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LA RICERCA SCIENTIFICA IN ITALIA: QUALI POLITICHE Consiglio italiano per le Scienze Sociali


Questo numero è pubblicato con il sostegno del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali nel quadro del Programma di studio sulla valutazione dell'attività di ricerca.

queste ishhiitorn XXX n. 12912003 Direttore: SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTrA Comitato di redazione: FaIo Biscorri, ROSALBA Coiu,

Anno

FRANCESCA DI LAScIo, Fiu'cesco DI MAJO, ALESSANDRO HINNA, EMANUELE MARIA LANFRANCI-II, EMANUELE Li PUMA, GIORGIO PAGANO, ELISABETrA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, GEMMA SASsO, ANDREA SPADETFA DO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE Collaboratori: AI BERTA, GIANFRANCO BETTIN LA1-rES, ENRICO CANIGLIA, OsvAlDo CROCI, ROMANO BETrINI, DAVID B0GI, GIRoIlo CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILVI0 GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, WALTER N0CITO, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIzzETrI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RIOTrA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FARRIzI0 SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, UMBERTO SERAFINI, FRANCESCO SID0TI, ALESSANDRO SILJ, FEDERICO SPANTIGATI, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, TIZIANO TERZANI, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZANPINI, ANDREA Z0PPINI

Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00192 Roma Tel. 68136068-85 - Fax e segreteria telefonica 06.68134167 E-mail: risrucciad@quesire.ir Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. Responsabile: GIOvANNI BECHELLONI

Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: CPR - Roma Chiuso in tzografia il 20 settembre 2003 Foto di copertina: elaborazione al computer a cura di Inrealma s.r.i.

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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

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dicembre

1972)


N. 129 2003

In dice III

Politiche per la ricerca scientifica in Italia

Strategie istituzionali per una centralitĂ della ricerca 5

Sfera della conoscenza e sfera dell'economia Sergio Bruno

19

Per una politica delle risorse umane in Italia Sveva Avveduto

39

Le tendenze delle politiche istituzionali nel campo della ricerca in Italia Francesco Ivlerloni

60

Strategie istituzionali per una centralitĂ della ricerca Sergio Bruno, Sveva Avveduto, Francesco Merloni

69

La valutazione della ricerca: metodologie ed esperienze Giorgio Sirilli

89

Il finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica in Italia: risorse e regole Mario Calderini, Giuseppe Catalano, Miriam Ricci

122

Scienze sociali, scienze dure e unitĂ de! sapere Ernesto Di Mauro

128

La politica e l'organizzazione della ricerca in Italia: una questione di finanziamenti statali? Massimiano Bucchi


146

La ricerca industriale in Italia: una valutazione Andrea Bonaccorsi, Paola Giuri

159

La ricerca e le piccole e medie imprese Carlo Caiieri

165

La politica del capitale umano Piero Gastaldo

168

Per una "matrice istituzionale" della ricerca scientifica in Europa Sergio Ristuccia


introduzione -

Politiche per la ricerca scientifica in Italia. Un'iniziativa del Css

Con la pubblicazione del numero monografico sulle Politiche per la ricerca scientfica in Italia, "queste istituzioni" prosegue sulla strada di una intensa collaborazione con l'attività scientifica di ricerca e studio del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (Css). Tale percorso trova la propria motivazione nella convergenza di larga parte delle tematiche affrontate in questi anni dalla Rivista e dal Css, dalla contiguità degli ambiti disciplinari coinvolti ma anche, dal comune metodo di lavoro improntato da una riflessione non dominata dalla contingenza. Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali è stato fondato nel 1973 e rappresenta un forum indipendente di riflessione a carattere interdisciplinare sulla società contemporanea, rivolta anche alla sensibilizzazione dei centri di decisione pubblici e privati. Il Css sviluppa la propria attività articolandola nel lavoro di commissioni di studio. Attualmente queste sono quattro: "Le fondazioni in Italia", "Le relazioni intergenerazionali", "Le tendenze e politiche dello sviluppo locale in Italia , La valutazione dell attivita di ricerca I documenti che qui si presentano sono scaturiti da un workshop, coordinato da Alberto Zuliani, che si è tenuto a Moncalieri (To) l'il dicembre dello scorso anno in occasione dell'inaugurazione della nuova sede del Css, che si affianca a quella romana, presso le strutture del Collegio Carlo Alberto. Scopo dell'incontro è stato quello di condividere e confrontare, in un ambito ristretto di esperti, le riflessioni più recenti sulla situazione e sulle politiche della ricerca in Italia, in una prospettiva di medio periodo, di fronte all'influenza del processo di integrazione europea. Al di là del valore della conoscenza in se stessa, la ricerca contribuisce intensamente alla competitività moderna: si vende e si esporta di più perché si è capaci di disporre (e soprattutto di continuare a disporre nel tempo, man mano che altri imparano e imitano) di prodotti/tecnologie migliori degli altri. D'altra parte la ricerca costa, senza necessariamente garantire ritorni a breve termine. Di qui la tendenza, in presenza di difficoltà economiche o finanziarie, a tagliare i fondi


per la ricerca e la formazione, o quanto meno a subordinarne la destinazione a strumentalità immediate. Certamente, gli investimenti in ricerca e formazione alta hanno tempi di .gestazione lunghi e risultati incerti, ma i loro rendimenti sociali sono molto probabili ed elevati. È aperto il problema di come trasmettere questo messaggio alla società e ai responsabili politici; in altri termini, come la scienza debba dialogare con la società e le istituzioni. Altrettanto importante è la questione delle "condizioni appropriate". Esse implicano assunzione di responsabilità da parte della sfera della ricerca - in primo luogo sul piano della valutazione e del "dar conto" delle risorse messe a disposizione - ma investono contemporaneamente la configurazione degli assetti istituzionali ed organizzativi. Sono, questi, temi del tutto aperti: i criteri di responsabilità possono essere gli stessi nelle harde nelle softsciences? Quali sono i criteri migliori per ripartire i fondi disponibili tra i diversi tipi di ricerca (fondamentale, applicata, finalizzata; scienze della natura e discipline dell'umano ecc.)? È più opportuno concentrare o differenziare le sedi di finanziamento e di valutazione (ex ante ed expost)? Quale assetto strategico-organizzativo conviene adottare sia per organizzare strutture di ricerca efficienti sia per favorire la mobilità della conoscenza nelle e tra le diverse sfere, imprese e laboratori, pubblico e privato, università ed enti di ricerca, sfera della ricerca e sfera del sociale? Come è più opportuno regolare la formazione, il reclutamento, il regime contrattuale, le prospettive di carriera nella sfera della ricerca e dell'alta formazione? Queste ed altre riflessioni sono state inquadrate in un contesto di "anomalie" nazionali: la scarsità di risorse complessivamente destinate alla ricerca, la carenza di ricerca privata, i limiti della seconda rete di ricerca, l'insufficienza delle strutture preposte alla valorizzazione della ricerca, l'elevata variabilità qualitativa dei risultati, con la contemporanea presenza di ricerca di livello elevato secondo standard internazionali e di ricerca di basso profilo, i criteri per l'attribuzione dei finanziamenti non adeguatamente correlati a tale variabilità, lo straordinario invecchiamento del personale di ricerca e in particolare dell'università. Quando e perché tali peculiarità italiane hanno avuto origine? Quali carenze culturali e quali interessi ne sono alla base? Come e con quali strumenti se ne può indurre il riassorbimento? Come è logico attendersi, al termine di un workshop che ha visto un'intensa e diversificata partecipazione di esperti e studiosi, i materiali prodotti, e che qui si pubblicano, denunciano sostanziali difformità di approccio e di contenuto. I contributi si presentano, inoltre, a diversi stadi di riflessione: in alcuni casi si tratta di documenti riassuntivi di ricerche in cui gli autori sono da anni impegnati, in altri casi si tratta della trascrizione di interventi scaturiti dalla discussione (nell'impaginazione si è rispettato, comunque, l'ordine degli interventi).

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Scopo principale dell'iniziativa era, del resto, quello di aprire un ventaglio di temi, il più ampio possibile, da sottoporre a successive e più meditate analisi. In quest'ottica, il Consiglio per le Scienze Sociali ha formato in questi mesi una commissione di studio, coordinata da Alberto Zuliani, sul tema della "Valutazione della ricerca scientifica", che ha come obiettivo la preparazione di un Libro bianco. I lavori della commissione muovono dalla constatazione che la ricerca nel nostro Paese ha ricevuto tradizionalmente scarsa attenzione. Negli anni più recenti, il rapporto fra spesa per ricerca e sviluppo e prodotto interno lordo è addirittura diminuito. Il Consiglio europeo di Barcellona ha fissato per i Paesi membri un aumento del precedente rapporto al 3% entro il 2010, con il vincolo che due terzi debbano essere finanziati dal settore delle imprese. Per l'Italia, ciò significherebbe una triplicazione, poiché il rapporto nel 2002 è risultato pari all'1,04%. Semplici esercizi previsionali, a partire dalla situazione attuale, fanno chiaramente intendere che il traguardo non è raggiungibile. D'altra parte, è entrato in crisi il rapporto di fiducia fra l'esecutivo, da una parte, e le università e gli enti pubblici di ricerca, dall'altra. A fronte dei finanziamenti si chiedono risultati concreti. L'inadeguata misurazione dei risultati per incapacità o mancanza di trasparenza, rende però difficile, quando non impossibile, valutare la portata degli avanzamenti. Peraltro, neppure l'esecutivo è attrezzato per effettuare un loro reale apprezzamento. La valutazione dell'attività di ricerca e sviluppo diviene, quindi, una componente necessaria del futuro intervento. La commissione del CSS si propone di approfondire questa problematica e quella ad essa sottesa dei pertinenti sistemi di indicatori, coerenti con le finalità assegnate al settore o riconosciute, nell'ambito della propria autonomia, da parte delle istituzioni pubbliche di ricerca.

(Nicola Crepax)

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Strategie istituzionali per una centralità della ricerca di Sergio Bruno

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quattro articoli di questa prima parte della rivista, il cui titolo riprende quello dell'ultimo di essi, rappresentano uno sforzo coordinato per mettere a fuoco una gamma relativamente ampia di problemi attinenti lo stato della ricerca e per l'individuazione di linee costruttive delle sue politiche. Il caso italiano, con la sua crisi e le sue specificità, è al centro dell'attenzione. Sullo sfondo vi sono, tuttavia, da una parte il quadro di riferimento internazionale, dall'altra i fattori sistemici, istituzionali ed organizzativi, che consentono un efficace funzionamento della sfera della ricerca e l'esplicarsi di fertili interdipendenze tra questa e la sfera dell'economia e del mercato. Il primo articolo, "Sfera della conoscenza e sfera dell'economia: il carattere strategico dei fattori di complementarietd', di Sergio Bruno, dopo aver delineato le maggiori anomalie della realtà italiana rispetto agli altri Paesi avanzati, in particolare quelli europei, propone una chiave di lettura parallela per lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle attività economiche. Entrambe derivano da un circolo virtuoso dinamico: l'aumento della conoscenza e della sua complessità in un determinato ambito, superando la capacità da parte di singoli (individui ed organizzazioni) di dominare il campo cognitivo, nonché l'aumento di skills che un tempo quegli stessi singoli controllavano, induce un processo di divisione ed articolazione, al quale segue un'ulteriore specializzazione, un progresso cognitivo ed una nuova necessitata divisione/articolazione. In presenza di tali dinamiche vanno ricercati strumenti per coordinare tra loro le "attività divise" (nella sfera del mercato e in quella della conoscenza), che conservino tra loro nessi di complementarietà fondamentali. La mancanza o la scarsa appropriabilità dei risultati della ricerca, tuttavia, le danno una connotazione pubblica. Analoghe considerazioni valgono per l'educazione: il capitale umano appartiene ai soggetti che ricevono educazione, e solo la soL'Autore è Ordinario di Economia Pubblica all'Università la Sapienza di Roma.


cietà nel suo complesso è in grado di riappropriarsi dei suoi benefici. Ne consegue che i problemi di coordinamento e i fattori di rivalità in queste sfere non operino di per sé, come nella sfera del mercato, anche se restano possibili emulazioni parziali e selettive dei meccanismi propri di questa sfera. Tali emulazioni devono essere, tuttavia, particolarmente attente alla condizioni di contesto. Bruno utilizza queste chiavi di lettura per mettere a fuoco una serie di questioni: la complementarietà tra ricerca di base e ricerca finalizzata e applicata; tra attività formative e ricerca; tra ricerca e competitività; tra qualità della risorsa umana nelle aziende e possibilità, per queste ultime, di percepire e sviluppare le opzioni innovative. Il secondo articolo, "Per una politica delle risorse umane in Italia", di Sveva Avveduto, traccia un quadro delle tendenze internazionali, europee in particolare, nella preparazione, nell'uso, nella mobilità e nella valorizzazione della risorsa umana nel campo della ricerca e dell'educazione superiore. L'Europa ha percepito il carattere strategico che riveste la conoscenza per potere sostenere la competitività internazionale. Le linee di sviluppo indicate nei summit di Lisbona e di Barcellona prefiguravano un obiettivo da conseguire entro il 2010: portare l'economia europea al primo posto per competitività e dinamismo tra quelle knowledge-based. La ricerca deve fungere da motore per la crescita economica e la coesione sociale; le risorse umane sono centrali nello sviluppo di tali strategie. La creazione di un'"Area Europea della Ricerca" deve rendere l'UE un poio attrattivo anche per i ricercatori esterni ad essa. Occorre portare, entro il 2010, l'impegno europeo per la ricerca e l'innovazione al 3% del PIL; bisogna ottenere i due terzi dei nuovi investimenti in ReS dal settore privato. A fronte di un tale quadro di intenzioni e di azioni, Avveduto evidenzia la situazione di immobilismo e di invecchiamento che caratterizza tristemente la situazione italiana. Il terzo articolo, "Le tendenze delle politiche istituzionali nel campo della ricerca in Italia: pericoli e rimedi", di Francesco Merloni, traccia un quadro preoccupante delle tendenze che sono emerse, negli ultimi anni, come conseguenza delle azioni del Governo nel campo della ricerca, nonché dei riflessi che si sono avuti nel campo della ricerca e della sua organizzazione con la modifica del Titolo V della Costituzione. Lo spazio della ricerca e della sua autonomia si va restringendo per varie ragioni. Di queste, alcune sono dirette, come le azioni (e soprattutto le omissioni) che hanno condotto all'obliterazione dei meccanismi di rappresentanza delle 2


comunità scientifiche; altre dipendono invece da quelle logiche di valutazione, programmazione ed attribuzione delle risorse che privilegiano, nel finanziamento delle università (le quali costituiscono il soggetto centrale e protagonista della ricerca in Italia, in quanto sia la seconda rete di ricerca sia la ricerca effettuata dai soggetti del mercato sono carenti), le esigenze della didattica. A ciò va aggiunta la combinazione della progressiva caduta dei finanziamenti e della centralizzazione delle sedi di attribuzione dei fondi per la ricerca. Gioca infine un ruolo del tutto negativo e controcorrente rispetto alle linee di tendenza mondiale il fatto che, per un riflesso involontario della recente riforma costituzionale, si arrivi ad una incisiva regionalizzazione delle competenze e delle responsabilità in materia di ricerca e di politica della ricerca. Per fare fronte ai rischi posti da questa ultima infelice vicenda, Merloni sviluppa una proposta innovativa. Adattando al caso italiano l'esperienza della Repubblica Federale Tedesca in materia di iniziative congiunte dei Laender e del Governo Federale, l'autore prevede di costituire, sulla base di accordi che interpretano le disposizioni costituzionali sul riparto delle competenze in materia di ricerca, Enti aventi la natura di "amministrazioni della Repubblica" (non dello Stato, che ha perso il potere di riservare a sé funzioni e apparati nella materia). Tali amministrazioni dovrebbero conciliare le esigenze di programmazione delle attività con quelle dell'autonomia degli scienziati nella gestione delle ricerche. Il loro finanziamento potrebbe essere assicurato in parti uguali dallo Stato e da tutte le Regioni; a questo proposito si potrebbe pensare ad un organo misto (sempre a composizione paritetica tra Stato e Regioni) di supervisione e controllo. Il quarto, "Strategie istituzionali per una centralità della ricerca: gli interventi possibili a breve e medio termine", costituisce uno sforzo comune dei tre studiosi. Gli elementi diagnostici maturati nei tre articoli vengono qui messi a frutto in un insieme articolato e semi-organizzato di proposte tra loro complementari. In particolare, vengono tracciate proposte per fronteggiare le maggiori urgenze; esse, tuttavia, vengono inserite in una bozza, schematica ma relativamente completa, di piano organico a medio termine.


Sfera della conoscenza e sfera dell'economia. Il carattere strategico dei fattori di complementarietà di Sergio Bruno

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a competitività moderna dipende sempre piui dalla conoscenza (ricerca, qualità della risorsa umana alta) e da fattori sistemici (infrastrutture, reticoli di servizi e relazioni, fattori di complementarietà e coordinamento intersoggettivi), mentre dipende sempre meno dal costo del lavoro per unità di prodotto. I soggetti che, almeno dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi, hanno deciso le strategie di sviluppo, pubbliche e private, nel nostro Paese, al di là delle belle parole non sembrano averlo capito. L'attuale Governo e la maggior parte degli industriali di oggi stanno solo aggravando la situazione. Se consideriamo un qualsiasi indicatore correlato all'investimento in conoscenza in Italia, il corrispondente indicatore in qualsiasi Paese europeo varia tra 2 e 10, con pochissime eccezioni, quasi sempre a nostro svantaggio. Gli unici Paesi che ancora sono dietro di noi in qualche indicatore, la Grecia e il Portogallo, sono in fase di grande recupero e presto ci supereranno. È inutile flagellarsi su dati tanto deprimenti quanto noti. Questo articolo considera brevemente le principali anomalie comparative italiane, per poi soffermarsi sulla natura sistemica e cognitiva dei processi innovativi. Si argomenterà che la dinamica di questi dipende dal bilanciamento di un continuum di complementarietà, statiche ma soprattutto dinamico-sequenziali, sia all'interno della sfera della formazione e trasmissione della conoscenza sia nei rapporti tra sfera della conoscenza e sfera del mercato. Si nota incidentalmente che è l'esistenza di questo continuum che ci porta a parlare sempre di "politica della conoscenza" e non di sola "politica della ricerca". Il fatto che tale continuum, potenzialmente, sia sempre in uno stato trasformativo implica un'esigenza di flessibilità nelle politiche che lo regolano. L'incertezza che caratterizza, per definizione, il successo e l'utilità delle singole linee di ricerca suggerisce, tuttavia, di non puntare tutto sulla capacità di un unico soggetto di controllare la sfera della ricerca; è più saggio, invece, affidarsi ad una sorta di "politica di portafoglio", lasciando spazi ad una pluralità di soggetti, sia di ricerca che di suo finanziamento. 5


Un'avvertenza. L'articolo riguarda per un verso il caso italiano e per altri questioni generali, ignorando o quasi la dimensione europea di ricerca. Ciò non corrisponde a priorità strategiche; si ritiene, infatti, fondamentale la dimensione europea e che la creazione di uno spazio europeo della ricerca debba costituire una priorità assoluta nell'agenda politica dell'Europa. Per poter anche solo parlare di ciò, tuttavia, il nostro Paese deve affrontare una vera e propria inversione di marcia, se è vero che, per l'impossibilità di disporre perfino di un pugno di euro (500.000), il CNR ha annunciato in questi giorni, per bocca del suo Presidente, che uscirà dalla European Science Foundation. ALCUNE ANOMALIE ITALIANE

L'Italia è caratterizzata da cinque anomalie, più vistose rispetto ai principali Paesi sviluppati. Tre di esse sono "maggiori", nel senso che si sono formate nel corso di decenni e in proposito non sono possibili rimedi in grado di correggerle o compensarle in tempi rapidi. Esse sono: - la povertà, per non dire la quasi totale assenza, di ricerca privata strutturata; - la scarsa estensione, la mancanza di articolazione e la parziale crisi della seconda rete di ricerca; - l'elevatissima età media del personale di ricerca, a sua volta correlata ad un sostanziale e perdurante blocco di reclutamento fisiologico. La quarta anomalia è costituita - ed è ben noto - dalla povertà dei finanziamenti, considerati comparativamente ai nostri più evoluti partner europei. Questa anomalia, almeno in linea di principio, potrebbe essere rimossa in breve tempo. È dubbio, peraltro, se sia sensato farlo senza agire contestualmente ed in modo coordinato con azioni dirette a correggere le altre anomalie. La quinta anomalia è forse più controversa e, comunque, di più ardua visibilità. Mi riferisco alle strategie di formazione e reclutamento dei futuri ricercatori. Consideriamo nell'ordine, brevemente, alcune di queste anomalie. Sarebbe interessante spiegare la prima (carenza della ricerca privata). È probabile che abbia origini storiche lontane, connesse allo sviluppo tardivo dell'industria italiana e alle sue vocazioni settoriali, sbilanciate,comparativamente, a favore della meccanica e con debolezze in altri settori. E difficile tuttavia spiegare come non vi siano stati tentativi di successo di recuperare alme-


no parzialmente i divari a seguito dello sviluppo e della modernizzazione de! Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale e, più ancora, come e perché, nei tempi più recenti, segnati dall'esplosione di continue ondate innovative, vi siano state più involuzioni che reazioni, al contrario di altri Paesi a sviluppo tardivo. A fronte di ciò, vi è da chiedersi come l'Italia sia riuscita fin qui, entro certi limiti, a tenere il passo della competitività internazionale. E ipotizzabile che tale tenuta (che, alla luce della scarsezza delle risorse esplicite dedicate alla ricerca, appare straordinaria, pur presentando vistose debolezze) sia connessa al ruolo che hanno avuto in Italia le attività informali di ricerca condotte dagli ingegneri di formazione tradizionale (quinquennale). Se ciò risulta essere vero (e sarebbe interessante su questo punto una risposta da parte dei soggetti industriali), è possibile che si aprano - a seguito della riforma universitaria in corso - seri problemi per il futuro; problemi sui quali il tessuto industriale italiano, e non solo le istituzioni, dovrebbero riflettere. La seconda anomalia - la carenza della seconda rete di ricerca - è, per molti versi, più sorprendente. Essa è dipesa storicamente dalla sola volontà politica e, comunque, va tenuto conto che, a partire dai tardi anni Cinquanta, si era avviato un processo di differenziazione - rispetto al solo CNR - che avrebbe potuto portare ad una sua graduale e progressiva costruzione (INFN, Cnen, ..). Anche a questo proposito sarebbe interessante capire perché il processo si sia arrestato e sia entrato, per molti versi, in crisi. Ricordo come l'immediato successore di Felice Ippolito al CNEN, successivamente trasformatosi in ENEA - bravissima persona ed efficiente Direttore Generale del Tesoro - si lamentava così: "Mi chiedete sempre soldi per nuovi esperimenti. Ma perché non rivedete un po' quelli vecchi?". L'insipienza politica - di cui alcune infelici scelte dirigenziali possono essere la minore delle conseguenze - è certo un fattore causale importante. Ma non sufficiente, anche alla luce del fatto che a volte sono state scelte persone di grande qualità scientifica. È probabile che altri fattori ed altre responsabilità fossero in gioco. Tra le ipotesi plausibili vi è che un ruolo cruciale e particolarmente velenoso l'abbia avuto l'estensione delle logiche lottizzatrici alla gran parte della sfera dirigenziale degli Enti di ricerca, e non solo ai suoi vertici. Essa ha infatti aperto negli Enti una conflittualità infra-organizzativa, per di più guidata da ragioni estranee alle esigenze della politica scientifica, e ha deformato i patterns di carriera, sia all'interno delle specifiche organizzazioni sia sotto il profilo della mobilità tra organizzazioni; mobilità, d'altra parte, tarpata dalla mancanza di una articolazione sufficiente a rendere la mo7


bilità stessa interessante ed attrattiva. Un ulteriore ruolo negativo avrebbe avuto, secondo molti testimoni, l'azione dei sindacati all'interno degli Enti. Azione che, secondo molti e in troppi casi, ha teso a trasporre alla sfera della ricerca strategie e prassi mutuate acriticamente dalla sfera delle ordinarie relazioni industriali. Ma al di là della caccia alle responsabilità passate vi sarebbe in ogni caso da riflettere sul come, su quali basi e con quali politiche il processo di espansione e di crescita di funzionalità della seconda rete di ricerca potrebbe essere riavviato. Purtroppo, le linee di riforma del CNR (e - si immagina - dei restanti frammenti della seconda rete), sulle quali si sono avute frammentarie ma inquietanti indiscrezioni di stampa, non lasciano presagire molto di buono e di innovativo. Se sulla povertà dei finanziamenti destinati alla ricerca non c'è molto di interessante da dire, le questioni connesse dell'invecchiamento del personale, dei problemi di formazione e reclutamento delle nuove leve di ricercatori e perfino di incentivazione alla scelta della professione di ricercatore vengono trattate nell'articolo, che segue, di Sveva Avveduto. In merito al passato, basti dire che l'attuale situazione non è solo l'altra faccia della debolezza del nostro Paese quanto ai finanziamenti, e di conseguenza quanto allo scarso peso degli addetti alla ricerca (sulla popolazione, sull'occupazione, ecc.) rispetto agli altri, ma è anche il risultato di azioni reiterate che andavano in direzione opposta a quella che - anche a parità di risorse- sarebbe stato saggio seguire: quella di un flusso continuo nel tempo di immissioni, programmato in funzione del ricambio del personale per aree disciplinari, e di specifiche e intenzionali scelte di espansione per talune aree. Quanto al presente, due telegrafiche osservazioni. Nelle università, che per il momento costituiscono ancora il bacino più importante di reclutamento alla ricerca, il "combinato disposto" (come dicono i giuristi) della riforma dei concorsi, dell'autonomia finanziaria degli atenei, della decurtazione dei trasferimenti ministeriali e dell'assenza di specifici correttivi alla conseguente maggiore convenienza dei reclutamenti interni, ha finito per gonfiare il numero dei professori di prima fascia e per bloccare, sostanzialmente, i concorsi a ricercatore. Si è così chiuso, di fatto, il canale principale di reclutamento, e lo si è fatto senza che fosse "arrivato a maturazione quello che - nelle intenzionalita politiche incompiute che avevano avviato i cambiamenti cui stiamo assistendo - avrebbe dovuto divenire il nuovo canale, quello dei contratti. Si tratta, infatti, di un canale che manca di attrat-


tiva e rischia, quindi, di non selezionare i migliori, a causa sia di remunerazioni "fuori mercato" che della mancanza di prospettive di mobilità ascendente, anche per l'assenza di una pluralità di soggetti capaci di offrire contratti, come avviene in altri Paesi con i soggetti della seconda rete di ricerca e quelli privati. Questo vero e proprio "fallimento nel reclutamento" va riguardato tenendo conto della previsione che tra il 2004 e il 2008 si avrà una rilevante concentrazione di uscite per anzianità dagli atenei. La seconda osservazione. La premessa per la formazione di futuri ricercatori è la qualità e la quantità di laureati di fascia superiore, diciamo, oggi, alla luce della recente riforma, di laureati di secondo livello. La riforma, detta "europea (ma i nostri partner la stanno per lo piu interpretando in modo molto diverso), mira (giustamente per molti versi) a recuperare ritardi ed abbandoni. Purtroppo, tende a farlo con strategie che rischiano, per molti versi del tutto inutilmente, di sacrificare la formazione dei segmenti studenteschi più dotati. Queste tendenze negative spontanee sono state, di recente, rafforzate da specifiche intenzionalità di policy. Infatti, tra gli obiettivi che in sede governativa vengono attribuiti alla riforma, vi è quello - ora reso esplicito in un recente documento del Comitato per la valutazione - di "scoraggiare" la prosecuzione degli studi dopo il conseguimento del diploma di laurea di primo livello. Questa intenzionalità è resa operativamente incisiva dall' indicazione di "pesare", in sede di attribuzione delle risorse agli atenei, gli studenti iscritti ai corsi di livello avanzato solo un terzo rispetto a quelli iscritti ai corsi di diploma di primo livello; l'indicazione viene recepita e fatta sua dal Comitato. Si può affermare con tranquillità che non si era mai visto un Governo che frenasse in modo esplicito le tendenze spontanee dei giovani alla prosecuzione verso livelli più elevati di istruzione. SPEcIFIcITÀ DELL'INVESTIMENTO IN CONOSCENZA

Esistono lievi ma insufficienti scusanti a questo sconsolante stato di cose, connesse alla scarsa "visibilità", a breve termine ed a livelli specifici e diretti, dei risultati degli investimenti in conoscenza e dei costi che sono associati alla carenza di tali investimenti. Gli investimenti in conoscenza sono infatti: a gestazione particolarmente lunga, - a rendimenti particolarmente differiti e indiretti, - in particolare, meno individualmente appropriabili e a maggiore aleatorietà individuale. -

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Per contro tali investimenti hanno: - rendimenti particolarmente elevati, - buona certezza sistemica, - sono in grande misura sistemicamente appropriabili. Questa sintesi, sostanzialmente autoesplicativa, rende evidenti le ragioni che possono condurre una sfera politica particolarmente sensibile ai tempi elettorali a preferire altri impieghi delle risorse. Allo stesso tempo suggerisce che una classe politica ed una classe imprenditoriale lungimiranti e consapevoli delle opportunità sistemiche debbano investire molto, ma soprattutto con continuità, in conoscenza. Non dice, tuttavia, abbastanza su come farlo: quali strategie, quali accortezze, quali articolazioni e bilanciamenti tra i diversi soggetti, finanziatori ovvero operatori di ricerca, quali campi e tipi di ricerca, quale rapporto tra formazione e ricerca. La chiave per impostare tali discorsi richiede una piena comprensione della natura dei fenomeni innovativi, nonché dei piani di complementarietà, sia sincrone che diacroniche, nell'ambito della sfera della conoscenza e nei rapporti tra economia e sfera della conoscenza. INNOVAZIONE NELLA PRODUZIONE E NELLA CONOSCENZA

Nel 1926 Allin Young, un economista dimenticato dai più, analizzò alcuni patterns interessanti dell'evoluzione industriale, riproponendo (come lui dice con eccessiva modestia) le idee smithiane sulla divisione del lavoro, in realtà ideando una chiave di lettura ben diversa. La nota dominante in Smith risiede nella parcellizzazione progressiva del saper fare artigiano, e di conseguenza anche del suo sapere. Un'immagine, quindi, che si presta bene alla parodia del Chaplin di "Tempi moderni". Young vede, invece, nella crescita delle conoscenze la fonte della divisione, non tanto del lavoro, quanto delle attività produttive. L'esigenza di divisione discende dalla impossibilità, per un singolo soggetto o per una singola organizzazione, di controllare un dominio cognitivo che è cresciuto eccessivamente. La divisione ha luogo perché la conoscenza cresce più rapidamente della capacità cognitiva, della singola organizzazione o del singolo individuo, di controllarne gli aspetti operativi e strategici; dopo di che la specializzazione che ne consegue produce a sua volta un progresso ulteriore della conoscenza, dando luogo ad una sequenza creativa di nuove attività e di nuove conoscenze che si riproduce e si espande. Non solo la ricostruzione di Young è molto più persuasiva di quella smithiana, ma il suo schema si presta altrettanto bene a fungere da parabola 10


di quello straordinario processo trasformativo che ha segnato il passaggio dalla filosofia ottocentesca alle discipline scientifiche moderne. La cosa non sorprende più di tanto ove si pensi al sostanziale parallelismo storico tra i due processi di sviluppo, quello dell'industria e quello della scienza moderne. Entrambi sono processi sociali, nel senso che si fondono su una rete di relazioni comunicative e di cooperazione, ed entrambi sono processi innovativi. Man mano che si articola il processo produttivo (l'elaborazione del sapere), a fronte e quale causa ultima di un accrescimento ed affinamento del volume e del valore dei prodotti (di estensione e profondità dei saperi), tra le unità che si scompongono si attivano o si ridefiniscono continuamente relazioni. Raramente, infatti, l'innovazione consiste nel fatto che un agente faccia in modo diverso e migliore quello che faceva prima, senza turbamento del preesistente stato di relazioni. Il più delle volte, la creazione di innovazione scaturisce dal fatto che agenti, che fanno cose diverse ma complementari, intuiscono e coltivano la possibilità di cambiare, sempre in modo complementare, ciò che stavano facendo, ridefinendo sia i prodotti che le relazioni, tra di loro e con altri agenti. Nel mercato ciò avviene attraverso il coordinamento e la cooperazione tra imprese effettivamente o potenzialmente complementari, a volte perfino attraverso alleanze contingenti e cooperazioni specifiche tra imprese per altro verso rivali. Nella ricerca il meccanismo principe è quello della comunicazione attraverso le pubblicazioni scientifiche e, più occasionalmente, attraverso alleanze e cooperazione tra ricercatori. In questo gioco trasformativo sono in azione, nel mercato come nella ricerca, oltre a fattori di complementarietà, anche fattori di rivalità. I primi rendono possibili i processi costruttivi che conducono ai risultati, i secondi agiscono da stimolo. Le modalità con cui tali fattori agiscono, pur presentando forti analogie descrittive e spesso funzionali, sono tuttavia diverse nelle due sfere, quale conseguenza dei diversi regimi di appropriabilità dei risultati innovativi. Quelli delle attività di mercato, così come pure quelli della ricerca strumentale ad esse, sono appropriabili e, di conseguenza, vendibili; quelli della ricerca, si pensi al caso limite della ricerca di base, sono tali che, una volta creati, essi sono disponibili per tutti, nessuno ne può essere escluso. Essi sono, in altri termini e nel caso più estremo di appropriabilità nulla, un bene pubblico, nell'accezione che al termine è stata data al termine da Paul Samuelson - uno dei più autorevoli fautori, ma con intelligenza, dei principi di mercato - quasi mezzo secolo fa. Ciò spiega, incidentalmente, quanto facciano sorridere ipotesi - peraltro eccessivamente vaghe - di privatizzazione di strutture di ricerca fondamentale. Quale capitalista, infatti, le comprerebbe se 11


messe in vendita? Ovvero, come ipotizzare che esse possano sostenersi vendendo sui mercato al prezzo di costo? Naturalmente esistono infinite sfumature intermedie tra beni di mercato e beni pubblici, come (e di conseguenza) esistono infinite sfumature intermedie tra risultati di ricerca appropriabili e non appropriabili. E sono proprio i casi intermedi ad essere i più ?r0b1t non a caso la questione dei finanziamenti privati alla ricerca viene piu volte all anno alla ribalta politica di una rivista poli-scientifica di prestigio come Nature. Il laboratorio che abbia la ventura di occuparsi di questioni borderline sul piano dell'appropriabilità dei risultati vive drammaticamente la scelta conflittuale tra la pubblicabilità che assicura il pay-off del prestigio accademico ed indirettamente dell'accesso a finanziamenti pubblici - e le opzioni di avanzamento sostanziale (ma scarsamente divulgabile) della ricerca, assicurate dai finanziamenti e dalla cooperazione diretta con l'industria. Questa riflessione porta a riformulare la questione posta in precedenza sulla privatizzazione degli Enti di ricerca. Alle imprese private potrebbe convenire comprare tali Enti o i loro servizi, a condizione però che le risorse tecniche ed umane in tal modo direttamente o indirettamente acquisite possano essere dedicate solo alla produzione di conoscenza appropriabile e, quindi, potenzialmente sfruttabile su1 mercato. Il problema è: sarebbe una tale condizione utile e, soprattutto, dinamicamente sostenibile dal punto di vista del sistema? E ipotizzabile, in altri termini, che un sistema di ricerca basato sulla sola ricerca a risultati appropriabili possa funzionare, produrre risultati utili o addirittura sopravvivere? Bisogna rispondere a tale interrogativo riflettendo ancora sui fattori di complementarietà, tra attività, tra soggetti ed intertemporale, ma non prima di avere introdotto un elemento di cautela sulla questione della concorrenza e dell'efficienza. La concorrenza entra nel gioco del cambiamento, per un verso acuendo gli sforzi di innovatività e per l'altro inducendo razionalizzazioni in quanto si sta facendo. Queste razionalizzazioni hanno il pregio di mostrare più nitidamente i vincoli in azione e, quindi, possibili direzioni in cui cercare innovazioni. Se a volte la ricerca di efficienza prepara la strada all'innovazione, può capitare peraltro che un'eccessiva ricerca di efficienza e di controllo svolga spesso un ruolo negativo dal punto di vista della innovatività. L'efficienza implica infatti, per così dire, un certo grado di "grettezza", un atteggiamento parsimonioso, che rischia, nelle trame delle organizzazioni e delle loro burocrazie, 12


di divenire addirittura "meschino". E tutto ciò è ostile all'innovatività, che implica piuttosto una scapestrata tendenza a inseguire sogni e a fare scommesse. Negli sforzi creativi di innovazione vi è spazio per congetture intelligenti, più o meno caute, mai per calcoli ottimizzanti. Lavorare e spendere su linee innovative significa allora scommettere sempre, affrontando costi effettivi ed immediati a fronte di risultati incerti e dilazionati nel tempo. Ma vi è un modo più sottile e perverso con cui l'eccesso di concorrenza può, specie nella sfera della conoscenza, produrre risultati perversi. Si allude alla possibilità che un successo concorrenziale contingente, che comporta acquisizione di potere e di risorse, conduca a sbilanciare gli stati di equilibrio sostenibile dal punto di vista dei fattori di complementarietà, che sono alla base dei processi costruttivi (nel mercato come nella conoscenza). Vale infatti quanto detto prima: la rivalità contribuisce a tenere vivo lo sforzo costruttivo, ma la costruzione fa leva interamente sulle complementarietà. I FATTORI DI COMPLEMENTARIETÀ Sebbene si sia parlato di un continuum di complementarietà, in questa sede è opportuno privilegiare alcuni assi di lettura parziali: le relazioni tra rami del sapere e tipologie di ricerca diversi; la complementarietà tra formazione, ricerca e performance produttiva; i rapporti tra disegno delle politiche in questo campo ed architettura istituzionale ed organizzativa (su questo punto si sofferma l'articolo di Francesco Merloni).

1) Esiste un elevato grado di complementarietà tra la ricerca i cui risultati non sono appropriabili e quella i cui risultati sono appropriabili. Le due aree si alimentano e condizionano reciprocamente, sia in senso statico che, soprattutto, dinamico. Pensare che la ricerca applicata, a risultati vendibili, possa procedere per suo conto, è come pensare che la produzione industriale possa procedere a lungo senza l'ausilio di infrastrutture pubbliche di trasporto, di telecomunicazioni e di difesa nei confronti di aggressioni interne ed esterne. Ritenere che queste infrastrutture avrebbero potuto nascere in un contesto di mercato (magari facendo leva sul fatto che oggi esistono imprese private di telecomunicazione) significa non aver capito le dinamiche storiche dell'industrializzazione moderna (ad esempio, l'unico caso di ferrovie private, quello americano, è apparente, essendo nate con aiuti pubblici, soprattutto grazie al 13


sussidio implicito nella concessione dello sfruttamento dei suoli adiacenti alle linee ferroviarie). Ricerca fondamentale, applicata, finalizzata ed industriale sono distribuite in un continuum dal punto di vista di gran parte delle attrezzature, delle metodiche e degli skills richiesti; ma, soprattutto, dal punto di vista delle conoscenze. Non soio queste sono in gran parte complementari, ma i progressi nella ricerca fondamentale si irradiano in quelli applicativi, mentre accade spesso che esigenze applicative inducano stimoli nel campo della ricerca fondamentale. Vi è addirittura chi ritiene, con ottime ragioni, che la ricerca di base abbia prodotto e produca mediamente più innovazioni di ogni altro tipo di ricerca utilizzate o utilizzabili dal mercato. Sta di fatto che, laddove prevale un atteggiamento allo stesso tempo meno miope e più pragmatico, la ricerca di base è valorizzata dalla stessa sfera privata. Ad esempio, negli USA (dove c'è, comunque, un minore mercato nel campo della ricerca pubblica di quanto, a prima vista, possa apparire) la ricerca privata, che in quel Paese pesa per il 75% della ricerca complessiva, riguarda per ben il 18% la ricerca fondamentale e per il 21 quella applicata (informazioni NSF, riportate da L. Bianco in un recente intervento). Questo testimonia che, quando si fa ricerca avanzata, le logiche di bilanciamento connesse alle relazioni di complementarietà tra sfere contigue sono talmente forti da costringere perfino i soggetti privati a tenerne conto. La ricerca di base - si sostiene - non può che essere libera e aperta, guidata solo da scelte e orientamenti della stessa comunità scientifica. A questo proposito vengono tuttavia sollevati elementi di cautela. Occorre infatti non dimenticare tre questioni. La dinamica evocata da Allin Young specializzazione/articolazione rischia in molti casi (a) di far perdere fattori di coordinamento e (b) di far emergere aree di pericolosità. Possono inoltre (c) esistere esigenze o priorità sociali o, comunque, pubbliche. La prima questione fa pensare ad un racconto di Morgenstern, che insieme a Von Neuman "inventò" la teoria dei giochi e delle decisioni. Morgenstern racconta come i due studiosi sodali decisero di comune accordo di rinviare una ricerca in campo economico che comportava il trattamento di una grande massa di dati, in attesa che venisse completata la costruzione dei calcolatore nel frattempo ideato da Von Neuman. Purtroppo la memoria enfatizza i fatti, mentre le opzioni di complementarietà non percepite o che, pur percepite, non si sono volute o potute perseguire, sono solo casualmente osservabili; e si ha l'impressione che siano tante. A ben vedere le collaborazioni, quando addirittura le "contaminazioni" inter-


disciplinari, tendono a riuscire soio se a monte esiste un programma e/o un'organizzazione associati a dei fini che sono dati al di là o al di sopra dei singoli ricercatori o dei singoli laboratori. A volte questi eventi sono legati a contingenze che non nascono nella sfera della ricerca (come nel caso di Los Alamos e dintorni problematici), a volte quale sottoprodotto dell'esigenza di sfruttare grandi e costosi macchinari (e non casualmente entrambi questi casi vedono i fisici in prima linea); altre volte, ma più raramente, essi nascono quale conseguenza di fini che, essendosi dati all'interno delle comunità scientifiche, hanno trovato "sponsorizzazioni" esterne (mi domando sinceramente se vi siano molti altri casi oltre quello del programma per la mappatura del genoma umano). Considerazioni, queste, che mostrano come le questioni (a) e (c), pur avendo spesso a monte fattori di causalità distinti, trovino a volte risposte complementari. Ciò che va tuttavia sottolineato è che la messa a fuoco di grandi programmi quale fattore di coordinamento e potenziamento degli sforzi, nonché la loro gestione operativa, traggono alimento e spesso origine dalla ricerca incondizionata; di conseguenza, non è opportuno che quest'ultima venga schiacciata dai grandi programmi. Non si tratta di proposizione banale, vista la tendenza che qualsiasi aggregazione di finanziamenti e potere ha a perpetuarsi indipendentemente dalla permanenza delle condizioni che l'hanno generata. Se è vero che si tratta di una tendenza comune alla sfera del mercato e a quella della ricerca, solo nel primo caso vi è un controllo efficace di "terzi", ad esempio della clientela o, in mancanza, di un'autorità antitrust. Sarebbe meglio quindi ispirarsi al mercato, nel senso di preservare requisiti di pluralismo bilanciato e responsabile, piuttosto che attribuire logiche privatistiche ai soggetti di ricerca. L'opportunità di preservare tale pluralismo riguarda sia i soggetti finanziatori sia le strutture e le tipologie di ricerca. Non occorre, infatti, dimenticare l'incertezza ex ante che caratterizza la progettualità di ricerca. L'esistenza di più soggetti finanziatori, con sensibilità diversificate, rende più probabile (e non è poco) che si minimizzi l'errore, consistente nel non finanziare linee di ricerca innovative, spesso associate ad idee devianti rispetto alle ortodossie prevalenti in un dato momento storico. Sulla questione (b) - le aree di pericolosità - non mi soffermo. Il problema esiste. La specializzazione delle competenze ha raggiunto livelli un tempo inimmaginabili e ciò ha reso problematico il controllo anche dal punto di vista della pericolosità. Al contempo, i giochi mediatici tendono a falsare i ber15


sagli, concentrando artificialmente l'attenzione e restringendo conseguentemente gli spazi di ricerca in ambiti che non lo richiedono e magari trascurandone altri, mediaticamente più banali ma sostanzialmente più seri. 2) Un nesso cruciale - quasi ovvio osservano - passa per la complementarietà ricerca/ fo rmazio ne. Esso presenta due aspetti. Il primo riguarda la formazione dei futuri ricercatori, il secondo il mercato del lavoro e la competitività; su quest'ultimo si cercherà di fare qualche chiarezza qui di seguito, articolando quanto detto in esordio, che la competitività è oggi assicurata dalla capacità di innovare. La ricerca è solo una delle gambe delle innovazioni; affinché queste possano trasformarsi in business occorre che le imprese dispongano di personale capace di percepire e valorizzare economicamente la conoscenza. Se ciò non viene tenuto presente - come quando si enfatizzano eccessivamente strategie formative, miopemente finalizzate alle pretese esigenze correnti del mercato del lavoro - si corrono gravi rischi sul piano sistemico. Basti, in proposito, menzionare la tendenza recente a far proliferare corsi di diploma apparentemente "tagliati" su segmenti molto ristretti e specialistici del mercato del lavoro. Si tratta di una duplice insania. Non vi è dubbio che a singole imprese farebbe comodo poter disporre di giovani già preparati per le loro specifiche esigenze e ciò spiega come le imprese abbiano sempre "lamentato" le carenze della formazione pubblica. Se, tuttavia, si seguissero le indicazioni delle imprese, i lavoratori così formati diverrebbero, per assurdo, estremamente rigidi, molti di essi resterebbero disoccupati per le difficoltà di realizzare una buona corrispondenza domanda/offerta (una corrispondenza resa più problematica dal fatto che la formazione ha comunque una durata di molti anni, a fronte di una capacità previsionale delle imprese sul proprio fabbisogno che non va oltre un anno nella migliore delle ipotesi); lo stesso sistema delle imprese diverrebbe estremamente rigido sia a fronte di cambiamenti nei pesi delle produzioni sia, soprattutto, a fronte di cambiamenti tecnologici. Con conoscenze ampiamente appiattite sul minimo indispensabile, le imprese non sarebbero infatti in grado di percepire e sviluppare le opzioni innovative. L'osservazione storica suggerisce, invece, come la formazione pubblica moderna abbia sempre fornito giovani con maggiori conoscenze generali e minori conoscenze specifiche di quelle considerate necessarie e desiderabili dalle imprese. Proprio ciò ha contribuito all'evolutività del sistema delle imprese. In particolare, l'eccesso di conoscenze di tipo generale e di metodo ha contri16


buito alla flessibilità del sistema delle imprese ed a consentire la percezione e lo sviluppo delle opzioni innovative. Sempre la storia suggerisce come le imprese, a dispetto delle proteste, siano state sempre in grado di utilizzare al meglio le conoscenze generali e che apparivano ex ante ridondanti, contribuendo a completare la formazione in termini di specificità di area e/o di azienda. Oggi si rischia di mettere in crisi questa saggia esperienza, con danni inimagginabili sulla competitività. Siamo bombardati da oltre trent'anni da discorsi che riconducono la competitività internazionale al costo del lavoro per unità di prodotto. Questo è certamente un aspetto di qualche importanza nell'analisi della competitività, ma solo se si pensa alla competizione con Paesi relativamente omogenei al nostro, quali i Paesi europei. L'enfasi di attenzione su questo punto, tuttavia, distorce la visione e rischia di non consentire di comprendere i patterns della foresta della globalizzazione. Ed infatti, alla luce di considerazioni basate sul costo del lavoro per unità di prodotto, non si spiegherebbe come mai l'Europa non abbia una bilancia commerciale passiva e non sia invasa dai prodotti dei Paesi emergenti asiatici, rispetto ai quali il costo del lavoro europeo differisce dell'ordine dei multipli (e non di qualche, recuperabile, decina di punti percentuali). La spiegazione sta altrove e riguarda la tipologia delle produzioni. La competitività europea nei confronti del resto del mondo non è assicurata dalle cause relativamente banali comunemente enfatizzate, ma dalla capacità europea di produrre beni ad alto contenuto di conoscenza e di continuare ad innovare. Se, ad esempio, si analizza la bilancia commerciale dell'Europa con i Paesi emergenti del Sud-Est asiatico, si scopre che i produttori europei esportano in quelle aree pur avendo un costo del lavoro che è un multiplo del loro; ebbene è chiaro che possono farlo perché esportano in quei Paesi dei beni e dei servizi che quei Paesi non sono (ancora) in grado di produrre. La tenuta competitiva, in altri termini, dipende essenzialmente da fattori qualitativi e dinamici, a loro volta sostenuti dai livelli di conoscenza e, soprattutto, dalla sua dinamica sostenuta. L'Europa, come sistema, è più competitiva degli Stati Uniti, ove questi siano considerati complessivamente e non solo come settore High tech. Ciò è testimoniato dal fatto che gli USA presentano un disavanzo strutturale di bilancia commerciale mediamente compreso, su un arco di tempo lungo, tra il 2 e il 4% del loro PIL, a fronte di un avanzo strutturale europeo (UK esclusa) dello stesso ordine di grandezza del suo PIL. Forzando un po', si potrebbe arrivare a dire che l'Europa sistemicamente è 17


più competitiva sia degli USA che dei Paesi emergenti asiatici perché ha un costo del lavoro più alto e un mercato del lavoro meno selvaggio. Quello che è certo, comunque, è che quanto gli USA hanno ottenuto, per il fatto di essere riusciti a concentrare un ammontare assoluto di risorse - finanziarie ed umane - enorme e fuori portata per i singoli Paesi europei, in alcuni campi strategici, è stato bilanciato dai Paesi europei usando in modo più omogeneamente diffuso cultura, professionalità e in genere risorse umane maggiori.

In


Per una politica delle risorse umane in Italia di Sveva Avveduto

L'enfasi posta nella rincorsa all'applicazione della scienza ha spesso oscurato le radici del ragionamento e la visione d'insieme, complessivo-dinamica, del contesto sociale. Il discorso globale è necessario perché è bene rendersi preventivamente conto delle interrelazioni interne del contesto, appunto complesso e dinamico, perché progettato, o da progettare, per un obiettivo di mutamento attraverso l'innovazione. Uno sguardo introduttivo va rivolto al quadro socio-economico. Al di là della querelle, tutto sommato astratta, se la ricerca scientifica e tecnologica (RsT) sia parte dell'economia o viceversa, sta di fatto che la giustificazione del vasto intervento pubblico, che l'establishment scientifico chiede ai decisori, poggia sull' output sociale dell'attività di ricerca. Contestualmente e correlatamente, una politica per la RST con, al suo interno e quale fattore propedeutico, quella per le risorse umane, sarà possibile solo tenendo conto degli assi sociali sui quali essa si fonda. Premessa necessaria, dunque, per le scelte di politica scientifica, la dimensione quali-quantitativa del Paese relativamente alle risorse umane come fattore essenziale nelle attività di RST. Un intervento su di un Paese del terzo o quarto mondo avrebbe, ovviamente, carattere ben diverso da quello su una società di punta o a sviluppo medio. Per ogni tipo di contesto, comunque, vale il discorso chioma-radici: la floridezza dell'albero è cioè funzione della sua radicazione. Storicamente si registrano casi di disequilibrio (ricerca avanzata di tipo militare soprattutto: per esempio, India e Pakistan, a fronte di un complessivo contesto di arretratezza). Si tratta di modelli, per noi improponibili, di ricerca in funzione della politica, in dispregio del sociale, e non di corretta sciencepolicy.

LAutrice è Primo Ricercatore CNR (presso l'istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali). 19


LA POLITICA DELLE RISORSE UMANE PER LA SCIENZA E LA TECNOLOGIA

La consapevolezza che lo sviluppo delle conoscenze sia di fondamentale importanza per lo sviluppo tout court, tanto da diventare un fattore primario della produzione, è ormai talmente diffusa da essere un luogo comune. Tale ovvietà si trova però oggi fortemente a confliggere con le politiche finanziarie adottate nel nostro Paese, che vedono costantemente impoverire il piafond di risorse pubbliche destinate alla ricerca, senza che, come avviene per esempio in altri Paesi dell'Unione Europea, a questa tendenza faccia da contrasto un maggiore impegno da parte del settore privato. Eppure l'affermazione "le risorse umane sono centrali al sistema scientifico", di per sé piuttosto evidente, apre o fa da corollario a qualsiasi discussione o analisi di politica scientifica al livello nazionale e internazionale. Per citarne una delle ultime, il volume che l'OcsE pubblica ogni biennio sull'analisi dello stato e delle prospettive della scienza, della tecnologia e dell'industria (OECD, 2002a) dedica a questo argomento un'analisi specifica che apre con queste parole: "Human resources in science and technoiogy are ceni-rai iv the sci ence system. OECD countries therefore have made considerabie efforts i-o increase the number ofR&D personnei, in particuiar in the higher education seci-or, over the iast two decades ' L'esame qui condotto deriva anche dall'attività biennale di studio sulle risorse umane nel sistema scientifico dedicata da un gruppo di lavoro ad hoc' cui lavori si concluderanno nel 2004. A tal proposito si richiama anche l'attività della Commissione di studio del CNR "sulle risorse umane per la scienza e la tecnologia" (CoRus), i cui lavori si svolgono con l'obiettivo di scrutinare il contesto socio educativo del Paese e la dinamica delle risorse umane in relazione alle politiche ed ai principali temi di analisi 2 . Anche l'Unione Europea dedica al tema delle risorse umane una notevole attenzione. Le linee di sviluppo, indicate e sottoscritte dai capi di governo europei nei summit di Lisbona, nel marzo 2000, e di Barcellona nel marzo 2002, prefiguravano un obiettivo da conseguire entro il 2010: portare l'economia europea al primo posto, tra quelle knowiedge-based, per competitività e dinamismo. La strategia da mettere in atto per raggiungere tale scopo identifica una serie di requisiti che danno per sotteso il concetto che la ricerca debba fungere da motore per la crescita economica e la coesione sociale. Tra i requisiti ritenuti indispensabili si citano, in particolare, le linee seguenti, centrate sul ruolo delle risorse umane: - miglioramento delle politiche per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, 20


nonché accelerazione del processo di riforma strutturale e predisposizione delle condizioni favorevoli allo sviluppo complessivo della competitività e dell'innovazione; - investimenti in capitale umano attraverso il riassetto, anche qualitativo, delle attività educative e formative; - creazione di un"Area Europea della Ricerca", tale da rendere l'UE un polo attrattivo anche per i ricercatori esterni ad essa. Per raggiungere tale scopo viene indicato un traguardo concretamente quantificato: portare, entro il 2010, l'impegno europeo per la ricerca e l'innovazione al 3% del PIL e ottenere i due terzi dei nuovi investimenti in R&S dal settore privato. Come si possono raggiungere le finalità delineate nei summit di Lisbona e di Barcellona? Il gap tra ambizioni europee e politica finanziaria e scientifica nazionale è enorme e, al momento, incolmabile. La soglia del è ampiamente utopica per il nostro Paese, laddove anche l'Olanda, che si trova già oggi oltre il 2%, si dice, per bocca del suo ministro, preoccupata della realizzabilità ditale obiettivo. Le recenti scelte di politica finanziaria ci vedono allontanare ancor più, in discesa, anche dal già modestissimo attuale 1%. Gli ultimi dati ISTAT mostrano come nel settore della ricerca pubblica, con l'esclusione dell'università, le previsioni di spesa per R&S nel 2002, a prezzi costanti 1995, siano inferiori a quelle del 2001, passando dagli 8.073 milioni di euro a 8.037. La differenza, per la politica scientifica ed in particolare per quella delle risorse umane, tra l'essere in un sistema che si espande ed offre nuove opportunità e l'essere in un sistema che si chiude e, quindi, limita gli accessi ai nuovi ricercatori e si trova, al più, in uno stato stazionario, è autoesplicativa. Il dibattito normativo sui cambiamenti nella produzione delle conoscenze e sulla capacità della conoscenza di influenzare la società è, tuttavia, in ambito internazionale, quanto mai vivace. Per quanto attiene alla politica delle risorse umane per la scienza e la tecnologia, i temi maggiormente presenti in questo momento sul piano inter e sovranazionale sono quelli relativi alla formazione, alla mobilità, all'invecchiamento dei ricercatori ed alle questioni di genere (finora più di frequente definite come questioni di pari opportunità). La formazione dei ricercatori e l'occupazione scientifica sono, in certa misura, naturalmente condizionate dai cambiamenti nelle priorità di ricerca e dall'entità e dalla direzione dei finanziamenti per essa disponibili. Le evolu21


zioni che intervengono nella struttura dei finanziamenti per la ricerca, così come la sua accresciuta interdisciplinarietà e la diversa qualità e intensità dei rapporti con il mondo delle imprese, influenzano direttamente, poi, sia il percorso formativo dei futuri addetti alla ricerca che le modalità stesse con le quali l'offerta di occupazione si esplica. Conseguenza di ciò, per esempio, è la spinta, da più anni a questa parte, verso una crescente flessibilità del rapporto del lavoro scientifico. La struttura dell'occupazione nelle università e negli Enti di ricerca pubblici è cambiata nell'ultimo quinquennio: si diffondono, anche nel connesso mercato del lavoro, posizioni temporanee e contratti a termine. FORMAZIONE PER LA RICERCA

L'espansione del settore dell'Higher Education, verificatasi in Italia come altrove negli ultimi anni, ha apportato al livello degli studi post laurea (PhD e dottorato) i problemi tipici del livello immediatamente inferiore. Solo per un esempio si possono citare la rilevanza de/L'equilibrio tra generalismo e specializzazione, tra elementi di teoria e di pratica, di conoscenza specifica e di preparazione per professioni al di fuori dell'accademia e della ricerca. Sia al livello universitario che post laurea, si assiste al declino di interesse verso alcune discipline, in particolare quelle scientifiche, con i connessi problemi di attrattività degli studi scientifici prima e delle relative carriere, poi. Forse converrebbe non aspettare un nuovo sbarco sulla luna per scacciare questo pesante sonno dogmatico. Alcuni Paesi membri dell'OcsE hanno già intrapreso misure adatte ad orientare la formazione degli studenti di dottorato e gli studi post dottorato, in modo da andare incontro ad una domanda di lavoro non necessariamente pubblica, per esempio tramite la creazione di curriculaldiplomi in scienza, più centrati sulla formazione per la ricerca applicata. Le mutate priorità nel finanziamento e, quindi, nel perseguimento di specifici risultati della ricerca richiedono sia nuovi metodi che nuove aree di formazione, mentre si moltiplicano le iniziative per favorire collaborazioni multidisciplinari e a rete tra ricercatori. Parimenti, si registra un incremento delle politiche di preparazione dei ricercatori e di sostegno ai laureati che svolgono parte del loro cursus didattico nell'industria con un adeguato supporto alla collaborazione tra pubblico e privato. Il flusso dei laureati nelle discipline scientifiche è in parte determinato dalla accresciuta domanda industriale in certi Paesi ed in certe discipline; valgano per tutte le computer sciences. Tutta22


via, non è stato possibile identificare dai risultati delle analisi dell'OCSE il grado di successo o meno dell'immissione di questi laureati nel mercato del lavoro. Sul versante educativo si può ipotizzare che tutto ciò conduca ad un coinvolgimento crescente delle realtà esterne all'università su specifici percorsi quali: rinnovata ideazione e sofisticata gestione delle attività formative; crescente complessità dei curricula nella direzione della interdisciplinarietà; modifica della formazione post laurea (si ipotizza in ambito OCSE l'introduzione di modelli a due cicli); maggiore importanza del networking e, quindi, necessità di un più penetrante controllo istituzionale. Sul versante dell'occupazione, si assiste già ad un incremento, sia in ambito accademico che degli Enti di ricerca, dell'offerta di posizioni a tempo determinato piuttosto che indeterminato, appoggiate su fondi di derivazione esterna alle istituzioni che le offrono, per lo più su progetti finanziati da soggetti, pubblici o privati, ovvero da organismi sovranazionali. In correlazione con questo fenomeno cresce, in molti Paesi OCSE, l'autonomia delle università nel reclutare personale già qualificato e nel formalizzare modalità di retribuzione fortemente legate ai risultati raggiunti (performance-based). MoBILITÀ INTERNAZIONALE DEL PERSONALE SCIENTIFICO

Sia a livello nazionale, fra i settori e le istituzioni, così come a quello internazionale, la mobilità viene considerata un mezzo efficiente di diffusione delle conoscenze e di trasferimento di tecnologia. Di conseguenza, i vari Paesi hanno predisposto misure atte a ridurre le barriere che vi si frappongono ed hanno lanciato programmi specifici per promuovere la mobilità dei ricercatori. Tali incentivi sembrano essere ben accettati dai giovani, mentre non è ancora facile favorire i flussi orizzontali dei ricercatori più anziani. Nel box i si possono trovare alcuni esempi di iniziative intraprese da Paesi dell'OcsE nel settore.

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Box I. Politiche scientifiche messe in atto per favorire la mobilità

Politiche atte ad attrarre i talenti stranieri e nazionali espatriati. Il governo britannico insieme con la Wolflon Foundation, finanzia un Research Merit Award scheme, gestito dalla Royal Society con un fondo di 20 milioni di sterline in cinque anni. Con questi fondi, le istituzioni sono autorizzate ad offrire stipendi più elevati ai ricercatori che intendono indurre a restare o reclutare dall'industria o dall'estero. In Germania, la HumboldtFoundation ed il ministero dell'istruzione promuovono con 22 milioni di Euro un Research Award, il "Sofia Kovalevskaja-Preis", destinato a giovani ricercatori stranieri o tedeschi migrati all'estero, offrendo loro una posizione di ricerca per tre anni in Germania. In Francia è stata lanciata nel 1999 una nuova iniziativa per attrarre circa 200 giovani ricercatori ogni anno, provenienti in particolare da Paesi emergenti quali Brasile, Cina, Messico e Sud Africa. In italia, il ministero dell'Istruzione Università e Ricerca (MIUR) ha lanciato un programma di reclutamento di docenti stranieri nelle università italiane.

In centivi fiscali per l'assunzione di personale straniero. Nel 2001 in Svezia è stata approvata una specifica legge per diminuire la pressione fiscale nei confronti di esperti stranieri e lavoratori altamente qualificati che risiedano nel Paese per non più di cinque anni. Anche Danimarca, Olanda e Belgio hanno adottato simili politiche. In Canada, nel Quebec, il governo offre un'esenzione fiscale quinquennale per attrarre, nelle università della provincia, docenti stranieri nei settori della Information Technology, dell'ingegneria, della sanità e delle finanze. Programmi di rientro per ricercatori epost-docs. L2lcademy ofFinlanddispone di uno specifico programma per facilitare il rientro di ricercatori finiandesi che hanno lavorato all'estero. In Austria, le Schroedinger-scholarshzps sono elargite con la stessa finalità: aiutare i ricercatori a tornare in Austria ed integrarsi nelle istituzioni scientifiche. Anche il ministero dell'Istruzione e della Ricerca tedesco (BMBF) ha lanciato nel 2001 uno specifico programma per favorire il ritorno dei ricercatori tedeschi espatriati. In Canada, il Canadian Institute for Health Research offre, a sostegno del rientro dei ricercatori postdoc, un finanziamento supplementare di un anno a canadesi che abbiano beneficiato di Postdoctoral Fellowships per ricercatori stranieri da parte sia della Japan Societyfor the Promotion ofScience (Jsr's) o del Wellcome Trust/CIi-iR, Per ottenere il finanziamento del "Canada Year", l'attività di formazione e ricerca deve aver luogo in un laboratorio canadese. Anche in italia è stato recentemente lanciato dal MIUR un programma per favorire il ritorno dei ricercatori italiani dall'estero e per consentire alle università di offrire posizioni di ricerca e insegnamento che vadano dai sei mesi ai tre anni.

Fonte. OECD (2002) Ad hoc Group on Steering and Funding of Research Institutions Questionnaire Results; The International Mobiliiy o/the Highly Skilled, 2002. pIA


L'obiettivo da raggiungere resta, senza dubbio, quello di promuovere la mobilità senza intaccare la base scientifica dei Paesi ed innescare il fenomeno del brain dram, evitando così di mettere a rischio la continuità nelle attività di ricerca di un gruppo, di un'istituzione o di un Paese. Ciò si potrebbe verificare nel caso in cui si favorissero in maniera eccessiva i flussi migratori. Gli incentivi per promuoverli devono, quindi, tenere necessariamente conto delle possibili ricadute negative e vanno adeguatamente pensati a seconda dei diversi target da raggiungere: relativi, per esempio, a ricercatori agli inizi della carriera o a ricercatori già affermati, programmi mirati ad incoraggiare la mobilità in uscita ovvero il ritorno dei talenti e così via. Una particolare attenzione viene posta, in molti Paesi, ad attrarre ricercatori stranieri affermati; per arricchire il bacino dei ricercatori vengono utilizzati diversi strumenti, dagli incentivi finanziari a quelli di rete, alla concessione di status speciali nell'ambito delle norme che regolano i movimenti migratori.

Turn Over ed invecchiamento dei docenti e dei ricercatori La questione dell'invecchiamento del corpus composto da ricercatori e docenti delle università e del settore pubblico e del mancato turn over, risulta essere preoccupante per taluni Paesi e per taluni settori, meno per altri. Per esempio, si prevede che in Canada nei prossimi dieci anni il ricambio generazionale nelle università investa circa trentamila docenti. In alcune istituzioni tedesche si calcola che circa il 40% del personale raggiungerà l'età pensionabile nella prossima decade, e ciò potrebbe consentire, a seguito di un mirato reclutamento, il riorientamento di molte istituzioni di ricerca. L'apertura di nuove posizioni di ricerca o la possibilità di progressioni di carriera sono viste come un effetto positivo del fenomeno, anche in considerazione della possibilità di reclutamento internazionale. Nei Paesi nordici, il problema si pone con particolare urgenza in Norvegia e Svezia, mentre in Finlandia ha minore importanza. Il Libro Bianco norvegese sulla ricerca, pubblicato nel 1999, evidenziava come fosse necessario il reclutamento di nuovi ricercatori per far fronte al massiccio pensionamento della generazione precedente, che porterà, entro i prossimi 15 anni, all'uscita dai ruoli oltre la metà della popolazione dei ricercatori. L'età media del personale di ricerca in Norvegia si aggira a tutt'oggi intorno ai 50 anni. Anche negli Stati Uniti ci si aspetta un veloce ricambio della forza lavoro universitaria. Sia i pensionamenti che il reclutamento dei giovani PhD già stanno accelerando di pari passo. D'altronde, in quel Paese non si pone un problema di reclutamento, dato che il numero dei PhD, con la sola eccezione delle computer sciences, su25


pera annualmente la quota delle richieste. Anche negli USA, come in molti altri Paesi, non esistono specifiche politiche per affrontare il fenomeno. L'aumentata autonomia delle università nel settore del reclutamento, tuttavia, richiederà alle istituzioni, così come ai policy makers, l'adozione di esplicite politiche. Ne! nostro Paese l'invecchiamento dei ricercatori e docenti risulta essere piuttosto consistente. I dati di cui si dispone indicano un corpus docente e di ricerca la cui età media si aggira intorno ai 50 anni, pur con ovvie variazioni. L'analisi recentemente condotta dal MIuR, tramite il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, riporta dati che consentono di tracciare il panorama della docenza universitaria (MIuR, 2002). Il numero complessivo di docenti nel periodo preso in considerazione (1985-2001) è passato da 42.000 a oltre 55.000 (tabella 1). Entro il 2017 circa 25 mila docenti su oltre 50 mila raggiungeranno l'età della pensione. Questo evento potrebbe consentire di ridistribuire con un'accurata e tempestiva programmazione le risorse tra le diverse aree disciplinari, nonché promuovere un rapporto docenti/discenti più favorevole. Tale rapporto è oggi pari a 33, mentre nel 1985 era circa 27. Negli ultimi 15 anni, l'età media dei docenti è cresciuta di circa 7 anni ed i valori più elevati passano dai 38 anni de! 1985 ai 54 del 2001 (tabella 2). Ne! 1985 solo l'8% dei docenti aveva più di 60 anni, nel 2001 tale valore ha raggiunto i! 20%. Inoltre, nel 1984 la fascia d'età compresa fra i 24 e i 44 anni, la più scientificamente produttiva, assommava al 60% dei docenti; nel 2001 invece raggiunge appena il 29%. Uno dei problemi più vistosi è poi lo spostamento dell'età di ingresso della classe docente e dei ricercatori, fenomeno peraltro non nuovo. Si noti, per esempio, come la fascia d'età fra i 24 e i 34 anni raggiunga nel 2001 il 5% del totale mentre nel 1984 rappresentava il 13%. L'analisi dei dati disaggregati per qualifica mostra, comunque, come ai diversi livelli lo spostamento del profilo dell'età verso la maggiore anzianità sia comune a tutte le fasce (tabelle 3, 4 e 5). Per i ricercatori e, anche se in maniera meno visibile, per gli associati, è evidente la caratteristica bimodale delle curve d'età con ingressi addensati su due fasce d'età: 52-54 anni per le immissioni per idoneità e 36-38 anni per quelle per concorso. Un'analisi a parte meritano i dati relativi ai docenti assunti successivamente all'entrata in vigore della legge 210/98, che ha significativamente cambiato le procedure di reclutamento. Per questa categoria di docenti, reclutati in base 26


alle nuove disposizioni di legge, la media delle età si colloca sui 38 anni circa per i ricercatori, sui 44 per gli associati e sui 50 per gli ordinari (tabelle 6 e 7), pur con variazioni significative a seconda delle aree disciplinari. Oscilla infatti dai valori più bassi, che si registrano nelle scienze matematiche e nell'informatica, dove l'età media è di 32-34 anni per i ricercatori, 39 per gli associati e 45 per gli ordinari, ai quasi 42 anni per i ricercatori nel campo delle scienze mediche, ai 48 degli associati e ai quasi 54 degli ordinari nelle aree umanistiche e socio-economiche. E possibile seguire l'evoluzione delle uscite dai ruoli universitari, secondo le normative vigenti, nel periodo 2002-20 17. Le tabelle 8, 9 e 10 mostrano la suddivisione per qualifica, anno di uscita e facoltà del corpus della docenza universitaria, che lascerà i ruoli nei prossimi quindici anni. Complessivamente 5.562 ricercatori, 7.727 associati, 10.828 ordinari e 1.069 assistenti, per un totale di oltre 25.000 persone saranno, entro il periodo indicato, in pensione, con picchi nelle facoltà di medicina e chirurgia (5.910 in totale fra tutti i ruoli), nelle scienze matematiche, fisiche e naturali, (4.081), lettere e filosofia (3.686) ed ingegneria (2.697). La mobilità dei docenti da un ateneo all'altro, in base alla possibilità di essere prescelti da una lista di idonei, è stata di fatto piuttosto bassa, dato l'interesse, di carattere economico, che le sedi hanno, di "chiamare" gli idonei già operanti nello stesso ateneo. Su 1913 ordinari vincitori di concorso, 1.716 sono stati "chiamati" nello stesso ateneo. Gli analoghi valori sono per gli associati: 2.103 vincitori di cui 1.625 "chiamati" nello stesso ateneo. Negli Enti di ricerca la situazione relativamente all'invecchiamento dei ricercatori non è molto incoraggiante; gli ultimi dati di cui si dispone, relativi al 31 dicembre 1999 (Avveduto, Brandi 2000) presentavano un corpus di ricercatori del CNR con un età media di 46 anni, che, considerando il solo personale di ruolo, arrivava a 48,7. Sui 2840 ricercatori, a quella data, di ruolo, (tabella 11), solo 8 persone erano al di sotto dei 32 anni e solo tre tecnici ne avevano meno di 25. Le recenti tornate concorsuali, che si sono protratte per tutto il 2001, hanno probabilmente cambiato la situazione, ma non si dispone ancora di dati aggiornati. Ancora peggiore la situazione dell'ENEA: l'età media del personale dell'area dirigenziale e professionale era di 48 anni, e quella del personale tecnico-amministrativo di 45; il 21,8% del totale del personale ha più di 55 anni, il 7,3% più di 60 (tabella 12). Anche in questo caso i dati si riferiscono allo stesso periodo menzionato per il CNR, e non si ritiene che nel frattempo siano avvenute sostanziali modifiche. 27


CONCLUSIONI

La gestione delle risorse umane per la scienza e la tecnologia si pone in un quadro complesso i cui fattori di contesto riguardano: la scarsità generale delle risorse; l'autonomia per gli Enti di ricerca e le università; un parallelo maggior controllo ed una maggiore valutazione a fronte della accresciuta autonomia; l'internazionalizzazione o almeno europeizzazione della politica scientifica; i problemi di reclutamento del personale, in particolare dei giovani, da indirizzare alle carriere scientifiche. la progressiva sostituzione, nelle università e negli Enti pubblici, delle risorse interne con quelle esterne, spesso anch'esse di origine pubblica, e quindi l'espansione delle fonti di finanziamento etero dirette. Tale quadro si riflette anche sulla filiera formativa della ricerca. La determinazione di priorità esterne all'università e agli Enti di ricerca, insieme all'introduzione di nuovi canali di finanziamento della formazione post laurea ed in particolare del dottorato, di fatto, influenzano la decisione sulle scelte dei temi e dei filoni di ricerca formazione. Una delle questioni che a questo riguardo si sono sempre poste è la dinamica domanda/offerta e, in particolare, la discrepanza temporale tra l'offerta e la domanda di personale con specifiche caratteristiche; di conseguenza la difficoltà, per il sistema formativo, di tenere il passo con il mutamento della domanda. In un contesto, quale quello attuale, di cambiamenti veloci a fronte di offerte di lavoro che mutano al mutare dei contratti attivi, la questione presenta vie di soluzione ancor più difficili. Le questioni di genere e di invecchiamento della forza lavoro scientifica sono trasversali a quelle sopra delineate, così come quella dell'attrattività delle carriere di ricerca, soprattutto nel settore pubblico. A quest'ultimo proposito, il problema che più fortemente si pone è quello della flessibilità del lavoro nell'ambito della ricerca. L'equilibrio tra lavoro temporaneo e lavoro stabile, nonché la questione dello sviluppo di carriera a fronte di una sempre accresciuta mobilità, restano questioni aperte. Le principali tendenze comuni nella formazione e nell'occupazione dei ricercatori emerse dai risultati dell'analisi dell'OcsE (OECD, 2002b) possono es28


sere così tracciate: da un lato, l'affermarsi dell'occupazione temporanea anche al livello accademico e di ricerca, fenomeno già registrato nei grandi Paesi OCSE e adesso tipico anche dei piccoli; dall'altro, il rafforzarsi della ricerca multidisciplinare e delle collaborazioni tra università e mondo produttivo, anche sul piano della formazione post laurea. Tali evidenze spingono nella direzione di una maggiore flessibilità del lavoro di ricerca e di un conseguente cambiamento sia nella formazione che nell'occupazione dei ricercatori. Il lavoro della Commissione Europea sulle Risorse Umane per la RsT (Commission of the European Communities, 2002) giunge a conclusioni complementari. Per favorire un compiuto percorso di formazione ed utilizzazione di un adeguato stock di risorse umane per la scienza, pur nella diversità di situazioni dei Paesi membri, sono state individuate una serie di tendenze comuni che portano alle seguenti conclusioni: - l'Europa, nel processo di costituzione e utilizzo e nella capacità di attrazione delle risorse umane per la ricerca, è, nel suo complesso, in una posizione di inferiorità rispetto ai Paesi con economie basate sulla conoscenza, con i quali compete; - se le attuali tendenze verranno mantenute, l'offerta di laureati ad elevata competenza per lo svolgimento di attività di ricerca potrebbe essere insufficiente anche per mantenere lo status quo; - le condizioni occupazionali e le remunerazioni nel settore della RsT sono inadeguate e non così attrattive da consentire al settore di competere per assicurarsi risorse umane di qualità. Sulla base ditali considerazioni l'UE raccomanda ai Paesi membri di: porre in atto ogni iniziativa per rafforzare la base scientifica nazionale, a partire dal sistema scolastico secondario, apportando tutti i necessari cambiamenti anche al sistema didattico, in particolare per l'insegnamento delle materie scientifiche; migliorare le condizioni di lavoro ed il livello delle risorse destinate alla scienza ed alla tecnologia per rendere ambite tutte le attività e le carriere connesse; porre particolare attenzione alle fasi iniziali di reclutamento dei ricercatori e dei dottori di ricerca, in particolare nel settore pubblico, che risulta troppo poco competitivo; predisporre ogni iniziativa atta a beneficiare dell'attività e dell'apporto dei ricercatori ad elevata esperienza per tutto l'arco della loro carriera.

29


Restano dunque aperte alcune questioni di fondo: - quali politiche per l'occupazione scientifica? - quali politiche per attrarre i giovani laureati? - l'accresciuta flessibilità: attrae o respinge verso il sistema di ricerca pubblico? i contratti temporanei introducono più flessibilità nel sistema scientifico o, piuttosto, non costituiscono un disincentivo ad attrarre e mantenere i ricercatori nel sistema pubblico? - quali iniziative per legare la formazione ed il lavoro di ricerca? - come favorire la multidisciplinarietà e il networking? Ovviamente le questioni di genere intersecano i problemi della formazione, dell'invecchiamento, della mobilità e della spesa; una risposta a tali questioni può prefigurarsi come parte della soluzione a qualcuno dei problemi enunciati. Da non sottovalutare, da ultimo, la dimensione internazionale delle attività formative e successivamente delle carriere. La connessa mobilità dei ricercatori, più il reclutamento internazionale degli studenti, dei dottorandi e la competizione globale per le posizioni di PhD, rientrano nei processi di costituzione della European Research Area che influenzeranno tutto il settore.

I

Ci si riferisce ai lavori del Group on Steering and Funding of Research Institutions, sussidiario al Comitato per la Politica Scientifica dell'OCSE, che ha, al suo interno, uno specifico sottogruppo dedicato allo studio delle risorse umane.

Per informazioni sull'attività della CORUS è disponibile il sito http://corus.isrds.rm.cnr.it/Corus/. 3 The Lisbon European Council(Marzo 2000); The Barcelona European Council (Marzo 2002).

Note bibliografiche

marking National R&D Policies, Human Resources in RTD, Final Report, 21 August 2002. Commission of the European Communities, Communication from the Commission to the Council and the European Parliament: A Mobility Strategy for the European Research Area,

Risorse umane: quale fituro nella scienza? Formazione e occupazione, Franco Angeli, Milano 2000. Commission of the European Communities, STRATA-ETAN Expert Working Group, BenchS. AVVEDUTO, M.C. BRANDI,

30

2


Bruxelles, 20 June 2001, Co?l (2001)331 fĂŹnal. MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, Terzo Rapporto sullo stato del Sistema Universitario, MIuR, Roma luglio 2002.

OECD, Science Technology and Industry Outlook, OECD, Parigi 2002a. OECD, Working Group "Steering and Funding of

Research Institutions", HumanResources Manage-

ment Issues Reating to Funding and Priority Setting, DSTI/STP (2002) 4, Parigi, OECD 2002b.

31


Tabella 1 - Distribuzione dei ricercatori e dei docenti universitari per 5 classi di età nel periodo 1985-2001 (Valori assoluti)

Fascedietà 24-34 35-44 45-54 55-64 65-75 Totale

1985

1987

1989

5.498 19.648 10.376 5.185 1.326 42.033

3.397 19.712 12.146 6.013 1.650 42.918

2.333 18.464 13.971 6.586 2.073 43.427

Anni 1991 3.048 15.929 16.257 7.329 2.685 45.248

1993

1995

1997

1999

2001

3.610 13.360 19.003 8.539 3.327 47.839

3.582 11.243 20.227 10.112 3.934 49.098

3.061 10.513 20.049 11.488 3.925 49.036

2.487 11.054 19.154 13.080 4.251 50.026

3.018 13.229 18.311 15.964 4.707 55.230

Fonte MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002.

Tabella 2 - Distribuzione percentuale dei ricercatori e dei docenti universitari per 5 classi di età nel periodo 198 5-200 1

Fascedietà 24-34 35-44 45-54 55-64 65-75

1985

1987

1989

1991

Anni 1993

1995

1997

1999

2001

13 47 25 12

8 46 28 14 4

5 43 32 15 5

7 35 36 16 6

8 28 40 18 7

7 23 41 21 8

6 21 41 23 8

5 22 38 26 8

5 24 33 29 9

3

Fonte MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002.

Tabella 3 - Distribuzione percentuale dei docenti ordinari per classi di età nel periodo 1985-2001

Fasce di età 24-34 35-44 45-54 55-64 65-75

1985

1987

1989

1991

Anni 1993

1995

1997

1999

2001

0 14 42 32 12

1 18 42 29 lO

0 12 43 32 13

0 1 42 32 15

0 7 39 36 18

0 6 36 38 20

0 4 32 43 21

0 3 27 47 23

0 7 28 44 21

Foiit MIuR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002

32


Tabella 4 - Distribuzione percentuale dei docenti associati per classi di età nel periodo 1985-2001

Fascedietà 24-34 35-44 45-54 55-64 65-75

1985

1987

1989

1991

Anni 1993

1995

1997

1999

2001

2 51 33 12 2

2 44 37 14 3

1 39 42 15 3

0 27 49 18 5

2 24 50 19 5

1 17 51 25 7

0 13 50 31 7

I 18 43 32 7

22 36 33 7

Foìte MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002

Tabella 5—Distribuzione percentuale dei ricercatori per classi di età nel periodo 1985-200 1

Fascedietà 24-34 35-44 45-54 55-64

1985

1987

1989

1991

Anni 1993

1995

1997

1999

2001

34 61 5 1

20 71 8 1

14 72 12 2

18 62 18 2

20 49 29 2

19 42 36 3

15 40 40 5

12 39 42 7

13 40 36 11

Fcnte MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002.

33


Tabella 6- EtĂ media dei ricercatori e dei docenti nominati per effetto della Legge 210198, suddivisi in base alla qualifica, per area disciplinare; valori ordinati per etĂ crescente dei ricercatori (al 3 1/12/2001) Settore

ricercatori

associati

ordinari

A

Scienze matematiche

32,6

39,9

45,3

I

Ingegneria industriale

33,9

39,7

48,1

N

Scienze giuridiche

34,2

40,6

46,6

P-S Scienze economiche e statistiche

34,2

39,7

47,7

K

Ingegneria dell'informazione

34,3

39,1

45,7

C

Scienze chimiche

35,7

41,8

52,4

V

Scienze veterinarie

36

41,1

48,1

B

Scienze fisiche

36,9

42,9

51,5

G

Scienze agrarie

38,3

42,5

50,2

Q L

Scienze politiche e sociali

38,4

48,1

53,9

Scienze dell'antichitĂ , filologiche-letterarie

38,6

47,1

53,5

H

Ingegneria civile e Architettura

38,8

44,4

51,8

E

Scienze biologiche

39

44

50,7

M

Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche, psicologiche

39

48,1

53,8

D

Scienze della terra

39,8

43,3

52

F

Scienze mediche

41,8

46,6

52,5

37,9

44

50,6

Totale

Fonte. MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002

34


Tabella 7 - Età media dei ricercatori e dei docenti nominati dopo la Legge 210198, suddivisi in base alla qualifìca, per gruppi di facoltà, valori ordinati per età crescente dei ricercatori (al 31/1212001) Facoltà Giurisprudenza Scienze statistiche Economia Ingegneria Med. veterinaria Scienze motorie Psicologia Sc. Politiche Farmacia Scienze MFN Scienze della formazione Sociologia Ling. lett. stran. Agraria Lett. filosofia Architettura Medicina e chirurgia Totale

ricercatori

associati

ordinari

34,2 34,3 34,6 34,6 36 36,6 36,7 36,7 36,8 36,9 38 38,2 38,3 38,5 39,1 40 41,6 37,9

40,5 40,5 •40,5 40,3 40,7 47,3 44,1 45,4 43,2 42,4 48,4 46,3 47,1 42,5 47,5 46,7 46,1 44

46,6 47,8 47,1 47,8 48 51,9 50,7 51,6 51,8 50,6 54,8 52,7 53,7 50,5 53,4 53,7 52,1 50,6

Font MIuR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002.

Tabella 8 - Suddivisione per qualifica dei soggetti che raggiungeranno i limiti d'età per il pensionamento nel periodo 2002-20 17. Valori assoluti Qualifica Ricercatori Associati Ordinari (entrati prima L. 382180) Ordinari (entrati dopo L. 382180) Assistenti Totale

Numero 5.562 7.727 4.226 6.602 1.069 25.186

Fonte MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002

35


Tabella 9 - Suddivisione per qualifica ed anno di uscita dei soggetti che raggiungeranno i limiti d'etĂ nel periodo 2002-20 17. Valori assoluti Anno

Ricercatori

Associati

Ordinari

Assistenti

Totale

2002 2003 2004 2005 2006

20 38 42 68 94 113 124 179 217 260

163 166

258 286

462

197 235 293 330 438 453 523 525 621 616 630 648

328 405 448

21 24 48

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 Totale 2002-2017

356 629 837 832 904 849 5.562

541 577 690 789 818

932 957

867 947 905 918 1.063 988

7.727

10.828

Fonte. MIUR, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002.

36

97 75 47 24

514 615 753 907 1.071 1.214 1.397 1.615 1.708 1.929 2.295 2.469 2.473 2.946 2.818

1.069

25.186

45 72 87 75 75 86 105 85 103


Tabella 10 - Uscite totali per raggiungimento dei limiti di età secondo la normativa attuale nel periodo 2002-20 17, suddivise in base alla facoltà ed alla qualifica. Valori assoluti Anno

Ricercatori

Agraria

Associati

Ordinari

Assistenti

Totale

90

213

501

21

825

Architettura

364

418

419

47

1.248

Economia

269

423

725

141

1.558

Farmacia

78

232

322

10

642

352

172

632

190

1.346

Giurisprudenza Ingegneria

317

865

1.416

99

2.697

1.186

945

1.461

94

3.686

194

248

235

32

709

Medicina veterinaria

18

63

158

5

244

Medicina e chirurgia

1.554

1.924

2.197

235

5.910

Lettere e filosofia Lingue e letterature straniere

Psicologia

37

50

99

3

189

Scienze Politiche

285

276

395

48

1.004

Scienze della formazione

253

211

236

31

731

Scienze MFN

511

1.585

1.900

85

4.081

Scienze Motorie

9

14

14

28

71

11

153

33

55 38

47

3

121

5.562

7.727

10.828

1.069

25.186

Scienze statistiche

5 16

Sociologia Totale

Fonte Miug, Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, 2002.

Tabella 11 Classi d'età

finoa30

-

Classi di età dei ricercatori di ruolo e con contratto a termine del CNR (aI 31 dicembre 1999) Ricercatori

Ricercatori

di ruolo

a tempo determinato

Totale

2

49

51

31-35

92

323

415

36-40

428

254

682

41-45

634

102

736

46-50

455

23

478

51-55

517

15

532

56-60

478

6

484

61-65

203

2

205

31

0

31

2.840

774

3.614

oltre65

Totale

Fontr CNR

37


Tabella 12— Classi di età del personale di ruolo dell'Enea (al 31 dicembre 1999) Classi d'età 20-25 26-30 31-35 36-40 41-45 46-50 51-55 56-60 61-65 oltre 65 Totale

Foztr ENEA.

38

Totale 2 4 221 482 680 636 592 488 220 23 3.348


Le tendenze delle politiche istituzionali nel campo della ricerca in Italia: pericoli e rimedi di Francesco Merloni

ueste note sono, per brevità, articolate intorno a cinque coppie di problemi, tutte relative agli aspetti di organizzazione della ricerca scientifica in Italia. Ci si occupa dell'organizzazione "pubblica" della ricerca scientifica, cioè di quella parte del sistema della ricerca che è non solo finanziato, ma organizzato - in via più o meno stabile - dai pubblici poteri per lo svolgimento di attività di ricerca. Le coppie di problemi sono: didattica/ricerca nelle università; prima/seconda rete di ricerca; autonomia/indirizzo politico; pubblico/privato; centro/periferia.

Q

DIDATTICA/RICERCA NELLE UNIVERSITÀ

Le università sono al centro del sistema scientifico, se non altro perché presiedono al meccanismo di riproduzione delle comunità scientifiche. Questo spiega il successo del modello humboldtiano di università fondato sulla piena parità delle funzioni di didattica e ricerca, modello che ha resistito anche alla pressione dell'università di massa. In Italia la pressione è più forte perché, a differenza di altri Paesi che hanno creato strade di formazione professionalizzante al di fuori delle università, da noi il sistema universitario pretende (ed è riuscito a mantenere) il monopolio dell'offerta formativa di istruzione superiore. In termini giuridici, l'equilibrio tra le due funzioni è stato mantenuto, finora, attraverso la disciplina dello stato giuridico dei professori universiL'Autore è Ordinario di Diritto Amministrativo presso l'Università di Perugia. 39


tari. Sia in accesso (nei concorsi è largamente prevalente la valutazione dei titoli di produzione scientifica, l'unico elemento di valutazione della capacità didattica essendo la prova prevista per il solo livello di professore associato), sia nello svolgimento delle attività (impegno didattico limitato, compatibilità con attività esterne, tempo definito, anni sabbatici, incentivazioni allo svolgimento di attività di studio all'estero), la funzione ricerca ha avuto sin qui un peso rilevante, se non preponderante, nella configurazione dei doveri del ricercatore/professore universitario. Si può addirittura affermare che la disciplina giuridica delle università nel salvaguardare i "privilegi" del ceto accademico ha fatto prevalere le esigenze della qualità della ricerca, quale motore fondamentale del meccanismo di trasmissione di conoscenze autoprodotte dal docente (non del semplice "aggiornamento professionale", che può farsi anche utilizzando conoscenze prodotte da altri), anche sull'obiettivo primo di strutture di formazione che dovrebbe consistere nella produzione di un adeguato numero di laureati. Anzi, l'elevato fenomeno degli abbandoni non ha trovato finora delle contromisure adeguate. In sostanza, le università hanno conservato regole tipiche dell'università di élite anche dopo essersi trasformate in università di massa. Anche il sistema di finanziamento della ricerca ha a lungo corrisposto a questo modello di élite: finanziamenti minimi di sussistenza per consentire a tutti la ricerca di tipo individuale; finanziamento su progetti, ma con sistemi di valutazione fortemente "controllati" dalle diverse comunità di settore, per iniziative di maggiore consistenza (finanziamenti CNR, via Comitati di consulenza e finanziamenti ministeriali, via Comitati CUN). Ne è derivata un'università che ha garantito una qualità della ricerca libera non disprezzabile e una buona qualità di laureati (di quel ristretto numero che concludeva con successo), almeno sotto il profilo della formazione culturale e di metodo nelle diverse discipline scientifiche. Si può dire che si sono formati dei "potenziali ricercatori", i quali, quando hanno potuto godere di contesti più favorevoli (quasi sempre all'estero, nei casi eccellenza anche in Italia), hanno prodotto risultati di grande qualità, ma anche laureati dotati di strumenti critici e di adattamento sufficienti a trovare sbocchi professionali adeguati. Più di un elemento, anche sul piano della stretta analisi della disciplina giuridica, ci dice che le cose stanno cambiando radicalmente. Il primo elemento è sicuramente l'adozione generalizzata del modello del "3+2". Esso sta a significare che il legislatore non ha ritenuto suffi40


ciente l'affiancamento alle tradizionali lauree quadriennali (di formazione culturale) dei corsi triennali di diploma (di formazione professionalizzante). Le università devono modellare l'intera offerta formativa intorno all'obiettivo di rilasciare titoli di studio (ancora con valore legale) di immediata spendibilità nel mercato del lavoro e ottenibili in tempi certi. La professionalizzazione diviene il centro della formazione triennale e i successivi percorsi (bienni specialistici, master) sono visti come ulteriori momenti di specializzazione, sempre al fine di individuare forme mirate di inserimento nel mondo del lavoro e delle professioni. Risultato, almeno per le prime applicazioni: estrema articolazione dell'offerta formativa (le facoltà hanno istituito circa 3.000 corsi triennali) sempre alla ricerca di "sbocchi professionali" diversificati, ma spesso del tutto aleatori; attenzione prevalente al triennio (attivato prima) rispetto al biennio, senza una programmazione complessiva dei percorsi formativi; impegno totalizzante dei docenti in più corsi diversi (la stessa materia insegnata in modo diversificato); esplicito incentivo all'abbassamento del livello qualitativo della docenza, per garantire comunque il conseguimento del titolo nel triennio e per attirare gli studenti, provenienti da un'istruzione secondaria superiore di livello sempre più scadente (nessuno ha rimesso in discussione la scelta di liberalizzazione degli accessi alle università, sicuramente demagogica, ma forse all'epoca coerente con la natura formativa culturale di base dell'università; ma ora che si punta tutto sulla professionalizzazione, non sarebbe necessario dare coerenza tra formazione secondaria e universitaria?). Il secondo elemento sta nel meccanismo di selezione dei professori universitari, caratterizzato ormai da una sempre più accentuata "localizzazione". Un dottore di ricerca di media qualità può fare una carriera tutta interna alla propria università, sicuramente per i primi due livelli: il concorso da ricercatore dipende solo dalle risorse della facoltà (assegnate in rapporto alle esigenze della didattica, non della ricerca), perché lo svolgimento è governato dal professore ordinario (se membro interno); lo stesso vale (con qualche controllo in più) per il concorso di professore associato. Ma anche il concorso da ordinario finisce sempre più spesso per premiare le esigenze della facoltà che bandisce. Quali riflessi sulla ricerca universitaria? Negativi. a) In termini di tempo dedicato: la didattica si impone ormai come dovere prevalente, che assorbe non solo il professore già formato (sarebbe interessante disporre di statistiche sull'uso degli strumenti a disposizione: 41


anni sabbatici e soggiorni all'estero), ma anche i professori in formazione, quelli che dovrebbero insegnare poco e ricercare molto (e infatti li chiamiamo ancora "ricercatori" nonostante sia ormai di fatto un terzo, contraddittorio, livello di docenza); b) in termini di disponibilità di risorse: le risorse finanziarie delle università sono assorbite quasi interamente dagli stipendi del personale (i dati di Sveva Avveduto ci segnalano che il numero totale dei ricercatori e professori delle università continua a crescere) e dalle strutture per la didattica; i fondi ex 60% non bastano ad assicurare quella linfa vitale minima per lo svolgimento di ricerche individuali e di base (per un numero crescente di interessati); i fondi ex 40%, anche se assegnati con meccanismi (peer review) sicuramente migliori delle precedenti consorterie e quindi premianti progetti di migliore qualità, escludono ormai la gran parte dei professori dal finanziamento (si tratta, è vero, della parte meno attiva, ma il risultato è il decadimento progressivo della conoscenza prodotta nelle università). PRIMA/SECONDA RETE DI RICERCA

La seconda rete di ricerca, oggi costituita da Enti pubblici di ricerca sia a carattere non strumentale (CNR, INFN, INFM, INAF, INGV ecc.), sia a carattere strumentale (ENI, Asi, Istituti Sperimentali di Agricoltura, Stazioni Sperimentali per l'Industria ecc.), è nata per colmare le insufficienze della prima. In primo luogo in termini di coordinamento/finanziamento: il CNR (come il CNRS francese, la NSF americana, i Research Councils inglesi) nasce per finanziare, evitando sovrapposizioni, progetti di ricerca di professori universitari (quasi sempre singoli o a capo di équipe di propri collaboratori). Successivamente evolve assumendo la funzione di svolgimento diretto di attività di ricerca. Si tratta di ricerche che per dimensione, oggetto e contenuto abbiano caratteristiche diverse da quelle organizzate nelle università (équipe dedicate a tempo pieno alla ricerca, ricercatori provenienti da esperienze e luoghi diversi, alta interdisciplinarietà, alto rischio, settori nuovi ecc.), ma che non necessariamente si devono svolgere in modo separato dalle università. Anzi, i ricercato ri/p rofessori delle università, pur legati ai doveri della didattica, possono (devono) dedicarsi ad attività di ricerca piena anche nelle (associandosi alle) strutture di ricerca della se42


conda rete. Nella realtà italiana, la seconda rete, per motivi diversi (in particolare a lungo legati ad uno stato giuridico completamente diverso), ha operato in regime di forte separazione dalla università (unica eccezione, considerata felice: l'INFN). In particolare, il CNR, da un lato era legato in modo stretto alle università (secondo molti era eterogovernato da professori universitari) per la funzione di finanziamento delle ricerche universitarie (Comitati), dall'altro operava, attraverso i suoi Istituti, in modo separato. La recente riforma (del 1999-2000: d.lgs. n.19 e regolamenti di autonomia) ha corretto il secondo aspetto, aprendo gli Istituti alla piena presenza di ricercatori e professori delle università, mentre rischia di veder compromesso il primo legame, per la soppressione dei Comitati e, quindi, per l'assenza di una rappresentanza della comunità scientifica universitaria e, soprattutto, per l'impossibilità, a causa della carenza di finanziamenti, di mantenere in piedi le attività di agenzia (nel 2002 e 2003 questo canale di finanziamento si è del tutto interrotto). Il CNR, non per volontà esplicita del legislatore ma per scelte di governo successive, tende a coincidere con la propria rete di Istituti e, quindi, ad esaurirsi nella sola attività di svolgimento diretto di ricerca. Considerata nel suo insieme, la seconda rete di ricerca appare poi debole e disarticolata; molti Enti di ricerca sono nati come costole staccate dal CNR, ma non tutti vivono bene: si va da centri di eccellenza (INFN) a enti che non fanno più ricerca, ma applicazione (ENEA). In questa rete il CNR, quale Ente a competenza generale, potrebbe continuare a svolgere il ruolo di vivaio per future iniziative più stabili, ma questo ruolo gli è di fatto impedito se non ha risorse, né per finanziare progetti esterni o grandi progetti di ricerca (nazionali o internazionali), né per dare seguito in termini più stabili (costituzione di nuovi Istituti) alle ricerche più promettenti (nel contempo chiudendo quegli Istituti che ormai non producono più ricerca di qualità). In ogni caso, occorre un disegno generale sullo sviluppo complessivo della ricerca pubblica e sui rapporti tra prima e seconda rete. Un rilancio della seconda rete, che assegni ad essa compiti diversi dall'avanzamento delle conoscenze (produzione di ricerca solo applicata o fornitura di servizi sul mercato), oltre ad essere errato, sarebbe del tutto illusorio, se nel frattempo la ricerca nelle università declinasse in modo irreversibile. Le due reti devono crescere, in modo ordinato e senza strappi, insieme, curando una filiera che preveda un continuum: dalla ricerca individuale e 43


di base alla ricerca interdisciplinare, dalla ricerca in collaborazione tra più sedi universitarie alla creazione, con l'intervento della seconda rete, di unità più stabili, prima sperimentali e poi permanenti, soprattutto nei campi più "rischiosi". Il tutto sottoposto ad un processo costante e trasparente di valutazione ex ante ed expost.

Autonomia/indirizzo politico Alla fine degli anni Ottanta, primi anni Novanta dello scorso secolo, la ricerca scientifica italiana sembrava avviata ad un assetto più chiaro e stabile. Con la costituzione del ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (legge n.168 del 1989, legge "Ruberti") si portava a compimento un lungo percorso che aveva visto un debole Ministro (senza portafoglio) della Ricerca affiancarsi, in cerca di un proprio spazio, al CNR, dal 1945 unico soggetto (qualificato come "organo dello Stato" anche se si trattava di un Ente pubblico) titolare delle (poche) funzioni di Programmazione e Coordinamento della Ricerca e alla Ricerca Universitaria, fino ad allora compresa, come le università, nel ministero della Pubblica Istruzione. La nascita di un soggetto più forte, titolare dei compiti di Programmazione Generale della Ricerca pubblica e di Finanziamento di quella privata, veniva bilanciata, nella stessa legge e in modo esplicito, da un ampio riconoscimento di autonomia, in attuazione (e interpretazione estensiva) dell'art. 33, ultimo comma, della Costituzione, sia alle università che ad un certo numero di Enti pubblici di ricerca, qualificati come di "ricerca a carattere non strumentale Parlamento e Governo si riservavano le scelte di grande indirizzo, legate soprattutto alla distribuzione delle risorse tra ricerca di base e ricerca applicata (mentre la promozione dell'innovazione tecnologica restava di competenza del ministero dell'Industria), tra ricerca pubblica e promozione della ricerca privata, tra università ed Enti di ricerca, tra i grandi settori disciplinari e tra i grandi obiettivi di avanzamento scientifico e tecnologico. Era comunque assicurata un'ampia partecipazione del modo scientifico alle scelte di indirizzo politico, attraverso organi rappresentativi, per via elettiva (diretta o indiretta), della comunità scientifica. Le funzioni operative, fossero esse di promozione (finanziamento) della ricerca o di diretto svolgimento delle attività scientifiche, restavano affidate al mondo scientifico: ai Comitati consultivi del Consiglio Universitario Nazionale per il finanziamento dei progetti scientifici di interesse 44


nazionale o ai Comitati consultivi del CNR per le funzioni di finanziamento della ricerca. Alle università (che nel frattempo si riorganizzavano per dare, attraverso la costituzione dei Dipartimenti, maggiore peso alla ricerca) e agli Enti pubblici di ricerca, primo tra tutti il CNR, che perdeva i compiti di coordinamento generale, ma restava l'Ente di ricerca a competenza generale, spettavano i compiti di organizzazione e svolgimento delle attività di ricerca. Le scelte organizzative e operative erano tutte affidate all'autonomia di questi soggetti. Il modello così definito non è stato mai compiutamente realizzato: nel MURST non si è proceduto alla costituzione a regime del Consiglio Nazionale della Scienza e della Tecnologia, nelle università si è aperta una fase "statutaria", senza però che la prevista "legge generale sull'autonomia universitaria" aprisse nuovi spazi all'autonomia, organizzativa e didattica; negli Enti di ricerca non si sono modificate le normative fondamentali, statuarie o regolamentari. Anche a causa dell'incompletezza del riassetto realizzato, una nuova fase di riforma complessiva della ricerca si è aperta con la legge n. 59 del 1997 (legge Bassanini), che ha conferito al Governo un'amplissima delega (con pochissimi limiti e criteri direttivi) per la riforma dell'intero settore. La delega è stata pienamente utilizzata con l'approvazione di numerosi decreti legislativi, che hanno riordinato i compiti del ministero e l'organizzazione di molti Enti di ricerca, a cominciare dal CNR. Senza entrare nella descrizione di questo articolato complesso di disposizioni, ci si può limitare a ricordare alcuni passaggi essenziali. In primo luogo il ministero (ora divenuto ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Scientifica - MIuR) concentra su di sé tutti i compiti di programmazione della ricerca, attraverso l'adozione del Programma nazionale, ma soprattutto si vede attribuire compiti di finanziamento della ricerca, in continuità con i precedenti compiti del CUN, ma senza i relativi Comitati. Negli anni i compiti di finanziamento della ricerca sono andati crescendo, con la creazione di una serie di fondi, gestiti direttamente dal ministero (con priorità dettate direttamente dal Ministro e selezione dei progetti con il sistema della peer review). Vengono previsti organi rappresentativi della comunità scientifica (sei Consigli nazionali elettivi) e un'Assemblea della scienza e della tecnica, composta dai membri dei CSN e da altri 39 esperti (in rappresentanza delle amministrazioni dello Stato e del mondo della produzione e del lavoro), ma questi organi non sono mai stati costituiti. 45


Il sistema di finanziamento degli Enti di ricerca viene legato ad un procedimento che prevede l'approvazione di piani triennali, senza che però ne derivino garanzie certe sull'attribuzione delle risorse nel triennio, dal momento che il Ministro ha una notevole discrezionalità sia nell'approvazione dei piani triennali che nell'assegnazione annuale dei finanziamenti. Si arriva addirittura a sottrarre agli Enti una quota del loro bilancio (il 5%) a favore del ministero, che poi provvede a ridistribuire il relativo fondo, tra gli Enti stessi, secondo proprie priorità. Il CNR viene confermato come primo Ente di ricerca non strumentale a competenza generale e profondamente riorganizzato, con un Presidente ancora nominato dal Governo, un Consiglio direttivo per la metà di nomina governativa e per l'altra metà di elezione (di secondo grado; da parte dei CSN), un Comitato consultivo rappresentativo della comunità scientifica (per metà universitaria e per metà interna al CNR), ma totalmente privo di poteri, una rete di Istituti che è stata profondamente razionalizzata. Quanto alle funzioni istituzionali, il CNR Si vede confermare sia la promozione che lo svolgimento diretto delle attività di ricerca, ma in realtà viene quasi immediatamente ricondotto di fatto al solo secondo compito, attraverso una duplice azione: da un lato l'autorizzazione ad ampliare il proprio corpo di ricercatori (da tempo stabile) e dall'altro la progressiva riduzione, in termini reali e nominali, dei finanziamenti. Con il risultato di irrigidire il bilancio intorno alle spese per il personale in servizio e di non poter destinare nessuna risorsa per il finanziamento/promozione della ricerca (universitaria e non). La riorganizzazione degli altri enti di ricerca non strumentale (INGv, INFM, INAF ecc.) segue il modello del CNR. Nell'ultima legislatura, nel passaggio da una maggioranza di centrosinistra a una di centrodestra, l'indirizzo di fondo non muta, anzi viene accentuato. Il Governo ottiene una nuova delega in tutto uguale alla precedente (1. n.137 del 2002) per rivedere la riforma appena realizzata, con il dichiarato intento (che si ricava dalle bozze di decreto finora circolate) di sottoporre gli Enti di ricerca ad un pRi stretto controllo politico. La recente legge sul cosiddetto spoil system (1. n. 145 del 2002) potrà essere applicata sia alla nomina degli organi di governo sia ai Direttori Generali degli Enti 46


di ricerca, senza nessun riguardo per la posizione di autonomia che loro deriva dall'essere classificati come Enti di ricerca a carattere non strumentale. Quanto ai rapporti finanziari, i recenti tagli previsti in occasione della legge finanziaria per il 2003, applicati ormai all'intero settore pubblico, comprese università e Enti di ricerca, pregiudicano quasi totalmente l'operatività di questi ultimi. Il CNR, il cui bilancio è già pesantemente condizionato dalle spese per il personale, è in grave difficoltà ad approvare un bilancio credibile, a meno di non stabilire il principio della mera sussistenza delle strutture e dei ricercatori, che per svolgere un minimo di attività siano poi costretti a concludere convenzioni per attività solo per conto di terzi committenti. Nell'eventualità che tali risorse ci siano (in realtà in Italia l'assenza di investimenti nella ricerca da parte delle imprese private è un dato strutturale), da un simile sistema di finanziamento deriverebbe, semmai, la totale dipendenza delle attività di ricerca (che essendo finanziate con fondi pubblici dovrebbero essere libere, curiosity oriented, o, al massimo, finalizzate ad interessi generali di sviluppo) dalle esigenze del mercato, senza un'effettiva programmazione nell'utilizzo di risorse, che restano, per la gran parte, a carico della collettività. Con buona pace per l'autonomia, la libertà e lo stesso sviluppo della ricerca non strumentale. Occorre porsi delle domande di fondo. Lautonomia, al di là della sua garanzia costituzionale (art. 33, ultimo comma) va difesa come strumento che assicura lo sviluppo della ricerca non strumentale? Io credo di sì, che anzi essa debba essere rafforzata non soio nelle università, ma negli Enti di ricerca, a condizione che autonomia significhi piena responsabilità nella gestione delle attività affidate (didattica e ricerca nelle università, ricerca nella seconda rete). L'autonomia è riconosciuta a comunità di studiosi, che devono potersi scegliere liberamente i propri organi di governo (autoamministrazione), dare regole di organizzazione e gestione delle attività di ricerca (autonomia normativa e organizzativa), presiedere in modo trasparente alla riproduzione delle stesse comunità scientifiche (selettività dei processi di cooptazione), individuare oggetti e metodi di ricerca, ma anche strumenti di verifica e valutazione dei risultati. È autonomia funzionale, non politica. Quale deve essere il ruolo dell'indirizzo politico nella ricerca non strumentale? E un argomento tra i più travagliati, ma sembra chiaro che 47


in tutti i Paesi in cui la ricerca vive e si sviluppa, il ruolo degli organi titolari di poteri di indirizzo politico (programmazione o coordinamento) è limitato al finanziamento delle attività, che può condizionare le scelte organizzative e di allocazione delle comunità scientifiche, ma che deve essere assicurato in modo certo e adeguato e assegnato senza vincoli di destinazione. Naturalmente, alla garanzia di finanziamenti pubblici devono corrispondere poteri di verifica, che non dovrebbero riguardare il contenuto dei risultati prodotti, ma almeno la loro effettività e la loro qualità. Per lo svolgimento di questi compiti di valutazione, ad alto contenuto tecnico-scientifico, gli organi politici si devono avvalere di organi rappresentativi della comunità scientifica, meglio se internazionale. L'autonomia è parziale sottrazione all'indirizzo politico. 3) L'autonomia deve essere riconosciuta in modo uguale in tutta la ricerca non strumentale (università e seconda rete)? Anche qui risponderei di sì. Occorre porre fine all'attrazione fin qui esercitata dal modello dell'ente pubblico strumentale sull'assetto organizzativo degli Enti non strumentali. Anche per gli Enti di ricerca, a partire dal CNR, va affermato il principio della elettività delle cariche di governo (a partire dal Presidente). Cosa diversa, invece, per gli Enti di ricerca strumentale per i quali la vigilanza governativa si fa necessariamente più intensa. PUBBLICO/PRIVATO

È stata avanzata anche l'ipotesi di una trasformazione in società per azioni o altre forme privatistiche di Enti pubblici, agenzie, amministrazioni (art. 28 della legge n. 448 del 2001, legge finanziaria per il 2002). Tra gli Enti in tal modo privatizzabili rientrano anche quelli di ricerca, a partire dal CNR. In questo modo il Governo ha a disposizione due strumenti di intervento sulla seconda rete: questa trasformazione, che avverrebbe in via di delegificazione, cioè per regolamento governativo e per la ricordata delega, rinnovata con la legge n.137 del 2002. Si tratterebbe, se si comprende bene, di far percorrere a questi enti lo stesso cammino di privatizzazione compiuto, ad esempio, dagli Enti pubblici economici di gestione dei più rilevanti Servizi pubblici nazionali, Poste e Ferrovie in primo luogo. Inutile ricordare che in questi casi si è trattato di una privatizzazione solo formale e non sostanziale, poiché questi soggetti gestionali restano a totale capitale pubblico. 48


Lipotesi non appare convincente. Proviamo ad esaminarla sotto tre profili: quello delle attività svolte, quello delle modalità di organizzazione delle attività, quello dei rapporti, delicati, tra indirizzo politico (spettante a Parlamento e Governo) e autonomia e indipendenza della scienza. Sotto il profilo delle attività svolte, l'intervento pubblico nell'organizzazione diretta delle attività scientifiche nasce, in Italia come in tutto il mondo sviluppato, dall'insufficiente sviluppo della ricerca. Ciò avviene nelle università, che, essendo molto condizionate dalle esigenze della didattica, sono incapaci di investire risorse in iniziative di largo respiro, di lunga durata e ad alto rischio (soprattutto nei settori più innovativi ed interdisciplinari). Ciò avviene anche nelle imprese, che in Italia in particolar modo, sono troppo di frequente legate al conseguimento di profitti più immediati e strumentali. Gli Enti di ricerca svolgono compiti decisivi per l'avanzamento delle conoscenze (utili anche in termini di sviluppo tecnologico, economico e sociale), che non possono essere confusi con attività di servizio pubblico (come nel caso delle Poste o delle Ferrovie). Ameno di non scegliere consapevolmente la strada della declassificazione della ricerca in mera attività di servizio, di supporto alla ricerca svolta da altri. Anche la promozione della ricerca è compito di grande rilievo svolto oggi dal CNR come secondo necessario sportello di finanziamento (a garanzia della libertà di ricerca). Si tratta di una vera e propria funzione pubblica, di per sé non privatizzabile. A meno di non voler sottrarre definitivamente questo compito al CNR per lasciarlo al solo Ministero. Vediamo ora il secondo profilo, le modalità organizzative. Il CNR, come altri Enti di ricerca (l'INFM, l'INAF, I'INGV), è stato appena riformato, in modo molto radicale, sia con atti legislativi (la legge n. 59 del 1997 e il d.lgs. n.1 9 del 1999), sia con atti normativi di autoriforma adottati nel corso del 2000 dai rinnovati organi di governo. Il processo in atto vede una notevole ristrutturazione della rete degli istituti di ricerca (da 330 a 107), una forte responsabilizzazione, anche per la gestione economica, dei direttori degli Istituti, un'importante semplificazione dell'attività gestionale, secondo modelli di funzionalità largamente ispirati alla gestione dell'impresa. Si comprendono, in questa luce, le perplessità sollevate da un intervento normativo che interverrebbe nel pieno del processo di attuazione della riforma, senza offrire vantaggi aggiuntivi. 49


Se, cioè, si abbandona l'ipotesi diun CNR ridotto a compiti di servizio, ma si mantiene viva la sua attuale missione (svolgimento e promozione della ricerca), appare difficile comprendere cosa cambierebbe in concreto nei suoi modi di funzionamento con la forma giuridica della S.p.A. rispetto all'attuale Ente pubblico "funzionalizzato" (con molti tratti della gestione aziendale). Il terzo punto è, come detto, il più delicato. La ipotizzata privatizzazione degli Enti di ricerca potrebbe essere usato come strumento per far perdere loro l'autonomia oggi garantita (anche se non pienamente) in forma pubblica (dalla legge e dai regolamenti di autoorganizzazione), a favore di un modello (la S.p.A., appunto) di forte subordinazione, in senso strumentale, della ricerca. Il Governo, infatti, in qualità di azionista (totalitario o maggioritario) avrebbe così un potere generalizzato (non solo parziale, come oggi) di nomina degli amministratori della società. Non va dimenticato, peraltro, che si possono avere strutture di ricerca costituite in forma privata, per esempio come associazioni senza fini di lucro, che siano poi finanziate dai poteri pubblici, ma in modo esterno, senza che il finanziamento pubblico si traduca in controllo politico. In questo senso, l'esempio più significativo è sicuramente la società MaxPlanck, finanziata per oltre il 95% con fondi pubblici, ma pienamente autonoma (i suoi organi sono tutti eletti dalla comunità scientifica). CENTRO/PERI FERIA

Nel nuovo Titolo V della Costituzione, modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, troviamo, tra le materie di legislazione concorrente, sia l'istruzione che la ricerca scientifica. Vediamo gli effetti del nuovo riparto di competenze nelle materie che qui ci interessano.

Istruzione Nella materia troviamo due distinte previsioni. Da un lato la riserva allo Stato, come materia di legislazione esclusiva, delle "norme generali sull istruzione ; dall altro la comprensione del! istruzione tra le materie concorrenti. Come spiegare questa doppia previsione, dal momento che 50


le norme generali sull'istruzione sembrano coincidere con i principi fondamentali che nella materia spetta allo Stato di determinare? L'unica spiegazione sta proprio nei diversi effetti, prima indicati, che derivano sui piano dell'esercizio di funzioni amministrative. Se lo Stato si dovesse limitare a determinare i principi fondamentali nella materia non potrebbe riservare a sé compiti amministrativi. La previsione di un potere di fissare le norme generali sull'istruzione tra le materie di legislazione esclusiva consente allo Stato, non solo di adottare leggi generali, ma anche di prevedere funzioni (e apparati) per vigilare sul loro rispetto. Chiariti gli effetti vediamo quali possono essere i contenuti di questo residuo potere uniformante riservato allo Stato nei confronti dell'istruzione che qui ci interessa, quella universitaria. Certamente, sono da comprendere in questo potere la disciplina degli ordinamenti didattici e dei titoli di studio con valore legale che le università sono abilitate a rilasciare. Spetta allo Stato determinare i contenuti minimi dei curricula didattici che le università sono obbligate a rispettare, se intendono conferire titoli di studio con valore legale nazionale (o comunitario nel quadro della relativa disciplina dei riconoscimenti). Contenuti minimi che, peraltro, nulla hanno a che vedere con una dettagliata determinazione degli insegnamenti necessari (secondo il precedente sistema delle tabelle nazionali, oggi sostituito da tabelle non più per insegnamenti, ma per crediti minimi per settore disciplinare il cui effetto uniformante è molto vicino al precedente), né, tanto meno, con l'indicazione dei contenuti specifici o dei metodi di insegnamento (lasciati all'autonomia didattica dei corsi e, soprattutto, alla libertà individuale dei docenti). Spetta, poi, allo Stato fissare norme di garanzia dell'autonomia universitaria, sul versante dell'autonomia normativa e dell'autogoverno delle università. L'autonomia universitaria non è espressamente richiamata dalla nuova norma costituzionale, diversamente da quanto accade per i autonomia delle istituzioni scolastiche", ma è agevole ritenere che il principio non avesse bisogno di un richiamo espresso, dai momento che esso è sancito nella parte prima della Costituzione (art. 33, ultimo comma), mentre quello delle istituzioni scolastiche era stato introdotto solo di recente per via dileggi ordinarie. Così come, nei quadro dell'autonomia, la legge statale deve fissare principi di garanzia della libertà individuale di ricerca e di insegnamento, che potrebbero essere compromessi proprio da un eccessivo uso dei poteri di 51


normazione autonoma (soprattutto in sede di disciplina di dettaglio degli ordinamenti didattici e di programmazione delle attività, ma non solo). Spetta, infine, allo Stato garantire la qualità minima dell'insegnamento e della ricerca in sede di disciplina delle procedure di reclutamento, nonché dello stato giuridico e del trattamento economico dei professori e dei ricercatori universitari, tutti appartenenti, anche se dipendenti dalle rispettive università, ad un'unica comunità scientifica nazionale (o a distinte comunità scientifiche settoriali, ma sempre nazionali). Stretta tra un così ampio potere normativo dello Stato e l'autonomia delle università, quale potrebbe essere il ruolo della legislazione (e dell'amministrazione) delle Regioni? Il campo di sicuro intervento regionale è quello del finanziamento delle università e della programmazione delle sedi (che oggi già avviene a livello regionale, ma come decentramento della programmazione nazionale). Per il finanziamento, l'unico limite sarà "il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario compresa tra le materie concorrenti (e non esclusive dello Stato), con l'effetto (Brancasi) che le scelte sulla distribuzione della pressione tributaria saranno scelte comuni, condivise tra Stato e Regioni, mentre spetta alla legislazione regionale la disciplina dei tributi, non solo regionali, ma anche locali. È ragionevole interpretare la nuova norma costituzionale nel senso che continuerà a spettare allo Stato (in sede di norme generali sull'istruzione) la determinazione dei limiti massimi al prelievo contributivo che le università potranno far gravare sugli studenti, mentre l'attuale fondo nazionale di finanziamento delle università dovrà essere regionalizzato. Anche la programmazione delle sedi diventa campo di scelta regionale, con lo Stato che potrà, al massimo, fissare dei requisiti minimi di qualità per l'attivazione di nuove sedi, al fine di arginare la prevedibile spinta alla proliferazione di sedi universitarie che potrebbe derivare dalla competenza regionale (anche se lo Stato, quando spettava a lui la programmazione, non ha fin qui dato buona prova in questa direzione). In sostanza, il nuovo sistema sembra andare verso un assetto nel quale spetta alle Regioni promuovere la creazione (ma anche procedere alla soppressione) di sedi universitarie e provvedere al loro finanziamento (integrativo di quello derivante dalle entrate proprie - le tasse - delle università), mantenendo eventualmente a proprie spese anche sedi e corsi che non incontrino il favore degli studenti, mentre spetta allo Stato garantire 52


che in ogni parte del sistema universitario così realizzato siano rispettati alcuni requisiti minimi di qualità della ricerca e dell'insegnamento, nonché l'autonomia delle comunità scientifiche che vi si formano e la libertà individuale di ciascuno dei componenti di tali comunità.

Ricerca Scientifica Si possono applicare anche alla ricerca scientifica i criteri di ripartizione delle competenze legislative e delle funzioni amministrative che abbiamo visto per l'istruzione, ma solo in parte. In primo luogo va ricordato che la materia ricerca scientifica è compresa solo tra le materie concorrenti, mentre non vi è nessuna delle materie di legislazione esclusiva che consenta allo Stato quella penetrazione significativa (e il mantenimento di funzioni e apparati amministrativi statali) che abbiamo visto in materia di istruzione. In sede di principi fondamentali della materia, quindi, ben potrà lo Stato garantire l'autonomia (normativa, organizzativa, scientifica) degli Enti di ricerca a carattere non strumentale, così come potrà fissare principi di garanzia della libertà individuale dei ricercatori che vi si trovino ad operare o disciplinare le procedure di reclutamento, lo stato giuridico dei ricercatori al fine di garantire una qualità minima dell'attività di ricerca. Ma ciò che è escluso lo Stato possa fare è di riservare a sé medesimo funzioni amministrative o che possa costituire (o mantenere in vita) degli Enti pubblici di livello nazionale, per di pii sottoposti alla sola vigilanza di un suo ministero. L'effetto principale della regionalizzazione della materia ricerca scientifica è che anche i compiti (di promozione/finanziamento o di svolgimento diretto di attività di ricerca) e i relativi apparati, oggi costituiti dalla rete degli Enti pubblici di ricerca, si devono regionalizzare, nel senso che spetta alle Regioni provvedere alla loro costituzione, alla loro disciplina (nel rispetto dei principi di autonomia e libertà prima richiamati) e alloro finanziamento. Lo Stato ha perduto ogni competenza sugli Enti di ricerca, tanto che il recente rinnovo al Governo della delega già conferita con la legge n. 59 del 1997 (vedi la legge n.137 del 2002) è da considerarsi in aperto contrasto con la Costituzione. Gli effetti della regionalizzazione della materia sono, quindi, ben pRi importanti di quelli ora esaminati per l'istruzione universitaria. Per le università, la cui autonomia resta garantita costituzionalmente, cambia il quadro dei soggetti di riferimento (non più il solo Stato, ma lo Stato e le 53


Regioni, secondo la divisione dei compiti prima indicata), ma non viene posto in discussione lo stesso fondamento costitutivo. Per gli Enti di ricerca, invece, è posta in discussione la loro stessa dimensione nazionale ed è aperta la strada ad un loro superamento per dar luogo a distinti Enti di ricerca regionali (20 Consigli Nazionali delle Ricerche, ad esempio) o, comunque, a distinte strutture di ricerca (istituti, laboratori, ecc.) dipendenti non più dallo Stato o dall'Ente nazionale di ricerca, ma dalla Regione (o dal rispettivo Ente regionale di ricerca). Si tratta di un effetto paradossale, che sembra andare al di là della stessa volontà del legislatore costituente, in una fase di sviluppo della ricerca scientifica nella quale la stessa dimensione nazionale è fortemente in discussione ma verso l'alto, non solo per la naturale dimensione internazionale della comunità scientifica in quasi tutti i settori scientifici (in particolare nelle scienze naturali), ma per l'effetto di spinta verso una dimensione sovranazionale realizzato dalle politiche europee in materia di ricerca scientifica. I fenomeni che abbiamo segnalato, la progressiva penetrazione nel campo della scienza degli interessi di tipo politico, la regio nal izzazione della ricerca scientifica, possono condurre ad una profonda trasformazione, se non ad un vero e proprio stravolgimento dell'assetto istituzionale della ricerca che abbiamo conosciuto fino ad ora. E, quindi, opportuno avviare una riflessione più di fondo sia sulle motivazioni e le spinte che hanno prodotto i fenomeni in atto, sia sui caratteri che, in ogni caso, occorre garantire alle attività di ricerca nel rispetto dei principi costituzionali (art. 33, ma anche art. 9 della Costituzione). A questo fine, appare utile tornare alla distinzione tra le tre diverse aree di ricerca che si sono venute enucleando per il convergere di elementi organizzativi e di esigenze conoscitive e tecniche da soddisfare. Una prima area è quella che potremmo definire della ricerca non strumentale libera (nel senso di non programmata), che coincide quasi totalmente, in Italia e negli altri Paesi sviluppati, con la ricerca universitaria, cioè svolta da professori e ricercatori nelle strutture di ricerca delle università, in stretta connessione con le esigenze dell'insegnamento. Al polo opposto troviamo la ricerca strumentale, quella che i soggetti titolari di funzioni pubbliche organizzano o richiedono per il soddisfacimento di proprie esigenze conoscitive e tecniche, per il migliore esercizio delle funzioni. 54


In una posizione intermedia tra le due si colloca la ricerca non strumentale programmata, che coincide, in Italia e all'estero, con la cosiddetta seconda rete di ricerca, costituita da Enti pubblici o privati a prevalente finanziamento pubblico per lo svolgimento (o la promozione presso le altre aree, in primo luogo quella universitaria) di attività di ricerca non per il soddisfacimento di immediate esigenze conoscitive ma per garantire l'avanzamento stesso delle conoscenze, la ricerca rilevante di per sé. Analizziamo ora distintamente la situazione delle tre aree indicate

Ricerca non strumentale libera È la ricerca che si svolge nelle università. Qui si sono già segnalati i rischi derivanti dalla prevalenza della didattica sulla ricerca. I rischi aumentano in rapporto ai criteri di finanziamento delle università. Tanto più il finanziamento (per trasferimento da parte delle amministrazioni competenti: oggi lo Stato, domani le Regioni; o per riconoscimento di una maggiore autonomia nell'entrata) è legato ai "risultati" della didattica (numero degli iscritti, numero dei laureati, in corso o nel totale) tanto meno saranno finanziate le attività di ricerca. Si pensi solo al potenziale conflitto per le risorse tra le facoltà umanistiche, ricche di studenti, e le facoltà scientifiche, a forte domanda di risorse. In sostanza, la tendenziale prevalenza della didattica nella conformazione delle università rischia di pregiudicare lo sviluppo della ricerca scientifica, e questi tratti rischiano di essere accentuati dalla "regionalizzazione" dell'istruzione, almeno nella misura in cui i poteri regionali di finanziamento fossero esercitati per esaltare, anziché correggere, il potenziale conflitto in atto tra le due funzioni fondamentali delle università, a favore della didattica.

Ricerca strumentale Qui il discorso si presenta, almeno sul piano teorico, più semplice. Le esigenze conoscitive di tipo strumentale delle amministrazioni pubbliche sono da ritenersi un potere implicito, strettamente connesso al conferimento di funzioni amministrative di cura di interessi pubblici. In rapporto alle funzioni di cui è titolare, ciascuna amministrazione, a ciascun livello di governo, può soddisfare in modo autonomo, con le risorse a disposizione, queste esigenze conoscitive, ed è anche libera nella scelta delle 55


soluzioni organizzative piii idonee, che vanno dalla costituzione di uffici interni alla stessa amministrazione, alla costituzione di strutture amministrative ad essa collegate (secondo il modello dell'ente pubblico o dell'agenzia) e da essa vigilate, fino alla semplice adozione di moduli convenzionali per l'affidamento delle attività di ricerca di proprio interesse. Se si guarda alle sole esigenze di ricerca strumentale, quindi, non vi era alcun bisogno di regionalizzare la ricerca scientifica, potendo le Regioni provvedervi autonomamente. Vi è, invece, una diversa lettura possibile della riforma costituzionale nella materia. Che con la comprensione della ricerca scientifica tra le materie di legislazione regionale concorrente si intenda regionalizzare non solo la ricerca strumentale, quanto la stessa ricerca non strumentale (libera o programmata che sia). Cioè che l'obiettivo sia l'utilizzazione a fini conoscitivi strumentali delle strutture di ricerca autonome, universitarie o degli Enti di ricerca. Quasi che la Regione nel cui territorio sia localizzato un Istituto di ricerca sull'atmosfera (?) del CNR (Istituto operante per una dimensione nazionale) possa poi programmarne l'attività per il soddisfacimento delle proprie esigenze di conoscenza in materia, a scapito delle esigenze di altre Regioni o, peggio, delle esigenze di avanzamento non strumentale delle conoscenze in quella materia. Con questo possiamo passare all'esame della terza area.

Ricerca non strumentale programmata Si tratta, lo ricordiamo, della ricerca promossa (finanziata) o direttamente svolta dalla seconda rete, extrauniversitaria, di ricerca pubblica. Si è già segnalato il rischio che sia proprio la ricerca non strumentale programmata quella destinata a patire le principali conseguenze, fino alla pratica scomparsa, per il fenomeno della intromissione politica nella gestione. Oggi, a questo, si aggiunge la regionalizzazione che, intesa come disarticolazione su base regionale dei compiti fin qui svolti a livello nazionale, appare difficilmente comprensibile, sia sul versante della promozione della ricerca (il finanziamento dei progetti si disperderebbe in mille rivoli con enormi problemi di coordinamento), sia sul versante dello svolgimento delle attività.

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UNA RISPOSTA POSSIBILE: GLI ENTI DI RICERCA NON STRUMENTALE COME "AMMINISTRAZIONI REPUBBLICANE"

Come rispondere a questi fenomeni con una soluzione che sia compatibile con la nuova previsione costituzionale e nello stesso tempo salvaguardi la ricerca non strumentale dalle ripetute incursioni della politica in campo scientifico? Se si accantona la risposta apparentemente più semplice, che consiste nel considerare la comprensione della ricerca scientifica tra le materie di legislazione regionale concorrente come un semplice "errore" del costituente, da correggere alla prima occasione utile, per classificarla semmai tra le materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato, si può tentare una strada diversa, ardua ma non impossibile. Si tratta cioè di affermare che, in coerenza con il dettato costituzionale, vi è una ricerca scientifica che si colloca naturalmente nelle università, intimamente connessa all'insegnamento, che può essere tutelata in sede di norme generali sull'istruzione (o di principi fondamentali sull'istruzione e sulla ricerca scientifica) con disposizioni che salvaguardino appieno la ricerca nell'organizzazione delle università, interrompendo l'attuale tendenza alla prevalenza delle esigenze della didattica. Qui la differenziazione della disciplina della ricerca può avvenire in virtù dell'esercizio, da parte delle università, dei poteri di formazione autonoma, sede per sede. Vi, è, poi, una ricerca strumentale che rientra nei poteri che sono conferiti ai diversi livelli di governo. Anche in questo caso la differenziazione avviene non tanto a livello regionale, quanto per ciascuna delle amministrazioni che organizzano o affidano ricerche di tipo strumentale. Vi è, infine, una ricerca che non appartiene a nessun livello di governo, ma è "promossa dalla Repubblica" secondo la previsione dell'art. 9 della Costituzione. La ricerca non strumentale extrauniversitaria potrà essere promossa (finanziata, presso le università o presso le strutture di ricerca privata) o direttamente svolta da Enti pubblici operanti a dimensione nazionale, ma non più vigilati né finanziati dallo Stato, ma dal concorso dello Stato e delle Regioni. Qui in realtà non si riscontrano esigenze di differenziazione della disciplina delle attività di ricerca su base regionale, ma, semmai, in rapporto alle esigenze diversificate dei diversi enti di ricerca. Si tratterebbe, quindi, di costituire, sulla base di accordi con valore di interpretazione delle disposizioni costituzionali sul riparto delle compe57


tenze in materia di ricerca scientifica, degli Enti aventi la natura di "amministrazioni della Repubblica" (non dello Stato, che ha perso il potere di riservare a sé funzioni e apparati nella materia). Tali amministrazioni dovrebbero conciliare le esigenze di programmazione delle attività con quelle dell'autonomia degli scienziati nella gestione delle ricerche. Il loro finanziamento potrebbe essere assicurato in parti uguali dallo Stato e da tutte le Regioni (secondo il modello dei compiti comuni in Germania che non a caso riguardano proprio gli Enti di ricerca, a cominciare dalla Max Planck Gesellschafl) e in rapporto al finanziamento si potrebbe pensare ad un organo misto (ancora a composizione paritetica tra Stato e Regioni) di supervisione e controllo. La progettazione delle attività, dalla costituzione delle strutture fino all'approvazione dei progetti di ricerca dovrebbe, invece, essere lasciata alla piena autonomia della comunità scientifica, sia in generale, sia con riferimento ai settori scientifico-disciplinari interessati dalle attività di ricerca, autonomia che dovrebbe consistere tanto nel pieno autogoverno (con organi di gestione elettivi e non di nomina) quanto nella piena autonomia organizzativa e normativa. Le difficoltà per un simile modello stanno nel fatto che un accordo del tipo indicato non è previsto nell'attuale testo costituzionale, così come del tutto trascurata nel nuovo Titolo V è la materia dei raccordi tra Stato e Autonomie territoriali. Un accordo, un accordo "forte", potrebbe però consentire allo Stato di emanare, senza andare incontro al rischio di conflitti sulla ripartizione delle competenze davanti alla Corte costituzionale, disposizioni di legge, di istituzione degli Enti di ricerca come amministrazioni repubblicane, per le quali ha perso in realtà la competenza (la materia non è di competenza esclusiva dello Stato, né in sede di principi fondamentali si possono creare apparati amministrativi in materie di competenza regionale). Alla legge statale potrebbero poi corrispondere leggi regionali aventi lo stesso contenuto. D'altra parte, se si vuole salvaguardare la dimensione nazionale e repubblicana degli Enti di ricerca, la stessa competenza legislativa regionale si rivela del tutto inadeguata: anche ammesso il concorso unanime di 20 leggi regionali sullo stesso modello organizzativo di gestione di queste funzioni sovraregionali in materia, resterebbe l'impossibilità con la sola legge regionale di imporre comportamenti allo Stato

ffl


La soluzione prospettata avrebbe una ricaduta positiva su entrambe i fenomeni segnalati. Sulla impropria regionalizzazione della ricerca non strumentale, con la creazione, al posto di tanti enti regionali di ricerca, di enti ancora operanti a livello nazionale, ma, comunque, più strettamente legati alle Regioni (e quindi più facilmente portati a svolgere attività di ricerca, sempre non strumentale, ma legate alle esigenze generali dello sviluppo del proprio territorio). Anche l'intromissione della politica nella scienza ne risulterebbe diminuita: l'affermazione che la ricerca non strumentale sia compito della Repubblica e non dello Stato, che tale compito venga svolto sulla base di un accordo di fondo tra i due livelli di governo comporterebbe, come necessario per la salvaguardia dell'autonomia delle situazioni scientifiche, la definizione di indirizzi politici meno penetranti e comunque necessariamente bipartisan (perché formati con il concorso di amministrazioni rette da Governi di diversa maggioranza politica), senza che vi siano spazi per improprie applicazioni del principio dello spoils system, la cui validità, per quanto fortemente opinabile di per sé, non può che restringersi alle amministrazioni sottoposte ad un più stringente indirizzo politico.

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Strategie istituzionali per una centralità della ricerca. Gli interventi possibili a breve e medio termine di Sveva Avveduto, Sergio Bruno, Francesco Merloni

I

l quadro analitico sviluppato negli articoli di Bruno, Avveduto e Merloni, che precedono consente di delineare un possibile canovaccio di proposte. Queste, tuttavia, hanno senso solo all'interno di una cornice di condizioni politiche. Le responsabilità dell'attuale quadro sono mu1tipartisan: sul piano politico investono le azioni pregresse dei Governi di centrosinistra e quelle attuali della presente maggioranza. La possibilità di reagire ha come sua premessa che della responsabilità si investano entrambi i poli. Tali responsabilità investono su altri piani altri soggetti: le comunità scientifiche, gli organi di governo delle strutture di ricerca e di alta formazione, il sistema delle imprese, i sindacati, i soggetti dei governi locali. La possibilità di reagire, sia difensivamente nel breve periodo, sia propositivamente e costruttivamente nel medio-lungo, è condizionata dalla possibilità di far nascere, su questi temi, ampie assunzioni di responsabilità e condivisioni di intenzionalità, a cominciare dalla rinuncia all'applicazione da parte della sfera politica dello spoils system - e più in generale di prassi di ingerenza - alla sfera della politica della conoscenza. Ciò non implica in alcun modo irresponsabilità della sfera della ricerca e impossibilità da parte della sfera politica di attribuire mandati e chiedere risultati alla prima; solo che i mandati devono riguardare essenzialmente il cosa perseguire più che il come farlo, mentre il raggiungimento dei risultati deve essere valutato in un quadro di procedure predefinite. Né implica che in nessun caso la sfera politica non possa designare il top management di strutture di ricerca, ma solo che: a) sia opportuno si astenga dal farlo in tutti quei casi in cui non è strettamente necessario e che, b) in ogni caso, dovendolo fare, la scelta cada su persone che godono di elevata reputazione nella comunità scientifica rilevante; in ogni caso, c) è opportuno che l'influenza sulle nomine non si estenda "giù per li rami".

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RACCORDI E COERENZE TRA AZIONI A BREVE ED AZIONI A MEDIO-LUNGO TERMINE, NONCHÉ TRA AZIONI SU DIVERSI PIANI

La politica della conoscenza deve riflettere la natura di sistema delle attività che è chiamata a regolare. Inoltre, deve riflettere il carattere non solo dinamico ed evolutivo, ma comunque sempre sequenziale, ditali attività. I cambiamenti devono essere netti, ma non improvvisi e inattesi, devono mantenere bilanciamenti tra i diversi elementi, devono evitare discontinuità eccessive. Per fare un esempio, non certo scelto a caso, occorre evitare, per il futuro, che ci si interessi a periodi alterni dell'assetto organizzativo e delle autonomie da un parte e, separatamente e ad anni di distanza, dei problemi di stato giuridico del personale. Gli interventi urgenti non devono porsi in contraddizione con quelli a lungo termine (come invece spesso à stato fatto nel passato), e questo richiede che gli interventi a breve siano messi a fuoco già in un quadro che delinea le prospettive di fondo sulle quali ci si muoverà o, in alternativa, siano i più neutrali possibile.

Le urgenze Sono evidentemente due: la riapertura del reclutamento; il rifinanziamento dell'area della conoscenza, fin da quest'anno, almeno nella misura necessaria a mantenere i trend del recente passato. Entrambe tali indicazioni sono rivolte a contrastare gli effetti perversi e duraturi che vengono provocati da elementi di discontinuità nella vita scientifica. La formazione di futuri ricercatori inizia nei primi anni universitari e dà inizio ad un processo di maturazione progressivo che difficilmente dura meno di cinque anni per arrivare a soglie minime di capacità di elaborazione e di metodo; un periodo nel corso del quale molti di coloro che partono con l'intenzionalità di divenire ricercatori abbandonano - per i motivi più vari - il progetto di divenire tali. Nel corso del processo è cruciale, nella maggior parte delle aree scientifiche e culturali, la presenza di un bilanciamento delle leve in formazione e perfino di docenti e ricercatori di diversa seniority; ciò è richiesto sia da esigenze di organizzazione del lavoro di ricerca sia da regole di addestramento altamente consolidate nel tempo. L'interruzione del flusso è in grado di deteriorare sia la qualità della ricerca che quella del processo di addestramento. Al momento è in atto un duplice fattore di interruzione del processo. 61


Ilprimo è costituito dalla carenza di finanziamenti, che si ripercuote soprattutto sulla indisponibilità di fondi per le spese vive di ricerca (materiale per il lavoro sperimentale, remunerazioni al personale di ricerca e tecnico precario, ecc.). Si fermano così le attività dei laboratori, con queste conseguenze principali: a) si spreca la capacità di lavoro del personale strutturato, appiattendone il ruolo sulla mera didattica prima e ponendo le premesse per deteriorare la qualità della stessa didattica in seguito; b) si pregiudicano le possibilità di futuri finanziamenti da soggetti esterni (che dipendono dai lavori conclusi); c) si forzano i più giovani ricercatori in condizioni precarie e i ricercatori in prima formazione ad abbandonare il mondo della ricerca. Il secondo fattore è costituito dalla debolezza del circuito di reclutamento e dalla mancanza di incentivi ad intraprendere la carriera di ricerca. Scontato il sostanziale blocco del reclutamento nel ruolo dei ricercatori, va anche detto che lo spazio per un reclutamento iniziale basato su contratti appare al momento scarsamente promettente. Ciò per tre ragioni: nella sfera universitaria il meccanismo degli assegni è eccessivamente rigido, mentre il meccanismo dei contratti è scarsamente agibile; il meccanismo dei contratti quale strumento di reclutamento e avvio alla ricerca ha senso nella misura in cui sia associato alla possibilità di una mobilità ascendente. La mancanza di articolazione dei soggetti di ricerca impedisce tale possibilità; il livello retributivo e la mancanza di prospettive di carriera disincentiva la scelta di fare il ricercatore da parte di molti, a meno che non siano "ricchi del loro" o capaci di straordinari sacrifici. Il meccanismo dei contratti si trasforma così in un mero strumento di precariato e mette parzialmente in moto processi di selezione avversa. LINEE ESSENZIALI DI UN QUADRO PROSPETTICO

Sono delineate di seguito un insieme di possibili azioni specifiche per contrastare i pericoli posti da queste urgenze, e più in generale per cominciare a contrastare i processi di deterioramento evidenziati nella parte dedicata all'analisi.

Finanziamenti Occorre: - riportare la spesa reale pubblica per ricerca e università sul trend degli anni Novanta nel 2003; 62


- predisporre un piano quinquennale di azioni e finanziamenti per portare la spesa complessiva per ricerca in rapporto al PIL al livello medio europeo.

Articolazione dei soggetti della sfera della ricerca Anziché accorpare, è opportuno invece articolare di più lo spettro dei soggetti e delle strutture di ricerca: soggetti universitari; soggetti della seconda rete pubblica di ricerca; soggetti (enti) di ricerca strumentali; soggetti della seconda rete di ricerca a mandati, responsabilità e finanziamenti misti (con partecipazione dei soggetti locali, delle aziende, delle fondazioni o loro equivalenti, ecc); soggetti della ricerca privata, aziendali e consortili; strutture per il trasferimento tecnologico e l'assistenza tecnica alle attività produttive. L'articolazione genera e valorizza complementarietà, minimizza i rischi sistemici (diversificazione di portafoglio) e consente recuperi, offre una sponda sensata alla mobilità del personale, favorisce il trasferimento delle idee innovative al mercato attraverso la mobilità dei portatori di conoscenza, aumenta la percettività della sfera del mercato alle opzioni innovative. Il principio della minimizzazione del rischio sistemico porta ad estendere il principio anche alla articolazione dei soggetti di finanziamento della ricerca i Il primo, urgente passo in tale direzione potrebbe essere costituito dalla riattivazione immediata delle funzioni granting del CNR. E opportuno, a tale proposito, usare una parte del ripristino dei finanziamenti per ricostituire fin dal 2003 un fondo presso il CNR riservato a finanziamenti esterni su progetti, sospesi di fatto per effetto dei tagli e delle spese per il personale. Il tema dell'articolazione dei soggetti operativi e dei soggetti finanziatori di ricerca potrebbe trovare nuovo impulso e più condivise radici ove si desse spazio alla proposta sviluppata da Francesco Merloni sulla costituzione di Enti di ricerca aventi la natura di "amministrazioni della Repubblica". Non si tratterebbe, in altri termini, solo di un rimedio contingente ad una (vistosa) svista del legislatore costituente; la risposta suggerita potrebbe, in un clima multipartisan sul tema della ricerca, trasformarsi in un motore di innovazione. In ogni caso, si pongono problemi nuovi per quanto riguarda l'autonomia dei soggetti di ricerca extrauniversitari, in particolare in relazione ai nuovi poteri regionali; occorre, cioè, una legge sui principi fondamentali in materia di ricerca scientifica. La ricerca richiede, comunque, orientamenti strategici e strumenti per la comunicazione e per il trasferimento di conoscenza. Ne consegue una serie di possibili azioni. 63


Coordinamento della politica della ricerca Con il coinvolgimento - per la parte pubblica - di tutti i soggetti di governo rilevanti, nazionali e sub-nazionali, dei protagonisti delle attività economiche, degli stessi soggetti della ricerca. Promozione di strumenti di survey dello stato dell'arte in diversi campi, con cadenza tra i tre e i cinque anni (a seconda del dinamismo e della rilevanza delle aree). Il coordinamento ha, peraltro, come suo presupposto una chiara soluzione del problema dell'autonomia dei soggetti di ricerca rispetto alla sfera politica e, quindi, una chiara statuizione in merito ai poteri di indirizzo politico. Ciò comporta: nel MIUR, l'attivazione immediata degli organi di rappresentanza della comunità scientifica; per gli Enti di ricerca: elettività degli organi di governo scientifico. La presenza di rappresentanti di organi politici (dello Stato e delle Regioni) solo in organi di revisione amministrativa e valutazione dei risultati raggiunti; sistema di finanziamento certo, pluriennale, non vincolato (rivedere il d.lgs. n. 294 del 1998: è nella delega al Governo). Si può pensare di attribuire alla ricerca quote di tributi statali, rendendo così automatico il trasferimento e garantendo autonomia nell'entrata? Costituzione di soggetti e programmi per technology assessment, quale seria premessa all'orientamento di programmi di ricerca applicata e, almeno in parte, di piani di ricerca fondamentale e di formazione che privilegino aree meritone per lo sviluppo e l'innovazione. Promozione del trasferimento tecnologico attraverso la mobilitazione e il coordinamento di soggetti già attivi nel quadro di progetti speciali e, in un secondo momento ed eventualmente, attraverso la creazione di ulteriori soggetti specializzati. Occorre, in particolare, costituire gradualmente soggetti di assistenza tecnica alle innovazioni, poste al servizio prevalente delle piccole e medie imprese (si tenga presente, in proposito, che in Germania, ad esempio, dove il peso delle piccole e medie imprese è minore, questi ultimi soggetti sono dieci volte più numerosi che nel nostro Paese). Promozione della comunicazione scientifica. Sebbene le riviste internazionali costituiscano in molte aree disciplinari lo sbocco da privilegiare, occorre prendere atto di alcuni elementi critici: - le riviste internazionali - statunitensi e inglesi in maggioranza— stanno divenendo sempre più sensibili a pressioni nazionalistiche; è opportuno favorire, con provvedimenti aventi anche contenuto finanziario, la nascita e lo svi64


luppo di riviste internazionali, sempre basate sulla peer review, ma meno country biased; - esistono aree scientifiche e culturali nelle quali la comunicazione non può che avvenire, in misura non trascurabile, mediante la pubblicazione di libri. Il mercato editoriale - occorre prenderne atto - si è (con pochissime eccezioni) dissolto, almeno al di fuori del caso della manualistica, perché lo stato culturale de! Paese è tale da non assicurare volumi di vendita sufficienti a ripagare i costi fissi. La risposta oggi prevalente è costituita dal finanziamento dei libri a carico di una parte dei fondi di ricerca. Senza necessariamente censurare questa strategia, se ne profilano di alternative, quali ad esempio la costituzione di University Press, assoggettate al principio della peer review. Da parte sua la comunità scientifica deve rendersi responsabile nei confronti della società. Devono, quindi, porsi in atto a condizioni generalizzate per la responsabilità e il controllo delle attività nella sfera della conoscenza (ricerca e formazione). Tale assunzione di responsabilità può essere basata su principi quali: - esistenza di risultati e loro rendicontazione, - qualità dei processi e dei risultati, - autonomia nella gestione dei processi e nella decisione sugli strumenti, ivi compresi meccanismi di incentivazione, - estensione dei regimi di auto respo nsabilizzazione e incentivazione via cofinanziamento. Le azioni più importanti e urgenti (a prescindere dalla questione del finanziamento) riguardano la risorsa umana. Riapertura del reclutamento, sua estensione e incentivazione incentivazione della mobilità; programmazione delle politiche di formazione alla ricerca. Appare opportuno: - usare una parte del ripristino dei finanziamenti per incentivare il reclutamento mediante contratti, prevedendo un fondo che assuma il 70% del costo dei contratti per il periodo 2003-2006, per tutti i soggetti organizzativi e strutture di ricerca; - creare condizioni normative per la massima mobilità del personale di ricercatore, universitario e non, entro quadri di regimi contrattuali trasparenti, sia tra istituzioni e strutture che nei rapporti tra questi e personale di ricerca e formazione; - costituire, per le sole università, un fondo analogo (70% per quattro an65


ni) per l'assunzione di ricercatori e uno, sia pure di intensità e durata minori (50% per due anni) per chiamate di professori esterni all'ateneo chiamante; - rimuovere, a partire dal 2003, gli attuali vincoli normativi riguardanti la stipulazione di contratti, la cui causa sia costituita da attività di ricerca per qualsiasi soggetto pubblico abbia funzioni di ricerca e per i soggetti di natura pubblica che, pur non avendo compiti di studio o ricerca, abbiano strutture di studio o ricerca formalmente costituite e organizzate; - prevedere condizioni di remunerazione migliori, in ogni caso variabili in funzione del curriculum di sequenze contrattuali del o della contrattista, dei titoli e, possibilmente, delle condizioni di concorrenza sul mercato del lavoro nell'area specifica; - bilanciare il personale tenurede quello a contratto, aumentando al contempo la selettività nei concorsi per posti tenured. La politica delle remunerazioni deve essere in parte differenziata e basata su criteri di incentivazione e, comunque, commisurata ai carichi, alle assunzioni di responsabilità, ai risultati. Sull'ultimo punto è opportuno essere più espliciti. Si tratta di passare ad un sistema, per la docenza, in cui: rendere molto più selettivo l'accesso al livello più elevato (concorso nazionale di idoneità, con prove); premiare, in termini di retribuzione, i ricercatori ed i professori che dedichino tempo alla ricerca nell'università (predisposizione di progetti, coordinamento delle attività, attività di ricerca diretta); individuare per ciascun raggruppamento disciplinare il professore che svolga il compito di coordinatore effettivo delle ricerche di quel settore. Come evidenziato dall'articolo di Francesco Merloni, peraltro, la recente riforma costituzionale pone rischi nuovi sul piano dei poteri regionali. Occorre, quindi fare, norme generali sull'istruzione universitaria non solo al fine di bloccare il declassamento dei compiti di ricerca rispetto a quelli didattici, ma anche per garantire l'autonomia delle università verso le Regioni. Non bisogna trascurare i tempi lunghi e i vincoli di qualità che attengono la formazione di qualità e di alto livello. Atale fine occorre: - rimuovere i vincoli posti agli atenei in materia di progettazione e gestione delle lauree di secondo livello, previo cambiamento degli attuali orientamenti rivolti a scoraggiare la prosecuzione verso la laurea di secondo livello, e ammettendo che gli atenei possano offrire corsi di laurea di secondo livello impiantati su corsi quinquennali; 66


- promuovere una formazione più estesa di dottori di ricerca. Questa formazione, insieme al salvataggio prima e al rilancio poi della ricerca pubblica, è solo una condizione necessaria ma non sufficiente per quanto riguarda la possibilità che si sviluppi la ricerca e l'innovatività nelle attività economiche di mercato. La maggior parte delle imprese italiane, a differenza di quelle dei Paesi europei e nord-americani, hanno un atteggiamento passivo nei confronti del perseguimento della costruzione di innovazioni (da non confondere con la adozione di innovazioni) ed un atteggiamento addirittura ostile all'assorbimento di personale ad elevata qualità scientifica. Tali atteggiamenti vanno rimossi attraverso azioni positive. Quelle disegnate in precedenza, in particolare quelle dirette alla costituzione di centri di assistenza all'innovazione, e quelle sulla contrattualistica di ricerca e gli incentivi alla mobilità difficilmente possono essere considerati sufficienti. Occorrono politiche fiscali forzanti - via crediti di imposta simili a quelli usati per favorire gli investimenti - a favore della costituzione, presso le imprese, singolarmente o su basi consortili, di centri di ricerca strutturalmente e formalmente organizzati, nonché politiche (simili a quelle sperimentate in passato da altri Paesi) che consentano alle imprese di scoprire, sperimentalmente, quanto sia redditizio alla lunga disporre di personale ad elevata qualificazione.

67



La valutazione della ricerca: metodologie ed esperienze di Giorgio Sirilli

La prima valutazione

Il primo giorno Dio creò il cielo e la terra. E Dio vide tutto quello che aveva fatto. "Guarda "disse Dio "è veramente molto buono ' E venne sera, epoi mattina: era il sesto giorno. Ed il settimo giorno Dio si rzposò dopo il Suo lavoro. Venne quindi da Lui il Suo arcangelo che Gli chiese: 'Dio, come fai a sapere che quello che hai creato è 'veramente molto buono? Quali sono i Tuoi criteri? Su quali dati basi la Tua valutazione? Non sei Tu forse un p0 ' troppo direttamente coinvolto per dare un giudizio spassionato?" Dio rzfletté su queste domande per tutto il settimo giorno, ed il Suo riposo fu molto turbato. L 'ottavo giorno Dio disse: "Lucfiro, va' all'inferno ' (EUROPEAJV

CoMMissioN,

1997)

J

i presente articolo tratta della valutazione della ricerca scientifica e tecnologica sotto il profilo delle metodologie utilizzate. Illustra inoltre alcune esperienze di valutazione in Italia ed a livello europeo. Nel primo paragrafo viene affrontato il tema della valutazione sotto il profilo concettuale e definitorio. Nel secondo, vengono illustrate le metodologie di valutazione più frequentemente impiegate a livello europeo, con particolare riferimento agli indicatori della scienza e della tecnologia sviluppati in sede OCSE ed EUROSTAT; viene, infine, trattato il problema della misura del personale di ricerca che dedica a tale attività soltanto parte del proprio tempo lavorativo. Nel terzo paragrafo sono discusse tre esperienze: la valutazione delle attività di promozione della ricerca al CNR effettuata dai Comitati nazionali di consulenza e dalle direzioni dei Progetti finalizzati all'inizio degli anni Novanta; la valutazione delle Università italiane e delle loro Facoltà effettuata da CEN5Is-Repubblica; l'iniziativa di benchmarking delle politiche scientifiche e tecnologiche dei Paesi europei intrapresa dalla Commissione europea nel quadro della costruzione dell'Area della Ricerca Europea. LAurore è Dirigente di ricerca del

CNR;

docente di Economia e gestione della ricerca e dell'innovazione. 69


LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA

La valutazione può essere definita come un processo oggettivo mirato all'analisi critica della rilevanza, dell'efficienza e dell'efficacia di politiche, programmi, progetti, gruppi ed istituzioni nel perseguire gli obiettivi prefissati. Si tratta di un complesso di attività coordinate, di carattere comparativo, basate su metodi e tecniche formalizzate e realizzata attraverso procedure codificabili, volte ad esprimere un giudizio su interventi intenzionali rispetto alloro svolgimento ed agli effetti generati. La valutazione consiste in un approccio eminentemente guidato dalla pratica, che genera informazioni destinate ad alimentare il processo di presa delle decisioni. Essa è nata come tecnica di ottimizzazione del comportamento degli operatori e come strumento di trasparenza nell'impiego delle risorse. La valutazione deve essere percepita come parte di un continuo processo di apprendimento istituzionale che, nel sottolineare i concetti di trasparenza e di responsabilità dell'operatore pubblico di fronte ai cittadini (accountability), contribuisce a fornire una giustificazione dell'intervento pubblico. I vari tipi di valutazione che possono essere condotti durante il ciclo di intervento pubblico includono: - la valutazione ex-ante o di pianificazione, che riguarda la progettazione dell'intervento, la definizione degli obiettivi del progetto e come questi debbano essere conseguiti; - il monitoraggio, che riguarda la raccolta e l'analisi di informazioni circa l'attuazione dell'intervento. Viene usato per valutare la quantità, la qualità e la tempestività degli input, fornendo un continuo flusso di informazioni sull'attuazione dell'intervento; - la valutazione intermedia, che riguarda la verifica dei progressi conseguiti nell'attuazione della politica; - la valutazione ex-post, che riguarda la misurazione degli effetti dell'intervento. La valutazione fornisce informazioni sui cambiamenti delle condizioni e dei comportamenti dei gruppi o degli individui oggetto dell'intervento. I risultati vanno usati per migliorare la progettazione e l'attuazione di successivi interventi. La definizione sopra riportata ha valenza generale nel campo dell'intervento pubblico; essa, tuttavia, ben si adatta al caso specifico della valutazione della ricerca, ovviamente con le dovute specificazioni e con i necessari adattamenti richiesti dal caso. 70


ALCUNE QUESTIONI METODOLOGICHE

La valutazione nel campo della scienza e della tecnologia A livello europeo si è affermata ormai da anni la pratica della valutazione della ricerca, intesa come insieme di attività che riguardano la ricerca, lo sviluppo, la dimostrazione nelle sue dimensioni di programma e di progetto, nonché di politiche messe in atto nei singoli Paesi e a livello di Commissione europea. In una recente pubblicazione sull'argomento (IPTs-JoNEuM RESEARCH, 2002) vengono illustrate le varie famiglie di metodologie impiegate nel corso degli anni più recenti, e vengono forniti elementi pratici per come usarle al meglio nei singoli e specifici contesti (Tabella 1). Le metodologie sopra ricordate hanno consentito di far avanzare la cultura della valutazione; gli studi sulla valutazione hanno contribuito ad una più profonda comprensione degli esiti e dell'impatto di attività ad alto rischio come la ReS e, di conseguenza, ne hanno favorito la legittimazione agli occhi dei cittadini e dei loro rappresentanti politici. Tabella i - Metodologie per la valutazione della ricerca, dello sviluppo e della tecnologia Metodologia

Tipo/Uso

Dati richiesti

Indagini sull'innovazione tecnologica Metodi micro

Semi-quantitativo. Quantitativo

Dati micro, spese, profitti, brevetti, innovazione Dati micro, spese, profitti, brevetti ReS, spese, output della ReS, dati macroeconomici Dati micro, spese, profitti, ReS, brevetti Dati micro, spese, profitti, brevetti

Monito raggio, Ex-post Dati categoriali quantitativi e qualitativi

Monito raggio, Ex-post Metodi macro

Modelli quantitativi

Studi sulla produttività

Modelli quantitativi

Ex-ante, Monito raggio, Ex-pose Monito raggio. Ex-post Approcci con gruppi di controllo

Quantitativi

Analisi costi-benefici

Quantitativi (con elementi qualitativi)

Ex-post Ex-ante (specialmente), Monitoraggio. Ex-post Commissioni di esperti! Valutazione dei pari Studi di caso

Dati micro, stime dei profitti e costi

Qualitativi, semi-quantitativi

Ex-ante, Moniroraggio, Ex-pose

Dati del progetto/programma

Qualitativi, semi-quantitativi

Monito raggio, Ex-pose Analisi delle reti

Qual itativi, semi-quantitativi

Foresight/Technology assessment

Qualitativi, semi-quantitativi

Benchmarking

Semi-quantitativi

Ex-post Ex-ante, Moniroraggio Ex-post, Monito raggio

Dati del progetto/programma Dati del progetto/programma Dati qualitativi, scenari Indicatori della SeT

71


Indicatori e modelli della scienza e della tecnologia Gli avanzamenti nelle conoscenze scientifiche e tecnologiche degli ultimi decenni hanno trasformato completamente il panorama delle società e delle economie nazionali, come pure le strategie dei governi e delle imprese. Allo stesso tempo, i Paesi sono sempre più sospinti verso un processo di globalizzazione attraverso il flusso, a livello internazionale, di persone, di idee, di beni e servizi, di investimenti (ARCHIBUGI, LUNDVALL, 2001). La capacità di creare, distribuire e sfruttare le conoscenze scientifiche, tecnologiche, organizzative, diventa sempre più importante ed è spesso considerata come il fattore chiave per lo sviluppo dell'economia e per il miglioramento della qualità della vita dei cittadini. La competitività delle imprese dipende in maniera crescente dalla loro capacità di utilizzare il proprio capitale immateriale, che si sostanzia nelle competenze professionali e nella creatività dei propri dipendenti, come pure dalla capacità di acquisire nuove competenze cooperando con altre imprese, istituzioni pubbliche di ricerca ed università. Ai vari livelli decisionali, di singola impresa, di governo nazionale, di istituzione internazionale, si richiede dunque di elaborare strategie, sviluppare politiche e di valutare gli effetti delle azioni intraprese. Nel campo della scienza, della tecnologia, dell'innovazione e, più in generale, della produzione e dell'utilizzo delle conoscenze, tale processo di valutazione strategica si avvale dell'uso di indicatori. Il concetto stesso di indicatore va inserito nell'ambito della teoria della misurazione dei fenomeni umani, sociali e fisici (KULA, 1986; SIRILLI, 2000). Alcune grandezze sono facilmente misurabili - per esempio la massa o la velocità degli oggetti; per altri fenomeni, al contrario, la misurazione è molto più difficile o, addirittura, impossibile - per esempio la qualità della vita, gli scambi di conoscenze, l'innovazione. Gli indicatori della scienza e della tecnologia possono essere definiti come statistiche che misurano aspetti quantificabili della creazione, della disseminazione, dell'applicazione e dell'impatto della scienza e della tecnologia. In quanto indicatori, essi consentono di descrivere il sistema scientifico e tecnologico analizzandone la struttura, nonché di valutare l'effetto delle politiche e dei programmi sul sistema scientifico stesso e l'impatto della scienza e della tecnologia sulla società e l'economia. Una delle caratteristiche essenziali degli indicatori è quella di fornire elementi che consentano di anticipare gli esiti futuri delle scelte operate. 72


I dati statistici rappresentano l'elemento di base (gli atomi) con cui si costruiscono gli indicatori (le molecole); le domande a cui questi ultimi devono dare una risposta riguardano, dunque, gli aspetti di problematiche più generali che possono essere trattati impiegando tecniche quantitative (OECD, 1992). Gli indicatori, per definizione, illustrano un particolare aspetto di una realtà complessa e multiforme, e rappresentano misurazioni spesso soltanto indirette di fenomeni altrimenti non quantificabili. È, quindi, necessario disporre di un modello esplicito che descriva sia il sistema scientifico e tecnologico, sia come questo si rapporta al resto della società. Tale modello ideale permetterebbe di stabilire il significato di ciascun indicatore e di correlare fra loro i vari indicatori. In pratica, allo stato attuale non si dispone di modelli espliciti capaci di stabilire relazioni causali tra scienza, tecnologia, economia, società; di norma ci si rifii a schemi concettuali impliciti o parziali come i modelli sui legame tra attività innovative ed economia (GAVIGAN ET AL., 2001). Il fatto che ormai da circa quaranta anni si proceda a raccogliere informazioni statistiche sui vari aspetti delle attività inventive ed innovative testimonia, da un lato, l'interesse della comunità scientifica e di coloro che prendono le decisioni per gli indicatori; dall altro, i esistenza di teorie, almeno implicite, che in definitiva orientano l'operatore nella scelta e nell analisi di alcuni dati, nel rigetto di altri, nell individuazione dell esigenza di ulteriori elementi conoscitivi. I dati statistici, se presi singolarmente, non sono sufficienti a descrivere compiutamente i vari aspetti della scienza e della tecnologia, ma, se analizzati congiuntamente, come indicatori multipli di uno stesso fenomeno, permettono di acquisire una più profonda ed articolata conoscenza. Va sottolineato infine che, a livello di politica scientifica e di elaborazione di strategie a livello aziendale, gli indicatori della scienza e della tecnologia devono essere intesi come un utile supporto di conoscenza che non può sostituirsi, ma deve integrarsi, con elementi di valutazione soggettiva e con la capacità di scelta di coloro che prendono le decisioni. Poiché gli indicatori rappresentano misurazioni incomplete ed imperfette, si fa spesso ricorso all'analisi della loro "convergenza parziale" per caratterizzare parti del sistema scientifico e tecnologico. Per esempio, nel comparare istituzioni scientifiche similari, vengono analizzati i finanziamenti, il personale, la produzione scientifica, il giudizio dei pari sulla qualità scientifica, l'analisi bibliometrica, ecc. L'analisi può condurre ad 73


una convergenza dei vari indicatori nell'identificare una situazione di eccellenza o di debolezza; in tal caso, l'uso degli indicatori ha un particolare valore nella formulazione della valutazione. Al contrario, laddove gli andamenti dei singoli indicatori non convergano, per cui le varie entità sotto esame presentano simultaneamente aspetti di forza e di debolezza in maniera non sistematica, l'analisi risulta inconclusiva, per cui gli elementi quantitativi non sono in grado di suggerire se sia necessario intraprendere azioni correttive, ed, eventualmente, quali. Lo sviluppo degli indicatori della scienza e della tecnologia è avvenuto, nel corso dei decenni passati, prevalentemente per iniziativa dei governi nazionali, sotto la spinta della necessità di comparare i propri livelli innovativi e di elaborare strategie di competizione e di coordinamento rispetto agli altri Paesi. Le organizzazioni internazionali più attive nel settore sono state l'Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OcsE) con il Gruppo di Esperti Nazionali degli Indicatori della Scienza e della Tecnologia (NEsTI), l'Ufficio Statistico delle Comunità Europee (EUROSTAT) e l'UNEsco. Le pubblicazioni che ormai da molti anni vengono curate da organismi nazionali ed internazionali utilizzano indicatori basati su dati provenienti da due tipi di fonti statistiche: da un lato, le indagini condotte ad hoc e, dall'altro, basi di dati costruite per motivi amministrativi, contabili, gestionali, scientifici, commerciali. Lo sforzo metodologico delle organizzazioni internazionali, in particolare dell' OCSE, è stato rivolto alla standardizzazione delle metodologie e della raccolta dei dati, così da garantire la comparabilità internazionale degli indicatori della scienza e della tecnologia. A tal fine sono stati predisposti alcuni manuali in cui vengono descritte le procedure standardizzate per la raccolta e per l'analisi dei dati disponibili (EUROSTAT, 1995; OECD, 1990; OECD, 1993; OECD, 2001; OECD, 2002; OECD-EUR0STAT, 1994; OECD-EUROSTAT, 1997) (Tabella 2) Al di là degli indicatori elaborati sulla base delle linee-guida contenute nei manuali sopra citati, si dispone di vari altri indicatori, per i quali non è stata messa a punto una metodologia condivisa a livello internazionale ma che, tuttavia, sono considerati di qualità adeguata per descrivere i vari aspetti dei fenomeni oggetto di analisi. Gli indicatori della scienza e della tecnologia vengono classificati in vari modi. Una prima classificazione è legata ad una logica di input/output e prevede indicatori di risorse utilizzate, di risultati conseguiti, di impatto. 74


Tabella 2 - Manuali per la raccolta e l'utilizzo di dati sulla scienza e la tecnologia Manuale

Oggetto

Fonte dei dati

Fonte

Anno di adozione

Frascati

Ricerca e sviluppo (ReS)

Indagine adhoc

OCSE

1963 (rev. I) 2002 (rev. 5)

Oslo

Innovazione tecnologica

Indagine adhoc

Risorse umane per la SeT

Basi dati esistenti e indagini adhoc

Ocse

EUROSTAT

1994

Brevetti

Uso dei brevetti

Basi dati esistenti

Ocse

1993

Bilancia tecnologica dei pagamenti

Bilancia tecnologica dei pagamenti

Basi dati esistenti

OCSE

1990

Regionalizzazione della ReS

Ricerca e sviluppo (ReS) e innovazione tecnologica

Indagini adhoc

EUROSTAT

1995

Globalizzazione economica

ReS, brevetti, bilancia tecnologica dei pagamenti, accordi tra imprese, alta tecnologia

Indagine adhoc e basi dati esistenti

OCSE

2001

Canberra

OCSE

-

EUROSTAT

1996

-

Una seconda classificazione, legata al loro grado di elaborazione, raggruppa gli indicatori in tre tipologie: - indicatori semplici, calcolati come combinazioni di serie statistiche, come l'intensità di ReS (per esempio la spesa per ReS in percentuale del prodotto interno lordo; il numero di ricercatori rapportato alle forze di lavoro); - "grappoli" di indicatori, analizzati in maniera congiunta, possibilmente utilizzando qualche sistema di ponderazione relativa, ma in assenza di un modello che li colleghi tra loro. Per esempio, se un gruppo di indicatori relativi ad un Paese mostra un andamento in crescita, si può arguire che le sue prestazioni vadano migliorando. Questo è il concetto di indicatori convergenti/divergenti; - indicatori complessi, risultanti da analisi basate su un particolare modello del sistema socio-economico. Un esempio è il calcolo della produttività totale dei fattori, che viene effettuato nel quadro di un particolare modello di funzione di produzione e che, tuttavia, è soggetto a notevoli critiche metodologiche (le ipotesi del modello neoclassico di riferimento 75


sono molto lontane da quelle di altri approcci, di tipo più olistico, usati nello studio del legame tra crescita economica e tecnologia). Nel corso degli anni si è assistito ad un continuo allargarsi della prospettiva di indagine nel campo della politica scientifica e della valutazione della ricerca: dall'analisi dei processi di ricerca e sviluppo a livello di impresa e di operatore pubblico, alla necessità di indagare il rapporto sempre più stretto tra scienza, tecnologia, economia, società. Ciò ha condotto ad un aumento geometrico del numero di indicatori sulla scienza e la tecnologia utilizzati (Tabella 3). Dopo gli studi pionieristici degli anni Cinquanta, l'analisi quantitativa del sistema scientifico e tecnologico si è avviata all'inizio degli anni Sessanta con l'adozione, nel 1963, da parte del Gruppo di Esperti sugli Indicatori della Scienza e della Tecnologia (NEsTI) dell'OCsE, del Manuale di Frascati dell'OCsE sulla misurazione della ReS. Le statistiche sulla spesa e sul personale di ReS davano una risposta soddisfacente alle domande poste da una visione dei processi innovativi di tipo lineare (dalla ricerca allo sviluppo, alla progettazione di prodotti e processi, alla produzione, alla vendita). Va, tuttavia, sottolineato che gli autori del primo Manuale di Frascati avevano ben chiaramente messo in evidenza come i processi inventivi, innovativi e conoscitivi vadano ben al di là della mera ricerca scientifica e tecnologica. Negli anni Settanta, all'affinamento delle metodologie di rilevazione ed al miglioramento della qualità dei dati sulla ReS, si è accompagnata l'adozione a livello internazionale di due indicatori: le statistiche sui brevetti e quelle sulla bilancia tecnologica dei pagamenti. I dati di base provenivano da informazioni raccolte per fini amministrativi e non da indagini ad hoc. Il decennio degli anni Ottanta si è aperto con la Conferenza dell'OCsE sui nuovi indicatori, che ha rappresentato un decisivo momento di riflessione sull'utilizzo degli indicatori esistenti e sulla possibilità di costruirne di nuovi sulla base di dati amministrativi o di indagini ad hoc. Si sono, dunque, aggiunti alla lista i seguenti indicatori: l'analisi delle industrie e del commercio di prodotti a vari livelli di intensità tecnologica (alta, media, bassa), la bibliometria, le risorse umane al di là di quelle dedicate alla ReS, le prime indagini esplorative sull' innovazione nell' industria manifatturiera. In particolare, nella concettualizzazione di queste ultime si è passati da una visione lineare del processo innovativo ad una che prevede interazioni e retroazioni tra le sue varie fasi. 76


Tabella 3 - La crescita esponenziale degli indicatori della scienza e della tecnologia dal dopoguerra ad oggi

Indicatori, teorie, esperti

anni '50 e 60

anni '70

anni '80

anni '90- terzo millennio

Principali indicatori

ReS

ReS

ReS

ReS

Brevetti

Brevetti

Brevetti

Bilancia tecnologica dei pagamenti

Bilancia tecnologica dei pagamenti

Bilancia tecnologica dei pagamenti

Prodotti ad alta tecnologia

Prodotti ad alta tecnologia

utilizzati

Bibliometria

Bibliometria

Risorse umane

Risorse umane

Indagini sulla innovazione

Indagini sulla innovazione Innovazioni riportate nella letteratura tecnica Indagini sulle tecnologie produttive Sostegno pubblico alle tecnologie industriali Investimento immateriale Indicatori sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione Matrici input-output * Produttiviti * Capitale di rischio * Fusioni e acquisizioni *

Concettualizzazione del

Lineare

A catena

Sistemico

processo innovativo Ruolo degli esperti

Fomitori di

Fomitori di dati,

nel settore degli

dati e di

metodologie, analisi;

indicatori della SeT

metodologie

integratori di vari tipi di indicatori, sia della SeT che economici e sociali

* Indicatori mutilati dall'analisi economica.

Gli anni Novanta hanno fatto registrare un'espansione esponenziale del numero di indicatori utilizzati per caratterizzare i processi innovativi, visti nel quadro sistemico dell'economia della conoscenza. I nuovi indicatori hanno riguardato: l'analisi delle innovazioni riportate nella letteratura tecnica, le tecnologie produttive, il sostegno pubblico all'innovazione tecnologica delle imprese (finanziamenti diretti e indiretti, commesse pubbliche, accesso alle strutture tecniche pubbliche), l'investimento immateriale (ReS, software, formazione), gli indicatori sulle tecnologie dell'informazione e la comunicazione, i dati relativi ad una serie di dimensioni tradizionalmente appartenenti all'analisi economica (contrassegnati nella Tabella 3 con un asterisco), ma legati strettamente alle performace tecno77


logiche, quali i'uso delle matrici input-output per valutare la diffusione della tecnologia nel tessuto economico, la produttività, il capitale di rischio, le fusioni e le acquisizioni tra imprese. Nell'arco del quarantennio in esame anche il ruolo degli esperti sugli indicatori della scienza e della tecnologia si è trasformato radicalmente: mentre nel primo periodo l'enfasi era posta sulla predisposizione di metodologie statistiche e sulla fornitura di dati comparabili (di qui il ruolo chiave giocato dagli uffici statistici dei vari Paesi), nei decenni più recenti si è andata accentuando la funzione di predisposizione di indicatori e di analisi, nonché di integrazione, degli indicatori scientifici e tecnologici con quelli appartenenti ad aree tradizionalmente non ritenute direttamente collegate con la scienza, la tecnologia e l'innovazione, quali le risorse umane, l'informazione e la comunicazione, la struttura produttiva ed economica. Nel periodo più recente gli esperti hanno dunque progressivamente svolto sia la funzione di utilizzatori degli indicatori da essi stessi prodotti, sia di mediatori tra le esigenze sempre più variegate degli utilizzatori (analisti e decisori) e quelle dei produttori di statistiche sui vari aspetti dell'economia e della società. L'analisi del quadro teorico e dei principali indicatori della scienza e della tecnologia attualmente in uso permette di individuare alcune ipotesi di tendenza e possibili sviluppi negli anni futuri (STRILLI, 2002). La scienza e la tecnologia vengono ormai analizzate in un contesto decisamente più ampio che nel passato. Gli studiosi e coloro che prendono le decisioni sono interessati a comprendere il rapporto che intercorre tra scienza e tecnologia da un lato, e sviluppo economico, occupazione, ambiente, organizzazione produttiva e sociale, educazione, assetti istituzionali del sistema, dall'altro (OECD, 1996). È necessario, dunque, sviluppare teorie capaci non solo di spiegare il funzionamento di sistemi sempre più complessi, ma che siano anche verificabili attraverso una misurazione statistica. Negli anni più recenti le aziende sono state sottoposte ad una crescente richiesta di dati statistici, a cui hanno risposto con una certa riluttanza; di fronte a tale problema le agenzie statistiche sono impegnate a ridurre la "molestia statistica" riducendo al massimo l'onere per i rispondenti e a restituire ai fornitori dati statistici in forma aggregata. Circa le fonti dei dati utilizzate per costruire gli indicatori della scienza e della tecnologia, si può prevedere che nel futuro la quota di basi dati elaborate sulla base di informazioni raccolte per fini amministrativi (brevetti, pubblicazioni scientifiche, commercio estero, bilancia tecnologica 78


dei pagamenti, uso dei servizi di reti telematiche, ecc.) tenderà ad aumentare rispetto a quella relativa alle indagini ad hoc (R&s, innovazione). Parallelamente, il ruolo dei produttori commerciali di dati sulla scienza e la tecnologia tenderà a crescere con ancor più vigore negli anni a venire. Già da alcuni anni, la capacità di gestire in forma elettronica e telematica i dati statistici permette di collegare basi dati provenienti da fonti diverse ma riferentisi alla stessa organizzazione, consentendo di svolgere analisi in cui vengono messi in correlazione fattori economici, tecnologici, territoriali, strutturali. Ciò da un lato consente analisi estremamente più ricche che nel passato, ma, dall'altro, può andare incontro a limitazioni legate alla tutela della privacy. Le metodologie sviluppate nei Paesi OCSE sono diventate di fatto lo standard per tutti gli altri Paesi. Ciò pone agli operatori del settore della scienza e della tecnologia ulteriori sfide: da un lato, i dati possono essere comparati tra quasi tutti i Paesi del mondo; dall'altro, le differenze nei livelli di sviluppo economico rendono le ipotesi di coeteris paribus della misurazione meno plausibili e, quindi, il quadro teorico-interpretativo ancora più complesso. Le due principali organizzazioni internazionali nel campo degli indicatori della S&T sono l'OcsE (OECD, 2001) e 1'EUROSTAT (EUROSTAT, 2001a; 2001 b). La prima organizzazione ha tradizionalmente una specializzazione nel campo delle metodologie e della costruzione e l'analisi degli indicatori, mentre la seconda nel campo della raccolta dei dati armonizzati. Nel recente passato i ruoli si sono modificati nel senso di un più stretto coordinamento tra le due organizzazioni, al fine di evitare duplicazioni, e di un maggiore attivismo da parte dell' EUROSTAT, specialmente per quanto riguarda le indagini sull'innovazione tecnologica (Community Innovation Survey - Cis) e le risorse umane per la S&T. Gli esperti di indicatori hanno di fronte un compito particolarmente impegnativo: vi è un intero insieme di problematiche che deve ancora essere adeguatamente definito, per il quale sono state svolte analisi sperimentali: la misurazione dell'innovazione nel settore dei servizi, l'innovazione organizzativa, le varie dimensioni delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nel quadro dell'economia della conoscenza, le biotecnologie, l'innovazione nel campo ambientale ed in altre aree socialmente rilevanti quali l'occupazione, le caratteristiche ed il funzionamento dei sistemi nazionali e locali di innovazione. Un'ulteriore sfida per i produttori di indicatori è costituita dal tempo necessario per realizzare nuovi indicatori. Di norma passano vari anni tra 79


l'identificazione della necessità di un nuovo indicatore e la disponibilità dei dati comparabili a livello internazionale. qiò rende ancor più cruciale l'abilità di identificare con congruo anticipo le necessità degli utenti e di costruire un modello "robusto" di misurazione capace di ricomprendere in maniera coerente un insieme dinamico di obiettivi. All'opposto, talvolta si fa ricorso a dati facilmente disponibili per dare risposte a problemi urgenti, senza che tali dati abbiano le caratteristiche di indicatori dei fenomeni che si cerca di comprendere e gestire. In tal caso, la scarsa trasparenza del dato può condurre ad interpretazioni del tutto discutibili. D'altra parte, fenomeni quali quelli legati alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione evolvono con una velocità talmente elevata da richiedere la ricerca di un difficile punto di equilibrio tra la tempestività e la qualità dei dati. Infine, va riconosciuto come la capacità dell'Italia nella raccolta e nell'analisi degli indicatori della S&T sia tra le più avanzate (IsTAT, 1999; 2001); allo stesso tempo, nel nostro Paese è necessario procedere decisamente nella diffusione della cultura degli indicatori e della valutazione tra gli analisti ed i decisori, così che lo strumento quantitativo venga utilizzato nella maniera più appropriata, come supporto di conoscenza armoniosamente integrato nel più ampio processo di presa delle decisioni.

Un problema aperto: la valutazione quantitativa delle risorse umane per la scienza e la tecnologia Uno dei temi che si è imposto negli ultimi anni all'attenzione degli studiosi e dei decisori politici è quello delle risorse umane impiegate nella scienza e nella tecnologia. In molti Paesi ci si interroga se vi sia un numero sufficiente di scienziati e ricercatori, se questi operino nei campi più promettenti, se siano soggetti a migrazioni fisiologiche o patologiche ("fuga dei cervelli"), se si "produca" un numero adeguato di laureati e se a questi vengano offerte prospettive di carriera sufficientemente allettanti nel sistema scientifico del Paese. Uno dei principali problemi nella misurazione delle risorse umane per la scienza e la tecnologia è legato al fatto che un rilevante numero di professionisti svolge allo stesso tempo varie attività come ricerca, insegnamento, consulenza, lavoro organizzativo e gestionale, progettazione ed altre attività tecniche (SIRILLI, 1998). Ciò ha condotto all'adozione del concetto di "equivalente tempo pieno" nel quadro del Manuale di Frascati (OECD, 2002). Il concetto di equivalente tempo pieno si basa sui! ipotesi di omoge80


neità e sostituibilità tra ricercatori e sull'assenza di economie di raggio d azione tra le varie attivita. Questo approccio tayloristico appare sempre meno difendibile in un contesto, come l'attuale, caratterizzato dalla società basata sulla conoscenza. Nel modello tayloristico le varie fasi del processo produttivo sono predeterminate e, quindi, possono essere svolte adeguatamente in maniera intercambiabile da persone dotate della qualifica necessaria. Le conoscenze necessarie sono codificate e facilmente trasferibili. E, quindi, possibile suddividere !'input nel processo produttivo in frazioni di tempo: per esempio, una persona che lavora a tempo pieno equivale a due impegnate a metà tempo. Se si analizza l'input e l'output della ricerca emergono varie questioni legate al fatto che le attività professionali sono sempre più ad alta intensità di conoscenza e che le conoscenze acquisite in un'attività rinforzano le competenze professionali per svolgerne altre. Si prenda il caso di un professore universitario di medicina che svolge ricerca, insegna ai propri studenti, è impegnato nell'attività clinica di assistenza ai pazienti ed ha responsabilità organizzative ed amministrative. Alla fine della giornata lavorativa il professore ha svolto il lavoro di più dottori che erogano l'insieme di servizi avendo differenti posti di lavoro: il ricercatore, che, per svolgere appropriatamente la propria attività, deve aver acquisito ed elaborato l'esperienza dei colleghi clinici; il professore, che deve aver dedicato molto tempo alla lettura di testi ed alla partecipazione a conferenze per aggiornare le proprie conoscenze; il medico praticante, che deve aver imparato dai colleghi coinvolti nella ricerca come curare i pazienti usando le più avanzate tecniche, i nuovi medicinali, i nuovi protocolli, le nuove strumentazioni. Il professore universitario non è Superman; egli sfrutta semplicemente le economie di raggio d'azione usando le proprie competenze in contesti differenti, in un processo circolare che si rinforza autoalimentandosi. Da questo punto di vista, il professore produce un valore sociale che eccede un'unità in equivalente tempo pieno del modello tayloristico. Inoltre, la qualità di ciascun output del professore può addirittura essere superiore a quello della somma dei tre singoli individui, a causa del suo ampio spettro di competenze che rinforza la sua capacità di risolvere i problemi. Di fatto, sembra che il proverbio "Se hai bisogno di qualcosa, chiedila a chi è sommerso dal lavoro" si attagli sempre più alla realtà professionale dei nostri tempi. 81


L'esempio mostra, inoltre, come la scelta di far riferimento ad un numero prefissato di ore settimanali (dalle 35 alle 40 ore) e la loro allocazione tra le varie attività sia sempre più discutibile. Vi è la tendenza da parte dei professionisti ad impegnarsi per un tempo più lungo di quello previsto nei contratti di lavoro, sia in ufficio che a casa, e nel caso degli universitari il tempo di lavoro non è determinato. Da un punto di vista di misurazione statistica e di costruzione di indicatori si possono intravedere tre strade. La prima consiste nel mantenere la prassi attualmente adottata, che prevede l'utilizzazione del concetto di equivalente tempo pieno, con tutti i limiti sopra illustrati; tale soluzione ha il vantaggio di essere coerente con la Contabilità nazionale. La seconda soluzione prevede l'adozione della metrica pro-capite, nell'assunzione che ogni attività svolta da un professionista produca ricchezza e valore in quanto tale. Ciò condurrebbe al doppio conteggio, soluzione peraltro comunemente accettata nella bibliometria, in cui le pubblicazioni con più autori vengono attribuite a ciascun autore (va ricordato che i dati sulla ricerca del Giappone sono tradizionalmente riportati soltanto in unità fisiche e non in equivalente tempo pieno). La terza opzione consiste nel far cadere la distinzione tra le varie attività, nell'assunzione che un professionista nell'èra della società della conoscenza sia impegnato in una varietà di attività che cambiano rapidamente nel tempo e che è difficile separare e addirittura definire. In tale contesto si parlerebbe di un professionista impegnato nell'università o nell'industria, che si dedica ad un coacervo di attività. Ciò comporterebbe che le attuali distinzioni ed attribuzioni cadrebbero, per cui, per esempio, non si potrebbe più calcolare la quota di ricerca dei professori universitari. ALCUNE ESPERIENZE DI VALUTAZIONE

La valutazione al Consiglio Nazionale delle Ricerche Il problema della valutazione della ricerca si è cominciato a porre in Italia sin dagli anni Ottanta (SILvANI, SIRILLI, 1995). All'inizio degli anni Novanta, è stata svolta una ricerca sulla valutazione al CNR (SIRILLI, MELICIANI, 1994). A tale scopo sono stati intervistati i presidenti dei Comitati nazionali di consulenza - incaricati, tra l'altro, di promuovere e finanziare progetti - e gli organi di ricerca dell'ente, e i direttori dei Progetti finalizzati che coinvolgevano unità operative di ricerca in tutto il Paese e in tut82


te le componenti del sistema scientifico e tecnologico (università, enti pubblici, imprese). Le interviste con i presidenti di Comitato hanno fatto emergere le seguenti indicazioni: i Comitati di consulenza svolgevano, a vari livelli, valutazione della ricerca. Questa era prevalentemente ex-ante e ben poco tempo si dedicava a quella ad interim ed ex.-post la valutazione al CNR non aveva raggiunto il livello di diffusione e di qualità metodologica caratteristici di organismi di ricerca similari di altri Paesi sviluppati; la valutazione al CNR era basata essenzialmente su criteri scientifici, mentre le dimensioni sociale ed economica avevano un ruolo secondario; la valutazione al CNR veniva svolta con difficoltà a causa della lentezza dei processi decisionali e delle procedure amministrative, delle rigidità istituzionali e dei legami tra i membri di Comitato ed i loro elettori. Le interviste con i Direttori dei Progetti finalizzati hanno fatto emergere le seguenti conclusioni: nella valutazione dei Progetti finalizzati i criteri scientifici avevano importanza primaria, mentre a quelli sociali ed economici veniva attribuita una rilevanza secondaria; soltanto la direzione di un Progetto finalizzato aveva messo a punto un sistema codificato per la valutazione. Ciò mostrava il ritardo rispetto ad analoghe iniziative degli altri Paesi sviluppati; il fatto che coloro che erano coinvolti nelle varie fasi della valutazione non venivano remunerati rappresentava un fattore di ostacolo al processo; tutti i Direttori dei Progetti finalizzati si sono dichiarati favorevoli ad una valutazione ex-post e quasi tutti ad una valutazione in itinere. E stato, tuttavia, sottolineato che quest'ultima potrebbe rappresentare un ulteriore appesantimento - ed anche un ostacolo - alla gestione del progetto in un contesto, come quello italiano, in cui la macchina burocratica è una delle maggiori cause di inefficienza.

La valutazione delle università effettuate da Censis-Repubblica La valutazione delle università italiane effettuata da CENSIS-Repubblica rappresenta un'esperienza molto interessante nel campo della politica scientifica e dell'istruzione. Tale valutazione è giunta nel 2002 alla terza edizione. 83


Nella descrizione della metodologia impiegata, CENsIS-Repubblica dichiarano di aver svolto un ruolo importante e significativo: nell'accrescere il livello di conoscenza del mondo universitario presso l'opinione pubblica, nello stimolare all'interno del sistema universitario una maggiore sensibilità ai temi della valutazione, nello spingere gli attori più importanti (i prèsidi di facoltà) ad avviare un percorso collaborativo per il miglioramento del lavoro di valutazione (CENSIS-Repubblica, 2003). La metodologia impiegata riposa - nel terzo esercizio - sulla combinazione di cinque famiglie di indicatori. Produttività (tasso di studenti sopravviventi tra il l' ed il 2° anno; tasso di studenti attivi; tasso di iscritti in corso; tasso di laureati; anni di laurea fuori corso). Didattica e standard d'offerta (somma dei corsi; docenti/corsi offerti; iscritti in complesso/docenti in complesso; posti in aula/iscritti; Campus ON E). Ricerca (progetti di ricerca di interesse nazionale finanziati dal MIuR; finanziamento medio ottenuto nei progetti finanziati dal MIuR; centri di eccellenza della ricerca co-finanziati dal MIuR). Profilo docenti (età media del corpo docente; indice di invecchiamento del corpo docente; tasso di idonei per docente; università ospitanti studenti del progetto ERASMUS). Rapporti di cooperazione internazionale (mobilità studenti EiSMUS/iscritti; borse EPsMus/docenti facoltà; mobilità docenti; ricerca internazionale). Va da sé che la metodologia deve essere oggetto di discussione relativamente alle teorie - implicite - che sono alla base della misurazione. Allo stesso tempo va tenuto conto della disponibilità dei dati, della loro qualità, della loro tempestività e del loro costo. Nel complesso si ritiene che l'esercizio sia da considerare un utile strumento che ha raggiunto gran parte degli scopi prefissati. È paradossale, peraltro, che nel nostro Paese, a differenza di altri in cui la valutazione della ricerca e della formazione è prassi consolidata, non sia stato il settore pubblico a procedere alla valutazione, delle università che sono largamente pubbliche, e nemmeno organismi come la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Owi), ma due soggetti privati come un giornale ed un istituto di ricerca privato. Il paradosso è ancora più evidente se si riflette sul fatto che non soio le università hanno accettato il "responso" dei privati, ma che quelle in testa alla classifica si fregiano del84


la posizione acquisita anche nelle loro pubblicazioni ufficiali (quali i siti web in cui, per "certificare" la "bontà" dell'università o della facoltà, si esibisce la propria posizione nella classifica nazionale).

Il "Benchmarking" Europeo Di fronte ad un quadro di ritardo strutturale rispetto ad USA e Giappone, i capi di Stato e di Governo dei Paesi comunitari hanno sottolineato l'importanza dell'innovazione come risposta dell'Europa alle sfide poste dalla globalizzazione e dalla società basata sulla conoscenza. Nella riunione del marzo 2000 a Lisbona hanno quindi fissato per l'Unione il duplice obiettivo di rafforzare la coesione sociale nei Paesi membri e di diventare, nel successivo decennio, l'economia basata sulla conoscenza piii competitiva e dinamica del mondo, capace di assicurare uno sviluppo sostenibile che si accompagni ad un'espansione dell'occupazione e ad una maggiore coesione sociale. Questo processo ha ricevuto un ulteriore impulso nel Consiglio Europeo di Barcellona del marzo 2002, in cui è stato concordato che la spesa per ReS nell'Unione dovrà essere aumentata con l'obiettivo di raggiungere il 3% del PIL nel 2010, e che due terzi di questi nuovi investimenti debbano provenire dal settore privato (Sirilli, 2003). LUnione Europea ha quindi intrapreso la costruzione dell'Area Europea della Ricerca (Ert) con le relative politiche attuative, come il programma "Benchmarking delle politiche nazionali di ricerca". Il benchmarking, che in italiano può essere definito come "analisi comparata delle prestazioni rispetto ad uno standard ottimale", è una tecnica messa a punto nella disciplina del marketing, che consente di individuare le modalità ottimali per raggiungere un determinato obiettivo produttivo e, dunque, una "pratica migliore" (bestpractice). Un'impresa multinazionale può comparare le produzioni dello stesso bene nelle varie filiali ed individuare quella che ha il miglior rendimento, o che usa le soluzioni migliori, e definire dunque le pratiche migliori per la realizzazione del bene. Mentre per il settore produttivo il concetto di benchmarking ha un suo valore sia teorico che pratico, la sua trasposizione a livello di sistemi scientifici e tecnologici presenta non lievi difficoltà, in particolare perché ciascun sistema nazionale di innovazione è, per definizione, diverso dall'altro e dunque non è possibile individuare, in linea di principio, la bestpractice (LUNDVALL, 1992). Il benchmarking può far cadere nella trappola della "semplificazione senza senso quando viene impiegato superficialmente per le politiche pub85


buche (per esempio, l'uso dell'indicatore di efficienza della spesa pubblica per ReS, calcolato come il rapporto tra il numero di pubblicazioni scientifiche e la spesa per ricerca di base, può condurre a conclusioni completamente opposte a seconda dei dati e delle ipotesi adottate, come dimostrato nella comparazione della produttività dei sistemi scientifici di Francia e Regno Unito) (BA1ui, 2001). All'opposto, un'interpretazione rigida del sistema di ricerca può condurre all'esclusione del benchmarking quale strumento per le politiche pubbliche. Si può sostenere che vi sia spazio per il benchmarking quale strumento per le politiche pubbliche, a condizione che gli indicatori vengano considerati non come risultati, ma come "punti di partenza" per il dibattito, e che il benchmarking venga inteso come un processo a molti stadi che coinvolge gli analisti, gli attori della ricerca ed i policy maker impegnati in un processo di valutazione strategica e di un mutuo processo di apprendimento (SIRILLI, 2000; BAIuÉ, 2001). L'ottimismo per il benchmarking, che in una sua visione riduttiva potrebbe essere considerato un normale esercizio di comparazione, suscita tuttavia qualche perpiessità. L'esperienza mostra, infatti, che gli utilizzatori degli indicatori della scienza e della tecnologia non sempre tengono conto della complessità dei fenomeni oggetto di indagine. Molto spesso raffronti nello spazio e nel tempo vengono effettuati ignorando i caveat messi in luce dai produttori di indicatori, giungendo a conclusioni semplicistiche o addirittura fuorvianti. Se ciò avviene nella tradizionale pratica della comparazione, che comunque ammette esplicitamente differenze strutturali tra le entità poste a confronto, l'adozione di un concetto di benchrnarking può generare false graduatorie tra il "migliore" ed il "peggiore in un contesto in cui c e sempre i1 piu bravo (in questo periodo storico molto spesso gli Stati Uniti ed i Paesi scandinavi) da cui apprendere "come si fa", negando alla radice il valore della diversità che può preludere a mutamenti di paradigma nel corso del tempo. Nell'adottare l'iniziativa "European Research Area", il Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 ha chiesto agli Stati membri ed alla Commissione Europea di sviluppare, nell'ambito del "metodo aperto di coordinamento", il benchmarking come strumento per la valutazione delle prestazioni delle politiche nazionali di ricerca. Nella visione della Commissione, lo scopo finale della comparazione delle politiche nazionali attraverso il benchmarking non è quello di identificare la best practice da riproporre come modello da trasporre semplicisticamente da un contesto nazionale all'altro. Lo scopo è quello di far tesoro delle esperienze matu86


rate altrove e stimolare nuovi modi di formulare politiche pubbliche. In tal modo, le lezioni tratte nell'identificazione delle "pratiche migliori" possono essere applicate per migliorare il processo di attuazione delle p0litiche, tenendo conto del particolare contesto in cui queste vengono applicate. Quindi, la produzione degli indicatori e l'identificazione di possibili fonti di "buone" soluzioni rappresentano un passo importante verso il miglioramento nella concezione e nell'attuazione delle politiche, introducendo nel processo valutativo elementi di razionalità e di trasparenza. La Commissione ha identificato venti indicatori, di cui cinque verranno sviluppati nei prossimi due anni, suddivisi in quattro aree tematiche: risorse umane nella S&T; investimento pubblico e privato nella ricerca e nella tecnologia; produttività scientifica e tecnologica; impatto della ricerca e della tecnologia sulla competitività economica e sull'occupazione (EUROPEAN CoMMissioN, 2001).

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Il finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica in Italia: risorse e regole di Mario Ca/derini, Giuseppe Catalano e Miriam Ricci

J

1 presente lavoro si propone di analizzare alcuni aspetti del sistema di finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica in Italia, illustrando lo scenario internazionale nel quale si colloca il nostro Paese ed analizzandone le minacce e le opportunità. A tal fine, sono introdotti in chiave critica il quadro normativo, l'assetto di governance e gli attuali strumenti di intervento finanziario. Il documento descrive poi alcune esperienze nuove degli ultimi anni, relative al finanziamento della ricerca universitaria di interesse nazionale (PRIN) e all'istituzione del Fondo Investimenti per la Ricerca di Base(FIRB), e si conclude con la definizione di obiettivi e strumenti per possibili azioni di miglioramento dell attuale sistema ricerca nel nostro Paese.

Lo SCENARIO Il confronto internazionale I recenti risultati pubblicati da numerose istituzioni, ma in particolare dall'Unione Europea e dall'OECD, disegnano un quadro critico della situazione italiana in termini di capacità di investire in nuova conoscenza attraverso il finanziamento dell'attività di ricerca fondamentale ed applicata. Tale quadro appare problematico pur tenendo conto della complessità dei confronti internazionali sia per aspetti di tipo metodologico (nelle rilevazioni delle informazioni) che di merito (ad esempio, la rilevanza della ricerca militare). In termini di spesa pubblica per la ricerca, l'Italia si colloca nella fascia bassa dei Paesi europei e dei principali Paesi industrializzati. Il rapporto tra spesa pubblica in ricerca e Pii nel 1999 era dello 0.53%, la qual cosa colloca l'Italia in

Mario Calderini è Professore associato di Economia e Management. Giuseppe Catalano è Professore associato di Economia e Organizzazione dei Servizi, entrambi presso il Politecnico di Torino. Miriam Ricci svolge un Dottorato di ricerca in Cultura ed Impresa presso l'Università di Torino. 89


dodicesima posizione tra i Paesi europei, ben al di sotto della media e lontana dalle migliori prestazioni dei Paesi scandinavi che si avvicinano all'l% del Pii (Commissione Europea, 2002 a). E pur vero che vi è una lenta evoluzione positiva della situazione italiana, assimilabile peraltro a quella di altri Paesi (Portogallo, Spagna, Grecia), che come l'Italia muovono da situazioni di grave ritardo. A ciò si aggiunga che la spesa privata in ricerca e sviluppo presenta a livello nazionale un quadro altrettanto, e forse più, deludente. Nello stesso anno la sua incidenza sul Pii era dello 0.53%, collocando l'Italia al quart'ultimo posto nell'Unione Europea, lontanissima dal valore medio e seguita solo da Spagna, Portogallo e Grecia. A livello di raffronto, si consideri che la Svezia spende in ricerca privata il 2,84% del suo Pil, la Germania il 1,80%, la Gran Bretagna il 1,2 1%, Stati Uniti e Giappone rispettivamente 2.04% e 2,11%. La spesa totale in ricerca si attesta, quindi, all'l% del PiI, a fronte di un dato medio dei paesi OECD del 2,23% (OECD, 2000). Volendo isolare la sola parte di finanziamento dedicata alla ricerca fondamentale, 1 indicatore per 1 Italia apparirebbe pari allo 0,2% del suo PiI (OECD, 2001 b), mentre la maggiore parte dei Paesi industrializzati presenta valori che vanno dallo 0,3% allo 0,5% (Francia). In termini assoluti, la spesa complessiva italiana per ricerca e sviluppo è di circa 11 miliardi di euro, di cui circa 6 miliardi di fonte pubblica, contro circa 22 miliardi (ed un maggiore equilibrio pubblico/privato) a parità di popolazione e PiI nei Paesi europei più competitivi. E interessante osservare le modalità della spesa nei principali Paesi industrializzati (fig. n. 1). 80%

90%

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70%

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Fig. n. 1: La spesa per la ricerca e sviluppo 1999 90


La situazione in termini di interventi indiretti non è peraltro più rosea. Se si considera l'incidenza degli incentivi fiscali concessi alle imprese per unità di spesa in ricerca e sviluppo, l'Italia appare ampiamente sotto la media e largamente in ritardo rispetto a tutti i Paesi dell'Unione Europea, esclusa la Germania (OECD, 2001 b). In cònseguenza di ciò, nel nostro Paese l'impiego di scienziati ed ingegneri ha un'incidenza sulla forza lavoro molto inferiore ad altri partner e competitori europei e non. La popolazione dei ricercatori si attestava nel 1999 attorno allo 0.3% del totale della popolazione attiva (fig. n. 2) (Commissione Europea, 2003).

USA Finlandia

Belgio UK Olanda Danimarca Svcoia Gennania Francia Spagna Grecia

Ausina Fonogalin O

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20

30

40

50

60

70

90

00

Fc,,w' Cclanrdras. 20136

Fig. n. 2: L impiego di scienziati e ingegneri per 1000 unità di forza lavoro 1999

Nel 1999 l'Italia si trova peraltro ad occupare una delle ultime posizioni in Europa per la percentuale di nuovi laureati in discipline scientifiche (5.6%o della popolazione di 20-29 anni), e nel 2001 per la percentuale di popolazione con istruzione post-secondaria (10.29% della popolazione di 25-64 anni). Per contro, la performance media dell'Europa nei due indicatori è, rispettivamente, di 10.3%o e 21.22%, circa il doppio dei valori italiani (Commissione Europea, 2002 a). E evidentemente necessario, nel confrontare tali dati, tenere presente che essi si riferiscono a sistemi formativi radicalmente diversi, gli uni strutturati su più livelli, gli altri ancora mono-livello. Ciò probabilmente 91


genera duplicazioni nella contabilizzazione sfavorevoli al nostro Paese. È, quindi, prevedibile che la riforma del nostro sistema universitario consenta di ridurre, ma solo parzialmente, sul piano contabile il deficit evidenziato. Molte sono le dimensioni su cui si può valutare il deficit di innovazione del nostro Paese. La tab. n. i presenta, infatti, un quadro sintetico di alcuni indicatori che pongono a confronto l'Italia con la media dei principali Paesi dell'Unione Europea, in termini sia di spesa che di numero di laureati, dottorati e ricercatori (Rizzuto, 2000). Tab. 1: Alcuni indicatori di ricerca e sviluppo a confronto 1998

Spesa totale (in Mld lire) Spesa pro-capire (in Mld lire) Attività ricercatori (anni/uomo) Numero ricercatori ogni 1000 lavoratori Numero laureati all'anno Numero dottorati all'anno

ITALIA

Media dei maggiori Paesi UE

22.000 371.000 76.400 3,3 120.000 4.000

42.000 735.000 133.000 5,7 400.000 10.000

Fonte: Rizzuto, 2000.

L'Unione Europea formula, peraltro, un indice compatto di prestazione innovativa, relativo al 1999 (fig. n. 3), che riassume le diverse componenti, dal quale l'Italia risulta collocarsi in terzuitima posizione, seguita solo da Portogallo e Grecia (Commissione Europea, 2001). Nella valutazione di tale indice pesa in modo decisivo, ovviamente, la situazione del finanziamento alla ricerca pubblica. Non vi è dubbio che tale situazione debba però essere valutata nel contesto peculiare della situazione della finanza pubblica del nostro Paese, nella quale una quantità notevole delle risorse (circa cinque-sei punti percentuali del Pii) sono oggi destinate al pagamento degli interessi sui debito, ragion per cui in tutti i settori (comprese la sanità e la previdenza) i livelli di spesa pubblica correlati al PiI appaiono inferiori a quelli dei nostri principali partner ed alla media dei Paesi OECD. Il processo di risanamento della finanza del nostro Paese dovrebbe consentire una prospettiva di ridefinizione degli obiettivi e delle modalità dell'intervento pubblico in questo settore, nell'ambito del quale appare assolutamente prioritaria la concentrazione delle risorse disponibili nei settori innovativi della formazione e della ricerca scientifica. 92


60

2. LOSIiVG MOIIENTUl1

I. M0I'!AGA!L40

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A Danimarca

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Fig. n. 3: L'indice compatto di prestazione innovativa nei paesi dell'Unione Europea

I ricercatori: un bene scarso? Il modesto livello di spesa (pubblico e privato) per la ricerca si è tradotto direttamente in una ridotta presenza di personale qualificato e in formazione sia nelle università (in cui, come in tutti gli altri sistemi innovativi, opera oltre la metà del personale di ricerca), che nelle imprese, nelle amministrazioni e nei servizi pubblici e privati. Nelle imprese, in particolare, si è avuta una diminuzione degli addetti alla ricerca che, a differenza di quanto avviene negli altri Paesi, ha portato una diminuzione anche negli addetti alla innovazione ed allo sviluppo. Tale esigua attività riduce la capacità di acquisire e utilizzare economicamente l'innovazione e quella di sviluppare una formazione avanzata, ancor più della corrispondente limitazione nella produzione di ricerca. In termini quantitativi, nel Paese (secondo Rizzuto, 2000) mancano (tra pubblico e privato) oltre 100.000 persone addestrate alla innovazione e alla ricerca, con una carenza di oltre 75.000 anni/uomo nella ricerca e di circa 30.000 anni/uomo nella consulenza/formazione/trasferimento innovativi. L'invecchiamento del personale attualmente attivo, dovuto alla stasi degli investimenti, porta a una entità dei pensionamenti che ha superato l'attuale capacità di nuova formazione, con un processo che accelererà nei prossimi anni e potrebbe causare, in assenza di interventi correttivi, un'ulteriore dimi93


nuzione delle capacità formative ed una conseguente rapida diminuzione delle capacità di trasferimento di innovazione (CNVSU, 2002). Si è, quindi, in presenza di un crescente ciclo negativo che porta sempre più velocemente verso una probabile situazione di collasso. L'inadeguatezza di investimenti pubblici in infrastrutture ed in formazione di nuovo personale impedisce di attivare quel riavvicinamento tra ricerca istituzionale di base e innovazione nelle imprese, che dovrebbe concretizzarsi nell'esternalizzazione da parte delle imprese delle attività a più lungo termine verso il settore universitario e istituzionale pubblico. Ciò provoca anche una riduzione dell'efficacia potenziale degli stanziamenti statali a supporto della ricerca industriale, una crescente dipendenza dell'innovazione da tecnologie importate e fenomeni crescenti di rilocalizzazione della ricerca privata presso istituzioni straniere. In termini generali, la limitazione della spesa pubblica impedisce un più rapido riavvicinamento tra la ricerca istituzionale e l'innovazione imprenditoriale, che permetta la crescita degli investimenti privati e l'avvio del ciclo virtuoso già in atto nel resto d'Europa (Rizzuto, 2001). D'altra parte questo sistema, pur nella scarsità di risorse, è stato sinora articolato istituzionalmente senza tener conto della massa critica necessaria per ottenere efficaci risultati dalla ricerca e rinforzando le barriere disciplinari (De Maio, 2001).

La ricerca di base: verso l'estinzione? Queste osservazioni devono destare ancor maggiore preoccupazione se si tiene conto della trasformazione della struttura industriale, che sta interessando proprio quei settori in cui il nostro Paese ritiene, non sempre a ragione, di detenere una quota importante del sapere tecnologico. La domanda cruciale, già ampiamente formulata nei Paesi che prima del nostro hanno avviato i processi di liberalizzazione dei mercati, riguarda l'effetto dell'accelerazione della pressione competitiva sugli incentivi delle imprese e del sistema nazionale d'innovazione nel suo complesso a sostenere un tasso di produzione di conoscenza scientifica e tecnologica di base adeguato alle necessità di sviluppo dell'intero tessuto industriale. Appare, innanzitutto, opportuno circoscrivere i termini del dibattito: non si tratta di riproporre l'ovvia querelle sulla superiorità di un determinato assetto di mercato (monopolio o regime competitivo) nello stimolare le imprese a condurre più o meno attività di ricerca. Non vi è infatti una relazione che leghi in modo univoco l'intensità della ricerca condotta dalle imprese al livello della competizione che esse affrontano sui mercati (Aghion e Howitt, 1998). 94


Ciò è determinato da una molteplicità di fattori spesso contrastanti il cui esito finale è difficilmente prevedibile (Calderini etal., 2003). Al contrario, è facilmente ipotizzabile che il nuovo assetto competitivo produca un sostanziale mutamento nella composizione del portafoglio dei progetti di ricerca delle imprese, dilatando la quota di risorse allocate ad attività applicative e di sviluppo a discapito della ricerca di più ampio respiro. Il problema va posto quindi in termini di equilibrio tra le due componenti di quello che potremmo considerare un piccolo ecosistema: la ricerca di base e la ricerca applicata. La sopravvivenza e la crescita delle due specie è indissolubilmente legata all'equilibrio dinamico che si crea e si mantiene tra le diverse componenti. Non è difficile ipotizzare che una perturbazione di tale equilibrio, determinata dalle mutate condizioni al contorno, possa innescare una dinamica negativa che avrebbe come conseguenza estrema l'estinzione della specie più debole, la ricerca di base, con effetti difficilmente prevedibili per l'intero sistema d'innovazione. Di ciò non è difficile rintracciare ampie evidenze nei Paesi che da tempo hanno avviato il processo di trasformazione istituzionale. Negli Stati Uniti, il National Institute of Standards and Technology (NIsT) ha documentato (Tassey, 2002) un fenomeno noto in letteratura come short-termism: la tendenza delle imprese, nei settori in cui più stretto è il regime competitivo, ad accorciare l'orizzonte temporale di riferimento per le proprie decisioni d'investimento, determinando un portafoglio di investimenti in ricerca orientato alle attività di sviluppo e prevalentemente applicate. Un recente studio condotto nei quindici Paesi dell'Unione Europea documenta, a valle della data di apertura dei mercati, una riduzione del 60% circa nel numero di pubblicazioni scientifiche attribuibili agli operatori di telecomunicazioni ex-monopolisti (Calderini et al., 2003) (Calderini e Garrone, 2001). Corrispondentemente, si assiste ad un'importante accelerazione dell'attività brevettuale degli stessi operatori. L'Industrial Research Institute (Larson, 2000), il Council on Competitiveness (Council of Competitiveness, 2001), la National Science Foundation (NSF, 2001) e l'OEcD (OECD, 2001 b) hanno, per strade diverse, prodotto un'ampia evidenza empirica del fenomeno negli Stati Uniti e nei principali Paesi industrializzati, facendosi promotrici di importanti iniziative a livello istituzionale in materia di riequilibrio del portafoglio nazionale dei progetti di ricerca. In Italia, dove peraltro la quota di ricerca di base di carattere industriale è strutturalmente molto bassa (dell'ordine del 10%) e vicina alla soglia di criticità, non è difficile rintracciare evidenze analoghe (IsTAT, 2002). 95


Vi è, insomma, ragione di ritenere che le mutate condizioni competitive, la riduzione del ciclo di vita dei prodotti e la multipolarità delle sorgenti del progresso tecnico inducano le imprese ad indirizzare la propria missione di ricerca verso obiettivi di natura applicativa, rilasciando importanti quote del loro impegno nelle fasi a monte della filiera delle attività di ricerca. Tale processo di esternalizzazione non ha di per sé alcuna connotazione negativa: diventa pernicioso se alla riduzione da parte delle imprese delle attività di ricerca non corrisponde una immediata disponibilità ed adeguatezza del sistema pubblico ad interpretare efficacemente il ruolo di produttore, di selezionatore e di importatore della conoscenza scientifica, che fa da motore al processo innovativo. Vi è naturalmente un'osservazione, che ricorre da più parti del mondo industriale, secondo la quale sarebbe anacronistica l'ambizione di un Paese come l'Italia di competere su scala internazionale nel campo della ricerca di base, in particolare in settori ad elevata intensità di capitale sperimentale. Ciò è parzialmente vero: rispetto ai frutti diretti dell'attività di ricerca fondamentale probabilmente l'Italia, oggi, non può far altro che ritagliarsi un ruolo di free rider della conoscenza prodotta altrove. Ciò nonostante, proprio perché appare anacronistica una strategia autarchica di produzione di conoscenza di base, è cruciale che il sistema nazionale d'innovazione elegga come obiettivo prioritario il mantenimento di un livello di conoscenze scientifiche sufficiente ad interagire con la comunità internazionale ed a sostenere quella minima capacità di prospezione ed assorbimento che consentono di esplorare la frontiera delle opportunità tecnologiche con qualche probabilità di successo, anche a vantaggio delle imprese. Da tali considerazioni discende l'obiettivo prioritario di un consistente intervento sulla ricerca di base: mantenere l'equilibrio tra le diverse componenti delle attività ricerca, garantendo al sistema una dinamica virtuosa. A corollario di ciò, è necessario fare in modo che le risorse messe a disposizione del sistema di ricerca pubblico producano risultati fruibili da parte dell'intero sistema industriale, definendo e realizzando opportuni meccanismi di saldatura tra la produzione di nuova conoscenza e l'attività innovativa delle imprese. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia ed i maggiori Paesi industrializzati sembrano ben avviati lungo questa strada; non è chiarissimo quale destino attenda il nostro Paese. Non è, quindi, fuori luogo che oggi si invochi un intervento sulla ricerca di base, lungo due principali direzioni: l'adeguamento e la razionalizzazione dell'uso delle risorse disponibili e la progettazione di meccanismi di raccordo 96


tra ricerca e innovazione industriale. Ciò appare peraltro coerente con l'idea che "il valore sociale della ricerca scientifica, nella nuova 'Società basata sulla conoscenza', viene realizzato integrando i risultati della ricerca nei processi innovativi, attraverso una condivisione tra attività di ricerca e problematiche economico-sociali, sulla base di una grande mobilità multidisciplinare e intersettoriale tra imprese, università e servizi pubblici e privati. Ciò supera il precedente modello di sviluppo che vedeva una interazione 'lineare', con una sequenzialità tra ricerca, sviluppo e utilizzo, e con una separazione fisica e istituzionale tra i luoghi e le persona dedicati alla ricerca e quelli dedicati allo sviluppo e poi all'utilizzo delle conoscenze. Questo sviluppo supera anche la divisione tra cultura umanistica e quella scientifica, e rende indispensabili interventi ad ampio raggio e multidisciplinari" (Rizzuto, 2001). Vi sono, peraltro, alcuni vizi contingenti che minacciano, dall'interno, la vocazione del sistema di ricerca pubblico alla ricerca libera e rendono dubbia la realizzabilità di un trasferimento efficace delle conoscenze dal mondo della ricerca a quello dell'industria. Alcuni riguardano direttamente la capacità dell'apparato pubblico di sostituirsi alle imprese nella produzione di conoscenza di base in determinati settori, come la teoria economica sostiene in relazione alle sue caratteristiche di "bene pubblico", altri la capacità di creare efficaci meccanismi di raccordo tra domanda industriale ed offerta di nuovo sapere. In primo luogo, una discutibile interpretazione della cultura della valutazione, che permea importanti settori dell'università italiana, secondo la quale è importante solo ciò che è misurabile. La ricerca fondamentale è difficilmente misurabile, al lettore l'inquietante chiusura del sillogismo!. Appare poi ingenua, e perniciosa per lo stesso sistema industriale, l'ipotesi di introdurre (ad esempio, attraverso i meccanismi di finanziamento) nel sistema universitario una struttura di incentivi che privilegi in maniera incondizionata la ricerca d'interesse dell'industria. Proprio di fronte alla necessità di promuovere importanti settori della ricerca fondamentale, da piui parti si chiede invece al sistema pubblico non già di bilanciare tale distorsione di incentivi, ma al contrario di assecondarla, amplificandone gli effetti negativi.

I dottori di ricerca: troppi o troppo pochi? Assai più importante appare però l'arretratezza in cui versano mediamente le scuole di dottorato in Italia. I mali della formazione di terzo livello sono ben noti e purtroppo la recente riforma sembra aver definito una diversa agenda di 97


priorità di intervento. Circoscriviamo su questo aspetto il problema di realizzare il cruciale incrocio tra domanda e offerta di sapere scientifico, mettendo a disposizione delle imprese l'importante bagaglio di sapere scientifico di cui oggi, ancora, il sistema pubblico dispone. A questo proposito, è quantomeno paradossale che nell'imponente dispiego di risorse che oggi vengono impegnate nelle varie iniziative di trasferimento tecnologico, incubazione, sportelli e simili, non trovi uno spazio, anche piccolo, l'idea di riformare ed adeguare agli standard dei Paesi industrializzati le scuole di dottorato italiane. In Italia, il basso investimento fa sì che il dottorato di ricerca formi circa 4.000 persone/anno contro una media europea annua di 10.000 (a parità di popolazione e PiI), con la conseguenza di una presenza nel sistema di circa 12.000 persone in formazione, anziché le oltre 30.000 dell'Europa, sul ciclo triennale (Rizzuto, 2001). I dati relativi alla percentuale dei nuovi dottori di ricerca, infatti, collocano il nostro Paese all'ultima posizione in Europa (fig. n. 4). Questa carenza di personale in formazione attraverso la ricerca polarizza tale formazione al solo turn-over istituzionale e accademico, impedendone l'impiego in attività di trasferimento innovativo e di supporto alla formazione delle leve più giovani. Negli altri Paesi, la maggior presenza di queste persone opera da stimolo per il collegamento tra imprese/servizi ed istituzioni formative (università ed enti di ricerca pubblici e privati) e costituisce un serbatoio importante per coprire improvvise variazioni nelle necessità delle imprese (CNVSU, 2003 b). IIaIin Grrcia Porrogallo Olanda Spagna USA Do nilo arca

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Fig. n. 4: 1 uovi PhD per 100.000 abitanti 2000

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Fo,,te: Ca(o,rcfrer, 2003

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D'altra parte, se è vero che i dottori di ricerca sono pochi, è altrettanto vero che la struttura delle nostre imprese non ne richiede. La percentuale di laureati nelle imprese è bassa in rapporto a ciò che avviene nei maggiori Paesi europei. Troppe volte un dottore di ricerca viene assunto per svolgere funzioni che richiedono a malapena la laurea. I casi di assunzione per scopi più direttamente legati alla formazione conseguita nel dottorato sono rari. Aumentare i dottori di ricerca può essere problematico di fronte a questo atteggiamento della struttura industriale e dei servizi. L'arretratezza delle scuole di dottorato italiane deriva anche da scelte universitarie. In molti casi il corso di dottorato è legato a pochi docenti, ha una denominazione molto ristretta e una borsa all'anno (le denominazioni sono oltre 1.700). Questo contrasta con quanto avviene nei maggiori Paesi in cui esistono scuole con denominazioni ampie, diversi docenti etc. Uno studente straniero che voglia iscriversi ad un dottorato in economia (per prendere un Ph.D in economics come in USA) deve confrontarsi con decine e decine di differenti dottorati. Questo fatto incide negativamente sia sulla mobilità degli studenti sia sull'attrattività internazionale dei dottorati (sono solo il 2% i giovani stranieri che studiano in Italia) (CNVSU, 2003 b). Una possibile via per superare questa impasse potrebbe essere quella di modificare radicalmente 1 impostazione dei corsi di dottorato «verso una formazione tramite (e non solo per) la ricerca (Rizzuto, 2001). Appare inoltre da superare la tradizionale impostazione, priva di ogni fondamento economico, della attivazione di nuove iniziative «a costo zero . Cosi si è pensato di fare ampliando il numero dei dottorandi attraverso la loro ammissione a corsi "senza borsa". Nell'impossibilità di sostenere i costi di mantenimento e frequenza agli studi, senza alcuna forma di sostegno pubblico, i dottorandi, peraltro molto spesso in età "avanzata", sono costretti a svolgere attività lavorative che "spiazzano" l'impegno nello studio e nella ricerca. Si potrebbe, quindi, pensare di ampliare le risorse disponibili per il sostegno ai dottorandi attraverso una forma mista di intervento (borsa-prestito) la cui parziale restituzione dopo gli studi potrebbe essere legata alla condizione economica futura dei beneficiari (income contingent loans), e/o consentire il finanziamento dei dottorandi della propria formazione contribuendo alla ricerca ed all'insegnamento. In tale prospettiva, appare paradossale, quanto insufficiente ai bilanci universitari, l'idea di chiedere ai dottorandi una tassa di frequenza.

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I giovani talenti: fuga daipresente? Le migliori condizioni professionali per i laureati e i ricercatori in altri Paesi europei ed extraeuropei hanno determinato una emigrazione dall'Italia di persone formate ad alto livello. Ciò impedisce anche di competere con tali Paesi nell'acquisizione di personale da Paesi terzi. L'insieme di questi effetti sta contribuendo ulteriormente alla perdita di competitività generale del nostro sistema economico. La "fuga dei cervelli" avviene prevalentemente tra i dottori in Fisica e in Medicina, in misura minore per le altre materie scientifiche. Non è quantitativamente drammatica, ma ha due aspetti preoccupanti: 1) vanno via i migliori, cioè è qualitativamente drammatica; 2) non è compensata da ingressi di stranieri, come avviene in altri Paesi occidentali (USA, Francia, Germania). Essa segnala, quindi, il fatto che il Paese è poco competitivo e che la struttura accademica e di ricerca è chiusa. Il fatto che il fenomeno avvenga quasi esclusivamente tra i dottori di ricerca dipende anche dalle considerazioni precedenti: per chi vuole lavorare in ambiente industriale la richiesta di Ph.D esiste quasi solo all'estero. Evidentemente, i mali del sistema formativo non si concentrano solo nella formazione di terzo livello, ma con diverse sfumature coinvolgono la totalità del processo di produzione di laureati e diplomati universitari. Ne risulta che, sulla popolazione attiva, solo l'8% sia laureata, contro una media europea del 13%. L'eccessiva quota di abbandoni nei primi due anni è dovuta, oltre alla assenza di sistemi di selezione dell'accesso, sopratutto alla mancanza di attività di tutoraggio individuale che, negli altri Paesi, è realizzato in massima parte dai dottorandi di ricerca e dai docenti/ricercatori più giovani. Tale carenza non si potrà correggere solo con il nuovo ordinamento basato su un primo titolo in tre anni, né con un maggiore impegno degli attuali docenti (la cui anzianità media è molto alta), ma va accompagnato da un netto aumento della presenza di nuovi docenti e di giovani dottorandi e dottorati di ricerca che (in particolare nelle facoltà tecnico-scientifiche) stimoli e supporti un maggior collegamento innovativo tra la didattica e le richieste più attuali della società. Il protrarsi della attuale limitazione nella presenza di docenti/ricercatori, e nel loro utilizzo in funzione di tutoraggio, limiterà gravemente l'efficacia della riforma dei cicli di studio universitari e potrebbe portare a un peggioramento della situazione, in presenza della necessità di un più rapido svolgimento degli studi. Con una nota del 3 luglio 2003, che definisce i requisiti minimi per l'atti100


vazione dei corsi di studio, il ministro dell'Istruzione ha stabilito la necessità di assicurare, da parte delle università, la disponibilità di un tutor in ragione di almeno uno ogni 20 o 40 studenti, a seconda della tipologia dei corsi di studio. Tale obiettivo è certamente condivisibile, ma rischia di rimanere irrealizzabile se permangono i segnalati limiti all'aumento di giovani ricercatori. LE OPPORTUNITÀ

La vitalità della produzione scientifica L'efficienza del sistema ricerca italiano è già pari a quella media europea, misurata attraverso vari criteri, quali la produzione di innovazioni (nuovi brevetti depositati), la acquisizione di contratti e fondi competitivi europei e la produzione di pubblicazioni scientifiche (Bianucci, 2002). Tutti questi indici, rapportati all'intera popolazione lavorativa, sono inferiori di circa la metà rispetto alla media europea, cioè di una quantità pari al minor numero di ricercatori e di attività di ricerca. Ciò indica che un importante fattore limitativo è la ridotta disponibilità di risorse finanziarie e umane, mentre l'organizzazione media e la qualità complessiva sono già confrontabili alla media europea (Rizzuto, 2001).

Lzutonomia finanziaria dell'università Spesso si trascura di valutare in modo appropriato i positivi risultati dello sviluppo dell'autonomia delle università e della competizione tra gli atenei, a partire dalla metà degli anni Novanta, in seguito all'introduzione del finanziamento budgetario, del processo di riequilibrio e di incentivazione nella distribuzione delle risorse statali (Catalano, 2000; Cì.ivsu, 2003 a). L'introduzione di questi innovativi sistemi di finanziamento, che hanno valorizzato le capacità decisionali degli atenei ed il ruolo centrale degli studenti, ha comportato un incremento significativo del numero di laureati (65% negli ultimi cinque anni) e un miglioramento importante del tasso di successo (CNVSU, 2003 c). La profonda riforma della ricerca universitaria e istituzionale, recentemente messa in atto, assicura la presenza di meccanismi di valutazione e programmazione che permettono di attuare in modo mirato un forte aumento delle risorse, concentrandole su progetti e centri di alta qualità e migliorando l'efficienza dell'intero sistema. 101


La riforma degli ordinamenti didattici L'attuazione della riforma Berlinguer dovrebbe consentire nei prossimi anni una più ampia differenziazione orizzontale e verticale delle attività formative e, quindi, una riduzione significativa degli abbandoni ed un ulteriore aumento del numero dei titoli rilasciati. Ciò, se le risorse verranno aumentate, permetterà di realizzare i necessari riequilibri in base alle necessità del Paese, attivando le opportune sinergie tra risorse pubbliche e private. In questo contesto investire risorse nella formazione di terzo livello non è conflittuale, bensì sinergico con l'obiettivo di valorizzare la formazione erogata nel primo livello. L'idea è che, per non ripetere errori già commessi nel recente passato, sia necessario liberare spazi culturali e formativi oggi ambiguamente occupati dai tradizionali corsi di laurea. Ciò non può che avvenire attraverso una contestuale operazione di innalzamento degli obiettivi e della qualità formativa dei livelli superiori. Evidentemente tale aspirazione non può limitarsi a concentrare le risorse sull'unico modello formativo del dottorato. E, anzi, opportuno che la formazione superiore si articoli in un numero il più ampio possibile di tipologie di offerta, in base alle caratteristiche specifiche del settore disciplinare. A questo proposito, numerosissime sono le opportunità offerte dalla recente riforma, sia a livello di formazione professionalizzante (i master di primo e secondo livello) che di avvio al percorso di ricerca (gli assegni di ricerca).

Nuove istituzioni e nuovi rapporti di lavoro L'ampia e crescente presenza, nella ricerca, di forme istituzionali di tipo civilistico (società consortili, consorzi interuniversitari o tra enti, società non a fini di lucro, onlus ecc.) permette di formulare vincoli programmatici tali da utilizzare queste forme più flessibili sia per la realizzazione di progetti che per la costruzione e gestione di infrastrutture di ricerca ad accesso pubblico-privato, evitando un irrigidimento della spesa totale. In questa prospettiva di grande interesse appare il varo delle fondazioni universitarie, la cui istituzione è resa possibile dall'ultima finanziaria. Sono in rapida crescita la capacità di gestione imprenditoriale della proprietà intellettuale e l'avvio di imprese partecipate da ricercatori e/o enti e università. Ciò permette di stimolare una maggiore valorizzazione dei risultati anche della ricerca di base e massimizzare gli effetti indotti sulla formazione e sull'orientamento della ricerca stessa. Le innovazioni introdotte nei rapporti di lavoro con docenti e ricercatori 102


nell'ambito universitario e pubblico permettono nuovi inserimenti di personale su basi contrattuali di tipo civilistico, sia a livello di formazione (contratti di formazione-lavoro) sia a livello di programmazione (contratti a tempo legati a progetti). L'utilizzo esteso di tali contratti, nell'attivare progetti congiunti pubblico-privato, può garantire un nuovo orientamento e una maggiore flessibilità nelle azioni di trasferimento di personale e di competenze tra i due ambienti (particolarmente interessante appare, a questo proposito, la sperimentazione della formula del ricercatore a tempo determinato). Occorre però evitare che le modeste retribuzioni offerte ai giovani potenziali ricercatori determinino un effetto "piazzamento" a favore delle più remunerative, ma meno propulsive, dal punto di vista dell'innovazione, occupazioni sul mercato. GLI STRUMENTI ATTUALI

La governance del sistema Il Paese dispone di una vasta (per taluni eccessiva) gamma di strumenti di finanziamento della ricerca accademica ed industriale (Bertini, 2001). Tale ampiezza di strumenti pone, però, un serio problema di coordinamento che al momento appare lontano dall'essere risolto. E, quindi, opportuno premettere che l'aspetto più urgente dei problemi con cui confrontarsi risiede nel riordino degli strumenti e degli enti, insieme alla scelta di opportuni meccanismi di governance. Un primo passo nella direzione del riordino degli strumenti è stato compiuto con il decreto legislativo n. 204/98, che disciplina con alcune ridondanze il sistema di coordinamento, programmazione e valutazione della politica nazionale della ricerca scientifica e tecnologica. Nella sostanza, il decreto attribuisce al Governo la competenza nella determinazione degli indirizzi e le priorità strategiche di intervento, definendo il quadro di risorse da attivare ed asupicandone il coordinamento con le altre politiche nazionali. Il Programma Nazionale per la Ricerca (PNR) implementa tali linee di indirizzo e definisce obiettivi e modalità di attuazione degli interventi, alla cui realizzazione concorrono, con le risorse disponibili sui propri bilanci, le pubbliche amministrazioni (PA), le università e gli enti di ricerca. Il sistema di governo della politica per la ricerca si avvale dei seguenti strumenti: 103


- il Comitato di Esperti per la Politica della Ricerca (CEPR, oggi inattivo), di ausilio al Governo, è istituito presso il MURST (oggi MIuR); - il Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIvR), istituito presso il MURST con compiti di valutazione; - la Segreteria Tecnica istituita presso il MIuR per il supporto alle attività dei suddetti organismi e della IV Commissione CIPE "Ricerca e FormazioA questi, si aggiungono i Consigli Scientifici Nazionali (CsN) ai quali dovrebbe essere attribuita la funzione di rappresentanza della comunità scientifica nazionale, insieme a delegati delle pubbliche amministrazioni, del mondo imprenditoriale e delle forze sociali, costituiranno l'Assemblea della Scienza e della Tecnologia (AsT). Il decreto ridefinisce anche le competenze del MIuR, ribadendone la centralità nel processo di finanziamento. L'aspetto operativo più rilevante è l'istituzione di un Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca per il finanziamento degli istituti di ricerca italiani di maggiori dimensioni (CNR, Asi, INFM, INFN, ecc.). La ripartizione annuale tra le diverse istituzioni è poi posta in opera attraverso uno specifico decreto ministeriale, previo parere delle competenti commissioni parlamentari. Con il decreto legislativo n. 297/99 si è posta in essere una importante opera di razionalizzazione della normativa in sostegno della R&S, a riordino delle numerose stratificazioni accumulatesi negli anni, che rendevano di fatto inintelleggibile il quadro degli strumenti disponibili e impraticabile l'attività di controllo ex-post (Cobis, 2002). Viene chiarito l'ambito di competenza del MIuR, che si concentra sulle attività di ricerca industriale e del MIcA (Commercio e Industria, oggi Ministero delle Attività Produttive) che si focalizza sulle attività di sviluppo precompetitivo. Al CIvR è demandato il compito di valutazione ex-post degli interventi e degli investimenti in ricerca. Tale decreto ha posto in essere anche le condizioni per un più diretto coinvolgimento dei privati negli investimenti in ricerca. Le forme di agevolazione introdotte sono particolarmente orientate all'incentivazione della piccola imprenditorialità ad alto contenuto tecnologico. Per ciò che riguarda le istituzioni accademiche, si è in particolare operato nella direzione di rendere quanto più possibile flessibili i meccanismi di collaborazione con soggetti privati nelle attività di ricerca finanziata. L'aspetto che ha più incisivamente contribuito alla razionalizzazione è rappresentato dall'istituzione di un fondo unico (FAR - Fondo per le Agevola104


zioni alla Ricerca). Su tale fondo grava, come previsto dall'articolo 104 della legge finanziaria 2000, il Fondo per gli Investimenti della Ricerca di Base (FIRB), dedicato al finanziamento dei progetti di potenziamento delle grandi infrastrutture pubbliche o miste pubblico-private, dei progetti di ricerca di base di alto contenuto scientifico, il finanziamento di progetti strategici di sviluppo di tecnologie pervasive e multisettoriali. Inoltre, appare rilevante l'iniziativa, il cui finanziamento è contemplato nell'ambito del FIRB, relativa ai centri di alta qualificazione scientifica (i centri di eccellenza ). Le Linee Guida per la Politica Scientifica e Tecnologica del Governo (MIuR, 2002 b) forniscono le seguenti indicazioni: - la competitività e lo sviluppo sostenibile del Paese necessitano di meccanismi di integrazione tra ricerca, innovazione e sviluppo, e di sinergie tra soggetti pubblici e privati capaci di innescare processi endogeni di innovazione; - è necessario completare il processo di riforma del sistema della ricerca italiana; - è necessario procedere al riordino del sistema della ricerca pubblica, per favorire lo sviluppo economico e sociale del Paese, attraverso la ridefinizione della strategia scientifica e tecnologica, realizzando strutture di eccellenza idonee ad attrarre investimenti italiani e stranieri, sviluppando la capacità innovativa del tessuto delle piccole e medie imprese, incentivando le relazioni tra scienza e impresa, investendo nel capitale umano e valorizzando le sinergie con il territorio. Inoltre, il PNR individua priorità strategiche di intervento, classificabili in Infoscienza, Bioscienza, Nanoscienza, anche se non sono definite specifiche linee di riassetto della ricerca sicentifica di base. E, inoltre, fondamentale riflettere sul fatto che gran parte della ricerca nazionale è svolta negli atenei o con la collaborazione degli atenei; la finzione di programmazione della ricerca dovrebbe, quindi, considerare il sistema degli enti e degli atenei come un sistema integrato, contrariamente a quanto avvenuto fino ad oggi (Calandra, 2003 b).

Ilfinanziamento: le "regole del gioco" Il nostro Paese, però, soffre non solo per una significativa scarsità delle risorse pubbliche e private per la ricerca scientifica e tecnologica, ma anche per una loro dispersione in numerosi rivoli di finanziamento e per una loro concentrazione in un numero (crescente) di enti pubblici di ricerca a carattere 105


settoriale. Nonostante l'approvazione nella precedente legislatura di norme finalizzate alla valorizzazione delle funzioni di programmazione del sistema, ancora debole appare il legame tra l'individuazione di linee strategiche di intervento ed il relativo finanziamento: il Cipe approva il PNR e, in modo frammentato, i singoli piani degli enti pubblici di ricerca, il Parlamento ripartisce su base annuale i relativi finanziamenti, mentre non appare ancora a regime un rigoroso sistema di valutazione dei risultati. In particolare, il decreto legislativo n. 204/98, pur introducendo significative innovazioni nel coordinamento, nella programmazione e nella valutazione della politica nazionale della ricerca non stabilisce ancora un legame forte tra la scelta sulla quantità delle risorse disponibili ed il PNR, tra le scelte dello stesso Programma e la distribuzione delle risorse tra i diversi attori, e tra i risultati della valutazione e la successiva distribuzione dei finanziamenti. In sostanza, il Programma Nazionale della Ricerca appare privo di un adeguato e cogente strumento di finanziamento, che espliciti l'effettiva disponibilità di risorse, e rende efficaci le scelte compiute. Di fatto, la quantità delle risorse pubbliche da destinare alla ricerca scientifica e tecnologica è affidata alla legge finanziaria, e, per i ministeri diversi da! MIuR, addirittura alla legge di bilancio: quindi, il vincolo finanziario opera senza un preciso legame con il quadro di riferimento costituito dal PNR. D'altro canto, poi, l'effettiva allocazione delle risorse viene effettuata in numerose successive scelte settoriali quasi sempre con valenza annuale. In questo quadro, il Programma Nazionale della Ricerca rischia di diventare, al di là delle effettive intenzioni, un libro dei sogni privo di concreta efficacia. Occorre, inoltre, ricordare che le resistenze dei singoli ministeri di spesa impedirono, a suo tempo, la costituzione di un unico Fondo per la ricerca scientifica e tecnologica, mantenendo in vita numerose ed ingiustificate frammentazioni settoriali di spesa. In generale, poi il finanziamento alla ricerca scientifica e tecnologica è ancora prevalentemente inteso come un finanziamento agli enti, il cui ammontare è definito in sedi e con modalità diverse da quelle di una approfondita e consapevole valutazione ex-ante dei piani di attività, della loro coerenza con gli obiettivi generali, nonché ex-post dei risultati effettivamente conseguiti. Solo una parte modesta delle risorse è distribuita sulla base della esplicitazione di obiettivi strategici (peraltro troppo numerosi) e di una valutazione competitiva dei progetti. Tra gli effetti pRi perniciosi ditale caratteristica del sistema italiano vi sono, in particolare, la rigidità del sistema nell'adeguarsi all'evoluzione dei paradigmi e delle frontiere della ricerca (si veda, ad esempio, il caso delle lift-sciences, 106


trascurate nel sistema di ricerca nazionale) e la polarizzazione del portafoglio delle ricerche pubbliche verso specifiche aree scientifiche a danno delle scienze sociali in genere, che, non potendo contare su un ente dedicato, accedono sistematicamente ad una quota minima delle risorse dedicate. Da questo deriva, evidentemente, un deficit di conoscenza che produce importanti esternalità negative non solo sulle scienze sociali stesse, ma sull'intero sistema di innovazione nazionale. Infine, le inderogabili necessità del processo di risanamento della finanza pubblica hanno portato negli ultimi anni all'introduzione di un sistema di monitoraggio e controllo dei flussi di cassa che da un lato ha introdotto virtuosi meccanismi di programmazione e gestione della spesa, dall'altro ha compresso la spesa al di sotto dei livelli delle assegnazioni di competenza sul bilancio dello Stato portando alla crescita significativa di residui passivi. Il quadro in cui opera oggi la finanza pubblica nel nostro Paese dovrebbe consentire di ridefinire il sistema di controllo dei flussi di cassa, che pur mantenendo le regole sulla programmazione effettiva dei flussi di spesa nell'ambito delle compatibilità dei vincoli europei, definisca gli obiettivi di riferimento programmando un livello della spesa di cassa superiore alle assegnazioni competenza al fine di garantire un graduale smaltimento dell'ingente mole dei residui passivi. La ragione che storicamente ha indotto gli enti pubblici di ricerca a spingere per modalità di erogazione del finanziamento basate sulla natura dell'ente e non sulla capacità di programmazione strategica è peraltro evidente: ed è da individuare nella necessità di garantire un orizzonte di programmazione pluriennale che la natura incerta del processo legislativo non ha mai saputo assicurare. E quindi cruciale che la trasformazione da processo di finanziamento agli enti in processo di finanziamento ai progetti si accompagni alla contestuale definizione di un quadro di garanzie legislative e di processo che consenta agli enti di programmare le proprie attività su un orizzonte pluriennale, restituendo valore, dal punto di vista finanziario, alla definizione dei piani triennali.

La legge finanziaria per il 2003 Il processo di risanamento della finanza pubblica del nostro Paese, avviato negli ultimi anni, aveva acceso nei ricercatori italiani la timida speranza di veder crescere le risorse allocate ai settori innovativi della formazione e della ricerca scientifica. La Finanziaria per il 2003 ha disatteso queste speranze. 107


Il Fondo Ordinario per l'università, che comprende le risorse destinate alla didattica e al sostegno della ricerca universitaria, passa da circa 6,189 a 6,225 milioni di euro per il 2003 e a 6,235 milioni di euro per il biennio 2004-05. Nonostante un lieve aumento dell'l% circa, la situazione appare preoccupante alla luce della dinamica di crescita automatica degli stipendi del personale docente e degli incrementi contrattuali del personale tecnico-amministrativo, che costituiscono la parte più significativa della spesa. Essendo queste ultime spese di fatto incomprimibili, l'erosione del fondo è evidente e si ripercuoterà soprattutto sulla restante parte della spesa, destinata anche al finanziamento della ricerca universitaria. Per ciò che riguarda gli enti di ricerca, il fondo unico ammonta nel 2003 a 1,550 milioni di euro, con una diminuzione del 1,6% rispetto all'anno precedente, ma con una riduzione di 50 milioni di euro rispetto a quanto previsto per il 2003 dalla precedente finanziaria. Di conseguenza, i grandi enti (CNR ed EN1) si vedranno finanziati in misura presumibilmente inferiore o appena sufficiente alla copertura delle spese di personale e di struttura, e difficilmente si potrà realizzare un adeguato rifinanziamento del nuovo Piano Spaziale Nazionale, da poco approvato. Tra le note positive, invece, il nuovo finanziamento triennale (100 milioni di euro all'anno) che consente la prosecuzione «a regime» dell'attivato Fondo per gli Investimenti nella Ricerca di Base (FIRB). A corollario di ciò, si assiste alla riduzione del Fondo per l'edilizia universitaria, che generalmente era dotato di 929 milioni di euro nel triennio (circa 309 milioni l'anno), mentre per il triennio 2003-05 dispone solo di circa 600 milioni di euro, di cui 300 nel lontano 2005). Infine, il blocco delle assunzioni nelle università e negli enti di ricerca, contenuto tra le disposizioni della Finanziaria, andrà a incidere in modo negativo sull'età media dei ricercatori, che sfiora ormai i 50 anni negli enti pubblici di ricerca e i 60 nelle università, e che è uno dei problemi più rilevanti della ricerca italiana (Osservatorio Regionale per l'Università e per il Diritto allo Studio, 2002).

La riforma degli enti di ricerca La riforma degli enti di ricerca, i cui obiettivi sono assai ambiziosi, si è concretizzata rapidamente con la pubblicazione dei tre decreti legislativi 4 giugno 2003, n. 127 (CNR), n. 128 (Asi) e n. 138 (INAG) 2 . Nell'ordine, gli obiettivi enunciati sono: focalizzare tutte le attività degli enti su obiettivi strategici per il Paese delineati nelle Linee guida per la ricerca, creare un sistema di ricerca


all'altezza della sfida del mondo globalizzato, realizzare reti di ricerca capaci di integrarsi nel sistema delle reti europee; aiutare il nostro sistema produttivo a recuperare competitività tecnologica; favorire la convergenza delle attività di ricerca sugli obiettivi interdisciplinari individuati nel VI Programma quadro; sviluppare la cultura manageriale di progetto dei ricercatori; superare le criticità derivanti da inefficienze, sovrapposizioni o duplicazioni di attività che portano a dispersioni di risorse. Nell'ambito della riorganizzazione degli enti, una funzione essenziale è svolta dalla istituzione del Dipartimento, affidato a un Direttore, responsabile della programmazione e della valutazione dell'attività di ricerca. Il Dipartimento è introdotto nel CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e nell'INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). Per l'Asi (Agenzia Spaziale Italiana), che svolge attività di Agenzia, si è ritenuto invece di strutturare il modello organizzativo su settori tecnici. La finalità perseguita con il riordino è essenzialmente quella di adeguare la missione e la struttura organizzativa del sistema pubblico di ricerca al mutato contesto europeo, così da favorirne l'inserimento nelle reti di ricerca europee e internazionali. Si prefigura la realizzazione di un sistema europeo della ricerca e si concentrano i finanziamenti su reti di centri di eccellenza e su programmi integrati, a carattere interdisciplinare; le Linee guida per la politica scientiiìca e tecnologica del Governo, approvate dal Cipe il 19 aprile 2002, recepiscono tali indicazioni a livello nazionale (MIuR, 2002 b). La riforma ha tra le proprie finalità l'ottimizzazione dell'allocazione delle risorse in seno ad ogni ente, lo snellimento burocratico e la riduzione del numero degli enti attraverso l'eliminazione delle duplicazioni delle aree di competenza scientifica, ma agisce unicamente sull'assetto istituzionale ed organizzativo degli enti, senza intervenire, come sarebbe necessario, sui criteri di allocazione dei finanziamenti. Inoltre, benché la razionalizzazione del sistema sia evidentemente un obiettivo condivisibile e necessario, è con qualche preoccupazione che si osserva che tra gli enti coinvolti vi sono alcune delle esperienze più innovative e significative del sistema nazionale della ricerca, come ad esempio l'INFM, che sarebbe stato importante salvaguardare e promuovere nell'ambito del processo di riordino. Il dibattito si è sviluppato prevalentemente, e molto retoricamente, sul tema del rapporto tra autonomia della scienza e responsabilità politica nell'organizzazione della ricerca scientifica. A tal proposito, per l'analisi della storia di tali rapporti nel nostro Paese e dei problemi che si presenteranno nel futu109


ro, appare illuminante la ricostruzione storica dell'esperienza del CNR (Figà Talamanca, 1998).

Le norme sui brevetti Un altro provvedimento direttamente collegato alle attività di ricerca e sviluppo riguarda la disciplina dell'attività di brevettazione da parte dei professori universitari (legge n. 383/01, art. 7). Contrariamente a quanto avviene in tutti i principali Paesi industrializzati, Stati Uniti compresi, la nuova disciplina prevede che i professori universitari possano brevettare a proprio nome ciò che ritengono più opportuno e che su questo le università non abbiano alcun diritto, indipendentemente dal fatto che l'attività di brevettazione derivi da ricerche condotte con risorse (soldi, strutture, locali etc.) dell'ateneo. Questa norma è in contraddizione con l'iniziativa di alcuni atenei, che negli ultimi anni avevano cominciato a dotarsi di propri regolamenti brevetti, nei quali venivano previsti compensi adeguati all'inventore in caso di successivo sfruttamento commerciale (solitamente definiti con il termine tecnico di equo premio), in cambio del servizio di registrazione con oneri a carico del bilancio dell'università del brevetto, nonché di tutte le attività di valorizzazione commerciale finalizzata alla vendita del brevetto o alla sua concessione in licenza. Alcuni atenei hanno cominciato ad aggirare il provvedimento attraverso il rilascio di una liberatoria da parte del docente, che deroga alla legge vigente, scegliendo di tornare al regime precedente articolato nei regolamenti universitari (Calderini e Sobrero, 2003). Tale normativa, inoltre, desta qualche preoccupazione tra le forze sociali, che ritengono che sia "necessario rivedere la politica brevettuale recentemente adottata che trasferisce la titolarità dei brevetti dall'ente pubblico di ricerca ai singoli ricercatori. In conseguenza di tale normativa, peraltro, le imprese stanno riducendo la collaborazione in attività di ricerca con università ed enti di ricerca, poiché non hanno la garanzia che gli eventuali brevetti ottenuti siano poi sfruttabili industrialmente" (CGIL, CIsL, UIL, Confindustria 2003). ALCUNE ESPERIENZE POSITIVE

Ilfinanziamento della ricerca universitaria: iPRJN Sino alla metà degli anni Ottanta il sistema di distribuzione delle risorse per la ricerca universitaria presentava, oltre ad un significativo deficit di risorse, gravi problemi di tipo allocativo, legati essenzialmente: 110


- alla selezione delle proposte da parte di comitati di rappresentanti eletti e non da esperti; - al finanziamento a pioggia, concesso in misura significativamente inferiore alle esigenze dei progetti; - all'inesistenza di un rigoroso e trasparente sistema di valutazione scientifica ex-ante ed ex-posì, - all'assenza di incentivi alla ricerca di cofinanziamento delle iniziative (Catalano e Silvestri, 1996). A partire dal 1997 è stato avviato un nuovo sistema di distribuzione delle risorse dei Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PIuN), fondato su un meccanismo di peer review, su scala nazionale ed internazionale, gestito da un Comitato di garanti nominato dal ministro. Tale sistema prevede che le singole proposte, presentate dalle università siano valutate da revisori esterni anonimi, esperti nello specifico campo di indagine ed individuati dai garanti. Ciascuna proposta deve esplicitare la disponibilità di una quota di cofinanziamento pari al 30-40% delle risorse necessarie per lo svolgimento della ricerca. Su questa base si svolge una vera e propria competizione tra le aree disciplinari ed all'interno di esse tra i diversi settori scientifici, fermo restando un livello minimo di risorse riservato a ciascuna area disciplinare (3%). Le regole della competizione sono definite annualmente dal Comitato dei Garanti nel cosiddetto Documento di indirizzo, che presenta i criteri con cui si svolge la valutazione ex-ante dei progetti, dell'erogazione dei finanziamenti, le procedure di monitoraggio in itinere dello svolgimento dei progetti, nonché di eventuale revoca dei finanziamenti ottenuti, e le modalità della valutazione ex-post(MIUR, 2002 a). Una particolare attenzione è dedicata ai criteri per l'attribuzione delle risorse, che, fermo restando il principio di finanziare interamente le proposte per i costi riconosciuti, prevedono un'analisi dei costi previsti, tenendo conto del costo medio pro-capite annuo delle ricerche proposte per ogni area e per ogni singola voce di spesa (una sorta di valutazione di congruità dei costi di produzione per ciascuna tipologia) e approfondendo l'analisi in cui si presenti uno scostamento significativo dalla media. La fig. n. 5 illustra l'andamento dei finanziamenti alle aree disciplinari 3 nel quadriennio 1998-2001. Come si vede i finanziamenti più elevati hanno riguardato nell'ordine l'Area Medica, le Scienze Biologiche, le Ingegnerie, la Chimica e la Fisica. 111


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Fonte: calandra, 2003 a

Fig. n. 5: I/finanziamento delle aree scientfìche nei PRIN 1998-2001

fig.

Nella n. 6è riportata la media degli indici di partecipazione (il rapporto tra il numero di partecipanti e quello degli aventi diritto a partecipare) e di successo negli ultimi anni per ciascuna area scientifica. Al di là delle valutazioni che si possono esprimere sui meccanismi di questo tipo per gli esiti dei singoli progetti, che possono essere influenzati da fattori contingenti, il nuovo sistema ha consentito, anche grazie ad un consistente incremento delle risorse disponibili, uno sviluppo più ampio della concorrenza ed ha introdotto un'innovativa (anche a livello internazionale) metodologia di valutazione dei progetti, gestita esclusivamente su supporto informatico. Un'analisi complessiva dell'esperienza relativa al finanziamento dei PRIN consente di trarre alcune considerazioni. Non vi è dubbio che la introduzione dei PRIN abbia contribuito a modificare sensibilmente il sistema di ricerca universitario, introducendo elementi di selezione, non presenti nel sistema precedente. Il bando ha dimostrato la possibilità di finanziare programmi sulla base di elementi di merito e con finanziamenti adeguati agli obbiettivi da 112


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Fonte: Calandra. 2003 i,

Fig. n. 6: Gli indici di partecipazione e successo dei PRIN 1998-2001

raggiungere. Il ricorso a revisori esterni, messo in opera per la prima volta in questo contesto, è divenuto uno strumento consolidato di valutazione da parte del ministero ed è stato adottato in altri bandi. Innanzitutto, è evidente come in alcune aree disciplinari il bando PRIN costituisca l'unica fonte di finanziamento, comportando così un numero di proposte fortemente in eccesso rispetto alle risorse disponibili. Per ridurre tale discrepanza potrebbe essere utile l'introduzione di una varietà di canali di finanziamento alternativi. In secondo luogo, l'attuale mancanza di una valutazione ex-post potrebbe essere evitata, con un minimo dispendio di risorse, ricorrendo alla valutazione di un numero ridotto di progetti, scelti ad esempio tra quelli più costosi. Infine, è necessario minimizzare la sovrapposizione di finanziamenti ai medesimi gruppi nell'ambito della stessa proposta di ricerca, attraverso la introduzione di sistemi di coordinamento tra bandi (Calandra, 2003 a).

Il FJRB Una delle esperienze più interessanti degli ultimi anni è costituita dal FI1u3, istituito a valere sui fondi derivanti dalla cessione delle licenze UMTS, con una disponibilità complessiva di circa 370.000 euro. Esso è stato articolato in tre parti: 113


otto piani nazionali 4, con bandi tematici a scadenza ed alcuni vincoli di composizione del gruppo di ricerca (240 Milioni di euro); una parte del 5% per proposte di minore entità coerenti con i piani, con bando tematico a sportello (12,9 milioni di euro); proposte libere con bando a sportello, dal 1° ottobre 2001 (62 milioni di euro). A differenza del PRIN, il bando per l'assegnazione dei fondi FIRB è aperto non solo alle università, ma a tutte le componenti del sistema di ricerca nazionale (enti pubblici di ricerca, imprese, aziende sanitarie, fondazioni, etc.). Un'aspetto interessante è il bando FIRB a sportello libero, che ha le seguenti caratteristiche: - l'assenza di indicazioni tematiche (in comune con il PRIN); l'assenza di specifici vincoli relativamente alla possibilità di partecipare come responsabile; - la possibilità di rendicontare i costi delle strutture proponenti; - l'assenza di confronto tra le proposte, la cui valutazione segue l'ordine di presentazione. Proprio la mancanza di determinati vincoli ha stimolato la partecipazione di ricercatori non confermati e personale non strutturato (dottorandi e assegnisti di ricerca), che in assenza di specifiche misure destinate ai giovani ricercatori costituisce un aspetto incoraggiante e positivo del bando (Calandra, 2003 b). Per un confronto tra la partecipazione dei giovani ricercatori ai bandi PRIN e FIRB, si vedano rispettivamente lafig. n. 7e lafig. n. 8. Questa esperienza consente, tra l'altro, di valutare i pro e i contro del sistema «a sportello», per il finanziamento dei progetti di ricerca. Da un lato, questo tipo di approccio presenta il vantaggio, in assenza di una specifica scadenza, di poter presentare i progetti in qualsiasi data, ma con l'inconveniente di una inevitabile concentrazione, almeno in prima battuta, di un significativo numero di domande che può comportare l'intasamento della procedura. A regime, in realtà, questa tipologia consente una valutazione più celere delle proposte e la possibilità di finanziamento di tutte le iniziative; inoltre, l'assenza di una deadline, oltre la quale non è più possibile presentare domande, con i rilevanti profili di incertezza del futuro, comporta la presentazione di un minor numero di proposte con una migliore qualità, anche se esse sono private di un confronto relativo e beneficiano di una minore selettività.

114


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Fig. n. 7: Ipartecipantifinanziati con età inferiore a 35 anni ai PRjv 2000-2002

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Fig. rì. 8: IpartecipantiJinanziati con età inferiore a 35 anni al FJRB a sportello libero 2001 115


ALCUNE POSSIBILI INIZIATIVE

Gli interventi da realizzare, in termini di urgenza e priorità, sono i seguenti: Programmare un aumento dei finanziamenti e quindi delle attività di ricerca che, in termini di risorse umane dedicate nel pubblico e nel privato, consenta di passare dagli attuali 75.000 anni/uomo di ricercatore ad almeno i! doppio (vicino alla media europea) nei prossimi otto-dieci anni. A questo aumento il settore pubblico contribuirà inizialmente per la parte maggiore, creando però le condizioni per una crescente condivisione col settore privato, fino ad arrivare ad un investimento finale privato superiore a quello pubblico. Tale incremento dovrebbe essere programmato su base pluriennale, al fine di consentire alle aziende ed al mondo della ricerca pubblica di definire il profilo dei propri investimenti e delle proprie attività a fronte di uno scenario certo. Una prospettiva di tal genere potrebbe senza dubbio essere favorita dalla introduzione della cosiddetta "golden rulé' nel Patto di stabilità e di crescita, escludendo la spesa per la ricerca e sviluppo (rigorosamente definita e controllata) dai vincoli che impongono il pareggio di bilancio. Occorre valutare, però, con grande attenzione e cautela la attivazione della leva degli sgravi di imposta per incentivare le aziende ad aumentare gli investimenti: infatti, in questo ambito lo strumento automatico si presenta più problematico per via delle gravi asimmetrie informative esistenti. A tal proposito, appare preoccupante che le forze sociali concordino soprattutto sulla necessità dell'impegno del settore pubblico (il "terzo pagante"), piuttosto che sulla opportunità di affrontare i problemi che appartengono direttamente al proprio ambito di attività: per le imprese, i rischi dell'investimento in ricerca; per i sindacati, la discussione di nuove regole relative alla prestazione lavorativa dei ricercatori, evitando che la flessibilità, indispensabile per il sistema, gravi esclusivamente sulle nuove generazioni (sotto il profilo sia della remunerazione e della precarietà del rapporto di lavoro, sia delle minori garanzie previdenziali). Attivare un ringiovanimento complessivo della ricerca e una sua flessibilizzazione, con una rapida crescita nel numero di persone in formazione, attraverso la ricerca, sia nelle università che in organismi pubblici e privati, assicurando il collegamento formativo e la conseguente mobilità tra ricerca e innovazione e attività imprenditoriali, di servizio e amministrative. Le persone in formazione dovrebbero crescere significativamente, coinvolgendo nelle attività di supporto e di formulazione dei programmi formativi tutte le realtà potenzialmente interessate (fondazioni, imprese, studi professionali, amministrazioni private e pubbliche). Tale ringiovanimento non dovrebbe avvenire solo at116


traverso la programmazione nel tempo delle assunzioni, evitando i "salti generazionali" che sono la caratteristica storica del nostro Paese, ma anche, e forse soprattutto, attraverso la responsabilizzazione dei giovani ricercatori nella realizzazione e nella gestione di progetti di ricerca con la introduzione di opportunità di finanziamento ad essi esclusivamente destinate (Calandra, 2003 b). Assicurare l'allocazione delle nuove risorse finanziarie verso una crescita equilibrata del sistema in un ambito competitivo ed europeo, con riferimento alla costruzione dello spazio europeo della ricerca e di spazi condivisi tra ricerca di base e formazione (a prevalente supporto pubblico) e trasferimento/consulenza e innovazione (a prevalente impegno privato), su settori e programmi selezionati e con interventi basati sulla valutazione dei risultati. Rafforzare il coordinamento tra le varie azioni di sostegno alla ricerca e all'innovazione a livello interministeriale, attivando progetti comuni in collegamento con i progetti europei, e operando per il raggiungimento di dimensioni superiori a quelle critiche per la partecipazione ai progetti infrastrutturali e internazionali. Creare, nel contesto delle altre azioni, le condizioni operative e strutturali per la ricerca di base e applicata che permettano di arrestare l'attuale emigrazione di persone di alto livello scientifico e di richiamare ricercatori italiani operanti in altri Paesi, oltre ad assicurare la disponibilità o il richiamo dei tecnici e ricercatori stranieri necessari per la competitività del sistema industriale e dei servizi, proseguendo nelle positive iniziative intraprese negli ultimi anni. Appare inoltre opportuno sviluppare ulteriormente le iniziative di incentivo finanziario, già positivamente attuate negli ultimi anni, per la mobilità dei ricercatori tra le diverse sedi universitarie e gli enti di ricerca, evitando la loro crescita "incestuosa" (Calandra, 2003 b). Passare dal finanziamento degli enti al finanziamento del Programma Nazionale della Ricerca, con la costituzione del Fondo nazionale per la ricerca scientifica e tecnologica a carattere triennale. A tal proposito appare importante procedere ad una modifica delle "regole del gioco" sulla base di un sistema simile a quello adottato con risultati positivi per le università (Catalano e Silvestri, 1999): la concentrazione delle risorse in un unico Fondo per il finanziamento per la ricerca scientifica e tecnologica 5 , ad eccezione di quelle destinate alla ricerca applicata, l'introduzione di un processo di assegnazione delle risorse sulla base di programmi triennali nell'ambito del Programma Nazionale della Ricerca, attraverso un riequilibrio delle risorse attualmente destinate agli enti pubblici di ricerca sulla base di piani sostanzialmente auto117


referenziali, l'introduzione di un sistema di valutazione dei risultati e di incentivi allo sviluppo di attività cofinanziate. Articolare in modo equilibrato il sistema di finanziamento tra le due diverse modalità: quella degli enti e quella dei progetti di ricerca. Il finanziamento degli enti è l'unica soluzione finora adottata in tutti i maggiori Paesi per (i) assicurarsi la disponibilità di professionalità avanzate; (ii) gestire grandi laboratori o infrastrutture di ricerca; (iii) assicurare la realizzazione di grandi programmi. Naturalmente il pericolo di un finanziamento agli enti è quello di finanziare strutture con alti costi e bassa produttività scientifica. L'esperienza di USA e Regno Unito (e in misura minore Francia e Germania), che hanno per primi seguito la strada di ridimensionare gli enti per puntare prevalentemente sui finanziamento di progetti, è largamente negativa e questi Paesi stanno reintroducendo ciò che avevano rimosso (si vedano in proposito le vicende relative alle sorgenti di neutroni o al programma post-genoma). Il nostro sistema appare, invece, troppo "ingessato" dal finanziamento agli enti, erogato sostanzialmente su base storica, mentre, come si è visto nel paragrafo precedente, risultati positivi hanno mostrato le esperienze degli ultimi anni di finanziamenti concessi a progetti di ricerca su base competitiva e "a sporte!lo". In tale prospettiva appare necessario rendere più programmabile l'attività e la spesa in ricerca delle università e degli enti di ricerca, suddividendone i finanziamenti in una quota di base (automaticamente erogabile) e un fondo di riequilibrio e rilancio crescente ed erogabile in base a programmi/progetti e valutazioni, pari ad almeno il 30% del totale. Introdurre, tra i criteri di valutazione per l'attribuzione delle risorse, sia l'impegno nella formazione di nuove leve e l'attrazione di risorse anche umane dall estero, sia 1 attivazione di sinergie pubblico-privato anche internazionali. A tal proposito va sottolineata la necessità di introdurre un sostanziale livello di competizione internazionale, sia nella selezione delle risorse umane, sia nell'assegnazione delle risorse finanziarie, soprattutto di origine nazionale. Istituire un'agenzia che assuma il compito di valutazione e gestione dei grandi programmi di finanziamento, attualmente svolto dal ministero. Questa situazione si è creata con il tempo e, per quello che riguarda la ricerca di base negli enti e nelle università, in epoca recente, essenzialmente per impedire che questo ruolo venisse svolto dal CNR (che tradizionalmente aveva funzionato da agenzia fino all'inizio degli anni Novanta). Non esiste Paese in cui le funzioni di agenzia siano svolte dal ministero, cui spettano invece i fondamentali compiti di indirizzo e programmazione generale e non quelli di valu118


tazione e selezione di proposte scientifiche, svolti di norma da una o più strutture indipendenti (NSF, NIH, etc.), vigilate dal governo. Istituire, con iniziativa a carattere sperimentale, enti di ricerca quali fondazioni di diritto privato (con la partecipazione di istituzioni pubbliche e privati). Appare necessario aprire il tradizionale mondo degli enti pubblici di ricerca alle istituzioni territoriali ed ai privati, al fine di garantire una contemporanea crescita delle risorse. È paradossale che alle iniziative che si sono mosse per prime su questa strada sia precluso o fortemente limitato, sulla base delle attuali norme, l'accesso al finanziamento pubblico. Analizzare la possibilità di spostare la valutazione della ricerca sulle strutture e le organizzazioni, piuttosto che sui singoli programmi, secondo le linee adottate dal Research Assessment Exercise, attivato nel Regno Unito a partire dai primi anni Novanta. Si tratta di una procedura complessa e, di conseguenza, costosa, la cui sperimentazione potrebbe essere però opportuna secondo le linee ipotizzate dal CIVR (CIvR, 2003) e dal CNVSU. In conclusione, appare condivisibile la preoccupazione che la realizzazione, come è già avvenuto negli ultimi anni, di riforme che muovono nella direzione giusta ottenga risultati parziali o, addirittura, controproducenti, in assenza di un ringiovanimento delle risorse umane e di una crescita di quelle finanziarie (Rizzuto, 2001). D'altra parte, però, solo l'introduzione di "regole del gioco" innovative nella governance e nel finanziamento del sistema ricerca può creare le condizioni per una crescita delle risorse e per un loro efficace impiego. I Inoltre, numerosi studi avvertono sulle cautele e gli approfondimenti metodologici che sono necessari nell'uso di indicatori bibliografìci (Viale e Cerroni, 2003; Figà Talamanca A., 2001), la cui analisi critica costituisce un primo interessante elemento di confronto (Brero et aL,

2002). 2 Gazzetta Ufficiale, 6 giugno 2003, n. 129, e 19 giugno 2003, n. 140. 3 Area 01: Scienze Matematiche; Area 02: Scienze Fisiche; Area 03: Scienze Chimiche; Area 04: Scienze della Terra; Area 05: Scienze Biologiche; Area 06: Scienze Mediche; Area 07: Scienze Agrarie e Veterinarie; Area 08: Ingegneria Civile - Architettura; Area 09: Ingegneria Industriale e dell'Informazione; Area 10: Scienze dell'Antichità, Letterarie e Artistiche; Area 11:

Scienze Storiche e Filosofìche; Area 12: Scienze Giuridiche; Area 13: Scienze Economiche e Statistiche; Area 14: Scienze Politiche e Sociali. Neuroscienze, nanotecnologie, scienze umane, IcT I, post-genoma, ing. medica, tutela e sicurezza, tecnologie ICT lI. 5 In particolare, è auspicabile che tutti gli stanziamenti previsti nel bilancio dello Stato da destinare ai sensi della normativa vigente o di successivi provvedimenti legislativi agli enti ed alle istituzioni di ricerca, nonché a finalità di sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica e di diffusione della stessa, siano determinati con un'unica autorizzazione di spesa ed affluiscano ad un apposito Fondo per il finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica istituito nello stato di previsione del MIuR. 119


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Scienze sociali, scienze dure e unità del sapere di Ernesto Di Mauro

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on riesco ad accettare, né a comprendere fino in fondo, la separazione che viene fatta tra hard sciences e sofi sciences. Questa distinzione sembra essere diventata il problema centrale del dibattito sulla scienza, dell'elaborazione programmatica della ricerca e delle attese che vengono riposte nella sua pianificazione. La valutazione dei risultati ottenuti od ottenibili, e la conseguente distribuzione delle risorse, risentono della stessa aporìa di fondo. Partendo dall'antica considerazione che la scienza è filosofia sperimentale, non mi sembra giustificata neppure la distinzione, più familiare, tra scienze umane e scienze fisiche. La ricerca scientifica, quando non è puro mestiere o specializzazione tecnica, è la risposta ad un'unica esigenza di fondo la cui natura è raffinatamente e totalmente ontologica. La ricerca non è né pura né applicata, i due aspetti sono indissolubili. Naturalmente ciò non va inteso nel senso di una minor valutazione della tecnica, o come un tentativo di costringere la ricerca in un quadro in qualche modo metafisico. Al contrario, ogni volta che viene definito un sistema sperimentale innovativo, o che viene messa a punto una tecnica originale, ogni volta che una macchina di concezione diversa dalla precedente comincia a funzionare, risposte nuove non tardano a diventare patrimonio comune e a porre rinnovate basi di partenza. La considerazione che sia più difficile formulare domande di quanto non sia ottenere risposte è basata sui riconoscimento dell'importanza del quadro tecnologico di riferimento. Secoli di scienza sperimentale hanno fatto giustizia di queste distinzioni fondate su pregiudizi antichi e sedimentati, in un senso e nell'altro. Poiché, in qualche modo, il dibattito su quanto distingua hardda softè però vivace e potenzialmente influente, la mia impostazione olistica va giustificata e dimostrata, partendo dalla considerazione antica: L'Autore è Ordinario di Biologia Molecolare, presso la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell'Università La Sapienza di Roma. 122


cqicptupov ouv a&ù, non canto nulla che non sia testimoniato (Callimaco,fr 612 Pf). ASTRONOMIA E ORIGINE DELLA VITA

Il grumo di domande "Chi siamo - da dove veniamo - dove andiamo?" ha avuto nel tempo risposte diverse e complesse, per lo più rassicuranti, tutte comunque ben centrate all'interno di uno scenario il cui sfondo è il pianeta sul quale viviamo. Siamo stati inseriti in questo scenario familiare dalla mano di Dio e da tutte le innumerevoli cosmogonie che i gruppi umani che si sono sovrapposti nel tempo hanno saputo immaginare. Dai Cataclismi di Buffon al darwiniano Survival of the fittest, agli elenchi evolutivi e gerarchici dei pantheon indoeuropei e tao, siamo sempre stati in grado di spiegarci in dettaglio da dove veniamo, lungo una catena di obbedienza genetica ininterrotta nel tempo. Sempre, comunque, sul pianeta che ci ospita. Fino però al lancio di sonde spaziali con a bordo telescopi in grado di spettroscopizzare lo spazio lontano, e di rimandare ai nostri computer informazioni che sono allo stesso tempo noioso-ripetitive e sconvolgenti. Le immagini ricostruite a partire da segnali inviati da macchine come Hubble ci descrivono nubi cosmiche di dimensioni difficilmente accettabili, nella loro realtà, da parte di menti umane organizzate ed evolutesi per impadronirsi di spazi misurabili in ordini di grandezza ben diversi. Il fatto nuovo è che in queste nubi cosmiche si formano, nascono, e muoiono stelle e galassie intere; che all'interno di queste stelle, fornaci di trasformazioni atomiche, l'idrogeno si trasforma in elio, l'elio in atomi più grandi, e così via fino all'esaurimento dell'energia che le sostiene. Le stelle allora esplodono e spargono al proprio intorno, per migliaia di anni luce, gli elementi complessi, l'ossigeno il carbonio l'azoto il ferro dei quali sono formati i nostri corpi e dei quali (per i non religiosi) si alimentano i processi fisiologici che definiamo come mente. Le nubi cosmiche dalle quali nascono le stelle sono, nelle galassie mature, fatte esattamente di quello di cui è fatta la Terra: idrogeno ossigeno e azoto, ma anche acqua, anidride carbonica e ammoniaca; e silicio e composti organici complessi, polvere ed energia che non possono non reagire tra loro a formare composti ancora più complessi e che, in effetti, lo fanno. Lo spazio è pieno di polveri cosmiche reattive e cariche d'energia, polvere che cade dappertutto trascinata dai venti stellari e dai vortici delle asimmetrie. 123


E se depositandosi questa polvere trova le condizioni adatte, i suoi componenti non possono non dare inizio a reazioni più complesse, a quello che per mancanza di parole più adatte chiamiamo vita. È forse ora di chiedere ad ermeneutica e semiologia qualche definizione nuova e più accurata, in grado di descrivere queste conseguenze delle leggi della termodinamica. Leggi valide in tutto l'universo e che sulla Terra hanno trovato condizioni adatte. La sonda Cosmic Background Explorer (C0BE), lanciata dalla NASA nel 1993, ha scoperto ai confini dell'osservabile le increspature lasciate dal big bang, rivelando i semi della struttura del nostro Universo. Sta per essere lanciato ÌvIAl (Microwave Anisotropy Probe), il cui scopo è cambiare ancora più in profondità il nostro pantheon cosmologico. COBE ha fornito risposte alla domanda su quanto sia vecchio l'Universo (13 miliardi e 700 milioni di anni), sulla velocità della sua espansione (ogni megaparsec di spazio si allunga di 71 km al secondo) e di che forma abbia (è - incredibile ma vero - piatto); ìvLi' potrà rispondere alla domanda di come questo sia iniziato. Avere un modello cosmologico standard non è solo una conquista della fisica. E un punto d'arrivo della filosofia e della auto-coscienza umana. Dove è, nella formulazione di domande ontologiche e nelle risposte fornite da una sonda spaziale di ultima generazione, filtrate da teogonia e psicanalisi e verificate da informatica e da biologia molecolare, dove è nascosta la differenza tra scienze sociali e scienze dure? E quale illuminata Confindustria avrebbe finanziato un programma di ricerca spaziale per rispondere al vòOt aut6v che prima di Socrate aveva formulato Talete, e prima ancora era graffiato su qualche eleatica tavoletta di coccio? SEMI0L0GIA ED INTERPRETAZIONE DEI GENOMI

'>lppelons herméneutique l'ensemble des connaissances et des techniques qui permettent de faire parler les signes et découvrir leur sens; appelons sémiologie l'ensembie des connaissances et des techniques qui permettent de distinguer où sont les signes, de deìnir ce qui lui les institue comme signes, de connattre leurs liens et les bis de leur enchatnement: le X1/I' siècle a superposé sémiobogie et herméneutique dans la forme de la similitude' in questo passo di "Les mots et les choses" (Cap. Il, 2, Les signatures) Michel Foucault pone le basi della sua nuova teoria sull'interpretazione della realtà, tentativo di passare al di là dello strutturalismo più puro, comunque partendo da esso. Il secolo XVI è la sua base di partenza per la comprensione della scienza moderna, una sorta di metafora storica fondante. Il senso centrale e la 124


ragione per cui ricordo tale passo in questo contesto, è che credo sia profondamente vero che le due forme di base della conoscenza, scienza del segno-significato e scienza dell'interpretazione, trovino la loro sintesi nella similitudine. E oggi sappiamo che la similitudine è la sovrapposizione di circuiti neuronali e il conseguente senso di novità e di appagamento, atto effettivamente creativo. La similitudine è il metodo con il quale leggiamo il DNA e con il quale tentiamo di interpretare il nostro patrimonio genetico. Il DNA è il genotipo. Ciò che appare, ciò che è visibile, è il fenotipo, i! corpo. In tutti gli organismi ad un genotipo corrisponde un fenotipo, in un rapporto di alternanza di generazioni che si snoda nel tempo. Per quanto possano essere singolari e stupefacenti gli esseri viventi, e per quanto possano apparire unici, non è nulla di più di un fenotipo che incarna un genotipo, un lineare mettere in pratica l'informazione programmata del DNA. Che il genoma umano sia stato decifrato è fatto troppo noto nei suoi dettagli per dovere essere ricordato. Meno noto è il grande sforzo di interpretazione richiesto per comprendere il significato dei quattro miliardi e mezzo di lettere ATGC, acronimi delle quattro sostanze chimiche che si susseguono in combinazione infinitamente variabile dall'inizio dei primo cromosoma fino al telomero dell'ultimo. L'analisi post-genomica è stata impostata sulla scienza dell'analisi del linguaggio, sullo strutturalismo ginevrino e sugli appunti che gli studenti di de Saussure hanno preso in aule severe all'inizio del secolo passato. La decisione che un gene sia un'unità di significato, e di come questo semema entri a far parte di un contesto genetico più ampio, è presa a partire dai risultati dell'analisi del vero senso dell'organizzazione dei testi dizionariali o enciclopedici, dalla valutazione degli effetti lessicali di contesto; in ultima analisi, dallo studio delle vere differenze tra poesia ed elenchi telefonici. E se si è riuscito a capire come è fatto il gene BRCAJ, la cui mutazione aumenta la probabilità del cancro al seno, io si deve all'analisi lessicale, agli studi dei medievalisti che hanno ripercorso i processi logici di Raimond Llull, e a coloro che hanno conservato e studiato l'opera del vescovo inglese John Wilkins, il quale ha cercato, nel Seicento, la vera lingua universale con la quale descrivere la mente di Dio attraverso la parola degli uomini. Luis Borges non ha letto l'opera di Wi!kins (Essay toward a real character); l'ha soltanto, com'è nel suo stile, immaginata. E però importante rileggere questo passo del suo EI idioma analitico de John Wilkin el doctor Franz Kuhn atribuie a cierta enciclopedia china que se intitula 125


Emporio celestial de conocimientos bénevolos. En sus remotas pdginas est4 escrito que los animales se divien en a) partenecientes al Emperador, b) embalsamados, c) amaestrados, d) lechones, e) sirenas, f) fabulosos, g) perros sueltos, h) incluidos en esta clasificaciòn, i) que se agitan como iocos, j) innumerables, k) dibujados con un pincelfinisimo de pelo de camelo, I) etcétera, m) que acaban de romper eljarròn, n) que de lejos, parecen moscas". Questa classificazione è ferocemente assurda. Ma mette in chiaro una grande verità: cosa hanno in comune i lattonzoli, gli animali che hanno appena rotto il guinzaglio, quelli che appartengono all'Imperatore, gli eccetera? Risulta chiaro (e lo è tanto più, quanto più è assurdo l'insieme dei termini) che la sola cosa che condividono è l'appartenenza ad un unico catalogo. Così i geni, così il DNA. Il mio gene per l'emoglobina ha un senso perché è inserito in un mio cromosoma, così quello per le mie proteine muscolari, così tutti gli altri. Se li decontestualizzo, se li sposto da un cromosoma ad un altro; se faccio, come si dice, ingegneria genetica, ecco che il senso dell'unità genetica viene perso. Da un organismo vivente allora passo alla molecola. Senza "EI idioma...." questo concetto sarebbe probabilmente ancora nascosto nei circuiti dei microchzjp dei computer che per Craig Venter e per la Celera hanno decifrato il Genoma Umano. Naturalmente usando, nella sua impresa eroica, come sanno i più, venture capitals e garantendo guadagni sostanziali agli azionisti (e usando come mezzo di validazione delle sequenze, ottenute privatamente, i dati pubblicati da HUGO, l'organizzazione a fondi pubblici che è giunta in parallelo agli stessi risultati). Riuscire a seguire la via percorsa da un organismo geneticamente modificato è particolarmente difficile. Dal laboratorio che l'ha inventato, all'industria che l'ha prodotto, ai campi in cui è cresciuto e, lungo vie complesse e ben poco etichettate, fino alla nostra tavola. Il National Institute ofAgricultural Botany (NIAB) di Cambridge ha in questi giorni validato un brevetto su un codice a barre di DNA. Un frammento di DNA viene, secondo questa tecnica, inserito nel genoma dell'Ogm accanto alla modifica. Una specie di firma nella quale sono inseriti i dettagli dell'operazione svolta (nome, data, procedura); una firma scritta in lettere chimiche piuttosto che con lettere alfabetiche, una sorta di linguaggio basato su quello che in realtà il DNA effettivamente è: un computer chimico. Viene in mente quella frase dello storico J. Chadwick a proposito della decifrazione del "Lineare B"da parte dell'archeologo-criptologo Michael Ventris: "Copiare accuratamente un'iscrizione in caratteri ignoti è difficilissimo ' 126


Senza strutturalismo e senza teosofia, senza Lévi-Strauss e senza Wittgenstein, la conformazione dei miei cromosomi e la genetica molecolare del mio genoma sarebbe a me stesso molto più confusa. E allo stesso modo non potrei, senza conoscere completamente i miei cromosomi, specularmente apprezzare fino in fondo la bellezza delle parole di Melisso: 'Non c'è nascita per gli esseri, secondo Empedocle, ma solo mescolanza e scambio delle cose che si mischiano; nascita è solo un nome inventato dagli uomini" (fr. A5D.K). La separazione tra sofi sciences e hard sciences è dunque, al massimo, operativa. E non mi riferisco ad una Nuova Alleanza alla Prigogyne, ma ad una alleanza che non si è mai interrotta per necessità intrinseca, per il modo stesso con il quale funziona il cervello umano. Rompere questa alleanza, incrinare questa unità significa poter forse prendere il volo. Ma senza direzione, cuOuii ' jcya OaXaoitopt, vagando per il mare come un gabbiano (Callimaco, AP VII 277). La bellezza di questa parola, talassoporein, vagare per il mare, ci suggerisce forse che tra scienza hard e scienza sofi debba trovare posto, e non secondario, anche l'estetica. E ci suggerisce che vale la pena conservare, in fin dei conti ma fino in fondo, i valori umani che altri hanno elaborato per noi pagando in proprio.

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La politica e l'organizzazione della ricerca in Italia: una questione di finanziamenti stata li?* di Massimiano Bucchi

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entre il terna del rapporto tra scienza e potere politico può essere osservato sin dagli albori e lungo tutto i arco della storia dell impresa scientifica, la politica della ricerca si configura come area di publicpolùy specifica sulla base di una serie di circostanze maturate tra le due guerre mondiali. A partire dal secondo dopoguerra, numerosi fattori - su tutti, il ruolo avuto dagli scienziati nel conflitto e i nuovi equilibri politici internazionali - contribuiscono a rafforzare la convinzione che il potere politico dipenda in misura crescente dal contributo regolare della scienza e della tecnologia; che le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnoiogiche abbiano un'influenza determinante sui destini delle nazioni e del mondo. L'idea della possibilità e l'importanza di un intervento attivo dello Stato nell'ambito della ricerca si radica in questi anni nella classe dirigente della maggioranza dei Paesi industrializzati. Questo periodo vede, quindi, una stretta interazione tra ricerca scientifica, potere politico e organizzazioni militari, ed una forte influenza delle priorità politiche sull'agenda scientifica. L'eredità della guerra si traduceva concretamente nella tendenza - visibile soprattutto negli Stati Uniti - a incanalare gran parte del budget destinato alla ricerca attraverso agenzie specifiche, sovente caratterizzate in senso militare, e un nuovo tipo di istituzioni scientifiche - laboratori quali Oak Ridge e Los Alamos - che lavoravano alle dipendenze dirette o indirette del Governo federale. Il riconoscimento dell'importanza del sostegno pubblico alla ricerca di base e della tutela dell'autonomia delle comunità scientifiche costituiva il tema privilegiato di quello che è considerato uno dei primi documenti programmatici di politica della ricerca: il rapporto preparato da Vannevar Bush per il Presidente americano Roosevelt e significativamente intitolato Science: The Endless Frontier (1945). Secondo questo rapporto, la ricerca scientifica aveva ampiamente dimostrato di poter offrire benefici economici e pratici alla società nei suo complesso. Era l'imUAutore è docente di Sociologia della Scienza all' Università di Trento. 128


magine della scienza come "gallina dalle uova d'oro", come ebbero scherzosamente a definirla alcuni commentatori. Sulla base di questa immagine, si invitava quindi a sostenere generosamente la ricerca in una prospettiva di lungo periodo, rispettando nel contempo l'autonomia degli scienziati e la loro capacità di individuare internamente - attraverso il peer review - i filoni di ricerca più promettenti e meritevoli di investimento in termini finanziari di risorse umane. UNA BREVE RICOSTRUZIONE STORICA

In Italia, invece, la situazione del secondo dopoguerra non coincise con uno stimolo allo sviluppo della ricerca. La perdita di numerosi ricercatori di spicco, emigrati all'estero in seguito ai provvedimenti razziali del fascismo (Israel e Nastasi, 1998), l'azzeramento di quella politica della ricerca che il regime aveva perseguito - seppur con obiettivi prevalentemente nazionalistici - i limiti di bilancio degli anni postbellici, furono alcuni dei fattori che limitarono il rilancio delle attività scientifiche e tecnologiche nel nostro Paese. Unica eccezione la ricerca nucleare, in cui vi fu un rinnovato impegno sia privato che pubblico (con l'istituzione nel 1951 dell'INFN, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare a Frascati e nel 1952 del CNRN, il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) ed una partecipazione attiva ai principali progetti internazionali (Amaldi fu segretario del neonato CERN, Centro Europeo per la Ricer ca Nucleare). Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), istituito nel 1923, fu riordinato e reso organo consultivo (non più obbligatorio) del Presidente del Consiglio, ma i suoi finanziamenti alla fine degli anni Quaranta non raggiungevano lo 0,1% del prodotto interno lordo (Maiocchi, 1998) 1 Se il 1945 e la "dottrina Bush" (Ancarani, 1996) sono generalmente considerati la pietra angolare di un'organica politica della ricerca, un'altra data spartiacque è abitualmente identificata nel 1957. In quell'anno l'Unione Sovietica lancia in orbita il primo satellite artificiale della storia, destando grande impressione nei Paesi occidentali e in particolare negli Stati Uniti, dove questo evento fu considerato un indice dell'avanzamento raggiunto - e quindi della pericolosità - dalla potenza rivale in campo scientifico e tecnologico. La prima conseguenza dell"effetto Sputnik' fu quella di espandere ulteriormente la spesa per la ricerca negli USA, che sino alla prima metà degli anni Sessanta aumentò di anno in anno di circa il 15%. Il sostegno governativo alla ricerca, in particolare, sostanzialmente nullo fino al 1940, raggiungeva nel 1966 i due miliardi di dollari. Negli stessi anni si definisce ulteriormente, a livello internaziona.

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le, anche il ruolo dominante degli Stati Uniti nell'ambito della ricerca e delle relative politiche (Rossi, 1988). Basti pensare che il budget degli USA per ricerca e sviluppo (un binomio sovente sintetizzato con la sigla R&S-R&D nei Paesi anglosassoni) è superiore a quello di tutti gli altri Paesi dell'OcsE (l'Organizzazione Internazionale per la Cooperazione allo Sviluppo, OECD per gli anglosassoni) messi assieme. Alla fine degli anni Sessanta, la somma della spesa per la ricerca degli altri quattro principali Paesi membri dell'OEcD (Germania, Francia, Regno Unito e Giappone) arrivava a 11,3 miliardi di dollari, contro i 23,6 degli UsA. Mentre fino alla Il guerra mondiale era comune per i ricercatori americani completare la propria formazione in università europee quali Cambridge o Gòttingen, a questo punto il flusso migratorio si è in larga misura invertito; sono sempre più numerosi gli scienziati europei che vanno a studiare o a lavorare negli Stati Uniti. Dal 1901 al 1940, gli scienziati americani avevano ottenuto solo dieci premi Nobel sui centotré assegnati; tra il 1956 e il 1965 ne vinsero diciotto su trentatré, Otto SU undici in fisica. È proprio nell'ambito dell'OCsE che si sviluppa un confronto e un coordinamento delle politiche di ricerca dei vari Paesi. Il primo Rapporto dell'OcsE su questo tema, Science and the Policies of Governments, rappresenta una prima codifica delle strategie di politica della ricerca, offrendo agli Stati membri raccomandazioni per la costituzione di comitati consultivi in grado di guidare i governi nell'adozione di provvedimenti e nella distribuzione dei finanziamenti, fissando categorie interne (ricerca di base, ricerca applicata, sviluppo tecnologico) e metodi statistici per determinarne la ripartizione. L'importanza di questo documento risiede principalmente nel fatto che "trasformava un'ambizione politica in una strategica dottrina di policy l'idea che la scienza, assieme all'istruzione superiore, debba essere vista come un fattore produttivo al pari del lavoro e del capitale ai fini della crescita economica" (Eltzinga e Jamison, 1995, 584). Anche in Italia questo periodo segnò uno sviluppo piuttosto deciso dell'interesse e dell'impegno economico per la ricerca. In un decennio, dal 1958 al 1968, la quota di ricchezza nazionale destinata alla ricerca passò dallo 0,3% allo 0,7%, rimanendo peraltro largamente inferiore a quella degli altri Paesi europei (dallo 0,9% del Belgio al 2% del Regno Unito, per non parlare degli Stati Uniti che in quegli anni erano arrivati a destinare alle attività di ricerca il 3% del reddito nazionale). Inoltre, la diffusione di una preoccupazione per una presunta arretratezza del nostro Paese in alcuni settori tecnici, in particolare di una carenza del personale tecnico-scientifico, portò nel corso del decennio a processi di riforma dell'università e dello stesso CNR e all'istituzione, a partire dal 1968, di fondi destinati alla ricerca applicata nel campo dell'in130


dustria (i fondi 1Ml). Anche grazie a questi fondi, la quota di PIL destinata alla ricerca era salita nel 1971 all'l%; questo, tuttavia, non risparmiò all'Italia severe critiche da parte dell'OcsE, che in un Rapporto specificamente dedicato al nostro Paese mise in evidenza l'arretratezza del sistema ricerca rispetto agli altri Paesi sviluppati, gli sprechi di risorse e la scarsa attenzione della classe politica ai problemi della ricerca (OcsE, 1969). A partire dal 1962-1963, la chiusura di un ciclo economico espansivo, eventi quali la morte di Mattei e l'esplosione del "caso Ippolito" - con la conseguente crisi del CNEN, il Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare, che nel 1960 era stato istituito per sostituire il CNRN - rallentarono quello sviluppo in campo energetico che aveva fortemente incentivato le attività di ricerca (Pogliano, 1995; Maiocchi, 1998). Il CNR, nonostante i tentativi di riforma, rimase fortemente condizionato dai circoli di potere accademici. A partire dagli anni Settanta, iniziarono a comparire in gran parte dei Paesi industrializzati segnali di un affievolirsi della "luna di miele" tra società e politica da un lato e scienza dall'altro. Il ruolo della scienza, e in particolare i suoi rapporti con il potere politico e con la società nel suo complesso, furono messi in discussione da una parte della stessa comunità scientifica e da movimenti sociali quali il femminismo e l'ambientalismo. Lo sviluppo della ricerca iniziò ad essere individuato come una fonte, anziché una soluzione, di problemi sociali, nel frattempo saliti di importanza nell'agenda dell'opinione pubblica: la pace e il disarmo nucleare, il deterioramento dell'ambiente e la discriminazione di genere. Una simile e medita "pressione sociale" portò ad ampliare gli orizzonti delle politiche di ricerca, portando ad includervi finalità di controllo e di regolazione. In vari Paesi, infatti, furono istituite agenzie di controllo e monitoraggio dell'impatto della tecnologia sull'ambiente. Questi fermenti arrivarono anche in Italia, dove alcuni intellettuali riuniti nel cosiddetto "Club di Roma" attirarono, grazie ad un Rapporto commissionato al MIT, l'attenzione sui dilemmi e le conseguenze dello sviluppo tecnologico, soprattutto sul piano ambientale (Club di Roma, 1971). Fortemente toccata dagli anni della crisi petrolifera sul piano delle risorse oltre che dell'opinione pubblica, l'Italia registrò nel periodo 1970-1975 il più basso tasso di crescita delle risorse pubbliche destinate alla ricerca (Pogliano, 1995). Situazione peraltro aggravata dall'ormai incontrollabile frammentazione delle attività di ricerca: è divenuta celebre l'affermazione di Zorzoli secondo cui un marziano atterrato in Italia avrebbe potuto scambiare il nostro Paese per un paradiso scientifico, "giudicando col metro del numero di centri governativi all'uopo preposti e dalla vastità delle loro ambizioni programmatiche": oltre 2000 isti131


tuti universitari, 52 centri autonomi di ricerca, oltre a CNR, CNEN, ministeri, industrie (Zorzoli, 1970; Pogliano, 1995). Ilsecondo Rapporto dell'OCSE, Science Growth and Soci ety. A New Perspective, fotografava questa nuova situazione di pressione, auspicando una maggiore capacità delle politiche di ricerca di rispondere ai nuovi bisogni espressi dall'opinione pubblica. In termini di allocazione delle risorse, questo approccio trovò frequente traduzione nella definizione di programmi di ricerca ad hoc, indirizzati a specifiche tematiche di rilevanza sociale (la "guerra al cancro" dichiarata dal Presidente Nixon, finanziata con un programma di oltre 100 milioni di dollari) e il programma RANN (Research Applied to National Needs) lanciato dalla National Science Foundation. È in questo periodo che conosce il suo massimo sviluppo il cosiddetto Project-Grant system, ovvero quel sistema che assegna finanziamenti alla ricerca sulla base di progetti specifici, basando la loro assegnazione e il loro rinnovamento sui resoconti e le pubblicazioni prodotte a documentazione dell'attività svolta. I limiti di questo meccanismo di finanziamento, tuttavia, erano già stati messi in evidenza da alcuni anni. Esso tende infatti ad accentuare la competizione, a sottrarre tempo ai beneficiari dei fondi per gli adempimenti amministrativi che questi comportano, scoraggia soprattutto i giovani ricercatori a progettare ricerche di lungo periodo e favorisce la concentrazione dei fondi - già alla fine degli anni Sessanta, il 25% di questo tipo di finanziamenti finiva nelle casse di sole dieci università americane. Altre forme di finanziamento della ricerca sono quindi state sperimentate in alternativa o in combinazione con questo sistema: la concessione di finanziamenti istituzionali alle università che poi provvedono a distribuirli internamente secondo propri criteri o - è il caso ad esempio di istituzioni americane come i National Institutes ofHealth - " ad personam", cioè a ricercatori ritenuti particolarmente capaci e promettenti. Lo sviluppo economico, sebbene in una nuova prospettiva, tornò ad essere al centro del dibattito sulle politiche di ricerca a partire dai primi anni Ottanta: in parte per effetto del ritorno di governi conservatori sia negli USA che nel Regno Unito, più disponibili a valorizzare la cultura d'impresa e lo sviluppo dei mercati che l'intervento finanziario dello Stato, in parte per una sorta di nuovo "effetto Sputnik", legato stavolta alla minaccia competitiva rappresentata dai Paesi dell'Estremo Oriente e in particolare dal Giappone. Il successo del modello giapponese portò gli esperti occidentali ad individuarne aspetti cruciali, quali la capacità di gestire pianificazioni e previsioni di lungo periodo, ma soprattutto l'integrazione tra politica della ricerca e politica dell'industria. Da parte di molti ricercatori, questo modello di coordinamen132


to tra soggetti diversi quali le imprese, le università e i centri di ricerca, apparve anche come una via d'uscita dalla rigidità assunta dal Project-grant systein nel corso del decennio precedente - e dalla rilevanza che questo attribuiva alla burocrazia delle istituzioni di ricerca. Il terzo documento sulla politica della ricerca dell'OCsE, prodotto nel 1981, Science anci Technology Policy for the 1980s, si poneva quindi l'obiettivo di stimolare nei Paesi membri l'adozione di politiche volte a favorire l'innovazione nei settori emergenti - nuovi materiali, biotecnologie - e soprattutto una collaborazione piìi stretta tra il mondo della ricerca e quello della produzione. In Italia, gli anni Ottanta segnano eventi importanti per la politica della ricerca, a cominciare dalla costituzione del ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica, che come tale riaffermava l'importanza di tenere congiunte le attività di ricerca con quelle dell'insegnamento universitario. Poi la trasformazione del CNEN (Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare) in EN (Comitato Nazionale per la ricerca e per lo sviluppo dell'Energia Nucleare e delle Energie Alternative), con un campo d'azione ampliato anche ad altre fonti energetiche e alla tutela dell'ambiente: una trasformazione che si rivelerà profetica rispetto ai risultati del referendum del 1987, con la quale la popolazione italiana decise una moratoria delle attività volte allo sfruttamento dell'energia nucleare. Nel 1988, infine, si dette vita all'Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Il decennio si chiuse, tuttavia, con un giudizio piuttosto severo della politica scientifica e tecnologica italiana da parte dell'OECD, che tornò ad esaminare sotto questo punto di vista il nostro Paese a vent'anni di distanza da un primo Rapporto. L'immagine che ne risultò fu quella di un Paese che non aveva saputo accompagnare la crescita economica degli anni Ottanta con un corrispondente impegno nel campo della ricerca: la quota di PIL destinata a questi scopi restava infatti ferma all'1,29%, contro il 2,5% della media dei Paesi dell'OEcD; i ricercatori erano 27 ogni diecimila abitanti contro una media OECD di 49 e una distribuzione oltretutto gravemente diseguale all'interno del Paese: a un terzo del territorio nazionale viene destinato appena il 10% delle risorse per la ricerca, con una media di circa 24 ricercatori ogni diecimila abitanti al Centro-Nord e di circa 3 al Sud (Pogliano, 1995; vedi anche Cannavò, 1989). GLI SCENARI ATTUALI E LA SITUAZIONE ITALIANA

Come si è visto, lo sviluppo e il consolidamento di politiche della ricerca è stato segnato anche dal corrispondente sviluppo di sistemi di monitoraggio e di rapporti sullo stato delle attività di R&S. Governi nazionali, istituzioni in133


ternazionali come l'OcsE e istituzioni indipendenti producono e mettono periodicamente a disposizione dati e indicatori sullo sviluppo della ricerca e sui suoi aspetti specifici. Qual è dunque il quadro che emerge attualmente? I dati disponibili più recenti sono quelli relativi agli ultimi rapporti pubblicati da varie istituzioni (OECD, 2002; European Commission, 2003; IsTAT, 2002) con dati che tuttavia, almeno nel caso dell'Italia, non sono aggiornati oltre il 19992. L'ammontare attuale della spesa per R&S dei 28 Paesi aderenti all'OECD è di circa 603 miliardi di dollari, pari circa al 2,2% della somma totale del reddito prodotto in questi Paesi. Le attività di tipo scientifico e tecnologico vedono impegnati negli stessi Paesi 2,7 milioni di ricercatori, ovvero 55 ricercatori ogni 10.000 unità di forza lavoro. Nel complesso, lungo il corso degli anni Novanta, la spesa per R&S è diminuita soprattutto nei Paesi dell'Unione Europea, per effetto di dinamiche che hanno coinvolto soprattutto i cinque maggiori Paesi dell'Unione (Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Spagna); vi è stata, invece, una lieve ripresa negli USA e soprattutto in Giappone, dopo un periodo di diminuzione degli investimenti che aveva fatto seguito ai massimi raggiunti nel 1991, quando gli Stati Uniti e il Giappone spendevano rispettivamente il 2,7% e il 2,8% della propria ricchezza nazionale in attività di ricerca. Vale la pena di notare - in termini percentuali - il sorpasso effettuato dal Giappone nei confronti degli Stati Uniti tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta. Tuttavia, se fino al 1993 si era registrato un avvicinamento degli altri Paesi dell'allora G7 agli USA negli investimenti per R&S, il declino generalizzato che è subentrato ha colpito meno severamente la ricerca americana, ristabilendo le distanze. Forte concentrazione delle risorse ed egemonia statunitense restano, comunque, un dato incontrovertibile: basti pensare che l'85% della spesa per R&S registrata all'interno dell'OECD è concentrata in 7 Paesi e che il 42,7% è concentrata negli USA, il 28,3% nell'Unione Europea e il 18,2% in Giappone. Questa egemonia appare meno forte se si prende in considerazione quella parte di investimenti che è svincolata da finalità militari (nondefense R&D): in questa categoria, la spesa degli altri Paesi del G7 è superiore del 17% a quella degli USA (dati della National Science Foundation riferiti al 1996, che è l'ultimo anno per cui esistono statistiche comparabili). Negli anni Novanta, la crescita maggiore si è registrata in Paesi quali la Corea, la Svezia, la Finlandia, l'Irlanda e l'Islanda. Il numero assoluto dei ricercatori è cresciuto meno intensamente rispetto al decennio precedente, addirittura diminuendo in alcuni Paesi tra cui la Germania, l'Italia e i Paesi dell'Europa 134


orientale. La quota di ricercatori sul totale della forza lavoro è rimasta, invece, sostanzialmente stabile dopo l'incremento del decennio precedente. La tabella 2.1 mette a confronto la quota di ricchezza nazionale destinata in vari Paesi a R&S. Dopo una serie di incrementi che l'hanno caratterizzata fino agli inizi degli anni Novanta, l'Italia si è assestata su una percentuale di spesa per R&S che supera di poco l'l% del PIL e resta inferiore a quella di gran parte dei principali Paesi industrializzati. Tab. 2.1 - Spesa lorda in R&S come percentuale del PIL in vari Paesi OECD, 2000 Canada USA Giappone Australia Corea Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia

1,6 2.7 3,0 1,7 2.9 1.6 1.6 1.2 2.1 2.9 2.2 2.3 0.5

Irlanda Islanda Italia Norvegia Paesi Bassi Portogallo Regno Unito Spagna Svezia Svizzera Turchia Ungheria Unione Europea

1,4 1,6 1,1 1,7 2,1 0.7 1.9 0.9 3.9 2.7 0.5 0,7 1,8

Totale

2,2

OECD

Elaborazione su dati OECD, MsTI Database 2001 e Cordis STI-Era Scoreaboard 2001. I dati si riferiscono al 1999 o all'ultima rilevazione disponibile.

Il grafico 2.2 mette a confronto l'andamento di questo dato nel tempo con quello di alcuni tra i principali Paesi industrializzati:

Graf. 2.2 - Spesa per R&S come percentuale del PIL in alcuni Paesi, 1981-1999 (Elaborazione su dati Nsb, 2000; Oecd, 2001, STI-Era, 2001) 'ElUSA

o

I

Giappone O Germania DFrancia UK I 1981 1985 1989 1993 1997 1999 I Elitalia

tø1ktfti,

135


Il grafico 2.3 effettua lo stesso confronto per un altro indicatore, il numero di ricercatori su diecimila unità di forza lavoro. L'ultimo dato disponibile per l'Italia è relativo al 1997 e le attribuisce 32,7 unità di personale impegnate nella ricerca su diecimila. Un dato che allinea il nostro Paese con altri Stati europei quali la Spagna o il Portogallo, ma decisamente distante da quello che caratterizza, ad esempio, la Francia o i Paesi scandinavi - dove la quota di ricercatori è più che doppia - per non parlare del Giappone, dove nel 1997 si contavano 92 ricercatori su diecimila unità di forza lavoro. Graf. 2.3 - Ricercatori su 10.000 unità di forza lavoro (Elaborazione su dati Oecd, 1999)

100

DUSA

• Giappone

80 60

o Germania

40

O Francia

20

•UK EI Italia

o 1981 1985 1989 1993

1997

Quali sono, in questo quadro, le specificità della situazione italiana? I più recenti rapporti dell'OCsE sul nostro Paese 3 (OECD, 2000, 2001) individuano un elemento positivo nel riconoscimento, da parte degli stessi polùy makers italiani, della necessità di migliorare l'efficacia della ricerca e, in particolare, della ricerca pubblica, promuovendo un migliore coordinamento tra le diverse istituzioni di ricerca e una più stretta relazione con i bisogni dell'economia e della società nel suo complesso. Tuttavia, permangono elementi di criticità quali: a) la frammentarietà dell'organizzazione della ricerca italiana, legata in larga misura alla sua evoluzione storica, con una proliferazione di istituzioni di ricerca (università, CNR, altri laboratori), caratterizzate da elevata disomogeneità interna nella qualità delle loro performance. La stessa tardiva istituzione di un ministero per l'Università e la Ricerca Scientifica (1989), pur considerata un segnale importante, non ha prodotto i risultati sperati sotto questo punto di vista, penalizzata da problemi di risorse, di burocrazia e dalla riluttanza di altri ministeri a cedere o quantomeno coordinare le proprie competenze. In particolare, le policies di R&S in Italia rimangono fortemente slegate dalle poiicies in ambiti collegati, quali ad esempio l'industria; 136


la disomogeneità tra centri di ricerca pubblici è attribuita, in buona parte, a una distribuzione dei fondi di ricerca avvenuta per lungo tempo non sulla base della qualità dei progetti, ma in modo sostanzialmente indiscriminato e diffuso, lasciando quasi completamente la determinazione delle priorità della ricerca alla stessa comunità scientifica, che ne aveva sovente fatto strumento di gestione dei propri equilibri interni. Vale la pena di notare l'impatto positivo che su questa situazione ha sinora avuto la nuova procedura di cofinanziamento dei progetti di ricerca di interesse nazionale, portando a concentrare le risorse su un numero più limitato di progetti ed incentivando gli studiosi universitari italiani ad adottare standard di progettazione più vicini a quelli internazionali. Si tratta però di un volume di spesa (300 miliardi di lire nel 2000) modesto rispetto ai 10.000 miliardi spesi per la ricerca in ambito universitario e utilizzati principalmente per gli stipendi; nonostante una serie di iniziative assunte soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta, permangono difficoltà strutturali nelle politiche a sostegno della ricerca e dell'innovazione in ambito industriale. Le numerose misure di incentivazione (come i fondi per la ricerca applicata) e di intermediazione tra istituzioni di ricerca e imprese (come i parchi scientifico-tecnologici) non hanno complessivamente dato i risultati sperati. Graf. 2.4 - Frazione de/Pi/destinata alla ricerca, Italia 1955-1 999 (elaborazione su dati Oecd, 2001; Nsb, 2000) 1,5

0,5 oI

137


IL DIBATTITO SULLE POLITICHE DI RICERCA: IN ITALIA SI SPENDE POCO (E MALE)?

Il dibattito sulle politiche e l'organizzazione della ricerca in Italia è divenuto particolarmente vivace nel corso degli ultimi due, tre anni, occupando spesso, oltre alle sedi istituzionali tradizionali, anche spazi significativi all'interno dei mass media. Tra gli eventi che hanno sollecitato la discussione su questi temi vi è stato senz'altro quello della riforma del sistema universitario italiano - che proprio in questo periodo si è concretizzata - e le ripetute mobilitazioni che, a partire dal novembre 2000, hanno visto protagonisti i ricercatori italiani. 115 novembre 2000, infatti, Il Sole 24 Ore pubblicò un appello "per la libertà di ricerca" firmato da oltre mille ricercatori, tra cui i due premi Nobel Renato Dulbecco e Tullio Regge, in cui si stigmatizzavano le iniziative dell'allora ministro per le Politiche Agricole e Forestali, Alfonso Pecoraro ScaniO 4 . Il Ministro aveva infatti subordinato l'accesso ai finanziamenti del MIPAF alla rinuncia, da parte dei ricercatori, a proseguire progetti finalizzati nel campo della sperimentazione di Organismi Geneticamente Modificati in campo agricolo. Secondo i firmatari dell'appello, un simile provvedimento rischiava di tagliare fuori la ricerca italiana da uno dei settori più promettenti nell'ambito delle scienze biologiche, vanificando gli investimenti fatti in passato. Il provvedimento va ad aggiungersi a una serie di misure restrittive del governo italiano già criticate da vari esponenti del mondo della ricerca: prima tra tutte la decisione di sospendere, ai sensi dell'articolo 12 del regolamento europeo 258/97, la commercializzazione dei derivati di alcune varietà di mais geneticamente modificato prodotte da Monsanto, Novartis, Pioneer ed Agrevo in seguito ad un esposto dell'Associazione Verdi Ambiente e Società, e dopo una serie di pareri contraddittori da parte dell'Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità 5 . La protesta degli scienziati culminò in una clamorosa manifestazione pubblica a metà febbraio 2001, in occasione della quale alcuni rappresentanti dei ricercatori, tra cui Rita Levi Montalcini e Silvio Garattini, si incontrarono con esponenti del governo e dell'opposizione. Le loro richieste fondamentali per la ricerca in Italia, spiegò in quell'occasione al T0 il genetista Edoardo Boncinelli, erano tre: soldi, meritocrazia, organizzazione Da allora, il dibattito è proseguito, con altre e non rare punte polemiche e con echi anche sulla stampa scientifica estera, investendo anche temi specifici quali la situazione del CNR e dando luogo a nuove manifestazioni di protesta da parte dei ricercatori nei confronti del governo 6 . 138


Tuttavia, gran parte di questo dibattito sulle politiche di ricerca e i finanziamenti alla ricerca in Italia - e in parte anche la discussione sviluppatasi sugli stessi temi a livello europeo - si è limitato a mettere in evidenza l'aspetto puramente quantitativo della questione. In sostanza, sia da parte degli scienziati che da parte dei politici, si sostiene che l'Italia spende troppo poco per la ricerca rispetto agli altri Paesi europei e in generale industrializzati: occorre aumentare gli investimenti statali per sostenere lo sviluppo, aumentare la competitività, tamponare la "fuga di cervelli". Vorrei provare, brevemente, a mostrare che il problema dei finanziamenti alla ricerca non è così semplice e non è l'unico aspetto rilevante. E dunque vero che l'Italia spende poco in ricerca? In linea generale sì: non c'è dubbio che l'l% del PIL investito dall'Italia la veda più indietro non solo rispetto a Paesi come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna (che spendono tra il 2 e il 2,5% del PIL), ma anche alla media europea (1,93%) e ad Austria, Belgio, Norvegia, Irlanda (dati OcsE ed EUROSTAT, 2002). Tuttavia, se andiamo a vedere la quota di finanziamenti statali, scopriamo che l'Italia (0,69%) è di poco inferiore alla media europea (0,77%), superata solo da Francia, Germania e Paesi scandinavi. In rapporto al PIL, lo Stato in Italia spende quanto in Gran Bretagna e in Norvegia e un po' di più che in Austria e in Belgio. Il discorso non cambia se si va ad analizzare l'incidenza di questa quota all'interno del bilancio statale (1,36% nel 1999): si osserva che non è così distante da quella di altri Paesi europei (Danimarca, Belgio, Austria e Svezia sono sugli stessi livelli; più elevata la percentuale in Olanda e Francia, dove sfiora il 5%). Dove sta allora il trucco? Un'analisi più approfondita delle statistiche lo rivela immediatamente: nella porzione di ricerca finanziata o condotta dal settore privato. Solo in Portogallo e Grecia si spende e si fa meno ricerca dell'Italia in quest'ambito; la quota italiana di finanziamenti provenienti dal settore privato rispetto al totale (43%) è inferiore a quella della Spagna, dell'Irlanda e del Belgio, per non parlare della Germania e dei Paesi Scandinavi (dove la quota di finanziamenti di origine privata raggiunge il 70%). La quota di fatturato delle industrie dedicato alla ricerca è invece nettamente più basso, ancorché in lieve crescita (0,58% nel 1999, un terzo del Belgio e un quarto della Danimarca). Il vero tratto che distingue in negativo l'Italia non è, quindi, tanto l'impegno statale, quanto la scarsa presenza della ricerca all'interno delle imprese, la capacità dello sviluppo economico e tecnologico di creare risorse e richieste per il sistema ricerca, il rapporto tra imprese e istituzioni di ricerca pubblica. Un indicatore recentemente introdotto dalla Commissione Europea, relativo al numero di imprese operanti in settori 139


ad alta innovazione, che cooperano a scopi di ricerca con altre imprese, università o centri di ricerca pubblici, vede l'Italia all'ultimo posto in Europa, con solo il 10% delle imprese impegnate in accordi di questo tipo; negli altri Paesi si va dal 18% della Grecia al 70% della Finlandia. In sostanza, in Italia si fa - e si finanzia - poca ricerca da parte delle imprese. Questo dato appare tanto più critico in quanto gli investimenti statali si sono livellati in gran parte dei Paesi europei, mentre laddove vi sono stati incrementi questi sono stati guidati principalmente dalla componente privata; emblematico a questo proposito il caso della Finlandia, che è arrivata in pochi anni a superare il 3% di investimenti nella ricerca rispetto al PIL con il 71,6% delle attività di ricerca svolte in ambito privato. E ovvio che in questo si deve tener conto della speciflcità del quadro imprenditoriale del nostro Paese, composto principalmente di piccole e medieimprese. Tuttavia, i rapporti internazionali sulla ricerca in Italia (OECD, 2000) non mancano di mettere in evidenza, come limiti principali, oltre alla frammentarietà e alla disomogeneità qualitativa della ricerca in ambito pubblico, lo scarso coordinamento tra politiche di ricerca e politiche industriali. Vari interventi sono stati tentati a questo proposito, soprattutto nel corso degli ultimi cinque o sei anni. Ad un approccio bottom-up, in cui le imprese presentavano autonomamente progetti da finanziare - e che privilegiava nettamente le grandi imprese, capaci di presentare progetti credibili e di attendere i tempi lunghi del rimborso pubblico - si è passati, a partire dal 1995, ad un sistema in cui le priorità sono definite su base strategica, fondato sul cofinanziamento (nel tentativo di responsabilizzare l'impresa, che deve partecipare con fondi propri alla ricerca proposta) e sulla separazione tra analisi tecnica e finanziaria (entrambe precedentemente condotte dall'IMI). I tentativi di av vicinarsi maggiormente ai bisogni delle piccole e medie imprese, ad esempio incentivando sul piano fiscale le attività di ricerca, l'assunzione di personale in possesso di laurea o dottorato, o il distacco di personale universitario (legge 140/1997 e legge 449/1997), si sono spesso scontrati con il timore di maggiori controlli fiscali e con la rigidità delle istituzioni universitarie. Le stesse agenzie di intermediazione, come i parchi scientifico-tecnologici, non sono per ora riuscite a sviluppare le proprie attività in sintonia con i bisogni delle imprese: relazioni deboli con il mercato, scarsa fiducia da parte delle imprese, competizione con altri attori locali impegnati nel trasferimento tecnologico, scarsa attenzione delle istituzioni ad un aspetto cruciale quale quello della tutela della proprietà intellettuale, sono solo alcuni dei fattori alla base di questa difficoltà. 140


In questa nuova prospettiva, gli aspetti della fiducia, dell'interazione tra organizzazioni ed istituzioni diverse, di definizione di una nuova etica per questo connubio tra ricerca e imprenditorialità, appaiono tutti di grande interesse per le analisi degli scienziati sociali. Se, dunque, il problema del quanto è decisamente più complicato di quello che può sembrare, non sarebbe tuttavia corretto trascurare che, a livello internazionale, sono già da tempo aperti interessanti dibattiti - pochissimo recepiti in Italia - sul come si spendono i finanziamenti alla ricerca. In altre parole, come fanno gli Stati, le imprese o gli stessi Istituti di ricerca, a stabilire se il denaro investito in un certo settore di ricerca, o assegnato ad un certo gruppo di ricercatori, è stato speso bene o male? Sulla base degli indicatori utilizzati ad esempio dalla Commissione Europea (numero pubblicazioni scientifiche pro capite, numero di brevetti, numero di pubblicazioni altamente citate pro capite, numero di dottorati tra la popolazione nella fascia di età 25-34), appare chiaro che il problema dell'Italia non è solo di quantità, ma di qualità della spesa. Il livello di performance del nostro Paese, infatti, risulta tra gli ultimi dell'Unione Europea, davanti solo a Portogallo, Spagna e Grecia 7, e l'analisi specifica dell'impatto internazionale della ricerca italiana mostra risultati molto simili (Rapporto GRU! su dati Isi, 2002 8). Credo che un serio ed approfondito dibattito su politiche e finanziamenti alla ricerca non possa prescindere da questi aspetti. Vi sono, però, alcuni elementi di scenario da tenere presenti. Il primo è che alcuni indicatori, tradizionalmente utilizzati per misurare la produttività scientifica - come le pubblicazioni - sono al centro di un ampio dibattito all'interno delle comunità scientifiche. Iniziative come la Public Library of Science9 mettono in discussione la stessa natura delle pubblicazioni scientifiche e in particolare il ruolo delle riviste, divenute per vari motivi (a cominciare dal costo, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni) un fattore critico. Il secondo elemento è legato alla crescente importanza che su questi temi ha assunto la dimensione pubblica. Se in passato i criteri di allocazione delle risorse erano negoziati sostanzialmente all'interno della comunità scientifica - per cui la negoziazione (perlopiù in forma riservata) con il potere politico riguardava solo il quanto, lasciando poi ai ricercatori determinare il come oggi i criteri adottati devono essere riconosciuti come legittimi anche in un contesto sociale più vasto, a cui sempre più spesso i policy makers dichiarano di dover fare riferimento. Non meno attuale del problema dell'efficienza della ricerca è infatti il tema delle forme di partecipazione pubblica che derivano dalle varie modalità di 141


mobilitazione pubblica emerse, anche a livello locale, in risposta a specifiche iniziative scientifiche e tecnologiche. La partecipazione di questi citizen groups - nella definizione che è stata data loro negli USA - ai processi decisionali in questo ambito è stata progressivamente riconosciuta dal potere politico e istituzionalizzata, soprattutto in alcuni Paesi del nord Europa (Sclove, 1994). Queste pratiche segnalano l'avvento di una nuova cultura di policy, emersa con forza soprattutto nel corso degli ultimi trent'anni. Si tratta di una cultura che è stata definita "civica" in quanto enfatizza il coinvolgimento dei non "addetti ai lavori" (coloro che non sono né scienziati, né policy makers), nei processi decisionali che investono la scienza e la tecnologia. L'attribuzione alla scienza di una maggiore "responsabilità sociale", l'utilizzo dell'expertise scientifico a fini regolativi e di controllo delle stesse attività scientifiche e tecnologiche, la costituzione di comitati misti in cui non esperti siedono accanto agli scienziati, sono tutti risultati di questo processo di crescente attenzione e partecipazione pubblica (Epstein, 1995; Bucchi, 1998). Trasparenza, informazione e coinvolgimento del pubblico sono divenuti elementi integranti delle politiche di ricerca, sanciti anche da documenti legislativi quali la Direttiva Seveso , emanata a livello europeo sulla scia del grave incidente accaduto nella cittadina italiana (Dini Valentini, 1992). Nel 1998, il rapporto di una commissione del Congresso americano sulla politica della ricerca inseriva tra i principali obiettivi 1 ampliamento delle linee di comunicazione tra scienziati e pubblico americano" (National Science Boarcl, 2000); la "comprensione pubblica della scienza" era già incluso come uno dei temi centrali del Quinto Programma Quadro lanciato dalla Commissione Europea per il periodo 1998-2002. Ricerche sul livello di interesse e comprensione pubblica dei temi scientifici vengono ormai condotte regolarmente da numerose istituzioni politiche e di ricerca (Eurobarometer, 2001; NsB, 2000). Nel Regno Unito, sin dal 1985 - quando la Royal Soci ety costituì, insieme alla Royal Institution e alla British Association for the advancement ofscience, il primo Comitato per il Public Understanding of Science - il rapporto con il grande pubblico costituisce una priorità della politica e dell'organizzazione della ricerca, al punto che numerose istituzioni raccomandano di destinare una quota fissa del budget di ciascun progetto di ricerca alla divulgazione dei risultati. Tra le priorità della Commissione Europea, nella prospettiva di costituzione di una European Research Area, vi è quello di incentivare il dialogo tra scienza e società, coinvolgendo, accanto a scienziati e policy makers, una serie di stakeholders (associazioni ambientaliste, studiosi di scienze sociali, imprenditori). E in Italia? Nel 1981, presentando la sua neonata trasmissione Quark, Piero .

142

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Angela scriveva che "viviamo in una società tecnologica con una cultura prescientifica". E, in effetti, gli atteggiamenti degli italiani verso la scienza appaiono caratterizzati da una marcata ambiguità: da un lato, infatti, il successo e la proliferazione di trasmissioni televisive e periodici di divulgazione scientifica o i livelli di fiducia pressoché incondizionata espressi nei confronti degli scienziati 10; dall'altro, vicende come il "caso Di Bella" o gli atteggiamenti nei confronti degli OGM (più ostili di quelli registrati in molti Paesi europei) presentano non trascurabili segnali di criticità 11 . La scarsa attenzione a questi aspetti, sia da parte delle istituzioni - con l'unica, parziale, eccezione della legge del 1991 per la diffusione della cultura scientifica - sia da parte degli stessi ricercatori, ha purtroppo portato a trascurare a lungo il tema dei rapporti tra ricerca ed opinione pubblica, o al massimo a ridurlo a stereotipi indimostrati quali 1"antiscientismo" 13 . E se vi sono significative indicazioni che gli orientamenti del pubblico nei confronti della ricerca sono sempre più articolati e motivati ad un coinvolgimento attivo nelle stesse decisioni su questi temi 12 , è indubbio che una seria ed approfondita analisi di quello che viene indicato, nei Paesi di lingua anglosassone, come public understanding ofscience, è ormai riconosciuto a livello internazionale come un elemento ineludibile delle stesse politiche della ricerca.

Alcune parti di questo contributo contengono, in forma rivista e rielaborata, materiali già parzialmente pubblicati nella voce "Ricerca, Politica della" dell'Enciclopedia delle Scienze Sociali, vo!. IX, Roma 2001, pp. 245-258, e nell'articolo "La scienza e ifinanziamenti: in Italia si spende poco (e male) per la ricerca?"pubblicato sulla rivista elettronica «Golem», marzo 2003, www.enel.it/golem. I MAIOCCHI individua un fattore critico anche nella cultura di una nuova classe politica che "sostanzialmente recuperava la grande tradizione liberale prefascista, esprimendo, con l'esaltazione del valori umanistici, il privilegiamento della cultura letteraria rispetto a quella scientifìca" (1998; 494). 2 Gli ultimi dati ISTAT su "Ricerca e Sviluppo", pubblicati nel Rapporto Annuale sulla Situazione del Paese relativa al 2001 (I5TAT, 2002,

www.istat.it) prendono in considerazione solo la ricerca svolta all'esterno delle università. Un aspetto di per sé signiflcativo è la diffìcoltà, più volte lamentata da istituzioni quali l'OcsE, di ottenere dati statistici affidabili e aggiornati sulle attività di ricerca nel nostro Paese. Nel momento in cui redigiamo questo rapporto, ad esempio, l'IsTAT deve ancora rendere noti i dati relativi alla ricerca universitaria in Italia nel 1998, a causa di una ridefinizione dei metodi di calcolo. ' http://www.ilsoie24ore.com/cuitura/liberta_ricerca/appello_051 Lhtm Un resoconto più dettagliato è in MELDOLEsi, Organismi Geneticamente Modificati. Storia di un dibattito truccato, Einaudi, Torino 2001. Si veda, ad esempio, il supplemento domenicale del «Sole 24 Ore» del 18 marzo 2001 1 in cui una serie di articoli - flrmati da Giovanni BIGNAMI, Luca e Francesco CAVALLI SFORZA, 143


Cinzia CAPORALE Si rivolgevano, in piena campagna elettorale, agli schieramenti politici, mettendo in evidenza i problemi della ricerca italiana. Nel settembre 2002, dopo la diffusione, tramite un articolo pubblicato su «La Repubblica», dei contenuti della riforma degli Enti di ricerca in preparazione al MIUR, un nuovo appello dei ricercatori è stato pubblicato sui sito della rivista "Le Scienze' www.lescienze.it . Si veda il sito www.cordis.lu/rtd2002/indicators. 8 Sul sito www.crui.it . 9 Si veda il sito www.publiclibraryofscience.org .

IO Tanto per citare un esempio, gli scienziati figurano al primo posto tra le professioni e le istituzioni degne di fiducia in entrambi gli ultimi rapporti dell'Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia (www.istitutoiard.it ). Il Si vedano, ad esempio, i Rapporti dell'AsSOCIAZIONE OBSERVA su Biotecnologie e Opinione Pubblica in Italia, www.observanet.it . 2 Cfr. ad esempio BUCCHI e NERESINI (2002), BUCCHI (2003). 13 Cfr. NERESINI, Siamo una democrazia poco scientfìca?, in «Polomar», n. 14 maggio 2003.

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145


La ricerca industriale in Italia: una valutazione di Andrea Bonaccorsi e Paola Giuri

Scopo di questo contributo è di presentare alcune evidenze sull'investimento in ricerca industriale effettuato in Italia e di discutere le ragioni del basso livello di spesa. Secondo i dati della Commissione Europea 1 la quota del bilancio pubblico allocata a spesa in R&S era di 0,58% nel 2000 per l'Italia, a fronte di una media dell'Europa a 15 di 0,73%. La quota italiana è stabile, mentre la media europea decresce (era 0,80% nel 1996). Si può dire che rispetto all'investimento pubblico in ricerca la posizione italiana vede un ritardo modesto rispetto alla media europea ed una posizione stabile. Se osserviamo la quota del prodotto industriale rappresentata dalla spesa in R&S finanziata dall'industria il dato italiano nel 1999 è di 0,53%, contro una media dell'Europa a 15 di 1,49%. La quota italiana è pressoché stabile (nel 1996 era 0,54%) mentre la media europea cresce (nel 1996 era di 1,35%). Per fare un solo confronto, la Spagna ha superato l'Italia nell'ultimo biennio, passando ad una quota di 0,5 8% nel 1999. Rispetto all'investimento privato la posizione italiana è, dunque, di un ritardo molto grave e soprattutto in crescita. Nonostante il tema del basso investimento in R&S sul PIL in Italia venga quasi sempre ricondotto alla responsabilità degli attori pubblici, la questione principale è legata alla necessità di aumentare la spesa delle imprese. Per lungo tempo nel dibattito economico e politico si è attribuita questa situazione al modello di specializzazione settoriale, dimensionale e territoriale dell'industria italiana. La persistente specializzazione nei settori tradizionali e nella meccanica, la prevalenza di piccole imprese, la organizzazione distrettuale finiscono per deprimere l'incentivo all'investimento privato in R&S. Il modello prevalente è quello della innovazione non basata su spesa formalizzata in ricerca e sviluppo (non-R&D innovation) ma sulla adozione di tecnologie di processo e sul design. ,

Andrea Bonaccorsi è docente di Economia e gestione delle imprese presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Paola Giuri è ricercatrice di Economia e gestione delle imprese presso lo stesso istituto. 146


Questa spiegazione è corretta ma largamente incompleta. Recenti evidenze suggeriscono che in Italia vi è un ulteriore livello problematico. Si sta dolorosamente scoprendo, infatti, che la grande industria privata e pubblica italiana ha investito (e investe) sistematicamente meno dei propri concorrenti internazionali. Questa affermazione richiede alcuni chiarimenti metodologici. IL QUADRO DI RIFERIMENTO INTERNAZIONALE

È utile collocare, sia pur brevemente, le imprese italiane all'interno delle tendenze di medio periodo dell'investimento industriale in R&S a livello mondiale. Le tendenze di fondo negli ultimi due decenni possono essere sintetizzati come segue2 - intensificazione della spesa reale da parte del settore privato, al netto delle variazioni e delle diverse dinamiche nazionali della spesa militare; - verticalizzazione dell'investimento secondo assi che collegano lo sviluppo tecnologico e industriale corrente alle discontinuità nelle tecnologie di base, in particolare attraverso la realizzazione di accordi e collaborazioni (rapporti università-industria, ricerca congiunta, ricerca fondamentale svolta nei laboratori industriali); - scientificazione della ricerca industriale, soprattutto nelle nuove aree tecnologiche science-based, attraverso i'uso diretto di avanzamenti scientifici; - diversificazione delle aree tecnologiche da presidiare con attività di ricerca al fine di controllare l'evoluzione dei prodotti; - internazionalizzazione dei siti di investimento, con una netta tendenza alla perdita di peso dell'Europa. Queste tendenze di medio periodo si sono ulteriormente rafforzate nel corso degli anni Novanta, al punto che si può dire che si è avviato un imponente cambiamento nelle basi di conoscenza utilizzate nella produzione industriale dei paesi avanzati. In particolare, attraverso rapporti pRi stretti tra ricerca scientifica e tecnologica fondamentale, anche di origine accademica, e sviluppo tecnologico, si è andato accentuando un processo di verticalizzazione e scientificazione della ricerca industriale. Il contenuto di conoscenza scientifica è andato aumentando in modo sistematico, soprattutto nei settori emergenti (biotecnologie, elettronica, telecomunicazioni), ma anche nella chimica, nel farmaceutico, nell'alimentare, nelle tecnologie per la salute (Figura 1). :

147


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Figura I. Andamento dell'indicatore Science Linkage 1990-99

Secondo le evidenze derivanti da confronti normalizzati su dati Chi Research, nel corso del decennio scorso l'indice di legame con la scienza ha subito un drastico incremento aggregato a livello mondiale, passando da un indice 100 nel 1990 ad un indice di 800 nel 1999 per le biotecnologie, di circa 400 per farmaceutico, alimentare e tecnologie mediche, di circa 200 per semiconduttori, chimica e telecomunicazioni. L'indice complessivo per gli Stati Uniti è di circa 3 volte il livello dell'Europa (Figura 2). Parte della 4 -,

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Figura 2. Andamento dell'indicatore Science Linkage per regione. Anni 1990-99 148


crescita è attribuibile a effetti di composizione settoriale, con l'affermazione delle biotecnologie, ma l'aumento del contenuto di scienza è rinvenibile in tutti i settori. In generale, si è affermato un imponente processo che ha enormemente accorciato i tempi di transizione tra discovery e applicazione. In questo processo l'Europa è rimasta sostanzialmente indietro rispetto agli Stati Uniti. LA POSIZIONE DELLA GRANDE IMPRESA IN ITALIA Per documentare questo fenomeno, si è intrapreso uno studio delle tendenze di medio periodo dei portafogli brevettuali delle grandi imprese italiane, a confronto con le concorrenti mondiali nei rispettivi mercati oligopolistici. Una analisi di tutte le grandi imprese italiane in vari settori, basata su dati USPTO per il periodo 1963-1997, è compresa nel volume citato in nota. In questa sede si utilizzano dati più limitati provenienti dalla banca dati TechLine 3 e si richiama l'attenzione sul caso della più grande impresa nazionale come paradigmatico del peggioramento relativo delle posizioni italiane nell'ultimo decennio. I dati brevettuali sono stati integrati, nel caso Fiat, da una stima delle spese in R&S a livello di impresa. E nota la estrema difficoltà di ricostruire serie storiche affidabili sulla spesa in R&S a livello di singola impresa, sia da fonte ufficiale che dagli analisti economico-finanziari. In questo caso si è fatto affidamento ai dati del Department of Trade and Industry inglese, che consentono una comparazione a livello di industria. La banca dati TechLine consente di svolgere confronti standardizzati tra imprese appartenenti allo stesso settore a livello mondiale. Sulla base della letteratura di patent analysis sono proposti da TechLine i seguenti indicatori: I. Qualità del portafoglio brevettuale - numero di citazioni per brevetto depositato in una finestra temporale predefinita (5 anni). Indice di forza tecnologica (technologi cal st-renght, Ts) - prodotto normalizzato numero brevetti, numero citazioni ricevute. Indice di legame con la scienza (science linkage, SL) - numero normalizzato di citazioni a non patent references (NPR: es. pubblicazioni scientifiche) contenute nei brevetti depositati. Combinando le analisi svolte sugli indicatori standardizzati di TechLine e le 149


analisi più estese svolte sulla intera banca dati USPTO emergono alcune tendenze di fondo per l'intera industria italiana: in termini di volumi cumulati di brevetti nell'intero periodo 1963-1997, solo ST Microelectronics mostra una chiara dinamica di crescita, mentre Fiat, ENI e Pirelli evidenziano una sostanziale stasi, e gli altri grandi gruppi italiani (Olivetti, Montedison, Ferruzzi, IRI), anche tenuto conto delle vicissitudini societarie e dei cambi di proprietà, riducono drasticamente il loro contributo; la qualità dei brevetti italiani, evidenziata dal numero medio di citazioni ricevute, sia in una finestra temporale predefinita di 5 anni (indicatore TechLine) che per tutta la serie storica (dati USPTO) manifesta una tendenza media alla riduzione; in alcuni casi (ad esempio FIAT, CSELT, Pirelli) la qualità dei brevetti italiani è molto elevata e in linea con i leader mondiali per alcuni decenni, ma subisce un netto declino negli anni Novanta; in altri casi (es. settore farmaceutico) le imprese italiane sono in grado di produrre alcuni brevetti di elevato valore, che ricevono un numero alto di citazioni, ma solo per alcuni anni e senza continuità nel tempo; nei settori nei quali si osserva una dinamica di forte aumento della spesa in R&S e di brevettazione (automobile), una diversificazione delle aree tecnologiche (computer, telecomunicazioni) o un processo di scientificazione e verticalizzazione sulla ricerca fondamentale (farmaceutico, semiconduttori) le imprese italiane non riescono a tenere il passo con la necessità di effettuare massicci investimenti aggiuntivi e perdono posizione sia in termini di volumi cumulati che di qualità dei portafogli brevettuali; nei settori nei quali la dinamica tecnologica è più stabile e prevedibile (chimica, petrolchimica) o l'innovazione avviene in forma incrementale e senza brevetti (meccanica) le imprese italiane hanno posizioni marginali in termini di volumi di brevetti ma difendibili in termini di qualità; di nuovo, l'unica eccezione importante è ST Microelectronics, che muovendosi in una industria che ha visto una spettacolare crescita dei brevetti e un aumento del legame con la scienza, ha tenuto testa alla competizione mondiale sia su volumi che sulla qualità, e si presenta come l'unica grande impresa italiana leader tecnologica. Si può concludere che l'industria italiana, anche nei settori nei quali la competitività si basa essenzialmente sulla R&D, ha sottoinvestito in ricerca. Questa analisi consente di misurare con precisione l'impoverimento della base tecnologica del Paese iniziato con gli anni Ottanta e aggravatosi nel decennio Novanta. 150


UNA CRISI CHE VIENE DA LONTANO: FIAT

E interessante circostanziare l'analisi in riferimento alla piii importante impresa nazionale, non solo perché la sua crisi ha coinvolto il Paese in un dibattito approfondito, ma anche o soprattutto perché è indicativa di un processo di depauperamento che si è prodotto nell'arco di un decennio senza che nel dibattito pubblico nazionale, sia accademico che politico, si levassero cenni di preoccupazione. La dinamica della competizione tecnologica 4 , quale risulta dall'indicatore brevettuale per il periodo 1963-1997, presenta i seguenti fatti: all'inizio del periodo l'industria è segmentata in due blocchi: i leader mondiali (Ford, GM, Daimier Benz) e i costruttori regionali (Fiat, Renault, Volkswagen, Chrysler); l'esistenza e la composizione dei due gruppi strategici appare relativamente stabile nell'intero periodo, con l'eccezione di cui al punto (b); l'unica dinamica di mobilità tra gruppi strategici è rappresentata dalla ascesa all'interno dei big spenders dei costruttori del Far East, rispettivamente giapponesi (Honda, Nissan, Toyota) e coreani (Daewoo), con una accelerazione sulla ampiezza e la qualità del portafoglio brevetti impressionante; complessivamente, si evidenzia una dinamica di investimento molto sostenuta, con un aumento tendenziale della produzione di brevetti per unità di tempo: nel venticinquennio 1973-1997 il numero medio di brevetti per periodo raddoppia. In termini di ampiezza del portafoglio (numero di brevetti per periodo) FIAT ha una posizione di tutto rispetto nei decenni Sessanta e Settanta, sopravanzando i costruttori operanti nella stessa fascia dimensionale, come Renault e Volkswagen. In termini di numerosità dei brevetti la posizione di Fiat subisce un leggero deterioramento, da circa il 30-40% della media settoriale fino al 1992, ad una quota di circa un quarto della media. Una dinamica simile è seguita anche dagli altri costruttori regionali, che non riuscendo a seguire l'accelerazione impressa dalla competizione USA-Giappone perdono peso relativo sulla media settoriale mondiale. Alla luce di questa situazione la posizione Fiat appare contrassegnata da una posizione di prestigio negli anni Sessanta e Settanta, seguita da un tendenziale declino, aggravatosi con il decennio Novanta. Fino al 1980 il numero medio di citazioni ricevute dai brevetti Fiat è sostanzialmente comparabile con i concorrenti, compresi i grandi costruttori USA. I brevetti Fiat del 1970 ricevono in media 8,25 citazioni, un valore estremamente elevato per l'epoca, 151


il primo a livello mondiale. Lo stesso exploit si ripete per i brevetti del 1973, con 8,77 citazioni, seconde solo a Chrysler. Il ranking mondiale di Fiat è estremamente lusinghiero. Negli anni immediatamente successivi Fiat scivola su posizioni di media classifica. La posizione si deteriora sensibilmente nel decennio Ottanta, nel quale il numero di citazioni medie in tutta l'industria aumenta (nonostante esso debba tendenzialmente diminuire, per ragioni di finestra temporale), mentre diminuisce per Fiat. A inizio anni Novanta la posizione di Fiat è di fine classifica, posizione condivisa con Renault. L'analisi brevettuale è confermata dalla osservazione della dinamica della spesa in R&S, secondo i dati DTI. Nel decennio Novanta la spesa in R&D dei produttori automobilistici, pur con alcune variazioni, ha avuto un andamento nettamente crescente (Figura 3). Anche rispetto alla spesa si evidenziano, due tipologie di imprese: il gruppo dei big spender (GM, Ford, Daimler-Chrysler, Toyota) ed un gruppo di media dimensione con livelli di investimento comparabili (Wolkswagen, PSA, Renault, Honda, Volvo e FIAT).

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Fonte: ns. elaborazione su dati DTI Figura 3. Andamento della spesa in R&D. Industria automobilistica mondiale. Anni 19922000 (valori nominali) 152


è l'unico costruttore che evidenzia un investimento costante in termini nominali (quindi decrescente in termini reali) e passa dalla posizione di leader del secondo gruppo alla ultima posizione relativa (con l'eccezione di Volvo, che ha dimensioni nettamente inferiori e viene poi acquisita). Il fenomeno drammatico che emerge (Figura 4) è che, mentre a inizio periodo i costruttori erano compresi all'interno di un range piuttosto elevato di intensità di spesa (rapporto R&S/fatturato), a fine periodo si determina una convergenza dell'intera industria intorno ad un livello compreso tra il 4% e il 5%. Ciò significa che sono cambiate le condizioni strutturali della sopravvivenza, e che produrre automobili richiede investimenti in R&S che sono crescenti in senso relativo. A fronte di questa fortissima convergenza, a partire dal 1995 FIAT scende dal livello del 4-4.5% ad un livello oscillante tra 2.5% e 3%, perdendo quasi due punti percentuali Nel 2000 FIAT occupa l'ultima posizione tra tutti i concorrenti dell'industria automobilistica mondiale. Nel dato è inclusa l'attività del Centro Ricerche FIAT. Le indicazioni emerse sopra sono ulteriormente confermate dal confronto con un diverso sottoinsieme di imprese, che include alcuni grandi componentisti, e che si basa sugli indicatori normalizzati TechLine. FIAT

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Figura 4. Andamento del rapporto R&D/sales. Industria automobilistica. Anni 1992-2000 153


L'indicatore di qualità del portafoglio brevetti (numero di citazioni normalizzate per brevetto) vede FIAT in ultima posizione sia nel periodo 1990-94 che nel periodo 1995-99 (Figure 5 e 6). Un confronto con il numero assoluto di citazioni per il periodo 1966-92, svolto senza normalizzare i dati, e riferito alle sole imprese europee, mostra che Fiat era la prima o tra le prime per qualità dei brevetti nell'intero periodo 1966-1979, mentre scende tra le ultime posizioni nel periodo successivo (Figura 7). L'indicatore di forza tecnologica, che tiene conto sia della numerosità che della qualità dei brevetti, di nuovo per i periodi 1990-94 e 1995-99 mostra Fiat nelle posizioni di coda (Figura 8). L'indicatore di legame con la scienza, che misura l'importanza delle citazioni alla letteratura scientifica nei brevetti, vede per gli stessi periodi Fiat in penultima posizione, con un lievissimo miglioramento (Figura 9). Ciò che impressiona dei dati del decennio Novanta relativi a Fiat, non è solo la posizione relativa (il campione TechLine è parziale), ma la sostanziale stagnazione. Mentre per tutti gli altri costruttori nel decennio aumentano nettamente sia la forza tecnologica (quantità e qualità dei brevetti), sia il legame con la scienza, niente di tutto ciò accade per Fiat.

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Figura 7. Andamento del numero di citazioni per brevetto. Industria automobilistica europea. Anni 1966-1992.

155



CONCLUSIONI

Non è questa la sede per avanzare una spiegazione esauriente di questi fenomeni. Piuttosto, si vuole suggerire una impostazione di metodo e di linea culturale. Nel dibattito accademico, politico e giornalistico italiano le evidenze sulla ricerca pubblica e privata e sulle prestazioni dei sistemi di ricerca si limitano a poche e ripetitive osservazioni, senza forte potere esplicativo. Vi è la necessità non solo di deprecare lo stato dell'arte o di invocare un aumento della spesa, ma di proporre e validare congetture esplicative, che aiutino a identificare possibili percorsi di uscita. In realtà l'agenda del dibattito non è fissata a partire dalla evidenza. Nel corso degli anni Novanta, mentre si consumava un drammatico depauperamento delle basi tecnologiche del Paese, le priorità nell'agenda politica e dell'opinione pubblica informata sono state altre. Mentre si compivano scelte aziendali di sottoinvestimento in gran parte delle grandi imprese italiane, i soggetti esterni alle imprese hanno lasciato che l'agenda del dibattito fosse definita su altri temi, aiutati da una forte pressione mediatica. La storia dell'ultimo decennio dovrebbe insegnare che nella distrazione della classe politica e della pubblica opinione si possono condurre operazioni di impoverimento tecnologico che danneggiano l'intero Paese. Da questa lettura emergono alcune possibili implicazioni. Primo, è necessario impostare una politica della ricerca evidence-based. In secondo luogo occorre nutrire, prima a livello scientifico e poi dei policy makers, una autentica ossessione per i dati, che aiuti a identificare le evidenze, a produrre e migliorare indicatori, a ricondurre sistematicamente la discussione all'insieme più ampio possibile di conoscenze fattuali. Terzo, è importante produrre congetture audaci, finalizzate ad una spiegazione convincente delle grandi tendenze. Indubbiamente tutti gli indicatori e i sistemi di indicatori sono imperfetti e suscettibili di critica. L'obiezione che gli indicatori sono parziali nasconde spesso il rifiuto di un confronto spassionato sulla evidenza disponibile. Inoltre, quando si realizza la convergenza di numerosi indicatori si crea una evidenza che va affrontata scientificamente. Tutto ciò deve avvenire nella indipendenza di giudizio. Gli scienziati sociali hanno il dovere civile di non lasciare che l'agenda dei temi sia fissata dalle urgenze contingenti, ma di richiamare, con il meglio delle proprie forze, a ciò che ritengono vero e utile per il progresso del Paese. 157


1 Si consultino i database STi-ERA disponibili al sito www.cordis.lu . 2 Si rinvia per una discussione piĂš estesa e per la bibliografia al nostro capitolo Alle radici del ritardo tecnologico italiano, in A. Bonaccorsi (a cura di) Il sistema pubblico di ricerca in Italia, F. Angeli, Milano 2003.

158

3 Una prima analisi estesa alle principali industrie in Italia e basata sugli indicatori TechLine è contenuta in A. Bonaccorsi, La scienza come impresa, F. Angeli, Milano 2000. L'analisi sugli indicatori brevetruali viene ripresa da Bonaccorsi e Giuri (2003).


La ricerca e le piccole e medie imprese di Carlo Callieri

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i fronte a questa ricca serie di indicazioni è difficile reagire con un'argomentazione sistematica che evidenzi i punti di forza e punti di debolezza che indubbiamente sono presenti nell'analisi di chi mi ha preceduto. Cercherò di fornire un'interpretazione che naturalmente terrà conto della mia esperienza, per una prima fase, quale responsabile, in una grande azienda, anche dell'attività di ricerca e sviluppo (fino al '90 in Fiat), successivamente, di rappresentante degli interessi di impresa in qualità di Vice-Presidente di Confindustria. All'interno di questo organismo ho per primo lanciato l'attenzione al problema della ricerca con la costituzione di una Commissione e con la creazione di competenze specifiche. Oggi, infine, la mia esperienza è quella di un operatore privato che gestisce investimenti in private equity su piccole e medie imprese con caratteristiche anche fortemente innovative impegnate non solo in settori avanzati, ma anche in lavorazioni di tipo tradizionale ma dove si sono comunque sviluppate capacità di innovazione. LE SPESE PER RICERCA E SVILUPPO

Parto dalle ultime argomentazioni svolte nella precedente relazione. Anch'io ritengo sia importante costruire basi di dati che siano serie ed affidabili: per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e sviluppo delle imprese questi non possono che passare attraverso una corretta valutazione dei costi che le imprese sopportano. Naturalmente anche altri indicatori sono importanti, e tra questi certamente l'indicatore brevettuale, ma pregherei di considerare cosa significhi, per una piccola impresa, un brevetto in termini: a) di costo; b) di esposizione a possibili rischi di copiatura in Paesi nei quali non si ha possibilità di proteggersi. Francamente credo che le piccole imprese non siano interessate al brevetto in se stesso, i benefici che ne possono scaturire sono del L'Autore è Vice Presidente della Compagnia San Paolo (Torino) 159


tutto remoti. Sul tema della struttura delle imprese industriali del nostro Paese, tornerò più avanti, perché questo non è banalizzabile oltre certi limiti. Una corretta allocazione delle spese di ricerca e sviluppo, a livello di contabilità nazionale e partendo evidentemente dalla contabilità industriale di impresa, si potrà ottenere soltanto evidenziando le convenienze. Perché in particolare, ancora una volta per le piccole e medie imprese, avere contabilità semplificate è una ragione essenziale; poiché non si possono permettere burden amministrativi che comportino sofisticazioni di piano dei conti e articolazione di voci, se non c'è una convenienza, l'evidenziazione delle spese non si fa. Sostenere in questo Paese, per la sua struttura di impresa, che le spese di ricerca e sviluppo devono essere agevolate in forma automatica - e più avanti spiegherò meglio perché devono esserlo - è anche un modo per fare emergere la realtà degli impegni e migliorare non soltanto la percezione ma anche l'insieme delle attività che le piccole e medie imprese in particolare possono svolgere. Per le grandi imprese, l'evidenziazione di queste spese è un elemento di marketing, quindi lo fanno già, e qualche volta lo fanno in modo addirittura eccessivo: vorrei anzi raccomandare di non indulgere in facili illusioni, perché vendere sogni sul mercato, nutrendoli con innovazioni che poi regolarmente vengono disattese (anche se magari avevano alla base brevetti e attività di ricerca) è una prassi che, immancabilmente, mostra rapidamente la corda. Se andiamo a vedere come i sogni di tecnologiche esclusive nei diversi campi, dalle biotecnologie alla farmaceutica, dalle telecomunicazioni a internet, sono stati venduti e comprati nella bolla speculativa, dobbiamo convenire che sono stati venduti e comprati perché la credulità umana ha larghissima capacita di «abboccare alle esche . Ed erano tutte iniziative «market friendly orientate al mercato, public per definizione. Non credo, quindi, che il problema sia la struttura proprietaria: i essere pubblici, 1 essere privati, 1 essere quotati, non l'essere quotati. Penso che la propensione allinnovazione discenda da altre cose, e in particolare dall attitudine, dall educazione dei management, che può essere più o meno attento alle esigenze di continuità dell'impresa. Gli azionisti poco c'entrano o poco determinano se non nel momento in cui scelgono un management che non ha queste caratteristiche fondamentali, cioè la capacità di traguardare l'impresa sui medio periodo. LA CREAZIONE DI VALORE

I sistemi di remunerazione e di valorizzazione del management possono essere poi fortemente distorcenti; la filosofia di creazione del valore e le alluvioni 160


di stockoptions sono stati dei grandissimi diseducatori riguardo la continuità dei risultati e dell'impresa. La creazione dei valore premia sostanzialmente l'indebitamento, premia un certo rapporto di remunerazione del capitale investito che inevitabilmente tende a comprimere gli investimenti non immediatamente produttivi. Se alla filosofia della creazione del valore, che tanto è stata sbandierata come elemento di moralizzazione delle imprese, si danno quel tipo di conseguenze, molto rapidamente avvengono devastazioni che in parte, devo dire, sono anche riflesse in taluni dei dati che in questa occasione sono stati analizzati. A mio giudizio, la spiegazione del perché siano scemate le spese di ricerca e sviluppo, oltre ai relativi investimenti presso alcuni gruppi italiani, è legata anche, sebbene non sia la sola ragione, all'applicazione di incentivi per il management legati alla filosofia di creazione del valore. Questa è in rapporto al capitale investito. E così: piii basso è il capitale investito, più alto è l'indebitamento, maggiore è la creazione del valore. E una cosa aberrante. Il che poi giustifica ancora altri fattori sugli andamenti che qui sono stati visti: quando comincia il grosso del decentramento di talune attività a cavallo del core per taluni gruppi italiani? Comincia, appunto, nell'epoca in cui la filosofia di creazione del valore si afferma e in cui, di conseguenza, si esternalizzano gli investimenti più capita/intensive. A quel punto, tutta una serie di attività che dovevano alimentare lo sviluppo in quelle aree passano all'esterno dell"impresa. In parte, mantenendo capacità di innovazione e in parte ricadendo in condizioni in cui la capacità di innovazione è prossima allo zero. In una corretta visione dei processi di trasformazione industriale credo, però, che i dati di cui qui si è parlato siano fortemente misleading. Non si può valutare sostanzialmente soltanto due casi, non vedere, ad esempio, un caso come quello Pirelli che ha altre caratteristiche, o ancora il caso Telecom, che ha ancora tutt'altre caratteristiche, ed anche considerare tra gli oggetti di analisi le due chimiche Eni e Montedison che sono sostanzialmente defunte, come lo è la chimica italiana, non per incapacità di innovazione, ma semplicemente perché ha finito il ciclo di sviluppo possibile in Paesi industriali occidentali, per tutte la ragioni che sono connesse alla chimica. Il cheè come dire: "qual è il tasso di innovazione della siderurgia?"; "le imprese siderurgiche italiane che tasso di innovazione realizzano? ; oppure ,, ,.. . . . .. . . ,, 1 industria siderurgica mondiale che tasso di innovazione realizza? . Quando si hanno in campo industrie immature, in un contesto di imprese mature, i tassi di innovazione sono inevitabilmente molto bassi. Certo le minimills sono nate in Italia, ma ugualmente voglio dire che da un punto di vista sostanziale un'industria matura può esprimere tassi di innovazione molto bassi. Nel 161


campo della siderurgia concordo con quanto detto da Bonaccorsi, cioè che se si va a guardare all'interno del settore, quello che sanno fare le imprese italiane e quello che fanno le imprese estere, allora si nota che gli italiani sono bravi fino a che si resta nelle piccole dimensioni e si tratta di assumere innovazione comprata dai venditori di macchine, ma quando si tratta di costruire delle grandi imprese che fanno anche nuovi acciai, perché anche lì c'è innovazione, allora l'Italia è zero. Naturalmente non è il caso di generalizzare, ci sono stati casi di piccole imprese che hanno generato grandissime innovazioni negli acciai, tanti anni fa i bresciani hanno creato le mini acciaierie e più recentemente Arvedi la laminazione corta. I CENTRI DI RICERCA Rispetto al caso Fiat, vorrei segnalare che, mentre sono calati ricerca e sviluppo fatti dall'azienda torinese, si è mantenuta costante, anzi è cresciuta, la ricerca e sviluppo fatta dal Centro Ricerche Fiat (CRF). Il CRF è il più grande centro di ricerca e sviluppo privato in Italia; io ho, se posso dire, l'orgoglio di averlo rifondato a fine anni Ottanta e inizio anni Novanta. La capacità di innovazione del CRF è espressa da una serie di brevetti che lo hanno reso il protagonista del rinnovamento e del rilancio del motore diesel, per esempio. Diverse sono le innovazioni che mantengono il CRF all'avanguardia nel campo della motoristica diesel, che ha radici lontane e consistenza attuale. Per quel che riguarda i centri di ricerca privati italiani, e mi riferisco a quelli di Pirelli, Telecom, Ciu, che sono quelli che conosco (ma ve ne sono almeno un'altra ventina, più piccoli ma altrettanto efficaci), hanno, grazie al cielo, anche la capacità di fare ricerche guidate dalla curiosità, con capacità poi di estrapolarne applicazioni utili. Il Cu ha lavorato sulle logiche sfumate e ne ha ricavato applicazioni industriali di grande rilievo; ha lavorato sulle nanotecnologie e sta derivandone applicazioni di un certo rilievo. Lo stesso nel caso Pirelli per quel che riguarda la fotonica e per la Telecom su voce e immagini. Credo siano esempi del fatto che nell'industria privata ci sono centri che lavorano con notevole lungimiranza. Tra l'altro, non sono centri di profitto, ma sicuramente centri di costo responsabile. Centri responsabili di pareggiare costi con ricavi e molti hanno strutture di spa consortili, dimostrano quindi che è possibile dare una struttura alle attività di ricerca che sia economicamente e finanziariamente compatibile con le esigenze di mercato. Tutto ciò detto, il problema torna ad essere, ed io non vorrei assolutamente che venisse 162


sottovalutato, il problema delle poche imprese, grandi imprese italiane e alcune medie, che fanno attività di innovazione e che sono altamente pregevoli sia in termini di ricerca e sviluppo su processi e prodotti, che di applicazione di innovazioni intelligenti. Si dice che è banale fare dello shopping di tecnologia, poi però, il Signor Beghelli girando il mondo vede in Giappone un gascromatografo che veniva venduto al modico prezzo di qualche migliaio di dollari e che si basava su un sensore del costo di alcuni centesimi di dollaro. Da lì ha derivato il segnalatore del gas da cucina, i giapponesi non ci avevano pensato, nessuno ci aveva pensato. Il Signor Beghelli, che era un dipendente dell'ufficio acquisti della Ducati Elettronica di Bologna, ci ha pensato e ha costruito una serie di prodotti per la domotica, che si sono affermati in giro per il mondo. Allora, la capacità applicativa dell'innovazione che viene generata da altri è un qualche cosa che vale o non vale da un punto di vista del vantaggio competitivo? Dopo di che le piccole imprese, a mio giudizio e per l'esperienza che ho, fanno consistenti - in relazione alle loro dimensioni - attività di innovazione, che non sono semplicemente innovazione applicativa o semplicemente finalizzazione di tipo applicativo. Perché il problema di qualsiasi piccolo o medio imprenditore, soprattutto per il primo, è quello di conseguire in continuazione difese e barriere al suo business, e le difese e le barriere oggi possono essere soltanto quelle dell'esclusività in qualche modo dei propri prodotti e del core del proprio prodotto. Questi processi, queste attività non sono minimamente supportati dal pubblico, e questa è una considerazione che va fatta in termini molto brutali. Con le leggi sull'innovazione si è fatto qualche passo avanti, dimenticando però che ci sono delle barriere di accesso in funzione della dimensione che sono scalini insormontabili per un piccolo imprenditore. Se si vanno a vedere, e questa sarebbe una cosa da fare, i programmi finanziati dal Ministero dell'industria nell'ambito della legge sull'innovazione, intanto si ritroverebbe per quello che vale (sono centinaia di casi) una prima coerente indicazione di quale è la vitalità e il potenziale in termini di ricerca e sviluppo espressi da piccole imprese e quale sia questo potenziale malgrado tutti gli ostacoli che vengono loro frapposti. Il primo ostacolo, la prima barriera d'ingresso è la modalità con la quale si accede. Presentare un programma strutturato in collaborazione con un centro di ricerca esterno non è cosa facilmente raggiungibile da tutti, perché riuscire a intrattenere con un centro di ricerche esterno un corretto ed efficace rapporto è un problema che riempie di sudore qualsiasi imprenditore. I linguaggi, le finalità, le culture sono completamente differenti. Ci si deve domandare se è l'imprenditore che si deve adeguare al 163


linguaggio dei ricercatori o i ricercatori che devono entrare nella mentalità e nella cultura dell'imprenditore. Questo è il primo problema. I problemi successivi sono dovuti al come funziona il finanziamento, perché questo viene realizzato a consuntivo: tra i consuntivi c'è anche la fattura quietanzata al centro di ricerca, per cui il piccolo imprenditore si trova a fare il finanziatore e la banca del centro di ricerca in funzione di fondi che gli verranno erogati, se va bene, dopo due o tre mesi. Condizioni che sono concretamente insostenibili, perché nessun piccolo imprenditore può fare banca - per importi che sono intorno al 30%, al 40% di un programma di ricerca che mediamente va dai 500 milioni di lire al miliardo, miliardo e mezzo -, nei confronti dell'ente di ricerca. Torno a dire però che se si fa un'analisi di quel mondo e di quel vissuto si ricaverà una serie di indicazioni che, almeno in parte, dimostreranno che molte delle convinzioni nel nostro Paese intorno al potenziale delle piccole e medie imprese è largamente fallace. Allora, e qui concludo, nella ricerca di dati e di evidenze occorre fare ricerche e analisi su larga scala, senza dover necessariamente precostituire delle ipotesi che in qualche modo riflettono o possono riflettere pregiudizi.

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La politica del capitale umano di Piero Gastaldo

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sempre imprudente commentare relazioni che non si sono potute sentire per intero, e tantomeno leggere. Volevo tuttavia svolgere qua!che considerazione che fa riferimento in modo più stretto alla prima famiglia di interventi, quelli che hanno in qualche modo delineato il quadro relativo alle grandezze del sistema della ricerca pubblica. Parto con una breve, come dire, Tale oftwo cities vittoriana, anzi una Tale oftwo Regions, uno sguardo sulla storia di due regioni europee, Rhòne-Alpes e Piemonte, dal punto di vista della demografia, perché io ritengo che la demografia sia il motore nascosto di una quantità enorme di sviluppi e sicuramente incida fortemente anche sulle considerazioni che oggi stiamo svolgendo. Nel '75 le due regioni, Piemonte e Rhòne-Alpes, avevano all'incirca la stessa popolazione in valori assoluti, intorno ai 4 milioni e mezzo. Nel 2002 il Piemonte è sceso di circa 300/250 mila abitanti, siamo adesso sui 4 milioni e 200 mila; Rhòne-Alpes ha 5 milioni e mezzo di abitanti. Quasi tutto questo incremento, o decremento, è spiegato non tanto sulla base delle dinamiche migratorie, ma sulla base delle dinamiche endogene. Le generazioni nella fascia 0-24 (ma potrebbe essere 0-21, cambia poco) nelle due regioni sono ben più drammaticamente diverse dal punto di vista della dimensione relativa: circa un milione e mezzo in Rhòne-Alpes, circa 750.000 in Piemonte. Cioè, da una base di popolazione apparentemente identica 25 anni fa, arrivano adesso due "leve" giovanili, nelle quali dovranno essere reclutati lavoratori, ricercatori, studenti e quant'altro, una delle quali è il doppio dell'altra.

UN CONFRONTO SUI DATI

Al dati demografici aggiungo qualche considerazione sui sistemi di ricerca, perché nella metà degli anni Ottanta avevo avuto modo di comparare i due

L'Autore è Segretario Generale della Compagnia San Paolo di Torino. 165


sistemi. Ebbene, anche allora, e anche con riferimento a questo sotto-sistema, la popolazione dei ricercatori nelle due regioni aveva all'incirca le stesse dimensioni. Nel frattempo la situazione è andata evolvendo, e non a vantaggio del Piemonte. Ma, in prospettiva, è ancora più rilevante notare come per mantenere lo stesso livello di popolazione attiva nella ricerca, evidentemente il Piemonte dovrà nei prossimi anni essere in grado di avere un'incidenza doppia di propensione alla prosecuzione degli studi, o una capacità di reclutamento due volte più intensa di quanto non abbia Rhòne-Alpes. Con ogni probabilità questo vorrà dire, se si vorranno mantenere le stesse dimensioni in termini di valore assoluto del sistema, correre il rischio di fare reclutamenti sub-ottimali: puntare cioè su un capitale umano che non avrà la medesima qualità di quello della regione vicina. A meno che, prescindendo da tutte le considerazioni di carattere, se vogliamo, biecamente naturalistico, non si sia in grado di avere uno sforzo straordinario sul piano della formazione, nel senso non soltanto della dimensione verticale, della qualità della medesima, ma anche nel senso della dimensione orizzontale, dell'estensione dei bacini. E a meno che non si abbia una straordinaria capacità di attrazione dall'esterno. LA POLITICA DELIISTRUZIONE E IL CAPITALE UMANO

Che cosa ricavo da queste banali considerazioni? Che due tipi di politiche, che apparentemente sono scarsamente correlate ai temi della politica della ricerca, in un sistema come il nostro, come quello italiano sono al contrario straordinariamente significative. Una è la politica dell'istruzione di base, nel senso della capacità di garantire l'ampiezza della base della piramide, nonché la sua qualità media. Da questo punto di vista, non mi pare che il sistema italiano stia comportandosi in maniera significativa, o meglio, in maniera significativamente competitiva. L'altro tema è la capacità di generare capitale umano, attraverso politiche demografiche, che però producono effetti solo nel lungo termine (i ricercatori italiani che entreranno sul mercato verso il 20252030 sono già tutti nati, e sono maledettamente pochi), o attraverso la attrazione dall'esterno. Il differenziale di attrazione del sistema americano, su cui appunto portava la nostra attenzione l'ultimo intervento, si associa, come è noto, ad una più generale politica attiva dell'immigrazione, che ha sempre incoraggiato un reclutamento selettivo di competenze sul mercato demografico mondiale, rispetto al quale la politica di chiusura incorporata nelle politiche dell'immigrazione europea, e italiana in particolare, si trova in posizione esattamente antitetica. Il nostro, cioè, è un sistema che sta delineando politiche 166


le quali, anziché aumentare il suo livello di apertura, sicuramente lo abbassano. Abbiamo avuto una recente esperienza al Politecnico di Torino, un tentativo di reclutamento di un ricercatore dall'esterno, che si è poi conclusa felicemente dopo interventi molto pressanti da parte del Consolato. Se avessero dovuto però applicare pedissequamente la legge, nel modo in cui era congegnata, ben difficilmente sarebbero stati in grado di farlo, perché questa persona aveva un contratto che non era inseribile all'interno delle categorie dei contratti di lavoro che consentono di fare eccezioni al sistema delle quote migratorie. Allora, lungi dall'essere in questa fase della vita del Paese un accessorio marginale, le politiche di attrazione su vasta scala di immigrazione qualificata dovrebbero essere una componente assolutamente centrale delle politiche di valorizzazione del capitale umano, che sono a loro volta una premessa per le politiche della ricerca. Non mi pare che questo accada, e non mi pare quindi che si sia in grado di creare le condizioni per far fronte in modo positivo, in modo virtuoso, al buco del 2025. Lo ripeto, i ricercatori e i nuovi formatori che dovrebbero essere reclutati da ora al 2025 sono tutte persone già nate, e sono leve molto più piccole, non solo di quelle che le hanno precedute, ma anche di quelle su cui possono contare i Paesi europei di dimensione analoga alla nostra. Temo, in sostanza, che i motori del declino italiano siano profondi, e lo siano ancora di più di quanto abitualmente non si pensi, e siano difficilmente reversibili se non si pone al centro dell'attenzione la politica del capitale umano come questione fondamentale, di qualità ma anche di quantità, con riferimento sia alla popolazione endogena, sia alla capacità di attrazione su larga scala.

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Per una "matrice istituzionale" della ricerca scientifica in Europa di Sergio Ristuccia

Alcune brevi considerazioni dopo un dibattito interessante che promette sviluppi interessanti. In ogni caso, nessun tzpo di conclusione. rima considerazione. Mi trovo a condividere la convinzione che non si debbano fare eccessive distinzioni fra hard sciences e sofi sciences almeno per quanto riguarda l'idea che nelle seconde ci sia piena libertà di riflessione mentre ci sarebbero, introiettati nella mente umana, topos che poi servono (e condizionano) o si inverano nella ricerca scientifica, detta hard. Una ricerca che non si troverebbe a godere della stessa libertà intellettuale. Il messaggio è affascinante, conduce a recuperare atteggiamenti comuni del fare ricerca, dissuade dal recepire distinzioni che si sono tramandate per pigrizia. Vere per qualche aspetto, false negli aspetti più essenziali. Piuttosto, ritrovare un terreno comune nell'atteggiamento verso la ricerca rilancia le soluzioni ad un diverso ordine di problemi: quello delle distanze e delle presunte esclusività delle mappe cognitive delle varie discipline. Problemi per lo più trasversali alle varie scienze senza tener conto di harde sofi. A questo riguardo ricordo l'analisi lucida di Luciano Gallino nel libro "Lincerta alleanza", pubblicato nel 1992. Il tema, ricorderete, è quello di come mettere a lavorare insieme - al fine di una collaborazione utile per il policy making— ingegneri, fisici, biologi, chimici, geologi, informatici, da una parte, e sociologi, psicologi, antropologi culturali ed economisti. Per non dire - aggiungo io - dei giuristi, immancabili nei processi di definizione delle politiche pubbliche. Ricorda Gallino che "nel formulare le loro decisioni, o nel comporre gli elementi che permetteranno a qualche policy maker di decidere, simili gruppi (di scienziati o di professionisti specializzati) incorrono di regola

J)

L'Autore è Presidente del collaborazione con l'ESA. 168

Css. Ha diretto, inoltre, una ricerca nel trasferimento tecnologico spaziale in


in una serie di incidenti cognitivi, al cui paragone - anche per quanto attiene alle conseguenze materiali e ai costi economici - impallidiscono molti dei peggiori incidenti tecnologici e ambientali; i quali, a ben vedere, discendono spesso dai primi". Beninteso, l'ammonimento di Gallino è contro le ipotesi semplicistiche che danno per scontato, per esempio, "che la mappa cognitiva altrui - ovvero il vastissimo e articolato insieme delle rappresentazioni, dei modelli del mondo fisico, sociale, culturale che la mente di ciascun individuo ospita - sia pressoché identica alla propria, ad eccezione della frazione, peraltro minuscola rispetto alla totalità della mappa che corrisponde alla sua specializzazione". Dunque, un invito a non fare a meno delle distinzioni, ma certo non valorizzando quelle fra grandi campi o gruppi di scienze perché distinzioni anche radicali e resistenti si vanno normalmente creando per il semplice fatto del crearsi di campi disciplinari nuovi. Partire dalla consapevolezza delle distinzioni per trovare un percorso metodologico guidato dalla capacità di focalizzarsi all'unisono sul problema da affrontare e risolvere significa rendersi conto dell'importanza del fatto che "una mappa cognitiva che si sia venuta strutturando nella mente di un attore sociale sulla base di una specializzazione scientifica è profondamente diversa da quella di qualsiasi specialista d'altro ramo". Con tutti i problemi che ne derivano. E, tuttavia, la consapevolezza di un comune approccio alla ricerca - fondato su una libertà fortemente creativa - conforta il percorso metodologico per giungere a intendersi trasversalmente e a cooperare utilmente. Che è il problema proprio di chi (come il Consiglio italiano per le Scienze Sociali) promuove il lavoro multidisciplinare, impossibile da predicare come necessario soltanto all'interno di un campo o dell'altro delle scienze. Seconda considerazione. Se non vale insistere sulla portata di grandi distinzioni fra hard e sofi riguardo alle scienze, vale invece la distinzione fra ricerca di base e ricerca applicata, sempre e soprattutto per quanto riguarda gli atteggiamenti dei ricercatori e degli scienziati? Tutto sommato sarei per rispondere anche in questo caso negativamente. Nel senso che anche il ricercatore "applicato" ha bisogno di libertà e di forte creatività. Qui, tuttavia, la distinzione viene frequentemente riportata in relazione al problema del rapporto fra ricerca scientifica e utilizzazione industriale dei suoi risultati. Si dice: la ricerca scientifica è un processo che si trasforma in una sorta di rivoluzione permanente perché non c'è teoria scientifica che non possa essere messa in questione ed essere soggetta a refutazio169


ne. Al contrario, la ricerca utile all'industria ha bisogno di certezze. La costruzione di una certa macchina o la produzione di un certo medicamento ha bisogno che determinati risultati della fisica o della biologia siano considerati come certi. Allora: il progresso tecnico vuole certamente l'utilizzazione economica dei risultati della ricerca scientifica. Tuttavia - si dice - la partecipazione dei ricercatori a questo processo è discutibile. Anzi - si conclude - i ricercatori non debbono essere coinvolti nella logica dell'utilizzazione economica della stessa ricerca applicata e non debbono rispondere all'appello di farsi "ricercatori-imprenditori". Il che può anche significare, per esempio, sottrarsi alla richiesta di produrre sempre più brevetti. Così, riassumendo al massimo, argomenta uno studioso francese (Vincent Legagneux, Vers un formatage idéologique des scientzfiques? in "Le Monde", 24 aprile 2003). Ora, senza discutere la tesi (che arriva ad una conclusione al limite del paradosso e che si oppone drasticamente alla tesi secondo la quale è da favorire al massimo il coinvolgimento dei ricercatori nel processo di valorizzazione economica dei risultati raggiunti), c'è da osservare che il problema di come giungere all'utilizzazione economica e industriale della ricerca scientifica è aperto e non trova sempre risposte adeguate. Il fenomeno della diffusione dei risultati della ricerca applicata e tecnologica attraverso i canali della comunicazione all'interno della comunità scientifica si oppone spesso a quello del trasferimento tecnologico dal mondo della ricerca a quello dell'industria: il primo ispirato al libero confronto, il secondo necessariamente condotto verso o attraverso la riservatezza o il segreto industriale. Qual è il punto di passaggio? Quali sono gli attori esperti di questo passaggio? C'è una "matrice istituzionale" entro la quale il processo possa realizzarsi correttamente? Terza considerazione. Il dibattito sulla ricerca scientifica ha urf vizio che va segnalato: il suo orizzonte, in tutti i Paesi europei, continua ad essere strettamente nazionale. Fondamentale è sempre, ad esempio, il confronto fra le spese, fra i tipi di organizzazione, fra i pesi che la ricerca pubblica e quella privata hanno nei confronti del PIL. Sullo sfondo il grande confronto con l'America, quasi sempre considerata modello di riferimento. Ora, varrebbe ricordare che nel 2000 il Consiglio Europeo riunitosi a Lisbona decise di considerare il prossimo decennio come quello nel quale l'Unione Europea avrebbe conseguito un risultato: diventare l'area più 170


avanzata del mondo come economia fondata sulla conoscenza. Retorica? Può darsi, ma tutto sommato il Consiglio Europeo, quando si riunisce, continua a valutare come l'Unione si stia movendo verso questo traguardo. I governi pigri non fanno poi granché a casa loro (lo abbiamo già rilevato nell'editoriale del n. 128 di "queste istituzioni"). Ma anche tutti gli addetti ai lavori, la comunità scientifica e della ricerca non soltanto non sa di Lisbona (capita spesso che i cittadini europei non sappiano molto dell'Unione), ma neppure si pone un problema di politica europea dello sviluppo della ricerca. Nessuno che chieda qualcosa che rassomigli alla lontana ad un Erasmus della ricerca ovvero che pretenda, al di là di alcuni sportelli di finanziamento da tempo aperti presso la Commissione, una strategia condivisa di politica della ricerca. Sono sempre le istituzioni europee a prendere qualche iniziativa ma le sollecitazioni dall'esterno sono fiacche. O si va in America o si coltivano i propri orticelli nazionali. Il problema, invece, è quello di immaginare una matrice istituzionale articolata a livello nazionale e a livello europeo che comprenda una varietà di soggetti di sostegno della ricerca scientifica e tecnologica e ne assicuri il coordinamento necessario. Quarta considerazione. A proposito di "matrice istituzionale", riprendo l'espressione usata da Olivier Zunz nel I capitolo di Perché il secolo americano?, (trad. italiana Il Mulino, 2002), per illustrare come all'inizio del Novecento gli americani inventarono d'un tratto nuovi modi di associare gli affari, la politica e la scienza. "Venne messa in piedi una nuova matrice istituzionale di società commerciali, università e istituti di ricerca, agenzie governative e fondazioni private, per permettere a produttori, intermediari e utenti del sapere di interagire compiutamente ed elaborare insieme nuove strategie di acquisizione delle conoscenze . Osserva Zunz: "Questi organismi diedero ben presto vita a una matrice istituzionale senza precedenti per dimensioni e senza equivalenti in Europa. ( ... ) Furono la sua stessa esistenza e la varietà delle sue componenti a incoraggiare i rapporti fra ricercatori e a promuovere l'interazione fra diverse comunità di studiosi. Da questa stimolante interdipendenza emersero strategie cognitive dominanti, caratterizzate da frequenti scambi di personale tra istituzioni pubbliche e private". Parliamo di un'esperienza che risale ad oltre un secolo fa, ma il modello in qualche modo ha resistito nel tempo con notevoli varianti e varie dominanze. 171


Nel contesto profondamente cambiato della nuova globalizzazione,

dell'high tech, della crescita ulteriore delle multinazionali ma anche della loro fragilità, una matrice istituzionale europea entro la quale si costruisca in modo originale una interdipendenza fra istituzioni pubbliche e private della ricerca non è un'opzione. Dovremmo convenire nell'affermare che è una necessità.

Quinta considerazione. C'è un fatto nuovo da pochi anni in Italia, Di questa matrice in fieri (come c'è da augurarsi che sia) sono destinate a far parte le fondazioni di origine bancaria. E vero che tali fondazioni sono chiamate a occuparsi di molte cose, che sono ancora alla ricerca di un ruolo da assumere con piena consapevolezza nella società italiana. È altrettanto vero che nessun compito, più del sostegno della ricerca scientifica, può dare contemporaneamente una risposta alle esigenze della "matrice" generale (di questo sono primi sintomi le iniziative congiunte di alcune importanti fondazioni europee) e a quelle dello sviluppo locale. Non si tratta soltanto di destinare risorse, si tratta piuttosto di entrare nell'arena come attori, capaci di scelte di metodo e di contenuto attraverso un'azione indipendente e forte che cooperi con i soggetti pubblici preposti al finanziamento e allo sviluppo della ricerca ma ne corregga le vanegate derive corporative e particolaristiche.

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Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali oltre le leggi, per accompagnare le trasformazioni della comunità locale. 11 CSS è un'associazione con personalità giuridica - ONLUS. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, negli anni Sessanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e piii efficaci. Il CSS rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il CSS associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 4 commissioni di studio sui seguenti temi: fondazioni italiane; sviluppo locale in Italia; relazioni intergenerazionali; valutazione dell'attività di ricerca. Da ricordare l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche in Europa. Presidente: SERGIO RJSTUCCIA Vice Presidente: ARNALDO BAGNASCO Comitato Direttivo: SERGIO RISTUCCIA (Presidente),

PIERO AMERIO, PIERO BASSET-

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LA COLLANA MAGGIOLI - QUESTE ISTITUZIONI Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, € 15,50 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, € 21,70 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Siof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, € 19,63 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'Unità ai nostri giorni, pp. 455, 1995, € 30,00 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, € 19,63 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit, pp. 324, 1996, € 24,80.

LA COLLANA MARSILIO - RISTUCCIA ADVISORS Daniele Archibugi, Giuseppe Ciccarone, Mauro Maré, Bernardo Pizzetti, Flaminia Violati - Advisory Commission on Intergovernmental Relations Il triangolo dei servizi pubblici, pp. 235, 2000, € 19,63 Sergio Ristuccia Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle fondazioni, pp. 181, 2000, € 12,91 Antonio Saenz de Hiera L'azzurro del puzzle. Fondazioni e terzo settore in Spagna, pp. 289, 2003, € 23


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