggi si sta passando ad un sistema aperto e più precisamente ad un sistema dissipativo non lineare che scambia materia ed energia con l'esterno. Qui ogni più piccola fluttuazione può essere amplificata e può far passare il sistema ad una condizione macroscopicamente nuova che è tanto imprevedibile, quanto imprevedibile è la fluttuazione che la genera. Non è più, dunque, valutabile a priori e tantomeno riproducibile. Il problema non è più solo quello dei poveri contadini che debbono abituarsi ai prezzi mondiali, come troppo spesso si sente ripetere, poiché questi famosi prezzi mondiali erano anch'essi frutto di una sorta di entropia tra sistemi isolati; il vero problema è che, paradossalmente, forse non ci saranno più i prezzi ed i mercati come sono stati sempre intesi. (Si pensi ad esempio, al mercato della soia o del mais dopo la sentenza della Corte Suprema degli USA sulla brevettabilità delle speci viventi: una piccola fluttuazione che potrebbe determinare la fine dei mercati così come oggi sono intesi a favore di un sistema completamente dominato da uno o due soggetti che detengono il brevetto di quella determinata specie). Il problema è, dunque, dell'intera popolazione mondiale che deve abituarsi ad un sistema di relazioni economiche non più prevedibile. Se dunque, come pare, è irreversibile l'orientamento verso un si- Quali le stema dissipativo non lineare, quali sono le condizioni per man- condizioni tenere un livello accettabile di controllo sulle conseguenze delle per un fluttuazioni, perlomeno per il sistema agro alimentare europeo? controllo? Per semplificare dobbiamo ricorrere ad alcuni postulati. Il primo postulato di partenza è che la grande differenziazione del sistema agricolo alimentare ed ambientale europeo sia una ricchezza e non un handicap. Il secondo è che il consumatore europeo sia interessato a mantenere viva questa diversità e che, sia pur oggi in modo contraddittorio, sia disposto, se adeguatamente informato, a sopportare alcuni sacrifici per mantenere questa diversità. Il terzo postulato è che esista un segmento sempre maggiore di consumatori che desiderano ritrovare una unitarietà nel loro comportamento di consumatori, di elettori e di contribuenti. 6
In sintesi, si può immaginare il futuro dell'agricoltura e del sistema agroalimentare europeo, ormai distanti dall'immagine di assistenzialismo e spreco, come uno dei punti di riferimento culturale, sociale e territoriale per i cittadini europei? L'agricoltura, l'alimentazione, lo spazio rurale possono essere concepiti come un'insieme organico di genius loci, come uno degli elementi fondanti, nella ricchezza delle diversità, l'identità europea? Per rispondere affermativamente a questi interrogativi è necessaria l'esistenza di un sistema produttivo fortemente collegato ai bisogni di naturalità e di sicurezza richiesti dal consumatore; un sistema perfettamente integrato con l'ambiente, in grado di ricostruire porzioni di natura (non mercificabile) distrutte da altri cicli produttivi. Un sistema produttivo - è il caso dei prodotti tipici - che valorizzi il saper fare del lavoro umano, ora che le innovazioni dei processi industriali e nei servizi sembrano vanificarne l'esistenza. Nel contempo, bisogna poter contare su un sistema agroalimentare capace di esportare nel mondo i suoi contenuti di qualità e di cultura dell'alimentazione, in grado di mantenere un ruolo fondamentale di soccorso e di aiuto per i Paesi in via di sviluppo, ma che sappia anche mantenere una certa flessibilità nel caso in cui si verifichi la necessità di riconvertire una parte consistente delle proprie terre. Se è vero tutto questo, il dibattito sulla riforma della PAC sembra invece rimasto fermo ad una concezione di "sistema isolato", cioè alla considerazione che i fenomeni, in un certo senso, restino governabili e prevedibili con i tradizionali strumenti, seppur pesantemente ridimensionati. In questo contesto è disarmante la scarsa o nulla considerazione posta dalla Commissione e dai governi rispetto all'attore principale delle possibili riforme: il consumatore, che è anche contribuente ed elettore. Attore principale poiché una parte importante della produzione già vive autonomamente sul mercato e, quindi, vive il consumatore come protagonista; attore principale perché come contribuente è chiamato a pagare i costi delle politiche agricole (che, va ricordato, in una certa misura sono - o dovrebbero essere - an-
Una produzione 1U umana
Porre al centro il consumatore
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che politiche sociali e di riequilibrio territoriale); attore principale perché come elettore deve essere messo in condizione di decidere effettivamente sulle grandi strategie di politica agroalimentare, mentre si ha la sgradevole sensazione che, soprattutto negli ultimi anni, siano sempre più lobbies trasversali a decidere. A questo punto, dunque non si tratta più di modello renano o di modello anglosassone; se non si riconquista, anche nell'atto del consumo, l'unitarietà di comportamento del cittadino/elettore/contribuente, credo che ben poche speranze potrà avere un sistema agroalimentare europeo e con questo una fetta importante della nostra cultura, dei nostri paesaggi, del nostro modo di vivere. Tutto questo però non è vero solo per l'alimentazione; altri esempi non mancano: basti ricordare il caso delle piattaforme petrolifere che la Shell voleva inabissare nel Mare del Nord. Niente potettero fare i Governi, niente la Commissione o il Parlamento Europeo, solo i cittadini, alcune decine di migliaia di cittadini (ma soprattutto consumatori) che, per una settimana, smisero di rifornirsi alle pompe della Shell. L'elettore non conta più, elegge solo dei signori che sono meno antipatici di altri in televisione, poiché la differenza non è certo nei programmi; lo Stato-nazione, quello rinascimentale e quello venuto fuori dal salone della pallacorda, nei fatti non esiste più, non batte più moneta e non riscuote le gabelle, ha rotto i patti con gli strati sociali più importanti; contro le Imprese Globali non esiste autorità sopranazionale capace di regolamentazione, loro non vivono nello spazio, ma nel tempo; contro l'immensa liquidità globale non c'è banca céntrale che ce la possa fare. Allora? Allora l'unica risposta che vedo è nel centrare l'attenzione sul cittadino consumatore elettore e contribuente; far divenire, dunque, l'atto del consumo, che è l'atto in assoluto più importante in questa Società, una scelta anche politica. Basta dunque spendere soldi nel cercare una competizione sui costi di produzione, o nella regolamentazione dei mercati, aiutiamo piuttosto il sistema europeo a parlare ai consumatori. E se questo sistema, se pezzi di questo sistema, avranno veramente qualcosa da raccontare, si salveranno, anche se non utilizzano manodopera infantile o capitali dei narcotrafficanti.
Il cittadino non è soltanto contribuente ed elettore
Quindi per concludere, signor Direttore, perché, nel parlare di istituzioni non ci si ricorda un po' più dei cittadini e quindi, dei consumatori, che dovrebbero essere la stessa cosa, ma oggi sono completamente scissi? Perché non si prova a ricostruire una nuova alleanza tra cittadino contribuente elettore e consumatore? Forse così si potrebbe ricostruire anche un tessuto democratico che oggi sembra svanito nel nulla, e forse anche delle nuove istituzioni, una nuova identità europea. Nella peggiore delle ipotesi saremmo in sei.
Governo invisibile e malgoverno visibile di Francesco Sicloti
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n un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera", il 14 novembre 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva: "Io so. Io so i nomi dei mandanti... Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Bologna e di Brescia... Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Lo so perché sono un intellettuale...". Diceva di conoscere i mandanti, le motivazioni della strategia della tensione, il gruppo di potenti che aveva organizzato le stragi "con l'aiuto della Ci e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia", pur senza avere prove, e "nemmeno indizi". Ma, in quanto intellettuale, "sapeva". Molti lo giudicarono (e tuttora non hanno cambiato parere) uno scritto lucido e profetico. E perché un intellettuale non dovrebbero essere in grado di discettare sulla Cii, sul Mossad, sul SIsMI e sul SIsDE, pur non sapendo quasi niente sulle vicissitudini, l'organizzazione, le finalità di queste strutture? In fondo, chi è specialista nel fornire quotidianamente brevi cenni sull'universo, perché si dovrebbe ritrarre davanti all'identificazione dei mandanti di una strage? Che ci vuole a ricostruire un particolare se già si conoscono il disegno generale, la trama, il percorso e l'esito? Ragionamenti avventurosi, sbrigativi, riduttivi, tipo quelli di Pasolini hanno costituito il fondamento per una interpretazione, una vulgata, una leggenda che ha aspetti contraddittori a dire poco: milioni di intellettuali "sanno" come sono andate le cose, ma da circa trent'anni investigatori, magistrati, commissioni parlamentari d'inchiesta lavorano con risultati a dire poco non definitivi. A volte qualche frammento di verità si è rivelato nientemeno che per via spiritica - e continuiamo a dire poco. Nel passato, anche le ipotesi più azzardate erano prese in considerazione pur in mancanza di prove e indizi. Adesso, dopo tante 10
Benché gli intellettuali cc sappiano
indagini, una nuova e più avvertita cultura dell'intelligence in Italia comin,cia a formarsi, in maniera neghittosa e timida, costretta a farsi largo in mezzo a interpretazioni concettualmente figlie della Guerra Fredda. Queste macerie ideologiche, ingombranti quanto vetuste, sbarrano tuttora la strada alle analisi degli studiosi, degli investigatori, dei magistrati, delle commissioni parlamentari d'inchiesta. Lo schema interpretativo della strage di Stato, della strategia della tensione, dello Stato parallelo, del doppio Stato, e così via in una molteplicità di versioni e specificazioni al fondo unitarie, si è imposto a ragion veduta all'interno della cultura di sinistra e poi in tutta la cultura italiana, perché coglieva effettivamente una parte significativa della verità, relativa a un numero impressionante di depistaggi, omertà, complicità. Quello schema interpretativo è nato in un clima ideologico evidentemente ormai remoto, intasato di disinformazione e demonizzazioni reciproche; eppure tiene ancora banco e viene contrastato da reazioni circospette (eccezionalmente vibranti furono notoriamente quelle del presidente Cossiga; un esempio si trova ristampato nel primo numero della bella rivista diretta da Carlo Mosca, Instrumenta). Veramente si può ancora continuare a sostenere che in Italia siano state attuate le stesse politiche sperimentate nel Cile di Allende e nel Nicaragua di Ortega? Possiamo continuare a pensare, come è stato autorevolmente scritto, che l'uccisione di Moro "rientra nella stessa logica strategica del delitto Kennedy, dell'uccisione di Mattei, di Sadat e per arrivare rapidamente ai giorni nostri, del presidente della Deutsche Bank, Alfred Herrhausen. Tutti delitti senza mandante..."?
Un' interpretazione ancora valida?
Il tentativo di trovare una via intermedia nella sterile diatriba tra complottisti e anticomplottisti è esplicitamente il punto d'arrivo del recente volume Lo Stato parallelo. L'Italia oscura' nei documenti della Commissione Stragi, Gamberetti 1997: una fitta antologia di documenti inquietanti a cura di Paolo Cucchiarelli e di Aldo Giannuli, consulente della Commissione Stragi, perito in varie indagini sui misteri d'Italia, e diventato di recente molto noto per avere scoperto alcuni ormai famosi faldoni del ministero dell'In-
Lo Stato parallelo
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temo che erano stati inspiegabilmente messi da parte e che sembra contengano materiale di rilievo. Pur collezionando una massa davvero imponente di documenti sugli aspetti più inquietanti della nostra storia, e pur appartenendo ad un'area culturale e politica indubbiamente "di sinistra", gli autori arrivano a conclusioni non scontate, che si allontanano rispetto a quelle maggioritarie in un vastissimo schieramento. Così scrivono a p. 384 della loro ricerca: "la lettura dei documenti segnala la presenza di più attori e non sempre in comunanza tra loro.., i ripetuti conflitti tra alte gerarchie militari testimoniano di uno stato di tensione che va oltre le rivalità personali - pur presenti - e lasciano intendere l'azione di diverse cordate di potere, con obiettivi non sempre coincidenti. Né si può dire che l'azione dei servizi di sicurezza dei diversi Paesi occidentali sia stata sempre ispirata ai medesimi disegni... E così l'affacciarsi intermittente della malavita organizzata fa supporre che essa abbia trovato in queste vicende un'utile occasione di inserimento per perseguire scopi propri... Da queste premesse discende una conclusione che è il contributo Più attori in più importante del volume: " dunque ragionevole supporre che gioco all'interno della strategia della tensione abbiano agito più attori, in rapporto di reciproca strumentalizzazione o in occasionale conflitto tra loro...". Se la strategia della tensione non è il prodotto delle scelte di un solo protagonista, allora non è più una strategia unitaria. La "tensione" fu il risultato che ci fa apparire come unitario un fenomeno che ebbe coerenza solo nella nostra percezione: una serie di avvenimenti differenti per origini e scopo produceva lo stesso stato d'animo, e dunque induceva ad immaginare una strategia unitaria, mentre in realtà esistevano diversi attori con diverse strategie. La produzione dello stesso effetto induceva a credere nell'esistenza della stessa regia. Cucchiarelli e Giannuli colgono magistralmente nel segno per quanto riguarda l'analisi, anche se in qualche modo rimangono timidi nelle conclusioni e non si spingono molto avanti nello studio di alcuni aspetti che avrebbero potuto rafforzare ed approfondire la valutazione d'insieme. Ad esempio, in merito ad un tema come il caso Moro, che è un luogo classico della ipotesi del complotto, non si può dimenticare l'analisi del giudice Ferdi12
nando Imposimato che si è occupato del problema interrogando i testimoni, gli autori, gli specialisti, cioè svolgendo in prima persona le indagini. A suo parere, "Dietro le Brigate rosse ci stavano le Brigate rosse". Oppure, per completare il quadro d'insieme sul terrorismo, non si dovrebbe dimenticare l'attiva presenza in Italia negli anni Settanta anche dei servizi segreti dei Paesi dell'Est, in uno scenario che comprendeva l'attentato al Papa, avvenuto, si dice, probabilmente sotto la direzione o quanto meno con la collaborazione di una parte dei servizi segreti bulgari e presumibilmente con la regia, o la collaborazione, o l'acquiescenza del KBG (o di una sua parte rilevante). Non bisognerebbe dimenticare neanche la presenza "oscura" di altri servizi segreti dei Paesi dell'Est; ad esempio, i cecoslovacchi, indicati come sicuri responsabili almeno dell'addestramento di alcuni dei fondatori del terrorismo italiano. Oggi fare queste osservazioni è possibile senza suscitare il sospetto del pretesto anticomunista che pesò molto nelle ricostruzioni proposte all'epoca sotto l'incalzare degli avvenimenti (basti ricordare in proposito la polemica che contrappose Enrico Berlinguer e Leonardo Sciascia, con l'imbarazzata testimonianza di Guttuso). Se vogliamo ricostruire quel periodo nel suo insieme non possiamo dimenticare aspetti che sono di rilevante importanza per arrivare ad un chiarimento su punti cruciali, almeno dal punto di vista metodologico. Uno è questo: erroneamente alcuni interpreti hanno coltivato un'immagine del tutto assurda del Grande Vecchio ("una leggenda metropolitana", dicono Cucchiarelli e Giannuli); la CIA onnipresente e onnipotente non è mai esistita: in realtà esisteva un organismo diviso in fazioni interne ferocemente l'una contro l'altra armata; un organismo che ha dato un contributo decisivo alla vittoria nella Guerra Fredda, ma a prezzo di sbandamenti e incongruenze che sono arrivati sino all'incapacità di smascherare perfino un doppiogiochista matricolato e sbugiardato come Aldrich Almes, che è riuscito per anni a mandare al massacro i suoi collaboratori più preziosi.
Alcuni punti cruciali da chiarire
A differenza di quanto appare in alcuni stereotipi supinamente accettati per incurabile analfabetismo funzionale, il mondo ame13
ricano dell'intelligence è un coacervo che dall'insediamento delle commissioni d'inchiesta Pike e Church (1975-1976) è sottoposto ad un controllo di commissioni parlamentari specializzate, fra l'altro, nel crocifiggere i funzionari e nello spifferare indiscrezioni alla stampa. Nel bene e nel male, il controllo democratico dei servizi segreti negli Stati Uniti funziona sistematicamente. Le magagne della CIA, le differenze e le rivalità della CIA con il Pentagono e l'FBI, gli scontri furibondi di tattica e di strategia all'interno della community intelligence sono stati pubblicamente descritti in varie centinaia di volumi forse stampati alla macchia, visto che non vengono mai citati in Italia, nonostante siano pubblicati dai più illustri editori inglesi e americani (mi permetto di citare un mio intervento, dove spiego più ampiamente alcune delle cose qui dette in estrema sintesi: F. Sidoti, Terrorism Supporters in the West. The Italian Case, in N. GaI - Or (ed.), Tolerating Terrorism in the West, Routledgeand Kegan Paul, London 1991). In realtà quel cosiddetto governo invisibile dei nostri peggiori in- La leggenda cubi di paesotto a sovranità (mentale) limitata, è sempre stato del "Grande policentrico, poliarchico, pluralistico (direi casinistico, se mi è Vecchio" consentito) e, a suo modo, democratico. Soprattutto, il governo invisibile si è mostrato più volte contraddittorio e inefficace non meno del governo visibile, di cui del resto è regolarmente stato emanazione, caricatura fedele per quanto grottesca e degenere. Gli Stati Uniti sotto questo profilo sono un'Italia al cùbo: con una sequenza spaventosa di assassini politici e misteri irrisolti, con le più viete figure folkloristiche come il colonnello falco-fascistoide e lo spione colomba-criptocomunista, e soprattutto con un codazzo assordante di incalliti complottisti della teoria e della pratica. Roba con cui Oliver Stone ci campa e ci ingrassa, ma che solo al cinema può essere presa sul serio. Il Grande Vecchio è una leggenda metropolitana; ma nella sua versione italiana è una leggenda coltivata ad arte, perché può servire a fare dimenticare i responsabili in carne ed ossa? La ricerca di Cucchiarelli e Giannuli è altamente meritoria, e compie un notevole passo in avanti nella direzione giusta, ma si 14
ferma davanti a quell'ulteriore conquista di metodo e di morale che, a mio modesto avviso, aprirebbe definitivamente la strada ad una diversa maniera di ragionare e di fare: perché per tanto tempo una tanto abbondante genia di farabutti ha potuto esercitarsi in corpore vili sulla pelle degli italiani? La risposta della scuola complottista è sempre stata istintiva: la natura particolarmente feroce dei mandanti (cioè il loro bieco anticomunismo) spiega tutto. Ma c'è almeno un altro aspetto da prendere in considerazione: mafie, cordate pseudomassoniche, cricche affaristiche, agenzie del crimine, servizi segreti della pii varia origine, hanno potuto fare quello che hanno voluto perché le istituzioni della Prima Repubblica, sgangherate, impreparate, inefficienti, ignoranti, clientelari, e infine corrotte (e questo è l'anello finale, non l'inizio della catena causale), non erano in grado di farsi rispettare da nessuno. Paradossalmente, creavano un vuoto di potere e di intelligenza che è stato riempito con il piombo e con il sangue. E così chi ha voluto, ha potuto fare quel che gli pareva e piaceva, potendo contare su pusillanimità, stupidità, ignoranza, fraintendimenti, coperture, alleanze. Nel passato le cose sono andate in questo modo. Oggi vanno in tutt'altro modo: sono cambiati i problemi.
Il vuoto di potere e d intelligenza della Prima Repubblica
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dossier
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La sicurezza dei cittadini
La crescente domanda di sicurezza è, oramai, un dato costante dei bisogni individuali e collettivi di questi ultimi anni. Si tratta di un ventaglio di temi oscillanti dalla microcriminalità alla criminalità organizzata, dall'esercizio della azione penale all'espiazione della pena, dalle attività di polizia giudiziaria alflinzionamento e all'organizzazione degli apparati. Né per altro verso, nelle elaborazioni delle politiche territoriali della sicurezza, si possono trascurare i profili attinenti al diretto coinvolgimento, la cui dimensione è da studiare, dei sindaci dei Comuni. Da questi ultimi, infatti, giunge la richiesta sempre più pressante, di un maggior potere di azione anche in tale ambito. Inoltre, gli importantissimi risultati conseguiti nella lotta al fenomeno mafioso e alla diffisa corruzione non devono far dimenticare che ilfiirto, la truffa e gli altri reati considerati «minori" sembrano di fatto impuniti ed impunibili, accrescendo un forte disagio tra i cittadini. Si può credere che sia il momento di ripensare la titolarità dell'azione penale ovvero la possibilità di sganciare almeno in parte l'attività di polizia giudiziaria dall'azionepenale in quanto tale. Questo consentirebbe di poter avviare una maggiore attività inve17
stigativa, di poter svolgere un numero maggiore di indagini e probabilmente signficherebbe poter dare una risposta più pronta a tutti gli aspetti di criminalità dffiisa che esistono nel nostro Paese. Già agli inizi degli anni sessanta sulla rivista il Mondo, Gino Bellavita pubblicò una serie di articoli, raccolti in un libro delle edizioni di Comunità (1962), fortemente critici sul Paese delle cinque polizie. Ragionando non soltanto sulle cinque polizie, ma anche sulle specialità di ogni singola polizia e dimostrando, quindi, duplicazioni di apparati e quant'altro. L'insieme di tutti questi temi costituisce il seguente dibattito in redazione tra Giovanni Aliquò, segretario nazionale dell2lssociazione Nazionale Funzionari di Polizia (ANFP), Roberto Sgalla, vicepresidente dell'Osservatorio per la legalità, Francesco Sidoti, docente di Criminologia all'Università di Teramo, e Saveria Addotta, Ignazio Portelli e Massimo Ribaudo per la redazione.
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Le politiche della sicurezza e dell'ordine pubblico Un dibattito in redazione
LA REDAZIONE
L'unico scopo dell'introduzione è quello di fissare un primo filo comune di discussione. Partendo dal dato dell'aumento dell'insicurezza soprattutto nei centri urbani. Dopo un primo giro di interventi, potremmo approfondire tre direttrici prin.cipali: la organizzazione e la gestione dell'ordine pubblico, l'esercizio della azione penale e la tutela dei cittadini, la sicurezza urbana ed il ruolo dei sindaci. ROBERTO SGALLA
Per seguire la traccia proposta, sul piano logico, preferisco dividere in due il corso del mio intervento. In primo luogo mi soffermerò sui meccanismi che operano per l'ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini, per poi passare all'ambito propositivo degli interventi da operare. Parto da un dato storico. Dopo circa venticinque anni, il tema della microcriminalità, o della sicurezza urbana per usare un termine tecnico, è tornato prepotentemente a essere un elemento importante del dibattito quoti-
diano sulle funzioni statali e sulla tutela dei diritti del cittadino. Negli anni settanta, prima delle grandi emergenze, c'era stata una seria riflessione sui fenomeni della microdelinquenza, ma era molto strumentalizzata e ad uso dei ceti medi, moderati, e non intesa come oggi, in un'accezione che interessa trasversalmente tutte le classi sociali e culturali. Oltre tutto si è compreso, dopo una prima fase di titubanza, che affrontare il tema della sicurezza urbana non diminuisce, ma anzi integra e rafforza l'impegno dello Stato contro le grandi organizzazioni criminali. Non delegittima l'azione antimafia né sposta l'attenzione su un quadro "minore" rispetto all'allarme per i grandi fenomeni di criminalità organizzata. Credo, quindi, che si sia preso atto del fallimento dei modelli tradizionali sui temi del contrasto alle forme di microcriminalità. Modelli che sono riferibili a specifiche matrici politico-culturali. Semplificando. Il modello teorico che faceva riferimento alla destra vede, quali forme per contrastare i fenomeni di microcriminalità, l'inasprimento delle pene e il conferimento di 19
maggiori poteri alle forze di polizia: un primato quindi dell'agenzia di controllo sociale, delle forze di sicurezza pubblica. Il modello che potremmo definire "di sinistra" è orientato alla prevenzione, all'azione di soggetti come gli assessorati ai servizi sociali, soggetti da considerare di supporto all'attività di polizia, in grado di riabilitare e di sviluppare un maggior senso civico che possa prevenire e contenere le esplosioni di microcriminalità. Tutti e due questi approcci hanno mostrato i loro limiti, non fosse altro perché ormai c'è una percezione dell'insicurezza del cittadino che è estremamente alta e attraversa ideologie, schieramenti, classi d'età. Quest'insicurezza però non sempre corrisponde ad una crescita del numero delle vittime. L'ultimo rapporto annuale del ministero dell'Interno sullo stato attuale della criminalità non denuncia un incremento di reati: vi è però, come si è detto, un maggior malessere sociale, una maggiore e diffusissima insicurezza. Al fallimento dei due modelli si è cercato di rispondere con uno slogan ormai diventato usuale: "la solidarietà nella legalità". Uno slogan che può andar bene per tutti i modelli politici ed ideologici, specialmente se coniugato bene. Per esempio, a fronte di uno dei fenomeni più spesso chiamati in causa a proposito dell'insicurezza: quello dell'immigrazione. Questo comporta, 20
senza voler criminalizzare nessuno, oggettivamente un aumento di criminalità in certe aree territoriali ed è una delle fonti principali di insicurezza nella coscienza del nostro Paese. La cultura della tolleranza non può essere disgiunta da una forte richiesta di rispetto della legalità, che significa anche utilizzazione di sistemi repressivi, richiami al rispetto rigoroso delle norme. C'è troppa impunità che corre il rischio di cortocircuitare la società. È chiaro che qui manca un convitato di pietra che quasi mai viene chiamato in causa e cioè il problema delle "risorse". Discorso importante ma che qui lascerei da parte. Credo che oggi, ad un problema complesso quale quello della sicurezza e dell'ordine pubblico, non si possano dare risposte semplicistiche. Questo tema presuppone risposte molto articolate e complesse date dai soggetti chiamati ad interagire, di livello istituzionale diverso: enti locali e statuali. Le politiche, che sono quindi complesse e di difficile agibilità, possono essere concretizzate soltanto da più soggetti in sinergia tra loro. In ogni caso, è necessario rispondere in termini di politica alta, proprio perché il tema esprime uno dei bisogni fondamentali che oggi l'uomo manifesta. L'indagine europea, che è alla base del nostro dibattito, ribadisce con forza proprio questa voglia di sicurezza, come uno dei bisogni primari del citta-
dino europeo. Viene insieme o subito dopo della ricerca della stabilità lavorativa. Mi riservo, più avanti, di tentare di definire gli elementi strategici per far fronte a questo problema. GIovNI ALIQUÒ
Innanzitutto, prendo uno spunto da quanto detto finora da Sgalla: le risorse, materiali ed umane, sono sempre il convitato di pietra in questi dibattiti. In Italia le risorse a disposizione per l'ordine e la sicurezza pubblica non mancano, ma vengono sprecate. Il fatto è che manca la capacità di guardare al problema della sicurezza secondo una prospettiva "interdisciplinare". La risposta al crimine, come vedremo, non deve essere soltanto una risposta di polizia. È questa miopia che provoca grandi sprechi. Per le attività di polizia, invero, le risorse ci sono. Il problema è che sono mal distribuite e, sovente, sono impiegate secondo mode!li superati. I modelli operativi delle nostre forze dell'ordine sono improntati a scarsissima flessibilità. Sono modelli tendenzialmente statici. La necessità di contenere l'insorgenza (o la virulenza) di un fenomeno criminoso in una determinata zona porta ad impiegare risorse che è difficilissimo stornare e reimpiegare in zone diverse. Gli aspetti organizzativi, in particolare, sono sempre visti come la parte più noiosa dell'attività di polizia. Quella
meno gratificante. Negli stessi sceneggiati televisivi si mostra sempre il poliziotto che agisce, improbabili capi di squadre mobili che sparano e sfondano porte. Mentre invece, anche nell'ambito della risposta repressiva al crimine è essenziale il momento organizzativo e la flessibilità delle risorse. Sino ad oggi si è andati nella direzione completamente opposta. Non possiamo che denunciare questi elementi di rigidità: lacci e laccioli di natura giuridica, scarsa mobilità, con sovrapposizioni e polverizzazioni di competenze del tutto anacronistiche nelle Forze dell'ordine. Si dice che in Italia le forze di polizia siano cinque. In realtà sono molte di più. Fra capitanerie di porto, organi di polizia municipale, regionale e provinciale con funzioni di polizia giudiziaria a vario titolo, abbiamo una miriade di polizie. Il tutto in un "sistema sicurezza" che non consente il dialogo informativo tra i vari "frammenti". Si verifica, infatti, che gli stessi accertamenti, le stesse informazioni sono detenute o ricercate da più persone e, sovente, le operazioni per l'acquisizione si replicano più volte con un dispendio di risorse enorme e con un rallentamento dell'azione di contrasto della criminalità. I criminali, invece, sono molto più rapidi nei loro affari: girano con la velocità degli studi professionali, delle intermediazioni bancarie internazionali su paradisi off shore. Bisogna cominciare a ripensare 21
subito all'organizzazione delle forze per una risposta più efficace al micro ed al macrocrimine. Da più parti si sente oggi parlare di nuovi sistemi per rispondere al microcrimine: uno dei metodi più in voga è quello della zero tolerance : si afferma che a New York abbia ottenuto buoni risultati. A questi nuovi modelli si lega, conseguentemente, il discorso sul decentramento in periferia delle responsabilità di coordinamento delle Forze di polizia sul territorio per la lotta alla criminalità comune. Ma qui interviene un nuovo interrogativo: quanto la realtà degli Stati Uniti è assimilabile alla nostra? Secondo me, molto poco. New York, con i suoi undici milioni di abitanti, non è Roma. Il sindaco di New York ha una responsabilità su di un numero di cittadini di molto superiore a quello residente nel Lazio e nella Campania insieme. Sono poi diverse le aree territoriali. E c'è, anche, una più profonda diversità culturale e tecnologica. Se vogliamo spostare da un organo tecnico, quale è attualmente il questore, ad uno politico, il sindaco, la responsabilità della sicurezza pubblica - come peraltro sembra trasparire dalla prima bozza D'Onofrio presentata alla Bicamerale (nella quale si parla di competenza dello Stato della sicurezza privata dei cittadini) - abbiamo l'obbligo di andare più in fondo e considerare la realtà statunitense nel suo complesso. Negli Stati Uniti, 22
ad esempio, lo scambio informativo è favorito dal largo impiego di strumenti informatici standardizzati che, in Italia, almeno per il momento, resta solo una chimera. Nel nostro Paese, non siamo in grado, tranne che in pochissimi casi, nemmeno di conoscere in tempo reale i dati anagrafici o le registrazioni anagrafiche, mentre altrove le Forze di polizia hanno a loro disposizione addirittura i dati delle carte di credito. Fraintendendo sul diritto alla "privacy" ed invocando a sproposito il "Grande Fratello", siamo addirittura riusciti a privare le Forze di polizia di uno strumento di investigazione essenziale come quello che permette di conoscere, in tempo reale, chi siano i titolari delle utenze telefoniche. Comunque, starei attento a proporre in modo avventato nuovi modelli come quello della "zero tolerance". Certo, ne abbiamo avuto a Napoli un assaggio con il recente controllo fatto sui ciclomotori. A New York ha funzionato, ma a Los Angeles ha provocato quasi una guerra urbana. Negli stessi Usa le critiche a questo metodo sono assai diffuse. Il "Time" ha già criticato fortemente 1 approccio «zero tolerance", perché spingerebbe le Forze di polizia ad usare un atteggiamento particolarmente rigido ed intollerante e, quindi, di scontro con la società civile che può causare episodi come la rivolta di Los Angeles. Se vogliamo accettare con maturità la sfida
per una società aperta e multirazziale dobbiamo stare molto attenti a proporre modelli organizzativi e di intervento per la tutela della sicurezza pubblica che puntano allo scontro più che al dialogo con le varie componenti sociali. Ho sempre creduto di più al potere dell'organizzazione e della prevenzione. Penso che si debba finalmente uscire dagli equivoci, chiarire chi sono i responsabili dell'ordine e della sicurezza pubblica e dare loro degli strumenti conoscitivi e di intervento seri. Le statistiche sulla sicurezza pubblica e sullo stato del crimine, sono purtroppo inattendibili, perché ancora fondate su parametri quali gli arresti, le denunce, le segnalazioni. Non è agevole rendere un quadro coerente in un panorama così parcellizzato di Forze di polizia. Quante sono state effettivamente le denunce? Quanti gli arresti? In una provincia come Napoli può addirittura risultare difficile ricostruire quanti sono stati gli omicidi in un dato periodo. È questo il motivo per il quale anche le prefetture, a volte, hanno finito per fornire dati che si discostavano a volte sensibilmente dal reale. Ecco, quindi, la necessità di partire dagli strumenti di valutazione ed iniziare a ripensare quali possono essere i parametri per misurare il "sentimento di insicurezza. Il questore di Roma, Gennaro Monaco, ha recentemente affermato che vi-
viamo in una delle città più sicure d'Europa. Eppure girando per la nostra città mi sembra che siamo ridotti a vivere in una sorta di fortezza. Sistemi d'allarme, porte blindate ed altre difese passive sono il corredo della maggioranza delle unità immobiliari ad uso abitativo. Il sentimento d'insicurezza è fortissimo e diffuso. Accanto al macrocrimine si è presa finalmente coscienza che esiste anche un dilagante fenomeno di microcriminalità. Il fenomeno è sicuramente ingigantito dall'eccessivo lassismo, legislativo e giudiziario, che ha caratterizzato le politiche di contrasto e che è la prima delle cause di disincentivazione delle Forze di polizia. Bisogna allora trovare un giusto mezzo, tenendo, sostanzialmente, conto di un fatto: senza dover ricorrere al carcere come misura da estendere a tutti i crimini ed in modo indiscriminato, si deve però trovare un sistema per risarcire un danno che nessuno ha mai considerato fino ad oggi, il danno sociale. Ogni crimine, oltre al danno patrimoniale arreca, dal mio punto di vista, un danno sociale di cui si parla pochissimo. Chi ruba non crea soltanto un danno nella sfera del possessore del bene, ma induce anche tutte le persone che entrano in contatto con la vittima del reato ad adottare una serie di misure di difesa passiva che incidono sulle disponibilità patrimoniali e limitano la libertà personale del singolo. Nel momento in cui metto grate la mia finestra, 23
avendo saputo che nell'appartamento del vicino sono entrati i ladri, sono stato costretto a limitare fortemente la mia libertà e a mettere mano al portafoglio per garantire un più alto livello di sicurezza ai miei beni ed alla mia persona. Ancor più gravi sono le limitazioni alla libertà personale ed al patrimonio che un cittadino medio deve subire in ragione delle "precauzioni" necessarie a circolare in una città come Roma. Nei casi più gravi si parla di allarme sociale , senza considerare che viviamo in una condizione di continua tensione che, anche da un punto di vista economico, ha dei precisi costi. La militarizzazione del territorio, orientata alla mera occupazione fisica più che al coinvolgimento degli onesti nella lotta al crimine, è un orizzonte pieno di incognite. Il sistema "zero tolerance" conduce ad escalation repressive difficilmente controllabili: si parte dal sequestro dei motorini per arrivare a Rodney King. Informazione, prevenzione, coinvolgimento di più attori pubblici e privati nella lotta al crimine ed un diverso atteggiamento della magistratura e dei legislatore potrebbero essere i punti sui quali costruire un approccio nuovo al problema. Per garantire almeno il risarcimento del "danno sociale" si potrebbe fare un maggiore ricorso a pene alternative che, almeno nei casi di minore pericolosità sociale del condannato, favori24
scano un'immediata e visibile opera di fattivo risarcimento. È del tutto inutile ed, in alcuni casi, controproducente, salvi, ripeto, i casi di maggiore pericolosità, rinchiudere il responsabile di un reato in carcere, la vera università del crimine. Anche a fini preventivi, risulterebbe assai più utile che chi ha commesso un reato venga obbligato a compiere, attraverso lavori socialmente utili, una riparazione del danno arrecato alla collettività: la pena sarebbe così effettivamente rieducativa.
FJtcEsco SIDoii Mi riallaccerò a quanto finora enunciato negli interventi che mi hanno preceduto. Ma sottolineerò le differenze, anche per alimentare il dibattito. Io non direi che oggi è la microcriminalità il problema più importante. Le questioni angoscianti sono date dai crimini "immotivati", come i sassi, dal cavalcavia, o come 1 omicidio nell università "La Sapienza": tipi di comportamento illegale che nel futuro peseranno sempre di più. La crescita della microcriminalità era un problema degli anni settanta e ottanta. Ma ora, sul piano della sicurezza, i grandi problemi del futuro saranno connessi alle tensioni derivanti da fenomeni di lungo periodo come l'immigrazione, o a eventi che sorprendono e atterriscono come gli attentati con il gas nervino nella metropolitana di Tokio. La crescita dell'insicurezza è dimostra-
ta da numerose ricerche; ancora nell'ultimo rapporto Eurispes viene sottolineato che secondo sondaggi promossi da istituti diversi c'è un costante ampliamento del numero dei pessimisti; in particolare, l'allarme sociale sulla criminalità ha un ruolo centrale nella diminuzione della fiducia nei confronti delle istituzioni: nei sondaggi del 1996, il 42 per cento degli intervistati percepisce la criminalità come aumentata, mentre il 33,8 ritiene la situazione immutata. In relazione a fenomeni specifici, le risposte degli intervistati sono interessanti sotto molteplici profili: c'è un'ampia richiesta di pene pi1 severe; per il 49 per cento degli intervistati il potere della mafia non ha subito variazioni negli anni recenti, e per il 23,2 per cento è addirittura aumentato; 7 italiani su dieci ritengono che l'attenzione prestata dallo Stato alla lotta alla mafia sia insufficiente. Ovviamente, non penso a minimizzare il significato della microcriminalità, che ha conseguenze devastanti sul tessuto sociale. Problema della mafia, problema della microcriminalità, problema meridionale, e tutta un'altra serie di questioni irrisolte della società italiana avrebbero dovuto essere affrontati dalla coalizione riformatrice che aveva fatto nascere il centrosinistra. Dopo il 1968, i diversi segmenti che componevano la cultura del centrosinistra furono sopraffatti da un tipo di cultura che era
espressione di componenti diverse ma che avevano in comune alcuni aspetti fra i quali un accentuato anti-istituzionalismo. Da allora una specifica cultura istituzionale ha preso il sopravvento e ha dominato in molti settori, e in particolare per quanto riguarda la politica contro la criminalità. Per alcuni osservatori il 1968 fu un anno mitico e magico, per altri una rivelazione pirotecnica e forse addirittura profetica. Alcuni problemi sollevati dai movimenti del 1968 non erano frutto di una fantasia supereccitata, ma di una ragionevole crescita delle aspettative e di una effettiva volontà di rinnovamento. Anche l'anti-istituzionalismo del Sessantotto è mosso spesso dalle migliori intenzioni ed è a suo modo utopista e generoso. Purtroppo, alla prova dei fatti le belle intenzioni non hanno prodotto i risultati sperati, anche se una cultura istituzionale sessantottesca ha influenzato positivamente il Paese in quasi tutti i settori, dalla "umanizzazione" delle carceri alle "pari opportunita della donna. Dopo il 1968 è diventata egemone una cultura che ha sostituito quella degli anni cinquanta e ha egemonizzato una larghissima coalizione di forze politiche. Leggi importanti, come la cosiddetta legge Gozzini, sono state approvate all'unanimità, dai due rami del Parlamento con il consenso delle opposizioni di destra e di sinistra. È diventata dominante quella cultura 25
politica che ha formulato le massime scelte legislative degli anni settanta e degli anni ottanta: dalla legge sulla modica quantità (che legittimava il consumo di stupefacenti) alla legge penitenziaria del 1975 (che cambiava totalmente l'istituzione carceraria, nella pratica quotidiana e nel significato simbolico), dalla pseudo-democratizzazione delle istituzioni (in primo iuogo la polizia e la magistratura) al nuovo codice di procedura penale minorile (che sarebbe stato eccellente, forse, per la Svezia, e invece non poteva funzionare altrettanto bene in Sicilia). È stata dominante negli anni settanta, come ha detto giustamente Sgalla, l'alternativa, di chiara matrice ideologica, tra repressione e prevenzione. Ma in effetti, in quegli anni, abbiamo avuto uno stato d'animo prevalente, che non fu né di destra né di sinistra: vinse in molti la diffidenza nei confronti delle istituzioni. Questo sentimento di sfiducia nelle istituzioni spesso si confondeva con un giudizio di sfiducia negli uomini posti a capo delle stesse. Una via d'uscita da questa situazione iniziò con la grande stagione di riscoperta della legalità, cioè con le grandi indagini contro la mafia e l'azione del pool di Milano. Però questo percorso, anche a causa di risultati elettorali che hanno mostrato il vero volto del Paese, non si è concluso con un'apoteosi della legalità ritrovata, ma con una nuova stagione di incertezze, di veleni, 26
di rassegnazione, bene simboleggiata dalla campagna di opinione contro un personaggio emblematico come Di Pietro, condotta all'insegna del motto "qui il più pulito ha la rogna". In questa situazione, mi chiedo perfino in che misura una diagnosi è possibile. Ma che diagnosi è mai possibile formulare e far conoscere quando domina ancora il folto gruppo di persone che ha avuto la responsabilità delle scelte strategiche che ci hanno condotto a questa situazione? L'eclissi di Andreotti e Craxi non deve trarre in inganno; tutti gli osti oggi dominanti sulla scena pubblica (fatte salve, ovviamente, alcune eccezioni) ci diranno che il loro vino è buono: perché sono stati loro ad imbottigliarlo, ad annacquarlo, ad avvelenano. Per loro è molto difficile formulare una diagnosi obiettiva; in larga misura dovrebbe cominciare con un'assunzione di responsabilità. Costerebbe troppo; non vedo in giro molta disponibilità in tal senso. ROBERTO SGALLA
Tre elementi di riflessione. Il primo è che nessun aggettivo è in grado oggi di descrivere compiutamente il pericolo al quale ci stiamo riferendo. Microcnimine, illegalità urbana, eccetera. Perché è un mix di devianza, di disagio esistenziale, di maleducazione, di vandalismo. A volte con motivazioni tradizionali, altre volte
immotivato, o comunque di difficile se non di impossibile inquadramento. Il secondo elemento ha fatto bene Sidoti a rimarcarlo. Violante, in un articolo apparso su Micromega "L'apologia dell'ordine pubblico" (n. 4, 1995, pp. 124-140, n.d.r.), poneva l'accento su tre forti paure. La paura rispetto alla grande criminalità come minaccia alla democrazia, la paura nei riguardi della microcriminalità e poi la paura che le istituzioni non siano in grado di fornire il servizio necessario a contenere e a contrastare macro e microcriminalità. Parlando di proposte, potremmo avanzare l'idea che un apparato giudiziario e di polizia più vicino al singolo cittadino è sicuramente necessario. Credo, sia altrettanto necessario, per poter pensare a politiche in grado di affrontare il problema, dare un po' di ordine alla materia. Si sa quale è il momento genetico di questa situazione. Si conoscono gli errori e i danni da essi prodotti. Quindi si può cominciare a porre rimedio. Molti soggetti si sono interrogati, tra i primi gli Enti locali, anche se in modo alcune volte non chiaro. Poiché non avendo né responsabilità dirette, né strumenti adeguati non sono stati in grado di dare risposte convincenti anche se si sono posti il problema della prevenzione, del recupero della qualità della vita, del recupero degli spazi urbani, eccetera. La stessa polizia, anche per un processo formativo evolutivo in atto dopo la riforma, ha cominciato a
interrogarsi sul suo ruolo sociale, di elemento rassicurativo per il cittadino. C'è attenzione a standard di comportamenti qualitativamente alti. Lattenzione alle vittime, come detto prima da Aliquò, deve andare oltre il momento risarcitorio, ma pur non esistendo ancora una legge organica in Italia, come invece in altri Paesi, ora vi è sicuramente una maggiore attenzione a questi aspetti. Il dato evidente è che questi elementi positivi devono essere coordinati, messi insieme, per creare una strategia comune, una sinergia. Riguardo al paradosso, secondo cui Aliquò afferma che abbiamo troppe risorse, io dico soltanto che, se anche esistono, noi le usiamo male. Per creare solidarietà e legalità certamente ne servono molte, ma non possiamo permetterci di sprecarne. Pur nella difficoltà di realizzare una diagnosi precisa, con il rischio peraltro di autoassolversi un po' tutti, è necessario fissare politiche concrete, praticabili con interventi plurimi e diversificati.
GIOVANNI
ALIQUÒ
Interessante la provocazione. I sassi dal cavalcavia, gli omicidi all'università sono sostanzialmente i sintomi di una caduta dei valori, di un disagio morale che pare essere molto diffuso nel nostro Paese e non solo. Senza dubbio in questi casi ci mancano parametri di valutazione. È un set-
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tore del quale abbiamo scarsissima conoscenza e dove continuiamo a fare polizia (ovvero prevenzione e repressione) in modo antiquato. Si predilige la risposta repressiva. Si va alla ricerca di elementi che ci riconducano all'autore di questo tipo di reati in un modo ancora tradizionale. Quando invece le esperienze, che ci vengono anche dall'estero, ci dicono che questo tipo di crimini - che desta e desterà un grande allarme sociale - va combattuto secondo schemi nuovi, ricorrendo ad altre armi, quelle offerte dalla cultura. Si tratta di strumenti di analisi che nelle unità di analisi del crimine violento (questo è il nome che in Italia è stato assunto dagli specialisti dei crimini "particolari") si è iniziato da poco ad utilizzare. Il ricorso alla psicologia e ad altre scienze poliziescamente «non convenzionali" sono convinto che potranno consentirci di arrivare pii facilmente agli autori di questi crimini. Di sicuro, però, non possiamo continuare a sottovalutare la pericolosità di quella che, forse a torto, si chiama microcriminalità e che, comunque, sarebbe preferibile chiamare "criminalità comune". In questo settore appare di particolare rilievo il problema dei minori che è un aspetto, invece, tra i meno studiati, dove non si adottano delle efficaci strategie di prevenzione complessive ed articolate. Ma questo potrebbe essere l'oggetto di un altro dibattito. Ora, invece, ritengo che sia opportuno chiedersi quale sia il "momento ge28
netico" di questa diffusa illegalità dalla quale discende un senso di insicurezza tanto pervasivo. A mio modo di vedere, un ruolo determinante è assunto dal disfacimento, frutto di una serie di concause, del nostro apparato pubblico. Viene così meno qualsiasi regola e qualsiasi certezza sul fatto che vi sia un'autorità in grado di far rispettare le norme della civile convivenza. Ciascuno, nel suo microcosmo, si sente autorizzato a farsi "giustizia da solo", cioè a farsi spazio a gomitate, oppure a scegliere la strada dell'illegalità nella convinzione che tanto nessuno sarà in grado di reprimerlo. Sorgono, così, anche i poteri alternativi tra i quali le organizzazioni mafiose hanno un ruolo di primo piano. È questo disfacimento, dovuto molto alle clientele e alla dequalificazione culturale che hanno causato la caduta complessiva, non soltanto dell'operatività e dell'efficienza delle Forze di polizia ma dell'Amministrazione pubblica nel suo complesso. Sul banco degli imputati vi sono anche quelle Amministrazioni locali che negli scorsi anni hanno ottenuto ampi spazi d'autonomia. Penso alle Regioni, per quanto riguarda la sanità, penso ai Comuni per quanto riguarda l'edilizia, o meglio gli scempi edilizi che sconciano il nostro Bel Paese. Sono queste le testimonianze vive di un'Amministrazione pubblica inefficiente, ignorante e decadente. Per quello che riguarda la materia che stiamo trattando, dobbiamo ricono-
scere che negli scorsi decenni è caduta verticalmente la capacità di risposta preventiva e repressiva al crimine. Abbiamo assistito all'inesorabile smantellamento della vecchia legislazione di prevenzione, senza che siano stati individuati e predisposti dei nuovi strumenti, adeguati all'evolversi ed al modernizzarsi della minaccia criminale. Dall'altra parte, abbiamo una repressione nel complesso debole, specchio dei collasso della macchina della giustizia. Conosciamo tutti la realtà dei processi interminabili, di una giustizia che fa acqua da tutte le parti e che ci mostra, ai massimi livelli, l'esistenza di soggetti avvicinati od avvicinabili. In questo panorama è chiaro che i cittadini siano indotti a nutrire una sfiducia totale verso delle istituzioni che hanno perso del tutto la loro credibilità. Una credibilità che, per quanto riguarda le Forze di polizia è minata anche dalla scarsa preparazione che troppo spesso, a tutti i livelli, il cittadino ha modo di toccare con mano. Ed allora parliamo delle procedure selettive eccessivamente semplificate, soffermiamoci sull'incapacità o sui cedimenti di fronte alle pressioni della base verso crescite in carriera non giustificate da comprovate capacità professionali e dalpossesso di requisiti culturali ma da procedure interne di selezione meramente formali. È una situazione nella quale, anche a causa di un'inesistente politica di formazione ed aggiornamento professionale,
l'Amministrazione pubblica e le Forze di polizia hanno visto decrescere enormemente il livello culturale medio del loro personale. Tutto ciò è stato possibile o per la mancanza di regole o per il loro sistematico aggiramento. La responsabilità maggiore è da attribuirsi alla politica del compromesso che è stata la bussola dei nostri politici. Nulla vieta di pensare, tuttavia, che questo disordine sia figlio di un disegno preciso. Se un merito vi è nel movimento del '68 è quello di aver denunciato una grande ipocrjsia; la legge, il potere avevano la regola dei due pesi e due misure: si colpiscano pure i più deboli, i pesci piccoli, e si lascino assolutamente indisturbati i "grandi manovratori". È la logica sulla quale, per decenni, si è fondata l'intesa tra poteri pubblici e grande criminalità, un'intesa che ha garantito senza scosse, almeno fino al 1992, la continuità di questo intreccio di potere e affari. Gli apparati che dovevano assicurare la legalità non solo erano sforniti di qualsiasi tutela dinanzi al sistema politico ma, grazie anche a dei vertici collusi, erano posti in condizione di subordinazione culturale e di totale soggezione a un potere dispotico e vendicativo. E così il poliziotto (o il magistrato) che metteva il naso in un affare poco pulito veniva trasferito da Sondrio a Reggio Calabria (o da Venezia a Trapani, è lo stesso), senza apparente motivazione. 29
Ma l'aspetto peggiore era che, a tutela di un codice penale e di una normativa speciale assai complessa, venivano posti degli uomini non adeguatamente selezionati e preparati. La lotta al crimine, in queste condizioni, è chiaro che si riduce ad una mera finzione. Dovremmo allora fornire tutela a chi è chiamato a far rispettare, a sua volta, regole e garanzie, per evitare che sia soggetto a ricatti sottili ma non per questo meno insidiosi. Ma bisognerà anche assicurarsi che, a tutti i livelli e soprattutto a quelli dirigenziali e direttivi, i tutori dell'ordine vengano prescelti secondo criteri che ne garantiscano la preparazione culturale e professionale. Garanzie e cultura diventano, così, i due pilastri essenziali su cui si deve fondare una polizia (ma il discorso può valere per l'Amministrazione pubblica nel suo complesso), indipendente e veramente al servizio del cittadino. Individuiamo, innanzitutto, parametri credibili e metodi scientificamente attendibili per rilevare l'esistenza di situazioni di disagio sociale e\o di attività criminali in determinate zone del Paese. Come ho già detto, i sistemi di rilevamento attuale non solo sono rozzi e primitivi, ma anche quasi del tutto inattendibili. L'attività di analisi dei dati, poi, è considerata l'ultima delle attività di polizia. Ad essa, salvo poche eccezioni, vengono destinati i meno capaci. Chi ha (o ha avuto) la responsabilità delle scelte strategiche, in questi anni? 30
È la domanda che dobbiamo porci se vogliamo evitare il perpetuarsi degli stessi errori. Se siamo arrivati a questo punto dobbiamo riconoscere che, in parte, ciò è causa di scelte tecniche sbagliate operate da personaggi che da sempre occupano le stanze dei bottoni. Cambiano i governi, cambiano i politici, ma l'alta burocrazia è, di fatto, sempre la stessa. È mancato un autentico ricambio, è mancata l'osmosi tra centro e periferia, è mancata l'evoluzione della cultura per la sicurezza. ROBERTO SGALLA
Mi scusi ma a questo punto colgo una contraddizione. Il ricambio presuppone la discrezionalità nello scegliere. Ma quando si chiedono regole e garanzie certe, la conseguenza dovrebbe essere che la politica può scegliere poco. Perché se, per il livello tecnico, che è quello che definisce le strategie, si rivendicano garanzie e regole, il compito della politica è solo quello di rispettare regole e garanzie. Se invece, come io credo, il modello è quello per cui la politica decide e la burocrazia attua, la politica deve fare anche scelte di persone. Perché queste persone sono quelle che concretamente definiscono le strategie. Non si può quindi formare una rete di regole e di garanzie talmente rigida da legare le mani. Questa difficoltà e contraddizione tra criteri e discrezionalità va in qualche modo risolta.
Per avere forze umane capaci di creare, progettare, agire, si deve operare un cambiamento culturale, e allora questo necessita di un ruolo più forte del vertice politico, che crei momenti di discontinuità con il passato. GIOVANNI ALIQUÒ
Sono d'accordo e mi sento particolarmente vicino all'impostazione di Sgalla. Tante volte ci siamo misurati su questo argomento.. A mio giudizio, il modo di uscire da questa impasse è uno solo. Individuare parametri certi per misurare la capacità di risposta di alcune strutture di polizia. Una volta che si potrà misurare l'autentica incidenza dei fenomeni criminali in una determinata area ed il disagio che ne deriva - cosa che, come ho detto prima, oggi è impossibile potrò anche valutare l'azione o la capacità del soggetto, sulla base delle risorse assegnate, di intervenire efficacemente per contrastare quella situazione. Ecco che in una condizione nella quale le risorse concesse siano adeguate al compito che viene assegnato, il politico, nell'ambito delle regole certe di cui dicevo, deve essere in grado di allontanare gli incapaci e di premiare gli efficienti. Il politico, sono d'accordo con Sgalla, deve avere questo potere. Ma sarebbe gravissimo se, soprattutto nel campo della sicurezza, il potere venisse orientato sulla base dell'appartenenza politica o dell'ideologia (come,
peraltro, è ampiamente accaduto in passato). Effettiva separazione tra i poterl. Ecco cosa intendo per garanzia. È evidente che se si deve dare un segnale forte di cambiamento si deve essere in grado di valutare cosa è effettivamente avvenuto in un periodo determinato, si deve poter dare un giudizio su quello che è stato fatto. I risultati degli ultimi venti anni, oggettivamente, non soddisfano. La stasi delle strategie per la sicurezza è anche Causa dell'immutabilità di uomini e mentalità. Le gerarchie sono sempre le stesse, i concorsi si espletano allo stesso modo (con qualche innovazione peggiorativa), le risorse si distribuiscono in periferia sempre secondo le stesse logiche, le inefficenze, inevitabilmente, aumentano. Persone, mentalità e culture, nell'arco degli ultimi dieci anni, sono cambiate di poco. Sarebbe interessante andare a verificare se, ai massimi livelli del ministero dell'Interno, vi sia un periodico turn over della dirigenza ed in che misura esso favorisca lo scambio con la periferia ovvero sia informato al più autoreferenziale centralismo. Salve alcune lodevoli eccezioni e pochi, timidi e contrastati tentativi di cambiamento, non ci sembra che l'immutabile accademia ministeriale abbia, fino ad oggi, interpretato al meglio il suo ruolo di servizio. È difficile tollerare che "gli gnomi" che hanno causato o tollerato questo sfascio continuino, di fatto, ad imperare 31
indisturbati, ostacolando il rinnovamento. Le logiche, ma anche la prosa ministeriale, quella che informa le oscure normative partorite dagli uffici studi rischiano di restare sempre uguali a sé stesse. In buona sostanza: la politica della sicurezza ha necessità di un vero cambiamento. Ma il cambiamento sarà possibile solo se matureremo la consapevolezza della necessità del ricambio delle persone in un contesto di nuove regole e garanzie. FRANCESCO SID0TI
Io confermo il mio pessimismo, mostrando innanzitutto che non è del tutto isolato. Cito le parole del Procuratore 'generale della Repubblica presso la Corte suprema di Cassazione, pronunciate nel gennaio 1997, nel corso della cerimonia di apertura dell'anno giudiziario: "Invece che dare speranza e conforto, troppo spesso la giustizia italiana genera sofferenza. La sua funzione di forza stabilizzatrice e riparatrice, garante ed equilibratrice, troppo spesso è smarrita nell'inefficienza. Il cittadino che attende invano la riparazione del torto subito non soffre soltanto la lesione del suo interesse: è in definitiva offeso nella sua stessa persona. Le vittime degli illeciti penali e civili, coloro che attendono per anni il riconoscimento delle loro ragioni o l'esecuzione di una sentenza 32
o il risarcimento per via di giustizia della reputazione o dell'onore feriti, gli autori stessi dei reati - come stigmatizzato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - che rimangono troppo a lungo nell'incertezza della loro sorte e hanno la sofferenza aggiuntiva' di scontare la pena dopo troppo tempo dalla commissione dell'illecito, tutti costoro non possono non concepire una sfiducia profonda verso la giustizia e 10 Stato". Il mio pessimismo (della ragione, non della volontà) può essere ulteriormente motivato attraverso un confronto su scala internazionale. Clinton negli Stati Uniti, come Blair in Inghilterra, e come altri in Italia, sono impegnati in una complessa reinterpretaziòne della mentalità sessantottesca: allevati in una cultura anti-istituzionale, ora si trovano a capo delle' istituzioni, e rischiano di oscillare pericolosamente da un estremo all'altro. Come loro, una parte importante del Paese rischia di oscillare su posizioni "forcaiole" per una carenza specifica di cultura istituzionale. Quella cultura istituzionale nel campo della sicurezza che spesso ci viene rimproverata dai responsabili di altri Paesi che sono insieme a noi in molte situazioni delicate, dalla criminalità organizzata all'immigrazione clandestina. In varia misura, Clinton e Blair nel mondo anglosassone; Sharping, Schroeder e Lafontaine in Germania, sono, come D'Alema e Vekroni in Italia,
"eredi" del Sessantotto. Ma con una differenza cruciale: i grandi Paesi occidentali hanno imposto da molti anni una cultura della sicurezza di stampo decisamente antisessantottesco. Tanto è vero che sia Clinton sia Blair sono stati costretti a rivedere le proprie istanze originarie e a coniugarle con gli imperativi classici della tradizione law and order. D'Alema e Veltroni (come Fini e Tatarella, del resto, anche se seguendo un percorso notoriamente assai diverso), invece, arrivano agli appuntamenti decisivi del post-comunismo e della globalizzazione dovendo gestire un Paese che non ha le strutture adeguate né le idee chiare. Basti pensare alla situazione problematica in cui si trova la Guardia di Finanza, o ai progetti di ristrutturazione dell'Arma dei Carabinieri, o alle traversie della DIA. Purtroppo, la nostra classe politica si avvicina spesso alle nostre strutture della sicurezza con la stessa mentalità con cui si gestiscono le USL, le pensioni, le ferrovie. In breve, sarebbe illusorio trovare analogie tra, ad esempio, la crisi delle nostre strutture di intelligence e la crisi della CIA negli Stati Uniti; oppure trovare analogie tra il problema dell'immigrazione in Francia e il problema dell'immigrazione in Italia. Le questioni della sicurezza negli altri Paesi e in Italia sono simili, per certi versi, e assolutamente dissimili per quanto riguarda la risposta istituzionale. Nel campo dell'intelligence, negli
altri Paesi sono preminenti i problemi di trasformazione e di crescita; in Italia, invece, secondo una larga parte dell'opinione pubblica (inclusi molti magistrati e il Comitato parlamentare di controllo, che ha pubblicato a luglio un documento impressionante) sarebbero preminenti i problemi derivanti da alcune gestioni spesso macchiettistiche, servilistiche, nepotistiche, losche, o addirittura stragistiche. Lo stesso vale per quanto riguarda l'immigrazione: si tratta di qualcosa di talmente esplosivo da poter condurre a divisioni profonde e a crisi di governo. Eppure questo non è paragonabile con quanto avviene altrove; noi siamo soltanto all'inizio, dei problemi derivanti da consistenti flussi migratori. E, pare, peggio di come abbiamo cominciato, non potevamo cominciare. Anche sui temi sui quali potremmo esibire una esperienza consolidata, esibiamo invece uno spettacolo tragicomico di ambiguità e di confusione. Basti pensare alle controverse argomentazioni definitorie della mafia; si va dalla tesi difesa, fra gli altri, dalla Cassazione (sotto la presidenza di Corrado Carnevale) sulla mafia come "accolita di bande" alla tesi di Buscetta sulla mafia come espressione puramente letteraria; dalla tesi dei giudici Falcone e Borsellino relativamente alla struttura unitaria, gerarchica e verticistica dell'organizzazione (che doveva essere designata con il termine Cosa nostra) alla, tesi del procuratore Casel33
li, e altri, secondo il quale bisogna guardare oltre la "mafia militare": per alcuni esisterebbe una semplice zona grigia, per altri un entita o addirittura "la cupola mondiale" (Qomposta di banchieri, riciclatori, politici, esponenti di governi e istituzioni) di cui Cosa nostra non sarebbe che il "brac,, cio armato Si può scegliere tra la descrizione della mafia come una piovra (con tanti tentacoli) o piuttosto come un'idra (con tante teste); tra la definizione della mafia come componente primaria dell'anti-Stato, secondo una nota definizione prima del prefetto Mori e poi dej prefetto Parisi, oppure come organizzazione parallela allo Stato, secondo un altrettanto celebre definizione del giudice Falcone. I problemi di natura logica e metodologica sono soltanto un aspetto di quell'autentico sonno della ragione in cui convivono: il processo di Palermo e l'abbraccio del Papa ad Andreotti, le ipotesi del giudice Salvini e quelle del giudice D'Ambrosio, le tesi di Pino Arlacchi e quelle dell'ex ministro Mancuso, le polemiche sulle competenze di Ottaviano del Turco e quelle sulle competenze di Tiziana Parenti, le rivelazioni sul suicidio di Calvi e quelle sull'omicidio di Pecorelli, le nostalgie filosovietiche di Luciano Canfora e le rivalutazioni giustificazionistiche di Luciano Violante; le inchieste di La Spezia e quelle della Val d'Aosta; la condanna di De Benedetti e quella di Romiti; le indagini del Gico e quelle di 34
Salomone, i rimbrotti di Federico Carlo Grosso e quelli del senatore Pellegrino, le insinuazioni su Berlusconi e quelle su Prodi, quelle sul Procuratore generale della Cassazione, e così via. Abbiamo soltanto sfiorato il punto relativo a Tangentopoli, che è al cuore dell'interpretazione dell'attuale stato del sistema della sicurezza. Infatti, è stato autorevolmente sostenuto (da Giancarlo Caselli) che tutta la classe politica "di centro, di destra e di sinistra" è figlia di Mani pulite. Ma, in proposito, a parte le infinite chiacchiere sulla distinzione delle carriere, ci sarà qualche motivo se il responsabile del PDs su.i problemi della giustizia ha scritto e ripetuto che siamo al "Medioevo giudiziario". Se è così pessimista un politico responsabile e apprezzato come Folena, permettetemi di ribadire che allora il mio pessimismo non è estremistico o isolato. In conclusione, ritengo erronee e pericolose le posizioni che minimizzano o ignorano i problemi gravi e urgenti che abbiamo di fronte. Sono tuttora esistenti delle vere e proprie "barriere doganali", ideologiche, partitiche, aggregazioni di interessi e di compiacenze, che impediscono una serena ed obiettiva valutazione dei fatti. L'oste insomma continuerà a dire che il suo vino è il migliore, e non permetterà a nessuno di dire fa schifo: al massimo, allungherà la tavola. Se non si cambia registro, siamo tristemente destinati a tenerci tutti insie-
me i sassi dal cavalcavia, i marocchini buttati sotto i ponti, le pistolettate all'università, i rigurgiti di terrorismo, i processi a Previti e Andreotti. La spaventosa metamorfosi delle questioni della sicurezza ci regala ogni giorno sorprese, come la trasformazione dei gruppi delinquenziali in "ecomafie"; Valona che è stato per tanto tempo l'ultimo posto del Mediterraneo vede ora invece la prospettiva di diventare una nuova Medellin. Speriamo che non tutte le indagini seguano le strade tortuose delle indagini sulle stragi del 1969, che sono ancora oggetto di varie discussioni. GIow.i'iNI
AuquÒ
A questo punto vorrei inserirmi. A mio giudizio abbiamo degli strumenti che ci consentono di controllare l'oste e il suo vino. Facciamoli funzionare. La Commissione parlamentare antimafia ha dei penetranti poteri di controllo. La Commissione parlamentare sui servizi segreti anche. Ci sono authority, garanti che da tempo dovrebbero svolgere questa funzione di controllo ab externo, e che di fatto continuano a lavorare secondo i criteri che ben conosciamo. Presso le commissioni o le authority non vengono chiamate le persone più esperte ma le più raccomandate, in virtù di rapporti di mera amicizia, di comparaggio politico o di clientela. I membri della Commissione parlamentare sui servizi segreti possono ef-
fettuare un serio controllo sulle banche dati ma non lo hanno mai fatto. Queste non sono minuzie organizzative. È il cuore del sistema. Qui abbiamo strumenti di diagnosi, ma soprattutto di cura che nessuno ha mai utilizzato. Law and Order. Prima la legge e poi l'ordine. Possiamo importare le parole d'ordine di Blair e di Clinton. Ma Legge ed Ordine sono assicurate negli USA perché sono diffusi dei valori democratici che da noi ancora faticano ad affermarsi. Preferisco, comunque, l'espressione «Democrazia e Legalità". Una legalità che favorisca il merito individuale e non la solita scaltrezza italica. Una legalità che ci assicuri efficienza, preparazione, competenza specifica delle persone che vengono impiegate in determinati settori. Una legalità che consenta a tutti, laddove questi criteri vengano violati, di poter liberamente opporsi senza subire conseguenze negative. Sono queste le garanzie di cui continuo a parlare e delle quali in certi ambienti non v'è traccia. LA REDAZIONE
Proviamo a fare il punto della situazione. Nel corso delle analisi fatte emergono due ordini di problemi. Il primo è la considerazione dell'esistente. Il tema dell'ordine pubblico della sicurezza dei cittadini per il momento è stato finora assorbito dalla questione magistratura: sia per le vicende connesse a modfiche del codice penale o quello di 35
procedura penale, sia a problemi di ge- sibile, che lo Stato centrale non si possa stione ed autogestione della magistratura più riorganizzare. Certe affermazioni di stessa. Non c'è dubbio che massima atdebolezza e di inefficienza dello Stato centrale non sembrano più dei vuoti slotenzione deve essere prestata a questo ambito, ma probabilmente le analisi che gan. La sfiducia, in molti casi, ha supeabbiamo sentito oggi dimostrano che il rato i livelli di guardia. E forse molti problema è più complesso. Quindi, la italiani vogliono al più presto entrare in prima mossa potrebbe essere quella di ri- Europa per non stare più in Italia. dare flnzionalità agli apparati. Quali Le regole esistono, abbiamo sentito che anche le strutture, le istituzioni esistono: possono essere le risposte dell'ordinamento authority, garanti e commissioni; ma, a sul piano dell'operatività? volte, appaiono lontane. Gli unici sogL'altro grosso problema consiste nella definizione di una vera e propria politica getti istituzionali che sembrano possedere la legittimità e l'autorevolezza necesdella sicurezza e ilflinzionamento delle saria per cambiare la situazione sono i forze di polizia. Questa estate sono cominciate ad appari- sindaci eletti direttamente dal corpo re alcune prese di posizione sulfatto che è elettorale. ormai da considerare la possibilità di Le regole di cui si è parlato, insomma, giungere alla soppressione o all'accorpa- vorrebbero essere i sindaci ad affermarle mento di singoli reparti speciali delle efarle rispettare. Cosa si risponde a queForze di polizia. Allora dobbiamo chie- sta richiesta? È possibile delegare ai poderci se la legge 121 del 1981 (la rfirma teri locali la risposta alla nuova crimidella Polizia di Stato), che comunque nalità diffusa, al crimine comune, o deparla di intenso coordinamento proprio ve essere lo Stato ad assicurare la "legge e per evitare duplicazioni e sprechi di ener- l'ordine? gie e risorse, sia servita ad eliminare apROBERTO SGALLA parati elefantiaci e poco efficienti. C^e da chiedersi quanto questi apparati siano Torno a ribadire, senza che ciò debba malcoordinati, sovradimensio nati e considerarsi un alibi, che nell'affrontaquan t'altro. re questi temi bisogna rifuggire da un Come terzo e conclusivo ordine tematico eccesso di semplificazione. si vuole introdurre il tema delle richieste Chi ha la responsabilità di dover deciche sul problema sicurezza pubblica dere,• non può dare risposte semplicivengono avanzate dagli Enti locali. stiche a un problema estremamente In proposito, il rimedio che sembra sca- complesso. Dietro la complessità, però, turire dal dibattito è quello di migliora- non si deve nascondere l'inazione. re l'organizzazione dello Stato. Da più Si è detto bene. Il mettere insieme la parti si ritiene ormai che ciò sia impos- questione della sicurezza con i proble36
mi della magistratura ha generato confusione. Ci si è occupati forse troppo di giustizia e troppo poco di sicurezza, fermandoci al solo provvedimento della repressione, che funziona male per la lentezza dei processi e per l'inadeguatezza delle norme rispetto ad alcuni reati (ad esempio, sarebbero più produttive pene risarcitorie che condanne penali formali). Il tema dell'autonomia della polizia giudiziaria è un tema del quale finalmente si può parlare e che ha sollevato vari dibattiti. Gli stessi magistrati riconoscono che su questo versante occorrerà restituire in tempi brevi una certa autonomia d'indagine, sempre all'interno di un'opera di verifica da parte del pubblico ministero dell'utilizzo di procedure opportune. Senza per questo intaccare principi costituzionali che, ormai, fanno parte della nostra tradizione giuridica. La riflessione è, adesso, molto più aperta sul problema di quali modelli di apparati abbiamo oggi bisogno rispetto ai temi della sicurezza. Nel 1997 è ancora adeguata la legge 121 del 1 aprile 1981, o non basta più? Va modificata in toto, o va corretta rispetto alle novità sopravvenute? A mio modestissimo avviso, finché non vi sono modelli alternativi altrettanto validi, credo che la 121, pur con qualche aggiustamento, va salvaguardata. Ha rappresentato e rappresenta una legislazione innovativa, in momenti delicati, difficili, complessi. An-
cor oggi il modello civile della sicurezza, l'autorità di pubblica sicurezza quale referente e sofferto coordinatore, la filosofia vocazionale della legge sono aspetti di grande validità. Ancora oggi non c'è, secondo me, la consapevolezza della reale potenzialità di questa legge. Anche perché la classe politica non affronta il problema enorme della riorganizzazione delle Forze di polizia. I costi elevati e la mancanza di sinergie costituiscono elementi base da risolvere; occorre sburocratizzare, integrare ed ottimizzare le risorse, operare per una loro pianificazione che coinvolga le autorità provinciali di pubblica si curezza. Dopo la risoluzione di alcuni temi cardine, come l'entrata nell'Unione monetaria e la realizzazione dei nuovi modelli istituzionali sanciti in Bicamerale, ritengo che si debba affrontare con serenità, ma anche con decisione, il tema della sicurezza nel suo complesso, che tra i suoi aspetti ha sicuramente anche quello della scelta di modelli organizzativi delle Forze di polizia. Bisognerebbe anche riconsiderare il ruolo del sindaco. Non ho ricette precostituite, ma sono convinto che iJ discorso sulla sicurezza, intesa in senso ampio come tranquillità per il cittadino, sia uno dei temi che attengono allo Stato nazionale, anche se più snello. Ma sono anche convinto che gli Enti locali, siano sulla strada giusta quando rivendicano con forza un ruolo nella gestione della 37
sicurezza a livello locale. Il sindaco del 1997 è ben diverso dal sindaco del 1981, che poteva essere chiamato a far parte del comitato provinciale dell'ordine e della sicurezza pubblica. Ma non vorrei che si agisse su1 piano dell'emotività o dell'improvvisazione, ma fosse portato avanti un ragionamento in cui i soggetti vengano chiamati a interloquire, a rapportarsi e poi decidere. In quest'ottica, vi potrebbero essere soluzioni anche di governo della sicurezza da parte dei sindaci. Quanto diceva Sidoti è giusto, ma si devono cercare insieme soluzioni che diano il segno del cambiamento. In Italia ci sono associazioni di forte vitalità, idealità e progettualità, che hanno interpellato le istituzioni, hanno messo a nudo mancanze, hanno chiamato alle proprie responsabilità i soggetti deputati. Credo che lo sforzo di cambiamento esiste, ma gli apparati burocratici, il più delle volte, svolgono una funzione frenante. Rimango sempre con un quesito irrisolto: vorrei sapere come questa classe politica verifica il rispetto degli orientamenti politici che offre.
GIOVANNI ALIQUÒ
Anch'io credo che il tema ha bisogno di una risposta articolata. Ma entriamo nelle questioni spinose. Partiamo dalle provocazioni. Riorganizzazione dello Stato. Ritengo 38
che la realtà italiana sia estremamente parcellizzata. Conferire ai sindaci delle responsabilità dirette di gestione dell'ordine e della sicurezza pubblica, farli diventare responsabili delle Forze di polizia per il contrasto di quello che, secondo me a torto, si continua a chiamare microcrimine, ci condurrebbe ad un paradosso. Pensiamo sempre in questi discorsi di affidare responsabilità e poteri al sindaco di Milano, di Napoli, di Roma, di Genova e di Palermo. Ma nel nostro Paese esistono più di 8000 Comuni. Non siamo gli Stati Uniti, dove, peraltro, si ragiona sulla misura della contea. Significa, allora, avere almeno 8000 concetti diversi di sicurezza pubblica in un contesto dove il microcrimine interagisce in modo nettissimo e stretto con il macrocrimine. Gli interrogativi che sorgono su questa richiesta di legittimazione avanzata dai sindaci in materia di ordine e sicurezza pubblica dovrebbero preoccupare ogni persona di buon senso. Si parla di concedere i poteri in materia di immigrazione ai sindaci mentre si assiste a prese di posizione di alcuni di essi che non sono affatto tranquillizzanti in termini di garanzia e di tutela dei diritti dell'uomo. Penso, ad esempio, a certi casi nei quali ci sono dei primi cittadini che propongono delle taglie sui clandestini. In alcuni luoghi, questa tendenza a proporre caccie alle streghe si andrebbe certamente a rafforzare. Tendenza ad una sicurezza «fai da te"
che potrebbe diventare molto più pericolosa del giustizialismo che oggi tutti condannano. Né possiamo pensare che le politiche della sicurezza possano avere come orizzonte il territorio di un Comune che, come è intuibile, è influenzato da molteplici variabili esterne. I sindaci, in altre parole, stanno rivendicando una responsabilità che difficilmente sarebbero in grado di gestire con tutta la necessaria efficacia. In tal senso, dovrebbe far riflettere il sostanziale fallimento della politica di gestione del territorio e delle attività imprenditoriali, da tempo affidata ai sindaci. Un fallimento immediatamente misurabile sulla base delle richieste di condono che, periodicamente, seguono ai provvedimenti legislativi di sanatoria. Certo, è necessario coinvolgere molto di più, da un punto di vista formativo, informativo e nella fase di progettazione e della politica di sicurezza pubblica sul territorio i rappresentanti di tutti gli enti che sul territorio insistono. Che è cosa ben diversa dall'affidare pieni poteri di ordine e sicurezza pubblica al sindaco. In periferia, perciò, vedrei agire soltanto molto qualificati referenti per l'ordine e la sicurezza pubblica. Si arriva così al discorso della riorganizzazione, al dibattito sulla 121 e la funzionalità degli apparati di cui parlavamo prima. La legge 121 ha smantellato, distrutto la figura del Funzionario di polizia. Una figura vecchia, che però poteva essere rivisitata in
chiave moderna e della quale, oggi, si sente un prepotente bisogno. Mancano, infatti, gli analisti di problemi ed i mediatori esperti più che le persone che sappiano assicurare una mera occupazione militare del territorio. Gli eroi che sfondano le porte, buoni solo per gli sceneggiati, devono essere affiancati da professionisti che per cultura, per selezione, per capacità di intrattenere rapporti interpersonali abbiamo tutti i numeri per instaurare un proficuo dialogo con le realtà più rappresentative del territorio. Il fine è quello di individuare un più ampio ventaglio di possibilità conoscitive utili in relazione alla sicurezza e che, nel contempo, può coinvolgere nel lavoro di prevenzione del crimine il maggior numero di cittadini. Il problema della titolarità dell'azione penale. L'equilibrio si è eccessivamente spostato verso la magistratura. A tutto detrimento della funzionalità globale del sistema. Perché quella della magistratura è una risposta prevalentemente repressiva, nella quale prevale il giudizio penale. Questa risposta arriva normalmente quando il danno è già fatto. Non esistono misure preventive che possono essere adottate, sia pure con tutte le garanzie del caso, dall'autorità amministrativa in via immediata e diretta. Resta al questore il potere di vietare l'accesso agli impianti sportivi. Il questore può, oggi, vietare al presunto 39
violento di entrare allo stadio, ma non può negare al delinquente più volte condannato per gravi reati di utilizzare il telefonino cellulare o di avere la patente di guida. C'è qualcosa che stride e che deve essere cambiato. Spostare l'asse dal momento giudiziario a quello preventivo amministrativo, a mio avviso, significa anche andare alla ricerca di una risposta immediata ed efficace al crimine, soprattutto al crimine comune. Nessuno, però, vuoi parlare di questo. Il recente dibattito sulla titolarità dell'azione penale come sulle competenze della polizia giudiziaria, soprattutto quando si spinge a toccare la spinosa questione dell'obbligatorietà dell'azione penale, tuttavia, mi fa sorgere degli interrogativi. Ritengo che l'azione penale debba restare obbligatoria. Più si sposta l'asse dalla magistratura, che ancora gode di certe garanzie, alla polizia giudiziaria che tali garanzie non ha, più si rischia di andare a creare un sistema nel quale è possibile esercitare con relativa facilità certe pressioni per bloccare azioni sgradite. Il poliziotto, e soprattutto il funzionario di polizia, oggi non gode di un sistema di garanzie nemmeno lontanamente comparabile a quello del magistrato. Non ne!l'azione preventiva e neppure in quella di polizia giudiziaria. Se noi pensiamo di spostare da una parte all'altra la titolarità o comunque il peso di responsabilità decisive, bisogna allora anche dare ai poliziotto e soprattutto a chi con40
duce le indagini, il funzionario di polizia, le garanzie di inamovibilità e di tutela da pressioni di qualsiasi natura. Passiamo allora al discorso sulle politiche della sicurezza. Cinque polizie sono oggettivamente troppe. È assurdo, a mio avviso, che in un Paese di avanzata democrazia la componente militare abbia un peso così forte nell'esercizio di una funzione squisitamente civile. Ciò che sorprende è che, nell'ambito di una revisione della legge 121, vi sono forze politiche che propongono un modello di coordinamento delle Forze di polizia che, in determinati e lunghi periodi della storia del nostro Paese, rafforzerebbe ancor più il peso già forte della componente militare. La cosa desta serie perplessità appena si riesce a percepire che chi esercita le funzioni di "polizia militare" mantiene indirettamente (ma non in misura meno penetrante), una considerevole influenza sulle attività degli apparati militari e dei loro vertici. È corretto dal punto di vista istituzionale, sommare, per lunghi periodi, il potere di polizia giudiziaria militare con quello di controllo dell'ordine pubblico interno? Non rischiamo di sposare dei modelli discutibili di matrice illiberale? Sul punto è consigliabile un'adeguata riflessione. Esistono, a mio giudizio, tre ambiti che devono restare il più nettamente possibile distinti e separati. Quello della polizia militare da affidare ad un ar-
ma militare che, eventualmente, può anche concorrere alle funzioni di polizia interna (è quello che avviene in Italia). Quello della polizia civile, cioè la cura dell'ordine e della sicurezza pubblica interni, che deve essere affidata a funzionari civili, referenti diretti del ministero dell'Interno. E una terza funzione, che è quella della polizia tributaria. Tra questi tre ambiti è, comunque, necessario un forte coordinamento. Credo che anziché parlare di nuovi reparti speciali basterebbe, per iniziare, la condivisione controllata dei patrimoni informativi. Il computer della Stazione dei Carabinieri di Gallina (frazione di Reggio Calabria) deve offrire le stesse informazioni di quello che è installato nel Commissariato di Ps di Tirano (provincia di Sondrio). Tutti gli appartenenti alle Forze dell'ordine devono essere messi in grado di parlare la stessa lingua informatica. Negli Stati Uniti, in funzionario della DEA può ottenere immediatamente, in sintesi, tutte le informazioni su un determinato soggetto che sono contenute negli archivi di ogni ufficio di polizia. Queste possibilità a noi sono negate, dovendosi registrare, invece, delle tendenze che vanno in senso contrario. A quasi 17 anni dalla promulgazione della legge 121/81 sarebbe ora di dare effettiva attuazione al dettato normativo nella parte in cui prescrive la più larga e completa condivisione dei patrimoni informativi. È necessario razionalizza-
re e mettere a frutto le nostre conoscenze evitando che continuino a restare disperse. È necessario, poi, sprovincializzarci e, messe da parte le campagne isteriche e strumentali, giungere ad un concetto diverso di tutela della privacy. Diamo poteri e le connesse responsabilità alle Forze di polizia. Chi sbaglia paghi. Chi viola indebitamente il diritto all'altrui riservatezza venga duramente colpito. Non si continuino a negare, però, gli strumenti essenziali a chi deve portare avanti, con rischio personale, delicate indagini per la tutela dei diritti dei cittadini. È necessario che, nel rispetto di tutte le regole, chi è preposto alle investigazioni abbia un accesso facilitato alle banche dati pubbliche e, in taluni casi, anche a quelle private. Oggi, invece, diventa un problema anche conoscere il nome dell'intestatario di un'utenza telefonica. Questa tanto singolare quanto intollerabile limitazione intralcia e, in alcuni casi, vanifica le investigazioni, specie quelle preventive, nei confronti dei più agguerriti gruppi criminali. La privacy, soprattutto quella del criminale, deve cedere innanzi alle esigenze di sicurezza del Paese. Nessuno invoca, come detto, il "Grande Fratello", ma dobbiamo essere disposti a capire che, in carenza di determinati strumenti conoscitivi, le più delicate indagini diventano impossibili. In tal senso, non penso che sia scandaloso proporre che i condannati per i reati 41
più gravi possano essere controllati in modo più stringente. Arrivo, quindi, al punto dei reparti speciali e chiudo. Prendiamo atto dell'esistenza di una pletora di reparti speciali, sovente nati per appagare le più varie mire espansionistiche piuttosto che in risposta ad una concreta esigenza. Ogni ministero, sottraendo dagli organici aliquote più o meno consistenti di appartenenti alle Forze dell'ordine, cerca di crearsi il suo corpo specializzato di polizia. Da ultimo, abbiamo assistito al potenziamento del nucleo «Carabinieri ispettori del lavoro". La cosa singolare è che le competenze di questi carabinieri vanno esattamente a sovrapporsi a quelle degli ispettori del lavoro! Sembra proprio che in questo, come in altri casi simili, si vadano letteralmente sprecando delle risorse che, invece, andrebbero riunite e specializzate, lasciando svolgere a ciascuno il proprio mestiere. Questa considerazione appare di immediata evidenza se si rivolge l'attenzione al contrasto del crimine di matrice straniera. Si pensi che cosa significa, in termini di investimenti e risorse, dover approntare, per ogni Forza di polizia, interpreti, esperti socio-criminali e del crimine per specifici ed esotici settori del crimine internazionale. Posso garantire che non è facile trovare interpreti capaci e, soprattutto, non è facile mantenere aggiornato un patrimonio di esperienze e conoscenze che 42
permetta a ciascuna Forza di polizia di reagire in modo adeguato su tutto il territorio nazionale. E allora, sempre per seguire l'esempio, la criminalità organizzata cinese sta dilagando proprio perché non vi è abbastanza comunicazione delle esperienze finora analizzate. In questi casi, è necessario fare ricorso al modulo organizzativo del pool specializzato, centralizzando le competenze ed esaltano l'esperienza interforze. Ritengo allora che il disegno che sembra uscire dalla cosiddetta "bozza Sinisi"(il progetto elaborato dal Sottosegretario di Stato Smisi, sulla riforma delle Forze di polizia, n.d.a.) possa essere giudicato, nel suo complesso, un tentativo positivo, anche se in molti punti migliorabile. Ciò che ci sentiamo di condividere, in particolare, è la filosofia di fondo e l'intento di concentrare e razionalizzare energie e competenze per una lotta efficace al grande crimine che tenga conto delle ragioni dell'economia delle risorse umane e finanziarie. LA REDAZIONE
Una battuta finale. Sul tavolo sono state messe parecchie questioni. Cerchiamo di focalizzare due aspetti. Torniamo alla questione dei sindaci. Si dovrebbe adesso provarla a vedere sotto l'aspetto dell'elezione diretta, perché senza dubbio questa ha aumentato ilpotere di leadership della comunit?s locale.
L'elezione diretta ha reso forte il sindaco nei confronti degli altri soggetti politici presenti sul territorio. E questo fa sì che il sindaco chieda progressivamente di incidere sempre di più su tutte le politiche locali, siano esse occupazionali che quelle dell'ordine e della sicurezza pubblica. L'altro aspetto, a questo connesso, è il cercare un modo, a fronte della parcellizzazione e delle diversità, per evitare il rischio della politicizzazione dell'ordine e della sicurezza pubblici. Il sindaco, proprio perché alla ricerca del consenso, potrebbe avere modi del tutto personali di assicurare l'ordine e la sicurezza. Vi è, poi, un inversione di tendenza nei rapporti cittadini-pubblica amministrazione. Si comincia a fare un duplice ragionamento. Non più logica degli apparati in quanto apparati, piuttosto logica del servizio reso al cittadino. Non c'è dubbio che il problema dell'ordine e della sicurezza pubblica costituisce uno degli aspetti fondamentali delle libertà civili e costituzionali, se non altro perché si assicura la proprietà privata, l'esercizio della libertà di pensiero e delle altre libertà previste dalla Costituzione. Però questa sicurezza è aggredita dagli effetti, anche indiretti, dei fatti di criminalità che vengono in parte esasperati dai mass media ma che creano, comunque, un fortissimo allarme e serie preoccupazioni nelle comunità. Nel chiedervi una riflessione finale, occorrerebbe interrogarsi sulle strategie a breve per rassicurare i cittadini e su cosa
fare o pensare per evitare una forte politicizzazione dei concetti di ordine e di sicurezza pubblica. ROBERTO SGALLA
Se il sindaco vuole rendere sicura e abitabile la città sicuramente rivendicherà, e lo sta già facendo, competenze in materia di sicurezza. Dobbiamo, però, operare delle distinzioni. L'ordine pubblico non dovrà essere di competenza degli Enti locali e così la lotta alla grande criminalità. D'altra parte, il controllo del territorio potrebbe diventare un elemento in cui il sindaco concorre a orientare le scelte di politica di contrasto e a definire le strategie. Il primo cittadino viene chiamato a condividere alcune responsabilità. Questo presuppone l'attuazione di sinergie con gli organi centrali. Mentre molte funzioni "amministrative", quali per esempio il rilascio di passaporti, molto probabilmente saranno trasferite agli organi locali. Per quanto riguarda temi caldi, come il permesso di soggiorno, ho invece delle perplessità, perché questo problema si presenta troppo delicato per lasciarlo in mano a chi è molto sensibile alla ricerca del consenso popolare e, quindi, potrebbe adottare soluzioni in relazione sia all'appartenenza politica sia alle realtà del posto. Ma credo sia inevitabile che le funzioni di polizia amministrativa vengano sempre più demandate agli Enti locali. 43
Rilevante è anche il problema della cultura del servizio e della qualità del servizio reso. È evidente che la struttura dell'apparato, la forma dell'organizzazione influenzerà il tipo di servizio che si fornisce. Ma non possiamo dimenticare il soggetto al quale il servizio va reso, cioè il cittadino e questo ci può aiutare a risolvere qualche problema organizzativo. Se andiamo a ridefinire le modalità dell'offerta di protezione e tutela della sicurezza, ci accorgiamo che c'è bisogno di maggiore formazione, di mutamenti degli approcci deontologici, di una diversa capacità di relazionarsi al sociale. Porre al centro il cittadino vuole dire farlo diventare il soggetto principale del lavoro degli apparati, dell'agenzia di controllo sociale, nonché dell'Ente locale. Penso, per fare un esempio, all'anziano che dovrebbe poter sporgere denuncia presso la sua dimora, senza dover andare all'ufficio di polizia. I diritti di cittadinanza che oggi sono al centro dell'azione politica, soprattutto degli Enti locali, che sono poi diritti di inclusione in un modello di vita completa e piena, presuppongono una revisione culturale. Al di là degli apparati, al di là dei modelli ciò che cdnta è un salto culturale. Personalmente, e non per contraddire Aliquò, credo poco alle regole e alle garanzie scritte. Lo sforzo è quello di realizzare una rivoluzione culturale, una rivoluzione copernicana. 44
Non credo che il funzionario di polizia sia demotivato perché la 121 ne ha distrutto il ruolo. No, ciò che oggi costituisce un problema che investe tutto il Paese, e noi come amministrazione del ministero dell'Interno lo sentiamo particolarmente, è la resistenza, l'inerzia, la pigrizia verso nuovi atteggiamenti culturali. Se vogliamo percorrere strade diverse, dobbiamo avere il coraggio di cambiare mentalità. Per esempio, nella scelta di dirigenti per seguire criteri che non siano soltanto formali. Questa è la scommessa vera. La capacità di capire, di interpretare cosa è oggi il servizio di sicurezza e di ordine pubblico costituisce la premessa per ogni riorganizzazione. C'è da dire che questa rivoluzione sta avvenendo in molte realtà locali, dove gli amministratori vivono questo incontro-scontro con i reali bisogni della cittadinanza e mutano continuamente la loro mentalità secondo gli approcci che possono usare per agire in concreto.
GIOVANNI ALIQUÒ
Concordo pienamente sulle esigenze di una rivoluzione culturale. Mi chiedo solo se nella maggioranza degli Enti locali sia effettivamente maturata la coscienza di servizio al cittadino. Mi chiedo, in particolare, in quale misura essi possano assumere il ruolo di qualificati referenti per la sicurezza. In un settore tanto tecnico, infatti, è bene
non operare tagli traumatici con il passato e ie tradizioni. Per la nostra sicurezza, come ho già sottolineato, abbiamo bisogno dei concorso dei sindaci, ma non solo di loro. Nelle realtà territoriali si muovono altri soggetti che possono contribuire positivamente alla formulazione di una politica di sicurezza. Non sono convinto, perciò, che il ruolo di gestore della sicurezza del territorio, possa essere rivestito dal sindaco. Ciò soprattutto nelle realtà più piccole. Là dove il sindaco è conosciuto fisicamente da tutti: dove ha amici e nemici anche in ragione della sua appartenenza politica. Nella variegata e conflittuale realtà politica italiana è- necessario che le responsabilità della sicurezza continuinp a far capo ad una figura neutra. Ribadisco, allora, che nel nostro ambito la rivoluzione culturale non si fa con mosse azzardate, ma affermando le competenze, la meritocrazia e la cultura in senso proprio. Le riforme piìt recenti, invece, ci spingono nella direzione completamente opposta. Si legittima il malvezzo pubblico di far progredire in carriera, anche in carenza dei necessari requisiti culturali e di adeguata selezione, il personale interno. Il nuovo atteggiamento culturale di apertura alle esigenze del cittadino non potrà prescindere dal momento della comunicazione con i cittadini stessi e con le comunità rappresentanti interessi collettivi. Una comunica-
zione che si fondi soprattutto sull'autorevolezza e la preparazione degli interlocutori. Fino ad oggi, invece, abbiamo quasi sempre preferito arroccarci nella torre dei nostri poteri e delle nostre competenze, impedendo ad altri di partecipare alle nostre scelte. Abbiamo perso, così, un grande patrimonio di informazioni e, soprattutto, l'occasione di avere i cittadini quali nostri alleati nella lotta al crimine. In questo senso potrà essere prezioso il supporto offerto dai nuovi strumenti mediali come internet. La "rete delle reti", se sapremo anticipare i tempi, ha tutte le potenzialità per divenire un potente veicolo di raccolta ed offerta di informazioni per la sicurezza. La comunicazione diviene, così, la vera scommessa di una moderna politica della sicurezza. FIcEsco
SID0TI
In chiusura,- riassumo assai schematicamente il senso delle mie osservazioni precedenti: sono perpiesso nei confronti delle analisi che puntano soprattutto sui mutamenti delle organizzazioni prèposte alla sicurezza. Sarebbe preliminarmente necessaria un'opera profonda di assunzione di responsabilità da parte di tutti noi; quindi, chiudere un'eredità delle vicende passate che rischia di essere del tutto assorbente e soffocante; soltanto allora, a mio modesto avviso, potranno essere intraprese ragionevolmente 45
le necessarie trasformazioni organizzative. In futuro "legge e ordine" sarà uno slogan ricorrente; speriamo che ne sia fatto un buon uso. È uno slogan che nasce a destra, ma che ora è stato mutuato da Clinton e Blair in chiave di "democrazia e legalità". "Legge e ordine" ormai può essere affermato come principio anche da uomini di sinistra, così come è stato fatto altrove, senza destare troppi scandali.
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GIOVANNI ALIQUÒ Visto che siamo in Italia e le parole ancora pesano, io preferisco "democrazia e legalità": è una formula che mi appare meno carica di echi autoritari. ROBERTO SGALIA Comunque, l'ordine e la sicurezza non sono e non possono essere più patrimonio di una certa parte politica.
dossier «
I
L"esternalizzazione" dei servizi pubblici
Con il termine, non proprio eufonico, di esternalizzazione da qualche tempo si defi nisce in ambienti di "addetti ali lavori" ciò che nel dibattito pubblico èpiù conosciuto come "privatizzazione" Tema di cui queste istituzioni si occupa da tempo, apartire da un articolo pubblicato sul n. 77-78 nel 1989 (Privatizzare in Italia di Enrica Del Casale) fino all'ultimo dossier presentato nel n. 101-102 del 1995 (con articoli di Filz»o Cavazzuti, Giovanni Moglia, Angelo Schiano, Renzo Ristuccia e Antonio Segni). A distanza di due anni torniamo a parlare di privatizzazioni, questa volta con un sgnardo "in basso' alle privatizzazioni avvenute o in corso d'opera nei Comuni italiani (con un articolo di Barbara Nepitelli) e 7iori' negli Stati Uniti (con un studio di Keon S. Chi). Se nelle nostre città si è discusso a lungo se il latte e l'acqua siano beni primari che il sistema pubblico dovrebbe continuare a controllare a garanzia di tutti i cittadini, negli Stati americani il dibattito è andato oltre fino a toccare temi vicini alla giustizia, quale è quello degli istituti penitenziari. Quest'ultimo settore, infatti, insieme a quello dell'assistenza e della sanità sono quelli in cui la privatizzazione negli USA è cresciuta negli ultimi anni. Con esiti controversi. 47
Al di là di giudizi di valore su tali tendenze, appare interessante notare che pe?fino in un Paese che può definirsi il "regno" del privato, ci si pone il problema, come ricorda Keon S. Chi, di istituire un organo, almeno a livello di ogni singolo Stato, «dotato del potere di decidere in modo equo e imparziale' che introduca "metodi e procedure finalizzati all'attuazione delle iniziative di privatizzazioni" C?, dunque, l'esigenza di regolare le privatizzazioni in termini di procedure di scelta dei servizi da «esternalizzare", di criteri di gara, di monitoraggio. Fra l'altro, lo stesso articolo dello studioso americano, oltre a presentare un'indagine sulle privatizzazioni nei diversi settori, analizza anche alcune «opzioni" che tendono a valutare le ragioni e i modi in cui è bene si privatizzi. E il motto non appare quello del "privato è bello ", ma quello meno assertivo del "vediamo seprivatizzare porta dei vantaggi per tutti'
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Esperienze di privatizzazione negli Enti locali di Barbara Nepitelli
Al motto di "privato è bello" lo Stato italiano è impegnato, più o meno, a fare un passo indietro nell'economia. Se è tramontata oramai da tempo l'epoca del "panettone di Stato", sono ancora molti i settori economici, anche di punta, nei quali la presenza pubblica è rilevante o nei quali c'è ancora un monopolio pubblico del mercato. Sono due i fattori che hanno spinto i governi italiani a perseguire dai primi anni novanta (con sempre crescente convinzione ed efficacia) una politica di privatizzazioni. In primo luogo, l'applicazione delle regole di concorrenza imposte dalla Commissione europea (che ha rafforzato la sua azione dal momento della realizzazione del mercato unico e della creazione dell'Unione europea) stanno portando all'apertura dei mercati e al superamento dei monopoli, anche pubblici. Basti pensare agli effetti delle direttive di liberalizzazione nel settore delle telecomunicazioni, in quello elettrico e nei trasporti aerei. A questa disciplina fa da corollario lo stop agli aiuti di Stato: premessa dell'accordo Andreatta-Van
Miert del '93 che, di fatto, sta portando a chiudere definitivamente l'epoca delle partecipazioni statali. In secondo luogo, nello stesso periodo si è fatta sempre più pressante l'esigenza di risanare i conti pubblici. E, anche qui, l'Europa sta giocando un ruolo non trascurabile con i parametri di finanza pubblica previsti dal trattato di Maastricht che i Paesi devono rispettare per entrare nell'Unione economica e monetaria. Le privatizzazioni favoriscono il risanamento del bilancio statale, tanto è vero che, per legge, i proventi delle dismissioni sono destinati a ridurre lo stock del debito. Un terzo elemento che ha giocato un ruolo, pur essendo extra-economico, e che vorrei semplicemente menzionare, è il ricambio parziale della classe politica derivata dall'inchiesta Mani pulite, dall'affermazione della Lega come nuovo soggetto politico e dai referendum di Segni sulla legge elettorale. Il fatto che ci siano motivi così stringentI alla base della scelta politica di privatizzare non vuoi dire, però, che essa sia universalmente condivisa. E, 49
infatti, i progressi su questa strada non sono facili né scontati se si pensa che la stessa maggioranza che sostiene l'attuale governo, su questi temi non è maggioranza perché una sua componente determinante, Rifondazione comunista, è per principio contraria all'uscita dello Stato dall'economia. Una posizione, quella di Prc, rafforzata dalla vittoria della sinistra di Jospin in Francia che sta frenando sulle privatizzazioni impostate dal precedente governo di centro-destra. All'opposizione a livello politico si è saldata una resistenza «passiva da parte dei vertici delle aziende interessate al processo di trasformazione (tanto da far parlare di partito trasversale antiprivatizzazioni). Attualmente, in Italia, le principali operazioni in corso, oltre alla vendita di Autostrade, Seat e Aeroporti di Roma, riguardano tre colossi: Eni, Telecom ed Enel, per i quali si prevedono percorsi diversi e variamente graduati ma tutti seguono la direttrice tracciata dal super ministro dell'Economia, Carlo Azeglio Ciampi, che conduce, comunque, al passaggio dallo Stato-gestore allo Stato-regolatore e garante. Telecom si sta realizzando come la privatizzazione più completa, Enel sembra essere in una lenta lista d'attesa LE PRIVATIZZAZIONI "IN BASSO"
In questo quadro a livello nazionale, anche le realtà locali si sono mosse 50
sulla strada delle privatizzazioni, spinte da una serie di ragioni, in parte diretta conseguenza di quelle appena esaminate a livello nazionale. La stretta ai trasferimenti statali che prima ripianavano, a pié di lista, i deficit locali (dovuta alla necessità di risanare i conti pubblici) ha costretto le amministrazioni locali ad attuare una più oculata gestione del proprio patrimonio mobiliare e immobiliare: a tagliare i "rami secchi" e a rendere più competitive le aziende strategiche, anche con l'apporto di esperienza e capitale privato. In questo modo i proventi delle dismissioni, i risparmi derivanti dalla cessione di realtà in deficit e il maggiore gettito che viene dal rilancio di aziende (attuato grazie all'apporto di capitali privati) possono essere destinati ad altri compiti, più propriamente connessi a finalità pubbliche e sociali: come i servizi alla persona (asili nido, trasporti scolastici, assistenza agli anziani e ai disabili) e come i servizi che, per la loro scarsa redditività, difficilmente sono appetibili per i privati, ad esempio i trasporti. Passando ad un altro elemento, l'attesa liberalizzazione di alcuni mercati, come quello elettrico o quello dell'acqua, apre prospettive di svilup po anche per le aziende locali, per realizzare le quali sono indispensabili alleanze e joint-ventures. Ma queste strategie sono più facili da attua-
re se le vecchie "MF» cedono il posto a Spa meno impacciate da vincoli burocratici e da collegamenti diretti con il potere politico. Inoltre, sempre per realizzare tale espansione e diversificazione, servono capitale e know-how che le amministrazioni locali non hanno e che quindi sono spinte a cercare sui mercato, sia con l'entrata diretta di partner industriali, sia con il collocamento di azioni in Borsa. A questi due aspetti più strettamente economico-finanziari, si deve aggiungere lo sviluppo, sempre a partire dai primi anni novanta, dell'idea di federalismo. Una istanza portata inizialmente avanti solo dalla Lega, ma rapidamente ripresa da quasi tutte le forze politiche; tanto che, nella direzione di un forte decentramento, va anche la proposta di riforma della Costituzione varata dalla Bicamerale. Il federalismo, o anche una seria forma di decentramento amministrativo e finanziario, cambiano il ruolo e i compiti dell'ente e le aspettative dei cittadini nei suoi confronti e permettono all'amministrazione locale di compiere scelte con una autonomia prima impensabile, anche se, finora, ancora limitata nei fatti. (Al federalismo si è intrecciato il ricambio della classe politica locale, che è stato più radicale rispetto al livello nazionale ed ha giuocato un ruolo essenziale. Questo cambia-
mento è stato possibile principalmente grazie alla riforma che ha previsto l'elezione diretta del Sindaco e ha dato anche maggiori poteri al Primo cittadino e alla sua Giunta). Naturalmente, anche a livello locale si sono riproposti gli ostacoli alle privatizzazioni posti a livello nazionale da alcune forze politiche e, in alcuni casi, dalle aziende interessate dai processi di trasformazione. La dimostrazione più evidente della resistenza posta da alcuni partiti, (fra cui sempre Prc, la cui opposizione si è saldata, a Roma, con quella di An e di Forza Italia), è stata l'indizione di alcuni referendum consultivi per far pronunciare la cittadinanza sulle dismissioni in corso (due a Roma e uno a Bologna, come vedremo più avanti, si sono già svolti. E a Milano si sono già raccolte le firme per una consultazione popolare). A questo quadro, si sono aggiunte difficoltà e lentezze nell'iter burocratico a dimostrazione di come l'autonomia conquistata dalle amministrazioni locali sia ancora limitata da un eccesso di vincoli e procedure di controllo, spesso solo formalistici, da parte delle Amministrazioni territoriali e centrali. Alcuni di questi vincoli sono stati rimossi con le due leggi di riforma e decentramento della Pubblica amministrazione recentemente approvate (conosciute, dal 51
nome del ministro proponente, come leggi Bassanini, nn. 59/97 e 127/97). Una più chiara definizione dei servizi pubblici locali e di come devono essere assicurati dagli enti è contenuta, invece, nel Ddl Napolitano in corso di approvazione in Parlamento (che riforma la legge 142). A dimostrazione della complessità e della conseguente lentezza del processo di privatizzazione di aziende locali sta il fatto che, nella quasi totalità dei casi che esamineremo nel concreto più avanti, si è dimostrato necessario l'arco di una intera legislatura, o anche di più, per portare a compimento le operazioni programmate.
PIUVATIzZAzI0NI FORMALI E PRIVATIZZAZIONI SOSTANZIALI
Le amministrazioni locali si stanno dunque attrezzando per cercare di superare un tipo di gestione dei servizi pubblici che, soprattutto in particolari settori produttivi, appare oramai superata. Stanno, quindi, realizzando un processo di privatizzazione che passa attraverso due fasi: formale e sostanziale. Il primo obiettivo, infatti, è quello di separare le funzioni di indirizzo e controllo, necessarie per tutelare gli interessi pubblici (e soprattutto le fasce deboli della cittadinanza), dalla gestione aziendale, che deve essere im52
prontata a criteri di imprenditorialità. Il diverso assetto gestionale, attuato tramite il passaggio dalla classica "Municipalizzata" all'Azienda speciale (una via di mezzo introdotta dalla legge 142 per le realtà pubbliche) o alla Spa pubblica, garantiscono, infatti, una maggiore autonomia da interessi extra-economici, ovverosia politici, nella gestione dei servizi e garantiscono anche la necessaria flessibilità per adeguare l'azienda alla realtà del mercato. Dalla separazione fra i due momenti scaturisce (e questa è la seconda fase) l'ingresso dei privati nella proprietà e nella gestione di determinati servizi pubblici o anche la cessione vera e propria a privati di attività produttive. Non è certo più indispensabile, ad esempio, la proprietà pubblica per assicurare la buona qualità del latte (in un mercato dove la qualità del prodotto di aziende private è già assicurata altrimenti). Ma anche per l'erogazione dei servizi pubblici essenziali (definiti anche, con un termine inglese, public utilities), come la distribuzione dell'acqua e dell'energia elettrica o del gas, la tutela degli interessi collettivi non è perseguibile solo con il mantenimento integrale della proprietà pubblica delle aziende. Questo non vuoi dire rinunciare alla salvaguardia degli interessi sociali, ma semplicemente realizzarla attraverso i'uso di strumenti diversi dalla proprietà e dalla gestio-
ne pubblica. Gli strumenti adottati e adottabili sono differenti: dal mantenimento del controllo di maggioranza da parte dell'Ente locale o comunque di una partecipazione di "garanzia", all'inserimento di specifiche clausole nel contratto di servizio tra Ente pubblico ed Azienda o all'istituzione di Authority di controllo. Nei casi che saranno esaminati delle Aziende energetiche, ad esempio, i Comuni interessati prevedono sempre il mantenimento, almeno nella fase iniziale, del 51% del pacchetto azionario (questo, in realtà, soprattutto per godere dei benefici fiscali che ne derivano, cioè una esenzione tributaria per le neo-Spa fino al '99). Naturalmente il discorso fin qui svolto, e che proseguirà con l'esame di casi specifici, prende come riferimento ed ha una sua validità con riferimento a realtà territoriali e aziendali medio-grandi, riguarda quindi gli Enti locali di maggiore dimensione. IL QUADRO ECONOMICO
Il mercato dei servizi locali a rete fattura ogni anno circa 43 mila miliardi. E il panorama delle aziende e degli enti pubblici che forniscono questi servizi è molto ampio e variegato. Sono quasi mille le imprese e gli enti che aderiscono alla Cispel, la Confederazione italiana dei servizi pubblici locali. Una realtà, secondo dati Cispel, che realizza un fatturato
annuo di oltre 20 mila miliardi e occupa pii di 169 mila addetti. I principali servizi offerti sono: erogazione dell'acqua (oltre 4 mila miliardi di metri cubi a 29 milioni di cittadini), del gas (10,5 miliardi di metri cubi a circa 15 milioni e 600 mila cittadini), distribuzione di energia (14,5 miliardi di kwh a 7 milioni di cittadini, di cui 8,577 milioni di kwh prodotti), trasporti (4,5 miliardi di passaggi con una percorrenza totale di 1,2 miliardi di km), raccolta dei rifiuti (8 milioni di tonnellate su 27 milioni di rifiuti solidi urbani prodotti annualmente in Italia), produzione e distribuzione latte (4 milioni di ettolitri di cui 3 di latte fresco), farmacie pubbliche (2 mila con un fatturato medio di 1,5 miliardi). Dai dati Cispel si rileva, inoltre, che è in aumento la presenza di Spa. Sono l'il % le società municipalizzate che, tra il '96 e il '97 hanno scelto la trasformazione in società per azioni. Il 43% ha invece preferito la strada delle Aziende speciali. Infine, le Aziende speciali hanno dato vita a 94 Spa. Una situazione in rapida evoluzione, soprattutto nel CentroNord, se si pensa che, nel '96, le Spa pubbliche erano il 9% e le Aziende speciali il 36% del totale. Per quanto riguarda l'attività extraterritoriale delle aziende, il 26% riguarda la gestione delle risorse idriche, circa il 20% l'igiene e una percentuale analoga il gas, il 10% l'energia elettrica. 53
Dalle valutazioni che vengono fatte, la privatizzazione delle ex-municipalizzate è un mercato che vale 50 mila miliardi di lire. LE PRIVATIZZAZIONI DELLE "PUBLIC UTILITIES"
La storia dell'Amga di Genova è esemplare. Al momento, costituisce l'unica delle aziende del settore acqua-energia avviate a privatizzazione ad aver compiuto interamente il percorso prefissato, con la cessione di una quota azionaria, sia pure di minoranza, sul mercato. Inoltre, l'Amministrazione ha già preannunciato l'intenzione di scendere al di sotto del 51% al termine del periodo triennale di agevolazione fiscale. È esemplare anche perché sta facendo da battistrada sotto un altro aspetto: quello della estensione delle proprie attività al di fuori del proprio ambito territoriale e anche all'estero, facendo parlare di processo di "pubblicizzazione dell economia locale. LAzienda mediterranea gas e acqua, Amga, di Genova è, dunque, una Spa quotata a Piazza Affari. Dall'autunno dello scorso anno il 49% delle azioni è in mano ai privati, mentre il 5 1 % del capitale è rimasto di proprietà del Comune, che all'inizio lo deteneva al 100%. Il controllo della società quindi è rimasto pubblico. La trasformazione è stata avviata nella primavera deI '95 con una delibe54
ra Consiglio comunale con la quale è stata decisa l'istituzione della Spa e l'apertura del capitale ai privati, con un tetto del 5% alla parteci.pazione azionaria. Dal 10 gennaio 1996 l'Amga ha iniziato a funzionare a tutti gli effetti come Spa. Ad ottobre è avvenuto il collocamento delle azioni sul mercato tramite opv (offerta pubblica di vendita). L'operazione ha ricevuto una buona accoglienza dal mercato: il valore nominale di una azione è di mille lire e il prezzo di collocamento è stato fissato a 1.300 lire per azione (all'estremo più alto della forbice fissata che era compresa tra un minimo di 1.150 e un massimo, appunto, di 1.300 lire). Il mantenimento del 51% in mano pubblica non ha, quindi, penalizzato il collocamento e il Comune ha incassato più di 200 miliardi. Anche perchè i conti dell'Amga ne dimostrano la appetibilità: nel '96 ha registrato 34 miliardi di utile e 300 di fatturato. Risultati che dovrebbero essere confermati anche nel '97. La maggior parte del giro d'affari dell'Amga viene dal gas (il 74%), il resto dal ciclo delle acque, da quello del calore e dall'energia elettrica. Per quanto riguarda i progetti per il futuro, la nuova azienda è stata subito molto attiva sia sul mercato domestico che internazionale. Appena realizzata l'operazione di cessione, l'Amga ha lanciato un'opa (offerta pubblica di acquisto) per ac-
quisire il controllo dell'acquedotto De Ferrari Galliera che serve parte della città. Lopa è fallita ma la decisione di tentarla è stata indicativa di una precisa politica industriale di consolidamento sul proprio mercato perseguita dall'Azienda. In direzione di una espansione su altri mercati vanno invece altre operazioni, come il progetto di costituire una società mista insieme al Comune di Ventimiglia per la gestione del servizio idrico integrato ne! piccolo Comune ligure. Un progetto che è stato temporaneamente bloccato da una decisione del Tar Liguria che inibiva all'Amga la possibilità di operare al di fuori del proprio territorio comunale ma che ora sembra nuovamente possibile grazie al Consiglio di Stato che ha emanato una ordinanza sospensiva della decisione del Tar fino al 30 novembre 1997. Infine, la società è molto attiva nell'Europa dell'est: si è aggiudicata, in joint-venture con l'Aem di Milano e la russa Lengaz, la ricostruzione della rete del gas di San Pietroburgo e sta partecipando ad altre gare internazionali, principalmente nell'Europa dell'est.
L'Aem di Milano. Anche l'azienda Energetica di Milano, dopo la trasformazione in Spa, sta scaldando i muscoli per il collocamento sul mercato del 49% delle azioni e la quotazione in Borsa. La nuova Amministrazione, che si è insediata a Palazzo
Marino in primavera, ha confermato che intende portare a termine l'operazione avviata dalla Giunta precedente, nel corso del '98. Ha, però, deciso una novità di rilievo allo statuto già approvato: il tetto al possesso azionario passa dallo 0,5% al 6%. Questo modifica il volto dell'operazione milanese. L'Amministrazione precedente aveva voluto sottolineare, prevedendo una soglia così bassa, l'aspetto di public company che doveva assumere la neo-Spa, infatti la cessione delle azioni doveva essere rivolta principalmente ai cittadini. Il nuovo tetto, anche se limitato al possesso e quindi al vantaggio economico, implica l'obiettivo di una presenza più consistente degli investitori istituzionali nella compagine azionaria. In ogni caso, anche a Milano la maggioranza del pacchetto azionario è destinata, almeno per ora, a rimanere in mano al Comune. In confronto alla sorella genovese, la Spa meneghina costituisce una realtà economica di maggior peso: nel 1996 ha fatturato 1.100 miliardi, con un utile di oltre 130 miliardi e un margine operativo lordo di 276 miliardi. La valutazione predisposta dai periti del tribunale valuta la exmunicipalizzata quasi 2 mila miliardi (una stima considerata "prudenziale" da Palazzo Marino). Sui tempi dell'operazione potrà incidere il referendum consultivo sulla privatizzazione per il quale sono state già rac55
colte le firme e che si dovrebbe tenere in autunno.
L'Aem di Torino. L'Azienda Energetica Metropolitana Torino è anch'essa una Spa nata dalla liquidazione della Municipalizzata che, in precedenza, svolgeva i medesimi servizi pubblici. La delibera di istituzione della Spa, come le altre sulla base dell'articolo 22 della legge n. 142/90, è stata adottata nel marzo '96 e la Società è divenuta pienamente operativa dal gennaio di quest'anno. L'obiettivo del Comune è stato fin dall'inizio quello di cedere una quota di minoranza del pacchetto azionario. Il percorso da seguire è stato perfezionato in una successiva delibera, approvata l'autunno scorso. A differenza di quanto fatto a Genova, è stato deciso il coinvolgimento di un investitore strategico, attraverso la cessione diretta (o trade sale) di una quota del 43% del capitale. Per investitore strategico, l'Amministrazione intende un partner industriale che potrà presentarsi anche in congiunzione con un investitore finanziario che però dovrà restare minoritario. La restante quota di capitale sarà mantenuta dal Comune per il 51% (limite fissato per statuto), l'l% resterà agli altri soci attuali, tra i quali la Provincia, mentre il residuo 5% è destinato a dipendenti e a cittadini utenti. La scelta del partner, cui potrà anche essere affidata la gestione 56
dell'azienda, avverrà tramite un'asta competitiva preceduta da una prequalificazione dei soggetti (procedura coerente con quanto previsto dalla legge 474/94). Il progetto di dismissione ha già suscitato interesse ed hanno cominciato a farsi avanti alcuni potenziali acquirenti, anche europei e statunitensi ma la conclusione dell'operazione è attesa non prima del 1998. L'Azienda ha registrato, nel '96, un fatturato di 336 miliardi e utili per 14 miliardi. Intenso è il piano di investimenti: nel triennio 1996/1998 il tasso di investimenti sui ricavi sarà del 25%. L'Aem Torino controlla il 50% del mercato locale dell'elettricità. Il valore dell'intero pacchetto azionario è stimato tra i 600 e gli 800 miliardi, il Comune stima di incassare dalla futura cessione oltre 300 miliardi.
L'Acea di Roma. L'Azienda romana per l'energia e l'ambiente sta per essere trasformata in Spa. Il Consiglio comunale ha approvato, in primavera, la delibera di trasformazione in Società per azioni e l'operazione sarà completata con la perizia del tribunale sui conferimenti patrimoniali. A differenza dei casi sopra esaminati, il Comune di Roma aveva già deliberato, in passato, la trasformazione dell'Acea da Municipalizzata ad Azienda speciale. Quindi, la trasformazione è da questa forma giuridica in società per azioni. L'ulteriore pas-
saggio è stato deciso sia perché la Spa consente una maggiore flessibilità di gestione sia come primo passo verso un'apertura, seppure minoritaria, ai privati. Anche a Roma, sia la delibera che lo statuto della costituenda società fissano il limite minimo del 51% per la partecipazione del Comune e prevedono che per eventuali modifiche alla proprietà azionaria ci debba essere una nuova delibera da parte del Consiglio comunale. In ogni caso, le previste cessioni di quote di minoranza non saranno realizzate prima del prossimo anno (dopo le elezioni amministrative) e resta ancora da definire con quali modalità, anche se l'attuale Amministrazione si dichiara intenzionata a quotare la Spa in Borsa nel '98. Un altro aspetto che verrà preso in considerazione è quello di una separazione giuridica dei due principali rami di attività (energia elettrica ed acqua) per sfruttare meglio le potenzialità dei due mercati. Anche la eventuale scissione dei servizi in più società dovrà comunque essere oggetto di una nuova delibera del Consiglio. La nuova Spa avrà una dimensione aziendale di tutto rispetto: l'Acea, tra le ex-municipalizzate, è il maggior distributore di energia elettrica mentre nel servizio idrico è il secondo grande operatore. I dati economici sono positivi e hanno fatto registrare dei miglioramenti nel triennio 1993/1995, ad
esempio il margine operativo lordo è passato dal 27,3% al 30,5% del fatturato, raggiungendo i 362,2 miliardi. Gli utili del 1995 sono ammontati a 185 miliardi su un fatturato di 1.200 miliardi e anche il bilancio dello scorso anno si è chiuso con un utile di circa 200 miliardi. Gli aeroporti La gestione degli aeroporti si è aperta alla concorrenza dei privati. Un caso, quello degli Aeroporti di Roma, riguarda il livello nazionale perché la proprietà è sostanzialmente dell'Iri e quindi del Tesoro. In estate è stato ceduto al mercato il 41% del pacchetto azionario e il governo ha già deciso di arrivare a breve a dismettere il 100% del capitale. Un altro caso, quello di Capodichino, riguarda il livello locale. La gestione dell'aeroporto partenopeo è della Gesac, società di cui il Comune e la Provincia detenevano il 95% della proprietà fino a che non hanno deciso di cedere la maggioranza alla Baa, la British Airport Authority. L'intesa prevede l'acquisizione da parte della Baa del 70% della Gesac, con un esborso fra i 46 e i 57 miliardi di lire e l'assunzione della gestione dell'aeroporto. Comune e Provincia scenderanno al 20%. L'Alitalia potrebbe conservare il suo attuale 5% di capitale che, se il diritto non dovesse essere esercitato, potrebbe andare ai dipendenti Gesac, inoltre ci sono 57
contatti in corso anche con una cordata di imprenditori napoletani. Uintesa prevede anche che i due enti locali conservino un potere di indirizzo e controllo dell'attività di Capodichino, attraverso la nomina del presidente e di alcuni consiglieri della società. Inoltre, per un periodo di cinque anni, mantengono il diritto a riacquistare le azioni in caso di scioglimento dell'accordo. Nei progetti degli inglesi c'è un dettagliato piano di investimenti che dovrà consentire a Capodichino di diventare uno scalo internazionale e si prevede il mantenimento dei livelli occupazionali. L'accordo è stato siglato nonostante le critiche da parte di gruppi ambientalisti che temono un eccessivo potenziamento dello scalo in vista del Giubileo. Il latte
Il mondo delle municipalizzate di raccolta e vendita del latte è un mondo in profonda trasformazione. Quando queste aziende sono nate avevano una funzione sociale molto importante, adesso il panorama in cui operano è completamente cambiato. Si è molto diffusa l'utilizzazione del latte a lunga conservazione (Uht), ci sono forti aziende private che fanno una concorrenza molto aggressiva, è aumentata l'incidenza della grande distribuzione, le norme di qualità e i prezzi non sono più assicurati dalla proprietà pubblica del58
le aziende. Per questo si stanno realizzando diverse operazioni di vendita ai privati, accompagnate da operazioni di concentrazione. L'Accl, la Centrale capitolina, ha un posto di rilievo fra le municipalizzate che producono latte sia per la quantità di prodotto fresco venduto, sia per il bacino di distribuzione, sia, infine, per il valore del marchio. Nello stesso tempo, a causa di una serie di fattori, ha accumulato un forte deficit di bilancio che ha pesato sulle casse comunali, negli anni 19891993, circa 30 miliardi l'anno, pari al 16,8% del fatturato. L'Amministrazione ha quindi deciso di trasformare l'Azienda speciale in Spa e venderla, con un duplice obiettivo: ridurre l'indebitamento finanziario del Comune e rilanciare l'azienda che, comunque, costituisce una realtà importante nell'economia romana. A differenza della strada normalmente scelta per trasformare le aziende energetiche in Spa, il Comune ha ritenuto che la raccolta e vendita del latte non costituiscano più un "servizio pubblico" e quindi ha proceduto alla trasformazione della Accl in una Società per azioni di diritto comune ed ha avviato la procedura di dismissione sulla base della legge 474194. Per la scelta dell'acquirente, il Comune ha preferito alla strada dell'offerta pubblica quella della trattativa diretta. Questa decisione è stata giustificata con il
fatto di non subordinare la vendita solo al criterio dei "risultati di cassa" ma anche a quello di scegliere un acquirente che, presentando un adeguato piano industriale, potesse offrire le maggiori garanzie di rilancio dell'azienda. Ulteriori garanzie, a questo scopo, sono state introdotte dalla decisione di mantenere una partecipazione minima nel capitale, circa il 5%, e il coinvolgimento nell'operazione dei produttori locali, destinando loro il 20%. L'opzione deve essere esercitata entro 18 mesi. L'acquirente prescelto dalla Giunta è stato la Gino, che ha offerto 80 miliardi per l'acquisto del 75% del pacchetto azionario. Se l'opzione degli allevatori non dovesse essere esercitata, la Gino acquisterà l'ulteriore 20% pagando circa 21 miliardi. La Gino in precedenza aveva acquisito anche il marchio della Centrale del latte di Napoli. ANALISI DI ASPETTI PARTICOLARI
Il referendum consultivo. Chi valuta negativamente il processo di apertura ai privati che sta investendo il mondo delle municipalizzate ha in mano un nuovo strumento per cercare di bloccare o quantomeno ritardare il processo, anche quando in Consiglio comunale. ci sia una maggioranza di forze politiche a favore della privatizzazione. Questo strumento consiste nel far pronunciare
direttamente la cittadinanza sull'operazione. Con la legge 142/90 e i nuovi statuti che i Comuni hanno adottato è stato introdotto l'istituto del referendum consultivo che, seppure non vincolante per le Assemblee locali, ha comunque un valore politico, di indirizzo. Questo strumento è stato utilizzato sia a Bologna, per le farmacie comunali, che a Roma, per la Centrale del Latte e l'Azienda idro-elettrica e sarà utilizzato a Milano, per l'Azienda elettrica. Il principale effetto del referendum è, naturalmente, l'impatto politico. Infatti, anche se ha carattere consultivo, l'ente locale difficilmente, in caso di voto negativo sulla privatizzazione, potrà non tenere conto dell'opinione espressa dai cittadini. Le farmacie comunali di Bologna. Il primo referendum che si è svolto è stato quello di Bologna. L'Azienda farmaceutica comunale, Afm, gestisce a Bologna 21 farmacie, un dispensario e un magazzino all'ingrosso. Inoltre, in convenzione con altri Comuni della provincia, gestisce altre 17 farmacie di proprietà pubblica sul territorio provinciale. Anche in questo ambito, le garanzie per i cittadini sia sulla qualità e reperibilità dei prodotti che sui prezzi, non sono più legate alla proprietà pubblica. Per questo motivo, l'Amministrazione ha deciso la trasformazione 59
della Municipalizzata in Spa e la cessione fino a un massimo dell'80% del pacchetto azionario (il 20% per legge deve rimanere in mano al Comune). Il valore dell'Afm si aggira intorno ai 70 miliardi; nel '96 ha avuto un fatturato di 180 miliardi e circa il 20% di utili. Il Comune ha ipotizzato di ricavare oltre 50 miliardi dalla vendita, risorse da destinare ad altri servizi a favore dei cittadini. Rifondazione comunista, contraria all'operazione, ha raccolto le firme per un referendum consultivo (a Bologna sono sufficienti 5 mila firme). La consultazione si è tenuta, insieme ad un altra, nei giorni del 31 gennaio e dell' 1 e 2 febbraio 1997 ma non ha dato esito perché il quorum del 50% più uno dei cittadini bolognesi aventi diritto al voto non è stato raggiunto. Alcune società hanno già reso noto di essere interessate all'acquisto. A Roma, il referendum consultivo è stato promosso sia per l'Acea che per l'Acci. Le consultazioni sul destino delle due Aziende si sono tenute il 15 giugno, il giorno in cui i cittadini italiani sono stati chiamati alle urne su 11 referendum a livello nazionale. Il comitato promotore aveva, infatti, raccolto le 50 mila firme necessarie. In tutti e due i casi è stato raggiunto il quorum del 25% degli aventi diritto al voto (un quorum molto più basso rispetto a quello bolognese che
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riprende, invece, quanto previsto per i referendum abrogativi nazionali). I cittadini romani sia per l'Accl che per l'Acea hanno votato a favore del proseguimento delle operazioni di privatizzazione. La peculiarità romana è che, contro le decisioni adottate dalla maggioranza in Consiglio comunale si sono coalizzati Rifondazione comunista con Alleanza nazionale e Forza Italia. Anche sull'operazione Aem di Milano pesa l'incognita del referendum consultivo promosso da ambienti sindacali e da Prc. La possibilità di tenere il referendum, inizialmente esclusa dal Coreco, è stata riammessa dal Tar e il comitato promotore ha raccolto le 42 mila firme necessarie. Per essere valida la consultazione, dovrà andare alle urne almeno il 40% dei milanesi aventi diritto. La nuova maggioranza deve, dunque, decidere se andare avanti comunque con la privatizzazione o attendere l'esito del referendum.
EAuthority di vigilanza Il Comune di Roma si è dotato di uno strumento di tutela degli interessi dei cittadini, in un quadro di gestione dei servizi pubblici che, in prospettiva, non vedrà più il Comune stesso come erogatore e gestore diretto di tali servizi. Ha deliberato l'istituzione di una Autorità indipendente che, sulla scia di quelle già previste a livello nazionale,
garantisca la qualità delle prestazioni erogate, la loro fruizione da parte di tutti i cittadini, nonché la trasparenza e la congruità delle tariffe. L'Autorità è costituita da un presidente e due componenti che restano in carica per cinque anni e non possono essere rinnovati. Fra i suoi compiti sono l'emanazione di pareri sulle variazioni degli atti concessori e autorizzativi, delle convenzioni e dei contratti di programma; la vigilanza sullo svolgimento dei servizi; la valutazione di istanze e segnalazioni da parte di utenti e consumatori. È prevista una relazione semestrale al Consiglio comunale suilo stato dei servizi pubblici. L'Autorità romana è operativa da troppo poco tempo per permettere una valutazione della sua attività. Sicuramente, un'esame del suo funzionamento potrà essere utile per capire quanto un simile esperimento possa essere riproducibile in altre realtà. Bisogna tenere ben presente, a questo proposito, che Roma ha delle caratteristiche peculiari, prima fra tutte la sua dimensione. Ad esempio, a Bologna (fra le prime a lanciare l'idea dell'Authority locale) si sta facendo strada l'idea di un soggetto che abbia una dimensione almeno regionale. C'è poi un secondo aspetto sui quale sarà interessante fare una valutazione a consuntivo del primo periodo di attività delI'Authority e riguarda gli effettivi poteri di tale
soggetto. Infine, esiste il rischio di una sovrapposizione con le analoghe realtà che già operano o la cui istituzione, comunque, è prevista a livello nazionale. Da questo punto di vista però, in prospettiva, le Autorità locali potrebbero anche funzionare da terminali sul territorio degli organismi nazionali, per controllare l'erogazione, a livello locale, dei servizi pubblici gestiti unitariamente sul territorio nazionale da un unico soggetto. In ogni caso, da un punto di vista pit generale, sul proliferare delle Autorità di controllo e garanzia, si è acceso un vivo dibattito. Infatti, c'è chi lancia l'allarme contro un numero eccessivo di organismi para-amministrativi che rischiano, alla fine dei conti, di avere ben poca autorità. Inoltre, c'è il pericolo che le competenze delle differenti Autorità siano confliggenti fra loro o con quelle di altri organismi di controllo di natura amministrativa o giudiziaria. Si teme, insomma, che invece di snellire il rapporto Stato-cittadino un eccessivo proliferare di Authority finisca con l'appesantire l'apparato burocratico. IL RUOLO DEL CONSULENTE
Un breve ma necessario accenno conclusivo non può non essere fatto al ruolo centrale che le società di consulenza hanno assunto nelle privatizzazioni, sia nazionali che locali. 61
Le operazioni in corso hanno esaltato questo ruolo sotto un duplice aspetto: quello di "advisor" (ormai non si può prescindere da questa terminologia tecno-anglofona), cioè di "consiglieri" dell'Ente locale sul tipo di strada da seguire per valorizzare al meglio le aziende in vista della dismissione; e quella di «global coordinator", cioè di "organizzatore" dell'operazione di apertura ai privati. In questo campo, fanno la parte del leone le società estere che hanno già accumulato esperienza in altri Paesi, dove il processo di privatizzazione è partito con maggiore anticipo rispetto all'Italia. Ci sono, comunque, soggetti italiani che si stanno affacciando sul mercato, anche in collegamento con partner esteri. QUALI POSSIBILI SVILUPPI
Quello che si è cercato di tracciare in questo articolo, senza nessuna presunzione di completezza, è il quadro della situazione esistente, insieme alle principali cause che hanno determinato questo fenomeno nel settore dei servizi pubblici locali che va sotto il nome di privatizzazioni . Ora, prima di delineare qualche possibile linea di sviluppo, è bene (ed era indispensabile farlo a consuntivo, dopo aver cercato di dare un'idea di quanto sta avvenendo) cercare di chiarire cosa si intende con questo termine. È chiaro che, preso in senso letterale, 62
viene utilizzato in modo impreciso, in questo contesto. Tuttavia, visto che oramai si parla comunemente di "privatizza.zioni" per identificare il fenomeno in esame, è corretto introdurre una distinzione ulteriore tra privatizzazioni "formali" e privatizzazioni sostanziali . Con il primo termine si indica il passaggio dall'ente pubblico alla Spa, quindi il cambiamento della forma di gestione che rimane, tuttavia, completamente pubblica. Con il secondo termine si indica l'entrata dei privati nella società. A mio avviso, qui si deve fare una distinzione ulteriore fra il caso in cui c'è un ingresso dei privati ma il pubblico mantiene il controllo di maggioranza (e spesso la gestione) della società, e il caso in cui il pubblico cede la maggioranza, il controllo e la gestione ai privati, o ritirandosi interamente dalla proprietà o mantenendo una quota residuale. Sono individuabili, quindi, sempre a mio avviso, tre situazioni diverse all'interno del fenomeno che viene definito con il termine "privatizzazioni". A mio parere, si tratta di tre passaggi di uno stesso percorso di cui, in teoria, i primi due potrebbero essere saltati a favore del terzo ma che, per una serie di fattori endogeni ed esogeni rispetto alle Amministrazioni pubbliche, devono essere scaglionati nel tempo. In primo luogo, (con particolare riferimento ai casi esaminati) bisogna tenere presente che si tratta di opera-
zioni pionieristiche per realizzare le quali, gli Enti locali interessati hanno dovuto aprire un percorso nuovo attraverso una giungla legislativa e burocratica estremamente complessa e tutt'altro che definita (a cui si aggiunge il rischio di cadere nella trappola dell'abuso di ufficio). Inoltre, è necessario avere i tempi tecnici per predisporre una uscita del pubblico dalla gestione introducendo, in parallelo, gli strumenti di garanzia per i cittadini, relativamente all'erogazione dei servizi pubblici. C'è poi un ulteriore aspetto problematico che riguarda, più in generale, la scelta strategica su quale deve essere il ruolo del pubblico nell'economia; una scelta che incide sulla cultura amministrativa e politica degli Enti locali. Si tratta di decisioni innovative che non possono essere imposte ma devono essere capite e condivise e, quindi, hanno bisogno di una certa gradualità di applicazione. Inoltre, anche dal punto di vista economico, potrebbe esserci un vantaggio per gli Enti locali nel mantenere una partecipazione azionaria, anche di maggioranza, in una società che produce utili, dato che, alla voce "entrate" del bilancio, tende a diminuire sempre di più il peso dei trasferimenti statali e ad aumentare quello dell'autonomia finanziaria. Una vendita in blocco dà un ritorno economico immediato ma, nello
stesso tempo, fa cessare un flusso di risorse e può quindi creare un problema di pareggio di bilancio per gli anni successivi. Quindi, la scelta è molto delicata e deve essere coerente con il più ampio quadro della politica economica pubblica nei settore dei servizi locali. Se si parte dalla premessa che è indispensabile arrivare ad una liberalizzazione del mercato dei servizi pubblici locali che consenta l'ingresso e lo sviluppo di soggetti privati e una concorrenza su un piede di parità fra tutte le aziende, è difficile pensare che le Amministrazioni non debbano fare un passo indietro, soprattutto perchè rischiano di rivestire, contemporaneamente, il ruolo dell'arbitro e del giocatore. In prospettiva, quindi, il pubblico assumerà sempre più un ruolo di controllore, lasciando la gestione interamente ai privati. Nello stesso tempo, è impensabile che ciò accada senza un periodo transitorio, la cui durata è difficile da stimare. I DILEMMI DELLE SPA PUBBLICHE
La sfida, in questo periodo di passaggio, sta nel non soffocare, da un lato, le Spa ancora in mano pubblica (che costituiscono realtà importanti) ma senza consentire loro un vantaggio competitivo tale da rendere poi di fatto impossibile una apertura del mercato (ad esempio, dal punto di vista fiscale le Spa pubbliche partono favorite dall'esenzione prevista soio 63
per loro fino al '99). Il rischio, paventato soprattutto dai privati, è che il transitorio diventi definitivo e che le Spa pubbliche rimangano tali, lasciando incompiuto il processo di privatizzazione. E proprio su questo punto si è acceso il dibattito. La tentata opa dell'Amga sul De Ferrari Galliera, ad esempio, ha fatto parlare di operazione di "publicizzazione", perché un'azienda sotto controllo pubblico ha cercato di acquisirne una privata. Così come ha diviso i commentatori lo stop imposto dal Tar Liguria alla società Amga-Comune di Ventimiglia che estende il territorio in cui la Spa è operativa. A mio avviso, è compito del legislatore regolare il settore dei servizi pubblici locali per superare, senza traumi, questo delicato momento di transizione. A questo proposito, sono in corso delle iniziative, ma contradditorie tra loro. A livello costituzionale, c'è il testo proposto dalla commissione Bicamerale per le riforme istituzionali (che lascia molto spazio all'attività privata, considerando quella pubblica "residuale", sulla base del principio di sussidiarietà). A livello di legge ordinaria, c'è un disegno di legge in discussione in Parlamento (conosciuto dal nome del suo proponente come Ddl Napolitano) di riforma della legge 142 che riscri-
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ve gli articoli che regolamentano i servizi pubblici locali, definendo l'ambito di attività delle società pubbliche (consentendo loro di operare fuori dal territorio di origine). Su entrambe le proposte c'è un articolato dibattito in corso. Il primo passo sembra, comunque, il passaggio, a livello locale come a livello nazionale, da un mercato protetto a uno regolamentato e liberalizzato. Un' ultima notazione. Volutamente nel corso di questo articolo non ho voluto dare eccessivo rilievo al colore politico delle Amministrazioni che stanno portando avanti i processi di privatizzazione perchè, con l'eccezione di Rifondazione comunista che è senza tentennamenti schierata sempre contro le privatizzazioni e, in parte, Alleanza nazionale che è la componente del Polo più tradizionalmente statalista, tutte le forze politiche si dicono a favore del processo di privatizzazione (salvo poi essere contrarie su singole operazioni, come Forza Italia a Roma). Comunque, per una questione di precisione, mi sembra utile specificare che a Genova, Torino, Roma e Napoli hanno operato Giunte di centro-sinistra, a Milano ha lavorato una Giunta leghista ora sostituita da una di centro-destra.
Note bibliografiche Le principali norme di riferimento: - Legge n.142 dell'8 giugno 1990 - Legge n.498 del 23 dicembre 1992 - Legge n.474 del 30 luglio 1994 - Il Dpr del 4 ottobre 1986 - Legge n. 59 del 15 marzo 1997 - Legge n. 127 del 15 maggio 1997 - Il Ddl Napolitano di riforma della legge 142190
Fonti: oltre ai responsabili delle Amministrazioni dei Comuni cui si è fatto riferimento, i dati generali sul mondo delle Aziende locali sono stati forniti dalla Cispel, la Confederazione italiana servizi pubblici enti locali. Si è fatto riferimento anche alle notizie sulle privatizzazioni riportate da articoli di stampa.
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USA:
come si privatizza negli Stati di Keon S. Chi*
Nel corso degli ultimi anni, la privatizzazione è stata uno dei temi più discussi nel campo della gestione e dell'erogazione dei servizi delle amministrazioni statali americane. In generale e in base alle tendenze più recenti, in materia di gestione ed erogazione di servizi degli Stati, si possono individuare alcune alternative: a) migliorare la gestione senza alcuna privatizzazione; b) privatizzare i servizi professionali e di supporto; c) privatizzare l'area delle opere pubbliche e delle infrastrutture; d) privatizzare l'erogazione di servizi al pubblico realizzando la concorrenza tra enti pubblici e venditori privati nell'amministrazione e nell'erogazione di servizi sul territorio dello Stato. In alcuni Stati, è probabile che le autorità statali adottino varie tecniche di gestione interna per migliorare il rapporto tra costi ed efficacia, senza sperimentare, tra i vari strumenti disponibili, la privatizzazione. Tali tecniche possono comprendere la ri-
* Council of State Governments, Lexingrori (Kentucky).
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strutturazione o il ridimensionamento, la pianificazione strategica, sistemi di ottimizzazione della qualità ("total quality') e riforme del pubblico impiego. Questa linea verrà probabilmente sostenuta dai sindacati dei dipendenti statali e da coloro che ritengono che la privatizzazione sarebbe controproducente. La privatizzazione di determinati servizi amministrativi dello Stato, come i servizi di carattere generale, la riscossione delle imposte, e i servizi di stampa, di custodia e informatici, tuttavia, probabilmente registrerà una crescita in gran parte degli Stati. Questa linea può essere percepita come meno controversa dal punto di vista politico, e può fornire agli amministratori statali un certo grado di flessibilità nel conseguire migliori rapporti tra costi ed efficacia. Probabilmente, alcuni Stati continueranno a privatizzare progetti in materia di lavori pubblici e infrastrutture, che in precedenza erano stati gestiti esciusivamente da funzionari pubblici. Tali progetti potrebbero riguardare la costruzione e la manutenzione di strade e ponti. Anche la privatiz-
zazione della erogazione di qualche servizio dello Stato al pubblico continuerà probabilmente a espandersi, specialmente nei settori dei servizi per l'igiene mentale, dei servizi sociali e degli istituti penitenziari. Per gli amministratori statali che dovessero scegliere questa alternativa sarà opportuno consultare le associazioni dei cittadini, per garantire la stessa qualità dei servizi forniti dai privati. Nei prossimi anni, i governatori e i legislatori di alcuni Stati potrebbero cercare di introdurre più chiaramente il concetto di concorrenza tra enti pubblici e fornitori privati nella gestione e nella erogazione di servizi. Tuttavia, per mettere in pratica tale concetto con efficacia, le autorità dello Stato dovrebbero istituire un organo centrale dotato del potere di decidere in modo equo e imparziale, e, inoltre, introdurre metodi e procedure finalizzati all'attuazione delle iniziative di privatizzazione. Probabilmente, tra i principali problemi che le autorità e i gestori dello Stato incontreranno nell'ambito del processo decisionale sulle privatizzazioni ci saranno le analisi comparative dei costi, la concorrenza, la delega dei poteri, il licenziamento di dipendenti, e la vigilanza contro eventuali episodi di cattiva gestione da parte dei fornitori privati. Negli ultimi anni, quella della privatizzazione è stata una delle questioni più controverse nel settore della ge-
stione della pubblica amministrazione e dell'erogazione di servizi pubblici a tutti i livelli dell'amministrazione statale. Per essere imparziali rispetto sia alle forze favorevoli sia a quelle contrarie alla privatizzazione, è giusto ricordare che la questione della privatizzazione è stata prevalentemente (se non addirittura esclusivamente) discussa sulla base di assunti teorici o di esperienze compiute a livello federale o locale. Di conseguenza, i responsabili delle politiche statali si sono affidati ai pareri espressi da esperti di privatizzazioni che tendevano a basare le proprie conclusioni sulle esperienze condotte a livello federale o locale, e non su programmi di privatizzazione a livello statale. Certamente, le esperienze di privatizzazione di portata federale o locale sono importanti per le attività e i servizi statali, in particolare per i servizi di supporto realizzati con risorse interne, ma la maggior parte delle argomentazioni pro e contro la privatizzazione dell'amministrazione degli Stati non è suffragata da sufficienti prove empiriche. Inoltre, alcune politiche a volte vengono scelte in base a documenti pubblicati da sedicenti esperti di privatizzazioni. Alcuni studiosi del mondo delle scienze politiche e della pubblica amministrazione hanno addirittura tentato di soffocare" il dibattito sulla privatizzazione, sostenendo che organizzazioni come l'American Society for Public Administration non dovrebbero promuovere 67
la "moda della privatizzazioni". I responsabili delle politiche statali hanno bisogno di informazioni su come gli altri Stati stanno gestendo i progetti di privatizzazione, e non dovrebbero prestare eccessiva attenzione alle fazioni che si contrappongono in questo dibattito. Lo scopo di questo documento è di presentare alcuni dei risultati di una indagine nazionale sulle iniziative di privatizzazione condotta presso un campione di organismi statali, e di proporre una serie di opzioni alternative alla valutazione dei responsabili delle politiche statali. Queste opzioni sono basate in parte sui risultati di sessioni di brainstorming condotte con alcuni esperti del settore della privatizzazione dell'amministrazione statale dal Council of State Governments (CGs). Le cinque opzioni presentate in questo documento sono: 1) miglioramento della gestione senza privatizzazione; 2) privatizzazione dei servizi professionali e di supporto; 3) privatizzazione delle opere pubbliche e delle infrastrutture; 4) privatizzazione dell'erogazione al pubblico dei servizi; e 5) concorrenza tra il settore pubblico e quello privato. Per ciascuna opzione, viene presentato un breve elenco di implicazioni e raccomandazioni politiche da considerare nell'ambito del processo decisionale riguardante le privatizzazioni. Tuttavia, prima di discutere queste opzioni, sarà necessàrio evi68
denziare brevemente i risultati dell'indagine sulle tendenze in atto nei processi di privatizzazione delle amministrazioni degli Stati. IN CERCA DI RIDUZIONE DEI COSTI
Le amministrazioni degli Stati non hanno avviato iniziative di privatizzazione con la stessa sollecitudine riscontrata ad altri livelli amministrativi, «e questo prevalentemente a causa degli ostacoli legali o amministrativi che si contrappongono a tali progetti. Tuttavia, negli ultimi anni, il numero degli organismi statali impegnato in iniziative di privatizzazione ha registrato un rapido aumento. L'indagine del CGS ha chiaramente evidenziato come nei prossimi anni, i legislatori, i governatori e i manager statali dovranno probabilmente confrontarsi con decisioni impegnative circa la privatizzazione o meno di determinati servizi o programmi statali, a ritmi più sostenuti, per aumentare la produttività e migliorare il rapporto costi-efficacia dell'amministrazione. L'indagine, condotta in 50 Stati, non ha evidenziato grandi differenze geografiche nelle iniziative di privatizzazione, tuttavia, una serie di tendenze risultano interessanti. Per esempio, è interessante notare come gli Stati orientali siano risultati in testa rispetto alle altre regioni in termini di volume complessivo delle
attività e dei servizi privatizzati negli ultimi cinque anni. Quasi la metà degli organismi statali dell'area orientale ha dichiarato di aver privatizzato oltre il 10 per cento delle proprie attività istituzionali. Tuttavia, l'area meridionale ha ottenuto il primo posto per il tasso di aumento delle attività di privatizzazione. Per quanto riguarda le riduzioni dei costi legate alle privatizzazioni, l'area orientale ha mostrato la percentuale più elevata; il 27 per cento degli enti che hanno risposto all'indagine CGs ha dichiarato risparmi superiori al 10 per cento. Una percentuale compresa tra il 13 per cento e il 17 per cento degli organismi statali delle altre regioni ha dichiarato risparmi superiori al 10 per cento. Per quanto riguarda le principali ragioni dell'espansione delle iniziative di privatizzazione, le riduzioni dei costi sono state quelle più citate dagli organismi statali intervistati nell'area orientale, mentre la carenza di personale o di competenze specifiche all'interno degli organismi statali è risultata la ragione prevalente nelle altre aree. Comunque, tutte le aree hanno indicato la riduzione dei costi come la ragione più importante per i propri piani di espansione delle iniziative di privtizzazione nell'arco dei prossimi cinque anni. St-ando all'indagine CGs, l'appalto esterno è la forma più diffusa di privatizzazione delle attività statali, in-
fatti, è risultato che il 78 per cento degli organismi statali oggetto dell'indagine si avvale della modalità dell'appalto esterno. È opportuno ricordare, tuttavia che, anche se in piccole percentuali, il sistema dei buoni di pagamento e le concessioni governative sono risultati più diffusi tra le amministrazioni statali di quanto ritenuto in precedenza. MIGuoIaE SENZA PRIVATIZZARE
Le amministrazioni di organismi pubblici degli Stati che si avvalgono di questa opzione si pongono l'obiettivo di migliorare il rapporto costi-efficacia e la produnività mediante l'introduzione di valide tecniche di gestione interne. Tradizionalmente, i governatori e i legislatori hanno tentato di migliorare l'amministrazione e l'erogazione dei servizi affidandosi in maniera quasi esclusiva a tecniche di gestione in-house innovative; per molto tempo, la privatizzazione non è stata considerata come uno strumento per il miglioramento del rapporto costi-efficacia e della produttività a livello dei singoli organismi. È probabile che questa tendenza sia destinata ad affermarsi in alcuni Stati, in particolare nei casi in cui la privatizzazione non venga considerata come una strategia praticabile per il settore pubblico, magari per ragioni di principio o ideologiche. 69
Stando all'indagine CGS, in oltre una dozzina di Stati, organismi amministrativi di grande importanza non hanno privatizzato i propri servizi. Tra questi organismi troviamo enti amministrativi e servizi di carattere generale (Alaska, Arizona, Nebraska e Carolina del Nord), istituti di pena (Hawaii, Idaho, Montana, Mississippi e New Hampshire), istituti scolastici (Idaho, Illinois, Maine, Maryland, Carolina del Nord e Washington), enti di assistenza sanitaria (Wyoming), istituti di cura per malattie mentali (Kansas). Dei 285 organismi statali che hanno partecipato all'indagine, circa il 5 per cento ha dichiarato di ritenere improbabile l'impiego della privatizzazione come strumento gestionale nei prossimi anni, e questo perché gli organismi contattati non ritenevano che la privatizzazione avrebbe potuto garantire riduzioni dei costi oppure per la presenza di ostacoli di natura costituzionale e legale che limitano la gamma delle attività privatizzabili. Un altro fattore è rappresentato dal fatto che i sindacati dei dipendenti tendono a preferire misure di miglioramento gestionale interne rispetto alle privatizzazioni. Numerosi organismi statali hanno dichiarato una riduzione delle proprie iniziative di privatizzazione nell'arco degli ultimi anni. Alcuni esempi: il ministero dei Trasporti dell'Alaska, a seguito dell'opposizione 70
dei sindacati; il General Services Department del New Mexico, a causa del mancato riscontro di riduzioni dei costi, del deterioramento della qualità dei servizi e dell'interruzione nell'erogazione dei servizi stessi; e il ministero della Pubblica Sicurezza e degli Istituti Penitenziari della Pennsylvania, a causa della "filosofia seguita dal governatore Tra gli altri organismi statali che hanno partecipato all'indagine, come nel caso del ministero dei Trasporti della California, il ministero della Pubblica Sicurezza e degli Istituti Penitenziari della Louisiana, il ministero dell'Istruzione Elementare e Secondaria del Missouri, il ministero dell'Igiene Mentale della Carolina del sud, e il ministero dell'Assistenza Pubblica della Pennsylvania, prevedono una riduzione delle loro iniziative di privatizzazione future. Tra le ragioni per la riduzione delle privatizzazioni ci sono l'opposizione da parte dei sindacati dei dipendenti (California), l'assenza di risparmi sui costi (Louisiana e Pennsylvania), e la perdita del controllo sull'erogazione del servizio (Missouri).
L'opposizione alla privatizzazione In numerosi Stati, la più forte e persistente opposizione alla privatizzazione è venuta (e continua a venire) dalle organizzazioni o dai sindacati dei dipendenti statali, spesso guidati dall'Ufficio Dipendenti Pubblici
(Public Employees Department) dell'AFL-CIO (American Federation of Labor-Congress of Industrial Organisations) o dalla Federazione Americana dei Dipendenti Statali, Regionali e Municipali (AFscME). Durante gli anni Ottanta, per esempio, l'AFL-CIo è stato fra i primi nelle campagne anti-privatizzazione sostenendo: "La privatizzazione e il ricorso all'appalto esterno devono essere fermati, lo smantellamento delle nostre amministrazioni non può essere tollerato". Nel marzo del 1992, il sindacato pubblicò un rapporto, La Rivitalizzazione dei Servizi Pubblici, nel quale si sosteneva che "i lavoratori del settore pubblico e i loro sindacati vogliono migliorare i servizi, pubblici, vogliono avere più voce in capitolo sul posto di lavoro e nella gestione dei programmi pubblici". Nella sua pubblicazione informativa ad ampia diffusione, intitolata: 'Allora, cosa non funziona con l'appalto esterno?" l'AFSCME enuncia 10 ragioni specifiche per le quali si oppone alla privatizzazione: "L'appalto esterno non comporta risparmi di denaro; con l'appalto esterno la qualità dei servizi si deteriora; l'appalto esterno ha un effetto negativo sull'economia delle collettività, e sulle opportunità occupazionali dei gruppi storicamente svantaggiati; l'appalto esterno porta alla corruzione; l'appalto esterno non garantisce la concor renza, che è l'elemento che secondo i
suoi sostenitori dovrebbe spingere verso il basso i costi; l'appalto esterno è il nuovo sistema di clientelismo politico; la teoria sostiene che la concorrenza di mercato porterà una maggiore efficienza, ma l'esperienza mostra che questo non accade; i problemi dei servizi pubblici sono spesso causati dal modo in cui i responsabili della gestione utilizzano le risorse a loro disposizione; i manager e i funzionari delle amministrazioni in tutto il Paese hanno conosciuto a proprie spese le carenze dello strumento dell'appalto esterno, che hanno corretto ripristinando all'interno delle amministrazioni i servizi precedentemente appaltati all'esterno". Nel tentativo di aumentare il rapporto costi-efficacia e la produttività, i responsabili delle politiche statali continuano a varare una vasta gamma di progetti a livello statale o a livello dei singoli organismi pubblici, tra i quali le commissioni per l'efficienza, la pianificazione strategica, l'ottimizzazione della qualità e le riforme del pubblico impiego.
Commissioni per l'efficienza Negli ultimi tre o quattro anni, oltre due dozzine di Stati hanno istituito proprie task force o commissioni ad hoc per controllare i costi e incrementare l'efficienza. I nomi delle commissioni sono tanti: ristrutturazione, riorganizzazione ridimensionamento, gestione, aumento della 71
produttività, controllo dei costi, qualità, efficacia, efficienza, economia, spesa, governo del popoio etc. Ma il loro scopo è sempre lo stesso: "Fare meglio con meno risorse . Le commissioni e le task force hanno per la maggior parte rappresentato dei processi sollecitati da esigenze di bilancio e di riduzione dei costi finalizzati a razionalizzare la struttura e le funzioni degli organismi statali. Di norma, queste commissioni sono bipolari, si tratta di organi misti finanziati congiuntamente dal governo e dal settore privato, oppure solo da contributi privati, guidate dai direttori generali delle imprese più importanti e che conducono studi di durata compresa tra sei e dodici mesi (spesso con la collaborazione di consulenti professionali esterni) finalizzati alla redazione di relazioni provvisorie e conclusive abbinate a lunghi elenchi di indicazioni sulle politiche da seguire. Tra i benefici offerti da queste commissioni vi sono l'aumento delle entrate, la riduzione e l'elusione dei costi e l'aumento della produttività, della trasparenza e della qualità dei servizi. Così come nel passato, la stragrande maggioranza delle commissioni ha consigliato migliorie amministrative nei servizi erogatisenza proporre lo strumento della privatizzazione.
Pianfìcazione strategica Per migliorare la gestione e l'erogazione dei servizi, alcuni Stati si av72
valgono di una dettagliata pianificazione strategica, a livello dell'intero Stato, promossa dal governatore o dall'assemblea legislativa. Nel 1990, l'assemblea legislativa dell'Utah istituì la Commissione di Pianificazione Strategica Utah Domani, responsabile dell'individuazione degli obiettivi futuri dello Stato. Nel 1991, l'Oregon rifiutò il suo approccio "miope" alle "soluzioni di lungo periodo" e definì dei parametri comparativi per misurare i progressi fatti dallo Stato. Il Minnesota ha identificato gli obiettivi e le procedure necessarie per raggiungerli nell'ambito del progetto "Minnesota Milestones", con la partecipazione del settore pubblico. Nel 1993, il Texas ha completato un piano strategico sessennale finalizzato a stabilire le direttive, ad aumentare la rispondenza ai bisogni della collettività, a garantire la continuità nella predisposizione dei bilanci e a migliorare l'allocazione delle risorse pubbliche. Sempre nel 1993, il Centro di Ricerca sulle Politiche di Lungo Termine del Kentucky, il primo nel suo genere in tutto il Paese, è divenuto operativo e ha iniziato a identificare le tendenze che interessano lo Stato e a mettere a punto politiche di lungo termine per gli organi legislativi ed esecutivi. Negli ultimi cinque anni, il piano Iowa Futures Agenda ha fornito le direttive per le iniziative di "adeguamento strutturale" (rightsizing)
dell'apparato statale, rompendo le barriere tra i ministeri, semplificando i processi decisionali e migliorando l'allocazione delle risorse e le procedure di redazione dei bilanci. Negli ultimi anni, il numero di organismi statali che adotta la pianificazione strategica è aumentato rapidamente. Nel 1992, per esempio, il 66 per cento degli organismi statali ha dichiarato di aver utilizzato la pianificazione strategica al proprio interno per impostare gli obiettivi e gestire le questioni strategiche, stando a un sondaggio nazionale sugli enti statali condotto dalla Scuola di Pubblica Amministrazione e Pianificazione della Florida State University e il Consiglio delle Amministrazioni Statali. L'individuazione delle direttive gestionali e delle priorità di intervento furono citati come i due risultati piui importanti delle attività di pianificazione strategica.
Ottimizzazione della qualità Negli ultimi anni, le tecniche di ottimizzazione della qualità a livello di Stato o di singolo ente sono state adottate da numerosi Stati. Attualmente, numerose iniziative di ottimizzazione della qualità vengono adottate in Arkansas, Colorado, Maryland, Minnesota, Missouri, New York, Pennsylvania, Utah e Wisconsin. Un modello ritenuto interessante da molti Stati è quello dell'ottenimento della "qualità attra-
verso la partecipazione", adottato dallo Stato di New York. Tra gli elementi di questo modello troviamo: l'individuazione di obiettivi e standard di qualità su misura dell'utenza, l'aumento della responsabilizzazione dei dipendenti, la ristrutturazione dei processi di lavoro, delle mansioni e dei sistemi amministrativi, e la raccolta e l'analisi dei dati per il monitoraggio dei miglioramenti, della soddisfazione dell'utenza e dei sistemi di supporto.
R/òrma del pubblico impiego Come nel passato, le autorità e i manager statali continuano ad applicare il metodo del ridimensionamento (downsizing) al miglioramento dei servizi pubblici. I manager statali sono esposti a pressioni dirette alla riduzione del numero dei posti di lavoro previsti o alla riduzione del numero dei dipendenti. Stando a un'indagine condotta nel 1993 dall'Associazione Nazionale dei Dirigenti del Personale Statale, oltre 35 Stati stanno attualmente ristrutturando i propri sistemi del pubblico impiego, ma la maggior parte di questi sta progettando interventi graduali piuttosto che riforme radicali. Nella maggior parte dei casi, queste iniziative sono state avviate da governatori o dai responsabili del personale, ma non dalle assemblee legislative. 73
Implicazioni e raccomandazioni Al momento di considerare l'opzione del miglioramento del rapporto costi-efficacia e della produttività mediante valide tecniche di gestione inhouse, i responsabili delle politiche degli Stati dovranno prestare particolare attenzione ad alcune questioni. In primo luogo, come affermano le organizzazioni e i sindacati dei dipendenti statali, in alcuni Stati, la collaborazione tra direzione e dipendenti sta facendo grandi passi in direzione del miglioramento delle condizioni di lavoro. In tali Stati, i leader politici e i manager statali potranno cercare le alternative alla privatizzazione. In caso di insoddisfazione riguardo a un servizio pubblico, i responsabili delle politiche non dovranno automaticamente concludere che la privatizzazione rappresenti la soluzione ai loro problemi. In secondo luogo, sarà necessario esaminare le più innovative tecniche di gestione e di aumento della produttività. Nel 1993, per esempio, la Commissione Nazionale sui Servizi Pubblici Statali e Locali (Commissione Winter) pubblicò il suo primo rapporto, La Rforma dell'Amministrazione, contenente un elenco di raccomandazioni specifiche per la rimozione di numerose barriere al miglioramento dei servizi pubblici. In aggiunta alla rimozione delle barriere organizzative, i responsabili delle politiche statali potrebbero valutare l'e-
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ventualità di adottare miglioramenti molto più innovativi, creativi e coraggiosi nell'ambito dell'erogazione dei servizi e, nell'ambito di questa soluzione, dovrebbero creare incentivi per i dipendenti statali, in cambio della loro partecipazione. In terzo luogo, è però necessario tenere a mente che la storia della pubblica amministrazione contiene una vasta gamma di iniziative di questo genere, molte delle quali hanno avuto vita breve. La possibilità di ottenere successi duraturi nel campo dei miglioramenti nella gestione statale e nell'erogazione dei servizi senza un simultaneo avvio di approcci nuovi e alternativi è ridotta. Molti amministratori pubblici sostengono che il monopolio dello Stato rappresenta un problema centrale. Di conseguenza, eventuali iniziative per migliorare la gestione senza introdurre i meccahismi concorrenziali potrebbero ricondurre inevitabilmente alle abituali situazioni di monopolio, e il risultato sarebbe il mantenimento dello status quo. PRIVATIZZARE I SERVIZI PROFESSIONALI E DI SUPPORTO
Questa opzione consente agli organismi statali di privatizzare esclusivamente i servizi professionali, amministrativi e di supporto non appartenenti alla categoria dei servizi erogati direttamente all'utenza.
Attualmente, numerosi organismi statali si avvalgono di aziende private per una vasta gamma di servizi professionali, amministrativi o di supporto per questioni legate ai costi o a causa di carenze di personale o di qualifiche specifiche. La tendenza sembra diretta verso una ulteriore espansione di queste attività di privatizzazione nei prossimi anni. Stando al sondaggio CGS, per esempio, la maggior parte (54 per cento) degli organi statali responsabili dei servizi amministrativi e generali ha dichiarato un aumento delle iniziative di privatizzazione durante gli ultimi anni. Malgrado la maggior parte di tali organismi abbia privatizzato meno del 5 per cento dei propri servizi amministrativi e di supporto, il dato superava il 15 per cento in molti tra gli Stati oggetto dell'indagine (Arizona, Georgia, Idaho, Maryland, Montana, Nebraska, New Mexico e Oregon). Anche molti altri enti con funzioni esecutive si avvalgono di strutture private per la fornitura di servizi amministrativi e di supporto. Le amministrazioni statali hanno fatto ampio ricorso ai servizi professionali forniti dai privati, come i servizi di architettura e di ingegneria e i servizi legali. Di recente, tuttavia, il numero di organismi statali che si avvale di aziende private per altri servizi di supporto che in precedenza venivano forniti esclusivamente
da dipendenti statali è rapidamente aumentato. Per esempio, tra i 28 organismi interpellati nel settore dei servizi amministrativi e generali, è risultato che 23 hanno privatizzato i servizi di custodia; 17 i servizi di stampa; 15 quelli di manutenzione dei fabbricati; 15 quelli di sicurezza, mentre 10 Stati hanno privatizzato servizi di telecomunicazione. Inoltre, il ricorso all'appalto esterno per i servizi relativi ai dipendenti, come la gestione delle indennità aggiuntive, visite mediche, servizi assicurativi e l'amministrazione delle retribuzioni, ha registrato un forte aumento, come anche le iniziative nel settore informatico, tra le quali la progettazione dei sistemi, la manutenzione e l'elaborazione dati. Oltre il 40 per cento degli organismi interpellati ha dichiarato di aver ridotto i costi amministrativi della propria struttura in misura compresa tra il 5 e il 10 per cento negli ultimi cinque anni; il 38 per cento ha dichiarato risparmi inferiori al 5 per cento. Sei organismi responsabili dei servizi amministrativi e generali hanno dichiarato risparmi compresi tra l'il e il 30 per cento: Arkansas, Iowa, Maryland, Missouri, Montana e New Mexico. La forma più diffusa di privatizzazione nel settore dell'amministrazione e dei servizi di carattere generale è rappresentata dall'appalto esterno. In alcuni comparti si utilizza il siste75
ma dei buoni, come nel caso dei sistemi informatici (Arkansas), dei servizi postali e di recapito (South Dakota), dei servizi di stampa (Hawaii, Wisconsin) e sicurezza (Hawaii), e dei servizi assicurativi per dipendenti statali (Oregon). Nello Stato di Hawaii, le sovvenzioni statali vengono utilizzate per le iniziative culturali e artistiche e nel Tennessee per la rimozione della neve.
Servizi generali In alcuni Stati, l'ammontare, sia in valore che in volume, dei servizi generali privatizzati è notevole. Per esempio, durante l'esercizio 1992, circa 39 milioni di dollari (pari al 60 per cento) del budget operativo del Department of General Services del Maryland (DGs) è andato al settore privato, prevalentemente attraverso il ricorso all'appalto esterno. I servizi statali appaltati all'esterno andavano dalla costruzione alla manutenzione degli edifici. Gli operatori privati del settore delle telecomunicazioni hanno stipulato 25 contratti per la fornitura di servizi, sul territorio dellà Stato, al DGs, e il valore dei contratti in vigore durante l'esercizio 1992 è risultato pari a oltre 32 milioni di dollari. Nel Wisconsin, oltie il 90 per cento del valore complessivo dèi servizi appaltati all'esterno (182 milioni di dollari) durante l'esercizio 1988-89 è andato ai servizi professionali e di supporto tra i quali i ser-
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vizi pubblicitari e di elaborazione dati e i servizi finanziari per i quali lo Stato non era in grado di garantire livelli adeguati e costanti di competenze avvalendosi del solo personale interno.
Jvliglioramento della riscossione dei tributi Per aumentare il gettito fiscale, in molti Stati alcune funzioni di revisione contabile sono state privatizzate, e in alcuni casi queste iniziative hanno avuto successo. Tra gli Stati dotati di programmi di riscossione privatizzati troviamo Florida, Hawaii, Kentucky, Nuovo Messico, New York e Carolina del Nord... L'esperimento della Florida è significativo. Con l'obiettivo di recuperare oltre i miliardo di dollari di imposte dovute allo Stato e non riscosse, l'assemblea legislativa della Florida, nel 1989, ha autorizzato il ministero delle Finanze ad appaltare l'attività, nelPambito di un progetto pilota, a imprese private iscritte all'albo dei revisori ufficiali dei conti. Iniziaimeflte, l'iniziativa consentì il recupero di 250.000 dollari. Furono condottcquattro operazioni di revisio.ne distinte, al costo di tariffa di 2.000 dollari ciascuha, e ueste operazioni 'risultarono inaccertamenti di imposte evase per un tòtale di 592.000 dòliari, 387.0'00 dei quali furono riscossi.
Alienazione dei beni
Servizi di custodia
Per aumentare gli introiti statali e per allargare la base imponibile, alcuni Stati hanno di recente venduto le rivendite statali di alcolici. Tra questi troviamo: Iowa (1987), Maine (1992-93), Michigan (1989) e West Virginia (1992). Altri Stati, tra i quali New Hampshire, Montana, Ohio, Oregon, Pennsylvania e Virginia, hanno valutato l'ipotesi di vendere le rivendite statali di alcolici. Alcuni Stati hanno venduto le rispettive proprietà in eccesso, o hanno proposto la vendita di beni statali. Il Tennessee ha venduto terreni non edificati di proprietà statale. Nel giugno del 1992, il Consiglio di Consulenza sulla Produttività dello Stato di New York ha consigliato alle amministraziohi di concentrare le proprie attività di privatizzazione sulle potenziali alienazioni di aree operative caratterizzate da domande di servizi crescenti. Il Consiglio ha affermato: "Queste vendite di beni non solo possono generare introiti una tantum significativi, ma potrebbero anche garantire Iisparmi ricorrenti sui costi di esercizio e manutenzione". Nel giugno del 1992, la Commissione Little Hoover in California, consigliò che il Department of General Services venisse autorizzato a disfarsi dei terreni statali in eccesso, e a sottoscrivere contratti di leasing, vendita e affitto a lungo termine.
Per i servizi di custodia o la gestione degli immobili, quasi la metà degli Stati si affida, almeno parzialmente, a imprese private. Nel 1989, il Montana decise di avvalersi di fornitori privati per la fornitura di servizi di pulizia per circa 40.000 metri quadri di uffici, compreso il Palazzo del Congresso, che in precedenza venivano puliti da dipendenti statali. Il cambiamento fu sollecitato da un confronto tra i costi di spazi di proprietà statale la cui pulizia era affidata a ditte private (60 centesimi per unità di superficie) e gli spazi puliti da dipendenti statali (91 centesimi). Nel Maryland, il 78 per cento delle necessità del Department of Generai Services nel settore dei servizi di pulizia è soddisfatto da ditte private al costo medio di 62 centesimi. La superficie rimanente viene pulita da dipendenti statali. Stando al DGS, il costo effettivo dei dipendenti statali per l'esecuzione degli stessi compiti è pari a 78 centesimi.
Stampa Circa un terzo degli Stati ha condotto esperimenti di privatizzazione delle proprie attività di stampa, ma in seguito alcuni di essi hanno disdetto i propii appalti alle ditte private. Stando a un recente studio cdndotto dal Minnesota Department of Administration e da una società di consulenza di Minneapolis, la maggior rIA
parte degli Stati ha aumentato il ricorso a società di stampa esterne per i lavori di dimensioni pil'1 grandi. Ma l'indagine ha anche mostrato come "particolari combinazioni" tra servizi di stampa interni e servizi appaltati all'esterno garantissero un migliore rapporto tra costi ed efficacia. Negli Stati di New York e del Wisconsin, dove la maggior parte dei servizi di stampa è privatizzata, gli stabilimenti di stampa statali sono finanziati dalle tariffe pagate dagli utenti. Negli anni passati, lo Stato dell'Utah aveva privatizzato tutte le attività di stampa, ad eccezione della fotocopiatura; attualmente, tuttavia, lo Stato sta ripristinando parte dei suoi servizi di stampa interni.
Servizi informatici Malgrado numerosi Stati abbiano preso in considerazione la possibilità di privatizzare l'intero settore dei servizi informatici dello Stato, nessuno di essi ha preso la decisione di appaltare questi servizi all'esterno. Tra gli Stati che hanno esaminato la possibilità di appaltare all'esterno tutti i servizi informatici statali troviamo Maine, Maryland, Minnesota, New Jersey e Washington. Tuttavia, questi Stati hanno respinto l'ipotesi di privatizzare questi servizi, in parte perché non convinti che l'appalto esterno avrebbe potuto garantire effettivi risparmi e in parte a causa degli ostacoli normativi in78
contrati. Negli ultimi anni, tuttavia, la maggior parte degli Stati ha privatizzato alcuni dei propri servizi informatici: le percentuali del ricorso all'appalto esterno vanno dallo 0,1 per cento dell'Ohio, al 5 per cento dell'Alaska, al 15 per cento del Maine e al 22 per cento della Georgia.
Implicazioni e raccomandazioni Le strutture statali che scelgono di privatizzare solo i servizi professionali, amministrativi e di supporto dovrebbero valutare alcuni aspetti. In primo luogo, la privatizzazione nel settore amministrativo e dei servizi generali è di norma meno controversa dal punto di vista politico e relativamente poco preoccupante per i dipendenti statali. La maggior parte degli Stati si avvale da tempo di ditte private per la fornitura di servizi di supporto. Questa opzione garantisce ai responsabili della gestione una certa flessibilità nell'ottenimento di buoni rapporti costi-efficacia, rapidità nella realizzazione dei prodotti e migliore garanzia di qualità. Tuttavia, le riduzioni dei costi potranno essere ottenute solo se le iniziative di privatizzazione saranno pianificate e gestite con grande attenzione. In secondo luogo, nell'ambito del processo decisionale riguardante le iniziative di privatizzazione, sarà necessario consultarsi con le organizzazioni e i sindacati dei dipendenti sta-
tali, e consentire loro di competere con i fornitori privati in tutte le occasioni in cui è necessario appaltare all'esterno servizi di sostegno. I manager statali dovrebbero concentrarsi sulle nuove realtà di mercato e inserire l'elemento della concorrenzialità, senza parlare di "gestione della pubblica amministrazione con criteri aziendali". La questione fondamentale nell'ambito del processo decisionale riguardante le iniziative di privatizzazione non dovrebbe essere vista come una "contrapposizione tra azienda e Stato". I manager statali dovrebbero parlare delle politiche, dare consigli per la loro realizzazione e tentare di raccogliere consenso attorno al processo di privatizzazione. In terzo luogo, si consiglia di offrire incentivi ai dipendenti statali per spingerli a considerare la privatizzazione come un'alternativa realizzabile. Tra tali incentivi potrebbero esserci la concessione ai dipendenti della titolarità di attività commerciali, accordi contrattuali per il distaccamento di lavoratori statali per attività lavorative private, incentivi in denaro per i dipendenti statali per il loro impegno ai fini della privatizzazione, la concessione ai dipendenti di una quota dei risparmi generati dalle attività di privatizzazione, la concessione data ai singoli enti di trattenere una percentuale dei propri risparmi in un fondo di dotazione destinato a finanziare ui-
tenori aumenti di efficienza dell'amministrazione. Tuttavia, è necessario essere cauti per prevenire eventuali comportamenti non corretti da parte dei dipendenti statali, come la percezione contemporanea di due retribuzioni statali. Un quarto aspetto è quello dell'attenta selezione dei candidati alla privatizzazione. Tra tali candidati potremmo trovare organismi aventi fini di lucro come le strutture per il gioco di azzardo gestite dallo Stato, le lotterie, le autorità aeroportuali, i programmi per le borse di studio e i trasporti pubblici. Anche alcuni istituti di credito edilizio potrebbero essere considerati come potenziali candidati alla privatizzazione. Inoltre, i manager potrebbero decidere di avvalersi in misura maggiore di avvocati civilisti e di revisori contabili privati per progetti speciali, e di strutture di esazione private per aumentare la riscossione delle imposte, piuttosto che avvalersi esclusivamente di dipendenti statali. Il quinto criterio da tenere presente è quello della gradualità nella privatizzazione di questi servizi amministrativi e di supporto. I manager statali dovrebbero prima iniziare su scala ridotta, per poi proseguire sull'onda dei primi successi. Il governatore e i legislatori, verosimilmente, dovrebbero concentrarsi sullo Stato e sulle sue necessità, nella scelta dei servizi idonei all'appalto esterno. È, comun79
que, opportuno che una commissione nominata ad hoc valuti la questione nel dettaglio. La commissione, che dovrebbe comprendere rappresentanti del settore privato e delle diverse funzioni, dovrà valutare anche le altre forme di privatizzazione possibili. Altrettanto importante è definire e adottare adeguati meccanismi di garanzia della trasparenza. PRIVATIZZARE OPERE PUBBLICHE E INFRASTRUTFURE
In base a questa opzione, gli organismi statali privatizzano una selezione di progetti riguardanti opere pubbliche e infrastrutture. Negli ultimi anni, i dibattiti sulla privatizzazione di opere e infrastrutture pubbliche sono stati prevalentemente incentrati sulla progettazione e manutenzione di strade e ponti. Attualmente, la maggior parte degli enti di trasporto statali si avvale di imprese private. Per i prossimi anni si possono prevedere tendenze analoghe. Trentuno dei 38 enti di trasporto statali che hanno risposto all'indagine CGs hanno dichiarato di aver aumentato le proprie iniziative di privatizzazione nel settore dei trasporti durante gli ultimi cinque anni. E 26 enti di trasporto statali interpellati (in rappresentanza di 23 ministeri dei trasporti) hanno dichiarato di aver privatizzato oltre il 15 per cento dei propri servizi. 80
I dirigenti di questi organismi hanno elencato varie ragioni per la privatizzazione, e tra queste le carenze di personale e di competenze specifiche (42 per cento), i risparmi sui costi (19 per cento) e la rapida attuazione (18 per cento). In termini di volume, rispetto al volume totale dei comparti privatizzati, il settore dei trasporti si colloca al secondo o terzo posto, seguendo nella gran parte degli Stati i servizi di igiene mentale e i servizi sociali. Il settanta per cento degli enti di trasporto statali interpellati prevede ulteriori privatizzazioni nell'arco dei prossimi cinque anni. In aggiunta alle privatizzazioni delle autostrade, delle strade e dei ponti, i rappresentanti degli organismi interpellati hanno evidenziato un aumento del ricorso all'appalto esterno per altri servizi specifici come lo smaltimento dei rifiuti pericolosi (26 Stati), i trasporti pubblici (17), gli aeroporti (13), la sicurezza (12) e la gestione dei ponti mobili. La maggior parte delle attività di privatizzazione viene condotta mediante l'appalto esterno, malgrado siano state adottate anche le sovvenzioni, il volontariato e iniziative congiunte a partecipazione pubblica e privata. Il sistema dei buoni è stato utilizzato per i servizi di manutenzione delle strade della Carolina del Sud e per i trasporti pubblici dello Stato di Washington. Un caso di dismissione
si è verificato per una compagnia aerea statale dell'Iowa, che è stata venduta a una società privata. Malgrado il 65 per cento degli enti di trasporto interpellati abbia indicato risparmi, dovuti alla privatizzazione, inferiori al 5 per cento, Connecticut, Maryland, Oklahoma e Washington hanno dichiarato percentuali di risparmio comprese tra l'li e il 20 per cento; Arizona, Kentucky e Massachussetts dichiarano invece riduzioni dei costi comprese tra il 21 e il 30 per cento. Alcuni Stati hanno appena iniziato degli studi per la privatizzazione delle infrastrutture, mentre altri già dispongono di risultati misurabili. Nel 1993, per esempio, l'Ufficio di Pianificazione e Ricerca del Governatore della California ha preparato un elenco di possibilità di privatizzazione e ha sviluppato criteri per la valutazione delle singole iniziative. L'elenco comprende parchi, strade, ponti, istituti di pena, terrenied edifici in eccesso, centri congressi e strutture ricreative statali. Il ministero dei Trasporti del Maryland, una struttura multi-modale responsabile di strade, trasporti pubblici, porti, aeroporti, ferrovie, immatricolazione veicoli e patenti di guida, ha privatizzato oltre il 51 per cento dei propri servizi, compresa la gestione delle strade (55 per cento) e la gestione dei trasporti pubblici (86 per cento).
Manutenzione stradale Attualmente, oltre 20 Stati si avvalgono di società private per vari progetti di manutenzione stradale. Nel maggio del 1993, il ministero dei Trasporti del Massachussetts ha completato un progetto di privatizzazione che comprende tutti i servizi di manutenzione stradale in nove contee orientali e 192 tra città e centri minori dal confine con il New Hampshire a Capo Cod e alle Isole. Ciò significa il 57 per cento di tutte le autostrade dello Stato; l'iniziativa viene considerata come il più grande progetto di privatizzazione della manutenzione stradale in tutto il Paese.
Strade a pedaggio In passato, le strade a pedaggio erano spesso private. L'idea di strade a pedaggio finanziate, costruite e gestite da privati sta tornando a raccogliere interesse. Fino ad oggi, tuttavia, i progressi fatti sono stati estremamente lenti. Nel 1990, nell'ambito della Legge della Virginia sulle Società Stradali, del 1988, la Società Strade a Pedaggio della Virginia (TRcv) ha ricevuto una concessione per 40 anni per un prolungamento di 14 miglia, del costo di 25 milioni di dollari, della Strada a Pedaggio dell'Aeroporto di Dulles. La lunghezza della concessione è stata basata su previsioni che indicano che il recupero dell'investimento iniziale 81
sarà completato nell'arco di 30 anni, questo consentirebbe quindi alla TRCV di trattenere i profitti nell'arco degli ultimi 10 anni. La costruzione deve ancora essere avviata. Nei 1989, la California approvò la legge 680, che autorizza il finanziamento, la costruzione e la gestione di quattro strade a pedaggio. Attualmente, questi progetti hanno raggiunto diverse fasi di attuazione. Malgrado molte iniziative legali riguardanti aspetti tecnici ne abbiano rallentato la realizzazione, io Stato, nel 1993, sottoscrisse un contratto con un'impresa privata per finanziare, costruire e gestire la Strada Statale 91. Un altro progetto, quello della Strada a Pedaggio Midstate, subì una battuta di arresto quando due enti pubblici votarono contro. Nei 1991, l'Arizona varò una legge per le privatizzazioni ispirata a leggi degli Stati della California e della Virginia. Nel giugno del 1992, l'Ufficio per la Privatizzazione e i Finanziamenti Alternativi del ministero dei Trasporti dell'Arizona selezionò tre su 10 progetti proposti per la realizzazione delle prime strade a pedaggio dello Stato. In seguito, il governatore annullò due dei tre progetti. Nel 1993, il disegno di legge parlamentare 1006 fu approvato all'unanimità da entrambe le Camere dello Stato di Washington. La legge autorizzava fino a sei progetti dimostrativi caratterizzati da concessioni 82
a termine della durata massima di 50 anni. I finanziamenti possono essere interamente privati, oppure possono essere utilizzati fondi federali nell'ambito di iniziative congiunte a partecipazione pubblica e privata. Sempre nel 1993, numerosi Stati, tra i quali il Minnesota, la Georgia e il New Jersey, hanno preso in considerazione leggi simili a quella dello Stato di Washington. Tra gli altri Stati dotati dileggi sulla privatizzazione delle strade a pedaggio troviamo la Florida e il Texas. Implicazioni e raccomandazioni Nell'esaminare la possibilità di privatizzare alcuni progetti riguardanti opere pubbliche e infrastrutture si devono tenere a mente i seguenti aspetti. In primo luogo, gli scarsi progressi fatti nel settore della privatizzazione delle strade a pedaggio potrebbero essere dovuti a numerose ragioni, e due di queste ragioni sono rappresentate dalla carenza di finanziamenti privati e dalla perdurante recessione degli ultimi anni. Un'altra ragione è rappresentata dalle leggi di riforma fiscale del 1986, che sospesero il credito di imposta sugli investimenti e ripristinarono piani di ammortamento pii lunghi per la maggior parte delle infrastrutture. I ridotti incentivi fiscali hanno diminuito in maniera significativa l'inte-
resse dei privati nell'acquisire la proprietà di strutture pubbliche. In secondo luogo, leggi federali coerenti potrebbero incoraggiare ulteriori attività di privatizzazione delle infrastrutture a livello statale. Nell'ambito della Legge per l'Efficienza dei Trasporti di Superficie Intermodali del 1991, per esempio, la privatizzazione può essere applicata alla costruzione di nuove autostrade, ponti e tunnel, ma può anche essere utilizzata per ricostruire o potenziare strade, ponti e tunnel già esistenti. In terzo luogo, è necessario prendere in esame altri candidati per la privatizzazione delle infrastrutture, tra i quali le società elettriche, le società del gas, porti, parcheggi, strade a pedaggio, impianti per il trattamento delle acque di scarico, impianti di produzione di energia da rifiuti e dormitori universitari. Un quarto criterio consiste nel rilasciare concessioni per la privatizzazione delle infrastrutture. Le concessioni possono essere rilasciate per tutti i lavori di costruzione e di gestione di strade, tunnel, ponti, aeroporti, strutture per il recupero delle risorse e altro ancora, finanziati da privati. Considerato che molti di questi progetti possono rivelarsi redditizi, il settore privato potrebbe trovare attraente il sistema dell'acquisto o delle concessioni. Un quinto criterio è quello di consentire ai lavoratori statali di compe-
tere con le imprese private su progetti di costruzione e manutenzione. Una adeguata miscela di fornitori di servizi è importante per evitare la dipendenza completa da una sola tipologia di fornitore, e per mantenere l'autorità del governo sui fondi. Gli organismi statali dovranno prevedere determinate misure di protezione e tutela nell'eventualità di problemi riguardanti la ditta aggiudicataria, come per esempio un fallimento. Lo Stato dovrà mantenere un determinato livello di presenza per poter impostare i livelli accettabili per i servizi o l'eventuale ulteriore sviluppo dei servizi stessi. Infine, il sesto criterio è quello di garantire pari opportunità alle imprese concorrenti di piccole dimensioni. Gli oppositori della privatizzazione spesso sostengono che le imprese concorrenti di piccole dimensioni, assieme ai propri dipendenti, potrebbero fare le spese dei progetti di privatizzazione. Per evitare queste preoccupazioni, i funzionari statali dovrebbero fare in modo di garantire la partecipazione di tali imprese ai progetti di privatizzazione. PRIVATIZZARE L'EROGAZIONE DEI SERVIZI AL PUBBLICO
In base a questa opzione, gli organismi statali privatizzano una selezione di servizi erogati direttamente all'utenza o a beneficiari specifici. 83
Nel corso degli anni, praticamente tutti gli organismi statali impegnati nella realizzazione di servizi erogati direttamente all'utenza si sono avvalsi dell'opera di imprese private. In particolare, tutti i più grandi enti statali impegnati nell'erogazione diretta di servizi nei settori della assistenza sanitaria, dei servizi di igiene mentale, servizi sociali, istituti di pena e istituti scolastici, negli ultimi anni, hanno aumentato le proprie iniziative di privatizzazione e probabilmente, in futuro, aumenteranno il proprio grado di dipendenza dai fornitori privati. La portata delle attività di privatizzazione in questo settore è diversa a seconda del tipo di organismo. Gli organismi impegnati nel settore dell'igiene mentale sono al primo posto tra tutti gli enti statali: 29 dei 43 enti per servizi di igiene mentale interpellati nell'ambito dell'indagine CGs (in rappresentanza di 26 dipartimenti di igiene mentale) hanno dichiarato di aver privatizzato oltre il 15 per cento dei propri servizi. Anche gli organismi che si occupano di servizi sanitari e sociali registrano percentuali di privatizzazione più elevate. La maggior parte degli organismi impegnati nel settore dei servizi penitenziari e in quello dell'istruzione, invece, ha dichiarato livelli di privatizzazione, rispetto al totale dei servizi erogati, inferiori al 5 per cento. La situazione della privatizzazione in
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ciascuno dei cinque compatti di servizi statali erogati direttamente all'utenza è riassunta di seguito. Igiene mentale Nel settore dei servizi di igiene mentale, tre funzionari statali su quattro interpellati nell'ambito dell'indagine CGs hanno dichiarato un aumento nelle rispettive iniziative di privatizzazione nell'arco degli ultimi cinque anni. Circa un terzo dei 50 organismi statali impegnati nel settore dell'igiene mentale si avvalgono di imprese private per servizi quali il trattamento dei malati, i sussidi alla comunità, i servizi per i problemi di sviluppo mentale, i servizi medici erogati presso istituti, l'affidamento specializzato, i servizi psichiatrici, le terapie e i servizi di trasporto e ambulanza. Inoltre, alcuni Stati, tra i quali Kentucky, Michigan, South Carolina, Virginia e West Virginia, hanno affidato a privati la gestione delle strutture di assistenza per le malattie mentali. Le ragioni per le privatizzazioni sono numerose, e comprendono i risparmi sui costi (24 per cento), la flessibilità e le ridotte procedure burocratiche (23), carenze di personale o di qualifiche specifiche (19), rapida attuazione (17), ed elevata qualità del servizio (17). Le forme di privatizzazione utilizzate nel settore della salute mentale comprendono l'appalto esterno (63 per cento), le sovvenzio-
ni (16) e il sistema dei buoni (5). I buoni vengono utilizzati per il trattamento dei disabili e dei malati mentali (New York, North Dakota), per i sussidi alle comunità (Maine, Missouri, New York, North Dakota, South Carolina), i problemi di sviluppo mentale (Maine, New York, Pennsylvania, South Carolina), l'assistenza ai parenti (Maryland, New York), i servizi psichiatrici (New York, North Dakota), e l'affidamento specializzato (New York, Pennsylvania). Tra le forme di uso meno frequente troviamo il volontariato, le iniziative miste a partecipazione pubblica e privata e le donazioni private. In alcuni casi si è verificato il subappalto di alcuni servizi, come nel caso dei servizi mensa per gli istituti di salute mentale e i servizi di ambulanza nell'Illinois, e i servizi di terapia e infermieristici a domicilio nel Maine. Il Missouri utilizza il sistema delle concessioni per il trattamento dei malati di mente, i sussidi alle comunità e i servizi psichiatrici. La metà delle strutture statali impegnate nel settore dell'igiene mentale interpellate nell'ambito dell'indagine ha dichiarato di aver ottenuto risparmi sui costi inferiori al 5 per cento, mentre altri organismi hanno dichiarato valori compresi tra il 5 e il 30 per cento. Il Missouri e il New Hampshire hanno dichiarato risparmi di oltre il 30 per cento. Il Kentucky, I'Oklahoma e il Massachus-
setts sono tra gli Stati dotati di programmi esemplari. Da molti anni a questa parte, l'ente responsabile dei servizi di igiene mentale del Kentucky ha sottoscritto accordi specifici con l'Ospedale Statale di Outwood, prevalentemente con l'obiettivo di garantirsi maggiore flessibilità nel reclutamento del personale. L'ente responsabile dei servizi di igiene mentale dell'Oklahoma ha appaltato da molti anni i servizi riguardanti l'igiene mentale, l'abuso di stupefacenti e i servizi contro le violenze domestiche a organizzazioni private non-profit. L'ammontare in valore dei servizi appaltati è di circa 49,1 milioni di dollari, pari al 31 per cento del bilancio complessivo dell'ente. Nel 1991, il Massachussetts ha privatizzato tutti i propri ambulatori; lo Stato ha indetto gare di appalto per fornitori privati di servizi di assistenza. Al momento dell'attuazione del piano del Massachussetts, furono licenziati oltre 700 dipendenti statali. Tuttavia, essi furono riassunti dagli ambulatori privati e riassorbiti da altri organismi statali, oppure andarono in pensione senza pregiudizio per il trattamento e le altre indennità. Stando all'ente responsabile dei servizi di igiene mentale del Massachussetts, il piano per la privatizzazione del comparto della salute mentale ha fatto risparmiare ai contribuenti una cifra compresa tra 7 e 8 milioni di dollari. 85
Assistenza sanitaria Circa la metà degli organismi impegnati nel campo dell'assistenza sanitaria interpellati nell'ambito dell'indagine hanno dichiarato un aumento delle rispettive iniziative di privatizzazione nell'arco degli ultimi anni. Almeno 10 Stati hanno dichiarato di aver privatizzato oltre il 15 per cento dei propri servizi di assistenza sanitaria (Hawaii, Indiana, Maryland, Missouri, Nebraska, New Mexico, Pennsylvania, Rhode Island, Utah e Vermont). Otto Stati hanno privatizzato tra il 6 e il 10 per cento dei propri servizi di assistenza sanitaria. I settori dell'assistenza sanitaria che sono risultati maggiormente oggetto degli interventi di privatizzazione sono: assistenza a malati di AIDS, ambulatori, servizi per alcolisti e tossicodipendenti, riduzione mortalità infantile, avvelenamento da piombo e ricerca e sviluppo. Le ragioni per privatizzare i servizi di assistenza sanitaria sono simili a quelle indicate per la privatizzazione dei servizi di assistenza per la salute mentale: risparmi sui costi, carenza di personale o di competenze specifiche, flessibilità e rapidità di attuazione. La maggior parte degli organismi interpellati ha dichiarato di prevedere un'espansione delle attività di privatizzazione dei servizi di assistenza sanitaria nell'arco dei prossimi cinque anni. Tra le forme di privatizzazione adot-
Me
tate nel settore dell'assistenza sanitaria, l'appalto esterno rappresenta il 70 per cento, mentre i sussidi si attestano attorno al 14 per cento. I vouchers vengono utilizzati per i bambini con esigenze speciali (Indiana, Kansas), nonché per servizi come gli ambulatori (Hawaii), il disbrigo delle pratiche Medicaid (Kansas) e i programmi di assistenza sanitaria per rifugiati (Hawaii). Le convenzioni vengono utilizzate per le infermiere a domicilio, e per i servizi mensa negli ospedali statali del Vermont. Ospedali Il Kentucky e il Colorado hanno scelto di privatizzare gli ospedali universitari statali. Nel 1983, l'Ospedale dell'Università di Louisville fu affidato alla società "Humana" con un contratto di affitto. A seguito di una ristrutturazione aziendale, il contratto prima sottoscritto con Humana è stato attualmente trasferito a Galen. Gli accordi prevedono attività congiunte che riuniscono il Commonwealth del Kentucky, Galen, l'Università di Louisville, il Comune di Louisville, e la Contea di Jefferson. L'ospedale viene amministrato in base a un modello definito "Quality and Charity Care Trust". Nel 1993, gli stanziamenti statali erano pari a 13,6 milioni di dollari, in aggiunta a finanziamenti l'ente locale e dalla contea (3,2 milioni di
dollari ciascuno) e 5 milioni di dollari di pagamenti di affitto da parte di Humana, per un totale di 25,2 milioni di dollari. In maniera analoga, già nel 1989, fu privatizzato l'ospedale dell'Università del Colorado, con il trasferimento di 1.700 dipendenti statali all'ospedale privato non-profit.
Programma Medicaid (assistenza medica gratuita) In alcune strutture aderenti al programma Medicaid, l'elaborazione dei dati viene affidata a privati. Negli ultimi 10 anni, il Kentucky Department of Medicaid Services si è avvalso di privati per l'elaborazione delle richieste di rimborso Medicaid, per l'assistenza ai lungodegenti e le valutazioni mediche congiunte. Anche altri Stati stanno prendendo in considerazione la possibilità di privatizzare i servizi Medicaid. Già nel 1992, per esempio, in molti Stati, tra i quali lo Stato di New York, sono state varate leggi in materia di privatizzazione finalizzate a consentire agli assicuratori privati di assumersi la responsabilità di subentrare nella gestione della copertura per gli utenti Medicaid, (SB 6669), Maryland (HB 1191) e Ohio (HB 659).
Servizi sociali Circa l'80 per cento degli organismi statali impegnati nel settore dei servizi sociali statali, tra quelli interpel-
lati nell'ambito dell'indagine CGs, ha dichiarato di aver ampliato le proprie attività di privatizzazione nell'arco degli ultimi cinque anni, e quasi la metà di essi ha dichiarato di aver privatizzato oltre il 15 per cento delle proprie attività. Nell'Arkansas e in Kansas, la privatizzazione dei servizi sociali rappresentava, invece, fino a qualche tempo addietro, meno dell'uno per cento. Le attività di privatizzazione sono risultate piìi diffuse nei seguenti settori: adozioni, assistenza all'infanzia, strutture di accoglienza, affidamento, servizi di sostentamento a domicilio, pagamenti delle richieste di rimborso per spese mediche, servizi per gli anziani, test psicologici, servizi di riabilitazione e servizi per i disabili. Lo strumento dell'appalto esterno è risultato utilizzato in oltre il 70 per cento dei casi di privatizzazione dei servizi sociali presi in esame, mentre il sistema dei buoni è utilizzato in maniera pii diffusa per i servizi sociali rispetto agli altri servizi all'utenza. Tra i servizi sociali che si avvalgono dello strumento dei buoni, troviamo i programmi di assistenza di emergenza in Arizona, un programma di assistenza per l'energia in Alaska, servizi di reinserimento professionale nello Stato delle Hawaii e programmi di assistenza per bambini e day care in oltre una dozzina di Stati. I risparmi sui costi e la carenza• di personale interno sono le due 87
motivazioni citate più di frequente per le privatizzazioni. I livelli di riduzione dei costi derivanti dai programmi di privatizzazione dei servizi sociali sembrano essere inferiori rispetto sia a quelli dei servizi per la salute mentale che a quelli di assistenza sanitaria. Infatti, circa un terzo degli organismi impegnati nel settore dei servizi sociali ha dichiarato che i propri risparmi sui costi derivanti dalle iniziative di privatizzazione risultavano compresi tra il 5 e il 10 per cento; la metà degli organismi interpellati ha indicato livelli di risparmio inferiori al 5 per cento. Tuttavia, la California e il Texas hanno dichiarato risparmi superiori al 30 per cento. La maggior parte degli organismi impegnati nell'erogazione di servizi sociali prevede ulteriori iniziative di privatizzazione nell'arco dei prossimi cinque anni.
Formazione professionale Alcuni Stati hanno dato incarico a ditte private di assistere parte dell'utenza dei servizi di assistenza alle famiglie con figli a carico (AFDC). Tra questi Stati troviamo Connecticut, Massachusetts, New York, Texas e Wyoming. Gli esperimenti fatti dallo Stato di New York, che ha incaricato una società privata, America 'Works, di fornire servizi di formazione professionale e servizi destinati ai cittadini, sono stati citati come un modello che gli altri Stati
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dovrebbero prendere in considerazione. Un altro recente esempio è rappresentato dal progetto GAIN (Greater Avenues for Independence), un programma di formazione professionale, assistenza all'infanzia e collocamento in California.
Pagamenti per l'assistenza ai minori Molti Stati hanno iniziato ad avvalersi di società private per la riscossione dei pagamenti degli alimenti dovuti ai minori. L'Associazione per la Raccolta degli Alimenti Destinati ai Minori (CssA), istituita nel 1988, ha oggi 63 società affiliate in 29 Stati. Anche altre imprese analoghe stano registrando una forte domanda per i propri servizi.
Istituti di pena Oltre due terzi degli organismi impegnati nel settore dei servizi correzionali tra quelli interpellati nell'ambito dell'indagine CGS ha evidenziato un aumento del proprio ricorso all'appalto esterno. Kansas, Kentucky, New Mexico, South Dakota e Tennessee sono tra gli Stati caratterizzati dai più elevati livelli di privatizzazione nel comparto dei servizi carcerari; questi Stati hanno indicato percentuali di privatizzazione comprese tra l'il e il 15 per cento. In altri Stati (Hawaii, Idaho, Indiana, Mississippi e New Hampshire), invece, in questo settore specifico non è stata avviata alcuna iniziativa di
ITALY by GUIDA MONAGI Il sksteùia ftaíía di Guida Menaci Ogni giorno milioni di professionisti usano Internet alla ricerca di informazioni per fare affari. Spesso non riescono a trovarle. Ecco perché, per usare con successo la rete, essere in Internet non basta. Ogni azienda deve presentare le proprie potenzialità imprenditoriali lì dove è più facile farsi trovare. Proprio per, questo, Guida Monaci ha messo a disposizione dei navigatori del business il "Sistema Italia", la sua nuova e qualificata Rn- fliti di Fnti -1 A7ip-nrip. itIin
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privatizzazione. Venti tra gli Stati interpellati hanno dichiarato di prevedere un'espansione delle attività di privatizzazione nell'arco dei prossimi anni (Arizona, Colorado, Connecticut, Georgia, Iowa, Kentucky, Maryland, Massachussetts, New Mexico, North Carolina, North Dakota, Oklahoma, Oregon, South Dakota, Texas, Utah, Vermont, Washington, West Virginia e Wyoming). L'appalto esterno è risultato lo strumento pii diffuso per la privatizzazione in questo settore (92 per cento), mentre il volontariato e la partecipazione pubblica sono stati utilizzati in un numero minore di casi. Tra i servizi correzionali privatizzati troviamo servizi tradizionali come l'assistenza a tossicodipendenti e alcolisti, trattamenti nelle comunità, istruzione e formazione professionale per detenuti, servizi di assistenza sanitaria, igiene mentale e di laboratorio. Inoltre, le imprese private sono state utilizzate per la costruzione degli istituti di pena (in almeno 19 Stati), la gestione delle prigioni (California, Colorado, Kentucky, Louisiana, New Mexico, Tennessee e Texas), e per i programmi di inserimento nel mondo del lavoro (California, Louisiana, North Carolina, Oregon e Washington). Tra le ragioni indicate per la privatizzazione nel settore dei servizi correzionali troviamo i risparmi sui costi (29 per cento), la rapida realizza-
zione e la flessibilità (22), la carenza di personale interno (22), e l'elevata qualità dei servizi (13). Circa due terzi degli organismi correzionali interpellati ha indicato risparmi sui costi inferiori al 5 per cento a seguito delle iniziative di privatizzazione. Gli Stati che hanno indicato risparmi sui costi compresi tra il 5 e il 10 per cento sono: Alabama, Colorado, Connecticut, Louisiana, West Virginia e Wisconsin. Maryland, Massachussetts e New Mexico hanno dichiarato risparmi compresi tra l'li e il 20 per cento. Nell'ultimo decennio, la privatizzazione degli istituti di pena ha registrato un aumento. Stando al Progetto Pc (Private Corrections Project), del Centro per gli Studi di Criminologia e Legge dell'Università della Florida, nel 1993 oltre 20.000 detenuti risultavano ospitati in due dozzine di istituti di pena gestiti da 23 società private. Il Kentucky, il primo Stato ad aver appaitato all'esterno la gestione di una prigione ordinaria da 250 posti letto, oggi ha un totale di 1.000 detenuti ospitati in due strutture a gestione privata (St. Mary e Beattyville), sottoposti alla supervisione della commissione statale per gli istituti di pena. Lo Stato del Texas ha incaricato delle società private di individuare la sede, progettare, costruire e gestire quattro strutture di pre-inserimento da 500 posti letto, dopo
una gara di appalto alla quale hanno partecipato 20 imprese provenienti da tutte le aree del Paese. Nel 1991, la Texas Sunset Advisory Commission stabilì che le prigioni private registrano spese di esercizio inferiori in misura compresa tra il 10 e il 14 per cento rispetto a strutture analoghe gestite dallo Stato. La Commissione ha concluso: "Le prigioni private del Texas registrano impatti economici positivi. Dal punto di vista economico, le prigioni private hanno mantenuto la promessa fatta di assumere personale e di approvvigionarsi a livello locale". Il Comptroller ha consigliato allo Stato di autorizzare il Dipartimento di Grazia e Giustizia del Texas a proseguire le attività di privatizzazione degli istituti carcerari. Le privatizzazioni nei settore dei servizi correzionali sono aumentate grazie a numerosi fattori. In primo luogo, quando uno Stato o una contea desiderano rispondere rapidamente a una richiesta fatta dal Dipartimento di Grazia e Giustizia di espandere la ricettività degli istituti carcerari, la privatizzazione si è rivelata una soluzione pratica. In secondo luogo, la privatizzazione offre vantaggi finanziari alle amministrazioni afflitte da bilanci carenti per la costruzione di istituti di pena. In terzo luogo, le prigioni private possono rivelarsi adeguate per determinate categorie di detenuti, come quelli in
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attesa di imminente scarcerazione, i trasgressori della libertà vigilata e i detenuti afflitti da malattie mentali o problemi di sviluppo mentale. Il collocamento di questi detenuti in strutture private consente di liberare spazi per detenuti che richiedono livelli di custodia più elevati. Un quarto aspetto è rappresentato dal fatto che la privatizzazione degli istituti di pena può contribuire a contenere la crescita degli istituti, in quanto riduce la necessità di nuove assunzioni (negli ultimi anni, il numero degli occupati in questo settore è cresciuto più che in qualsiasi altro settore della pubblica amministrazione). E, infine, se realizzata in maniera prudente, la privatizzazione degli istituti di pena incoraggia la concorrenza tra le aziende private e gli organismi statali, garantendo un miglioramento dei servizi correzionali.
Istruzione I dipartimenti dell'istruzione non hanno privatizzato i propri programmi nella stessa misura in cui ciò è stato fatto da altri organismi impegnati nell'erogazione di servizi all'utenza, malgrado circa il 40 per cento delle strutture impegnate in questo settore abbia indicato un aumento. Quasi la metà degli organismi impegnati nel settore dell'istruzione interpellati nell'ambito dell'indagine CGs ha dichiarato che la percentuale di servizi privatizzati
rappresentava meno dell'i per cento, mentre Georgia, Kansas, Michigan, Nevada, Pennsylvania, South Carolina, West Virginia e Wyoming hanno dichiarato di aver privatizzato tra il 6 e il 15 per cento dei propri servizi in questo comparto specifico. I dipartimenti dell'istruzione statali che hanno indicato l'assenza completa di servizi privatizzati nell'arco degli ultimi anni sono: Idaho, Illinois, Maine, Maryland, North Carolina e Washington. La carenza di personale interno e di qualifiche specifiche è stata indicata da quasi la metà degli Stati come la ragione principale per il ricorso alle aziende private. La forma piit diffusa di privatizzazione nel settore dell'istruzione è rappresentata dall'appalto esterno. I finanziamenti statali vengono utilizzati per programmi accademici (Florida, Georgia, Massachussetts, Pennsylvania), servizi di istruzione per studenti che abbandonano gli studi (Massachussetts, South Dakota), valutazione dei servizi (Michigan), formazione specialistica (Wisconsin), consulenza tecnica (Michigan), e terapia (South Dakota). Il sistema delle concessioni viene utilizzato per le librerie e i servizi mensa nelle università statali della Florida. Il dipartimento dell'Istruzione dello Stato di New York utilizza il sistema dei vouchers per i trasporti pubblici. Tra le attività e i servizi privatizzati dagli organismi
statali impegnati nel settore dell'istruzione troviamo le borse di studio, conferenze sull'istruzione, valutazioni dei servizi e valutazione dei test. Le valutazioni della preparazione degli insegnanti sono state privatizzate in molti Stati, tra i quali: Georgia, Michigan, Nevada, New York, South Carolina e Texas. Di recente, alcuni Stati hanno condotto degli esperimenti con diverse tipologie di privatizzazione nel comparto dell'istruzione, tuttavia, allo stato attuale, valutarne i risultati sarebbe prematuro. Tra queste iniziative troviamo: possibilità di scegliere scuole private in Michigan e Wisconsin; scuole parificate in California e Wisconsin; il sistema dei vouchers in California, Arkansas, Georgia e Texas; la gestione privata in Florida, Maryland e Massachussetts; scuole professionali private nel Wisconsin; programmi di volontariato, come l'iniziativa Teach for America (New York); e altri programmi a partecipazione pubblica e privata in numerosi Stati. Nel 1990, la società Education Alternatives Inc. (EM) ottenne un appalto dalla Contea di Dade, in Florida, per la gestione della Scuola Elementare di South Pointe (800 alunni). Nel 1992, la Eiu ottenne un contratto quinquennale per la gestione del sistema scolastico di Baltimora (110.000 studenti, 177 istituti), del valore di 26 milioni di dollari. Si prevede che la 91
società otterrà notevoli miglioramenti nei risultati scolastici conseguiti dagli alunni.
Implicazioni e raccomandazioni I responsabili di strutture statali che desiderino intraprendere programmi di privatizzazione o proseguire programmi già in atto per la privatizzazione dell'erogazione dei servizi all'utenza dovrebbero tenere presenti le seguenti considerazioni. In primo luogo, sarà necessario consultarsi con i gruppi rappresentativi dell'utenza, per garantirne la soddisfazione. Coinvolgendo l'utenza nella progettazione del nuovo servizio e garantendo informazioni sufficienti ai dipendenti statali sarà possibile ottenere servizi migliori e più convenienti. Il rischio di risultati negativi aumenta quando i gruppi rappresentativi dell'utenza non sono soddisfatti dei nuovi servizi o di soluzioni alternative. È bene consultarsi con l'utenza destinataria del servizio in relazione alla formulazione adeguata e ai sistemi di trasparenza e gestione dei servizi e agli altri aspetti. In secondo luogo, nei casi adeguati, è bene valutare l'ipotesi di utilizzare il sistema dei vouchers piuttosto che ricorrere all'appalto esterno. Nei casi in cui risulti difficile mettere a punto e far rispettare le disposizioni contrattuali, i manager statali dovrebbero prendere in considerazione l'ipotesi di utilizzare il sistema dei
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buoni piuttosto che appaltare all'esterno il servizio in questione; lo strumento dei buoni deve essere considerato come la tecnica di privatizzazione primaria, in particolare nel settore dei servizi sociali. I buoni consentono di trasferire all'utenza il controllo dei servizi. In terzo luogo, è opportuno effettuare accurate analisi degli appalti esterni, fissare standard inequivocabili e garantire un monitoraggio dettagliato. Le opportunità per privatizzare l'erogazione dei servizi statali sono grandi, ma i rischi possono risultare elevati. I manager statali dovrebbero analizzare i costi e i benefici in un'ottica di lungo periodo e indire gare d'appalto per organizzazioni a fini di lucro e non, e organizzazioni di dipendenti. La questione della responsabilità dovrà essere analizzata nel dettaglio. Il controllo della qualità, la formazione e i principi di equità nella fornitura di questi servizi sono di estrema importanza. I manager statali dovrebbero garantire pari opportunità alle minoranze. Sarà necessario perseguire i valori, oltre al profitto, e ridurre gli ostacoli burocratici nell'ambito del processo decisionale riguardante le iniziative di privatizzazione, in particolare nel settore dei servizi sociali. Infine, sarà necessario analizzare le leggi e le normative statali in materia di privatizzazione. Per esempio,
le leggi della California contengono disposizioni specifiche sulla privatizzazione dei servizi statali. Gli eventuali appalti proposti devono essere approvati dal Department of Generai Services (DGs) della California e dalla Commissione del Personale Statale. Inoltre, gli eventuali appalti proposti sono soggetti ad esame da parte delle organizzazioni dei dipendenti statali direttamente coinvolte. Tuttavia, il dipartimento della Sanità può stipulare numerosi tipi di appalti per l'erogazione di servizi con organizzazioni non governative per la fornitura di servizi sanitari all'utenza. Tali contratti non sono soggetti alle stesse leggi che regolano i contratti di privatizzazione. ME-i-I-ERE IN CONCORRENZA IL SFTFORE PUBBLICO E IL SETTORE PRIVATO
Questa opzione introduce la concorrenza tra gli organismi statali e quelli privati nel campo della amministrazione ed erogazione di servizi pubblici a livello statale. Negli ultimi anni, i governatori, i rappresentanti delle assemblee legislative e i direttori degli enti, in alcuni Stati, hanno introdotto il concetto di concorrenza tra il settore pubblico e quello privato come elemento delle proprie procedure per l'individuazione di forme di gestione alternative e per il miglioramento dell'erogazione dei servizi. Nell'arco
dei prossimi anni, è probabile che un numero crescente di leader politici e manager statali deciderà di sperimentare questo approccio. L'indagine CGs sulla privatizzazione ha evidenziato una chiara tendenza verso una crescita della privatizzazione in tutti i principali organismi statali. Per esempio, oltre l'85 per cento dei revisori dei conti, dei responsabili dei comitati di bilancio e dei ragionieri dello Stato interpellati durante l'indagine hanno previsto un aumento delle attività di privatizzazione nell'arco dei prossimi anni, e così anche la maggior parte dei rappresentanti degli organismi impegnati nel settore dei servizi sanitari, sociali e di salute mentale. Probabilmente, gli organismi del settore dei servizi per la salute mentale registreranno i livelli di privatizzazione più elevati, seguiti da (in ordine di probabilità), servizi amministrativi e generali, servizi sociali, assistenza sanitaria, servizi di trasporto e servizi correzionali. Probabilmente, stando ai risultati del sondaggio, le attività di privatizzazione nel settore dell'istruzione non aumenteranno con la stessa rapidità registrata negli altri settori. I dirigenti di tutti gli organismi interpellati hanno dichiarato di prevedere un'espansione delle iniziative di privatizzazione per ragioni legate alle riduzioni dei costi (29 per cento), carenze di personale e di competenze specifiche (24 per 93
cento), flessibilità e minori lungaggini burocratiche (22), rapida realizzazione (16) e servizi di elevata qualità (10). Anche i dirigenti degli organi legislativi hanno previsto la prosecuzione e l'espansione delle iniziative legislative finalizzate ad aumentare la privatizzazione dei servizi statali nell'arco dei prossimi anni, pur evidenziando un atteggiamento più conservatore rispetto ai dirigenti degli organismi interpellati nel valutare la portata effettiva delle iniziative di privatizzazione. Tra gli Stati le cui assemblee hanno approvato il maggior volume di legislazione in materia di privatizzazione durante gli ultimi anni troviamo Arizona, Connecticut, Maine, Maryland, New Jersey, North Dakota e Wisconsin. Probabilmente, nell'arco dei prossimi anni, questi Stati vareranno altre leggi per aumentare ulteriormente il livello di privatizzazione dei propri servizi. Per quanto riguarda gli attori principali delle future iniziative di privatizzazione dei servizi statali, i rappresentanti dello Stato hanno anticipato che probabilmente i governatori e i rispettivi stafE i consulenti privati e i legislatori con i propri collaboratori, in questo ordine, saranno gli attori principali nell'ambito dei futuri processi di espansione della privatizzazione. In alcuni Stati, la concorrenza tra gli organismi statali 94
e le imprese private è già stata adottata come strumento per il miglioramento gestionale. Nel dicembre del 1990, la Commissione Congiunta della Camera e del Senato per gli Studi sulla Concorrenza ha consigliato l'istituzione di una commissione permanente per lo studio delle questioni riguardanti la concorrenza tra lo Stato e il settore privato, e la questione della privatizzazione dei servizi statali. In altri Stati, la privatizzazione viene oggi considerata come opzione in tutte le analisi approfondite di tutte le attività e i servizi statali. Il Michigan rappresenta un esempio recente dell'adozione di questo approccio. Nel dicembre del 1992, la Commissione per le Attività a Partecipazione Pubblica e Privata del Michigan ha consigliato l'adozione a livello dell'intero Stato di una procedura chiamata PERM (Privatizzare, Eliminare, Ritenere o Modificare), finalizzata a migliorare il livello e la qualità dei servizi statali e a ridurre il costo sostenuto dai contribuenti per l'erogazione dei servizi. Per promuovere ulteriormente il concetto della concorrenza tra il settore privato e gli organismi statali in tutto 10 Stato, in Texas è stato creato un consiglio permanente sulla concorrenza, il Council on Competitive Government, istituito nel 1993 per incoraggiare l'introduzione dei meccanismi concorrenziali nel settore pub-
buco e per sostenere procedure più efficaci ed efficienti per l'erogazione dei servizi pubblici. Il Consiglio, il primo organo di questo genere ad essere creato, fu ideato dal Comptroller del Texas, che giunse a concludere che il mancato funzionamento del processo di revisione delle iniziative di privatizzazione esistenti era dovuto alla mancanza di una autorità centrale e imparziale in grado di stabilire se i servizi statali dovessero o meno essere privatizzati nell'ambito di una uniforme politica adottata dallo Stato per favorire la concorrenza tra il settore pubblico e quello privato. (Ai sensi di una Legge per la verifica della concorrenzialità dei costi del 1987, ai principali organismi statali del Texas fu richiesto di appaltare all'esterno i servizi in tutti i casi in cui i costi per la produzione dei servizi all'interno degli organismi stessi avessero ecceduto di oltre il 10 per cento i livelli registrati nel settore privato. All'inizio del 1993, il Comptroller nel suo provocatorio rapporto intitolato "Against the Grain", consigliò la privatizzazione dei servizi statali per l'ottenimento di risparmi di oltre 4,5 milioni di dollari nell'arco di due esercizi).
Implicazioni e raccomandazioni I rappresentanti dello Stato che volessero valutare i pro e i contro di una concorrenza regolamentata tra
il settore pubblico e quello privato nel campo della gestione e dell'erogazione dei servizi dovrebbero tenere in considerazione quanto segue. In primo luogo, la concorrenza (o cc concorrenza regolamentata ) garantisce la rottura del monopolio statale nel settore dei servizi pubblici. In passato, lo Stato ha avuto la tendenza a monopolizzare determinati servizi. Uno dei sostenitori della concorrenza regolamentata prevede: "quando gli organismi pubblici non riescono ad aggiudicarsi gli appalti, a fronte delle più qualificate imprese private, essi riducono le proprie dimensioni. Gli organismi pubblici saranno surclassati senza speranza durante i primi anni, ma poi, inizieranno gradualmente ad adottare le procedure produttive delle aziende private, e alla fine saranno in grado di competere efficacemente con il settore privato. A questo punto, gli enti pubblici potranno tornare ad espandersi per servire i settori che riescono a riaggiudicarsi. Questo processo dinamico impone a entrambi i settori di essere sempre all'erta, protegge il governo da eventuali accordi fraudolenti con le imprese private e libera i cittadini dalla morsa dei monopoli pubblici In secondo luogo, sarà necessario istituire una piattaforma legislativa per i processi di privatizzazione, unitamente a politiche e procedure statali per l'esame a cadenza regolare 95
dei potenziali candidati per le privatizzazioni. Per mettere in pratica questa scelta, i leader e i dirigenti statali dovranno istituire un organismo statale centralizzato dotato dell'autorità di prendere decisioni imparziali riguardanti scelte come privatizzare o meno e privatizzare che cosa, con l'obiettivo di garantire la gestione e l'erogazione più efficace ed efficiente dei servizi statali. Un organismo di questo genere dovrebbe avere caratteristiche di imparzialità, e dovrebbe essere guidato da una commissione congiunta legislativa ed esecutiva. Il PERÌvI del Michigan e il Texas Council ori Competitive Government potrebbero rappresentare utili modelli di riferimento. Tuttavia, i manager statali dovrebbero rispettare le politiche e procedure dello Stato per l'attuazione delle iniziative di privatizzazione. In terzo luogo, in molti casi, se non addirittura in tutti, le imprese private possono fornire servizi a costi bassi senza dover ridurre i salari. I risparmi legati all'appalto esterno di servizi pubblici realizzato in condizioni di concorrenzialità potrebbero essere dovuti al fatto che le imprese private riconoscono ai propri dipendenti un volume minore di ferie pagate, utilizzano maggiormente i lavoratori part-time, sono dotate di maggiore indipendenza manageriale per l'assunzione e l'incentivazione dei migliori lavoratori e, se necessa96
rio, per prendere provvedimenti disciplinari o licenziare i lavoratori a più basso rendimento, adottare apparecchiature più produttive, fissare definizioni delle mansioni più precise, garantire maggiore trasparenza, e dotarsi di un numero maggiore di lavoratori per ciascun supervisore. I salari più bassi non sono l'unica ragione dietro i migliori rapporti costiefficacia che caratterizzano la maggior parte delle iniziative di privatizzazione. Anche i manager statali dovrebbero prendere in considerazione simili strumenti per il miglioramento della gestione. In quarto luogo, è necessario prendere in esame i limiti alla portata delle privatizzazioni. Dovrebbero essere predisposte limitazioni costituzionali o normative per la privatizzazione delle funzioni dello Stato. Nell'Iowa, per esempio, le limitazioni alla privatizzazione comprendono: l'emanazione delle leggi, la determinazione delle politiche dello Stato, la concessione di eccezioni procedurali, i procedimenti giudiziari, l'emissione delle normative amministrative, la concessione di licenze, i poteri di arresto, il potere di controllo sui conti di tesoreria, le scelte di spesa pubblica e la sospensione o la revoca di licenze. Un quinto aspetto riguarda il fatto che il governo rimane responsabile dei servizi privatizzati. Pertanto, dovrà tutelarsi stilando contratti molto
dettagliati, conducendo gare di appalto eque ed oneste, e monitorando i costi dei servizi e la loro qualità imponendo penali rigide e certe per le eventuali inadempienze. In assenza di forme di tutela adeguate, lo Stato potrebbe finire con il trovarsi ad essere dipendente dal settore privato. I manager statali dovrebbero monitorare i risultati conseguiti dalle ditte appaltatrici per garantirne la conformità alle specifiche contrattuali e mantenere adeguate forme di tutela per fare in modo che gli organismi statali non debbano necessariamente dipendere dal settore privato. Quando gli organismi statali non sono soddisfatti dei servizi privatizzati, non dovrebbero esitare a "riappaltare all'interno" o "deprivatizzare". Un sesto punto da tenere in considerazione è il seguente: in alcuni Stati, alcuni manager statali e alcune organizzazioni sindacali di dipendenti, hanno sostenuto: «La privatizzazione significa rinunciare alla trasparenza pubblica dell'operato dei funzionari statali". La resistenza dei dipendenti all'idea di introdurre la concorrenza nell'amministrazione e nell'erogazione dei servizi potrebbe derivare dalla paura della perdita di posti di lavoro. I dirigenti e i manager statali dovrebbero dare la giusta considerazione alle preoccupazioni legittime dei dipendenti: nessun licenziamento, livelli di riduzione della forza lavoro fisiologici, as-
sorbimento presso altri organismi statali, diritto a rifiutare di prestare servizio presso le imprese aggiudicatane dell'appalto, incoraggiamento della creazione di imprese di proprietà dei dipendenti, pensionamenti anticipati con indennità di liquidazione, etc. I governatori, i legislatori degli Stati e i manager pubblici dovrebbero stabilire politiche e procedure chiare per guidare le proprie decisioni sulle privatizzazioni. I leader e i manager statali dovranno probabilmente affrontare numerose questioni di grande importanza nell'ambito di questo processo, tra le quali: riduzione dei costi, delega dell'autorità, licenziamento dei dipendenti e cattiva gestione. Riduzione dei costi. I responsabili delle politiche degli Stati dovrebbero sviluppare procedure per l'analisi comparativa dei costi che possano essere utilizzate dagli organismi statali per i processi decisionali in materia di privatizzazione e per la valutazione dei risultati delle iniziative di privatizzazione. In assenza di queste metodologie e di altre accurate procedure di analisi sarebbe difficile stabilire i vantaggi in termini di rapporto costi-efficacia offerti dalla privatizzazione. Concorrenza. L'esperienza indica come i risparmi sui costi possano essere realizzati quando numerosi e qualificate imprese private concorrano 97
per un progetto di privatizzazione o quando viene realizzata una gara di appalto concorrenziale attentamente strutturata tra organismi statali e imprese private. In assenza di effettive condizioni di concorrenza, il monopolio dello Stato" potrebbe venire sostituito da un "monopolio privato". Delega dell'autorità. I manager statali devono lavorare in qualità di pianificatori, manager e controllori delle iniziative di privatizzazione, perché la privatizzazione con comporta la delega dell'autorità o della responsabilità statale alle imprese private. In caso di appalti esterni, la privatizzazione modifica la natura della gestione dello Stato, "trasformando i manager statali da esecutori in supervisori", come è stato affermato dall'Accademia Nazionale della Pubblica Amministrazione. Licenziamento di dipendenti. I leader
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e i manager statali non dovrebbero avviare i progetti di privatizzazione senza prima valutarne gli effetti futuri sui dipendenti interessati dalle iniziative. I manager statali dovranno affrontare la questione del licenziamento dei dipendenti prima della privatizzazione di servizi o comparti statali. In determinati settori, comunque, la privatizzazione potrà essere utilizzata come strumento per evitare ulteriori assunzioni di dipendenti statali. Cattiva gestione. Al momento di pianificare, attuare e monitorare le iniziative di privatizzazione, i leader statali dovrebbero prestare attenzione ai pericoli della corruzione, dell'interruzione del servizio e di possibili casi di cattiva gestione o pratiche inique nei confronti dei lavoratori attuate da imprese private. (traduzione di Stefano Spila)
dossier
La democrazia dell'antipolitica
Lo Stato moderno, qualunque sia l'interpretazione riguardv la sua genesi, è un sistema - imperfetto come tutte le cose soggette alla dinamica del tempo - di risoluzione dei conflitti. Siano essi religiosi, territoriali, economici, razziali. La composizione degli interessi in gioco viene sottratta allo scontro diretto tra le parti e affidata a tecniche e procedure politiche (di scelta) e amministrative (digestione). Fin qui la constatazione supeificiale. L'analisi empirica è molto più drammatica e complessa. Le singole fazioni, in uno Stato democratico, sono rappresentate al suo interno e la battaglia per il prevalere di una opzione si trasferisce dai campi insanguinati delle guerre civili ai serrati dibattiti parlamentari ed alle dinamiche governative. Un bel passo in avanti, a livello civile. Ed anche un bel risparmio di tempo nella vita di tutti i giorni. Ma l'uomo occidentale è inquieto: quando il pericolo e la radicalità del conflitto sembrano scemare vorrebbe pri varsi anche dello strumento che gli ha permesso di attenuarne i catastrofi ci effetti. Lo Stato, secondo tanti commentatori, deve andare in pensione. Ed, invece, ci si dovrà ben guardare dal farlo. Il perché ce lo illustra il dossier che presentiamo, struttureto in modo da dare risposte basate sulla ricerca politologica e sociologica alle do99
mande su possibili modelli di convivenza sociale da attuare alle soglie del terzo millennio. Finché il conflitto non viene sentito, o viene interpretato come fatto privato, la presenza dello Stato non si avverte, oppure viene vissuta come momento di disturbo nel libero contrattare deiprivati cittadini. 21bbasso ipoliticanti", tuonano i tecnici e gli imprenditori, così come gli intellettuali ed i singoli lavoratori. Si proclamano, e ciò accade sempre in prossimità di una grave crisi democratica, le dichiarazioni di decesso dello Stato, della politica e dei partiti. Si getta la comunità nella più totale sfiducia verso le istituzioni politiche. Poi la politica si vendica. Jonathan Rauch parla di "terremoto " E nessun termine potrebbe evocare così drammaticamente, anche per l'Italia in questo momento, ilfatto di aver bisogno di un punto fermo, di una decisione chiara, efficace e risolutrice. Tutti a chiedere l'opera dello Stato: gli aiuti, la sicurezza, ecc., che nessuna istanza privata può offiire. Il saggio di Rauch, nostra traduzione dal National Journal, ci dimostra che anche il modello americano (che si cerca di introdurre in Italia senza le opportune cautele) è afflitto da molti mali che la pur positiva crescita economica sèa soltanto nascondendo agli occhi miopi degli entusiasti. Non basta un sistema maggioritario e presidenziale per far funzionare un Paese. LAutore ci ricorda che servono due elementi: leadership e condivisione delle scelte a livello popolare. Non è un sistema elettorale, né istituzionale a poter creare queste due condizioni dal nulla. La leadershzp in Inghilterra e Stati Uniti c'è da tempo: manca oggi in America una reale condivisione delle scelte da operare. In Inghilterra vedremo: Blair è stato fin troppo osannato dal provincialismo di molti commentatori. Perché manca tale condivisione? L'attenzione si sposta all'esauriente analisi di Mattei Dogan che individua le nuove stratificazioni culturali esistenti attualmente nella società occidentale. Siamo frammentati in più isole culturali ed economiche. L'identità religiosa, quella di classe, l'ideologica non reggono più: si riferiscono ad eventi ed emozioni delle quali c'è ormai soltanto il ricordo delle immagini. Gli unici elementi di identità forti sono quelli della razza e della lingua: e ben sappiamo quanto siano escludenti eforiere di pericoli per la pacifica convivenza di società pluraliste e democratiche: malgrè tout, le nostre società. I colossi asiatici hanno ben altri problemi: quelli di respingere le proteste delle organizzazioni per i diritti civili e di far passare, quindi, sotto silenzio i morti dovuti al loro Yiílgido" cammino verso un "libero" mercato senza democrazia.
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Il declino del voto di classe, di partito e del voto religioso di Mattei Dogan *
Nel corso del 200 secolo l'Europa è stata, più che in qualsiasi altro periodo, il teatro di un'enorme sperimentazione sociale, economica, culturale e politica. Nel 1920, sulle rovine di quattro imperi, il continente era composto da 24 democrazie competitive, da Lisbona a Varsavia. Tra il 1922 e il 1939, quindici di queste democrazie erano morte, e altre quattro erano state soppresse dall'occupazione militare. Nel 1945, l'Europa era un cimitero di 19 democrazie e un continente devastato. Ma durante la seconda metà del secolo, l'Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Giappone e qualche altro Paese raggiunsero uno sviluppo economico e sociale maggiore dei tre secoli precedenti. Questo rapido cambiamento è stato definito in vari modi: 1 tre decenni gloriosi", "La seconda rivoluzione francese , Il miracolo economico tedesco", "Il secondo rinascimento italiano", "L'epoca d'oro", "La rivoluzione silenziosa", ecc. Malgrado questa tumultuosa storia, le tracce ditale
* Direttore di ricerca presso il Centro National de la Recherche Scientifique di Parigi.
passato sono Ancora visibili. La mappa dell'Europa contemporanea riflette, in qualche modo, la segregazione confessionale generata molto tempo fa dal principio del Cuius regio, eius religio. Una diversità economica regionale, ereditata in parte dalla prima rivoluzione industriale, è ancora visibile. L'antica cacofonia linguistica prodotta da trenta lingue resiste ancora. Le disuguaglianze sociali degli anni novanta sono state in parte ereditate dalle generazioni precedenti. Ciò nonostante, gli sconvolgimenti sociali e l'impatto della storia recente hanno indebolito le vecchie radici dei disaccordi politici e partitici. Questo articolo analizza i cambiamenti politici e sociali verificatisi durante l'ultima metà del secolo, in particolare durante gli ultimi tre decenni. METAMORFOSI DELLA SOCIETÀ
Durante la seconda metà del secolo, il progresso tecnologico e nuove sorgenti di energia hanno prodotto profonde trasformazioni sociali. La sostituzione del carbone con il petrolio, il gas e l'energia idraulica, e in seguito anche 101
con l'energia nucleare, hanno segnato il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale. L'industria automobilistica, considerata ieri come una fortezza della classe operaia, con la diffusione dell'automazione è diventata un'industria dove più della metà degli impiegati sono colletti bianchi o tecnici polivalenti. Le ferrovie, nella prima metà del secolo veicolo di ideali rivoluzionari, dopo l'elettrificazione del sistema hanno soppresso tre quarti dei posti di lavoro nella maggior parte delle nazioni dell'Europa occidentale, senza diminuire il traffico merci e passeggeri. Contemporaneamente, il numero dei camionisti è aumentato e oggi è Io stesso dei ferrovieri di un tempo. Come attestato da parecchie indagini, camionisti e ferrovieri hanno un diverso comportamento politico. I primi sono conservatori e individualisti, i secondi sindacalizzati e tendenzialmente di sinistra. Non molto tempo fa, gli impianti industriali erano concentrati nelle città. In Europa, molte metropoli erano circondate da «cinture rosse" ( red belts). All'inizio del secolo, i marxisti non hanno previsto che la crescente suburbanizzazione avrebbe espulso i lavoratori dell'industria dalle città. In Francia, il numero di agricoltori è sceso dal 42% nel 1946 al 7% nel 1992, e il numero di lavoratori dell'industria dal 40% al 27% durante lo stesso periodo. Nel 1947, c'erano un milione di lavoratori in Francia occu102
pati nelle miniere di carbone e nelle ferrovie e 100.000 studenti. Nel 1995, gli studenti sono 2.300.000, e il 90% di questi ha più di 18 anni e il diritto di voto. D'altra parte, sono rimasti solo 100.000 colletti blu nelle ferrovie, mentre le miniere di carbone sono state tutte chiuse. Nel 1946, i domestici in Francia erano un milione. Dal 1964, la presenza degli elettrodomestici ha ridotto il numero di questi lavoratori a meno di un decimo. Simili cambiamenti si sono verificati in tutte le nazioni europee. La porzione di PIL raccolto e ridistribuito dallo Stato è raddoppiato in due decenni, ad eccezione della Svizzera, cosicché dell'Europa occidentale si può affermare che ha economie miste, mezzo capitaliste e mezzo socialiste. La riduzione della classe operaia è stata accompagnata da un fenomeno ben conosciuto: la crescita delle classi medie. Non c'è bisogno di discutere, in questa sede, la distinzione tra le due categorie delle classi medie: indipendenti e salariate, vecchie e nuove. Questo dibattito neo-marxista è sufficientemente chiarito. Negli anni ottanta, per la prima volta dalla rivoluzione industriale, diversi Paesi europei hanno importato più manufatti di quelli esportati. Il declino dell'industria pesante ha significato un declino nel numero di lavoratori nei grandi complessi industriali. Ma i lavoratori sindacalizzati in posizioni strategiche come quelli dei macchini-
sti, dei sovrintendenti di impianti elettrici, dei controllori del traffico aereo, ecc. hanno il potere di paralizzare un'intera nazione con gli scioperi. Ma oggi, questa "aristocrazia della forza lavoro" è meno motivata di ieri a prendere le redini di sommovimenti sociali, perché politici e manager hanno saggiamente fornito loro sostanziosi privilegi. Così, gli strati superiori della classe operaia sono stati staccati dalla base della piramide. Due recenti cambiamenti nella struttura della classe operaia meritano di essere rilevati: uno causato dalla disoccupazione strutturale e l'altro dall'immigrazione dalle nazioni non-europee, soprattutto dall'Asia meridionale, dal Nord Africa e dall'Africa nera. Negli ultimi dieci anni, la media della disoccupazione europea è stata di circa il 12% (con il 20% della Spagna nel 1994). Questa cifra riguarda la popolazione attiva nel suo insieme, ma è pii alta per quanto riguarda la classe operaia: in alcuni settori industriali arriva al 25%. Questa disoccupazione strutturale non è solo un problema di breve durata, ma un fenomeno persistente: il risultato del progresso tecnologico e di una produttività piii alta. Benché economicamente inattivi, comunque, i disoccupati sono degli elettori. Nell'arco di una sola generazione, la classe operaia si è ridotta di un terzo nella maggior parte dell'Europa occi-
dentale. Parte dei rimanenti due terzi sono cambiati etnicamente come risultato della mobilità dei lavoratori indigeni e della loro sostituzione con immigrati nei lavori pRi duri, meno qualificati e meno pagati. La maggior parte di questi immigrati non ha cittadinanza o diritto di voto, particolarmente in Germania o in Svizzera. Quindi, la classe operaia viene anche spaccata alla base da un cambiamento della sua composizione etnica. Limmigrazione ha attaversato due fasi. Negli anni del boom l'industria aveva bisogno di lavoro non qualificato a basso costo. Ditte tedesche e francesi, in particolare, reclutavano attraverso tutto il Mediterraneo. Mentre l'Impero Britannico si sgretolava, la Gran Bretagna ha dovuto accettare una forte immigrazione dall'Asia meridionale. Dopo un certo periodo di tempo, il progresso tecnologico e l'automazione hanno portato ad un surplus la manodopera. Nel frattempo, comunque, gli immigrati avevano messo radici, e i loro figli avevano acquisito la nazionalità del Paese ospitante, in particolare in Francia con la legge del droit du sol. Questi figli di immigrati, a loro volta, si affacciarono sul mercato del lavoro nel momento in cui milioni di lavoratori di origine europea stavano perdendo il loro. La prima generazione di immigrati era formata da gente tranquilla, contenta di condurre una vita modesta e senza pretese. I loro figli, invece, 103
chiedono di essere riconosciuti cittadini a tutti gli effetti. L'inquietudine sociale è maggiore nelle aree più densamente popolate, dove il numero di immigrati non europei è più elevato, rispetto ai quartieri della classe media. qui vediamo l'effetto del contesto sociale, di cui si tiene troppo poco conto nelle ricerche, perché vengono considerati soltanto gli attributi individuali. La crescente mobilità sociale e i migliorati standard di vita hanno eroso la coscienza di classe tra i lavoratori indigeni. La distanza tra loro e gli immigrati è aumentata e la solidarietà di classe adesso non è altro che retorica sindacale. Riferirsi alla «classe operaia" al singolare è oggi sociologicamente inappropriato. Va riconosciuto che l'assottigliamento di questa classe operaia è stato accompagnato dall'aumento della povertà come risultato della disoccupazione, dell'esclusione sociale e della diminuzione delle entrate. questa povertà sta creando un nuovo strato sociale, un sottoproletariato, di cui una buona parte è etnicamente diversa dalla maggioranza della popolazione. A paragone di questo sottoproletanato, la vecchia "classe" operaia sta diventando relativamente una categoria privilegiata. Tali cambiamenti sociali hanno ripercussioni anche sulle motivazioni di voto e sul ruolo dei partiti politici. 104
LE STRATIFICAZIONI NELLE DEMOCRAZIE PLURALISTE
Le democrazie pluraliste contemporanee sono società complesse, caratterizzare da molte divisioni (cleavages). Il loro equilibrio si fonda sull'intreccio di divisioni economiche, sociali, religiose e culturali. Vi sono due tipi di divisioni: quelle verticali, che dividono la società secondo criteri culturali, come la religione, la lingua, l'etnia e la memoria sociale e le divisioni orizzontali, che si riferiscono agli strati economici e sociali, come le classi sociali, il reddito, il livello di istruzione, l'ambiente urbano e rurale, il tipo di lavoro, ecc. Durante il ventesimo secolo queste divisioni si sono evolute profondamente, con alcune nuove divisioni che acquisiscono importanza e con qualche vecchia divisione che perde terreno. Quando in Belgio le élite firmarono il patto per la scuola, per esempio, essi avevano deciso di rinunciare alla battaglia sul fronte religioso. Questa decisione aprì la strada ad altri tipi di confronti, e la priorità fu data al problema linguistico. Tutti i Paesi europei hanno avuto a lungo divisioni orizzontali e verticali, anche se in proporzione variabile. All'interno di ciascuna nazione queste divisioni si intersecano in maniera tale da formare l'originalità di ogni singola nazione. Un Paese che avesse solo divisioni verticali perderebbe la sua
unità. Se un grande numero di divisioni orizzontali fossero sovrapposte senza controbilanciare le divisioni verticali, la società sperimenterebbe una conflittualità sociale. Il tessuto di una democrazia solida è formato dalla tessitura delle divisioni. La migliore ricerca di sociologia elettorale è centrata proprio su questi grappoli di divisioni. I conflitti orizzontali sono molto più facili da risolvere dei conflitti verticali. Molti fatti ed eventi politici - i risultati elettorali in particolare - possono essere spiegati da questa insufficiente capacità di risolvere i conflitti socioeconomici e i conflitti culturali. Per un lungo periodo, nella maggior parte dei Paesi, le divisioni orizzontali hanno predominato sulle divisioni orizzontali, ma oggi i due tipi di divisione sembrano aver trovato una sorta di equilibrio. Per quanto riguarda i problemi economici, sociali o finanziari, i compromessi sono possibili. Le decisioni possono essere buone o cattive: un elevato aumento dei salari può provocare uno squilibrio economico, così come una notevole riduzione dell'orario di lavoro. Le decisioni possono avere effetti fortunati o sfortunati. Ma in questa sede non ci interessano le conseguenze dei compromessi, ci interessano piuttosto le possibilità di negoziazione. Una particolare riforma economica o sociale può progredire o essere ritardata; un gruppo sociale particolare può o meno essere avvantaggiato, a
seconda del potere delle forze in campo, dalla strategia dei gruppi di pressione, dall'abilità dei loro leader e dal clima politico in quel momento; ma il dialogo è possibile e così un accordo, anche se il costo può essere elevato. Per contrasto, raggiungere un compromesso su problemi culturali è difficile e talvolta impossibile. Non si può chiedere ad un fiammingo di parlare francese per un periodo di tempo, o a un calvinista di essere un pò cattolico. La gente è Catalana o Basca più che Spagnola, Slovena o Croata più che Jugoslava. Se uno è nato in Toscana ha quattro secoli di anticlericalismo alle sue spalle, mentre in Veneto è più probabile che si abbiano punti di vista cattolici. E cosa si può dire dell'Ulster e di Cipro? Le due guerre mondiali avevano pretesti etnici: Sarajevo e Danzica. Nella storia della Francia del secolo scorso, i problemi che hanno causato le più profonde divisioni nell'opinione pubblica sono stati culturali: l'affare Dreyfus, che divise la nazione in due, o la separazione di Chiesa e Stato. In molti Paesi non c'è accordo sulla libertà di divorzio e di aborto. È vero che la recente storia linguistica e religiosa del Belgio non mostra altro che una serie di compromessi e di accordi. Il modo in cui sono stati formati e riformati i rapporti educativi, l'uso delle due lingue nell'amministrazione, il riconoscimento di certi diritti e lo spostamento dei confini liguistici sono stati risolti attraverso ne105
goziazioni. Non si tratta di un compromesso quanto di mutua tolleranza. Ma vi sono pochissime democrazie consociative nel mondo, e non è certo che il modello consociativo (belga, olandese, svizzero, austriaco, canadese) possa essere trapiantato nell'Europa Orientale. Non può esserci vera democrazia senza qualche intersercarsi di divisioni. In tempi normali, la configurazione di queste divisioni muta lentamente; in caso di crisi storiche, esse possono modificarsi sostanzialmente. Le divisioni sono state congelate per lunghi periodi solo in pochi Paesi. UN MODELLO FALLACE: LA CLASSE SOCIALE SUL PIEDISTALLO
Per un lungo periodo, due indicatori sociologici - la classe sociale e la fede religiosa - sono stati sufficienti per spiegare una parte significativa della variabilità elettorale. Il loro effetto cumulativo consentiva di spiegare in parte i risultati elettorali. Ma la relativa porzione di ciascun indicatore - classe e religione - non era lo stesso dappertutto. A questo proposito, i Paesi si suddividevano in due categorie: nella prima, di gran lunga la più numerosa, predominava il fattore religioso; nell'altra, confinata a un numero limitato, la classe sociale giocava un ruolo preminente. Negli studi elettorali la classe sociale veniva, per così dire, posta su un pie106
distallo. L'affermazione del ruolo eminente della classe sociale nel comportamento elettorale si può ritrovare in dozzine di libri sull'Europa Occidentale, in particolare, e abbastanza curiosamente, nel lavoro di studiosi americani. Ma questa rischiosa generalizzazione fu contestata daaltri studiosi (Dogan 1960, Rokkan 1969, Sartori 1969, Rose e Irwin 1969, Rose 1974, 1982; Rose and McAllister 1986; Franklin 1970; Lijphart 1968, 1973, 1976, Rogowski 1981; Lipset 1981, 1991; Inglehart 1990), su base comparativa, e da molti altri in relazione a singoli Paesi. È venuto il tempo di sbarazzarci di queste asserzioni, sostenute perfino da autori non-marxisti, e basate negli anni cinquanta e sessanta su alcuni Paesi dove la ricerca sulla sociologia elettorale era iniziata dopo la guerra: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi, tutti prevalentemente protestanti. In questi Paesi, durante gli anni cinquanta, la posizione dell'individuo nella struttura sociale e il livello del suo reddito condizionavano il voto più dell'affihiazione religiosa (protestante o cattolica) o della pratica religiosa. Una discussione sul caso americano ci porterebbe troppo lontani dall'obiettivo: sarà sufficiente ricordare il voto cattolico per il Partito Democratico, le frontiere mutevoli della stratificazione sociale, la bassa partecipazione elettorale degli strati sociali poveri, il voto etnico di questa società multiculturale.
Una citazione sarà sufficiente. Micheal Parenti, seguendo la distinzione fatta da Talcott Parsons tra sistemi culturali e sociali, insisteva sul fatto che "l'acculturazione spesso non veniva seguita da assimilazione culturale; il gruppo diventò americanizzato in molte delle sue pratiche, ma questo dice poco dei rapporti sociali con il Paese ospitante... La minoranza manteneva ancora una sottostruttura sociale che comprendeva rapporti di gruppo primari e secondari composti essenzialmente da persone della stessa etnia". Due decenni dopo, questa descrizione divenne adattabile a molte grandi periferie europee. Tra le democrazie pluraliste, gli Stati Uniti con il Canada e l'Irlanda sono Paesi in cui si può trovare il più basso grado di voto di classe. Il caso della Gran Bretagna merita una speciale attenzione. La letteratura sul comportamento elettorale dei britannici è vasta e include alcune sofisticate ricerche. La Gran Bretagna viene vista come un modello del voto di classe. È perciò un caso cruciale. Uno studioso si spinse a dire che: "la classe è la base della politica dei partiti britannici: tutto il resto è abbellimento e dettaglio" (Pulzer). Vediamo il risultato. R Rogowski, che ha fatto un'analisi secondaria della ricerca compiuta da Butier e Stokes, mostra che gli sforzi per costruire un migliore indicatore sociologico del- comportamento elettorale, attraverso un'analisi di regressione, e prendendo in considerazione
l'occupazione, l'istruzione, lo status sociale del padre, l'appartenenza sindacale, la condizione di proprietario di casa o affittuario, ecc., hanno prodotto risultati deludenti. Tutte queste misure della classe sociale potrebbero spiegare non più del 28% della variazione verificatasi nel 1963, in un momento in cui la classe sociale veniva ancora considerata di grande importanza. Se fossero state incluse le divisioni verticali nell'analisi, il risultato raggiunto sarebbe stato più soddisfacente. Le divisioni verticali e orizzontali sono come dei vasi interconnessi. Richard Rose detronizza senza pietà la classe sociale in Gran Bretagna: "il tipo ideale di classe non si adatta alla realtà della società britannica. Nel 1964 solo il 14% dell'elettorato era conforme al tipo ideale di operaio; la proporzione scese al 12% nel 1970 e al 4% nel 1979" (Rose, 1982, p. 150). Comunque le classi vengano identificate, "il voto della maggior parte dei votanti britannici non è determinato dalla posizione di classe" (Rose e McAllister, 1986, p.50). Qualunque sia la spiegazione per questi pochi Paesi, anche accettando l'ipotesi che durante gli anni cinquanta e sessanta la classe sociale in questi Paesi era il fattore di voto più significativo, le generalizzazioni dai Paesi scandinavi all'Europa nel suo insieme non resistono ai test empirici. Infatti, in dieci Paesi europei le divisioni verticali (l'affiliazione religiosa, la 107
profondità del credo religioso, la pratica religiosa, l'appartenenza etnica o linguistica, l'attaccamento alla religione) che nel linguaggio sociologico vengono chiamate caratteristiche ascrittive, per opposizione agli attributi acquisiti, si sono rivelate per decenni, e in particolare negli anni cinquanta e sessanta, più discriminanti delle divisioni orizzontali corrispondenti alle categorie socio-economiche. I dieci Paesi sono: Francia, Italia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Austria, Svizzera e Irlanda, seguiti da Spagna e Portogallo una volta diventate democrazie. Allargando le frontiere dell'Europa occidentale oggi potremmo includere Slo-
venia, Croazia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Lituania, Lettonia, Estonia, Bosnia Erzegovina e Cipro. In quasi tutti questi Paesi dell'Europa orientale le identità linguistiche, etniche e religiose sono oggi molto più profonde dell'identità di classe (vedi tavola 1). La classe sociale e la religione, una volta fattori eminenti per spiegare il comportamento elettorale, da qualche tempo hanno perso il loro valore di predizione, considerati singolarmente o congiuntamente. Questo indebolimento del modello può essere interpretato tramite i profondi cambiamenti che hanno attraversato la so-
Tavola i
Stratificazioni verticali (culturali) Forte
Debole
a)
(I)
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o
Germania Austria Belgio
Inghilterra Svezia Finlandia Danimarca Norvegia
Francia Italia Paesi Bassi Spagna Portogallo Svizzera Nord Ir an a Canada USA
Irlanda Grecia
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o
cietà e tramite un triplo declino: della classe sociale, della religione e del ruolo dei partiti politici. IL DECLINO DEL VOTO DI CLASSE
Il voto di classe ha subito un declino per diverse ragioni, tre delle quali sono particolarmente rilevanti: la riduzione delle dimensioni della classe operaia industriale, l'indebolimento della sua coesione intesa come coscienza di classe, l'ostilità di molti operai contro gli immigrati non europei. Nella società post-industriale, benché il numero degli operai abbia subito un declino, i partiti socialisti, che sono dappertutto (eccetto che in Irlanda), hanno continuato a prosperare. Una tale performance era possibile solo grazie al flusso delle classi medie nei ranghi del socialismo democratico. In altre parole, la diversificazione dell'elettorato socialista può essere meglio spiegata dalla crescita delle classi medie, piuttosto che dalla riduzione della classe operaia. Per dimostrare l'evoluzione nel voto di classe, diversi autori (Lipset, Dalton e altri) hanno aggiornato l'indice proposto da Robert Alford nel 1963 e lo hanno esteso agli anni ottanta. Dopo aver goduto di molto successo, questo indice - che consiste nella differenza tra la popolazione di operai che votano per la sinistra e la proporzione della altre categorie sociali che votano per essa - appare oggi di significato li-
mitato perché, nell'analisi longitudinale, si suppone che le proporzioni relative della classe media e della classe operaia non cambino. Ciò che chiaramente non si verifica. Semplici calcoli statistici dimostrano che differenti distribuzioni tra la classe media e la classe operaia nel 1960 e nel 1990 influenzano la tendenza di ciascuna classe a votare a sinistra e la composizione del voto socialista. Quali che siano le riserve che si possono avere sull'indice del voto di classe, nella forma aggiornata presentata dalla letteratura, i dati empirici disponibili dimostrano che il ruolo della classe sociale nello spiegare il comportamento di voto si è indebolito. In Francia, la proporzione degli operai dell'ihdustria nel corpo elettorale è passato dal 51% nel 1951 al 41% nel 1965, e di nuovo al 30% nel 1988. Fino a poco tempo fa, la Francia mostrava una grande varietà nella distribuzione geografica. Dati economici, religiosi e politici sonc disponibili per gli anni 1950-70 per 3000 unità amministrative, chiamate cantoni, che si prestano bene ad un'analisi di ecologia territoriale. Analisi aggregate e risultati di sondaggi mostrano che negli anni cinquanta c'erano correlazioni significative tra strati socio-economici e voto, ma erano nettamente inferiori alle correlazioni tra pratica religiosa e voto. L'indice del voto di classe si è ridotto considerevolmente durante il decennio gollista. In effetti, più di un terzo 109
dell'alta marea gollista nelle elezioni del 1962, 1965 e 1968 era composta da elettori della classe operaia, anche se in quel periodo i lavoratori dell'industria raggiungevano tra il 38% e il 41% della popolazione attiva (Dogan 1993). Nelle elezioni presidenziali del 1974 e nelle elezioni parlamentari del 1978 l'indice di classe, misurato in termini di destra-sinistra, cambiò molto poco, a causa del flusso di voti dalla piccola borghesia salariata verso il partito socialista e della riduzione di elettori operai che votavano per il partito Comunista. La differenza tra il voto operaio (65%) e quello dei maestri, dei tecnici e degli impiegati si assottigliò nelle elezioni del 1978, con la sinistra che otteneva tra queste categorie rispettivamente il 65%, 57% e 54% dei voti (Capdevielle etal., p. 312). L'elezione di un presidente socialista nel 1981 e la sua rielezione nel 1988, insieme alle elezioni parlamentari di quel periodo, completarono la conversione del partito socialista in partito della classe media e segnarono il rapido declino dell'influenza comunista sulla classe operaia. Il voto di classe registrò una nuova caduta: nel 1988 la differenza tra il voto operaio e il voto dei colletti bianchi per la sinistra tende a scomparire: rispettivamente il 68% e il 64% (SOFRES, 1988). Alle elezioni presidenziali del 1995 si verificò un evento raro nella storia dell'elezioni: un notevole numero di o110
perai votò per l'estrema destra (come durante la Repubblica di Weimar): secondo un exit poll, il 31% dei lavoratori dell'industria aveva votato per l'estrema destra. Il candidato comunista e un altro candidato dell'estrema sinistra avevano ottenuto insieme non più del 22%; il candidato socialista il 21%; e il candidato del centro-destra il 25%. In altre parole, più della metà degli elettori appartenenti alla classe operaia aveva optato per uno dei due estremi, mostrando la loro insoddisfazione dopo anni di governo socialista. La più alta percentuale di voti operai per l'estrema destra si ebbe in città o quartieri a forte immigrazione non europea. Si trattò di una reazione dovuta al contesto. In alcuni contesti sociali si è osservata una certa affinità tra sinistra ed estrema sinistra. Già nel 1993, la differenza tra il voto degli operai e della classe media per candidati socialisti e comunisti era molto scarsa. Nel 1995, l'indice del voto di classe è divenuto negativo. Più che di un declino si è trattato di una caduta. In Italia, negli anni cinquanta, la popolazione povera dedita all'agricoltura rappresentava un quinto dell'elettorato, che votava Partito Comunista in certe aree e Democrazia Cristiana in altre. Il numero dei braccianti gradualmente diminuì, così come quello dei fittavoli. Nello stesso periodo, aumentò il numero dei lavoratori dell'industria concentrati nelle periferie delle città del Centro e del Nord Italia.
Il territorio italiano presenta una marcata varietà regionale, sia dal punto di vista sociale che da quello politico, un fatto che si presta ad un'analisi sociologica di dati aggregati, congiuntamente con i dati raccolti per i sondaggi campione. Limitando l'analisi ai lavoratori dell'industria, si constata che negli anni cinquanta circa due terzi votavano comunista, socialista o socialdemocratico (nel 1958 le percentuali erano rispettivamente del 37%, 29% e 5%). La Democrazia Cristiana attirava un quarto del voto operaio (Dogan 1969). Questa divisione di classe è impressionante, ma non tanto quanto la divisione religiosa. Dal 1970 in poi i rapporti di forza tra i comunisti e i socialisti si modificò a favore dei primi, ma insieme i due partiti continuavano a ottenere la maggioranza dei voti operai. Nel frattempo, il Partito Socialista ha sempre di più attratto il sostegno delle classi medie. L'ascesa delle classi medie ha comportato, peraltro, una crescente eterogeneità dell'elettorato socialista durante gli anni cinquanta. Anche per gli altri partiti è successa la stessa cosa. All'inizio degli anni novanta, in un clima di profonda crisi e di deleggittimazione del regime, i vecchi partiti scomparvero, vi furono cambiamenti di dottrina e furono fondati nuovi partiti. Il collasso della partitocrazia portò ad un indebolimento dei legami tra strati sociali e partiti. "La classe sociale" ha perduto il suo significato nella realtà e nelle ideologie politiche.
Per quanto riguarda la Germania, sulla base di un'analisi di correlazione multipla, che include lo status sociale, la religione, la regione e l'ambiente urbano e rurale, nell'arco di cinque elezioni parlamentari tra il 1953 e il 1972, Baker, Dalton e Hildebrandt constatano un marcato declino durante i due passati decenni della capacità esplicativa di queste quattro dimensioni socioeconomiche. Essi spiegano questo declino con la prosperità economica. Come indicatori dello status sociale essi hanno considerato l'occupazione, il reddito e il livello d'istruzione. È il cambiamento della posizione sociale, molto di più delle altre variabili, in particolare la religione, che spiega il declino del voto di classe per il partito socialista. In un nuovo studio, questa volta per il periodo 1953-1983, R. Dalton aggiorna l'indice di Alford e mostra un marcato declino attraverso nove elezioni parlamentari: 30, 37, 28, 26, 12, 17, 16, 16, e 10 (Dalton 1984, p. 127). La classe sociale come fattore esplicativo crolla. La Svezia rappresenta un caso ideale per lo studio del voto di classe. È un modello di democrazia neo-corporativa, dove il Partito Socialdemocratico ha detenuto il potere per 44 anni fino al 1976 e poi l'ha riconquistato dopo un'interruzione di sei anni. In questo Paese, nel 1980, il settore pubblico impiegava un terzo della forza lavoro della nazione; lo sviluppo di servizi come quello sanitario, pensionistico, 111
dell'istruzione, dell'alloggio sociale, dell'assistenza alle famiglie, ecc., ne lasciava soltanto un terzo ai settori dell'industria, delle miniere e delle costruzioni. La parte di Pii, controllata (raccolta e redistribuita) dallo Stato e dai Comuni passò dal 30% nel 1960 al 70% nel 1983 (Sarlvick e Holmberg). L'indice di Alford è stato calcolato da un gruppo di specialisti svedesi per il periodo 1956-1982 attraverso nove elezioni parlamentari. Il suo declino è manifesto, malgrado qualche leggera fluttuazione dovuta alle performance dei partiti: 53, 55, 47, 42, 39, 44, 36, 38, 35 (Sundeberg e Berglund). Il declino è dovuto essenzialmente allo sviluppo delle classi medie salariate attratte dal Partito Socialdemocratico. Negli altri Paesi scandinavi, il voto di classe è ugualmente declinato per le stesse ragioni: la crescita del settore terziario e il sostegno al Partito Socialdemocratico apportato da una importante proporzione di impiegati. In Danimarca, l'indice del voto di classe si è ridotto della metà nell'arco di nove elezioni tra il 1947 e il 1979: 58, 56, 56, 53, 43, 27, 36, 43, 27. In Finlandia si è verificato un declino simile tra il 1957 e il 1984: 46, 54, 40, 32; e in Norvegia il declino è stato altrettanto netto nell'arco di sette elezioni tra il 1949 e il 1979: 49, 44, 44, 40, 36, 37, 29 (Sundberg e Berglund). Queste aride cifre esprimono il risultato di numerose analisi. Gli autori ammettono 112
la natura riduttiva della doppia dicotomia (destra-sinistra, operai-classe media) e il fatto che la struttura sociale sia cambiata durante il periodo preso in esame. Comunque, malgrado le critiche che possono essere portate contro questa dicotomizzazione, bisogna ammettere che per generalizzare è necessario semplificare. Non c'è altro modo per ridurre le montagne di statistiche elettorali a una qualche quintessenza comparativa. R. Rose e D. Urwin propongono di considerare come coerente un partito che ottenga i due terzi dei suoi elettori in una sola categoria sociale. In caso contrario, dovrebbe essere qualificato come "eterogeneo". Ma qui si tratta di un artificio statistico. Nel caso dei partiti socialisti, ad esempio, se consideriamo un lungo periodo, dall'inizio del secolo, si potrebbe formulare una sorta di legge sociologica: quando i partiti socialisti erano di piccole dimensioni essi erano a preponderanza operaia; quando sono diventati grandi partiti e talvolta maggioranza di governo essi si sono trasformati in partiti socialmente eterogenei. Il fenomeno era già visibile alla fine degli anni cinquanta: più è grande la forza dell'elettorato socialista, più è piccola la proporzione operaia del suo elettorato (Dogan, 1960, p. 41). Nelle attuali democrazie pluraliste non ci sono grandi partiti socialmente o religiosamente omogenei. Solo i piccoli partiti possono essere omogenei.
DECLINO DEL VOTO RELIGIOSO
L'influenza della religione sui comportamenti di voto s'è indebolita in tutte le democrazie europee, perché il credo e la pratica religiosa hanno subìto dovunque un declino. Non c'è bisogno di ritornare su questo declino; molti studi recenti ne indicano l'evidenza (Dogan, 1995). Il modo migliore per descrivere l'indebolimento dell'influenza religiosa è quella di analizzare il fenomeno là dove emerge con maggiore chiarezza, come tipo-ideale, e cioè nei Paesi Bassi, perché la storia religiosa di questo Paese dal 1917 ai nostri giorni è di fondamentale significato, pieno di insegnamenti per tutta l'Europa. La società olandese è stata a lungo divisa in segmenti impermeabili: cattolica, calvinista, protestante-riformista, liberale e agnostica. Decentralizzato, con molte grandi città, nessuna delle quali dominante, questo Paese assunse la forma di federazione di comunità e municipalità. Nel 1917, in piena guerra mondiale, i Paesi Bassi istituzionalizzano la rappresentanza proporzionale. La democrazia "consociativa" veniva instaurata attraverso il riconoscimento di "blocchi" o "pilastri". Sia le masse che le élite furono strutturate verticalmente. In questo tipo di società il voto di classe era rudimentale. La situazione iniziò a cambiare verso la metà degli anni sessanta, nello stesso momento in cui la democrazia conso-
ciativa raggiunge la sua maturità. La secolarizzazione stava causando il declino di tre partiti religiosi, i quali furono perciò costretti a sciogliersi e a fondersi in un unico Partito CristianoDemocratico, e che subirono una pesante sconfitta nelle elezioni del 1994. La proporzione di cittadini olandesi che hanno dichiarato di non appartenere ad alcuna confessione religiosa è cresciuta dal 24% nel 1958 al 42% nel 1975, al 54% nel 1987 e al 57% nel 1992 (Dekker, p. 6). Lidentificazione cattolica e protestante passa dal 75% nel 1958 al 38% nel 1992, mentre nello stesso periodo le altre ideologie (socialista, liberale, umanista, comunista e agnostica) fanno un salto dal 25% al 61% (Dekker, p. 5). Dal punto di vista religioso, i Paesi Bassi erano una volta il Paese pRi strutturato e rigido dell'Europa, ma oggi è con la Svezia - il meno religioso. In precedenza, la religione spiegava una parte considerevole delle variazioni elettorali. Ma non è la classe sociale che la sostituisce. Sono i problemi quotidiani che, oggigiorno, influenzano il comportamento elettorale. Il fatto che la coscienza di classe sia condizionata dal fattore religioso è particolarmente chiaro in Germania, dove il voto di classe è declinato anche a causa di migliori rapporti tra i protestanti e i cattolici e non solo per la diminuita distanza tra le classi. Una ricerca dettagliata mostra che è soprattutto la riluttanza degli elettori cattolici 113
a votare socialista che è diminuita. Per quanto riguarda la Germania, vanno considerati due criteri: l'affiliazione religiosa e il grado di religiosità. La popolazione cattolica ha sostenuto massicciamente e a lungo i! Partito Cristiano-Democratico (il 68% contro il 18% per il Partito Socialdemocratico nel 1953), mentre i protestanti si dividevano quasi ugualmente tra i due partiti (Linz, 1967, p. 301). Ulstituto di Statistica Tedesco ha analizzato i risultati delle elezioni secondo la proporzione di elettori cattolici e protestanti, a partire da circa 500 distretti elettorali sparsi per tutta la Germania Ovest. Queste analisi mostrano che il numero di voti a favore dell'uno o dell'altro dei due grandi partiti dipendeva molto dal numero di protestanti della località. Nel 1965, ad esempio, i voti protestanti per la CDu sono diminuiti dal 66% al 40% per gli uomini e dal 76% al 46% per le donne che avevano votato in seggi elettorali diversi (Statistische Jahrbuch, 1966, p. 145). Queste analisi non lasciano alcun dubbio sull'importanza preponderante dell'affiliazione religiosa nel 1950 e 1960, ma il legame tra la CDU e il cattolicesimo si è progressivamente affievolito, parallelamente al declino dell'attaccamento religioso. Nel 1957, la distanza tra la percentuale di voti cattolici per la CDU e quelli per l'SPD era di 43 punti. Nel 1992, 35 anni dopo, era solo del 18%: rispettivamente il 47% e il 29% (Noelle-Neumann and Kocher, p. 716). 114
Per la Germania, disponiamo di una ricca documentazione sulle variazioni di voto in relazione al credo e alla pratica religiosa in un arco di più di quarant'anni. Essa mostra un graduale allontanamento dalla Chiesa durante questi decenni. Mentre trent'anni fa i due criteri religiosi - l'affihiazione religiosa e la pratica religiosa - spiegavano congiuntamente una parte significativa del comportamento di voto, oggi essi contribuiscono molto poco alla spiegazione, peraltro solo per gli elettori anziani. In Italia, numerose ricerche effettuate dall'Istituto Doxa tra il 1953 e il 1963 hanno indicato che due terzi degli italiani sentivano una radicale incompatibilità tra cattolicesimo e comunismo. Erano convinti che non si potesse essere allo stesso tempo un "buon cattolico" e un "buon comunista". Le stesse ricerche indicavano che quasi la metà dgli italiani pensava che vi fosse anche incompatibilità tra cattolicesimo e socialismo, all'epoca ancora d'ispirazione marxista. Negli anni sessanta, una larga maggioranza era ostile a qualsiasi alleanza tra il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana, adducendo il motivo che c'era contraddizione tra la dottrina socialista e i valori cattolici. Solo in seguito, durante il dibattito sulla legalizzazione dell'aborto, la resistenza verso questa alleanza si attenuò più tra gli uomini che tra le donne. Il principale motivo di voto era l'at-
taccamento alle tradizioni cattoliche (Dogan, 1962). Gradualmente, però, l'influenza della Chiesa diminuì, in parte a causa della reticenza della stessa Chiesa. Nelle elezioni degli anni ottanta, il fattore religioso non spiegava che una parte ridotta della variabilità elettorale. Le scelte di voto cominciarono a razionalizzarsi su problemi specifici quali: l'inflazione, l'inefficienza della pubblica amministrazione, l'assenza di fiducia nella classe politica al potere, la corruzione, gli scandali, la sfiducia nei partiti tradizionali. Alle elezioni del 1993, l'argomento religioso era assente. La maggioranza dell'elettorato italiano è oggi "deconfessionalizzato In Francia, nel 1946, un referendum aveva rifiutato il progetto di una nuova costituzione perché nel preambolo era assente "un riferimento a Dio". Un altro progetto di Costituzione, comprendente un tale riferimento fu adottato alcuni mesi dopo, sempre attraverso un referendum. Trentacinque anni dopo, nel 1981, quasi due terzi della popolazione francese sotto i 55 anni (e il 42% di quelli sopra i 55) "non trovavano conforto né sostegno nella religione". Lo scarto tra i cattolici praticanti e cattolici non praticanti di destra e di sinistra è rimasto pressapoco lo stesso dal 1968 al 1995, ma nel frattempo il numero di non praticanti si è raddoppiato, cosicché l'impatto della religione sul voto si è considerevolmente ridotto nell'insieme
del Paese (si veda la ricerca CNRS del 1969 e ricerca dell'Istituto BvA - Le Monde, 5 aprile 1995). È significativo che il tema religioso sia scomparso dai manifesti elettorali degli ultimi vent'anni, con l'unica eccezione del problema delle sovvenzioni alle scuole private cattoliche. Alle elezioni presidenziali del 1995 la "classe" sparisce: gli indicatori religiosi (praticanti regolari od occasionali) erano statisticamente tre volte più significativi degli indicatori di classe: per i lavoratori manuali 14 punti percentuali di differenza tra le percentuali dei candidati di sinistra e di destra, contro i 36 punti percentuali di differenza, nell'opposta direzione, tra i praticanti (cf. ricerca Sofres). In Spagna, la proporzione dei praticanti è diminuita dal 56% al 31% tra il 1976 e il 1983 (Orizo, 1983, p. 177). Le credenze religiose sono dimunite ancora più rapidamente tra il 1969 e il 1984 (Diaz, p. 578). Tradizionalmente, si sono verificate tre divisioni tra il popolo spagnolo: il regionalismo, la religione e la classe sociale. Attualmente, le divisioni possono essere classificate in ordine decrescente di significato, con il regionalismo al primo posto e la classe all'ultimo (McDonough and Lopez Pina, p. 391). Il voto massiccio a favore del Partito Socialista testimonia quanto sia diventata debole l'influenza religiosa (benché questo non significhi necessariamente un rafforzamento del voto di classe).
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L'identificazione regionale sembra oggi giocare un ruolo almeno altrettanto importante della religione e della classe sociale. in Portogallo, negli anni settanta, la predominanza del fattore religioso su quello socio-economico emerge chiaramente da un'analisi sociologica condotta nelle dieci provincie del nord, dove la pratica religiosa varia dal 24% al 63% della popolazione, e nelle dieci provincie del sud dove la variazione è più limitata e va dal 2% al 11% (Nataf). Si è constatata una stretta correlazione tra la pratica religiosa e il voto religioso alle elezioni del 1976, 1979 e 1980, e un'assenza completa di qualsiasi legame significativo tra la proporzione dei lavoratori dell'industria e il voto di sinistra (socialista, socialdemocratico e comunista). Nelle aree rurali, tuttavia, si osserva una differenza notevole di comportamento politico tra i piccoli proprietari e gli operai agricoli, anche se essa in realtà rivela una differenza nella pratica religiosa tra le due categorie della popolazione agricola. L'influenza religiosa sul voto ha subìto un progressivo declino (World Value Studies, 1981 e 1991).. Si potrebbe concepire un indice del voto religioso analogo a quello del voto di classe, deducendone la proporzione dei non praticanti (o dei non credenti) votanti per la destra, dalla proporzione dei praticanti (o dei credenti) votanti per la stessa destra. Il calcolo sarebbe possibile per il periodo 116
recente, poiché la proporzione degli elettori non praticanti o non credenti è sufficientemente elevata. Ma la comparazione internazionale avrebbe una portata limitata, perché la pratica religiosa non ha lo stesso significato per cattolici e protestanti. Inoltre, l'analisi longitudinale sarebbe impossibile a causa della mancanza di statistiche sulla pratica religiosa per le generazioni precedenti. Poichè, inoltre, la credenza religiosa è una questione di grado e di sfumatura, la dicotomizzazione sarebbe troppo riduttiva. Il declino del voto religioso deve, dunque, essere osservato tramite approcci multipli adattati ad ogni singolo Paese. La sola divisione persistente per l'intero periodo è la divisione lingùistica. La mappa linguistica dell'Europa degli anni novanta riflette la mappa del 1900, a dispetto di un'aumentata mobilità geografica. Ma questa persistenza non trova la sua principale spiegazione nelle radici storiche, quanto piuttosto nelle limitazioni neuropsicologiche all'apprendimento di nuove lingue dopo la pubertà. La lingua e il territorio sono le variabili più intime delle divisioni elettorali in Belgio, Svizzera, Spagna, Canada, ex-Jugoslavia, molti Paesi dell'Europa orientale e l'ex Unione Sovietica. IL DECLINO DEL VOTO DEI PARTITI
I partiti politici oggi non giocano più, nel funzionamento della democrazia,
il ruolo che essi detenevano negli anni cinquanta e sessanta. Dopo "La fine delle ideologie (D. BelI, 1960) si è registrata la comparsa dei "partiti acchiappatutto" (Kirchheimer, 1966), 1 indebolimento dell identificazione partigiana" (Crewe, 1976), la "volatilità dei partiti" (Pedersen, 1978), la loro "depolarizzazione" (Dalton et al., 1984; Alt, 1984), il ruolo degli "elettori razionali" (Himmelveit, 1984), i "valori post-materialisti" (Inglehart, 1984), "l'instabilità del comportamento elettorale" (Grunberg, 1984), la "liberalizzazione del socialismo" (Lipset, 1991), l'attenzione data ai problemi a detrimento delle etichette di partito. Ricerche hanno mostrato che c'è stata una riduzione significativa dello spazio ideologico negli ultimi decenni. Supponendo che la distanza tra i due estremi - destra e sinistra - fosse di un metro nel 1960, oggi non sarebbe che di qualche decimetro, in particolare in quei Paesi che hanno sperimentato un'estrema polarizzazione negli anni cinquanta. In Italia, il Partito Comunista e i neo-fascisti hanno cambiato la loro dottrina e perfino il loro nome. In Francia, si constata una grande reticenza verso le vecchie ideologie, ora rimpiazzate da temi più concreti. La maggioranza della popolazione nella maggior parte dei Paesi europei si colloca al centro della scala destra-sinistra. In uno studio dettagliato sul
periodo 1978-1994, E. Noelle-Neumann ha mostrato la dominazione del centro a detrimento degli estremi (Noelle-Neumann, 1994). Lo stesso movimento verso il centro e il declino della polarizzazione emergono in un'analisi su nove Paesi condotta negli anni sessanta (Sani e Sartori, 1985). L'attrazione esercitata dal centro è apparsa chiara nelle elezioni francesi. Più recentemente, la sinistra ha accettato il liberalismo economico, e la destra la solidarietà sociale. Il percorso seguito dai socialisti o dai partiti laburisti è al riguardo significativo. In Germania, il Partito Socialdemocratico ha rinunciato all'ideologia marxista nel congresso di Bad Godesberg del 1959. Quando il Partito Socialista Francese arrivò al potere nel 1981, il suo programma includeva la nazionalizzazione dei settori principali dell'economia. Ma dopo due anni di esperienza di governo ha virato verso il liberalismo e per dieci anni ha praticato una politica contraria al suo programma originale. Nel 1995, il Partito Laburista inglese a sua volta ha rinunciato alla vecchia ideologia e ridotto il peso dei sindacati all'interno del partito, che ora rappresenta anche i valori della classe media. S.M. Lipset ha tracciato il percorso di questo spostamento dei socialisti verso la destra e verso il liberalismo in un gran numero di Paesi. (Lipset, 1991). La depolarizzazione è solo uno degli aspetti del declino dell'identificazione 117
con un partito. La volatilità elettorale è un'altra. In Francia, un mese prima delle elezioni presidenziali del 1995 la metà dell'elettorato era ancora indeciso. Un cittadino su tre ha scelto solo quindici giorni prima dell'elezione (vari sondaggi in marzo, aprile e maggio del 1995). La stessa volatilità è stata notata nel Regno Unito: alle elezioni del 1980 molti elettori aspettarono fino all'ultimo minuto per scegliere (Alt, 1984, p. 302). Questa esitazione è una prova di disponibilità, del declino delle dottrine e della priorità data da molti elettori ai temi politici piuttosto che alle etichette di partito. Una ricerca effettuata in Francia poco dopo le elezioni presidenziali del 1995 aveva mostrato che la maggioranza degli elettori aveva opinioni ferme su diversi problemi prioritari come disoccupazione, istruzione, corruzione, riforme istituzionali, ecc. (Le Monde, 11 maggio 1995, p. 9), e che almeno un terzo del popolo francese era indifferente alle dottrine politiche e alle etichette. Un tema - l'immigrazione non europea - spiega il successo de! Front National in queste elezioni. Votare per questo partito rappresentava un gesto ideologico solo per una minoranza di quelli che lo avevano fatto. Per la maggior parte aveva il significato di una reazione ai problemi pratici della vita quotidiana in aeree a forte immigrazione. Già alle elezioni europee del 1989, l'insicurezza e il problema dell'immi118
grazione erano stati le due principali motivazioni di voto per l'estrema destra nei quartieri operai. Il numero decrescente dei militanti di partito, le difficoltà incontrate dai giornali di partito e i cambiamenti del vocabolario politico sono i sintomi del ruolo declinante dei partiti nella vita politica. Un altro aspetto è la scomparsa dei partiti di integrazione in opposizione ai "partiti di rappresentazione" (con l'eccezione dei piccoli partiti estremistici). Molti lavoratori che a lungo hanno votato per la sinistra socialista, per il «partito della classe operaia hanno cambiato idea negli anni recenti, pensando che i liberali e i conservatori hanno migliori possibilità di ricostruire la prosperità economica. L'INCONGRUENZA DELLO STATUS E LE NUOVE DIVISIONI
Come spiegare che il ruolo della classe sociale nelle divisioni elettorali è diminuito a dispetto del persistere delle disuguaglianze sociali? E perché l'identità di classe si indebolisce mentre la percezione delle disuguaglianze è più diffusa? Una delle cause principali di questa situazione paradossale potrebbe essere il massiccio aumento di casi di ccincongruenza di status". Questo concetto fu formulato da Gerhard Lenski negli anni cinquanta, ma subito dopo fu quasi dimenticato, oscurato dall'allora dominante concetto di "1 sociale". Perfino i più completi libri sul-
la mobilità sociale, come Class, Conflict e Mobility di Lopreato e Hazelrigg, non hanno fatto riferimento che in maniera vaga al concetto di incongruenza dello status. Questa può emergere da uno scarto tra il livello di reddito e il livello di istruzione, dalla mobilità sociale verticale, dalla perdità di posizione nella gerarchia, e da altre dozzine di incongruenze tra una buona posizione sociale in un campo e uno status relativamente inferiore in un'altra dimensione. Lincongruenza di status nell'Europa occidentale oggi si può probabilmente osservare dieci volte di più che all'inizio degli anni cinquanta. Questo aumento emerge dai risultati di censimenti incrociando i dati di vari indicatori come l'istruzione, il reddito, la posizione gerarchica, la qualifica, l'origine sociale, l'origine etnica e così via. C'è anche una relazione logica tra la diffusione delle incongruenze di status e l'indebolimento della coscienza di classe. L'aver trascurato il concetto di incongruenza dello status nello studio delle divisioni elettorali durante gli ultimi due o tre decenni può essere uno dei motivi per cui spesso la variabilità elettorale viene spiegata soio in minima parte. Questo oblio è stupefacente se ci si ricorda dello studio pioneristico di Berelson, Lazarsfeld e McPhee (1954) in termini di pressioni incrociate. L'incongruenza dello status è diventato un aspetto essenziale del processo di stratificazione sociale nelle società
post-industriali complesse. Esso trae origine dalla crescita delle classi medie e dal declino della classe contadina e da quella operaia. La mobilità verticale è un'altrettanto importante sorgente di discrepanza di status. Molti studi avevano posto l'attenzione sulla mobilità verso l'alto, in particolare durante il periodo di sviluppo economico del dopoguerra: "il processo di mobilità sociale è diventato largamente diffuso parallelamente all'avanzare del ventesimo secolo, in larga parte come risultato dello sviluppo economico che ha prodotto una differenziazione occupazionale" (Turner, p. 19). Ma nel periodo più recente, la mobilità verso il basso è diventata ugualmente importante. Oggi, la mobilità sociale consiste principalmente in ciò che, quarant'anni fa, Lipset e Zetterberg hanno chiamato i interscambio dei ranghi": "per ogni movimento verso l'alto deve essercene uno verso il basso" (p. 65). Quella che era un'ipotesi oggi è empiricamente confermata: "una certa proporzione dei figli della classe media... rientrano nello status socio-economico... alcuni non hanno le capacità per completare gli studi superiori e di farsi strada nella gerarchia burocratica, e vengono messi in disparte... Qualunque sia il motivo per cui alcuni appartenenti alla classe media si muovano verso il basso, essi lasciano spazio ad altri appartenenti alla classe inferiore" (p. 570). Oggi, milioni di europei nati e appartenenti alle classi (C
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medie si trovano in questa situazione incongruente. Il movimento verso il basso può essere intragenerazionale o intergenerazionale. Un'altra causa dell'incongruenza di status è il venir meno dei gruppi sociali primari, in particolare delle comunità religiose e dei legami di famiglia. Come già notato, la religione conta sempre meno nelle scelte elettorali. La promozione individuale attraverso l'istruzione sfugge sempre più al background familiare. L'incongruenza dello status è la fonte privilegiata per tendenze individualistiche. Il concetto di cristallizzazione debole o forte dello status sembra, inoltre, utile per capire i comportamenti elettorali. Questo concetto si riferisce al grado di incongruenza o coerenza del rango di una persona secondo differenti criteri. Una cristallizzazione forte dello status significa che una persona viene classificata coerentemente secondo tutti i criteri importanti, sia nella posizione alta che in quella bassa. Negli anni novanta, gran parte della popolazione, inclusi i giovani e i pensionati, sembrano trovarsi in una situazione di cristallizzazione debole dello status. Una classe sociale forte può esistere solo se la maggioranza della popolazione sperimenta una forte cristallizzazione dello status. Nell'Europa occidentale odierna il caso più ovvio di incongruenza dello status è quello della categoria degli insegnanti di scuola, che oggi sono più 120
numerosi, in proporzione, dei lavoratori nell'industria pesante di quattro decenni fa. Nella maggioranza dei casi c'è un forte scarto tra il livello di istruzione degli insegnanti e il loro ruolo nella società e il livello del loro reddito. L'orientamento a sinistra della maggioranza di loro in molti Paesi può essere meglio spiegato in termini di status, piuttosto che in termini di classe. Un altro caso è quello dei giovani con "un diploma in tasca" che non trovano un lavoro coerente con le loro aspirazioni. In molti Paesi dell'Europa occidentale e negli Stati Uniti c'è, negli anni novanta, una sovrabbondanza di giovani diplomati per i quali la nostra società altamente tecnologica non offre sufficienti posti di lavoro - essendo quelli esistenti protetti dai sindacati per gli attuali lavoratori. In molti Paesi, due terzi della popolazione all'età di 18 anni è ancora a scuola. La società post-industriale avanzata, in cerca di produttività, sostituisce le persone con le macchine, producendo un nuovo tipo di proletariato istruito, nato nella classe media. Nell'ultimo decennio, tranne che in Germania, un giovane al di sotto dei 25 anni su quattro è disoccupato. Quelli che accettano un lavoro al di sotto delle loro capacità, un "lavoro degradato", rappresentano uno dei casi più interessanti di incongruenza di status. Tra le minoranze etniche e razziali si possono trovare frequenti casi di in-
coerenza di status, in particolare in Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera e Austria, così come negli Stati Uniti. Gli immigrati di origine europea vengono integrati e assimilati nell'arco di una generazione, e il migliore esempio sono gli Otto milioni di cittadini francesi di origine italiana, spagnola, portoghese, polacca o armena. I figli di questi immigrati, di solito, non si trovano in una posizione di incongruenza di status. Quando la religione viene associata all'etnia e alla lingua, qual è il caso degli immigrati provenienti dalla fascia meridionale del Mediterraneo, il processo di integrazione impiega due generazioni, e la generazione più giovane sperimenta spesso un'incongruenza di status. Quando si aggiunge il colore della pelle, le difficoltà di integrazione si aggravano. Molti immigrati dell'Asia meridionale o dell'Africa Nera si sentono esclusi dalla società ospitante. Il loro principale sentimento è di esclusione e non di incongruenza di status. Sociologi e storici, tra di essi anche W. Sombart e S. M. Lipset, si sono chiesti il perché della mancanza di un partito socialista negli Stati Uniti. Tra i fattori enunciati vi sono le continue ondate di immigrazione che iniziarono dal gradino più basso della piramide sociale. Senza esserne pienamente cosciente, la società americana è stata a lungo sostenitrice della schiavitù della popolazione nera. In una società caratteriz-
zata da un'immigrazione permanente, con un sistema di voto maggioritario, non c'era spazio per un "partito della classe operaia". Da quando negli anni sessanta le minoranze etniche hanno ottenuto accesso al forum politico, e si sono avute nuove ondate di immigrazione, si sta verificando un fenomeno notevole che sta trasformando progressivamente e profondamente la società americana: il multiculturalismo. Già nel 1971, nell'introduzione ad un libro sui conflitti razziali, Gary Marx aveva scritto: "Quasi dovunque si guardi, la razza interferisce con la coscienza americana" (p. 1). Il multiculturalismo è una nuova causa di incongruenza di status. In tale società, divisa verticalmente per caratteristiche razziali ed etniche, uno dei due partiti è diventato il partito di tutte le minoranze verticali. UEuropa occidentale non è ancora arrivata ad una tale configurazione di partiti. Il multiculturalismo, in particolare negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e in Belgio genera una società dove i conflitti di status possono predominare sui conflitti tra le classi sociali. Se questa ipotesi viene confermata, la società occidentale post-industriale rimarrà una società con profonde divisioni verticali che, invece di essere essenzialmente religiose, saranno principalmente etniche. Il mutamento di natura delle divisioni verticali rappresenta una delle trasformazioni più significative alla fine di questo secolo. 121
INDIVIDUALIZZAZIONE DEL VOTO
Il concetto di classe sociale ha a lungo mantenuto una posizione centrale nella sociologia. È stato evidenziato in molte teorie e ideologie, fino al punto da trascurare le stratificazioni religiose, etniche, linguistiche e culturali. Ad ogni modo, se i movimenti di sinistra, in particolare il socialismo, hanno soltanto di recente saputo attrarre una maggioranza di elettori, la principale ragione di questo ritardo è dovuta alla resistenza della religione organizzata. Da questo punto di vista, Karl Marx ha correttamente diagnosticato la "falsa coscienza" degli "elettori confessionali", "manipolati" dalla "classe dirigente". Diverse generazioni di marxisti hanno in effetti percepito 1 ostacolo ma non l'hanno analizzato sociologicamente. Il compito di dimostrare come, durante i decenni, la religione ha giocato un ruolo di barriera contro la "classe", fu lasciata alla sociologia elettorale, specialmente a quei sociologi che hanno adottato la nozione di divisioni incrociate. Dozzine di libri e articoli hanno sostenuto la tesi della predominanza della classe sociale nel comportamento elettorale, in particolare e curiosamente, autori americani non marxisti. Come abbia potuto essere disseminata una così fragile generalizzazione nei manuali, come abbia potuto sopravvivere così a lungo e sfuggire all'occhio critico di tantissimi eminenti sociologi è una questione a cui 122
non tenteremo di rispondere in questa sede. Sembrerebbe che coloro che tra noi sociologi non hanno percepito chiaramente il fattore controbilanciante la "classe", durante l'acceso dibattito ideologico degli anni della guerra fredda, hanno fallito nella missione professionale di apportare un utile contributo chiarificatore al dibattito. Una spiegazione possibile è che una grande parte degli studi di sociologia elettorale in Europa non venivano pubblicati in inglese e, di conseguenza, erano ignorati dagli specialisti americani, i quali facevano generalizzazioni dai lavori pubblicati in inglese. In realtà, come è stato dimostrato empiricamente, è stata la religione e tutto ciò che da essa consegue in termini di variabili ascrittive, che ha predominato nel comportamento elettorale, e non la classe sociale. Solo in alcuni Paesi, su venti democrazie competitive, la classe sociale è apparsa più influente della religione. Ma perfino in questi pochi Paesi la classe sociale è stata controbilanciata da fattori culturali o regionali, come lo status di minoranza cattolica in Gran Bretagna o la "periferia" in Norvegia. Perfino in questi pochi Paesi, la classe sociale è declinata come fattore esplicativo nei modelli elettorali durante gli ultimi decenni. Più indietro si va verso gli anni cinquanta, più importanti diventano la religione, l'etnia e la comunità regionale. Paradossalmente, le divisioni culturali verticali erano più forti durante il grande dibat-
tito ideologico in Europa tra il 1945 e il 1975. I Paesi per i quali le classi sono ancora oggi la spiegazione principale sono anche le nazioni dove le divisioni verticali erano meno importanti nel passato, e viceversa. Un'altra possibile spiegazione del declino della classe nel comportamento elettorale, a dispetto della persistenza di disuguaglianze sociali, si può trovare nel cambiamento - come abbiamo già accennato - della composizione etnica degli strati pii bassi della classe operaia. In tutta l'Europa occidentale, gli strati pii bassi dell'industria e dei servizi sono stati disertati dai lavoratori indigeni, che sono stati sostituiti dagli immigrati non europei. Oggi, una parte significativa della classe operaia è composta da immigranti noneuropei che non hanno il diritto di voto. In molti Paesi, la solidarietà di classe viene continuamente erosa. Alcuni lavoratori, che si concepiscono come appartenenti alla "buona razza" e che sono circondati da immigrati non-europei nel posto di lavoro o nei luoghi dove abitano, protestano contro i partiti percepiti come responsabili dell'immigrazione votando per i partiti dell'estrema destra. Questo fenomeno può apparire a livello elettorale solo nei sistemi pultipartitici, come in Francia o in Austria. Non è visibile in un sistema bipartitico, come quello britannico o americano. Qui vediamo come i metodi elettorali stiano condizionando le divisioni eletto-
rali contemporanee, come già negli anni venti e trenta. La presenza di minoranze etniche non europee indebolisce la solidarietà della classe operaia. Esagerando un po' si potrebbe dire che, in diversi Paesi, l'immigrazione rafforza i partiti di destra riducendo il potenziale del socialismo democratico. Questa divisione etnica è nuova. Non esisteva trent'anni fa, ed è improbabile che scompaia presto. Il declino del voto di classe emerge anche dall'individualizzazione del comportamento elettorale. Dovunque in Europa, la maggioranza degli elettori è stata a lungo influenzata e qualche volta condizionata dall'attaccamento ad una particolare religione, dalla posizione socio-economica e dalla percezione di essa, dalla comunità etnica, regionale e linguistica di appartenenza. Ma oggi pRi che nel passato, con lo sviluppo dell'istruzione e dei media, sempre pii elettori si comportano come individui liberi piuttosto che come membri di un gruppo o di una comunità. Questa emancipazione degli elettori come individui riflette il generale fenomeno dell'individualismo osservato da teorici come Elias, Giddens, Luhmann, Inglehart o Therborn. Il titolo di un libro recente esprime sinteticamente questo processo di liberalizzazione dell'individuo: The individualizing society di Ester, Halman e de Moor. La volatilità elettorale e il distacco dai 123
partiti, analizzato da diversi autori, deriva dalla individualizzazione del voto, che a sua volta è il risultato di un declino parallelo dell'influenza religiosa, della diversificazione sociale, dell'innalzamento dei livelli culturali, del declino in dimensione e dei cambiamenti nella composizione della classe operaia, del declino delle popolazioni rurali tradizionali, dell'omogeneizzazione del territorio nazionale attraverso lo sviluppo delle comunicazioni e di molti altri fattori. In breve, la crescente individualizzazione del comportamento di voto è il risultato del declino parallelo del voto
di classe, del voto di religione e anche del declino delle ideologie, con tutti i vantaggi e i rischi che questa indipendenza comporta. Il declino del voto di classe nelle democrazie occidentali ha preceduto l'implosione dell'Unione Sovietica ed ha rappresentato una delle più grandi delusioni delle ideologie marxiste. La sociologia elettorale deve adesso costruire nuovi concetti e teorie più raffinate del concetto di classe, per capire il rapporto tra le nuove disuguaglianze e i nuovi comportamenti.
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La fine della politica e dello Stato Elettori e lobbies
di Jonathan Rauch
Molti americani, e in particolare gli elettori della destra, sperano di riuscire a modificare le dimensioni e le competenze del governo federale. Forse è giunto per loro il momento di rinunciare. Potrebbe essere un esempio di rinuncia intelligente. Nel 1996, quando i Democratici presentarono il loro nuovo programma politico Families First, il senso profondo del programma si leggeva tra le righe: una sorta di riconoscimento della marginalità del ruolo ricoperto oggi dalla politica. I Democratici si accontentavano di un programma finalizzato a prevenire le gravidanze tra le minorenni e a penalizzare le aziende che saccheggiano i fondi pensionistici, garantendo agevolazioni fiscali per gli studenti universitari e altre misure minori. "Il programma è volutamente di portata ridotta", dichiarò ai giornalisti il leader della minoranza al Senato, Thomas A. Daschie (Democratico, South Dakota). "Vogliamo che sia una cosa che gli elettori siano in grado di capire, e che ritengano attuabile". Altro che rivoluzione. © The NationalJournaL
Qualcuno ricorda il Presidente della Camera Newt Gingrich (Repubblicano, Georgia). Quando Gingrich salì sulla poltrona di Presidente, dopo le elezioni del 1994, portò con sé grandi e forse eccessive aspettative. "Quello che potrò fare tra ora e Pasqua è superare il punto morto in cui ci troviamo a Washington, restituire i poteri ai 50 Stati, indebolire tutte le organizzazioni progressiste (liberai) nazionali", dichiarò al Washington Times in quel periodo. Due anni prima, il Presidente Clinton si era presentato con un programma di portata altrettanto vasta che riguardava il servizio militare, la formazione professionale, le infrastrutture pubbliche e l'assistenza sanitaria. Nel 1996 Gingrich non si sente più, e Clinton si è ridotto a proclamare che l'era del grande' ruolo dello Stato è finita. Entrambi si sono imbarcati in ambiziosi progetti di riforma. Entrambi hanno visto i propri progetti non solo sconfitti, ma annientati. Inoltre, gli americani continuano a nutrire una profonda insoddisfazione nei confronti dello Stato. 127
IL GRANDE INTERROGATIVO È RISOLTO?
Nell'estate del 1989, Francis Fukuyama, uno sconosciuto funzionario del Dipartimento di Stato proclamò, in un'intervista rilasciata alla rivista The National Interest, la "fine della storia". Egli non intendeva dire che non sarebbero più accaduti eventi significativi, ma che la battaglia ideologica su come amministrare al meglio una società umana era finita. "Il completo esaurimento di alternative concrete e realizzabili al liberalismo Occidentale", disse Fukuyama, aveva portato "all'universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma definitiva di governo per gli uomini". Per sapere in quale modo saranno organizzate le società vincenti del futuro è sufficiente guardarsi intorno. E le cose stanno effettivamente così. Naturalmente, ci saranno molte variazioni su1 tema, molte battaglie e molti cambiamenti. Ma il grande interrogativo, l'interrogativo che faceva la storia, è risolto. Quello che Fukuyama disse della storia potrebbe oggi essere vero per il governo centrale americano. Questo non vuol dire che Washington non cambierà, a volte in maniera sofferta, e non dovrà affrontare scelte reali tra politiche radicalmente diverse tra loro. Ma se si desidera sapere, in sostanza, che aspetto avrà lo Stato americano tra alcuni decenni, ebbene, è sufficiente guardarsi attorno. Dopo avere 128
attraversato una fase minimalista nei suoi primi 150 anni e una fase espansiva durante i successivi 50, Washington è già diventata quello che sarà nel futuro: una grande, incoerente e spesso incomprensibile massa di uomini e potere, sollecita verso i propri clienti ma refrattaria a qualsiasi ampio e coerente progetto di riforma. E questa tendenza non sembra che possa essere invertita. E allora? Qualcuno si aspetta ancora grandi cambiamenti? In realtà, sì, il programma di Hillary Rodham Clinton nel settore dell'assistenza sanitaria avrebbe comportato una vasta, impegnativa e forse eccessiva espansione delle competenze governative. Niente da fare, purtroppo, signora Clinton. Quando suo marito intonò un requiem per i era ciei granae ruoio ae lo Stato", egli intendeva non la fine del grande ruolo dello Stato in quanto tale, ma la fine delle speranze dei progressisti americani in un settore pubblico che avesse ambizioni e capacità crescenti di realizzarle. I,
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Oggi, stranamente, è la destra più che la sinistra ad aggrapparsi alle concezioni utopistiche di trasformazione dello Stato. L'America è ricca di concezioni cbnservatrici: è sufficiente sintonizzarsi su un qualunque talk-show radiofonico per averne la prova: si ascolteranno continui attacchi al Governo e richieste di un drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato.
Non deve, quindi, sorprendere che alcuni esponenti di questa concezione siano stati eletti al Congresso nel 1994. La retorica conservatrice moderna si basa su un presupposto fondamentale: lo Stato dovrebbe essere alleggerito di molte delle sue attuali funzioni. David Frum, un influente scrittore conservatore e autore del libro What's Right. The New Conservative Majority and the Remaking of America (Basic Books Inc.), ritiene che lo Stato dovrebbe ridursi a tre quinti delle sue attuali dimensioni, anche se al tempo stesso l'autore riconosce che cambiamenti di questa portata sono improbabili. Altri sono più ottimisti. "Ritengo che potremo dimezzare il peso dello Stato nell'arco di una generazione, 25 anni", ha dichiarato Grover G. Norquist, un attivista conservatore alla guida dell'associazione Americans for Tax Reform (Norquist è anche un alleato di Gingrich). "La classe di età che crede dogmaticamente in un ruolo forte dello Stato si sta estinguendo al ritmo di due milioni di persone lanno Ed ecco, invece, farsi strada una concezione opposta: i conservatori che attendono lungo il fiume il passaggio di uno Stato ridimensionato dovranno dimenticarsene e rinunciare. I contribuenti non consentiranno al Governo di fare più di quello che fa attualmente, ma i clienti dello Stato non gli consentiranno di fare molto di meno.
Se davvero è arrivata la fine del ruolo centrale dello Stato, questo non vuol dire che le riforme non potranno mai avere luogo. Tutt'altro. Significa che le riforme saranno graduali e di piccola portata, che saranno trainate da costanti ridimensionamenti delle risorse piuttosto che da una filosofia coerente, e che altereranno la composizione delle attività dello Stato, ma non ne cambieranno di molto la portata, le competenze o la complessità. Se la fine dello Stato è arrivata, significa che potranno essere modificati i programmi, ma non lo Stato. Può darsi, ma vanno fatte due precisazioni. La prima è che la fine del ruolo dello Stato è una teoria, e non un fatto concreto. Questa teoria potrebbe, per esempio, contenere una eccessiva sottovalutazione del ruolo delle ideologie in politica. La seconda è che la teoria può essere applicata esclusivamente ai cambiamenti che nascono dall'interno del normale processo politico, non ai cambiamenti generati da scossoni esterni, come le guerre o, come potrebbero aggiungere alcuni, la rivoluzione dei diritti civili. Còn il tempo, il numero di questi scossoni catalizzatori è destinato ad aumentare. Infatti, il prossimo è già in vista. L'ARITMETICA DELL'INGORGO Un buon esempio di rinuncia intelligente è rappresentato da una tipica dimostrazione empirica adottata nel 129
campo delle discipline politiche. Immaginiamo una piccola cena tra amici, per esempio un gruppo di quattro uomini, in un ristorante. Ciascuno dei presenti pagherà una quota uguale del conto. Ciascun commensale sarà presto tentato di aggiungere l'ordinazione anche di un dessert inizialmente non previsto: avrà modo di mangiarlo tutto pagando solo un quarto del suo costo. Il problema, naturalmente, è che ciascuno dei presenti finirà per fare lo stesso calcolo. E, quindi, tutti ordineranno il dessert. E il vino. E gli antipasti. Rapidamente, il conto crescerà, e tutti i commensali ne saranno dispiaciuti. Allora, i quattro commensali ne parleranno tra loro, e decideranno che da quel momento in poi si accontenteranno di qualcosa di meno. Fine del problema. Ora, immaginiamo la stessa cena, ma con un cambiamento. Questa volta supponiamo che ci siano 10.000 persone attorno al tavolo, così tante da rendere impossibile la concertazione che si realizza fra pochi commensali. Il problema risulta molto ingigantito, sotto due aspetti. Primo, l'incentivo ad aumentare le ordinazioni è molto superiore. Ciascun commensale ora paga solo 1:10.000 del costo del proprio dessert. Alcuni, peraltro, potrebbero addirittura non accorgersi di questa opportunità. In secondo luogo, in questo caso non esistono soluzioni a portata di mano. Si potrebbe rinunciare al proprio dessert, 130
e convincere la persona accanto a fare altrettanto. Ma come si potrà essere sicuri che gli altri non sfrutteranno il nostro sacrificio per ordinare pii mousse al cioccolato? In mancanza di qualcuno che sia in grado di mettere a punto e far rispettare un accordo generale (un punto, questo, sul quale torneremo successivamente), sarà sempre razionale, dal punto di vista di uno qualunque dei commensali, ordinare la massima quantità possibile di pietanze e bevande. Per i commensali sarà altrettanto razionale opporsi a qualunque tentativo attuato da altri di prelevare il cibo dal proprio piatto. L'immagine di questa grande cena serve a rappresentare bene la logica sottostante al fenomeno di persone e gruppi che esercitano attività di lobby per ottenere benefici dallo Stato. Uno dei primi studiosi che analizzarono nel dettaglio la dinamica risultante da questa situazione è stato Mancur 01son, un economista dell'Università del Maryland (College Park). Olson notò come qualunque piccolo gruppo di interesse si trovi a fronteggiare potenti ma, sostanzialmente, perversi incentivi ad accaparrarsi benefici a spese del resto della collettività. E questo è vero non solo dal punto di vista empirico, ma anche da quello matematico. Facciamo un esempio prendendo il caso del Centro per il Miglioramento dell'Industria dell'Allevamento Ovino, una sorta di premio di consolazio-
ne compreso nelle politiche agricole del 1996 per gli allevatori di ovini e caprini. Questo Centro è stato chiamato a gestire un fondo a rotazione che disporrà di ben 50 milioni di dollari di fondi federali "per rafforzare e migliorare la produzione e la commercializzazione di prodotti ovini e caprini negli Stati Uniti". Gli Stati Uniti ospitano molte fattorie che allevano pecore, ma nel 1992 solo 1.773 di queste hanno registrato un fatturato superiore a 50.000 dollari tra carne e lana, e sono queste le aziende che trarranno i vantaggi più significativi dalle attività del nuovo Centro. Quanto conviene, in media, a ciascun allevatore di pecore l'ottenimento e il mantenimento di questo nuovo giocattolo federale? Per non complicare le cose, è sufficiente dividere 50 milioni di dollari per 1.773, e il risultato sarà pari a poco più di 28.000 dollari per allevatore: una bella sommetta! Naturalmente, vi sono svariate complicazioni di cui tenere conto, ma il principio resta questo. I beneficiari delle attività del Centro hanno tutto da guadagnare nell'aggrapparsi saldamente alle politiche agricole, e quindi dedicheranno molto tempo e risorse finanziarie alle attività di lobby, ai contributi per le campagne elettorali e promozionali e ai trasferimenti a Washington. E quanto potrebbero avere interesse gli altri a bloccare il Centro? In questo caso, divideremo i 50 milioni di dollari per 100 milioni di elettori. Il risul-
tato è di circa 50 centesimi ciascuno. Per una somma simile, facendo riferimento ai salari orari medi, dedicare al Centro tre minuti di lavoro di ciascun elettore sarebbe anche troppo generoso. A volte, naturalmente, politiche di questo tipo possono essere messe al centro di controversie nazionali, e attrarre livelli di attenzione sproporzionati rispetto al loro costo effettivo per l'elettore medio, come nel caso di interventi nel campo della spesa sociale o diretti a vantaggio di gruppi specifici. Ma in uno Stato delle dimensioni del nostro, sono poche le politiche di questo tipo. Con un'ulteriore semplificazione (non eccessiva), notiamo che, salvo rare eccezioni, solo i gruppi interessati diretta-. mente da programmi specifici hanno interesse a investire risorse per modificarli o difenderli, o anche solo per seguire meglio gli eventi.
Lo STATO COME BARRIERA CORALLINA L'aritmetica dell'attività di governo porta inesorabilmente a due conclusioni. In primo luogo, per le lobby è quasi sempre ragionevole sostenere interventi minori che le favoriscano, e opporsi al ridimensionamento degli stessi. In secondo luogo, per gli elettori non è mai ragionevole opporsi energicamente a tali politiche o premere per il loro ridimensionamento. Naturalmente, si potrebbe sperare che le lobby siano abbastanza per riuscire 131
a spuntarla. Si potrebbe affermare che questa era forse la situazione al tempo di Franklin D. Roosevelt, quando il Governo poteva pensare di riuscire a riunire gli attori principali del mondo imprenditoriale e i leader sindacali attorno a un tavolo per discutere della stesura di un piano economico nazionale. Ma ora dobbiamo tener conto di un terzo fattore: i! tempo. Il lavoro di Olson e di altri studiosi mostra che le lobby proliferano con il passare del tempo. Nel 1920, solo quattro gruppi di rappresentanza degli agricoltori avevano una propria sede a Washington. Oggi, ce ne sono più di quanti se ne possano contare. Infatti, oggi la maggior parte degli americani appartiene a gruppi che esercitano attività di lobby. La maggior parte delle persone, al momento di entrare nella cabina elettorale, porta con se un pacchetto di interessi particolaristici. A questo punto, quindi, la cena tra amici si è molto allargata, e continua ad allargarsi rapidamente. E' molto difficile condurre trattative che coinvolgano un certo numero di lobby. Inoltre, è sempre più facile per le lobby organizzarsi e mobilitare i propri piccoli battaglioni di elettori. Qui ci troviamo di fronte a un dilemma fondamentale. Più piccoli sono i gruppi (come nel caso degli allevatori di pecore), e meno ragioni avranno i non appartenenti ad essi per interessarsi alle 132
loro attività. Tuttavia, i gruppi di grandi dimensioni (come le lobby dei pensionati), sono in grado di mobilitare grandi numeri di elettori. Pertanto, per quanto l'idea della riforma possa risultare attraente, quando questa avviene a spese di qualunque gruppo esistente essa sarà sempre molto più agguerritamente contrastata che sostenuta, di norma proporzionalmente alle dimensioni dei gruppi coinvolti. E gli elettori sono completamente solidali nell'opporsi a riforme sgradite. E questo non perché essi siano egoisti o poco patriottici, ma perché, così come in quella cena tra amici, il loro comportamento è ispirato a criteri razionali. Gli elettori hanno grandi interessi personali nel preservare le componenti dello Stato dalle quali traggono benefici, e poco interesse ad eliminare, o anche solo a sapere di più, delle componenti dalle quali traggono benefici gli altri. Con il dispiegarsi di questa dinamica nel tempo, lo Stato si trasformerà in una vasta raccolta di programmi difesi da una vasta gamma di beneficiari. Questo è ciò che David Stockman, ex direttore dell'Ufficio Amministrazione e Bilancio, quando era ancora assistente presso la Camera, negli anni Settanta, bollò come la "clientelarizzazione delle spese sociali". Lo Stato si trasforma in qualcosa di simile a una vasta barriera corallina, popolata e frequentata da migliaia di lobby e dai loro sostenitori al Congresso, dove cia-
scuno si occupa della propria fetta di torta, senza interessarsi molto di quelle degli altri. Gli elettori non apprezzano molto il caos che risulta da questo stato di cose. Ma nessuno vuole essere il primo a rinunciare alla propria parte. Ne risulta una sorta di tiro alla fune. Dall'alto verso il basso, gli elettori, come contribuenti, si rifiutano di pagare più di un determinato ammontare allo Stato. Dal basso verso l'alto, come clienti e beneficiari, si rifiutano di rinunciare ai vantaggi di cui godono. Il risultato è quella sorta di equilibrio instabile di fronte al quale ci troviamo oggi. LA DINAMICA DEL CAMBIAMENTO
Questo non significa che non stia avvenendo nulla. La chiave per comprendere la fine del ruolo dello Stato è quella di non considerarla come una condizione di inattività; al contrario, si tratta di una condizione caratterizzata da molto rumore e trambusto, anche se di scarso significato. Al live!lo dei microcosmi dei singoli programmi, ciascuno inserito nella propria piccola sfera specifica, i cambiamenti si verificano di continuo. Le assemblee legislative e le amministrazioni sono prevalentemente impegnate negli adeguamenti quotidiani. Le normative che stabiliscono le condizioni di accesso ai benefici sono state corrette e i livelli di sostegno statale sono stati modificati.
Tuttavia, e questo è un aspetto fondamentale, questi cambiamenti non sono né sistematici né coerenti. Sono il risultato di trattative tra numerosi esponenti politici specifici e numerose lobby specifiche. I bilanci possono anche essere ridimensionati, ma quasi sempre in misure che i gruppi interessati trovano ampiamente sostenibili. Quasi sempre, il risultato è che i grup pi esistenti riescono a tenere per se stessi tutto ciò che è possibile e a difendersi sempre di più e meglio. Il pacchetto di politiche agricole di quest'anno ha modificato radicalmente la natura di alcune delle vecchie politiche, principalmente nel campo dei sussidi per il settore cerealicolo. Non è stata forse questa una grande riforma? Sì, ma è stata costosa: è stato necessario comprare il consenso degli agricoltori. E anche questo non sarebbe stato realizzabile se non ci fossero stati due mutamenti sociali. In primo luogo, il numero degli agricoltori professionisti si è ridotto drasticamente, da circa l'il per cento del totale degli occupati registrato nel 1940 all'1,2 per cento di oggi. Inevitabilmente, l'influenza degli agricoltori, anche se ancora del tutto sproporzionata rispetto al loro numero, si è ridotta. In secondo luogo, gli agricoltori stessi si sono divisi rispetto al vecchio sistema, con un numero crescente (in particolare giovani agricoltori e agricoltori che dipendono principalmente dalle vendite sui mercati este133
ri), più ostili che solidali nei confronti del vecchio sistema di sostegno dei prezzi. In casi come questo, i politici possono intervenire e fare la differenza. E così possono essere avviate le riforme. Ma un simile mutamento a livello statale non può avvenire fino a quando i mutamenti nella società non lo consentono. Quando la popolazione anziana è numerosa e solidale, riesce a ottenere di più. Quando gli agricoltori sono pochi e divisi, otterranno meno. A livello di gestione ordinaria dei programmi, lo Stato non riflette le scelte razionali dell'intero elettorato. E', piuttosto, uno specchio delle lobby presenti nella società. Come una colonia di formiche, oscilla da una parte e dall'altra sospinto dalla lotta delle sue componenti (le lobby) contro la sua natura (i bilanci limitati). Il problema principale è come effettuare i cambiamenti a livello di macrocosmo: una ampia riforma dall'alto verso il basso al servizio di un più ampio interesse nazionale. Questo è il tipo di mutamento che molti americani desiderano. Questo può avvenire solo quando i politici sono in grado di sconfiggere la resistenza di infinite lobby, ciascuna delle quali è in grado di mettere un piccolo bastone tra le ruote che la dovessero calpestare. Come potrà mai essere possibile ottenere una riforma ampia e coerente? A questo punto, un cavaliere bianco 134
giunge in nostro soccorso, nell'improbabile persona di Olson stesso. Olson, come tutti gli studiosi contemporanei, ha dimostrato l'insidioso potere della sommatoria degli interessi particolaristici (la "logica dell'azione collettiva", come recita una sua famosa definizione), di innescare un processo di degrado economico e sociale. Eppure Olson è un ottimista. Due armi, sostiene lo studioso, possono sconfiggere la tirannia dei piccoli gruppi. La prima è la presidenza. Un Presidente per vincere ha bisogno di un'insieme eterogeneo di elettori che abbracci trasversalmente l'intero corpo elettorale, e questo significa che dovrà interessarsi più all'economia nel suo complesso che ai singoli segmenti che interessano gruppi specifici. Se una riforma su vasta scala torna a vantaggio della maggioranza, allora il Presidente tenterà questa strada, e in alcuni casi avrà successo. Il Presidente Carter deregolamentò il settore bancario e quello dei trasporti, e il Presidente Reagan riformò le normative fiscali. In Argentina e in Nuova Zelanda, i leader politici attuarono dolorose riforme economiche che furono in grado di risollevare le rispettive economie malate. Questi leader, naturalmente, sono come quell'uomo che assurne il comando alla grande cena tra amici e dichiara: Nessuno ordini dessert di prezzo superiore a 4 dollari", ottenendo il consenso dei commensali che vedono ridursi il conto da pagare.
tato invece introvabile. Clinton e Gingrich lanciarono l'appello, ma l'elettorato non rispose, anzi, prese la direzione opposta. Qualcosa era andato storto. Che cosa? Torniamo alla sovraffollata cena tra amici. A questo punto il conto è fuori controllo, una persona influente propone un accordo generale: nessuno ordini l'insalata. Questo potrebbe funzionare, ma solo se la maggior parte dei commensali si convincerà del desiderio di collaborazione degli altri. E se qualcuno accettasse di non prendere l'insalata, ma gli altri, di fronte al calo del conto dovessero decidere di ordinare un doppio dessert? Nel momento in cui un certo numero di commensali dovesse fiutare questo tipo di doppio gioco, l'accordo salterebbe. RIFORME A CONFRONTO Nel 1995, il Congresso a maggioranza repubblicana era deciso a intervenire Negli ultimi quattro anni, l'America sui crescenti costi dell'assistenza sanitaha avuto due leader nazionali riformaria. Così, fu proposto un pacchetto di tori: Clinton e Gingrich, quando quetagli alle spese. I Repubblicani sapevast'ultimo agiva come leader di fatto no che la parte anziana della popoladel Partito Repubblicano. Entrambi zione sarebbe stata insoddisfatta, e questi leader offrivano grandi strategie quindi sostennero, ragionevolmente di riforma nell'interesse della nazione: proprio come avrebbe consigliato 01la riforma del sistema sanitario per son, che le rinunce imposte a un grupClinton, la riforma del bilancio per po fossero abbondantemente controbiGingrich. Entrambi questi progetti lanciate dai benefici per tutta la popoerano basati sulla sconfitta delle difese lazione legati alla riduzione del deficit, dei piccoli gruppi ottenuta raccogliena una ridotta imposizione fiscale e a do il consenso dell'elettorato attorno un programma sanitario in pareggio. alle rispettive cause. In quella fase, i Democratici e le lobby, Il processo politico ha quindi garanti- che agiscono come una maggioranza to la leadership. Ma l'altro requisito di trasversale, spostando il proprio voto a cui parlava Olson, il consenso, è risul-
La seconda fonte di speranza di Olson èrappresentata dall'elettorato stesso. "L'unica vera soluzione è che le società acquisiscano una maggiore comprensione dell'economia", ha scritto Olson in un recente articolo. "Ciascuna di queste piccole minoranze sarà facilmente sconfitta se l'elettorato sarà più consapevole di ciò che sta accadendo. Un processo storico che risulti comprensibile non è più evitabile". E quindi, sostiene Olson, i riformatori hanno bisogno di un leader che goda di un forte sostegno a livello nazionale e di una strategia di riforma finalizzata all'interesse della nazione. Il leader dovrà quindi convincere l'elettorato a sostenere la sua causa.
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sostegno di qualunque parte sostenga la loro causa -, si sono comportati esattamente come suggerito nel copione. Hanno rilanciato il dibattito come una contrapposizione tra gruppi piuttosto che tra un gruppo e l'intera nazione. Sono saliti su un piedistallo con un megafono e hanno avvertito: "Non credete ai Repubblicani. Non vi restituiranno nulla dopo i tagli all'assistenza sanitaria. I tagli che propongono sono a vantaggio dei più abbienti. Stanno solo togliendo risorse a voi per darle ad altri". La gran parte degli americani sarebbe disposta a sacrificarsi per il bene comune, ma pochi sarebbero disposti a sacrificarsi a vantaggio di un gruppo concorrente. I più anziani sono patriottici, ma non accetterebbero di essere presi in giro. Inoltre, la maggioranza perde interesse nei tagli all'assistenza sanitaria quando si convince che l'unico risultato di queste operazioni sia quello di trasferire risorse da un gruppo ad un altro. Avanzando il sospetto che i Repubblicani stessero agendo nell'interesse dei loro clienti preferiti piuttosto che in quello dell'intera nazione, i Democratici e le lobby alleate con loro non ebbero alcuna difficoltà nell'affossare l'accordo. Riguardo al bilancio statale nel suo complesso, i molti oppositori dei Repubblicani si limitarono semplicemente a mostrare il rovescio della medaglia. Essi descrissero il bilancio approvato dal Congresso come severo ed 136
estremo, e insistettero sul fatto che il problema del disavanzo avrebbe potuto essere affrontato in maniera altrettanto adeguata senza simili sacrifici. Avanzando il sospetto che i Repubblicani stessero perseguendo solo il proprio interesse, senza prendere i provvedimenti necessari, e cioè chiedendo agli elettori di rinunciare all'insalata semplicemente perché i Repubblicani non amano le verdure, i Democratici e i loro alleati riuscirono ad averla vinta un'altra volta. I Repubblicani, di nuovo alleati con numerose lobby favorevoli ai tagli, si comportarono più o meno nella stessa maniera nei confronti dei Democratici per la riforma dell'assistenza sanitaria: "Questa non significa maggiore assistenza a costi minori dissero, significa minore assistenza per voi e maggiore assistenza per altri, con un grande aumento di burocrazia". Sfortunatamente per i riformatori, il trucco dell'insinuare sospetti può quasi sempre essere utilizzato da chiunque. Le accuse degli oppositori, malgrado l'evidente esagerazione, contenevano sufficiente verità da renderle plausibili. I Repubblicani stavano cercando di ridimensionare l'assistenza sanitaria pubblica, riducendo però contemporaneamente la pressione fiscale sui più ricchi, e i Democratici stavano affidandosi ai meccanismi burocratici per estendere ai meno abbienti l'accesso all'assistenza sanitaria. In una democrazia, i partiti non possono raggiun-
gere i propri scopi se non garantendo una ricompensa ai propri sostenitori, il che significa che l'altra parte potrà sempre urlare allo scandalo. A peggiorare la situazione, il cinismo degli elettori, spesso giustificato, li rende inclini a convincersi facilmente di essere stati presi in giro dai politici. Purtroppo per i riformatori, il cinismo è solo autogratificante. La gente non crede che i cambiamenti potranno realmente avere luogo, pertanto è facile indurre gli elettori al sospetto. Istintivamente, e non razionalmente, gli elettori capiscono di essere intrappolati in una strada senza uscita. Si schierano a sostegno di uomini politici in grado di polarizzare il consenso, come Colin L. Powell, o Ross Perot, perché entrino nel sistema dall'esterno, mettendo fine alla rissa e organizzando un grande patto. Infatti, di questi tempi, Olson stesso affida gran parte delle sue speranze all'emergere di un leader di questo genere. Tuttavia egli ammette che si tratta di una speranza debole e frutto del disorientamento. Gli americani preferiscono i politici stagionati alle impennate napoleoniche. VINCONO LE LOBBY, FINISCE LO STATO?
E così ci ritroviamo al punto in cui siamo oggi. Negli anni Novanta, entrambi i partiti proposero coraggiose riforme e, con loro grande dispiacere, entrambi furono sconfitti pesante-
mente da una coalizione tripartita di oppositori di parte, interessi costituiti, e cittadini allarmati. Così, nel 1996, i principali candidati presidenziali sono fuggiti dalle riforme, piuttosto che inseguirle. L'esperienza può essere fuorviante, e l'analisi può condurre a giudizi errati. Forse gli anni recenti si riveleranno essere stati il preludio a un'era di grandi riforme. Il problema è che sia la teoria che la pratica puntano nella stessa direzione, mostrando come nazioni in crisi, come l'Argentina, la Nuova Zelanda, la Polonia, possano raccogliere vasti consensi per riforme di grande portata. In una nazione dove prevalga la politica ordinaria, tuttavia, i piccoli gruppi sono in grado di battere, in sede di voto, le grandi maggioranze, e le eccezioni sono sostanzialmente rare e isolate. Ad eccezione dei casi in cui riescano ad attrarre elevati livelli di consenso, i politici e la maggioranza dell'elettorato non possono fare molto di più che rosicchiare i margini dello Stato clientelare. Questo non significa che le elezioni non contano. Significa, semplicemente, che le elezioni non rappresentano ciò che i politici sostengono, e cioè una grande scelta relativa alle dimensioni e alle competenze del Governo federale. Nella pratica, una simile scelta non viene offerta. La realtà è la stasi delle entrate e delle spese federali nell'era post-nixoniana, dopo la fine della fase espansiva. 137
SI, la politica e i politici possono cambiare le cose, e lo fanno. Nel 1986, Washington spese il 6,5 per cento de! Pn. per la difesa; nel 1996, la difesa riceverà poco più della metà di quella somma. Ma la bizantina e articolata struttura di programmi, agenzie, sussidi e normative che fanno di Washington ciò che è, è destinata a rimanere tale e quale. I politici parlano come se fossero dei tecnici responsabili della gestione dei comandi di uno Stato simile a una grande macchina, come dei piloti al posto di comando. In realtà, essi fanno pensare più ad un gruppo di elefanti in una giungla: molto visibili e in grado di usare il proprio peso per abbattere qualche albero, ma sostanzialmente alla mercé del complesso ecosistema che li circonda. Sono gli afidi e i lombrichi, gli scarabei e le alghe, le indaffarate piccole creature che occupano le proprie comode nicchie, come le lobby degli agricoltori e le lobby universitarie e un milione di altre specie che danno forma alla topografia della jungla. I conservatori guardano allo Stato come a un garante dei diritti individuali; i progressisti lo vedono come il risolutore dei problemi nazionali. Tutti e due i fronti hanno avuto il loro periodo di successo. Ma forse la vittoria finale non appartiene a nessuno. Sono state le lobby a vincere. E questa è la fine dello Stato. Fino all'arrivo del terremoto. 138
La fine dello Stato significa che qualsivoglia coerente mutamento strutturale nella forma e nelle competenze dello Stato si trova al di là della portata della normale attività politica. Ma questo non dice nulla della dinamica anomala della politica: la politica della crisi. Tra 15 anni a partire da oggi, e a ritmi sempre più sostenuti, la grande generazione del baby boom del dopoguerra inizierà ad andare in pensione. Stando alle attuali previsioni, il numero delle persone di età superiore a 65 anni crescerà dai 32 milioni del 1990 ai 68 milioni del 2030. Ormai la maggior parte delle persone è al corrente del fatto che questa situazione potrà rappresentare un problema - per l'insostenibile peso della previdenza - per uno Stato che già oggi è a corto di risorse finanziarie. Ma forse queste persone non immaginano le effettive dimensioni del problema. Nel 1950, l'America aveva oltre sette persone in età lavorativa (20-64), nella propria popolazione a fronte di ogni cittadino ultrasessantacinquenne. Il carico da sostenere per la previdenza sociale era leggero e, naturalmente, non esisteva ancora l'assistenza sanitaria pubblica. Nel 1990, il rapporto tra popolazione in età da lavoro e anziani era di poco inferiore a 5:1. Un grande mutamento, ma erano solo gli inizi. Nel 2030, stando al Congressional Budget Office (CB0), il rapporto scenderà al di sotto di 3:1. Questo significa che cia-
scun pensionato sarà sostenuto da meno di tre persone in età lavorativa (e, naturalmente, non tutte le persone in età lavorativa lavorano). Per prevedere che cosa potrebbe accadere in caso di mantenimento delle attuali politiche, il CB0 ha ipotizzato che le tasse e le spese per i benefici (come le pensioni pubbliche, che crescono automaticamente con il crescere del numero degli aventi diritto), si mantengano ai livelli previsti dalle attuali normative, e che le spese discrezionali (sulle quali il Congresso ha maggiori poteri di controllo) non crescano più rapidamente dell'inflazione (un'ipotesi moderata). In effetti, i programmi pensionistici e sanitari restano invariati, tuttavia le imposte che li finanziano non sono state aumentate. Cosa accadrà? Ecco l'asciutta risposta del CB0: i programmi di previdenza sociale e i programmi di assistenza sanitaria misurati come percentuale del PIL raddoppieranno, fino a raggiungere il 17 per cento. Il disavanzo, il dato più scioccante, si sestuplicherà, dal 2 per cento del PIL registrato nel 1995 al 12 per cento. Il debito nazionale aumenterà di oltre tre volte, fino a superare il 150 per cento del PIL. E queste, naturalmente, sono solo le notizie buone. Ma questi dati presuppongono che l'economia si mantenga a livelli costanti, e molto prima della triplicazione del debito pubblico, l'economia inizierebbe a crolla-
re. Pertanto, il CB0 ha fatto una seconda serie di ipotesi, questa volta inserendo gli effetti della grande crescita dell'indebitamento pubblico (interessi più elevati, minori investimenti) nelle proprie proiezioni economiche. A questo punto le cose prendono una bruttissima piega. Entro il 2030, il governo federale avrà raddoppiato le proprie dimensioni rispetto all'economia. Al 20 per cento del PIL, i pagamenti degli interessi sul debito federale sono già quasi delle stesse dimensioni dell'attuale bilancio federale. Il disavanzo federale è pari ad oltre un quarto delle dimensioni dell'intera economia. Il debito pubblico si colloca ora a oltre il 200 per cento del PIL. In altre parole, l'America rimarrà azzoppata. Accadrà? Quasi certamente no. La domanda, piuttosto, è come cambiare il futuro, in maniera razionale e con anticipo, oppure forzatamente, all'ultimo minuto. Il CBO prevede che l'inversione della crescita del disavanzo pubblico richiederebbe un aumento della pressione fiscale pari al 3-5 per cento dell'attuale PIL, o tagli alle spese di misura equivalente. Questo significa una stretta di cinta del 15-25 per cento. Piuttosto sgradevole; ma agire tempestivamente comporta costi minori, perché così facendo si bloccherebbe il problema prima che questo inizi la sua crescita esponenziale. 139
Washington, infatti, potrebbe prevenire per tempo la crisi. Tuttavia, gli eventi recenti lasciano poco spazio all'ottimismo. Altrettanto probabile è che, come per la crisi delle Casse di risparmio degli anni ottanta, per i tagli all'assistenza sanitaria proposti lo scorso anno e per la questione dello stesso disavanzo, il governo temporeggerà, limitandosi a fare il meno possibile di anno in anno. Questo atteggiamento lo renderà vulnerabile come una barchetta in balia della corrente in prossimità di una cascata. Torniamo un'ultima volta alla nostra grande cena tra amici. In tutti i casi,
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prima che il conto raggiunga la cifra di, supponiamo, 10.000 dollari per ciascun commensale, qualcosa dovrà accadere. Potrebbe non trattarsi di una concertata modifica del menu: potrebbe trattarsi di qualcosa di assai poco concertato. Piuttosto, potremmo assistere a una rivolta, una fuga, un rifiuto di pagare, chi può dirlo? Analogamente, qualcosa dovrà avvenire tra oggi e la catastrofe fiscale. In sostanza, quindi, la fine dello Stato non significa che lo Stato non possa cambiare. Significa, invece, che lo Stato sarà costretto al cambiamento piuttosto che arbitro di esso.
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FONDAZIONE GIovNI AGNELLI
La Fondazione Giovanni Agnelli è una fondazione operativa e, quindi, definisce e realizza autonomamente i propri programmi. A tal fine, dispone di uno staff permanente interno e di una rete di collaboratori, singoli studiosi o istituti, in Italia, in Europa e nei principali Paesi degli altri continenti. Questa rete di collaboratori viene modellata e rinnovata in funzione dei programmi in corso. La Fondazione lavora da sempre per comprendere il "cambiamento nella società contemporanea" e per cogliere le grandi tendenze che emergono nell'economia, nella politica, nella cultura. L'orientamento al flauro è il filo unificante delle attività della Fondazione che si manifesta in maniera più evidente negli studi previsti, ma che permea comunque tutti i suoi programmi di ricerca. Si tratta di una scelta che assume un valore particolare in questi anni a cavallo fra il XX e il XXI secolo, anni eccezionali durante i quali prenderanno avvio o giungeranno a maturazione grandi processi di cambiamento a livello mondiale ed europeo. Alcuni esempi sono sufficienti per ricordare l'ampiezza e la profondità delle trasformazioni in corso:
- gli esiti della transizione demografìca nei diversi contesti geografici; - la riorganizzazione dei mercati mondiali e l'incontro/competizione fra i sistemi economici e sociali di universi culturali diversi; - la questione dei Paesi economicamente arretrati e dei movimenti migratori internazionali; - la costruzione della società dell'informazione; - l'allargamento e l'approfondimento dell'Europa politica ed economica; - il dialogo fra cristianesimo e pensiero laico dopo la crisi delle ideologie; -. l'incontro con la modernità di altre grandi religioni tradizionali, come l'islam e l'induismo; - la nuova centralità del dialogo fra le grandi culture mondiali. Un'istituzione culturale come la Fondazione Agnelli adempie al proprio ruolo se individua il cambiamento prima che esso diventi oggetto di dibattito politico, di vincolo economico, di tensione- sociale. I grandi processi appena evocati sono dunque al centro delle sue riflessioni, perché essi concorrono a modellare il futuro dell'Europa e dell'Italia. Per queste ragiOni, gli anni novanta sono per la Fondazione un periodo di attività intensa, con molti nuovi program141
mi in Italia e all'estero e la conferma di numerosi altri, da tempo nel novero dei suoi interessi. Le diverse attività che la Fondazione ha svolto e svolge oggi nei vari ambiti e contesti sono tutte contraddistinte da una marcata progettualità, cioè dall'orientamento a impostare i problemi alla luce delle loro implicazioni operative. È sulla base di questa progettualità che si comprendono e si legittimano gli indirizzi metodologici e organizzativi dell'attività della Fondazione e, in particolare, la scelta per la ricerca economica, sociale e politica più sensibile ai problemi della società e della cultura italiana. È ancora in nome di tale progettualità che va rilevato il permanente impegno di divultazione dei risultati. Un impegno che ha portato, di anno in anno, all'intensificazione del dialogo non soltanto con la comunità scientifica, ma con un numero crescente di interlocutori del mondo della politica, dell'economia, della comunicazione, della società civile in Italia e all'estero. Tale impostazione si raccorda peraltro con la natura stessa della Fondazione Agnelli, che si caratterizza come fondazione operativa, impegnata a realizzare i propri scopi istituzionali attraverso attività direttamente gestite e coordinate. L'ampio spettro di queste attività - ricerca teorica ed empirica, organizzazione di convegni e seminari, pubblicazioni - viene svolto all'interno della Fondazione oppure realizzato tramite il ricorso a strutture esterne ma sempre direttamente coordinate con quelle interne. In virtù ditale impostazione, la Fondazione raccorda le ricerche, svolte prevalentemente all'esterno, con il lavoro dello staif interno, dedicato principalmente all'elaborazione dei quadri progettuali, in una sintesi felice 142
che è essa stessa occasione di interazione e di dialogo. Sono infatti numerosi gli istituti universitari e non universitari, oltreché i singoli studiosi e ricercatori, che in Italia e all'estero collaborano ai vari programmi della Fondazione. Altrettanto radicata è la scelta di dare ai programmi di ricerca della Fondazione una dimensione compiutamente europea, nelle tematiche, nella scelta dei collaboratori, nelle modalità organizzative. La scelta di assumere l'Europa come ambito di riferimento spaziale, economico, politico, sociale e culturale oltreché, beninteso, come oggetto di studio, trova fondamento nell'orientamento progettuale volto ai problemi della società italiana che qualifica le attività della Fondazione. La radicata convinzione che il futuro dell'Italia debba essere caratterizzato dall'attiva partecipazione all'Europa fa sì che le analisi e le proposte di soluzione dei problemi italiani vengano affrontate, ogni volta che sia possibile, in un'ottica compaparata attraverso un uso costante e sistematico del riferimento alle più significative esperienze di altre nazioni europee. Il confronto con l'Europa è considerato sempre una buona "lezione" per la società italiana. Per questi motivi, la Fondazione Agnelli
ama definirsi una fondazione italiana ed europea. Caratteristica costante delle attività della Fondazione è il conferire pari attenzioni all'evoluzione delle strutture nei loro aspetti economici, sociali e politici, come alla trasformazione delle culture e dei sistemi di valore. Questa impostazione di apertura interdisciplinare produce effetti molto positivi poiché, traducendosi in precise scelte organizzative, consente il raggiungimento di sinergie interpretative tra le ricerche più atti-
nenti all'analisi socio-economica e quelle più orientate alla riflessione etico-culturale. Tali sinergie si manifestano sia in sede di progettazione dei singoli programmi di lavoro, sia, soprattutto, nell'interazione tra i diversi programmi, che dal confronto reciproco si arricchiscono a vicenda. L'orientamento al futuro, la progettualità, il costante riferimento alla dimensione internazionale ed europea, la pari attenzione per gli aspetti economico-sociali e per i sistemi culturali e di valore, l'impegno di divulgazione sono dunque le coordinate fondamentali che guidano ogni programma di ricerca e di attività della Fondazione. Questa impostazione e queste attività si articolano in tre grandi aree tematiche: - riforma dello Stato e pluralismo sociale in Italia; - universi culturali e modernità; - nuova geoeconomia. A queste aree si affianca l'interesse ormai storico, esplorato fin dagli anni settanta, per ciò che riguarda la storia, la cultura e la condizione attuale delle popolazioni di origine italiana nelle Americhe e in Australia. A loro volta, le aree tematiche sono articolate in programmi. Nella consuetudine della Fondazione i programmi sono "contenitori" relativi a un grande tema specifico che raggruppano e connettono diverse attività di ricerca, dibattito, divulgazione e pubblicazione, tutte coerenti fra di loro per intento culturale.
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FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTARIATO
Il giorno 27 giugno 1997 si è svolta a Roma, presso il Palazzo De Carolis, la presentazione dello studio su: La solidarietà organizz.ata, promosso dalla Fondazione Italiana per il Volontariato. La ricerca, curata da Costanzo Ranci e Ugo Ascoli è stata svolta a partire dalla constatazione che il volontanato è oggi un fenomeno di carattere soprattutto associativo. Infatti, la sua crescita è riconoscibile dalla continua costituzione di gruppi capaci di mobilitare individui e di mettere a disposizione il loro tempo in attività socialmente utili. "Senza il supporto e la mediazione di queste organizzazioni la disponibilità dei cittadini ad impegnarsi, per quanto diffusa possa essere, non troverebbe alcuna forma di incanalamento e ralizzazione pratica". La ricerca "La solidarietà organizzata"focalizza quegli aspetti organizzativi e gestionali che determinano il successo (o il fallimento) di un gruppo di volontariato durante il suo percorso di sviluppo. Il contributo aggiunto da questo lavoro alla conoscenza del mondo della solidarietà è quello di avere chiaramente individuato il dilemma in cui il volontariato oggi si trova: infatti, gran parte dell'impegno dei gruppi di volontariato viene investito per mantenere inalterato il difficile equilibrio tra identità del gruppo ed efficacia del servizio. Lo studio ha inoltre individuato, sulla linea tracciata da queste due opposte tensioni, forme e strategie organizzative di natura complessa e articolata. Dai risultati del lavoro emergono una molteplicità di modelli organizztivi che i gruppi di volontariato sociale italiano adottano in base alla loro disponibilità di risorse sia 143
umane (numero di volontari e quantità di tempo dedicato), sia economiche (entrate pubbliche e private). Più in dettaglio, si tratta dei seguenti cinque modelli così chiamati dagli autori: associativo, eroico, aziendale, sinergico, semiprofessionale. Ognuno di questi modelli si diversifica dagli altri per la diversa concentrazione e disponibilità delle due risorse. Senza voler stabilire quale modello sia quello di maggiore successo la ricerca riconosce che "la mobilitazione delle risorse rappresenta per le organizzazioni volontarie il campo principale in cui si confrontano le diverse ipotesi di sviluppo e i diversi modelli d'azione perseguibili". Il contributo di conoscenza e di riflessione che proviene da questa ricerca può essere utilizzato anche nella prospettiva della riforma dello Stato sociale, per definire il ruolo che il volontariato organizzato potrà svolgere al riguardo. FONDAZIONE ITALIANA PER IL VOLONTAEJATO
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ISTITUTO LUIGI Siijizo
Nell'arco del prossimo anno l'Istituto, presso la propria sede ma anche con al concorso di altri soggetti pubblici e privati, si farà promotore di un Centro di documentazione - Archivio su Televisione, nuovi media e bambini, la cui prima sezione raccoglierà schede tematiche e bibliografiche comprese documentazioni e relazioni non pubblicate in volumi o riviste, e la seconda schedature tematiche di prodotti audio, video e multi144
mediali progettati per bambini dalla prima infanzia alla prima età evolutiva. L'istituto ha in passato collaborato e partecipato con personale proprio ad un progetto di ricerca su impatto sociale e comunicazione in emergenze di massa. Proseguendo nel programma di collaborazione verrà organizzata una giornata di studio su tematiche connesse alla analisi sociologica della gestione delle emergenze civili e di massa. La problematica affrontata si connette ai processi derivati dalla complessità delle società attuali a forte base tecnologica, ad ampia diffusione territoriale, ad accentuata mobilità, da un lato, e concentrazione urbano-demografica, dall'altro. All'interno di tale complessità, a fronte di rischi reali, civili, tecnologici e calamità naturali, assume un rilievo particolare la risorsa strutturale comunicativa che, in quanto attore quotidiano insostituibile dei sistemi complessi, gioca una pluralità di ruoli non solo sul piano strettamente informativo ma anche sulla modellistica culturale delle emergenze di massa e sulla loro gestione in quanto punto genetico di input adattivi sia di ordine positivo che perturbativo. In tale dinamica, le analisi sociologiche di impatto hanno un loro specializzato rilievo sia sul versante delle problematiche di comunicazione di massa sia sul versante della organizzazione e gestione positiva del rischio. Si prevede di coinvolgere oltre ai sociologi del settore anche specialisti di Sociologia dell'ambiente e del territorio, di Geografia, di Medicina sociale, di Organismi tecnici del CNR della Protezione Civile, del Ministero dell'Interno e responsabili locali di grandi aree urbane. Nella stessa occasione o in una iniziativa temporalmente distinta verrà presentato il
volume di Frudà L. (a cura di) Comunica-
zione e gestione delle emergenze di massa in situazioni di rischi tecnologico, ambientale e civile, Liguori, Napoli (1997). L'Istituto ha già attivato una propria specializzata collaborazione alle tematiche di ricerca connesse all'evento mondiale del Giubileo dell'anno 2000: in particolare, parteciperà al progetto internazionale di ricerca sociologica sul Giubileo, coordinato dai professori C. Cipolla (Bologna) e R. Cipriani (Roma III) e che vedrà coinvolti contemporaneamente nuclei di ricerca in più parti del mondo, con il patrocinio dell'ISA (International Sociological Association) e dell'AIS (Associazione Italiana di Sociologia). Il Giubileo costituisce, in primis, un evento religioso promosso e formato dall'istituzione ecclesiastica, ma esso si costituisce anche come evento socio-religioso totale a struttura reticolare mondiale che coinvolgerà una molteplicità di attori strutturali, propri e mediati (Chiesa, Istituzioni, Mass-media, Organizzazione, Gruppi sociali). Da un lato, quindi, le ricerche in progettazione guarderanno al mondo proprio (Chiesa, cattolicesimo, ecumenismo, tendenze e mutamenti in atto) e al mondo macro e micro-sociale (organizzazione del pellegrinaggio, comunità dei credenti, modalità unitarie e diversificate di vivere l'evento nei Paesi, impatto con le altre religioni del mondo e con l'universo dei non-credenti). Le indagini progettate guarderanno anche al ruolo dei media, all'impatto sull'area metropolitana romana e all'impatto sul sistema Italia in relazione all'ipotesi macro-sociologica del Giubileo come evento "perturbante" la società. L'Istituto ha da anni promosso una serie di attività e contatti tendenti alla costituzione
presso, la propria sede, di un nucleo storico e documentale di Archivio di Sociologia con l'intento di raccogliere documentazioni originali e fondi archivistici di singoli sociologi, o per via diretta come custode destinatario, o indirettamente come custode delegato dagli eredi, al fine di consentire il libero accesso ai suddetti materiali da parte di studiosi e storici delle scienze sociali. Attorno all'Archivio, l'Istituto intende costruire anche momenti qualificanti di indagine storica del pensiero sociologico, attraverso progetti specializzati monotematici. Il primo di questi progetti avrà come tema di ricerca il contributo degli studiosi cattolici alle scienze sociali in Italia. Nel campo della metodologia politica, l'Istituto promuove un progetto di ricerca biennale ed un convegno nazionale di studio sul tema delle rfrìne elettorali, un approfondimento nel settore di studi storici-politologici ed elettorali già dal 1995, attraverso un seminario sulle riforme elettorali nella storia politica e istituzionale italiana. Nella letteratura giuridica e politologica, il cambio di sistema elettorale viene fatto coincidere, il più delle volte, con un mutamento di regime politico. E, anche quando ciò non avviene formalmente, il ricorso ad un nuovo sistema elettorale introduce elementi di trasformazione nella struttura del sistema partitico preesistente e nella natura del rapporto con i cittadini, con effetti politici e istituzionali differiti negli anni successivi. Le grandi riforme elettorali, al contempo, registrano e annunciano trasformazioni profonde degli assetti politici di una società: segnano, secondo la terminologia di Stein Rokkan, delle "fratture" tra epoche. Con questa iniziativa, l'Istituto si propone 145
di raggiungere alcuni obiettivi di carattere metodologioco e teorico, determinanti per la realizzazione del convegno. Ii primo, metodologico, è volto ad attuare un interscambio di risultati e strumenti di ricerca tra storici, politologi e costituzionalisti (naturalmente con l'apporto di sociologi, statistici e geografi) sul tema della storia della legislazione elettorale e del voto in Italia. Si collegano ad esso gli altri obiettivi di carattere teorico: il tentativo di effettuare una comparazione diacronica sulle modalità delle scelte legislative riformatrici, evidenziandone analogie e differenze nei diversi contesti storici; il tentativo di tracciare una ricostruzione del dibattito italiano in prospettiva europea attraverso comparazioni sincroniche con analoghi processi in altri contesti internazionali (Regno Unito, Francia, Germania, Belgio, Spagna, Svizzera). Il convegno di studio, calendarizzato per i! 1998, prevede quattro sessioni generali di lavoro, una delle quali dedicata all'analisi delle esperienze straniere. È prevista la pubblicazione degli atti. Nell'ambito del settore della metodologia politica e degli studi elettorali si è costituito presso l'Istituto, un Centro di studi politici ed elettorali operante a partire dal mese di gennaio 1997. Il Centro di studi politici ed elettorali è sorto prevalentemente per seguire in nodo costante e continuativo il settore di attività dell'Istituto Sturzo dedicato alla metodologia politica e agli studi elettorali. Tra le iniziative di carattere permanente sono previsti una serie di seminari di approfondimento per studenti universitari e laureandi su aspetti e momenti specifici dei temi proposti. Tra gli obiettivi di maggiore interesse a cui 146
è finalizzata l'attività del Centro di studi politici ed elettorali nel prossimo triennio, vi è la pubblicazione di un codice storico nella legislazione elettorale e la realizzazione di un archivio informatizzato di documentazione europea sulla legislazione elettorale. Nell'attività editoriale è prevista a breve termine la pubblicazione degli atti del convegno "L'Enciclica Rerum Novarum. Chiesa e società ne! XJX secolo" già in bozza. Entro il 1997, saranno pubblicati sette volumi degli atti dei seminari interregionali e del convegno nazionale su Cattolici, Chiesa, Resistenza, per i tipi de "Il Mulino"; inoltre, sono in preparazione i! Carteggio L.
Sturzo-Pietro Gobetti, il Carteggio L. Sturzo-Mario Einaudi, Carteggio L. Sturzo-Giovanni Gronchi, il Carteggio L. Sturzo-Maurice VaussareL Il volume Politica di questi anni 1957-1959 concluderà l'Opera Omnia. È, infine, prevista la pubblicazione de La Guida all'Archivio storico dell'Istituto Luigi Sturzo. Nell'ambito dell'attività di promozione culturale, prevista per il prossimo triennio, particolare importanza ha l'Osservatorio permanente di studio e di analisi (Programma Delors) nel 1996 l'Istituto Luigi Sturzo in collaborazione con il Comitato di Parlamentari per l'innovazione Tecnologica (Copit) ha promosso con il patrocinio del Consiglio Nazionale delle Ricerche la formazione di un "Osservatorio permanente di studio e di analisi sui programmi comunitari", per uno sviluppo sostenibile delle tecnologie e delle infrastrutture, diretto ai membri delle istituzioni legislative e regionali. Obiettivo dell'iniziativa è seguire l'evoluzione, a livello europeo, delle tematiche relative al cosiddetto Programma Delorr telecomunicazioni, energia, ambiente,
trasporti e formazione, tenendo conto degli aggiornamenti che emergeranno a livello nazionale ed europeo. Si tratta di un'iniziativa di carattere permanente, articolata in un ciclo di seminari di informazione mirati ad offrire una panoramica dei settori più direttamente interessati dalle iniziative comunitarie, verificando gli elementi che ne determinano lo sviluppo in chiave competitiva. Ogni incontro prevede una relazione di un esperto del settore che definisca il quadro niacroeconomico di riferimento sulle strategie occupazionali, di sviluppo degli investimenti, di competitività del sistema, di flessibilità del mercato del lavoro; un analisi economica a livello europeo affidata ad un rappresentante della Comunità europea; lo studio della situazione in sede nazionale proposta dal presidente di una delle commissioni parlamentari interessate e un dibattito in cui intervengono i responsabili delle aziende e degli enti delle aree interessate per chiarificare le scelte proposte. Ai seminari di carattere generale seguono, per ognuno dei settori analizzati, dei workshop di approfondimento e delle tavole rotonde mirate ad offrire indicazioni legislative ai parlamentari delle commissioni interessate. Il lavoro dei seminari è coordinato da un comitato scientifico che elabora il programma dell'anno e prepara un rapporto di sintesi e di aggiornamento relativo alle materie di interesse trattate. L'attività del «Club dei Giuristi" continuerà sia nei seminari di approfondimento trimestrali sia per il Libro
dell'anno. Il seminario di elaborazione, giunto al III anno, sarà dedicato a "Efficacia e modificazione dei valori costituzionali". Il seminario
sarà articolato in tre parti. La prima, di quattro incontri sulla natura giuridica dei valori. La seconda parte di sei incontri, sulle tecniche di efficacia dei valori. La terza parte, di sei incontri, sulle richieste di efficacia di valori espresse, nei cinquanta anni della Costituzione nei diversi campi del diritto. In collaborazione con la Scuola Romana di Psicologia del lavoro e dell'organizzazione riprende il corso di perfezionamento in psicologia del lavoro e dell'organizzazione. Il corso, iniziato nel dicembre 1995, si articola in quattro Laboratori: organizzazione aziendale, selezione del personale, formazione e valutazione delle posizioni, delle prestazioni di lavoro e del potenziale. Obiettivo del corso è formare in modo professionale "Esperti di sviluppo delle risorse umane", destinati ad operare nelle direzioni del personale delle varie organizzazioni produttive, nelle società di consulenza e come liberi consulenti aziendali. Anche la Sezione di Didattica continua a lavorare al progetto di attività formativa nel campo della didattica della storia, curando iniziative direttamente attinenti alla metodologia pedagogica e alla didattica o ad esse riconducibili. Nell'ambito di tale progetto la Sezione didattica, che ha curato e ampliato le attività degli anni precedenti dandosi una struttura più definita e autonoma, utilizzando strumenti audiovisivi ed informatici, proseguirà la sua attività di laboratorio per rielaborare il materiale prodotto all'interno dei seminari di studio e delle altre iniziative di interesse didattico realizzate dall'Istituto. L'Istituto, in qualità di componente del Consorzio Baicr (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) e in base alla con147
venzione stipulata tra l'Università degli studi di Roma di "Tor Vergata" ed il Consorzio stesso partecipa, inoltre, ad un'iniziativa di "formazione a distanza" per il personale della scuola. I corsi di perfezionamento attivati per il 1997 riguardano la matematica, l'epistemologia, la geografia, l'educazione civica e la musica e sono: La didattica della matematica e i nuovi programmi del biennio. Epistemologia: teoria, storia e prassi della scienza. Elementi di didattica. Uomo e ambiente. Elementi di didattica. La cittadinanza: cultura, storia, diritto. Elementi di didattica. Educazione musicale. Elementi di didattica. I corsi prestano particolare attenzione alla didattica, con lo scopo di fornire un supporto all'insegnamento delle diverse discipline. La partecipazione avviene a distanza con l'invio, agli iscritti, delle otto unità didattiche che compongono i rispettivi corsi. È previsto un esame finale. Ogni corso ha, da parte del Provveditorato agli studi, un riconoscimento normativo (punteggi per le graduatorie) sia per quanto
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riguarda i docenti di ruolo, sia per quelli non di molo. La segreteria del corso è appoggiata all'Istituto che se ne occupa direttamente. L'Istituto Sturzo, in collaborazione con le fondazioni Lelio e Lisli Basso, Giangiacomo Feltrinelli, Giulio Pastore e l'Istituto Fondazione Gramsci ha avviato una iniziativa comune "Formaurbis. Alta scuola per la qualità del governo locale" con l'obiettivo di accompagnare e sostenere, con la riflessione scientifica e l'azione formativa, il mondo delle autonomie locali, contribuendo alla costruzione di una rinnovata qualità dell'autogoverno. Infatti, le città italiane e, giù in generale, l'intero mondo delle autonomie locali stanno conoscendo una stagione di intenso rinnovamento sociale, istituzionale e politico. Le comunità locali si vanno collocando sulla "frontiera" delle innnovazioni politiche, economiche e sociali e si propongono ormai come interlocutrici dei governi nazionali e delle autorità comunitarie delle forze sociali e degli attori economici e finanziari. ISTITUTO LUIGI STURZO
Via delle Cappelle, 35 - 00186 Roma Tel. 0616892390 - Fax 0616864704
Segnalazioni
DAluo CAVENAGO Dirigere e governare una organizzazione non profit, Cedam, Padova 1996. Il volume di Dario Cavenago, professore associato di Economia Aziendale ed incaricato di Economia delle Organizzazioni Non ProJìt alla Facoltà di Economia dell'Università di Trento, propone una lettura del funzionamento di associazioni, fondazioni e cooperative secondo un modello aziendale. A partire dalle letture delle pii importanti teorie economiche sul tema (quelle di Weisbrod, di Hansmann e di James), Cavenago analizza le "regole e le attività" delle organizzazioni non-profìt, per delimitarne lo spazio di azione. Mentre le teorie esaminate spiegano il fenomeno non profit in un'ottica macroeconomica, l'analisi dell'zutore si incentra, invece, sull'aspetto economico-aziendale, allo scopo di "spiegare quali siano le relazioni che uniscono tra loro l'esistenza di un profitto, il tipo di produzione effettuata e le forme istituzionali utilizzate per l'esercizio dell'attività". Dopo una prima parte generale, Cavenago prosegue analizzando alcuni casi specifici di organizzazioni non-profìt. L'autore presenta i casi del Banco Alimentare (dalla nascita di questo tipo di organismo negli Stati Uniti al suo sviluppo in Europa ed, in particolare, il caso del Banco Alimentare italiano
sorto a Milano nel 1989), dell'Associazione Alfa (nome fittizio dietro il quale vi è un'associazione fondata da un sacerdote, nel 1977, per progetti in sostegno a tossicodipendenti) e quello dell'opera Barelli (una IPAB sorta a Rovereto nel 1946, su iniziativa del Circolo cittadino ACLI e della "Protezione della Giovane", come Scuola-laboratorio per ragazze disoccupate). Del primo caso, Cavenago mette in luce soprattutto la possibilità di un esempio di alleanza fra profit e non-profit; del secondo, lo sviluppo della struttura organizzativa a partire da un fondatore e da un'organizzazione professionale; nel caso dell'IPAB, invece, Messia Daprà, propone un'analisi e una ridefinizione della gestione strategica dell'organismo esaminato che si presenta in una situazione critica. Nel capitolo finale del volume, scritto da Alceste Santuari, vengono affrontati gli aspetti giuridico legislativi delle organizzazioni non-profìt, attraverso un inquadramento storico e l'analisi delle linee evolutive nel contesto europeo. Santuari traccia una storia di questi organismi a partire dal Medioevo all'Illuminismo, ricordando, in un paragrafo, "l'avversione nei confronti dei corpi intermedi" del periodo dei lumi. Prosegue, quindi, con il periodo 1800-1860 (caratterizzato dallo statalismo liberale che non riconosceva autonomia agli enti morali) per poi presentare le leggi che, a partire
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dalla legge del 1862 (che regolamentava e coordinava associazioni, fondazioni di assistenza, beneficenza, credito, risparmio, cooperazione e previdenza prevedendo so!tanto controlli atti a garantire la congruità degli scopi statutari) ma soprattutto con la legge de! 1890 (trasformazione delle Opere pie in istituzioni statali) tendono a porre il controllo dello Stato su tali enti. Analizzando il periodo 1900-1942, Santuari ricorda che "i primi del Novecento vedono il sorgere del c.d. Welfare State" il cui sviluppo egli vede a partire da!l"uso strumentale delle organizzazioni inventate dalla società civile". In ogni caso, il XX secolo viene considerato come il periodo di passaggio dallo statalismo liberale al pluralismo sociale". Santuari analizza, quindi, i! Codice civile del 1942, la Costituzione del 1948 e l'assetto attuale riguardante le organizzazioni non-profit, a partire da! d.PR 24 luglio 1977 (sulle IPAB) fino ad analizzare il recente progetto di legge sulla disciplina fiscale della organizzazioni non educative di utilità sociali (ONLus).
sponsabile del Servizio biblioteca ed editoriale, in quiescenza da! 1993. La Rassegna fornisce un quadro ampio e aggiornato a! 31 dicembre 1995 delle monografie e degli articoli apparsi nei periodici specializzati e si propone, senza volere avere caratteristiche di esaustività e di completezza, di favorire la consultazione e di incrementare l'autonoma ricerca di bibliotecari, documentaristi, ricercatori, operatori e studenti. La pubblicazione, nelle sue 87 pagine, contiene circa 2.000 citazioni bibliografiche ordinate sia per argomenti (ambiente; natura e paesaggio; boschi e foreste; aree naturali protette; parchi urbani; pianificazione e programmazione ambientale, territoriale e paesistica), sia per aree geografiche (aree naturali protette suddivise per regioni; parchi nazionali in Italia; parchi in Europa e ne! mondo). La bibliografia diventa così uno strumento di lavoro aperto, scomponibile e ricomponibile sulla base delle esigenze di una utenza differenziata e diversificata che può sviluppare operazioni di ricerca incrociata, anche mediante un indice di circa 1.000 autori e curatori e un indice di 170 enti.
CONSIGLIO REGIONALE DELL'UMBRIA
Tutela ambientale e aree protette Collana Segnalazioni, Perugia 1997
Sempre a cura dell'Ufficio documentazione, informazione e studi de! Consiglio regionale dell'Umbria, è stato pubblicato nella collana "Segnalazioni" il Repertorio per
"ThteI.a ambientale e aree protette" è il titolo della Rassegna bibliografica pubblicata, nell'ambito della collana "Segnalazioni" a cura dell'Ufficio documentazione, informazioni e studi de! Consiglio Regionale dell'Umbria. La pubblicazione, diretta da Massimo Stefanetti, è stata redatta da Rossana Rometta, utilizzando anche le schede bibliografiche predisposte da Franca Monacelli, già re-
materia delle leggi e dei regolamenti delle Regioni a statuto ordinario dal i gennaio 1988 al 31 dicembre 1996 La pubblicazione, diretta da Massimo Stefanetti e redattada Nicola Tofanetti e Laura Arcamone, costituisce un utile aggiornamento del precedente repertorio riferito al periodo 1971-1987, nel quale sono state segnalate 12746 leggi e 391 regolamenti. Dai problemi istituzionali al bilancio e alle
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finanze, dall'economia all'urbanistica, dai servizi sociali e sanitari ai servizi culturali e sportivi, il repertorio, suddiviso in 17 materie, fornisce un quadro completo della produzione legislativa e regolamentare. Nel periodo oggetto della pubblicazione (1988-1996) le Regioni a statuto ordinario hanno prodotto 7195 leggi e 294 regolamenti regionali. Allo scopo di facilitare la consultazione è stato predisposto un indice alfabetico-analitico. Il repertorio contiene tabelle e grafici delle leggi regionali, dall'esame dei quali è possibile rilevare, tra l'altro, la consistenza numerica complessiva e per singole regioni, nonché dati numerici e percentuali nell'ambito di ciascuna materia. Complessivamente, dalla nascita delle Regioni a statuto ordinario al dicembre 1996, sono state pubblicate nei Bollettini Ufficiali 19941 leggi e 685 regolamenti regionali. Biblioteche, centri di documentazione, istituti di ricerca, associazioni e cittadini interessanti possono richiedere copie di entrambi le pubblicazioni all' Ufficio documentazio-
ne, informazione e studi del Consiglio regionale dell'Umbria, Palazzo Cesaroni, Piazza Italia, 2 - Perugia - tel. 075/576.3300. Fax 0751576.3283.
DANIELL SOUSTRE DE CONDAT
Rom, una cultura negata Assessorato Incarichi Speciali, Comune di Palermo, 1997 Nell'Anno Europeo contro il Razzismo, l'Assessorato agli Incarichi Speciali della città di Palermo si è fatto promotore del
primo libro-guida italiano alla cultura gitana. "Rom, una cultura negata", è stato curato dalla tziganologa Daniell Soustre de Condat, la quale ha offerto il suo lavoro di studiosa delle minoranze etniche per aiutare, in particolare, i bambini Rom: "bambini senza diritti nei campi privi di servizi a circa 830 giorni dal 2000". Il libro, infatti, nell'intenzione della sua autrice e dei suoi promotori vuole rappresentare, oltre che un fatto culturale, un'iniziativa a sostegno dei diritti umani di una minoranza etnica (riconosciuta tale dall'ONu nel 1979) troppo spesso ignorata se non respinta ai margini anche e forse soprattutto, nelle nostre città di Paesi più sviluppati. Il libro, scritto in caratteri chiari e corredato di belle foto, si rivolge anche "a quanti nella comunità Rom non devono dimenticare la loro cultura, la loro tradizione". E, infatti, anche per la sua articolata veste grafica, il volume si presenta di facile lettura per chi non conosce bene l'italiano, sia per i lettori zingari, che per i bambini e ragazzi Gagi (i non-zingari in lingua Romani). Proprio quest'ultimi, attraverso la lettura di questo libro possono capire meglio i loro compagni zingari che sempre di più si aggiungono alle classi delle nostre scuole, soprattutto elementari e medie inferiori. Soustre de Condat ribadisce che proprio l'integrazione del bambino zingaro nella nostra società post-industriale rappresenta "una delle grandi sfide degli anni futuri". Un'integrazione che deve avvenire, spiega giustamente l'autrice, non forzatamente ma nel rispetto della diversità della cultura di cui questa minoranza è portatrice. Una cultura antica, che ha radici nell'India occidentale e che conserva una propria lingua, indo-ariana, attraverso la cui cono151
scenza è possibile, anche per gli stessi zingari - le cui tradizioni sono tramandate soltanto oralmente -, salvaguardarne la specificità in una società, quale la nostra, che tende ad omologare tutte le diversità al suo interno. Il libro promosso dal Comune di Palermo parla degli "zingari" (forse il termine più neutro per definire un mondo rappresentato da diverse etnie, per sui sarebbe più corretto parlare di "culture zingare") a partire proprio dall'analisi di questo nome. In particolare è la cultura Rom ad essere presentata, proprio per il prevalere di tribù Rom nel territorio di Palermo. E l'autrice ricorda che in Italia, comunque, gli zingari sono divisi in due grandi gruppi principali: Rom, appunto e Sinti (gli zingari italiani). Ed a proposito di quest'ultimi, spesso si tende a ritenere che gli zingari siano tutti "immigrati" e quindi a confondere la questione "nomadi" con quella degli "immigrati extracomunitari" non si considera, invece, che vi sono zingari presenti nel nostro territorio da secoli e, quindi, italiani a tutti gli effetti. Altro luogo comune diffuso fra l'opinione pubblica italiana è quello per cui gli zingari sono "tutti ladri e mandano le loro donne e bambini a chiedere l'elemosina". In realtà, molti di loro si trovano a vivere una fase di passaggio che li vede ancora legati all'economia contadina. Gli zingari erano venditori di cavalli, di oggetti - soprattutto pentole - di rame, erano artigiani arrotini; in un'economia avanzata come la nostra diventa sempre più impossibile vendere cavalli, pentole e "limare forbici e coltelli". Alcuni di loro fanno ancora questi mestieri, aggiungendo nuovi oggetti di arti-
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gianato come bottigliette lavorate e piantine di bonsai. Alcuni zingari sono ancora circensi, giostrai e musicisti ambulanti ma è difficile dire per quanto tempo ancora potranno esserlo. Molti, la maggior parte ormai, non sono più da tempo nomadi e desiderano costruirsi una casa in muratura, anche se piccola: ma se è già difficile che si conceda loro dei campi attrezzati per la sosta di roulotte! Eppure, alcuni zingari già vivono da anni in condomini e diversi responsabili di pubbliche amministrazioni locali si sono posti il problema di una loro maggiore integrazione. Ma ancora una vol-
ta, l'autrice di "Rom, una cultura negata" raccomanda di tenere in considerazione soprattutto che "la società zingara è una società molto complessa, tanto dal punto di vista storico-culturale che sociologico" e, quindi, afferma che appare paradossale "di fronte alla sua complessità, la pretesa delle istituzioni e delle organizzazioni religiose di volere emanare leggi valide per tutti gli zingari, o ridurre il proprio intervento ad un assistenzialismo che assume i caratteri... di un vero e proprio etnocidio". Appare, così, importante l'appello fatto in prefazione al volume dall'Assessore agli Incarichi Speciali di Palermo per ricordare che i bambini e le bambine Rom "insieme alle bambine e ai bambini di Palermo, ogni giorno ci ricordano che la differenza, l'altro da se, è una ricchezza e non un motivo per emarginare qualcuno". Il libro viene distribuito in tutta Italia facendone richiesta al seguente numero di fax: 091\7405929. Per informazioni, ci si può rivolgere al seguente numero di telefono: 091\7405950.
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