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www.unfrastru1tuÌeIocaIi.it L'AMMINISTRAZIONE PERA PORTO ALEGRE L'AGENZIA DEL TERZO SETTORE E MULTICULTURALISMO e STATUTO e CITTADINANZA EUROPEA FEDERALISMO E e DELL'OPPOSIZIONE AUTORITA' RIFORME COSTITUZIONALI INDIPENDENTI PASSATE DI MODA? IN DICI 1998-2001


Errata corrige: Per un errore di stampa nello scorso numero

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non è comparsa la dizione:

Evaluation, Vol. 4 (3), 1998, e tradotto, con il permesso della Sage Publications Ltd (ww.sagepub.co.uk)", in calce all'articolo di Floc'hlay e Plotru su La valutazione democratica delle decisioni pubbliche. pubblicato in

queste islituziooi Anno

XXIX n. 125-12612002

Direttore: SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Redattore Capo.' SAVERIA ADDOTrA Comitato di redazione: FABIO Biscorri, ROSALBA CORI, FRANcESCA DI LASCIo, ALESSANDRO HINNA, EMANUELE LI PUMA, GIORGIO PAGANO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, GEMMA SASSO, ANDREA SPADETrA

Collaboratori: ARNALDo BAGNASCO, ADOLFO BATrAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BETTIN LATTES, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID BOGI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CMvI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, Miuo CACIAGLI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FROSINI, CARLO Fuso, FRANCESCA GAGLLARDUCCI, FRANCO GALLO, SILvÌO GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO Miuo REY, GIANNI RJOTFA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA

ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, UMBERTO SERAFINI, FRANCESCO SID0TI, ALESSANDRO SILJ, FEDERICO SPANTIGATI, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMiNI, TIZIANO TERZANI, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA Z0PPINI

Segretaria amministrativa: PAOlA ZACCHINI Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00192 Roma

68136068-85 - Fax e segreteria telefonica 06.68134167 E-mail: ristucciad@quesire.it Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI

Tel.

Editore: QUES.I.RE srI QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE

ISSN 1121-3353 Stampa: CPR - Roma Chiuso in tzpografia il 12 novembre 2002 In copertina: Cantiere delle Colombiadi di Genova

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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

14.847 (12

dicembre

1972)


N. 125-126 2002

Indice

-

Editoriale

III

Taccuino i

L'Agenzia per il Terzo settore: opportunitĂ e speranze Sonia Redini

5

Cronache da Porto Alegre 2002 Elisabetta Pezzi

15

-

A proposito di cittadino come "cliente" del servizio pubblico Massimo Ribaudo

24

I trasporti del Sud nel contesto europeo Daria Ciriaci

-

34

La politica ambientale dell'Unione Europea: il programma Life Rosa Maiorino

45 -

I

Immigrazione e ricerca sull'immigrazione negli Stati Uniti Nancy Foner, RubĂŠn G. Rumbaut, Steven J. Gold

Multiculturalismo e cittadinanza in Europa 63

La scommessa del multiculturalismo britannico Enrico Caniglia

83

Tra cittadinanza sociale e cittadinanza multiculturale Gianfianco Bettin Lat-tes I


Maggioritario: i vincitori prendono tutto? 101

Per uno "Statuto" dell'opposizione Gabriele Zampagni

123

Il maggioritario a turno unico: l'esperienza canadese Osvaldo Croci

Come evitare una Costituzione "su misura" 141

Il federalismo da completare Tommaso Edoardo Frosini

151

Riforme costituzionali e politica Walter Nocito

AutoritĂ passate di moda? 175

Crisi dei poteri del Governo e governo dei poteri delle AutoritĂ indipendenti Quirino Lorelli

Rubriche 199

Notizie da...

204

Segnalazioni

•

.;

lndici 1998-2001

209

Indici degli autori

2 16

Indice dei soggetti

I'


editoriale

L'Amministrazione perduta

La vecchia, consolidata indifferenza del Paese verso l'amministrazione dello Stato raggiunge di questi tempi il suo apice. L'entrata in vigore della legge c.d. Frattini, che significa l'applicazione dello "spoil system" all'amministrazione statale italiana in una versione che rimane tuttavia particolare e non proprio corrispondente a quella altrove4gente, è stata accolta con assai modesto interesse. Fatte le dovute eccezioni (due o tre commenti di giornale) ivi compreso lo scontato gioco di vedere numero e nomi dei "trombati". L'attenzione ai nuovi dirigenti è modesta per non dire nulla. Valgono o non valgono? Quali sono i loro curricula, con quali criteri sono stati scelti? Al momento nessuna curiosità giornalistica. Né ci sono ragioni per credere che questa curiosità possa essere prossima a rivelarsi. Per eccessi di prudenza verso l'Esecutivo? Forse; anzi, probabilmente. Ma anche per inveterata abitudine a considerare l'Amministrazione una "cosa tecnica" o "burocratica" ovvero una riserva, appunto, dei politici. Del resto, quando si parla di rapporto fra cittadini e istituzioni, fra queste ultime raramente rientra l'amministrazione dello Stato. Qunque, è meglio non parlarne. Certo, bisogna parlare della nuova legge sulla dirigenza statale: non è argomento di commenti specialistici e di future, probabili, note a sentenza (molti saranno i casi giurisprudenziali che ne nasceranno). È, invece, uno dei principali temi politici da discutere. Ma per affrontare bene il tema non bisogna avere memoria corta. Sarebbe poca cosa vedere le differenze fra la Frattini (legge 15 luglio 2002 n. 145) e una delle ultime Bassanini (Decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165) che la prima è andata a modificare. Troppo facile vedere di quali intenzioni di occupazione è fatta la legge recente. Più importante è riportare all'attenzione come mai si giunga a questo dopo un viaggio legislativo lungo e sovrabbondante di interventi; tale, in ogni caso, da consentire che si realizzi un intento pressocché predatorio attraverso modificazioni tutto sommato non ingenti delle leggi previgenti alla Frattini. III


Sulla legislazione amministrativa, in specie quella sulla dirigenza, emanata nell'ultimo decennio sono state spesso sollevate questioni di legittimità costituzionale. L'esame della Corte delle leggi si è concluso in senso favorevole alla costituzionalità di tale legislazione. E, tuttavia, occorre dire che alcuni istituti della nuova legislazione erano sulla linea di confine della legittimità costituzionale e, comunque, di un buon ordinamento amministrativo. Per esempio, l'uso dei contratti per definire in qualche modo le stesse funzioni dei singoli dirigenti, la relativa indeterminatezza dei criteri e più ancora delle procedure per la scelta di persone esterne all'Amministrazione per ricoprire ruoli di dirigenza, un certo grado di "spoil system" messo a disposizione di ogni Governo senza che questo possa essere inteso come quello di legislatura, sono tutti elementi che solo se mantenuti entro limiti assai rigorosi non vanno a toccare il fondamentale parametro costituzionale dell'imparzialità dell'Amministrazione pubblica. Altrimenti lo toccano e come. Per non dire della valutazione del lavoro compiuto dai dirigenti (assenta chiave di volta del sistema) che è di per sé destinato, a parte ogni espediente di forma, a ridursi a valutazione o meramente politica o inconsistentemente vacua (in una cultura in cui - a parte la difficile messa a punto dei metodi valutativi - i valori di merito sono quelli del todos caballeros). Per non parlare, ancora, della trasformazione del trattamento economico in un trattamento contrattuale che per l'alta dirigenza significa il tramonto definitivo del trattamento tabellare. Un tramonto giusto, forse, ma che ha travalicato in trattamenti ingiustificatamente lucrosi. Oltreché assai poco trasparenti (torna in mente, per chi non voglia avere memoria corta, la "giungla retributiva" che fu oggetto di tante attenzioni e di tante cattive soluzioni negli anni Settanta o giù di lì). E qui tocchiamo una delle ragioni importanti degli attuali arrembaggi ai posti dirigenziali dell'amministrazione statale: la ragione è che sono lucrosi. Il quadro è completo se, infine, aggiungiamo che lo scambio di competenze fra settore privato o comunque esterno alla Pubblica Amministrazione attraverso l'inserimento di dirigenti provenienti dall'esterno ha dovuto sempre fare i conti con difficili fasi di apprendimento degli "esterni", raramente pronti - anche nei casi migliori - ad una buona e rapida presa di possesso della logica delle amministrazioni pubbliche (certo da modificare, ma questa non è una scusa per rimanere estranei ad alcune necessarie conoscenze dei meccanismi che si vanno a governare e riformare e che, tra le altre differenze, non hanno il riscontro dei ricavi della vendita del prodotto). Quindi, con notevoli effetti negativi di inefficacia.

Iv


Naturalmente, quelli segnalati sono gli aspetti negativi di una modificazione della Pubblica Amministrazione realizzata all'insegna di grandi e ragionevoli intenzioni di riforma, anzi di costruzione ex novo dello Stato amministrativo. Alcuni evitabili con maggior scrupolo di simulazione degli effetti, altri accettati come costo di una importante operazione di svecchiamento delle burocrazie, altri non ben controllati e forse incontrollabili lungo la strada di un eccessivo fare leggi che, alla fine, creano la necessità di altre leggi. Su quest'ultimo punto ci siamo piii volte soffermati sulle pagine di "queste istituzioni", forti del convincimento che le riforme non sono mai leggi. O almeno non sono mai soltanto leggi. Sull'esperienza degli anni Novanta occorre ora, per un serio bilancio, l'attento lavoro della critica storica. A parlare in termini di esperienza personale, mi torna in mente, a questo proposito, un episodio da cui ho tratto conferma della necessità di contestualizzare le riforme tenendo conto della natura, della cultura, degli atteggiamenti mentali che costituiscono l'ambito entro il quale si va ad operare. L'episodio è questo: dopo quasi due anni di lavoro al Tesoro come Capo di Gabinetto del Ministro Andreatta, pensai opportuno dare una certa organizzazione agli uffici dello stesso Gabinetto anche attraverso la messa a punto di un decreto ministeriale che valesse, quanto meno, a rendere evidente alcuni tratti organizzativi, le funzioni da svolgere e in qualche modo i criteri di condotta. Naturalmente un decreto ministeriale aveva portata normativa modesta, costituiva semplicemente una sorta di "ordine di servizio" e dava però risposta alla domanda che mi ero sentito rivolgere: che cos'è e che fa il Gabinetto? Avevo studiato il tema e ne avevo già scritto proprio su questa rivista (cfr. Iniziativa e collegialità: per una riorganizzazione del Governo, in "queste istituzioni", n. 35, 1980), maturando con ciò l'idea di proporre al Ministro il decreto. Prima di firmario, Andreatta mi chiese di organizzare una riunione degli alti dirigenti del Ministero. In questa riunione emersero varie diffidenze, frutto ovviamente del tradizionale rapporto di larvata ostilità che l'alta dirigenza nutriva verso i Capi di Gabinetto. Se ne fece autorevole interprete il Ragioniere Generale, che allora era Vincenzo Milazzo, eminente personaggio di una burocrazia tradizionale, molto vicino alla visione dell'Amministrazione che aveva Giulio Andreotti di cui era stato Capo di Gabinetto a Palazzo Chigi - come Ragioniere Generale negli anni Settanta. Con Milazzo, malgrado le grandi diversità di vedute, avevo stabilito un buon rapporto di collaborazione e, più in generale, un buon rapporto umano. Ebbene, nella riunione, dopo alcune osservazioni di merito, Milazzo concluse, rivolto a me, "potrebbe essere una buona riforma se fossi tu a gestirla a lungo; siccome questo non sarà, la riforma è pessima perché gli altri V


probabilmente la utilizzeranno in tutt'altro modo". Milazzo esagerava la portata del decreto, di per sé destinato a decadere e, comunque, non riuscì a convincermi nel merito. Rimasi, tuttavia, colpito dall'argomento. Non si fanno riforme di apparati amministrativi con eccesso di identificazione fra riforma e riformatore senza immaginare come potranno essere oggetto di attuazioni "altre", confronto alle intenzioni del riformatore ovvero senza prevedere l'entità delle reazioni e del gioco degli interessi che si mobiliteranno nei processi attuativi di normativa secondaria e così via. Ho cercato di spiegare varie volte sulle pagine di questa rivista come l'ammodernamento dell'amministrazione pubblica passi anche attraverso l'interpretazione evolutiva della norme e, soprattutto, attraverso una prassi efficiente e motivata. Tutto questo per dire che la legislazione amministrativa degli anni Novanta, che pure nelle intenzioni generali e in singoli aspetti ed istituti abbiamo sostenuto, apriva strade ad applicazioni discutibili se non perverse. Per esempio, lo spoil system consentito, sia pure entro certi limiti, ad ogni singolo Governo. E già applicato da ogni singolo Governo di centro-sinistra. Da qui, fra l'altro, divenendo la vicenda una sorta di leggenda metropolitana che ha costituito l'alibi per gli interventi della legge Frattini. Interventi di notevole peso e gravità che vale indicare negli aspetti fondamentali. Primo fra tutti quello contenuto nella norma secondo la quale le nomine presso enti, società e agenzie "conferite o comunque rese operative negli ultimi sei mesi antecedenti la fine naturale della tredicesima legislatura, nonché quelle conferite o comunque rese operative nel corso della quattordicesima legislatura fino alla data di insediamento del nuovo Governo, possono essere confermate, revocate, modificate o rinnovate entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge". Una norma del genere non capita spesso: così fotografia (quante sono, alla fine, le persone coinvolte?), così manifestamente ispirata ad un concetto possessivo e "pigliatutto" del sistema maggioritario, così ossessivamente mosso da un'idea che governare sia innanzitutto potere di investitura a costo di affermare un criterio di generale diffidenza verso quel che è stato fatto durante il Governo di una diversa maggioranza (diffidenza che è propria di una guerra civile fredda quale insensatamente si sta affermando nel Paese per responsabilità di tutti, ma certamente non di eguale peso). Una norma che mira a obiettivi immediati come ogni norma transitoria ma che presuppone una norma a regime. Quella che precede nel testo dell'art. 6 della legge 145/2002, che prescrive sostanzialmente un semestre bianco per ogni Governo che stia arrivando alla fine naturale della legislatura per quanto riguarda il potere di nomina relativamente a vacanze che si possono realizzare in quel periodo. Significa che in


questo periodo torna implicitamente a vigere una prorogatio che era stata abolita? Infatti, sembra irragionevole e praticamente inattuabile per la probabile indisponibilità delle persone interessate che il Governo uscente faccia nomine di brevissimo periodo. Non è chiaro se il legislatore si sia posto questi problemi. E poi per quale ragione dovrebbero essere salve (così sembra) le nomine fatte dal Governo uscente sei mesi e un giorno prima della scadenza naturale della legislatura? Se fosse fondata la logica del legislatore attuale, ci dovremmo preparare ad un affollamento di nomine sette od otto mesi prima. E ancora, che succede nel caso di nomine fatte da Governi che cessino prima della scadenza naturale della legislatura? In sintesi, sembra che nel desiderio di affermare un diritto di possesso immediato del maggior numero possibile di posti nei quali esercitare il potere di investitura, non si è guardato per il sottile. Così per gli incarichi di funzione dirigenziale relativi alla direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente (questa espressione non risulta essere stata modificata) si è tagliato corto: non si dice più che possono essere "confermati, revocati, modificati o rinnovati" entro novanta giorni dalla fiducia al Governo e che, comunque, decorso il termine, si intendono confermati; si dice puramente e semplicemente che essi "cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo". Si tratta di norma che poi, in sede applicativa, ha trovato un'estensione rilevante riguardo ai posti dirigenziali interessati. Insomma, non andiamo a considerare altri aspetti della legge Frattini come quella che sostanzialmente assottiglia ogni idea di curriculum e cursus honorum (con inevitabile illanguidimento di ogni motivazione a far carriera se non ricercando l'investitura politica). Sono norme a cui si potrebbe riconoscere almeno un merito: quello di abbandonare ogni ipocrisia riguardo ai propri intenti. Ma anche questo è impossibile: ci sono di mezzo, infatti, i veli delle formule arzigogolate come le percentuali delle dotazioni organiche entro le quali, per esempio, si possono conferire incarichi di funzione dirigenziale di livello generale a dirigenti di seconda fascia invece che di prima, di estranei all'Amministrazione e così via. Senza criteri precisi di professionalità e di esperienza acquisita e verificabile siamo davanti a forme di selezione che, ragionevoli e ammissibili per gli uffici'di diretta collaborazione dei ministri, sono invece inammissibili e inconstituzionali per cariche amministrative che debbano fondarsi sul principio dell'amministrazione imparziale e professionale. Non ha senso estendere a tutta l'Arnministrazione il principio di fiduciarietà come si sta facendo, ormai in modo evidente, senza moderazione e senza scrupoli. VT'


Siamo, in buona sostanza, arrivati al "Medioevo prossimo venturo" di cui si profetizzava anni addietro. Siamo malinconicamente, sia pure in sedicesimo, alle guerre per le investiture tipiche dell'epoca feudale. E alla conseguenziale, necessaria ricerca, da parte di qualsiasi funzionario, dei favori di principotti, principi, vescovi, re, imperatori o papi, magari in lotta fra loro ma anch'essi tristemente in sedicesimo. Tutto ciò avviene dopo un decennio di riforme amministrative all'insegna della distinzione (mai contrapposizione) fra amministrazione e politica e di attribuzione di maggiori responsabilità ai dirigenti. Un decennio connotato da fasi successive non sempre coerenti fra loro e alla fine caratterizzato, abbiamo già detto, da un eccesso di legislazione. "Queste Istituzioni" ha seguito e commentato queste fasi attenendosi alla linea che ho avuto occasione di esporre nell'Assemblea del Consiglio italiano per le Scienze Sociali nella primavera del 1996 (si veda, Scienze Sociali e Agenda per l'Italia, n. 106-107, 1996). Qualche volta abbiamo anche debordato da una linea che non riteneva necessaria una legislazione troppo ampia in ragione dei problemi che avrebbe creato, tutto sommato maggiori di quelli che tentava di superare. Il che mi pare sia poi avvenuto. In alcuni casi come, soprattutto, per quanto riguarda il cosidetto "federalismo amministrativo", abbiamo salutato favorevolmente la linea legislativa. Bisogna dire con chiarezza che i Governi di centrosinistra hanno consentito una forte attività di riforme legislative, ma in qualche modo le hanno delegate senza identificarsi con esse. Cioè senza impegnarsi veramente nell"animazione" della Pubblica Amministrazione, che significa scoprire, amministrazione per amministrazione, le sue potenzialità e peculiarità e valorizzare conoscenze ed esperienze partendo dalla consapevolezza che l'ammodernamento necessario non è un'azione contro l'Amministrazione, ma un accompagnamento costante, e certamente critico, delle sue capacità (quando ci sono) e una forte spinta ad acquisirle (quando non ci sono). In altri termini, quei governi non hanno fatto della funzionalità efficiente della Pubblica Amministrazione un obiettivo prioritario da raggiungere collegialmente. Tutti i ministri insieme. Per esempio, dopo il conseguimento dell'obiettivo di entrare nell'Unione Economica e Monetaria. Come, invece, sarebbe stato assai opportuno. Temo che, pur nella discontinuità così rudimentalmente marcata, - come abbiamo appena visto - la nuova maggioranza abbia ereditato alcuni aspetti negativi dell'atteggiamento del centrosinistra, nel suo complesso, verso l'Amministrazione Pubblica.

VIII


Vale ricordare, in un breve quadro d'insieme, come si ponesse il problema della dirigenza pubblica nell'Italia repubblicana. Il rapporto fra politica e amministrazione o quello, detto con sfumature diverse, fra il governare e l'amministrare è di per sé problema che difficilmente può trovare soluzione definitiva e compiuta. Era problema ben presente ai padri fondatori dello Stato unitario, in un contesto certo lontanissimo dal presente. La Destra Storica, da Cavour a Minghetti, espresse al riguardo indicazioni che rimangono valide. L'aspetto che sempre ha creato problemi al personale politico è quello dell'mamovibilità che, in diritto e in fatto, ha per lo più caratterizzato lo status degli alti dirigenti statali. Ciò ne ha fatto spesso un mandarinato, con qualche personaggio d'eccellenza, più spesso mediocre, qualche volta straccione. Un mandarinato che instaurò vari scambi di favori con il personale politico all'epoca, per esempio, della lunga egemonia democristiana. Anzi la relativa continuità del potere amministrativo fu elemento di forza, nel tempo, dello stesso potere politico, pur nella grande variabilità dei governi. Si è trattato, tuttavia, di una dirigenza adeguata ad uno Stato produttore di atti amministrativi, senza cura della variabile tempo, formata sulla base di una cultura uniforme di tipo formalistico, poco allenata alle discipline che non fossero il diritto amministrativo nella sua lezione più burocratica. Quando è apparsa l'esigenza di operare più efficacemente sul piano dei risultati, anche in ragione di una maggiore competitività del sistema nel contesto europeo, è parso chiaro che occorreva passare ad un diverso tipo di dirigenza. Per esempio, caratterizzata da maggiore mobilità e al di fuori dagli schemi delle carriere di anzianità, vere camicie di forza imposte ad ogni forma di emersione di meriti professionali entro la pubblica amministrazione. Di qui, la necessità di superare il modello dei dirigenti generali inamovibili fino ai limiti d'età, stemperato molte volte attraverso la prassi di nominare ai posti di vertice persone vicine alla pensione. Con effetti sulla funzionalità spesso disastrosi. Di qui l'importanza di passare a incarichi a termine. Questo è il vero problema da considerare in sé senza confonderlo con quello, del tutto diverso, dell'eventualità di uno "spoil system" in un regime maggioritario. A quest'ultimo riguardo bisogna essere chiari: un ragionevole e limitato sistema di spoglie (espressione comunque da dimenticare perché barbarica) può riguardare il momento del passaggio di legislatura come momento topico del passaggio di maggioranza, non può riguardare il succedersi dei Governi che possono essere numerosi durante una legislatura. Dunque, mandati a termine per periodi ragionevoli, idonei a svolgere compiutamente un'azione di dirigenza secondo quanto indicano le discipline che stuIx


diano il funzionamento delle grandi organizzazioni (cinque o sei anni, per esempio). Mandati per la durata dei quali il dirigente sarà inamovibile, a parte i casi di palese inefficienza o di palese conflitto con gli indirizzi di governo. I dirigenti potranno confrontarsi, dùrante il proprio mandato, con diversi ministri di diverse maggioranze ma nella autonomia che a loro conferisce un mandato autonomo. Dirigenti autonomi ma non irresponsabili. È questo il principio al quale si ispirò la legge proposta da Andreatta e poi approvata nel 1983 che modificò l'ordinamento della Cassa Depositi e Prestiti. In quel caso, il mandato del Direttore Generale fu fissato in sei anni. Per concludere. La dirigenza statale si trova ad essere investita, più che in ogni altro momento, da una crisi di identità profonda. Gli incarichi di tre anni previsti dalla legge 145/2002 rendono precario e fragile il ruolo del dirigente generale. Le procedure di selezione, malgrado le generiche affermazioni di qualità professionali, si tradurranno nella ricerca di "appartenenze" e padrinati politici sempre più smaccati. Una dirigenza per tessere. Con la clausola compensatoria sottintesa: oggi a me domani a te. Non si sa quali anticorpi potranno essere elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, da quella contabile e soprattutto dalla giurisprudenza costituzionale, inevitabilmente chiamate in causa. Certo, il punto a cui si è giunti costituisce anche la sconfitta dell'associazionismo dirigenti che non ha saputo mai porsi al di sopra di un piccolo, se non piccolissimo, cabotaggio corporativo. Ma la Pubblica Amministrazione è cosa di tutti. L'ammontare di risorse da essa direttamente utilizzate si avvicina alla metà del prodotto annuo del Paese (nell'Ottocento non si superava il 10%). A tutti interessa, quindi, oggi un suo buon funzionamento all'insegna del principio costituzionale, fondamentale,

dell'imparzialità. Altre volte, si era pensato alla necessità di un importante centro d'incontro di studiosi, ex-funzionari, funzionari, cittadini e politici indipendenti da logiche di partito che desse voce - con capacità di visione e con autorevolezza da conquistare sul terreno - al bisogno sociale di buona Amministrazione e di autorevole dirigenza pubblica. Sarebbe il caso di riprendere l'idea alla svelta.

(Sergio Ristuccia)

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www.infrastrutturelocali.it C'è un punto di sostanziale accordo fra le forze politiche, malgrado non sia dichiarato nella particolare condizione politica che vive il Paese. È la questione delle infrastrutture, una necessità che nessuno nega ma che ha risentito finora della mancanza di adeguati investimenti pubblici in ragione della stessa politica di risanamento della finanza pubblica. Per avviare la realizzazione di una politica concreta, inoltre, si è ritenuto di mettere mano, per la quarta volta negli ultimi dieci anni, alla legislazione dei lavori pubblici, con l'effetto di allungare i tempi di un quadro normativo stabile: anche quello appena entrato in vigore dovrà fare i conti con l'applicazione, con il gioco delle interpretazioni e degli interessi che le sostengono. Due esigenze, comunque, si vanno affermando: la cooperazione fra gli Enti locali e il coordinamento fattivo fra i diversi livelli di governo del territorio, anche al di là delle perpiessità di applicazione delle nuove norme costituzionali in materia di «federalismo" (su questo numero si trova un primo quadro della problematica); il nuovo ruolo aggregatore di risorse della Cassa Depositi e Prestiti nel quadro dell'auspicata mobilitazione di risorse finanziarie private, che costituisce una rilevante opportunità per gli Enti locali. Tutto ciò nell'ambito della ricerca di forme organizzative e modelli attuativi di partenariato pubblico-privato per la realizzazione e gestione di infrastrutture pubbliche con la partecipazione di capitali privati, intorno al quale si sono spese molte parole senza giungere a momenti realizzativi di qualche significato. A questo tipo di temi e problemi sarà finalizzato il nuovo sito www.infrastrutDurelocali. it che Ristuccia Advisors lancerà prossimamente affiancandolo a www.servizilocali.com che è ormai attivo da due anni anche nella forma cosiddetta cobranded con la quale collaboriamo con il portale www.Libero.it e che ormai costituisce una voce importante del dibattito intòrno alla gestione dei servizi pubblici locali.. Il sito che stiamo predisponendo non intende duplicare strumenti informativi che già esistono in materia di lavori pubblici e gestione del territorio. Intende, invece, entrare nel dibattito scaturito dal proliferare delle nuove leggi in materia di opere pubbliche nel quadro della recente riforma del Titolo V della Costituzione che attribuisce alle Regioni nuove funzioni anche in tale settore. Il delinearsi di un "doppio binario": da un lato, quello delle infrastrutture cosidette di «preminente interesse nazionale" che saranno realizzate secondo una legislazione speciale costituita dalla cosidetta Legge Obiettivo e dal relativo decreto di at'4'


tuazione (D.Lgs. n. 190/2002); dall'altro lato, tutte le altre opere non incluse nel programma delle infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale, da realizzare secondo la normativa della legge quadro in materia di lavori pubblici - così come ulteriormente integrata e modificata dal cosidetto Collegato infrastrutture (L. n. 166/02) -, ha determinato una complessa stratificazione e differenziazione normativa che creerà non poche difficoltà attuative. Intento del sito è quello di orientare gli operatori del settore ed il mercato raccogliendo documentazione ed esperienze, confrontando opinioni e proposte ed individuando nuove prassi attuative che possano considerarsi delle "best practices" del settore. Il sito sarà, spesso, anche la prosecuzione dei workshops che la Ristuccia Advisors promuoverà in materia di società di trasformazione urbana, società di progetto o veicolo e di ogni altro argomento relativo alle diverse modalità di realizzazione e gestione delle infrastrutture di interesse locale.

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taccuino

L'Agenzia per il Terzo settore: opportunità e speranze di Sonia Redini

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passato poco pir di un anno da quando 14genzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (così la definisce l'art. 1 del Dpcm 329/2001, pubblicato in Gu il 17 agosto 2001) ha iniziato ad essere operativa, ma sino ad ora sono stati mossi solo pochi passi. L'insediamento nella designata sede di Milano, infatti, è avvenuto soltanto nel marzo di quest'anno, così come la definizione delle nomine dei componenti. I suoi lavori, perciò, sono in fase di avvio e non è ancora possibile valutare se riuscirà ad essere incisiva nel proprio operato o se, invece, rimarrà "una semplice manifestazione di speranza". Ma possono essere utili, per aiutarci a delinearne il cammino futuro, alcune considerazioni sul regolamento istitutivo e sulla vocazione di questo organismo, secondo le intenzioni del Presidente e di altri suoi membri. All'Agenzia è stato riconosciuto un ampio ventaglio di funzio- Le funzioni ni (art. 3), comprendenti: l'indirizzo e la promozione del Terzo dell'Agenzia settore nel suo complesso (iniziative di ricerca, raccolta e monitoraggio dei dati relativi al settore, impulso legislativo, formazione e aggiornamento); la garanzia nei confronti dei cittadini (vigilanza sulla trasparenza delle campagne di raccolta fondi e sull'utilizzo a tal fine dei mezzi di còmunicazione) e la competenza sulla devoluzione del patrimonio di enti che siano in fase di scioglimento, attraverso l'emissione di pareri vincolanti.

L'Autrice collabora coh la Ristuccia Advisors nell'Area di consulenza riguardante il Terzo Settore.


Inoltre, nell'art. 4 viene previsto l'obbligo per le amministrazioni statali di chiederle pareri su iniziative legislative generali riguardanti il Terzo settore, sull'Anagrafe delle Onlus, sulla tenuta dei registri delle varie categorie di soggetti non profit, sui finanziamenti pubblici e sulla decadenza dalle agevolazioni offerte dal d. lgs. 460/97. I poteri di controllo in senso stretto, di "vigilanza e ispezione per la uniforme e corretta osservanza della disciplina legislativa e regolamentare" - come recita il 1° co., lett. a) dell'art. 3 - sono limitati alla sola fase dell'accertamento, attraverso indagini conoscitive e istruttorie volte a verificare la sussistenza dei requisiti per fruire dei benefici collegati allo status di Onlus. Sono invece del tutto esclusi poteri sanzionatori, che restano in capo agli Uffici delle Entrate. In relazione al suo spazio di operatività, va poi sottolineato che il nuovo organismo non sarà sottoposto alla sola vigilanza della Presidenza del Consiglio e del Ministero delle Finanze, ma anche a quella del dicastero della Solidarietà sociale (viene così riconosciuto il ruolo "sociale" di questa Agenzia e del suo settore di azione). Inoltre, il suo operato avrà una "cassa di risonanza" più ampia, perché la relazione annuale sulla sua attività deve essere presentata anche al Parlamento, oltre che al Presidente del Consiglio.

Poteri e vigilanza

Questo regolamento ha suscitato reazioni differenti, ma, prima di ogni analisi, è bene fare chiarezza su una certa confusione terminologica che potrebbe ingenerarsi riguardo all'identità di questo organismo. Spesso ci si è riferiti ad esso come ad una Authority, ma, come precisa la stessa premessa al regolamento, questa Agenzia non può essere totalmente assimilata alle Autorità indipendenti: lo testimoniano la vigilanza del Presidente del Consiglio e dei Ministri per la solidarietà sociale e delle Finanze, la struttura organizzativa; l'asseiìza di un rigido regime di incompatibilità per i suoi componenti, la sua dotazione finanziaria (il Ministro Maroni, però, ha recentemente lasciato intendere che auspica si trasformi al più presto in una vera^ e propria Authority è che le sia attribuito un peso politico maggiore).

Un'Agenzia non un'Authority


Una certa confusione sembra avvolgere anche i soggetti con I soggetti di cui l'Agenzia dovrà interloquire e che dovrà controllare: il rego- riferimento lamento intende riferirsi ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Terzo settore ed enti non commerciali (ma Onlus ed enti non commerciali non sono forse una species del più ampio genus Terzo settore?). Ma così introduce solo una formulazione pleonastica e rivela la poca chiarezza che ancora regna in questo ambito: le prime due categorie (Onlus ed enti non commerciali), infatti, sono state create ai soli fini fiscali, benché non siano prive di riflessi civilistici, mentre la terza è una definizione a carattere omnicomprensivo, ma priva di riferimenti giuridici. Alla luce di queste considerazioni, quindi, nel regolamento l'Agenzia viene descritta quale luogo di promozione e di certezza normativa per il Terzo settore e dipinta nella veste di interlocutore, autorevole e competente, con i vari soggetti istituzionali interessati, sulle materie che riguardano più da vicino il settore. Fra i punti che, invece, potrebbero essere definiti "di debolezi punti di za" dell'organismo, risalta l'assenza di incisivi poteri di controllo debolezza in ambito fiscale (come, invece, aveva richiesto il Consiglio di Stato che, nei suoi pareri negativi, aveva raccomandato di delineare più compiutamente i poteri ispettivi, per garantire il rispetto delle regole del mercato e della concorrenza). Non è poi specificato di quale natura siano (se consultiva, se vincolante) i suoi pareti obbligatori nei confronti delle amministrazioni statali. Ancora, c'è il rischio di un'inutile duplicazione tra i poteri attribuiti all'Agenzia in materia di formazione e aggiornamento delle attività delle Onlus, e quanto viene già portato avanti dalle organizzazioni stesse e, ad esempio, dai Centri di Servizio per il volontariato (e si tratta, comunque, di un compito confuso, perché non è chiarito verso chi debba essere indirizzata la formazione, su quali argomenti essere svolta e con quali finanziamenti). Che le siano stati attribuiti compiti impropri viene messo in luce anche da chi sottolinea, invece, l'urgenza di far chiarezza sul suo ruolo "fiscale", per accertare l'ottemperanza ai requisiti soggettivi per definirsi Onlus, ad esempio, o indicare la destinazione del patrimonio degli enti in caso di scioglimento. 3


Alcune perpiessità sono state avanzate anche sulla sua struttura (l'Ufficio di Segreteria sarà composto da 15 unità del Comune di Milano e 20 provenienti da vari Ministeri ed Enti locali): ma se l'Agenzia deve essere un organismo terzo rispetto a pubblico e privato, perché il personale deve appartenere esclusivamente alla pubblica amministrazione? Inoltre - e queste erano state le osservazioni formulate dal Consiglio di Stato - appare eccessiva, sia in relazione al funzionamento sia alle spese da sostenere, la composizione dell'organo collegiale (11 componenti) e piuttosto carente, invece, la previsione dei criteri di incompatibilità dei suoi membri. Si tratta di nodi ancora tutti da sciogliere. Intanto il presidente, Lorenzo Ornaghi (da poco nominato Rettore dell'Università Cattolica), insieme a Gian Paolò Barbetta e Salvatore Pettinato, nella presentazione del programma di attività dell'Agenzia pongono l'accento sul suo ruolo di promozione, di attenzione ai bisogni del mondo non profit e di interfaccia tra Fisco e soggetti senza fini di lucro, per aiutare la crescita delle organizzazioni, incoraggiare lo sviluppo di nuove iniziative ed assicurare la fiducia del pubblico verso questo settore. Sul piano dei controlli, poi - ha precisato Ornaghi - l'Agenzia cercherà di favorire le forme di autoregolamentazione, seguendo il modello della Charity Commission inglese e cercando di sviluppare una capacità di moral suasion nei confronti degli enti, affinché adottino i migliori standard di condotta e riescano a realizzare al meglio i loro scopi.

Il modello della Chariiy Commission

In conclusione, alcune premesse lasciano prevedere ottime opportunità di crescita, ma molto dipenderà da come i suoi componenti riusciranno a tradurre concretamente l'incarico loro affidato per i prossimi cinque anni: se questa Agenzia sarà solo un gigante dai piedi d argilla , oppure un organismo che, nato dalla difficile fusione di istanze differenti (necessità dei controlli, bisogno di visibilità e sviluppo del Terzo settore), possa esprimere una sintesi equilibrata di "controllo promozionale" - come lo definisce Barbetta - potrà essere valutato solo con il tempo. Il nostro auspicio è che i componenti dell'Agenzia possano avere le condizioni per poter svolgere un buon lavoro.

Il ruolo dei componenti

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Cronache da Porto Alegre 2002. Il Secondo Forum Sociale Mondiale di Elisabetta Pezzi

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al 29 gennaio al 5 febbraio 2002 si è svolto nel Brasile del Sud, a Porto Alegre, il secondo Forum Sociale Mondiale. L'incontro, la cui prima edizione si è tenuta lo scorso anno, è stato inizialmente organizzato in contrapposizione ed in polemica con il contemporaneo Forum Economico Mondiale tenuto a New York. Tuttavia, sin dal primo appuntamento, il Forum di Porto Alegre è riuscito ad andare oltre la logica della mera contestazione ed è stato in grado di proporsi come un importante luogo di dibattito e di lavoro. All'iniziativa hanno partecipato, infatti, circa 50.000 persone provenienti da tutto il mondo con il preciso fine di discutere e confrontarsi sulle questioni principali per il futuro dell'umanità. Il Forum è stato organizzato da una serie di Organizzazioni non governative (Ong) brasiliane con il patrocinio ed il sostegno del prestigioso mensile francese Le Monde Diplomatique. A Porto Alegre erano presenti, dunque, migliaia di persone di formazione e provenienza eterogenea di cui solo una minoranza era presente a titolo individuale, la maggior parte erano membri di gruppi che andavano dalle associazioni cattoliche al sindacato di base, alle organizzazioni ambientaliste, a quelle impegnate nella lotta contro la politica indiscriminata delle multinazionali a quelle a tutela delle minoranze etniche e così via. Ognuna di loro ha messo a disposizione della discussione generale quanto maturato nella sua specifica esperienza concreta. "Siamo diversi donne e uomini, adulti e giovani, popoli indigeni, contadini e urbani, lavoratori e disoccupati, senza casa, anziani, studenti, persone di ogni credo, colore, orientamento sessuale. L'espressione di questa diversità è la nostra forza e la base della nostra unità". Così si legge nel documento finale redatto al termine del Forum. La forza del "popolo di Porto Alegre" sta, pertanto, nel pro5


porsi quale movimento dalle "molte anime" e dal carattere spiccatamente internazionale, che si interroga sulle possibilità di dar vita ad un modello alternativo di globalizzazione. L'etichetta di "no global" - utilizzata dai mass media - appare, dunque, del tutto impropria e fuorviante. Gli attori del movimento che si sta progressivamente delineando nei vari incontri internazionali degli ultimi tempi (da Genova a Porto Alegre, a Barcellona per citare soltanto i più recenti) sono quanto di più "globalizzato" si possa immaginare e, soprattutto, non si propongono di contrastare un fenomeno ormai oggettivamente inarrestabile, quanto piuttosto di correggerne e modificarne le dinamiche interne che hanno conseguenze perverse sul destino dell'intera comunità. Sempre nel documento finale si legge "Siamo un movimento di solidarietà globale, unito nella nostra determinazione di lottare contro la concentrazione della ricchezza, la proliferazione della povertà e delle ineguaglianze e la distruzione della nostra terra". La sfida del movimento di Porto Alegre è, quindi, quella di riuscire a trovare delle risposte alternative ai molti problemi aperti. La scelta della città di Porto Alegre quale sede del Forum ha Il bilancio una sua precisa motivazione. La città, infatti, è ormai nota a li- partecipativo vello internaziònale per aver intrapreso con successo, da più di dieci anni, un esperimento di democrazia partecipativa. Si tratta della cosiddetta "gestione integrata del bilancio", che è attualmente oggetto d'analisi da parte di studiosi ed esponenti di Enti locali di molti Paesi. Dall'inizio degli anni Novanta, il bilancio partecipativo adottato dal Comune di Porto Alegre si è proposto come una riuscita esperienza di partecipazione della popolazione alle decisioni riguardanti la destinazione dei fondi pubblici. Dopo 12 anni di esistenza, il modello sta attualmente servendo come riferimento per l'adozione di forme simili di gestione di bilanci pubblici in più di 90 cittadine brasiliane e, da circa tre anni, è stato applicato anche per la gestione del bilancio nello Stato del Rio Gran do Sul, di cui Porto Alegre è la capitale. Il bilancio partecipativo prevede che la popolazione sia chiamata ad esprimersi e concor6


rere alla decisione sull'investimento del denaro pubblico attraverso svariate assemblee popolari. Più precisamente, il bilancio partecipativo combina tre tipi di partecipazione, quella diretta, quella rappresentativa e quella virtuale. La partecipazione diretta avviene nelle assemblee regionali e tematiche e in numerosi incontri comunitari. Quella rappresentativa nell'ambito dei forum dei delegati delle assemblee regionali e tematiche e nel consiglio del bilancio partecipativo, che è la più alta istanza decisionale in merito al bilancio. Dal 2001, inoltre, è prevista una nuova possibilità consistente nel dare suggerimenti e proporre questioni ai forum dei delegati attraverso internet (partecipazione virtuale). Proprio ai fini della realizzazione del bilancio partecipativo, la Un'organizcittà di Porto Alegre è stata suddivisa in 16 aree o regioni geo- zazione grariche. Nelle assembiee, conaotte in ognuna ueue 16 regIoni, articolata la popolazione sceglie 4 priorità su Otto (infrastrutture di base, asfaltatura, educazione, assistenza sociale, salute, trasporto e circolazione, organizzazione della città) ed elenca, in ordine di importanza, i lavori e servizi su ogni tema. Per accordarsi sui bisogni più urgenti è necessario che i cittadini si organizzino con i loro più immediati vicini, ossia con gli abitanti del loro stesso palazzo o del medesimo isolato. Soltanto in questo modo, infatti, hanno qualche possibilità di vedere accolte le loro richieste per gli investimenti dell'annata e di esercitare un peso sulla decisione finale. Dal 1992, per evitare il ripiegamento sui quartiere e sugli interessi particolari, sono state introdotte anche delle assemblee tematiche su scala cittadina, che hanno permesso di affrontare alcuni problemi globali della città. A tal fine si sono individuati 5 temi in particolare (l'organizzazione della città e lo sviluppo urbano; la circolazione ed il trasporto; la sanità e l'assistenza sociale; l'educazione, lo sport e le attività ricreative; la cultura; lo sviluppo economico e fiscale). La prima fase del bilancio partecipativo si realizza nel periodo che intercorre tra metà marzo e la seconda metà di aprile per mezzo delle assemblee plenarie nelle 16 regioni, nonché delle plenarie tematiche. 'A


Il governo presenta il resoconto del Piano degli investimenti per l'anno passato ed il piano degli investimenti per l'anno in corso, i criteri generali per la distribuzione delle entrate fra le regioni, i criteri tecnici, legali e regionali. Sia nelle plenarie regionali, sia in quelle tematiche la popolazione giudica i conti presentati ed elegge i suoi delegati. Fra la prima metà di marzo e l'inizio di giugno vi è la fase intermedia del procedimento, durante la quale la popolazione si riunisce e discute per arrivare alle scelte circa le opere ed i servizi da privilegiare. Contemporaneamente, il Consiglio del Bilancio discute e delibera il progetto di legge delle Direttrici di Bilancio che deve essere proposto al Consiglio Comunale entro l'i giugno. Nella fase successiva, tra la prima metà di giugno e la prima metà di luglio, il governo presenta i grandi aggregati di spesa e la stima delle entrate per l'anno successivo. Durante queste riunioni la popolazione elegge in ogni regione e in ogni plenaria tematica due consiglieri titolari e due supplenti con il compito di rappresentarla nel Consiglio del Bilancio e di cogestire con il governo il piano dei lavori e la spesa pubblica per l'anno a seguire. Il bilancio partecipativo è un modello elastico ed in continua Un modello evoluzione, che viene migliorato di anno in anno in un processo in evoluzione di costante perfezionamento grazie ai suggerimenti delle varie comunità. Ogni anno, infatti, viene approvato un regolamento che fissa nel dettaglio le regole interne del bilancio partecipativo, i criteri di gestione e i criteri di priorità e che servirà, durante tutto l'anno, da riferimento in caso di contestazioni. Annualmente, nel mese di marzo, il sindaco, accompagnato dai principali quadri amministrativi, partecipa a tutte le assemblee di settore per rendere conto dell'esecuzione del bilancio, accogliere le varie e concrete questioni che in questa sede gli sono sottoposte e per fornire spiegazioni e risposte sull'attuazione delle scelte precedentemente effettuate dalla popolazione. Come sopra accennato, da 3 anni il modello del bilancio partecipativo è stato introdotto anche nella gestione del bilancio statale del Rio Gran do Sul, suddiviso in 22 regioni e 497 municipi, in ognuno dei quali si realizzano assemblee al fine di stabilire gli investimenti nella regione, nella città e nello Stato.


Nel 2001, proprio grazie al meccanismo del bilancio partecipativo, ben 378 mila persone si sono espresse riguardo agli investimenti del governo statale. Tutti i cittadini maggiori di 16 anni possono prendere parte al procedimento del bilancio partecipativo e, quindi, presentare proposte, votare ed essere votati quali delegati. È sufficiente, infatti, presentarsi alle assemblee pubbliche nei luoghi indicati dai vari municipi e dalle regioni. Le comunità urbane e rurali, attraverso i loro consigli munici- Una pali o regionali, delegati e consiglieri del Consiglio statale del bi- comunità lancio partecipativo, sindacati, movimenti popolari e sociali, as- rafforzata sociazioni etc. possono promuovere riunioni preparatorie nelle loro sedi locali per discutere proposte da presentare poi nelle assemblee. L'esperienza brasiliana è certamente riuscita nell'intento di coinvolgere direttamente i cittadini, pur trattandosi degli abitanti di una grande città e addirittura su scala statale, evitando di riservare le scelte di bilancio ad un'elite di intellettuali o tecnocrati. Il modello del bilancio partecipativo, nel quale ciascuno è chiamato a formarsi per essere in grado di comprendere, di difendere i suoi interessi, di convincere gli altri, ha inoltre il pregio di elevare poco. a poco il livello di comprensione globale della popolazione circa la struttura di governo ed i meccanismi della sua gestione, garantendo anche maggiori possibilità di controllo sociale. Per quanto riguarda l'Italia, si segnala l'esperienza di Grottam- L'esperienza mare, un piccolo centro di circa 15.000 abitanti in provincia di italiana Ascoli Piceno che, da sette anni, sperimenta un modello di governo con tratti simili a quello del bilancio partecipativo di Porto Alegre. La formula adottata dal Comune di Grottammare si basa su una serie di assemblee di quartiere organizzate da comitati spontanei di cittadini, che sono sorti soprattutto nelle zone periferiche. Lo scorso mese, anche il Consiglio Comunale di Firenze si è impegnato ad individuare procedure e regole di un sistema contabile aperto al territorio e alla comunità, che preveda "assemblee di discussione a livello rionale" e "momenti partecipativi te-


matici". Iniziative analoghe stanno nascendo anche in altri Comuni italiani. Ilprogramma di lavoro dei quattro giorni del Forum, ospitato dal bellissimo campus della Pontificia Università cattolica, era particolarmente nutrito ed era stato suddiviso in due sezioni. Al mattino, c'erano le conferenze tenute da relatori provenienti da tutte le aree del mondo sui quattro filoni. tematici prescelti: la produzione della ricchezza e la riproduzione sociale; l'accesso alla ricchezza e la sostenibilità; la società civile e l'arena pubblica; il potere politico e la nuova società. Al pomeriggio, invece, vi erano i seminari ed i gruppi di lavoro a tema (se ne sono contati più di 800) realizzati da un'organizzazione di riferimento. Ogni giorno erano, inoltre, previsti incontri con intellettuali, scrittori e vari personaggi di rilievo internazionale, fra cui - per citarne alcuni - il linguista nordamericano Noam Chomsky, lo scrittore spagnolò Manuel Vazques Montalban, l'ambientalista indiana Vandana Shiva, il premio Nobel Rigoberta Menchù. Tutti i partecipanti al Forum di Porto Alegre si sono, dunque, dovuti necessariamente confrontare con la difficoltà della scelta di uno o più temi all'interno dell'ampia gamma di possibilità offerte. Chi scrive ha seguito, in particolare, incontri dedicati all'economia sociale e all'acqua.

Il programma del Forum

"Un altro mondo è possibile" così recita il motto di Porto Alegre. E così è stato costantemente ripetuto con fiducia durante le conferenze ed i seminari sull'economia sociale: Ad essere messo sotto accusa è stato il modello economico neoliberista, considerato responsabile di una recessione globale. "Il modello economico neoliberista - si legge nel documento finale - distrugge i diritti, le condizioni e i livelli di vita dei popoli. Usando ogni mezzo per proteggere i loro dividendi, le multinazionali licenziano, riducono i salari e chiudono fabbriche, spremendo fino all'ultimo i lavoratori. I governi di fronte a questa crisi economica rispondono con la privatizzazione, il taglio delle spese sociali e una riduzione permanente dei diritti di lavoratori e lavoratrici. Questa recessione spiega che le promesse neoliberiste di crescita e prosperità sono una bugia".

Verso

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un'economia

sociale


Il cambiamento dev'essere frutto di una rivoluzione lenta ma inarrestabile, che proceda."dal basso verso l'alto" e "dall'interno verso l'esterno" con il fine ultimo dichiarato di creare un sistema economico globale che non sia orientato al lucro quanto piuttosto alla produzione di un benessere sociale diffuso. I rappresentanti del mondo della cosiddetta economia sociale ci tengono a sottolineare che non si tratta soltanto di principi ed ideologie, ma che vi sono migliaia di esperienze concrete già in atto per dar vita ad un "altro mondo". Come, ad esempio, quelle del commercio equo e solidale, dei Il commercio progetti di microcredito volti a garantire l'accesso al credito a equo e chi normalmente non lo può ottenere attraverso i canali tradi- solidale zionali, della finanza etica che sceglie di investire secondo parametri eticamente orientati (boicottando tutto ciò che ha a che vedere con l'industria bellica, le multinazionali che portano avanti politiche di sfruttamento e così via), nonché le esperienze delle cooperative, da quelle sociali a quelle di consumo e agricole. La vera sfida è quella di uscire dalla logica della "nicchia", del microcosmo da mantenere isolato come esperienza interessante ma a sé, per riuscire invece ad espandere sempre più la filosofia di pensiero che sta dietro a tutte queste esperienze e a creare un nuovo sistema economico realmente alternativo rispetto a quello esistente. , A Porto Alegre si è contestata la concezione del cosiddetto Terzo settore quale universo a sé stante , in cui si relegano attività di assistenzialismo, beneficenza o più in generale di filantropia. Lo scopo da perseguire è piuttosto quello di un nuovo ordine economico su scala globale, i cui vari attòri non agiscano esclusivamente secondo regole del profitto, ma nell'intento di dar vita ad una società che sia vivibile per tutti i suoi membri, nel rispetto dell'ambiente e delle minoranze. Il consorzio CTM/Altro Mercato - il maggior organismo italiano operante nel settore 'del commercio equo e solidale - proponendosi come esempio di questo nuovo modello di economia sociale, in uno dei numerosi workshop organizzati, ha esposto la filosofia cui s'ispira e le sue modalità operative. 11


Il commercio equo solidale è una realtà in costante crescita anche nel ntstro Paese e si propone come un'alternativa concreta ai sistemi tradizionali di mercato ed ai meccanismi di sfruttamento Nord-Sud. A tal fine, intesse rapporti diretti con piccoli gruppi di contadini ed artigiani del Sud organizzati democraticamente, prediligendo fasce sociali emarginate o discriminate, per evitare speculazioni da parte degli intermediari e garantire l'importazione dei prodotti ad un prezzo "giusto" d'acquisto, che valorizzi i costi reali di lavorazione ed assicuri una retribuzione dignitosa del lavoro. Esso si basa, dunque, sulla costruzione di rapporti paritari: tra l'esportatore ed il produttore, prevedendo trasparenza sui prezzi e sulla destinazione del denaro pagato dal consumatore. Spesso al produttore è concesso un prefinanziamento degli ordini del 50% del valore per consentire l'affrancamento dallo sfruttamento finanziario operato dagli speculatori oppure è garantito l'accesso al credito che sarebbe impossibile attraverso i canali tradizionali. Le organizzazioni che agiscono nell'ambito del commercio equo e solidale esercitano anche una costante attività di informazione e sensibilizzazione relativamente al consumo critico, ai meccanismi di mercato che comportano conseguenze significative per le popolazioni dei Paesi del Sud del Mondo, sostenendo, inoltre, le forme di coltivazione biologica e l'impiego di materiali ecologici e riciclabili. All'interno degli incontri dedicati alle questioni ambientali si La questione sono svolte le varie riunioni sul tema dell'acqua, organizzate d al dell'acqua Comitato Internazionale sull'acqua, costituitosi a Lisbona nel 1998 e coordinato da Riccardo Petrella, uno dei rappresentanti più prestigiosi della delegazione italiana. Negli ultimi anni il tema dell'acqua sta diventando di sempre maggiore attualità grazie anche all'opera di informazione e sensibilizzazione svolta dal Comitato stesso. Il problema, d'altra parte, è sempre più urgente soprattutto nei Paesi del Sud, dove la carenza d'acqua s'unisce ad una gestione spesso poco democratica del bene, che impedisce che ogni essere umano vi possa accedere nella quantità e qualità sufficienti 12


ad assicurargli la sopravvivenza. Ma anche nei Paesi del Nord (fra cui l'Italia) sono sempre più frequenti le discussioni sul finanziamento e la gestione (pubblica o privata) dei servizi dell'acqua. La conferenza d'apertura è stata particolarmente vivace ed ha visto la partecipazione di un folto pubblico composto da persone di tutte le età, a conferma del fatto che il tema non è appannaggio di un ristretto gruppo di esperti, ma che si tratta piuttosto di una questione scottante per la collettività. L'incontro è stato animato dalle testimonianze di numerosi militanti provenienti da tutto il mondo ed in lotta per ottenere il riconoscimento dell'acqua quale bene comune dell'umanità. A Porto Alegre il Comitato ha ribadito la sua posizione contraria alla gestione privata dell'acqua ed alla sua commercializzazione, sostenendo che l'accesso all'acqua potabile è un diritto umano e che l'acqua è un bene pubblico appartenente a tutti. Sono state condannate con veemenza le politiche aggressive e sconsiderate delle grandi multinazionali dell'acqua soprattutto nei Paesi del Sud, ove il diritto di intere popolazioni a fruire di questo bene primario è seriamente messo in discussione. Si è, inoltre, dibattuto circa l'emergenza e la necessità di creare delle istituzioni mondiali in grado di intervenire in materia di conflitti relativi a usi ed accesso all'acqua, insistendo comunque sull'opportunità che il tema sia inserito nell'agenda dei vari Stati e degli organismi internazionali in quanto di importanza fondamentale per l'umanità. I lavori del secondo Forum Sociale Mondiale si sono conclusi il con una emozionante cerimonia, durante la quale toccanti testi- documento monianze si sono alternate a coinvolgenti canti e balli collettivi e finale in cui si è data lettura del documento finale. I sedici punti del documento finale di Porto Alegre sono il frutto di un non facile lavoro di mediazione tra le posizioni di movimenti sociali provenienti da cinque diversi continenti e con visioni della realtà non sempre coincidenti. Esso è ricco di riferrmenti alle questioni di maggiore attualità, come il collasso della multinazionale dell'energia Enron ed il riferimento alla crisi argentina. Non manca la condanna espressa 13


al modello economico neoliberista ed alla politica statunitense, in particolare all'abbandono da parte degli Stati Uniti dei negoziati di Kyoto sul riscaldamento globale del pianeta, del trattato sui missili antibalistici, della convenzione sulla biodiversità, della conferenza dell'Onu sul razzismo e del confronto per ridurre la fornitura di armi leggere. Trova, inoltre, spazio l'aperta condanna della "brutale occupazione di Israele", del Plan Colombia, degli embargo contro Cuba e l'Iraq, della politica intrapresa dal WTO che "si sta avvicinando al suo obiettivo di trasformare ogni cosa in merce. Per noi, cibo, servizi pubblici, agricoltura, salute, istruzione e i geni non sono in vendita. Inoltre rifiutiamo il brevetto di qualsiasi forma vivente". Quanto agli attentati al World Trade Center e al Pentagono dell'il settembre, il documento finale condanna sia il terrorismo sia la successiva guerra in Afghanistan, riuscendo così a conciliare le posizioni dei movimenti "occidentali" con quelle dei movimenti del Sud del mondo, che faticano a considerare la strage di New York piui grave di molte altre accadute altrove. Il movimento di Porto Alegre dichiara, infine, di lottare per la democrazia, per l'abolizione del debito estero e la sua riparazione, contro le attività speculative, per il diritto all'informazione, contro la guerra ed il militarismo, scegliendo di privilegiare il negoziato e la soluzione non violenta dei conflitti, per un'Unione europea democratica e sociale, per i diritti dei giovani ed il loro accesso ad un'istruzione pubblica gratuita e socialmente autonoma e per l'abolizione del servizio militare. Il Secondo Forum Sociale Mondiale si è concluso, così come si era svolto, in un'atmosfera allegra e di grande entusiasmo ed impegno, lanciando una lunga serie di appuntamenti per il futuro, fra cui i Forum Sociali continentali. Quello europeo si svolgerà a Firenze il prossimo novembre.

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A proposito di cittadino come "cliente" del servizio pubblico di Massimo f?ibaudo

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Cortona, lo scorso anno, parlando di e-government si è sviluppato un interessante dibattito sui ruolo del cittadino all'interno di tale processo e soprattutto sulla possibilità di definire il cittadino stesso come "cliente" delle pubbliche amministrazioni erogatrici di servizi pubblici. Aveva introdotto tale termine nella sua introduzione ai lavori il ministro dell'Innovazione Lucio Stanca. Cliente è colui che merita il servizio migliore, perché paga. E' il punto di riferimento dell'azione amministrativa e della progettualità in termini di servizi basati su piattaforme di e-government.

Gregorio Arena ha preso le mosse dall'introduzione del Mini- L'informatizstro e ha ricordato un detto latino-americano secondo il quale zazione non "governar non es asfaltar...", per parafrasarlo nel senso che "in- è sufficiente novare non è informatizzare". Passare dal documento cartaceo al documento informatico, dalla firma autografa a quella digitale, dalla carta d'identità cartacea alla carta d'identità elettronica significa, sostanzialmente, fare in modo diverso le stesse cose. Non cambia in profondità il rapporto tra amministrazione e cittadini. Questo rapporto cambia, e quindi crea innovazione, quando poi il documento informatico, per esempio, è utilizzato per semplificare la vita ai cittadini, eliminando non soltanto i certificati, ma anche l'autocertificazione, instaurando quell'acquisizione diretta delle informazioni fra amministrazioni, ciò che il Testo Unico sulla documentazione amministrativa, DPR 445/2000, chiama l'accertamento d'ufficio. Arena ha, quindi, concordato con il ministro Stanca sulla necessità di individuare una vera e propria autostrada dell'innovazione: realizzando progetti ambiziosi. Secondo Arena per far questo bisogna però chiarire, come fa il Un'attenziodiritto amministrativo, quali sono i principi che regolano i rap- ne curata 15


porti fra amministrazione e cittadini. In questo senso, può essere fuorviante utilizzare il termine "cliente" per individuare il rapporto tra amministrazione e cittadini. E' certamente utile se questo serve a far capire a chi sta dentro le amministrazioni che bisogna avere per i cittadini la stessa attenzione che i servizi privari hanno per i loro clienti. Però, da un punto di vista giuridico, costituzionale, istituzionale i cittadini non sono clienti della pubblica amministrazione. Arena ha citato tre motivi. I cittadini non sono clienti dell'amministrazione perché pro Il cittadino è quota, ciascuno insieme con gli altri titolari della sovranità po- più di un polare secondo l'art. i della Costituzione. Quindi, sono la fonte cliente della legittimazione di quello stesso potere pubblico che le arnminisu'azioni esercitano. In sostanza, sono molto di più che un cliente. Non sono clienti perché, in quanto elettori, contribuiscono alle scelte politiche di quelle stesse amministrazioni che erogano servizi. Questo soprattutto a livello locale, si pensi al caso dei sindaco eletto direttamente dalla cittadinanza locale. Ma, soprattutto, i cittadini non sono clienti, ricorda Arena, perché la Costituzione afferma che i cittadini sono la ragione stessa dell'esistenza delle amministrazioni. Se il compito della pubblica amministrazione è quello di realizzare l'articolo 3 secondo comma della Costituzione i cittadini non dovrebbero essere chiamati clienti. Il secondo comma, lo ricordiamo, è quello che afferma: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Il programma di azione delle amministrazioni pubbliche, in sostanza, è quello di creare le condizioni perché ciascun cittadino possa essere se stesso. E Arena fa un esempio: "Lo scuoiabus che va a prendere il ragazzino nella casa di campagna o nel maso in montagna e io porta a scuola in paese o in città, non è un privilegio. Non è uno spreco, una spesa inutile di denaro pubblico. Ma il modo in cui si rimuove l'ostacolo sociale e quello della distanza fisica e si permette a quel ragazzo di andare a scuola. Se poi quel ragazzo da grande vuoi continuare a fare il lavoro che 16


fanno i suoi genitori o diventerà un grande matematico o un grande musicista questo fa parte dell'autonomia personale. Ma gli sarà stata data l'opportunità di realizzare se stesso". Un modo di impostare il problema dell'e-government è allora: Perseguire in che modo le nuove tecnologie, nella pubblica amministrazio- un obiettivo ne, possono contribuire a raggiungere questo obiettivo costitu- costituzionazionale, cioè quello del pieno sviluppo della persona? In questo le modo, secondo Arena, ci si muove verso obiettivi ambiziosi. Secondo due possibili livelli d'intervento. Il primo è quello, evidente, della rimozione degli ostacoli. Semplificare la burocrazia, facilitare i rapporti con le amministrazioni, far circolare informazioni, mettere a disposizione i nuovi servizi e migliorare la qualità delle informazioni esistenti. Sono questi tutti casi di innovazione mediante un uso intelligente delle tecnologie finalizzate al pieno sviluppo della persona. Quindi, è già un progresso anche l'idea che basti informatizzare l'esistente per innovare, perché il principio costituzionale diventa allora la bussola, il faro che illumina l'obiettivo e ci dice qual è la scala di rapporti fra fini e mezzi. Le nuove tecnologie, in accordo con la relazione del Ministro: "sono allora strumenti al servizio del cittadino e del suo pieno sviluppo". C'è un altro modo, però, ancora più incisivo attraverso il qua- L'impottza le le nuove tecnologie possono essere un fattore d'innovazione della co-parnel rapporto con le pubbliche amministrazioni. E questo è, ve- tecipazione ramente, un ribaltamento completo dell'approccio tradizionale. Un tema strategico. Arena ricorda come il paradigma tradizionale che regola il rapporto tra amministrazioni e cittadini vede l'amministrazione come il soggetto che amministra nell'interesse generale e, quindi, nell'interesse di tutti, mentre i cittadini sono in una posizione passiva. Questo ha giustificato, per anni, la separazione fra amministrazione e cittadini, resa evidente dall'importanza del segreto d'ufficio. I cittadini sono in questo caso intesi come passivi recettori di una funzione pubblica. In un nuovo paradigma, che ha come base le teorie del premio Nobel Amarrya Sen, le persone sono portatrici di capacità, capacità fondamentali di sé. 17


Quindi, le persone sono portatrici non soltanto di bisogni, di esigenze, ma anche di risorse. Energie, competenze, conoscenza diretta del problema. Un utente che viaggia moltissimo in treno, un pendolare, dovrebbe essere l'interlocutore privilegiato per chi volesse veramente sapere come funziona il servizio sulla tratta da lui percorsa. Perché su quel treno passa parte del suo tempo quotidiano e ne conosce concretamente i problemi. E' sotto gli occhi di tutti che le pubbliche amministrazioni non riescono da sole a risolvere i problemi di interesse generale. Il paradigma tradizionale non funziona più perché quando è stato formulato la società era relativamente semplice, con alcuni problemi da risolvere più o meno chiari. Era necessaria la risorsa finanziaria. Oggi, in molti casi, l'amministrazione non sa qual è la soluzione, e la risorsa finanziaria non basta o può essere utilizzata in modo non efficiente proprio a causa della scarsità di informazioni. I mezzi che mancano sono legati al fatto che la soluzione del problema non può essere generata soltanto dall'intervento dell'amministrazione. Si pensi all'ambiente, al problema della gestione urbana, alla prevenzione sanitaria, alla sicurezza pubblica. Tutta una serie di problemi, anche relativi al nostro sistema economico e sociale che non possono essere affrontati dalla sola pubblica amministrazione. Si pensi alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Non può l'amministrazione usare il potere per costringere le persone a cambiare i propri comportamenti quotidiani, anche se può indirizzarli attraverso meccanismi di incentivazione o, al contrario, di penalizzazione. E, d'altra parte, per i cittadini da soli è completamente inutile darsi da fare per differenziare i rifiuti se la pubblica amministrazione non ci mette l'organizzazione. A giudizio di Arena la soluzione di problemi d'interesse generale sta nell'alleanza fra amministrazione e cittadini, nella messa in comune di risorse per co-amministrare, nel rendere i cittadini soggetti attivi nella soiuzione dei problemi che li riguardano. Questo è stato confermato anche dalla nuova enunciazione Un nuovo dell'art. 118 ultimo comma della Costituzione, come recente- paradigma mente confermato dal referendum, il quale introduce nel nostro ordinamento un principio dirompente. Non ancora compiutamente analizzato. 18


Dice quell'ultimo comma: "i poteri pubblici favoriscono... l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati nella cura dell'interesse generale in base al principio di sussidiarietà". Questo è il riconoscimento esplicito del fatto che le amministrazioni pubbliche non hanno più il monopolio nella tutela dell'interesse generale. Anche i cittadini possono amministrare. Questo ultimo comma, lo si intuisce, apre interessanti scenari ma presenterà anche forti criticità. Ad esempio, chi deciderà come si tuteleranno i terzi nei confronti dei gruppi organizzati e dei cittadini che asseriscono di agire nell'interesse generale? Ma il punto cruciale, ricorda Arena, è che questo precetto normativo ci dà la conferma esplicita, a livello costituzionale, dell'infrangersi del paradigma tradizionale di un'amministrazione che amministra e di cittadini che si limitano ad essere amministrati. La soluzione e la sfida strategica potrebbero consistere allora in questo: sostenere, con le nuove tecnologie, il rinnovato paradigma del rapporto tra pubbliche amministrazioni e cittadini passando, quindi, da un rapporto in verticale, gerarchico tra un soggetto attivo ed uno passivo ad un rapporto orizzontale e paritario tra un'amministrazione e i cittadini che insieme affrontano i problemi di interesse generale. L'informatica, in quanto strumento, può prestarsi a tutti e due i modelli: a verticalizzare ulteriormente il rapporto escludendo i cittadini poco alfabetizzati dal punto di vista informatico o, viceversa, aiutare a creare un rapporto di tipo orizzontale in rete. E, quindi, la proposta è di darsi due obiettivi: uno di breve termine ed uno di lungo termine. Nel breve termine continuare a fare quello che si sta facendo: utilizzare l'informatica per semplificare, per rendere più efficienti i servizi, per migliorare i rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione. Però, farlo pensando a questa nuova modalità di rapporto. Pensando al fatto che i cittadini non sono destinatari passivi dell'intervento pubblico ma sono co-protagonisti ed esplorare, quindi, tutte le nuove modalità - e questo è l'obiettivo di lungo termine - con le quali le nuove tecnologie possono rendere i cittadini non più utenti, amministrati e assistiti, ma

L'informatica come strumento utile al protagonismo

19


protagonisti del proprio pieno sviluppo e della propria piena realizzazione come persone. Il ministro Stanca ha apprezzato l'impostazione del professor Arena, ma ha voluto anche difendere il concetto da lui espresso nella relazione introduttiva di "cliente", inteso come simbolo di un atteggiamento dei poteri pubblici che deve mutare. Il Ministro ha ricordato che il cliente non è l'utente. E' un concetto molto più ricco. L'utente è un soggetto che utilizza, il cliente si pone ad un livello superiore. Stanca sottolinea come la mera previsione del pulmann che va a prendere il bambino per portarlo a scuola non basta ad attuare la Costituzione. Il concetto di cliente porta ad affermare che a quel bambino va offerto un servizio nel vero senso del termine. Quel pulmann deve essere puntuale, pulito: dare un servizio sicuro. Formalmente si può mettere a disposizione delle persone un servizio per attuare l'articolo della Costituzione, ma è la dimensione contrattuale del servizio che realizza, nel concreto, un servizio efficiente. Soprattutto in un momento di cambiamento del concetto di pubblica amministrazione come quello già citato. Cambiare paradigma a livello di comportamenti concreti rappresenterà un lavoro immenso. Si va a toccare il dna culturale delle amministrazioni pubbliche. Qualunque organizzazione, sia piccola o grande, semplice o complessa ha problemi nell'indurre al cambiamento il mindset, cioè la mentalità delle persone. Un aiuto al cambiamento può essere dato da concetti, se si vuole, anche semplici, ma forti, aventi una connotazione chiara. Il concetto di "cliente" rappresenta uno di questi. Afferma il Ministro: "Il cliente è quello che va servito, paga, ha tutti i diritti di criticare e di dire come deve essere fornito il servizio, perché, come ha detto giustamente il professore Arena, lo conosce maggiormente".

Il concetto di cliente come presa di coscienza

Certo, è importante anche fornire scenari futuri, dove le tecnologie possono portare ad altissimi livelli il concetto di e-democracy, attraverso un dialogo continuo, non senza criticità, con le pubbliche amministrazioni. Ma è importante fermarsi oggi ad un concetto base, ad un problema di fondo: come si può servir meglio il "cliente". Che paga e che non ha i servizi a livello europeo. In modo pragmati-

per un maggior rispetto del cittadino

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co, Stanca immagina si debba fare uno sforzo che non è soltanto tecnologico, ma anche organizzativo, normativo, culturale. Per garantire un livello più alto di efficienza dei servizi. Nel mondo privato il cliente può con maggiore facilità scegliere l'erogatore del servizio, cambiare fornitore se questo non offre un buon servizio. Nel rapporto con la pubblica amministrazione non è così. E, quindi, si ha un maggior dovere di porre il "cliente" al centro dell'attività amministrativa. Davide Viganò di Microsoft ha tenuto a ricordare come, a suo Cittadini, utenti e giudizio, il cittadino cliente, soprattutto quello appartenente a classi sociali alte o professionalmente di alto livello, comincia a clienti "scappare" da sistemi amministrativi obsoleti ed incapaci di rapportarsi attraverso le nuove modalità. Sicuramente si riferiva alla realtà statunitense, dalla quale noi siamo comunque ancora abbastanza lontani. Antonio Di Majo, nel suo intervento che ha toccato interessanti casi concreti di utilizzazione delle nuove tecnologie in campo fiscale, ha spiegato il motivo dell'introduzione dei termini "utenti", "clienti", nella terminologia relativa al settore dei rapporti tra amministrazioni e cittadini nell'erogazione dei servizi pubblici. E' questo un portato delle teorie economiche che in Italia, con Mazzola e poi De Viti De Marco, introdussero nell'analisi economica della pubblica amministrazione la teoria del consumatore. E ciò servi a costruire una serie di modelli del comportamento economico delle pubbliche amministrazioni nei quali si prese il termine di "utente" per le analogie che esistono con il comportamento del consumatore. Questo diede luogo alla trasformazione della scienza economica italiana in cui entrò la tradizione dell'economia marginalista e fu abbandonato quello che si chiamava "il germanesimo economico". Leconomia seguì l'individualismo metodologico di tradizione britannica, il diritto pubblico continuò a seguire l'approccio continentale. Insomma, il concetto di cliente fu un espediente per spiegare la teoria economica del settore pubblico. La tradizione giuridica si è accorta di questo termine quando si è trasformato l'approccio metodologico. Di Majo ha suggerito che proprio questa importante separazione metodologica non permise l'introduzione del calcolo economico nella pubblica amministrazione. 21


Sergio Ristuccia ha individuato un filo rosso che lega sia le questioni attinenti più propriamente all'organizzazione interna della pubblica amministrazione centrale e locale ed il versante, invece, del rapporto con il cittadino (sia esso inteso come cliente, utente o portatore di capacità e interessi): il concetto di governance. Dal dibattito è emerso come la gestione concreta, reale del territorio possa essere perfezionata con una migliore integrazione verticale degli interventi ai vari livelli amministrativi e una migliore integrazione orizzontale tra i vari organismi che operano a livello locale (momento dell'e-government per le pubbliche amministrazioni) e all'interno di essi, nonché attraverso il coinvolgimento dei cittadini e dei soggetti responsabili delle politiche urbane (momento dell' e-governance). Si tratta di capire come e con quali mezzi le istituzioni, le organizzazioni ed i soggetti privati possano sviluppare strategie comuni e soddisfare le nuove esigenze in materia di azione collettiva.

L'azione collettiva

Uno dei settori sui quali è possibile intervenire è quello delle informazioni a disposizione degli Enti locali e degli altri soggetti interessati alle problematiche urbane, compresi i cittadini, in materia di politiche di sviluppo del territorio. Questo affinché gli stessi soggetti possano raggiungere una serie di risultati: co-partecipare alla formulazione di tali politiche; garantire una più completa partecipazione del territorio nell'attuazione delle politiche nazionali, comunitarie, sovranazionali; promuovere l'integrazione e la sinergia delle politiche all'interno delle aree urbane, tra i diversi livelli amministrativi e all'interno di essi; sostenere il rafforzamento delle capacità locali, allo scopo di migliorare la qualità e l'efficienza della gestione urbana, anche attraverso lo scambio di esperienze positive tra le città, la cooperazione e 1e reti transnazionali; incentivare lo sviluppo di forme di partenariato tra il settore privato, le associazioni e gli abitanti; migliorare la raccolta e l'impiego dei dati comparativi sulle politiche concrete attuate nella comunità di appartenenza, la diagnosi dei problemi urbani e l'identificazione di efficaci soluzioni politiche, affinché le parti interessate ai vari livelli amministrativi possano adeguare le proprie politiche in funzione delle esigenze locali, nonché assicurare il controllo e valutare l'efficacia

La centralità della comunicazione

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del proprio operato, analizzando i risultati ottenuti in termini quantitativi e qualitativi. Di qui, l'esigenza di strutturare i progetti che utilizzano l'innovazione tecnologica come strumento di tecnica amministrativa secondo un preciso piano di contenuti che vadano verso la direzione della "governance", quindi, della definizione dei rapporti tra cittadini e centri di potere amministrativo. Progetti che dovrebbero configurare modelli di informazione sulle politiche attuate sul territorio dall'amministrazione in base alla strutturazione di percorsi di informazione secondo i target di pubblico individuati (es. studenti, lavoratori, imprenditori, pensionati, etc.), ma anche modelli di interazione e di domanda al cittadino per la condivisione di esperienze e aspettative. Se l'innovazione vuole veramente rappresentare un volano per lo sviluppo deve essere applicata a progetti ambiziosi che si prefiggano il compito di individuare rapporti, definire compiti, allocare e rendere riconoscibili risorse, permettere transazioni e scambi contrattuali piĂš sicuri e veloci. Compiti di governance del territorio e delle comunitĂ .

Per la governance del territorio e della comunitĂ

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Itrasporti del Sud nel contesto europeo di Darla Ciriaci

J

n questi ultimi anni, nel dibattito sulle politiche dell'offerta necessarie per ripristinare e rilanciare la competitività del territorio meridionale e far fronte, così, alla crescente concorrenzialità del mercato unico europeo, è divenuta sempre più chiara l'importanza decisiva degli interventi volti al miglioramento delle dotazioni e della gestione delle infrastrutturel. In un contesto sempre più economicamente integrato, ciascuna economia regionale dell'Ue è esposta ad una maggiore concorrenza, da parte di tutte le altre, non solo nell'offerta di prodotti, ma anche nell'offerta di fattori di localizzazione per le attività produttive. Per le regioni economicamente deboli d'Europa e, in particolar modo, per quelle maggiormente sfavorite dalla carenza di infrastrutture e servizi, dall'inefficienza istituzionale e amministrativa, dalla rigidità del lavoro, aumenta il rischio di soccombere nella gara per l'attrazione di investimenti dall'esterno. Un Infrastrutture adeguate ed efficienti, sono, quindi, ormai generalmente considerate come un presupposto essenziale per l'ulteriore importante avanzamento del processo di sviluppo economico e sociale "delle re- fattore cli gioni povere del Mezzogiorno. Esse costituiscono, da un lato, un sviluppo fondamentale elemento decisionale ai fini della localizzazione dei flussi di investimento e di lavoro; dall'altro, fattori cruciali per assicurare la complessiva capacità competitiva del sistema produttivo esistente. Deve aggiungersi che, all'interno di un contesto economico sempre più integrato su scala continentale e globale, l'infrastrutturazione di un territorio non è importante soio di per se stessa, ma per il grado di integrazione che essa presenta nei confronti delle reti infrastrutturali delle Regioni e dei Paesi confinanti.

L'Autrice è Ricercatrice presso la stria nel Mezzogiorno). 24

SVIMEZ

(Associazione per lo sviluppo dell'indu-


Un ulteriore elemento di incertezza del quadro competitivo internazionale è costituito dal previsto allargamento dell'Unione europea 2 ai Paesi dell , Europa centro-orientale (PEco) 3. Esso, così come l'Unione monetaria, costituisce senz'altro un'opportunità per l'economia UE nel suo insieme, in quanto consentirà mercati di sbocco più ampi e disponibilità di manodopera a più basso costo. Ma per il Mezzogiorno significherà anche dover fronteggiare, all'interno dei confini dell'Unione, la concorrenza di nuove aree che, soprattutto grazie al minor costo del lavoro, possono offrire maggiori convenienze per la localizzazione di nuove attività e per la de-localizzazione di quelle esistenti. Sotto quest'ultimo profilo, è da rilevare come questi Paesi presentino un livello di infrastrutturazione non molto diverso da quello del Mezzogiorno. Dai dati. contenuti in Tab. 1, tratti da una recente pubblicazione della SVIMEZ4, emerge che, posta la media UE 15 pari a 100, la dotazione di infrastrutture stradali dei 10 PEco candidati (83,4) non è eccessivamente distante da quella media europea e, quindi, da quella del Mezzogiorno (96,4). Analizzando nel dettaglio le diverse tipologie di infrastrutture di trasporto, si evince che questi Paesi sono poveri soprattutto di reti autostradali (l'indice di dotazione media è pari a 19,8 mentre nel Mezzogiorno tale indice assume un valore pari a 107,8). Per quanto riguarda le reti ordinarie, esse presentano tracciati qualitativamente inferiori allo standard europeo a causa della mancanza, durante gli anni passati, di fondi per il mantenimento e l'adeguamento delle strutture (in questo caso l'indice di dotazione è pari all'84,5% del valore medio comunitario). Questa situazione è la conseguenza diretta delle scelte di pianificazione dei trasporti vigenti nell'Est europeo fino a qualche anno addietro, le quali hanno privilegiato il trasporto pubblico collettivo rispetto a quello privato. Una conferma di tale orientamento si ricava dalla notevole dotazione di infrastrutture ferroviarie riscontrabile in quasi tutti i PEco: l'indice di dotazione ferroviaria complessiva è pari a 129,7% di quello medio UE 15, e ampiamente superiore a quello del Mezzogiorno pari al 98,8% della media comunitaria. Tale elevata dotazione è frutto di una sensibile sovradotazione osservabile nelle categorie elementari qualitativamente meno elevate, come la rete non elettrificata (163,5) e quella a binario singolo (162,8), e di un livello di infrastrutturazione non molto distante da quello medio

Il confronto con i Paesi PECO

Un trasporto ferroviario migliore

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comunitario nelle categorie qualitativamente più significative, come la rete elettrificata (99,5) e quella a doppio binario (85,1). Si può osservare che l'infrastrutturazione ferroviaria dei PECO non solo presenta alcune somiglianze con quella del Mezzogiorno ma, sotto certi aspetti, ha caratteristiche migliori. La rete elettrificata del Mezzogiorno ha una diffusione prossima a quella media europea (presenta un indice pari a 96,3) e inferiore di circa tre punti percentuali a quella dei PECO, mentre quella a doppio binario è praticamente pari alla metà (50,3) di quella comunitaria e largamente inferiore a quella dei Paesi candidati (la distanza, in questo caso, è di circa quindici punti percentuali). Le categorie qualitativamente meno apprezzabili sono nel Mezzogiorno più diffuse rispetto alla media comunitaria (la rete non elettrificata è a 101,6 a quella a binario singolo è a 134,6) ma ad un livello netto molto più basso di quello dei PECO. I PECO presentano, dunque, in alcune significative categorie infrastrutturali una situazione non distante da quella del Mezzogiorno e relativamente migliore nell'ambito del settore dei trasporti, soprattutto grazie ad una infrastrutturazione ferroviaria diffusa che, adeguatamente ristrutturata e collegata alle attuali reti europee, permetterà nel medio-lungo periodo un'accessibilità e una mobilità delle merci e delle persone più agevole.

Tab. I - Indici elementari di dotazione infrastrutiurale del Mezzogiorno e dei Paesi candidati dell'Europa centroorientale (PECO) 1998-1999 (UE 15= 100) Categorie infrastrutturali

Mezzogiorno

Viabilità totale: -Autostrade -Altrestrade Ferrovie totali: Elettrificate Non elettrificate Doppio binario -Binariosingolo Energia PIL per abitante in PPA -

-

96,4 107,8 96,2 98,8 96,3 101,6 50,3 134,8 65,7 66,7

CentroNord

Italia

PECO1O(a)

Ue-15

Ue-25(b)

122,6 164,3 121,9 122,8 166,9 73,1 127,9 119,0 87,8 120,6

111,9 141,2 111,4 113,0 138,1 84,7 96,2 125,4 79,8 101,0

83,4 19,8 84,5 129,7 99,5 163,5 85,1 162,8 58,2 37,8

100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

95,9 80,0 96,1 107,4 99,9 115,8 96,3 115,7 90,0 86,4

Bulgaria, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Estonia, Lerronia, Liruania, Polonia, Romania, Slovenia e Ungheria. In questo caso per UE 25 si intende l'Unione europea allargata ai 10 Peco. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Eurostat.

26


Per beneficiare pienamente dei vantaggi derivanti dall'instaurazione di uno spazio senza frontiere interne, la Comunità ha perseguito lo sviluppo di reti transeuropee nei settori dei trasporti, delle comunicazioni e dell'energia. Con il processo di allargamento questo tentativo è stato esteso anche ai dieci Paesi candidati. Va, però, rilevato che, sin dal 1993, quando fu presentato il Libro Bianc05, è emerso a livello comunitario un interesse prevalente nei confronti dell'asse di sviluppo geografico Est-Ovest piuttosto che verso l'asse Nord-Sud. Ne è derivata una tendenza a concentrare gli interventi proposti nelle regioni del Centro Europa piuttosto che in quelle meridionali. Questo interesse nei confronti delle direttrici Ovest-Est continua ad essere preminente, ed emerge chiaramente anche dalla definizione dei dieci Corridoi Pan-Europei di Trasporto. Dei tre strumenti previsti per garantire, durante il periodo 20002006, l'assistenza finanziaria ai PECO, il P-IA (Reg. n. 3906/89), l'IsPA (Reg. n. 1267/99) e il SAI1w (Reg. n. 1268/99) 6 , è il secondo ad essere utilizzato a questo scopo. L'IsPA (Instrumentfor Structural Policies for Pre-Accession), infatti, è lo strumento attraverso cui l'UE cofinanzia i progetti superiori ai 5 milioni di Euro nel settore delle infrastrutture di trasporto e quelli volti a garantire la tutela dell'ambiente. I finanziamenti sono concessi sotto forma di aiuti non rimborsabili ed il tasso di cofinanziamento è pari al 75% della spesa pubblica complessiva ammissibile. Il 2000 è stato il primo anno "operativo" dell'IsPA e il valore medio dei progetti approvati è stato di circa 13 milioni di Euro; il budget annuale - 1040 milioni di Euro per il periodo 2000-2006 - è suddiviso equamente tra infrastrutture dei trasporti e politica ambientale (v. Tab. 2).

110 corridoi

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Tab. 2- Fondi ISPA afavore dei PECO, budget 2000 Paese beneficiano Bulgaria Rep. Ceca Estonia Ungheria Lettonia Lituania Polonia Romania Slovacchia Slovenia Totale

Trasporti Euro %

52.000.000 41.671.864 11.331.126 43.825.000 19.925.328 34.042.528 173.085.066 118.627.137 30.853.200 7.500.000 532.861.249

50,0 59,5 40,2 49,8 42,6 65,2 56,4 49,6 72,7 38,2 53,4

Ambiente Euro % 52.045.600 27.588.844 15.808.281 42.573.123 26.568.260 18.200.000 130.258.589 120.601.333 11.606.372 11.175.275 456.425.677

50,0 39,4 56,0 48,4 56,8 34,8 42,4 50,4 27,3 56,9 45,8

Assistenza tecnica Euro % 0 728.000 1.080.000 1.592.580 255.000 0 3.614.000 0 0 960.000 8.229.580

0 1,0 3,8 1,8 0,5 0 1,2 0 0 4,9 0,83

- Strade e Autostrade

(a)

224.790.797

- Ferrovie (b) 283.584.312 - Aeroporti (c) 28.000.000

41,9 52,8 5,2

Assegnati ai Corridoi I, III, IV, D(, IXB. Assegnati ai Corridoi Il, IV, IX-V, V, VA, IXB, E-W. Non assegnati. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Commissione Europea

La suddivisione delle risorse dell'IsPA tra i PECO è stata decisa dalla Commissione Europea sulla base della popolazione, del reddito pro capite e della superficie dei Paesi candidati. Limitatamente al settore dei trasporti, l'obiettivo perseguito dalla Commissione Europea è creare la futura Rete di Trasporto trans-europea attraverso lo sviluppo prioritario dei dieci Corridoi di Trasporto Pan-Europei che comporteranno l'estensione dei collegamenti ferroviari di circa 20.900 Km e di quelli stradali di circa 19.000 Km. Questi Corridoi attraversano l'Europa Centro-orientale e i Balcani e collegano il Centro Europa (in particolare la Germania) al Mar Nero, alla Russia e all'Asia7, ricoprendo un ruolo essenziale ai fini della competitività e della crescita economica della "futura" Unione Europea (v. Tab. 3). Occorre sottolineare comunque che, l'interesse ditali vie di comunicazione e trasporto, a breve-medio termine, ha più natura politico strategica che economica. In una prospettiva di lungo periodo, però, i Paesi dell'Europa balcanica, con i loro circa cinquanta milioni di abitanti, assumeranno un peso economico non trascurabile. 28

Totale Euro % 104.045.600 69.988.708 28.219.407 87.990.703 46.748.588 52.242.528 306.957.655 239.228.470 42.459.572 19.635.275 997.516.506

10,4 7,0 2,8 8,8 4,7 5,2 30,8 24,0 4,3 2,0 100,0


Tab. 3 - I Corridoi Pan-Europei di Trasporto Corridoi

Corridoio I

Tipo di infrastruttura Strada/Ferrovia

Lunghezza totale 445 Km; 550 Km

Paesi attraversati dai Corridoi

% Fondi 2000(a)

IsPA,

Finlandia/Estonia/Lettonia/Lituania /PoloniaJRussia

5,18

Corridoio 11

Strada/Ferrovia

1.830 1Km

Germania/Polonia/BielorussiajRussia

13,47

Corridoio III

Strada/Ferrovia

1.640Km

Germania/Polonia/Ucraina

14,16

Corridoio IV

Strada/FerroviaJ Aereoporti/Porti/ colleg. con il Danubio

3258 Km

Germania/Rep.CecalAustria/ Rep. SlovaccaìUngheria/ Romania/ Bulgaria/Grecia/Turchia

30,41

Strada/Ferrovia

1.600 1Km

Corridoio V

Corridoio VT

Strada/Ferrovia, collegamento con il Corridoio V

1.800Km

Corridoio VII Collegamento fluviale

Italia/Slovenia/Ungheria/Ucraina/ Rep. Slovacca/Croazia/Bosnia-Erzegovina

8,05

Polonia/Rep. Slovacca/Rep. Ceca

1,87

Germania/Austria/Rep.SlovaccalUngheria/ Croazia/Serbia/BulgariafMoldavia/ Ucraina/Romania

n.d.

Corridoio Vili Strada/Ferrovia/ Porto di Durazzo (Albania)

1.300 I(m

Albania/Macedonia/Bulgaria

n.d.

Corridoio IX

6.500 Km

Finlandia/Russia/Ucrajna/ Moldavia/Romania/Ucrainaj B ielorussia/Grecia/ Bulgaria

8,88

Corridoio X

Strada/Ferrovia/Porti

Strada/Ferrovia

2.360 Km

Austria/Croazia/Macedonia/ Slovenia/Ungheria/Serbia/Bulgaria

1,54

(a) Alcuni progetti, ad esempio quelli relativi all'Assistenza Tecnica o alla costruzione/ampliamento di Aeroporti, non vengono assegnati ad uno specifico corridoio. Di conseguenza, i relativi fondi ISPA assegnati (60.875.225 Euro) non compaiono nella tabella. Fonte: OECD, Commissione Europea.

Dall'analisi della suddivisione dei fondi ISPA assegnati nel 2000 al I finanziasettore dei trasporti, emerge sia particolare attenzione dedicata alle menti infrastrutture ferroviarie (cui è destinato il 52,8% delle risorse; v. Tab. 2), sia la centralità ricoperta dalla Germania in quest'ambito. Dalle Tabb. 2 e 3 emerge infatti chiaramente la concentrazione delle risorse ISPA destinate al settore dei trasporti su quei Còrridoi, il IV (30,4%), il III (14,2%) ed il 11(13,5%), che «partono" da questo Paese. 29


I fondi stanziati dall'Isr'A non sono gli unici previsti per l'infrastrutturazione del territorio dei PECO. 1119 gennaio 2000 la Commissione Europea ha firmato un accordo di cooperazione (Cooperation Agreement) con la Banca Europea degli Investimenti 8 (BEI) avente il proposito di "combinare" i fondi elargiti dall'IspA con i finanziamenti concessi dalla BEI (il tasso di cofinanziamento è pari, generalmente, al 50%) in queste Regioni, al fine di garantire un elevato impatto economico e limitare l'utilizzo del budget comunitario per il perseguimento degli obiettivi considerati prioritari 9 . Inoltre, la BEI finanzia, per importi superiori ai 5 milioni di Euro, la ricostruzione delle infrastrutture di base nei Paesi balcanici, anch'essi attraversati dai Corridoi PanEuropei di Trasport&°. Un coordinamento simile esiste anche tra Isr'A e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BEIts), istituita nel 1990 per. favorire la "transizione" dei Paesi dell'Europa centroorientale verso un'economia di mercato aperto, nel 2000 però, il relativo co-finanziamento si è concentrato nel solo settore ambientale. Nel medio-lungo periodo l'Europa centro-orientale e, raggiunta Una posizione un'effettiva stabilità politica, i Paesi balcanici finiranno con il diventare il "ponte" tra Europa centrale (soprattutto la Germania che è in- di svantaggio teressata dal Corridoio IV - Norimberga, Monaco, Berlino - dal III - Berlino - e dal VI - Danzica) ed Asia. Rispetto allo sviluppo di queste direttrici di traffico Ovest-Est, l'Italia si trova in una posizione di svantaggio nei confronti dei partner comunitari posti a Nord delle Alpi, sia per le disfunzioni ancora presenti nel suo sistema di trasporti interno sia per alcune specifiche difficoltà, storicamente esistenti, nei suoi collegamenti verso Est e Sud-Est, aggravate dal ritardo con cui rispetto, ad esempio, alla Germania e all'Austria, ha iniziato ad affrontarle. La persistenza di queste difficoltà in un contesto di progressiva liberalizzazione e integrazione dell'UE con l'Europa centrale ed orientale - area, tra l'altro, nei confronti della quale esistono particolari interessi italiani - rischia di rendere ancora più acuti i problemi esistenti. Inoltre, visto che l'allargamento comporterà uno spostamento del "baricentro" europeo ad Est, i ritardi nei miglioramenti dei collegamenti con quest'area penalizzeranno non solo l'Italia nel suo complesso, ma soprattutto il Mezzogiorno che rischia di rimanere tagliato fuori dalle principali reti europee di comunicazione e trasporto. Dei dieci Corridoi previsti, infatti, sebbene tre in30


teressino l'Italia (Corridoio V: Venezia-Trieste-Lubiana-BudapestL'vov-Kiev; Corridoio VIII: Durazzo-Skpje-Sofia-Burgas/Varna; Corridoio X: Salisburgo-Lubiana-Zagabria-Belgrado-Nis-Salonicco), solo uno (il Corridoio VIII), collegando il Mar Nero (Varna e Burgas) con l'Adriatico (Durazzo), potrebbe potenzialmente portare benefici al Mezzogiorno, pur non interessandolo direttamente. L'importanza strategica in particolare della tratta tra Durazzo (Albania) e Skopje (Macedonia), dove il Corridoio Villi! si immetterebbe sul Corridoio X (Salisburgo-LubianaZagabria-Belgrado-Nis-Salonicco) è innegabile, sia dal punto di vista strategico, che economico. Le analisi compiute dalla SVIMEZ 12 mettono in evidenza che, Una "gara da non perdere" nell'attuale fase di transizione verso l'adesione, in cui diversi possono essere i fattori (anche transitori) di convenienza localizzativa nei PEco, il ruolo delle infrastrutture può essere limitato, ma non irrilevante, soprattutto se si considera la "prossimità" territoriale di questi Paesi ad alcuni partner UE (Germania e Austria, soprattutto). Ben più significativo potrebbe essere, invece, tale ruolo in futuro, quando una maggiore integrazione economica e strutturale dovrebbe portare ad un sensibile avvicinamento degli standard di costo della produzione tra l'attuale UE a 15 e i PECO; in questa fase (preventivabile, a seconda dei casi tra i 5 ed i 10 anni), io sforzo che attualmente, l'UE, la BE!, la BERD ed altri Istituti Finanziari Internazionali, stanno compiendo per migliorare, in questi Paesi, le infrastrutture di Trasporto esistenti e per costruirne di nuove, avrà portato i suoi frutti. Se il medesimo sforzo non verrà compiuto anche nel Mezzogiorno, quest'area rischia di perdere, nel lungo periodo, parte delle proprie risorse imprenditoriali e di investimento, a beneficio di queste regioni caratterizzate da un minore costo del lavoro ed infrastrutture adeguatamente collegate con il resto d'Europa, e di soccombere nella "gara" per l'attrazione degli investimenti esteri, che vede i PECO in vantaggio sin da ora. Da ciò deriva l'esigenza di massimizzare l'efficacia delle scelte di investimento e l'efficienza di utilizzo delle risorse programmate per lo sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno, soprattutto in questi anni fino al 2006, destinati all'attuazione di importanti programmi di intervento nazionali e comunitari.

* Questo articolo è già stato pubblicato in «Informazioni Svimez», n. 1-2 del 2002. 31


Per una recente analisi del ruolo delle infrastrutturesi veda, SVIMEZ, Le infrastrutture e lo sviluppo del Mezzogiorno; in «Quaderni di Informazioni SVIMEZ», n. 12/2002. 2 Tale allargamento è previsto, in parte, per il 2004, anno in cui dovrebbero aderire Otto PECO - Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Estonia - e due Paesi "mediterranei" - Malta e Cipro - ed in parte dopo il 2006. Dopo tale data dovrebbero aderire anche Bulgaria e Romania. Per una considerazione di carattere più generale in ordine ai problemi relativi alle conseguenze dell'allargamento della UE ed ai possibili effetti degli indirizzi oggi prevalenti in materia di politica strutturale comunitaria sulle prospettive delle Regioni del Mezzogiomo, si veda l'Editoriale del precedente numero (n. 1212001) di "Informazioni SVIMEZ". ' SVIMEZ, Le infrasirutt'ure e lo sviluppo del Mezzogiorno, op. cit. Nel Libro Bianco, "Crescita, competitività, occupazione" predisposto dalla Commissione Delors, sono state tracciate le grandi linee dell'azione, comunitaria in materia di sviluppo di "reti" infrastrutturali europee. Tale progetto si è concretizzato nel dicembre 1994 al vertice di Essen, con la previsione di una Rete di infra.strutture di Trasporto transeuropea (RTE) e il suo collegamento a 10 Corridoi di trasporto pan-europei. 6 Lo scopo del P-iRE è assistere i PECO nella "preparazione" all'adesione all'UE, favorendo lo sviluppo economico, la riforma delle amministrazioni e delle istituzioni; i finanziamenti sono concessi sotto forma di aiuti non rimborsabili e l'entità del contributo è pari al 100% del costo totale. Il SA.1Jw fornisce ai PECO un sostegno all'agricoltura e allo sviluppo rurale nel corso del periodo di preadesione al fìne di contribuire ad attuare la aquis comunitario in materia di Politica Agricola Comune e politiche connesse. I finanziamenti sono concessi sotto forma di aiuti non rimborsabili ed il tasso di cofinanziamento è pari al 75% del costo totale. ' Lo sviluppo delle reti infrastrutturali in Russia e nei Nuovi Stati Indipendenti (Nis) è stato garantito dal Reg. (CE) n. 99/2000 con cui è iniziata la terza fase (2000-2006) del programma TAcIs relativo alla prestazione di assistenza agli Stati partner dell'Europa Orientale e dell'Asia Centrale, Armenia, Arzebaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Moldavia, Mongolia, Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan. Il programma mira a promuovere la cooperazione interstatale, interregionale e transfrontaliera tra questi Stati, l'UE e i PECO assicurata mediante il coordinamento dei fondi disponibili per TAcIs - 3.138 milioni di Euro per il periodo 2000-2006 - con i fondi messi a disposizione dal PHARE e dall'IspA. Anche in questo programma, infatti, tra i settori prioritari individuati dalla Commissione vi è lo sviluppo delle reti infrastrutturali vitali per integrare questi Paesi nell'economia internazionale. 8 La BEI finanzia, all'interno dell'Unione europea, i progetti che contribuiscono a perseguire gli obiettivi politico-economici dell'Unione stessa mentre, nei Paesi candidati, principalmente quei progetti che perseguono la creazione o il miglioramento delle infrastrutture di base. Opera anche nei Paesi Ac (African, Caribbean and Pacific States), in Asia, America Latina e nei Balcani. 32


9 Nel 2000 sono stati cofinanziati alcuni progetti di infrastrutturazione nel settore dei trasporti in Bulgaria, Estonia, Ungheria, Lituania, Polonia e Romania. Cfr. Commissione Europea, Annual Report of the Instrumentfor Structural Policy forpre-Accession, COM (2001) 616 final, Bruxelles, 2001. IO Anche in questo caso il coordinamento BEI/Commissione Europea è assicurato dal Programma di assistenza comunitaria alla ricostruzione, allo sviluppo e alla stabilizzazione (CDs) - Reg. (CE) n. 2666/2000 - che finanzia lo sviluppo e la stabilizzazione dell'Albania, della Bosnia-Erzegovina, della Croazia, della Repubblica federale di Iugoslavia e dell'ex Repubblica iugoslava di Macedonia. La spinta decisiva alla sua realizzazione è stata fornita dagli Stati Uniti con il progetto AMBO (Albanian Macedonian Bulgarian Oil Corporation), finalizzato alla costruzione di un oleodotto che seguirà l'asse del Corridoio VIII e attraverserà i Balcani dalla costa del Mar Nero (Burgas e Varna) a quella dell'Adriatico (Valona e Durazzo). L'oleodotto in questione dovrebbe essere completato entro il 2005. Tra le compagnie petrolifere interessate al progetto, co-finanziato anche dalla BEI, dalla BERS e dall'IspA, vi sono la Mobil, la Bp Amoco, l'Agip, la Chevron e la Texaco. 12 SVIMEZ, Le infrastrutture e lo sviluppo del Mezzogiorno, op. cit.

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La politica ambientale dell'Unione Europea: il programma LIFE di Rosa Maiorino

L

a Comunità Economica Europea prima, oggi Unione Europea, ha sempre avuto una particolare attenzione per l'ambiente, inteso nella sua forma più ampia: dall'aspetto agricolo alla salvaguardia di zone rurali in declino, dalla tutela degli habitat e delle specie animali-vegetali in estinzione, fino alla nascita di un sistema comunitario di ecogestione e alla realizzazione di un marchio ecologico europeo. Non a caso, da oltre venticinque anni, si assiste ad una vera e propria politica in materia ambientale, e, sebbene l'ambiente sia un settore "libero", da intendersi come settore in cui vi è libertà degli Stati membri di adottare leggi in assenza di una normativa comunitaria, è anche vero che negli ultimi anni si è assistito ad una intensificazione dell'azione legislativa europea in tal senso. Numerosi sono gli atti con cui quest'ultima viene esplicata: racco- Norme e mandazioni e risoluzioni, che pur non essendo vincolanti definisco- strumenti no le strategie e gli obiettivi cui gli Stati sono invitati ad uniformarsi; i regolamenti che sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri; le decisioni che sono vincolanti per le persone fisiche e quelle giuridiche cui sono indirizzate; le direttive che devono essere recepite dagli Stati mediante leggi o regolamenti entro tempi che solitamente vanno dai diciotto ai ventiquattro mesi. Queste ultime sono vincolanti negli obiettivi da perseguire, mentre lasciano una certa flessibilità agli Stati nel modo in cui attuarli. È, soprattutto, attraverso questo atto legislativo che l'Unione europea interviene in materia ambientale, basti pensare alle direttive volte a migliorare la qualità dell'aria, dell'acquà, le tecniche di smaltimento dei rifiuti, il controllo dei rischi industriali e la protezione della natura. Accanto all'azione normativa sono previsti strumenti finanziari diretti e specifici che aiutano gli Stati membri al recupero, alla salvaguardia, alla protezione e alla valorizzazione dell'ambiente, quale

L'Autrice è Consulente di Enti locali su progetti comunitari. 34


lo strumento Life, nonché programmi di azioni in materia ambientale, indicativi delle strategie, degli interventi, del tipo di azione da intraprendere in relazione a obiettivi da raggiungere nel settore di cui si tratta. A tal proposito si sono susseguiti cinque programmi d'azione e di recente è entrato in vigore il VT Programma d'Azione per l'Ambiente della Comunità Europea (2001-2006), che segue le linee già tracciate dai precedenti, in particolare dal V programma. Quest'ultimo, infatti, sulla base delle innovazioni portate dagli ultimi Trattati Europei 1 delineava i nuòvi obiettivi delle Istituzioni comunitarie in vista di uno sviluppo "sostenibile" da perseguire nel lungo termine, determinando in tal senso le azioni necessarie al miglioramento del processo ecologico nell'Unione e al progresso verso lo sviluppo economico e sociale sostenibile. Il'VI Programma d'azione in materia ambientale, varato dalla L'attuale Commissione europea il 24 gennaio 2001, individua i settori verso programma d azione i quali e necessario concentrare gli interventi o rivedere gli orientamenti della politica dell'Unione alla luce di uno sviluppo, di una crescita economica e sociale sostenibile. Più specificatamente, l'attuale programma delinea una serie di azioni della politica ambientale nel contesto più ampio dello sviluppo sostenibile e delle influenze reciproche tra progresso economico e ambiente sano anche in vista dell'allargamento dell'Unione ad altri Paesi europei, dell'interesse alle problematiche globali e della integrazione della politica ambientale in altre politiche settoriali. Tutte le tematiche contenute nel VT Programma conseguono, quindi, obiettivi che, hanno sia natura globale che settoriale quali: cambiamento climatico, natura e biodiversità, ambiente e salute, uso sostenibile delle risorse naturali e gestione dei rifiuti. In particolare, cinque sono gli indirizzi sui cui le tematiche si articolano: migliorare l'applicazione della normativa vigente; integrare le tematiche ambientali nelle altre politiche; indurre il mercato a lavorare per l'ambiente; coinvolgere la partecipazione dei cittadini e modificare i loro modelli comportamentali; pianificazione e gestione del territorio più sostenibili. Oltre al Programma d'azione per l'ambiente, sono previsti mezzi Gli strumenti finanziari a sostegno dell'ambiente, di cui alcuni come il Lifi, sono finanziari 35


stati creati per la sua protezione, altri, quali i fondi strutturali, mirano a realizzare obiettivi generali più a largo raggio, quale il mantenimento, la valorizzazione e il ripristino del paesaggio nell'ambito del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FEas); gli investimenti nelle infrastrutture dirette alla protezione ambientale nell'ambito del Fondo Sociale Europeo (FsE), la protezione e la conservazione del patrimonio rurale nell'ambito del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia (FoG), incentivi agli agricoltori per l'adozione di pratiche compatibili con l'ambiente e per ricreare habitat forestali nel quadro del rimboschimento delle superfici agricole e del miglioramento forestale agro-ambientale (nell'ambito della politica agricola comune attraverso le misure accessorie). E ancora, sono sempre previsti nell'ambito dei fondi strutturali finanziamenti per attività di consulenza e formazione in materia di conservazione rivolte ad agricoltori, forestali, cacciatori e pescatori. Il programma Life venne istituito nel 1992 con l'intento di favorire Il lo sviluppo e l'attuazione della politica e della legislazione ambientale, finanziandone azioni specifiche. Il regolamento CEE 1973/92 deI Consiglio del 21 maggio 1992, con cui venne varato lo strumento finanziario de quo, nacque, infatti, come strumento operativo per accedere a contributi finanziari per l'attuazione della direttiva 92/43 CEE-Habitat6. Questa direttiva, tenendo contodelle situazioni ed esigenze economiche, sociali e culturali locali, aveva ed ha lo scopo di contribuire a salvaguardare la boidiversità attraverso la conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio dell'Unione. Il Life nasce, dunque, come strumento per accedere al sostegno finanziario accòrdato a progetti che rivestono importanza comunitària, che contribuiscono all'attuazione della politica comunitaria in materia di ambiente e, nel corso degli ultimi anni, grazie ad una maggiore sensibilizzazione della politica comunitaria alle problematiche ambientali internazionali, si è arricchito di nuove finalità, ovverosia l'attuazione di una politica verso lo sviluppo sostenibile, la conservazione e la valorizzazione di Natura 20002 e il rispetto le condizioni del principio "chi inquina paga". A partire dal regolamento 1973/92/CEE, venne iniziata una politica dell'ambiente mirata, coordinata ai vari settòri della politica co36

LIFE


munitaria, vennero abrogati pertanto i regolamenti precederti: MEDSPA, ACNAT e NORSPA il cui contenuto veniva infatti assorbito nel nuovo strumento normativo. Altre modifiche sostanziali avvennero nel 1996, con il Regolamento 140411996/CE, modifiche introdotte al fine di rafforzare la politica comunitaria nel settore dell'ambiente e nelia legislazione ambientale, con particolare riguardo all'integrazione della medesima in altre politiche e finalizzate allo sviluppo sostenibile della Comunità. La prima fase del regolamento CEE 1973/92 interessò gli anni 1991-1995; la seconda il triennio 1996-1999; la terza e attuale fase riguarda il quinquennio 2000-2004 ed è disciplinata da un nuovo Regolamento (CE) il numero 1655/2000 del 17 luglio 2000, che riformula e sostituisce i primi due. Il Life 3, ha avuto inizio il P gennaio 2000 e terminerà il 31 dicembre 2004. La nuova fase del programma è focalizzata sui progetti che permettono la realizzazione del concetto di Rete Natura 2000, come sistema complesso regolato da legami funzionali ed' è disciplinato dal Regolamento 1655/2000. Questo Regolamento, che ha modificato e sostituito i precedenti regolamenti istituivi del programma Life, è il frutto dell'esperienza maturata durante la seconda fase del Life, nel corso della quale è emersa la necessità di rafforzare gli sforzi, precisando con chiarezza i settori d'azione che possono fruire del sostegno comunitario, alla luce della definizione della rete Natura 2000 e dei nuovi obiettivi verso lo sviluppo sostenibile. Sostanzialmente, il Life viene rafforzato quale strumento specifico, complementare ad altri strumenti finanziari, senza limitarne tuttavia gli interventi nei settori non coperti da altre fonti finanziarie comunitarie. In dettaglio, l'obiettivo generale del programma, secondo il nuovo regolamento, consiste nel contribuire all'applicazione, all'aggiornamento e allo sviluppo della politica e della legislazione ambientale, con particolare riguardo all'integrazione dell'ambiente alle altre politiche, nonché allo sviluppo sostenibile (art.1). I settori su cui si articola il programma e che sono interessati alla realizzazione dell'obiettivo generale, ricalcano quelle delle precedenti fasi: Life-Natura, Life-Ambiente e Life-Paesi terzi. I progetti finanziati devono soddisfare tre criteri generali: destare

La terza fase

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interesse comunitario in quanto contribuiscono in modo significativo all'obiettivo generale; sono realizzati da partecipanti affidabili sia sui piano tecnico che finanziario nonché realizzabili in termini di proposte tecniche, di calendario, di bilancio e di convenienza. Inoltre, viene data priorità a progetti che interessano più Stati membri, quando si ritenga che gli stessi possano avere dei risultati più efficaci nella realizzazione degli obiettivi, tenendo conto della fattibilità e dei costi. Con la nuova edizione del Life vengono infine snellite le procedure di gestione, migliorate le misure di divulgazione delle informazioni relative all'esperienza acquisita, ai risultati conseguiti e al loro impatto nel lungo periodo; ciò al fine di promuovere il trasferimento dei risultati ad altri soggetti e in altri settori. È una rete di aree transnazionale destinata alla conservazione del- La rete la biodiversità sul territorio dell'Unione Europea, istituita dalla di- Natura 2000 rettiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992, meglio conosciuta come direttiva Habitat "la conservazione degli habitat naturali e seminaturai della flora e della fauna selvatiche" (zone terrestri e marine). Attualmente detta rete è costituita dalle Zone di Protezione Speciale (Zps) e dall'insieme dei Siti di Importanza Comunitaria (Sic) proposti alla Commissione Europea dagli Stati membri. I Sic sono siti nazionali che si contraddistinguono per le caratteristiche di cui alla citata direttiva e che contribuiscono a mantenere o a ripristinare gli habitat e le specie in uno stato di conservazione soddisfacente; ciò al fine di garantire la biodiversità biologica all'interno della regione interessata. Natura 2000, oltre ad essere formata da Sic e da Zps, è costituita da Zone di Conservazione Speciale (Zcs) individuate dalla Direttiva 79/409/CEE, nota come direttiva Uccelli. Le aree di cui si tratta sono destinate alla tutela degli habitat, delle specie di avifauna minacciate e/o in via di estinzione. È opportuno rilevare che, al di là del numero e delle tipologie di fauna, flora e avifauna protette, la rete Natura 2000 permette agli Stati dell'Unione Europea di applicare il concetto innovativo di tutela della biodiversità riconoscendo l'interdipendenza di elementi biotici, abiotici e antropici nel garantire l'equilibrio naturale in tutti i suoi elementi. Con questa rete viene creato un sistema di territori correlati da legami funzionali 38


ove siti e zone naturali e seminaturali sono legati dalla coerenza ecologica volta a garantire la presenza e la distribuzione degli habitat e delle specie considerate. La rete non è semplicemente un insieme di territori ma è il risultato di una selezione di aree che, pur non essendo sempre realmente collegate, contribuiscono per ciascun habitat e specie "al raggiungimento della coerenza complessiva della rete all'interno del continente europeo" 3 In detto contesto si comprende anche il perché si inserisca in rete Natura 2000, la conservazione degli habitat seminaturali, dove la presenza dell'uomo con l'attività di agricoltura tradizionale, l'utilizzo dei boschi e dei pascoli ha contribuito all'equilibrio ecologico. La direttiva habitat, infatti, favorisce gli aspetti e le attività antropiche compatibili con la vita del sito, e che anzi contribuiscono alla vita dell'area stessa. È in questo senso che si parla di sviluppo sostenibile, sviluppo che sia attua attraverso la gestione delle risorse naturali con le attività economiche e le esigenze sociali e culturali delle popolazioni che vivono nei siti. Inoltre, la conservazione degli habitat naturali e seminaturali attraverso l'istituzione di Natura 2000 risponde a due principi generali delineati dal VI programma d'Azione per l'Ambiente 2001-2010: integrazione della normativa ambientale con le altre politiche comunitarie e salvaguardia della biodiversità quale risorsa unica. .

L'obiettivo specifico del Programma Life-Natura è contribuire all'attuazione della direttiva 79/409/CEE concernente la conservazione degli uccelli selvatici; della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, relativa alla conservazione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatiche e, in particolare, della rete europea Natura 2000 istituita da tale direttiva. Nel quadro di questo programma possono essere finanziati i progetti di conservazione della natura che rispondono all'aggiornamento e allo sviluppo della politica e della gestione ambientale, all'integrazione della politica dell'ambiente nelle altre politiche, nonché allo sviluppo sostenibile. Detti progetti devono contribuire a mantenere o a ripristinare gli habitat naturali é/o le popolazioni di specie di cui alla direttiva 92/43/CEE. E ancora, possono essere finanziate le misure di accompagnamento che agevolano il conseguimento suddetto e che sono necessarie per la preparazione di progetti che coinvolgono partner di più Stati membri (misura sta-

Life—Natura

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ter), lo scambio di esperienze e progetti (misura coop), il controllo e la valutazione dei progetti, nonché la diffusione dei loro risultati, compresi quelli adottati nel quadro delle fasi precedenti del Life. Il sostegno finanziario non può superare il 50% dell'ammontare del finanziamento necessario alla realizzazione del progetto, finanziamento che può raggiungere il 75% per i progetti relativi ad habitat naturali prioritari o specie prioritarie di cui alla direttiva 92/43/CEE, o a specie di uccelli considerate prioritarie per il Comitato d'esame. Solo per le misure di accompagnamento il sostegno finanziario raggiunge il 100%. È da rilevare che i progetti vengono dapprima vagliati in sede nazionale; per l'Italia è la Direzione dell'ambiente che svolge tale ruolo. I progetti così preselezionati, alla luce dei criteri sopraddetti, vengono sottoposti al parere del Comitato habitat, composto da tutti i rappresentati dei Ministeri dell'ambiente degli Stati membri. Infine, l'ultima decisione spetta alla Commissione, che terrà comunque conto del parere espresso dal Comitato, pur non essendo lo stesso vincolante. Una volta che il progetto è stato ritenuto finanziabile, la Commissione adotta una decisione quadro destinata agli Stati membri che concerne i progetti approvati e le singole decisioni destinate ai beneficiari. Queste riguardano l'importo del sostegno finanziario, le modalità di finanziamento e di controllo e tutte le altre condizioni tecniche specifiche del progetto. La Commissione fissa i criteri per la presentazione della candidature al finanziamento annualmente. Le richieste possono essere presentate anche dai Paesi candidati all'adesione. L'obiettivo specifico del programma Life-Ambiente è di contri- Life buire allo sviluppo di tecniche e metodi innovativi e integrati e Ambiente all'ulteriore sviluppo della politica ambientale. Nel quadro di Lifeambiente possono essere finanziati i progetti che perseguono l'obiettivo suddetto e che sono diretti ad integrare considerazioni sull'ambiente e sullo sviluppo sostenibile nellà pianificazione e nella valorizzazione del territorio, incluse le zone urbane e costiere; a promuovere la gestione sostenibile delle acque freatiche e di superficie; a ridurre al minimo l'impatto ambientale delle attività economiche, in particolare attraverso lo sviluppo di tecnologie pulite avendo par40


ticolare riguardo di forme di prevenzione, compresa quella relativa alla riduzione delle emissioni di gas serra. E ancora, possono essere finanziati i progetti atti a prevenire, riutilizzare, recuperare e riciclare i rifiuti di tutti i tipi nonché diretti alla gestione razionale del flusso dei rifiuti; a ridurre l'impatto ambientale dei prodotti mediante una strategia integrata agli stadi della produzione, della distribuzione, del consumo e del trattamento al termine del loro ciclo di vita, incluso lo sviluppo di prodotti rispettosi dell'ambiente. Il sostegno finanziario viene concesso sotto forma di cofinanziamento dei progetti e non supera il 30% del costo ammissibile relativamente a quei progetti che implicano consistenti entrate. In questo caso, il contributo dei beneficiari del finanziamento deve essere pari al sostegno comunitario. La percentuale del sostegno finanziario della Comunità, per tutti gli altri richiedenti, non può essere maggiore del 100% del costo. Sono finanziabili solo i progetti che soddisfano i seguenti criteri I progetti generali: che siano di interesse comunitario, realizzati da parteci- finanziabili panti affidabili tecnicamente e finanziariamente nonché realizzabili in termini di proposte tecniche, di tempistica, di bilancio e di convenienza. I progetti finanziabili sono quelli che: a) offrono soluzioni volte a risolvere un problema ricorrente nella Comunità o che è causa di grande preoccupazione per i Paesi appartenenti; b) rivestono carattere innovativo per tecnologia e metodo applicato, c) costituiscono un esempio o un progresso alla situazione attuale, d) ovvero possono agevolare la diffusione e l'applicazione di tecnologie o dei prodotti che contribuiscono alla tutela dell'ambiente; e) mirano allo sviluppo e al trasferimento di un know-how applicabile in situazioni identiche o simili; f) promuovono l'integrazione delle esigenze ambientali in attività che perseguono scopi prevalentemente economici e sociali; g) hanno un rapporto costi/benefici soddisfacente dal punto di vista ambientale; h) promuovono l'integrazione delle esigenze ambientali in attività che perseguono scopi prevalentemente economici e sociali. Alcuni criteri ulteriori, definiti nel linguaggio tecnico bonus, sono rappresentati da progetti che hanno un approccio multinazionale, che originano piccole medie imprese o che creano nuovi posti di lavoro. Resta da specificare che non sono finanziabili con il Programma 41


Life—Ambiente i costi per l'acquisto di terreni, per intraprendere studi non legati specificatamente all'obiettivo da raggiungere con i progetti finanziati, costi relativi ad investimenti e ad infrastrutture concernenti investimenti a carattere strutturale non innovativo, compresi quelli per attività che hanno già dato risultati positivi a livello industriale, o per attività di ricerca e sviluppo tecnologico. Lobiettivo specifico di Life—Paesi terzi è volto alla creazione di ca- Life—Paesi pacità e strutture amministrative nonché allo sviluppo di politiche e terzi programmi d'azione nel settore dell'ambiente nei Paesi terzi rivieraschi del Mediterraneo o del Baltico, non appartenenti ai Paesi dell'Europa centrale e orientale che hanno concluso accordi di associazione con la Comunità europea. Con questo strumento possono essere finanziati i progetti di assistenza tecnica di cui all'art. 1 del regolamento 1655/2000, (Art.5, par. 2, lett. a); nonché le misure di accompagnamento necessarie per la valutazione, la verifica e la promozione delle azioni realizzate nella attuale fase del Life e in quelle precedenti e inoltre lo scambio tra progetti, la diffusione delle informazioni riguardanti l'esperienza e i risultati delle azioni della fase i e 2 del stesso programma (Art. 5, par. 2, lett. b). Il sostegno finanziario viene concesso a progetti che rivestono un interesse per la Comunità e che contribuiscono, in special modo, all'attuazione degli orientamenti e degli accordi regionali e internazionali, nonché alla realizzazione di una strategia che favorisca uno sviluppo sostenibile internazionale, nazionale e regionale ovvero apportano soluzioni a problemi rilevanti nella regione e nel settore interessato. Il criterio prioritario, oltre a quelli poc'anzi descritti, per veder riconosciuto lo strumento finanziario in esame, è rappresentato dalla promozione per la cooperazione transfrontaliera, transnazionale o regionale. È opportuno rilevare che il sostegno finanziario viene accordato sotto forma di cofinanziamento di progetti e misure di accompagnamento, il cui importo è pari al 70% del costo dei progetti di cui alla lettera a) e al 100% del costo delle misure di accompagnamento di cui alla lettera b). L'iter procedurale per la presentazione dei progetti Life—Paesi terzi ricalca quella del LIFE- Naturà e Ambiente. La Commissione, approvati i progetti, stipula con i beneficiari il relativo contratto, definendo le condizioni tecniche specifiche del progetto dandone comunicazione successiva agli Stati membri. 42


Alcuni dati È importante riportare alcuni dati emersi nel corso dell ultimo se- emersi minario tenuto dal Ministero dell'Ambiente nella giornata dedicata al Life, il 13 settembre scorso. Dall'esame dei progetti emergono tra gli errori più frequenti da parte dei candidati la non esatta definizione dell'area sui cui si interviene, infatti, se la medesima è individuata come Sic o Habitat, il Life Natura riguarda il modello NA1, se si tratta di Zs il modello è il NA2. Tale definizione è fondamentale, pena la riclassificazione del progetto e la conseguenza quasi certa di non vedere accettata la propria candidatura al finanziamento. Altro errore frequente è rappresentato dal proporre progetti che potrebbero trovare finanziamento con altri strumenti finanziari quali i fondi strutturali. Spesso mancano azioni concrete per il recupero, la salvaguardia dell'ambiente e ci si limita solo ad attività di ricerca o di studio, progetti questi non finanziabili con il Life. Altri errori ricorrenti, che comportano la bocciatura della richiesta, sono rappresentati dal non definire il cofinaziamento dei partner, o la mancata individuazione del responsabile del progetto. Altri errori sono per lo più di natura logica quali: il non adeguato rapporto tra costi e benefici, tra minacce presenti, azioni previste e risultati attesi. In taluni progetti, infine, mancano i modi per sensibilizzare l'opinione pubblica. Per il Life—Ambiente, spesso, si confondono le voci dei beni durevoli. In questa voce rientrano sia i Prototipi - beni che devono svolgere un ruolo cruciale nelle attività dimostrative del progetto che le infrastrutture. Queste ultime sono, invece, beni durevoli che vengono creati espressamente per il progetto e che non sono disponibili sui mercato. Tuttavia, solo le prime sono finanziabili al 100%. Altro elemento che è stato fortemente sottolineato nel corso del seminario è la scarsa base scientifica sui cui si reggono alcuni progetti nonché la non finanziabilità di quelli che si riferiscono a siti inquinati per opera degli stessi candidati proponenti. In buona sostanza, si ha l'applicazione del principio "chi inquina paga". Da ultimo si rileva che l'Italia tradizionalmente è uno degli Stati membri che presenta il numero più alto di candidature: dal 1992, è al secondo posto, dopo la Spagna, per progetti presentati e finanziati Da quando è stato varato il programma Life sono stati finanziati 136 progetti per un importo pari a 41 milioni di Euro; nell'anno 2000 i progetti finanziati sono stati 21. 43


Da quanto delineato si evince che l'Unione Europea, in vista di Una politica uno sviluppo sostenibile equo e solidale adotta una politica am- trasversale bientale trasversale, che abbraccia tutti i settori dell'economia, definendo obiettivi nel medio e lungo periodo, adottando strumenti finanziari generali e specifici, che tengono conto anche delle tematiche internazionali in materia di ambiente. E ancora, prevede procedure correttive per gli interventi posti in essere qualora i medesimi non consentano il raggiungimento degli obiettivi programmati. Il Life si inserisce pienamente in questa logica. Entro il 30 settembre del 2003 la Commissione sottoporrà al Parlamento e al Consiglio europeo una relazione sullo stato di applicazione di detto strumento finanziario, sul contributo che il medesimo ha apportato alla politica ambientale comunitaria, nonché su una sua prosecuzione.

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Con il Trattato di Maastricht la Comunità intende promuovere uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell'insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l'ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri; con il secondo viene introdotto il principio chi inquina paga. 2 Riguardo a cosa si intenda per sviluppo sostenibile equo e solidale, basti sinteticamente rilevare in questa sede che lo stesso si identifica in un nuovo modo di pensare e fare economia ossia: porre in essere in ogni settore economico e non, attività che rispettino la natura, senza alterarne gli equilibri e recuperandone le caratteristiche originarie; conservandone le risorse naturali, in modo che le future generazioni ne possono ancora usufruire. Inoltre, il risultato delle attività e i prodotti delle risorse devono essere distribuite in modo equo tra le popolazioni del Nord e del Sud del pianeta. Cfr. NATURA 2000 ITALIA, Ministero dell'Ambiente n. 0, pag. 3.

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Immigrazione e ricerca sull'immigrazione negli Stati Uniti di Nancy Foner, Rubén G. Rumbaut, Steven J. GoId

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ono quattro decenni di una nuova era di immigrazione di massa: è diventato luogo comune osservare che gli Stati Uniti stanno attraversando la più profonda trasformazione demografica da un secolo a questa parte. Molto meno evidente è l'ampiezza della trasformazione degli studi sociali sull'immigrazione verificatasi durante tale processo. Di sicuro, la "magnitudo" del fenomeno dell'immigrazione, misurata in termini di grandezza, composizione o concentrazione spaziale è impressionante. La popolazione di immigrati negli Stati Uniti nel 1997 contava 55 milioni di persone: 27 milioni di immigrati e 28 milioni di bambini nati da immigrati. Questa cifra era già un quinto della popolazione nazionale totale, ed era in fase di aumento. Il censimento del 2000 accertava una popolazione di persone nate all'estero superiore a 30 milioni di individui. Se oggi la massa degli immigrati dovesse formare una nazione, si collocherebbe nel 10% delle nazioni con maggior popolazione: circa due volte la popolazione del Canada e approssimativamente la stessa popolazione del Regno Unito, della Francia e Italia (v. Rumbaut 1998). La nuovissima immigrazione non è solo, per definizione, di Una nuova nuova "annata" ma è anche di gran lunga di origine non europea. irmigrazione Dei 27 milioni di "nati all'estero" abitanti negli Stati Uniti nel 1997, più del 60% erano arrivati dopo il 1980 e più del 90% dopo il 1960. Tra quanti sono arrivati dopo il 1960, la maggioranza (il 52%) è arrivata dall'America Latina, in particolare dal Messico (28% del totale) e dai Caraibi. Un altro 29% è arrivato dall'Asia e dal Medio Oriente. I Filippini, i Cinesi e gli Indocinesi sono il 15% del totale, tanto quanto quelli nati in Europa e Canada messi insieme.

Nancy Foner è Professore di Antropologia alla State University di New York, Rubén G. Rumbaut è Professore di Sociologia e Steven J. Gold è Professore e Direttore del Dipartimento di Sociologia, entrambi alla Michigan State University. 45


Al contrario dell'ultima grande ondata di immigrazione europea, tra la fine del )(IX e l'inizio del XX secolo, che fu fermata dall'approvazione di una legislazione restrittiva negli anni Venti e dai cataclismi globali della Grande Depressione e della Seconda Guerra mondiale, i flussi attuali non danno segnali di diminuzione. Nessuna legislazione draconiana in grado di limitare drasticamente l'immigrazione sembra all'orizzonte. D'altra parte, poiché l'immigrazione è un fenomeno strutturale e gli Stati Uniti rimangono la destinazione primaria per un mondo in movimento, è molto probabile che l'immigrazione in questo Paese continuerà per molti anni ancora. La rapida crescita di questa popolazione emergente ha portato ad una crescente letteratura di ricerca e ad un intensificarsi del dibattito pubblico sulla nuova immigrazione e sui suoi molteplici impatti sulla società americana. A paragone, l'impatto sulle scienze sociali americane è stato virtualmente senza grandi significati, benché queste provino a cogliere e a comprendere la complessità del problema. Rubén G. Rumbaut afferma (Rumbaut 2000) che vi sarà un avanzamento in questo campo, rendendo la ricerca sull'immigrazione l'oggetto di un'osservazione sistematica, analizzandola anche dal punto di vista della sociologia della conoscenza. Lo studio dell'immigrazione negli Stati Uniti è stato, in sostanza, un problema lungo un secolo, che inizia nei primi decenni del XX secolo, durante un periodo di forte immigrazione europea in cui le controversie "nativiste" e "razzialiste" erano prevalenti tra i commentatori del "problema immigrazione". In questo primo periodo, l'accento fu posto sulle cause dell'immigrazione e sull'intero spettro delle conseguenze dell'incorporare una migrazione di massa di stranieri di diverso tipo. La metà del secolo ha visto uno iato nell'immigrazione di massa lungo quattro decenni, durante il quale l'attenzione sugli studi dell'immigrazione si è spostata ai processi di assimilazione delle ultime generazioni e, dopo la Seconda Guerra mondiale, sempre più ai problemi relativi alla razza e all'etnia. Una terza generazione di studiosi tenta di analizzare l'era più recente dell'immigrazione di massa: parallelamente alla crescita dell'immigrazione stessa, questa nuova era di ricerche è iniziata negli anni Settanta, è cresciuta negli anni Ottanta ed è esplosa negli 46

Lo studio dell'immigrazione


anni Novanta nell"industria della crescita" che è diventata oggi. Poiché lo studio dell'immigrazione è radicato socialmente e storicamente, non è sorprendente che oggi, come nei primi periodi, la direzione e l'attenzione della ricerca sono parzialmente una reazione ai problemi dominanti del giorno. Così, per esempio, le pressioni sull'americanizzazione egemonica all'interno della nazione e (per un periodo) d'isolazionismo all'estero che hanno segnato i primi decenni del XX secolo contrastano fortemente con l'era dell'americanizzazione egemonica all'estero e un contesto interno di diritti civili e di riaffermazione etnica in cui i ricercatori di oggi sono maturati intellettualmente. Al contrario degli studi sull'immigrazione della fine del secolo passato, l'attuale epoca ha visto molti immigrati stessi diventare importanti studiosi d'immigrazione in certe discipline e i figli, e specialmente i nipoti di immigrati sono studiosi di immigrazione in altre. Rumbaut riporta (Rumbaut 2000) alcune scoperte empiriche di rilievo della prima Inchiesta Nazionale di Studiosi Immigrati che forniscono segnali importanti sulle loro origini sociali e sui loro orientamenti di ricerca. Lo studio è svolto da un grande numero di studiosi, a vari livelli nella loro carriera, che sono specialisti d'immigrazione in una grande varietà di discipline, principalmente sociologia, storia, antropologia, scienze politiche ed economiche. Tra di essi c'è anche un numero notevole di altri ricercatori sull'immigrazione, gli studi dei quali si indirizzano in vari campi: psicologia, istruzione, salute pubblica, pianificazione urbana, politica pubblica, studi di area, studi etnici, studi religiosi, lingue, letteratura e altre discipline. In effetti, l'inchiesta citata dipinge un ritratto interdisciplinare comparativo degli studiosi che sono maggiormente responsabili nella produzione di conoscenze di base. L'Inchiesta analizza l'ampiezza della conoscenza prodotta da studiosi di etnie, e - esaminando i cambiamenti di genere, generazione, etnia, attenzione alla ricerca nel corso del tempo - delinea l'ampiezza della trasformazione del campo nell'era attuale. Ognuna delle discipline delle scienze sociali, naturalmente, ha I diversi metodi distinti, peculiarità e orientamenti che influenzano l'inter- approcci pretazione, l'analisi e la condotta della ricerca sull'immigrazione. I sociologi che studiano l'immigrazione mantengono un interesse 47


continuo su temi quali l'assimilazione, la segregazione residenziale, la specializzazione occupazionale, la marginalità e le relazioni etniche e razziali. Gli antropologi, conducendo le loro ricerche sulle culture fuori gli Stati Uniti, hanno enfatizzato i legami degli immigrati con le loro società di origine. Gli scienziati politici si sono preoccupati di spiegare la politica d'immigrazione, la politica di incorporazione degli immigrati, la cittadinanza e il significato di Stato-nazione; gli storici, guardando al passato dell'America, hanno esplorato i processi di assimilazione, il trapianto di culture immigrate in America e, in modo crescente, il ruolo della razza nell'adattamento dei nuovi venuti. Mentre una volta la storia dell'immigrazione si concentrava quasi esclusivamente sullo studio degli immigrati europei, un numero crescente di studiosi sta ora studiando gli immigrati asiatici e dell'America Latina. Visono differenze anche nella misura in cui l'immigrazione verImrigrazione so gli Stati Uniti è centrale nelle preoccupazioni delle varie discipli- e sociologia ne delle scienze sociali. L'immigrazione, come osserva Mary Waters (Waters 2000), è il punto focale della sociologia americana: un lascito dei giorni della Scuola di Sociologia di Chicago, con i suoi studi sugli immigrati della prima parte del XX secolo e sulla loro influenza sulle città americane. Non è sorprendente che l'immigrazione sia stata un tema importante della storia americana per molti anni, dato il suo ruolo critico nella costruzione degli Stati Uniti. È degno di nota, comunque, che il primo documento di un importante storico che propone un'agenda di ricerche per stabilire "il significato dell'immigrazione nella storia americana", scritto da Arthur Schlesinger Sr., fu pubblicato nel 1921 nell'American Journal ofSociology, l'organo ufficiale della Scuola di Sociologia (Schlesinger, 1921). L'immigrazione divenne, effettivamente, un campo di specializzazione nella storia americana tra il 1926 e il 1940, secondo Philip Gleason (1998); il campo, secondo le sue parole, "proruppe alla fine degli anni Sessanta in modo tale che dagli anni Settanta 1813 dissertazioni di dottorato in storia erano su immigrazione o etnicità". Nel campo dell'antropologia, l'immigrazione verso gli Stati Uniti si sta sviluppando adesso come argomento legittimo di studi, ora che, come nota Nancy Foner (2000), la popolazione analizzata vive nella porta accanto. Nel campo delle scienze poli48


tiche, secondo Aristide Zolberg (2000), l'immigrazione ha suscitato poco o nessun interesse fino a poco tempo'fa. Vi sono ' inoltre, differenze nel grado in cui gli studiosi delle diLe altre verse discipline stanno riflettendo attentamente sul ruolo che i loro discipline campi possono e potranno avere nella comprensione e nello studio della recente immigrazione. Mentre i sociologi accettano, come dato di fatto, che l'immigrazione sarà un problema centrale, come nota la Waters, a volte loro stessi si chiedono perché altre discipline invadano il campo della sociologia; molti antropologi sono interessati a ritagliarsi un metodo antropologico distintivo verso la nuova immigrazione orache un numero crescente di essi sta rivolgendo l'attenzione alle popolazioni negli Stati Uniti. In campo storico, diversi tra gli studiosi che hanno partecipato ad un recente forum sulla storia dell'immigrazione, pubblicato nel Journal ofAmerican Ethnic History, parlano di un campo in crisi, conteso fra gli storici che hanno analizzato l'immigrazione europea tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo e quelli che studiano l'immigrazione dall'Asia, dall'America Latina e i Carabi nel passato e nel presente, e anche tra gli storici che si definiscono come storicidell'immigrazione e gli altri che si annoverano come esperti di studi etnici (vedi Gjerde 1999; Snchez 1999). Anche se i ricercatori sull'immigrazione sono influenzati inevitabilmente dalle loro discipline particolari, essi attraversano sempre più di frequente i confini tra le discipline, mettendo in campo approfondimenti teoretici e dati empirici, diversi dai loro propri, quando devono affrontare problemi particolari, dalle cause dell'immigrazione internazionale a che cosa accade ai bambini degli immigrati nelle scuole, fino all'economia. Allo stesso tempo, si sta formando un campo interdisciplinare degli studi sull'immigrazione. Gli approcci sociologici all'assimilazione, per esempio, compreso il più sfumato concetto di "assimilazione segmentata", stanno influenzando coloro che studiano questo tema, qualunque sia la loro' disciplina. Lo stesso si può dire del lavoro su attività imprenditoriali delle diverse etnie; ricercatori di diverse discipline che studiano le attività commerciali degli immigrati citano ed usano modelli elaborati dai sociologi per capire perché gruppi particolari entrino nel commer-

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cio e perché alcuni riescano più di altri. Il transnazionalismo, un concetto in primo luogo elaborato dagli antropologi per capire come e perché gli immigrati piit recenti mantengono legami con la loro terra d'origine, è stato preso dai sociologi, dagli storici e dagli scienziati politici dai quali viene esaminato e sviluppato dal punto di vista delle proprie discipline. Gli studi storici sulla "bianchezza" che mettono in evidenza la natura contingente della razza ed analizzano il processo di "imbiancatura" fra i primi immigrati europei stanno contribuendo a modellare il lavoro sulla razza e sull'origine etnica fra gli immigrati più recenti. Infine, i ricercatori che analizzano la politica dell'immigrazione e il ruolo dello Stato si stanno servendo della emergente letteratura delle scienze politiche sull'immigrazione, sull'appartenenza e sulla cittadinanza. Effettivamente, una richiesta recente relativa alla storiografia delle leggi sull'immigrazione si basa molto sul lavoro degli studiosi dileggi e degli scienziati politici (Lee 1999). La varietà di discipline negli studi sull'immigrazione, come nota Ampi studi Mary Waters (Waters 2000), è creativa e migliorativa, e porta i e vuoti da colmare principali studiosi a porre nuove domande, a vedere i vecchi problemi in modo nuovo e ad andare oltre ciò che a volte sono gli interessi limitati dei loro campi. I2enfasi che gli antropologi pongono su alcune comunità, quella degli storici sulle contingenze dello sviluppo storico e quella degli scienziati politici sul modo in cui gli Stati formano le scelte disponibili per gli individui sono tutte, - dice Waters -, correttivi del talvolta ristretto modo di affrontare l'immigrazione da parte della teoria. In campo storico, per fornire un altro esempio, George Snchez ha scritto recentemente che il futuro della storia deil'immigrazione dipende dalla capacità della specifica disciplina di includere gli approfondimenti sulla razza, sulla nazione e sulla cultura sviluppati al di fuori della propria disciplina (Snchez 1999, 68). Se, come nota Alejandro Portes, i progressi teorici scaturiscono dalla capacità di ricostituire un campo percettivo e di identificare collegamenti non precedentemente visti, allora la spinta interdisciplinare di questa grande quantità di ricerca sull'immigrazione può essere particolarmente produttiva, poiché introduce nuove prospettive in problematiche note, include approfondimenti dai diversi campi e promuove il tipo "di distanza dalla realtà" che Portes 50


afferma essere importante "per identificare i modelli non visibili per la vicinanza"(1997, 802, 803). Allo stesso tempo, gli sforzi per generare e sostenere un campo La sfida della interdisciplinare negli studi sull'immigrazione sollevano alcune que- multidisciplistioni e problematiche di difficile soluzione. A livello intellettuale, narietà c'è il rischio che gli studiosi abituati a studiare l'immigrazione attuale da un prospettiva multidisciplinare perderanno i benefici derivanti dall'essere immersi nelle tradizioni e nei lavori fondamentali di una particolare disciplina. Questo preoccupa alcuni storici dell'immigrazione. Il fatto che fra i neo-laureati vi siano molti che si sono dedicati alla teoria sviluppata fuori dalla storia, fa preoccupare alcuni storici, i quali temono che i lavori classici sulla storia dell'immigrazione vengano trascurati a scapito della stessa disciplina (Gjerde 1999b). Vi sono, inoltre, le dure realtà della gerarchia. delle discipline e delle preoccupazioni di carriera. Come indica Waters (Waters 2000), alcuni metodi e discipline sono privilegiati rispetto ad altri; e gestire una carriera in una disciplina (pubblicare e tenersi aggiornati, soprattutto) quando il lavoro di uno studioso sconfina al di fuori dei contorni disciplinari è una sfida professionale vera e propria. Waters, inoltre, ci avvisa dell'importanza di creare più collegamenti fra l'immigrazione e lo studio sulla razza, un tema che anche Snchez ha richiamato. Inoltre, come Sànchez ricorda, gli studi sull'immigrazione, presenti e passati, hanno bisogno di considerare la gamma completa di gruppi che arrivano in ogni periodo. Come gli storici devono ricordare l'immigrazione asiatica, dall'America Latina e caraibica esistente verso la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, così anche gli scienziati sociali che studiano il presente, devono interessarsi dell'immigrazione europea negli Stati Uniti verso la fine del XX e gli inizi del )OU secolo. Infine, l'istituzione di nuovi campi e dipartimenti accademici studi etnici, studi sulle donne, studi urbani, studi americani, città ed assetto territoriale e studi simili - ha cominciato ad integrare i metodi esistenti e a generare nuove identità disciplinari. Anche se l'enorme afflusso d'immigrati negli Stati Uniti negli ultimi quattro decenni ha stimolato una gran quantità di ricerca in tutte le discipline delle scienze sociali, molto rimane ancora da fare. 51


Herbert Gans (Gans 2000) ha identificato sei "vuoti" principali o aree in cui è necessaria la ricerca sull'immigrazione. Tre di questi riguardano i processi di incorporazione degli immigrati: la domanda persistente di selettività nell'emigrazione e nell'immigrazione che dovrebbe essere indirizzata molto più sistematicamente; differenze tra generazioni nell'adattamento, in particolare fra la prime, le intermedie e le seconde generazioni; e i macro-livelli economici, politici e sociali che formano quei modelli di adattamento. Tre altre aree coinvolgono il campo dello studio dell'immigrazione in sé: i ruoli di chi viene dall'estero o ha origini straniere in confronto a chi ha origini interne fra i ricercatori sull'immigrazione, l'esigenza di una ricerca più empirica sulle scelte (e sulle omissioni) di argomenti e gruppi che attraggono l'attenzione degli studiosi di immigrazione, e il ruolo delle agenzie finanziatrici nel delineare il campo di studio. Come Gans ammette, i suoi "vuoti" di ricerca sono principalmente "vuoti" sociologici. Chiaramente, vi sono anche vuoti antropologici, storici, economici e di scienze politiche che dovranno essere riempiti dai futuri ricercatori sull'immigrazione. Una miriade di domande politiche attendono ulteriori studi nella scienza politica, come il ruolo sempre più importante che gli immigrati hanno e avranno nella politica degli Stati Uniti: poiché gli immigrati diventano cittadini (ed elettori) con la possibilità di determinare il risultato nelle elezioni locali, statali e perfino nazionali; aumentano i funzionari nati all'estero che vengono eletti e gli attivisti politici; gli immigrati diventano membri di importanti blocchi politici e di gruppi di interesse. Fra le aree che attendono un ulteriore attento studio antropologico vi sono le dinamiche della creazione e invenzione di cultura nella popolazione immigrata; i conflitti culturali con i valori tradizionali e le conseguenze dei collegamenti transnazionali fra comunità di provenienza e quelle di accoglienza. In campo storico, ci sono lacune da riempire nella nostra comprensione delle storie degli immigrati asiatici e dell'America Latina negli Stati Uniti; inoltre, i modelli e le teorie sviluppati dai sociologi per studiare gli ultimi arrivi in America possono gettare nuova luce sulle esperinze degli immigrati europei nel passato. All'interno delle discipline - ed attraverso loro - la ricerca sull'immigrazione trarrà anche beneficio da 52

I filoni da approfondire


una gamma di confronti che possono offrire nuove comprensioni dell'esperienza delle immigrazioni, con confronti tra immigrati negli Stati Uniti del presente e del passato e dell'immigrazione negli Stati Uniti e in altri maggiori Paesi che ricevono immigrati. Infine, in relazione alla richiesta di Gans per studi sugli stessi studiosi immigrati, si tratta di un territorio ancora inesplorato. La massiccia immigrazione degli ultimi decenni, come abbiamo sottolineato, non soltanto ha trasformato la società americana e gli immigrati stessi ma ha anche trasformato il modo in cui l'immigrazione viene studiata, per cui i ricercatori stanno provando a dare significato alle tante trasformazioni che l'immigrazione stessa ha generato. Per avere un quadro completo, abbiamo bisogno di studi sulla comprensione che si ha delle cause e delle conseguenze dell'immigrazione, all'interno e attraverso le discipline, nei concreti contesti storico-sociali e intellettuali. Nell'esaminare i modi in cui la ricerca sull'immigrazione si è re- I contesti mobili della centemente trasformata, vale la pena di riflettere su alcuni dei contesti mobili che hanno determinato questi cambiamenti. L'immi- ricerca ll grazione senza precedenti che gli Stati Uniti hanno vissuto dagli an- zione suimmigrani Sessanta - sia nei numeri che nella diversità dell'origine - è ovviamente il fattore più importante. La Guerra Fredda è stata associata con l'arrivo negli Stati Uniti di più di due milioni di rifugiati provenienti da Cuba, dall'Asia sudorientale, dall'America centrale, dall'ex Unione Sovietica e da altri Paesi, così come l'espansione dei collegamenti militari e politici con molti Paesi ha creato ulteriori fonti d'immigrazione. Un evento correlato, il crollo del blocco Sovietico, ha ridotto la prevalenza di pensiero marxista sia tra gli attivisti che tra gli accademici, mentre ha ampliato l'estensione del capitalismo globale nelle regioni in cui la sua influenza era stata precedentemente limitata (Antonio 1990). All'interno degli Stati Uniti, il movimento in difesa dei diritti civili e quello femminista hanno riformulato le nozioni di a Ppartenza sociale, di opportunità economica, di uguaglianza e di assimilazione. Gli immigrati di oggi entrano, così, in una società trasformata dall'aumento delle opportunità per gli appartenenti a gruppi di minoranza e per le donne e anche da modelli di ristrutturazione industriale che hanno drasticamente mutato il contesto economico. Lo 53


stesso afflusso enorme di immigrati del Terzo mondo ha cominciato a cambiare, in diversi modi e in maniera sostanziale, le nostre nozioni sulla razza e la struttura delle gerarchie razziali in America. Gli studiosi immigrati sono stati influenzati anche dai movimenti sociali che hanno sostenuto un'ampia agenda politica: dal multiculturalismo e dail'"azione affermativa", attraverso un'inclusione selettiva, al "nativismo esclusionista" e a riforme restrittive del welfare. Se questi sviluppi nella società, intesa in senso ampio, hanno modellato le prospettive degli studiosi sull'immigrazione e le relazioni etniche, anche i cambiamenti in ambienti ristretti hanno giocato un ruolo importante, ne è esempio l'università che è stata forse il luogo principale di dibattiti sul significato dell'immigrazione e dell'etnicità nella società americana. Molti tra i maggiori commentatori del cambiamento etnico e dell'immigrazione sono stati accademici e molto attivismo universitario è stato diretto ad aumentare le risorse e la rappresentanza di immigrati e di minoranze etniche nei collegi elettorali. I più recenti immigrati dall'America Latina, dai Caraibi e dall'Asia, ma anche dall'Africa, dal Medio Oriente dall'Europa, sono ora fra i nostri principali studiosi (così come sono atleti, artisti, medici, scienziati e imprenditori). Donne di tutti i gruppi etnici sono sempre più visibili come autrici di ricerche sull'immigrazione nelle scienze sociali e come componenti dell'istruzione superiore. Molti degli sforzi politici più discutibili orientati verso le diseguaglianze etniche e di genere hanno avuto luogo nei campus: si va dai codici linguistici culturalmente sensibili alla messa al bando dei programmi di "azione affermativa" in alcune delle più grandi università statali che presentavano anche una spiccata diversità etnica. Le facoltà e gli studenti immigrati e quelli appartenenti ad etnie sono stati attori importanti in questi dibattiti. Per concludere, gli scritti degli studiosi hanno contribuito signi- L'immigraficativamente alle riflessioni circa il significato dell'immigrazione in zione in una OI1e di una nazione di immigrati. I diversi rapporti che hanno tentato di valutare 1 impatto degli immigrati sulla cultura e sull economia immigrati americana, hanno iniziato a cambiare la comprensione di base dei rapporti fra le comunità di immigrati con la più ampia società che li ha accolti e i loro Paesi di origine. 54


Per esempio, prima che emergessero nuovi modi di considerare le comunità etniche, promossi dalle "rinascite etniche" degli anni Settanta, sia gli studiosi che il pubblico più vasto, in genere, accettavano come articolo di fede che la cultura Americana fosse superiore a quella dei gruppi di immigrati. Per cui, era meglio se gli immigrati abbandonavano velocemente le loro abitudini tradizionali e i modelli comportamentali in favore di quelli della classe media angb-americana. Da allora, una vasta gamma di studi ha indicato che gli immigrati e le comunità etniche hanno la capacità di fornire ai loro membri un certo numero di benefici sociali, psicologici ed economici: che vanno dal possesso di imprese, dall'accresciuto successo nelle scuole, dalla protezione dalla discriminazione, al supporto morale e perfino la salute fisica e mentale. Questi numerosi cambiamenti nel campo degli studi sull'immigrazione hanno riorientato, generalmente, le relative prospettive e indirizzi, ma determinate circostanze attuali hanno promosso, anche, il riutilizzo di diversi metodi connessi molto strettamente con gli studi della Scuola di Chicago nei 30 anni che precedono la Seconda Guerra mondiale. Questi includono l'enfasi crescente su studi qualitativi basati sulla comunità in sociologia e storia, una rinnovata attenzione per il concetto di assimilazione in molti campi e una aumentata consapevolezza dell'importanza di legami permanenti col Paese d'origine (spesso in discussioni sul transnazionalismo). Campi quali la sociologia e la storia rivelano un rinnovato interesse per la cultura e per l'identità, esplorate spesso attraverso metodi qualitativi a livello di comunità. L'assimilazione, una parola tabù alla fine degli anni Ottanta,.è ora materia di studio importante in sociologia, nelle scienze politiche, nell'istruzione ed in altri campi. Proprio come i sociologi e gli scienziati politici hanno dedicato ulteriore attenzione ai problemi culturali, comunitari e identitari, gli anfropologi, che hanno sempre considerato queste problematiche come centrali per la loro disciplina, si sono sempre più adattati ai contesti politici ed economici internazionali e nazionali che formano i loro campi di ricerca. Ora sono propensi a occuparsi di capitalismo globale o del sistema mondiale come studiosi di tematiche con una tradizione più lunga di ricerca nell'economia politica. Nuovi modi di comprendere il contesto e la solidarietà interna Nuove prospettive ai gruppi vengono sviluppati in un grande lavoro sull'attuabilità di

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un "auto-aiuto etnico", l'importanza delle nicchie etniche e di una consapevolezza dei legami degli immigrati con il Paese d'origine. Consapevoli dei giudizi teorici sull'etnicità, la razza e la nazionalità, come qualcosa di costruito socialmente piuttosto che elementi "primordiali", gli studiosi contemporanei sono molto più coscienti del collocamento indistinto, complesso e mobile delle identità e delle fonti sociali della solidarietà e del conflitto all'interno delle popolazioni etniche e di immigrati rispetto alle prime generazioni. La nazionalità retrocede sullo sfondo come argomento focale e prende il suo posto un'analisi più sottile di classe, di origine etnica e del contesto economico. In genere, in conseguenza della grande diversità trovata nelle esperienze di immigrati contemporanei, gli studiosi tendono a specializzarsi in determinati tipi di immigrazione o di luoghi d'origine e dell'insediamento. Riassumendo: fattori biografici, storico-sociali ed accademici contribuiscono all'evoluzione degli studi sull'immigrazione. Anche se certe differenze disciplinari e alcune preoccupazioni permangono, si può vedere il movimento verso una convergenza disciplinare. Forse la prova più immediata di ciò è il fatto che un numero sempre più grande di discipline, compresi alcuni nuovi campi, includono lo studio sull'immigrazione internazionale fra i loro maggiori interessi. (traduzione di Alfonso Ferraro)

Questo articolo è già stato pubblicato in «ITEMS & issues'>, voi. 2, n. 1-2, summer 2001 e costituisce un estratto da NANcy FONER, RUBEN G. RUMBAUT, STEVEN GOLD, Immigration Researchfor a New Century, Russel Sage Foundation, New York 2000.

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dossier

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Multiculturalismo e cittadinanza in Europa

Per introdurre quello che è un tema nuovo per queste istituzioni, il multiculturalismo appunto, abbiamo chiesto ad uno dei due autori che ospitiamo in questa occasione di spiegarci le origini e i contenuti di un concetto che si presenta decisamente complesso, almeno in questo periodo storico. Enrico Caniglia ci introduce in questo tema divenuto sempre più importante, prima ancora che per la stessa riflessione teorica, per la vita di tutti come cittadini di Paesi che, essendo fra i più ricchi del mondo e, quindi, sempre più attraenti per chi vive nel prop rio Paese condizioni, a volte, al di sotto della soglia di sussistenza. Quanto segue è tratto dalla Lezione IX Politiche della differenza e multiculturalismo, in AA. 1/11, Mutamenti in Europa, Monduzzi editore, 2002.

Il multiculturalismo è sicuramente uno dei concetti più controversi e discussi nella recente riflessione sociologica sul mutamento sociale. Per alcuni studiosi il multiculturalismo è interpretabile come una risposta positiva allo sradicamento dell'individuo dal suo guscio comunitario. In questo senso, il termine individua una forma di riappropriazione della dimensione identitaria, ma anche un modo per arginare la crescente astrattezza dei sistèmi di valore e la spersonalizzazione delle relazioni sociali. Aderire al multiculturalismo significa privilegiare le ragioni della convivenza pacifica tra le diverse culture che sono 59


presenti nelle società contemporanee, evitando nel contempo le chiusure proprie dell'appartenenza a comunità ristrette e andando oltre i tradizionali progetti illuministici di emancipazione che si arenano in una concezione astratta e vuota dell'eguaglianza. Per altri, invece, il termine è sinonimo di una pericolosa perdita di rfèrimenti universalistici da parte della cultura e della politica contemporanea, a cui segue il riesplodere, spesso violento, di tutti i tipi di particolarismo. Il multiculturalismo sta ad indicare una situazione sociale in cui si assiste al crollo degli obiettivi di emancipazione e di progresso sociale che hanno fino ad oggi sostenuto la cultura moderna, e all'emergere al loro posto di una visione relativistica della cultura, della morale e delle forme sociali. Da questo punto di vista il multiculturalismo rappresenta l"ideologia della fine dell'ideologia' una visione del mondo sociale che alimenta principalmente il disimpegno e l'indifferenza tra gli individui attraverso il falso scopo di valorizzare la dimensione sociale della diversità, intesa come un bene fine a sé stesso. 11 multiculturalismo possiede, dunque, un'ambivalenza di fondo che r(lette bene il radicale mutamento ideologico tipico della società postmoderna: la ripresa di temi tlpici del pensiero reazionario e della tradizione sociale e politica della destra - la df ferenza, la dimensione della comunità, la fedeltà alle identità collettive - riproposti, però, in chiave di strategia di liberazione da studiosi e movimenti riconducibili alla sinistra. Il termine ulticulturalismo" appare per la prima volta nel dibattito politico e intellettuale americano degli anni Sessanta all'interno del Free Speech Movement. Il termine indicava inizialmente una generica rivendicazione di pari dignità e di pari peso sociale per le diverse identità socio-culturali presenti nella società americana. La sua definitiva consacrazione nel dibattito americano si verifica alla fine degli anni Ottanta, quando il multiculturalismo diventa sinonimo di un modello di integrazione sociale incentrato sulla valorizzazione della dzft'renza e fondamentalmente alternativo al meltingpot, la tradizionale versione americana dell'integrazione sociale. L'espressione "società multiculturale" è invece più vecchia. Usata per la prima volta agli inizi degli anni Quaranta, "società multiculturale" stava ad indicare lo scenario flituribile di una società cosmopolita, multirazziale, plurilingue, formata da individui del tutto privi di legami patriottici e, nello stesso tempo, di qualsiasi pregiudizio sociale. Colpiscono subito le connotazioni fortemente ambivalenti che accompagnano il concetto: la società multiculturale designa un insieme sociale del tutto privo di tensioni etniche o razziali o di forme di discriminazione sessuale, ma in cui le forme tradizionali di solidarietà, come quelle fondate sulle appartenenze nazionali, hanno perso ogni signfìcato. L'espressione viene poi usata negli anni Cinquanta per descrivere il panorama sociale tzico delle princiali metropoli nordamericane: un mosaico costituito da una vasta pluralità di gruppi etnici, religiosi e linguistici che davano luogo ad una sorprendente varietà di costumi, credenze e stili di vita. E'finalmente negli anni Novanta che la società multiculturale comincia a coincidere con quanto viene auspicato e contenuto nel progetto politico del cosid60


detto movimento multiculturalista. Da semplice modo per indicare soltanto un generico rifi'rimento alla pluralità e alla diversità culturale riscont'rabile nelle società contemporanee, "società multiculturale" si trasforma in un specifico modello di società, incentrato sui problema del riconoscimento e della valorizzazione della dfftrenza e in cui acquistano sempre più rilievo i conflitti relativi alla cultura e al riconoscimento identitario. Il complesso percorso semantico che ha caratterizzato il concetto di multiculturalismo e di società multiculturale si riflette, inevitabilmente, nell'uso che ne viene fatto in sociologia. Nella letteratura sociologica "multiculturalismo" viene usato in tre accezioni d(ferenti: "demografico-descrittiva' rogrammatico-politica" e, infine, «iáeologico-normativa» Nella prima accezione il termine "multiculturalismo" è usato per indicare il processo di diversificazione e dipluralizzazione culturale che caratterizza, in maniera sempre più marcata, le società occidentali. "Società multiculturale" sinfìca, cioè, la compresenza in uno stesso ambito politicoterritoriale di identità collettive dff'erenti sia sotto ilprofilo delle tradizioni storico-culturali a cui fanno riferimento, sia dei valori di fondo che le ispirano, delle religioni praticate, della lingua usata e degli stili di vita che le informano. Nella seconda accezione il termine "multi cult'uralismo" definisce, invece, i contorni di un progetto di riformulazione delle società democratiche finalizzato a rendere queste ultime maggiormente sensibili sul fronte della diversità culturale attraverso una profonda riscrittura dei rapporti tra sfera pubblica e lera privata e attraverso misure legislative volte a garantire ai gruppi minoritari e/o svantaggiati quote riservate e percorsi speciali di inserimento sociale. Nella terza accezione, infine, il termine sta ad indicare un vero eproprio movimento ideologico mirante a rimettere in discussione alcuni dei capisaldi fondamentali della dottrina liberaldemocratica alla base dei sistemi socio-politici occidentali, alfine di promuovere un modello di integrazione sociale non più basato sulle tradizionali strategie assimilazioniste, ma incentrato sul riconoscimento di un diritto alla df ferenza e sui conferimento di uno spazio di autonomia alle comunità subnazionaii. Va subito sottolineato che le tre diverse accezioni contenute nella semantica del termine "multiculturalismo" appaiono reciprocamente intrecciate sul piano empirico. Tutte e tre illuminano aspetti che appaiono ugualmente rilevanti dal punto di vista sociologico: la prima accezione allude ad un elemento in gioco nell'attuale processo di mutamento sociale (la diversità culturale); la seconda e la terza individuano un possibile esito di questo mutamento, vale a dire la formazione di un tipo di società, la società multiculturale, la cui struttura fondamentale è costruita in modo tale da garantire la convivenza tra culture e minoranze caratterizzate da valori, convinzioni e pratiche non facilmente confrontabili tra loro e assai poco assimilabili dentro un unico epiù ampio modello culturale. Concludendo, gli aspetti descrittivi, politici e normativi contenuti nell'espressione società multiculturale costituiscono elementi inscindibili tra loro e che si alimentano recipro camente. (E.C) 61


La scommessa del multiculturalismo britannico. Una nota sociologica sul Rapporto Parekh di Enrico Caniglia

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oi crediamo che sia non soio possibile ma anche necessario creare una società in cui tutti i cittadini e tutte le comunità abbiano la giusta considerazione, godano di eguali opportunità per sviluppare le rispettive qualità, conducano una vita consona e accettino di condividere le responsabilità collettive; una società in cui un comune senso di appartenenza vada mano nella mano con la valorizzazione della diversità". Queste affermazioni, e il loro insistere nella possibilità di conciliare diversità culturale e identità nazionale, coesione sociale e riconoscimento della differenza, esprimono in maniera sintetica l'idea di fondo che ha animato il lavoro della Commission on the Future ofMulti-Ethnic Britain. Istituita nel gennaio del 1998 su iniziativa di una associazione impegnata in prima linea sul tema dell'eguaglianza razziale (il Runnymede Trust di Londra), la Commissione ha elaborato un rapporto finale - Commission on the Future ofMulti-ethnic Bntain. The Parekh Report, Profile Books, London, 2000 - finalizzato ad offrire analisi, suggerimenti e proposte indispensabili per reindirizzare le politiche sociali britanniche sui tema del conflitto etnico e culturale. Il Rapporto è stato salutato come uno degli avvenimenti più significativi della recente fase del dibattito britannico sul multiculturalismo, sia per l'autorevolezza degli studiosi coinvolti, a partire dal suo Presidente, il filosofo della politica Bhikhu Parekh, recentemente nominato lord per i suoi meriti sociali e intellettuali, sia soprattutto per il suo coraggioso sforzo di operare delle chiare scelte teoriche nel difficile campo delle politiche etniche. Ma la rilevanza del Rapporto non si ferma al solo contesto anglosassone. Per i suoi sottoscrittori, il Rapporto si propone esplicitamente come punto di riferimento fondamentale anche per le altre democrazie europee, come la Francia, la Germania o anche l'Italia, sempre più chiamate a confrontarsi con il problema della differenza etnica e culturale prodotta dai flussi migratori provenienti dai Paesi afroasiatici. L'autore è assegnista di ricerca presso il Centro Interuniversitario di Sociologia Politica dell'Università di Firenze. 63


Il Rapporto Parekh si riallaccia alla tradizione britannica dei dossier di indagine sociale e in particolare ad un suo diretto antecedente: il rapporto Colour and Citizenship, pubblicato nel 1969. Nei trenta anni che sono trascorsi tra la pubblicazione del primo rapporto dedicato alle questioni etniche e quello recentemente curato dal Runnymede Trust, la società britannica ha conosciuto un'alternarsi di momenti di grande apertura e ricchezza innovativa e di periodi di chiusura e rigetto completo verso ogni ipotesi di società multiculturale. Il lavoro della "Commissione sul futuro della società britannica multietnica" non nasce, dunque, nel nulla ma giunge a compimento di un percorso ricco di significative esperienze e sperimentazioni, come anche di gravi conflitti e di crisi delicate, che hanno fatto della Gran Bretagna un importante laboratorio sul problema della società multiculturale. Da questo punto di vista, il Rapporto si pone sia come riflessione critica sull'esperienza britannica nel campo del riconoscimento della differenza e del multiculturalismo, sia come tentativo di riprendere il controllo politico e intellettuale di dinamiche sociali che appaiono avviate inevitabilmente a cambiare l'assetto futuro delle società inglese. Per tutte queste ragioni, si può cogliere pienamente il significato del Rapporto soltanto attraverso una preliminare descrizione, condotta per grosse linee, delle vicende del multiculturalismo britannico. LE ORIGINI E L'EVOLUZIONE DEL MULTICULTURALISMO BRITANNICO

Nel Regno Unito il problema del pluralismo culturale non nasce esclusivamente con i flussi immigratori del Secondo Dopoguerra, ma è in qualche modo costitutivo della stessa società britannica. In Gran Bretagna, identità nazionale e cittadinanza non coincidono: a fronte di un'unica cittadinanza britannica esistono ben quattro identità nazionali (inglese, scozzese, gallese, irlandese del nord). Questo sganciamento da una precisa identità nazionale se ha fatto della cittadinanza un'entità astratta dal punto di vista etnoculturale, nello stesso tempo, ha reso piuttosto agevole il suo riconoscimento a favore di individui che provengono dall'esterno della società britannica. La situazione è stata anche complicata dal fatto che non sempre è stato facile identificare il confine della società britannica. La concezione tradizionale, eredità dell'impero coloniale ottocentesco, allargava i suoi confini ben oltre le isole britanniche, e precisamente li faceva coincidere con il vasto territorio racchiuso dentro la formula del Commonwealth. Per il British NationalAct del 1948 chiunque avesse la cittadinanza del Commonwealth poteva assumere lo status di cittadino britannico a prescindere dalla sua origine etnica e razziale. Questa

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concezione a dir poco imperiale della cittadinanza britannica, funzionava bene in un contesto storico in cui i flussi migratori più intensi lambivano solo marginalmente il territorio metropolitano. Ma a partire dagli anni Cinquanta è invece la società inglese ad essere coinvolta massicciamente dall'immigrazione proveniente, in particolare, da due precise aree geografiche - le isole caraibiche, da una parte, il Pakistan e l'India, dall'altra. Attraverso il meccanismo del Commonwealth, la Gran Bretagna si è così trovata ad ospitare gruppi assai diversi dagli inglesi per quanto riguarda la cultura, la religione, i costumi e ovviamente il profilo etnico e razziale, ma tuttavia ugualmente muniti di uno status di cittadinanza che assicurava loro diritto di residenza e diritti politici. Ne è scaturita una profonda rivoluzione sociodemografica legalmente sancita, ma che occorreva affrontare in qualche modo. Ancora una volta la soluzione è stata trovata nella tradizione coloniale. Piuttosto che provare ad integrare i singoli individui, assimilandoli alla cultura occidentale, si è proceduto ad integrare intere comunità, articolandone i rapporti con il resto della società britannica secondo il meccanismo dell' indirect rule. Ogni comunità di immigrati era incoraggiata ad autorganizzarsi e a dotarsi di un sistema di rappresentanza con cui trattare esigenze e bisogni con le autorità inglesi. Il panorama delle più importanti città industriali inglesi come Birmingham, Leicester, Bradford o Manchester, assisteva così alla formazione di popolosi quartieri operai caratterizzati da precise impronte etniche e da un forte spirito di autonomia.

I]opzione comunitaria L"opzione comunitaria" si è rivelata, almeno inizialmente, assai vantaggiosa per tutti gli attori in campo: da un lato, gli immigrati riuscivano a costruire attorno a sé un guscio comunitario che ne preservava la cultura d'origine e permetteva di evitare tutte le tipiche difficoltà dell'immigrato - in primo luogo lo smarrimento di trovarsi a vivere dentro una società estranea per lingua e cultura. Dall'altro lato, il governo britannico era esonerato dal costo finanziario di dover intervenire massicciamente sui problemi sociali legati all'immigrazione, in quanto poteva lasciar sì che i servizi di assistenza sociale fossero sobbarcati sulle reti di solidarietà create e finanziate dalle stesse comunità. Senza dimenticare che i partiti inglesi, in primo luogo quello laburista, attraverso l'assunzione di un fondamentale ruolo di mediazione, hanno potuto disporre di un patrimonio sicuro di "voti etnici" in grado di fare la differenza nelle competizioni elettorali a livello locale e nazionale. Il sistema si rivelò a tal punto conveniente che durante gli anni Sessanta si 65


provò ad istituzionalizzarlo e a trasformarlo in un sistema societario vero e proprio: era l'inizio della cosiddetta "fioritura multiculturale" della società britannica sancita dall'Immigration Act del 1966 e poi varie volte ribadita negli anni successivi. Il multiculturalismo, inteso come progetto societario basato sulla valorizzazione delle differenze e in quanto tale alternativo all'assimilazione, veniva eretto a sistema ufficiale della società britannica e sinteticamente illustrato nella cosiddetta "formula Jenkins", da Roy Jenkins, Ministro degli Interni del Governo laburista. Il principale campo di prova del neonato sistema multiculturale britannico era rappresentato dall'estremo stato di povertà in cui versavano i gruppi immigrati - occupazione non qualificata, precariato e disoccupazione erano già allora la norma nei quartieri etnici - una condizione di marginalità su cui influiva pesantemente la discriminazione e il razzismo della maggioranza inglese. Per la politica multiculturalista inaugurata dal governo britannico, tale situazione di disagio sociale doveva essere arginata dentro un quadro di interventi pubblici che sollevassero dall'indigenza le minoranze pakistane, indiane e caraibiche senza tuttavia lederne il bisogno di essere riconosciute come comunità distinte. Secondo Jenkins occorreva, cioè, provare a conciliare l'eguaglianza delle opportunità con il riconoscimento della differenza, far convivere l'universalismo dell'eguaglianza sociale con il particolarismo rivendicato attraverso il riconoscimento della propria distinta identità culturale.

Due spazi separati: il pubblico e ilprivato Per la concezione multiculturalista, così come veniva autorevolmente illustrata dal sociologo inglese John Rex, la società britannica doveva organizzarsi attorno alla fondamentale distinzione liberale tra sfera pubblica e sfera privata (Rex 1994). Da una parte, c'era l'ambito societario occupato dalle istituzioni politiche e dello spazio pubblico, che era considerato intangibile e non doveva essere toccato dalle questioni della differenza. Le istituzioni politiche e lo spazio pubblico costituivano cioè una sorta di "cultura comune", fondamentale per la formazione di una società integrata. La condivisione e accettazione da parte delle diverse comunità dello spazio pubblico comune era assicurata conferendo a quest'ultimo una natura colour blind, "cieca alle differenze" e dunque neutrale rispetto alle diverse visioni del mondo che caratterizzavano le varie componenti etniche della società britannica. Dall'altra parte, c'era l'ambito societario costituito dalla comunità e dalla sfera privata - la famiglia, l'esperienza religiosa ecc. - in cui invece si dà pieno dispiegamento alle differenze culturali e alle diverse tradizioni etniche. A garanzia dell'esistenza di un 66


insieme minimo di valori comuni era previsto il dovere, per i gruppi di origine immigrata, di accettare le istituzioni liberaldemocratiche britanniche. Ciò avrebbe assicurato la convivenza pacifica in un quadro di rispetto dei diritti umani fondamentali, mentre, dal canto suo, l'autonomia della sfera privata e comunitaria avrebbe permesso la tutela della diversità e la difesa di un ambito morale di tipo comunitario entro cui l'individuo poteva trovare la sua piena realizzazione. Tuttavia, quello che funzionava bene a livello di dichiarazioni di principio, cominciò subito a mostrare i suoi limiti nel momento in cui si passò al piano operativo. In particolare, lo stesso Rex ha dovuto riconoscere che la distinzione sfera pubblica/sfera privata, a cui è affidato il compito fondamentale di tracciare la distinzione tra universale e particolare, tra uguaglianza e differenza, non è così efficace come si pensa, in quanto le due sfere si trovano spesso sovrapposte in ambiti cruciali come il mondo del lavoro o la scuola, creando situazioni assai difficili da risolvere (Rex 1994; 1998).

CONFLITTI MULTICULTURALI Le politiche sociali ispirate al multiculturalismo si rivolgevano a due campi in particolare: la necessità di consentire l'accesso dei membri dei gruppi etnici all'impiego pubblico, da una parte, e la costruzione di un sistema di istruzione aperto al pluralismo culturale, dall'altra. Sul primo campo, si vararono iniziative volte a ihtrodurre forme di "discriminazione positiva" in favore delle minoranze, secondo uno schema che ricorda da vicino l'affirmative action statunitense. Riguardo al secondo campo, si trattava di coinvolgere nelle autorità scolastiche locali i rappresentati delle comunità etniche per ridiscutere assieme a loro i curricula di studio e renderli così recettivi alle esigenze di una società multiculturale. Le iniziative di "discriminazione positiva", così come vennero disegnate dal Race Relations Act del 1976, prevedevano la creazione di quote di impiego pubblico riservate alle minoranze. Tuttavia, non si operava una suddivisione dei posti riservati tra i diversi gruppi, piuttosto essi venivano assegnati genericamente alle minoranze riunite in un unico blocco. In virtù di una rappresentazione sociale che vedeva nel razzismo il principale problema dei gruppi etnici, le minoranze erano identificate esclusivamente come gruppi vittime di discriminazione. E, difatti, la logica ufficiale prevedeva un'unica distinzione della popolazione britannica in White (inglesi) e Black (colorati). (Couper 1996). Ma, in questo modo, la politica britannica si dimostrava del tutto in67


capace di prendere in considerazione le diversità e i conflitti esistenti tra le minoranze, nonché di cogliere la rilevanza autonoma della questione della differenza. La categoria Black comprendeva, infatti, tutte le minoranze di origine immigrata: dai neri antillani ai pakistani musulmani, dai sikh agli indù, dai senegalesi fino agli italiani. Solo dopo una lunga azione di pressione delle comunità etniche si è poi giunti all'abbandono dell'ambigua e uniformante categoria Black a favore dell'adozione nei censimenti di forme di identificazione più rispettose della diversità. L'introduzione di pratiche di monitoraggio razziale ed etnico, vagamente ispirate al cosiddetto "pentagono etno-razziale" impiegato nel censimento nordamericano, ha sancito ufficialmente la natura multiculturale della società britannica, ma ciò non ha placato le polemiche. Non solo non venne raggiunto un accordo per ampliare l'entità delle quote, ma l'adozione di criteri di identificazione strettamente etnici o razziali ha lasciato insoddisfatte le minoranze. Le comunità di origine immigrata, createsi nel suolo britannico a partire dagli anni Cinquanta, tendono ad autodefinirsi principalmente attorno ad un'identità di tipo culturale prima ancora che etnica o razziale. Si tratta, infatti, di comunità nate e sviluppatesi principalmente attorno alle moschee islamiche e ai templi indù o sikh. Di conseguenza, la loro preferenza va per criteri di distinzione che tengano conto delle affihiazioni di tipo religioso. In breve, in base ai criteri ufficiali, i pakistani islamici o i sikh del Punjab vengono computati come asiatici, ma tale criterio etnico impedisce ab initio che possano trovare un adeguato spazio rivendicativo le richieste di riconoscimento pubblico per i loro particolari credi religiosi (Modood 2000). I DIRITTI CULTURALI Per le autorità britanniche il riconoscimento delle differenze su base etnica o razziale, oltre ad essere funzionale alla questione della lotta al razzismo, è sempre apparso assai meno problematico rispetto a quello propriamente culturale. Quest'ultimo, infatti, per tradursi concretamente ha bisogno della creazione di veri e propri diritti culturali, vale a dire pretese giuridiche volte a garantire il rispetto della differenza culturale di un gruppo minoritario attraverso la ridefinizione delle norme ufficiali e attraverso l'introduzione di trattamenti differenziati. Detto brutalmente, il riconoscimento culturale prima o poi apre il problema dell'adeguamento del sistema giuridico nazionale alle norme delle comunità minoritarie che vengono riconosciute, e non si tratta di processi semplicissimi - basti pensare al problema di riconoscere nel diritto 68


comune il matrimonio poligamico previsto dal sistema islamico. Oppure, il riconoscimento di diritti culturali può sancire l'introduzione di trattamenti differenziati tra i cittadini britannici in base alla loro specifica appartenenza comunitaria - come nel caso della battaglia ingaggiata dai sikh per il diritto a derogare alla legge che disciplina le divise dei servizi pubblici e a quella che prescrive l'obbligo del casco per i motociclisti o i lavoratori edili, al fine di portare il turbante previsto dai loro costumi tradizionali. Nel primo caso, i diritti culturali creano non facili problemi di armonizzazione tra sistemi normativi inspirati a visioni del mondo del tutto diverse; nel secondo caso, rischiano di provocare un pericoloso ridimensionamento della portata universalista della Legge. È sulla questione della scuola che si è principalmente dispiegata la lotta per il riconoscimento delle identità culturali. La scuola costituisce uno dei contesti cruciali della società multiculturale poiché è in gioco la socializzazione delle giovani generazioni. Ma mentre la sfera pubblica intende i compiti educativi della scuola in termini di formazione di un bagaglio culturale comune, le comunità etno-religiose guardano invece alla vita scolastica unicamente preoccupate di salvaguardare e trasmettere alle nuove generazioni la propria cultura distinta. Esigenze così diverse non potevano non venire allo scontro e portare all'impasse il progetto britannico di scuola multiculturale. Approfittando della natura decentralizzata del sistema di istruzione britannico, fin dagli anni Sessanta diverse comunità di origine immigrata hanno ingaggiato lunghi bracci di ferro con le autorità scolastiche al fine di introdurre norme utili a permettere ai loro bambini di rispettare i precetti religiosi e i costumi tradizionali. Le associazioni islamiche si sono particolarmente distinte per l'impegno e la pressione esercitata sui distretti scolastici in cui i bambini musulmani costituiscono da tempo la grande maggioranza. Al centro delle rivendicazioni islamiche c'erano richieste relative all'introduzione di classi separate per sesso, all'uso di cibo halal nelle mense scolastiche, alla ridefinizione dei giorni di festività, all'esenzione da quegli insegnamenti ritenuti contrari al proprio credo religioso, alla possibilità di indossare la tenuta islamica al posto delle divise scolastiche, alla costituzione di spazi per le preghiere quotidiane, fino alla richiesta di reclutare una percentuale di insegnanti appartenenti alle comunità etniche e religiose. Si trattava, chiaramente, di misure interpretabili come forme di salvaguardia della distinzione identitaria dentro un contesto, quello scolastico, in cui più che in ogni altro essa appariva esposta, nei suoi membri più giovani, all'influenza della cultura secolarizzata e della società laica. Lo spirito delle rivendicazioni islamiche era quindi in sintonia 69


con la logica comunitaria e multiculturale sposata dal governo britannico. Tuttavia, era altrettanto chiaro come l'accettazione integrale di queste rivendicazioni facesse saltare la natura colour blind dello spazio pubblico, in quanto la scuola statale rappresenta sicuramente un ambito costituivo di quest'ultimo. PER UNA SCUOLA MULTICULTURALE

Un'iniziale opzione favorevole ad una scuola multiculturale venne sancita dal Rapporto EducationforAli, pubblicato nel 1985 e redatto da una apposita commissione parlamentare - la Commissione Swann, dal nome del suo presidente - costituita per conferire un indirizzo unitario alla questione dopo un decennio di iniziative locali sparse e spesso in contraddizione tra loro. Il Rapporto Swann auspicava il superamento del colour blindness dello spazio pubblico, accusato di negare le dimensioni culturali e comunitarie costitutive dell'identità individuale, e invitava la scuola statale a svestire i suoi panni neutrali per accogliere la differenza culturale. Anzi, la scuola doveva promuovere gli studi interculturali per insegnare contemporaneamente le diverse culture a tutti gli alunni. Solo in questo modo il sistema di istruzione poteva assumersi il compito di preparare le nuove generazioni britanniche a vivere in una società multiculturale. Ma già a soli tre anni dalla sua pubblicazione l'indirizzo multiculturalista del Rapporto Swann veniva smentito da una legge nazionale che, dietro la spinta delle proteste dei genitori inglesi che non ne volevano sapere di vedere insegnato il credo islamico o la lingua urdu ai propri figli, introduceva la centralizzazione del sistema di istruzione britannico e decretava quella "cristiana" come l'unica forma di insegnamento religioso possibile nella scuola statale. Il conflitto scolastico si è da allora spostato sul tema della richiesta di riconoscimento pubblico delle scuole private comunitane. Il sistema inglese prevede sussidi finanziari alle scuole private riconosciute (le voluntary aided schools), ed è a questi fondi che mirano le varie fondazioni islamiche per costituire propri istituti scolastici. I problemi non mancano sia per la prospettiva di rendere multiculturale la scuola statale, sia per quella di incentivare la distinzione comunitaria a livello scolastico. In particolare, appare difficile far convivere la cultura occidentale a fianco di quella islamica. In occasione del Rapporto Swann, ad esempio, si fece notare come l'accoglimento delle richieste islamiche nelle scuole statali comportasse l'introduzione di pratiche chiaramente discriminatorie nei confronti delle donne, violando così il principio universale dell'eguaglianza al


centro dello spazio pubblico britannico. Riguardo alla scuole islamiche private, si aggiungeva il problema delle punizioni corporali, ampiamente impiegate nelle scuole coraniche, e quello dell'assenza completa, per ragioni di compatibilità con il credo islamico, di discipline necessarie per la formazione dello spirito civico democratico, come la storia o la filosofia. L"AFFARE RusHDIE"

Tra il 1988 e il 1991, la vicenda del cosiddetto "affare Rushdie" dissolse ogni dubbio sulla reale portata della società multiculturale e dei suoi problemi 1 . In quell'occasione, si comprese chiaramente che il multiculturalismo non consisteva affatto in un «reciprocamente arricchente scambio interculturale" come lo aveva dipinto il Rapporto Swann, ma celava dentro di sé una potenziale miscela esplosiva di conflitto e tensioni sociali in grado di sconvolgere l'intero assetto societario britannico. Lo stesso fronte antirazzista, che aveva apertamente sostenuto il multiculturalismo, rimase profondamente impressionato dal radicalismo della protesta inscenata dalle comunità raccolte attorno alle moschee, ma soprattutto dai suoi contenuti intolleranti e di disprezzo verso la libertà di espressione, a cui si aggiunse la meraviglia per l'imprevisto ampio coinvolgimento di giovani musulmani, vale a dire di soggetti nati nel suolo britannico. Agli occhi di tutta l'opinione pubblica inglese, ciò provava chiaramente che la logica del riconoscimento e della tutela della differenza, insita nel modello multiculturale di società, rendeva impossibile la formazione di un sistema di valori comuni. In particolare, appariva fallito il tentativo di infondere nelle minoranze etniche i valori democratici e, dunque, di incanalare la diversità in un quadro di rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo. Agli occhi di molti, l'identità islamica che andava costruendosi, e riproducendosi, grazie ad un multiculturalismo compiacente minacciava di minare irrimediabilmente le stesse fondamenta etiche della società britannica. Nel gennaio del 1991, a segnare un'ulteriore tappa nel radicalizzarsi del conflitto, giunse l'inaugurazione di un autoproclamato Muslim Parliament con sede a Londra. Tale episodio venne letto come prova definitiva che il multiculturalismo era destinato inevitabilmente a rendere sempre più difficile l'esistenza di un margine di vita sociale comune al di fuori delle enclaves comunitarie. La costituzione di un parlamento musulmano sembrava sancire il disconoscimento e la delegittimazione del Parlamento britannico e delle sue leggi presso le comunità islamiche. Di fronte ad iniziative del genere era inevitabile che si mettesse sotto accusa la linea politica seguita dal governo bn71


tannico fin dalla "formula Jenkins". L'opzione comunitaria, piuttosto che permettere un più adeguato rispetto dell'individuo in quanto soggetto culturale, nonché un contenimento degli atteggiamenti razzistici, appariva invece destinata ad approfondire la separazione tra i gruppi attraverso l'incentivazione del conflitto culturale e dell'odio etnico e in quanto tale andava totalmente ridiscussa. VERSO UN NUOVO MULTICULTURALISMO

Ad una lettura più ragionata, i conflitti che hanno avuto luogo nella società britannica durante gli anni Novanta non giustificano una così frettolosa condanna del multiculturalismo. Durante l'affare Rushdie, lo scopo della protesta islamica non era tanto quello di stigmatizzare la libertà individuale, come veniva insistentemente e concordemente sostenuto dall'opinione pubblica inglese anche nelle sue componenti progressiste, quanto piuttosto quello di denunciare la disparità di trattamento che la legge britannica prevedeva tra la religione anglicana e le altre religioni: mentre la prima era tutelata da un'apposita legge che puniva il blasfemo, lo stesso non avveniva per le altre religion12. Senza nulla togliere alla problematicità insita nella convivenza tra culture ed etnie nel contesto multiculturale, non si può non affermare che gran parte della responsabilità per l'escalation conflittuale degli anni Novanta va attribuita alle politiche sociali britanniche. Da un lato, la politica del governo britannico ha peccato di eccessiva ingenuità quando descriveva il multiculturalismo come "una situazione di salutare diversità culturale", mostrandosi così assai poco attrezzata a padroneggiare la complessità legata al riconoscimento delle appartenenze religiose. Dall'altro lato, le principali politiche sociali hanno offerto un multiculturalismo filtrato attraverso le forme, chiaramente opportunistiche e strumentali, dell'indirect rule, troppo intriso di una logica "coloniale", il che ovviamente non lo rendeva in grado di misurarsi con il pluralismo culturale specifico della società postmoderna e soprattutto di armonizzare il principio della valorizzazione della differenza con il quadro dei valori liberali e democratici. La costituzione della Commission on the Future ofMulti-Ethnic Britain si inquadra in questo tentativo di riconfermare la fiducia nella via multiculturale dopo un decennio costellato di conflitti e incomprensioni. Per quasi due anni i membri della Commissione hanno viaggiato per tutto il Paese, tenuto seminari di studio e organizzato dibattiti pubblici, incontrato i responsabili delle organizzazioni comunitarie, ascoltato privati cittadini e operatori attivi nel 72


campo delle relazioni etniche, nonché consultato esperti per ogni specifico settore. Il Rapporto finale sintetizza i principali risultati di questo lungo lavoro e, attraverso un attento bilancio delle diverse esperienze britanniche, si occupa di delineare una nuova filosofia per le politiche sociali e di suggerire iniziative utili per rilanciare nel prossimo futuro il progetto della società multiculturale.

Una comunità di comunità Il Rapporto si compone di tre part1 3 . La prima parte, di natura strettamente teorica ("A Vision for a Britain"), è riservata all'illustrazione di una nuova filosofia pubblica per la gestione dei problemi sociali legati al pluralismo etnico e culturale. In sei capitoli, corredati da una sintesi finale, vengono illustrati i principi e le ragioni che offrono le giustificazioni teoriche e morali alla base di una concezione multiculturalista delle politiche sociali. La seconda parte ("Issues and Istitutions") è riservata ad una disamina delle principali questioni e dei principali ostacoli al multiculturalismo così come emergono nelle diverse aree della politica sociale, dalla scuola, alla sanità fino ai tribunali. Infine, la terza parte ("Strategies of Change") contiene suggerimenti per possibili iniziative ed interventi pubblici, nonché indicazioni sul ruolo che deve essere assunto dal governo centrale e dai poteri locali per l'avvio di un progetto di trasformazione in senso autenticamente multiculturale della società britannica. Una breve analisi dei principi e delle ipotesi teoriche fondamentali illustrate nella prima parte del Rapporto testimonia, chiaramente, la ripresa fedele dell'ideologia multiculturalista così come essa si è venuta a configurare nel mondo politico e intellettuale britannico. a) Eguaglianza e differenza. Gli obiettivi centrali del Rapporto sono quelli tipici di ogni strategia di emancipazione democratica: la lotta al razzismo e la riduzione delle diseguaglianze economiche in cui versano i gruppi etnici e culturali. Il compito di contrastare gli atteggiamenti razzisti non viene però affidato, come nella prospettiva laicista, ad una strategia che punti a realizzare un'eguaglianza astratta tra gli uomini, un'uguaglianza che proceda prescindendo e occultando le differenze, bensì ad una diversa strategia, che si basi, invece, sulla valorizzazione delle differenze e spinga gli individui a riappropriarsi con orgoglio della propria identità. In altre parole, il pregiudizio e la discriminazione non si superano assumendo come insignificanti le differenze, siano esse razziali, culturali o religiose, ma, al contrario, valorizzandole e realizzando il loro riconoscimento nello spazio pubblico. L'eguaglianza deve, dunque, operare su due piani: da un lato, deve offrire pari opportunità a tut73


ti; dall'altro lato, deve tenere conto dei diversi bisogni, legati alle appartenenze etniche e culturali. Un'eguaglianza che si limiti a trattare in modo uniforme le identità differenti finisce per produrre, inevitabilmente, quella discriminazione che voleva combattere. L'eguaglianza per essere veramente tale ha bisogno di riconoscere e rispettare le differenze. Differenza e coesione sociale. Coltivare la differenza non significa, però, perdere di vista la formazione di un'identità condivisa. Anzi, si riconosce che "ogni società ha bisogno di essere coesiva e nello stesso tempo in grado di rispettare la differenza; deve nutrire la diversità mentre alimenta un comune senso di appartenenza e un'identità condivisa tra i suoi membri" (Parekh 2000). Tuttavia, secondo il Rapporto, il problema dell'unità nella società multiculturale impone una riformulazione dei suoi concetti fondamentali, a partire dallo stesso concetto di integrazione sociale, troppo allusivo ad un processo di annullamento delle identità particolari dentro una struttura culturale omogenea. Al suo posto va introdotto il concetto di coesione sociale, che sta invece ad indicare un'armonia dei rapporti tra le diverse comunità e un sentimento di appartenenza nazionale che non è fondato su una storia o un'origine etnoculturale comune, ma essenzialmente su un insieme di scopi e impegni condivisi. È ad una coesione sociale così intesa che occorre riferirsi per far sì che differenza culturale e identità nazionale non siano in contraddizione tra loro, ma si pongano come entrambe necessarie. Comunità e individui. Le diverse culture ed etnie non sono quindi destinate a fondersi tra loro o ad essere assimilate nella cultura maggioritaria ma, piuttosto, a mantenere la loro distinta identità. Per questa ragione ad ogni cittadino va riconosciuto il doppio status di individuo singolo e di membro di un particolare gruppo religioso, etnico e regionale. La società britannica va dunque concepita come composta sia da individui sia da comunita: «La Gran Bretagna è sia una comunità di cittadini sia una comunità fatta da tante comunità (community of communities) " ( Parekh 2000). In quest'idea di riconoscere individui e comunità come soggetti ugualmente protagonisti della vita sociale si coglie l'eco delle indicazioni espresse recentemente dall'Institute for Jewish Policy Research. Anche il mondo ebraico ha, infatti, rivendicato un ruolo attivo per le comunità etniche e culturali nella società britannica. L'idea di fondo è quella di una società "sia liberale sia multiculturale", in grado cioè di dare cittadinanza sia al singolo individuo, come richiesto dai principi liberali, sia alle comunità, in aderenza alla dottrina multiculturalista. Diritti culturali e diritti umani. Uno dei principi centrali del Rapporto è la definizione dei diritti culturali, o diritti per rispetto della differenza, come 74


diritti fondamentali. Naturalmente, esistono dei limiti al riconoscimento della differenza e alle pretese delle comunità. La cornice entro cui può avvenire il riconoscimento è fissata dai diritti umani, che definiscono anche la base etica che unisce la società. I diritti umani sono principalmente dei diritti posti a difesa del singolo individuo e quindi del rispetto dei dettami liberali, ma essi vanno anche intesi come principi procedurali utili per la risoluzione delle controversie multiculturali. Tutte le pratiche che violano apertamente tali principi sono da mettere al bando dalla società democratica. Negli altri casi, si auspica il ricorso al dialogo, alla tolleranza reciproca e al compromesso. Nelle parti riservate alle raccomandazioni operative spicca, in primo luogo, la richiesta relativa all'approvazione di un vero e proprio atto di dichiarazione del multiculturalismo che sancisca ufficialmente la difesa della libertà culturale e il diritto a conservare la propria distinzione identitaria, sul modello di quanto avvenuto in Canada nel 1971. In secondo luogo, si riafferma il bisogno di introdurre pratiche di monitoraggio delle comunità presenti nella società, al fine di decretare il riconoscimento pubblico delle identità etniche e culturali e di determinare la loro entità. Il monitoraggio dovrà poi essere condotto anche rispetto agli utenti dei servizi pubblici, per rimodellare questi ambiti socio-istituzionali in base alle esigenze delle diverse minoranze. In terzo luogo, si chiede l'ampliamento delle politiche di "discriminazione positiva" al fine di istituire percorsi privilegiati e quote riservate nel mondo del lavoro, nella scuola e nella politica, per ampliare la presenza delle minoranze. Tali quote dovrebbero essere suddivise tra i gruppi etnici in proporzione alla loro dimensione, così come questa viene definita dai censimenti. Infine, si auspica la costituzione di apposite commissioni parlamentari incaricate di risolvere le problematiche legate all'educazione scolastica, al riconoscimento religioso e al pluralismo giuridico. LE CRITICHE AL RAPPORTO

Il recente clima di guerra internazionale ha lanciato ovviamente una difficile sfida al Rapporto ad appena un anno dalla sua pubblicazione. Nelle società europee il multiculturalismo riguarda, in primo luogo, la questione del riconoscimento della cultura islamica, dato che la grande maggioranza della popolazione immigrata è contraddistinta dall'identità musulmana. I drammatici fatti di settembre, con le loro conseguenze in termini di recrudescenze terroristiche e di ricorso all'intervento militare, non aggiungono nulla di nuovo alla problematicità dei rapporti tra comunità islamiche e società occidentale, 75


ma ripropongono in tutta la sua forza la questione della compatibilità tra cultura occidentale e cultura islamica dentro lo stesso ambito societario. Per numerosi commentatori il deciso rilancio del multiculturalismo sostenuto dal Rapporto Parekh non si accompagna ad una altrettanto decisa presa in considerazione dei suoi limiti mostrati durante tutta la lunga esperienza britannica, così da sgombrare il campo da ogni critica. Lasciando da parte le critiche, di natura esclusivamente polemica, che hanno spesso frainteso i contenuti del Rapporto, come quelle che lo hanno accusato di svendere la storia e l'identità nazionale, di mirare a dipingere come razzista la cultura inglese, si possono individuare tre gruppi principali di critiche, molte delle quali insistono sulla scarsa capacità del Rapporto di misurarsiin maniera convincente sui "problema islamico

Il ruolo delle comunità Un primo gruppo di critiche si concentra sui problemi legati al ruolo assegnato alle comunità. Il Rapporto riafferma la centralità delle comunità come elementi costitutivi della società britannica. Ciò è storicamente vero ma non per questo meno problematico. Una delle principali lezioni ricavabili dalla recente esperienza del multiculturalismo britannico è che la tendenza a reificare le comunità conduce direttamente ad una crescita del conflitto sociale, sia attraverso un'intensificarsi della competizione tra le associazioni che pretendono di rappresentare le comunità, sia attraverso un' escalation della conflittualità con lo Stato volta a ribadire la forza delle posizioni comunitarie nei confronti delle autorità governative. Ogni questione, sia essa una normativa scolastica da introdurre o il riconoscimento di un diritto a derogare alla legge, degenera rapidamente in un conflitto essenzialmente politico tra una pluralità di attori, ognuno dei quali punta a radicalizzare sempre più lo scontro per definire a proprio favore i rapporti di forza in campo, con grave danno per la pace sociale (Kepel 1996). Assai problematici sono anche i rapporti che si vengono a creare tra comunità e cultura. Quando è un elemento di tipo culturale, come ad esempio la religione, a costituire il fondamento identitario di una comunità, si profila il rischio di una "fossilizzazione" della cultura, in quanto solo ciò appare come garanzia del mantenimento dell'identità comunitaria. In questo modo, però, la cultura perde la sua caratteristica di ambito necessario alla realizzazione individuale per trasformarsi in uno strumento di controllo politico sulla comunità da parte di gruppi che si ergono a paladini della sua "autenticità". Gli 76


sforzi per la difesa dell'autenticità culturale di una comunità possono, poi, costituire seri ostacoli all'esercizio del dissenso e delle libertà individuali all'interno della vita comunitaria. Ogni qual volta gli individui tendono ad assumere posizioni divergenti dalla cultura del loro gruppo di appartenenza, "importando" ad esempio credenze e comportamenti da altri gruppi, un pericolo sempre in agguato quando il gruppo vive dentro una società straniera, la comunità rischia infatti di smarrire sé stessa (Ziek 1999). Le comunità si sentono allora autorizzate ad esercitare forme impositive sulle libertà, al fine di evitare l'allontanarsi non solo fisico ma soprattutto "culturale" dei propri membri. Tali dinamiche sono ben visibili nelle comunità islamiche. È certamente sbagliato sostenere che l'Islam sia di per sé una cultura fondamentalista. Tuttavia, nel contesto europeo può accadere che le comunità islamiche, proprio come reazione al loro essere minacciate di "estinzione" per la pressione della cultura maggioritaria, scivolino in una difesa intransigente delle loro credenze e pratiche religiose tradizionali e, contemporaneamente, si sforzino di alimentare un forte spirito di sottomissione individuale. In questa situazione, tutte le iniziative raccolte sotto l'etichetta di diritti alla tutela e alla conservazione di una cultura particolare rischiano di legittimare la formazione di comunità a forte impronta tradizionalista e conservatrice, la cui presenza fianco a fianco con i valori liberali e democratici non può non creare conflitti difficili da risolvere. Il problema può essere anche diversamente formulato. Il riconoscimento di diritti culturali riguarda i singoli individui oppure le comunità? I diritti culturali sono diritti individuali o diritti di gruppo? È chiaro che per la prospettiva liberale esistono soltanto diritti individuali, di conseguenza il riconoscimento del diritto ad un trattamento differenziato va interpretato unicamente come l'allargamento della libertà individuale al campo delle scelte culturali. Ma questa conclusione non appare tanto pacifica in un contesto multiculturale. Proprio le vicende britanniche dimostrano come, essendo il diritto culturale riconosciuto in virtù dell'appartenenza ad un gruppo etnico o religioso, le minoranze tendano a interpretare i diritti culturali non in termini diiibertà individuali ma come diritti delle comunità, come diritti unicamente finalizzati a garantire la conservazione del gruppo come entità autonoma. In questo modo, i diritti di gruppo finiscono inevitabilmente per prevalere sui diritti individuali e per contraddire ogni visione liberale. In altre parole, non sembra per niente facile conciliare liberalismo e multiculturalismo, libertà individuale e diritto alla conservazione di una distinta cultura. 77


La "discriminazione positiva" Un secondo gruppo di critiche riguarda la preferenza espressa dal Rapporto per le politiche di "discriminazione positiva". L'idea di introdurre percorsi privilegiati per le minoranze è sempre stata fortemente osteggiata in Gran Bretagna, in quanto viene vista come una procedura illegittima e contraria al principio democratico del merito individuale. Nel contesto americano, l'affirmative action è stata oggetto di dure critiche ma viene difesa dai multiculturalisti in quanto estremo rimedio ad una precisa situazione storica di disagio: quella dei neri americani che hanno sopportato una più che centenaria esperienza di schiavitù. Chiaramente, non viene estesa automaticamente, non avrebbe senso farlo, a tutte le minoranze etniche. In Gran Bretagna, la situazione di disagio sociale delle minoranze di origine immigrata è riconducibile all'ingiustizia sofferta dai neri americani? È questo uno dei principali rilievi critici indirizzati al Rapporto da uno dei più noti intellettuali multiculturalisti nordamericani (Kymlicka 2000). Per Kymlicka, il Rapporto sbaglia di grosso nel momento in cui propone l'automatica estensione delle discriminazioni positive a tutte le minoranze di origine immigrata, sganciandola dall'idea della compensazione di un'ingiustizia storica. L'assenza di una legittimazione del genere rischia di alimentare atteggiamenti razzistici nella popolazione inglese.

Immigrazione, differenza e integrazione Un terzo gruppo di critiche si focalizza sul prob1emadei rapporti tra immigrazione, differenza e integrazione a livello nazionale. Il Rapporto considera anacronistica e contraddittoria la politica europea che immagina di affrontare il problema dell'immigrazione attraverso una progressiva chiusura delle frontiere. Del resto, in molte società europee la presenza immigrata costituisce ormai una percentuale consistente della popolazione nazionale, al punto che neanche la chiusura completa delle frontiere può garantire una soluzione preventiva. Per il Rapporto, l'unica via praticabile resta allora quella di padroneggiare la differenza prodotta dall'immigrazione attraverso politiche ispirate al riconoscimento identitario, nel rispetto dei valori comuni rappresentati dai diritti umani. Tuttavia, si è obiettato, tale soluzione sottovaluta la reale entità dei problemi integrativi (Westin 2000). La coesione sociale, a cui accenna il Rapporto, appare un fondamento troppo vago. Come è possibile, infatti, mantenere la coesione sociale senza poggiarla su un'identità culturale comune? Il Rapporto sembra dimenticare che diffi'renza culturale significa essen78


zialmente conflitto, ma un tipo di conflitto che, come insegnano le vicende britanniche, appare difficile da accomodare attraverso la tolleranza reciproca e il compromesso invocati dal Rapporto. Come si fa a comporre conflitti di natura fondamentalmente etica, come quelli legati all'introduzione della poligamia o alla richiesta di rispetto per i precetti religiosi nella scuola, attraverso il compromesso? Un minimo di identità culturale comune si imporrebbe come necessario. Inoltre, non viene affrontata la questione dei legami transnazionali che legano le comunità minoritarie islamiche con i loro rispettivi Paesi di origine. In un contesto internazionale così infuocato come quello attuale e in assenza di specifiche politiche rivolte a cementare un'identità nazionale comune, esiste la reale possibilità che le lealtà comunitarie si volgano contro il Paese ospitante. Tutto ciò smentirebbe l'idea, sostenuta dal Rapporto, di una società multiculturale che vada pari passo con la coesione sociale. L'IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE IDENTITARIA

In alcuni recenti interventi, i membri della Commissione hanno provato a rispondere alle diverse critiche (cfr. Parekh, Hall e Modood 2000; Modood 2001) cercando, in primo luogo, di chiarire il senso generale del Rapporto, anche in relazione ai più recenti avvenimenti politici internazionali. Lo scopo principale dei suoi curatori è di offrire un'alternativa alle rappresentazioni dei rapporti tra differenze etniche e religiose e, in particolare, tra società occidentale e la cultura islamica, in termini di "guerre culturali" e di inevitabile "scontro tra civiltà", rappresentazioni che riproducono sistematicamente stereotipi razzisti, per riaffermare la possibilità della tolleranza e della convivenza pacifica. Innanzitutto, un'adeguata valutazione del Rapporto richiede una preliminare e attenta considerazione delle questioni al centro della sua riflessione: la condizione di discriminazione in cui versano le minoranze etniche e religiose e lo svantaggio economico ad essa strettamente collegato. Per la logica che sta alla base delle analisi teoriche e delle raccomandazioni politiche avanzate nel Rapporto, è questa doppia situazione di marginalità sociale a costituire la vera minaccia che grava attualmente sulla coesione soc ale e sulla tenuta democratica e liberale delle società europee. In effetti, l'integrazione sociale di cui tanto si parla appare piuttosto mal messa o rimane lettera morta in un contesto sociale caratterizzato da gravi disparità economiche e profondamente intriso di pregiudizi razziali. Sono il disagio sociale e la mancata accettazione sociale, non certo il riconoscimento pubblico dell'identità islamica, ad ali79


mentare la conflittualità e il radicalismo nelle comunità musulmane. Come si può invocare la fedeltà nazionale e l'adesione ai diritti umani da parte di minoranze islamiche a cui sono riservati soltanto trattamenti discriminatori e la marginalità sociale? Come può un individuo di origine pakistana sviluppare un senso di appartenenza verso una società che si rifiuta, sistematicamente, di accettano e ne fa un cittadino di serie B? Per consolidare l'integrazione, l'unica autentica garanzia è quella di intervenire energicamente sulle disparità sociali e sulla cultura della discriminazione. È sulla base di questi ragionamenti che si giustifica il sostegno al multiculturalismo e alle sue politiche sociali. Le "discriminazioni positive", ad esempio, lungi dall'essere forme illegittime di favoritismi, sono da interpretare come misure necessarie per rinsaldare la coesione di una società che appare minata, in alcune sue componenti, da processi di emarginazione sempre più gravi. Anche la neutralità che caratterizza le istituzioni scolastiche, sanitarie o i tribunali va ridiscussa perché incapace di avviare un'accettazione sostanziale, e non solo formale, dei membri delle minoranze. Il Rapporto si pone questi obiettivi senza, tuttavia, dimenticare l'altro fondamentale aspetto della questione: l'importanza della dimensione identitaria nell'uomo contemporaneo (Taylor 1993). Il multiculturalismo sostenuto dalla Commissione consiste in un progetto volto a dare dignità all'individuo facendo salva, nello stesso tempo, l'importanza dell'ambito culturale in cui vive e in cui modella la sua identità. L'individuo non va mai concepito come un soggetto astratto e avulso da ogni forma di identificazione sociale, ma va sempre considerato assieme al suo contesto comunitario, il solo in grado di conferire senso alla sua esistenza. La tutela della comunità appare, da questo punto di vista, un tutt'uno con la tutela dell'individuo. Ogni processo di accettazione e di integrazione sociale che proceda svincolando l'individuo dalla comunità finisce, infatti, per imporre la perdita del proprio sé autentico e dei legami sociali più significativi. Il principale pregio del Rapporto consiste in questa rilettura del multiculturalismo come tentativo di trovare uno spazio per la cultura e per la dimensione comunitaria, in un mondo sempre più individualistico e universalista. Rivalutare le comunità e le culture non vuoi però dire reificarle, in quanto esse vanno sempre intese come costruzioni sociali fluide e transitorie, che restano in vita fino a quando servono agli individui e alle loro esigenze di identificazione. A questo scopo va sempre garantito all'individuo il "diritto d'uscita", la libertà di abbandonare la comunità di origine. Non soio. Per gli estensori del Rapporto, l'esistenza nelle società europee di comunità islamiche, a cui siano garantite mutuo rispetto e contenimento del80


le diseguaglianze, può rivelarsi un importante vantaggio strategico: può servire ad avviare un dialogo transculturale che permetta di sviluppare le libertà democratiche fin dentro il mondo islamico, nonché contribuire a dirimere, in maniera pacifica, i conflitti internazionali. Il multiculturalismo non va letto come un fattore destinato necessariamente ad accrescere i contrasti culturali e le tensioni sociali ma, al contrario, come uno strumento utile a disinnescare la differenza culturale dai suoi elementi potenzialmente più problematici, attraverso la logica del riconoscimento. Di conseguenza, non è né necessariamente conflittuale né aconflittuale, piuttosto consiste nella continua ricerca di un difficile equilibrio con cui sforzarsi di negoziare e di coinvolgere reciprocamente culture tanto diverse.quanto, tuttavia, necessarie.

Il romanzo I versi satanici dello scrittore di origini indiane, Salman Rushdie, fu fatto oggetto di una violenta campagna di protesta da parte delle comunità islamiche britanniche in quanto accusato di ridicolizzare la figura del profeta Maometto e di oltraggiare il contenuto del Corano. Allo scopo di ottenerne il ritiro dal commercio, il Concilio delle Moschee di Bradford arrivò addirittura ad organizzare il rogo in piazza di alcune copie. In Iran, Khomeini emise una fatwa che condannava a morte lo scrittore e l'editore Penguin; gran parte del mondo islamico britannico si dissociò da quest'ultima iniziativa, giudicandola fuori misura e controproducente per il buon esito della battaglia per il riconoscimento pubblico dell'Islam (per due diverse valutazioni dell'affare Rushdie, cfr. Kepel 1996; Parekh 2000a). 2 Le manifestazioni islamiche hanno puntato il dito sulla palese contraddizione dello spazio pubblico britannico che se a parole si dichiara

colour blineh nei fatti prevede ancora l'anglicanesimo come religione di Stato. Inoltre, la massiccia mobilitazione di piazza servì a dimostrare una volta per tutte l'importanza dell'appartenenza religiosa rispetto a quella etnica: mai nessuna manifestazione antirazzista degli anni Settanta o Ottanta era riuscita a mobilitare in misura così ampia e continuativa le comunità di origine immigrata (cfr. Modood 2000). Riguardo al parlamento musulmano, va detto che tale iniziativa e lo spirito radicale che l'ha accompagnata sono rimasti privi di seguito concreto, senza mai riuscire a coinvolgere le comunità islamiche di ispirazione barelvi o tabligh, largamente maggioritarie nel Paese (cfr. Kepel 1996; Vertovec 1998). 3 Per alcuni estratti del Rapporto, nonché per un resoconto del vasto dibattito suscitato in Gran Bretagna, può essere utile consultare il sito internet del Runnymede Trust (http://www.runnymedetrust.org/). 81


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Tra cittadinanza sociale e cittadinanza multiculturale. Il futuro della cittadinanza in E uro pa* di Gian franco Bettin Lattes

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i concetto di cittadinanza si presta ad essere declinato in vario modo nell'ambito delle scienze politico-sociali che l'hanno elaborato. Ciò costituisce, senza dubbio, una fonte di ricchezza analitica anche se pone non pochi problemi di definizione del termine. Lo sviluppo, più recente, di un interesse specificatamente sociologico verso la cittadinanza ha, poi, comportato un'ulteriore crescita della complessità semantica del concetto; ma, nello stesso, tempo ha confermato il suo carattere di vitalità che lo fa annoverare in un gruppo ristretto di concetti sociologici che, da oltre mezzo secolo, sono costitutivi della disciplina. Muovendo da un interesse privilegiato per i temi dell'integrazione sociale e del passaggio dalla società tradizionale alla società cosiddetta moderna, i sociologi classici definivano la cittadinanza come uno status che riflette il pieno riconoscimento dei diritto di appartenenza e di partecipazione sociale (Turner 1990), in un quadro societario dove emerge e dove si consolida la cultura politica democratica. Gli elementi elaborati dalla sociologia classica li ritroviamo, poi, rivisti e riadattati alle esigenze analitiche dei tempo, dentro una delle più importanti tappe della riflessione sociologica sui tema della cittadinanza: la tradizione inglese di studi sul Welfare State che ha preso corpo a partire dagli anni Quaranta e il cui contributo fondamentale è costituito, senza dubbio, dall'opera di Thomas H. Marshall. LA CITTADINANZA MODERNA

Marshall lega le fasi dei mutamento sociale moderno alle principali tappe evolutive dei contenuto della cittadinanza. La periodizzazione dello sviluppo della cittadinanza moderna rappresenta ancora oggi uno degli elementi più

UAutore è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche T. Alf'ieri" e Direttore del Centro Interuniversitario di Sociologia Politica dell'Università di Firenze, 83


noti e piL ripresi della teoria marshalliana (Marshall 1976). Lo sviluppo della cittadinanza si traduce in una successione storica delle sue tre forme fondamentali: 1) la cittadinanza civile (XVIII secolo), 2) la cittadinanza politica (XIX secolo) e 3) la cittadinanza sociale (XX secolo). Ogni tipo di cittadinanza coincide con il riconoscimento di determinati diritti, emerge in un preciso contesto storico e, infine, dà luogo alla formazione di altrettanto precise istituzioni sociali. Naturalmente, questo processo di sviluppo della cittadinanza va interpretato in termini cumulativi, nel senso che la cittadinanza sociale, che storicamente arriva per ultima, non si sostituisce alle precedenti bensì si aggiunge ad esse, arricchendo ulteriormente gli elementi costitutivi del fenomeno complessivo della cittadinanza. La cittadinanza sociale coincide con il riconoscimento dei cosiddetti diritti sociali, un insieme eterogeneo di pretese, che vanno dal diritto a certi servizi sociali (assistenza sanitaria, istruzione, assistenza pensionistica), fino a quello che Marshall definisce il "diritto a partecipare pienamente al rètaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società", indipendentemente dalla posizione occupazionale; tali diritti trovano il loro corrispettivo istituzionale nel Welfare State. Lo sviluppo dei diritti sociali è il vero centro gravitazionale di tutta la teoria marshalliana. In esso, il sociologo inglese intravede la forma compiutamente moderna della cittadinanza, nonché il fenomeno che meglio riflette le tensioni esistenti tra i principali processi costitutivi della società contemporanea: il conflitto tra le diseguaglianze di classe prodotte dal mercato e l'aspirazione verso l'uguaglianza tipica di una cultura democratica. In altri termini, si può dire che la cittadinanza sociale non costituisce soltanto un'estensione delle prime due forme della cittadinanza, ma ne rappresenta il compimento e la condizione di un effettivo esercizio nelle società della tarda modernità. Il ragionamento di Marshall è sostanzialmente guidato dalla consapevolezza che la cittadinanza sociale e le corrispettive istituzioni di Welfare costituiscano uno strumento privilegiato per contenere, per ammortizzare e per "addomesticare" gli aspetti spiacevoli, ma tutto sommato inevitabili, delle disuguaglianze sociali costantemente prodotte dall'azione del mercato capitalistico. Sul piano strettamente sociologico, l'importanza dell'analisi di Marshall consiste nel suo sforzo di ricollegare il tema della cittadinanza, e della cittadinanza sociale in particolare, a quello dell'integrazione sociale. Marshall sostiene poi che la cittadinanza sociale contribuisce al processo di integrazione sociale perché offre le condizioni indispensabili per la partecipazione ad una "comune civiltà". Grazie alla cittadinanza sociale,.le differenze 84


di classe perdono i loro connotati più specificamente culturali, in quanto tutte le classi sociali finiscono per condividere una cultura comune, o nelle parole di Marshall, una "civiltà comune". Ma questa "civiltà comune" di cui parla il sociologo inglese non ha niente a che fare con i valori o le norme. È di natura ben diversa dalla coscienza collettiva presente nelle teorie normative dell'integrazione sociale. Si tratta, fondamentalmente, di una "civiltà materiale", una civiltà fatta di stili di consumo, di interessi e di punti di vista definiti principalmente in termini economici più che culturali. Ciò, tuttavia, non esclude che tale civiltà materiale non abbia anche conseguenze sul piano culturale e sociale. Essa produce, infatti, una medesima cultura materiale, basata e sostenuta dalla produzione di massa. Tale "civiltà materiale comune" fatta di accrescimento delle possibilità di spesa e di consumo, di riduzione generale del rischio, dell'incertezza e di una maggiore perequazione delle condizioni sociali, produce innegabilmente effetti di integrazione sociale. L'integrazione promossa dalla cittadinanza sociale è dunque fondata non sulla condivisione di una coscienza collettiva, quanto sulla possibilità di una soddisfazione degli interessi materiali valida per tutte le classi sociali.

La questione dell'immigrazione Questo modello è, comunque, legato ad un processo di modernizzazione prima di tutto della società inglese e poi della società europea che oggi sembra essere entrato in una fase critica. I tentativi di riscrivere il significato sociologico della cittadinanza riflettono una serie di importanti sfide sociali. La prima e la più pressante delle quali è data dall'attuale intensificarsi dei flussi immigratori. L'immigrazione oggi riguarda tutta l'Europa occidentale, coinvolgendo anche quei Paesi europei, come l'Italia, che sono stati in passato periferici rispetto ai grandi flussi del fenomeno migratorio. Tale processo sta cambiando radicalmente la composizione demografica delle società europee mentre crea problemi legati alla convivenza tra culture, valori, stili di vita e costumi radicalmente diversi. In termini di cittadinanza, la questione immigrazione pone sul tappeto almeno due questioni: la prima relativa all'estensione della cittadinanza e la seconda relativa alla forma stessa della cittadinanza. Il primo problema mette in crisi il tradizionale legame che nella storia europea esiste tra cittadinanza e appartenenza etnico-nazionale. Davanti alla crescita di segmenti di popolazione straniera si pone l'alternativa tra estendere anche a questa fetta di società la cittadinanza oppure accettare la presenza di individui denizens, cioè dalla cittadinanza dimezzata. 85


Riconoscere anche agli immigrati la cittadinanza significa, però, porre fine al ruolo di fattore delimitante fino ad oggi svolto dall'appartenenza nazionale. Ragion per cui, sganciare la cittadinanza dalle sue basi etnico-nazionali rischia di tradursi in una ulteriore e forte crisi della solidarietà nazionale e dell'integrazione sociale (Leca 1990). La questione della cittadinanza europea pone un ulteriore interrogativo cruciale: è possibile che la cittadinanza sociale non sia più l'elemento fondamentale per la costruzione di una società più egualitaria e per la realizzazione dell'integrazione, o almeno non sia più l'unico elemento da prendere in considerazione? Questo dubbio nasce dall'attenta considerazione dagli effetti che scaturiscono dall'attuale fase di mutamento determinata dal processo di gbbalizzazione e dalla concomitante formazione di un'entità sovranazionale, dalle forme incerte, quale l'Unione europea. LA SFIDA DELLA SOCIETÀ MULTICULTURALE

Limmigrazione e la società multiculturale lanciano una sfida assai diversa alle questioni integrative, una sfida che la cittadinanza sociale non appare in grado di raccogliere, o almeno non da sola. Il problema di convivere nella differenza, di riconoscere e valorizzare lingue, tradizioni e culture diverse, che via via vanno ad affollare il contesto societario europeo, richiede una declinazione dei diritti sociali in termini completamente nuovi rispetto ai suggerimenti che si ricavano dall'eredità marshalhiana. Gli immigrati pongono un problema di integrazione sociale di tipo essenzialmente normativo e non solo redistributivo, per il quale cioè non basta prevedere forme di redistribuzione del reddito e delle possibilità di consumo, ma diventa necessario pensare a strategie in grado di affrontare la questione della differenza culturale, come, ad esempio, quella religiosa o linguistica. Il nuovo nodo del rapporto tra cittadinanza e differenza può essere sciolto attraverso due alternative diverse. La prima alternativa è quella di svincolare la cittadinanza dai diritti sociali, nel senso di riconoscere diritti sociali anche ai non cittadini. È questa una direzione che appare maggioritaria nel processo di integrazione europea. Nella nota introduttiva alla Conferenza Intergovernativa del 26 luglio 1996 si legge, ad esempio, che il diritto alla salute, il diritto alle eguali opportunità sono da considerare come diritti universali, diritti umani fondamentali da riconoscere a tutte le persone che risiedono nei Paesi dell'Unione europea e non solo ai costituendi cittadini europei. Tale suggerimento è stato, come abbiamo visto, pienamente accolto dalla Carta di 86


Nizza (dicembre 2000) che riconosce all'individuo in quanto tale, e non al solo cittadino europeo, i diritti fondamentali dell'Unione - dalla libertà alla solidarietà, alla giustizia. Come si può ben capire, la questione riguarda direttamente la presenza immigrata dentro i nuovi confini europei. In base a questa soluzione, gli immigrati presenti dentro i confini europei lavorano e pagano le tasse, ma ciò non dà loro automaticamente diritto alla piena appartenenza e partecipazione, ma soltanto il diritto a certi servizi sociali forniti dall'autorità statuale. La ragione di tale discriminazione è piuttosto semplice. Davanti alle profonde differenze culturali che caratterizzano i nuovi arrivati rispetto ai valori europei, radicati storicamente, la concessione della cittadinanza rischia di innescare processi disintegrativi della coesione sociale o di incoraggiare, non di rado, perfino processi involutivi di tipo autoritario - basta pensare ai problemi legati alla concessione della cittadinanza agli immigrati musulmani con simpatie fondamentaliste. Per altri studiosi tale soluzione, che riserverebbe ai soli europei i diritti di cittadinanza, vale a dire sostanzialmente i diritti politici e la piena appartenenza europea, esprime però una profonda ingiustizia rispetto a coloro che sempre più spesso scelgono l'Europa come luogo per vivere. Il processo di esclusione dalla cittadinanza europea creerebbe, necessariamente, gruppi caratterizzati da una forte alienazione politica. In breve, la presenza immigrata rischia di trasformarsi in un pericoloso meccanismo favorevole al formarsi di gruppi sociali svantaggiati e alienati, potenzialmente in conflitto con il resto società, nonché al diffondersi dei fondamentalismi religiosi (Sartori 2000; Cavalli L., 2001).

Dalla cittadinanza sociale alla cittadinanza multiculturale La seconda alternativa è quella di riformare radicalmente la cittadinanza sociale, trasformandola in una cittadinanza multiculturale. La cittadinanza, in questo caso, assumerebbe i connotati di un'istituzione fondamentale per l'integrazione sociale dei nuovi venuti. Da elemento di esclusione, come viene concepita nella prima alternativa, la cittadinanza si trasforma, nella seconda alternativa, in fattore di cementazione dell'integrazione sociale che permette di allargare la solidarietà e la reciprocità sociale ai nuovi venuti. Nel caso della cittadinanza europea, non si tratta soltanto di sganciare la cittadinan za dai suoi elementi ascrittivi relativi all'appartenenza nazionale rendendola ancora più astratta, ma soprattutto di introdurre un vero e proprio diritto alla differenza dentro gli stessi elementi costitutivi della cittadinanza, secondo quanto previsto dal modello del multiculturalismo. 87


La cittadinanza multiculturale è essenzialmente definibile come una cittadinanza ridisegnata in modo tale da integrare i tradizionali diritti civili, politici e sociali con un di più di diritti che potremmo definire di tipo culturale, relativi alla lingua, alla salvaguardia delle proprie tradizioni (Kymlicka 1998), senza tuttavia dimenticare che l'ipotesi della cittadinanza multiculturale porta con sé conseguenze particolarmente problematiche per i diritti individuali e per il valore universalista della legge, corrispondente ad un principio fondativo della cultura giuridica europea. L'immigrazione recente si caratterizza per la tendenza a rifiutare ogni forma di assimilazione culturale e per la rivendicazione di spazi di riconoscimento ai propri valori e ai propri costumi tradizionali. In questo processo, la cittadinanza multiculturale potrebbe permettere di coniugare le funzioni integrative della cittadinanza con l'esigenza della piena accettazione delle differenze etniche e culturali. Il modello della cittadinanza multiculturale dovrebbe riuscire contemporaneamente a tenere a freno eventuali tendenze disgregative, nonché prevenire possibili processi di marginalizzazione sociale delle minoranze. Il nodo da sciogliere, allora, sembra essere la progettazione di una forma di cittadinanza multiculturale che sia in armonia con le libertà individuali. Ma è soprattutto con riferimento al profondo legame che sussiste storicamente tra le diverse forme assunte dalla cittadinanza e la democrazia che la proposta di una cittadinanza multiculturale può sfociare in un processo dagli esiti innovativi, nella continuità di una tradizione fondamentale per la cultura politica europea. Ma vediamo di inquadrare meglio la questione. La disomogeneità culturale è un dato diffuso ed empiricamente incontestabile: nei 184 Stati indipendenti esistenti nel mondo si rintracciano oltre 600 gruppi linguistici e ben 500 gruppi etnici. Questa differenza è una fonte permanente di conflitti tra minoranze e maggioranze che si confrontano, anche aspramente, per la giusta soluzione di questioni come le rivendicazioni di territorio, i diritti linguistici e la difesa dei diritti degli immigrati. Dopo l'epoca della Guerra Fredda, i conflitti etno-nazionali sono una delle più importanti matrici di violenza politica su scala internazionale. Le soluzioni politiche adottate sono di segno diverso e quasi tutte criticabili. Le società europee stanno vivendo un'intensa stagione di mutamento: un processo, inedito, di revival delle identità etniche sta al centro di questa trasformazione. La storia sociale e politica dell'Europa moderna non vede certo il meltingpot, cioè l'ibridamento tra i popoli e le etnie alla base del suo divenirel. Tutto all'opposto, quasi ovunque, l'Europa moderna ha adottato il modello di una società nazionale, etnicamente e culturalmente omogenea, in cui lo Stato-nazione ha


definito dei rigidi confini di tipo politico che preservano la specificità nazionale e la distinzione etnica. Questa specificazione è stata un fondamento dell'ordine politico. Su un assetto storicamente consolidato di etnie differenziate e con un insediamento territoriale distinto si è costruito il modello di Stato nazionale basato su criteri politico-culturali omogenei. Questo modello si propone di superare i problemi e le tensioni legate alla convivenza di etnie, gruppi culturali e gruppi religiosi diversi. La distanza, perseguita pervicacemente, dal mescolamento culturale e la paura del pluralismo etnico rappresentano una caratteristica tipica delle società europee rispetto agli Stati Uniti, al Canada, al Brasile o all'Argentina vale a dire rispetto a società che hanno basato, storicamente, la loro organizzazione su imponenti e continui flussi immigratori di popoli provenienti da diversi parti del mondo. Per queste società, allo stato nascente, la differenza tra le etnie viene valutata come una risorsa fondamentale per il loro sviluppo. La vecchia Europa, invece, è cresciuta articolandosi in Stati-nazione tendenzialmente omogenei al loro interno dal punto di vista culturale ed etnico, con il risultato che il sistema sociale europeo appare come un insieme di società chiuse alla differenziazione etnica o, comunque, preoccupate di comprimerla al massimo grado.

Il riemergere delle minoranze Questo dato strutturale, costitutivo dell'organizzazione statuale della vecchia Europa, è messo in crisi oggi per effetto di due processi interdipendenti. Il primo processo vede riemergere delle minoranze etniche, linguistiche ed attive su base regionale che erano state collocate stabilmente in una posizione di marginalità per effetto dell'azione omogeneizzante dello Stato-nazione. Queste minoranze erano state incapsulate in un ruolo periferico dal prevalere di una maggioranza etnica di livello nazionale che, nella configurazione del moderno sistema degli Stati europei, aveva ispirato l'assetto socio-nazionale. Il mutamento valoriale attivo su scala di massa e su scala generazionale, che accompagna la spinta di trasformazione economica determinata dalla globalizzazione trasnazionale, mette in forse l'esperienza politica dello Stato-nazione e con essa il relativo fondamento etnico maggioritario. Analogo effetto deriva dalla formazione di un'entità sovranazionale come l'Unione Europea che amplifica la compressione dell'assetto istituzionale tipico dello Stato-nazione ma incoraggia anche delle spinte localiste che si legittimano ulteriormente richiamandosi alle radici etnoculturali specifiche, a volte in maniera palesamente strumentale. Il secondo processo che riformula l'identità storico-culturale europea, come 89


si è detto più volte, è dato dai processi immigratori. Il continuo flusso migratorio transcontinentale coinvolge, da alcuni decenni, anche il Vecchio Continente. Gruppi sociali provenienti dalle aree geografiche le più disparate si stanno dilatando in Europa modificandone la tradizionale omogeneità etno-culturale. Il meccanismo dell'assimilazione che alcuni Stati europei, primo fra tutti la Francia, hanno sperimentato con successo ora si inceppa perché le aspettative degli stranieri rispetto alla società ospite sono radicalmente cambiate. L'esigenza tipica delle vecchie generazioni di immigrati che aspiravano ad integrarsi nel nuovo mondo che li ospitava e che per raggiungere questo scopo erano disposti ad annullare l'identità culturale originaria ora non ha più senso. Gli immigrati aspirano ad una valorizzazione della loro differenza rispetto alla società ospitante e pongono in forma spesso radicale il problema politico del pluralismo culturale. In altre parole, la crisi dell'appartenenza nazionale si accompagna alla questione della rifondazione del concetto di cittadinanza. Minoranze regionali ed immigrati pretendono una trasformazione della cittadinanza concepita come status che, valorizzando il principio dell'eguaglianza, livellava i diversi caratteri distintivi di natura ascrittiva posti alla base delle società tradizionali. Le lotte per il riconoscimento delle identità etniche e culturali rivendicano un allargamento extranazionale della cittadinanza e la sua apertura verso la differenza identitaria. Si tratta di un processo che per molti aspetti è il naturale proseguimento di un insopprimibile bisogno di libertà che qualifica la cultura politica democratica europea fin dalle origini e che ora vede tra gli attori promotori dei soggetti che, pur essendone storicamente estranei, ne confermano il valore con la loro pretesa di essere inclusi come cittadini a pieno titolo.

Le soluzioni possibili Di fronte a questo problema, in concreto, le alternative di soluzione che si avanzano sono sostanzialmente due e ruotano, non potrebbe essere altrimenti, attorno alla questione della cittadinanza. La prima alternativa è quella di rifiutare la cittadinanza agli stranieri, anche quando la loro presenza sia ormai di lunga durata sul territorio nazionale. Questa posizione, preoccupata di mantenere integra la cultura dominante in presenza di un processo di mescolanza di gruppi che può contaminarla, ha come effetto naturale una divisione profonda: da un lato i cittadini pieno iure, dall'altro lato i metec12 La seconda alternativa è, invece, quella di concedere il diritto di cittadinanza agli immigrati che decidono di stabilirsi in maniera stabile e definitiva nella società ospite. La cittadinanza, in questo caso, diventa un'istituzione che promuove l'integrazione sociale estendendo e rafforzando la solidarietà e la reciprocità .

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sociale nei confronti dei nuovi venuti. Le due alternative propongono naturalmente, nel momento in cui si traducono in provvedimenti concreti, delle modalità di implementazione radicalmente diverse. I sostenitori della prima soluzione, quella del rifiuto ad oltranza della concessione della cittadinanza agli immigrati, ritengono che le differenze culturali esistenti fra la società ospite e gli immigrati siano talmente grandi da rendere impossibile qualsiasi tentativo di integrazione. Il gap culturale sarebbe così ampio che nessuna politica di accoglienza, anche quella pRi articolata e progressista, sarebbe in grado di colmarlo. Va da sé che il gap culturale copre anche interessi molteplici di natura economica e di natura politica e che ha, comunque, un grosso impatto emozionale perché mette in forse il senso di integrità di una comunità basata sull'autorità di ciò che è sempre stato, unitamente ad un'atavica diffidenza per lo straniero e per il diverso. Lo scricchiolamento dell'ordine sociale ed il pericolo di perdere la coesione di una società inducono a negare la cittadinanza e a promuovere una politica di rimpatrio. I sostenitori della seconda soluzione ritengono, invece, che nessuna differenza culturale ha mai impedito nella storia dell'uomo l'integrazione. Nel caso americano ma anche in quello francese e in quello inglese, popolazioni assai distanti dal modello culturale imperante nella società ospite hanno avviato e sviluppato un processo di integrazione in un modo spesso efficace. Questo processo si deve basare, essenzialmente, sulle politiche di accoglienza. Investire sulla popolazione immigrata significa farne oggetto di assistenza e di sostegno, legalizzarne la piena presenza ed incentivarne la disponibilità ed il desiderio di integrazione. L'esclusione degli immigrati dalla cittadinanza comporta, ovviamente, alti costi politici e sociali. I meteci rafforzano il loro senso di autoesclusione e si isolano dalla società che li ospita e vanno a formare su basi etniche una speciale underclass che si nutre di un sentimento di marcata ostilità. Il processo di esclusione dalla cittadinanza crea gruppi caratterizzati da una pericolosa miscela di alienazione sociale, orientamento alla criminalità comune, protesta politica violenta e fondamentalismo religioso. Si fomenta, in altre parole, la tensione razziale. Gli immigrati minacciati di rimpatrio, a loro volta, si nascondono. Questo comportamento incrementa e diffonde la marginalità sociale; qualsiasi sia il grado di efficienza di una politica di accoglienza o, comunque, di una strategia anche minima di integrazione, in queste condizioni diventa difficile applicarla. La presenza immigrata diventa un dato pericoloso che alimenta le condizioni favorevoli alla radicalità politica di gruppi sociali svantaggiati, potenzialmente in conflitto permanente con il resto della so91


cietà. D'altronde, è inutile negare che anche la formazione di immigrati-cittadini produce dei problemi. Gli immigrati di prima e di seconda generazione tendono a rifiutare un tipo di integrazione che passi attraverso la rinuncia alla loro cultura e all'identità originaria. Gli immigrati rivendicano all'interno delle istituzioni pubbliche (la scuola, il mondo del lavoro, la polizia, le aule di giustizia, gli enti di assistenza) un pieno riconoscimento delle loro usanze dei loro valori e del loro modo di vedere la vita sociale. Gli esempi sono noti. Si aspira ad una maggiore attenzione dei curricula scolastici per la loro storia e per la loro lingua; si chiede che i datori di lavoro rispettino le loro festività religiose. Tutto ciò cozza con quello che viene usualmente previsto dalle strategie di assimilazione 3 Il modello di integrazione basato sul multiculturalismo soppianta ogni strategia assimilazionista perché si tratta di un modello che non si basa sulla omogeneizzazione culturale degli immigrati, bensì sulla tutela e sulla valorizzazione delle differenze di tipo etnico, linguistico, culturale e religioso. Il multiculturalismo rifiuta l'assorbimento delle particolarità etniche e culturali nell'identità nazionale del Paese ospite, così come il confinamento di queste stesse particolarità esclusivamente all'ambito della sfera privata e, invece, rivendica il riconoscimento positivo delle differenze e la loro piena valorizzazione nella sfera pubblica. L'ideale politico del multicukuralismo reclama significative trasformazioni delle istituzioni cardine delle democrazie occidentali a partire proprio dalla cittadinanza. Si tratta di una trasformazione-revisione che non si traduce in una soppressione radicale. La cittadinanza nella prospettiva multiculturale viene ridefinita, non viene abolita. La cittadinanza così ridisegnata prevede una gamma di diritti e di doveri reciproci che legano di più gli immigrati, i figli degli immigrati e la società che li accoglie. Da un lato gli immigrati, in quanto cittadini, si impegnano ad adottare nel loro bagaglio formativo alcuni aspetti culturali fondamentali della società d'accoglienza, dall'altro lato, la società d'accoglienza si impegna a riconoscere la specificità dell'identità degli immigrati proprio perché questi ultimi, in quanto cittadini, hanno un diritto ad hoc. La società di accoglienza diventa la nuova casa per gli immigrati nella misura in cui questa stessa società si impegni per farli sentire a casa loro. .

MULTICULTURALISMO COME PROSPETTWA INNOVATIVA

Parlare di multiculturalismo come prospettiva innovativa significa costruire un tipo di società che ridefinisca il suo status di cittadinanza per gli immigrati ed attui un progetto politico assai diverso dalle politiche multiculturali92


ste, solo nell'etichetta, che, ad esempio, la Germania ha implementato per i figli dei turchi. I figli degli immigrati turchi, per molti anni, sono stati esclusi dalla scuola tedesca; per loro si erano costruite delle scuole turche i cui programmi erano finalizzati alla preparazione al rimpatrio in Turchia. In questo modo, si sottolineava con forza la diversità e l'estraneità dell'immigrato nei confronti della società tedesca. I turchi non dovevano percepirsi, né tantomeno essere percepiti, come cittadini tedeschi. Emerge con chiarezza il nesso stretto tra multiculturalismo e cittadinanza. Si verifica nei fatti che "il multiculturalismo senza la cittadinanza costituisce una forma di esclusione ed una sua legittimazione" (Kymlicka 1998, 40). Il multiculturalismo va inteso come una modalità istituzionale tramite la quale la cittadinanza riesce a svolgere a pieno la sua funzione integratrice in una società che ha perduto la sua omogeneità nazionale ed ora è costituita da una pluralità di identità culturali. Va ribadito, tuttavia, che la cittadinanza multiculturale introdurrebbe elementi inediti nella tradizione giuridica occidentale ed europea, anche nel senso che il liberalismo che la ispira non ammette un confronto diretto tra diritti collettivi e diritti individuali. Questi secondi essendo diritti fondamentali, radicati ed ispiratori dei sistemi giuridici vigenti. La cittadinanza multiculturale introdurrebbe nuovi diritti collettivi. I diritti collettivi possono essere qui concepiti come un insieme di pretese che dei gruppi avanzano nei confronti del complesso della società con la finalità eminente di salvaguardare la loro identità culturale. C'è il rischio che tali diritti si possano trasformare in misure che, sempre per proteggere il gruppo, impongono forti restrizioni alle libertà individuali, proprio ai soli individui che costituiscono il gruppo. Inoltre, i diritti culturali possono diventare degli autentici privilegi per gruppi particolari: ad esempio, gruppi che si individuano lungo linee etniche e culturali specifiche potrebbero essere esonerati dal rispetto di certe norme che vengono, invece, applicate a tutti gli altri membri della stessa società. Si contraddice in maniera palese, in questo modo, il principio della universalità di applicazione della legge che resta principio cardine di tutti gli ordinamenti giuridici europei. I diritti collettivi, così come verrebbero ad essere articolati nel quadro di una forma multiculturale di cittadinanza, introdurrebbero una sorta di cittadinanza differenziata. In altre parole, certi diritti diventerebbero la prerogativa di alcuni gruppi e non di altri. Il legame di appartenenza etnica legittimerebbe diritti e doveri mentre escluderebbe l'applicabilità di altre norme. Secondo Kymlicka, queste critiche hanno una validità limitata. Nell'ambito di una valutazione sociologica della cittadinanza multiculturale, così co93


me la configura questo autore, occorre distinguere tra restrizioni interne e tutele esterne. I diritti collettivi possono assumere una di queste due forme. Le "restrizioni interne" consistono in diritti collettivi di cui è titolare il gruppo etnico. Proprio questo stesso gruppo li può esercitare contro i suoi membri uti singuli; ad esempio, per fare rispettare la tradizione religiosa oppure per conservare una lingua. L'obiettivo primario della restrizione è la stabilità etnica del gruppo che viene minacciata, a volte, da dissensi interni per effetto della decisione di alcuni membri di non conservare le pratiche tradizionali dell'etnia. Il caso più clamoroso, forse, è quello degli immigrati Nord Africani che in Francia ambivano al riconoscimento del diritto di imporre l'infibulazione. Oppressione religiosa e marginalizzazione della donna sono due esempi paradigmatici e noti, connessi a questo tipo di restrizione che è limitativo delle libertà civili riconosciute in tutte le costituzioni europee moderne ma anche in ampi strati della stessa popolazione immigrata. Le "restrizioni interne", dunque, non sono assimilabili alla tradizione liberale europea e vanno respinte come ingiuste. Le "tutele esterne" consistono, invece, in misure idonee ad ostacolare che dei gruppi maggioritari assumano decisioni ed elaborino politiche che possono minacciare l'esistenza o, comunque, la dignità sociale di una o più minoranze. Le "tutele esterne" si possono legittimamente ed opportunamente trasformare in contenuti dei diritti di cittadinanza in quanto sono pienamente conformi alla democrazia liberale, anzi ne costituiscono una forma più avanzata nel senso di una più completa realizzazione. Un esempio: permettere agli ebrei ed ai musulmani di non ottemperare alla legge che impone la chiusura domenicale significa evitare che la norma, voluta da una maggioranza, penalizzi ingiustamente e limiti seriamente il comportamento di una minoranza. Nel contempo non si viola nessuna libertà civile. PER UNA •MIGLIORE DEMOCRAZIA

Le società europee sono sempre state fiere delle loro omogeneità nazionali; un fattore che sta all'origine stessa degli Stati-nazione. Tuttavia, mantenere questa caratteristica storico-strutturale a tutti costi è un anacronismo senza prospettive. Alcune nazioni, come la Francia e la Gran Bretagna, guardano alla popolazione immigrata come ad un importante serbatoio di nuovi cittadini. Anche la Svezia si è avviata su questa strada, anzi la Svezia, nel 197.5, è stata la prima nazione in Europa ad adottare il concetto di multiculturalismo nella propria produzione legislativa. Nel corso del processo di trasformazione 94


delle società europee cui stiamo assistendo, la cittadinanza multiculturale potrebbe permettere di coniugare le funzioni integrative della cittadinanza con l'esigenza del riconoscimento delle differenze etniche e culturali. Questo nuovo modello di cittadinanza dovrebbe riuscire contemporaneamente a tenere a freno le spinte disgregative provenienti dal mondo delle diseguaglianze, il cui popolo è formato soprattutto da immigrati e, al tempo stesso, a temperare gli effetti perversi della marginalizzazione delle minoranze etniche. Per concludere su questo punto fondamentale. Il concetto di cittadinanza è da tempo al centro del dibattito che le scienze sociali europee' dedicano al mutamento sociale ed al mutamento politico. Non si tratta di un caso: infatti, l'analisi della cittadinanza diventa un'occasione per comprendere come migliorare i regimi democratici nell'intento di garantire un maggiore protagonismo politico ai singoli individui ed alle minoranze; soprattutto al fine di' realizzare concretamente una pietra angolare dell'edificio democratico moderno: il principio dell'eguaglianza delle opportunità di vita. Allargare la cittadinanza associando alla cittadinanza sociale la cittadinanza multiculturale significa, in altri termini, offrire risorse politiche in senso lato ai membri dei gruppi sociali più deboli che sono sostanzialmente privi di risorse economiche, sociali e di prestigio. Come raggiungere questa méta non è facile dire; ma un primo passo importante sarebbe la legittimazione di una convergenza sui principio. La cittadinanza europea nelle forme che andrà inevitabilmente ad assumere sarà strettamente legata alla questione della democrazia, nel senso che progettare un rafforzamento ed una diffusione della cittadinanza anche ad un livello multictilturale significa lavorare per realizzare una democrazia migliore in un senso sostanziale, un obiettivo di -fondo che accomuna tutti, immigrati ed autoctoni, e che resta imprescindibile per il buon esito dell'integrazione europea.

* Questo saggio riprende parti della lezione X: "Le forme della cittadinanza", ora in G. (a cura di), Mutamenti in Eurapa. Lezioni di sociologia, Monduzzi Editore, 2002.

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I Naturalmente si tratta, anche negli USA, di un processo complesso e tutt'a!tro che lineare. I suburbi delle grandi città americane soddisfano oggi un impellente bisogno di vivere in una comunità separata. Cinesi, indiani, africani vo-

gliono vivere vicino ai loro simili in una sorta di ghetto volontario. Il melting pot si trasforma in un, insieme di comunità differenti, preoccupate di mantenere una distanza reciptoca. Il censimentò Usa del 2000 svela l'emergere di una 95


nuova forma di apartheid volontario, basata sull'omogeneità etnica: la scelta di relazionarsi socialmente unicamente con coloro che sono affini sul piano etnoculturale migliorerebbe la qualità della vita quotidiana. Neri, ispanici ed orientali non si integrano più tra di loro, se mai prima lo avevano fatto; si rinchiudono in un recinto residenziale omogeneo sul piano etno-culturale. Confermano così in modo forte la loro identità etnica ma lo fanno pur sempre in un quadro generale in cui la cittadinanza mantiene la sua base fondamentale di pluralismo e di tolleranza reciproca. 2 Il termine era usato nella Grecia classica per indicare quegli abitanti della città che, pur avendo una residenza datata, rimanevano esclusi dalla vita pubblica perché il loro status di stranieri non era sanabile. Un modello di integrazione basato sull'assimilazione coatta ha visto imporre lingua, stile di vita e cultura della maggioranza alle minoranze tramite percorsi di socializzazione culturale organizzati e privi di reali alternative. In questo caso le minoranze sono sfruttate economicamente, ma ancor più, forse, dominate politicamente e segregate in vario modo anche in società-Stato che vivono democraticamente e si ispirano ad una cultura politica di origine liberale. Un altro modello di integrazione è quello

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della affirmative action cioè un tipo di procedimento, a carattere temporaneo, che attribuisce una sorta di corsia preferenziale per certi gruppi etnici privilegiandoli nell'ammissione ai corsi di qualificazione, nelle assunzioni et similia. È chiaro che questo procedimento si traduce in una marcata sottolineatura dell'impatto sociopolitico-culturale connesso al "colore della pelle" e non elimina - ma attenua solo temporaneamente - i risentimenti ed i conflitti che stanno alla base del problema.

Note bibliografiche

il primato della politica nell'italia del secolo XXI, CED, 2001. KYMLICKA W., La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, 1998. LEcA J., "Nazionalità e cittadinanza nell'Europa delle immigrazioni" in AA.VY., Italia, Europa, nuove immigrazioni, Fondazione Agnelli, 1990. MARSHALL T. H., Cittadinanza e classe sociale, Utet, 1976. SARTORI G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, 2000. TURNER B. S., Outline of a .Theory of Citizenship, in «Sociology», 24, 1990. CAvL1 L.,


dossier

Màggioritario: i vincitori prendono tutto?

Del modello americano di rappresentanza politica democratica, ciò che è stato immediatamente recepito dagli schieramenti politici italiani vincitori delle elezioni è stata la prassi dello spoil system e dell'assunzione delle più alte cariche istituzionali in forza del mandato elettorale. Se questo è innegabilmente un portato dei sistemi elettorali di tzpo maggioritario del mondo anglosassone, non si può dimenticare che tali sistemi coesistono spesso con un modello di limitazione e bilanciamento dei poteri tale da impedire la cosiddetta 'irannia della maggioranza' Insomma, si tratta di analizzare le cosiddette 'aranzie del maggioritario ' come recita il titolo di un articolo delpresente dossier, individuando i risvolti pratici delle modfìcheprocedurali alfirnzionamento delle istituzioni derivanti dalle leggi 276 e 277 di modifica del sistema elettorale del nostro Paese. Tali leggi, come nel dossier che presentiamo viene più volte ricordato, hanno costruito un sistema "tendenzialmente" maggioritario, comunque influenzato da elementi di selezione proporzionale piuttosto marcati. Un "ibrido" la cui flnzionalità non viene di certo garantita attraverso processi di forzata integrazione di sistemi costituzionali d'oltreoceano... 97


Di sistema politico abbiamo trattato nel passato diverse volte e proprio ai dilemmi "pericoli" del maggioritario dedicammo l'edizione delle "Giornate Cortonesi" del 2000. Ma il dibattito si è spesso spostato sulle immediate conseguenze pratiche sulle pubbliche amministrazioni. Ora è tempo di tornare a sottolineare gli aspetti costituzionalistici del problema. Il modello costituzionale americano che, si ricorda, diede all'inizio poteri quasi inesistenti al proprio Presidente federale e, quindi, al potere esecutivo (che furono per prassi rafforzati soltanto in ragione di esigenze belliche), rappresenta il tzpico esempio di equilibrio dei poteri che molti analisti dovrebbero comprendere in modo più approfondito. Per inciso, si ricorda che gli Stati Uniti rappresentano uno Stato federale con profondissime e radicate legislazioni statali. Inoltre, il modello americano, come ricorda la più avveduta dottrina (e ci piace ricordare le lezioni di Guglielmo Negri a proposito), non si basa sul primato dell'esecutivo, come grossolanamente si crede, quanto su quella Paramountcy ofConstitution, che vede in definitiva la Corte Su-. prema Federale ed il suo Presidente quale istituzione al vertice del sistema. Varrà per tutti ricordare i diversi stop alla legislazione di Roosevelt sanciti dalla massima corte statunitense. Nel dossier che presentiamo, Osvaldo Croci ci ricorda poi come lo stesso sistema maggioritario non sia immune da critiche anche per quanto riguarda la 'kovernabilità" che, in astratto, permetterebbe. Il tutto all'interno di una puntuale analisi politologica delle elezioni nel sistema federale canadese. Si badi bene, a parte l'Inghilterra, sistema giuridico fondato su check and balances "storici ", il sistema maggioritario funziona laddove vi è un complesso sistema federale. Un sistema basato cioè sulla doppia sovranità di Stato federale e Stato centrale. Dove, quindi, vi è un forte e radicato controllo delle corti statali e federali sull'operato dell'esecutivo centrale. Garanzie che da noi non sono ancora radicate, come sottolinea Gabriele Zampagni nella sua analisi di un possibile "statuto dell'opposizione" L'Autore, evidenziando le novità introdotte nella novella sui Regolamenti parlamentari denuncia prop rio la mancanza di una cultura dell'opposizione che ne regoli i limiti di manovra in nome dell'ffettività dell'azione politica ma anche i diritti in relazione alla tutela delle posizioni di minoranza. Quali organi, quali istanze istituzionali possono rappresentare la miglior forma di controllo nei confronti della "tirannia della maggioranza? Si sta giustamente parlando del ruolo dei Presidenti delle Camere (entrambi nella presente legislatura - emanazione della maggioranza parlamentare) e dei poteri del4z Corte dei Conti. 98


Forse sarebbe necessario anche rivedere ed ampliare, in un'ottica federalista, le competenze della Corte Costituzionale. Al momento la nostra Corte, infatti, non configura le competenze di primazia contemplate nel modello americano. Il nostro federalismo, - e se ne parlerà più diffi4samente nel dossier che segue questo -; è agli inizi. Insomma, è necessario un utilizzo politico dei poteri della maggioranza che, saggiamente, sappia costruire una prassi democratica dell'uso della vittoria elettorale. È difficile chiedere ai vincitori di limitare il proprio stesso potere, ma questi dovrebbero ricordare che, in un processo politico basato sull'alternanza, è sempre possibile trovarsi nella diversa situazione di minoranza. E anche questa, è bene ricordarlo, rappresenta il Paese. (MR.)

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Per uno "Statuto" dell'opposizione di Gabriele Zampa gni

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no degli "effetti collaterali" dell'approdo al sistema (prevalentemente) maggioritario, con il conseguente bipolarismo, che ha riguardato il nostro Paese, è stato il diffuso convincimento che questo sistema dovesse, "ontologicamente", garantire un maggiore campo di azione libera del Governo ed una sua più forte responsabilizzazionel. Questa premessa, che si fonda sulla personalizzazione della politica e su una tendenziale distinzione di ruoli tra chi si trovi a governare e chi vi si opponga (caratteristiche riscontrabili nei sistemi elettivi di stampo bipolare), non deve, tuttavia, essere equivocata: in particolare, nella dottrina italiana l'aggettivo maggioritario è stato spesso impiegato unitamente, come si trattasse di un sintagma, al sostantivo governabilità. Invocando l'idea di governabilità, quasi in funzione di "catarsi" rispetto alla cronica instabilità che ha caratterizzato il primo cinquantennio della Repubblica, si è spesso voluto intendere che il Governo, una volta ottenuto il "mandato" diretto dal corpo elettorale, possa agire, incontrastato, nel perseguimento del suo indirizzo politic02 In questa prospettiva, l'esigenza che nasce dalla recente storia istituzionale si trasforma in qualcosa di diverso, cioè in un imperativo che ricorda quello che talvolta campeggia negli autobus delle nostre città e che ammonisce gli utenti di "Non disturbare il conducente". Ogni manifestazione di decisa opposizione rispetto all'operato del Governo in carica potrebbe essere letta come inopportuna ingerenza e disturbo nell'azione di un Governo (e di un programma) liberamente scelti dal corpo elettorale. A rafforzare questo assunto si pone il diffuso convincimento secondo cui, con il sistema maggioritario, la rilevanza dei partiti debba "cedere" sotto il peso specifico delle singole personalità che si propongono all'attenzione del corpo elettorale. In tale contesto, dunque, lo stesso ruolo di opposizione, che non ha da noi un referente "istituzionale", ma che fa capo essenzialmente ai partiti presenti in Parlamento non allineati all'indirizzo politico governativo, risulterebbe fortemente depotenziato. .

LAutore è Dottorando di Ricerca in Diritto Pubblico presso l'Università degli Studi di Perugia 101


Tale interpretazione non risponde affatto a verità. Per esempio, che il sistema maggioritario debba, per natura, portare al depotenziamento del ruolo e del "peso" dei partiti è smentito da una semplice analisi comparata: nel Regno Unito, la "patria" del maggioritario, i partiti continuano a svolgere una funzione centrale ed insostituibile. Non è un caso, ad esempio, che gli studiosi qualifichino il sistema inglese come "governo di partito responsabile", per evidenziare il ruolo decisivo del partito di maggioranza, sia nella scelta del leader e dei candidati, che nella definizione del programma di Governo e nella verifica della sua attuazione 3 In linea generale va precisato che la democrazia deve poggiare la sua essenza su una regola maggioritaria, nel senso che deve essere postulato un diritto, per chi ha i "numeri", di governare. Tale diritto, legato alle responsabilità che chi governa si viene ad assumere, non è assoluto né inattaccabile. Anzi, esso opera nel, quadro di principi e regole che sono parte della Costituzione formale e materiale del Paese. Il principio maggioritario è fra quelli fondamentali ma, in uno Stato di diritto, non è l'unico né l'esclusivo. Assolutizzare il diritto di governance della maggioranza comporta l'epifania di quel monstrum che ha da sempre preoccupato i classici del pensiero politico e che va sotto il nome di "tirannide della maggioranza" 4 Come ben compresero i Padri Fondatori della democrazia americana, nei dibattiti del Federalist, il potere, proprio perché tale, deve avere limiti e deve essere esercitato in un sistema di checks andbalances. La prospettiva, dunque, rispetto alle argomentazioni di partenza, si ribalta: proprio perché in Italia - attraverso la piena applicazione della legge elettorale maggioritaria si va nella direzione di un rafforzamento del potere dell'Esecutivo (o, meglio del raccordo Maggioranza parlamentare-Esecutivo) deve essere garantito - fra l'altro, e con maggiore determinatezza che nel passato -, uno spazio ben definito alla opposizione parlamentare. Poiché si invoca, con sempre maggior convinzione, la governabilità, diviene di giorno in giorno più necessario il riconoscimento o, se si vuole, la istituzionalizzazione di un contraltare chiaro all'indirizzo politico prevalente ed attuato dal Governo. Come ricorda bene F. Sciola 5 il dibattito sulla introduzione, in Italia, dello statuto dell'opposizione è stato riaperto all'indomani dell'approvazione delle leggi 276 e 277 del 1993, introduttive del sistema elettorale maggioritario. E caratteristica tipica ditale sistema, infatti, privilegiare il momento della decisione rispetto a quello della rappresentatività, mediante la trasformazione della minoranza più ampia del corpo elettorale in maggioranza assoluta dei seggi nelle aule parlamentari. Proprio nella presenza di tali effetti distorsivi della rappre.

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sentanza politica, tipica dei sistemi di elezione maggioritari, viene individuata la necessità di garantire una tutela specifica alle minoranze parlamentari, o alla più rappresentativa di esse. Sulla base di queste premesse è ragionevole parlare di uno "Statuto" dell'opposizione: nel caso specifico italiano e al di là di esigenze garantiste, in quanto capace di compensare "l'irruzione" della legge elettorale maggioritaria e per consentire la realizzazione di un processo parlamentare dialettico e più ricco di funzioni. Cos'è il sistema orfano della prassi consociativa, conosciuta e abbondantemente praticata sino allo scorso decennio? All'opposizione può spettare la qualifica di "soggetto costituzionale"? 6 Per rispondere, potrebbe essere utile guardare, in un'ottica comparata e diacronica, ai modelli stranieri e anglosassoni in particolare. Non debbono essere sottaciute, tuttavia, le copiose particolarità italiane che sicuramente influiranno sulla costruzione del modello e che non potranno che differenziano da quello tipico del "sistema" Westminster. L'OPPOSIZIONE SECONDO DUE ACCEZIONI

A questo punto è importante chiarire un potenziale equivoco terminologico: con l'espressione opposizione si possono intendere molti fenomeni più semplicemente definibili in negativo, cioè come i vari aspetti dell'avversione politica al Governo in carica; la lettura "definitoria" e positiva del fenomeno risulta invece più complessa. Si possono enucleare almeno due significati. In una accezione si intende per opposizione la specifica componente di un organo assembleare, il Parlamento, (ma il discorso può estendersi a tutti i livelli, fino ai consigli circoscrizionali), che si trova in minoranza rispetto all'orientamento prevalente dell'organo. Vengono qui in rilievo, soggettivamente, i protagonisti dell'opposizione come portatori di un indirizzo politico alternativo e come controllori dell'operato del Governo in carica. L'opposizione, tuttavia, può essere intesa anche secondo l'accezione funzionale, cioè nella sua qualità di fi€nzione, indipendentemente dai soggetti che se ne rendono protagonisti. Sul piano teorico può accadere che possano svolgere una attività oppositoria anche sostenitori del Governo che, tuttavia, si trovino in dissenso rispetto a determinate questioni. In tale prospettiva, l'opposizione viene intesa come funzione che si caratterizza per avere nella propria disponibilità una serie di strumenti parlamentari da impiegare. Proviamo ad analizzare entrambi i livelli, quello soggettivo e quello fun103


zionale, per come si sono manifestati nella esperienza italiana e, soprattutto, alla luce delle innovazioni derivanti da questa lunga transizione che sembra ancora ben lontana dal concludersi. Il dato materiale da cui prendere le mosse è che nel nostro testo costituzionale è mancato, e continua ancora a mancare, un riferimento esplicito e testuale all'opposizione. È chiaro, come sostiene Sciola 7, che tale rilievo non può bastare a configurare il nostro sistema come illiberale. Un assetto costituzionale che si proclama democratico e attento alle ragioni delle minoranze, come il nostro, non può certamente negare rilevanza e dignità alla funzione oppositoria la quale, anzi, si erge a postulato ineliminabile della democraticità del sistema. Tale mancato riconoscimento formale dell'opposizione, dunque, può essere superato, per usare un'espressione di Lelio Bass0 8, facendo riferimento, in via interpretativa, ai principi che sono insiti nelle norme generali e adattandovi le norme particolari che si trovano scritte nella Costituzione. Tra questi principi, presupposti dal sistema, non può certo mancare quello del pluralismo, così come risulta dal combinato disposto degli articoli 1, 2 e 49 del testo costituzionale. Deve essere aggiunto, incidenter tantum, che anche altre norme costituzionalizzano, presupponendola, la funzione oppositoria parlamentare. Tra queste, vengono in rilievo gli articoli 64 e 94 della Costituzione che identificano l'opposizione parlamentare con quel segmento, minoritario, che nega fiducia al Governo. Al di là, tuttavia, dell'emersione in via esegetica dei diritti dell'opposizione, rimane il fatto, incontestabile, che il nostro ordinamento sia privo di una esplicita costituzionalizzazione delle prerogative e dei limiti dell'opposizione parlamentare. A ciò va aggiunto che in Italia, oltre alla mancata "codificazione" dei diritti oppositori, è stata assente, almeno fino al 1994, una vera tradizione che, impostata sul modello Westminster, permettesse una fisiologica alternanza al Governo ed una, conseguente, differenziazione di ruoli tra maggioranza e opposizione. Sul piano storico in Italia, fino al 1994, non c'è mai stata una tradizione oppositoria in qualche modo avvicinabile a quella inglese, del modello Westminster, per intenderci. Le ragioni di tale realtà sono multiple e complesse, anche se ruotano intorno ad un indiscutibile dato di fatto: i due principali "attori" politici italian1 9 non si sono mai scambiati di ruolo al Governo. Quella che veniva definita come conventio ad excludendum, cioè la convenzione per cui dovesse essere aprioristicamente escluso dal Governo, per motivi ideologici, il maggior partito di opposizione, quello Comunista, ha di fatto 104


impedito l'alternanza al Governo del Paese. Conseguentemente, per quasi un cinquantennio, gli oppositori parlamentari degli Esecutivi in carica non hanno mai potuto assumere la veste di contraltari del Governo in Parlamento, capaci di sostituirne la guida, all'esito di una tornata elettorale. Ciò che in Gran Bretagna è la norma e che va sotto il nome di Swing ofPendulum, in Italia è stato per mezzo secolo un miraggio o magari un obiettivo da raggiungere, impedito nella sua realizzazione da contingenze di caratura non solo interna ma anche e soprattutto internazionale. Conseguentemente ne è derivato un progressivo scolorirsi dell'opposizione come valida alternativa al Governo in carica ed un suo inequivoco caratterizzarsi come forza capace sì di criticare l'operato governativo ma al fine di condizionarlo dall'esterno. PRATICHE CONSOCIATIVE E TUTELA DELLE MINORANZE

L'inesistenza di un vero "Statuto" dell'opposizione, inteso all'inglese, - come insieme di norme capaci di garantire a livello parlamentare la differenziazione e l'emersione di un disegno politico alternativo - ha, dunque, caratterizzato la storia italiana del periodo. È una storia che narra di un rapporto particolarmente confuso e contraddittorio tra gli attori politici espressione della maggioranza governativa e quelli che si collocavano all'opposizione. Se la regula aurea è stata quella della conventio ad excludendum, intesa come esclusione pregiudiziale del Partito Comunista dal Governo, di fatto, a livello parlamentare, si è assistito invece ad una pratica consociativa che è stata l'altra faccia della conventio 10 . Almeno a livello parlamentare, dunque, si è manifestata una affievolita càpacità della maggioranza di attuare il proprio programma politico, cui ha fatto da pendant la possibilità, per l'opposizione in Parlamento, di condividere un potere d'indirizzo, senza immediate responsabilità. Tale realtà ha trovato diretta conferma anche nella riforma dei Regolamenti Parlamentari del 1971, che esigono una serie di maggioranze qualificate per la assunzione di molte decisioni, in modo da "costringere" la maggioranza a cercare una intesa con (alcune, se non tutte) le minoranze parlamentari. Non è un caso se, relativamente a ciò, si è parlato di uno "Statuto" non dell'opposizione ma solo delle "minoranze". Una timida e parziale soluzione di continuità rispetto a tale assetto si è avuta allorquando, per una pluralità di concause, sono venute meno le premesse che sorreggevano la conventio ad excludendum e si è posta, come verosimile, l'eventualità di una alternanza al potere, quando, cioè, il "pendolo" italiano, ha dato l'impressione di iniziare ad ondeggiare. 105


Da quel momento, che coincide cronologicamente con gli ultimi anni, ci si è progressivamente allontanati dalla logica della tutela delle minoranze, per avventurarci, in un processo ben lontano dall'essersi felicemente concluso, verso un riconoscimento dei diritti dell'opposizione. Anche in questa fase si è intervenuti novellando i Regolamenti Parlamentari e consentendo l'emersione di una pluralità di diritti e prerogative delle opposizioni: in particolare devono essere ricordati l'istituzionalizzazione del ruolo e della figura del "Relatore di minoranza", elemento capace di enucleare, sui singoli progetti, una "lettura" alternativa al problema in discussione; le riserve di tempi a vantaggio delle opposizioni, nel caso in cui si discuta di progetti governativi e l'istituzione di un Comitato per la Legislazione, composto in modo da rispecchiare la rappresentanza proporzionale delle forze presenti in Parlamento. LE DIFFICOLTÀ POLITICHE DI DEFINIRE L'OPPOSIZIONE

Nel nostro Paese e nelle condizioni date, sarebbe inimmaginabile arrivare, senza soluzioni di continuità, a un assetto anche solo paragonabile al modello che ha da sempre giocato il ruolo di "Stella Polare" per chi avesse voluto codificare uno Statuto dell'opposizione: quello inglese. Le differenze che allontanano i due modelli costituzionali, quello inglese e il nostro, sono talmente numerose e macroscopiche che una elencazione sarebbe condannata alla incompletezza. A parte l'elemento storico, per cui in Gran Bretagna la Her majesty's Opposition e, in generale, il modello di opposizione competitiva caratterizzano l'assetto politico ormai da tre secoli 12, deve essere aggiunto che in Italia, data la non ancora risolta frammentazione politica, chi volesse "codificare" uno Statuto dell'opposizione, dovrebbe contemperare due esigenze, potenzialmente confliggenti: quella, doverosa, di una istituzionalizzazione dell'opposizione con l'altra, ugualmente rilevante, del ri conoscimento della possibile coesistenza di una pluralità di opposizioni parlamentari e sociali. Sarebbe necessario, infatti, riconoscere o, meglio, istituzionalizzare un leader dell'opposizione in modo da ricondurre ad unità il fenomeno oppositorio, qualificando, dunque, una sola opposizione come "ufficiale". Tale operazione risulta semplice in un Paese come la Gran Bretagna dove, ictu oculi, appare chiaro chi sia il leader della opposizione e, cioè, il candidato Premier che sia rimasto sconfitto nello scontro elettorale, mentre risulta difficoltosa in un Paese come l'Italia in cui, a causa dell'incompleto processo di bipolarizzazione, può con facilità presentarsi la compresenza di più opposizioni rispetto allo stesso Governo. 106


In tale circostanza, focalizzando l'attenzione unicamente sul maggiore degli schieramenti che si contrappongono al Governo in carica, si rischia di "omogeneizzare" a tutti i costi una realtà che è, invece, ancora molto frammentata e pluralistica 13 Al di là del necessàrio riconoscimento normativo di uno Statuto dell'opposizione, bisogna riscontrare che sul piano pratico le stesse opposizioni non sono mai riuscite, 'o non hanno avuto interesse, fino ad, oggi, ad organizzare per esempio - dei Governi-Ombra, capaci di esteriorizzare una condotta alternativa e parallela a' quella del Governo ufficiale: è vero che tali organizzazioni sembrano attagliarsi meglio alla dimensione bipartitica, tipica degli Stati anglosasson1 14 , ma è altrettanto vero che ci si sarebbe potuti aspettare di più da tutte le opposizioni che si sono alternate, dal momento in cui è caduta la conventi0 15 ed il "pendolo" ha iniziato a muoversi. Si deve rilevare, anzi, una certa pigrizia o incapacità, o impossibilità da parte dei partiti anche soltanto a prefigurare, prima del voto, la "squadra" di Governo, destinata a reggere le sorti dello Stato in caso di vittoria alle elezioni 16 .

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STRUMENTI NORMATIVI E CONVENZIONALI DA IMPIEGARE

Il rilievo per cui nel nostro ordinamento, soprattutto dopo l'avvento del sistema elettorale prevalentemente maggioritario, fosse necessaria una istituzionalizzazione dell'opposizione parlamentare o, almeno l'enucleazione di un suo chiaro status, è emerso con forza negli ultimi anni, sia a livello di normazione costituzionale, che ordinaria. In questo quadro non si può dimenticare l'intendimento della Commissione Bicamerale per le riforme Costituzionali che, al di là del suo esito infausto, aveva dato comunque prova di una certa sensibilità su questo tema. L'articolo 83, V comma della proposta di modifica costituzionale, infatti, recitava: Il Regolamento della Camera dei Deputati garantisce i diritti delle opposizioni in ogni fase dell'attività parlamentare; disciplina la designazione da parte delle stesse dei presidenti delle Commissioni aventi fi4nzioni di controllo e di garanzia. Prevede l'iscrizione all'ordine del giorno di proposte e iniziative indicate dalle opposizioni con riserva di tempi e previsione del voto finale. Come si può agevolmente constatare, la Commissione si limitava a dare sanzione positiva ad alcune regole comportamentali già recepite a livello di prassi e consuetudini parlamentari. Quel che rileva, tuttavia, è che si è sentito il bisogno di codificare, mediante gli strumenti combinati della fonte costituzionale e di quella regolamentare, le linee portanti di uno Statuto dell'opposi107


zione parlamentare in Italia 17 . Non meno indicativa su questo piano, anche se relativa ad un ambito territoriale diverso da quello centrale, vale a dire al livello regionale, è stata la recente legge costituzionale n. i del 1999 che al suo articolo 5, benché transitoriamente, stabilisce: è eletto alla carica di consigliere il candidato alla carica di Presidente della giunta regionale che ha conseguito un numero di voti validi immediatamente inferiore a quello del candidato eletto Presidente. Si tratta, evidentemente, di un riconoscimento, benché implicito e bisognoso di perfezionamento, del ruolo del leader dello schieramento politico regionale arrivato secondo e che, presumibilmente, presenta i requisiti più idonei per proporsi come alternativa all'indirizzo politico di maggioranza. Si tratta, tuttavia, di poca cosa. Appare, invece, necessario metter mano ad una serie di comportamenti che trovano la loro disciplina in clausole regolamentari, .legislative o anche solo convenzionali che, funzionali al vecchio impianto proporzionalistico, risultano ormai desuete ed incapaci di interpretare al meglio il "nuovo" corso maggioritario. Uno "Statuto" dell'opposizione dovrebbe contenere una serie di prescrizioni atte a garantire alla parte politica minoritaria la partecipazione al processo legislativo e la sua effettiva visibilità di fronte al corpo elettorale, come canale alternativo a quello prevalente. Sarebbe necessariò, ad esempio, introdurre, in via convenzionale, una procedura di consultazione, attivata dal Presidente del Consiglio in carica, nei confronti del leader dell'opposizione, nei casi in cui si verifichino eventi molto rilevanti e cruciali per la vita politica del nostro Paese, sia di natura ordinaria, che straordinaria. Tra le evenienze ordinarie potrebbero citarsi quelle legate a rilevanti scelte di politica economica che possano incidere sul futuro immediato del Paese, mentre in relazione agli eventi straordinari, la casistica potrebbe riferirsi a eventuali emergenze interne o legate allo scenario internazionale, soprattutto a seguito degli accadimenti del tragico 11 settembre 2001. Una procedura di questo tipo, non certo medita nel funzionamento costituzionale degli altri ordinamenti democratici (basti pensare, ancora una volta, all'Inghilterra), da un lato, legittimerebbe ulteriormente la posizione e le scelte del Presidente del Consiglio di fronte alla necessità di opzioni di emergenza o, comunque, cruciali, al cospetto dell'opinione pubblica e, dall'altro, fornirebbe al leader dell'opposizione, la veste di contraltare unico, riconosciuto ed indiscusso della politica governativa. In questo modo, dunque, il leader dell'opposizione esprimerebbe il suo pensiero nella sua veste di rappresentante del più vasto "schieramento" popolare che si contrappone al Governo in 56.2


carica, ponendosi anche come l'alter ego del Presidente del Consiglio, destinato, nel caso in cui il corpo elettorale lo volesse, all'esito delle elezioni politiche, a sostituirlo nel suo ruolo. Nell'ottica di questa responsabilizzazione della minoranza sarebbe necessario, inoltre, metter mano a tutto il sistema dei quorum e delle maggioranze qualificate che era ragionevole nel vecchio sistema ma che, oggi, deve fare i conti con la realtà "maggioritaria" in corso. A questo proposito emerge subito la questione di una ridefinizione dell'articolo 138, relativo alla revisione costituzionale. Risulta, infatti, necessario innalzare il quorum della maggioranza assoluta per addivenire ad una modifica della Costituzione: è vero che l'opposizione potrebbe, a fronte di una modifica non gradita e approvata con una maggioranza inferiore ai due terzi, impiegare lo strumento del referendum oppositivo, ma è altrettanto vero che, visti gli effetti distorsivi della attribuzione maggioritaria dei seggi, la Costituzione potrebbe essere modificata anche da una maggioranza numerica in Parlamento non corrispondente alla volonta popolare almeno nel campo delicato della Carta fondamentale . Sarebbe opportuno, a questo riguardo, esigere, in ogni caso, una maggioranza qualificata per giungere ad una modifica costituzionale. La stessa problematica dei quorum, tra l'altro, non si limita all'ambito appena descritto, ma investe anche altri settori, come l'elezione del Capo dello Stato, quella dei giudici Costituzionali e quella dei membri laici del CsM. Anche in questo ambito, tuttavia, sarebbe necessario sfuggire da ipotesi semplicistiche e solo in apparenza risolutive: in particolare, non si può ritenere che l'unico rimedio alle pulsioni "ipermaggioritarie" possa essere costituito dall'innalzamento del quorum: l'innesto di quorum particolarmente elevati nel nostro sistema, infatti, potrebbe ingessare eccessivamente i rapporti parlamentari, costringendoli a dei "blocchi" e malfunzionamenti improvvisi. Da una analisi comparata, tra l'altro, si riscontra che l'elevazione del quorum non è quasi mai una condizione necessaria al rispetto dei diritti delle opposizioni nei sistemi di rango maggioritario. La certezza di un fluido funzionamento delle istituzioni parlamentari e del rispetto delle opposizioni dovrebbe, invece, derivare da una serie di specifiche convenzioni, capaci di delimitare nettamente l'area di competenza esclusiva della maggioranza parlamentare, e dei suoi numeri, da quella che richiede, invece, l'intervento obbligato anche dello schieramento avverso e minoritario. In questo senso, dunque, parlare dello "Statuto" della opposizione significherebbe anche parlare dello "Statuto" della maggioranza parlamentare, nel senso di una netta ed inequivocabile distinzione di ruoli e, conseguentemente, di prerogative e diritti. 109


I PRESIDENTI DELLE CAMERE DI ALTIU ORGANI PARLAMENTARI

Un altro tema particolarmente delicato e che dovrebbe assumere una connotazione diversa da quella attuale, riguarda l'elezione ed il ruolo dei Presidenti delle Camere: nel nostro Paese, per lungo tempo si era affermata una convenzione per cui spettava alla opposizione almeno una delle due Presidenze 18 . Tale convenzione, tuttavia, si è arrestata proprio nel 1994, all'indomani della prima tornata maggioritaria quando entrambe le cariche furono ritenute di "competenza" della maggioranza. Tale fatto ha determinato una complessiva riconsiderazione della figura del Presidente di Assemblea. Questo, ormai, al di là dei singoli comportamenti personali, tende a caratterizzarsi come figura integrante della maggioranza, come engagé da parte dei vincitori delle elezioni ed il suo ruolo di arbitro del conflitto parlamentare, in posizione di terzietà, viene progressivamente meno. Il Presidente di Assemblea, infatti, perso il suo rilievo di garante di tutti e della programmazione dei lavori, tende ad acquisire quello di garante della programmazione di maggioranza, sempre in funzione della attuazione di quel programma politico su cui il Governo ha ottenuto il "mandato" dagli elettori. Sarebbe opportuno, invece, tornare ad una elezione consensuale dei vertici della Camere, in modo da poterli ancora qualificare come «uornini della Costituzione" 19, e non più come uomini "della maggioranza" 20. Si tenga presente, a questo proposito, che nella ormai più volte evocata Inghilterra, lo Speaker viene selezionato sulla base di una regola di alternanza secondo un meccanismo bipartisan, sopravvive agli eventuali cambi di orientamento della Assemblea, vota solamente nei casi di parità e proprio per questi motivi viene universalmente riconosciuto come figura istituzionale di garanzia. Alla stessa ratio garantista si ispira l'esigenza di riservare all'opposizione spazi rilevanti all'interno delle Commissioni parlamentari: più precisamente, risulta necessario distinguere tra quelle di controllo e vigilanza e le giunte, da un lato, e quelle permanenti, dall'altro. Relativamente alle prime, proprio per la loro funzione istituzionale, dovrebbe essere riconosciuta indiscutibilmente la Presidenza ad un membro dell'opposizione 21 , mentre in relazione alla natura delle seconde, legate come sono al nesso Governo-Parlamento, può rientrare nella normalità democratica assegnarne la Presidenza a membri della maggioranza politica.

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OPPOSIZIONE, CORTE COSTITUZIONALE, CORTE DEI CONTI

Un ulteriore elemento di rafforzamento dell'opposizione in una democrazia maggioritaria, ancora sconosciuto nel nostro ordinamento, potrebbe consistere nel riconoscimento alla minoranza parlamentare della possibilità di adire direttamente la Corte Costituzionale allo scopo di sentire dichiarata la incostituzionalità di una legge. In questa prospettiva va rilevato come la nostra Carta costituzionale accetti il principio del pluralismo costituzionale come mezzo per bilanciare l'eventuale, eccessivo, potere della maggioranza. La stessa previsione testuale, all'interno della Costituzione, della Corte, infatti, può essere interpretata come correttivo della, sempre possibile, tirannia maggioritaria. In questa costruzione, infatti, viene ad essere infranto il nesso tra principio maggioritario delle deliberazioni e necessaria legittimità delle stesse. Una deliberazione parlamentare (diciamo: una legge), ancorché presa nel rispetto di tutti i canoni procedurai dalla maggioranza di un organo, può risultare comunque lesiva del dettato della Carta fondamentale. Unico organo legittimato a rilevare e condannare" tale illegittimità è, nel nostro ordinamento, la Corte (chiamata, spesso, il "giudice delle leggi") che, proprio per questa sua prerogativa, può giocare un rilevante ruolo di garanzia a presidio dei diritti delle minoranze parlamentar1 22 La possibilità di adire direttamente la Corte, da parte dell'opposizione parlamentare, ancorché massicciamente impiegata in vari ordinamenti stranieri23, non è prevista nel nostro sistema. Si deve ricordare, tuttavia, che il disegno riformatore della Commissione. Bicamerale per le Riforme istituzionali prevedeva una tale innovazione: precisamente il "nuovo" articolo 137 della Costituzione, per come doveva entrare in vigore all'esito dei lavori della Commissione, recitava: La legge costituzionale stabilisce altresì condizioni, limiti e modalità di proposizione della questione di legittimità costituzionale delle leggi, per violazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, da parte di un quinto dei componenti della Camera. Si trattava, come è evidente, di una possibilità residuale e circoscritta (perché legata solo alla supposta violazione di un diritto fondamentale) ma che riconosceva l'opportunità di questo strumento di garanzia in mano all'opposizione, a presidio del rispetto della Carta e contro eventuali e sempre possibili arbitrii della maggioranza. Un altro e, forse, più problematico ambito di intervento, volto a garantire uno "spazio" inviolabile di azione all'opposizione parlamentare, potrebbe es.

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sere legato ad una modifica del rapporto intercorrente tra Parlamento e Corte dei Conti e, più precisamente, tra opposizione parlamentare e Corte dei Conti. La Corte, infatti, fa "del Parlamento il destinatario finale della sua attività referente" 24 e, proprio per la sua caratterizzazione funzionale di istituzione di controllo, non può che risultare utile, il più delle volte, all'azione della opposizione parlamentare 25 È evidente, infatti che, quantomeno defacto, il supporto tecnico derivante dalle analisi della Corte dei Conti costituisce (o, almeno, dovrebbe costituire) un elemento forte e qualificato di guida per l'azione oppositoria parlamentare. In particolare oggi, dopo il tramonto definitivo del predominio del controllo preventivo di legalità degli atti amministrativi e l'emersione del nuovo modello di controllo di natura successiva, fondato sull'analisi dei risultati effettivamente prodotti dalla Pubblica Amministrazione, risulterebbe particolarmente utile un canale privilegiato di comunicazione tra la Corte e chi deve esercitare, per natura, una funzione di controllo, seppur solo politico, cioè l'opposizione parlamentare. In questo senso, dunque, l'opposizione, più che l'intero Parlamento inteso organicamente, come istituzione, avrebbe un rilevante interesse a poter affidare direttamente alla Corte dei Conti inchieste e studi relativi alla gestione finanziaria dello Stato. Sul piano pratico, al fine di consentire l'esperibilità di un tale potere conoscitivo ed ispettivo dell'opposizione, sarebbe necessario emendare i vigenti Regolamenti Parlamentari. In realtà, dobbiamo chiarire che già ad oggi i Regolamenti in vigore regolano l'insieme dei rapporti tra Parlamento e Corte dei Conti. Il Capo XXXV del Regolamento della Camera dei Deputati, ad esempio, è intitolato "Dei rapporti con la Corte dei Conti" e regola, nei tre articoli di cui si compone, la possibile interazione tra i due organi. Precisamente, l'articolo 148 disciplina la richiesta di informazioni, chiarimenti e documenti alla Corte da parte della Camera dei Deputati. Secondo il tenore della disposizione, sono legittimati a formulare tali richieste un Presidente di Commissione, per la materia di sua competenza, o un Presidente di Gruppo Parlamentare, entrambi attraverso la mediazione del Presidente della Camera. L'articolo 149, invece, riguarda le relazioni che la Corte invia al Parlamento sulla gestione degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, prevedendo che il loro esame sia effettuato dalla Commissione Parlamentare competente per materia e che un quinto dei membri della Commissione stessa possa chiedere alla Corte ulteriori informazioni ed elementi di giudizio. Anche in questo caso, l'unico organo capace di agire in nome e per conto dei richiedenti è il Presidente della Camera, configurato nella sua funzione di organo di garanzia 26 .

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Un ipotetico emendamento di tale normativa dovrebbe consentire ad una minoranza "qualificata" delle Camere di potersi erigere ad attrice istituzionale di fronte alla Corte 27 in grado di promuovere ed innescare procedimenti, non solo limitati alla sfera "conoscitiva", ma estesi anche a quella "ispettiva", e di convocare, mediante apposite audizioni, gli stessi magistrati contabili. Una innovazione di questo tipo produrrebbe il sicuro risultato di condurre verso un rafforzamento delle garanzie del potere ispettivo parlamentare e, conseguentemente, di quello dell'opposizione nel suo complesso. Chi si oppone al Governo in carica, infatti, potrebbe fruire dell'apporto di un organo di grande rilevanza costituzionale il quale, tra l'altro, mediante le sue analisi, potrebbe influire con maggiore incisività sulle scelte governative, magari suggerendone, in certi casi, una maggiore ponderazione. Un apporto, comunque, tecnico e soprattutto indipendente, cioè in nessun modo caratterizzato da un pregiudizio antigovernativo. ,

Fuoiu DALLE TENTAZIONI DI "INClUdO" La rassegna fin qui fatta riguarda soltanto alcuni dei molteplici problemi che il tema dello statuto dell'opposizione inevitabilmente pone. Si può comprendere come le democrazie maggioritarie, a tutte le latitudini del mondo, abbiano dimostrato di funzionare bene soltanto se riescono a tracciare linee di demarcazione nette tra l'area di competenza del continuum ParlamentoGoverno, destinata all'attuazione del programma 28, e quella in cui è doveroso ricercare un consenso bipartisan, con le opposizioni. Su questa necessaria differenziazione di ruoli e di competenze già Kelsen aveva avuto modo di soffermarsi: secondo l'illustre giurista viennese, infatti, la nozione di maggioranza presuppone, per definizione, l'esistenza di una minoranza e, conseguentemente, il diritto della maggioranza presuppone il diritto all'esistenza di una minoranza. I due concetti, dunque, possono essere letti in una dimensione dissociata, ma debbono essere analizzati come elementi che condeterminano, insieme, il buon funzionamento del sistema. Una opposizione forte, autorevole e riconosciuta, infatti, migliora gli effetti delle dinamiche politiche perché, grazie ad essa, viene massimizzata l'utilità del conflitto e si produce il massimo di autocorrezione 29 Una tale, univoca e riconosciuta differenziazione di ruoli, qualora intervenisse in modo razionale nel nostro Paese, ancora caratterizzato da elementi maggioritari parzialmente indefiniti, produrrebbe anche l'ulteriore e benefico effetto di far sparire definitivamente dal lessico politico e giornalistico quella .

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espressione odiosa, l'inciucio, con cui si intende, spregiativamente, l'accordo "al ribasso", promosso e gestito per scopi oscuri, sulla pelle e contro la volontà del vero detentore della sovranità, il corpo elettorale che, troppo spesso, di fronte ai suoi rappresentati politici si è sentito "in terra barbara", proprio come Ovidio al cospetto degli Scii.

In relazione alla tematica della modifica in senso bipolare del sistema politico italiano, bisogna precisare che questa non è coincisa, senza residui, con la modifica della legge elettorale: nel 1994, infatti, in occasione del primo impiego della legge elettorale prevalentemente maggioritaria, non si erano affatto verificate le condizioni, neppure in campagna elettorale, per un vero bipolarismo: si trattò, piuttosto, di una forma atipica di tripolarismo in cui, tra un Polo di Sinistra ed uno, disorganico per la presenza della Lega a! Nord e di Alleanza Nazionale al Sud, di Destra, si frapponeva un terzo Polo di ispirazione centrista e che, alla prova dei fatti, ottenne un discreto successo elettorale, superando il 10% dei suffragi. Sembra, pertanto, corretta l'affermazione di S. FABBRINI, Tra pressioni e veti. Il cambiamento politico in Italia, RomaBari, 2000 p. 123, secondo il quale le elezioni parlamentari del 21 Aprile 1996 sono state le prime (nella storia repubblicana) ad essere condotte secondo una logica prevalentemente bipolare da parte di coalizioni nuove e significativamente definite. A onor di verità, bisognerebbe aggiungere che anche in quella circostanza un attore politico di rilievo numerico non secondario, la Lega Nord, si propose distaccata dalle due più grandi coalizioni. 2 Anche a proposito di questo dichiarato "mandato" che i Governi riceverebbero da parte del corpo elettorale, molto sarebbe da discutere. In questa sede, incidentalmente, basta ricordare I

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che, se è vero che, di fatto, il corpo elettorale esprime una preferenza tra due opzioni politiche contrastanti, ciò non può essere trasferito, senza residui, sul piano del diritto. In particolare, mette in guardia da questa temeraria equiparazione tra "fatto" e "diritto" M. VoLPI, La natura della forma di Governo dopo il 1994, pubblicato sul sito www.associazionedeicostituziona!isti.it, il quale precisa come tale distinzione debba essere sempre mantenuta, anche quando il fatto incida sulla attuazione delle previsioni normative. Ad esempio, l'elezione "di fatto" del Premier ne comporta, innegabilmente, una forte legittimazione, ma non una assoluta inamovibilità nel corso della legislatura. 3 Anche questo rilievo viene evidenziato da M.VOLPI, La natura..., op. cit. e da O. MASSARI,

Gran Bretagna: un sistema finzionale, il governo di partito responsabile, in O. MASSARI e G. PASQUINO (a cura di), Rappresentare e governare, Bologna 1994, p. 25 ' Molto interessante risulta, su questo tema, il contributo di G. SARTORI, I diritti del vincitore non sono tirannide, in «Corriere della Sera» del 5 febbraio 2002, p. 31. In Lo statuto dell'opposizione parlamentare nell'ordinamento italiano, Firenze, 2001, p. 80. 6 Ad oggi, infatti, come chiarisce M.E. GENNUSA, La posizione costituzionale dell'opposizione Milano, 2000, p. 286, nel nostro ordinamento non siamo ancora in presenza di una opposizione (ed eventualmente di altre minoranze parlamen-


tari), ma semplicemente di opposizioni ancora tutte da tutelarsi con un trattamento assolutamente parifìcatorio. Vedi E Scioi, op. cit., p. 77. 8 Si veda, a questo proposito, L. BASSO, Na-

tura e finzione dell'opposizione nell'ordinamento costituzionale italiano, Studi costituzionali, Milano 1958. Per un approfondimento della tematica relativa alla conventio ad excludendum, si rinvia a S. Sicuni, Maggioranza, minoranze e Opposizione nell'ordinamento costituzionale italiano, Milano 1984. IO Narra molto efficacemente questa condizione di profonda e continua contraddittorietà A. MANZELLA alla voce Opposizione Parlamentare, in Enciclopedia giuridica, )OU, 1990. Il Si esprime in questi termini, tra gli altri, M.E. GENN USA, Lo "Statuto" dell'Opposizione, in «Le istituzioni del Federalismo», n. 1, 2001, p. 241 ss. 12 Riporta questa ricostruzione storica, tra gli altri, A. MIS5IROLI, I governi dell'opposizione: Gran Bretagna e Repubblica Federale Tedesca, in G. PASQUINO, Opposizione, Governo Ombra, Alternativa, Roma-Bari, 1990. 1311 problema investe la questione, spesso dibattuta, della riscontrabilità, o meno, nei vari ordinamenti, di una Opposizione "ufficiale": in Gran Bretagna con il termine "Opposizione" si identifica un vero e proprio organo dello Stato, capace potenzialmente di sostituirsi al Governo in carica e che, tra l'altro ne assume anche le sembianze: è lo Shadow cabinet. Le altre forze minori, non hanno la dignità di Opposizione, ma al limite possono essere qualificate come "partecipi" dell'Opposizione. 14 Si veda, a questo proposito, l'interessante contributo di G. DE VERGOTTINI, Lo "Shadow Gabinet» Saggio comparativo sul rilievo dell'Opposizione nel sistema parlamentare britannico, Milano, 1973. 15 In realtà, soprattutto sul versante di sinistra del circuito politico italiano, qualcosa c'è stato, anche se gli esiti sono stati modesti: nel

1989 il Pci tentò di prefigurare un Governo ombra. Si veda, sul punto, M. CAJwucci, Un nuovo

modello di organizzazione dell'Opposizione: Il Governo ombra del Pci, in «PoI. Del Dir.», 1990, p. 619 Ss. Anche ultimamente il Centrosinistra si è impegnato in un progetto analogo, naufragato quasi subito. Sul punto si veda E SAULINO, I Ds fermano il Governo Ombra, in «Corriere della Sera» del 28 giugno 2001. 16 Anche durante l'ultima campagna elettorale, conclusasi con la tornata dell'il maggio 2001, alle promesse dei leader dei due schieramenti, particolarmente di quello di centro-destra, in ordine alla enunciazione, prima del voto, della squadra di Governo, non sono seguiti fatti degni di nota. Una delle concause del fenomeno può essere rintracciata, tra l'altro, nella diffidenza di personalità di prestigio a "spendere" il loro nome in una battaglia che, vista da un versante come dall'altro, appariva tutt'altro che vinta a pochi giorni dal voto. 17 Si possono leggere, a questo proposito, i rilievi svolti da G. DE CESARE, Maggioranza e opposizione nell'ultimo progetto della Commissione bicamerale, in «Nuovi Studi politici», 1999 n. 2, p. 55. 18 Questa convenzione, infatti, prende l'avvio nel lontano 1976 e si protrae, pressoché senza soluzioni di continuità, fino al 1994. 19 Questa espressione è stata utilizzata, tra gli altri, da A. MANZELLA, Il Parlamento, Bolognal99l,p. 111. 20 Sulla necessità di concepire il ruolo del Presidente di Assemblea come arbitrale e non inquinato da eccessive connotazioni di appartenenza partitica, insistono S. Tosi e A. MANNINO, Diritto Parlamentare, Milano, 1999, p. 139 ss. 21 Si deve riconoscere, in ogni caso, che già, pur in assenza di un vero Statuto dell'opposizione, esiste una consolidata convenzione per cui viene assegnata all'opposizione la presidenza di questi tipi di Commissioni. 22 Analizza con precisione questo risvolto F. SclolÀ, op. cit. 23 Tra gli Stati che consentono il ricorso ai Tribunali costituzionali, considerati come "cu115


stodi della Costituzione" da parte delle minoranze, si può segnalare la Germania che vanta una lunga tradizione in materia. Sul punto, vedi L. MEzzErri, Giustizia costituzionale e opposizione parlamentare. Modelli europei a confronto, Rimini, 1992, p. 90 ss. 24 Tale significativa espressione è tratta dal volume di S. RISTUCCLA, Amministrare e Gover-

nare. Governo, Parlamento, Amministrazione nella crisi del sistema politico, Roma, 1980, p. 489. 25 La nostra Costituzione disciplina la Corte dei Conti, insieme al Consiglio di Stato e al Consiglio Nazionale dell'economia e del lavoro nella prte Il "Ordinamento della Repubblica" titolo III "Il Governo", sezione III "Gli organi ausiliari". Precisamente, l'articolo 100 della Carta, in coda al suo terzo comma, recita: "(La Corte dei Conti) Riferisce direttamente alla Camere sul risultato del riscontro eseguito". Il terzo comma, inoltre, riferendosi anche al Consiglio di Stato, stabilisce: "La legge assicura l'indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al Governo". 26 L'ultimo articolo del Regolamento che riguarda il rapporto tra Camera dei Deputati e Corte dei Conti è il 150, che dispone: I decreti registrati con riserva, che la Corte dei Conti trasmette al Parlamento, sono subito assegnati alla Commissione competente per materia, che provvede ad esaminarli entro un mese dall'assegnazione ascoltando il Ministro che ha chiesto

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la registrazione con riserva. La Commissione può altresì richiedere, tramite il Presidente della Camera, alla Corte dei Conti ulteriori informazioni ed elementi di giudizio. La Commissione può concludere il proprio esame votando una risoluzione, a norma dell'articolo 117. Da notare che, in tale articolo, manca qualsiasi riferimento al potere, da parte di una minoranza della Commissione, di promuovere atti ispettivi o conoscitivi da parte della Corte dei Conti. 27 Il rilievo per cui la nostra Carta Costituzionale citi e regoli l'azione della Corte dei Conti non significa affatto che nel nostro ordinamento sia stato impostato un modello ingessato e immutabile di Corte. Come chiarisce, infatti, S. RISTUCCIA in op. cit. p. 490, nella Costituzione non è stato calato alcun modello compiuto e rigido del controllo e delle relative procedure di esercizio ma c'è, piuttosto, l'indicazione di una serie di determinati rapporti funzionali. Tale indicazione è compatibile con più di un modello di attività di controllo. 28 In questo quadro il Governo diviene centro propulsore della normazione, così da trovarsi in possesso di tutti gli strumenti tecnici e normativi atti a consentirgli di portare avanti il proprio programma, in funzione del quale ha ottenuto il "mandato" dal corpo elettorale. 29 Si legga, a questo proposito, .G, F. PAsQuINO, Per l'opposizione che si fa Governo, RomaBari 1995.


Le garanzie del maggioritario. Note a margine di un convegno

Le preoccupazioni espresse nell'articolo precedente e le indicazioni ivi suggerite sono ormai al centro del dibattito. Ne è dimostrazione il Convegno organizzato dal «Patto" di Mario Segni, il 26marzo scorso.

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quasi dieci anni dalla "svolta" elettorale italiana, realizzatasi mediante il referendum del 18 aprile 1993, molti dei "protagonisti" di quella stagione di rifòrme si sono incontrati, nel marzo scorso, in un convegno organizzato allo scopo di trarre un bilancio consuntivo di quella esperienza e, soprattutto, dei suoi risultati. L'incontro, significativamente denominato "Le garanzie nel maggioritario", mirava ad analizzare i risvolti pratici derivanti dalla modifica della legge elettorale nel nostro Paese, i cui effetti, lungi dal limitarsi ad interessare tematiche tecnicistiche o meramente "algebriche", hanno investito l'intera vitalità della società italiana, soprattutto in riferimento al suo rapporto con la contesa politica di ogni giorno. Ad onor di verità, dovrebbe essere segnalato che il titolo del dibattito, "Le garanzie nel maggioritario", sembra pòstulare l'avvento, nel nostro sistema, di una legge elettorale sic et simpliciter maggioritaria, mentre sappiamo che così non è: sulla base delle leggi 276 e 277 del 1993, entrambe successive al referendum elettorale, il nostro Paese si è dotato di un sistema che, all'interno di un tronco prevalentemente maggioritario, innesta una buona componente (il 25%) di selezione proporzionale, tanto alla Camera dei Deputati che al Senato. L'intendimento dei promotori, reso manifesto sin dall'apertura del convegno, era quello di dar luogo ad una verifica non tanto del sistema (prevalentemente) maggioritario quanto del suo manifestarsi e realizzarsi in concreto nella realtà italiana, caratterizzata da una tradizione quasi cinquantennale di selezione proporzionale della classe dirigente. La platea dei relatori e dei partecipanti al dibattito è stata particolarmente ricca, raccogliendo un grande numero di personalità, tutte legate, seppur a diverso titolo, all'attuazione della riforma maggioritaria nel nostro Paese. È 117


stato particolarmente interessante notare anche come il tempo e la prassi concreta che hanno caratterizzato questi dieci anni di vita politica italiana abbiano modificato le valutazioni di molti studiosi che, arruolatisi con convinzione ed entusiasmo per combattere la "battaglia" maggioritaria del 1993, si trovano, oggi, su posizioni diverse se non, addirittura, contrapposte. Tra coloro che hanno preso parte alla discussione debbono essere ricordati, oltre all'organizzatore Mario Segni, Giuseppe Basini, Giuseppe Calderisi, Stefano Ceccanti, Maurizio Chiocchetti, Giacinto della Cananea Tommaso Edoardo Frosini, Giovanni Guzzetta, Sergio Lariccia, Giorgio Lombardi, Massimo Luciani, Andrea Manzella, Achille Occhetto, Giorgio Rebuffa, Michele Salvati, Marco Taradash e Giovanni Verde. L'ITAUCA VOCAZIONE MASSIMALISTA

Il primo problema che si è presentato è stato di caratura culturale, come ha correttamente notato il Professor Verde nella sua relazione: l'Italia è un Paese storicamente abituato a vivere le lotte e le passioni politiche secondo una prospettiva "massimalista". Questo dato, che deriva, forse, dall'abitudine italica di ragionare per concetti astratti e deduzioni, così da trasformare ogni questione in una questione di principio ed ogni contradditore in un nemico" potenziale, si attagliava bene ad un sistema elettorale proporzionale che permetteva, mediante i suoi tipici "ammortizzatori" consensuali, un addolcimento dei conflitti. Tale tendenza si è, quindi, aggravata nel momento in cui alla tradizione massimalista, ancora ben vigorosa nel nostro Paese, si è aggiunto l'impiego dello strumento maggioritario, ontologicamente portato ad acuire, invece che a limitare, ogni scontro. Il sistema maggioritario, infatti, si caratterizza per postulare la fisiologia del conflitto, intesa come costanza mmterrotta della competizione dialettica, all'esito della quale qualcuno vince e qualcun altro, invece, soccombe. Secondo la visuale maggioritaria, dunque, i poteri, anche quelli pubblici, sono contrapposti ed hanno una sorta di "vocazione" ad agire in conflitto. La realtà italiana, purtroppo, molto spesso si è dimostrata incapace di gestire questo portato naturale del sistema maggioritario e ne ha, conseguentemente, esasperato le debolezze. Di questa premessa culturale si è dimostrato pienamente consapevole l'ispiratore e regista della "antica" battaglia maggioritaria, Mario Segni, che ha voluto segnalare come molti elementi di preoccupazione sussistano, oggi, in un contesto come quello italiano in cui, a fronte di una legge elettorale (prevalentemente) maggioritaria, non corrisponde sempre un adeguato assetto 118


politico che permetta al meccanismo di produrre i suoi effetti benefici. In particolare, Segni ha focalizzato l'attenzione su una frequente "disfunzione" connessa al sistema maggioritario e che si sostanzia nell'eccessivo accentramento di potere che può assumere anche, in certi contesti, il carattere della dittatura della maggioranza . Tale fenomeno, ricorrente e segnalato nella discussione politica "centrale", tende ad estendersi anche in ambito amministrativo e locale, anch'esso contrassegnato dall'approdo al sistema maggioritario e in cui sempre con maggior insistenza si parla di sindaci-concentratori di potere. CONCENTRAZIONE DEI POTERI E GARANZIE

È innegabile, infatti, che il sistema maggioritario, per sua natura, tenda ad incrementare, oltre al livello dello scontro, anche il quantum di concentrazione di potere nelle mani dei "vincitori" e che, proprio per questo motivo, sia necessario garantire un complementare spazio di azione alle opposizioni o a chi, comunque, non si allinea al disegno politico del raccordo Governo-maggioranza. Laumento delle garanzie, dunque, non deve essere letto come elemento contraddittorio rispetto allo "spirito" maggioritario, ma, al contrario, come necessaria riforma al fine di garantire il buon funzionamento e la democraticità del sistema. Il punto centrale del dibattito, dunque, si è collocato nell'area della ricerca di un sistema organico di garanzie che assicuri agli schieramenti in contesa non solo il loro diritto all'esistenza, ma anche quello alla conquista del Governo, nel rispetto della regola aurea delle prassi maggioritarie, quella dell'alternanza. Un fondamentale postulato dei sistemi maggioritari, infatti, è che i opposizione debba abbandonare ogni vocazione meramente difensiva della propria identità (le "aree" protette di mera rappresentanza di bandiera possono sussistere ma costituiscono, in ogni caso, elementi trascurabili), per sposare una funzione competitivo-offensiva, in grado di consentirle di diventare, un giorno, maggioranza. In Italia, - differentemente che negli Stati Uniti ed in Inghilterra, dove il sistema delle garanzie poggia su tradizioni antiche, comuni e condivise, che non necessitano di una consacrazione scritta -, è inevitabile procedere ad una "codificazione" delle garanzie, mediante io strumento normativo. Dietro io slogan "Creare le garanzie con le norme" si nasconde, infatti, la necessità di 119


dar luogo ad una sorta di actiofinium regundorum che distingua nettamente e normativamente l'area (ed il diritto) di chi governa dallo spazio, inviolabile, riservato a chi contrasta gli orientamenti prevalenti. Non è importante quale strumento normativo venga impiegato potendosi trattare, indifferentemente, di fonti di grado costituzionale, legislativo o anche solo regolamentare: ciò che conta è che venga normativizzato una volta per tutte un sistema organico di garanzie, in grado di limitare le controindicazioni, forse fisiologiche, del sistema maggioritario e di consentire la stabilizzazione ed il consolidamento della democrazia competitiva.

Pianeta giustizia e pianeta informazione All'interno di questo sistema di garanzie sono stati individuati, specificamente, due settori, per così dire particolarmente delicati e "sensibili", cioè le tematiche ruotanti intorno al "pianeta-giustizia" e quelle relative al necessario pluralismo dell'informazione. Relativamente a quest'ultima, in particolare, deve essere precisato che se è vero che nel sistema maggioritario prevale il conflitto e la regola per cui tutti gli interessi in lotta debbano trovare un qualche canale qualificato di rappresentazione, allora si pone come imperativo strutturale ed imprescindibile del sistema quello per cui il Governo non possa in alcun modo controllare i mezzi di informazione. Una lotta in cui un solo competitore dispone di strumenti determinanti per la sua conduzione e per il suo esito, trasformerebbe la sana conflittualità dialettica nel terreno in cui domina la sola legge della giungla. A seconda del "livello" in cui operano, le garanzie possono assumere una triplice natura: si possono distinguere, quindi, garanzie di tipo istituzionale, giurisdizionale o politico. PROFILO DELLE GARANZIE ISTITUZIONALI

Relativamente all'analisi delle garanzie istituzionali, è stata ribadita l'osservazione che il nostro ordinamento è, ad oggi, sostanzialmente privo di un sistema di riconoscimento e istituzionalizzazione della opposizione parlamentare, intesa come forza transitoriamente esclusa dal Governo ma capace, in prospettiva, di conquistarne la guida. Sono presenti, semmai, regole e prassi a difesa delle minoranze parlamentari, ma non viene riconosciuta ed istituzionalizzata la figura dell'opposizione ufficiale (come avviene, ad esempio, in Inghilterra). 120


Questa realtà finisce per intersecarsi, d'altra parte, con il progressivo depauperamento delle funzioni parlamentari, "attaccate", ormai, da più fronti: dall'alto, mediante l'opera di erosione delle competenze da parte dell'Unione Europea, dal livello orizzontale, a causa dell'eccessivo e "invadente" potere normativo del Governo e, infine, dal basso, a causa del nuovo e sempre più rilevante regionalismo che invoca con continua veemenza, inesplorati spazi di azione. Appare chiaro, in questa prospettiva, che una "svalutazione" del prestigio e del rilievo del Parlamento porti con sé un impoverimento della incidenza dell'opposizione, tenuto anche presente il fatto che la maggioranza parlamentare dispone, proprio perché è tale, di molti altri mezzi di coesione e di esercizio del potere, mentre l'opposizione trova principalmente nel Parlamento il "luogo" fisico in cui può agire con efficacia. Appare, dunque, non rinviabile la necessità di dar luogo ad un vero "Statuto" dell'opposizione, intesa, quest'ultima, come vero e proprio soggetto politico, forse anche istituzionale, molto più rilevante della mera sommatoria delle minoranze parlamentari (era stato Andrea Manzella, qualche tempo fa, ad evidenziare la fondamentale distinzione tra il concetto di minoranze, al plurale, e quello di opposizione, al singolare). Tale Statuto dovrebbe rappresentare il contenuto minimo ed inalienabile delle prerogative oppositorie, contenendo al suo interno, almeno, alcune garanzie fondamentali come, a mero titolo esemplificativo, il potere di co-determinare il contenuto dell'ordine dei lavori, la possibilità di costituire commissioni d'inchiesta e il rafforzamento degli strumenti di sindacato ispettivo. Le garanzie, tuttavia, non potrebbero limitarsi al solo ambito istituzionale, ma dovrebbero estendersi anche all'alveo giurisdizionale, investendo il ruolo ed il prestigio della Consulta. All'opposizione, in questa prospettiva, dovrebbe essere sempre garantita l'interazione con la Corte Costituzionale come strumento di presidio e controllo permanente della legalità delle procedure parlamentari, anche attraverso la giustiziabilità dei conflitti eventualmente insorti. Sul piano delle garanzie di ordine politico, invece, è condizione d'efficacia la coesione dell'opposizione, soprattutto in vista del pericolo di una sua dispersione e di una, conseguente, incapacità di porsi come soggetto autorevole e candidato a prendere le redini del Governo. Dall'incontro organizzato da Segni, dunque, sono emerse una prognosi, fondata sulla analisi delle inefficienze e dei limiti del sistema maggioritario italiano, ed una diagnosi, per quel che riguarda il futuro, anche immediato, 121


del nostro Paese: a fronte degli indiscutibili ed evidenti malfunzionamenti del sistema maggioritario, che sono stati riscontrati nella ormai decennale prassi applicativa, le alternative poste di fronte agli operatori del diritto non potevano che essere due: rassegnarsi all'idea che l'Italia non si possa permettere un sistema realmente maggioritario, con il suo conseguente carico di conflittualità permanente, con ciò decidendo un "ritorno al passato", nel senso di reintrodurre il sistema proporzionale, oppure confidare ancora nella possibilità di una razionalizzazione e semplificazione del congegno, in grado di consentire un assorbimento ragionevole e funzionale della regola maggioritaria nel "sistema" Italia. Nonostante le difformità di premesse, analisi e prospettive, emerse tra i relatori, sembra di poter affermare che la maggioranza di costoro continui a riporre una certa fiducia nella seconda delle due alternative. (G. Z.)

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Il maggioritario a turno unico: l'esperienza canadese dì Osvaldo Croci

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na delle diatribe più accese nella vita politica italiana degli anni Novanta ha riguardato la riforma del sistema elettorale. Il referendum del 1991 abolì il voto di preferenza perché ritenuto strumento che favoriva la corruzione politica. Nell'agosto del 1993, in seguito ad un secondo referendum, venne adottata una nuova legge elettorale, subito ribattezzata "Mattarellum" dal nome del suo elaboratore, il deputato Sergio Mattarella. Il nuovo sistema da essa costituito era di tipo tipo ibrido, o misto, in quanto prevedeva che i tre quarti del Parlamento (Camera e Senato) fossero eletti su base maggioritaria mentre il restante quarto continuava ad essere eletto su base proporzionale!. Il dibattito sulla riforma è poi continuato concentrandosi sulla necessità o meno di eliminare la rimanente quota proporzionale ed adottare il sistema maggioritario puro. Un referendum a questo proposito tenuto il 18 aprile 1999 ha indicato che il 9 1,5% dei votanti erano a favore del maggioritario puro ma il "Mattarellum" resta, per ora, in vigore perché il referendum non ha raggiunto il quorum necessario (50% più uno degli aventi diritto al voto). Solo il 49,6% degli elettori, infatti, si sono recati alle urne 2 L'elettore italiano ha, ovviamente, molta dimestichezza con i problemi associati al sistema proporzionale ma conosce in genere ben poco quelli associa-. ti al sistema maggioritario. L'acceso dibattito sulla riforma inoltre, ha finito con l'offuscare piuttosto che chiarire le conseguenze che l'adozione del sistema maggioritario avrebbe in Italia. Così, mentre in Canada, ove il sistema maggioritario si usa sia a livello federale che provinciale, si sta da anni considerando l'adozione di un sistema più proporzionale 3 in Italia si agogna al sistema maggioritario che a volte viene addirittura visto come una panacea capace di risolvere tutti i mali, reali e immaginari, che affliggono il Paese. Questo articolo esamina i problemi del sistema maggioritario nel contesto canadese e conclude che gli entusiasmi italiani per tale sistema sono mal ripo.

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L'Autore è Professore Associato, presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Memoria! University ofNewfound!and, Canada. 123


sii: l'erba del prato canadese non è nessariamente più verde di quello italiano. Dopo una breve discussione del ruolo dei sistemi elettorale, l'articolo passa in rassegna i problemi associati al sistema maggioritario così come si sono manifestati in Canada, avanza delle ipotesi sulle conseguenze che l'adozione di tale sistema potrebbe avere in Italia, e si chiude con una riflessione sull'impatto che il sistema maggioritario ha nella concettualizzazione del discorso politico e nei processi di decisione.

Tiri DI SISTEMI ELETTORALI Un sistema elettorale è essenzialmente un meccanismo per tradurre voti in seggi. La distinzione principale è tra sistema proporzionale e sistema maggioritario. Ognuno di questi sistemi comprende vari sottotipi. Questo articolo esamina gli effetti del maggioritario a turno unico conosciuto anche come "sistema "Vestminster". Ilsistema proporzionale assegna ad ogni partito una percentuale di seggi in misura più o meno proporzionale alla percentuale di voti ottenuta. Tale sistema si basa sul principio che i deputati sono portavoci di interessi sociali, così come aggregati e rappresentati da vari partiti politici, su base nazionale. La conseguenza principale di questo sistema è che raramente, almeno in società che presentano numerose divisioni sociali, economiche, ideologiche o politiche, un partito riesce ad ottenere un numero di seggi sufficiente a formare un governo di maggioranza. I governi, quindi, sono formati da coalizioni di partiti che, a causa di disaccordi, spesso non arrivano al termine del loro mandato. Tale è stata l'esperienza in Italia dove l'attuale secondo governo Berlusconi è il sessantatreesimo dalla caduta di quello di Mussolini nel luglio del 1943. Il Canada, invece, dal 1945 ad oggi ha cambiato governo soltanto diciotto volte. Il sistema maggioritario, al contrario di quello proporzionale, si basa sul vecchio principio di rappresentazione territoriale. Ogni deputato rappresenta in altre parole, uno specifico collegio elettorale. 4 La conseguenza principale del sistema maggioritario in un regime parlamentare è che esso di solito, anche se non sempre nè necessariamente, permette ad un solo partito di formare un governo che gode di una maggioranza parlamentare, facilitando così quella che viene impropriamente chiamata la "governabilità". Questo avviene perchè tale sistema deforma il rapporto tra voti ricevuti e seggi ottenuti. Tale deformazione favorisce di solito, ma non sempre né necessariamente, il parti124


to che ha ottenuto la maggioranza relativa di voti. Tale partito si vede assegnata, infatti, una percentuale di seggi superiore alla percentuale di voti ottenuta. I partiti minori, invece, con l'eccezione di quelli che possono contare su un forte insediamento regionale, ricevono una percentuale di seggi inferiore alla percentuale di voti ottenuti.

VANTAGGI DEL MAGGIORJTÀRJO

Bipartitismo. Una delle ragioni per cui in Italia si guarda con simpatia al maggioritario è che i suoi più ardenti sostenitori 5 hanno presentato la sua adozione come mezzo per ridurre il numero di partiti ed arrivare a un sistema bipartitico. In realtà, come già indicato da Maurice Duverger agli inizi degli anni Cinquanta, la formazione di un sistema bipartitico è favorita dal maggioritario ma non ne è una necessaria conseguenza. 6 D'altro canto, come mostrato da Stein Rokkan, il proporzionale favorisce ma non crea il multipartitismo. In vari Paesi europei, il multipartitismo si è formato ben prima dell'ado zione di sistemi di voto proporzionali. Esso è stato una delle conseguenze della conquista del diritto di voto da parte delle masse popolari. Sono, quindi, le divisioni presenti nella società (e fatte sue dall'elettorato) a formare sistemi multipartitici e non il sistema proporzionale. Quest'ultimo tende semplicemente a riprodurli più del maggioritario. In società che presentano molte divisioni si tenderà, quindi, ad avere sistemi multipartitici anche in presenza del maggioritario. 7 In Canada, per esempio, il sistema bipartitico ha cessato di esistere nel 1921, e dal 1935 in poi almeno quattro partiti sono stati quasi costantemente rappresentati in Parlamento: il Partito Liberale (PL), il Partito Progressista Conservatore (Pc), la Confederazione Canadese del Commonwealth ribattezzata poi Nuovo Partito Democratico (NDP) e il Credito Sociale (Sc). Sebbene quest'ultimo sia scomparso nel 1980, a partire dalle elezioni del 1993, in seguito alla formazione di due partiti a base soprattutto regionale - il Blocco Quebecchese (Bo) e il Partito della Riforma (Rp) ribattezzato poi Alleanza Canadese (CA) dopo la sua fusione con una parte del Pc, i partiti rappresentati alla Camera dei Comuni sono diventati cinque. Nel contesto italiano, dove oltre alle divisioni sociali, economiche ed ideologiche, si è aggiunta quella territoriale, è difficile immaginare, come il maggioritario possa condurre al bipartitismo. Il sistema misto adottato nel 1993 ha, senza dubbio, favorito la tendenza alla bipolarizzazione - cosa però 125


diversa dal bipartitismo, in quanto significa solamente che i partiti politici si schierano in due coalizioni contrapposte - ma tale tendenza non garantisce né maggioranze assolute, né elimina la necessità di coalizioni. La sola differenza è che le negoziazioni per la formazione di coalizioni si fanno prima delle elezioni e non dopo. Tale differenza è senza dubbio importante e presenta dei vantaggi in quanto, per esempio, gli elettori possono punire o premiare i partiti per la loro scelta di campo, ma non assicura che tali coalizioni durino pRi a lungo di quelle precedenti, come dimostrato per esempio dalla defezione della Lega Nord dal primo governo Berlusconi nel dicembre del 1994. Del resto, come si può ben constatare, l'abbandono del proporzionale non ha portato alla diminuzione del numero dei partiti, e questo non può essere attribuito solo al fatto che il "Mattarellum" mantiene una quota proporzionale. Inoltre, in società molto divise, anche se un sistema bipartitico potesse essere creato per decreto, le divisioni sociali rimarrebbero e troverebbero la maniera di manifestarsi a livello politico anche se soltanto come correnti all'interno dei due partiti rimasti. In Canada, per esempio, sia il LP che il Pc, hanno in effetti anime diverse (non si chiamano correnti soltanto perché non sono formalmente organizzate come tali) che spesso entrano in aperto contrasto.

Maggioranze assolute In Italia, molti guardano con simpatia al maggioritario perché esso - così almeno sembrano suggerire alcuni suoi sostenitori - assicurerebbe maggioranze parlamentari al partito, o alla coalizione che ottiene il maggior numero di voti, anche nei casi in cui tale maggioranza sia solo relativa. Quando si guarda all'esperienza canadese però, la lezione che se ne trae è che questo non sempre avviene. Come si può constatare alla Tavola 1, dal 1921 ad oggi, ci sono state ventuno elezioni nelle quali il partito che ha formato il governo ha vinto soltanto una maggioranza relativa di voti (vale a dire ha ricevuto meno del 50% dei voti). In ott0 8 di queste ventuno elezioni però (e quindi nel 38% dei casi), il partito che ha formato il governo non è riuscito ad ottenere una maggioranza assoluta di seggi. Questo è avvenuto in ben sei delle nove elezioni tenutesi tra il 1957 e il 1979. In questi casi il Canada, nonostante il maggioritario, ha dovuto contare su governi di minoranza, o su coalizioni di governo formali o informali. 126


Tavola i - Confronto percentuale di voti epercentuale di seggi per partito in elezioni federali

NDP

PC

PL Anno

Voto

Seggi

Voto

Seggi

1921

41

49

21

1925

40

40

30 46

1926

46

52

45

37

1930

45

37

49

1935

45

71

30

56 16

1940

52

74

31

16

1945

41

51

27

27

1949

49

74

.30

16

1953

49

64

31

1957

41

40

39

19 42

1958

34

18

54

1962

38

1963

37 42

1965

40

1968

45

1972

38

1974

43

1979

40

Voto

Seggi

9

3

9 16

3 11

13 11

9

Seggi

Voto

Seggi

5

11

9

10

3

37

14

49

33

36

13

7 6

49

33

36

18

8

58 41

31

27

35 36

40

17 18

8 12

36 48

16

6

18

9 11

36

Voto

47

79 44

53 40

BQ

RPICA

1980

44

52

33

37

20

1984

28

14

50

75

19

11

1988

32

28

43

57

20

15

0,7

3

19

18

13

18

7 4

7 11

7 4

19

20

11

15

25

22

11

13

1993

41

60

16

1997

38

52

2000

41

57

19 12

9

Fonte Rand Dyck, Canadian Politics, 3rd edition, Scarborough: Nelson, 2000, p. 266.

I

PROBLEMI DEL MAGGIORITARIO

Se da un lato il dibattito sulla riforma del sistema elettorale ha esagerato alcuni degli aspetti positivi del maggioritario (il maggioritario' non conduce necessariamente a un sistema bipartitico e non produce in maniera consistente maggioranze parlamentari per il partito che ottiene soltanto una maggio127


ranza relativa dei voti); dall'altro, esso non ha dato il dovuto rilievo a delle caratteristiche negative le quali spiegano invece perché in Canada tale sistema elettorale è considerato sempre più insoddisfacente e si guarda con sempre crescente simpatia a un modello più proporzionale.

Conversione inegalitaria dei voti in seggi Anche se il sistema maggioritario effettivamente permettesse al partito che ottiene una maggioranza relativa di voti di ottenere sempre una maggioranza assoluta di seggi, questo solleverebbe molto probabilmente dei problemi di legittimità. Come si può vedere nella Tavola 1, nel caso canadese su ventiquattro elezioni federali, tenutesi tra il 1921 e il 2000, soltanto tre volte il partito che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi ha ricevuto una maggioranza assoluta di voti: per il PL questo avvenne nel 1940 (51,5% dei voti), mentre per il Pc questo avvenne nel 1958 (53,6% dei voti) e nel 1984 (poco più del 50% dei voti espressi). Più spesso (e più precisamente in circa il 62% dei casi), il partito che riceve la maggioranza assoluta dei seggi non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti espressi (per non parlare di maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto). Questo significa che la maggioranza degli elettori ha votato contro, piuttosto che a favore, del partito che si ritrova al governo. Questa caratteristica del maggioritario, ovviamente, può non rappresentare una preoccupazione per coloro che sono stanchi di coalizioni di governo in disaccordo permanente e pronte a sfasciarsi ogni volta che uno dei sui membri pensa poterne derivare dei vantaggi elettorali (e molti italiani certamente appartengono a questa categoria di persone). Tale caratteristica dovrebbe però far riflettere coloro che credono che una democrazia si distingue da altri regimi innanzitutto perché il suo Governo (monocolore o coalizione che sia) è scelto da una maggioranza dell'elettorato. Un'altra caratteristica del maggioritario è la conversione inegalitaria della percentuale di voti ottenuti in percentuale di seggi assegnati che esso produce. Il numero di voti necessario per ottenere un seggio parlamentare, in altre parole, non è lo stesso per ogni partito. In Canada, per esempio, alle ultime elezioni federali, al Pi. sono bastati una media di circa 30.000 voti per ottenere un seggio. Alla CA invece, sono stati necessari una media di circa 49.000 voti. La media necessaria al NDP e al Pc poi, è stata ancora superiore: i loro seggi hanno infatti richiesto, rispettivamente, circa 84.000 e 130.000 voti. Il tipo e grado di distorsione tra percentuale di voti e numero di seggi dipende principalmente dal modo in cui la forza elettorale di ciascun partito è distri128


buita sul territorio. In genere, ad eccezione del partito che vince la maggioranza relativa di voti, il quale riceve un "premio" in termini di seggi (vale a dire una percentuale di seggi superiore alla percentuale di voti ottenuta), tutti gli altri partiti sono penalizzati (essi ricevono, cioè, una percentuale di seggi minore della percentuale di voti ottenuta) a meno che non possano contare su un forte insediamento regionale. A volte, a un modesto aumento della percentuale di voti può corrispondere un enorme aumento della percentuale di seggi. Per esempio, nell'elezione del 1976 nella provincia 9 del Quebec, il Partito (nazionalista) Quebecchese vide aumentare la propria percentuale di voti dal 30% al 41%, mentre il suo numero di seggi nell'Assemblea Nazionale passò da 6 a 71. In altre parole, un aumento del 30% del voto popolare si trasformò in un aumento del 1000% del numero di seggi. Altre volte, un calo del numero di voti può corrispondere alla quasi sparizione del partito. Nelle elezioni federali del 1993, per esempio, il Pc perse il 27% dei voti (passando dal 43% al 16%). A tale perdita, considerevole senza dubbio, corrispose però la sparizione del partito (almeno in termini di gruppo parlamentare). Esso passò, infatti, da una maggioranza di 169 seggi a soli 2 (più un indipendente), e perse così il diritto di costituirsi in gruppo parlamentare.

Da «perdente" in voti a «vincitore" in seggi In un sistema maggioritario non è raro che un partito che ha ricevuto una percentuale di voti minore del partito che ha ottenuto la maggioranza relativa si veda assegnata una percentuale di seggi maggiore. In Canada questo è avvenuto ben tre volte in elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni. Come si può vedere nella Tavola 1, nelle elezioni del 1957 il PL che aveva ricevuto il 41% dei voti ottenne solo il 40% dei seggi, mentre il Pc ottenne il 42% dei seggi con il 39% del voto popolare. Nel 1962, entrambi i partiti ricevettero il 37% del voto popolare ma mentre al Pc andò il 44% dei seggi, il Pi. dovette accontentarsi del 38%. Ancora peggio nel 1979, quando con solo il 36% del voto popolare, il Pc si vide assegnare il 48% dei seggi battendo così il Pi. che con il 40% dei voti ottenne solo il 40% dei seggi. Nelle elezioni per il rinnovo delle assemblee provinciali, il partito perdente in termini di voti è diventato il vincitore in termini di seggi in ben Otto occasioni. Tale inversione è avvenuta in Saskatchewan nel 1986 e nel 1999, in Quebec nel 1966 e 1998, nella Columbia Britannica nel 1952 e 1996, nel Nuovo Brunswick nel 1974, ed a Terranova nel 1989. 129


Eliminazione dell'opposizione Coloro che desiderano l'adozione del maggioritario perché è capace di produrre delle forti maggioranze parlamentari non dovrebbero dimenticare che una caratteristica chiave delle democrazie è il ruolo di critica e controllo assegnato all'opposizione. Nel sistema maggioritario la rappresentazione dell'opposizione, e delle minoranze in genere, può essere severamente indebolita perché i partiti perdenti ricevono di solito una percentuale di seggi minore di quella che essi riceverebbero in un sistema proporzionale. In alcuni casi, il maggioritario può portare all'eliminazione totale dell'opposizione, il che non si può certo considerare qualcosa che favorisca l'esercizio democratico del potere. In Canada, nelle elezioni per il rinnovo delle assemblee provinciali questo è avvenuto due volte: nell'Isola del Principe Edoardo nel 1935, e nel Nuovo Brunswick nel 1987. In questo ultimo caso, i liberali con il 60% del voto popolare si accaparrarono tutti i seggi dell'Assemblea parlamentare. Gli altri partiti, che avevano ottenuto il restante 40% dei voti, non ottennero alcun seggio. Nell'Isola del Principe Edoardo, i liberali sono andati vicino a ripetere la stessa cosa nelle elezioni nel 1993, quando vinsero 31 dei 32 seggi disponibili. Nell'aprile del 2000 la situazione si capovolse e questa volta furono i conservatori a far man bassa, accaparrandosi 26 dei 27 seggi disponibili (il numero di seggi dell'Assemblea era stato nel frattempo ridotto).

La «regionalizzazione" dei partiti Il maggioritario favorisce quella che possiamo definire la "regionalizzazione" dei partiti. Questa si manifesta in due maniere diverse. Primo, il sistema maggioritario favorisce quei partiti il cui sostegno è concentrato in una regione e punisce quelli il cui sostegno .è più equamente distribuito attraverso il Paese. Come si può vedere nella Tavola 2, il maggioritario ha trattato in maniera favorevole il Sc, con una base nelle province delI'Ovest, e sfavorevole il NDP il cui sostegno è invece più diffuso attraverso il Paese. Lo stesso vale per il BQquando lo si compara con il Pc nelle ultime tre elezioni, il NDP e persino il RP/CA (quest'ultimo è un partito insediato soprattutto all'Ovest del Paese ma con una buona presenza anche in Ontario). Questo fenomeno risulta ancorapiù chiaramente se si guarda al risultato delle elezioni provincia per provincia (Tavola 3). Sia nelle elezioni del 1997 che in quelle dei 2000, il BQ ha ottenuto la seconda più alta percentuale di seggi pur avendo ottenuto meno voti del Pc. La ragione del suo successo è che il suo sostegno elettorale è concentrato nella provincia del Quebec (il Bq 130


Tavola 2 - Quoziente percentuale di seggi/percentuale di voto per partito, elezioni federali. Un quoziente >1 indica sovra-rappresentazione, <1 indica sotto-rappresentazione

PL

PC

1,19

0,7

NDP

SC

RP/CA

BQ

Anno 1921

1

1,02

1926

1,13

0,82

1930

0,82

1,14

1935

1,57

0,53

0,33

1940

1,42

0,51

0,33

1945

1,24

1

0,68

1,29

1949

1,51

0,53

0,38

1,03

1953

1,3

0,61

0,81

1,06

1957

0,97

1,07

0,81

1,09

1958

0,52

1,46

0,3

0

1962

1,02

1,18

0,5

0,97

1963

1,16

1,09

0,46

1965

1,22

1,09

0,44

0,76 0.51*

1968

1,28

0,87

0,47

1,21

1972

1,07

1,14

0,66

0,75

1974

1,23

1

0,37

0,82

1979

1

1,33

0,5

0,46

1980

1,18

1,12

0,55

1984

0,5

1,5

0,57

1988

0,87

1,32

0,75

1993

1,46

0,05

0,44

0,94

1,36

1,36

0,35

0,64

1,04

1,39

1,41

0,33

0,44

0,88

1,09

1925.

1997 2000

.

* Presentatosi sotto altro nome in Quebec Fontt Adattato dall'autore da Rand Dyck, Canadian Politics, 3rd edition, Scarborough: Nelson, 2000, p. 266 e da Reports of the ChiefElectoral Office.

non si presenta neanche al di fuori di questa provincia). Lo stesso discorso vale per il R1/CA che sebbene abbia presentato candidati in quasi tutto il Paese ha la sua base elettorale concentrata nelle province dell'Alberta e della Golumbia Britannica. Sono stati penalizzati, invece, il Pc e il NDP che godono 131


Tavola 3 - Percentuale voto (pv), numero di seggi (ns) e percentuale di seggi per partito per provinciaelezioni federali 1997-2000

PL pv

flS

PC ps pv

flS

ps

pY

NDP RP/CA ns ps pv fIS ps pv

N17(7)

1997 2000

38 45

4 5

57 71

37 35

3 2

43 29

22 13

0 0

0 0

3 4

0 0

0 0

PEI (4)

1997 2000

45 47

4 100 4 100

38 39

0 0

0 0

15 9

0 0

0 0

2 5

0 0

0 0

NS(11)

1997 2000

28 36

0 4

0 36

31 29

5 4

45 36

30 24

6 3

55 28

10 10

0 0

0 0

N13(10)

1997 2000

33 41

3 6

30 60

35 31

5 3

50 30

18 12

2 1

20 10

13 16

0 0

0 0

QU (75)

1997 2000

37 44

26 36

35 48

22 6

5 1

7 1

2 2

0 0

0 0,3 0 6

0 0

0 0

ON(103)

1997 2000

50 101 51 100

98 97

19 14

1 0

0 0

11 8

0 1

0 1

19 24

0 2

0 2

MN(14)

1997 2000

34 33

6 5

43 35

18 15

1 1

7 7

23 21

4 4

29 29

24 31

3 4

21 29

SK(14)

1997 2000

25 21

1 2

7 14

8 5

0 0

0 0

31 26

5 2

36 14

36 48

8 10

57 72

AB (26)

1997 2000

24 21

2 2

8 8

14 14

0 1

0 4

6 6

0 0

0 0

55 59

24 23

92 88

BC (34)

1997 2000

29 28

6 5

18 14

6 8

0 0

0 0

19 12

3 2

9 6

43 5.0

25 27

73 80

NWT(2) NWT(1)

1997 2000

43 45

2 100 1 100

17 10

0 0

0 0

21 27

0 0

0 0

14 18

0 0

0 0

YU(1)

1997 22 0 0 14 0 0 29 1 100 26 2000331100800320 027

NUN(1)

2000

CND(301) 1997 2000

69

1 100

39 155 41 172

52 57

7

0

0

18

0

0

19 12

20 12

6 4

11 9

21 13

7 4

19 25

BQ flS

ps

44 38

58 51

11 44 11 .38

15 13

38 40

0 0 00

60 66

20 22

Fonti Rand Dyck, Cana4ian Pol:tics, 3rd edition, Scarborough: Nelson, 2000, p. 268. Globe and Mai!, November 29, 2000. Le percentuali non si assommano sempre a 100 a causa della presenza di partiti minori e candidati indipendenti: NF: Terranova (in parentesi numero di seggi disponibili in ogni provincia); PE!: Isola del Principe Edoardo; NS: Nuova Scozia; NB: Nuovo Brunswick; QU: Quebec; ON: Ontario; MN: Manitoba; SK: Saskatchewan; AB: Alberta; BC: Columbia Britannica; NWT: Territori del Nord-Ovest; YU: Yukon; NUN: Nunavut; CND: Canada totale.

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della stessa base elettorale la quale è però più equamente distribuita attraverso tutto il Paese. La "regionalizzazione" si manifesta anche in un secondo modo: rafforzando l'identificazione tra un partito e una regione del Paese. L'immagine dei partiti dipende in larga misura dalla loro forza parlamentare e non della loro forza elettorale nel Paese. Il NDP viene considerato un partito minore, solo perchè il maggioritario gli assegna la metà dei seggi che gli verrebbero assegnati in un sistema proporzionale. Il PL ha acquisito un'immagine di partito che non rappresenta gli interessi dell'Ovest del Paese (almeno a partire dalle elezioni del 1957) perché esso ha conquistatò ben pochi seggi in quelle province sebbene vi riceva di regola almeno il 20% dei voti. Il Pc non è riuscito, fino al 1984, ad eleggere quasi nessun candidato nella provincia del Quebec. Di conseguenza, esso ha finito con l'assumere un'immagine non-francese o addirittura anti-francese, sebbene riuscisse ad ottenere una media del 13% di voti in quella provincia. I più recenti risultati elettorali hanno finito col conferirgli l'immagine di partito esclusivamente atlantico, rappresentante cioè solo le province dell'Est del Paese. Il Ri/CA, infine, ha l'immagine di partito regionale dell'Ovest perché tutti i suoi deputati, con l'eccezione di due eletti in Ontario, provengono dalle province dell'Ovest. Eppure alle ultime elezioni la CA ha ricevuto più del 24% dei voti in Ontario, il 16% nel Nuovo Brunswick e il 10% nella Nuova Scozia. Sembra legittimo concludere che, almeno per quanto riguarda l'esperienza canadese, il maggioritario ha avuto una influenza centrifuga sulla politica del Paese. "Regionalizzando" i partiti il maggioritario, lungi dal lenire o contribuire a risolvere i problemi connessi alla progressiva disintegrazione del Paese (e si ricordi che i partiti politici sono stati tradizionalmente considerati uno dei fattori di integrazione nazionale), ha finito per acutizzarli. Il maggioritario avrebbe molto probabilmente lo stesso effetto "regionalizzante" nel contesto italiano: esso premierebbe la Lega (versione italiana del BoJ che può contare su un forte insediamento nel nord-est veneto e le prealpi lombarde e penalizzerebbe, o farebbe addirittura scomparire, Rifondazione Comunista come pure i vari resti della Democrazia Cristiana e dei Socialisti; insomma, tutti quei partiti che non possono contare su forti insediamenti locali. Inoltre, esso rafforzerebbe l'immagine regionale che i tre partiti maggiori già hanno: Forza Italia sarebbe percepito ancora di più come il partito del Nord, i Democratici di Sinistra come partito del centro e Alleanza Nazionale come il partito del Sud. È difficile immaginare come l'acutizzarsi di un processo centrifugo già in atto possa facilitare la cosiddetta "governabilità." 133


Dalla politica all'amministrazione Visti i problemi ad esso associati, come spiegare l'entusiasmo smisurato che da molte parti si manifesta in Italia per il maggioritario? Tale entusiasmo non può essere dovuto semplicemente all'ignoranza di alcune sue conseguenze. Se nel dibattito sul maggioritario si tace su tali conseguenze, questo è dovuto probabilmente al fatto che il desiderio per tale sistema si spiega con motivi diversi da quelli manifestati esplicitamente. Si è detto più sopra che "governabilità" non vuoi dire semplicemente formazione di un governo che goda di una larga maggioranza parlamentare. Per "governabilità" si intende soprattutto - anche se raramente lo si afferma esplicitamente - riduzione dello spettro ideologico a semplici varianti della stessa ideologia liberale-liberista, restrizione del dibattito politico, e conseguente eliminazione dal dibattito parlamentare di qualsiasi alternativa radicale al modello liberale-liberista. In questo senso, il maggioritario svolgerebbe una funzione molto importante. L'elettorato, anche in Paesi dall'ampio spettro ideologico come l'Italia, si distribuisce secondo una curva normale (detta anche "a campana"), vale a dire, la maggioranza di esso, e in particolare l'elettorato volatile che spesso decide le elezioni, è concentrato nella posizione mediana. Questo significa che i partiti, o quelli che in Italia vengono attualmente chiamati (anche se impropriamente) "poli", sono costretti a convergere verso il centro dello spettro ideologico, a meno che essi non vogliano accontentarsi di una posizione perennemente marginale e di opposizione. Il maggioritario ha, quindi, l'effetto di trasformare il dibattito politico in dibattito tecnico-amministrativo: non si discute più di modelli di società e di grandi orientamenti ma di alternative tecniche all'interno dello stesso orientamento e dello stesso modello di società, quella liberale-liberista. In tale situazione, i partiti non-liberali (vale a dire quelli che non sottoscrivono a una ideologia liberale-liberista) capaci di ritagliarsi un piccolo spazio politico, ed esclusivamente all'opposizione, sono quelli capaci di radicarsi territorialmente in una determinata regione, cosa possibile soio a quei partiti che si fanno paladini di interessi particolaristici locali che essi presentano come ignorati dal governo centrale. Il sistema maggioritario, in altre parole, ha un effetto centripeto per quanto riguarda lo spettro ideologico dei partiti che aspirano al governo e un effetto centrifugo per quanto riguarda le sorti del Paese in quanto premia i partiti di opposizione che si fanno portatori di rivendicazioni regionali. Entrambi questi processi sembrano essere già in atto in Italia. Al liberalismo-liberismo classico (o duro) della Casa delle Libertà che promuove una società regolata dal mercato e da un governo ridimensionato e discreto si contrappone il liberalismo-liberismo 134


riformista (o molle) dell'Ulivo che promuove una società in cui le conseguenze più deleterie del mercato sono mitigate da un governo più attivo. Almeno per quanto riguarda le loro proposte politiche, le due coalizioni che si contendono il potere in Italia sono comparabili all'Alleanza Canadese e al Partito Liberale. L'unica altra forza politica che potrebbe sopravvivere in maniera indipendente, anche se inevitabilmente condizionata da queste due formazioni, è la Lega, un partito regionale appunto. Il maggioritario elimina la politica dello scontro di classe (capitale verso lavoro) rimpiazzandola con la politica dello scontro territoriale: Ovest contro Est in Canada, Nord verso Sud in Italia. L'ERBA DEL MAGGIOPJTARIO NON t PIU VERDE

Questa breve analisi dell'esperienza che il Canada ha avuto col sistema maggioritario mostra che l'adozione di tale sistema in Italia non avrebbe degli effetti da panacea. Il maggioritario potrebbe condurre alla formazione di maggioranze di governo più solide e, quindi, più durature. Allo stesso tempo, però, la sua adozione potrebbe creare problemi che sarebbero nuovi, ma non per questo meno gravi. Un sistema elettorale perfetto, vale a dire senza potenziali conseguenze negative, non esiste. Ogni sistema massimizza alcuni valori o obiettivi a scapito di altri. In genere, il sistema proporzionale privilegia l'uguaglianza rappresentativa ma rischia di produrre esecutivi deboli e di breve durata. Il maggioritario è più capace di produrre governi di maggioranza, e. quindi forti e duraturi, ma indebolisce o addirittura sopprime la rappresentanza di alcuni gruppi o settori sociali mentre amplifica quella di gruppi territoriali. A prima vista, il maggioritario potrebbe apparire preferibile nel contesto italiano perché i problemi associati col sistema proporzionale si conoscono sin troppo bene. Alla luce dell'esperienza canadese, però, gli italiani farebbero bene a rivedere le loro attese: l'erba sul versante maggioritario, sebbene di colore diverso, non è necessariamente più verde.

S. PARKER, Electoral reform and political change in Italy, 1991-1994 in S. GUNDLE e S. PARKER (a cura di), The New Italian Republic: from the falI of the Berlin wall to Berlusconi, Routiedge, London and New York 1996, pp.

40-56; G. PAsQuIN0, La transizione a parole, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 121-126. 2 M. DONOVAN, La fine dell'anomalia referendaria in Italia?in M. GILBERT e G. PASQUINO (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell'anno e le 135


interpretazioni, Edizione 2000. Istituto Cattaneo-Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 69-87. 3 Il dibattito sulla riforma del sistema elettorale in Canada fu lanciato alla fine degli anni Sessanta da un famoso articolo del politologo Alan Cairns, The electoral system and the party system in Canada 1921-1965 in "Canadian Journal of Politica! Science", 1, 1968, pp. 5580. Contributi più recenti a tale dibattito sono: W. IRVINE, Does Canada need a new electoral system? Institute for Intergovernmental Relations, Kingston 1979; H. MILNER (a cura di), Making evey vote count: reassessing Canada's electoral system, Broadview Press, Peterborough 1999; D. PIL0N, Canada's Democratic Deficit: Is Proportional Representation the Answer? The Csj Foundation for Research and Education, Toronto 2000; J. REBICK and W. ROBINSON, We vote to scrap the system" in «The Globe and Mail», 29 novembre 2000, p. 19. ' Si potrebbe qui discutere a lungo sulla

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questione, tutt'altro che irrilevante, se tale tipo di rappresentazione abbia alcun senso nelle società moderne, ma non è questo lo scopo di questo articolo. 5 Tra questi basta citare politici quali Giuseppe Calderisi, Mariotto Segni, Marco Panne1la e Augusto Barbera. Per le argomentazioni di quest'ultimo si veda il suo libro Una riforma per la Repubblica, Editori Riuniti, Roma 1991. 6 M. DUVERGER, Political Parties, Methuen, London 1954. 7 S. ROKKAN,

Citizens, Elections, Parties,

McKay, New York 1970. 8 Più precisamente nel 1921, 1925, 1957, 1962, 1963, 1965, 1972, 1979. Il termine provincia in Canada viene usato per indicare le dieci entità territoriali e parzialmente sovrane che si sono federate e corrisponde quindi al termine "Stato" negli Stati Uniti e al termine "Land" in Germania.


dossier

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Come evitare una Costituzione "su misura"

La costruzione del modello "quasi-federale" italiano è da tempo uno dei nostri temi più seguiti. Abbiamo, come i lettori sanno, deciso di affrontarlo soprattutto in chiave comparata. Su diversi numeri, (di recente, nel n. 123, con il saggio su Il sistema quasi-federale in Sudafrica di Giorgio Brosio), abbiamo cercato di individuare le principali caratteristiche del modello federale e di fornire un quadro delle concrete realizzazioni del modello stesso. Intanto, con la Legge Costituzionale n. 3 del 2001 è stato rifbrmato il Titolo V della Costituzione, configurando un nuovo, notevole passo, verso la 7èdera1izzazione" del sistema costituzionale italiano. Utilizziamo il termine 'fi'deralizzazione" perché per uno dei più intelligenti analisti dello Stato Federale, Cari Joachim Friedrich, ilfederalismo non può essere studiato come sistema statico, come 'frma" di Stato: ma come processo. Nella sua vasta opera il noto giurista parla infatti di 7èderalizingprocess' una categoria dinamica. Quello italiano è, quindi, un processo in corso. Il dibattito sulla riforma del Titolo V della Costituzione, al momento, si è svolto maggiormente in merito al come si è giunti alla rifirma (si ricorderà che la stessa è 137


passata per quattro voti di maggioranza alla seconda votazione), che sugli effetti della stessa. Il tema, dal federalismo, si è spostato a quello della disponibilità politica dei princzpi costituzionali. Come è stato denunciato, la circostanza per cui ad una riforma della Costituzione appena varata e che ha interessato l'intero Titolo V della parte seconda possa succedere tra breve un'altra rfbrma, per poi magari farla seguire da un'altra ancora (e così via), porterebbe a fare anche della Costituzione, così come già è delle leggi e degli atti in genere di normazione, una fonte dotata di carattere "sperimentale' pronta ad esser rivista di continuo, con la stessa facilità con cui sono di continuo trasformati i decreti delegati e le discipline subcostituzionali in genere. Una tendenza da contrastare e di cui sottolineare la pericolosità: una tendenza che prende corpo nel fatto che ogni parte politica vuole "costruire" la propria Costituzione, (e la propria "amministrazione" e la propria "magistratura') così come appunto sifa per gli abiti confezionati su misura (la qual cosa, comunque, è di per sé la negazione stessa dell'idea di Costituzione quale patrimonio di valori ed insieme diprincìpi condivisi a livello generale). Su questo dibattito - abbastanza convulso - cerca di porre un qualche ordine la parte introduttiva del saggio di Walter Nocito su Riforme costituzionali e politica. Nel ricostruire le vicende della "disinvolta" stagione costituente, lt4utore non perde comunque di vista la necessità di descrizione del processo in corso e dell'individuazione degli elementi che ancora mancano allo svolgersi di un compiuto sistema federale. Così Tommaso Edoardo Frosini, il quale appunto ricorda la vocazione "dinamica" del federalismo, non si sofferma sulle diatribe in corso, ma passa ad analizzare quanto di autenticamente federale è stato introdotto nel nostro ordinamento dal nuovo Titolo Vdella Costituzione. In questa breve presentazione del dossier vorremmo però fa re anche qualche avvertenza. Affinché le istituzioni, le amministrazioii e i cittadini diventino parti di un processo e ne condividano metodi e finalità è necessario che trascorra del tempo all'interno del quale il quadro di rifirimento rimanga stabile. Non è, quindi, possibile fornire input normativi contraddittori a distanza di pochi mesi e pretendere che le diverse componenti sociali del Paese assumano un nuovo comportamento ed un nuovo modo di relazionarsi con i poteri pubblici. Il tutto magari confezionato attraverso tecniche di drafting quanto meno incomprensibili. 138


Se fare politica, da parte degli schieramenti politici di ogni colore, significa affastellare le une sulle altre riforme istituzionali, questa è sicuramente una strada che non può portare all'instaurarsi di un autentico federalismo. Perché questo si crei, insegnano appunto i casi di scuola, è necessario lo storicizzarsi di prassi, di usi costituzionali in tempi medio-lunghi, che confortino l'impressione generalizzata di un diritto certo e non discontinuo. E' bene sottolineare come i modelli federali spagnolo e tedesco, pur in presenza di situazioni peculiari di notevole gravità (si pensi alla divisione dello Stato tedesco ed al problema del terrorismo basco), hanno conosciuto rari momenti di rifbrma generale. La Legge Fondamentale tedesca non ha subito. che lievi modfìche anche successivamente alla riunificazione. Il quadro di rftrimento italiano, come anche gli Autori denunciano, ha sicuramente bisogno di integrazioni e miglioramenti. Ma questi potrebbero essere apportati anche e soprattutto mediante l'opera della Corte Costituzionale e la condivisione di prassi politico-amministrative a livello regionale. Probabilmente, il processo non reggerebbe ad un'altra 'rande stagione di riforme.

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Il federalismo da completare. Sulla riforma del Titolo V Cost. di Tommaso Edoardo Frosini

L

e modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione italiana (dall'articolo 114 all'articolo 132) votate ed approvate da una stretta maggioranza parlamentare e poi legittimate col voto referendario e quindi divenute legge costituzionale n. 3 del 2001, aprono un nuovo scenario su quella che si usa chiamare la forma di Stato italiana (anche se sarebbe più indicato dire: il tipo di Stato). Si tratta della prima grande riforma costituzionale, perché innova significativamente un'intera parte della Carta costituzionale dedicata ai rapporti fra centro e periferia. E la si può ritenere conseguenziale alla riforma già varata - con legge costituzionale n. i del 1999 - sull'elezione diretta dei presidenti di Regione e sull'autonomia statutaria delle Regioni stesse. In tal modo, infatti, si è provveduto a completare il quadro costituzionale inerente alle autonomie locali, attribuendo alle stesse il compito di essere innanzitutto delle... autonomie; visto e considerato che adesso hanno una serie di prerogative e poteri non più subordinati alla volontà statale. In questo breve intervento, però, vorremmo mettere in rilievo le ombre più che le luci della riforma, provando a dare risposta ad una domanda assai diffusa e rilevante, che è la seguente: questa riforma è stata presentata come una riforma federale dello Stato: ma è federalismo quello che si è introdotto a livello costituzionale? C'è da dire, che dell'organizzazione degli Stati federali, secondo l'esperienza comparata, la riforma non ha previsto un elemento assai significativo, tale da connotare fortemente il federalismo. Si tratta della seconda Camera rappresentativa delle sole autonomie territoriali, una Camera delle Regioni per intenderci, in grado di coagulare gli interessi territoriali all'interno di un unico organo decisionale (non può certo essere considerata sufficiente l'integrazione con rappresentanti regionali e delle autonomie locali della Commissione parlamentare per le questioni regionali, prevista dall'articolo 11 della riforma, e la diversa maggioranza richiesta per l'approvazione di L'Autore è Professore straordinario di Diritto pubblico comparato nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. 141


leggi nei caso di parere contrario o condizionato della Commissione integrata). L'esperienza degli Stati federali dimostra come non siano possibili forme di federalismo, o anche solo di "regionalismo avanzato", in mancanza di luoghi di raccordo tra Stato ed enti regionali: ovvero, una governance caratterizzata da una molteplicità di livelli di governo richiede necessariamente meccanismi di coordinamento, centrali, interregionali, interlocali. Certo, non esiste un federalismo, ci sono invece diversi federalismi, specialmente se si accetta la teoria di uno dei massimi studiosi dei sistemi federali, Cari Joachim Friedrich, secondo il quale il federalismo o è dinamico o non è. In tal senso, il federalismo è un processo la cui evoiuzione è dovuta alla capacità dei singoli Enti locali di svilupparsi e di organizzarsi autonomamente, all'interno di una cornice costituzionale. In quest'ottica, allora, è ancora presto per qualificare il disegno costituzionale italiano come federale oppure no. Comunque vada, sarà un "federalismo italiano": così come c'è il federalismo tedesco oppure quello spagnolo, che non sono affatto la stessa cosa. LA REPUBBLICA DELLE AUTONOMIE LOCALI E DELLO STATO

Va subito detto che la riforma costituzionale apre degli spazi nei riguardi di una prospettiva dinamica, che le Regioni dovranno saper sfruttare al meglio. Innanzitutto, il nuovo articolo 114 della Costituzione mette tutti sullo stesso piano: Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane costituiscono la Repubblica. Un impianto geo-istituzionale orizzontale, non più verticale, con al centro Roma capitale della Repubblica. La parte più significativa e "rivoluzionaria" della norma è quella prevista nel primo comma, che così recita: "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato". Una siffatta disposizione costituzionale va incontro ad una serie di osservazioni critiche, che qui vogliamo riferire. Con una premessa: da un punto di vista politico, l'equiparazione formale dello Stato con gli Enti locali provoca una sicura valorizzazione di questi ultimi, sottraendoli alla tradizionale impostazione e concezione, che vuole che le periferie siano costituzionalmente subordinate al centro. Insomma: se l'obiettivo politico era quello di esaltare l'Ente locale, allora lo si è raggiunto; grazie ad una norma che mette Stato ed Enti locali sullo stesso piano, come se fossero la stessa cosa anche perché insieme costituiscono la Repubblica. Da un punto di vista del diritto costituzionale, invece, si possono avanzare alcune riserve. La prima riguarda una possibile violazione di un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, espresso all'articolo 5, e -

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che si riferisce alla "unità ed indivisibilità della Repubblica". Ora, stante il nuovo articolo 114 della Costituzione, la Repubblica non sarebbe più unita e indivisa in quanto Stato, ma piuttosto sarebbe identificabile "anche" con lo Stato, al pari delle altre entità territoriali. La Repubblica diventa così una sorta di condominio nel quale convivono cinque entità politiche pariordinate e giustapposte non aventi più un punto di riferimento unitario. La nozione di Repubblica, che è una nozione carica di significati quasi meta-costituzionali tant'è la sua forza semantica, si verrebbe ad identificare, come già detto, con l'articolazione territoriale dei livelli di governo: tutti, certo, legittimati democraticamente, ma non sufficienti ad esaurire la più ampia nozione di Repubblica democratica espressa dall'art. i della Costituzione. Infatti, la Repubblica è un assetto che si alimenta dal basso esprimendo il principio democratico, il quale si realizza nella molteplicità di espressioni della sovranità popolare. Certamente tra tali espressioni vanno annoverate le autonomie territoriali, ma accanto ad una pluralità di strumenti di esercizio della sovranità popolare. Pertanto, le autonomie territoriali non sembrano poter esaurire il concetto di Repubblica e il principio democratico non può riferirsi soio all'articolazione sul territorio di livelli di governo. Altra cosa sarebbe stata, invece, se il legislatore costituzionale avesse predisposto una formula di questo tipo: "L'ordinamento federale della Repubblica si articola nei Comuni, nelle Città metropolitane, nelle Province, nelle Regioni e nello Stato". In tal caso, si sarebbe opportunamente accentuato il fenomeno distributivo, ovvero dell'articolazione territoriale della Repubblica italiana: così come sarebbe opportuno che fosse; e non certo il fenomeno costitutivo della Repubblica, che affonda le radici ed esprime la sua forza costituzionale soprattutto nella parte prima della Carta fondamentale dell'ordinamento repubblicano, ovverosia nella Costituzione dei diritti e poi in tutto il suo dispiegarsi normativo a partire dall'articolo 1, che va letto in combinato disposto con l'articolo 139, il quale afferma che: "La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale". IL "DIRITTO SOCIALE TERRITORIALE" E GLI INTERVENTI PEREQUATIVI

La concezione orizzontale emerge altresì, seppure in maniera non perfettamente simmetrica, nel nuovo articolo 117 della Costituzione: laddove, cioè, si fissano quelle che saranno le materie sulle quali lo Stato avrà legislazione esclusiva, lasciando, in tal modo, alla potestà legislativa regionale tutte le competenze residuali. Certo, le materie riservate allo Stato sono molte, e vanno ad incidere anche su tematiche che forse sarebbe stato meglio lasciare 143


all'organizzazione regionale. Come, per esempio, l'ambiente e la legislazione elettorale e gli organi di governo di Comuni, Province e Città metropolitane. Si tenga conto, però, che l'inversione della clausola (legislativa) a favore delle Regioni, costituzionalizzando quanto già fatto dalla legge n. 59 del 1997, permetterà comunque una più agevole e stabile definizione degli Statuti regionali, ai sensi della legge costituzionale n. i del 1999. Per quanto concerne un ulteriore ampliamento delle materie di competenza regionale, c'è adesso da segnalare il disegno di legge costituzionale presentato dal governo, che mira ad estendere in favore delle Regioni competenze legislative in tema di sanità, istruzione e polizia locale (e su questa proposta diremo qualche cosa nella parte conclusiva di questo nostro intervento). Si deve poi ricordare il nuovo articolo 118 della Costituzione, con l'introduzione del principio di "sussidiarietà", che potrà divenire il nuovo concetto guida sia dei rapporti in senso orizzontale pubblico-privato, che dei rapporti in senso verticale centro-periferia. In particolare, sotto quest'ultimo aspetto, la sussidiarietà scatterà nel momento in cui le Regioni da sole non riusciranno a realizzare i loro compiti, ed allora potranno chiedere "sussidio" allo Stato. Ma qui, proprio sulla possibilità delle Regioni di farcela da sole, di progredire e di valorizzarsi, di svilupparsi e di competere con le altre Regioni, si vuole muovere una critica alla riforma costituzionale. Si tratta della eliminazione del riferimento all'obiettivo della "valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole", di cui al (vecchio) articolo 119 della Costituzione. Si trattava di un riferimento che era stato fortemente e coscientemente voluto dal Costituente, il quale volle così costituzionalizzare il problema della valorizzazione dell'assetto civile, economico e sociale del Mezzogiorno e delle Isole. Quasi una disposizione di "diritto sociale territoriale", volta a promuovere e perseguire lo sviluppo economico e la coesione sociale nell'area meridionale, che non è solo la zona sud del Paese ma è anche "una maniera di essere di alcuni milioni di abitanti". Come emerge in un recente Rapporto elaborato dalla SVIMEZ, frutto del lavoro di una commissione di giuristi (fra qui anche chi scrive), pur nell'assenza del riconoscimento costituzionale della "valorizzazione" del Mezzogiorno, nulla parrebbe precludere alla Repubblica di perseguire l'obiettivo della reale unificazione economica del Paese. Anzi: un'azione integrale finalizzata alla crescita complessiva della macroregione arretrata ed il conseguente potere dello Stato a porre in essere interventi speciali per conseguire l'obiettivo, deve considerarsi pienamente compatibile con l'adozione di un ordinamento federale dello Stato. Infatti, gli interventi perequativi, previsti nel nuovo articolo 144


119 della Costituzione, traggono la loro consistenza costituzionale su principi fondanti l'ordinamento repubblicano: il principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.), il principio di unità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e il principio dei buon andamento dei pubblici uffici o degli enti privati gestori di servizi pubblici (articolo 97 Cost.), che si concretizza anche nell'adozione di regole omogenee, in quanto le prestazioni io richiedano. Infine, non si deve dimenticare che proprio negli Stati federali, più ancora che negli Stati accentrati, l'attuazione dei valori di solidarietà e di unità nazionale è affidata all'impegno di risorse comuni a sostegno dello sviluppo delle Regioni in ritardo o in crisi. Iltesto della legge costituzionale attribuisce forme di autonomia finanziaria agli enti territoriali, limitandosi però a prevedere una potestà tributaria di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e dei sistema tributario (non più quindi "nelle forme e nei limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica"). Significativo è poi il nuovo quarto comma dell'articolo 119, secondo cui "le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono (cioè: devono consentire ed essere a ciò proporzionate, n.d.a.) ai Comuni, alle Province, alle Città nietropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite". REGIONALISMO DIFFERENZIATO VS. DIFFERENZIAZIONE REGIONALE

La riforma del titolo V della Costituzione prefigura una sorta di "regionalismo differenziato", volto ad esaltare e valorizzare le potenzialità intrinseche di ciascuna Regione; non si è voluto, però, tentare di risolvere il problema della differenziazione regionale. Non si è voluto, cioè, provare a dare risposta al seguente interrogativo: nell'attuale fase di sviluppo dei regionalismo hanno ancora oggi un ruolo ed un significato. politico-istituzionale le cinque Regioni speciali? La loro nascita era legata a fattori e ragioni - di carattere politico e geografico - oggi da ritenersi sufficientemente superati dall'evoluzione storico-politica e costituzionale italiana. Va rilevato semmai, che l'esigenza di dotarsi di un'autonomia "speciale" è oggi avvertita da tutte, o quasi, le Regioni italiane, a prescindere dalla storia, dalla configurazione geografica, dall'identità culturale; quindi, è un'esigenza che non ha nulla a che vedere con le vecchie istanze di specialità. Riflette, piuttosto, un forte bisogno di uscire in fretta dal culto per l'uniformità, che ha caratterizzato così a lungo la vicenda del regionalismo italiano, e che, a ben vedere, il regime speciale di talune Regioni non ha mai minimamente scalfito. Semmai, in uno Stato autenticamente fe145


derale tutte le Regioni, ovvero gli enti territoriali, sono speciali, nel senso che tutte devono godere parimenti di una forte autonomia. C'è da rilevare, però, come la riforma costituzionale, sebbene preveda una torsione in senso federalistico del tipo di Stato, mantiene la caratterizzazione della specialità in favore delle cinque Regioni, e nel contempo però afferma, nel nuovo art. 116 Cost., che "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni", secondo criteri prestabiliti. Questa previsione può essere considerata come una sorta di iniziale e progressivo percorso verso il riconoscimento delle forme e condizioni di specialità comuni a tutte le Regioni. Può ritenersi allora, seppure nell'ambito di una fase politico-istituzionale ancora in evoluzione, che l'autonomia speciale delle cinque Regioni stia per esaurire la sua ragion d'essere; che un nuovo assetto del rapporto centro-periferia - qualunque forma verrà ad assumere, ma che sarà comunque rafforzativa dell'autonomia territoriale - finirà col ridurre sempre più gli aspetti di differenziazione formale esaltando piuttosto aspetti di differenziazione sostanziale, ovvero di capacità promozionale di ciascuna Regione. Più nello specifico, si vuole mettere in rilievo come la riforma costituzionale abbia mantenuto i modi e le forme della specialità, a cominciare dalla promulgazione degli statuti speciali con legge costituzionale emanata dal Parlamento: e che oggi può ben ritenersi non più una prerogativa ma piuttosto un vuinus all'autonomia regionale, visto e considerato che le Regioni ordinarie, invece e giustamente, approvano con propria legge regionale i propri statuti. La riforma si è limitata ad intervenire soltanto per fare qualche leggero aggiustamento qua e là: come l'aggiunta del nomen in tedesco per il TrentinoAlto Adige! Sudtirol e in francese per la Valle d'Aosta! Vallée d'Aoste riconoscendo così - una volta per tutte - quella condizione di differenza linguistica che identifica, in modo definitivo, l'identità regionale nella connotazione di minoranza linguistica. Si ha l'impressione che oggi le Regioni cosiddette speciali abbiano perso la loro specialità e che questa si stia trasferendo alle Regioni ordinarie (ammesso e non concesso che, come detto prima, debbano sussistere ancora forme di differenziazione regionale). Come recuperare su questo terreno? Vi è un'importante opportunità offerta dalla riforma, grazie alla quale, e se saputa ben sfruttare, le Regioni tutte, speciali e ordinarie, potranno rilanciare la propria politica di sviluppo e di autonomia. Si tratta della riscrittura degli Statuti regionali. È un'occasione di primaria importanza per adeguare l'impianto complessivo delle istituzioni politiche e amministrative alle nuove sfide cui debbono far fronte le Regioni, per far sì che l'azione pubblica coniughi efficienza 146


ed equità. È un processo costituente, quello attuale delle Regioni, decisivo per il futuro delle stesse. Gli Statuti sono destinati a diventare una sorta di Costituzioni regionali (come ci sono già in Germania), all'interno delle quali bisognerà sapere scrivere i nuovi diritti della cittadinanza, nell'ottica di un disegno complessivo di rilancio delle autonomie territoriali. Sarà compito poi del legislatore regionale provvedere sapientemente all'organizzazione politica e amministrativa del territorio, sulla base delle competenze adesso attribuitegli dal nuovo articolo 117 Cost., che riserva al legislatore regionale tutte quelle materie escluse dalla competenza statale. LA PROPOSTA DI RIFORMA DELL'ART. 117 COsTITuzIONAlE

Infine, alcune osservazioni sul recente disegno di legge costituzionale presentato dal ministro per le Riforme, on. Umberto Bossi, intitolato semplicemente "Modificazioni dell'art.117 della Costituzione", ma che ha un obiettivo molto ambizioso. Quello di ampliare ulteriormente, incidendo su alcuni settori strategici, la sfera di competenze legislative delle Regioni, e avviare così un vero e proprio processo di devolution, che si dovrà completare con l'istituzione di una Camera rappresentativa delle autonomie territoriali (a questo proposito, si segnala la recente nomina di una Commissione di studio presso il ministero delle Riforme con il compito di predisporre un progetto di riforma del bicameralismo). Il progetto di legge costituzionale si viene ad inserire nel già modificato Titolo V della parte seconda della Costituzione, senza stravolgerlo, ma piuttosto emendandolo e, soprattutto, integrandolo in maniera sostanziale. Dal punto di vista della tecnica legislativa, il progetto di legge si presenta chiaro ed essenziale, perché si limita a stabilire che dopo il quarto comma. dell'art.l 17 della Costituzione si aggiunge il seguente: "Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie: - assistenza e organizzazione sanitaria; - organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione; - definizione della parte dei programmi scolastici eformativi di interesse specifico della Regione; - polizia localé'. C'è subito da dire che queste sono materie che in ogni autentico Stato federale - come negli Stati Uniti, Germania, Svizzera - appartengono alla competenza esclusiva o quasi esclusiva delle unità politiche di periferia; e, quindi, la loro previsione nel nostro ordinamento a favore delle autonomie territoriali si inscrive, senz'altro, in una logica federalista. Come viene detto nella Relazione al disegno di legge costituzionale, "in materia di sanità, di istruzione e 147


di sicurezza civile - con la necessaria gradualità ma in tempi certi e coniugando efficienza e solidarietà - intendiamo, dunque, imprimere una svolta federalista alla macchina dello Stato, ridisegnando di conseguenza intere sezioni architettoniche dell'edificio pubblico". Il progetto del Governo compie una scelta costituzionale, che è più netta di quanto inizialmente previsto e annunciato. Infatti, rispetto al precedente progetto esposto dal ministro Bossi, non vi è più adesso la possibilità di attivare il filtro preventivo del giudizio di legittimità della Corte costituzionale; la quale aveva il potere di respingere tutte quelle iniziative legislative regionali, riguardanti le materie sopra indicate, ritenute in contrasto con i principi costituzionali. Si voleva in tal modo, affidando alla Corte il compito di custode, alleggerire preoccupazioni o timori di sorta su di un indiscriminato surplus di poteri regionali su materie ritenute "delicate" sul piano dell'organizzazione sociale, politica ed economica del Paese. Ma si finiva così col gravare la Corte di una competenza fin troppo particolare e sconosciuta nel nostro ordinamento, quale quella del giudizio preventivo rispetto all'entrata in vigore della legge. D'altronde, come garanzia costituzionale, vi è sempre la possibilità di tutela attraverso il ricorso per conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni e fra Regioni. Delle tre materie, che col progetto di legge costituzionale si vorrebbero assegnare in via esclusiva alla Regioni, quella della polizia locale è sicuramente la più delicata; ed è quella sulla quale si sono già avanzati timori circa una sorta di regionalizzazione delle forze dell'ordine: come se, sulla base della competenza legislativa regionale, si potesse venire a creare la polizia lombarda, umbra, campana e così via dicendo. Prefigurare simili scenari può essere esagerato. Si tratta, piuttosto, di potenziare la sicurezza anche a livello locale, rendendo così più efficace sul territorio l'azione di prevenzione e di repressione dei piccoli crimini. LA POLIZIA LOCALE ALLE REGIONI: Ii'ESPERIENZA SPAGNOLA

La vicina Spagna offre un interessante modello di funzionamento della polizia locale, ben bilanciato fra le esigenze della sicurezza territoriale e gli interessi della sicurezza nazionale. Innanzitutto, perché prendere ad esempio proprio la Spagna? Perché il sistema spagnolo, oltre ad una serie di aspetti relativi al funzionamento e all'organizzazione regionale in materia di sicurezza, presenta numerose analogie politico-istituzionali con l'Italia. In misura maggiore e più aderente rispetto a quello tedesco, citato sempre come modello di 148


riferimento. Quest'ultimo, infatti, si muove in un contesto di tipo di Stato federale molto definito, laddove le strutture di organizzazione e le funzioni cambiano da un Land all'altro. Conseguenza diretta dell'organizzazione federale della polizia, il diritto della polizia, in altre parole la codificazione del diritto della polizia, è specifico di ogni Land. Ogni Lana' cioè ogni Stato regionale della Repubblica federale, ha il suo proprio diritto e organizzazione di polizia. Al di là dei punti comuni o che avvicinano gli uni agli altri, esistono differenze a volte significative. Quindi, si ritiene che il sistema spagnolo sia quello più confacente ai.fini di un'ipotesi di soluzione italiana. Qui ci limitiamo a fare delle brevi considerazioni. Innanzitutto, occorre partire dalla Costituzione. L'articolo 104 della Costituzione spagnola stabilisce che: "1) Le forze e gli organi di sicurezza, posti alle dipendenze del governo, avranno lo scopo di proteggere il libero esercizio dei diritti e delle libertà e di garantire la sicurezza cittadina. 2) Una legge organica determinerà le funzioni, i principi fondamentali d'intervento e gli ordinamenti delle forze e degli organi di sicurezza". Successivamente, l'articolo 148, primo comma, 22), afferma che la Comunità autonoma è competente nella materia del "coordinamento ed ogni altro potere per quanto riguarda le polizie locali nei termini stabiliti da una legge organica". E infine, l'articolo 149, comma 1, 29), stabilisce la competenza esclusiva dello Stato in materia di "sicurezza pubblica, fatta salva la possibilità per le Comunità Autonome d'istituire servizi di polizia nella forma prevista dai rispettivi statuti e sulla base del disposto di una legge organica". t importante segnalare che, dando la possibilità di creare diverse polizie autonome, quello che si decentralizza è il mantenimento della sicurezza pubblica e non la sicurezza pubblica stessa, che continua ad essere materia esclusiva dello Stato, in questo confortata dall'interpretazione data dal Tribunale Costituzionale con le sentenze n.17 del 5 dicembre 1984 e n.104 del 8 giugno 1989. Questo schema costituzionale sarà poi sviluppato fondamentalmente nella Legge Organica delle Forze e Corpi di Sicurezza del 1986 e negli statuti delle diverse Comunità Autonome e conseguenti leggi. Come si afferma all'articolo 2 della Legge Organica delle Forze e Corpi di Sicurezza: "Le Comunità Autonome parteczeranno nel mantenimento della pubblica sicurezza nei termini che stabiliranno i rispettivi Statuti all'interno di quanto stabilito dalla legge". In particolare, ed a proposito della potestà statutaria delle Comunità in fatto di polizia locale, qui si vuole citare l'esperienza della Catalogna, nel cui 149


statuto all'articolo 13 è previsto che la Generalitat (ovvero il Governo regionale) potrà creare una Polizia Autonoma nell'ambito dello Statuto e, ove non sia specificatamente regolato nello stesso, in quello della Legge Organica prevista dall'articolo 149, comma l, n. 29 della Costituzione. Per poi affermare che la Polizia Autonoma della Generalitat eserciterà le seguenti funzioni: a) la protezione delle persone e dei beni ed il mantenimento dell'ordine pubblico; b) la sorveglianza e la protezione degli edifici e degli impianti della Generalitaz, c) le ulteriori funzioni previste nella Legge Organica. E ancora: spetta alla Generalitat il comando supremo della Polizia Autonoma e il coordinamento dell'attività delle Polizie locali, e che viene istituita la Giunta di Sicurezza, formata da uguale numero di rappresentanti del Governo e della Generalitat, con il compito di coordinare l'azione della Polizia della Generalitat e delle Forze e Corpi di Sicurezza dello Stato. Inoltre, si può citare, a mo' di ulteriore esempio, anche lo Statuto dell'Andalusia all'articolo 14: "1. Compete alla Comunità Autonoma dell'Andalusia l'istituzione di un Corpo di Polizia Andalusa che, nel rispetto delle funzioni dei Corpi di Sicurezza dello Stato e nell'ambito della relativa Legge Organica, svolga le proprie funzioni sotto diretta dipendenza della Giunta d'Andalusia. 2. Compete altresì alla Comunità Autonoma dell'Andalusia il coordinamento dei corpi di polizia locale andalusa senza per questo venir meno alla dipendenza dalle autorità municipali. 3. Verrà istituita la Giunta di Sicurezza che con rappresentanza paritaria del Governo e della Giunta d'Andalusia coordini l'operato della Polizia Autonoma e dei Corpi e delle Forze di Sicurezza dello Stato". Abbiamo voluto presentare - sia pur sinteticamente - la disciplina della polizia locale in Spagna, perché si ritiene questo essere il modello che meglio si potrebbe venire ad osservare nell'ordinamento "federale" italiano, ovviamente a condizione di cambiare le regole costituenti.

Relazione presentata al Convegno su "Lo Stato e le autonomie. Le Regioni nel nuovo Titolo V della Costituzione", tenutosi nell'Università di Urbino l'li e 12 aprile 2002.

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Riforme costituzionali e politica. Note sulla revisione del Titolo V Cost. di Walter Nocito

La riflessione scientifica degli ultimi anni, in Italia, ha prestato attenzione al tema delle riforme costituzionali ed amministrative; se per queste ultime, però, la "cultura giuridica" ha potuto, a vario titolo, intervenire per influenzare la progettazione e l'attuazione delle stesse (in positivo ed in negativo), nel caso delle riforme costituzionali (quelle tentate, ma anche quelle approvate) tale influenza è stata alquanto debole, ove non addirittura inesistente. Tale osservazione è valida per tutto il campo delle riforme costituzionali ed amministrative proposte, approvate ed attuate nel corso delle ultime legislature (X1, XII e XIII), per le quali, nell'ambito del dibattito politico-istituzionale, si è giunti a lamentare, da parte di alcuni, un "caos riformista" 1 che, delegittimando la Costituzione vigente, "lascia persino privi di una Costituzione certa" 2 Anche non accettando l'estremizzazione contenuta in tale tesi, si deve riconoscere, preliminarmente, che la debole (o meglio inesistente) influenza esercitata dalla cultura giuridica (o meglio la scarsa considerazione che di questa hanno avuto i decisori politici-itituzionali "di vertice") nel corso del recente processo di riforme costituzionali, a differenza di quanto avvenuto invece per quelle amministrative, costituisce un grave handicap che, inevitabilmente, sarà "scontato" nel proseguimento della vita politica ed istituzionale italiana, soprattutto in relazione alla tenuta del complessivo assetto costituzionale (forma di Stato e di governo e sistema delle garanzie) modellato dalla Carta costituzionale del 1948. È indubbio, infatti, che le alterne vicende delle riforme costituzionali (quelle tentate e quelle riuscite), ed in particolare quelle della Commissione Bicamerale cosidetta "D'Alema", si sono per la gran parte svolte nel chiuso di ristretti gruppi di dirigenti politici ed hanno creato, anche tra gli osservatori più attenti e qualificati, la sensazione di una completa opacità del processo .

UAutore è professore a contratto di Diritto Regionale e degli enti locali, Facoltà di Scienze Politiche, Università della Calabria. 151


riformatore; in altri termini, il dibattito sulle riforme non è stato trasparente (in particolare nel periodo 1994-2000) e quando lo è stato era notevolmente "confuso", "nebuloso" e culturalmente "dequalificato" 3 Il sistema istituzionale, d'altra parte, ha subìto, in questi anni, uno stato di continua fibrillazione, nel quale osservatori ed operatori hanno cercato di metabolizzare una serrata serie di innovazioni "incrementali", ciascuna di grande rilevanza, che però non sono apparse tra loro collegate da trame unitarie, né rette da "razionalità apriori' In questo senso, da più parti si è dovuto rilevare che se, da un lato, "i tempi sono senza dubbio interessanti perché le istituzioni mutano nelle regole e nella prassi", dall'altro, "non si scorge quale possa essere il punto di approdo di queste trasformazioni" 4 Da parte delle forze politiche, si è imposto un discutibile "uso' congiunturale delle istituzioni" 5, frutto di una spregiudicatezza istituzionale e di un tatticismo riformista privi di spessore culturale, tanto che si è potuto, a buona ragione, sostenere che "dietro affermazioni altisonanti come 'Grande riforma' o simili, nella realtà, mai è affiorato un progetto complessivo e di largo respiro, sorretto da una cultura adeguata" 6 Tali affermazioni sono riferibili principalmente alle posizioni avanzate nel dibattito in seno alla Commissione Bicamerale, ma si possono anche estendere alle altre successive riforme costituzionali (tentate ed attuate). .

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UNA "DISINVOLTA" STAGIONE COSTITUENTE •

Svolte le precisazioni relative al (mancato) dibattito politico-culturale (e scientifico) sui contenuti e sulle modalità (parlamentari o meno) della revisione costituzionale, si può ora richiamare per cenni la recente stagione di revisioni costituzionali parlamentari (ex art. 138 Cost.) approvate nella )(III Legislatura e valutate, da più parti, quali prova di "concreto riformismo", in opposizione agli insuccessi del terzo tentativo organico di riforma della Costituzione. Come lo stesso ministro per le riforme istituzionali ha riconosciuto nel "Rapporto sulle riforme istituzionali" (2001), "dopo il fallimento della Commissione D'Alema... si è scelto di adottare un percorso di riforme incrementali.., in tal modo, si è preso atto di una caratteristica di fondo della società italiana, nell'ambito della quale la politica dei piccoli passi ha sempre prodotto risultati migliori e più duraturi di quella delle grandi riforme." Tralasciando in questa sede la pur necessaria distinzione tra riforme e revisioni costituzional1 7 (che pure, si noti, sono proceduralmente disciplinate dal 152


medesimo art. 138 Cost.), si ricorda che nell'arco di poco più di un anno (novembre 1999-marzo 2001) sono state approvate ben quattro rilevanti "riforme" costituzionali, relative alla forma di governo e agli statuti regionali (l.c. 1/99 e l.c. 2/01), al cosiddetto giusto processo (l.c. 2/99), al voto degli italiani all'estero (l.c. 1/00) e alla revisione del Titolo V Cost. (1.c. 3101). Tra queste, com'è noto, l'ultima (quella di maggiore rilievo anche perché si deve notare - è stata la più estesa per numero di articoli revisionati) non è stata una riforma bipartisan, giacché è stata approvata "a stretta maggioranza", con ciò costituendosi un precedente costituzionale del tutto innovativo, per alcuni deleterio (una vera e propria "rottura" di una convenzione costituzionale), essendosi fatto ricorso alla maggioranza non per governare ma per cambiare le regole ed i princìpi convenzionalmente ritenuti modificabili solo con il quorum rafforzato dei 2/3 (quorum che vale ad escludere anche la possibilità di referendum confermativo ex art. 138, Il comma). Pur in presenza di una relativa differenziazione tra le varie modifiche approvate, in relazione al loro rilievo ed al loro grado di innovatività 8 (molto differenziato), una valutazione attenta anche ai profili politico-costituzionali (e di cultura politica) delle stesse deve riguardare non tanto gli aspetti procedurali (modalità parlamentare e base parlamentare) quanto il "significato" delle stesse riforme, ed in definitiva, come si è potuto osservare, il "ruolo che in questa fase (apertasi oramai da tempo) si tende a riconoscere ai processi di revisione costituzionale" 9 Richiamato,,, quale carattere comune alle quattro "revisioni costituzionali" del periodo 1999-2001, l'effetto (stabilizzatore?) di "costituzionalizzazione di contenuti già presenti nell'ordinamento" (e rispetto ad alcune delle quali si è potuto parlare, non a torto, di un vizio di "particularismo"bO costituzionale simile a quello dimostrato nel tentativo di riforma operato dalla "ingioriosa" Bicamerale' 1), interessa, in questa sede, evidenziare come le recenti riforme, pur con modalità ed in gradi differenziati (di certo l'ultima si qualifica migliore delle precedenti), tendano a rimarcare (o a dimostrare) una grave 'aduta di tono" (politico e culturale) del legislatore di revisione rispetto all'idea stessa di Costituzione, al suo profondo significato politico, al suo ruolo ed al valore (anche normativo) che essa deve avere in uno "Stato costituzionale di diritto" 12 Tale caduta di tono rileva anche nelle due revisioni che hanno riguardato il Titolo V. Se per la prima revisione, però, le notazioni critiche possono essere anche molto preoccupate e preoccupanti, in considerazione delle anomalie di contenuto della legge cost. n.1199, per la seconda il discorso è più proble.

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matico e le posizioni critiche (anche in dottrina) sono differenziate, non solo relativamente alla base parlamentare della riforma, ma anche in relazione al vario e complesso contenuto della stessa, di certo difficilmente giudicabile in blocco eppure oggetto di una consultazione referendaria. In particolare, in relazione al contenuto transitorio della legge cost. n. 1/99, si è potuto osservare che la particolare tecnica adoperata da quella legge (una norma costituzionale che deroga espressamente la legge ordinaria) rivela "una tendenza - diffusasi di recente - che porta a confondere i diversi tipi di atti normativi, dimenticando che le leggi ordinarie e quelle costituzionali non si distinguono soltanto 'per forza' ma anche per il ruolo. Come è noto, se alla Costituzione ed alle disposizioni di rango costituzionale è assegnato il compito di definire principi 'superiori' entro il cui spazio si svilupperà la convulsa dinamica politica e sociale, alle leggi ordinarie spetta, invece, di definire le regole che, di volta in volta, questa dinamica impone. È perciò che non spetta alle norme costituzionali occuparsi dell'oggi; è perciò che nei testi costituzionali non devono inserirsi norme particolari e minute; è perciò che l'attuazione dei principi costituzionali è riservata al legislatore ordinario. Sicché la tendenza - seppure questa volta contenuta in una disposizione di tipo dichiaratamente transitorio (ma meglio sarebbe dire occasionale) - a fare regolare direttamente da norme di rango costituzionale i casi più particolari appare contraria alla loro più profonda natura, degradandone il ruolo" 13 In relazione al contenuto costituzionale relativo all'autonomia statutaria, al sistema elettorale ed alla forma di governo regionale, sono stati sollevati dubbi sia relativamente ad una ipotesi di «decostituzionalizzazioriè delle disposizioni costituzionalii 4, sia relativamente alla "indeterminatezza delle linee" del disegno complessivo delineato dal revisore costituzionale. In tal senso, si è potuto correttamente sostenere che "l'indeterminatezza denunciata riguarda direttamente le disposizioni ed il disegno complessivo che dovrebbero caratterizzare le norme approvate dal Parlamento. Incerto è il senso politico e culturale della legge costituzionale". Una legge, dunque, "che risulta essere tanto minuta ed attenta nella regolamentazione dei particolari, quanto indecisa ed indeterminata nella scelta dei modelli di fondo" 15 In conseguenza dell'assenza di un quadro di riferimento complessivo (che pure dovrebbe presiedere il futuro assetto dello Stato delle autonomie e che solo parzialmente la seconda riforma del Titolo V si è incaricata di delineare), anche lo stesso ampliamento (notevole sia per il contenuto che per la procedura) dell'autonomia statutaria regionale (cui viene demandata la definizione della forma di governo, collegata alla autonoma disciplina del sistema eletto.

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rale regionale) appare, per varie ragioni, "una chiara manifestazione delle incertezze culturali e politiche del revisore costituzionale", piuttosto che una ponderata opzione regionalista voluta "per estendere e caratterizzare il più ampio potere di organizzazione delle singole regioni" 16 . Come meglio si specificherà più avanti, tale scelta rappresenta un rischio per la stabilità (e la "pacificità") dei rapporti tra le diverse Regioni e tra le stesse e lo Stato; ed infatti, la diversità delle forme di governo regionale, rendendo disomogenee le forme istituzionali, potrà destabilizzare i rapporti tra i governi regionali (rafforzati notevolmente), ed anche quelli con il Governo (come si dirà, le assemblee rivestono un ruolo ridimensionato). La facoltà di scelta, per ciascuna Regione, della propria forma di governo, come si è sottolineato, appare "foriera di confusione ordinamentale e non invece sorretta dalla ragione di accentuare lo spazio di autonomia degli enti regionali" 17• In relazione alla "caduta di tono" culturale prima richiamata, si deve sotto lineare che essa costituisce un problema di rileyante gravità che dovrebbe essere valutato in tutti i suoi vari aspetti (politici e giuridici in primis, ma anche storici, sociali ed economici) e rispetto al quale si proporrà di seguito qualche breve osservazione. LA DISSOCIAZIONE TRA POLITICA E COSTITUZIONE

La lamentata disinvoltura delle forze politiche (in più punti simile a mero tatticismo), la debolezza e l'inconsistenza caratterizzanti le recenti posizioni in materia di riforme costituzionali (rispetto alle quali quelle approvate rappresentano un "precipitato" migliorativo) sono dovute, sia pure non interamente 18, ad un "processo" di natura storica (o forse ad un "fatto" oramai compiuto?) per il quale, in Italia (ma non solo in Italia), si sta assistendo ad un continuo e costante "declino di quella concezione intensamente politica dell'attuazione della Costituzione che era ben ferma nella cultura dei nostri costituenti" 19. Come gli storici delle Costituzioni ed i giuristi più attenti hanno sottolineato, le trasformazioni della Costituzione materiale del 1948 (che delineava uno Stato sociale di diritto imperniato su un esteso e radicato sistema politico-partitico) hanno condotto, in conseguenza principalmente della crisi del sistema dei partiti di massa, ad un "evidente processo di dissociazione tra politica e Costituzione" 20 che, invece, nell'impianto costituzionale voluto dal costituente, erano intimamente tra loro legate (si potrebbe dire inscindibilmente connesse). 155


Ed infatti, mentre i costituenti (come anche la classe politica legata alla cultura della Costituente), "tenevano (Costituzione e politica) l'un con l'altra in un rapporto di profonda simbiosi", e l'impianto della Costituzione dagli stessi elaborata pare confidare "sulla permanenza nella nostra società di una politica animata da finalità di ordine costituzionale", le forze politiche che attualmente procedono alle riforme hanno un soio piano di azione, "quello della composizione degli interessi di volta in volta rilevanti sulla scena pubblica" 21 La politica, non solo in Italia ma in tutti gli Stati che si sono dotati di costituzioni democratiche e sociali avanzate, sempre più sta abbandonando il terreno della Costituzione e sempre meno si preoccupa di perseguire finalità di ordine costituzionale, nel senso che sempre più rinuncia a finalità di lungo periodo costituzionalmente animate e fondate, e sempre più "si racchiude nel recinto della mediazione degli interessi o della semplice competizione per la conquista del consenso, della maggioranza o del governo" 22 In altri termini, quello che sta venendo meno tra le forze politiche è una visione o un'idea, da alcuni 23 ritenuta "patrimonio del pensiero politico moderno", per la quale "lo spazio della politica (una volta emancipatasi dal diritto naturale) è lo spazio dell'elaborazione progettuale"; ragion per cui "la politica non è 'amministrazione' ... la politica non è soltanto soddisfacimento, ma governo razionale degli interessi ... la politica è capacità di selezionare scelte tali da guidare, non subire il cambiamento ... la politica, in definitiva, è lo spazio della libertà" 24 Tale allontanamento dalla dimensione progettuale della politica, intesa come attività di attuazione di principi (e valori) costituzionali, in favore di una dimensione per la quale la Costituzione è solo un limite esterno all'azione della politica (per cui la Costituzione da "creativa" diventa "responsiva") chiama in discussione il tema del "vuoto della politica" e dell'espansione della funzione giurisdizionale; in altri termini, il tema della "giurisdizionalizzazione della Costituzione" 25, quale soluzione, pur parziale, della "decostituzionalizzazione della politica". Tale soluziòne, insieme al rafforzamento del sistema di garanzie (da realizzare tramite una vasta serie di "istituti di garanzia" e a un ampliamento del catalogo dei diritti) e dei sistemi di governo, dovrebbe costituire l'asse fondamentale delle future trasformazioni costituzional1 26, nella direzione di una "Costituzione bilanciata". Con tale nozione si indica una Costituzione che consente di garantire congiuntamente il principio democratico (con la necessaria funzione di governo della società e di trasformazione degli assetti socioeconomici) ed il principio della garanzia dei diritti 27 .

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La questione che - ciò premesso - ci si deve porre, ai nostri fini, è costituita dalla seguente valutazione: il legislatore di revisione costituzionale si sta ponendo lungo questa linea che, superata la Costituzione-progetto, conduce alla Costituzione bilanciata ? Pare evidente, sulla base delle argomentazioni svolte e richiamate, che la risposta al quesito non possa non essere negativa, giacché gli sforzi (peraltro inconcludenti) delle forze politiche (e culturali) stanno conducendo, nella migliore delle ipotesi, ad un altro tipo di assetto normativo (e valoriale) costituzionale. Abbandonate le caratteristiche della Costituzione-progetto, dunque, il revisore costituzionale pare indirizzarsi verso assetti tipici delle cosidette "Costituzioni-bilancio" prive, com'è noto, di dimensione progettuale 28 . Il sistema costituzionale cui pare indirizzato, inconsapevolmente o meno, il legislatore di revisione costituzionale italiano, pone invece, a chi osservi gli sviluppi italiani nel contesto europeo e comunitario, un profondo e ragionevole dubbio, già sollevato dagli studiosi più attent1 29, relativamente al rischio che si pervenga ad un inedito "dualismo costituzionale" (per ora tendenziale) per il quale le regole costituzionali tendono ad articolarsi su due piani nettamente distinti (per valore normativo, ma anche assiologico): uno superiore (a livello comunitario, ma non solo, ove si pensi alla vicenda dell'intervento militare in Kossovo) ed uno inferiore (a livello nazionale, o interno). Il rischio che si intende in questa sede sottolineare (in relazione al dibattito sulle revisioni costituzionali, ma anche in relazione ad una valutazione storicizzata del rapporto politica-Costituzione) è costituito dal fatto che mentre il primo viene percepito come "autentico ordinamento costituzionale per l'importanza, la condivisione, la stabilità e la prescrittività dei princìpi da cui è costituito e le cui scelte, non a caso, sono assistite da uno 'spirito' autenticamente costituente", il secondo, per le ragioni richiamate in precedenza, si presenta come un livello costituzionale più debole, non assistito da alcuno spirito costituente e dunque "più circoscritto, mutevole, tendenzialmente privo di valutazioni sistemiche e. affidato alle opzioni tattiche o comunque alla ordinaria dialettica maggioranza-opposizione" 30 . La valutazione di un tale dualismo costituzionale, di certo anomalo e "rischioso", deve comportare una qùalche preoccupazione anche in chi si dichiara europeista convinto giacché, come si è acutamente osservato, "un siffatto dualismo sembra associare alla plebiscitaria adesione all'Europa dinamiche interne centrifughe se non deresponsabilizzanti", lasciando "pericolosamente sguarnita una dimensione nazionale ancora cruciale nell'attuale stato dei processi di integrazione europea"31. 157


LA REVISIONE DEL TITOLO V COSTITUZIONALE

In aggiunta al rischio di un simile dualismo, se ci si sofferma a valutare, più in particolare, la complessiva riforma operata dalle leggi di revisione degli articoli del Tit. V Cost., si presentano altri due ulteriori elementi di rischio, relativamente alla tenuta del tessuto costituzionale (della prima ma anche della seconda parte della Costituzione), che di seguito verranno sommariamente indicati e descritti, considerandoli alla stregua di chiavi interpretative, utili al fine di valutare i contenuti della recenti riforma "costituzionale" (le virgolette sono dovute alla dubbia presenza di una volontà o spirito "ri-costituente") in materia di ordinamento cosidetto "federale" 32 della Repubblica, di cui alla legge cost. n. 3 del 2001 (che non si può di certo considerare disgiuntamente dall'attuazione della riforma di cui alla I. cost. n. i del 1999). Tali ulteriori rischi, in estrema sintesi, possono essere così individuati: a) una natura "potenzialmente conflittuale" dei rapporti politici ed istituzionali tra i vari livelli di governo (con aumento del contenzioso costituzionale); b) un carattere essenzialmente "pattizio" dei rapporti tra Regioni e Stato (nella direzione di un federalismo "asimmetrico", rispetto al quale il caso spagnolo, mutatis mutandis, costituisce il modello principale di riferimento). Tali caratteristiche, com'è evidente, si richiamano l'una all'altra in un rapporto biunivoco di causa-effetto (ove non si ignori l'impatto ordinamentale e politico dell'attuazione della I. cost. n. 1/99, peraltro "al palo" in attesa del referendum confermativo della I. cost. 3101). Una valutazione prevalentemente descrittiva della riforma de qua conduce a riconoscere come aspetti principali della stessa i seguenti tre temi: i poteri legislativi (di certo la modifica di maggior rilievo), le funzioni amministrative (con modifiche di non rilevante impatto ordinamentale, ma di certo di grande "oscurità espressiva") e l'autonomia finanziaria (da più punti considerabile di per sé costituzionalmente irrilevante) 33 In relazione a quest'ultimo aspetto, si può agevolmente sostenere che la modifica dell'art. 119 Cost. non assume grande rilievo, giacché il nuovo testo, come si è potuto notare, "non, diverge più di tanto dal precedente, se non per una diversa articolazione letterale" 34 . Nel nuovo testo, dunque, non si riscontrano elementi realmente innovativi, anche se si può ritenere che, nell'enfasi riformatrice, il revisore "abbia pensato ad una attuazione diversa da quella che si è data al vecchio art. 119", ma tale diversa attuazione (in via di legislazione ordinaria) "sarebbe comunque compatibile anche con il testo ancora vigente" 35 .

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In relazione aipoteri legislativi ed amministrativi, si deve preliminarmente chiarire che il revisore costituzionale tra i due orientamenti possibili ha optato (sulla base di una 'communis opinio) per quell'orientamento dottrinario che considera l'autonomia regionale essenzialmente quale autonomia legislativa, e non invece per quell'indirizzo per il quale l'autonomia costituzionalmente regionale deve essere principalmente quella amministrativa. Su tale opzione, si può sostenere che la rottura con il vecchio modello costituzionale è abbastanza netta e visibile 36 in realtà, non mancano posizioni contrarie in via generale, in quanto si sostiene che "mentre è democratico che l'amministrazione sia quanto più vicina è possibile agli amministrati, esattamente al contrario, la legge deve essere la più generale possibile, perché solo così si garantisce l'uguaglianza davanti alla legge" 37. In termini molto sintetici, si può sostenere (per chi scrive, a ragione) che "non c'è bisogno di moltiplicare le leggi e di differenziare a scala territoriale gli ordinamenti, ma di dare efficace esecuzione alle leggi esistenti, impegnando i governi regionali e locali nella individuazione degli strumenti più utili di applicazione sul territorio delle normative nazionali e comunitarie" 8 In tema di poteri legislativi, il nuovo testo dell'art. 117 Cost. individua un nuovo riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni per il quale risultano tre diverse categorie di materie che sono: a) quelle di esclusiva competenza statale; b) quelle di competenza "concorrente"; c) quelle cosidette "innominate", residualmente regionali e nelle quali, si noti, operano i soli limiti cui sottostanno le leggi dello Stato e quelli cosidetti "di competenza statale trasversale" (essenzialmente i "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale", ma anche le "funzioni fondamentali degli Enti locali") 39 In tema di poteri e funzioni amministrative, la riforma de qua si presenta certamente poco chiara ed affatto pregevole, anche in conseguenza di alcune contraddizioni e superficialità tecnico-espressive; ed infatti, anche tra chi condivide l'opzione in favore dell'ampliamento della potestà legislativa regionale e del superamento dell'anacronistico principio del parallelismo amministrativo contenuto nel vecchio art. 118, forti dubbi sono stati suscitati dal nuovo testo dell'articolo e dall'impianto complessivo della riforma. In tale direzione, si è potuto sostenere che "nell'insieme, il grado di definizione costituzionale della distribuzione della funzione amministrativa è scarso e le linee di responsabilità non sono certo chiare" 40 . Lo stesso comma di apertura dell'articolo 118 - si deve notare - si presenta caratterizzato di una natura "sostanzialmente demagogica" 41 . Eventuali problemi potranno derivare prin;

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cipalmente dalle incertezze sui confini del riparto, nonché dalla qualità degli interventi legislativi attuati sulla base dello stesso, i quali si potranno tradurre "in possibili diversi modi di definire la qualità e la titolarità delle funzioni amministrative" 42 Una valutazione complessiva è dunque molto problematica, e comunque strettamente condizionata (subordinate ne sono le valutazioni di efficacia) dalla originaria opzione in favore dell'ampia autonomia legislativa. I punti di maggior rilievo problematico, in definitiva, sono costituiti dalle attribuzioni di potestà legislativa, rispetto alle quali sono possibili non solo critiche "di ordine generale", ma anche puntuali rilievi relativi allo specifico riparto di materie operato dal revisore costituzionale. Dubbi di un certo rilievo sono stati avanzati in particolare in relazione al lungo catalogo di materie oggetto di legislazione concorrente sulla base del quale "beni costituzionalmente rilevanti" (quali i diritti sociali) possono ricevere gradi di tutela differenziati tra le diverse Regioni in ragione delle disponibilità finanziarie regionali, o in ragione del contesto, latu sensu, culturale della società regionale43 .

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ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI

Si sono posti in rilevo come casi problernatici (per alcuni "inaccettabili" 44 di legislazione concorrente: la tutela e la sicurezza sul lavoro; la ricerca scientifica e tecnologica; le professioni; la tutela della salute; le grandi reti di trasporto e di navigazione; nonché la delicatissima materia del "coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario". In relazione a tale lungo catalogo di materie concorrenti ,nonche in relazione a tutte le materie cosidette "innominate", residualmente (ed esclusivamente) regionali, quello che si può identificare come un rischio reale per la futura evoluzione dell'ordinamento italiano è costituito dall'aumento del contenzroso costituzionale. In considerazione dell'abolizione del previo controllo statale sulle leggi regionali, è agevole prevedere che, come si è notato, difficilmente il governo potrà "inseguire" tutte le leggi regionali entrate (in ragione della maggiore libertà riconosciuta in capo al legislatore regionale) direttamente in vigore ai sensi del nuovo art. 127, cosicché andrà probabilmente ad aumentare (ma di quanto non è facile prevedere) il "peso del contenzioso in via incidentale" 45 In sede di attuazione della riforma, dunque, i problemi di maggior rilievo derivano (o meglio deriveranno), in gran parte, dalla redistribuzione della po-

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testà legislativa operata dal nuovo art. 117 (come applicabile anche - si deve notare - in combinato con l'art. 116, III comma) e, dunque, dal riparto della stessa per come ridefinito tra i vari livelli di governo, con esplicita inclusione - si noti - del livello normativo comunitario che trova un espresso richiamo nel nuovo I comma dell'art. 117. Proprio in relazione ai sopra accennati "casi problematici", tutti rientranti tra le materie in regime di legislazione concorrente, ma anche in relazione ad altri casi relativi a materie rientranti tra quelle esclusivamente regionalizzate, si deve sottolineare come gli stessi esperti dei settori riguardati dalla riforma (giuristi ed operatori del settore ma anche, si presume, gli stessi consiglieri regionali) siano al momento molto dubbiosi ed incerti, giacché considerano affatto semplice valutare quali saranno (o potranno essere) gli effetti sui sistema regionale (nonché sulle singole Regioni) delle novellate disposizioni costituzionali (art. 117, ma anche 116, 11 comma). Tra i casi più rilevanti che, sul punto, si possono valutare come aperti, incerti e problematici, si possono richiamare due distinte materie, in precedenza entrambe statali, le quali, se specificamente ed attentamente considerate, danno la cifra, pur nella loro diversità, della problematicità dell'attuazione della riforma, in buona parte dei settori dalla stessa riguardati (probabilmente in conseguenza della originaria opzione, prima accennata, preferita dal legislatore). Il primo caso riguarda una materia rientrante nel III comma dell'art. 117 (materie in regime di legislazione concorrente), mentre il secondo caso riguarda una materia di competenza esclusivamente regionale, ai sensi del IV comma. La prima materia è quella della "tutela e sicurezza del lavoro", mentre la seconda è quella della "industria" (e del sostegno alle attività produttive). Riguardo alla prima materia, le considerazioni sono state, da parte di molti giuristi ed operatori, incerte, preoccupate e per alcuni versi sconcertanti, giacché, come fin da subito si è potuto sottolineare 46 gli stessi giuslavoristi italiani non sono in grado di "decifrare" gli effetti delle novellate disposizioni costituzionali riguardanti (direttamente, ma anche indirettamente) la materia in questione. Tale impossibilità deriva e dipende da un duplice ordine di ragioni (chiaramente tra loro connesse). La prima, in realtà comune anche ad altre materie, risiede nelle condizioni di generale incertezza, non solo politica, ma anche - come si è cercato di sottolineare nel paragrafo precedente - concettuale e, latu sensu, culturale, nelle quali si è elaborata e soprattutto si dovrà attuare la riforma in questione47 ,

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La seconda ragione è relativa al difficile bilanciamento (in primis, in sede interpretativa, da parte del legislatore nazionale, ma poi anche da parte dellegislatore regionale) tra le incerte, imprecise (e contraddittorie) norme costituzionali relative, all'interno dell'art. 117 (combinato - si ricordi - con le facoltà di cui all'art. 116, lI comma), alla materia lavoristica (norme relative alla inclusione, nel III comma, delle materie "tutela e sicurezza del lavoro" e "previdenza complementare e integrativa", da bilanciarsi con le lettere I), m), o) del comma precedente, relative a: ordinamento civile, determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, e, infine, previdenza sociale). Se, come qualcuno prevede, i principi nazionali in materia lavoristica si andranno ad assestare su enunciazioni generali (cosidetto sofi law), passibili di modalità attuative differenziate, quello che potrebbe essere uno dei principali effetti attuativi della riforma in questione sarebbe costituito (ponendo un esempio che di certo appare realistico) da una differenziazione regionale in materia di licenziamenti, con la possibilità che, fissato sul piano nazionale il principio generale di tutela del lavoratore, sul piano regionale si differenzino le forme della tutela (con la facoltà da parte del lavoratore di optare tra la tutela reale o la tutela obbligatoria, ovvero tra la reintegrazione o il risarcimento). Un secondo caso, forse meno "delicato" e problematico, ma altrettanto incerto in sede attuativa, riguarda il caso della materia Industria e sostegno alle attività produttive". Riguardo a tale materia, le novellate disposizioni costituzionali si presentano chiaramente espresse giacché, non essendo menzionata da nessuno dei commi dell'art. 117, essa deve ritenersi ricompresa nella terza tipologia di materie "residualmente" regionalizzate. In realtà, deve notarsi che in tale articolo sono comunque indicate tra le materie "concorrenti" alcune materie che sono in vario modo correlate alla materia "industria", fra le quali si ricorda: ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; governo del territorio. Le competenze legislative (e dunque amministrative) in materia di industria e politiche industriali sono state, dunque, pienamente regionalizzate dalla riforma in discussione. Se ciò è pacifico, l'assetto delle competenze legislativamente vigenti (d.lgs. n. 112/98), alla luce del nuovo art. 117, consente di individuare due possibili distinti livelli di politiche industriali; un livello na162


zionale (art. 18 del d.lgs. n. 112/98) ed uno regionale (art. 19 del d.lgs. n. 112/98). Il principale aspetto problematico, in sede attuativa, è perciò relativo al rapporto nonché all'equilibrio tra tali due livelli. Per tale ragione gli osservatori più attenti, a fronte delle astratte possibilità (presenti o future) costituzionalmente e legislativamente consentite, devono valutare e "decifrare" le effettive condizioni di esercizio da parte delle Regioni delle competenze costituzionalmente previste in materia di industria e sostegno alle attività produttive. In tal senso, la questione che deve essere posta (e risolta) in sede attuativa, al di là delle valutazioni circa l'opportunità di avviare e rafforzare politiche industriali regionali, è quella della disponibilità delle risorse necessarie per l'esercizio delle competenze in materia di politiche industriali. Rispetto a tale tema, in realtà, la considerazione delle competenze ancora riservate allo Stato (art. 18 del 112), ed ancor di più delle relative risorse disponibili per lo Stato e le Regioni, conduce a porre in rilievo un problema di coerenza tra previsione costituzionale e previsioni legislative vigenti, che di certo andrà risolto da parte del legislatore nazionale, se si vuole che le Regioni possano effettivamente, per la loro parte, avviare (e rafforzare) politiche industriali regionali coerenti e strutturali (cioè non "episodiche" o "congiunturali"). Analisi omologhe dovrebbero svolgersi per ogni singola materia; ad esempio, considerando la materia "istruzione", si potrebbero individuare problematiche simili a quelle poste dalla materia "tutela del lavoro" di cui si è già detto. IL FEDERALISMO "ALL'ITALIANA"

Svolte queste considerazioni di carattere attuativo (limitatamente a due materie paradigmatiche, scelte a titolo meramente esemplificativo) occorre porsi il problema se il cosidetto "federalismo all'italiana", per come delineato dalle revisioni del Titolo V, potrà avere, o meno, una carattere prevalentemente "centrifugo" e "disgregativo". Benché la risposta al quesito si presenti problematica ed incerta (invero più nel quantum e nel quomodo che nell'an), pare a chi scrive che, sulla base delle valutazioni svolte (e di altre possibili ma non esplicitate in questa sede), gli elementi in favore di una risposta positiva siano prevalenti rispetto a quelli in favore di una risposta negativa; ciò anche in relazione al secondo elemento di rischio prima segnalato, e cioè il carattere pattizio ed asimmetrico (nei rapporti tra i governi) dei rapporti Stato-Regioni, in attuazione di un "principio di contrattazione", cui si fa ricollegare, da più parti (con evidenti venature 163


presidenzialiste, antiparlamentari e populiste), un principio democratico di certo slegato dalle classiche forme della rappresentanza politica. Gli elementi di novità introdotti in Costituzione dalle recenti riforme del Tit. V paiono, dunque, poter essere ricondotti al passaggio (inquadrabile nella anomala "transizione italiana") da un regionalismo (pur fallimentare) di natura cooperativa e consensuale (si pensi alla procedura approvativa degli Statuti regionali) ad un regionalismo tendenzialmente "differenziato", "asimmetrico e conflittuale In tale passaggio, in conseguenza della crisi della rappresentanza politica e della connessa suggestione presidenzialista (che presumibilmente coinvolgerà anche il livello nazionale, come risposta ad esigenze di garanzia e di unità nazionale), si assiste ad un'emarginazione del ruolo delle assemblee rappresentative (parlamento e consigli, anche nelle loro funzioni, centrali, di controllo), secondo cui il sistema di relazioni tra Stato e Regioni viene a dipendere principalmente dall'esito dei rapporti di forza (negoziale) instaurati tra singole Regioni (governatori) e fra queste e lo Stato (Governo). Tali negoziazioni, rischiano, come si è potuto sostenere, di causare e "di legittimare differenziate prestazioni (anche dal punto di vista funzionale) sul territorio nazionale", 48 rispetto alle quali la fissazione statale dei "livelli essenziali" appare (politicamente) problematica ed incerta. Tali osservazioni - si chiarisce - non intendono certo giudicare negativamente i processi di riforma grazie ai quali si è intesa rafforzare la funzione di governo nei vari livelli istituzionali; ciò che si intende sottolineare, invece, è che se l'obiettivo delle riforme deve essere quello, da tutti (formalmente) condiviso, di valorizzare l'autogoverno territoriale e contemporaneamente di rafforzare la coesione nazionale (in una dimensione anche comunitaria), allora ciò che deve essere rafforzato è il federalismo amministrativo (e non quello legislativo) ma, soprattutto, si deve procedere ad una riforma, di certo difficile, che sia allo stesso tempo istituzionale (assetti e funzioni dei vari livelli di governo) e politica (sistema della rappresentanza politica). In altri termini, la riforma politica da associare necessariamente alla riforma federale per limitare i rischi anzidetti, legati alle ipotesi di assetti "federalistici", deve essere finalizzata, come si è potuto a ragione sostenere, a "riformare, in coerenza, il sistema politico e della rappresentanza politica, essendo evidente l'incompatibilità tra un serio assetto federale e l'attuale pletorica articolazione della rappresentanza politica, espressa in mille parlamentari, distribuiti su due camere con competenze paritarie, in oltre 8000 consigli comunali, in 108 consigli provinciali e in 20 consigli regionali, per di piìt in un contesto 164


di crisi radicale del rapporto tra politica e cittadini; questa sovrabbondanza della rappresentanza politica, coesistente con una caduta vertiginosa della sua rappresentatività sostanziale, deve essere evidentemente ripensata in radice 49". In conclusione, la domanda che si può e si deve porre è la seguente: si orienteranno le imminenti riforme (costituzionali ed istituzionali) in una simile direzione di riforma del sistema politico (ed anche di rafforzamento del sistema della garanzie, nell'ottica della Costituzione bilanciata)? Le premesse, e gli attuali sviluppi, paiono tutt'altro che favorevoli.

Cfr. A. CHIAPPErrl, La ricerca della Costituzione perduta, Torino, 2001, p. 2 Ss. Una simile posizione, ben chiara già dal titolo, è certamente non condivisibile da chi si ritiene erede delle forze che diedero vita alla Costituzione italiana del 1948ma, in realtà, è da alcuni anni largamente diffusa nell'opinione pubblica, e non solo tra le forze politiche e culturali che di quella tradizione non sono eredi. 2 Ibidem. 3 Fra gli altri, in tal senso, vedi anche S. GAMBIN0 (a cura di), La rfiirma della Costituzione, Roma, 1998. ' Cfr. S. RODOTA, Rfòrme, la grande confrsione, in «La Repubblica», 16 gennaio 2001. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Di recente ha acutamente richiamata tale distinzione M. CAMMELLI, Riforme istituzionali e regole, in «Il Mulino», n.2/2001, P. 226 Ss.; sulla distinzione tra revisione e riforme, cfr. U. RESCIGNO, Revisione della Costituzione o nuova Costituzione?, in «Diritto Pubblico», n. 311997, p. 603ss. 8 Cfr. sul punto le giuste osservazioni svolte da M. CAMMELLI, Op. cit., p. 228 ss. 9 Cfr. M. CAMMELLI, op. cit. p. 228 ss. L'Autore svolge un'attenta analisi relativamente alla differenziata efficacia stabilizzatrice derivante

dalla "costituzionalizzazione" di contenuti già presenti nell'ordinamento e spesso introdotti con legge ordinaria, per poi arrivare, in considerazione degli assetti politici maggioritari e di una imminente crisi del sistema delle garanzie costituzionali, a problematiche conclusioni relativamente allo "smarrimento del significato e del ruolo della Carta costituzionale" quale conseguenza dalle recenti riforme. IO Cfr. G. AZZARITI, "Costituzione di un giorno", in «La rivista del manifesto», n. 5/2000; in relazione alla revisione degli artt. 111 e 48, l'Autore osserva che in tali casi "è riscontrabile un 'vizio' di particolarismo" giacché "con l'intento di salvaguardare il giusto processo, si sono iscritti in Costituzione regole già implicite nei principi di quello stesso articolo e in altre disposizioni costituzionali - come la Corte costituzionale aveva avuto modo di chiarire in diverse occasioni - ovvero si sono scritti precetti che meglio si sarebbero potuti inserire in leggi ordinarie"; con l'integrazione dell'art. 48 - aggiunge - ci si è introdotti in "una complicata questione affrontata con demagogica superficialità costituzionale" (p. 8). Sul fallimento del tentativo della riforma in sede di Bicamerale, nella quale "la ricerca del 'particulare' costituzionale ha rappresentato una costante", cfr. G. AzzARITI, op. cit. L'Autore 165


considera quel fallimento come una "deflagrazione causata anche dall'aver voluto inserire in Costituzione tante 'piccole' e contingenti soluzioni che-si ritenevano utili (forse) per risolvere questo o quel problema che le diverse forze politiche sollevavano"; nel far ciò - aggiunge - la Commissione "non è riuscita a misurarsi con chiari e consapevoli princìpi e modelli costituzionali non contingenti e particolari" (p. 8), 12 Sul valore della Costituzione, cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, in particolare cfr. p. 39 Ss. 13 G. AZZARITI, op. cit., p. 7. 14 In tale direzione, C. DE Fiorts, La repubblica dei Governatori, in «La rivista del manifesto», n. 1612001 15 Cfr. G. AzzAItITI, op. cit., p. 8. 16 Cfr. G. AZZARITI, op. cit., p. 8. 17 Cfr. G. AZZARITI, op. cit., p. 8. 18 Sulla contingenza o sulla strutturalità de!la difficoltà "italiana", negli ultimi venti anni, a porre in essere un processo di riforme politicoistituzionali, le posizioni sono molte e varie; in questa sede non pare opportuno soffermarsi sui tema, anche se - si sottolinea - da più parti si Sostiene che "la testardaggine che ha prodotto le Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D'Alema ha fatto perdere quasi vent'anni al processo di riforma costituzionale" (5. RODOTÀ, in «La Repubblica», cit.); qualunque sia il nesso di causaeffetto tra inconcludenza dei tentativi di riforma e tatticismo politico-costituzionale, resta valida la conclusione per la quale "questo risultato è figlio d'una debolezza della politica che, per eludere i nuovi e difficili problemi che la realtà mutata poneva, ha preferito trincerarsi dietro un'ingegneria costituzionale cieca e presuntuosa. Così, i risultati attesi non sono venuti e si è rafforzato quel processo di impoverimento della politica che, in questi anni, ha visto la sua resa davanti l'economia, la sua riduzione ad amministrazione, la sua rinuncia a cercare riferimenti forti, la sua identificazione con l'immagine, la sua integrale personalizzazione" (5. RODOTÀ, in <'La Repubblica», cit.). 166

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Cfr. M. FI0ItwANT!, Costituzione e popoio sovrano, Bologna, 1998, p. 17 Ss.; sui tema problematico ma centrale dei rapporto politica-Costituzione vedi, di grande interesse, la Introduzione, p. 7 ss. e la bibliografia ivi riportata. 20 Cfr. M. FIORAVANTI, Costituzione e ... cit. p. 19. 21 Cfr. M. FIoIvAJ'4TI, Costituzione e ... cit. p. 16. 22 Cfr. M. FIoItw.i'TI, Costituzione e ... cit., p. 20. 23 Cfr. M. LUcIANI, A mò di conclusione.' le prospettive del federalismo in Italia, in A. PACE (a cura di), Quale, dei tanti federalismi?, Padova, 1997, p. 247. 24 Ibidem, p. 247. 25 Nell'ampia letteratura vedi, per tutti, P. P. PORTINARO, Dal custode della Costituzione alla Costituzione dei custodi, in G. Gozzi (a cura di), Democrazia, diritti, Costituzione. I fondamenti costituzionali delle democrazie contemporanee, Bologna, 1997. 26 Nell'ampia letteratura, vedi i saggi contenuti in G. ZAGREBELSKY, P.P. PORTINARO, J. LUTHER (a cura di), IlJiituro della Costituzione, Torino, 1996; cui addei contributi in G. Gozzi (a cura di) Democrazia... cit. 27 Sul punto vedi, M. FIORAVANTI, Costituzione e .. cit., p. 33ss.; dello stesso Autore, Le dottrine dello Stato e della Costituzione... cit., p. 447 ss. 28 Come specifica Martines, tali Costituzioni-bilancio "sono rivolte ai presente ed hanno come loro fine quello di dare forma giuridica ad una realtà sociale già esistente", senza il proposito di promuovere la "trasformazione" economico-sociale della realtà (cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 1992, p. 228). 29 Cfr. M. CAMMELLI, "Riforme..; cit., p. 230. 30 Ibidem. ' Ibidem. 32 In relazione al profilo definitorio, si deve sottolineare come la revisione costituzionale del Titolo V approvata dal parlamento (ma al mo-


mento ancora sub iudice degli esiti del referendum confermativo ai sensi dell'art. 138 Cost.) non si auto-definisce, neanche nomine juris, come "federale", stante l'emendamento approvato in seconda lettura che ha cancellato l'originaria rubrica del testo di revisione. Tale riforma del Titolo V - si sostiene da più parti (quelle che l'hanno accolta "nel complesso" positivamente, nonché da parte della maggioranza parlamentare che l'ha approvata) - costituisce una "cornice" (o un "architrave") indispensabile per assicurare "armonia" ai numerosi interventi legislativi (in particolare la cd. Bassanini-i, l.n. 59197) che da oltre un decennio hanno interessato l'ordinamento delle autonomie locali e regionali e che fin dal 1990 si sono susseguiti "a segmenti" (ed anche parzialmente "a cascata") e ad intervalli fra loro molto ravvicinati (di fatto, incessantemente, di anno in anno). Tra tali osservatori si ritiene che la legge n. 59197 (con i relativi decreti attuativi), come anche la revisione costituzionale de qua non costituiscono un semplice aggiustamento del modello regionalistico costituzionale - già attuato con le regio nal izzazioni dei primi e dei secondi anni Settanta - quanto piuttosto un ripensamento dell'intero sistema delle autonomie locali che coinvolge tutti i livelli istituzionali di governo e prevede una significativa "valorizzazione" dell'autonomia locale comunale. In questo senso, ci si è spinti ad individuare una nuova forma di Stato, definita specificamente (ma problematicamente) "Stato regionale a tendenza municipale" (cfr. T. GROPpi, "Profili costituzionali del conferimento di funzioni alle Regioni ed agli Enti locali", paper (giugno 2000). In termini più chiari, si è sostenuto che, mentre le prime due regio nalizzazio ni costituivano mere attuazioni delle disposizioni costituzionali del Titolo V Cost., l'attuale processo di regionalizzazione (la terza) costituisce, prevalentemente e precipuamente, attuazione dei principi costituzionali relativi, in via prioritana, all'autonomismo ed al pluralismo (ex art. 5 Cost.), iìa non tale da escludere lo stesso principio democratico e quello dell'efficacia e

trasparenza dei pubblici poteri e dell'amministrazione in generale. Il modello astrattamente desumibile dalle recenti riforme s'ispirerebbe in definitiva ad un modello di Stato regionale caratterizzato da una "spinta" attuazione dell'opzione autonomista, già presente nella Costituzione del '48. Rispetto a quest'ultima, le riforme si presenterebbero, dunque, prevalentemente come uno "sviluppo" di alcuni principi costituzionali, piuttosto che come una "modifica" effettiva degli stessi. Come si è sottolineato, dunque, anche in assenza della possibilità di desumere dalle attuali riforme una nuova forma di Stato qualificabile come federale, le innovazioni apportate dalle riforme sono costituzionalmente significative, in quanto sono stati estesamente attualizzati valori e principi che già la Costituzione del '48 conteneva, pur "imprigionati" in una forma eccessivamente debitrice dello Stato liberale ottocentesco. In questo senso, da parte ditali autori, si è sottolineato come sia "indubbio che attraverso le suddette riforme istituzionali si è radicalmente intaccato l'assetto centralistico dell'organizzazione pubblica e si è innervato il pluralismo istituzionale nel corpo della società italiana. Tale pluralismo ha trovato la sua principale spinta dinamica e la sua carica di legittimazione soprattutto nei Comuni ed il suo momento di unità e di coordinamento nel "sistema delle conferenze" costituito da Conferenza Stato-Regioni, Conferenza Stato-città e Conferenza unificata (cfr. G. PITRUZZELLA, Editoriale, in «Le Regioni», 2000, n. 1). Fra gli altri, sul punto, vedi anche S. GAMBINO e W. N0cITO, Riforma costituzionale e federalismo amministrativo: quale baricentro per il governo locale?", in AA.VV. (Atti Convegno Università degli studi del Sannio, Benevento, 9/10 marzo,

2001), Nuova Costituzione federale e sviluppo locale nel Mezzogiorno (in corso di stampa); nonché S. GAMBINO e D. LOPRIENO, "Autonomia statutaria e governo della Regione alla luce della I. cost. 1199 (con particolare riferimento allo statuto dell'opposizione)", in AA.VV. (Atti Convegno Regione Balilicata, CRS, Ministero 167


Pari Opportunità, Elezione diretta del Presidente e nuova forma di governo delle Regioni, Matera, 6 novembre 2000 (in corso di stampa). 33 Invero, la riforma presenta anche numerosi altri aspetti (abolizione dei controlli di cui agli artt. 125 e 130, accesso alla Corte Costituzionale, possibile composizione integrata della Comfiiissione parlamentare per le questioni regionali e relativi quorum rafforzati, ma anche costituzionalizzazione dei Consigli delle autonomie locali, del principio di sussidiarietà prevalentemente verticale, di Roma capitale, ecc.) che però poco rilevano ai fini della nostra riflessione, se non forse la modifica letterale dell'art. 114 nella quale si può con certezza individuare la cd. "fine del territorio giacobino". 34 Cfr: G. FALCON, Il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, Editoriale in «Le Regioni», n.1/2001, p. 10.

lbidem,p. 11. Contra; vedi le argomentazioni nella nota 32. 37 G. U. RESCIGNO, La rfòrma da rfì.rmare, in «La rivista del manifesto», n. 1612001, p. 16. 38 Cfr. L 1vLiuucci, Il pasticciaccio federalista, in «Il Manifesto», del 21-01-01. 39 Sul riparto di materie e sul sistema dei limiti vedi le utili osservazioni di G. FALCON, op. cit. p. 5 ss; la posizione ditale Autore, collocata all'interno del primo indirizzo dottrinario, per l'aspetto relativo al nuovo assetto della potestà legislativa è, nell'insieme, pur con delle ombre nel testo evidenziate, positivamente orientata in ragione di una maggiore "adeguatezza" del nuovo assetto rispetto al precedente (e su questo si può convenire). 40 Cfr. G. FALCON, Il nuovo Titolo V... cit., p.9. 41 Ibidem, p. 9. 42 Ibidem, p. 9. 43 Sul tema in generale, fra gli altri, di recente, vedi S. GAMBINO, I diritti sociali e la "riforma federale" in «Quaderni costituzionali»; 2001, n. 2; adele ID, "Diritti sociali e Stato regionale. L'esperienza italiana nell'ottica comparatistica", in L. CIEFFI (a cura di), Evoluzione 35

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dello Stato delle autonomie e tutela dei diritti sociali. A proposito della riforma del Titolo V della Costituzione, Padova, 2001. Nello stesso volume vedi anche d'interesse G. FERJt.i "Eguaglianza e federalismo"; P. Ciarlo, "Federalising process e dualismo territoriale". 44 G. U. RESCIGNO, La nforma da... cit., p. 16. 45 Cfr. G. FALCON, I/nuovo Titolo V... cit., p. 6. Preoccupazioni ancora maggiori sono espresse da R. BIN, "Le potestà legislative regionali", in A. RUGGERI - G. SILVESTRI (a cura di), Le fonti del diritto regionale alla ricerca di una nuova identità (Atti del seminario di Messina del 6 aprile 2001, Milano, 2001); l'A., in riferimento all'impianto della riforma, relativamente ai rapporti Stato-Regioni, giunge a definirla come "un'efficace fabbrica di contenzioso giurisdizionale futuro" (p. 152). 46 Ci si riferisce al Convegno dei giuslavoristi, organizzato da L. MARiucci, e svoltosi a Venezia nel dicembre 2000, i cui materiali sono ora disponibili sulla rivista «Lavoro e diritto», n. 3/2001, che ha per tema monografico "Federalismo e diritti del lavoro"; si veda, tra gli altri, la Presentazione dello stesso L. Mariucci, cui adele, per approfondimenti nel senso sostenuto nel testo, M. V. BALLESTRERO "Differenza e principio di uguaglianza"; R. DEL PUNTA, "Tutela e sicurezza del lavoro"; A. PERULLI, "Federalismo/devolution e flessibilità del lavoro"; M. G. GALoFALO, "Federalismo, devolution e politiche del lavoro"; L. ZOPPOLI, "Pubblica amministrazione e diritti del lavoro nella stagione di federalismo e devolution"; G. G. BALANDI, "Il sistema previdenziale nel federalismo"; M. RuscLo, "Il diritto del lavoro italiano nel federalismo"; M. ROCCELLA, "Il lavoro e. le sue regole nella prospettiva federalista". 47 Le iniziative e le proposte dell'attuale Governo Berlusconi, invero, sembrano seguire un indirizzo, che, pur senza scendere nella cronaca, tra incertezze e incongruenze, sembra voler caratterizzare l'ordinamento lavoristico nazionale nella direzione, da alcuni sindacati denunziata, del c.d. sofi law, attuando (malcelatamente) una


regionalizzazione della materia che non esiste neanche in un ordinamento federa'e come quello tedesco.

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Cfr. C. DE Fios, la repubblica dei... cit., p. 22. 49 Cfr. L. MARIUccI, "Il pasticciaccio... cit.

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saggio

w

Autorità passate di moda?

Nel saggio che segue, Quirino Lorelli aff+onta i molteplici problemi che riguardano ruolo e assetto delle Autorità indipendenti con lucida ragione critica. E chiude con auspici che pienamente condividiamo. Dura ormai da vari anni il dibattito sulle Autorità indzendenti. La nostra rivista si è sempre schierata a favore del loro ruolo. A patto che esse siano istituzioni consapevoli di gestire compiti delicati e di rilevanza strategica per il Jùnzionamento del mercato e, quindi, per il suo allargamento. Ciò significa portare al mercato anche finzioni gestite tradizionalmente (ma non più efficientemente) dallo Stato. Molti aspetti del funzionamento concreto delle Autorità lasciano a desiderare. Gli apparati esecutivi si sono spesso organizzati e comportati come burocrazie tradizionali a cùi sono state concesse molte libertà. Necessità di aggiustamenti, eventuali auto-correzioni avrebbero dovuto essere segnalate o promosse o realizzate, per quanto possibile, dalle stesse Autorità. E così via. Dunque, sarebbe importante fare un bilancio dell'esperienza delle Autorità: vero, storico, su dati e fatti. Un bilancio che manca nella letteratura, ormai molta, sulle Autorità. Per ora, non se ne parla, quindi, eforse solo l'iniziativa, libera, di qualche centro di ricerca potrà provvedere all'esigenza. 171


Invece, è presente e forte la questione "le Autorità sostituiscono la politica?": Una questione che è rudimentale e che viene prospettata e argomentata in modo ancor più rudimentale. Sulla questione concordiamo pienamente con quanto ha scritto Salvatore Bragantini sul Corriere della Sera (del 17 settembre 2002). Un articolo che riportiamo integalmente. "La decisione di bloccare l'aumento delle tariffè elettriche appena concesso dallAutorità per l'energia può essere commentata sotto molte angolazioni: dall'evidente interventismo dei poteri pubblici nelle attività economiche ai rflessi in termini di equità fra settori industriali e commerciali (tutti, in varia misura, passibili di produrre inflazione o di concorrere ai deficit pubblico, compresi i risibili canoni pagati dalle emittenti, pubbliche e private, per l'uso del pubblico etere), alle domande su quale sia l'efficacia di misure di questo tzpo, ai riflessi sulle prospettive di società quotate in Borsa. Qui si vuole ragionare brevemente sui cambiamenti che questa decisione comporta nei rapporti fra governo, pubblica amministrazione ed Autorità indipendenti di regolazione e garanzia, anche alla luce dei commenti di esponenti governativi che l'hanno accompagnata e di alcuni atti di governo che l'hanno preceduta. Ilfilo rosso che lega fatti e parole, nonostante qualche barlume di ripensamento, è il tentativo di rzportare in ambito ministeriale, e quindi sotto il controllo del governo, tutta una serie di decisioni che nel tempo sono state affidate a questi organismi indipendenti; tale tentativo si basa sul presupposto, errato storicamente, che il fiorire delle Autorità, l'espandersi dei loro poteri siano stati conseguenza della momentanea eclissi della politica, succeduta agli scandali emersi nel 92 e a quel collasso finanziario che ne è stato causa importantissima (e troppo allegramente trascurata da chi parla di rivoluzione politica per via giudiziaria, dimenticando che il sistema semplicemente non reggeva più). Rimossa la causa, secondo queste disinvolte ricostruzioni, andrebbero rimossi anche gli effetti, di qui la necessità di tagliare le unghie a un potere burocratico e democraticamente irresponsabile. Una via semplicemente impraticabile in un'economia moderna. Alcune Autorità sono nate ben prima dell'eruzione di Mani Pulite, e la causa del loro fiorire va identificata nell'impossibilità di arbitrare i conflitti economici fra privati col solo, rigido strumento della legislazione primaria. Questa deve limitarsi a stabilire princpi-quadro e demandare la definizione delle regole di dettagli o, la loro revisione e la loro gestione alle Autorità. Pensiamo al mercato finanziario, sottoposto alle incessanti novità dell'ingegneria finanziaria e bisognoso di decisioni immediate; sarebbe impensabile un mercato moderno senza una Autorità preposta alla sua regolazione, e difatti gli Usa l'hanno dagli anni Trenta, noi (la Consob) dagli anni Settanta. Ma si pensi anche alla tutela della concorrenza (legge del 90) che richiede decisioni comportanti approfondite istruttorie sulla struttura dei diversi settori e una efficace interazione con l'Ue. A questa causa se ne è aggiunta più di recente un'al172


tra, legata alle privatizzazioni (e quindi solo per questa indiretta via collegabile alla crisi finanziaria e alle inchieste giudiziarie); alcune Autorità sono state infatti istituite per regolare il passaggio dal regime di monopolio a quello di concorrenza nei settori in cui operavano le società da privatizzare, fra esse anche Li4utorità per l'energia i cui provvedimenti sono stati congelati dal governo. Sembra che il governo intenda inviare a questa (e ad altre?) Autorità un atto di indirizzo, nel quale combinare un omaggio labiale alla indzpendenza di questa, con istruzioni sul come essa debba esercitare la sua sorveglianza. Il modo è tartufesco e inappropriato. Il Parlamento (non il governo) è sovrano, e se proprio volesse disfare quel che ha fatto nei decenni scorsi per promuovere la concorrenza e seguire l'evolversi della realtà, ha tutti i mezzi per farlo. Certo, è singolare che del finzionamento concreto delle Autorità il Parlamento si sia disinteressato, non ritenendo degne della propria attenzione le Relazioni che, a volte direttamente, a volte per il tramite del governo, ha sempre ricevuto, ma tant'è. Si abbia almeno il coraggio di intervenire per via legislativa, operando sulle regole e non entrando nel merito; altrimenti, lo notava il primo settembre sul Corriere Giuliano Amato, si ritorna al più vieto dirigismo, quello che vede il governo intervenire nel concreto dispiegarsi delle contese fra privati. Se c'è un governo che, per ragioni ultranote, non può permetterselo, è quello oggi in carica"

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Crisi dei poteri del Governo e governo dei poteri delle Autorità indipendenti di Quirino Lore/li

Le modifiche apportate all'assetto dei poteri disegnato nel 1948 sono state negli ultimi dieci anni tali e tante da poterne ricavare l'impressione di una vera e propria revisione implicita della Costituzione. Non pare esagerato sostenere che alcune grandi riforme, come la legge sul procedimento, la riforma delle autonomie locali, quella del pubblico impiego, l'introduzione dei primi contrafforti del federalismo fiscale, hanno completamente stravolto l'impianto tradizionale dei pubblici poteri, ponendo la base al tentativo, almeno apparente, di mettere in discussione la seconda parte della Carta fondamentale. In questo senso, l'istituzione di una Commissione Bicamerale per le riforme, istituita con la legge costituzionale n. 1/1997 1 , che pur è rimasta mero confronto politico sulle linee di riforma dello Stato, è sintomo di un'esigenza, trasversale agli schieramenti politici, di mutamento del sistema amministrativo e degli apparati che lo costituiscono, spesso ritenuti, a torto od a ragione, inadeguati a far fronte alle mutate esigenze della società civile e dell'economia. Se, poi, dal progetto de iure condendo, si scende alle previsioni normative vigenti, si registra una altalenante linea politico-legislativa che, con fortune alterne, tenta di adattare le forme di estrinsecazione dei pubblici poteri alle nuove istanze provenienti dalla società civile e dall'economia. Questa linea tortuosa e complessa, che spesso ripiega su se stessa, ha subìto e subisce una fortissima spinta esterna da parte di istanze ed aspettative provenienti dall'UE, ma anche e soprattutto dagli obblighi giuridici che discendono dall'appartenenza comunitaria. Così, non pare nemmeno esagerato parlare, con riferimento a tutto ciò, di una rivincita della costituzione materiale sulla costituzione formale, laddove il Parlamento, non attraverso espresse modifiche alla Costituzione, ma attraverso L'autore è Docente a contratto di Diritto Pubblico dell'Economia presso l'Università della Calabria e Giudice della Corte dei Conti 175


lo strumento della legge ordinaria e, sempre più spesso, attraverso lo strumento della delega al Governo, ha configurato un'allocazione dei poteri pubblici, che non coincide più con quella tradizionale che si rispecchia nella Carta. L'IDRA E POLIFEMO O DEI POTERI DI GOVERNO E DEI POTERI DEL VERNO

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Potrebbe, anzi, porsi il dubbio (in realtà non originale) del mantenimento della nozione di rigidità della Costituzione rispetto alla legge, laddove, come nel caso della creazione delle Autorità indipendenti, della riforma dei controlli, del federalismo fiscale, si registra una evidente forzatura delle norme della seconda parte della Carta, sino a svuotarle o quasi di significato, creando un sistema costituzionale quasi-elastico, nel quale il legislatore è libero di riempire di significati (talora contraddittori) le norme organizzative, facendo comunque salve le previsioni generali e di principio. D'altronde, è innegabile che l'interpretazione delle norme costituzionali sia oggetto di evoluzione e, comunque, di adattamento alle mutate esigenze sia istituzionali sia, e soprattutto, della società in continuo cambiamento. Esempi indiscutibili sono rappresentati dall'introduzione del principio di sussidiarietà, tanto in senso orizzontale che verticale, che pur non compare espressamente nella Carta o, ancora, dall'eliminazione del controllo amministrativo di merito, che invece, pur figurando nella Costituzione, è stato ritenuto retaggio di un sistema di ingerenza indebita nella sfera di riserva dell'amministrazione e, pertanto, eliminato dal sistema. In entrambe le fattispecie, norme costituzionali rigide e di principio vengono a giustificare e forse a rappresentare il fondamento di una nuova concezione dell'amministrazione, di una amministrazione moderna ed in grado di essere servente rispetto ai bisogni della collettività. Questo adattamento delle norme costituzionali alle mutate esigenze della collettività (o forse più del sistema economico che della collettività), non poteva non incidere sull'assetto dei poteri amministrativi, sulla loro allocazione, sul loro esercizio ed anche sulla loro effettività. Emerge, parallelamente ad una rivincita della Costituzione materiale, intesa nella accezione di adattamento dei contenuti della Carta alle nuove esigenze, la necessità di revisionare e di adattare a queste ultime le forme di esercizio del potere, ridisegnando non solo l'allocazione dei poteri amministrativi, in modo da ridurne gli effetti negativi, ablativi, repressivi, limitativi dei diritti 176


di libertà, che così si espandono naturalmente, ma anche rivedendo l'assioma della unicità della funzione amministrativa e del suo esercizio. A questo ultimo proposito, l'interrogativo posto anni addietro dalla dottrina2 sulla esistenza nel nostro diritto positivo di una funzione dello Stato che possa essere individuata come amministrativa, ritorna di attualità; è noto che Giannini registrava 1 inesistenza di un diritto positivo che possedesse un canone di caratterizzazione oggettiva della funzione amministrativa", sostenendo, al contrario, che sussistessero solo una pluralità di attività caratterizzabili per elementi oggettivi, cioè le singole funzioni amministrative. Egli ricordava come di funzione amministrativa potesse parlarsi solo in senso soggettivo e che essa fosse nuli altro che un espressione verbale, per dire 1 insieme delle funzioni svolte dall'amministrazione". Né, a monte, poteva configurarsi un potere esecutivo, atteso che questo comporterebbe strutture ed organi indipendenti l'uno dall'altro, mentre il soggetto titolare per eccellenza del potere esecutivo, cioè il Governo, partecipa dell'indirizzo politico e dunque non è indipendente dagli organi cui il potere di indirizzo compete costituzionalmente. Secondo Giannini, il potere esecutivo non avrebbe potuto partecipare all'indirizzo politico, dovendo avere "un compito secondario di attuazione dei deliberati di un altro potere", ma tale modulo rimaneva mera astrazione concettuale giacché accadeva l'esatto contrario. Ciò che sempre sarebbe esistito era non il potere esecutivo, ma quello governativo, attribuito, nelle 'varie Costituzioni e nelle varie forme di governo, ad un organo che poteva essere il capo dello Stato o il capo del Governo o ambedue. La ricostruzione del fondamento dei poteri di governo e della funzione amministrativa ha, comunque, da sempre impegnato la scienza giuridica. Altri studiosi avevano posto la problematica del collegamento tra Governo, amministrazione e indirizzo politico, giungendo alla conclusione per cui fosse difficile rinvenire settori che, per la minore importanza degli affari da trattare, o per il loro carattere più propriamente esecutivo, potessero ritenersi scarsamente rilevanti ai fini dell'attuazione dell'indirizzo politic0 3 . Anzi, v'era chi (Mortati) non riteneva affatto che il Governo potesse rimanere estraneo all'indirizzo politico, poiché l'articolazione in due• sezioni del titolo III della Costituzione, dedicate al "Consiglio dei Ministri" ed alla "Pubblica Amministrazione", evidenziava una duplice posizione del Governo: "di organo di direzione politica e di organo di esecuzione delle direttive poste dal primo, o!treché dalle leggi che le promuovono o ne sono promosse" 4 Il collegamento tra le due articolazioni costituzionali peraltro avrebbe avu.

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to natura, allo stesso momento, obiettiva e subiettiva: la prima "per effetto del naturale nesso che lega direzione politica ed amministrazione", la seconda per l'identità dei soggetti che presiedono alle due citate articolazioni. Questo. nesso, a sua volta, avrebbe garantito il principio di democraticità dell'intero ordinamento, in considerazione "della posizione rappresentativa rivestita dai ministri espressi dalle maggioranze parlamentari, le quali a loro volta riflettono quelle popolari" (sotto altro profilo analoga preoccupazione era espressa dal Martines) 5 . Ma in ogni caso, a differenza di Giannini, per Mortati il problema vero era quello di soddisfare "l'esigenza dell'unità necessaria dell'azione amministrativa Ciò che còntraddistingue la ricostruzione innovatrice di Giannini da quelle che, ancora recentemente, la dottrina continua ad esprimere, è non la individuazione di una pluralità di funzioni amministrative in capo ad autonomi centri di potere (l'Idra), bensì la paventata inesistenza di un potere esecutivo e di una funzione amministrativa come entità unitarie (Polifemo). Lungi dal voler ripercorrere le tappe del pensiero giuridico, è necessario comunque rammentare che non tutta la dottrina tradizionale concordava nella centralità della nozione di potere esecutivo: autorevolmente si era parlato di preesistenza della funzione esecutiva (e della funzione giurisdizionale) al potere esecutiv0 6, mentre, giusto vent'anni addietro, era stato ricordato come lo sviluppo dei sistemi politico-istituzionali dei Paesi industrializzati fosse stato segnato da due processi: "La progressiva disarticolazione dei poteri pubblici e la modificazione dei meccanismi di selezione degli interessi espressi dai diversi gruppi sociali presenti in ognuno di essi" 7 La funzione esecutiva per Benvenuti era caratterizzata dall'interesse primario dello Stato rispetto all'interesse del cittadino, considerato secondario, laddove invece la funzione giurisdizionale sarebbe stata caratterizzata da una relazione opposta (interesse primario del cittadino e secondario dell'amministrazione). Il potere esecutivo risultava costituito dall'insieme degli organi ai quali era attribuita in via principale una funzione sovrana, cioè la funzione esecutiva: in tal modo, però, il potere esecutivo risultava anche soggetto attivo di pubblica amministrazione e, dunque, andava denominato esso stesso pubblica amministrazione, seppur in questa non si esaurisse totalmente. Ma, ciononostante, anche Benvenuti non poteva che registrare una obiettiva difficoltà di distinguere tra la funzione esecutiva e quella giurisdizionale, atteso che ambedue "si risolvono in atti che soddisfano insieme interessi del soggetto agente (lo Stato) e del soggetto che è il destinatario dell'atto (il cittadino)" 8 D'altronde, che negli Stati contemporanei non fosse possibile riscontrare .

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una "assoluta corrispondenza tra poteri e funzioni", era stato già ricordato 9 sottolineando che il Governo, in uno alle Camere del Parlamento, esplica in stretta coordinazione, la funzione politica o di governo: funzione consistente nell'attività di direzione suprema dello Stato, e che rimane fuori dagli schemi di tripartizione montesquieuiana"!°, benché il principio di tripartizione costituisse il pilastro fondamentale dell'ordinamento giuridico, attraverso il quale lo Stato limita "la propria potestà il. La dottrina era orientata su una visione monolitica del potere esecutivo 12 che non risultava scalfita nemmeno dalle considerazioni sull'insufficienza della tripartizione montesquieuiana dei poteri, poiché quest'insufficienza riguardava la inesatta individuazione della funzione esecutiva in luogo di quella "politica o di governo", più articolata, ma non modificava la nozione di potere esecutivo. Per Sandulli, il potere esecutivo risultava "preposto alla realizzazione dei fini concreti che l'ordinamento (lo Stato-ordinamento) assegna allo Stato-amministrazione", con "una complessa organizzazione - la più vasta ed articolata che esista in seno alla comunità nazionale" 13 . Egli individuava una nozione di funzione esecutiva distinta e separata dalla funzione amministrativa: la prima affidata unicamente al Governo, la seconda esercitata in concorso da vari organi, tra cui il Governo ed il Presidente della Repubblica. Ma per Sandulli, l'unicità del potere esecutivo non significava anche riconoscere che l'esercizio della funzione amministrativa, che pure veniva ammessa quale categoria unitaria, fosse prerogativa esclusiva del Governo, poiché "a parte l'amministrazione statale, essa stessa ampiamente articolata, esiste una molteplicità di soggetti pubblici (di diritto pubblico), cioè di soggetti aventi carattere di pubblici poteri, i quali sono da considerare anch'essi pubbliche amministrazioni". Tali amministrazioni non ordinate "in modo unitario e unipolare", venivano invece a comporre distinti sistemi. Ora, in conclusione di questa sintetica e sicuramente insufficiente disamina di alcuni tra i principali orientamenti della dottrina classica, è possibile individuare tre antinomie o, se si vuole, esemplificazioni che attraversano la concezione di amministrazione: la funzione amministrativa, come categoria generale, esiste/non esiste; la funzione amministrativa coincide/non coincide con la funzione esecutiva; il Governo, soggetto titolare del potere esecutivo, è/non è il soggetto cui debbono essere ricondotte tutte le funzioni amministrative, benché esercitate da amministrazioni non statali. Dalle ricostruzioni classiche emerge una storica affermazione della centralità

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(ed, evidentemente, della preesistenza) di un'unica funzione amministrativa attribuita al Governo-organo e di un decentramento del suo esercizio, sulla scorta più del principio del decentramento autarchico e del policentrismo autarchico che del pluralismo autonomistico (usando la tripartizione di Sandulli 14). La prima fase della storia repubblicana, dalla approvazione della Costituzione alla nascita delle Regioni nei primi anni Settanta, ha visto una centralità assoluta dell'amministrazione statale, una quasi inesistenza di forme di pluralismo dei centri di potere, giustificata dalla unicità della funzione amministrativa, quale categoria giuridica astratta. Su questo impianto centralista hanno significativamente inciso i grandi mutamenti civili ed economici della società, determinando un fenomeno di sostanziale inadeguatezza degli apparati pubblici e, in particolare, della pubblica amministrazione rispetto alle nuove domande. Ma poiché tutte le istituzioni giuridiche "sono contrassegnate da una assoluta storicità" 15 e poiché la storia degli uomini e delle istituzioni evolve, il sistema non poteva che mutare rapidamente, adeguandosi ai tempi. L'ACCECAMENTO DI POLIFEMO O DELLA CRISI DEI POTERI DEL GovEio

Se si guarda all'insieme delle leggi di riforma dell'amministrazione, si registrano, a partire dai primi anni Settanta, spinte centrifughe che sottraggono al Governo e all'amministrazione statale sfere di competenza sempre più importanti. In questo senso la nascita delle Regioni, i decreti delegati del 1972 e poi il primo decreto sul trasferimento delle funzioni del 1977 (apparentemente), segnano l'avvio di un processo di destatalizzazione dell'amministrazione, ancora oggi in fase di completamento. Tuttavia, le tappe più importanti del processo risalgono soio all'ultimo decennio, prendendo l'avvio dalla legge sulle autonomie locali del 1990 e da quella sui procedimento dello stesso anno, passando per la prima legge-delega del 1992 (la n. 421) e snodandosi attraverso il decreto n. 2911993, per giungere poi alla seconda legge-delega del 1997 (la n. 59)16 ed ai decreti attuativi di quest'ultima 17 Volendo, comunque, tracciare le vie di fuga di parte dei poteri pubblici dallo Stato-Polifemo verso il mare aperto o, con altro eufemismo, volendo analizzare le modalità dell'accecamento di Polifemo, dovremmo, con le debite differenze esposte più avanti, delineare quattro percorsi: a) applicazione del principio di sussidiarietà (verticale) tra centro e periferia, con trasferimento di competenze dall'amministrazione statale a quelle .

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delle Regioni e degli Enti locali (decentramento e federalismo amministrativo, su cui Cammelli 18 applicazione del principio di sussidiarietà tra pubblico e privato; spostamento all'esterno di pubblici poteri connessi alla tutela di diritti di libertà (Autorità indipendenti e di garanzia); a scollamento tra politica ed amministrazione e distinzione tra amministrazione attiva e di indirizzo (riforma del pubblico impiego, semplificazione, centralità del procedimento ed orientamento al risultato dell'attività amministrativa 19). Seppure questi processi possano apparire tra loro avulsi, in realtà, è identica la conseguenza cui conducono: la progressiva scomparsa dell'identità tra potere esecutivo, Governo ed amministrazione, cioè l'accecamento di un gigante non voluto dal costituente. Questo gigante reggeva su due gambe, rappresentate, l'una, dal sistema amministrativo stratificato precostituzionale e, l'altra, da un'interpretazione della Costituzione che salvaguardava il principio di centralità dell'amministrazione statale e gli interessi propri di questa, anche a scapito dell'interesse collettivo e dei diritti di libertà. Un gigante, però, con un solo occhio, il potere politico centrale, attraverso il quale vedeva la realtà esterna in maniera distorta e sempre più incapace di provvedere alla cura degli interessi della collettività, proprio perché avente come unico visus la cura di un interesse autoreferenziale, ritenuto erroneamente coincidente con il bene pubblico, ma in realtà destinato alla sopravvivenza di apparati elefantiaci ed inefficienti e delle conseguenze più deleterie del sistema, le clientele. D'altronde, che la Costituzione del 1948 non avesse affatto avuto come intento quello di rafforzare l'identità potere esecutivo-Governo-amministrazione è stato già autorevolmente sostenuto in dottrina (tra gli altri, Allegretti20 éd in modo speciale Roehrssen 2 !) e non mi pare di dovermi soffermare ancora sul punto. Nell'ambito delle linee di intervento sopra tracciate (o delle vie di fuga di Ulisse), bisogna comunque tener presente che diversi sono i livelli sui quali esse operano: in alcuni casi vi è lo spostamento di funzioni amministrative da organi dello Stato ad altri apparati pubblici (le Autonomie locali e le Autorità indipendenti), nell'ultima ipotesi ci troviamo di fronte ad una mutata attribuzione di sfere di competenze tra politica e burocrazia che è trasversale a tutte le amministrazioni 22 , su tutto poi prevale il principio di sussidiarietà tra pubblico e privato ed i suoi corollari. Sempre rispetto alle vie di fuga sopra delineate, esiste poi un altro ordine di );

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differenze tra la prima via (decentramento e federalismo amministrativo), da un lato, e la creazione di Autorità indipendenti e di garanzia, dall'altro, benché, come ricordato, la conseguenza sia comunque quella della perdita progressiva di poteri dell'amministrazione centrale o statale nell'articolazione facente capo agli apparati del Governo: infatti, mentre decentramento e federalismo comportano uno spostamento di competenze, nell'ambito di apparati preesistenti, la creazione di Autorità di garanzia e di altre indipendenti comporta anche la nascita di nuovi soggetti pubblici e di nuove funzioni amministrative. Mentre con riguardo a decentramento e federalismo, in realtà, si determina uno spostamento di funzioni amministrative preesistenti, così da aversi una modificazione, o più esattamente una "disarticolazione" 23 dell'assetto dei pubblici poteri, che comporta uno spostamento di poteri dal centro alla periferia, con riguardo invece alla creazione delle Autorità indipendenti e di garanzia (o meglio di quelle che effettivamente tali sono 24 è di fronte, probabilmente, ad un tentativo di tutela di valori economici e, in minor misura, di libertà fondamentali, la cui importanza è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni. Con altra espressione può dirsi che mentre decentramento e federalismo operano nell'ambito di strutture ed apparati preesistenti e costituzionalmente previsti, traslocando alcune funzioni dall'amministrazione centrale alle autonomie locali, la riduzione delle competenze delle amministrazioni statali, in favore delle authorities (e in particolare delle Autorità di garanzia) è preceduta dalla creazione di questi nuovi apparati pubblici, non contemplati dalla lettera della Costituzione. Così, nel primo caso, si ha un trasferimento di funzioni amministrative nell'ambito delle previsioni costituzionali, nel secondo il trasferimento di funzioni già esistenti e malamente o inefficacemente esercitate dallo Stato in uno alla previsione di nuove funzioni, facenti capo a nuovi compiti di benessere - avviene verso soggetti pubblici costituiti con legge della Repubblica, ma non previsti dalla Costituzione. Tra le vie di fuga va, infine, incluso il principio di sussidiarietà in senso orizzontale (tra pubblico e privato), che dovrebbe condurre ad una rete di "istituzioni ed amministrazioni leggere che producono direttamente beni e utilità pubbliche solo quando il mercato non è in grado di assicurarle in modo soddisfacente, che rinunciano a gestire quando è sufficiente regolare" e che inoltre evitino di imporre regole invasive "quando i diritti e le libertà dei cittadini e gli interessi generali possono essere tutelati con regole meno limitative delle iniziative e delle libertà individuali" 25 Si

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Nell'ambito della riforma delle relazioni tra Autonomie locali, è stato già ricordato come la sussidiarietà orizzontale debba precedere quella verticale. La prima, infatti trova, il proprio "terreno di elezione" non soio nei servizi locali ed in quelli alla persona, "ma anche in quello della più limitata esternalizzazione (outsourcinà di attività materiali e di supporto" 26 La centralità del principio di sussidiarietà, dunque, costituisce la via di fuga maestra, se non la nave sulla quale Ulisse fugge da Polifemo, anche perché essa comporta una variazione soggettiva nel perseguimento dei compiti di benessere collettivo, propri degli ordinamenti statali: essi vengono perseguiti non più da soggetti pubblici, ma, in primis, da soggetti privati. E questa pare una vera inversione di tendenza. .

ULISSE PRENDE IL LARGO O DELLE LIBERTÀ E DEL NUOVO ASSETTO DEI POTERI

È muovendo da queste ultime considerazioni che la tematica della crisi dei poteri del Governo può essere vista sotto la diversa prospettiva dell'insufficienza dei modi di esercizio classici delle funzioni amministrative, rispetto ad alcune spinte centrifughe che possono essere individuate: - nell'accresciuta complessità del sistema economico-produttivo a livello mondiale, europeo e nazionale (spinta dall'alto); - nell'intervento sovranazionale comunitario nelle materie collegate o collegabili agli obiettivi dell'Unione (spinta dall'esterno); - nell'emergere di istanze, collettive di difesa degli interessi e dei diritti di libertà dei cittadini, tanto nella accezione di difesa degli utenti e dei consumatori dal sempre più forte potere contrattuale delle imprese e dei gruppi economici, quanto di tutti i cittadini da poteri amministrativi unilaterali ed autoritari, visti come ormai insopportabili (spinta dal basso). Circa l'accresciuta complessità del sistema è pacifico come, dalla data di approvazione della Costituzione sino ad oggi, siano mutate le condizioni sociali, economiche, produttive e culturali della collettività; come si sia creato e, purtroppo, autoregolato, un mercato globale, inteso come luogo di scambio e di intreccio di relazioni a contenuto economico tra soggetti giuridici privati e tra soggetti pubblici e soggetti privati; come siano completamente mutati gli scenari della regolazione giuridica con la nascita di un diritto delle imprese e, parallelamente, un diritto dei consumatori, che non esistevano nel 1948 e che pertanto non potevano trovare tutela nella Carta; che la globalizzazione dei mercati abbia determinato una situazione di assoluta disparità nelle rela183


zioni contrattuali e commerciali e come, quindi, il principio dell'autonomia contrattuale del nostro codice civile del 1942 sia, nella quotidianità, svuotato di significato nelle relazioni tra il cittadino e le imprese; come l'importanza delle comunicazioni abbia determinato la necessità di discipline ad hoc, finalizzate a scongiurare la perdita di autonomia concettuale e di pensiero dei cittadini culturalmente deboli e la formazione di un consenso di massa fondato sui monopolio od oligopolio dell'informazione. Queste mutazioni hanno fatto emergere una congerie di interessi giuridici pubblici e privati meritevoli di tutela: da un lato, nuovi interessi delle imprese e dei cittadini; dall'altro, nuove forme di interesse pubblico, relazionabili a compiti di benessere, ma anche alla salvaguardia dei diritti di libertà individuali enunciati nella prima parte della Costituzione, messi in discussione o potenzialmente incisi dalle dinamiche economiche 27 Non che questi interessi non esistessero o non fossero tutelati dalla organizzazione classica dei pubblici poteri, ma la loro espansione e l'importanza (o la preminenza) che hanno acquisito, in virtù dei ricordati fenomeni evolutivi della società, hanno reso assolutamente insufficienti le forme ed i modi della loro tutela. In modo particolare, è emersa l'insufficienza delle forme classiche di regolazione dei mercati, incluso quella dei servizi pubblici, allorché questi hanno assunto dimensioni sempre più grandi, divenendo luoghi di mediazione, bilanciamento e definizione di interessi e sostituendo in parte il ruolo che era stato proprio della politica. Quest'ultima, nelle sue forme nobili di mediazione e contemperamento di interessi contrapposti nelle sedi istituzionali, non è riuscita a mantenere il passo dell'economia e dello sviluppo dei mercati, trovandosi, in un certo momento storico, quasi disarmata di fronte ad una domanda delle imprese e dei cittadini di riduzione della mole enorme di vincoli giuridici e burocratici all'esercizio, in primo luogo, di diritti a contenuto economico. Così, dal momento in cui il Parlamento - inteso quale luogo centrale della mediazione di interessi contrapposti e quale garante in tale mediazione dell'interesse collettivo e generale - non ha più potuto assorbire l'onda d'urto costituita dalle richieste e dalle istanze, interne e comunitarie, dei mercati che andavano espandendosi, è sorto un primo deficit di democrazia. D'altronde, il fenomeno dello "spostamento definitivo del centro di equilibrio del sistema parlamentare classico in nuovi centri di potere esterni ad esso" 28, è noto da tempo alla dottrina che, tra l'altro, lo ha ritenuto ragione delle crisi extraparlamentari di Governo. .

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A questo primo deficit si ricollega anche la prima crisi delle forme classiche di regolazione dei mercati, incentrate essenzialmente su norme di rango legislativo e regolamentare, sempre più inefficienti proprio a causa della stratificazione normativa e del mancato coordinamento interno di un numero sempre più alto di norme. D'altro canto, come è stato autorevolmente ricordato, "il vero problema del mercato è quello delle regole che lo disciplinano. E, soprattutto, di chi è chiamato a fissarle e a farle rispettare: di chi ne sia, pertanto, l'arbitro, senza diventarne il despota" 29 . Non mi sembra, però, possa sostenersi l'inesistenza completa di forme di regolazione del mercato e nemmeno che alcuni diritti di libertà connessi all'esercizio di attività economico-imprenditoriali (il diritto degli utenti e dei consumatori) fossero lasciati a se stessi e, di fatto, resi gusci vuoti dalla mancanza di forme di tutela 30 . Vero è, invece, che le forme classiche di regolazione e di tutela erano tagliate a misura di un sistema economico ridotto o minimo, con pochi scambi, tutti (o quasi) interni alla Nazione, nel quale i servizi pubblici rappresentavano prestazioni della PA pressoché assimilabili a qualunque altra attività amministrativa di prestazione; non soltanto: il sistema bancario era fondato su un duopolio, con prevalenza dell'attività bancaria pubblica, l'incidenza della UE sul sistema economico e politico interno era scarsa o nulla, i principi della libera circolazione dei lavoratori, delle merci e dei servizi, semplici enunciati propositivi, le limitazioni alla sovranità nazionale collegate all'appartenenza a organizzazioni sopranazionali del tutto eccezionali, il peso dell'informazione e delle telecomunicazioni ininfluente. Così, non è forse esagerato sostenere che nella nostra Costituzione manca una vera e propria cultura del mercato, mentre emerge la necessità di difendere il mercato "dall'alternativa di regime comunista". In un contesto di conflitto ideologico ed "anche aspramente sociale, la difesa del mercato diviene aprioristica difesa non tanto dello stesso mercato, ma dell'imprenditore in quanto titolare dell'iniziativa privata; e stando così dalla sua parte lo Stato cercherà poi di orientarlo verso fini più generali" 31 . Tutela del mercato e tutela dell'impresa coinciderebbero in toto. Sufficiente risultava, allora, l'attribuzione di gran parte delle funzioni di regolazione ai ministeri ed, in genere, all'amministrazione statale, mentre per quel che riguarda i diritti di libertà dei cittadini ed il sistema delle relazioni tra imprese e tra queste e le amministrazioni, sufficiente ed appropriata era anche la tutela affidata solo alla giurisdizione, sulla base della previsione dell'art. 24 Cost. 185


Ma mutano i tempi e mutano le esigenze: il sistema economico produttivo, per non rimanere stritolato dalla concorrenza planetaria, chiede sempre meno vincoli amministrativi. A tali domande solo in parte può essere data una risposta legislativa, in realtà essenziali si rivelano le forme di regolazione del mercato, la fissazione di un sistema di regole e di controlli delle regole, chiaro, semplice, preciso, trasparente, non ingessato, ma capace di salvaguardare la concorrenza eliminandone le possibili distorsioni 32 : da qui l'esigenza di nuove forme di amministrazione. La seconda spinta centrifuga è rappresentata dall'aumento esponenziale delle competenze comunitarie a scapito di quelle interne, specie dopo le ultime modifiche dei Trattati del 1992 e del 1998 (Trattati di Maastricht e di Amsterdam). Bisogna rammentare che il fenomeno dell'armonizzazione degli ordinamenti, - con il passaggio "da una concezione gradualistica o piramidale del diritto ad una concezione degli ordinamenti nazionali come concorrenti", in cui fissate le regole comuni, gli Stati interagiscono tra loro -, ha, come necessaria conseguenza, la riduzione delle sfere di competenza dei pubblici poteri interni in favore delle istituzioni sovranazionali. La fissazione di una base comune di regole, di per sé, costituisce rinuncia ad una sfera di sovranità, benché sia stato affermato che "l'Unione Europea non ha alcuna funzione di governo dell'insieme del territorio degli Stati membri o di parte ditale territorio", svolgendo invece "attraverso la propria attività normativa e giudiziaria, una funzione di indirizzo della condotta degli Stati membri" 34 In realtà, in capo all'UE non vi è una funzione di governo solo se si fa riferimento all'esistenza di un organo istituzionale, titolare di funzioni e poteri amministrativi, esercitati anche in maniera autoritativa nei riguardi della collettività, mentre una funzione di governo latu sensu sussiste se, astrattamente, si fa riferimento a compiti di tutela di interessi collettivi. Se, infatti, la Comunità è titolare del potere di individuare e tutelare alla stregua di interessi pubblici, gli interessi collettivi, comuni a tutti i cittadini della UE, non possono, nel contempo, essere disconosciute una serie di posizioni giuridiche soggettive private, che debbono essere tutelate ed, ancor prima, attuate 35 Tale fenomeno può essere indice di una riduzione delle funzioni amministrative attribuite al Governo nazionale ovvero di una complessiva restrizione della valenza dei pubblici poteri interni all'ordinamento nazionale rispetto a materie ormai riservate alla Comunità. Così, rispetto ai tre strumenti individuati come attuatori del mercato unic0 36, - divieti posti dalla Comunità agli .

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Stati membri, mutuo riconoscimento ed armonizzazione delle norme - i primi due incidono in maniera forte sui poteri degli apparati statali governativi, soprattutto in sistemi come il nostro, caratterizzati da una forte concentrazione di poteri e funzioni pubbliche in capo all'Esecutiv0 37 Ciò che è certo è che l'ordinamento comunitario ha ridotto le sfere di intervento pubblico nazionale, prima ancora che i poteri del Governo e l'attività amministrativa38, nell'ottica della creazione del mercato unico, regolato da norme sovranazionali e caratterizzato da un regime di concorrenza non falsato da aiuti di Stato. Più specificamente, poi, il divieto degli aiuti nazionali, quello di verifica autoritativa degli status e delle qualità soggettive delle imprese comunitarie operanti nell'ambito nazionale, la riduzione o abbattimento dei controlli doganali alle frontiere, così come quello sui lavoratori, sui servizi e sulle merci, comportano la riduzione, anzi la scomparsa, di poteri e funzioni pubbliche storicamente allocati presso l'amministrazione statale. .

La terza grande spinta centrifuga è l'esigenza, sempre più sentita, di garantire i diritti di libertà dei cittadini sia rispetto all'esercizio di attività economico-imprenditoriali 39, sia rispetto al modello di amministrazione autoritativa che caratterizza il nostro ordinamento. Tralasciando sin d'ora l'ipotesi economica di autoregolazione delle dinamiche del mercato sulla scorta delle sole leggi della domanda e dell'offerta e data per acquisita l'insufficienza delle disposizioni del codice civile del 1942 in materia di obbiigazioni e contratti quale strumento di regolazione endogena del mercato, bisogna cercare di chiarire quali siano state le forme di intervento pubblico volte alla tutela dei diritti costituzionali di libertà e se queste forme di intervento si siano evolute. L'incremento delle attività economiche e l'espansione naturale del mercato, verso una dimensione planetaria (sulla nozione di mondializzazione intesa anche come fenomeno di riduzione dello Stato, v. Allegretti 40), caratterizzato dalla presenza di soggetti attivi le cui dimensioni patrimoniali sono superiori a quelle di alcuni Stati del terzo e quarto mondo, coinvolge, evidentemente, anche l'esercizio dei diritti fondamentali di libertà sanciti nelle Costituzioni di tutti gli Stati occidentali 41 Così, un ulteriore fattore di fuga dei poteri pubblici dal Governo deve essere individuato nella inadeguatezza della tradizionale regolazione amministrativa delle dinamiche economiche e nella pari insufficienza del vigente sistema di regole nei rapporti tra cittadino (consumatore di beni ed utente di .

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servizi) ed impresa. Gli apparati amministrativi classici di regolazione, cioè i ministeri e gli enti pubblici, non riescono più a garantire che il sistema di regole stabilito dal legislatore sia rispettato. A ciò si aggiunga una diffusa insofferenza verso un'amministrazione autoritativa in favore di modelli caratterizzati da maggiore democraticità e consensualità nell'affermazione del risultato: in questo senso, la dottrina rimarca che l'amministrazione vada concepita "come il luogo lo spazio, il teatro dove i soggetti giocano le loro capacità", laddove lo strumento pubblico amministrativo deve essere finalizzato al sostegno ed allo sviluppo delle capacità fondamentali della persona42 Questo fenomeno si inserisce nell'ambito di un processo di cambiamento della "base sociale di legittimazione del potere politico", venendo meno, per l'effetto, "l'identificazione di un potere politico con caratteri di unitarietà" ed essendosi invece al cospetto "di una strutturazione ordinamentale" che avrebbe arricchito l'organizzazione tradizionale di nuovi centri di potere 43 . Ne segue che, mutando la base di legittimazione del potere politico, cioè l'espressione della volontà del popolo sovrano, mutano le aspettative collegate all'espansione dei diritti di libertà. .

IL CAVALLO DI TROIA (zoppo) o DEI POTERI IRRESPONSABILI DELLE AuTORITÀ

L'allontanamento dalla sfera dei poteri del Governo di una serie di obiettivi di salvaguardia di interessi pubblici e di diritti di libertà fondamentali, in realtà si era manifestata, all'inizio degli anni Ottanta, con la creazione di una serie di amministrazioni indipendenti. La "pantagruelica" 44 letteratura sulle authorities colloca il fenomeno già alla data dell'istituzione della Banca d'Italia, rinvenendo nei suoi caratteri di indipendenza dal Governo una prima forma di spostamento all'esterno di poteri esecutivi, anche se il fenomeno della moltiplicazione dei centri di potere, nel senso sopra prospettato, deve correttamente essere collocato (e significativamente!) negli ultimi venti anni. Nel 1981 fu istituito, con Legge n. 416, un "organo di garanzia" (art. 8, comma 1°), il Garante per l'Editoria al fine di consentire la continuità dell'azione di vigilanza del Parlamento sull'attuazione della legge sulla radiotelevisione. Il Garante aveva quale referente il Parlamento al quale presentava, per tramite del Governo, una relazione semestrale sullo stato dell'editoria. In materia di vigilanza sulle imprese di assicurazione (private) e di garanzia 188


delle operazioni sui mercati mobiliari, il legislatore aveva creato invece degli organismi di diritto pubblico ad hoc (rispettivamente l'IsvAi 45 , istituita con Legge 12 agosto 1982, n. 576 e la CONSOB, già istituita con Legge 7 giugno 1974, n. 216 e poi riordinata con Legge 4 giugno 1985, n. 281), svincolati formalmente dal Governo e muniti di poteri di ispezione, vigilanza e controllo particolarmente incisivi, nonché, in ipotesi più limitate, anche di poteri normativi speciali. Ma se si guarda a queste paleo-authorities, difficilmente si riuscirebbe a relazionarne la loro nascita con un disegno legislativo generale di riordino dell'amministrazione, così come difficile sarebbe rintracciarvi funzioni di garanzia di libertà costituzionali individuali. In realtà, si tratta di istituzioni che assommano una serie di competenze regolatorie di distinti settori economici (le assicurazioni e il mercato mobiliare nazionale), che in precedenza risultavano distribuite tra vari organismi di diritto pubblico. Con il tempo, le Autorità cominciano a divenire veri e propri centri di potere autonomi, sicché al Governo residua soio un potere di coordinamento (anche se il fenomeno è molto più accentuato per la CONSOB, per come è stato ricostruito da Card1 46), peraltro considerato troppo pervasivo da parte delle Autorità. Nel 1990 si istituisce quella che è stata definita, forse con enfasi, come l'unica "Autorità di garanzia" 47, cioè l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; infine, vengono costituite le Autorità di regolazione: prima quella dell'Energia elettrica ed il gas, con Legge n. 481 / 1995 e poi l'Autorità delle telecomunicazioni con Legge n. 248/1997. Questi ultime tre Autorità sono, in misura più o meno forte, autonome ed indipendenti dal Governo, anche se ciò non equivale ad essere indipendenti dalla politica49 . I meccanismi di nomina dei vertici delle Autorità sono tra loro diversi, in alcuni casi riferibili direttamente al Parlamento (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), negli altri solo indirettamente, essendo necessaria una espressione di volontà del Governo 49 e ciò rende effettivamente variabile il grado di autonomia delle Autorità dal Governo. Quanto alle authorities - titolari congiuntamente di funzioni e poteri di natura amministrativa, normativa e quasigiurisdizionale 50 - deve registrarsi un fenomeno di concentrazione di poteri pubblici, storicamente propri di soggetti costituzionalmente indipendenti e separati l'uno dall'altro, che non ha precedenti. 189


Questa concentrazione soio in parte può essere ricondotta ad un fenomeno di riallocazione a rete e su più livelli dei pubblici poteri e di loro fluidificazione che51 , rinvenuto orizzontalmente in tutti gli Stati moderni occidentali, riguarderebbe non soltanto le relazioni tra i poteri interni all'ordinamento nazionale, ma anche quelle tra poteri interni e poteri sopranazionali. Certo si può concordare con il fatto che "alla moltiplicazione dei poteri pubblici non ha fatto riscontro una loro gerarchizzazione, per cui ruoli, compiti e posizioni sono solo parzialmente definiti" e che comunque nessuna istituzione ha assunto un ruolo totalizzante, sicché i pubblici poteri "ai diversi livelli, si sovrappongono ed intrecciano" 52. Ma, in ogni caso, non può disconoscersi che in ciascuno dei settori alla cui regolazione e garanzia ogni authority è istituzionalmente preposta, si è (quasi) determinata una riserva di esercizio di tutti i pubblici poteri e di tutte (o quasi) le forme pubbliche di intervento. Questa concentrazione pone un duplice interrogativo: il primo circa le relazioni tra Autorità e diritti fondamentali, il secondo circa l'esistenza di un principio democratico a fondamento dei poteri delle stesse. Sotto il primo profilo, l'auspicio secondo cui l'istituzione delle Autorità potesse comportare un'effettiva garanzia dei diritti individuali di libertà, non è stata suffragata dall'esperienza concreta, specie per quel che riguarda il settore dei servizi pubblici. La nascita delle. authorities dei servizi (energia e telecomunicazioni) non è parsa finalizzata alla tutela dei diritti individuali o collettivi di libertà e forse nemmeno ha avuto come conseguenza un'effettiva riduzione dei vincoli amministrativi, ma, ben più concretamente, va ragguagliata alla necessità di attuare i principi comunitari vincolanti in materia di concorrenza e di regolare alcuni servizi pubblici nazionali nel momento in cui si procedeva alla privatizzazione delle imprese pubbliche che li avevano esercitati in regime di monopolio. Certamente, in quanto soggetti pubblici che concorrono all'amministrazione attiva, e comunque esse stesse amministrazioni pubbliche 53 le Autorità debbono miurarsi continuamente con le posizioni giuridiche soggettive private che siano state negativamente incise; ciò non significa, però, che esse possano fungere da baluardi di diritti assoluti 54, assumendo un ruolo che storicamente nessun potere dello Stato ha avuto e che probabilmente è utopico, atteso che, comunque, è la ripartizione dei poteri ed il reciproco controllo sull'esercizio di essi a garantire le libertà e non l'inverso. Quanto alla relazione tra Autorità e principio democratico, le problematiche non sono minori, specie alla luce della loro mancata costituzionalizzazione55 . Il potere, anzi, il complesso dei poteri assommati dalle authorities, non è ,

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bilanciato da un autentico sistema di responsabilità, di check and balance, così da garantire che le politiche generali perseguite dalle authorities siano riconducibili all'alveo parlamentare e che l'esercizio dei poteri loro assegnati sia, in qualche modo, assoggettato ad una forma di controllo e di verifica da parte del Parlamento. In effetti, se si aderisce alla teoria per la quale anche le Autorità sono delle amministrazioni 56 , non pare possibile postulare una loro assoluta indipendenza dal Governo, non tanto per affermare un inammissibile vincolo gerarchico o di subordinazione nei riguardi di quest'ultimo e nemmeno di gradazione dei poteri, ma solo per tentare di ricondurre comunque i poteri delle authorities nel circuito democratic0 57 . D'altronde, per quel che riguarda le Autorità di regolazione dei servizi pubblici, è stato lo stesso legislatore a raciordarne l'operato con l'indirizzo politico generale del Governo e non sembrerebbe possibile immaginare un'autonomia tale delle authorities da poter, per astratto, giungere alla creazione di una riserva legale di amministrazione in capo a queste. Sotto questo profilo, è da condividere l'autorevole qualificazione delle Autorità di regolazione quali autorità semi-indipendenti 58 . Diverso è, invece, il legame tra Governo ed Autorità garante della concorrenza e del mercato, poiché le funzioni e la ratio istitutiva di questa impongono un'autonomia ed una separazione per quanto possibile netta. La funzione di tutela della concorrenza svolta dall'Antitrust è per sua natura una funzione non soltanto di regolazione dei mercati, ma soprattutto di affermazione di un principio sovranazionale, destinato a coinvolgere tutte le attività economiche, pubbliche e private La concorrenza non è un campo di attività preciso e limitato, definibile a priori, come possono essere i mercati mobiliari, le assicurazioni private o i servizi pubblici, ma un principio, un obiettivo comunitario che deve essere garantito anche a prescindere dalla volontà interna. Dunque, al pari del giudice nazionale chiamato a disapplicare la norma nazionale contraria ad una disposizione comunitaria, l'Antitrust svolge le proprie funzioni di tutela della concorrenza in diretta attuazione delle previsioiii del Trattato. Certo, il legislatore nazionale rimàne libero di individuare organi diversi cui affidare la funzione di tutela della concorrenza suimercati, ad esempio attribuendo i relativi poteri al Governo della Repubblica o rimettendoli integralmente alla giurisdizione, ma ciò avrebbe comportato, nel primo caso, un conflitto di interessi per quel che riguarda le imprese pubbliche, gestite indi191


rettamente dal potere esecutivo, nel secondo, una limitata devoluzione di poteri, poiché la giurisdizione non può contestualmente svolgere anche funzioni normative ed amministrative. Né può dirsi che la creazione di poteri irresponsabili e, soprattutto, esclusivi, per le Autorità, sia stata imposta da un'esigenza di regolazione efficiente o che tale concentrazione sia connaturale alla creazione di una Autorità di regolazione, che avrebbe dovuto sostituire il sistema di "regole invasive" 59 tipiche delle amministrazioni centralizzate, inefficienti ed elefantiache. D'altronde, sarebbe riduttivo se il passaggio dall'amministrazione autoritativa ad una regolazione soft, realizzata mediante una rete di authorities, si esaurisse soltanto nella riduzione dei vincoli pubblici all'esercizio delle libertà economiche, che il Costituente pose non al fine di garantire il monopolio pubblico dell'economia o un indirizzo dirigista pubblico, ma per salvaguardare i diritti di libertà di tutti i cittadini. A questo punto è da chiedersi se il tentativo di far entrare dentro Troia (o la cittadella dei due eserciti alleati dell'amministrazione inefficiente ed autoritaria e dei mercati monopolisti od oligopolisti) il cavallo pieno di libertà, economiche ed individuali, sia riuscito o se il cavallo, zoppo su una zampa, mostri il proprio contenuto, rischiando di essere annientato prima ancora di entrare nella cinta. Alle Autorità l'ordinamento affida sia il ruolo di garantire la sicurezza, la libertà e la dignità umana, sia quello di tutelare i principi della concorrenza. Questo duplice ruolo giustifica la concentrazione di poteri diversi, ciascuno finali'izato alla salvaguardia di diritti e di principi tra loro eterogenei: tuttavia, esiste un comune denominatore rappresentato dall'interesse pubblico, categoria che quindi si espande, proprio in una fase di contestuale allargamento dell'iniziativa economica privata e dei diritti di libertà individuali. La crisi del sistema di tripartizione dei poteri, incarnata proprio dalle Autorità di garanzia, che vedono una concentrazione di poteri eterogenei, trova così un proprio fondamento in una visione unitaria dell'interesse pubblico, che connota la contestuale tutela della concorrenza sui mercati e dei diritti di libertà dei singoli minacciati dall'espansione del mercato. Dunque, rispetto all'espansione del mercato ed al rafforzamento delle imprese su di esso, le authorities, tutelando i diritti di libertà dei singoli e garantendo i principi della concorrenza, tutelano, indirettamente, l'interesse generale che viene a coincidere appieno con gli interessi dei cittadini ma anche delle stesse imprese. Il ruolo delle authorities, dunque, è poliedrico, multiforme, eterogeneo: es192


se garantiscono la concorrenza sui mercati sulla scorta di forme sofi di regolazione, basate su procedimenti consensuali e di aggiudicazione, eliminando così gli effetti negativi di una regolazione classica, fondata solo su un potere autoritativo degli apparati di Governo, che si disperdeva in mille rivoli, risultando ferraginoso, ecces'sivo, inutile, dispendioso, in una parola, inefficiente. Il mercato, dunque, lontanto dall'essere abbandonato a se stesso, diviene oggetto di una duplice regolazione, finalizzata all'interesse generale: una regolazione interna dovuta allo spiegarsi degli effetti della concorrenza e una regolazione esterna, mediante l'intervento delle Autorità indipendenti che dettano le regole del mercato e ne garantisconò il rispetto. Si tratta di due forme di regolazione del mercato tra loro concorrenti ma che, comunque, devono garantire la salvaguardia dei diritti di libertà dei cittadini, degli utenti, dei consumatori, o, con altro termine, dei contraenti deboli, la cui forza contrattuale non è in grado di concorrere all'autoregolazione del mercato e che necessitano, invece, di una tutela esterna. Le Autorità, dunque, non garantiscono l'interesse del mercato come coincidente esclusivamente con l'interesse economico delle imprese che operano su di esso, bensì in quanto coincidente con l'interesse generale della collettività, sulla scorta proprio delle previsioni generali del Trattato che pongono il mercato al servizio degli obiettivi generali dell'Unione Europea, tra cui figura la promozione di "un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione" 60 Il mercato, dunque, nell'accezione comunitaria, non come valore di principio, astratto, ma come strumento per l'attuazione di fini di benessere collettivo, di miglioramento economico e sociale delle popolazioni dell'Unione. Se l'istituzione delle Autorità e l'assegnazione di incisivi poteri di regolazione riuscirà a far sì che i mercati divengano strumento per il raggiungimento di fini generali di benessere della collettività e non di ristrette nuove oligarchie e se ciò avverrà nel rispetto delle regole della democrazia, potrà dirsi che Ulisse avrà vinto la sua battaglia. Se, invece, le Autorità riprodurranno il primo carattere deleterio delle amministrazioni classiche e cioè l'incapacità di adottare decisioni efficaci ed efficienti, anche se non autoritative o in altri termini, se esse saranno mere spettatrici della fagocitazione del mercato da parte di pochi soggetti economici forti, e coalizzati nella creazione di oligopoli, allora la battaglia sarà definitivamente perduta. .

Testo, rivedutò e corretto, dell'intervento agli Incontri di S. Martino, tenuti a Bologna il 27 e 28 ottobre 2000. 193


Sulla Bicamerale: F. CuocoLo, Bicamerale:

atto primo. Il progetto di revisione costituzionale, Milano, 1997; V. ATRIPALDI, R. BIFULCO (a cura di), La commissione parlamentare per le riforme costituzionali della XII legislatura, Torino, 1998; M. P. CHITI, L. STURLESE, La rfòrma costituzionale, Atti del convegno di Firenze del 27-28 marzo 1998 in ricordo di S. Tosi, Milano, 1999; S. P. PANUNZIO, I costituzionalisti e le riforme: una discussione sul progetto della commissione bicamerale per le riforme costituzionali, Milano, 1998; S. GAMBINO (a cura di), La riforma della Costituzione nelle proposte della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali della Xlllegislatura, Roma, 1998. 2 M. S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, Milano, 1993, pag. 77. 3 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1991, pag. 623. T. MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 1997. 'I C. MORTATI, op. cit., pag. 615. Sulla base del principio di democraticità, l'attività amministrativa deve infatti ispirarsi alle effettive esigenze della collettività popolare ed essere sottoposta a controllo da parte di rappresentanti del popolo (attraverso il rapporto fiduciario che lega il Governo al Parlamento e l'eventuale revoca della fiducia da parte di quest'ultimo organo ai ministri che siano riconosciuti responsabili. T. MARTINES, cit., pag. 440). Il principio di democraticità così avrebbe come proprio naturale corollario quello di assoggettare le scelte amministrative ad un indiretto controllo popolare, che, essendo esercitabile solo per mezzo del legame tra Governo e Parlamento, precluderebbe ad altre forme di applicazione del principio. Dunque, dovrebbe registrarsi una sostanziale equivalenza tra principio di democraticità e riconducibilità al ministro del complesso delle funzioni amministrative. Sul complesso pensiero dell'A., e, pii in generale, sull'indirizzo politico, si rinvia a Indirizzo politico e Costituzione: a quarant'anni dal contributo di Temistocle Martines, giornate di studio, Messina, 4-5 ottobre 1996, Milano, 1998. 194

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F. BENVENUTI, Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1987. 7 M. CAMMELLI, L'amministrazione per collegi, Bologna, 1980, pag. 11. 8 F. BENVENUTI, Op. cit., pag. 40. 9 A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, pag. 8. 10 Ibidem, pag. 10. LA. definiva il Governo come "l'organo del Potere esecutivo, cui fa capo quel complesso apparato costituito da organi e uffici dello Stato al quale spetta l'attività di pubblica amministrazione", ricordando come poi i "poteri" classici (legislativo, giurisdizionale ed amministrativo) dovessero essere visti quali "complessi organici". 11 E. GuIccIAIWI, La giustizia amministrativa, Padova, 1957, pag. 7, secondo cui "L'attuazione del principio della divisione dei poteri... importa infatti la soggezione 1el potere esecutivo ai precetti del potere legislativo, sotto il controllo e la garanzia offerti dal potere giudiziario". Ciononostante e pur ammettendo l'unicità ontologica dell'amministrazione, egli si soffermaya prevalentemente sui fini di interesse generale della stessa, definendola, in apertura della sua opera, come "l'attività che lo Stato e gli Enti pubblici minori svolgono per il concreto soddisfacimento dei fini di interesse collettivo che sono loro prefissi in un determinato momento storico" (ibidem). 12 In P. BARJLE (Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1982) si delinea una nozione tendenzialmente unitaria di pubblica amministrazione. Nelle pagine del suo Manuale, l'accezione di pubblica amministrazione è quella di "complesso di organi attivi facenti capo tutti, nell'ambito dello Stato-apparato, al Governo. Dal Governo, infatti, si diparte l'intera macchina amministrativa statale, centrale e periferica, estranea allo Stato-comunità" (pag. 189), distinguendo l'amministrazione in diretta, indiretta, centrale e locale. 13 A. M. SANDULLI, op. cit., pag. 354. 14 A. M. SANDULLI, op. cit., pag. 186. IS M. S. GIANNINI, Il potere pubblico, Bologna, 1986, pag. 25.


16 Per un bilancio interessante della quale può essere utile leggere G. D'AuIiJA, Filosofia e pratica del Capo 11 delle legge 5911997, in «Aedon», n. 1/1999. 17 Tralascio volutamente di ricomprendere nell'elenco la legge n. 13311999 ed il d.lgs. n. 5612000, sul federalismo fiscale, intendendo limitare le presenti considerazioni al solo fenomeno di destatalizzazione della PA e non invece a quello, più generale, del mutamento dell'assetto delle relazioni tra Stato ed autonomie. 18 Sul federalismo amministrativo può vedersi M. CAMMELLI, Un passaggio chiave del fede-

ralismo amministrativo: il riordino dell'amministrazione periferica dello Stato, in «Aedon», n. 211998 e dello stesso A., Amministrazione perferica o amministrazione territoriale dello Stato?, in «Diritto Pubblico», n. 311999, pag. 7 65. 19 M. CAMMELLI, op. ult. cit., pag. 775, individua come tale il processo di "ridefinizione del ruolo degli apparati in termini di soddisfazione della domanda dei cittadini e di conseguimento degli obiettivi assegnati in luogo della mera (ancorché necessaria) applicazione della legge". 20 U. ALLEGRETtI, Profilo di storia costituzionale italiana, Bologna, 1989. 21 C. ROEHRSSEN, Della distinzione tra governo e amministrazione, in «Riv Trim. Dir. Pubb.», 1990, pag. 131. 22 Il tentativo in atto di separazione tra amministrazione di indirizzo ed amministrazione attiva viene impropriamente definito come "separazione tra politica ed amministrazione". In realtà, gli organi di direzione politica mantengono rilevanti prerogative che incidono in modo diretto sulla esternazione e sulle forme di attuazione del potere amministrativo, tant'è che il potere di rappresentanza esterno dell'amministrazione permane, comunque, in capo al titolare dell'ufficio politico (e non potrebbe essere altrimenti a Costituzione invariata). Si tratta, quindi, di una diversa allocazione di competenze nell'ambito di un fenomeno unitario che continua a vedere la compresenza, non necessariamente deleteria, di politica e "tecnica dell'ammi-

nistrazione". Tanto può desumersi dal tenore delle previsioni dello stesso d. lgs. n.29/1993, fosse altro al fine di garantire la unitarietà nella formazione delle decisioni dell'amministrazione. Non può, invece, essere sostenuto con sicurezza che la distinzione tra amministrazione attiva ed amministrazione di indirizzo abbia effettivamente avuto come risultato quello di garantire una impermeabilità dell'amministrazione al volere politico a vantaggio di scelte "tecniche" espresse dai dirigenti. Ciò perché in nuce il rapporto stesso che lega i dirigenti, cioè coloro che si vorrebbero responsabili della formazione della volontà dell'amministrazione, a quest'ultima, è mediato proprio dai vertici politici che li nominano e, come nel caso delle amministrazioni locali, ne determinano fortune e disgrazie. 23 V. supra M. CAMMELLI, L'amministrazione per collegi, cit. 24 Certo è ormai che non solo debba distinguersi tra Autorità di garanzia (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) ed Autorità di regolazione (Autorità per l'energia elettrica ed il gas), passando per vie intermedie (Autorità per le telecomunicazioni) ma anche che nel gruppo non omogeneo definito delle Autorità indipendenti, alcune strutture siano in realtà apparati serventi dell'amministrazione statale (Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, Autorità per l'informatica nelle pubbliche amministrazioni). 25 F. BASSANINI, Tendenze delle riforme amministrative, Inaugurazione dell'anno accademico SPIsA 1997-1998, Bologna, 1998. 26 M. CAMMELLI, La sussidiari età presa sul serio, in «Il Mulino», n. 312000, pag. 450. 27 Non è la demonizzazione del mercato, ma solo l'indubbia convinzione della necessità di regole a tutela dei soggetti contrattualmente più deboli, fondata, a sua volta, sull'impossibilità storica, prima che oggettiva, di accedere alle tesi della autoregolazione dei mercati sulla scorta delle dinamiche della libera concorrenza, che non possono operare in assenza di presupposti giuridici e normativi che impediscano, sin dal195


l'inizio, la formazione od il mantenimento di situazioni di monopolio od oligopolio. 28 S. GAMBINO, Crisi istituzionale e rifirma della Costituzione, Pisa, 1983, pag. 55. 29 P. SCHLESINGER, Persona e mercato, in «Riv. Trim. Dir. Proc. Civ.», n. 311996, pag. 799. 30 Nel paragrafo seguente sono poi esposte le varie gradazioni di tale concetto. 31 G. AMATO, Il mercato nella Costituzione, in «Quad. Cost.», n. 1/1992, pag. 12. 32 Questo concetto è bene sintetizzato da E MERusI, Considerazioni generali sulle amministrazioni indipendenti, in E BASSI, F. MERUSI (a

cura di), Mercati e amministrazioni indipendenti,

miti, consentiti dalla Costituzione federale europea" (E MERUSI, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000, pag. 22). 38 G. Cov.so nel suo L'attività amministrativa, Torino, 1999, ricorda come le norme europee squalifichino "come costituzionalmente illegittimi politiche economiche, indirizzi legislativi e apparati organizzativi che sono stati concepiti con l'intento di dare attuazione all'art. 41, Y. comma, Cost." (pag. 57). 39 E all'evidente sperequazione contrattuale tra consumatori-utenti da un lato e produttori dall'altro. 40 U. ALLEGRETTI, Considerazioni preliminari

Milano, 1993, pag. 157. 33 S. CASSESE, La nuova costituzione economica, Bari, 1998, pag. 49. 34 G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Bari, 1999, pag. 6. 35 S. CASSESE, La nuova costituzione economica, cit., pag. 49, rammenta che "Nell'ordinamento comunitario complessivo, situazioni giuridiche soggettive del cittadino nei confronti dello Stato si intrecciano con situazioni del cittadino nei confronti della Comunità e con situazioni attive o passive degli Stati rispetto ai cittadini e alla Comunità". Le tecniche di protezione consisterebbero, innanzitutto, "nelle garanzie di libertà o diritti strumentali a quello principale: ad esempio, libertà di circolazione dei lavoratori e interventi per la formazione professionale come strumento per la piena libertà di circolazione dei lavoratori". 36 Ibidem, pag. 48. 37 Si pensi soltanto che il mutuo riconoscimento implica la rinuncia da parte dello Stato ad effettuare controlli su soggetti o attività "derivati da altro ordinamento e sottoposti alla disciplina di controllo di quest'altro ordinamento" (5. CASSESE, op. cit., pag. 48). In modo ancora più generale si è parlato di abolizione tacita del 30 comma dell'art. 41 Cost. da parte di una "Costituzione federale europea", per cui "lo Stato legislatore non può più fare incursioni nel mercato concorrenziale, se non nei casi, e nei li-

per uno studio giuridico della mondializzazione, in «Diritto Pubblico», n. 2/1999, pag. 505. 41 Si pensi al nesso tra libertà di comunicazione e mercato delle comunicazioni; tra libertà di pensiero e di informazione e mercato dell'informazione in rete e radiotelevisiva; tra libertà di soggiorno e circolazione e sistema dei trasporti; tra iniziativa economica privata ed accesso al credito; tra diritti degli utenti di un servizio pubblico e situazioni di monopolio od oligopolio; o, più in dettaglio, si pensi al legame tra diritto alla difesa e sistema delle clausole vessatorie nei contratti per adesione o predisposti su moduli prestampati. 42 U. ALLEGRETti, Amministrazione pubblica e costituzione, Padova, 1996, pag. 227 e segg. 43 S. GAMBINO, Riforma amministrativa e Welfare State: Stato sociale e buon andamento delle pubbliche amministrazioni fra principio partecipativo e modalità dell'azione amministrativa, in S. GAMBINO (a cura di), Dirigenza pubblica e innovazione amministrativa, Bologna, 1992, pag. 19. ' F. MERUSI, Democrazia e Autorità indipendenti, cit. ' Definita da SANDULLI nel suo Manuale, cit.,"ente specializzato" ed "agenzia dotata di larga autonomia", pag. 533. 46 E. CAIWI, La CONSOB come istituzione comunitaria, in F. BASSI, E MERUSI (a cura di), Mercati e amministrazioni indipendenti, cit., pag. 99 e segg.

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Autorità semi-indipendenti ed Autorità di garanzia, in «R.iv. Trim. Dir. Pubbj>, n. 3/1997, pag. 645 e segg. 48 J termini "autonomia" ed "indipendenza", ormai abusati nella letteratura giuridica, riguarderebbero il primo la impermeabilità rispetto al potere politico ed economico, il secondo la separatezza funzionale e strutturale delle Autorità dal Governo, anche se si è da subito dubitato dell'effettiva possibilità di distinguere effettivamente tra i due concetti (CERIJLLI-IRELLI, Premesse problematiche allo studio delle amministrazioni indipendenti, in F. BAssi, F. MERU5I (a cura di), Mercati e amministrazioni indipendenti, cit., pag. 1 e segg.), poiché essi avrebbero "un valore eminentemente relazionale", indicando una qualità di un certo soggetto rispetto ad un altro o ad un'altra organizzazione, identificata nel potere esecutivo. D'altronde, la lettera sia della Legge n. 287/1990 che quella della Legge n. 48111995, fanno riferimento alla "indipendenza di giudizio e di valutazione", sottintendendo così forse che l'autonomia attiene alla separazione dal Governo e l'indipendenza alla formazione della volontà dell'organismo, che deve essere indenne da ogni e qualsivoglia pressione od influenza esterna. 9 Il Presidente ed i quattro membri dell'Antitrust sono nominati con determinazione adottata d'intesa dai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Il Presidente dell'Autorità per le telecomunicazioni è nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri d'intesa con il ministero delle Comunicazioni, mentre i componenti delle due commissioni, in numero di quattro l'una, sono nominati dalla Camera dei Deputati e dal Senato della Repubblica in numero eguale. Infine, sia il Presidente che i due componenti dell'Autorità per l'Energia Elettrica ed il Gas sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro competente. 50 I poteri e le funzioni assegnate alle Autorità non coincidono con quelli correlati tradi47

G.

AMATO,

zionalmente all'esercizio di funzioni amministrative da parte dell'amministrazione statale, così le Autorità hanno assommato ai poteri pubblici inerenti l'esercizio di funzioni amministrative storicamente allocate in capo allo Stato (rectius all'amministrazione statale), altre e diverse funzioni, allocate in capo a diversi organi costituzionali (Parlamento e Governo per i poteri normativi) ovvero alla Giurisdizione. 51 S. CASSESE, Gli Stati nella rete internazionale dei poteri pubblici, in «Riv. Trim. Dir. Pubb.», n. 211999, pag. 321. 52 Ibidem, pag. 328. 53 Afferma la necessità di qualificare le authorities come amministrazioni, G. MORBIDELLI, Sul regime amministrativo delle Autorità

indipendenti, Roma, 1996. 5' Per motivi di brevità in questa sede, si rinvia sul punto a P. PERLINGERI (a cura di), Authorities e tutela della persona, Napoli, 1999. 55 Questa non deriva dal fatto che la loro istituzione è implicitamente contenuta nell'art. 41 Cost., ma bensì dalla circostanza per cui alla fine della seconda guerra mondiale, per come già ricordato, un problema di concorrenza globale sui mercati e di tutela degli utenti dei servizi non si poneva proprio. 56 Fermo però restando quanto sopra ricordato circa l'esercizio di poteri normativi e quasigiurisdizionali, che è maggiore nell'Antitrust. 57 Ne dovrebbe seguire che il Governo rimarrebbe responsabile innanzi alle Camere anche per l'operato delle Autorità, in una sorta di responsabilità oggettiva per operato altrui, che il nostro codice civile conosce nell'ambito dei rapporti di diritto privato e che, in questo caso, viene a trovare applicazione alle relazioni tra organi dello Stato. 58 G. AMATO, Autorità semi-indipendenti ed Autorità di garanzia, cit., pag. 660. 59 F. BASSANINI, Tendenze delle riforme amministrative, Inaugurazione dell'anno accademico SPIsA 1997-1998, Bologna, 1998. 60 Cfr. art. 2 del Trattato istitutivo dell'Unione Europea. 197



rubriche

Notizie da...

FONDAZIONE LELI0 E LIsLI BASSO

Osservatorio sull'Europa La Fondazione Lelio e Lisli Basso è impegnata da tempo a seguire il processo di costituzionalizzazione dell'Europa. Il gruppo di ricerca internazionale che si occupa di questo tema ha prodotto varie iniziative, tra

cui il convegno "Sfera pubblica e Costii'uzione europea", svoltosi a Roma alla fine del 2000. Il convegno, occasione di confronto tra intellettuali, politici e membri della prima Convenzione, ha posto al centro del dibattito la Carta dei diritti fondamentali, che ha segnato una tappa decisiva per le basi costituzionali dell'Europa unita, e al tempo stesso, ha fatto emergere la necessità di una trasformazione dei tempi e dei modi in cui si struttura lo spazio pubblico europeo. Sugli stessi temi, la Fondazione ha pubblicato il volume "Una Costituzione senza Stato" (a cura di G. Bonacchi, il Mulino, Bologna 2001), frutto di ricerche originali. Un altro volume, con lo stesso titolo del convegno e parte delle relazioni presentate, sarà pubblicato entro il 2002, come primo della nuova serie degli "Annali" della Fondazione. Proseguendo tale attività, la Fondazione Basso ha costituito nel marzo 2002 un Osservatorio sull'Europa, composto da studiosi di diverse discipline. Ne fanno parte Augu-

sto Barbera, Franco Bassanini, Valentina Bazzocchi (segreteria scientifica), Luigi Ferrajoli, Maurizio Fioravanti, Massimo Luciani, Andrea Manzella, Giacomo Marramao, Elena Paciotti, Claudio Pavone, Federico Petrangeli (segreteria scientifica), Alessandro Pizzorusso, Eligio Resta, Stefano Rodotà, Mariuccia Salvati e Salvatore Senese. E Osservatorio si propone di seguire i lavori della Convenzione e di offrire ai suoi componenti e al dibattito pubblico un contributo, frutto delle riflessioni maturate in questi anni e collegato con le grandi linee di svolgimento della esperienza costituzionale europea. Già il primo tema prescelto dalla Convenzione, il riparto di competenze tra l'Unione e gli Stati, mostra come le questioni concrete siano inestricabilmente connesse alle problematiche di più ampio raggio. La razionalizzazione del sistema delle competenze, secondo criteri di semplificazione e trasparenza, finirà infatti prima o poi per scontrarsi con alcuni nodi di fondo: come si disegna l'ambito delle competenze dell'Unione di tipo costituzionale, e non meramente politico-legislativo, e in cosa consiste una distinzione di questo tipo, che pure ricorre in tutti i documenti più recenti? è accettabile, oggi, una logica di tipo "federale", in cui potremmo avere, ad esem199


pio, dna vera e propria sanzione del carattere "numerato" dei poteri dell'Unione, e dunque la -presunzione di competenza a favore degli Stati, salva diversa esplicita attribuzione? c) è accettabile, oggi, la trasformazione della Corte di giustizia in vera e propria Corte costituzionale, come tale giudice nei conflitti di attribuzione tra Unione e Stati membri? Sui molti altri temi che saranno man mano in discussione, l'Osservatorio interverrà con proposte puntuali, nella convinzione che nessuna autentica riforma costituzionale europea è possibile senza una cultura costituzionale europea che la sorregga e che, tra l'altro, sarà poi chiamata a interpretarne il suo significato in sede di applicazione. Una cultura costituzionale di cui, nella ampia dimensione europea, gli studiosi raccolti intorno alla Fondazione Basso si sentono parte. I contributi finora prodotti sono consultabili sul sito ufficiale della Convenzione europea (wwweuropean-convention.eu .int) ma anche sul sito di Caffè Europa (www.caffeeuropa.it)

Biogea Biogea è una banca dati "guidata", che la Fondazione Basso ha realizzato per divulgare intelligentemente i risultati acquisiti dalla ricerca bioetica nei campi del corpo e della mente umani. Già con i Dialoghi interdisciplinari di Bioetica, giunti quest'anno al quarto ciclo, la Fondazione ha chiamato giuristi, filosofi, specialisti della materia medica ad affrontare argomenti divenuti in questi anni di scottante attualità come i dati genetici, la donazione, le scelte di fine vita, la procreazione assistita. La nuova banca 200

dati Biogea è stata presentata ufficialmente in occasione dell'ultimo degli appuntamenti previsti dai "Dialoghi" di quest'anno, dedicato a "Procreazione assistita e disconoscimento", con interventi di Gilda Ferrando, Silvia Piccinini, Maria Grazia Giammarinaro, Massimo Dogliotti. Perché Biogea: la banca dati è stata pensata per avvicinare il grande pubblico a materie difficili come la genetica e la biologia molecolare, e offrire uno strumento di rapida consultazione e di buona informazione al di sopra delle tradizionali diatribe ideologiche che di solito accompagnano questi temi. Il comitato scientifico è composto da eminenti studiosi del campo giuridico, filosofico e scientifico come Stefano Rodotà, Giacomo Marramao, Alberto Oliverio, Gianni Tognoni e Giovanni Berlinguer, presidente uscénte del Comitato nazionale di Bioetica. Com'è fatta Biogea: la banca dati contiene circa 5000 documenti relativi a duecento parole-chiave che abbracciano i più rilevanti ambiti concettuali della bioetica umana, suddivisi in due sezioni, il corpo e la mente, con ulteriori sottosezioni: sfera medico-giuridica e sfera etico-sociale per il corpo, ambiente, cervello e sistema nervoso per la mente. Le informazioni sono contenute in schede bibliografiche, biografiche, abstracts dei titoli più significativi, brevi profili storici delle istituzioni più rilevanti, documenti nazionali e internazionali come leggi e convenzioni, rimandi ai siti più interessanti per questo campo di indagine. Le schede sono corredate da legami ipertestuali, che permettono di inquadrare i dati nell'appropriato contesto tematico. Di particolare utilità sono i link al Sistema Bibliotecario Nazionale SBN che permettono d'in-


dividuare in quale biblioteca d'Italia è custodito il volume che interessa. FONDAZIONE LELI0 E Lisu BASSO Via della Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma Tel. 06.68.79.953 - Fax 06.68.30.75.16 e-mail: basso@fondazionebasso.it sito web: www.fondazionebasso.it

FONDAZIONE HYPERCAMPO

Risultati sicuramente positivi per la XIV edizione delle Giornate Fiorentine della Comunicazione, il tradizionale appuntamento estivo promosso dalla Fondazione Hypercampo di Giovanni Bechelloni che quest'anno è durato dodici giorni. Alle Giornate propriamente dette, un convegno internazionale su conflitti e interculturalità dopo l'il Settembre, svoltesi dal 19 al 20 giugno, sono infatti succedute: la VII edizione di Eurofiction, la conferenza internazionale sull' industria televisiva europea, il 20 e il 21 giugno; il IV incontro internazionale del Master Europeo in Media Communication e Cultural Studies, dal 21 al 22 giugno; la VIII edizione della Summer School del Master in Comunicazione e Media, dal 22 al 29 giugno. Tali eventi hanno ricongiunto il mondo della ricerca e dello studio a Firenze, ai suoi luoghi, alla sua storia, alla sua ospitalità. Agli spazi più "istituzionali" del Rettorato dell'Aula Magna di Piazza San Marco e del Dispo di Via Valori, si sono aggiunti infatti i locali, ricchi dei gloriosi ricordi di un tempo, del Collegio "Alle Querce", che ha ospitato la Summer School, la settimana intensiva dei Master. Senza dimenticare lo storico CafTh "Le Giubbe Rosse", dove si sono discussi "Tesi e pretesti".

Numerosi gli interventi di "big" italiani quali Sandro Rogari, Luca Toschi, Carlo Sorrentino, Mario Morcellini, Cosimo Ceccuti, Zeffiro Ciuffoletti, Giuseppe Richeri, Luca Milano, Massimo Teodori, Nicola Rossi, Alberto Abruzzese, Enrico Menduni, Antonio Caviccha Scalamonti e dei "padroni di casa" Giovanni Bechelloni e Milly Buonanno, e molte e qualificate le rappresentanze di Atenei ed équipe di ricerca straniere (europee, americane e giapponesi) con cui l'Università di Firenze intrattiene consolidati rapporti di cooperazione e di partnership. I dodici giorni di iniziative, convegni e incontri, presentazioni di libri hanno avuto come filo conduttore la comunicazione, vista come problema e come risorsa della società contemporanea, soprattutto dopo l'il Settembre; quel grande evento spartiacque che ha imposto e impone a ciascuno di noi, in ogni campo delle attività e delle relazioni umane e in ogni ambito della comunicazione, nuove e quotidiane sfide nel percepire e comprendere l'altro. E grande spazio è stato dedicato, secondo i dettami e l'ispirazione sociologica della Spc, al ruolo dei media nella narrazione delle realtà contemporanee e nella costruzione delle identità individuali e collettive. Una vasta pluralità di tematiche rivolte a differenti pubblici. Protagonisti attivi della kermesse sono stati, infatti, tanto gli studenti della passata edizione del Master in Comunicazione e Media, quanto quegli attuali, senza dimenticare gli allievi dei nuovi master: sul Giornalismo on Line e sull'Ideazione e Sviluppo di Storie per la Televisione, nonché le ragazze e i ragazzi dei Corsi di Laurea in Media e Giornalismo e in Servizio Sociale. 201


Fra i momenti più rilevanti: la premiazione degli allievi più meritevoli del Master 2001, l'intervento di Bechelloni in apertura delle Giornate che ha riassunto il significato del termine "comunicazione" per la SFc ("Comunicare significa aprirsi a un'esperienza di cambiamento; attraverso l'apprendimento, aderendo alla cosa individuale per come si presenta allo sguardo e all'ascolto. Significa potersi fidare dell'altro. Senza attivare dietrologie; senza chiedersi cosa si nasconde dietro ciò che si vede, che si può percepire") e gli incontri del ciclo "Testi e pretesti" con Massimo Teodori, autore di Maledetti americani e Nicola Rossi, che ha presentato Rfirmisti per forza, alle "Giubbe Rosse". FONDAZIONE HYPERCAMPO

Via della Piazzola, 45 - 50133 Firenze Tel. 055.50.57.043 - Fax 055.57.15.39 e-mail: com@hypercampo.org sito web: www.hypercampo.org

FONDAZIONE RISORSA DONNA

La Fondazione Risorsa Donna nasce sull'esperienza pluriennale del network internazionale Women's World Banking, una organizzazione che opera a livello mondiale nel campo del microcredito. La Fondazione indica già nel suo nome una chiara visione della donna e del suo ruolo: la donna come soggetto sul quale investire in quanto elemento chiave per uno sviluppo sociale ed economico sostenibile e duraturo, uno "sviluppo che deve essere inteso come un processo di espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani", secondo la definizione data, tra i primi, dal 202

premio Nobel per l'economia Amartya Sen. La missione della Fondazione è aiutare le donne ad ottenere, nelle singole realtà in cui vivono, l'accesso al capitale, alle informazioni, alle tecnologie, ai mercati offrendo loro nuove opportunità anche attraverso lo sviluppo delle proprie conoscenze ed incoraggiando meccanismi e strumenti per l'auto consapevolezza e l'affermazione del loro ruolo propulsivo all'interno del contesto economico e sociale. La Fondazione Risorsa Donna si propone, quindi, come soggetto per lo sviluppo della cultura del risparmio, della finanza e dell'imprenditoria delle donne, in particolare attraverso azioni specifiche nel settore del microcredito e della finanza etica. Le attività svolte sono riconducibili a quattro linee d'intervento: 1. L'attività di ricerca, che vede impegnata la Fondazione con vari progetti, tra cui: il Rapporto di Ricerca sul Microcredito sociale in Italia promosso da tre fondazioni ex-bancarie quali Compagnia di San Paolo, Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, Fondazione Salernitana Sichelgaita, presentato a Roma lo scorso 5 luglio presso l'Associazione Bancaria Italiana; il primo Bilancio di Missione dello Stato Italiano per lo stakeholder donna con il patrocinio del Ministero delle Pari opportunità. 2. L'attività di formazione, con lo svolgimento di vari corsi formativi tra cui il Corso per manager del settore non-profit, giunto ormai alla IV edizione. 3. Il networking con le altre organizzazioni che già si occupano della donna e dello sviluppo. In questo ambito, la Fondazione ha recentemente promosso la costituzione dell'Associazione "Società Italiana di Cultu-


ra delle Fondazioni" e partecipa al tavolo di coordinamento tra fondazioni al femminile promosso dalla Fondazione Censis. 4. La gemmazione sui territorio; è strategico infatti per la riuscita della missione della Fondazione la capillarità dell'azione. A tale riguardo ci sono discorsi ben avviati per la nascita di affiliate a Bari, a Palermo e a Reggio Calabria. Per avere maggiori informazioni è possibile visitare il sito www.fondazionerisorsadonna.it all'interno del quale, a partire da ottobre, le donne potranno trovare alcune novità utili alla formazione ed all'inserimento professionale. Sarà, infatti, disponibile il testo del bando della quarta edizione del Corso per Managers del settore non profit, in scadenza il 24 ottobre. Ma soprattutto sarà attivo un motore di ricerca dedicato ai programmi di finanziamento gestiti dalla Commissione europea rivolti al mondo femminile. Il motore di ricerca, indirizzato a tutte le organizzazioni operanti nell'ambito del Terzo settore, pubbliche e private e particolarmente attente allo sviluppo di azioni innovative e positive a favore delle donne, contiene informazioni sintetiche ed aggiornate sui programmi di finanziamento comunitari e sui relativi bandi aperti. All'interno dello stesso sono reperibili i documenti ufficiali dell'Unione Europea relativi a singoli Programmi, Bandi, specifiche tematiche di interesse europeo quali, per esempio, le pari opportunità tra donne e uomini, la cultura, la formazione (lavoro), l'istruzione, i

giovani, le politiche sociali, l'imprenditorialità.

I risultati della Ricerca sul microcredito sociale in Italia sono stati presentati il 5 luglio 2002, a Roma, presso la sede centrale dell'ABI, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica. La ricerca fa il punto sulle pregresse esperienze di microcredito in Italia evidenziando la potenzialità sociale di questa forma di finanziamento al fine di un migliore inserimento sociale e lavorativo di persone in situazione di svantaggio, con particolare riferimento alle donne immigrate. La ricerca ha cercato di dare risposta ai seguenti quesiti: esiste un "mercato" per il microcredito in Italia? Le donne hanno un ruolo in questo mercato? E di che tipo? Esiste un rapporto fra Terzo settore e microcredito? Quale ruolo potrebbero avere le fondazioni bancarie in questo tipo di finanziamento? Alla presentazione della ricerca sono intervenuti il presidente della Fondazione Risorsa Donna, Paola Barbieri, il presidente del comitato scientifico della Fondazione, on. Silvia Costa, il Vice-Presidente della Compagnia di San Paolo, Carlo Callieri, i rappresentanti della Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia e della Fondazione Salernitana Sichelgaita. FONDAZIONE RISORSA DONNA

Via della Fòntanella di Borghese, 35 00186 Roma Tel. 0668301057— fax 066865663 E-mail: segreteria@fondazionerisorsadonna.it Info@fondazionerisorsadonna.it www.fondazionerisorsadonna.it

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Segnalazioni

Noi della Diaz I Libri di AltreEconomia, Editrice Berti, 2002

LORENZO GUADAGNUCCI,

Lorenzo Guadagnucci è un giornalista che lavora alla redazione economica di alcuni quotidiani nazionali ("Il Resto del Carlino, "La Nazione" e "Il Giorno") che è stato testimone diretto della "perquisizione" avvenuta nella scuola Diaz di Genova, durante i giorni dell'incontro del G8 nel luglio 2001. Il suo libro, Noi della Diaz, è il racconto o meglio la cronaca di quanto ha visto e vissuto "sulla propria pelle" (purtroppo, in questo caso, nel senso letterale) la notté in cui decine di poliziotti irrompono nella sede del Genova Social Forum, temporaneamente ospitato -. appunto - nella scuola Diaz, picchiando brutalmente molti dei ragazzi presenti (si conteranno 66 feriti), anche nella stanza dell'ufficio stampa del GSF dove si trovava lo stesso Guadagnucci. Su questo, come su altri episodi che sono accaduti nelle "giornate di Genova" - e su quelli analoghi avvenuti a Napoli qualche mese prima durante le manifestazioni in occasione del Terzo Global Forum -, la magistratura sta tuttora indagando. Quindi, su mandanti, motivazioni e responsabilità individuali è ancora difficile dire "l'ultima parola"; il libro di Guadagnucci vuole soltanto fare una "cronaca", a tratti quasi

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distaccata, comunque lucida e ragionata, di un episodio che lo ha coinvolto personalmente. Guadagnucci era a Genova per capire, per seguire le diverse iniziative dei movimenti, delle associazioni, dei diversi gruppi di giovani e meno giovani che, per ragioni diverse, in quelle giornate di luglio stavano manifestando per chiedere ai rappresentanti dei Paesi del G8 - riuniti per prendere decisioni che avrebbero riguardato, praticamente, miliardi di persone -, di tenere in considerazione anche quanto aveva da dire la cosidetta società civile sui temi su cui si sarebbe deliberato. Guadagnucci era a Genova perché, - come ricorda in un interessante capitolo in cui descrive l'esperienza -, era stato a Porto Alegre, al primo Forum Sociale Mondiale; si trovava nell'ufficio stampa della Diaz perché era ed è interessato a comprendere, dal di dentro, come lavora la società civile, che una facile e superficiale mediatizzazione ditali eventi ha etichettato con l'inesatta definizione di "no global". Il libro è presentato dallo stesso presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, che - dopo aver ricordato quanto "in un contesto economico sempre più aggressivo, le notizie diventano 'prodotto" e che, di conseguenza "i giornalisti non verificano più le informazioni, con tempi e


modi ormai paragonabili alle moderne catene di montaggio industriali" - afferma come il lavoro di Guadagnucci "meriti di essere definito d'altri tempi e, proprio per questo, straordinariamente moderno. Perché un giornalista deve rivendicare i suo ruolo di restare la coscienza critica della società in cui vive". Alla cronaca della "notte dei manganelli" e delle due giornate in ospedale, piantonato da poliziotti (le 93 persone fermate, comprese quelle picchiate, sono state accusate di reati quali associazione a delinquere e resistenza a pubblico ufficiale), Guadagnucci aggiunge anche alcune "schede tematiche" in cui presenta parte delle problematiche di cui si occupa il movimento - è possibile definirlo così soltanto in un senso molto generale - rappresentato a Genova dietro lo slogan "Voi G8, noi sei miliardi". Approfondimento informativo che l'autore introduce ricordando che "sullo sfondo di campagne di boicottaggio, dei piani di riforma delle istituzioni sovranazionali, della sperimentazione di nuovi sistemi economici, c'è un'idea di globalizzazione dal basso che ha come scenario e metro di misura gli interessi ultimi del pianeta, quindi la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale su scala mondiale". È su temi quali il debito dei Paesi più poveri, la necessità di limitare il predominio della finanza rispetto all'economica reale, la pressione dei consumatori per guidare le scelte delle aziende in senso etico, il rispetto dei diritti (di tutti i diritti: civili: politici, economici e sociali) che "poggiano le fondamenta di un progetto sociale e politico che si ritiene credibile e cerca consenso fra i cittadini, oltre e nonostante le cortine fumogene delle vecchie ideologie e dei lacrimogeni".

Di questo ha voluto rendere testimonianza Guadagnucci nel suo libro, scritto in uno stile pacato, - non vi sono giudizi "ideologici" né viene rimarcata la sofferenza (fisica e morale) che deve esserci stata (e che s'intuisce qua e là nel racconto) - che ha mostrato anche a chi, in questi ultimi mesi, lo ha conosciuto nelle decine di incontri pubblici a cui è stato invitato. La sua testimonianza è senz'altro interessante per chi desidera capire veramente quanto viene chiuso nel recinto della definizione di "no global". "Noi della Diaz" è in distribuzione con i venditori di AltrEconomia, nelle Botteghe del mondo e nelle librerie (edizioni Berti) al costo di 8 euro.

La mia guerra contro la guerra, Europea Editrice, Roma 2002

UMBERTO SE1AnNI,

Il nostro Serafini ha finalmente pubblicato il racconto autobiografico, La mia guerra contro la guerra, che da tempo ci preannunciava. Il libro racconta un'esperienza privata ma, come è consuetudine per Umberto Serafini, la storia personale si intreccia fortemente con la "grande" storia. Così, con una scrittura fluida, brillante, ricca di digressioni, il racconto scorre con il tono colloquiale ben noto a chi ha il piacere di conoscere Serafini. Una breve introduzione per chi ancora non lo conosce: "Umberto", come egli stesso ha scelto di presentarsi nel risvolto di copertina, "contava di fare lo studioso... e l'insegnante; ma, con una vocazione cresciuta dall'adolescenza, ha deciso (dal 1935) di dedicare la vita alla lotta per la pace". In pratica, per raggiungere questo scopo, - decisamente difficile -, nel 1950 promuove la 205


costituzione del Consiglio dei Comuni (ora anche delle Regioni) d'Europa, milita nel Movimento Comunità di Adriano Olivetti e fa il consigliere comunale in piccoli Comuni del Canavese per trentaquattro anni. Ma Serafini è sicuramente più noto per aver diretto il mensile "Comuni d'Europa". Ricordiamo anche che ha pubblicato, con le edizioni Officina, "Adriano Olivetti e il Movimento Comunità" (1982) ed anche il bel volume autobiografico (che Serafini non ricorda nella sua presentazione) "I libri e il prossimo" (Editore Passigli, 1991). La mia guerra contro la guerra può essere considerato una sorta di approfondimento di quest'ultimo, ovvero il racconto di una parte della propria storia personale così importante da doverne riparlare, e il racconto inizia subito, senza prefazione perché, è vero (come ci avverte lo stesso autore) che il primo episodio la sostituisce. A proposito, verrebbe voglia di riportare l'incipit, perché, se è vero, come sostengono molti, che un buon libro si vede dal suo inizio, allora quello di Serafini è sicuramente degno di comparire nelle classifiche della buona letteratura. Ma lasciamo al lettore il piacere della scoperta. La frase, invece, che introduce al racconto vero e proprio - "Mamma, io vado a piazza Venezia" - può essere ricordata perché è utile a capire il "personaggio" di cui si parla. La spiegazione viene subito dopo: "Se (dico "se") è l'annuncio della dichiarazione di guerra, il discorso del nostro tiranno sarà, purtroppo, uno storico discorso". E il giovane Umberto vuole esserci e "vedere, per quel poco che conta, la reazione della gente". Si trattava proprio della dichiarazione di quella guerra a cui Serafini parteciperà, per essere accanto a coloro, "contadini, operai e borghesi", che 206

non avrebbero potuto evitarla (come a lui, invece, poteva accadere in quanto appartenente ad una famiglia con "conoscenze"). Una guerra a cui decide di prendere parte per cercare "giorno per giorno, come si possa operare e quando si possa operare la rivolta contro la guerra di Hitler", per predicare che "la guerra, ogni guerra, è un segno di barbarie " e che, "comunque non bisogna 'odiare il nemico' come predica il ministro fascista della guerra, perché è un povero cristo come noi". Serafini era già un federalista dichiarato: ancora giovane studente liceale sosteneva l'obiettivo di creare "una lega federale degli Stati democratici d'Europa", da qui il ritenere un errore la guerra coloniale (allora quella etiopica) e in più voluta da un regime autoritario. Il racconto della guerra inizia con il ricordo di un paio di "pasticci", di cui uno particolarmente rappresentativo della "nostra burbanzosa marina militare", che vede un ammiraglio gridare con un megafono a dei caccia di non sparare; uno dei tanti esempi di "una guerra fatta alla buona", che Serafìni ricorda anche nelle pagine che seguono. Ma i diversi episodi appaiono come delle rappresentazioni, gli atti di una commedia in cui ciò che veramente conta è il senso ultimo: "preoccuparsi della evoluzione - e contribuire, con un paziente stillicidio morale giorno per giorno, alla evoluzione - della coscienza collettiva". Il nostro tenente cercava di inculcare nelle menti dei suoi soldati "che la norma deve sempre prevalere sul principio, spesso arbitrario, d'autorità". Ma alla guerra vissuta sparando su "uomini e scorpioni" (e sicuramente questa frase può provocare un sussulto nel lettore, pacifista e non-violento) subentra presto (e lo stesso lettore potrebbe provarne un senso


di sollievo!) la lunga prigionia in India che si è rivelata un'importante opportunità per "crescere culturalmente e mentalmente". Di questo periodo, Serafini ricorda in particolare due fatti: la "dichiarazione" di voler cessare la collaborazione con gli inglesi dopo Hiroshima, - perché "la bomba si era costruita per usarla solo nel caso che Hitler fosse riuscito a farsene una a sua volta: non doveva viceversa servire per rendere la guerra una azione ancora più micidiale per il mondo, un vero suicidio dell'umanità" - e il rifiuto di rimpatriare, quando nel 1945, un messaggio del governo Parri richiedeva la presenza del nostro in Italia in quanto "indispensabile alla ricostruzione democratica". Il sospetto di una raccomandazione,

di poter usufruire di un privilegio rispetto agli altri soldati aveva convinto Serafini, in coerenza con le motivazioni iniziali della sua avventura in guerra, a rifiutare. Umberto Serafini è una persona più ironica che retorica, è questa sicuramente è una qualità che già da sola può consentirgli - ora che è, come con invidiabile distacco ricorda lui stesso, prossimo alla partenza per "destinazione ignota e forse inesistente" - di guardarsi allo specchio e meritarsi un sorriso piuttosto che uno "sputo". Al di là della coerenza, filosofica o politica che sia, il distacco ironico ci sembra la caratteristica migliore di Umberto e di questo suo libro, la cui lettura - per noi piacevole e interessante - raccomandiamo.

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indici

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Indici 1998-2001

Presentando gli ultimi indici pubblicati (Indici 1994-1 997 sul n. 112), avevamo dichiarato l'impegno di presentare annualmente gli indici della Rivista ma il periodo di transizione di queste istituzioni..('collegato al suo inserimento nelle attività di Quesire/Ristuccia Advisors) è stato più lungo di quanto previsto. Ce ne scusiamo ancora con i nostri lettori, sperando che la qualità del risultato finale del nostro "travaglio" compensi i nostri ritardi. Gli indici 1 998-2001 dimostrano che di lavoro ce ne è stato e anche, - ci sia permesso dirlo -, di buona qualità in linea con la nostra intenzione di "trattare problemi" e non di "curare discipline" Non ci sembra il caso di citare alcuni autori o alcuni temi in particolare perché ci sembrerebbe di fare torto agli altri che tralasceremmo, quindi, invitiamo a scorrere le pagine che seguono ricordando che ogni articolo è stato per noi prezioso. E cogliamo l'occasione per ringraziare ancora tutti i collaboratori. Per quanto riguarda i "soggetti" da noi trattati, sottolineamo soltanto quanto già emerge in maniera evidente sfogliando l'indice relativo: che, oltre all'attenzione costante alle trasformazioni delle amministrazioni pubbliche, ai temi legati all'integrazione europea e allo sviluppo del settore non profit, hanno avuto ampio spazio nelle nostre pagine 209


le questioni relative ai servizi pubblici, un tema sul quale abbiamo mantenuta alta la nostra attenzione. Una delle promesse, questa si, mantenuta. Quindi, citando il titolo di un film del simpatico e compianto Massimo Troisi, "scusate il ritardo' Ma, aggiungiamo, non c'è da preoccuparsi: "stanno tutti bene" (per citare un altro titolo di un nostro importante regista).

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Indice degli autori

A AA.VV., Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle Fondazioni, n. 122 (2002), pp. 14-36 Addotta Saveria, La prima Banca Etica italiana, n. 114-115 (1998), pp. 1-4 - Ritratti: Impresa a Rete, n. 121(2001), pp. 19-30 - (et al.), Riviste e intellettuali in Europa, n. 123 (2001), pp. 47-66 Albino Luca, La Carta dei diritti fondamen tali dell'Unione Europea, n. 124 (2001), pp. 55-73

B Berta Giuseppe, Flessibili e tartassati, n. 124 (2001), pp. 48-49 Bettini Romano, Stato e diritto tra globalizwzione e standizra n. 122 (2001), pp. 117-142 Bettin Lattes Gianfranco, I giovani europei tra futuro e presente, n. 123 (2001), pp. 15-29 Bowies Paul (et al.), Banca d'Italia, Banca centrale europea e questione dell'autonomia, n. 121 (2001), pp. 33-48 Brosio Giorgio, Il sistema quasi federale del Sudafrica, n. 123 (2001), pp. 123-196

c Calvi Gabriele, Fiducia, n. 113 (1998), pp. 1-11 - Il mondo si globalizz.a o sifrantuma?, n. 114-115 (1998), pp. 5-11 - Abbozzo in chiaroscuro della cultura della prosperitĂ , n. 122 (2001), pp. 1-8 Cantiello Ugo, Le Onlus tra profili fiscali e civilistici, n. 116 (1998), pp. 127-133 Casadei Bernardino, Fondazioni di origine bancaria e societĂ civile, n. 117120 (1999), pp. 73-91 Casini Vaker, I consulenti di direzione aziendale, n. 114-115 (1998), pp. 5 9-69 Cassaro Cristiano, Alla ricerca della qualitĂ nei servizi pubblici, n. 122 (2001), pp. 49-68 Chizzoniti Antonio, Nuove e vecchie professioni, n. 114-115 (1998), pp. 49-58 Comitato Dehaene, Implicazioni istituzionali dell'allargamento, n. 117120 (1999), pp. 201-212 Commissione Europea (a cura di), Contributi, spesa e saldi del bilancio dell'UE, n. 114-115 (1998), pp. 8697 Conte Massimo, Un giornalista a que211


ste istituzioni, n. 117-120 (1999), pp. 1-3 Cori Rosalba, Governo e gestione del Servizio Idrico Integrato, n. 114-115 (1998), pp. 136-144 Croci Osvaldo (et al.), Banca d'Italia, Banca centrale europea e questione dell'autonomia, n. 121 (2001), pp. 33-48

D De Angelis Loredana, Le leggi sull'acqua, n. 114-115 (1998), pp. 125135 Dente Bruno, La formazione nel settore pubblico, n. 113 (1998), pp. 113129 De Swaan Abram, La costellazione linguistica dell'Unione Europea, n. 113 (1998), pp. 23-38 Di Gregorio Angela, Russia: come si evolve la transizione, n. 113 (1998), pp. 5-13 - Russia: la crisi è inarrestabile, n. 116 (1998), pp. 1-15 Di Lascio Francesca, Cittadini europei e politica dei trasporti, n. 124 (2002), pp. 30-39 Di Majo Antonio (et al.), Pilastri dell'Unione Economica, n. 114-115 (1998), pp. 73-85 - Stato ed economia: due visioni a confronto, n. 122 (2001), pp. 9-13 D'Orta Carlo, Le pubbliche amministrazioni fra cultura della garanzia e attese di efficienza, n. 113 (1998), pp. 95-112

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F Ferraro Alfonso (et al.), Riviste e intellettuali in Europa, n. 123 (2001), pp. 47-66 Ferro Pasquale (et al.), Il Patto di stabilità interno, n. 117-120 (1999), pp. 159-183 Floc'hlay Beatrice (et al.), La valutazione democratica delle decisioni pubbliche,n. 124 (2001), pp. 115-132 Frosini Tommaso Edoardo, Le nuove forme di governo regionale, n. 123 (2001), pp. 30-39

G Gallo Flaminia, Comitato delle Regioni e Trattato diAmsterdam, n. 113 (1998), pp. 39-50 Gemelli Giuliana, Strategie di formazione nel settore non profit, n. 116 (1998), pp. 109-126 Giannella Valeria, Urban Centers e politiche delle città, n. 124 (2001), pp. 133-150 Giudicepietro Nicola (et al.), Il "Patto di stabilità "alla prova: alcuni risultati, n. 117-120 (1999), pp. 14-21

H Hanninen Kari I. (et al.), La gestione dei rifiuti urbani in Finlandia, n. 117-120 (1999), pp. 127-156 Hinna Alessandro, L'informatizzazione del protocollo, n. 122 (2001), pp. 39-48


K Kraemer Andreas R., Il settore dell'acqua in Europa, n. 123 (2001), pp. 139-170

L La Rocca Simona, L'ambiente nei rapporti fra nazioni, n. 113 (1998), pp. 53-79 - Un mondo di rifiuti, n. 117-120 (1999), pp. 115-126 Legrand Pierre, I "trapianti giuridici" non sono possibili, n. 116 (1998), pp. 75-89 Lima Gianni, Dalla beneficenza alle politiche sociali, n. 117-120 (1999), pp. 54-70 Longobardi Nino, Il problema dell'ampliamento della democrazia, n. 121 (2001), pp. 61-109

M MacLean Brian K. (et al.), Banca d'Italia, Banca centrale europea e questione dell'autonomia, n. 121 (2001), pp. 33-48 Magnini Gherardo, Pareggio di bilancio e Patto di stabilità, n. 117-120 (1999), pp. 184-197 Maiorino Rosa, Le "zone umide" e la Convenzione di Ramsar, n. 113 (1998), pp. 80-91 - Tesoro e Bilancio unificati, n. 116 (1998), pp. 39-59 - I parchi tra tutela della natura, economia e culture locali, n. 122 (2001), pp. 71-89

Marchesi Daniela (et al.), L'inefficienza della giustizia civile italiana, n. 114115 (1998), pp. 27-36 Mazzoli Daniela, Due in uno: un connubio tra Università e impresa, n. 117-120 (1999), pp. 9-13

P Pagano Giorgio, Alcune cose di amministrazione, n. 114-115 (1998), pp. 12-22 Palazzi Tommaso, La trasformazione degli Enti lirici, n. 123 (2001), pp. 85-109 Palermo Alessia, Il regime delle aree naturali protette nell'evoluzione normativa, n. 122 (2001), pp. 90-113 Pasca Raymondo Simona, Le "Carte dei servizi' n. 114-115 (1998), pp. 112-122 Pica Federico (et al.), Il "Patto di stabilità" alla prova: alcuni risultati, n. 117-120 (1999), pp. 14-21 Piccione Filippo, L'accesso e la consultabilità dei documenti della Pa, n. 114115 (1998), pp. 157-164 Pizzetti Bernardo, Ancora sulle Autorità indzendenti, n. 116 (1998), pp. 16-3 1 - Per la voce nascente, n. 122 (2001),

pp.. 1-14 Plottu Eric (et al.), La valutazione democratica delle decisioni pubbliche, n. 124 (2001), pp. 115-132 Polverari Gianiuca, La Corte Penale Internazionale, n. 124 (2001), pp. 1-8 Portelli Ignazio, Sulle Autorità indi213


pendenti, n. 114-115 (1998), pp. 147- 156 Posani Giovanni, I cittadini europei e la politica agricola, n. 114-115 (1998), pp. 101-111

R Redini Sonia, Verso quale modello di non proflt ?, n. 123 (2001), pp. 6984 Ribaudo Massimo, "Eutopìa": i nuovi compiti per l'Unione che verrà, n. 117-120 (1999), pp. 213-226 - L'E-government come problema editoriale, n. 124 (2001), pp. 40-47 Ristuccia Sergio, Fondazioni: il momento del che fare, n. 113 (1998), pp. 111-1V - I cittadini, le amministrazioni, le professioni, n. 114-115 (1998), pp. "I-VT' - Fondazioni bancarie: e ora la rfbrma del Codice civile, n. 116 (1998), pp. "I-VT' - A proposito di globalizzazione e partiti politici, n. 116 (1998), pp. 32-38 - Servizi pubblici locali: aspettando la legge, n. 117-120 (1999), pp. 111-VT - Etnobarometro: scienze sociali e conflitti etnici, n. 117-120 (1999), pp. 4-8 - Un progetto di lavoro, n. 121 (2001), pp. III-W - Rijbrma dei servizi pubblici locali: la prospettiva dell'attuazione, n. 121 (2001), pp. 1-6 - Players e finanziai-ori del mercato dei 214

servizi pubblici locali, n. 122 (2001), pp. III-V - Fondazioni di origine bancaria: iniziativa e responsabilità sociale, n. 123 (2001) pp. Ili-VII - Pensieri inquieti di inizio secolo, n. 124 (2001), pp. 111-VI - Conti-ordine: si torna agli Enti pubblici, n. 124 (2001), pp. 19-29 - (et al.), Pilastri dell'Unione Economica, n. 114-115 (1998), pp. 73-85 Ropolo Pierluigi (et al.), Il "Patto di stabilità" alla prova: alcuni risultati, n. 117-120 (1999), pp. 14-21 Rossi Francesca, Storia del Welfare State in Italia, n. 117-120 (1999), pp. 25-53 Rùdiger Stephan, Per una cultura d'Europa. Il ruolo delle Fondazioni, n. 124, pp. 9-18

s Salvemini Giancarlo (et al.), Il Patto di stabilità interno, n. 117-120 (1999), pp. 159-183 Salvemini Maria Teresa, Finanza locale e mercato dei capitali, n. 121 (2001), pp. 49-58 Serafini Umberto, L'anarco-autonomismo e ilfederalismo, n. 113 (1998), pp. 14-22 - Ilfederalismo: uso e abuso, n. 121 (2001), pp. 7-18 Sidoti Francesco, Le interpretazioni di "Mani pulite", n. 113 (1998), pp. 37-45 Simonetti Hadrian, Banca d'Inghilterra


tra sovranitĂ nazionale e moneta unica europea, n. 124 (2001), pp. 74-112 Spantigati Federico, Il banchetto di Attagino a Tebe, n. 116 (1998), pp. 60-71 Suoia Simo I., La gestione 'dei rifiuti urbani in Finlandia, n. 117-120 (1999), pp. 127-156 Szanton Julia E., Iniziative a beneficio della comunitĂ , n. 117-120 (1999), pp. 92-112

vVan Gerven Waither, Come diritto pubblico e diritto privato si permeano, n. 116 (1998), pp. 90-105

w Werkman Janet (et al.), Privatizzazio'ni delle reti idriche negli USA, n. 123 (2001), pp. 113-138 Westerling David L. (et al.), Privatizz.azioni delle reti idriche negli USA, n. 123 (2001), pp. 113-138

z Zanolin Giovanni, Welfare e identitĂ sociali, n. 123 (2001), pp. 40-46 Zeno-Zencovich Vincenzo (et al.), L'inefficienza della giustizia civile italiana,'n. 114-115 (1998), pp. 27-36

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Indice dei soggetti

AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE D'Orta Carlo, Le pubbliche amministrazioni fra cultura della garanzia eattese di efficienza, n. 113 (1998), pp. 95-112 Longobardi Nino, Il problema dell'ampliamento della democrazia, n. 121 (2001), pp. 61-109 Pagano Giorgio, Akune cose di amministrazione, n. 114-115 (1998), pp. 12-22 Spantigati Federico, Il banchetto diAttagino a Tebe, n. 116 (1998), pp. 60-71 Piccione Filippo, L'accesso e la consultabilità dei documenti della Pa, n. 114-115 (1998), pp. 157-164 I. Autorità indipendenti Pizzetti Bernardo, Ancora sulle Autorità indiendenti, n. 116 (1998), pp. 16-31 Portelli Ignazio, Sulle Autorità indipendenti, n. 114-115(1998), pp. 147- 156 Comunicazione Ribaudo Massimo, L'E-government come problema editoriale, n. 124 (2001), pp. 40-47 Organizzazione Dente Bruno, La formazione nel settore pubblico, n. 113 (1998), pp. 113-129 Le riforme Maiorino Rosa, Tesoro e Bilancio unflcati, n. 116 (1998), pp. 39-59 Rete informatica per le pp. aa. Hinna Alessandro, L'informatizzazione del protocollo, n 122 (2001), pp. 39-48 216


DIRITTI UMANI Albino Luca, La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, n. 124 (2001), pp. 55-73 Polverari Gianiuca, La Corte Penale Internazionale, n. 124 (2001), pp. 1-8 FEDERALISMO Serafini Umberto, L'anarco-autonomismo e ilfederalismo, n. 113 (1998), pp. 14-22 - Ilfederalismo: uso e abuso, n. 121 (2001), pp. 7-18 GIUSTIZIA Marchesi Daniela, Zeno-Zencovich Vincenzo, L'inefficienza della giustizia civile italiana, n. 114-115(1998), pp. 27-36 Sidoti Francesco, Le interpretazioni di 'Yv[ani pulite' n. 113 (1998), pp. 37-45 INTEGRAZIONE EUROPEA Comitato Dehaene, Implicazioni istituzionali dell'allargamento, n. 117-120 (1999), pp. 201-212 Gallo Flaminia, Comitato delle Regioni e Trattato di Amsterdam, n. 113 (1998), pp. 39-50 Ribaudo Massimo, "EutopĂŹa' i nuovi compiti per l'Unione che verrĂ ,. n. 117-120 (1999), pp. 213-226 Ristuccia Sergio e Di Majo Antonio, Pilastri dell'Unione Economica, n. 114-115 (1998), pp. 73-85 1. Cultura Addota. Saveria, Ferraro Alfonso, Riviste e intellettuali in Europa, n. 123 (2001), pp. 47-66 De Swaan Abram, La costellazione linguistica dell'Unione Europea, n. 113 (1998), pp. 23-38 Legrand Pierre, I "trapianti giuridici" non sono possi bili, n. 116 (1998), pp. 75-89 217


Rudiger Stephan, Per una cultura d'Europa. Il ruolo delle Fondazioni, n. 124, pp. 9-18 Van Gerven Waither, Come diritto pubblico e diritto privato si permeano, n. 116(1998), pp. 90-105 Fondi comunitari Commissione Europea (a cura di), Contributi, spesa e saldi del bilancio dell'UE, n. 114-115(1998), pp. 86-97 Posani Giovanni, I cittadini europei e la politica agricola, n. 114-115 (1998), pp. 101-111 Istituzioni finanziarie Bowles Paul, Croci Osvaldo, MacLean Brian K. (et al.), Banca d'Itaha, Banca centrale europea e questione dell'autonomia, n. 121 (2001), pp. 33-48 Di Majo Antonio (et al.), Pilastri dell'Unione Economica, n. 114-115 (1998), pp. 73-85 Simonetti Hadrian, Banca d'Inghilterra tra sovranitĂ nazionale e moneta unica europea, pp. 74-112 DEMOCRAZIA OCCIDENTALE

Bettini Romano, Stato e diritto tra globalizzazione e standara n. 122 (2001), pp. 117-142 NECROLOGI

Conte Massimo, Un giornalista a queste istituzioni, ricordo di Antonio Chizzoniti, n. 117-120 (1999), pp. 1-3 POLITICA INTERNAZIONALE 1. Russia Di Gregorio Angela, Russia: come si evolve la transizione, n. 113 (1998), pp. 5-13 - Russia: la crisi è inarrestabile, n. 116 (1998), pp. 1-15

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2. Sudafrica Brosio Giorgio, Il sistema quasi federale del Sudafrica, n. 123 (2001), pp. 123-196

POTERI LOCALI Frosini Tommaso Edoardo, Le nuove forme di governo regionale, n. 123 (2001), pp. 30-39 Giannella Valeria, Urban Centers e politiche delle città, n. 124 (2001), pp. 133-150 PRIVATIZZAZIONI Di Majo Antonio, Stato ed economia: due visioni a confronto, n. 122 (2001), pp. 9-13 PROFESSIONI Chizzoniti Antonio, Nuove e vecchie professioni,

n. 114-115(1998),

Casini Valter, I consulenti di direzione aziendale, n. 114-115(1998), pp. 59-69 Mazzoli Daniela, Due in uno: un connubio tra Università e impresa, n. 117-120 (1999), pp. 9-13 Ristuccia Sergio, I cittadini, le amministrazioni, kprofessioni, n. 114115 (1998), pp. Ili-VII FISCO E FEDERALISMO FISCALE Giudicepietro Nicola, Pica Federico, Ropolo Pierluigi, Il "Patto di stabilità" alla pro va: alcuni risultati,n. 117-120 (1999), pp. 14-21 Magnini Gherardo, Pareggio di bilancio e Patto di stabilità, n. 117-120 (1999), pp. 184-197 Ferro Pasquale, Salvemini Giancarlo (et al.), Il Patto di stabilità interno,n. 117-120 (1999), pp. 159-183 Salvemini Maria Teresa, Finanz.a locale e mercato dei capitali, n. 121 (2001), pp. 49-58 219


SERVIZI PUBBLICI Cassaro Cristiano, Alla ricerca della qualitĂ nei servizi pubblici, n. 122 (2001), pp. 49-68 Pasca Raymondo Simona, Le "Carte dei servizi' n. 114-115 (1998), pp. 112-122 Pizzetti Bernardo, Per la voce nascente, n. 122 (2001), pp. 1-14 Ristuccia Sergio, Servizi pubblici locali: aspettando la legge, n. 11 7 120 (1999), pp. 111-VI - Rrma dei servizi pubblici locali: la prospettiva dell'attuazione, n. 121 (2001), pp. 1-6 - Players e finanziatori del mercato dei servizi pubblici locali, n. 122 (2001), pp. III-V I. Servizio idrico Cori Rosalba, Governo e gestione del Servizio Idrico Integrato, n. 114115 (1998),pp. 136-144 De Angeis Loredana, Le leggi sull'acqua, n. 114-115(1998), pp. 125135 KraemerAndreas R., Il settore dell'acqua in Europa, n. 123 (2001), pp. 139-170 Werkman Janet, Westerling David L. , Privatizzazioni delle reti idriche negli USA, n. 123 (2001), pp. 113-138 2. Trasporti Di Lascio Francesca, Cittadini europei e politica dei trasporti, n. 124 (2002), pp. 30-39

SETTORE NON-PROFIT AA.VV, Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle Fondazioni, n. 122 (2002), pp. 14-36 Addotta Saveria, La prima Banca Etica italiana, n. 114-115 (1998), pp. 1-4 - Ritratti.lmpresaaRete,n. 121 (2001),pp. 19-30 Cantiello Ugo, Le Onlus tra profili fiscali. e civilistici, n.. 116 (1998), pp. 127-133

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Gemelli Giuliana, Strategie di formazione nel settore non proflt, n. 116 (1998), pp. 109-126 Lima Gianni, Dalla beneficenza alle politiche sociali, n. 117-120 (1999), pp. 54-70 Redini Sonia, Verso quale modello di non proflt?, n. 123 (2001), pp. 69-84 Rossi Francesca, Storia del Welfare State in Italia, n. 117-120 (1999), pp. 25-53 Szanton Julia E., Iniziative a beneficio della comunità, n. 117-120 (1999), pp. 92-1 12 Zanolin Gianni, Welfare e identità sociali, n. 123 (2001), pp. 40-46 I. Fondazioni Palazzi Tommaso, La trasformazione degli Enti lirici, n. 123 (2001), pp. 85-109 Fondazioni di origine bancaria Casadei Bernardino, Fondazioni di origine bancaria e società civile, n. 117-120 (1999), pp. 73-91 Ristuccia Sergio, Fondazioni di origine bancaria: iniziativa e responsabilità sociale, n. 123 (2001) pp. Ili-VII - Contrordine: si torna agli Enti pubblici, n. 124 (2001), pp. 19-29 - Fondazioni bancarie: e ora la rifbrma del Codice civile, n. 116 (1998), pp. III-V1I Cultura delle Fondazioni Ristuccia Sergio, Fondazioni: il momento del che fare, n. 113 (1998), pp. 111-TV SISTEMA POLITICO Floc'hlay Beatrice, Plottu Eric, La valutazione democratica delle decisioni pubbliche, n. 124 (2001), pp. 115-132 SOCIOLOGIA Berta Giuseppe, Flessibili e tartassati, n. 124 (2001), pp. 48-49 221


Bettin Lattes Gianfranco, I giovani europei tra futuro e presente, n. 123 (2001), pp. 15-29 Calvi Gabriele, Fiducia, n. 113 (1998), pp. I-TI. - Il mondo si globalizza osi frantuma ?, n. 114-115 (1998), pp. 5-11 - Abbozzo in chiaroscuro della cultura della prosperitĂ , n. 122 (2001), pp. 1-8 Ristuccia Sergio, A proposito di globalizzazione e partiti politici, n. 116 (1998), pp. 32-38 - Etnobarometro: scienze sociali e conflitti etnici, n. 117-120 (1999), pp. 4-8 - Un progetto di lavoro, n. 121 (2001), pp. 111-TV - Pensieri inquieti di inizio secolo, n. 124 (2001), pp. 111-VI TUTELA AMBIENTALE Hanninen Kari I., Suoia Simo I., La gestione dei rfluti urbani in Fin-

landia, n. 117-120 (1999), pp. 127-156 La Rocca Simona, L'ambiente nei rapporti fra nazioni, n. 113 (1998), pp. 53-79 - UnmondodirfĂŹuti,n. 117-120(1999),pp. 115-126 Maiorino Rosa, Le "zone umide" e la Convenzione di Ramsar, n. 113 (1998), pp. 80-91 - I parchi tra tutela della natura, economia e culture locali, n. 122 (2001), pp. 71-89 Palermo Alessia, Il regime delle aree naturali protette nell'evoluzione normativa, n. 122 (2001), pp. 90-113

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Maria Teresa Salvemini

IL CREDITO AGLI ENTI LOCALI IN ITALIA E IN EUROPA Cassa Depositi e Prestiti, banche pubbliche e private, mercato finanziario


ISDACI

il projmect financing Soggetti • Disciplina • Contratti

introduzione di Ugo Draetta a cura di Cesare Vaccà

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La società Ristuccia Advisors: oltre le leggi, per accompagnare le trasformazioni della comunità locale. Ristuccia Advisors svolge attività di consulenza e assistenza alle decisioni dell'Ente locale riguardo alla fattibilità e ai processi più adeguati per la creazione, la promozione e l'avviamento delle società di gestione dei servizi, nonché contributi all'analisi ed alla valutazione dei migliori approcci per una collaborazione dell'imprenditore privato con il settore pubblico locale. Per il settore non-profit, l'attività di consulenza della Ristuccia Advisors si realizza nei confronti dei principali soggetti innovativi che io compongono: in primo luogo, fondazioni di origine bancaria e cooperative sociali. Per essi viene svolta attività di supporto alle scelte, valutazione delle attività, miglioramento della gestione dei processi, analisi dei risultati. Ristuccia Advisors ha promosso la creazione di un portale verticale sul mondo dei servizi pubblici locali in Italia. www.servizilocali.com Il portale verticale vuole costituire una risorsa web completa: per conoscere la realtà del mercato delle utilities in Italia, comprenderne i passaggi normativi e valutarne le trasformazioni in corso. Il servizio pubblico non è più visto soltanto come espressione dell'attività amministrativa dell'Ente locale, ma come fattore di sviluppo economico e sociale del territorio. Luogo d'incontro tra esperienze e bisogni della comunità dei cittadini, dei soggetti istituzionali, delle imprese pubbliche e private. www.servizilocali.com è una risorsa web di documentazione ed informazione su: - risorse idriche - energia elettrica - gas naturale - smaltimento rifiuti - trasporti - farmacie comunali all'interno è possibile trovare: - documentazione legislativa e giurisprudenziale • approfondimenti su - la trasformazione dei servizi pubblici in atto - le forme di gestione esistenti - le forme di finanziamento del sistema - la raccolta delle carte dei servizi - i link a tutte le aziende dei servizi pubblici locali - i link a tutte le associazioni di difesa e tutela degli utenti • gli utenti stessi possono votare i servizi della propria città ed è possibile vedere in tempo reale l'evolversi delle preferenze • è stato aperto un forum per la condivisione di opinioni e valutazioni sui servizi pubblici attraverso il quale creare una comunità di interessi orientata al miglioramento della qualità nei settori di riferimento.


Librerie presso le quali è in vendita la rivista

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Padova Libreria Feltrinelli

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Firenze Libreria Feltrinelli

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Roma Libreria Feltrinelli (V. Babuino) Libreria Feltrinelli N.E. Orlando) Libreria Forense Editrice Libreria Forum S3 Libreria GE.PA. 82

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LA COLLANA MAGGIOLI - QUESTE ISTITUZIONI Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. SIof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit, pp. 324, 1996, L. 48.000.

LA COLLANA MARSILIO - RISTUCCIA ADVISORS Daniele Archibugi, Giuseppe Ciccarone, Mauro MarĂŠ, Bernardo Pizzetti, Flaminia Violati - Advisory Commission on Intergovernmental Relations Il triangolo dei servizi pubblici, pp. 235, 2000, L. 38.000 Sergio Ristuccia Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle fondazioni, pp. 181, 2000, L. 25.000


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