Queste istituzioni 12

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queste a a istituzioni

interventi e inchieste

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Taccuino della crisi Questioni di metodo nel dibattito della sinistra di Sergio Ristuccia

3 Il capitalismo « orientato »

4 Fra formule e parole d'ordine 5 Politiche sindacali e tecniche di

controllo 7 « Giungla retributiva» e ortodossia della proletarizzazione 8 A che serve parlare di lavoro improduttivo 10 Il « progetto » a medio termine: una questione di metodo per la sinistra

La parola crisi è fra le più emblematiche. Basta ricordare il suo successo come termine usato per contrassegnare - in momenti diversi - le espressioni della coscienza filosofica o morale sorte a indagare il malessere del secolo o dell'epoca. L'ambiguità è stata fra le ragioni del successo filosofico e ideologico della parola. O, se non l'ambiguità, l'indeterminatezza. Oggi che il termine è ripetutissimo nel linguaggio politico si ha un'altra prova di questa indeterminatezza. Naturalmente, l'indeterminatezza è nelle cose, più che nella parola: questa soltanto rappresenta bene l'indeterminatezza delle cose. Cos'è la crisi italiana? Oggi è possibile mettere insieme un'ampia bibliografia sull'argomento. Molti libri diagnostici sono usciti in questi ultimi anni e fra questi alcuni sono di buona qualità. Su molte cose sembra esserci un certo accordo, e ciò probabilmente dipende anche dalla durata del disagio. Certe formule concernenti, per esempio, il carattere « strutturale » della crisi sano

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.2 diffuse e ripetute su sponde diverse e in occasioni e luoghi diversi. Anche le sottolineature si ripetono. C'è sotto pelle un certo pessimismo: irrecuperabile, ingovernabile ma anche gravissima e simili sono aggettivi, riferiti a «situazioni » o «condizioni », che esprimono spesso sentimenti e percezioni comuni dalle quali non mancano di nascere confusioni notevoli. Esempio di confusione è stata, nel corso del 1976, l'attesa imminente del peggio che poi, almeno sul piano economico, non c'è stato. In mezzo al « balletto delle cifre» di cui ha parlato la stampa, cioè in mezzo alla disputa su dati e stime discordanti di origine pubblica, la prospettiva strutturale e quella congiunturale si sono fuse. Sicché mai si è parlato tanto e con più preoccupazione di crisi come in un anno, quale il 1976, che pure è stato, almeno nei confronti dell'anno precedente, un anno di « ripresa » sul piano economico. Naturalmente, la crisi c'è ed è una crisi importante. Paolo Volponi ha suggerito una distinzione: c'è, da una parte, « la grande crisi storica prodotta dalla crescita civile e democratica delle masse popolari e dalla conseguente pressione sullo Stato e su tutte le sue strutture e sovrastrutture »; c'è dall'altra parte, 'cc la cri•si dell'economia nazionale e di tutti i suoi sistemi e sottosistemi ». La prima è « una crisi positiva », la seconda è c una crisi

negativa perché gira in senso contrario alla prima e anzi tende a bloccarne, con i suoi meccanismi, il normale svolgimen-. to o quanto meno a condizionarpe, secondo la sua logica distinta, gli effetti liberatori» (v. il "Corriere della sera » del 26 luglio 1977). La distinzione mi pare semplificata e mi pare eccessiva l'enfasi sul significato della «grande crisi)) che « cammina dentro la storia della trasformazione del Paese e del mondo ». Tuttavia le distinzioni sono assolutamente necessarie: in ciò sono d'accordo con Volponi. Così2 come ne condivido la preoccupazione che tutto venga ridotto al problema della crisi economica. Non solo perché è giust& il giudizio sulla povertà innovativa del capitalismo italiano nelle sue diverse espressioni, ma anche perché la trasformazione degli equilibri sociali è stata troppo grande. Anche soltanto in termini di realpolitik non sarebbe perciò legittima una considerazione troppo ristretta della « crisi » e della strategia di superamento. Una diversa distinzione era stata proposta dal CEN'SIS nell'ultimo Rapporto sulla situazione sociale del paese: la crisi rappresentata dalle grandi emergenze (ordine pubblico, tracolli industriali. ecc.) e quella, definita « lenticolare », che si coglie sul piano della vita quotidiana. È stato intravisto in questa distinzione un atteggiamento moralistico. Probabili-

queste ìstituziong luglio 1977

Direttore: SERGIO RISTUCCIA - Condirettore responsabile: GIovNI BECHELLONI. Redazione: MARcO CIMINI, ENNIO COLASANTI, MARINA GIGANTE, MARCELLO ROMEI, FRANCESCO Siixnx, VINCENZO sPAzIANTE:

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Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972). Spedizione in abbonamento postale -. IV gruppo STAMPA: Arti Grafiche Città di Castello.


3 mente si tratta anche di difetti e difficoltà analitiche. Comunque il tema del quotidiano, così come quello analogo e contiguo, delle realtà sommerse dell'economia e della società italiana sono centrali per ogni riflessione in termini di trasformazione sociale. Ouesto taccuino è dedicato all'osservazione - in momenti diversi - dei modi con cui da parte della sinistra che fa capo al Partito comunista si è parlato della crisi e di come farvi fronte. Approfittando dell'elasticità della formula editoriale di questa rivista abbiamo sospeso la pubblicazione del fascicolo per attendere la pubblicazione dell'annunciata «proposta » di un « progetto a medio termine» del Partito comunista. Parlando di tale proposta possiamo chiudere queste note su alcune questioni di metodo dell'azione politica di massa. Ben convinti che il discorso dovrà continuare sul piano dei contenuti. IL CAPITALISMO « ORIENTATO » Una cosa colpisce nelle risposte di Claudio Napoleoni ad Augusto Graziani nella polemica che si è svolta fra di loro sulle pagine di Rinascita (numeri del 15 ottobre, 22 ottobre e 12 novembre 1976): il tono ambivalente - a volte rassicurante e «progressivo », a volte rassegnato con il quale viene esposta l'ipotesi interpretativa sulla fase del sistema capitalistico quale è vissuta in Italia, oggi. La tesi è: per superare la crisi bisogna orientare il capitalismo con strumenti politici. Infatti, in punto di fatto, il rapporto di produzione è sì tuttora un rapporto capitalistico, « ma manca una condizione essenziale per il funzionamento dell'economia capitalistica, cioè la cosiddetta flessibilità » nelle condizioni di impiego della forza-lavoro. Questa è una situazione generalizzata nel mondo capitalistico odierno, ma certo in Italia si verifica con forza maggiore che altrove ». Anzi - aggiungerà Napoleoni in una successiva occasione (L'errore della Conf industria, in «La Repubblica », 8 gennaio 1977) - ((la distribuzione delle 'regole del gioco', ossia la sostituzione della concorrenza con

l'assistenza e dell'assunzione del rischio d'impresa con la protezione politica, non sarebbe mai diventata un problema per gli industriali italiani se il costo di quella sostituzione, in termini di prelievo di prodotto netto industriale da parte di ceti non industriali, non fosse stato reso avvertibile e alla fine insopportabile dai successi sindacali ottenuti dai lavoratori dell'industria ». Il fatto è, però, che il sindacato « ha raggiunto i limiti delle sue possibilità, nel senso che o si dà un prolungamento politico dell'azione sindacale o diventerà difficile mantenere le stesse conquiste sindacali ». Di conseguenza, in punto di diritto, l'intervento politico è chiamato a « costituire » il mercato con tre diverse misure in tre diversi momenti. La prima è questa:; « all'origine,.., l'azione politica .. deve compensare il costo assunto dal lavoro salariato con la riduzione del prelievo di plusvalore effettuato dalle realtà (smithianamente e mandanamente) improduttive »; la seconda è la « definizione• 'contrattuale' della politica di sviluppo industriale, dove i contraenti sono, da una parte, i poteri politici e, dall'altra, le imprese e le loro organizzazioni »; la terza « alla fine » si riassume così: « spetta alla politica organizzare una domanda di consumi pubblici, o sociali che si voglia dire ». Il tono rassicurante è nel fatto stesso di aver formulato l'ipotesi e di averne sottolineato la natura politica, cioè la sua operabilità solo a condizione di una azione delle forze politiche della sinistra e soprattutto del PCI. L'ipotesi sta a dimostrare che esiste una possibilità diciamo progressiva, nel senso proprio assunto dal termine nell'ideologia della sinistra stori ca in Italia; insomma, nella lunga crisi in atto sarebbe dato di superare una « nota essenziale » del capitalismo, quella della spontaneità. Infatti, bisogna rilevare -. secondo Napoleoni - che: « 1) lo svuotamento delle realtà improduttive è' una difesa del profitto e degli investimen ti contro la rendita e il consumo parassitario; 2) la politica industriale contrattata è un supporto di coordinamento a investimenti che mantengono il principio dell'efficienza capitalistica ma che oggi senza quel supporto sarebbero difficil-


4 mente accessibili perché non si potrebbe scaricarne il rischio sulla ' flessibilità ' dell'impiego del lavoro; 3) la domanda dei consumi pubblici è un rafforzamento del mercato di fronte all'indebolimento dei consumi privati indotti direttamente dalle imprese ». Insomma, si avrà la sopravvivenza del capitalismo ma solo a condizione che il governo del sistema economico abbia una nuova direzione politica. Questo è il succo del discorso. Ma, prima ancora di passare più al concreto (e qui più che in ogni altro caso - il disegno avrebbe bisogno di verifiche concrete) lo stesso Napoleoni riduce la portata rassicurante della sua ipotesi osservando che

la prospettiva del capitalismo orientato è « una prospettiva di instabilità sociale profonda », è una prospettiva quindi di transizione, « ma di transizione a un 'altro' che abbiamo ben pochi elementi per poter prevedere ». Dico subito che è quest'ultima notazione a convincermi più di ogni altra cosa, al punto da chiedere se, stando così le cose, l'ipotesi stessa di un capitalismo da far rifiatare orientandolo non sia proprio puramente confortatoria. Il punto è questo: se la crisi non consente per la sua stessa importanza uno sganciamento della sinistra dalle co-decisioni alle quali, al contrario, viene chiamata dallo stesso equilibrio parlamentare la qualità dell'intervento si qualifica non tanto in ragione di ipotesi generali che legittimino la necessaria compromissione, ma solo in ragione di un esercizio adeguato delle capacità di intendere le implicazioni di ogni azione da compiere (o da consentire) e di prevederne gli effetti di retroazione. Prendiamo pure per buona un'ipotesi progressiva. Si tratta, in ogni caso, di un insieme di suggestioni utili solo se costituiscono stimolo di un atteggiamento critico non divagatorio. Un certo pragmatismo critico è infatti l'atteggiamento più congruo ad una società politica all'insieme consociativa e fortemente conflittuale. FRA FORMULE E PAROLE D'ORDINE

Per cominciare: è utile il suggerimento tanto ripetuto, per esempio dallo stesso

Napoleoni, della lotta alle rendite? Non si tratta solo di ricordare come ha fatto Francesco Ciafaloni su « Inchiesta» di luglio-settembre 1976 (Rendita, profitto e movimento operaio), che l'uso del concetto di rendita è tale da farne una categoria puramente residuale e serve - come già aveva notato Luigi Spaventa (Note

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su rendite e profitti: l'esperienza italiana in «Moneta e Credito » 1973, 308) - a designare « tutte le forme di reddito che non ci piacciono ». Bisogna chiedersi, fuori da visioni macroeconomiche troppo riduttive, se il suggerimento contenga elementi analitici (e poi normativi) nei confronti dei singoli casi di possibile rendita e/o lavoro improduttivo. Per chi, come noi ha più volte segnalato l'importanza di considerare da vicino, per esempio, le vicende della contrattazione sindacale nel pubblico impiego statale, regionale, parastatale, locale ecc., o dell'organizzazione professionale para-sindacale di medici e di «liberi professionisti'> è motivo di delusione che da tanti discorsi generali sia venuta una così scarsa attenzione degli economisti verso queste vicende. Dove e quando sarà mai possibile verificare le politiche concrete di una lotta alla «rendita »? I problemi in realtà si pongono in termini molto meno semplificati vorrei dire: molto meno manichei - di quanto traspaia dai tanti discorsi, di vario segno politico, che hanno trattato di parassitismi secondo verba generalia. Ma. d'altra parte, occorre ben maggiore rigore nell'affrontare i singoli casi. Bisogna per esempio, stabilire qualche criterio preciso per una politica retributiva delle funzioni pubbliche che abbia come riferimento gli obiettivi dei singoli servizi pubblici e dell'efficienza dei medesimi. Poi bisogna usare questi criteri come metro di giudizio e di azione politica. Il problema non è quello - o almeno: non è solo quello - di tornare a certi equilibri macroeconomici quali potrebbero essere assicurati da una ipotetica politica dei redditi antinflazionistica, ma è quello di un controllo sociale sui servizi retributivi. La politica delle retribuzioni (in senso lato: ricomprendendo in essa anche le remunerazioni del lavoro professionale e autonomo) è legata ai problemi

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sostanziali del tipo: perché certo lavoro è socialmente utile, quale grado di eff icienza è richiesta e chi dovrà controllarla, quali alternative di sostituzione sono possibili per alcuni tipi di servizi, e così via. Al di fuori di questi riferimenti non c'è che la logica del confronto e della rincorsa fra posizioni sociali e retributive, logica che può valersi abbastanza indifferentemente di un rozzo ed esibito corporativismo o di un egualitarismo sessantottesco. Di conseguenza, a parte la quastione terminologica della proprietà della parola <c rendita» quando venga usata per designare fenomeni che sono al di fuori di un processo produttivo in senso stretto (nell'ambito del quale si tratta di sapere quanta parte dei guadagni del singolo capitalista sia profitto e quanta, invece, rendita) la lotta alle rendite decade a formula. Per trarsi fuori dalle secche può servire la parola d'ordine dell'austerità? È stato Luciano Barca, su <c Rinascita » del 4 febbraio '77, a parlare dell'austerità come <'parola d'ordine ». « La proposta del PCI di fare dell'austerità il centro di un programma a medio termine può indubbiamente abbisognare di ulteriori qualifica.zioni >', ha scritto Barca. Ed ha poi aggiunto: «non dimentichiamo tra l'altro che una certa opinabilità c'è sempre nella scelta della parola d'ordine da assumere come centrale, soprattutto quando gli obiettivi e i vincoli sono molti e spesso in contraddizione tra loro ». L'austerità come aveva dichiarato Berlinguer nel discorso all'Eliseo del 15 gennaio '77 è « una scelta obbligata e duratura e, al tempo stesso, una condizione di salvezza per i popoli dell'occidente » e come tale è stata già proposta dagli stessi «gruppi dominanti ». Come rendere subito evidenti i contenuti diversi che ne facciano in positivo una parola d'ordine efficace nella direzione del processo di trasformazione sociale? In fondo, è proprio questo il senso della discussione che c'è stata a sinistra sull'idea di austerità proposta dai comunisti e sottolineata soprattutto da Berlinguer. Nell'ambito limitato di una discussione sulla forza dell'cc austerità » come parola d'ordine molte obiezioni sono valide. In-

dubbiamente una certa moralità sacrificale non pare fatta per stimolare all'azione collettiva innovativa anche perché l'appello all'austerità suppone una chiarezza di obiettivi che non c'è così come non c'è l'attendibilità dei risultati ottenibii. Sicché è giusto che a proposito di alcune obiezioni sollevate a sinistra sull'austerità Barca si lamenti: « possibile che non si riesca mai a discutere delle questioni all'ordine del giorno e si debba sempre discutere di qualche altra cosa? ». Ma è altrettanto giusto chiedersi: possibile che per un'azione politica efficace si ritenga sempre necessaria una parola d'ordine? Non è anche questo un vizio di metodo che facilita comportamenti divagatori? POLITIcHE SINDACALI E TECNICHE DI CONTROLLO

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Ha perfettamente ragione Francesco Ciafaloni quando su « Quaderni Piacentini », (Il tempo dei sacrifici, n. 56, luglio 1975), osservava - a proposito dell'azione sindacale per le riforme - che « fa paura pensare che qualcuno possa fare il bilancio delle lotte per le riforme o per gli investimenti di questi anni senza andare a vedere se le riforme e gli investimenti ci sono stati; se ci sono stati nelle forme e nei tempi richiesti o in altra forma. Sulla strada ambiziosa e originale scelta dal sindacalismo italiano delle richieste non salariali, se non si elaborano controlli si fa solo fumo. Intanto si potrebbe cominciare con i controlli storicamente possibili, e immetterne nella formazione dei quadri operai i metodi e i risultati. I controlli di massa di cui tutti parliamo, si costruiscono anche elaborando valutazioni e controlli rigorosi, dando al movimento la memoria storica necessaria a valutare cose più complicate della busta paga, che per fortuna sappiamo controllare tutti, senza bisogno di formazioni apposite. Invece questo aspetto è clamorosamente mancato ». D'accordo, ma siamo sicuri che valutazioni e controlli rigorosi siano mancati solo per questi aspetti « originali » dell'azione sindacale (la politica per le riforme) e non anche per gli altri più tipici aspetti come sono i contratti? L'impressione che si ricava dalla lettura del li-

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bro di Tatiana Pipan e Dario Salerni, Il sindacato come soggetto di equilibrio (Feltrinelli ed., Milano 1975), è proprio questa: che il controllo sugli effetti e sull'applicazione dei contratti sia anch'esso mancato o non sia, comunque, del necessax'io rigore. Gli autori prendono in esame il contratto nazionale metalmeccanici del 1972: dalle motivazioni che guidarono l'azione sindacale alle clausole finali stipulate (manca - e sarebbe stato di grande interesse un esame dell'applicazione del contratto e delle conseguenze da esso avute). Ebbene, una considerazione ripetuta da Titan e Salerni è questa: «paradossalmente, proprio dopo un contratto, in cui massimo è stato il desiderio sindacale di influire e controllare le condizioni di fatto (non solo sul piano dei vantaggi materiali, ma di vari aspetti dell'organizzazione del processo produttivo), massima è l'incertezza sui risultati effettivi della politica salariale. Proprio perché non si dispone né di strumenti teorici indiscussi, né di una consolidata tradizione di studi empirici, i pochi studi esistenti lasciano spazio ad interpretazioni diversissime (anche grazie all'insufficienza dei mezzi statistici italiani). Non si è, quindi, in grado di prevedere con esattezza se e quanto in Italia opererà la « vendetta del mercato" o il "potere sindacale". E questo, non soltanto grazie alle caratteristiche di relativa incidenza effettiva di ogni azione sindacale in ogni tempo e paese ma grazie a dispositivi contrattualmente previsti e adottati dal sindacato nella più assoluta miopia dell'assetto salariale esistente, e dei possibili effetti della propria politica sulle condizioni salariali di fatto » (140141). È un giudizio preciso che nelle pagine di un libro problematico e, tutto sommato, quasi troppo ricco di ipotesi ( un lavoro di ricerca aperto » lo definiscono gli autori) non trova antidoti né attenuazioni. In concreto, di. che si tratta? « Non risulta - dicono Pipan e Salerni -, che il sindacato metalmeccanico abbia promosso alcuno studio della situazione economica e in particolàre dei fattori oggettivi che costituiscono la sua forza contrattuale e organizzativa (tra cui il mercato del lavoro) o la resistenza degli

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imprenditori (disponibilità di pagamento o indicatori della vulnerabilità delle imprese di fronte al conflitto operaio). Né, d'altro canto, si è preoccupato di valutare, almeno con studi disaggregati, gli effetti della sua politica precedente (salari e orari di fatto, produttività ecc.). Agli uf fici economici e sindacali è stata chiesta soltanto un'analisi dei costi della piattaforma'> (p. 208). La ragione di ciò è che — se la teoria economica, « considerando l'azione contrattuale del sindacato costan te o estranea al campo analizzato, osserva soltanto gli andamenti effettivi>' - « al contrario i sindacati mostrano uno scarso interesse per essi, e si limitano all'osservazione degli andamenti contrattuali. Sempre in materia salariale, infatti, è notevole la scarsa propensione dei sindacati italiani a valutare le politiche adottate nel quadro di un'analisi dei salari di fatto » (p. 216). Così, « nonostante il motivato parere di alcuni economisti, il sindacato metalmeccanico non ha affatto sentito il bisogno di verificare se la politica 'egualitaria' avesse avuto effetti nella struttura differenziale dei salari di fatto » (p. 217). I contenuti contrattuali vengono insomma considerati a sé, come formula a forte componente ideologica di cui occorre assicurarsi una certa realizzazione a breve termine. Come dire: di cui bisogna assicurarsi la « copertura finanziaria» al momento dell'entrata in vigore. Per propria natura l'orizzonte operativo del sindacato rimane l'immediato? In questo' orizzonte è possibile la verifica dell'azione sindacale da parte degli interessi che il sindacato rappresenta e sostiene (la busta paga che tutti sanno controllare, come dice Ciafaloni, e attraverso la quale si misurano da parte di tutti i risultati conseguiti con l'azione sindacale). Il passaggio ad obiettivi di più lungo periodo (magari limitati alla politica degli investimenti aziendali e senza arrivare alle rifor me che dovrebbe essere chiamato a realizzare lo stato nelle sue diverse articolazioni) vuole non solo volontà di controllo sociale ma tecniche diffuse di controllo. A meno di non fare dei gruppi dirigenti sindacali delle nuove tecnostrutture con la più ampia delega di potere.

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« GIUNGLA RETRIBUTIVA » E ORTODOSSIA DELLA PROLETARIZZAZIONE

La « giungla retributiva » nel settore pubblico ha avuto molti fautori, molti padri e padrini in una contrattazione sindacale sui generis sulle cui caratteristiche ci siamo soffermati in altra occasione (rimanderei al fascicolo n. 6 Sindacati e

sistema amministrativo: materiali per una ricerca). Vale la pena di mettere bene in chiaro che fra le cause di una non-politica retributiva c'è una sorta di immunità critica che la sinistra ha concesso a sé stessa in questa materia. Il fatto è importan•te perché ha sedimentato abitudini consolidate che non è facile sostituire: l'osservazione è già stata fatta su queste pagine ma conviene ribadirla. In maniera chiara riconosce il fatto Valentino Parlato (v. l'introduzione al libro Burocrazia e capitale in Italia di Saverio Caruso, Verona 1974) e ne identifica alcune ragioni storiche. Scrive Parlato: « la previsione della proletarizzazione ha comportato per molto tempo che tutti gli impiegati, salvo i quadri (quelli che Marx aveva definito 'ufficiali superiori') siano stati assunti come unica categoria senza reali differenziazioni al suo interno. In questo caso l'economicismo ha portato non solo alla negazione delle componenti sovrastrutturali, ma anche all' 'appiattimento' di elementi economici grezzi come i livelli di stipendio e per ultimo a un rivendicazionismo che, di fatto, rinsaldava diseguaglianza e gerarchia. Rispetto ai ceti medi in generale... si può osservare che la sinistra dopo esserseli resi nemici gratis, secondo la nota espressione di Gramsci, ora cerca un'alleanza che rischia di essere: di subordinazione sociale della classe operaia e di conservazione del sistema economico. Separare la politica nei confronti degli impiegati pubblici dalla questione dello stato ha comportato la loro riduzione a soggetti capaci solo di rivendicazioni economiche e di carriera. Nei casi di gravi minacce reazionarie i partiti della sinistra hanno fatto e fanno appello agli impiegati, ma in quanto cittadini, perché difendano i meccanismi costituzionali e, talvolta, anche lo 'stato di di-

ritto': il che - ove non rappresentasse una separazione totale dai problemi pro. pri della burocrazia e non fosse un comportamento da situazioni eccezionali costituirebbe un massimo cli eversione rispetto al ruolo della burocrazia e alla natura burocratica del moderno stato rappresentativo. Per concludere su questa critica, si potrebbe dire - e non per amore del paradosso - che il tante volte denunciato 'opportunismo' delle sinistre tradizionali nei confronti di ceti medi e burocrazia ha il suo fondamento pro. prio nell'ortodossia della proletarizzazione, rimossa ma non rianalizzata dopo la esperienza degli anni '20 ». Nel porre il problema di chi debba pagare il costo della crisi qualcuno, a sinistra, ha pensato che attraverso la leva fiscale si rendesse possibile operare una scelta almeno di massima: a quali ceti sociali riservare l'onere maggiore. La situazione economica ha posto all'ordine del giorno il problema di un serio aumento del prelievo fiscale: per non far superare ai deficit pubblici le soglie della totale ingovernabiità e per recuperare risorse finanziarie da destinare ad investimenti. Quale prelievo fiscale? come va ripartito? Considerando che fra i compiti propri, in via di principio, dell'azione fiscale è di operare equitativamente sulla distribuzione dei redditi, si è pensato alla riduzione di alcune aree di «rendita » tramite il prelievo. L'idea prevalente è stata quella di restringere la «rendita burocratica ». Identificata la fascia di reddito medio-alto (a reddito fisso e/o a reddito professionale), si è visto che in questa fascia di reddito si colloca, per esempio, il grosso di un funzionariato pubblico e privato che si è andato rafforzando nel gioco delle rincorse retributive degli ultimi quindici anni. Di qui la tentazione di pensare al prelievo fiscale anche come strumento di riequilibrio della politica retributiva. A parte ogni discorso sul realismo di tale proposito, c'è da dire che attraverso la leva fiscale si potrà contenere o penalizzare in qualche modo un'area di parassitismo, ma non si potrà incidere sulle origini del fenomeno. Nulla sta a dimostrare che il meccanismo del «lavo.


è priva soprattutto di quella valenza di lotta di classe che è associata fin dall'inizio alla dicotomia. Nelle mani di Adam Smith la distinzione è uno strumento di lotta della trionfante borghesia contro lo stato semifeudale. Se ha un senso ritenerla oggi, essa deve svolgere la stessa funzione nelle mani del proletariato ». Ma come? Secondo Salvati, « ciò non può av venire che sul piano dei valori d'uso », cioè - se non significa banalizzare troppo - del lavoro per produrre che e per chi. Il che mi sembra assai giusto perché è qui uno dei principali problemi di prospettiva: naturalmente significa aprire una prospettiva importante di elaborazione teorica e politica, ma anche - allo stesso momento - sottrarre la dicotomia ad un uso analitico e/o pratico-politico immediato. Il che, ancora, mi sembra una giusta conseguenza. Vale tener conto a questo proposito della fortuna che la dicotomia produttivoimproduttivo ha avuto in epoca recente nell'area culturale della «nuova sinistra ». Ma il risultato non è stato felice: si è concluso con uno scacco netto. Consente di ripercorrere brevemente questa vicenda sessantottesca il saggio di Elmar Altvater e Freek Huisken Lavoro produttivo e improduttivo un po' tardivamente tradotto da Feltrinelli negli « Opuscoli marxisti'> (n. 8 - giugno 1975). Il saggio è del 1970 e fu pubblicato come contributo ad una discussione apertasi sulla rivista di

ro improduttivo» possa essere proficuamente aggredito e corretto per mezzo del prelievo fiscale. Voglio dire: non solo in termini quantitativi ma, com'è necessario, in termini qualitativi. Anche in questo caso non basta prendere come cittadini indifferenziati i membri di un ceto sociale e tenersi al di fuori di una specifica considerazione della funzione sociale alla quale sono addetti. A CHE SERVE PARLARE DI LAVORO IMPRODUTTIVO Parliamo, dunque, di lavoro improduttivo. Nella semantica dei diagnostici della crisi italiana, una parola chiave è stata, a lungo, rendita. Che è anche una parola assai ricca di tradizione nella storia dell'economia politica, riportandola direttamente all'epoca classica dell'economia. In ragione di ciò la parola ha avuto una significativa portata ecumenica. Altre parole usate alternativamente o in contemporanea sono: parassitismo, consumo improduttivo, lavoro improduttivo, settore improduttivo, capitalismo assistenziale, spreco e così via. S'intende che ogni espressione ha la sua storia, ha il suo contesto teorico di riferimento. Alcune tendono a concettualizzazioni precise se ricondotte al sistema di ragionamenti da cui sono tratte, altre tendono inevitabilmente al generico senso comune. L'importante sarebbe - ancora una volta - l'explicatio terminorum per evitare il falso ecumenismo dei discorsi generali. Qui mi sembra utile ricordare il significato assunto in questi ultimi anni dal termine « lavoro improduttivo ». Come ha osservato Michele Salvati (mi riferisco all'articolo Note di lettura su « La giungla retributiva », in « Quaderni Piacentini» n. 50, luglio 1973), « la dicotomia lavoro produttivo-lavoro improduttivo ha una lunga storia nelle dottrine economiche classiche, ed è un tema importante nell'analisi di Marx e dei marxisti ». Tuttavia, molte sono le difficoltà e le ambiguità della distinzione nella tradizione marxista, anche perché «la definizione marxiana (basata sulla produzione o meno di plusvalore) è oggi priva di un chiaro significato interpretativo e politico: a parte le ambiguità teoriche, essa

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Berlino Sozialistische Politik. Gli usi dei concetti di lavoro produttivo e di lavoro improduttivo furono di vario segno durante la contestazione politica. Uno è quello di Baran e Sweezy secondo cui è improduttivo <cquel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata ». Dunque è lavoro improduttivo quello frutto dell'irrazionalità e dell'anarchismo del sistema economico capitalistico. A parte l'estrema genericità di questa indicazione (peraltro riconosciuta dagli stessi autori), ad essa si è obiettato che si tratta di un uso moralistico della categoria di lavoro improduttivo, come dimo-

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9. strerebbe - fra l'altro - l'alto e pericoloso grado di arbitrarietà di una eventuale definizione della « società razionalmente ordinata ». Un altro uso fu quello del movimento studentesco del '68 dif fuso soprattutto in Germania ma con echi importanti da noi, e tendente a ridefinire l'area sociale del lavoro produttivo per inserirvi tutto il settore degli addetti alla ricerca scientifica sulla base dell'idea della scienza come forza produttiva. Il senso politico era chiaro: suffragare la tesi della proletarizzazione tendenziale degli studenti e delle professioni accademiche per mostrare quindi il legame oggettivo fra studenti e proletariato. Naturalmente, ciò è stato possibile soprattutto in quei paesi dove la ricerca scientifica e soprattutto tecnologica è assai sviluppata in termini sia di ruolo strategico che di occupazione. In tali casi sono numerose le prove di evidenza e senso comune. In Italia - a parte l'eco che pure c'è stata nei settori della ricerca tecnologica la tesi della proletarizzazione degli studenti ha percorso altre strade e si è avvalsa di altri argomenti (in sostanza ci si è valsi dell'idea che tutto il lavoro salariato ha una sostanziale omogeneità quale che sia il suo contenuto, in quanto fenomeno necessario del sistema capitalistico diffuso). Ancora un diverso uso della dicotomia è stato fatto quando questa è stata adeguata, in modo da risultare intercambiabile, ad un'altra classica dicotomia: quella di lavoro manuale e lavoro intellettuale. Siamo, da un lato, nel mezzo di interpretazioni sociologiche della società globale soprattutto per quanto attiene ai lavori che orientano le sue tendenze di base (si toccano i temi, da varie prospettive, della dinamica delle classi medie, della piccola-media borghesia come gruppo sociale di riferimento implicito dello sviluppo sociale e così via). Siamo, dall'altro, nel mezzo di una proposta ideologica ispirata fortemente al modello cinese e alle suggestive trasposizioni che la nuova sinistra ha fatto della «rivoluzione culturale » iniziata nel 1966. Infine, sempre ai fini di una corretta coscienza di classe, c'è stato il tentativo di •ripristinare un concetto corretto della dicotomia in riferimento alle condizioni di

riproduzione del capitale nell'ambito del sistema occidentale. E' ciò che intesero fare, nel saggio citato, Altvater e Huisken. Il senso del tentativo sta nel riproporre la definizione classica di lavoro improduttivo come lavoro che non crea plusvalore per il capitale e la cui remunerazione essendo a carico del profitto diminuisce l'accumulazione e fa sì che gli improduttivi vivano dello sfruttamento dei lavoratori produttivi. Naturalmente si tratta di verificare la definizione generale articolan-. dola, scomponendo caso da caso, fase da fase il processo produttivo e più ancora il processo di «valorizzazione » del capitale. Allora, il tentativo rimase sulle generali impantanandosi in un ampio inventario di prospettive di analisi e mi pare che sia rimasto avvolto nelle difficoltà e aporie di sempre. Basti pensare quanto si complichi il discorso quando dallo schema riguardante il capitale complessivo si passa alla necessaria disaggregazione dei capitali singoli detinati sì a processi diversi dalla produzione materiale ma ugualmente capaci di remunerazione, specie nei sistemi capitalistici maturi in cui è molto alta e predominante la componente finanziaria. Il fatto è che il discorso di allora aveva la finalità di recuperare ancora una volta la centralità storico-politica della classe operaia, come produttrice di plusvalore, contro le insidie di una generalizzazione interclassista della classe operaia intesa come insieme dei lavoratori a salario. La finalità era dunque ideologica e consisteva nello stimolare una coscienza di classe corretta che ripercor resse attentamente i momenti essenziali del sistema di produzione capitalistica, secondo lo schema marxista classico. Dué cose notare a proposito di tale tentativo: che esso vuole sottolineare la per manenza dei meccanismi dello sfruttamento come caratteristici e fondanti del sistema economico in atto al di là dei veli creati dalle condizioni di vita dei paesi industriali; che esso, comunque, si xiferisce ad un sistema capitalistico all'insieme classico nel- suo funzionamento e bene in salute. Cosa avviene di una teorizzazione così impostata in una situazione di capitalismo fortemente inceppato e anomalo? Nel ca-

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'lo so italiano la dicotomia lavoro produttivo-lavoro improduttivo ha rischiato di essere riproposta come strumento di rivalutazione dello stesso modello capitalistico in relazione al fatto che questo è stato troppo usurato da una crescente destinazione di profitto al consumo improduttivo. Ma su questo piano non si è andati molto avanti poiché risultano improbabili un recupero ideologico e una rimotivazione del lavoro produttivo quando le prospettive di superamento della crisi sarebbero in un connubio fra classe imprenditoriale e classe operaia «produttiva>' senza chiarezza di sbocchi e, tutto sommato, innaturale allo stato degli equilibri sociali. Se ci si pone con decisione nell'ottica della « transizione'> lavoro produttivo e lavoro improduttivo possono essere concetti utili? Alla domanda ha cercato di rispondere Fausto Anderlini con un volume della collana «Dissensi» dell'editore

del lavoro facendo riferimento alla produzione in generale e non al solo modo di produzione capitalistico - occorre riconoscere « con chiarezza la natura intima-. mente ideologica di queste categorie ». Insomma, solo se « viene apertamente confessato e riconosciuto » il significato di lotta politica di queste categorie e « si abbandona il tentativo cli dare un qualche significato scientifico a queste catego-. rie cariche di storia, esse potranno essere ridefinite ed acquistare il senso che gli proprio di strumefiti imprecisi ma efficaci mediante i quali i rappresentanti di interessi in lotta affermano la loro visione circa l'organizzazione sociale ad essi più confacente » (v. « Quaderni Piacentini »n. 62 - 63, p. 145).

IL « PROGETTO » A MEDIO TERMINE: UNA, QUESTIONE DI METODO PER LA SINISTRA

De Donato: Lavoro produttivo e lavoro improduttivo nel capitalismo e transizione, 1977. L'accurata ricognizione di tutti i materiali marxiani sul tema e la ricomposizione che egli ne fa approdano ad una sistemazione teorica molto articolata ma fortemente astratta e formale. Attraverso le categorie del lavoro produttivo, singolo e collettivo, del lavoro riproduttivo, del lavoro improduttivo riproduttivo e del lavoro..improduttivo non riproduttivo messe in riferimento alle diverse prospettive con cui considerare il processo di produzioiie e riproduzione del capitale si arriva, sul pianodel1a storicità concreta, non molto oltre la sottolineatura della « consape.volezza» che il « capitalismo monopolistico» contemporaneo « induce ad una riclassificazione permanente nell'articolazione delle classi medie », e si denuncia a questo proposito l'arretratezza dell'analisi in riferimento alla « specificità sociale permanente» di questi ceti in rapporto alla classe operaia. Sicché, in conclusione, mi pare che abbia perfettamente ragione Michele Salvati nelle sue più recenti riflessioni sul tema quando afferma che - non potendosi definire in alcun modo scientifico l'impiego « produttivo» e quello « improduttivo »

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È stata pubblicata all'inizio di luglio '77 la « proposta di progetto a medio termine'> del Partito comunista. Si tratta del primo tentativo del maggiore partito della sinistra di definire sistematicamente elementi e caratteristiche della crisi e di identificare possibili vie di superamento attraverso indicazioni che -i secondo le premesse - aspirano alla concretezza. I Nel grani fiume di una pubblicistica ricca di diagnosi e di ricette e che è caratterizzata da molte convergenze analitiche, iniziative di questo genere prese da uno dei principali soggetti politici del nostro sistema politico rappresentano - in teoria - un modo di fare il punto sulle diagnosi e sulle prospettive coinvolgendo il maggior numero possibile di persone. Per questo, pur con i molteplici rischi, del rito declamatorio che sono propri di tali reali o presunti coinvolgimenti di massa,. è importante seguire lo svolgimento dell'iniziativa del PCI. Vale augurarsi che abbia successo sul pia-no dei contenuti e sul piano del metodo; in altri termini che la coscienza sociale riconosca nella proposta -tina qualche rispondenza ad esigenze reali quale essa può verificare, nelle diverse condizioni,,

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111 con più immediata intuizione. Ovvero se così non fosse - c'è da augurarsi che la coscienza sociale sappia «controproporre ». Mi pare che si debba dire subito una cosa. Sono molti gli handicaps che il lavoro di elaborazione ha davanti a sè. Il maggiore .handicap è costituito dal ritardo con il quale ci si è mossi. Un ritardo che va valutato non in confronto ad altre iniziative consimili di altri partiti o gruppi di interesse (che non ci sono state), ma in confronto a quanto richiedevano contemporaneamente la situazione economico-sociale del paese e il ruolo crescente del Partito comunista nel sistema politico. L'una e l'altra cosa avrebbero dovuto suggerire una partenza più tempestiva. Perché questa non c'è stata, ad esempio, già nel '75 all'indomani delle elezioni regionali? La risposta che sembra più logica è che probabilmente l'elaborazione di un programma delle sinistre - quale avrebbe finito per essere un progetto del Partito comunista - sarebbe stata una scelta, magari implicita, ma energica, per la linea dell'alternativa al potere di governo democristiano, linea che il PCI ha in tanti anni motivatamente escluso di fare propria. Questa stessa ragione mi pare che spieghi la lentezza con la quale dopo le elezioni del 20 giugno 1976 è maturata la decisione di mettere mano alla elaborazione del progetto. Solo alla fine dell'arino infatti viene annunciato il - proposito di fare un programma a medio termine, dopo un primo lungo surpiace caratterizzato dall'attesa di iniziativa da parte del governo delle astensioni, soprattutto in riferimento ai rapporti della nostra economia con i centri del potere finanziario mondiale. Questo annuncio segnalava il fatto che stavano per essere toccati i limiti di convenienza, per il PCI, di una posizione di attesa. Per altro verso, aggravandosi visibilmente l'insofferenza sociale verso la politica di attesa del PCI, il progetto annunciato sta,va a dimostrare le capacità autonome di «partito di lotta e di governo » che il Partito comunista andava

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rivendicando. Il significato forte del proposito annunciato veniva successivamente sottolineato dai discorsi di Berlinguer sull'austerità. Ma, subito dopo, questo proposito trovava dinnanzi a sè un ostacolo improvviso nella nuova ribellione studen-tesca. Tutti i principali elementi-guida del. progetto riassunti appunto intorno alla linea di un'austerità costruttiva perdevano l'iniziale mordente di fronte al rifiutodi udienza che veniva così opposto da un'area sociale indecifrabile ma di notevole consistenza - e comunque di grande: importanza per la sinistra. L'idea di un progetto non bastava a questo punto per dare energia ad una presenza politica che volesse giocare d'anticipo. Da una parte le difficoltà stesse di elaborazione in ragione della sintesi delle prospettive e degli interessi che questa imponeva; dall'altra parte, l'inizio delle trattative fra i partiti per l'accordo programmatico sono i fatti che spiegano come: in seguito l'iniziativa venga sviluppata in. sordina. Il che di per sé non sarebbe affatto un male: ma la marcia in sordina è servita a recuperare il ritardo, ridando. al «progetto » la qualità di uno strumento efficace per tenere insieme le energie: sociali che sono dominate in misura crescente da tendenze centrifughe? Un secondo handicap si lega al fatto che la «crisi » viene intesa diffusamente dalla coscienza sociale come un fenomeno di. disintegrazione e di ingovernabilità. La cosiddetta «opinione pubblica» ha avvalorato in questi ultimi anni tale perce-. zione dei fatti. La quale, naturalmente, è: una percezione di senso comune in sè non. errata sul piano dell'osservazione semplificata delle cose, sul piano delle maggiori. evidenze. Essa tuttavia contiene possibilità di diagnosi e terapi quasi esclusivamente dominate da idee tradizionali dii ritorno all'ordine. L'aspirazione diffusa & quella, in termini sempre più semplificati,. di un «ordine» purchessia. Ciò non significa che l'aspirazione venga oggi appagata al punto che si possa parlare dii «repressione » come hanno fatto di recente alcuni intellettuali francesi e italiani. Significa, in ogni caso, che questo genere


12 di idee tiene il campo e cerca soddisfazione dove può. Ed è ovvio come ciò costituisca un pesante handicap. Sempreché - beninteso - il progetto voglia essere fortemente innovativo così come il Partito comunista continua a dichiarare e come è giusto credere. Un terzo handicap riguarda il grado di informazioni disponibili sul funzionamento del sistema sociale. Se il progetto vuole 'misurarsi sui problemi di medio termine, cioè su questioni concrete alle quali dare soluzione attraverso un'azione combinata di iniziativa sociale e di politica economica e amministrativa, è necessario che queste questioni siano conosciute col maggior grado possibile di approssima.zione. Ma il problema di un corretto flusso di dati sui diversi aspetti della realtà sociale è quello che è. Il ritardo medio fra fatti accaduti e dati accertati è già piuttosto notevole per quei fenomeni macro-economici per i quali l'apparato di governo, in senso lato, ha strumenti istituzionalizzati di conoscenza. È sempre ampiamente irrisolto il problema dell'attendibilità, della tempestività, della confrontabilità delle statistiche disponibili. Ma - oltre a questo fatto di per sé già tale da impedire a una forza politica non introdotta negli apparati di governo una base conoscitiva seria - c'è il problema di intendere fenomeni sociali ed economici non rilevati. Lo scarto fra dati e realtà appare crescente e di conseguenza si è andata sempre più diffondendo la consapevolezza di una economia e di una società sommerse. Nel preparare un « pro. getto» a medio termine come far fronte questo grave vuoto informativo? Sarebbe pensabile che una grande organizzazione di massa si prepari ad un lavoro progettuale con alcune inchieste di massa, con una propria rilevazione di 'fenomeni: che - beninteso - non sarà sostitutiva o « alternativa » a quella uffi•ciale (sia perché un tale proposito sarebbe puramente velleitario, sia perché le rile'vazioni ufficiali non sono da buttar via come vorrebbe una critica estremista della scienza), ma sarà di verifica di tali dati. E potrebbe addirittura essere tale da ri-

baltare la prospettiva analitica offerta dai dati oggi disponibili, proprio se riuscisse a cogliere meglio i fenomeni sociali in atto e la loro dimensione effettiva. Gli handicaps che ho segnalato toccano obiettivi e metodo del «progetto a medio termine »: sono handicaps che il Partito comunista si trova di fronte per ragionì che sono esterne al partito ovvero per ragioni che la stessa linea del partito ha contribuito a creare. Mi pare, comunque, utile partire di qua per valutare innanzitutto la metodologia del «progetto a medio termine ». La «proposta» pubblicata in luglio è «aperta ad ogni positivo apporto di valutazioni critiche di suggerimenti sia di carattere 'generale che di 'carattere specifico, ad ogni utile e coerente correzione e arricchimento ». Così scrive Giorgio Napolitano nell'introduzione ed aggiunge: «il nostro è innanzitutto, un invito alla lettura - attenta e obiettiva, ma criticamente impegnata e al più schietto e serrato confronto ». Come è stato annunciato in una conferenza stampa tenuta l'8 luglio, il volumetto di 122 pagine che contiene la proposta è stato stampato in centomila copie. Sarà dunque diffuso ampiamente in tutta l'organizzazione del partito e fuori di essa perché il dibattito coinvolga quanto più possibile la base e sia perciò un dibattito di massa. Il punto è importante; infatti questo metodo (che dovrebbe costituire un capitolo nuovo del lavoro di massa comunista) è stato indicato come uno dei principali elementi caratterizzanti dell'iniziativa. Le indicazioni di metodo sono state date da Enrico Berlinguer nel discorso al «convegno degli intellettuali » tenuto a Roma in gennaio e da Giorgio Napolitano nella relazione al Comitato Centrale del maggio '77 e nella stessa introduzione alla «proposta». Per Berlinguer il progetto mdeve il risultato di una ricerca e di un lavoro comune che vanno al di là di quelli che sta compiendo e compirà il gruppo dirigente del nostro partito ». Infatti - egli aggiunge -a «anche solo per non ricadere nella negativa esperienza del centro sinistra, noi ... dobbiamo guardar-


13 'ci dall'errore di ogni progettazione fatta unicamente a tavolino ». A questo fine «noi - precisa Berlinguer vogliamo compiere una verifica di massa delle proposte da fare, vogliamo stimolare l'apporto di tutti coloro che 'intendono impegnarsi attivamente a cambiare questa società ». Il proposito è assai sottolineato nel discorso agli intellettuali. Berlinguer arriva a dire: «vogliamo, insomma, fare una cosa che non si è 'mai fatta in Italia, sia per la sostanza che per il metodo: arrivare, cioè, a un progetto di trasformazione discusso fra la gente, con la gente ». « Non può essere che questo - conclude Berlinguer - il modo di procedere del partito più rappresentativo della classe operaia, ossia della formazione politica che tende di continuo a realizzare una sintesi tra spontaneità e riflessione, tra immediatezza e prospettiva Secondo quanto Napolitano ha riferito, la Direzione del Partito a fine '76 aveva incaricato una Commissione di sovraintendere all'elaborazione di un progetto. Ouesta Commissione ha potuto avvalersi per alcuni mesi del contributo di diversi gruppi di lavoro. Malgrado i molti scambi di idee e le rielaborazioni plurime del testo, « sentiamo - disse a maggio Napolitano - di non avere potuto ancora • raccogliere in tutta la loro ricchezza ela-borazioni ed esperienze che si sono corn• piute nel movimento operaio e democra• tico ». Egli ha sottolineato come «le condizioni di grande tensione politica e di forte impegno operativo in cui noi tutti, • quadri del Partito, siamo stati coinvolti » hanno creato difficoltà nel lavoro preparatorio. «Credo che l'esperienza fatta -in questi mesi - egli ha detto - ci debba indurre a riflettere - al di là dell'indubbia incidenza che ha avuto, nelle vicende della redazione del progetto a medio ter-mine, l'eccezionalità della situazione poli- tica - sulla necessità di una migliore organizzazione del nostro lavoro permanente di ricerca e di elaborazione, di una più chiara e razionale divisione di compiti tra i diversi settori di lavoro del Partito e tra i compagni tra i quadri del Partito ad ogni livello ». Una delle maggiori difficoltà è stata quel-

la di «verificare, di volta in volta, il grado di maturità delle posizioni e delle proposte da introdurre nel progetto, intendendo per maturità non solo la chiarezza o concretezza cui si fosse giunti sul piano, magari, di una elaborazione personale, ma l'unità effettivamente realizzatasi, sui singoli punti, nel Partito come intellettuale collettivo ». Se questa difficoltà ha molto pesato, ugualmente si può dire che « il valore del testo... sta proprio nel fatto che esso non costituisce il contributo magari lucido e suggestivo che un gruppo di ricercatori, sia pure legati al nostro Partito, abbia elaborato per proprio conto, ma un documento realmente rappresentativo di un grande partito di massa ». Quanto alle fasi di lavoro successive, Napolitano fece a maggio alcune precisazioni. Uno: « Quello che sottoponiamo oggi al Comitato Centrale non è un testo già pronto per la pubblicazione, e tanto meno è una redazione definitiva del progetto. Il testo sarà sottoposto nei prossimi giorni a una revisione - anche ampia a seconda delle necessità - sulla base delle osservazioni e delle proposte di correzioni che sono già state formulate dai compagni della Direzione e che saranno formulate, anche per iscritto, dai compagni del Comitato Centrale ». Due: « Esso sarà subito dopo dato alla stampa e verrà largamente diffuso, ma con la esplicita intenzione di promuovere un vasto dibattito, per qualche mese, nel Partito e fuori del Partito, e di raccogliere tutte le sollecitazioni e gli appor ti utili ai fini di un serio arricchimento del progetto, di un coerente rafforzamento della sua ispirazione e della sua capacità di incidenza ideale e politica ». Tre: «Solo a conclusione di questa fase appronteremo una redazione definitiva da riportare al Comitato Centrale ». Bisogna dare atto del notevole senso di problematicità e dell'apertura con cui è stato impostato il lavoro di elaborazione del « progetto ». Molta problematicità nell'ambito, però, di una procedura tradizionale e classica: questo mi pare debba essere subito notato. In che consiste questa procedura? Si affida ad una Commis-


.14 sione di predisporre un primo testo; si tratta di una Commissione nominata dalla Direzione del Partito che agirà con una certa elasticità cercando l'aiuto di vari gruppi di lavoro. Elaborata una proposta che non è una proposta degli organi ufficiali del Partito, questa viene diffusa assai ampiamente per discuterne a livello di massa. Dopo quella fase di dibattito collettivo viene redatta una proposta definitiva che gli organi del Partito discuteranno in via ufficiale e approveranno, impegnando poi da quel momento il Partito su questo progetto. Ho detto che è una procedura tradizionale perché prevede un iter che va dall'alto al basso e poi torna all'alto per le ultime decisioni. Beninteso si tratta di una procedura ragionevole, in qualche modo sperimentata ed è difficile pensare a qualcosa di diverso che abbia un uguale grado di affidabilità per quanto riguarda la conclusione del lavoro entro termini abbastanza brevi. La fase delicata è quella del dibattito di massa: come si svolge? In qual modo vengono raccolte critiche e proposte? In qual modo verranno selezionate ed elaborate? È chiaro che senza avere elementi di conoscenza a questo proposito, senza notizie sull'approfondimento dato a questi aspetti metodologici rimane assai incerto il senso finale di questa consultazione di base: momento didattico, lavoro di formazione del consenso, òvera inchiesta collettiva sullo stato del paese? Si potrà dire che essa sarà inevitabilmente, un p0' di tutto, ma solo se si tratterà di una sollecitazione reale della coscienza e della ragione collettiva potrà parlarsi - a mio parere - di una importante innovazione di azione politica. So bene, naturalmente, che sono facili a questo proposito le formule e le chiacchiere, e assai difficili ed onerose le prassi innovative per lo. più tutte da inventare e definire. Però, se si fosse partiti più per tempo, sarebbe stato pensabile vviare alcune inchieste di massa necesarie, come innanzi ho fatto cenno, anche per quanto concerne il problema delle informazioni. È oggi recuperabile - ed in quel modo - nella fase di dibattito sulla «proposta » una rilevazione di esigenze

sociali e di notizie sulla realtà quale potrebbe essere un'inchiesta di massa? È questo il problema centrale. Naturalmente, quando insisto su questo' punto non indulgo affatto alle semplificazioni demagogiche del partecipazionismo generico nelle sue diverse accezioni, arrabbiate o integrazioniste. Al contrario, mi interrogo su problemi reali e precisi di metodo affinché una prassi di partecipazione che leghi « spontaneità» e «riflessione » sia una cosa seria, tale cioè da accrescere in modo sostanziale la democrazia dei processi di decisione.

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Che la procedura seguita sia di tipo tradizionale lo dimostra proprio l'appello, certo appassionato e convinto, che Berlinguer ha rivolto agli intellettuali: « poiché per trasformare la nostra società si tratta, come abbiamo detto più volte, non di applicare dottrine o schemi, non di copiare modelli altrui già esistenti, ma di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia, cioè, maturo, necessario e quindi possibile, è naturale che il primo momento' di questo nostro lavoro sia stato e debba essere l'incontro con le forze che sono o dovrebbero essere creative per definizione, con le forze degli intellettuali, della cultura ». Ma lo stato attuale del mondo intellettuale italiano non è molto' brillante, lo stato dell'organizzazione delle sedi di ricerca è quello che è: senza indicazioni e richieste di metodo per un lavoro collettivo serio rimane l'appello' etico-politico che però, da solo, sfiora un'idealistica mozione dei sentimenti. Uno strumento importante di consultazione sembrava potessero essere le « conferenze di produzione» di cui più volte si è sentito parlare in questi anni. Alcune conferenze sono state organizzate ma con quali criteri di preparazione e di svolgimento e con quale utilizzazione finale del dibattito? L'importanza di un certo sviluppo procedurale è oggi fondamentale per dipanare richieste e critiche che vengono dalla base e per sollecitare l'apporto delle energie popolari.

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15 atto autonomo dei comunisti ma il suo spirito non è di esaltare ciò che li divide dalle altre forze democratiche. È invece, quello di contribuire a stimolare il dibattito e l'incontro ed anche l'impegno altrui ad un pari sforzo di elaborazione e di proposta ». Il documento perde nel discorso dell'« Unità » il carattere di un documento ancora in gestazione e diventa già adesso « la nostra piattaforma », «un documento politico che rappresenta e impegna il PCI ». Nello stesso momento si perde addirittura traccia di quella consultazione di massa che sia pure nello schema classico berlingueriano era stata indicata come elemento caratterizzante dell'iniziativa. Sicché se ne può dedurre che «la più schietta apertura al confronto » diviene apertura al confronto con le « forze democratiche », cioè con i partiti. Insomma, si intravede quasi una rinuncia a fare quella «cosa » che non si era « mai fatta in Italia, sia per le sostanze che per il metodo: arrivare, cioè, a un progetto di trasformazione discusso fra la gente, con la gente ». Se uno dovesse prendere per decisiva questa impressione si potrebbe chiudere il discorso qui. Senonché è troppo importante il «progetto » come strumento di intervento democratico e di controllo per lasciarlo agli umori tattici del gruppo dirigente del PCI. Conviene invece mantenere l'ipotesi che la «Proposta> sia ancora soltanto uno strumento di lavoro e che tutte le procedure di consultazione di base debbano essere seriamente espletate.

Dalle nobili ambizioni del discorso di Berlinguer si passa - e il tono si abbassa molto - al riconoscimento delle difficoltà nel discorso di Napolitano tenuto nel maggio. Ci potrà essere stato un p0' di irnderstatement dovuto all'opportunità che le trattative fra i partiti per l'accordo programmatico non fossero turbate in quel momento da un'iniziativa comunista. fortemente caratterizzata. La « proposta » - vale appena ricordare - è stata presentata solo dopo la conclusione delle trattative per l'accordo interpartitico. Certo, però, le difficoltà sono così verosimili che è inutile ricercare altre ragioni per il tono più problematico dell'esposizione .di Napolitano. Nella quale si coglie, però, una particolare attenzione a definire i confini entro i quali ci si muove. «Non abbiamo preteso di tradurre le nostre proposte né in precise quantificazioni né in scadenze e tappe successive rigidamente definite: essendo questo un compito che spetta ai poteri pubblici, agli organi della programmazione, dotati di strumenti adeguati, piuttosto che ai partiti, e volendo noi in sostanza proporre delle scelte politiche, anche se sufficientemente articolate e specificate, così da non apparire vaghe o ambigue ». In questa affermazione c'è il riconoscimento dell'inadeguatezza del partito sul piano della conoscenza specifica della realtà sociale, c'è al contempo l'attribuzione agli organi dello Stato di un'adeguatezza di strumenti che è tutta da dimostrare, c'è una distinzione di compiti fra Stato e partiti al plurale che singolarmente assume un'omogeneità funzionale di questi ultimi senza rivendicazioni - in altri tempi, tradizionali - di caratteristiche particolari per il Partito comunista, c'è infine la dichiarazione della buona volontà a nòn rimanere nel vago e nel generico. Forse sto un po' forzando il pensiero altrui, ma devo dire che, secondo le mie impressioni, c'è in tutto ciò un senso riduttivo. L'impressione trova conferma nella lettura del .fondo dell'<c Unità » del 3 luglio Una proposta

La parte prima della «Proposta » è intitolata « Necessità e orientamenti di un progetto di trasformazione e rinnovamento della società italiana ». Il capitolo III è dedicato in particolare ai «valori e indirizzi da affermare in un processo di rinnovamento della società ». È questo un tema difficile e spinoso che rischia di naufragare nel discorso generico. Il tentativo dei redattori della «Proposta» è quello di aperta. muoversi sul filo conduttore della riforLa preoccupazione principale dell'artico- ma intellettuale e morale della società. lo è di evitare qualsiasi pretesa integraliRitengo che il tentativo non sia riuscito: sta ed egemonica: «La Proposta è un in breve, senza alcun particolare sforzo -

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16 di storicità concreta, vengono messe in or dine le buone intenzioni di una media coscienza progressista. Non manca niente; ci sono anche le contraddizioni fra l'una e l'altra. Personalmente non ho nulla contro un certo sincretismo che non trovo necessariamente acritico e che anzi considero una risposta criticamente proporzionata alla complessità della realtà sociale. Qui però ho l'impressione di un elenco, accurato e insieme sommario, guidato dall'esigenza di un equilibrio troppo sensato e prudente. Non c'è un'idea guida espressa in positivo. Per questo non so resistere alla tentazione di ricordare il giudizio di Kant sul sincretismo come prodotto artiFicioso di « un certo sistema di coalizione di principi che si contraddicono », un sistema, spesso « pieno di slealtà e di superficialità », che sembra raccomandarsi « a un pubblico che è contento di saper qualcosa di tutto» per « avere così un mantello a ogni acqua ». Ammetto che la severità di questo giudizio per relationem avrebbe bisogno di qualche estesa dimostrazione. È meglio però sospendere il giudizio perché c'è anche un problema puramente espositivo da porre a questo punto: non sarebbe stato più corretto nello spirito del documento enucleare alla fine le indicazioni di valore invece che fare una dichiarazione di principi da cui in qualche modo dedurre o con cui avvalorare le indicazioni politiche concrete?

Insomma: è sì interessante vedere le prese di posizione comuniste sulla guerra allo spreco e sul recupero della buona amministrazione dopo il generale venir meno delle indiscriminate filosofie espansionistiche, ma si rischia nel far ciò al di là di ogni pregiudiziale malizia di ridurre la portata della proposta ai risvolti autocritici di certe prese di posizione. Il fatto è che manca un apporto originale, a parte l'importanza in sè che una partito del peso elettorale del PCI esponga con chiarezza le sue principali convinzioni ed opinioni di massima in riferimento ai problemi sul tappeto nel breve-medio periodo. Dato che, nell'insieme, tutto nella «Proposta» è abbastanza ragionevole c'è poco da discutere. Il nocciolo dei problemi è per lo più nel come: è qui che scoppianG le contraddizioni ovvero esse trovano soluzione al di là della sapienza delle formule. Per mio conto trovo significative alcune prese di posizione come le seguenti che ho colto un po' a caso: - «si pone innanzitutto la necessità di alternare gradualmente il carattere prevalente di « intermediario finanziario" che ha assunto lo Stato, rispetto a quello di erogatore di servizi »; - « occorre evitare che la spesa per il personale cresca, in tutta l'area pubblica, al di fuori di qualsiasi sforzo di previsione e programmazione complessiva, fino a sfuggire a ogni possibilità di controllo »; - « si tratta di negoziare sostanziali cambiamenti nel processo d'inLa seconda parte della « Proposta» riguarda « le politiche che i comunisti pro- tegrazione delle agricolture dei paesi membri della CEE, tali da consentire: di propongono per i prossimi anni ». grammare uno sviluppo agricolo dell'EuAd una prima lettura la parte seconda mi era parsa ricca di giudizi particolari e di ropa che tenga conto dei problemi della fame nel mondo e delle esigenze di cominteressanti prese di posizione. Ad una seconda lettura il documento mi pare che, plementarietà dell'agricoltura europea, con quelle del bacino del Mediterraneo malgrado ciò, non perda le caratteristiche di una raccolta diligente di opinioni e dei paesi dell'est; di stabilire un rapporgià abbastanza comuni che sono state e- to soddisfacente fra i bisogni alimentari spresse in quest'ultimo periodo dagli amdi ciascun paese e le potenzialità produttive interne per garantire ad ognuno bienti politico-culturali riformisti. Opinioni che vengono corrette con le esi- un sufficiente grado di autoapprovvigiogenze che sono poste dalla coscienza so- namento; di riequilibrare attraverso interciale ormai da tempo sollecitata alla par- venti organici e complessivi lo sviluppo tecipazione e che talora richiede con edi intere, vaste aree oggi emarginate dal nergia poteri e verifica dei poteri. Sono rocesso produttivo »; sono da perseguire esigenze che il Partito comunista è suffi- « uno spostamento drastico dell'asse decientemente allenato a cogliere. gli investimenti, soprattutto nel Mezzo-

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lT giorno, dalle produzioni di base (chimica, siderurgia, metallurgia non ferrosa) alle produzioni derivate e secondarie ( ... )» e « uno sviluppo della ricerca, in funzione sia dell'innovazione merceologica, che di quella ingegneristica e impiantistica, come supporto indispensabile al potenziamento e alla riconversione dei settori manifatturieri. ( ... ) Il problema non consiste soltanto in una maggior spesa per la ricerca, ma anche e innanzitutto in una razionalizzazione e migliore distribuzione dei finanziamenti già in essere. In par ticolare, vanno attentamente verificate e riformulate le finalità del CNR, nel senso della ricerca applicata, o quelle del CNEN»; - «condizione necessaria per una nuova politica del lavoro è una riforma delle strutture del salario e, più in generale, del costo del lavoro che punti a un aumento della parte diretta della retribuzione e riduca quella indiretta e che valorizzi la prestazione professionale effettivamente erogata ». Non proseguo in queste citazioni un po' casuali. Le ho riportate solo perché sono fra quelle che toccano i problemi sostanziali del che fare e che produrre, dimostrano una raggiunta consapevolezza di quanto siano decisivi i meccanismi istituzionali, impegnano - sempre per il tramite di strumenti istituzionali da realizzare - ad un controllo degli interessi sociali come, ad esempio, quelli economici dei lavoratori pubblici che pure potrebbero godere, da parte della sinistra, di qualche pregiudizio favorevole. Naturalmente sono citazioni che hanno un significato innovativo in quanto vengono

lette nel contesto dei discorsi di un certo' periodo e in riferimento alle posizioni di altri soggetti sociali e politici. Di per sé: rimangono ancora affermazioni generali. che rischiano usi ambivalenti se non sono seguite dallo sforzo rigoroso di delineare una specifica azione politica e di muoversi sul piano di una progettualità concreta.

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E qui torniamo al problema del metodo cioè di cosa è e di cosa può essere un progetto a medio termine della sinistra. Forse la «Proposta» potrebbe essere presa, per ora, come un memorandum, un'elencazione di temi e problemi sui quali. stimolare due diversi processi: il primo di ponderazione dell'un problema nei confronti dell'altro per decidere meglio le priorità, l'altro di progettazione vera, cioè puntuale, •ideativa, capace di misurare tempi, reazioni, effetti secondari e cosìi via. •L'apporto della ricerca scientifica da unai parte, l'apporto della consultazione di massa dall'altra divengono allora fattorii decisivi dell'azione politica. In questa prospettiva il compito del «gruppo dirigente» non dovrebbe essere tanto quello di procedere, nel frattempo e per proprio. conto, ad una separata riflessione da confrontare poi con quelle degli altri né quello di mediare l'un processo con l'altro, un gruppo di interessi con un altro, mai dovrebbe essere quello di coordinare questi diversi sforzi progettuali facilitando lai comunicazione reciproca e la reciproca ausiliarietà.


Rassegna Italiana di Sociologia ANNO DICIOTTESIMO

N. 2- APRILE-GIUGNO 1977

Uno civiltà mummificata?, di Camillo Pellizzi SAGGI E RICERCHE Stratificazione sociale, potere politico e potere economico nelle Isole Trobiand, di

Patrizia Resta RASSEGNE Il rapporto tecnologia-organizzazione nei « South Essex Studies », di Filippo Battaglia MATERIALI DI RICERCA Gli enti del settore agricolo nel sistema politico italiano, di Orazio Lanza Le. origini agricole della catena del pomodoro. Indagine sulla struttura socioeconomica dell'azienda contadina nell'agro nocerino-sarnese, di Mauro Cause NOTE CRITICHE Il narcisismo e la cultura moderna, di Richard Sennett LIBRI E RIVISTE

RECENSIONI ENGLISH SUMMARIES Un fascicolo L. 2.500. Abbonamento annuo L. 9.000 Estero 10.000. Soc. Editrice il Mulino - Via S. Stefano, 6 - Bologna

PROBLEMI dell'informazione ANNO I!, N. 2

APRILE-GIUGNO 1977

GLI ACCORDI DI HELSINKI E L'INFORMAZIONE Le prospettive della conferenza di Belgrado, di Jean Schwoebel Le diverse concezioni della circolazione dell'informazione nell'Europa di Helsinki,

di Victor-Yves Ghebali

DIBATTITO: PER UNA TEORIA DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA L'intellettuale professionista di fronte ai mass media, di Alberto Abruzzese Sul pluralismo, sul compromesso storico e altre cose, di Piero Pratesi

SAGGI E RICERCHE La radio in Italia, dal controllo anglo-americano al potere DC, di Franco Monteleone Un settore marginale del giornalismo: le donne, di Milly Buonanno

RASSEGNE L'evoluzione della stampa spagnola, di Franco Pierini Produzione libraria e diffusione del libro a livello mondiale, di Verena D'Alessandro

e Gian franco Bangone NOTE E APPUNTI

I mass media nel cinema americano, di Morando Morandini La storia nei giornali, di Gianni Faustini Un fascicolo L. 2500. Abbonamento annuo L. 9.000 Estero 10.000. Soc. Editrice il Mulino - Via S. Stefano 6 - Bologna.


Politica dei diritto

ANNO VIII N. 1-2

APRILE 1977

SOMMARIO EDITORIALE Commenti: Regioni: verso la 'vittoria dei gattopardi? - Il fuftro dei giudici. Codificazione e socialismo. - Convenzioni urbanistiche: problemi e prospettive. . Un nuovo «codice » di disciplina pubblicitaria. - Interessi diffusi e tutela giudiziaria. Due -passi avanti, uno indietro: -lo schema di disegno di legge Lattanzio sulla disciplina -militare, di Franco Carinci Prospettive per una gestione pubblica dell'ambiente, di Fabio Merusi La legislazione a tutela delle acque dagli inquinamenti tra repressione e consenso, di Gladio Gemma Sulla estinzione dello -stato. Un approccio analitico, di Riccardo Guastini I diritti soci-ali nel progetto del nuovo Codice del lavoro del-la Repubblica Democratica Tedesca, di Heinrich Toeplitz Il diritto all'informazione nell'ordinamento regionale, di Alberto Russo Documenti e discussioni: Come tutelare la collettività dai 'rischi della produzione? (E. Scoccini - O.T. Scozzafava). - Una -storia del diritto commerciale (R. Teti). - Storiografia prev.idenziale. Spunti critici su un'anali-si istituzionale (G. G. Balandi). Notizie: « Privato » e « Collettivo» nella problematica familiare. - Le libertà civili i-n Gran Bretagna. - La pubblicità nel -Mercato comune. - Impresa pubblica e impresa privata nel-le economie miste. - Il commento a caldo. - Calamandrei e la Cassazione. Un fascicolo L. 2.000. Abbonamento annuo L. 10.000 Estero L. 12.000. Soc. Editrice il Mulino, Via S. Stefano 6 - 'Bologna

Rivista di Economia e Politica Industriale. ANNO III, N. i

GENNAIO-APRILE 1977

Presentazione Crisi di imprese industriali: anatomia di un fenomeno, di Franco A. Grassini Redditività e -sviluppo delle grandi imprese europee e nordamericane, di William James Adams Proprietà, controllo e redditività delle grandi imprese fra-ncesi, di Alexis Jacquedisciplina militare, di Franco \Carinci Economie di scala e divisione del lavoro tra imprese, di Paolo Mariti L'esperienza del controllo dei prezzi dei prodotti petroliferi -in Italia e alcune proposte innovative, di Alberto C16 I principali indici dei prezzi delle materie prime, di Giuseppe Centaro Un fascicolo L. 2.500. Abbonamento annuo L. 7.000 'Estero L. 8.000. Soc. Editrice il Mulino, Via S. Stefano 6 - Bologna


CENTRO S'hJDI DELLA ; FONDAZIONE ADRIANO OLIVETTI

Gli studi sulle istituzioni politiche costituiscono l'impegno prevalente del Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti. Alle indagini rigùardanti il Parlamento e le Regioni si aggiunge ora un programma di ricerche - sui problemi del Governo. Di questo programma è uscito il primo volume:

L'ISTITUZIONE QOVERNO ANALISI E PROSPETTIVE La funzionegovernativa nella crisi del sistema politico a cura di Sergio Ristuccia

Contributi di Franco Bassanini, Enzo Cheli, Andrea Manzella, Fabio Merusi, Pietro Ricci, Stefano Rodotà, Vincenzo Spaziante.

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Il libro è pubblicato dalle

Edizioni di Comunità Via Manzoni, 12 - 20121 Milano

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