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iiiiest isliluziolli 150-151 Diretto re. SERGIO R!STUCCIA Condirettore: ANtONIO DI MAJO Vice Direttore. GIOVANNI VEFRYri'o Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: CARLA BASSU, FABIO BISCOTTI,

Anno)QO(Vn.

ROSALBA

Colo,

FRANCE5;o DI MAJO,

ALESSANDRO HINNA, CLAUDIA L0PEDOlE, GIORGIO PAGANO, PIER LUIGI PETRILI.O, ELISABEITA PEZZI, MASSIMO RIRAUDO, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, VALERJA VALISERRA, FRANCESCO VElO, DONATELLA VISCOGLIOSI, STEFANIA ZUCCOLO1T0

Collaboratori: ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELIONI, GIU5EI'PE BERTA, GIANFISANCO BIcITIN LA1TES, ENRICO CANIGLIA, OSVALDO CP.00I, ROMANO BETTINI, DAVID B0GI, GIRoLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, CARLO CHIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBIoz;O, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA

DI GREGORIO, CARLO D'OIcrs, SERGIO FABBRINI, MARIA

Ros,pis

FERRARESE, PASQUALE FERRO,

TOMMASO EDOARDO FROSINI, C.AstLo FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FIo\N:o GALLO, SILvIO GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANIE, GIUSEPI'E GODANO, AIRERTIO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LAIUREIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZEI LA, DONATO MASCIANDARO, PAoLo MIELI, WALTER N0CIT0, ELINOR OSTROM, VINCENT OsrP.oM, ALESSANDRO PALANZA, ANDREA PIRAIN0, BERNARDO PIzzErri, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO REA', GIANNI RIOLTA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANo SEI'E, UMIIERro SERAFINIt, FRANCESCO SID0rI, ALESSANDRO SILJ, FEDERICO SI'ANTIGATIt VINCENZO SI'AzIANrE, PIEIEO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, TIzIANo TEICzANIt, GIANLUICI TOSAtO, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMI'INI, ANDREA ZoII'INI

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BECHELLONI

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Francesca Biscotti

Associato aH'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

14.847 (12

dicembre

1972)


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Indice III

Memorandum per le elezioni del Parlamento europeo del 2009

Taccuino i

Europa coordinata, non unita Fiorella Kostoris

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Un dvviva, ma per quale Europa? Francesco Velo

15

UniversitĂ diffusa, ma che sia diversa Francesco Pigliaru

20

L'eterna riforma dei servizi pubblici locali Luigi Tretola

32

Musei gratis? Elina De Simone

Dibattito 41

Cosa possiamo imparare dalla Svezia Bruce Stokes

47

Il Rapporto Rasmussen: migliore o maggiore regolazione dei mercati finanziari? Intervista a PoulRasmussen

Giustizia internazionale 57

Lo stato dell'arte della lotta al terrorismo negli Stati Uniti Carla Bassu

I


66

Giustizia internazionale. Quindici anni di progresso Aryeh Neier

Noi e gli altri 71

Noi e loro. Il nazionalismo etnico: un potere duro a morire Jerry Z Muller Il nazionalismo etnico e l'Europa Dibattito in redazione

115

Cosa vuoi dire "integrazione" nelle societĂ dell'immigrazione? Andrea Spreafico

137

L'immigrazione rumena in Italia: un nodo irrisolto Alessandro Silj

Regioni, cooperazione e raccordo: le aichimie del potere 143

Regioni e accordi internazionali. I poteri di attuazione ed esecuzione Maria Romana Allegri

165

Prove di federaiismo. Sedi di raccordo interistituzionale, burocrazia, equilibrio dei poteri Paolo Allegrezza

Saggio 181

Gli effetti e ie politiche del "nuovo" mercato del lavoro Sonia Bertolini

'Cronache dal Css 197

Moneypush vs. dealpuil. Workshop sulla finanza per l'innovazione

Cronache dal Cric 199

Un appello alle altre reti di pubblicazioni periodiche


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PR-2 O

editoriale

Memorandum per le elezioni del Parlamento europeo del 2009

Il compito degli editoriali è di commentare gli eventi e le cronache come giornalismo di seconda istanza - come una volta lo abbiamo chiamato - che non si bruci nel giorno per giorno. In questa prospettiva, l'Europa ha costituito un tema prevalente e ricorrente degli articoli di apertura di questa rivista. È un dato che confermiamo anche questa volta. La ragione di un nuovo editoriale "europeo" è duplice. Da una parte, la grande crisi finanziaria ed economica globale chiama drasticamente in causa l'Unione Europea e ne interpella le capacità; dall'altra, abbiamo vissuto mesi pieni di eventi gravi e rilevanti per il quadro europeo. Ricordiamo rapidamente questi ultimi. Ci sono gli eventi che potremmo definire "interni" al continente. Alcuni di segno negativo, come l'esito del referendum irlandese sfavorevole al Trattato di Lisbona. O come il crescere dell'ondata antieuropeista che consegue al nuovo impressionante successo dei partiti della destra populista in Paesi come l'Austria (e precedentemente, del British National Party alle elezioni amministrative del Regno Unito). A questo riguardo, la rassegna dei fatti dovrebbe annoverare molti altri esempi, e riguardare non pochi Paesi membri. Altri eventi sono di segno positivo. Il riallineamento su posizioni molto meno antieuropeiste da parte delle forze politiche in Polonia. E, nell'area prossima più significativa, i Balcani, il consolidarsi di una tendenza europeista che deriva dal rafforzamento in Serbia del Presidente Tadic, forse disponibile a ridimensionare il caso Kosovo nell'ipotesi di una separazione dell'area serba dal nuovo micro Stato (che, sia detto per inciso, non è stato un affrancamento dalla logica cosiddetta westfaliana degli "Stati-nazione", ma una sua conferma in sedicesimo in chiave di etno-nazionalismo). Insomma, per i Balcani, l'Unione costituisce, malgrado tutto, un punto di riferimento importante.

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LA GRANDE CRISI GLOBALE

Ci sono, soprattutto, gli eventi che stanno sconvolgendo la scena internazionale e riguardano il mondo globalizzato: il disastro dell'economia finanziaria e l'inizio di una recessione a scala mondiale. Sono questi gli eventi che pongono l'Unione Europea di fronte a problemi nuovi di grande e medita gravità. Non è facile dire se e come alla fine l'Unione resisterà ad eventi straordinari, e si attrezzerà per farvi fronte nei tempi medio-lunghi che appaiono necessari. Negli Stati Uniti, il cosiddetto Piano Paulson ha faticato molto, nella particolare condizione dei rapporti fra il Congresso e un Presidente uscente, per essere approvato dopo alcune modificazioni. La sua attuazione ed i suoi progressivi aggiustamenti costituiranno una storia molto complessa. Da parte dell'Unione Europea, si è avuto modo di sperimentare per la prima volta una nuova procedura decisionale: quella che parte dall'Eurozona, cioè da un forte coordinamento fra i 15 Paesi membri che hanno adottato la moneta comune, ma non proprio una politica unitaria. La situazione di un fronte coordinato ma non ancora unito è stata bene illustrata da Fiorella Kostoris in un articolo sul "Sole 24 Ore", che ripubblichiamo nel Taccuino. Una linea comune che non aspira ancora a disporre di strumenti comuni. L'evoluzione dei fatti, però, potrebbe imporli. Sarà interessante ed importante ricostruire bene come le cose sono andate e come andranno, perché - come sempre - i dettagli contano, soprattutto quando si inaugura, su argomenti di grande importanza, un percorso decisionale nuovo. Sta di fatto che, dopo una partenza sbagliata che sembrava scaturire dalla convinzione di poter affrontare, ogni Paese per proprio conto, individualmente, la crisi delle banche e dei mercati finanziari, le decisioni assunte dal Governo inglese e la forte iniziativa di Gordon Brown hanno mobilitato l'Eurozona, proprio in ragione della convinzione dello stesso Premier inglese, raccolta e fatta propria dal Presidente pro-tempore dell'Unione Sarkozy, che la "prova della verità" di una linea di contrasto della crisi sarebbe stata l'impegno congiunto dei 15 Paesi europei dell'euro. Paradossalmente, l'ex Cancelliere dello Scacchiere che aveva mobilitato anni addietro tutta l'intelligenza economica del Regno Unito per dimostrare che bisognava tenere fuori il Paese dall'euro è stato, in questa occasione, il grande certificatore del ruolo conquistato dall'euro e ha risvegliato la bella addormentata, cioè l'Eurozona, come polo decisionale strategico sia all'interno sia all'esterno dell'Unione Europea. Naturalmente, gli elementi positivi di questi recenti sviluppi della politica europea saranno messi a dura prova. Al riguardo, le valutazioni si possono per ora attestare sul giudizio espresso, nel giorno stesso in cui gli veniva assegnato il


Premio Nobel, da Paul Krugman: "We stili don't know whether these moves will work. But policy is, finally, being driven by a clear view ofwhat needs to be done" (International Herald Tribune, 14 ottobre). Intanto, a parte le idee di nuovo "governo" dell'economia europea che la presidenza francese dell'Unione nel secondo trimestre 2008 sembra coltivare e lanciare negli attuali frangenti, qualche significativo ripensamento è in corso. Quello, per esempio, del Governo della Danimarca che sembra voler riproporre. l'opportunità di aderire alla moneta comune attraverso un nuovo referendum. Nel frattempo, sui temi della regolamentazione dei mercati finanziari e dei grandi soggetti che vi si sono insediati, il Parlamento aveva già preso iniziative. Come dimostra il Rapporto di cui parla Anders Fogh Rasmussen nell'intervista che pubblichiamo nel Taccuino. Il Parlamento, con un rapporto approvato a larghissima maggioranza, ha inteso sollecitare la Commissione ad intervenire. La crisi esplosa quasi in contemporanea con l'approvazione del rapporto ha pienamente avvalorato l'azione del Parlamento europeo, anche se le dimensioni della crisi hanno subito richiesto che si giungesse ad interventi congiunturali immediati, e non soltanto a quelli di regolamentazione, che sono di tipo strutturale. Ma che rimangono essenziali.

E ALLOBA, LEUROPA C'E?

Ad ogni modo, è molto singolare che di fronte all'inedito della storia non venga meno, al posto di analisi attente e pensose, il petulante ripetersi delle lamentazioni. L'Europa non c'è, l'Europa è impotente, e così via. Lamentazioni che sono comuni ai federalisti delusi e agli euroscettici, e che declinano l'ovvio in varie forme. Con un'enfasi inutile e un po' noiosa. Beninteso, questa è un'osservazione che va fatta soltanto per togliere di mezzo inutili divagazioni e per ricordare, come spesso abbiamo fatto su queste pagine, che l'Unione è sì federale ma solo nel senso etimologico che deriva da un insieme di "foedera" fra gli Stati presenti sul continente Europa. L'Unione è, innanzitutto, un tavolo negoziale permanente e obbligatorio fra Stati, che produce per questi decisioni vincolanti. Come sanno, magari piui dei governanti, i tanti avvocati, magistrati e uomini di impresa che trattano questioni e affari ricadenti nelle materie di competenza comunitaria. Un tavolo di tal genere non produce decisioni facili e immediate anche di fronte a grandi crisi. Anche perché, a fronte, non abbiamo - nel caso di grandi crisi - l'esempio di facili ed efficaci decisioni in ambito di Stati nazionali. La vicenda degli Stati Uniti di fronte al crack finanziario non è, in tal senso, esemplare.

v


Sta di fatto che l'Unione Europea, prima sui caso della guerra in Georgia e dei rapporti con la Russia, poi nel caso della grande crisi finanziaria, ha preso posizioni di rilievo, quelle ragionevoli e possibili sulla base anche del principio di sussidiarietà che nei due casi ha funzionato in direzioni diverse: quella sopranazionale, nel caso della Georgia; quella degli interventi nazionali ma coordinati, nel caso della crisi finanziaria: Rimanendo aperta, al momento in cui scrivo, la questione degli eventuali salvataggi di grandi banche europee transnazionali, e del modo per rianimare il "mercato interbancario" dei prestiti fra banche e varie altre questioni a cascata. C'è da dire il tavolo è lì, con le sue regole di comportamento, aspetta proposte. Nessuno può chiuderlo. Al più, può abbandonarlo. E quasi quasi mi piacerebbe vedere chi ha il coraggio di farlo. Con quali motivazioni e con quali prospettive. Per questo è del tutto legittima la lettura della vicenda del Trattato di Lisbona come viene fatta da Francesco Velo in questo numero della rivista, sulla base della convinzione, del valore tuttora vincente del metodo comunitario. Quel metodo che non è lo strumento di un supposto "complotto delle lites" per fare l'Europa senza il consenso popolare - come sempre viene riproposto nelle letture populistiche della vicenda dell'integrazione europea - ma è il dettato di una visione compiuta della realtà del continente e delle sue fratture storiche di cui tener conto, in un certo modo rispettandole, per ricomporle per vie trasversali.

A CHE SERVONO I PARTITI EUROPEI? Dunque, le elezioni della primavera del 2009 avverranno nel mezzo di una sequenza di eventi di massimo rilievo. Pur ammettendo che sarà difficile orientarsi, la prima domanda che viene da porsi è: quali piattaforme sarà possibile presentare agli elettorati europei? Sarà l'occasione per i partiti europei di uscire fuori dal guscio in cui si sono immobilizzati come meri "gruppi parlamentari" che giocano tutte le loro partite nell'ambito istituzionale del Parlamento europeo? I partiti magari vedono accrescere il proprio ruolo in ragione della crescita delle funzioni, formali e informali, del Parlamento, ma finora hanno rinunciato ad avere alcuna significativa presenza attiva nella società europea. In realtà, sta proprio ai partiti essere, a livello europeo, gli animatori di idee e progetti. Essi dovrebbero dare risposta a quell'esigenza di un'anima più spiccatamente politica che si dice necessaria - ed è esattamente così - per il processo di integrazione europea. Nel passato, gli animatori sono stati i grandi statisti del dopoguerra che non hanno più trovato eredi. Il testimone sarebbe dovuto passare ai partiti, non certo per entrare nei meccanismi dell'Unione, bensì per sostenerne l'anima.

L'il


Il generale declino dei partiti come soggetti politici collettivi ha per ora impedito addirittura di intravedere questa missione. Paradossalmente, il centrosinistra italiano nei suoi disagi e dilemmi di collocazione europea (disagi e dilemmi che non sono poi gran cosa, almeno finora, data la natura di gruppi parlamentari che hanno i partiti europei) ha la possibilità di farsi promotore di un discorso propositivo rivolto al demos europeo. Tra l'Atto Unico del 1986 e l'introduzione dell'euro come moneta comune nel 2002, l'Unione Europea ha rappresentato un esperimento senza precedenti e senza paragoni, cui ha arriso un successo che è parso potesse essere senza ostacoli. In qualche modo, meccanismi e logiche dell'Unione possono costituire elementi significativi per quel modello di governo della globalizzazione che sta emergendo come una necessità storica. Questo esperimento, tuttavia, ha avuto i suoi costi e la sua penosità per i popòli d'Europa. Per questo, bisogna riannodare i fili di un discorso difficile, in qualche misura interrotto, la cui mancanza sta contribuendo a creare le ansie e lo spirito regressivo che caratterizza i nostri giorni. Le elezioni del 2009 possono essere una concreta possibilità per rianimare una certa voglia d'Europa. Che l'Unione sia più una necessità che un'opzione è infatti ben chiaro a troppe persone di buon senso all'interno di tutti gli Stati membri, ed è perciò verosimile che una tendenza a elaborare idee e progetti con fiducia ed ambizione possa manifestarsi (se non ancora imporsi) all'interno delle forze politiche nazionali. Per ora, c'è però da constatare che delle prossime elezioni europee si è cominciato a parlare in prospettive, come sempre, prevalentemente interne. Per non dire della logica di bottega che prevale in Italia, mirata soltanto a dare seguito in sede di elezioni europee alla legge "porcata" che vige per le elezioni politiche nazionali. In sostanza, fondandosi sull'idea che l'Unione comunque non corra pericoli, anzi abbia ancora una naturale attrattività, i partiti, stancamente più che cinicamente, si stanno accomodando nelle pieghe della logica intergovernativa che domina l'Unione.

IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE MARCIA

Logica che The Economist, nel commentare il no irlandese al Trattato di Lisbona (lust to buiy it - 23 giugno 2008) così sintetizza: i leaders europei reagiscono alle espressioni sgradite di volontà popolare con tre atteggiamenti successivi, divenuti ormai "depressingly familiar". Innanzitutto, essi dichiarano "portentously", a gran voce, che il club Europeo è in crisi profonda e incapace di funVII


zionare. Subito dopo, essi pongono l'onere di trovare una soluzione in capo al Paese che ha detto no. Infine, cominciano a suggerire che gli elettori in questione devono ripensarci e minacciano che un secondo rifiuto potrà porre il Paese recalcitrante nella condizione di dover lasciare l'Unione. Tutto ciò mentre "the Brussels machinery" continua a operare normalmente. La conclusione che trae l'Economist è che "the claim that an expanded Eu of 27 countries cannot function without Lisbon is simply not true". Qualche tempo dopo, il senno del poi che suggeriscono i portentosi eventi successivi non si può dire che questa conclusione sia convincente. Certo, le cose continuano ad andare. Faticosamente, ma vanno. Che qualcuno voglia marcire drasticamente all'indietro ancora non si è visto. E la macchina è tale, complessivamente, da far fronte anche ai grandi imprevisti. Il caso della Georgia dice che, bene o male, gli Stati Uniti sono usciti sostanzialmente di scena e l'Unione Europea ne ha preso il posto con posizioni autonome. (Non proprio da sciocchi "profeti disarmati", come Angelo Panebianco, a metà agosto, denunciava sdegnosamente. Se non altro, perché l'Europa ha i suoi interessi da far valere di fronte ad un'autocrazia come quella russa che è piii debole, internazionalmente parlando, di quel che vuol far credere). Poco tempo dopo, una machinery abituata alla routine, a sorpresa, trasforma, davanti alla grande crisi globale dei mercati, l'Eurogruppo da gruppo informale degli Stati membri che hanno adottato l'euro, in un gruppo decisionale. Andando così ad assumere in pieno le caratteristiche di una "cooperazione rafforzata" (come non doveva essere, perché adottare la moneta comune è un obbligo a patto di avere i requisiti richiesti e a parte Regno Unito e Danimarca, cui è stato concesso il privilegio dell'opting out). Tutto ciò significa che il processo di integrazione europea alterna ed incrocia fasi di avanzamento nella definizione delle procedure istituzionali e fasi di uso creativo delle possibilità che offrono i vari tavoli negoziai. È assolutamente scontato, tuttavia, che i compiti di tamponamento di una sia pur grande e sconvolgente crisi e quelli di realizzare e governare la realtà che dovrà nascere dal superamento della crisi sono cose molto diverse. Il sistema di governo necessario è una questione cruciale.

A PROPOSITO DEL TRATTATO DI LISBONA Del Trattato di Lisbona non si sa ancora il destino. Il Trattato non è un grande trattato, come non lo era quello di Roma del 2004 finito contro le bocciature dei referendum olandese prima e francese subito dopo. Sulle caratteristiche del Trattato è intervenuto, con molto spirito, Giuseppe Guarino che ha suggerito, con un appropriato saggio polemico (Ratificare Lisbona? I!","


Passigli Editore, Firenze, 2008), di non ratificare. Cosa che invece il Parlamento ha fatto all'unanimità. Fatto di per sé da non enfatizzare e che comunque significa una cosa con certezza: il Trattato non è stato letto e tanto meno discusso. Il libro di Guarino è intrigante. Per certi aspetti è un thriller. Per gran parte, è una minuziosa ricostruzione, sul piano delle norme, dei poteri di decisione che si sono andati accumulando in capo alla Commissione senza che quest'organo possa dirsi rispondente al canone della democraticità. Il nuovo Trattato non sembra apprestare alcun correttivo, anzi consolida nella Commissione e negli altri organi dell'Unione questi caratteri di non democraticità. E ciò mentre cerca di rafforzarli nell'intento di superare le debolezze che, nella pratica, sono sempre presenti nei procedimenti decisionali dell'Unione. Nella logica di un'arringa intesa a suggerire di non ratificare il Trattato, Guarino riprende ed accentua i motivi di non stretta congruenza del Trattato dell'Unione nella versione di Lisbona con i vincoli della democraticità e della parità imposti dalla nostra Costituzione. L'argomento viene sottolineato con forza perché non saremmo più, con il nuovo trattato, in una fase transitoria di integrazione, ma entreremmo in un assetto istituzionale definitivo difficilmente modificabile. Di qui il caveat: attenti a ratificare perché poi da questo assetto non ci si muove più con danni per la democraticità e, da un punto di vista nazionale, della parità. Inoltre, Guarino rimprovera alla Commissione di non avere fatto bene il proprio mestiere di sorveglianza nei confronti della finanza pubblica italiana, avendo solo insistito sui deficit, cioè sull'indebitamento, piuttosto che sui debito e la sua riduzione. Nel leggere il libro, si ha l'impressione fin quasi alla fine che il ragionamento si soffermi quasi esclusivamente su questi temi che, in fondo, sembrano superati in termini sia di "costituzione materiale" europea, sia di sensibilità e ragioni politiche. E ben s'intendono le accentuazioni, in quanto necessarie a trovare motivi per convincere il legislatore a non ratificare. Ma ecco il thriller. Alla fine, la sorpresa è nello scoprire che l'intenzione vera è quella di rilanciare la democrazia europea sul serio, e non ai modo di The Economist che per rispetto della democrazia dice che il responso irlandese ha chiuso il discorso (anche perché intanto l'Unione funziona, affronta problemi e in momenti di crisi emerge come soggetto importante). No, l'alternativa alla logica che è stata seguita nel Trattato di Lisbona c'è, secondo Guarino, ed è: "una sola: essere fedeli ai principi. Bisogna avere cura che i paletti restino fermi. La 'democrazia' è stata evocata nel primo capoverso del Trattato (testo aggiunto a Lisbona). Viene richiamata (Lisbona) nel quarto, nel settimo capoverso delle premesse; nell'art. i bis delle disposizioni comuni; forma oggetto di un apposito titolo (il TI). Ix


Tutti gli organi dell'Unione investiti di poteri politici formali devono trarre la loro legittimazione da una derivazione dal Parlamento europeo, unica espressione diretta dei 500 milioni di cittadini dell'Unione. Il Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione, i singoli Commissari devono essere scelti mediante elezione dal Parlamento nel proprio seno. Deve permanere per i Commissari la regola dell'appartenenza per quote ai vari Paesi membri. La ripartizione non può effettuarsi però su base paritaria. Deve quanto meno rispettare la ponderazione tra i vari Paesi quale risulta dalla distribuzione dei seggi parlamentari. Va mantenuta la qualificazione dei partiti quale 'importante fattore per l'integrazione in seno all'Unione', avente il compito di 'formare una coscienza europea e di 'esprimere la volontà politica dei cittadini dell'Unione' (art. 191, 1° comma, TcE). La volontà politica, per essere effettiva, deve comprendere la partecipazione alla selezione del personale competente per le decisioni finali. I partiti, se sono privati di questo ruolo a livello comunitario, vedono affievolirsi le loro funzioni anche a livello nazionale. Conclusivamente: i traguardi di Lisbona sono corretti. Le tecniche per realizzarli, no. È indispensabile la derivazione degli organi collegiali (Commissione) e individuali (Presidente del Consiglio europeo, Presidente della Commissione, alto rappresentante) dal Parlamento. Spetta al Parlamento la funzione di reale fulcro del sistema". A prescindere dalle sorti ancora non chiarissime del Trattato di Lisbona, la discussione cui chiama Guarmno è importante. Innanzitutto bisogna intendersi a fondo sulla portata della democrazia in un sistema e in un processo federale o parafederale a dimensione continentale e procedente per linee funzionali. Innanzitutto, che si può dire riguardo allo stato della democrazia nell'Unione Europea? Due recenti linee di riflessione possono essere citate a questo riguardo: quella di Stefano Micossi, (Democracy in the European Union, CEPS, Working Document No. 286, febbraio 2008) e quella di Vivien A. Schmidt (Democrazia in Europa e in America in "East", n. 17, dicembre 2007). Micossi sottopone ad esame il funzionamento degli organi dell'Unione secondo il principio della "legittimazione democratica" che viene suggerito come necessario per verificare la democraticità o il grado di democraticità di un sistema di governo complesso. Legittimazione che significa sistema di controlli e di compensazioni, aggiornato meccanismo di checks and balances. Un recentissimo libro di Pierre Rosanvalbn, La legitimité democratique (Ed. Seuil, Paris, 2008) suffraga questa linea me-

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todologica. Schmidt, attenta osservatrice americana delle vicende dell'Unione, percorre le tante stràde della democrazia europea (propria di quel che definisce un grande "Stato regionale"; ma converrebbe chiamarlo diversamente, per esempio "continentale") con una statualità diversa da quella del modello Statonazione. Ne deriva una ampia indicazione di contraddizioni, frammentazioni e percorsi incompiuti, considerati anche in maniera controintuitiva, che tuttavia non si conclude con la pura e semplice negazione della democraticità. Al contrario, come del resto ricorda Guarino quando scrive che "la bilancia tra democrazia ed organocrazia, nella disciplina attuale dell'Unione, non pende in modo netto da nessuna delle due parti". Questa della democrazia europea è certamente la questione delle questioni. Qui dobbiamo fermarci ad un accenno. Il dibattito deve andare avanti con rigore e profondità d'analisi. Il primo obiettivo da auspicare e da conseguire è un rinnovamento del Parlamento europeo all'insegna della qualità delle rappresentanze espresse dagli elettori dei Paesi membri. Il Trattato di Lisbona ha fissato un principio nuovo e importante: "Il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell'Unione", senza parlare più di "rappresentanti dei popoli degli Stati" che compongono l'Unione". È il momento di dare un seguito importante al principio, preparando le elezioni molto meglio che nei modi sciatti cui siamo abituati.



questeistituzioni

taccuino

n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Europa coordinata, non un ita * di Fiore/la Kostoris

N

ella crisi finanziaria iniziata nell'agosto 2007, la politica monetaria europea è stata a volte correlata, a volte opposta a quella americana. Per esempio l'offerta diiiquidità della BCE è risultata abbondante come quella della FED, mentre per 14 mesi la manovra sui tassi di riferimento è stata al rialzo a Francoforte, al ribasso a Washington. Anche se molti osservatori sono di parere opposto, questo non significa che qualcuno sbagliava al di qua o al di là dell'Atlantico. Le condizioni di crisi erano diverse sulle due sponde dell'O- Crisi diverse ceano. Né è da ritenere più corretto l'approccio della FED, in quanto la BCE è stata allora più capace di fornire un'àncora di stabilità a fronte di un'inflazione doppia rispetto al desiderabile; e oggi è più in grado, in vista dell'imminente recessione, di dare• un forte segnale all'ingiù nei tassi di riferimento, che invece negli Stati Uniti non hanno quasi più margini di discesa. Quando poi, nelle ultime settimane, la FED ha indotto le Banche centrali di tutto il mondo a seguirla in un'identica diminuzione di mezzo punto nei tassi di riferimento si è osservato che l'Euribor è rimasto inizialmente invariato mentre il Libor e addirittura schizzato verso l'alto. I tassi di mercato hanno cominciato a scendere solo successivamente, a seguito di altri interventi pubblici che hanno fornito garanzie sulle passività delle banche e disponibi-' lità alla loro ricapitalizzazione.

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Pubblicato da Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2008.


Alcuni lamentano la mancanza di iniziative comunitarie nel- Le misure comuni sono l'emergenza finanziaria o perfino il colpevole silenzio delle isti. sempre utili? r i i. i ni ii tuzioni reaeranste europee - ctaii r.uropariamento aiia Lommlssione con la sola eccezione della BCE - davanti alle violazioni delle regole dell'Unione, registrate ad esempio con gli aiuti di Stato concessi, all'inizio di ottobre, unilateralmente dagli irlandesi a favore dei depositanti delle loro banche. E quasi unanime il consenso secondo cui migliori risultati siano conseguibili in Europa attraverso l'armonizzazione degli standard da applicare agli intermediari finanziari, con il coordinamento della vigilanza, con misure comuni o quanto meno contemporanee di correzione ciclica dei mercati globalizzati. Considerazioni tutte di buon senso, che si prestano tuttavia a qualche caveat. Innanzitutto, non è un postulato che il coordinamento sia sempre meglio del suo contrario. Le politiche sui tassi mostrano che le decisioni comuni sono più efficaci solo se corrette, altrimenti il fatto che siano prese all'unisono diviene un'aggravante. Secondariamente, quando l'azione unilaterale di un Paese appare adeguata nella qualità e nella quantità, e le condizioni dei mercati sono appropriate, la concorrenza riesce ad ottenere effetti identici a quelli cui punta un accordo multilaterale: oggi l'insieme della UE assicura i depositi bancari come fece per prima l'Irlanda, perché in uno spazio senza frontiere tutti noi possiamo facilmente spedire in quell'isola la nostra liquidità e dunque le banche di ogni Stato membro corrono ai ripari prima che si eserciti di fatto una minaccia credibile di fuga dai loro sportelli. In terzo luogo, quei passi che oggi le istituzioni comunitarie federaliste non riescono a compiere sono invece alla portata degli organismi europei intergovernativi, che in effetti si sono perfino inventati un Consiglio senza precedenti dei leader delI'Eurogruppo, allargato alle autorità britanniche (euroscettiche per definizione), pur di adottare il modello vincente di salvataggio delle banche di Gordon Brown, copiato poi dagli stessi Stati Uniti. Ha ragione quindi chi, come Mario Monti (Corriere della Sera del 19 ottobre); sottolinea che l'Europa sta vivendo una fase di grande successo, anche se le soluzioni trovate costituiscono un fallimento in un'ottica puramente europeista. 2


Infine, nel medio periodo prevedibilmente emergeranno altre Posizioni utili posizioni, europee ma non europeiste, in almeno due fron- europee non ti: nella politica fiscale della UE, necessaria per combattere la re- europeiste cessione, in cui il Consiglio europeo, lungi dall'adeguarsi alle norme dei Trattati e del pur riformato Patto di stabilità, presumibilmente di fatto le ignorerà, per coordinare misure espansive di ciascuno dei partner nazionali, altamente opportune in presenza di significativi shock negativi da domanda; nella vigilanza prudenziale degli intermediari finanziari europei, dove l'adozione in ciascuno degli Stati membri di nuovi principi e standard concordati in sedi internazionali extracomunitarie (come Basilea) sarà assai più probabile sia dell'attribuzione alla BCE di compiti di supervisione bancaria oggi affidati alle 15 nazioni dell'Eurogruppo, sia della creazione di un'Authority UE di vigilanza su tutti i mercati finanziari (creditizi e assicurativi compresi), ma indipendente da Francoforte. I favorevoli a quest'ultima ipotesi (Donato Masciandaro, sul Sole 24 Ore del 19 ottobre, l'europarlamentare Graham Watson, sul Corriere della Sera del 20 ottobre) dovrebbero riconoscere l'ostacolo dell'attualmente irriformabile articolo 105 del Trattato di Maastricht, che impedisce impostazioni ispirate alla Financial services authority inglese, mentre l'accorpamento nella BcE dei compiti di vigilanza bancaria, gradito ai federalisti europei (Tommaso Padoa Schioppa su Repubblica del 6 ottobre, Giuliano Amato sui Sole 24 Ore dell'il ottobre) non a caso non è reclamato nemmeno dalla Banca stessa. Essa, infatti, è su questo punto divisa perfino all'interno del suo comitato esecutivo fra coloro che prediligono un modello di supervisione bancaria collegata alla politica monetaria, come Francia o Italia, e i propugnatori di una vigilanza separata dalle altre funzioni della Banca centrale, come la Germania.

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istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Un evviva, ma per quale Europa? di Francesco Velo

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118 giugno 2008, la Camera dei Lord britannica, soio sei giorni dopo il referendum irlandese, completava l'avallo già dato dalla Camera dei Comuni nel mese di marzo al Trattato di Lisbona. Il 3 luglio Cipro ratificava, seguita dall'Olanda (l'8 luglio), dal Belgio (il 10 luglio), dalla Spagna, il cui Parlamento il 15luglio approvava alla quasi unanimità il Trattato. Nello stesso giorno, il 15 luglio appunto, il Presidente della Camera italiano confermava, nel corso di un incòntro a Roma con il Presidente della Commissione Europea, l'importanza del voto positivo dell'Italia, atteso e puntualmente arrivato prima della pausa estiva. Questa sequenza ininterrotta di eventi non può non suggerire alcune prime considerazioni. La prima, riguarda la grandiosità del processo in atto, ed il fatto che le modalità con cui tale processo si sta svolgendo costituiscano un'esperienza senza precedenti nella storia, resa possibile dalla condivisione di un'idea di Europa, unita, in tempo di pace. La seconda, riguarda la forza che lo spirito europeista riesce ancora ad esercitare. L'impegno morale che le nazioni europee stanno confermando per il futuro, dichiarando un'adesione che, come dimostra il caso dell'Irlanda, non era del tutto scontata. La terza. Nelle parole, tutti i Paesi fondatori hanno ribadito l'impegno assunto cinquant'anni fa; nei fatti, i prossimi mesi sa-

L'autore è docente incaricato di Economia e Organizzazione aziendale presso l'Università di Pavia.


ranno decisivi per rivelare quanto la forza impressa dall'ultimo trattato si dissiperà o sarà in grado di promuovere un nuovo passo in avanti dell'Europa. Come in passato, è lecito aspettare che da tali "spinte in avanti" scaturisca il rafforzamento dell'Europa: per l'Italia e gli altri. Paesi europei non si tratta solo di comprendere dove tali forze riusciranno ad ottenere maggiore successo, ma di cogliere l'opportunità di agire concretamente nella definizione delle scelte. Le prossime elezioni europee rappresentano un appuntamento importante: il trattato in approvazione oggi può costituire una base comune per far emergere e rilanciare, in modo trasversale in tutti i Paesi europei, le istanze delle forze politiche e sociali che reclamano la continuazione ed il rafforzamento dell'impegno europeista, discutendo non solo dei principi ma anche delle modalità con cui dar vita ad azioni concrete. Il processo di integrazione europea si è sviluppato negli ultimi Il percorso verso 50 anni grazie all'implementazione di una serie di realizzazioni che hanno determinato, come proprio effetto, un processo costi- i Unione tuente materiale. Gli atti giuridici hanno recepito le innovazioni maturate o in via di maturazione nella realtà del processo di integrazione, consentendo a quest'ultimo di svilupparsi quindi in modo più spedito e ordinato. Ogni avanzamento del processo di integrazione è frutto di una progettualità coerente; la progettualità europea, per concretizzarsi, storicamente ha influenzato le forze in campo, ricercando il loro riorientamento al processo di integrazione, non limitandosi a mettere a punto una normativa ad hoc per il progetto perseguito 1 L'integrazione europea ha percorso una serie di tappe, raggiungendo livelli crescenti di unificazione, elaborando di volta in volta soluzioni innovative per rispondere ai problemi emergenti, originati dal contesto internazionale o all'interno dell'Europa. I Trattati non sono stati il punto di partenza di ogni singola tappa, ma il frutto di un processo di natura composita, ove le istituzioni hanno interagito con la società e l'economia. Questa logica di fondo che ha caratterizzato il processo di integrazione in tutta la storia del suo sviluppo, è destinata presumibilmente a confermarsi valida ancora nelle tappe che saranno per.


corse in futuro, fino alla definizione di una Costituzione nel senso pieno del termine. Ciò vale, ove si faccia riferimento alla fase attuale, per il ruolo che può essere svolto dalla cooperazione rafforzata. Queste considerazioni confermano l'importanza di identificare i progetti, come è stato fatto in passato, che sono in grado di sostenere il riorientamento delle forze al processo di integrazione. Tale identificazione non può essere frutto soltanto di una selezione astratta, pur guidata da valori fondanti, ma richiede la individuazione di una frontiera avanzata, ove possano coincidere necessità e possibilità. Tale approccio, riconducibile all'azione di Jean Monnet, si caratterizza dalla capacità di realizzare un parallelismo fra l'avanzamento del processo di integrazione a livello reale e lo sviluppo di una costituzione materiale europea. In questo modo è stato garantito un equilibrio fra la dimensione giuridica e la dimensione economicosociale, che ha sostenuto la fattibilità politica dei processi 2. Uavanzamento del processo di integrazione per tappe successive, con un progressivo trasferimento di poteri, implicava per sua natura stessa il problema della gestione di tali poteri, che venivano trasferiti ad un processo non a istituzioni consolidate. Ogni tappa del processo di integrazione, in passato, ha dovuto quindi affrontare il problema di organizzare nuove soluzioni istituzionali, per garantire un buon governo dei poteri trasferiti. Ciò ha implicato la creazione di nuove istituzioni e la definizione di nuove regole decisionali; sono questi i contenuti essenziali dei Trattati che hanno segnato il processo di avanzamento dell'integrazione 3 Ogni avanzamento della costituzione materiale europea ha dovuto rispettare il vincolo di definire soluzioni innovative adeguate alla gestione di una nuova tappa del processo di integrazione, e, al tempo stesso, in linea di continuità con la costituzione materiale pre-esistente. Ogni avanzamento è stato chiamato a rafforzare l'edificio comunitario, minimizzando il rischio di porre in discussione quanto già acquisito 4 Può, in tale contesto, apparire contraddittoria la simultanea presenza di un processo decisionale di volta in volta influenzato da difficili compromessi, e di una tendenza di lungo periodo interpretabile in termini di disegno dotato di senso e finalizzato con .

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L'approccio à la Monnet


un significativo grado di coerenza interna. Questa apparente contraddizione tende a chiarirsi facendo riferimento alla dialettica che si è sviluppata fra aspetti reali e costituzionali materiali nel corso del processo di integrazione. La continuità nel processo ha rappresentato una condizione essenziale per il suo sviluppo, in diretta relazione alla assenza di una costituzione formale che ne garantisse la coesione. Va dato merito ai fondatori del processo di aver messo a punto un metodo comunitario che si conferma, a distanza di oltre mezzo secolo, ancora vitale e in grado di svolgere il ruolo per cui era stato concepito. Tale eredità impone di ricercare ed alimentare le energie in grado di rendere ancora oggi vivo tale progetto. L'idea che non tutti gli Stati membri debbano avanzare con lo Un'Europa a stesso ritmo ha iniziato a radicarsi con l'avvio dell'Unione econo- Piut velocità? mico-monetaria, all'inizio degli anni settanta. Alla fine del 1975, il rapporto Tindemans aveva dato una prima definizione della cooperazione rafforzata; secondo tale concezione, avrebbe potuto differire, per i singoli Stati, il periodo necessario per raggiungere un obiettivo comunitario condivis0 5 Lo stesso principio venne utilizzato per gestire l'allargamento della comunità, consentendo lassi di tempo differenziati ai nuovi Paesi membri per recepire l'acquis communautaire questo riferimento fa immediatamente cogliere come inizialmente la cooperazione rafforzata e l'Europa a più velocità fossero intese sostanzialmente come espressioni di un'unica logica gradualistica. Questa interpretazione riduttiva è venuta meno, con crescente chiarezza, quando alcuni Stati hanno iniziato a organizzarsi per avviare politiche comuni al di fuori del quadro dei trattati sottoscritti, per svolgere una funzione di avanguardia consapevole, capace di trainare con il proprio esempio l'Unione Europea nel suo complesso. È questo il caso degli accordi di Schengen, fondati a metà degli anni ottanta. Lo stesso principio ha avuto applicazione in chiave negativa; si allude alla clausola opting out, intesa a consentire ad un Paese che non desidera partecipare ad un accordo sottoscritto dagli altri Stati membri di derogare alle discipline comunitarie. Cooperazione rafforzata e opting out dei Paesi contrari, possono portare ad .

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una configurazione non dissimile, se pure con implicazioni non neutrali in diretta conseguenza del processo decisionale attivato nei due diversi casi. La zona euro e l'Europa sociale si sono definite con l'opting out dei Paesi contrari; non sfugge che in entrambi i casi si sia in presenza di una cooperazione rafforzata defacto, tanto più nel caso dell'Unione monetaria 6 .

La cooperazione rafforzata ha iniziato ad essere delineata, in modo sempre più puntuale grazie ai Trattati di Maastricht e di Amsterdam; il Trattato di Nizza ha messo a punto la normativa, dettando le regole attualmente in vigore. Secondo il Trattato di Nizza, la cooperazione rafforzata può essere attivata da un numero ristretto di Paesi, pari .o superiore a otto; essa può concernere anche la sicurezza comune e la politica estera; infine, le procedure risultano relativamente agevoli. Sulla base del Trattato di Nizza, la difesa e le questioni militari continuano ad essere escluse dalla possibilità di fare ricorso alla cooperazione rafforzata 7 La cooperazione rafforzata potrà assumere un ruolo sempre più importante nel processo di integrazione, nella misura in cui sarà sorretta da una visione unitaria dell'Europa, che possa tradursi, cammin facendo, in avanzamenti parziali. L'accettazione di un percorso "per tappe" non ha mai confutato l'ipotesi di uno sviluppo egualitario e condiviso fra tutti i Paesi europei; i due piani strategici non sono distinti. La dimostrazione di ciò deriva dal fatto che, ogni qual volta si è giunti alla vigilia di un nuovo passo in avanti, il dibattito europeo sia sempre stato rivolto ad un obiettivo costituzionale, di grande portata: proprio tale visione ha reso possibile il progredire lungo il percorso, attraverso i progetti.

La cooperazione rafforzata

L'integrazione europea è proseguita, negli ultimi cinquant'anni, grazie alla forza impressa dall'adesione a progetti condivisi. È proseguita anche attraverso lunghi momenti di attesa, nei quali i tempi del dibattito e dell'azione politica e culturale si sono dilatati. Ciò che sta accadendo in questi giorni fa presagire una nuova accelerazione del processo. La riflessione che Stefan Collignon offriva nel 2004 nel suo libro Vive la Re'publique européenne!, ripubblicato nel 2007 da

Collignon e

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il dibattito costituzionale, oggi


Marsilio nella collana Idee d'Europa, costituisce un prezioso spunto per il dibattito: il problema, in modo estremamente schematico, è comprendere se "l'Europa dei progetti" sia oggi in grado di sostenere una svolta costituzionale, forte. Volgendo lo sguardo verso il passato, si comprende come la scelta di compiere il processo per gradi, verso traguardi intermedi, avesse consentito all'Europa di proseguire il percorso sino al punto odierno, lentamente e democraticamente. Gli Stati Uniti, all'inizio della loro storia, avevano raggiunto il traguardo molto più rapidamente, pagandone però il costo con la guerra d'indipendenza prima e civile poi. In Europa, il ruolo assunto da un nucleo forte di Paesi membri, e dal comune interesse alla realizzazione di iniziative concrete, ha costituito il motore dell'Unione negli ultimi cinquant'anni. La caduta delle frontiere fra le economie nazionali ha garantito, in una prima fase, una spinta eccezionale al processo; minore successo avevano avuto le iniziative che ambivano a far compiere un passo in avanti rapido, puntando progetti costituzionali immediati. L'ultimo grande progetto era di Altiero Spinelli, 25 anni fa. Oggi i tempi sembrano maturi per promuovere un salto verso un'unione europea più sostanziale e completa; si fa forte il richiamo ad una "comune cultura europea come fonte di unità e di coesione, essenziale di fronte al crescere delle diversità con l'allargarsi dell'Unione" 8 : si rafforza l'idea di un'Unione pronta ad assumere un ruolo politico e sociale unitario. In questo contesto, Collignon propone di accettare una sfida Nuove forze importante, in primo luogo intellettuale: riconoscere la necessità e nuove di trovare nuove forze e nuove strategie, tali da far compiere un strategie passo decisivo, costituente, all'Europa. Nella sua prospettiva le stesse azioni che hanno consentito all'Europa di avanzare sin qui lungo il percorso dell'integrazione appaiono come scelte conservatrici. Solo agendo radicalmente sulle istituzioni europee può essere colmato il gap democratico che separa l'Europa da una Costituzione. Collignon ravviva la contrapposizione virtuosa fra le due anime federaliste: da un lato l'idea di un'Europa in grado di compiere balzi in avanti sotto la spinta di un ideale democratico superiore; 01


dall'altro lato l'idea di un'Europa come soggetto destinato a manifestarsi gradualmente, attraverso la condivisione di iniziative che possono favorire un processo costituente materiale. Le due anime europee si sono, in passato, sostenute vicendevolmente proprio perché orientate dagli stessi ideali. La condizione essenziale, perché ciò accada ancora oggi, è che venga ridata forza alla dialettica europeista, ribadendone i principi fondanti. Il tema delle modalità con cui ridare forza al dibattito costituente (in senso formale o materiale) è urgente, nella sua dimensione sostanziale e formale. Basti pensare, prima preoccupazione di Collignon, all'inarrestabile processo di progressivo allargamento dell'Unione: le criticità aumentano, contestualmente al numero degli interlocutori che condividono la responsabilità e la titolarità per discutere del futuro dell'Europa. Le grandi scelte, in passato, sono state sostenute dall'idea che il Un percorso percorso. dell'Europa fosse diverso da quello degli Stati e dalle spe- differente cifiche scelte di governance, singolarmente considerate 9 . L'alternativa europea non è mai stata una scelta di "second best" rispetto all'interesse nazionale: essa ha sempre rappresentato una soluzione differente, più efficace in quanto in grado di risolvere problemi di ordine superiore. Le scelte politiche europee non possono, o non debbono, essere la sommatoria di politiche nazionali. È proprio tale riflessione a far comprendere la forza, e al tempo stesso la debolezza che caratterizzano l'Europa di oggi. Collignon offre questo esempio, largamente condiviso da altri illustri autori e pensatori: siamo oggi in grado di esprimere, attraverso l'Euro, una politica monetaria ma non ancora una politica fiscale europea. Non è corretto pretendere che la politica monetaria europea possa agire su leve che non sono proprie, quelle delle politiche fiscali europee, sono per il fatto di essere espressione di un potere sovranazionale. Le istituzioni europee sono oggi incompiute. Per rispondere alle sfide del futuro alcuni nodi devono essere risolti. La constatazione di come alcuni problemi siano destinati, almeno nel breve e medio periodo, a rimanere irrisolti non deve essere un freno, una volta constatato che i mezzi e le istituzioni che oggi governano l'Europa siano in grado di favorire una loro risoluzione. 10


Un esempio è offerto, in tal senso, dalla pressione che la società europea sta oggi esercitando sulle istituzioni in tema di diritto alla salute ed alla cura, sempre più pilastro fondante della cittadinanza europea'°. È opinione di chi scrive che proprio il dibattito sui beni comuni, in quanto trascende i confini nazionali, potrà in prospettiva dare forza allo sviluppo dell'Unione, nelle sue dimensioni democratica, sociale e politica, supportando il processo di costruzione delle istituzioni europee. Il dibattito sulle possibili strategie da intraprendere è attuale ed aperto. Collignon, in uno dei passi più forti del suo libro, affronta e di- la questione scute della validità del principio di sussidiarietà, da lui identifica- sussidiarietà to come principio contrapposto a quello di complementarietà. Nella sua concezione, la sussidiarietà diviene inefficace nell'orientare le scelte europee proprio in quanto delegittima l'orientamento verso un bene superiore, come solo un governo europeo potrebbe esprimere. Un'argomentazione decisa, forse, ma giustificata dal desiderio di un'Europa forte, in grado di estendere rapidamente la democrazia a tutti i cittadini. Per Collignon l'alternativa europea sarà realmente tale solo se in grado di promuovere l'adozione di meccanismi radicalmente diversi da quelli nazionali, svincolati dagli interessi particolari. Lisbona appare, in tale prospettiva, come un tentativo troppo debole verso la costruzione di un nuovo ordine europeo. Eppure, non si può non riconoscere all'applicazione del principio di sussidiarietà il merito di aver sostenuto una crescita costante della democrazia europea: attraverso la sussidiarietà è stato possibile coltivare l'embrione del senso di appartenenza all'Europa che, nelle sue manifestazioni più innovative, ha avuto la portata di riforma costituzionale. Il cambiamento apportato dal principio di sussidiarietà è profondo, e deve la sua solidità alla capacità di evocare una trasformazione in tutte le ramificazioni dello Stato e nei cittadini, alla capacità di coinvolgere e corresponsabilizzare non solo i responsabili politici, i legislatori e i dirigenti, ma tutta la società civile e gli organismi che la compongono' 1 La costituzionalità, intesa come principio riformatore, è ricono.

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scibile nei modi e nei fatti con cui, a livello decentrato, si sono negli anni manifestati gli ideali europei. Tale modo di procedere per gradi ha, come si era detto, una ragione storica di essere, ma ancor di più una ragione politica: il ricorso ad una visione meno radicale, la capacità di promuovere attraverso le azioni ed i progetti, ha fatto sì che le istanze maggiori potessero essere tenute vive anche in chi era meno forte 1' esprit europeo. Ancora una volta, i due modi di agire si confrontano. Il Trattato di Lisbona, in corso di ratifica oggi da parte dei gon progetto di verni nazionali, contiene una serie di punti importanti, che assu- Lisbona mono la valenza di riforma istituzionale. Gli effetti maggiori riguardano competenze e ruolo del Parlamento europeo in materia di legislazione, bilancio, accordi internazionali, rafforzandone (il riferimento è all'allargamento della procedura di co-decisione) la posizione nei confronti del Consiglio. Ma altri effetti che discenderanno dal Trattato riguardano in primo luogo i parlamenti nazionali che verranno chiamati ad agire, sulla base di una definizione sussidiaria delle competenze fra il livello europeo e quello statale, con maggiore efficacia nella direzione del rafforzamento del processo di integrazione, ed i cittadini europei, per i quali viene introdotto l'istituto della "iniziativa dei cittadini" come mezzo per sollecitare l'azione della Commissione. La sussidiarietà, dunque, è ribadita come principio fondante dell'Unione: un principio non statico, ma da sostenere e proteggere. In tal senso, il Trattato contiene la decisione di estendere a nuovi ambiti il voto a maggioranza qualificata del Consiglio, il rafforzamento dell'UE sulla scena internazionale tramite l'elezione di un Alto Responsabile per la politica estera e la sicurezza, nonché l'integrazione della Carta dei diritti fondamentali nel diritto primario europeo, rafforzando le quattro libertà fondamentali e le libertà politica, economica e sociale dei cittadini europei. Appare opportuno citare la "clausola resolutoria" che per la prima volta viene inserita in un trattato europeo: viene riconosciuta espressamente agli Stati membri la possibilità di recedere dall'Unione. 12


Perché è dunque importante ricordare la lunga serie positiva di ratifiche, da parte dei Parlamenti nazionali, dopo lo cc,, irlandese? Il dubbio è che i Parlamenti abbiano ritenuto di poter applicare preventivamente la clausola resolutoria contenuta nel Trattato, a cui l'Irlanda sembra aver fatto implicitamente ricorso. Se così fosse, il precedente che si sta costruendo oggi porterebbe a credere che l'ipotesi della conciliabilità fra processo di integrazione europea e di un'Europa a cerchi concentrici abbia trovato manifestazione concreta. Ciò pone con urgenza di riprendere anche la riflessione sulle ragioni della creazione di un'Europa a più velocità, e di conseguenza sul posizionamento che Stati nazionali assumeranno all'interno di tale architettura istituzionale, anche per evitarè che, all'interno del nucleo dei Paesi a maggiore vocazione europea, si diffonda la convinzione che un rifiuto temporaneo non costituisca, in prospettiva, un danno grave. Pensando all'Itaha, occorre scongiurare tale ipotesi, nell'interesse stesso del nostro Paese. In altre parole, l'attuale momento storico impone di ridiscutere Quali valori e rendere noti i principi ai quali affidare l'inclusione o esclusione di dallo spazio europeo, sia in base ad una logica economica, sia in riferimento? base ad una logica costituente. Oggi, proprio il raggiungimento di traguardi economici consente di rivelare quali motivazioni possano favorire la partecipazione al processo costituente, in nome degli ideali sottolineati da Collignon e condivisi da chi scrive. Il fatto che, mentre si discute di riforma costituzionale europea, in ogni Stato nazionale siano in atto riforme costituzionali interne non è casuale: tale constatazione rappresenta, al contrario, la migliore dimostrazione di come i fatti siano fra loro indissolubilmente legati, e concatenati. Il dibattito costituzionale nazionale è per sua definizione europeo, proprio perché le architetture istituzionali, come in un sistema di equazioni, possono essere risolte soio in senso sussidiario, verticale ed orizzontale, ovvero condividendo politicamente le istanze e le problematiche con gli altri Paesi europei, riportando il dibattito nei luoghi politici ed istituzionali dell'Europa. L'Unione Europea, come struttura di governo, è destinata ad assumere sempre più in futuro caratteri politici, 13


pii che amministrativi. Per questo, l'importanza di un dibattito e di un'azione basata sui riconoscimento e sulla tutela dei valori universali cui l'Unione si ispira appare oggi davvero determinante e, come Collignon ricorda, è piit che mai responsabilità dei cittadini europei.

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Cfr. D.VEL0, E VELO, La cooperazione rafforzata e l'Unione Economica Europea: la politica europea dell'energia,Giuffrè editore, Milano 2008. 2 J• MONNET, Mèmoires, Fayard, Paris 1976. J.V. Louis, L'ordrejuridique communautaire, Perspectives européennes, Luxembourg, 1988; P. MANIN, Les communautés européennes, l'Unione européenne, Pédone, Paris 1999. 4J. RIDEAU, Droit institutionnel de l'Union et des communautès européennes, LGDJ, Paris 2002. 5 COMMISSARIAT GÉNÉRAL DU PLAN, Perspectives de la cooperation renforcéè dans l'Unione européenne, La Documentation Franaise, Paris 2004. 6 N. WALZER, Flexibility within a Metaconstitutional Frame; Reflections on the Future ofLegalAuthority in Europe, Harvard Jean Monnet Working paper, 12199. J. RIDEAU, Union européenne. Commentaire des traités modfiés par le Traité de Nice, LGDJ, Paris 2001. 8 G. NA1'OLITANO, Radici antiche e nuove ragioni dell'unità europea, Lectio Magistralis, Università Complutense di Madrid, 29gennaio 2007. 9 Sulla declinazione del concetto di governance, sulle modalità con cui soggetti pubblici e privati possono convergere nella definizione di forme di gestione dei sistemi democratici e socioeconomici si rimanda al contributo di Giovanni Vetritto e Pierfranco Pellizzetti in P. PELLIZZETTI, G. VETRITTO, Italia disorganizzata, Edizioni Dedalo, Bari 2006. IO Cfr. F. VELO, Verso un sistema sanitario europeo, in: «Gli Stati Uniti d'Europa», Supplemento n. 14, inverno 2007 a «Critica liberale», n. 145-146. 1 I B. RANGONI MACHIAVELLI, Due anni per il Signor Lisbona, in «Libro Aperto», n. 212008, aprile-giugno 2008.

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istituzioni n. 1501151 ottobre-dicembre 2008

Università diffusa, ma che sia di versa * di Francesco Pigliaru

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avvero l'università diffùsa non serve? Davvero la soluzione è portare tutti gli studenti a Cagliari o a Sassari? Nel mondo, le cose sembrano andare diversamente, molto diversamente. Se uno fa una automobile senza il motore, poi non dovrebbe concludere che le auto non servono. Quando Tony Blair divenne primo ministro, dettò le tre priorità del suo programma: istruzione, istruzione, istruzione. La giunta regionale sarda ha adottato un punto di vista simile. Giustamente, perché la Sardegna ha pochissimi laureati in una nazione che ne ha pochi: nei Paesi avanzati, i laureati rappresentano una percentuale della popolazione di riferimento che va dal 46% al 23%. In Italia siamo al 12%, in Sardegna al 10%. Ildato è drammatico. In ballo c'è l'equità sociale ma anche la nostra capacità di competere con successo in un mercato mondiale sempre più esigente. Prendete la Corea del Sud. Nel 1960 il suo reddito pro-capite Il caso della era uguale a quello del Ghana, pari più o meno al 20% di quello Corea del italiano di allora. Oggi è al 72% del nostro reddito. Questo mira- Sud colo economico è stato preceduto e accompagnato da un enorme investimento in istruzione: nel 1970 esistevano 142 istituti per l'istruzione post-secondaria, ora sono 411. Di questi, 171 sono vere e proprie università, moltissime delle quali distribuite nei territori regionali, lontani da Seul. Il risultato è che oggi i laureati * L'autore è professore di Economia, presso il Dipartimento di Ricerche Economiche e Sociali, dell'Università di Cagliari. 15


sono il 32% della popolazione. Nel box che segue è presentato il progetto coreano The New University for Regional Innovation. Sono essenziali molte università "diffuse" per avere molti laureati? In Corea sembra di sì: esiste una università ogni 280.000 abitanti. In Sardegna ne abbiamo una più o meno ogni 800.000 persone. Quante università ci sono negli altri Paesi? In quelli con una E negli altri percentuale di laureati superiore al 30%, come Canada, Svezia, Paesi? Australia e Finlandia, si va da un massimo di una ogni 210.000 a un minimo di una ogni 115.000 abitanti. Negli Stati Uniti i numeri sono ancora più sorprendenti: una università o un college ogni 71.000 abitanti 2. Un fenomeno che non sembra arrestarsi nemmeno di fronte allo sviluppo dell' e-learning. Nel mondo, molti laureati si accompagnano, dunque, a molti istituti universitari distribuiti nel territorio. Naturalmente, dietro questi numeri c'è anche altro. Soprattutto, in ogni Paese ci sono diversi tipi di università: alcune puntano su eccellenza e ricerca, altre si concentrano sull'insegnamento di primo livello. Le prime sono poche, grandi, spesso localizzate nelle principali aree urbane. Le "università di insegnamento", invece, si distribuiscono anche nel territorio. Un giovane di una cittadina americana ha un intero ventaglio di opzioni: può succedere che inizi gli studi nel college sotto casa e che poi, favorito da un sistema flessibile, faccia il salto verso una università più prestigiosa. Le enormi differenze tra i numeri che ho citato e quelli sardi Il caso sardo dovrebbero farci riflettere, prima di arrivare a conclusioni affrettate sui destini della nostra "università diffusa". A proposito della quale sono stati espressi giudizi molto severi, spesso fondati e condivisibili. Di fatto, da noi è prevalso un modello particolare di università diffusa, mal disegnato e malissimo gestito, basato su scelte sbagliate e talvolta assurde. In oltre quindici anni di presenza a Nuoro, l'Università di Cagliari non ha creato neanche un posto di ricercatore a sostegno dei corsi lì localizzati. Una situazione che sarebbe inconcepibile anche per il più modesto college americano, perché ogni seria università ha bisogno di infrastrutture adeguate e soprattutto di un corpo docente formato da persone che lavorano e vivono in loco. Qualcosa di molto diverso da ciò cha abbiamo visto in Sardegna finora. 16


Concludere che non abbiamo alcun bisogno di università diffusa solo perché l'esperienza fatta finora è in gran parte negativa, potrebbe essere un serio errore. I numeri che ho citato suggeriscono molta prudenza: se si vuole aumentare in modo significativo il numero dei laureati, è rischioso rinunciare a presenze universitarie di primo livello in posti come Nuoro e Olbia. Chi pensa che le sedi di Sassari e di Cagliari siano sufficienti per l'intera Sardegna, probabilmente sbaglia, e inoltre rischia di condannarle a una crescita non sostenibile. Chi continua a difendere l'attuale modello di università diffusa, sbaglia di sicuro. La soluzione è valutare con attenzione l'esperienza fatta finora, definire i requisiti necessari per creare un paio di buone "università di insegnamento" nel territorio, e calcolare le risorse da investire: alla fine è possibile che siano inferiori a quelle sprecate in questi anni di equivoci. Questa breve nota in difesa di una diffusione dell'insegnamento universitario nel territorio ha preso spunto da un dibattito molto locale, con tutti i rischi del caso. Alcuni recenti dati riferiti all'intera Italia sembrano però portare ulteriore sostegno alla tesi sviluppata fin qui. In un articolo pubblicato da Gianfranco Cerea su la Voce. info (http://www.lavoce.info/articoli/_scuola_universita/paginal0005O6.html), vengono riportati dati che rivelano una rapidissima crescita nel rapporto tra numero di laureati e di coetanei. Questo rapporto, che era pari 5,7% quaranta anni fa e al 20% nel 1995, ha oggi superato il 40%. Come sottolinea anche l'OEcD nel suo FactBook 2008, il dato italiano è uno dei piii significativi degli ultimi anni, tanto da averci consentito di superare in pochi anni il dato medio dei Paesi OECD, pari al 36%. Da cosa dipende questa rapidissima crescita, che ci consente di iniziare a diminuire il gravissimo gap del nostro stock di laureati nella popolazione? Per l'OEcD si tratta della conseguenza di un vero e proprio "strucrural change", e il primo sospetto è naturalmente che si tratti della riforma 3+2. Secondo i dati di Cerea, in realtà, un ruolo più importante va invece assegnato - di nuovo alla "proliferazione delle sedi universitarie [che] ha ridotto i costi per il mantenimento agli, studi, rendendo possibile l'accesso a ceti prima esclusi e attenuando la necessità, per gli studenti meno abbienti, di svolgere un lavoro retribuito per non gravare eccessivamente sulla famiglia d'origine. Negli anni, gli studenti economi-

E l'Italia?

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camente più deboli hanno dunque potuto dedicare più tempo alla formazione, accelerando il percorso formativo e accrescendo la probabilità di conseguire la laurea". Questa conclusione è tra l'altro coerente con molta ricerca microeconometrica internazionale, nella quale la distanza della sede universitaria risulta spesso correlata inversamente con la decisione di andare all'università. L'Italia ha bisogno di un sistema universitario articolato, nel quale una ampia diffusione territoriale deve convivere con meccanismi capaci di premiare l'eccellenza e dunque di generare un grado di diversificazione nella scala "ricerca-insegnamento" ben maggiore di quello attuale. Puntare esclusivamente su poche università di prestigio è un errore che può farci fare molti passi indietro. L'eccellenza è essenziale, come lo è rendere accessibile ai più una buona educazione post-secondaria. Il discorso svolto fin qui fornisce qualche spunto anche a propo- PS: Riforma Gelinim e ... i universita sito aei recente, acceso ulDattito intorno aua rirorma aen dintorni italiana. Come e noto, all origine del dibattito ci sono tagli indiscriminati al finanziamento pubblico per l'istruzione terziaria, tagli del tutto incoerenti con l'esigenza - ovvia e diffusamente sentita - di disegnare credibili meccanismi premiai basati su condivisi criteri di valutazione della ricerca e della qualità didattica. Questo però è un altro, complesso problema. Qui interessa invece citare quanto scritto nelle "Linee Guida del Governo per l'Università" del novembre 2008 a proposito di università diffusa. In queste Linee Guida si afferma che è necessario "avviare, in linea con gli impegni assunti in sede europea, le procedure di accreditamento dei corsi e delle sedi sulla base della qualità e della sostenibilità; analizzare e valutare le sedi decentrate degli atenei, oggi troppo numerose (oltre 300) e non sempre provviste dei necessari requisiti strutturali e qualitativi e verificare contestualmente la loro sostenibilità finanziaria". Ecco un ulteriore esempio di indirizzi politici che mischiano buon senso a giudizi di valore non sostanziati da dati di fatto. E' buon senso dire che serve accreditare e valutare corsi e sedi, decentrate o meno, che a oggi non sono state né accreditate né seriamente valutate; è un giudizio di valore spacciato per dato obiettivo affermare che "le sedi decentrate degli atenei, [sono] oggi troppo numerose (oltre 300)"; è di nuovo buon senso affermai i

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re, di seguito, che le stesse sono "non sempre provviste dei necessari requisiti strutturali e qualitativi e verificare contestualmente la loro sostenibilità finanziaria". Allora, sono troppe 300 sedi di insegnamento universitario in Italia? Secondo quale parametro, secondo quale benchmar/e? Prendete la popolazione italiana e dividetela per quel numero. Sorpresa: ecco di nuovo spuntare un numero già citato in questo articolo: più o meno 200.000. Cioè il numero che caratterizza, in media, tutti i Paesi con un alto tasso di laureati sulla popolazione. Se quei Paesi rappresentano il nostro benchmark, 300 sedi universitarie dunque non sono, di per sè, uno scandalo. Lo scandalo, come sostenuto sopra, è la confusione che regna nell'università italiana, l'ipocrisia del far finta che tutti possono stare in una artificiale serie A certificata da un valore legale del titolo di studio che nasconde i dati di fatto, l'assenza di regole premiali capaci di disciplinare scelte e comportamenti. Dunque: forse abbiamo qualche sede decentrata di troppo; certamente abbiamo sedi decentrate e anche sedi "centratissime" inadeguate a fare ricerca di qualità e persino a fornire, più modestamente, un livello di insegnamento appropriato. Prima di prendersela con le ipotetiche troppe sedi territoriali, è consigliabile dettare regole moderne e decenti per valutare la qualità della ricerca e della didattica di tutti, al centro o in periferia; e poi consentire agli studenti (aiutati da borse di studio che ne favoriscano la mobilità) di "votare con i piedi". Il numero ottimale di sedi universitarie emergerà come risultato di un processo collettivo, come se le azioni dei singoli fossero guidate da quella (saggia) mano invisibile di cui ci dimentichiamo troppo spesso, nell'ansia dirigista di trovare soluzioni immediate a problemi confusamente analizzati.

* Con l'eccezione dell'ultimo paragrafo, il teso è tratto da: La Nuova Sardegna, 19 dicembre 2007. I Nostre elaborazioni su dati pubblicati in Higher Education and Regions, Ocse, 2007. Su questo importante volume si veda l'articolo di ANNA PIREDDU, Il difficile equilibrio sul fIno dell'alta formazione, in www.insardegna.eu , 28.11 .'07. 2 Il dato riguarda istituzioni che conferiscono titoli di studio di 2 e 4 anni. Se ci limitassimo alle istituzioni che forniscono titoli di laurea di quattro anni, ne conteremmo una ogni 118.000 abitanti. 19


queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

L'eterna riforma dei servizi pubblici locali di Luigi Tretola

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a recente approva;ione dell'art. 23 bis della Legge 6 agosto 2008 n. 133 (conversione del Di. 112/08 recante "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria") ha posto nuovamente all'attenzione il tema della riforma dei servizi pubblici locali. Negli ultimi anni più volte il legislatore è tornato sul tema dei servizi pubblici locali nel tentativo, finora non riuscito, di dare compiuta attuazione ad una liberalizzazione del settore, superando le criticità delle gestioni "municipalizzate" dei servizi; in tal senso, vanno richiamati gli interventi normativi succedutisi in questi anni, dal d.d.l. 7042/2000 (il cosiddetto disegno di legge "Vigneti"), approvato da un ramo del Parlamento e poi decaduto con la fine della legislatura), all'art. 35 L. 448/2001, all'art. 14 D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003), al d.d.l. 772/2006 (il cosiddetto disegno di legge "Lanzillotta") decaduto con la fine anticipata della X\T legislatura. Con l'art. 23 bis L. 133/2008 si scrive, dunque, un nuovo capitolo della riforma dei servizi pubblici locali. È davvero questo il passo normativo decisivo per un'apertura Perchè un al mercato del sistema dei servizi pubblici, o si tratta dell'ennesi- ennesimo mo capitolo di un'eterna riforma in chiave di liberalizzazione del provvedimento

lautore è avvocato, esperto di diritto amministrativo e contrattualistica pubblica, e ricercatore presso il Formez. 20


settore, troppe volte annunciata e mai in concreto realizzata per le significative resistenze presenti nel Paese? Ancora:qua! è il quadro del sistema dei servizi delineato dal nuovo intervento del legislatore? Per rispondere a queste domande appare opportuna una seppur breve analisi delle disposizioni contenute nel citato art. 23 bis. In primo luogo, vanno richiamate le ragioni connesse alla scelta del legislatore di intervenire nuovamente sul tema dei servizi pubblici locali a rilevanza economica a pochi anni da un intervento (art. 14 L. 326/2003) che aveva eliminato le problematiche di compatibilità con il diritto comunitario delle disposizioni in tema di servizi 1 Al primo comma dell'art. 23 bis il legislatore ha chiarito che la nuova norma è stata emanata "alfine di favorire la più ampia diflsione dei principi di concorrenza, libertà di stabilimento, libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione dei servizi di interesse generale in ambito locale". Inoltre, sempre il legislatore ha specificato che le ragioni del recente intervento vanno ricercate nell'esigenza di dare effettiva attuazione al fondamentale principio di "garanzia del diritto degli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni" (ex art. 117, comma 2, lett. e ed m, della Costituzione), assicurando - sul piano operativo - "un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione". Simili indicazioni non soio consentono di riscontrare la piena legittimità dell'intervento del legislatore nazionale in tema di servizi pubblici locali alla luce del mutato assetto costituzionale (nuovo Titolo V, parte 11 della Costituzione) 2, ma anche di chiarire lo spirito della nuova norma. In tal senso, una breve analisi del testo del citato art. 23 bis può consentire di riscontrare se tale indirizzo ha poi trovato concreta attuazione nella lettera della norma. .

Quanto all'ambito di applicazione della nuova disciplina, il le- La nuova gislatore ha chiarito che essa si applica a tutti i servizi pubblici norma locali e prevale sulle relative discipline di settore con essa incom-

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patibili, superando, in tal modo, i dubbi interpretativi sul rapporto tra normativa generale in tema di servizi e discipline di settore. La scelta in parola, dai risvolti operativi tutt'altro che scontati, sembrerebbe (salvo future modifiche e specificazioni) estendere l'ambito applicativo della nuova disciplina anche a settori in precedenza non interessati dalle previgenti disposizioni generali in tema di servizi pubblici locali (art. 113 D. Lgs. 267/00 TUEL), ovvero il servizio di distribuzione del gas, quello di distribuzione di energia elettrica ed il trasporto pubblico locale, superando le ragioni che avevano indotto in passato a garantire una peculiare disciplina per tali settori. Con riferimento a questi ultimi servizi - per i quali la legislazione di settore aveva prescritto la regola della gara (salvo il perdurare di un consistente periodo transitorio) - la nuova normativa in tema di liberalizzazioni e servizi pubblici locali parrebbe realizzare il paradosso di un ritorno alla possibilità di affidamenti diretti a società a partecipazione pubblica locale, seppur coi nuovi limiti di cui all'art. 23 bis. Le evidenziate criticità e parziali contraddizioni trovano riscontro anche nel corpo delle disposizioni del nuovo articolo. Sul piano della struttura, l'art. 23 bis risulta composto di dodici commi e può essere idealmente suddiviso in due parti: la prima sembrerebbe contenere norme immediatamente precettive in tema di modalità di affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, la seconda recante i criteri cui dovrà uniformarsi il Governo in sede di emanazione (entro il termine di 180 giorni dall'entrata in vigore della riforma) di uno o più regolamenti per disciplinare taluni profili di carattere più operativo. Venendo alla disciplina degli affidamenti, l'art. 23 bis contiene Gli (al comma 2) l'indicazione di una scelta in favore della modalità affidamenti di selezione del gestore del servizio a seguito dell'espletamento di "procedure competitive ad evidenza pubblica". Si specifica che dette procedure devono avvenire nel rispetto dei principi del Trattato UE e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzia22


lità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità. Inoltre, si è previsto che possòno partecipare alle "procedure competitive ad evidenza pubblica" per l'affidamento del servizio, non solo le società di capitali (come prescritto dalla previgente disciplina), ma anche imprenditori individuali e le "società in qualunque forma costituite". Provando ad analizzare il portato di tale disposizione in tema di affidamenti, non risulta chiaro se l'espressione utilizzata dal legislatore ("procedure competitive ad evidenza pubblica") vada riferita alla sola gara ad evidenza pubblica per la scelta del soggetto gestore o anche alla fattispecie della società mista pubblicoprivata con gara "a doppio oggetto" 3 per la scelta del socio privato. Alla luce dei lavori parlamentari che hanno portato all'emanazione della nuova disciplina si potrebbe propendere per la prima interpretazione, tuttavia, il tenore letterale dell'art. 23 bis e le modalità operative connesse alla società mista pubblico-privata con gara "a doppio oggetto" per la scelta del socio privato lasciano preferire quest'ultima interpretazione. Infatti, nella società mista pubblico-privata con gara "a doppio oggetto" per la scelta del socio privato, l'Amministrazione affidatana del servizio individua con "procedure competitive ad evidenza pubblica" il proprio socio privato in relazione alla capacità di quest'ultimo di gestire quello specifico servizio, in quel territorio, in un periòdo di tempo predefinito; in tal senso, simile procedura che porta alla costituzione di una società mista cui è affidato il servizio è di fatto sovrapponibile a quella della gara ad evidenza pubblica per la scelta del gestore. In deroga alla modalità ordinaria di affidamento di servizi pubblici locali a seguito di "procedure competitive ad evidenza pubblica", in relazione a fattispecie che, "a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di rifirimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato", il legislatore ha poi stabilito (comma 3) che "l'affidamento può avvenire nel rispetto dei princzpi della disciplina comunitaria" L'espressione alquanto generica utilizzata dal legislatore sem23


brerebbe riferirsi all'affidamento diretto di servizi pubblici alla cosiddetta società in house, a meno che, sulla base di un'interpretazione diversa (da quella sopra proposta) del combinato disposto dei commi 2 e 3 dell'art. 23 bis, non si intenda ricondurre anche la società mista pubblico-privata tra le modalità non ordinarie di affidamento di servizi. Inoltre, la genericità dell'espressione utilizzata dal legislatore parrebbe consentire di ricondurre tra le modalità non ordinarie di affidamento del servizio, anche forme di gestione nòn strettamente riconducibili alla società in house, sempre che tali affidamenti siano coerenti con "i princzpi della disczplina comunitaria", ovvero, in primo luogo, la concorrenza, la parità di trattamento tra gli operatori nel mercato e la trasparenza. Il legislatore, superando la precedente impostazione (di cui all'art. 113 D. Lgs. 267/00), non ha dettagliato le caratteristiche delle citate modalità di affidamento, per le quali, dunque, ha fatto riferimento alle valutazioni operate dalla prevalente giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia. I richiamati principi comunitari sono, pertanto, la lente attraverso la quale valutare anche la piena legittimità degli affidamenti a società in house. Simile impostazione è in parte contraddetta dal successivo comma che introduce delle limitazioni ulteriori alla concreta attuazione della descritta modalità non ordinaria di affidamento. Infatti, sui piano operativo, il legislatore ha previsto che la descritta deroga alla modalità ordinaria di affidamento sia adeguatamente pubblicizzata dalla PA, nonché motivata in base ad un'analisi del mercato, con successiva trasmissione all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (o alle autorità di regolazione del settore, ove costituite) di una relazione contenente gli esiti della predetta verifica, per l'espressione di un parere sui profili di competenza (da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione). Mentre la giurisprudenza comunitaria (a partire dalla sentenza Il soggetto della Corte di Giustizia 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal4 ) in house si è da sempre occupata di accertare i presupposti occorrenti perché la società affidataria in house possa essere qualificata co24


me una longa manus dell'ente affidante (qualora l'ente affidante eserciti sulla società affidataria un controllo analogo a quello dallo stesso esercitato sui propri servizi e la stessa società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti che la controllano), talché la gestione del servizio pubblico ad essa affidato appaia, in qualche misura, riconducibile allo stesso ente affidante ovvero ad una sua articolazione, nulla di tutto questo traspare in forma espressa dai citati commi 3 e 4. Questi ultimi commi si riferiscono, piuttosto, ad una condizione specifica del contesto territoriale ed economico, nonché ad un obbligo di invio all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di una relazione relativa all'affidamento diretto del servizio al fine di ottenere un parere non vincolante, ovvero a requisiti ulteriori rispetto al rapporto di delegazione interorganica intercorrente tra l'ente affidante e il soggetto affidatario in house, richiesto dalla richiamata giurisprudenza comunitaria. In tal senso, più di un dubbio solleva la circostanza che la normativa interna (art. 23 bis L. 133/2008), prima richiama le prescrizioni ed i principi comunitari e, poi, in deroga a tali previsioni, individua ulteriori requisiti per la legittimazione dell'affidamento in house. I confini dell'affidamento in house derivano direttamente da quelle stesse regole comunitarie che stabiliscono il campo di applicazione degli appalti. Una modifica dei primi, dunque, non può essere legittimamente effettuata se non vengono contemporaneamente ridefinite le seconde. La non chiara indicazione di quale delle norme previgenti sia stata abrogata dall'art. 23 bis contribuisce, poi, ad accrescere le perplessità sulla attuale concreta operatività delle nuove prescrizioni potenzialmente limitative dell'affidamento di servizi pubblici a società in house. Forti perplessità desta anche la statuizione di cui al comma 8, Sul servizio idrico in combinato disposto con il comma 10 lett. e), che prevede una disciplina particolare per le concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall'evidenza pubblica e dalle modalità di cui al comma 3, prescrivendo per le stesse la "cessazione automatica al 31 dicembre 2010". 25


In linea con la normativa vigente prima dell'approvazione dell'art. 23 bis (ovvero l'art. 113, comma 15 bis D. Lgs. 267/00 - TUEL), gli affidamenti del servizio idrico integrato incompatibili con le regole europee sono già decaduti al 31.12.2007. Pertanto, la cessazione automatica stabilita dal comma 8 dell'art. 23 bis sembrerebbe far riferimento ad affidamenti effettuati in maniera del tutto legittima e, che, solo a causa dell'entrata in vigore della nuova norma, diventerebbero improvvisamente illegittimi in relazione alla normativa interna; in tal senso, sarebbero, ad esempio, illegittimi anche gli affidamenti a società in house effettuati in assenza dei presupposti ulteriori definiti dal comma 4 dell'art. 23 bis. Simili considerazioni sono aggravate dalla circostanza che proprio per il servizio idrico integrato nella precedente legislatura (art. 15 L. 248/2006 e d.d.l. 772/2006) era stato previsto l'obbligo della "gestione pubblica", in deroga alle regole comunitarie della concorrenza nel sistema dei servizi pubblici. Senza entrare nel merito delle nuove scelte operate dal legislatore, quanto meno nel breve periodo, sarebbe auspicabile una coerenza dei diversi interventi. L'incertezza del quadro normativo, infatti, pregiudica la crescita di maturi operatori nel settore ed è incompatibile coi significativi investimenti infrastrutturali richiesti nel settore. Proseguendo nella disamina della nuova disciplina, l'art. 23 Quali ois contiene, poi, una serie ai prescrizioni apprezzaiii in iinea risvolti di principio, ma dai difficili, o quanto meno, non chiari risvolti operativi? operativi; ad esempio, le disposizioni su: - possibilità di affidamento simultaneo di una pluralità di servizi pubblici locali, nei casi in cui possa essere dimostrato che tale scelta sia economicamente vantaggiosa; - facoltà per Regioni ed Enti locali (nell'ambito delle rispettive competenze e d'intesa con la Conferenza Unificata) di definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell'espletamento dei servizi, nonché l'integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi più redditizi, 26


garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per piui soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale; - divieto per i soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante procedure competitive, nonché per quei soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali (qualora separata dall'attività di erogazione dei servizi), "di acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, di svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecpate, néparteczpando a gare"; salva la possibilità per gli stessi di concorrere alla prima gara svolta per l'affidamento, mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, dello specifico servizio già a loro affidato. Il quadro sopra delineato è completato dal comma 10 dell'art. 23 bis che ha previsto l'emanazione, entro il termine di 180 . , . giorni dall entrata in vigore della L. 13312008, di uno o piu regolamenti governativi al fine di: - prevedere l'assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al Patto di stabilità interno e l'osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l'acquisto di beni e servizi e l'assunzione di personale; - prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, che i Comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata; - prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità; - armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l'affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua; - disciplinare, per i settori diversi da quello idrico, fermo re-

regolamenti dafarsi

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stando il limite massimo stabilito dall'ordinamento di ciascun settore per la cessazione degli affìdamenti effettuati con procedure diverse dall'evidenza pubblica o da quella comunque rispettosa dei principi della disciplina comunitaria, la fase transitoria, ai fini del progressivo allineamento delle gestioni in essere alle disposizioni introdotte dalla riforma di cui all'art. 23 bis L. 133/08, prevedendo tempi differenziati ed il divieto di ogni proroga o rinnovo alla scadenza del periodo di affidamento; - prevedere l'applicazione del principio di reciprocità ai fini dell'ammissione alle gare di imprese estere; - limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d'esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale; - prevedere nella disciplina degli affidamenti idonee forme di ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti; - disciplinare, in ogni caso di subentro, la cessione dei beni, di proprietà del precedente gestore, necessari per la prosecuzione del servizio; - prevedere adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale anche con riguardo agli utenti dei servizi; - individuare espressamente le norme abrogate dal testo del nuovo art. 23 bis L. 133/08. A ben vedere, dunque, l'art. 23 bis demanda al Governo ed al Una scelta i i r i i efficace? relativo potere regoiamentare ia rutura emanazione aei corpo sostanziale di una nuova disciplina del settore dei servizi. In questo modo, passaggi fondamentali come l'entrata a regime della nuova disciplina in rapporto al periodo transitorio, l'individuazione espressa delle norme previgenti abrogate dalle nuove prescrizioni, nonché altre significative novità per il sistema dei servizi (come quelle in tema cli personale, acquisizioni di beni, servizi e forniture, reti, etc.) sono rinviati ad uno o più regolamenti di futura emanazione, dei quali - al momento - non si ha ancora traccia.

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Pertanto, anche richiamando il carattere ordinatorio del termine di 180 giorni per l'emanazione dei regolamenti ed i precedenti non certo confortanti sull'emanazione di regolamenti in tema di servizi pubblici locali (ad esempio, quello previsto dall'art. 35 L. 448/2001 e mai emanato dal Governo), più di un dubbio sorge sull'efficacia della scelta normativa operata dal legislatore. Simili considerazioni si aggiungono alle perplessità - in precedenza evidenziate - sul portato di talune disposizioni introdotte dall'art. 23 bis in tema di modalità di affidamento dei servizi. In tal senso, i quesiti all'origine di queste brevi riflessioni non possono che avere una risposta negativa. Manca all'art. 23 bis il carattere di riforma strutturale del sistema dei servizi pubblici locali, in grado di delineare (nel bene o nel male) un quadro compiuto di riferimento per le Amministrazioni pubbliche, gli operatori del settore e gli utenti. Di fatto si tratta di una sorta di norma-manifesto che traccia Più che altro una linea di indirizzo, dai contorni peraltro non nitidi (ad esem- un pio, proprio in tema di modalità di affidamento), demandando marnfesto ad un futuro regolamento governativo il compito di dettare l'effettiva disciplina. In altri termini, il legislatore ha scritto con l'art. 23 bis l'ennesimo capitolo dell'eterna riforma dei servizi pubblici locali, cui ne seguiranno probabilmente altri (regolamento governativo o nuova legge), senza arrivare a definire un quadro normativo certo in tema di servizi pubblici, anzi amplificandone notevolmente l'incertezza. Immaginabili sono le criticità cui andranno incontro le Amministrazioni pubbliche in questa fase, in attesa del richiamato regolamento o di un nuovo intervento del legislatore. A tali considerazioni vanno aggiunte le perpiessità sul merito delle scelte di indirizzo del legislatore che con l'art. 23 bis, di fatto, non sceglie in maniera chiara tra mercato e gestione a mezzo di aziende partecipate, perpetuando le criticità della precedente normativa in tema di servizi, rispetto alla quale, invece, voleva rappresentare un momento di effettiva riforma. Meglio sarebbe stato forse seguire il metodo della legge delega 29


e dei successivi decreti legislativi, in grado di consentire un'adeguata maturazione dei temi oggetto di riforma, ovvero affidarsi all'indirizzo interpretativo restrittivo della giurisprudenza comunitaria e nazionale. Non va taciuto, infatti, che da troppo tempo il dibattito pubblico e le scelte del legislatore sono concentrate sulle tecnicalità connesse alla modalità di scelta del gestore del servizio, senza porre un'adeguata attenzione sullo sviluppo di un maturo sistema dei servizi, caratterizzato (in breve) da modelli di gestione integrata dei servizi, aggregazioni tra aziende erogatrici, controlli efficaci, misurazione dei livelli di qualità delle prestazioni erogate e tutela delle prerogative degli utenti. In tal senso, chiudendo con una provocazione, si può dire che in questa fase il Paese ha forse bisogno non di nuovi interventi normativi, ma di dare concreta attuazione alle norme vigenti, attraverso azioni in grado di accompagnare i processi di trasformazione in atto e di rafforzare le competenze delle Amministrazioni pubbliche impegnate nel nuovo ruolo di indirizzo e controllo del sistema dei servizi pubblici.

i La Commissione europea aveva aperto, con nota C(2002)2329 del 26.06.2002, una procedura di infrazione comunitaria per la "non compatibilità di alcune disposizioni contenute nell'art. 35 (e negli artt. 113 e 113-bis TUEL, come innovati da tale disposizione) con le direttive 921507CEE e 9313910EE". Al fine di risolvere tali problematiche ed ottenere l'archiviazione della citata procedura di infrazione, il Governo era poi intervenuto con l'art. 14 del DL 269103 (collegato alla "Legge Finanziaria 2004") a disciplinare nuovamente la materia dei servizi pubblici locali. 2 L'intervento legislativo dello Stato in tema di servizi pubblici locali va ricondotto alla sua competenza a legiferare in tema di concorrenza, garanzia del diritto degli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi ed al livello essenziale delle prestazioni. Cfr: Corte Costituzionale 27 luglio 2004, n. 272; Corte Costituzionale 23 gennaio 2006, n. 29. 3 La cosiddetta "gara a doppio oggetto" è una gara per la scelta del socio privato di una società mista, aggiudicata sulla base del valore tecnico-qualitativo dell'offerta presentata dal socio privato in relazione al servizio oggetto di affidamento. Tale modalità di affidamento è stata declinata nelle sue specifiche tecniche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato. Vedi: Consiglio di Stato, Sez. TI, Parere 18 30


aprile 2007, n. 456 cit.; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 112008; Consiglio di Stato, Sez. VI, 23.09.2008 n. 4603. Corte Giust. Eur., 18 novembre 1999, causa C-107198 (Causa Teckal). La sentenza Teckal trae origine dall'affidamento da parte del Comune di Viano (RE) all'Azienda del Gas-Acqua Consortile (AGAC), Consorzio cui il Comune fa parte, della gestione degli impianti di riscaldamento in funzione presso alcuni edifici comunali, la fornitura dei combustibili necessari e l'incarico di procedere ad interventi migliorativi sugli impianti di riscaldamento. La Teckal, impresa privata operante nel settore dei servizi di riscaldamento, ricorre al TAR per l'Emilia-Romagna adducendo che il Comune sarebbe dovuto ricorrere alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previsti dalla normativa comunitaria. Il TAR sospende il giudizio chiedendo alla Corte l'interpretazione di talune disposizioni delle direttive 92150 e 93136. I Giudici comunitari si pronunciano affermando che l'applicabilità della disciplina in tema di concorrenza è esclusa nel caso di affidamento in house, ovvero nell'ipotesi iii cui vi sia la contestuale presenza dei seguenti requisiti: 1) partecipazione da parte dell'amministrazione aggiudicatrice al capitale del soggetto affidatario; 2) esercizio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice sul soggetto affidatario di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; 3) realizzazione da parte del soggetto affìdatario, della parte più importante della propria attività con l'ente o gli altri enti territoriali che Io controllano. In tema di società in house, vedi anche: Corte di Giustizia Europea, 13.10.2005, c45812003 (Parking Brixen); Corte di Giustizia Europea, 06.04.2006, c-410104 (AMTAB); Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 11-5-2006, c-340/04 (AGEsp).

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Musei gratis? di E/ma De Simone There's no such thing as free Iunch (H. Friedman)

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ecentemente sulla rivista Esprit è stato pubblicàto un articolo della nota economista francese Franoise Benhamou l, che riapre un dibattito mai concluso sull'opportunità di consentire l'accesso totalmente gratuito ai musei nazionali. Per quanto tale querelle goda di maggior enfasi in Francia rispetto all'Italia, mentre nel Regno Unito si è definitivamente risolta con la decisione di affidarsi alle contribuzioni volontarie, appare opportuno, data la centralità del ruolo dei nostri musei nel promuovere flussi sostanziosi di turismo culturale, addentrarsi nell'argomento partendo dall'articolo citato. L'autrice, prendendo spunto da alcune dichiarazioni espresse La questione dal ministro della Cultura e comunicazione francese, coglie l'oc- gratuità casione per analizzare la questione della gratuità universale dimostrando come essa conduca ad una scelta pubblica inefficiente ed inefficace. Già nel sottotitolo al suo articolo, dichiara che la questione affrontata non può che cond3irre a risposte sbagliate per via di domande altrettanto sbagliate. La gratuità non può che rappresentare, afferma l'autrice, una modalità di politica tariffaria da lasciare alla discrezionalità delle singole strutture. Per dimostrare l'inefficacia e l'inefficienza della tariffa nulla, la Benhamou ricorre sia ad argomenti di teoria economica, sia ai risultati di indagini empiriche, sviluppando un'ampia rassegna del-

L'autrice è docente di Economia dei Beni e delle Attività Culturali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università L'Orientale di Napoli. 32


la letteratura riguardante le caratteristiche dell'offerta e della domanda di beni museali. La lettura dello scritto della Benhamou suscita le medesime domande retoriche che l'autrice stessa utilizza per demonizzare la pretesa superiorità della scelta di gratuità nei musei, ossia: il criterio adoperato dall'autrice per esaminare la questione è soddisfacente? Può trarne stimolo e vantaggio un eventuale dibattito nostrano? Siamo d'accordo con le principali conclusioni dell'autrice, che scrive di "illusion de démocratisation" in riferimento al passaggio alla gratuità, invitando a diffidare da scelte semplicistiche e di comodo, anche se i criteri d'analisi adoperati nonché l'impostazione generale del problema meritano qualche riflessione critica. La Benhamou inizia affrontando quelli che lei stessa definisce "les grands principes". Si tratta dei riferimenti di teoria economica che ella ritiene indispensabili, inseriti all'interno di una cornice densa di artifici retorici, à la mode dei salotti culturali parigini del '700, evocati nelle mirabili pagine dell'abate Galiani, magistralmente utilizzati con lo scopo di smantellare progressivamente le •eventuali ragioni addotte a sostegno della tesi (libero accesso ai musei) che ella intende confutare. Infatti, una insensata proposizione viene attribuita a un immaginario interlocutore: se i musei appartengono al servizio pubblico, allora essi appartengono a tutti, ma se appartengono a tutti perchè allora bisogna pagare per visitarli? L'ingresso gratuito, tra l'altro, semplifica la visita: niente file di attesa, entrata e uscita liberi. Come da rito retorico richiamato, l'autrice risponde per convincere dell'insensatezza di quella proposizione, ma il suo ragionamento economico non appare tuttavia teoricamente corretto. Infatti, il primo argomento considerato è il seguente. Il museo, Argomenti ritiene l'autrice, possiede la caratteristica di indivisibilità e di non contro: il rivalità nel consumo, tipici dei beni pubblici. Ciò si traduce nel primo fatto che il visitatore marginale comporta un costo marginale nullo. Allora, ritornando all'espediente teorico, perchè far pagare un prezzo al visitatore marginale, se la sua visita non comporta costi? 33


Per lo stesso motivo, osserviamo noi, per cui tutti pagano il biglietto del treno, dell'aereo, del bus, perchè anche in questi casi il costo del viaggiatore marginale è nullo e nessuno considera questi beni come pubblici (à la Samuelson)! Ma è altrettanto noto a tutti che la tariffa, dove il costo marginale operativo è nullo, è comunque determinata considerando i cosiddetti costi di capacità. Ma pur in questi casi, se il bene fosse effettivamente pubblico (indivisibilità, consumo congiunto), allora il diretto fruitore non pagherebbe e il finanziamento lo si dovrebbe rintracciare nella fiscalità generale. La verità è che il museo non ha nessuna delle caratteristiche proprie del bene pubblico (nemmeno, a nostro avviso, la sola non rivalità: basti pensare alle file di spettatori davanti alla Gioconda!). È banale osservare che è bene pubblico l'Arco di Trionfo, perchè non è tecnicamente possibile escludere chi non vuole pagare per guardarlo ma che le sale del Louvre sono ad accesso escludibile (sia dal punto di vista tecnico, sia economico) e che l'eventuale decisione (proprio perchè è una decisione e non una inevitabilità) di ingresso libero risiede in altre ragioni, non certo nell'idea del museo come bene pubblico. Nell'articolo in questione, manca il riferimento, a nostro avviso, più appropriato, che è quello della "meritorietà " del bene, riflessione sui cui torneremo più avanti. Comunque, è possibile immaginare, come fa la Benhamou, una situazione tale da ricadere nella necessità di determinare le tariffe (il prezzo dell'ingresso al museo) secondo la nota regola di Vickrey: tuttavia, secondo noi, non si tiene in giusta considerazione il fatto che l'offerta culturale, diversamente dal trasporto (settore esplicitamente richiamato da Vickrey) è crucialmente caratterizzata dalla qualità ed in tal senso preferiamo il riferimento agli schemi proposti da Hansmann 2 .

Ilsecondo argomento è di natura soprattutto storica. L'idea di gratuità, osserva l'autrice, si poggia sui fatto che la costituzione dei musei trova la sua ragione storica nell'idea che bisognasse consegnare al popolo ciò che resta della sua eredità storica. Quindi, la funzione principale dei musei è quella della conservazione e, pertanto, determinare un prezzo per l'accesso significa snaturarne la vocazione e far diventare il bene culturale una merce. L'autrice osserva che la "mercificazione" dei musei è possibile anche con ta34

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il secondo


riffa nulla, perchè si potrebbe esplicare nelle forme ulteriori dell'offerta (servizi aggiuntivi), nei condizionamenti dei donatori, ecc. Anche queste osservazioni dell'autrice non ci convincono del tutto. Il problema del rapporto tra qualità e "mercificazione" è certamente indipendente dalla esistenza o meno di prezzi di ingresso. Tuttavia una relazione evidente tra ragioni di profitto e cambiamento dell'offerta esistono e proprio un francese, Jean Clair, recentemente 3 la discute criticamente con raffinata eleganza. ,

Il terzo argomento concerne l'esperienza inglese del contributo volontario all'atto della visita. La Benhamou ritiene questa scelta non condivisibile perchè da un lato si richiama a una vetusta tradizione di gestione delle grandi istituzioni senza scopo di lucro e dall'altro perchè si determina uno spiazzamento nei confronti dei visitatori alle mostre temporanee. Sembra ignorare, l'autrice, che la scelta della contribuzione volontaria può discendere, banalmente, dalla insignificante incidenza delle tariffe sulla copertura dei costi. In altre parole, se i proventi dei visitatori non scalfiscono neanche i risultati di bilancio, allora, in termini di politica della comunicazione, può apparire profittevole il messaggio di gestione socialmente equa che la gratuità solitamente trasmette.

...

il terzo

Dopo il riferimento ai principi generali che abbiamo riportato, La questione l'autrice riporta in dettaglio le non poche ricerche empiriche che equità conducono "ad un'estrema prudenza nella valutazione degli effetti della gratuità". Ne discende, quindi, l'inefficacia della politica della tariffa nulla perchè sostanzialmente non in grado di garantire una effettiva democratizzazione , intesa in modo tuttavia estremamente riduttivo e coincidente con l'incremento di visitatori dei musei provenienti dalle classi meno abbienti. La questione dell'equità è risolta velocemente soltanto in termini delle caratteristiche socio-economiche dei fruitori e non, come ci saremmo attesi, in base alle fonti di finanziamento della gratuità, l'unico strumento con cui valutare eventuali effetti redistributivi. Quando, inoltre, a beneficiare della gratuità sono gli stranieri si generano "ffetz d'aubaine" considerati negativi perchè percepiti 35


come benefici indiretti al limite del free riding. In altre parole, un indesiderato traboccamento, inconcepibile per il pur non maggioritario spirito sciovinista. In tema di fruizione esterna, sembrerebbe che l'autrice non prenda in considerazione la possibilità che la fruizione dei musei sia caratterizzata da "redditività internazionale" in un contesto di risorse scarse e non riproducibili che stimola, pertanto, un consumo non solo locale, affinché siano attivati gli effetti esterni positivi. Benhamou sostiene che un'illusione di democratizzazione è quella derivante dalla scelta di adottare giorni di visita gratuita, perchè induce solo all'aumento delle frequenze di chi è già visitatore. Inoltre, prosegue l'autrice, è possibile ritenere che l'ingresso libero produca effetti negativi, quali la svalutazione del bene: dispiace che sia una economista francese ad allontanarsi dalla tradizione che ha considerato gli economisti soprattutto studiosi della "felicità pubblica". Il giorno a ingresso libero ha importanti significati politici, sociali, culturali che l'economista non può ignorare. Non c'è solo l'obiettivo (riuscito o meno) di rendere accessibile il bene al meno abbiente. C'è che si modifica, almeno potenzialmente, il rapporto tra il cittadino e le collezioni artistiche presenti nelle sale. Queste ultime, nei giorni di ingresso libero, risorgono, ritornano alla loro natura iniziale. Non più solo oggetti da guardare ma elementi importanti dell'ambiente in cui l'uomo vive. Come le facciate dei palazzi, come le fontane, come le statue dei viali. È questa una svalutazione? E l'economista è certo che debba limitarsi a confrontare la costanza, al margine, del costo del controllo, con il ricavo marginale nullo? Ha invece ragione Benhamou, quando osserva che la "democratizzazione , anche cosi come lei riduttivamente la intende, si ottiene con politiche più complesse, di lungo periodo. Politiche volte ad "affezionare" la collettività ai beni culturali.

L'illusione di democratizzazione

Per quanto riguarda l'Italia, come già accennato, il dibattito è Il contributo stato recentemente riaperto da Santagata in un suo lavor0 4 in cui volontario si ventila l'ipotesi di un accesso gratuito generalizzato con la pos sibilità del contributo volontario da parte dei visitatori: per un'am36


pia riflessione sull'argomento si rimanda all'articolo apparso sul n. 1461147 della presente rivista 5 . Tuttavia, basti ricordare che ivi si criticava l'efficacia delle proposta per più motivi: il primo legato alla non forte correlazione tra prezzo di ingresso e domanda dei beni culturali; il secondo relativo alla concentrazione dei visitatori nei cosiddetti grandi attrattori con conseguenti problemi di congestione che spingerebbero per una più rigida disciplina di accesso ai beni; considerazioni legate all'equità, nella fattispecie, della distinzione tra accesso formale ed accesso sostanziale al bene. Siamo, pertanto, d'accordo con la Benhamou nel ritenere che la sola ipotesi di gratuità o di contribuzione volontaria non modifica sostanzialmente il comportamento di chi abitualmente non visita i musei. D'altro canto, non servono complesse analisi economiche per capire perché. Mi sembra opportuno richiamare le immagini dei ruderi della campagna romana raffigurate nelle gouaches del '700 ed osservare che "l'ingresso" il pittore lo rappresenta gratuito, tanto per i signori in livrea e le dame con ombrello aperto per proteggersi dal sole, quanto per il pastore che controlla il suo gregge inconsapevole del significato delle pietre intorno. Tuttavia, si ritiene che il problema della "democratizzazione" dei beni culturali sia, soprattutto, una questione di "bene di merito". Come tale sembra riduttivo pensare o solo discutere, in termini di un unico strumento (gratuito sì/no), mentre appare più opportuno discutere di politiche, non senza aver richiamato brevemente alcune questioni teoriche. Beni di Come è noto, la giustificazione principale dell'intervento pubblico in materia di beni culturali, in realtà, risiede nel fatto che merito tali beni sono beni di merito (meritgoods) 6: essi sono beni di cui si vuole salvaguardare, anzi incentivare, il consumo, al di là dell'appartenenza di essi alla eventuale sola categoria di beni pubblici e al di là delle preferenze individuali, dal momento che vengono offerti non sulla base delle preferenze del consumatore, ma vengono coercitivamente imposti sulla base delle preferenze sociali. Ne consegue che accettare la giustificazione dell'intervento pubblico legata al concetto di bene meritorio, se da un lato conduce ad incentivare il consumo di beni ed attività culturali e a ga-

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rantirne la tutela e la conservazione, dall'altro potrebbe determinare una tipologia di intervento "mirata", attraverso sussidi non neutrali che solo un'efficace valutazione nel rispetto delle preferenze dichiarate del policymaker potrebbe evitare. La definizione di bene di merito ben si applica al patrimonio artistico, in qualità di cornice che indica l'intervento pubblico come impositore di vincoli, proprio perché non è sufficiente definire un bene come meritorio, ma risulta altrettanto necessario, ai fini di concrete politiche di bilancio, definirne l'ordinamento in una ipotetica scala di preferenze, affinché, ad esempio, il caso della scelta di una politica di totale gratuità, avvenga a valle di un processo di valutazione in cui siano stati opportunamente ponderati benefici e costi a carico della collettività. Tuttavia, un ulteriore aspetto che vale la pena richiamare, su cui l'autrice non si sofferma, è che i beni culturali si contraddistinguono, non solo per le caratteristiche economiche di beni misti e di beni di merito, ma possiedono anche delle specificità in termini di utilizzo/fruizione: essi, infatti, si differenziano dai beni privati in senso stretto (basic needs), per il fatto che promanano da bisogni "relazionali" ossia derivanti dalle interazioni sociali, come abbiamo esplicitato descrivendo la valenza sociale della giornata gratuita: essendo tali beni relazionali "beni comuni" che richiedono un'azione comune anche nell'atto della fruizione (Mozart con te è meglio di I'vlozart da solo), il loro effetto sull'utilità non è determinato direttamente da un accrescimento della quantità, come accade per la maggior parte dei beni di consumo, ma potrebbe essere maggiormente connesso alle modalità con cui tali beni vengono immessi sul mercato. Per questo motivo, la "democratizzazione" dell'accesso non può misurarsi solo e soltanto con l'incremento nel numero di visite ma anche con il grado di condivisione dell'esperienza della visita nel contesto sociale di riferimento del singolo fruitore. Infine, una piccola nota al margine che suggerisce il titolo della L'aspetto rivista in cui troviamo il suddetto articolo: Le monde à l'ère de la consumo vitesse. Chiaro è il riferimento alla velocità del cambiamento innescato da fenomeni di trasferimento tecnologico promossi dalla globalizzazione che ha evidenti implicazioni anche sul processo di 38


consumo. In realtà, come abbiamo osservato altrove 7, un discorso attuale sulla gratuità dei musei dovrebbe incentrarsi non tanto sul problema dei prezzi (per quanto abilmente trattato dall'autrice), quanto piuttosto su quello del tempo, parametro divenuto centrale nei processi di scelta individuale. La nuova situazione di distribuzione tra tempo del riposo e tempo del lavoro (denaro) si combina con l'accresciuta produzione di beni, derivandone che la quantità di beni da consumare nell'unità di tempo è sempre maggiore. Ne discende una scarsità del tempo non solo dal lato della produzione, bensì anche dal lato del consumo: aumenta, citando Gershuny8 il "tasso di consumatività", reso possibile con la creazione (invenzione) di nuovi beni e servizi che consentono un risparmio di tempo nel processo stesso del consumo. Se il consumo ideale è quindi ritenuto quello che avviene istantaneamente, la differenza nell'accesso ai musei dovrebbe provenire, pertanto, non dalla possibilità o meno di gratuità, bensì dalla tempistica dei consumi. In altre parole, riteniamo debba porsi il problema di una offerta dal consumo non alienante piuttosto che solo gratuita. Tuttavia e inoltre, politiche tese a migliorare l'accesso, sia mediante gratuità che attraverso migliori servizi alla fruizione che minimizzino il costo opportunità del tempo, non sarebbero comunque in grado di risolvere il trade-off tra fruizione del bene e qualità della fruizione medesima. Se anche immaginassimo che tali politiche avessero effetto, misurato in termini di aumento del numero di visitatori, soprattutto di quelli appartenenti alle classi meno abbienti, difficilmente potremmo supporre che sia stato soddisfatto, in tal modo, l'obiettivo desiderato da un policymaker illuminato. La questione di fondo riguarda il significato stesso di democra- Democrazia zia cu1turale rifiutando l'approccio che ci appare in parte populi- cultuItle sta della Benhamou che la concepisce soprattutto come "conquista del pubblico di renitenti", ma intendendola piuttosto come "un processo dinamico che progressivamente riduca nel tempo gli ostacoli formali e sostanziali alla fruizione dei. beni culturali da parte della collettività tutta", si tratta di decidere essenzialmente i modi e le forme e non tanto la quantità di consumo da assicurare. 39


In altre parole, la nuova sfida per le politiche culturali contemporanee è rappresentata, come abbiamo già riferito, dal problema della fruizione alienante, in presenza della quale il museo, seppur privato di eventuali ostacoli fisici all'entrata, finisce col rappresentare un vacuo contenente di oggetti svuotati di senso, quasi come un centro commerciale in cui i singoli acquisti si perdono nei carrelli deputati alla spesa della settimana. Se il policymaker non considera tale aspetto, allora dobbiamo necessariamente convenire con Jean Claire quando sostiene che "le musée, dans son rapport au temps et à la mort, est un cénotaphe, vide de toutprésence' in cui appunto "le vide s'est fait fascinum, vertige d'une béance infinie dont ilprétendfaire un salut' ossia il museo è divenuto mera vetrina e non è più in grado di generare ricchezza sociale così come immaginava Keynes 9 che l'arte potesse fare.

1 BENHAMOU E, Généraliser la gratuité des musées nationaux? Une mauvaise réponse... à une mauvaise question, «Esprit», Juin 2008. 2 Come è noto, Vickrey tratta il problema della fissazione delle tariffe in condizione di congestione, mentre Hansmann disegna schemi gestionali di imprese non profit, alternativamente rivolte alla massimizzazione dell'attività o della qualità. Rispettivamente, Vici<iv W.S., Congestion theory and transport investment, in «American Economic Review», 1969, 59:25 1-60; HANSMANN H.B., Non profit enterprise in the performing arts, in «BelI Journal of Economics», 1981, 12, 341361. CLEAR J., Mal.aise dans les musées, Flammarion, Paris, 2007. L'autore, con evidente intento provocatorio, ritiene che la gestione dei beni culturali ed artistici sia guidata dalla simonia, dalla vanagloria e dall'accidia. ' SANTAGATA W, La fabbrica della cultura, Il Mulino, Bologna 2007. 5 Di MAIO A., DE SIMONE E., La Gioconda di Leonardo odi Dan Brown? Le politiche del turismo culturale, in «queste istituzioni», n. 146-147, pp. 47-59. 6 MUSGRAVE R.A., Merit Goods, in EATWELL J., MILGATE M., NEWMEN P, (eds.), The New Palgrave's Dictionary ofEconomics, 1987. 7 Di MAIO A., DE SIMONE E., Il consumo dei beni culturali. Alcune questioni teoriche, in CRISTALLO V., GUIDA E., MORONE A., PApnrrE M. (a cura di), Risorse storico artistiche e attivazione territoriale, Atti del convegno, Clean Edizioni, Napoli, 2004. 8 GERSHUNY J., L'innovazione sociale. Tempo, produzione e consumi, Rubbettino, Soveria Mannelli, Roma, 1993. 9 KyiwsJ.M., Art and State, The Listener, 26 august 1936.

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-settembre 2008

dibattito

Cosa possiamo imparare dalla S vez ia* di Bruce Stokes

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ei primi anni novanta, la Svezia ha attraversato la peggiore crisi finanziaria che un Paese industriale ha mai fronteggiato dopo la grande Depressione del 1929. Il collasso del sistema bancario svedese ha dissipato intere fortune, con costi sbalorditivi per i contribuenti, e avrebbe potuto causare senza dubbio una contrazione permanente degli standard di vita dell'intera nazione. "La nostra crisi è stata ben più seria di quanto si è visto fin qui negli Stati Uniti" - ha commentato Hans Soderstrom, professore aggiunto di economia presso la Scuola di Economia di, Stoccolma, riferendosi alla questione americana dei mutui ipotecari subprime. Così, mentre Washington resta a guardare il lento scioglimento di Wall Street, Stoccolma avrebbe molto da insegnare al futuro presidente americano su come gestire lo tsunami bancario. La risposta svedese alla crisi si è caratterizzata in quanto bipartisan, trasparente, ad ampio raggio e, soprattutto, rapida. La lezione principale, secondo Stefan Ingves, capo della Banca Centrale svedese, è che: "Non puoi fare affidamento sul solo settore privato o sul mercato per risolvere problemi sistemici che interessano il sistema bancario". Nel corso della crisi, Ingves era a capo dell'Autorità svedese di supporto alle banche, alla quale era stato affidato il compito di risolvere molti dei casi di prestiti non solvibili.

* What We Can Learn From Sweden, in «NationalJournal.com », June 21st, 2008.

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Come con la crisi americana che negli anni ottanta interessò i Le cause prestiti e i risparmi degli americani, e che oggi investe i prestiti della crisi ipotecari subprime, a scatenare le difficoltà del sistema bancario svedese svedese è stato un processo di deregolazione malamente gestito, per quanto utile e necessario. Il venire meno delle regole del settore finanziario ha portato ad una rapida espansione del credito, seguita da un boom dei prezzi immobiliari, che poi alla fine sono crollati. Negli anni sessanta e settanta, i tassi di interesse svedesi, una volta corretti in base all'inflazione, erano di fatto negativi, ed esistevano limiti di credito. Nondimeno, nel 1985, la Svezia avendo studiato come la derégolazione finanziaria in Gran Bretagna e negli Stati Uniti riusciva a stimolare l'economia - ha deciso di liberalizzare i propri tassi di interesse e limiti di credito. Si è così assistito ad una vera e propria corsa al prestito da parte delle imprese e le famiglie affamate di credito. A quel punto, intravedendo l'opportunità di stimolare le entrate, le banche hanno potuto decidere di assumere nuovi rischi. Originando un boom del credito. I prezzi delle case sono cresciuti più del doppio tra il 1981 ed Il fattore il1991. Gli immobili commerciali hanno seguito la stessa via. ininiobihaze Tuttavia, l'introduzione di una novità normativa in materia fiscale ha fatto sì che i consumatori non potessero più dedurre gli interessi pagati sul debito, finendo col far crescere il costo dei prestiti ipotecari. A causa dell'inflazione in salita e dell'assenza di regolazione dei tassi di interesse, il costo dei prestiti in Svezia è andato alle stelle. Alla fine, il mercato immobiliare ha iniziato la sua discesa. Tra il 1990 ed il 1995, i prezzi degli immobili commerciali sono calati del 42% in termini reali ed i prezzi degli immobili residenziali sono diminuiti del 25%. La gente che aveva fatto ricorso agli immobili come garanzia collaterale per accedere ai prestiti si è così trovata improvvisamente ad essere insolvente. Ed i prestiti concessi dalle banche diventati non più solvibili sono cresciuti come funghi. Ad aggravare i problemi domestici della Svezia sono soprag- ... e altri giunti fattori esterni. Alla fine degli anni novanta, un rallenta- esterni 42


mento complessivo dell'economia - sorto a seguito della riunificazione della Germania e dello shock petrolifero originato dall'invasione irachena del Kuwait - ha spinto la Svezia in una fase direcessione. Con l'indebolimento dell'economia, gli speculatori hanno iniziato a scommettere contro la krona, la moneta svedese. Per mantenere fisso il tasso di cambio, il governo ha continuato ad aumentare i tassi di interesse, cosa che, in un'economia in recessione, si è presto rivelata una strategia controproducente. Alla fine, si è dovuto svalutare la krona. Tale operazione ha posto una sfida alle banche ed alle società svedesi, le quali erano ampiamente ricorse a prestiti in valuta estera e si trovavano a ripagarli con la krona, a quel punto deprezzata. Le prime vittime di una simile compiuta tempesta finanziaria sono stati Forsta Sparbanken e Nordbanken, due delle sei maggiori istituzioni finanziarie svedesi. Dopo il crollo del 1991, nessuna delle due disponeva di capitali sufficienti. Al fine di mantenerle operative, lo Stato si è visto costretto a farsi garantè di un prestito a Forsta, nonché ad assumere il controllo di Nordbanken. Nel giro di un anno, un terzo grande istituto bancario, Banca Gota, si è trovato in difficoltà ed è stato rilevato dal governo. A quel punto, lo Stato si è trovato a controllare il 22% delle azioni dell'intero sistema bancario nazionale. "Se lo Stato non fosse intervenuto - dice Soderstrom - la crisi del sistema bancario avrebbe trascinato l'economia negli abissi". Il governo, inoltre, ha offerto garanzie a tutti i depositanti ed i creditori collocati al centro del sistema bancario, ma non agli stakeholder delle banche. "Le garanzie hanno evitato una crisi finanziaria del sistema, scongiurando un assalto generale agli sportelli (bank run)". Quindi, lo Stato ha identificato gli asset buoni e quelli cattivi posseduti da Banca Gota e da Nordbanken, istituendo entità distinte per gestirli. Il portafoglio dei prestiti validi è stato quindi consolidato all'interno dell'attuale Banca Nordea, che è stata in seguito privatizzata. Le aziende di Stato incaricate di gestire i prestiti insolvibili hanno fornito i capitali ai debitori in difficoltà e, in alcuni casi, ne hanno assunto la nuova gestione. 43


"Abbiamo reso i prestiti nuovamente solvibili, ed i debitori idonei ad accedere a nuovi prestiti" - ha dichiarato Bo Lundgren, ministro delle Finanze durante la crisi. Il governo ha poi rapidamente venduto le azioni non appena sono tornate ad avere valore per il mercato, tenendo solo il 20% di Nordea. Il costo, come detto, è stato sbalorditivo. I contribuenti svede- A quali costi si hanno inizialmente sborsato il 4% del PIL per coprire i prestiti insolvibili. (Per fare le proporzioni, la crisi "dei risparmi e dei prestiti" è costata agli americani una cifra pari al 2,6% del PIL). Il governo, alla fine, ha realizzato un profitto con la privatizzazione degli asset che aveva acquistato. Nondimeno, secondo una stima di Soderstrom, la crisi ha cancellato mille miliardi di krone dai bilanci patrimoniali delle famiglie e delle società, una cifra pari ai due terzi dell'economia svedese di quel periodo. La Svezia ha così affrontato tre anni di recessione, e l'economia non è piui tornata ai livelli medi sui quali era solita collocarsi rispetto agli altri Paesi industriali. Uno studio del 2007 della Federal Reserve Bank di Cleveland ha prestato attenzione alla lezione impartita dal caso svedese. "Esiste un'ampia gamma di eventi che possono scatenare una crisi - si legge nella conclusione del Rapporto - ma i principi generali per risolvere tali crisi sono universali".

Non partigianeria: il battibecco politico ostacola la risoluzione Con quali dei problemi. I conservatori che erano al governo in Svezia all'mi- modalità zio degli anni novanta hanno lavorato fianco a fianco con l'opposizione socialdemocratica; quest'ultima aveva tutto l'interesse a collaborare, se si pensa che aveva governato il Paese proprio negli anni in cui i semi della crisi erano stati piantati. Gli svedesi hanno reso merito ad un tale atteggiamento non partigiano, in quanto ha reso possibile il rapido ristabilimento della fiducia degli investitori nel sistema finanziario nazionale. Tale coordinamento tra le parti è di piui facile attuazione in una società piccola ed omogenea. Del resto, il costo della partigianeria è stato fin troppo evidente in Giappone, negli anni novanta, quando la litigiosità delle parti non ha fatto altro che prolungare le difficoltà del sistema bancario.

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Trasparenza: Stoccolma non ha mai nascosto la portata e la natura dei problemi affrontati dalle banche, anche se una tale trasparenza ha rischiato di soffiare sul fuoco del panico della gente di fronte all'entità della crisi. I prestiti insolvibili sono stati quindi valutati secondo il valore corrente del mercato. La scelta di una valutazione allineata al mercato ha i suoi aspetti negativi, in quanto penalizza chi assume un rischio e premia chi non lo fa. I leader dell'economia - come l'investitore Erik Penser, il quale possedeva le Industrie Nobel - hanno così perduto quasi tutto, perché non è stato dato loro il tempo necessario a ripagare i debiti. Opportunità: il governo svedese si è mosso in fretta per dare garanzie a tutti i depositanti ed i creditori, assumendo, allo stesso tempo, il controllo delle banche in fallimento e dei prestiti andati male. "Se si prova a cavarsela alla bene e meglio - dice Lundgren - si finisce soltanto col prolungare la crisi". I funzionari svedesi, ad ogni modo, ammettono che non è facile decidere che cosa è una banca regolare, chi è un depositante, e chi assume il rischio finale. Sovracapitalizzazione: il governo ha promesso di spendere tutto ciò che ha preso per risolvere la crisi, sia perché i costi non erano prevedibili, sia perché c'era il timore che, chiedendo troppo poco per poi trovarsi ad avere bisogno di altri soldi, si sarebbe scatenato il panico nei mercati finanziari. Un tale impegno senza scadenza predeterminata ha minimizzato l'interferenza legislativa del giorno per giorno nel processo di ristrutturazione del sistema bancario. "È stata una misura di assai ampia fiducia", ricorda Johan Schuck, edito rialista economico del quotidiano svedese Dagens Nyheter. Controllo: lo Stato ha richiesto una quota di controllo degli asset bancari del valore equivalente ai rischi che ha assunto prendendo in gestione i debiti non solvibili. Per poi incassare i profitti con la vendita di tali asset. Questo principio - la socializzazione del controllo è uguale alla socializzazione del rischio - ha fatto sì che solo gli istituti bancari in grave difficoltà finanziaria accettassero il denaro pubblico. Preparazione: la Svezia non aveva un quadro normativo idoneo a gestire le crisi bancarie. Mancava addirittura un'assicura45


zione dei depositi. In tal caso, secondo i funzionari svedesi, è necessario mettere in campo poteri straordinari che anticipino specifici bisogni. "Tutti coloro che devono fronteggiare oggi gli stessi problemi dovrebbero studiare la crisi americana del 1933", consiglia Lundgren. Flessibilità: l'aspetto centrale è che ogni crisi è differente dalle altre. Dice Soderstrom: Occorre saper improvvisare in ogni momento In conclusione, Lundgren osserva che "le banche svedesi hanno appreso una lezione: occorre essere più cauti". Il prossimo presidente degli Stati Uniti può solo sperare che le istituzioni finanziarie americane siano in grado di fare propria la stessa lezione, senza dover sperimentare il trauma economico della Svezia. (traduzione di Claudia Lopedote)

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Il Rapporto Rasmussen: migliore o maggiore regolazione dei mercati finanziari?* Intervista a Poul Rasmussen

I rappresentanti del mondo della finanza hanno dichiarato di condividere il rapporto che lei ha presentato di recente alla Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo, nel quale sollecita una maggiore regolazione dei fondi di investimento e dei capitali di rischio. R.: Se ai settori della finanza stanno bene i nuovi fabbisogni di capitale obbligatori che prima non esistevano, a me fa piacere: si tratta di un riconoscimento inedito da parte loro. Allo stesso modo, se si adeguano ai requisiti di maggiore trasparenza ed apertura rispetto alle proprie strategie di investimento, ai sistemi ed alle politiche di remunerazione, nonché in relazione a stock options e bonus di cui usufruiscono, per me va decisamente bene, dal momento che non hanno mai fatto niente di simile nel passato. Se, ancora, essi accolgono il diritto dei lavoratori di essere consultati ed informati prima che un capitale di rischio rilevi ed acquisti una società, per me va bene: fino ad oggi, non sono mai riusciti a mandarlo giii. Va bene che il mondo della finanza dimostri un simile atteggiamento costruttivo, ma lasciate che vi ricordi che fino ad ora, i suoi soggetti sono stati contrari ad ogni forma di regolazione. La controproposta che hanno sempre avanzato è stata di stilare un codice di condotta su base volontaria. Bene, allora, se gli operatori della City di Londra finalmente riconoscono che abbiamo bisogno di regolare tutti i settori della finanza, compresi i fondi di investimento e i capitali di rischio. Negli Stati Uniti, quando alle banche fu imposto di dare accesso alle proprie strategie di investimento, sembrò che a beneficiarne maggiormente fiuroPoul N. Rasmussen, ex primo ministro danese dal 1993 al 2001, è Presidente del Partito Socialista Europeo. Come membro del Parlamento europeo, Rasmussen ha presentato un importante ed articolato Rapporto sulla regolazione dei mercati finanziari (consultabile al seguente link: http://www.pes.org/downloads/Hedge_Funds.pdf), adottato dal Parlamento europeo nel corso della seduta dello scorso 23 settembre.

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no i competitori delle banche, non gli investitori. Esiste un rischio simile per la finanza a fronte delle nuove regole di trasparenza? R.: Questa è una argomentazione classica. L'essenza di una concorrenza leale e solida è che tra i diversi attori deve esserci quanta più parità, equilibrio, in termini di informazione posseduta. Il Premio Nobel Joseph Stiglitz ha sviluppato una teoria dell'asimmetria informativa tra gli attori di mercato. È questo il più grande problema dei moderni mercati finanziari, laddove più ineguale è la distribuzione di informazione, più alti sono i costi, le inefficienze, i deficit di competitività del mercato. Pertanto, mi piacerebbe rigirare l'argomentazione proposta: quando i soggetti della finanza affermano che dare informazioni sulle strategie di investimento è un'operazione troppo costosa, o che la concorrenza potrebbe trarre beneficio da tale informazione, ciò accade perché questi soggetti, in realtà, a tutt'oggi guadagnano troppo in un mercato che è inefficiente. Noi politici, invece, stiamo cercando di sostenere un mercato efficiente, che deve basarsi sulla massima trasparenza possibile. La trasparenza e la simmetria informativa, infatti, sono le chiavi di volta per una migliore competitività e costi inferiori, e per contrastare gli abusi di mercato. Se ce ne sono, quali sono, secondo lei, lefirnzioni utili che devono soddisfare i fondi di investimento ed i capitali di rischio? R.: In ogni ambito, ci sono i bravi ed i cattivi ragazzi. È per questo che esiste la regolazione. I bravi ragazzi non avranno nulla da temere, ma i cattivi ragazzi sì, eccome! So bene che alcuni fondi di investimento contribuiscono all'efficienza del mercato, all'allocazione delle agevolazioni creditizie, e consentono una migliore corrispondenza tra tassi di cambio da una parte e rafforzamento della concorrenzialità dell'economia reale dall'altro. Nondimeno, so anche che i fondi di investimento possono creare problemi, per esempio in quanto mercati subprime molto dinamici, o quando speculano a spese della Deutsche Bòrse. So di alcune società di private equity molto aggressive nei confronti delle società private come quelle di telecomunicazione. Si potrebbero citare molti altri esempi nell'ambito dell'industria alimentare e di quella edilizia. È soddisfatto del voto della Commissione sui suo Rapporto? R.: Sarò franco: si tratta di un risultato di compromesso. Alla fine dei giochi, abbiamo ottenuto circa il 55-65% di quanto avevamo proposto in 48


origine. Non è un cattivo risultato, è la politica: prendi quello che puoi avere... È certo che, per i Socialdemocratici europei, la sfida resta sul tavolo. Il Rapporto da noi stilato, anche se fosse implementato al 100%, non garantirebbe che ogni futura crisi finanziaria sarebbe scongiurata. Esso è un primo passo. Per la prima volta, abbiamo ottenuto in Parlamento una larga maggioranza favorevole ai principi fondamentali da noi enunciati: 1) "La regolazione per principi (principle-based regulation) è un approccio appropriato alla regolazione dei mercati finanziari, in quanto più capace di stare al passo con gli sviluppi e le evoluzioni dei mercati stessi"; 2) "I fabbisogni di capitale dovrebbero essere resi obbligatori per tutte le istituzioni finanziarie e dovrebbero riflettere i rischi derivanti dal tipo di commercio, esposizione e controllo del rischio. Anche gli orizzonti di liquidità di lungo periodo dovrebbero essere presi in considerazione". In altre parole, sono principi che si applicano ai fondi di investimento come anche ai capitali di rischio. Adesso possiamo dire di essere in un contesto migliore. Non certo ottimale, poiché non sarà risolta ogni cosa, ma è comunque un primo passo importante.

Che cosa si aspetta adesso dalla Commissione? R.: Mi aspetto una risposta piena, seria, responsabile, che copra tutti i profili evidenziati nel nostro Rapporto. La Commissione dovrà farlo, come ha fatto in passato: si è creato un precedente legale. Mi aspetto semplicemente (altrettanto, credo, i miei colleghi del Partito popolare europeo e di altri gruppi politici) che il Commissario McCreevy risponda punto per punto in maniera costruttiva, così da rendere manifesto che c'è rispetto per il Parlamento europeo. Nel suo Rapporto e nella legislazione comunitaria ci sono numerosi rifirimenti alle agenzie di rating del credito. Sono davvero loro i responsabili della crisi sub-prime? R.: Esistono solo tre agenzie di rating del credito, sui pianeta: Moody's, Fitch, Standard&Poors, che coprono oltre il 90% delle attività di rating del credito. Questa non è vera competitività; il rischio di conflitto di interesse in tal senso cresce. C'è bisogno di maggiore concorrenzialità, di un tipo di supervisione permanente su quello che queste agenzie fanno, di qualcuno che sia capace di intervenire e di dire: "questo non è accettabile; questo non corrisponde al mondo reale". 49


Crede che McCreevy si darà da fare, alla fine? R.: Questo è un richiamo proprio a McCreevy, il quale, per troppo tempo, si è limitato a consultare soio il mondo dell'industria su che cosa fare, senza mai rivolgersi ad altri. Ecco perché diciamo: questa è una relazione bilanciata, che si basa su un compromesso tra il gruppo socialista, il centro-destra ed i liberali. Dovrà prenderlo sul serio. Dovrà formulare proposte di regolazione. Anche se non gli piace, dovrà farlo. Per prevenire future crisi finanziarie, più d'uno propone di affidare alle banche centrali il compito di prevenire altre bolle finanziarie, inserendo ufficialmente tale missione nei propri statuti. E d'accordo? R.: L'essenziale con questa missione è che sia realistica. Se le banche centrali devono essere investite di questa responsabilità - ed io credo che ciò rientri tra le soluzioni di cui abbiamo bisogno - dovremo assicurarci che esse ricevano le informazioni minime necessarie. Anche questo deve essere obbligatorio. Quello al quale abbiamo assistito nel corso di questa crisi finanziaria è che le commissioni del livello 3 del processo Lamfalussy ed altri meccanismi istituzionali a nostra disposizione non hanno funzionato e non funzionano. Le banche centrali hanno tenuto le informazioni per loro stesse, ed il flusso di scambio informativo - almeno quello delle informazioni sufficientemente chiare, veloci e rilevanti - è stato assai ridotto. Questa missione contiene buone idee, ma bisogna farle funzionare concretamente. Il solo modo per farlo, è inserire tale missione in un quadro di carattere obbligatorio, altrimenti non funzionerà. Abbiamo anche bisogno di rinforzare il ruolo della Banca Centrale Europea quale importante attore nel processo. Potremmo forse immaginare un sistema in cui la BCE riceva sempre copia delle informazioni scambiate e messe in circolo. Quindi, non basta chiedere alle banche di mettere a disposizione una maggiore quantità di informazioni, occorre renderlo obbligatorio. Un altro punto attiene il comune campo di gioco (levelplayingfield) nel mercato e le regole del gioco. Non credo che si possa evitare di incorrere in future bolle finanziarie se non si promuove un cambiamento nei comportamenti dei principali attori dei mercati finanziari. Ciò significa che tutti i giocatori devono comportarsi in maniera più responsabile: i broker nelle banche di investimento, gli assicuratori, le agenzie di rating del credito, gli operatori dei fondi di investimento e dei capitali di rischio. Non possiamo trascinare oltre questo problema: ogni volta che, storica50


mente, si hanno bassi tassi di interesse e condizioni favorevoli, di credito e liquidità, ci sono le basi per una crescita solida. Allo stesso tempo, però, si prepara la strada per una nuova bolla finanziaria. Tutto è iniziato con la bolla di Internet, nel 2001. Se si guarda allo sviluppo dei derivati del credito dal 2002 in poi, si vede un'esplosione che nello scorso anno è stata pari a circa 8-9 volte il PIL mondiale. Quando si è in una fase di ribasso come quella attuale, è necessario impiegare il tempo per mettere a punto una migliore regolazione, per incoraggiare comportamenti migliori per il futuro.

fi-

Che cosa dice del Regno Unito, che è t'ra i maggiori attori del mercato nanziario e tradizionalmente un sostenitore delle politiche del libero mercato? La spinta dell'Unione Europea per una maggiore regolazione potrà allontanare ulteriormente il Regno Unito dal continente che, invece, sembra più propenso alla regolazione?

R.: Onestamente, penso che il cambiamento è in atto anche lì. Ho detto spesso che non si tratta affatto di creare ostacoli e complicazioni per la City di Londra. Non vogliamo minare la City, volgiamo migliorarne il funzionamento. Quindi, in fin dei conti, sono in gioco gli interessi di lungo periodo della stessa City, in termini di miglioramento dei comportamenti di tutti gli attori, non solo i bravi ragazzi, ma anche tutti gli altri. Ed è sempre nell'interesse anche della City che sia fatto tutto ciò che è possibile fare per evitare bolle finanziarie quale quella che è in atto. Migliore o maggiore regolazione?

R.: Non necessariamente tanta regolazione in più. Per i capitali di rischio e per i fondi di investimento, si tratterebbe di maggiore regolazione, senza dubbio, poiché non ne hanno mai realmente avuta. (traduzione di Claudia Lopedote)

Rasmussen: On a mission to reguLate hedgefinds » in EurActive.com , Eu News, Policy Positions & Lu Actors on!ine, September 16th, 2008.

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dossier

Giustizia internazionale?

A leggere le cronache di luglio-agosto 2008 potremmo definire quella trascorsa 'Testate nera dei diritti umani ' L'elenco delle violazioni sarebbe lungo se non ci si limitasse soltanto ai casi più eclatanti. Ne vediamo qualcuno. Tralasciando, non senza prima almeno menzionarle, le più recenti crisi umanitarie (prima quella del Congo), poichè interessano ora, più che la giustizia, la "polizia" internazionale. Ex-Unione Sovietica. Come noto, il 12 agosto, Georgia e Russia hanno accettato il cessate il fiwco provvisorio promosso dalla Francia/Unione europea. Nei cinque giorni precedenti, gli scontri nelle regioni contese dell'Ossezia del Sud e dell'A bkhazia e all'interno della Georgia avevano causato migliaia di morti e feriti tra la popòlazione civile e costretto alla figa decine di migliaia di persone. Sono stati segnalati bombardamenti contro obiettivi non militari ed edifici civili. L 18 agosto, leforze georgiane hanno attaccato Tskhinvali, la capitale dell'Ossezia del Sud, bombardandola per 14 ore. Il giorno dopo le forze russe hanno lanciato una serie di attacchi contro obiettivi in Georgia, in particolare nella città di Gori. Dato il livello di distruzione e l'alto numero di perdite tra la popolazione civile è inevitabile pensare che vi siano stati attacchi indiscriminati, sproporzionati e deliberati contro obiettivi civili. Si tratta di crimini di guerra, di reati, quindi, che ri53


cadrebbero sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale, ai sensi dell'art. 12 dello Statuto della Corte stessa (Statuto di Roma). La Georgia ha ratificato lo Statuto di Roma il 5 settembre 2003, la Russia lo ha firmato il 13 settembre 2000. Sebbene non abbia ratfìcato lo Statuto di Roma, il governo russo è obbligato a non compiere azioni contrarie ai suoi obiettivi e scopi, come ad esempio commettere crimini di guerra o crimini contro l'umanità. Cina. I Giochi olimpici di Pechino, come era facilmente prevedibile, hanno visto la Cina più preoccupata dell'immagine piuttosto che della sostanza: mentre il mondo assisteva alle vittorie degli atleti il governo cinese ha continuato a perseguitare e punire attivisti e giornalisti e ad effettuare sfratti forzati. Con la complicità, si può affermare, dello stesso Comitato Olimpico Internazionale (Cio), visto che per il suo presidente, Jacques Rogge: "Questi sono stati Giochi davvero eccezionali" A meno che non si voglia leggere dell'ironia, improbabile, nella sua affermazione a chiusura dei Giochi. La stessa che devono avere avuto le autorità cinesi nel rigettare praticamente tutte le richieste di manifestare nelle apposite "zone delle proteste" istituite nei parchi pubblici e, anzi, perseguitando chi le aveva avanzate, come nel caso di due anziane donne, Wu Dianyuan (79 anni) e WanXiuying (77), accusate di "disturbo all'o rdine pubblico" e condannate a un anno di rieducazione attraverso il lavoro. Serbia e Sudan. Tra le notizie (quasi) buone per la giustizia internazionale vi sono state quelle della richiesta, a metà luglio, da parte del procuratore capo del Tribunale penale internazionale, di un mandato d'arresto nei confronti del presidente sudanese al-Bashir e l'arresto, qualche giorno dopo, dell'ex presidente della Repubblica serba, latitante per oltre 12 anni, Radovan Karadzic. (Per capire di cosa parliamo: le accuse contro Karadzic comprendono l'assassinio di circa 8000 uomini, adulti e ragazzi, avvenuto a Srebrenica nel 1995. È inoltre indiziato di genocidio, persecuzione e altri crimini commessi dalle forze sotto il suo comando, tra cui uccisioni, arresti e detenzioni di migliaia di persone non serbe. Nei centri di detenzione istituiti dalle forze serbo bosniache, i soldati sotto il suo comando si sarebbero resi responsabili di maltrattamenti, torture, stupri e uccisioni di civili non serbi. Karadzic è indiziato di crimini di guerra per l'assedio di Sarajevo, i bombardamenti sulla città e le migliaia di morti e feriti che ne derivarono). L'ex presidente serbo è stato consegnato al Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia, il Tribunale istituito dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993 per indagare e perseguire crimini di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità commessi nell'ex Jugoslavia a partire dal 1991 (ne ha parlatoGianluca Polverari, La Corte Penale Internazionale su queste istituzioni, n. 124, ottobre-dicembre 2001). La 54


buona notizia de/suo arresto è qifuscata dal fatto che, nonostante alcune persone incriminate dal Tn bunale fossero ancora latitanti, nel 2004 il Consiglio di sicurezza ha chiesto al Tribunale di completare il suo lavoro entro il 2010, una scadenza arbitraria, perché, come ricordato da Amnesty International: "sui 161 casi di persone incriminate dal Tribunale, 115 sono chiusi ma ci sono procedimenti in corso riguardanti gli altri 46 imputati. Due di essi, Ratko Mladic e Goran Hadzic, sono ancora latitanti. Il Tribunale deve avere il tempo necessario per completare tutti i procedimenti" Il Tribunale, quindi, deve avere risorse e tempo necessari al suo lavoro, poiché rischia di non terminare i processi e che questi vengano deferiti ai tribunali nazionali in contesti in cui non si può non dubitare della qualità della giustizia, della capacità di proteggere vittime e testimoni così come di rintracciare le prove. È ciò che avviene ancora nella maggior parte dei Paesi dell'ex Jugoslavia per la mancanza di volontà politica, e per i frequenti tentativi di ostruzionismo che continuano a bloccare le indagini e i processi nei confronti dei criminali di guerra. Quindi, l'arresto di Radovan Karadzic è "una grande vittoria' ma c'è il rischio che tutto possa vanficarsi se la competenza della sua condanna dovesse essere tolta al Tribunale internazionale. Un'ombra analoga grava sulla richiesta di arresto del presidente sudanese. Dopo due settimane da questa, infatti, l'Organizzazione della conferenza islamica, la Lega degli Stati arabi e l'Unione africana hanno sollecitato il Consiglio di sicurezza a votare il differimento di 12 mesi, sulla base dell'art. 16 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale. La richiesta di dfferimento potrebbe riguardare il caso specifico del presidente al-Bashir o estendersi a tutte le indagini condotte dall'Icc in Dafir. Nonostante la Camera per le istanze preliminari debba ancora esaminare la richiesta d'arresto del presidente al-Bashir, il Consiglio di Sicurezza ha già ricevuto la proposta di applicare l'art. 16 dello Statuto di Roma, in concomitanza col rinnovo del mandato dell'operazione ibrida Unione africana-Onu in Darfiir (Unamid), scaduto il 31 luglio. Il differimento di 12 mesi delle indagini e dei processi potrebbe avere un impatto disastroso sull'azione dell'Icc e costituire un precedente per ogni situazione su cui ilprocuratore stia svolgendo indagini. Stati Uniti. Il 7 agosto, dopo oltre cinque anni di detenzione illegale a Guant4namo, è stato emesso un verdetto di colpevolezza nei confronti di Sa/im Hamdan, sulla base di procedure non in linea con gli standard internazionali sui processi equi. Si tratta di un cittadino yemenita, giudicato colpevole da sei giurati militari per "aver fornito sostegno materiale al terrorismo ' mentre è stato assolto per l'imputazione di "cospirazione' Il Pentagono ha fatto sapere che, a prescindere dal verdetto, Hamdan rimarrà in detenzione a tempo indeterminato in quanto "combattente 55


nemico' Più di recente, 118 ottobre, la Corte del Distretto di Columbia ha ordinato invece, il rilascio di 17 niguri (una minoranza che vive in Cina e perseguitata dal governo cinese) detenuti a Guantanamo in attesa dell'esame dei loro casi. Una sentenza importante, ci si augura possa essere seguita da altre simili. Ha sicuramente ragione Aryeh Neier ad affermare nel suo articolo sull'Herald Tribune International Justice: fifteen years of progress (di cui di seguito presentiamo la traduzione) che negli ultimi 15 anni "la giustizia internazionale si è sviluppata tanto epiù velocemente che in qualsiasi altra epoca" ma diversi sono ancora gli ostacoli sulla sua strada visto che non è ancora "un fattore indzpendente da... Paesi così potenti come gli Stati Uniti, la Russia o la Cina" e che, quindi, ad esempio "non c'è nessuna prospettiva di accusa per i crimini russi in Cecenia; per le torture americane ai detenuti diAbu Graib, Bagram e Guantanamo" L"era del terrore' quindi, trionferà su quella dei diritti umani? Carla Bassu, che qui presenta Lo stato dell'arte della lotta al terrorism negli Stati Uniti se lo chiede e come noi, guardando alle elezioni americane, aspetta di vedere se "le speranze, gli impegni e i venti di cambiamento resteranno solo promesse elettorali' (S. A.)

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Lo stato dell'arte della lotta al terrorismo negli Stati Uniti di Carla Bassu

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1 tempo passa ma l'emergenza terrorismo continua ad aleggiare minacciosa sulle democrazie occidentali. Sono passati sette anni dall' 11 settembre ma ancora la politica internazionale, e non solo, è profondamente influenzata dall'incombere di un'emergenza che pare avere ormai assunto i caratteri di una crisi perpetua. L'infiltrazione invasiva delle tematiche di sicurezza nazionale nelle scelte strategiche dei decisori pubblici è ben rappresentata dal ruolo centrale occupato dal tema nella agguerrita campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti. L'approccio alla questione costituisce infatti la fondamentale linea di demarcazione della visione politica dei candidati. In sostanza, la caratterizzazione prospettica della prossima presidenza USA viene calibrata in virtù della posizione dichiarata in materia di terrorismo: inversione di rotta in senso garantista - ma declinata in diverse gradazioni - per i candidati alle primarie democratiche, continuità con la linea Bush sul fronte repubblicano. Il clima generale è certamente cambiato e i toni allarmistici sull'imminenza del pericolo si sono lievemente smorzati, ma la protezione della pubblica sicurezza messa a repentaglio dai nemici della Nazione resta un tema clou nel dibattito istituzionale. L'ultimo tassello, in ordine di tempo, inserito nella costruzione stratificata della disciplina antiterroristica negli USA è rappresentato dalla sentenza deI 12 giugno 2008, con cui la Corte suprema ribadisce la violazione dei principi costituzionali del due process oflaw, operata dalla normativa antiterrorismo.

Lautrice è dottore di ricerca in Diritto pubblico comparato nell'Università di Siena. 57


IL BRACCIO DI FERRO TRA ESECUTIVO E GIUDIzIiuO E IL RUOLO DEFILATO DEL CONGRESSO

Per la terza volta in quattro anni la Corte suprema si è pronunciata affermando in capo agli enemy aliens detenuti a Guantanamo, il diritto a ricorrere ai tribunali statunitensi contro la loro detenzione. Si ricorda che gli enemy aliens sono una categoria ibrida che formalmente permette di scostarsi da quella classica di prigionieri di guerra cui fa riferimento la Convenzione di Ginevra che, infatti, non viene applicata ai sospettati di terrorismo classificati ai sensi del Patriot Act. Secondo quanto disposto dal Presidential Military Order, emesso da Presidente Bush nel novembre 2001, chiunque venga unilateralmente indicato dal Capo dell'Esecutivo come enemy alien sarà soggetto a un trattamento speciale che prevede, tra l'altro, la mancata applicazione dell'intero apparato di garanzie processuali previsto dalla Costituzione'; per questo motivo si parla, ormai diffusamente, di Guantanamo come di un "legai biack hole"2 Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito, negli Stati Uniti ma non solo, a una contrapposizione differita ma costante tra potere esecutivo e giudiziario che in un'ottica di osservazione a lungo termine mette in luce la vera natura delle relazioni tra poteri in un contesto a separazione rigida quale quello statunitense svelando, forse paradossalmente, un meccanismo ancora coerente con il disegno dei padri costituenti. Contestualmente all'assunzione dei pieni poteri, nel 2002 3 l'Esecutivo ha acquisito una posizione di netto predominio nella gestione della lotta al terrorismo e, a dimostrazione di ciò, basti segnalare la lunga serie di executive orders, atti aventi forza di legge, emessi dal Presidente su delega congressuale in situazioni ritenute particolarmente delicate 4 . Tale realtà corrisponde pienamente alla tendenza caratterizzante gli stati di crisi, che vede la prevalenza della figura del Presidente, giudicata più adatta ad agire con forza e tempestività per ristabilire nel tempo più breve possibile lo status quo ante. Certamente però le ragioni della tempestività non devono essere privilegiate al punto da comportare una lesione delle sfere di competenza spettanti ai diversi organi istituzionali, né tantomeno devono manifestarsi in una eccessiva ingerenza nella sfera personale dei singoli. Proprio a questo fine è stata prevista la presenza di correttivi predisposti appositamente al fine di scongiurare l'eventualità dell'abuso derivante da un eccesso di potere esecutivo. .

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È importante sottolineare come dopo 1' 11 settembre tutte le procedure sono state attentamente rispettate e l'azione del Presidente è stata ritualmente autorizzata dal Parlamento e sostenuta dall'opinione pubblica, circostanza che spiega la totale assenza di contrapposizione tra poteri. È evidente, tuttavia, che il Congresso abbia assunto per un lungo periodo, un atteggiamento defilato lasciando di fatto libertà di azione alle strategie presidenziali. Nel 2005 la Camera, chiamata a rinnovare alcune disposizioni del Patriot Act, destinate a scadere alla fine dell'anno, approva con larga maggioranza il rinnovo della legge ma si registra l'intervento di alcuni esponenti democratici che sollevano perplessità in ordine alla legittimità costituzionale di alcune disposizioni, giudicate contrastanti con i principi fondamentali della politicalfreedom, del due process e dell'equa1 treatment, che costituiscono la base fondante il costituzionalismo statunitense 5 . Una volta passata al Senato, però, la legge viene sottoposta a un'analisi minuziosa: le singole disposizioni sono sottoposte a esame con particolare riferimento all'impatto delle stesse sui diritti individuali e diventano oggetto di un acceso dibattito che coinvolge tutti i parlamentari e si protrae per mesi 6 Da questo momento in avanti, il percorso parlamentare della normativa in materia di terrorismo si presenta accidentato e ostacolato dai rappresentanti di opposizione che dimostrano di recepire il mutato clima politico e l'umore di un elettorato che progressivamente prende coscienza della portata invasiva della legislazione anti terrorismo. La prima vera presa di posizione del Parlamento rispetto ai contenuti della legislazione antiterrorismo, e del Patriot Act in particolare, si ha all'indomani delle elezioni di mid-term del 7 novembre 2006. Il voto capovolge la maggioranza in seno alla Camera dei rappresentanti, che è ora a prevalenza democratica e, sotto la guida della Speaker Nancy Pelosi, chiede costantemente conto alla Presidenza dell'operato svolto nelle campagne militari all'estero e delle conseguenze dell'attuazione del pacchetto anti terrorismo sul fronte interno. Il ruolo di maggiore influenza nella determinazione del quadro strategico contro il terrorismo è svolto però senza alcun dubbio dalla Corte suprema che si erge a emblema dei checks and balances intervenendo ripetutamente, ma con alterni risultati, a difesa dei principi costituzionali toccati dalle misure antiterrorismo. .

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IL PERCORSO DELLA CORTE SuPREIvIA A TUTELA DEL DUE PROCESS

Come già ricordato, nel giugno 2004 la Corte ha sancito in maniera formalmente inequivocabile il diritto alla difesa per americani e stranieri, stabilendo che ogni individuo, anche se detenuto per ragioni di terrorismo, a prescindere dalla nazionalità, possa contestare la legalità della sua detenzione davanti a un tribunale degli Stati Uniti 7 . Le pronunce non hanno però portato a una pronta risoluzione della questione che si è arenata nelle corti federali ordinarie: le decisioni in merito alle istanze diiiberazione si sono infatti susseguite contraddittorie, senza portare a conseguenze risolutive per gli appellanti 8 Nel frattempo la condanna del regime detentivo applicato a Guantanamo si estende a macchia d'olio e il 16 febbraio 2006 anche l'allora Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, chiede la tempestiva chiusura del carcere americano a Cuba. Annan fa riferimento al rapporto redatto da cinque osservatori indipendenti che denunciano il ricorso eccessivo alla violenza e l'applicazione di misure equivalenti alla tortura, chiedendo agli Stati Uniti di processare tutti i prigionieri davanti a un tribunale indipendente e competente, oppure di rilasciarli senza esitazioni. Il dato più eclatante in questa vicenda è che alla richiesta si sono associate potenze come la Germania e, soprattutto alleati degli Stati Uniti quali la fedele Gran Bretagna e la stessa Italia. Ciò rende bene l'idea dei grado di intollerabilità raggiunto. Nel frattempo a Guantanamo si muore: solo nel giugno 2006 si registrano tre misteriosi suicidi anche se, secondo alcuni, i detenuti sarebbero in realtà venuti a mancare in conseguenza di interrogatori cosidetti "speciali". Una tale ipotesi fino a pochi anni fa sarebbe stata considerata alla stregua di uno scenario fantapolitico, adatto più che altro a una sceneggiatura di B movie e del tutto inverosimile come realtà di cronaca. Oggi non è più così: l'avvicendarsi dopo l'i 1 settembre di situazioni e azioni prima inimmaginabili e il progressivo insinuarsi della violenza nella politica degli Stati hanno portato, tra le molte conseguenze, anche a una graduale diminuzione dell'incredulità provata di fronte a fatti inconcepibili quali gli abusi terribili compiuti nel carcere iracheno di Abu Grahib 9 Nel giugno 2006, la Corte suprema si esprime con un'altra sentenza, Hamden v. Rumsfeld, con la quale ribadisce l'illegimità delle corti speciali militari e riafferma il diritto al due process per i detenuti a Guantanamo. Particolarmente significative sono le posizioni espresse dal giudice John .

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Paul Stevens, secondo il quale "l'istituzione di un processo da parte di una commissione militare solleva dubbi del più alto livello sulla separazione dei poteri", e dal giudice Kennedy, che ritiene che "la concentrazione del potere nelle mani dell'Esecutivo espone la libertà personale al pericolo dell'azione arbitraria dei pubblici ufficiali, un'incursione che la separazione costituzionale dei poteri in un triplice sistema è disegnata proprio per evitare". Anche in questo caso la decisione è presa a maggioranza e il pensiero dei dissenzienti è ben riassunto nell'opinione del giudice Thomas che ritiene "quella della maggioranza una decisione pericolosa, che danneggia gravemente la capacità del Presidente di affrontare e sconfiggere un nemico nuovo e mortale"bo. L'Esecutivo tuttavia non si arrende alla pacifica accettazione di quanto deciso dalla Corte suprema ed estrae dal cilindro l'ennesima risorsa che consente di aggirare l'ostacolo del giudiziario: Bush si rivolge direttamente ai rappresentanti repubblicani al Congresso (allora ancora in maggioranza) chiedendo loro il mandato esplicito di far processare i detenuti di Guantanamo solo da corti militari. Il frutto di questa operazione è il Military Commissions Act che impedisce ai detenuti sospettati di terrorismo il ricorso alle corti federali per contestare la reclusione". La legge, promulgata dal Presidente Bush il 17 ottobre 2006, determina in sostanza la non applicazione di quanto disposto nella sentenza della Corte suprema, perché prevede la predisposizione di processi militari consentendo alla Cia di mantenere prigioni segrete e di utilizzare dure pratiche di interrogatorio. È vero che il Military Commissions Act - dispone che i detenuti non possano essere sottoposti a trattamenti "crudeli e inumani" e a gravi abusi quali "violenze carnali e torture", ma nel contempo nega loro il diritto all'assistenza legale ed estende in modo significativo le prove ritenute ammissibili. Nello specifico, contrariamente a quanto avviene nelle cause di fronte ai tribunali ordinari, le commissioni militari potranno considerare anche le testimonianze rese non in aula, se il giudice ritiene che siano attendibili e utili per il processo. Al Presidente è conferita la prerogativa di "interpretare il significato e l'applicazione" delle convenzioni internazionali, compresa quella di Ginevra, ed è possibile che sia autorizzato il ricorso a metodi di interrogatorio più "aggressivi" se ritenuto necessario. I processi di fronte alle corti militari devono essere "giusti, legali e necessari", tuttavia, come già evidenziato, gli imputati sono privati del diritto di appellarsi alle norme dell'Habeas Corpus per contestare la propria detenzione come "illegittima". 61


Alla luce delle vicende illustrate fino a ora, si ritiene di poter affermare che il ruolo della Corte suprema assume valore soprattutto da un punto di vista politico e istituzionale, se considerato in una prospettiva di lungo periodo, perché solo adottando un'ottica di estrema lungimiranza si può comprendere la posizione chiave occupata dalla Corte suprema negli Stati Uniti. La Corte è il perno attorno al quale ruota l'intero arco costituzionale che su di essa esercita pressioni forti, determinando un andamento ciclico di prevalenza di un potere sull'altro: l'esecutivo insiste fino a trovare la resistenza e la controspinta del giudiziario, che ha il compito di tenere il sistema in equilibrio. LA SENTENZA BOUMEDIENE ET AL. V BUSH: DESERTO?

UN ALTRO GRIDO NEL

1112 giugno 2008, in merito a un certiorari della Corte d'appello distrettuale del Columbia Circuit, la Corte suprema - come già ricordato si pronuncia ancora una volta (si ricordano le tre sentenze sul caso Guantanamo del giugno 2004 e la decisione del 2006), a condanna dell'azione governativa nell'attuazione delle strategie antiterrorismo 12 In realtà la Corte non fa che ripetersi, riconoscendo il diritto costituzionale dei detenuti nel campo di prigionia di Guantanamo di ricorrere nei tribunali ordinari americani contro la loro detenzione. Nessuna variazione nemmeno per quanto riguarda la calibratura dei consensi che mette in evidenza una netta spaccatura interna. La sentenza è infatti decisa con la maggioranza minima di cinque a quattro. Ma questa volta qualcosa cambierà? Come al solito la sentenza è stata accolta da un tripudio di soddisfazione dai paladini dei diritti umani e dalla stampa internazionale ma cosa fa presagire che stavolta la pronuncia della Corte seguirà un tragitto diverso dalle precedenti, riuscendo ad affermarsi in sede processuale e tradursi nell'effettivo riconoscimento dei diritti individuali contro l'ingerenza dell'Esecutivo? Cosa fa pensare che con questa sentenza la Corte si sia imposta nella battaglia determinante per la vittoria della guerra? In realtà una ragione per credere che la decisione dei giudici supremi subirà un corso differente rispetto ai casi precedenti c'è e si può esprimere in due parole: elezioni presidenziali. Non c'è alcun dubbio, infatti, che qualunque sia l'esito della lunghissima campagna elettorale che porterà alla proclamazione del nuovo Co.

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mandante in Capo degli Stati Uniti, si produrrà una rottura con l'Amministrazione precedente. Anche nel caso in cui il repubblicano McCain uscisse vincitore dall'agguerrito agone elettorale, difficilmente questi sarà dotato di forza politica sufficiente a imporre il mantenimento di una fedele linea di continuità con la politica di G.W. Bush perché gli elementi contestuali sono cambiati. Alla luce dei risultati ottenuti dalla war on terror di Bush Jr., nemmeno i più conservatori sarebbero favorevoli a proseguire sulla via dell'intransigenza più assoluta, né sul fronte interno che all'estero, per non menzionare l'influenza del clima internazionale, sempre più restio ad assecondare l'aggressività delle politiche USA. Inutile dire che il cambiamento sarebbe ancora più eclatante se la sfida fosse vinta dalla rivelazione Barack Obama, il "nuovo che avanza" che in campagna elettorale ha posto il completo ridimensionamento della lotta antiterrorismo tra le indiscusse priorità per il nuovo Presidente. Non ci resta che aspettare, dunque, per vedere se davvero l'era del terrore che trionfa sui diritti umani si è conclusa o se le speranze, gli impegni e i venti di cambiamento resteranno solo promesse elettorali. Anche per quanto riguarda il fronte ultra-statale la situazione è tutt'altro che rosea. Come evidenziato dall'interessante articolo che si può leggere di seguito, con cui Aryeh Neier - sull'Herald Tribune - fa il punto della situazione della giustizia internazionale, gli sforzi dei tribunali penali internazionali di assicurare alla giustizia soggetti responsabili della violazione dei diritti umani e colpevoli di crimini contro l'umanità non sempre vanno a buon fine. Le difficoltà principali incontrate dagli organi internazionali sono rappresentate dal muro che si frappone tra l'affermazione formale dell'inviolabilità di principi e valori riconosciuti universalmente e l'effettività della sanzione comminata a chi si renda responsabile della lesione degli stessi. Si tratta di un salto di qualità difficile ma indispensabile per imprimere l'impulso utile a un'inversione di rotta nel panorama politico-istituzionale mondiale, che lasci indietro le ragioni della paura a favore di uno Stato di diritto troppo spesso vilipeso.

I Nell'ordinanza vengono fissati i parametri in base ai quali il Presidente opera tale qualifica, stabilendo personalmente, caso per caso, lo status e la classificazione dei sospettati: "è soggetto

alla presente ordinanza chi non è in possesso di passaporto USA e per il quale vi siano ragioni per ritenere che: a) sia o sia stato membro dell'organizzazione denominata 'Al-Qaida'; b) 63


abbia comunque partecipato, aiutato, sostenuto (o anche semplicemente progettato di commettere) atti di terrorismo internazionale idonei a colpire cittadini americani, ovvero gli interessi economici e politici del Paese, o la sua sicurezza nazionale o la sua politica estera; c) abbia consapevolmente offerto rifugio o si sia reso complice di uno o più individui di cui ai punti a) e b)' 2 Questa definizione è stata utilizzata per la prima volta da un tribunale britannico, nella

sentenza del caso Abbasi 6 Anor v. Secy of State ofForeign & Commowealth Affairs, EWCA Civ. 1598, paragrafo 64, Uk Sup. Ct. Judicature, CA, novembre 2002, consultabile al sito internet: www. bailii. org/ew/cases/EwcA/Civ/20021 1598.htm4 3 Il Congresso ha affidato all'Esecutivo i pieni poteri nel gennaio 2002. Si tratta di: Executiue Order Ordering the Ready Reserve of the Armed Forces to Active Duty And Delegating Certain Authorities to the Secretary ofDefense And the Secretary of Transportation del 14 settembre 2001; Executive Order Biocking Property and Prohibiting Transactions With Persons Who Commit, Threaten to Commit, or Support Terrorism, del 24 settembre 2001; Terrorism; Executive Order Estabiishing the Office ofHomeland Security and the Homeland Securùy Council, dell'8 ottobre 2001; Executive Order on Terrorism Task Force, del 9 novembre 2001; Executive Order Critical Infrasttucture Protection in the Information Age, deI 16 ottobre 2001; Executive Order National Emergency Construction Authoriiy, del 16 novembre 2001; Executive Order Designation of Afghanistan and the Airspace Above as a Combat Zone, del 14 dicembre 2001. Secondo l'allora leader di minoranza alla Camera dei rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi, "The bili before us fails to assure accountability ( ... ) Thday, we are deciding whether the government will be accountable to the people, to the Congress and to the courts for the exercise of its power", v. Us House renews antiterror law, in www.bbcnews.uk , 22 luglio 2005. 6 In merito al dibattito relativo al rinnovo di 64

alcune disposizioni de! PatriotActsi v. M. MEZZANOTTE, USA: il rinnovo dei Patriot Act, in www.forumcostituzionale.it , 10 ottobre 2005. 7 V. Hamdi v. Rumsfeld, Secretary of Defen-

se, 542 U.S. (2004); Al Odah v. United State.sRasul v. Bush. 8 V. T. E. FROsINI., Lo Stato di diritto si èfermato a Guantanamo in, «Diritto Pubblico comparato ed europeo», n. 4, 2005, p. 1645 ss. Tra le numerose sentenze discordanti si cita la pronuncia del giudice Joyce Hence Green della Us District Court for the District of Columbia, che con una decisione del 31 gennaio ha stabilito che i tribunali militari costituiti per l'esame delle situazioni degli enemy aliens, sono incostituzionali, mentre solo pochi giorni prima una corte federale si pronunciava in senso diametralmente opposto. Nella pronuncia del giudice Green, emessa su ricorso presentato da cinquanta detenuti a Guantnamo, si legge che i tribunali militari non rispettano i diritti fondamentali dei prigionieri dal momento che "le procedure messe in atto dal governo per confermare che i querelanti sono combattenti nemici soggetti a una detenzione a tempo indeterminato violano i loro diritti. Alcuni detenuti possono anche essere colpevoli e rappresentare un pericolo per gli Stati Uniti, ma il governo deve per prima cosa dichiarare le accuse contro essi". Le conclusioni così nettamente divergenti, raggiunte dai giudici federali partendo dal medesimo punto di inizio rappresentato dalle sentenze della Corte suprema, dimostra come tali pronunciamenti, apparentemente netti e incontrovertibili nel giudicare l'incostituzionalità dell'azione governativa in relazione alla violazione del due process of law, evidentemente lasciano spazio a una vasta gamma di interpretazioni e non si sono dimostrati veramente risolutivi ai fini della certezza del diritto. 9 Sulle vicende relative alle violenze compiute dai militari americani sui prigionieri di Abu Grahib e, in generale, sull'utilizzo della tortura come parte integrante la strategia di lotta al terrorismo degli Stati Uniti si v., Human Rights


Watch World Report 2006, Us Policy of Abuse Undermines Rights Worldwide, Washington, Dc, 18 gennaio 2006, consultabile al sito http://www.hrw.org/english/docs/2006/01/13/g 1oba112428.htm; Amnesty International Usa,

Amnesty International Responds to Detainee Deaths in Guantanamo Bay, Washinghton, 10 giugno 2006, in http://www.amnestyusa.org/ news/document.do?id=ENGUsA200606 10001

'째 V. Hamdan v. Rumsfeld, 548 Us 557 (2006). " V. Military Commissions Act, S. 3930, ottobre 2006, reperibile al sito http://www.loc.gov/ rr/frd/Military_Law/pdf/S-3930_passed.pdf 12 BOUMEDIENE et al. v. Bush, President of the United States, et al. certiorari to the United States Court ofAppeals for the District of Columbia Circuit.

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Giustizia internazionale. Quindici anni di p rogresso* di Aryeh Neier

Q

fa, il 25 maggio 1993, il Consiglio di Sicurezza

delle Nazioni Unite adottò all'unanimità un piano per istituire un Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia per giudicare uindicianni gli imputati per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio. Successivamente, le Nazioni Unite istituirono altri tribunali per giudicare le atrocità commesse dai governanti e dai gruppi di guerriglieri nelle altre parti del mondo. Nel 2002, distinta dalle Nazioni Unite, fu istituita una Corte Permanente di Giustizia Internazionale per i crimini commessi negli altri Paesi del mondo che accettavano la sua giurisdizione (105, fino ad oggi), sia in caso di violenza, sia nelle situazioni a cui il Consiglio di Sicurezza rimanda alla Corte Internazionale di Giustizia. In soli 15 anni, la giustizia internazionale si è sviluppata tanto e più velocemente che in qualsiasi altra epoca, fatta forse ad eccezione del periodo dei processi di Norimberga e di Tokio e l'adozione della Convenzione contro il genocidio del 1948 e la Convenzione di Ginevra che seguirono i crimini senza precedenti della Seconda guerra mondiale. Questo anniversario sembra una buona occasione per valutare ciò che è stato realizzato nel passato quindicennio. I tribunali hanno processato più di 250 persone provenienti da 10 Paesi dell'Africa, Asia ed Europa per gravi crimini. Sebbene i tribunali manchino di una propria capacità di fare arresti, e pochi dei governi che li hanno creati li hanno sostenuti in questa cruciale questione, essi sono riusciti ad arrestare molti degli imputati. Eccetto per un piccolo gruppo di imputati processati dal Tribunale per la Jugoslavia, quasi tutti sono comandanti militari, alti esponenti delle forze politiche (inclusi molti membri di Gabinetto) e capi dei guerriglieri. Tra di essi vi erano due capi di Stato, Slobodan Milosevic della Jugosla-

* Pubblicato sul!'Herald Tribune del 13 maggio 2008.

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via, morto in prigione durante il suo processo, e Charles Taylor della Liberia, ancora in prigione e sotto processo. Il primo ministro del Ruanda al tempo del genocidio del 1994, Jean Kambanda, sta scontando la pena dell'ergastolo per la sua parte in quel crimine. Khieu Samphan, capo di Stato quando Khmer Rouge uccise un milione e mezzo di cambogiani circa tre decenni fa, è ancora in prigione in attesa di essere processato. Due altri membri della presidenza Serbo-Bosniaca sono in prigione in attesa di processo, mentre un altro membro, Radovan Karadzic, resta un fuggitivo (arrestato nel luglio di quest'anno, n.d.r.). Quando il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia è stato creato, non fu possibile processare per i crimini di guerra commessi nei tre Paesi prima della guerra in Jugoslavia. Oggi con la cooperazione del tribunale, alcuni processi sono in corso in Bosnia, Croazia e Serbia. Per aiutare a svolgere questi processi davanti alle corti nazionali, il Tribunale ha dato tutto il suo supporto. Inoltre, l'esempio dei tribunali internazionali ha avuto un profondo impatto sui sistemi di giustizia nazionali anche altrove. L'effetto più visibile è stato in America latina dove i maggiori esponenti militari e capi di Stato sono stati recentemente messi sotto processo per le passate violazioni dei diritti umani in Argentina, Cile, Perù, Suriname e Uruguay. Naturalmente, i tribunali per i crimini internazionali soffrono di alcuni difetti. I processi sono stati più lunghi, difficili e costosi di quanto anticipato. Alcuni Paesi continuano a difendere gliimputati dagli arresti. Tra coloro che sono stati aiutati a sfuggire al processo Karadzic e Ratko Mladic, i principali responsabili del massacro di massa di Srebrenica e di altri terribili crimini commessi durante la guerra bosniaca tra il 1992 e il 1995; Joseph Kony, capo della "Resistenza armata del Signore", la forza guerrigliera che ha condotto la più lunga guerra dell'Africa nel Nord dell'Uganda e autore di inimmaginabili crudeltà; e Harun, esponente del governo sudanese accusato dall'Icc per migliaia di omicidi da Janiaweed in Darfur. Fino ad ora, nessuno dei 10 Paesi di quegli imputati ha potere a livello mondiale o un significativo potere regionale. Non siamo ancora al punto in cui la giustizia internazionale è un fattore indipendente da Paesi così potenti come gli Stati Uniti, la Russia o la Cina. Non c'è nessuna prospettiva di accusa per i crimini russi in Cecenia; per le torture americane ai detenuti di Abu Ghraib, Bagram e Guantanamo. Il rifiuto dei maggiori poteri di diventare parte della Corte penalè internazionale, e il loro dirit67


to di veto per le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, gli assicura l'immunità. Un altro difetto è che i tribunali internazionali hanno apparentemente fallito nel far riconoscere la responsabilità per i crimini commessi. Un esempio è la Serbia. Sebbene i capi politici serbi, i media e i soldati serbi ebbero tutti una parte principale nella guerra degli anni novanta in Croazia, Bosnia e Kosovo, e sebbene ci furono solo pochi in Serbia che parlarono all'estero contro la guerra e il modo in cui essa veniva condotta, non molti serbi accettarono la responsabilità politica per i crimini dei propri militari e delle forze paramilitari. Forse la situazione non è senza speranza. Ci sono voluti circa due decenni dopo la Seconda guerra mondiale per i tedeschi per accettare la responsabilità politica per i crimini dei nazisti. Inoltre, aiutata da migliaia di processi per i crimini di guerra commessi dai nazisti davanti alle corti tedesche, la Germania ha trasformato se stessa. Oggi, mentre la conoscenza dell'olocausto è più profonda e ampia rispetto al passato, le credenziali dem9cratiche dell'attuale Germania e il forte impegno per i valori umani, sono radicati e accettati da tutti. Una questione chiave, naturalmente, è se la giustizia internazionale scoraggia i crimini che la riguardano. Qui gli indizi sono diversi. Come risultato positivo, diversi governi africani hanno ritirato le proprie forze dalla Repubblica democratica del Congo nel 2002 solo per evitare l'accusa da parte della Icc. D'altro lato, non c'è un rallentamento dei crimini commessi delle forze sudanesi in Darfur. Probabilmente ciò richiederà molto più tempo. A dispetto delle imperfezioni, i tribunali penali internazionali hanno raggiunto più di quanto sia stato predetto quando il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito 15 anni fa. Tuttavia per migliorare la partecipazione alla Icc e il supporto nell'arrestare gli imputati, i tribunali dovrebbero essere capaci di dimostrare nei prossimi 15 anni di scoraggiare ancora più crimini. (traduzione di Filomena Fantarella)

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

dossier

Noi e gli altri

Le cronache di questi mesi hanno portato più volte alla luce, sotto diversi aspetti, problemi spesso annosi di convivenza ed integrazione nelle società moderne; problemi che, nel nostro Paese, costituiscono il riflesso di dinamiche più generali, che stanno mettendo alla prova la capacità di resistenza e di governo della società dei sistemi giuridico-istituzionali liberaldemocratici, dei quali, dopo la caduta del Muro di Berlino, era stata un po'frettolosamente cantata la vittoria definitiva, all'insegna dello slogan della fine della sto ria" Viceversa, la capacità dimostrata da questi sistemi di assicurare la convivenza e perfino la solidarietà di componenti sociali distinte e differenti, ma tutte interne ai diversi Stati nazionali, alle loro caratteristiche ed alla loro storia, assicurando uno spazio "laico" di confronto e mutuo aggiustamento, senza imporre loro la rinunzia alla propria specificità, è messa nuovamente alla prova; e stavolta in misura ben diversamente pregnante, nei contesti di apertura e mescolanza di individui e gruppi sociali, etnie, costumi e religioni, che è un portato ineliminabile della globalizzazione. Fenomeno, quest'ultimo, dal quale risulta difficile immaginare di poter "tornare indietro ' posto che esso è innescato da un driver decisivo, costituito dalla grande trasformazione del modo di produrre e distribuire sul piano mondiale. 69


In che termini questa enorme questione debba essere declinata concettualmente, per poter poi immaginare gli strumenti più idonei a governare la complessità che ne deriva, è problema di non poco momento. Una provocazione scientificamente criticabile (ed infatti, come si vedrà nelle pagine che seguono, criticata anche aspramente), ma almeno come tale certamente fruttuosa, l'ha fornita negli scorsi mesi lo storico americano Jerry Z Muller, con l'articolo Us and Them. The Enduring Power of Ethnic Nazionalism (pubblicato in "Foreigu Affairs ' marzo/aprile 2008). La sua lettura pone la questione nei termini dell'etnonazionalismo, con una ricostruzione storica e concettuale suggestiva, ma, come detto, controvertibile; per questa ragione, sul testo, ma ancor più sulle prospettive critiche che esso apre, magari proprio partendo da una sua contestazione, è stato organizzato, il 10giugno 2008, un vivace dibattito in redazione. Il dossier che segue vuole off+ire una panoramica della questione e delle sue diverse possibili chiavi di lettura. Oltre alla traduzione del citato articolo di Muller(Noi e loro. Il potere duraturo dei nazionalismo etnico) e dal resoconto del dibattito in redazione (Il nazionalismo etnico e l'Europa), cui hanno partecipato intellettuali ed operatori impegnati in diversi modi sul tema (Piero Bassetti, Paolo Calzini, Enrico Caniglia, Adriano Ferracuti, Sergio Ristuccia, Andrea Spreafico, Giovanni Vetritto, Mario Zucconi), integrato da un contributo scritto fatto pervenire allora da Alessandro Silj, pure oggetto di attenzione nella discussione, il dossier è arricchito e completato da una più ampia riflessione sul medesimo orizzonte di problemi di Spreafico (Cosa vuoi dire "integrazione" delle società dell'immigrazione?) e da un secondo breve contributo di Silj (L'immigrazione rumena in Italia, un nodo irrisolto). (G. V)

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queste istituzioni o. 150/151 luglio-dicembre 2008

Noi e loro. Il nazionalismo etnico*: un potere duro a morire di Jerry Z Muller

P

roiettando la propria esperienza sul resto del mondo, gli americani tendono a sottostimare il ruolo che il nazionalismo etnico gioca in politica. Dopotutto, negli Stati Uniti, persone di differenti origini etniche convivono fianco a fianco in relativa distensione. Nel corso di due o tre generazioni di immigrazione, le identità etniche degli americani sono state mitigate dai processi di assimilazione culturale e dai matrimoni misti. Certamente, però, altrove le cose sono assai differenti. Gli americani, per di più, reputano l'etnonazionalismo perdente sul piano intellettuale e su quello morale. Gli scienziati sociali si spingono oltre, a dimostrare che il nazionalismo etnico altro non è che una costruzione culturale, spesso deliberatamente messa a punto, tutt'altro che un prodotto della natura. Gli eticisti, poi, disprezzano i sistemi di valore basati su identità di gruppo ristrette, non cosmopolite. Nondimeno, tutto ciò non farà scomparire l'etnonazionalismo. Gli immigrati che giungono negli Stati Uniti di solito vi approdano con la volontà di integrarsi nel nuovo Paese, ridefinendo la propria identità. Mentre, per quanti rimangono nelle terre già abitate dagli antenati per numerose generazioni, quando non per secoli, le identità politiche finiscono spesso col prendere la forma dell'appartenenza etnica, dando vita a rivendicazioni locali in competizione tra loro, finalizzate alla gestione del potere politico. La creazione di un ordine regionale pacifico nell'ambito degli Stati-nazione ha generalmente rappresentato il prodotto di un violento processo di separazione etnica. In aree dove la separazione non è ancora avvenuta, la politica è destinata a rimanere di cattiva qualità. Un filone conosciuto ed influente all'interno della storia europea del ventesimo secolo sostiene che il nazionalismo ha condotto per ben due

Jerry Z. Muller, Us and Them. The Enduring Power ofEthnic Nationalism, in «Foreign Affairs», March/ApriI 2008. 1autore è Professore di storia alla Catholic University of America. Il suo ultimo lavoro è The Mmd and the Market: Capitalism in Modern European Tthough. 71


volte alla guerra, nel 1914 e nel 1939. Dopo di che, secondo tale ricostruzione, gli europei maturarono la convinzione che il nazionalismo era un pericolo e se ne sbarazzarono per gradi. Nel dopoguerra, l'Europa occidentale iniziò a tessere una rete di istituzioni trasnazionali che culminarono poi nell'Unione europea. Con la caduta dell'impero sovietico, tale struttura di tipo trasnazionale si estese anche ad est, fino a comprendere gran parte del continente europeo, aprendo così una stagione postnazionale, che non fu soltanto una cosa buona in sé, ma anche un modello per le altre regioni. Il nazionalismo, in tal senso, è stato una tragica parentesi sulla via dell'ordine democratico liberale e pacifico. Questa storia trova ampio credito presso gli europei più istruiti, e forse ancor di più tra gli americani istruiti. Di recente, ad esempio, nell'argomentare che Israele dovrebbe rinunciare alla pretesa di costituire uno Stato d'Israele, per dissolversi, invece, in una sorta di entità binazionale insieme alla Palestina, l'eminente storico Tony Judt ha ricordato ai lettori del New York Review ofBooks che "il problema con Israele... [è che] esso ha importato un progetto separatista tipicamente tardo-novecentesco in un mondo che nel frattempo è andato avanti, un mondo nel quale contano i diritti individuali, le frontiere aperte, il diritto internazionale. La stessa idea di uno Stato israeliano è un anacronismo". Eppure, l'esperienza di centinaia di africani ed asiatici che perdono la vita nel tentativo di giungere in Europa approdando alle coste spagnole o italiane dimostra che le frontiere europee non sono poi così aperte. Una stima indicherebbe che, mentre nel 1900 erano numerosi gli Stati europei senza una singola nazionalità predominante, nel 2007 ne rimangono soltanto due, di cui uno, il Belgio, è stato vicino alla disgregazione. Sicché, a parte la Svizzera - dove l'equilibrio etnico interno tra forze è garantito da leggi severe sulla cittadinanza - in Europa il "progetto separatista" non è svanito quanto, piuttosto ha trionfato. Ben lontano dall'essere obsoleto nel 1945, l'etnonazionalismo per molti aspetti ha raggiunto l'apogeo negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. La stabilità dell'Europa nel periodo della Guerra fredda è stata, nei fatti, la conseguenza dell'ampio successo fin lì avuto dal progetto etnonazionalista. Con la fine della Guerra fredda, il nazionalismo etnico ha ripreso a ridisegnare i confini dell'Europa. In definitiva, l'etnonazionalismo ha giocato nella storia moderna un ruolo ben più articolato e duraturo di quanto generalmente si creda, e i processi che in Europa hanno via via affermato la predominanza dello 72


Stato etnonazionale insieme alla separazione dei gruppi etnici, con ogni probabilità, potranno verificarsi anche altrove. Urbanizzazione, alfabetizzazione e mobilitazione politica crescenti, differenze nei tassi di fertilità e di performance economica tra i vari gruppi etnici, insieme al fenomeno dell'immigrazione, metteranno a dura prova la struttura interna degli Stati ed i loro confini. Che sia politicamente corretto o no, I'etnonazionalismo continuerà la sua azione di riconfigurazione del mondo anche nel ventunesimo secolo. LE POLITICHE IDENTITARIE

Sono due i modi basilari di concepire l'identità nazionale. Il primo considera tutte le persone che vivono all'interno dei confini di un Paese come parte di una nazione, senza distinzioni di etnia, razza, o religione. Questo nazionalismo liberale o civico è quello in cui si identificano gli americani moderni. La visione liberale, tuttavia, ha dovuto competere, spesso uscendone sconfitta, con il nazionalismo etnico la cui tesi centrale afferma che la nazione è definita da un'eredità collettiva che solitamente include una lingua comune, la stessa fede religiosa ed una comune discendenza. L'etnonazionalismo ha tradizionalmente dominato in larga parte dell'Europa, ed anche negli Stati Uniti, fino a tempi recenti. Per periodi lunghi della storia americana, si è creduto che soltanto individui di origine inglese, o comunque di religione protestante, o bianchi, o ancora provenienti dal Nord Europa fossero veri americani. Si dovette arrivare al 1965 perché la riforma della legge americana sull'immigrazione abolisse il sistema delle quote per nazione di origine, dopo numerosi decenni. Un sistema che aveva escluso del tutto gli Asiatici e limitato radicalmente i flussi di immigrazione provenienti dal sud e dall'est Europa. Il nazionalismo etnico trae molta della sua forza emotiva dal concetto secondo cui i membri di una nazione sono parte di una famiglia allargata, tenuta assieme dai legami di sangue. È la credenza soggettiva circa l'esistenza di un "noi" comune che conta. Gli elementi che distinguono il gruppo dagli outsiders variano a seconda dei casi e dei tempi, e la stessa natura relativa dei confini territoriali ne ha indebolito la portata ed il significato concreti. Nondimeno, come notato da Walker Condor, studioso sagace del nazionalismo, "Non è quello che esiste, ma quello che la gente crede che esista a produrre conseguenze comportamentali". I principali punti fermi dei nazionalisti sono che le nazioni esistono, che ciascuna na73


zione deve avere il proprio Stato, e che ciascuno Stato deve essere composto dai membri di una sola, stessa nazione. Il filone mainstream della storia europea afferma che in un primo momento il nazionalismo, in area occidentale, era di matrice liberale, e che solo in seguito, nei territori dell'Europa orientale, finì col connotarsi in termini etnici. C'è una parte di verità in questa tesi, che tuttavia contiene anche alcune rilevanti mistificazioni. Sarebbe più corretto dire che, quando gli Stati moderni iniziarono a prendere forma, i confini politici ed i confini etnici finirono col coincidere, almeno nelle aree europee lungo la costa atlantica. In altre parole, il nazionalismo liberale aveva più chance di emergere negli Stati caratterizzati già da un alto grado di omogeneità etnica. Ben prima del diciannovesimo secolo, Paesi quali Inghilterra, Francia, Portogallo, Spagna e Svezia, si configurano in forma di Stato-nazione in cui le divisioni etniche erano state regolate da una lunga storia di omogeneizzazione culturale e sociale. Nel cuore del continente europeo, popolato da popolazioni di lingua tedesca ed italiana, le strutture politiche erano frammentate in una miriade di piccole unità. Negli anni sessanta e settanta dell'Ottocento, però, tale parcellizzazione fu superata con la creazione dell'Italia e della Germania per ospitare le rispettive popolazioni. Spostandosi ad est, la situazione cambiava. Nel 1914, la gran parte dell'Europa centrale, orientale e sudorientale era costituita da imperi, non da Stati-nazionali. L'Impero asburgico comprendeva le moderne Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e parte dei territori che corrispondono oggi a Bosnia, Croazia, Polonia, Romania, Ucraina, e altri ancora. L'Impero dei Romanov si estendeva fino all'Asia, inclusa l'attuale Russia, e parti di Polonia, Ucraina ed altro ancora. L'Impero ottomano inglobava la moderna Turchia e alcune porzioni di Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia, estendendosi fino al Medio Oriente e al Nord Africa. Ciascuno di questi imperi era costituito di numerose etnie, ma non per questo potevano dirsi multinazionali, poiché non garantivano uguale status a ciascun gruppo etnico presente all'interno delle loro popolazioni. La stirpe reale che era al governo e la nobiltà terriera erano spesso distinti dalle classi lavoratrici cittadine - che a loro volta si distinguevano dai contadini per lingua, etnia, religione - quanto a lingua ed origini etniche. Negli Imperi asburgico e Romanov, ad esempio, i mercanti erano per lo più di origine germanica o ebraica. Nell'Impero ottomano, invece, essi erano spesso armeni, greci o ebrei. In ciascun impero, i contadini erano etnicamente distinguibili. 74


Lungo il diciannovesimo secolo, queste società erano in maggioranza agrarie: moltissima gente viveva nelle campagne lavorando la terra, e ben pochi erano istruiti. Le stratificazioni politiche, sociali ed economiche erano di norma correlate alI'etnia, né la gente nutriva alcuna aspettativa di mobilità sociale all'interno di un siffatto sistema. Fino all'avvento del capitalismo, tutto ciò non dovette apparire particolarmente problematico. Del resto, in quel tempo, le genti di una stessa lingua, religione e cultura erano quasi sempre disperse in tanti Paesi ed Imperi. Ad esempio, c'erano germanici negli Imperi asburgico e Romanov. I greci si trovavano in Grecia, ma milioni di loro anche nell'Impero ottomano (per non dire delle centinaia di migliaia di musulmani in Turchia e in Grecia). E gli ebrei erano dappertutto - senza, però, un proprio Stato indipendente da qualche parte. L'AVVENTO DELL,'ETNONAZIONALISMO

Oggi, la gente dà per scontato lo Stato-nazione come forma naturale di associazione politica e pensa agli imperi come cose bizzarre. Esattamente l'opposto di quanto accadeva nel corso della storia di cui abbiamo testimonianza, quando la quasi totalità delle popolazioni viveva negli imperi, con lo Stato-nazione come eccezione, non certo la regola. Come è avvenuto tale cambiamento? L'avvento del nazionalismo etnico, come spiegato dal sociologo Ernest Geliner, non è riconducibile a qualche strano errore del corso storico. La competizione militare degli Stati creò infatti una crescente necessità di risorse nazionali di cui disporre, spingendo, quindi, verso una ininterrotta crescita economica. Essendo le sorti di quest'ultima a loro volta legate ed ostacolate dall'analfabetismo di massa e dalle difficoltà del sistema di comunicazione, fu necessario mettere a punto politiche di promozione dell'istruzione e di omogeneizzazione della lingua; politiche che portarono diritto ai conflitti tra gruppi con lingue e risorse locali differenti. Le società moderne sono basate sul principio dell'uguaglianza secondo cui, almeno in teoria, ciascuno può aspirare ad una qualsiasi posizione economica. Nella pratica, tuttavia, non tutti hanno pari chance di mobilità economica, non soltanto per le differenti capacità individuali. La mobilità, infatti, dipende in parte dal "capitale culturale" di cui parlano gli economisti; pertanto, le competenze e gli schemi comportamentali che incoraggiano e sostengono i singoli ed i gruppi sono quelle vincenti. Ad 75


esempio, i gruppi con un patrimonio tradizionale fatto di buona istruzione e abilità nel commercio tendono ad emergere, mentre quelli che ne sono privi restano indietro. Quando, nei secoli diciannovesimo e ventesimo, i gruppi etnici di origine contadina - cechi, polacchi, slovacchi, ucraini - si trasferirono nelle città ed investirono nella propria istruzione, le posizioni-chiave all'interno del governo e dell'economia erano già prese, per lo più da armeni, germanici, greci ed ebrei. Gli individui con una lingua comune iniziarono a pensarsi in termini di gruppo, definendosi in contrasto con le altre comunità linguistiche. Fino a rivendicare, talvolta, un proprio Stato-nazione dove essere sovrani, guidare la politica, ricoprire gli incarichi pubblici e controllare il commercio. L'etnonazionalismo ha una base psicologica come anche una economica. La creazione di un legame diretto tra individuo e governo messa in atto dallo Stato moderno ha infatti indebolito i legami tradizionali che tengono insieme gli individui nell'ambito delle unità e formazioni sociali intermedie: famiglie, comunità, gilde, chiese. In aggiunta, la crescente mobilità sociale e geografica e l'individualismo/autodeterminismo, le economie di mercato e così via hanno completato l'opera. Il risultato è un vuoto emotivo spesso colmato da nuove forme di identificazione, spesso lungo direttrici di matrice etnica. L'ideologia etnonazionalista invoca la congruenza tra Stato e nazione etnicamente definita, con risultati dirompenti. Come riconobbe Lord Acton già nel 1862, "facendo combaciare Stato e nazione, il nazionalismo in pratica piega ad una condizione di subalternità senza appello tutte le altre nazionalità che possono trovarsi all'interno di quei confini... Pertanto, considerato il grado di umanità e di civilizzazione del corpo dominante che rivendica la rappresentanza di tutti i diritti della comunità, gli altri, in quanto inferiori, sono sterminati, ridotti in schiavitù, espulsi dalle garanzie dello Stato di diritto, resi dipendenti". Esattamente ciò che è accaduto. UN GRANDE CAMBIAMENTO

I liberali del diciannovesimo secolo, come molti propugnatori moderni della globalizzazione, credevano che l'espansione dei commerci internazionali avrebbe potuto convincere i cittadini dei benefici reciproci della pace e degli scambi, all'interno di una comunità e tra comunità. I socialisti ne condividevano l'idea, anche se ascrivevano l'armonia all'avvento del sociali76


smo. Tuttavia, non fu quello il corso impresso al ventesimo secolo. Il processo di "coincidenza tra Stato e nazione" assunse molteplici forme, dall'emigrazione volontaria (spesso indotta dalle discriminazioni attuate dal governo a danno delle minoranze) alle deportazioni coatte (note come "p0pulation transfer"), fino al genocidio. Per quanto l'espressione "ethnic cleansing" (pulizia etnica) sia entrato nell'uso inglese solo di recente, i termini equivalenti in ceco, francese, tedesco e polacco sono ben più datati. Gran parte della storia europea del ventesimo secolo, infatti, non è stata altro che il dispiegamento doloroso di un processo di disaggregazione etnica. Tale processo su larghissima scala partì dalle frontiere europee. Nei Balcani etnicamente variegati, le guerre di espansione intraprese da Bulgaria, Grecia e Serbia a spese dell'Impero ottomano furono accompagnate da feroci violenze interetniche. Nel corso delle guerre dei Balcani del 19121913, circa mezzo milione di persone abbandonò la propria terra, volontariamente o forzosamente. I musulmani fuggirono dalle regioni contro!late dai bulgari, dai greci e dai serbi; i bulgari sgomberarono i territori macedoni nelle mani dei greci; i greci abbandonarono le aree macedoni che erano state ormai cedute alla Bulgaria ed alla Serbia. La prima guerra mondiale vide il crollo dei tre grandi imperi del secolo, senza poter controllare l'esplosione di etnonazionalismo originata dal drammatico processo. Nell'Impero ottomano, le deportazioni di massa e le stragi della guerra furono responsabili della morte di un milione di armeni appartenenti alle minoranze locali, con un primo tentativo di pulizia etnica, se non genocidio. Nel 1919, il governo greco invase l'attuale Turchia, secondo un progetto espansionistico che portava fino a Costantinopoli. Di fronte ai successi iniziali, le forze greche distrussero e bruciarono i villaggi al fine di disperdere le etnie turche locali. Però, i turchi riuscirono a ricompattarsi e a respingere le truppe greche, mettendo in atto, a loro volta, azioni di pulizia etnica contro i nemici. Il processo di trasferimento delle popolazioni fu quindi formalizzato nel 1923 con il Trattato di Losanna: tutti i greci ritornarono in Grecia, e tutti i musulmani in Turchia. Alla fine, la Turchia espulse circa un milione e mezzo di greci, e la Grecia quasi quattrocentomila musulmani. Dalla divisione degli imperi degli Asburgo e dei Romanov, emersero una moltitudine di nuovi Paesi. Molti di questi tendevano a considerarsi comunità etnonazionali, con uno Stato che avrebbe dovuto garantire e promuovere il gruppo etnico dominante. Dei circa sessanta milioni di persone che abitavano l'Europa centrale ed orientale, circa venticinque milioni 77


continuarono ad essere parte delle minoranze etniche all'interno dei territori abitati. In molti casi, la maggioranza etnica non volle favorire o agevolare l'assimilazione delle minoranze, né le minoranze erano sempre scalpitanti e desiderose di fare da sé. I governi nazionalisti attuavano politiche apertamente discriminatorie per favorire il gruppo dominante, adottando la sola lingua da questo parlata, e riservando ad esso gli incarichi pubblici. In molte aree dell'Europa centrale ed orientale, gli ebrei avevano per lungo tempo ricoperto un ruolo di grande rilievo nel commercio e negli scambi. Quando, alla fine del diciannovesimo secolo, ottennero il riconoscimento dei diritti civili, essi poterono eccellere anche in altre professioni per le quali era necessario un alto grado di istruzione, in ambito medico •e legale, fino a costituire intere stirpi di medici e avvocati, i soli esistenti in intere città: Budapest, Vienna, Varsavia. Negli anni trenta del diciannovesimo secolo, numerosi governi adottarono politiche volte a controllare e capovolgere questa tendenza, negando il credito agli ebrei e limitando il loro accesso all'istruzione superiore. In altre parole, i nazionalsocialisti giunti al potere in Germania nel 1933 ponendo l'accento sulla germanita definita in contrasto con I ebraicita sono una versione estrema di una più comune inclinazione etnonazionalista. Le politiche etnonazionaliste presero una piega ben più inumana durante il secondo conflitto mondiale. I nazisti cercarono di ridisegnare la mappa etnica del continente ricorrendo alla violenza. L'azione più radicale messa in atto fu il tentativo di cancellare la presenza degli ebrei dall'Europa massacrandoli; un disegno ampiamente compiuto. I nazisti usarono anche l'argomento delle minoranze etniche germaniche presenti in Cecoslovacchia, Polonia e altrove per guidare l'occupazione nazista, e molti regimi alleati con la Germania intrapresero a loro volta le proprie campagne di epurazione etnica contro i nemici. Il regime romeno, ad esempio, si rese responsabile dell'assassinio di centinaia di migliaia di ebrei, senza avere ricevuto alcuna indicazione in tal senso dalla Germania; il governo croato uccise non solo gli ebrei sui suo territorio ma anche centinaia di migliaia di serbi e romeni. Dono LA GUERRA, MA NON OLTRE LO STATO

Sarebbe stato legittimo aspettarsi che le letali politiche del regime nazista e la sua rovinosa sconfitta segnasse la fine dell'era etnonazionalista. Eppure, nei fatti, tutto ciò ha contribuito a determinare uno stadio ulte78


riore di trasformazione etnonazionalista di massa. Gli insediamenti politici in Europa centrale, così come ridisegnati al termine del primo conflitto mondiale, erano stati ottenuti principalmente per mezzo dello spostamento dei confini al fine di farli coincidere con le corrispondenti popolazioni. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, toccò spostarsi ai cittadini: milioni di persone furono espulse dalle proprie case e nazioni, con il tacito sostegno delle forze alleate vittoriose. Winston Churchill, Franklin Roosevelt e Joseph Stalin furono tutti d'accordo sulla necessità di espellere tutti i germanici dalle terre non tedesche come prerequisito per garantire un ordine politico duraturo. Così la metteva Churchill nel suo discorso al Parlamento nel dicembre 1944: "L'espulsione è il metodo, per quanto visto fin qui, più soddisfacente e duraturo. Non ci saranno mescolanze di popolazioni che provocano crisi senza fine... Sarà fatta pulizia. Non mi preoccupa la prospettiva di queste popolazioni divise, né i loro spostamenti di massa". Egli, citando come precedente il Trattato di Losanna, dimostrava che perfino i leader delle democrazie liberali erano giunti alla conclusione che soltanto precise misure illiberali avrebbero potuto sradicare le cause delle rivendicazioni e delle violenze etnonazionaliste. Tra il 1944 ed il 1945, cinque milioni di persone di origine germanica provenienti dalle aree orientali del Reich si trasferirono ad ovest per sfuggire alla violenza dell'Armata Rossa che puntava dritto a Berlino poi, tra il 1945 ed il 1947, i nuovi regimi della liberazione sorti in Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Jugoslavia, cacciarono altri sette milioni di germanici in quanto collaborazionisti nazisti. Facendo le somme, tali misure indussero il più ampio movimento di massa forzato della storia europea, con centinaia di migliaia di persone che persero la vita lungo la via. Le manciate di ebrei che sopravvissero alla guerra e fecero ritorno alle proprie case nell'Est Europa dovettero fare i conti con un largo sentimento antisemita che costrinse molti di loro a partire per altre terre. Circa duecentoventimila ebrei si diressero verso le aree tedesche occupate dagli americani. Sicché la presenza ebraica in Europa orientale e centrale - il cuore della vita ebraica sin dal sedicesimo secolo - si ridusse fino a scomparire. Allo stesso modo, dopo la guerra milioni di rifugiati di altre etnie furono costretti ad abbandonare le proprie case per costituire nuovi insediamenti. In parte, la causa di tutto ciò fu lo spostamento dei confini dell'Unione Sovietica che si mossero più ad ovest, fino a comprendere la Polonia che, a sua volta, spinse i propri confini dentro il territorio della 79


Germania. Al fine di fare corrispondere i nuovi confini alle popolazioni esistenti, un milione e mezzo di polacchi che abitavano nelle terre ormai parte integrante dell'Unione Sovietica furono deportati in Polonia, e mezzo milione di ucraini stabilitisi in Polonia furono fatti confluire verso la Repubblica sovietica socialista ucraina. Ancora un altro scambio di popolazioni si verificò tra Cecoslovacchia e Ungheria, con gli slovacchi espulsi dall'Ungheria ed i magiari dalla Jugoslavia, e con i serbi ed i croati spediti in direzioni opposte. L'esito di siffatti processi di ricomposizione etnica su larga scala fu che l'ideale del nazionalismo etnico poté dirsi ampiamente realizzato: per lo più, ogni nazione europea aveva un proprio Stato, e ciascuno Stato era costituito quasi esclusivamente da una sola nazionalità etnica. Nel corso della Guerra fredda, le poche eccezioni a tale regola includevano la Cecoslovacchia, l'Unione Sovietica e la Jugoslavia. Tuttavia, le vicende che questi Paesi affrontarono subito dopo dimostrano quanto fosse ancora vitale il nazionalismo etnico. A seguito della caduta del regime comunista, la Germania dell'est e la Germania dell'ovest furono unificate con notevole rapidità; la Cecoslovacchia si divise pacificamente in Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca; e l'Unione Sovietica si dissolse in una miriade di unità nazionali differenti. Da allora, le minoranze etniche russe presenti nei tanti Stati ex sovietici si sono man mano trasferite in Russia; le minoranze magiare della Romania sono andate in Ungheria; ed i pochi tedeschi rimasti in Russia sono in gran parte emigrati in Germania. Un milione di ebrei si sono mossi dall'Unione Sovietica ad Israele. La Jugoslavia è passata per la secessione della Croazia e della Slovenia, per poi finire nel conflitto etnico di Bosnia e Kosovo. La disgregazione della Jugoslavia è stata semplicemente l'ultimo atto di una lunga tragedia. La trama del racconto - la disaggregazione di popolazioni e il trionfo del nazionalismo etnico nell'Europa moderna - è scarsamente nota. Così, una storia il cui significato e la cui portata sono comparabili all'espansione della democrazia e del capitalismo resta largamente ignorata ed insufficientemente ponderata. DECOLONIZZAZIONE E ASSETTI SUCCESSIVI

Gli effetti del nazionalismo etnico, come è ovvio, non restano nei confini dell'Europa. Per larghe porzioni dei Paesi in via di sviluppo, la decolonizzazione ha significato l'avvio della disaggregazione etnica per mezzo dello scambio o dell'espulsione delle minoranze locali. 80


La fine del dominio britannico nel 1947 diede il via alla divisione del subcontinente in India e Pakistan, con centinaia di migliaia di vite perse in un'orgia di violenza. Ci furono quindici milioni di rifugiati, inclusi i musulmani diretti in Pakistan e gli hindu diretti in India. Quindi, nel 1971, io stesso Pakistan, in origine delimitato su basi religiose, si dissolse in Pakistan di etnia Urdu e Bangladesh di etnia bengalese. In quello che era il mandato britannico in Palestina, nel 1948, fu stabilito lo Stato di Israele, immediatamente accolto dalla rivolta delle comunità arabe lì stabilite e dall'invasione da parte degli Stati arabi confinanti. Nella guerra che ne seguì, le regioni che finirono in mani arabe furono sgomberate dalle popolazioni ebraiche, e così gli arabi presenti nei territori occupati dagli ebrei dovettero fuggire. A partire furono circa settecentocinquantamila arabi, per lo più verso gli Stati arabi confinanti, mentre i restanti centocinquantamila rimasti costituirono un sesto della popolazione del nuovo Stato ebraico. Negli anni a seguire, la violenza di stampo nazionalista rivolta contro gli ebrei residenti nei territori arabi ha fatto sì che quasi tutti gli oltre cinquecentomila ebrei ivi insediati furono costretti a fuggire, lasciando le proprie terre di origine per rifugiarsi in Israele. Stessa sorte, nel 1962, con la fine del controllo francese sull'Algeria, con gli algerini di origine europea - i cosiddetti pieds-noirs - costretti ad emigrare, in gran parte in Francia. Subito dopo, le minoranze etniche asiatiche furono espulse dall'Uganda, emancipatasi dal giogo coloniale. L'eredità dell'era coloniale era tutt'altro che sul viale del tramonto. Quando anche gli imperi coloniali europei d'oltremare si dissolsero, emerse un puzzie di tanti Stati i cui confini spesso tranciavano le delimitazioni etniche, mescolando popoli ed etnie. È ottimistico credere che tali assetti possano perdurare. Man mano che le società delle ex colonie intraprendono processi di modernizzazione sempre più radicali, anche qui, come prima in Europa, si faranno valere le forze che premono per l'etnonazionalismo e la disaggregazione etnica.

Quu

EQUILIBRI?

Gli analisti della disaggregazione etnica sono tipicamente interessati agli effetti distruttivi. È comprensibile, poiché sono questi, sovente, causa della sofferenza umana. In ogni caso, un siffatto atteggiamento può agevolare una visione distorta che trascura i costi meno ovvi come anche gli importanti benefici indotti dalla separazione etnica. 81


Gli economisti, da Adam Smith in poi, hanno argomentato che l'efficienza dei mercati competitivi tende ad aumentare di pari passo con la dimensione del mercato stesso. La dissoluzione dell'Impero austro-ungarico in piccoli Stati-nazione, ciascuno con le sue barriere al commercio, è pertanto da considerarsi irrazionale sul piano economico e non a caso ha contribuito al travaglio delle regioni nel periodo tra le due guerre. Larga parte della successiva storia europea ha visto tentativi di superamento di questo assetto ed anche ulteriori processi di frammentazione, fino ad arrivare all'Unione europea. La disaggregazione etnica pare avere anche effetti deteriori per la vitalità culturale. Per l'esattezza, poiché la maggior parte della cittadikianza condivide un dato patrimonio culturale e linguistico, gli Stati europei del dopoguerra, con la loro omogeneità interna, sono diventati culturalmente più isolati rispetto a quanto avveniva prima, con una diversità demografica più accentuata. Con meno ebrei in Europa e meno tedeschi a Praga, in altre parole, ci sono meno Franz Kafka in giro. Le migrazioni forzate solitamente vanno a svantaggio dei Paesi di provenienza e costituiscono un arricchimento per quelli di destinazione. L'espulsione delle minoranze è spesso il risultato del rigetto del loro successo da parte di un gruppo di maggioranza, o anche dell'errato convincimento che le conquiste siano un gioco a somma zero. Eppure, le nazioni che si sono liberate delle proprie minoranze armene, tedesche, greche, ebraiche, e di altri gruppi minoritari influenti, hanno in realtà rinunciato a molti dei propri migliori cittadini, che hanno semplicemente fatto valere i propri talenti, capacità e conoscenze, altrove. In tanti luoghi, il trionfo delle politiche etnonazionaliste hanno sancito la vittoria di gruppi rurali tradizionali su gruppi più urbanizzati che erano in possesso di requisiti e conoscenze profittevoli per un'economia industriale avanzata. Ciò nonostante, il nazionalismo etnico non ha prodotto soio tensioni e conflitti, ma è stata anche fonte di coesione e di stabilità. Negli anni in cui i testi di studio francesi esordivano con "I nostri antenati Galli", o quando Churchill si rivolgeva agli inglesi in tempo di guerra appellandoli "la razza di quest'isola", l'appello faceva leva sul comune sentimento etnonazionalista come fonte di reciproca fiducia e spirito di sacrificio. La democrazia liberale e l'omogeneità etnica non sono solo compatibili: possono coesistere come termini complementari. Se ne potrebbe dedurre che l'armonia dell'Europa all'indomani del secondo conflitto mondiale non è ascrivibile al fallimento del nazionalismo 82


etnico, quanto piuttosto al suo successo che rimosse alcuni degli elementi scatenanti del conflitto interno e tra diversi Paesi. Il fatto che oggi le demarcazioni statali e quelle etniche coincidono ha fatto sì che le dispute sui confini o sull'espatrio di intere comunità siano sempre meno; contribuendo a rendere più stabile la configurazione territoriale della storia europea. La presenza di comunità etnicamente omogenee ha creato le condizioni per una dispiegata solidarietà interna, terreno fertile per l'attuazione dei programmi di governo. Quando, tra le due guerre, i socialdemocratici svedesi hanno messo a punto un piano di assistenza sociale europea più ampio - come ha osservato lo scienziato politico Sheri Barman - essi l'hanno concepito e presentato all'esterno in termini di costruzione di un folkhemmet, una casa per il popolo. Numerosi decenni di vita in uno Stato consolidato ed etnicamente omogeneo potrebbero finanche concorrere a ridimensionare il potere emotivo dell'etnonazionalismo. Molti europei sono finalmente pronti, e perfino ansiosi, di partecipare agli scenari trasnazionali quale l'Unione europea, anche perché il loro bisogno di autodeterminazione collettiva è stato ampiamente appagato. NuovE MESCOLANZE ETNICHE

Nel corso degli ultimi due secoli, parallelamente ai processi di disaggregazione etnica forzata, si è dispiegato un processo di mescolamento etnico a seguito dell'emigrazione volontaria. Il percorso in generale è stato quello dei flussi di emigrazione da aree povere ed economicamente stagnanti a territori più ricchi e dinamici. In Europa, ciò ha significato in primo luogo che la direzione dei flussi è stata da sud a nord, avendo come destinazioni principali la Francia ed il Regno Unito. Così è anche oggi: esito delle recenti migrazioni, ad esempio, sono i cinquecentomila polacchi in Gran Bretagna ed i duecentomila in Irlanda. Si tratta di immigrati provenienti da un'altra parte dell'Europa, che si sono stabiliti altrove, si sono assimilati e, nonostante qualche borbottio contro l'invasione degli "idraulici polacchi", hanno creato pochi problemi. La trasformazione più estrema degli equilibri etnici europei degli ultimi decenni è quella che risulta dall'immigrazione degli asiatici, degli africani e dei mediorientali, con esiti variabili. Alcuni gruppi sono riusciti ad inte83


grarsi, come il gruppo indiano degli Hindu in Gran Bretagna. Non così per i musulmani in Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Gran Bretagna, dove i progressi economici e culturali degli immigrati sono stati ben più limitati, a fronte di una marcata alienazione culturale. Quanto tutto ciò sia legato alla discriminazione, agli schemi culturali degli stessi immigrati, o alle politiche dei governi europei non è agevole dire. Tuttavia, sembrano molteplici i fattori - dal multiculturalismo ufficiale a solidi sistemi di welfare ed alla facilità di contatto con le terre di provenienza - sembrano avere agevolato la creazione di isole etniche con limitata assimilazione all'economia ed alla cultura del resto della comunità. Di conseguenza, alcuni tratti della politica europea tradizionale sono stati riallineati. La sinistra, ad esempio, ha assunto la difesa dell'immigrazione in nome del principio ugualitario e del multiculturalismo. Tuttavia, se davvero esiste un legame tra l'omogeneità etnica di una nazione e la sua propensione ad accettare programmi di generosa redistribuzione del reddito, allora gli stessi programmi della sinistra finiranno col fallire per causa della promozione di una società sempre più eterogenea. In aggiunta, alcuni moti libertari propri della cultura europea si sono già scontrati con l'illiberismo culturale di alcune nuove comunità di immigrati. Se i musulmani non riusciranno ad assimilarsi, sviluppando piuttosto una forte identificazione etnica su base religiosa, una possibile conseguenza potrebbe essere il risorgere in alcuni Stati di identità tradizionali etnonazionali, o lo sviluppo di un'medita identità europea definita, parzialmente, in contrapposizione all'Islam (con la diffusa chiusura verso l'allargamento dell'Unione europea alla Turchia quale possibile portatore di un tale mutamento). LE IMPLICAZIONI FUTURE

Poiché l'etnonazionalismo è una conseguenza diretta della modernizzazione, è ipotizzabile che esso prenda piede all'interno delle società coinvolte da tali processi. Pertanto, non c'è da sorprendersi se esso continua ad essere una delle forze più vitali e brutali che agiscono in molte aree del mondo contemporaneo. Forme di etnonazionalismo più o meno subdole, ad esempio, sono dappertutto nelle politiche di immigrazione di tutto il pianeta. Numerosi Paesi - tra cui Armenia, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Groenlandia, Un84


gheria, Irlanda, Israele, Serbia e Turchia - concedono automaticamente o comunque in tempi rapidissimi la cittadinanza ai membri della diaspora appartenenti al gruppo etnico nazionale dominante, se così desiderano. La legge di immigrazione delle Cina assegna la precedenza, insieme ad alcuni privilegi, ai cinesi all'estero. Spagna e Portogallo hanno politiche di immigrazione che favoriscono gli aspiranti cittadini provenienti dalle colonie del Nuovo Mondo. E ancora, altri Stati, come Giappone e Repubblica Slovacca, hanno messo a punto procedure ufficiali di riconoscimento destinate agli appartenenti del gruppo etnico nazionale dominante, privi della cittadinanza, al fine di consentire loro di vivere e lavorare sui territorio nazionale. Gli americani, abituati dalle pratiche ufficiali del Governo statunitense a considerare le differenze di trattamento sulla base dell'etnia come una violazione dei diritti universali, spesso reputano tali misure eccezionali, quando non intollerabili. Tuttavia, nel contesto globale, è la salvaguardia dei principi universali che finisce con l'apparire provinciale. Col crescere del senso di appartenenza locale e con i mutati equilibri delle componenti etniche esistenti, negli anni a venire le conseguenze saranno molteplici, all'interno degli Stati e tra di essi. Man mano che la globalizzazione economica favorisce l'ingresso di sempre più Paesi nell'economia mondiale, ad esempio, i frutti di tale processo saranno goduti in misura maggiore da quei gruppi etnici che sono meglio attrezzati - culturalmente, storicamente - per trarre beneficio dal cambiamento, con maggiori chance di arricchirsi. Con ciò, le fratture sociali potranno soltanto accentuarsi, invece che ricomporsi. Le regioni più fonde e con migliori performance potrebbero allora decidere per una secessione che le divida dalle regioni povere e meno efficienti; così come alcune aree accomunate per disponibilità di risorse potrebbero cercare di dare vita a strategie ed azioni volte a conquistare una supremazia, che si scontrerebbero con la risposta violenta dei difensori dello status quo. Non v'è dubbio che esistono anche società multietniche nelle quali il senso di appartenenza etnica resta debole, e anche uno più marcato può originare rivendicazioni politiche a corto di sovranità. Talvolta, le istanze di autonomia o autodeterminazione su base etnica possono trovare accoglienza in uno Stato esistente. Così è per le rivendicazioni catalane in Spagna, i fiamminghi in Belgio, e gli scozzesi nel Regno Unito. Almeno per il momento. Nondimeno, tali soluzioni sono alquanto precarie, soggette a cicliche rinegoziazioni. Nei Paesi in via di sviluppo, poi, dove gli 85


Stati sono una realtà più recente e dove i confini spesso dividono ed interrompono una continuità etnica, è assai più probabile che si verifichino spinte verso la disaggregazione etnica ed il conflitto locale. Inoltre, come affermato da Chaim Kaufmann, una volta che l'antagonismo di matrice etnica ha ecceduto determinati limiti nelle forme di manifestazione, giungendo alla violenza, è sempre più difficile mantenere gli opposti gruppi all'interno di una comune linea di azione. Tale infelice realtà crea qualche difficoltà a quanti supportano l'intervento umanitario in simili conflitti, poiché per creare condizioni di pace - e mantenerle - tra gruppi che oramai si odiano e temono a vicenda, con ogni probabilità si deve ricorrere ad onerose e durature missioni militari, piuttosto che a missioni poco impegnative in termini di costo e di tempo. Quando la violenza locale esplode fino alla pulizia etnica, in aggiunta, i ponderosi flussi di rifugiati che rientrano nelle proprie terre di origine a seguito di un cessate-il-fuoco hanno raggiunto grandezze ingestibili e non desiderabili, creando le condizioni per un ulteriore conflitto civile. La separazione geografica potrebbe costituire la soluzione finale più umana di fronte a conflitti locali di tale intensità. Certamente, crea nuovi flussi di rifugiati, ma quanto meno affronta il problema alla radice. La sfida posta alla comunità internazionale consiste nel separare le comunità nei modi più consoni sul piano umano: fornendo assistenza per il trasferimento ed il trasporto; garantendo diritti di cittadinanza pieni anche nella nuova patria; assicurando il necessario supporto finanziario per il nuovo insediamento e la piena integrazione economica. Il conto è certo molto salato, ma difficilmente superiore ai costi materiali derivanti dall'interposizione ed il mantenimento di una forza militare straniera che sia sufficientemente grande da pacificare le rivalità etniche. Per non dire dei costi morali dell'inazione. Gli scienziati sociali contemporanei che scrivono di nazionalismo tendono ad enfatizzare i caratteri contingenti dell'identità di gruppo - in relazione, cioè, all'incidenza delle manipolazioni degli ideologi e dei politici in grado di creare un sentimento nazionalistico di matrice politica e culturale. Tali scienziati si richiamano costantemente al concetto di "comunità immaginata" di Benedict Anderson, come se dimostrando che il nazionalismo è un costrutto culturale lo si possa privare della sua forza. È vero, senza dubbio, che l'identità etnonazionale non è mai naturale ed ineluttabile come i nazionalisti vogliono far credere. Eppure, sarebbe un 86


errore pensare che il nazionalismo, poiché è in parte una costruzione artificiale, è fragile o infinitamente malleabile. Il nazionalismo etnico non è stato un episodio occasionale della storia europea: esso si è invece posto in corrispondenza con alcune concrete tendenze durevoli dello spirito umano, che sono acuite dal processo di creazione dello Stato moderno; è una fonte formidabile di solidarietà e di odio allo stesso tempo; e in un modo o nell'altro, continuerà ad esistere per le generazioni a venire. L'unica via per trarne vantaggio è affrontarlo a viso aperto.

(traduzione di Claudia Leopedote)

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Ilnazionalismo etnico e l'Europa Dibattito in redazione *

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ergioRistuccia (Presidente Consiglio italiano per le Scienze Sociali) illustra le ragioni del dibattito, ovvero sviluppare una riflessione sui tema del nazionalismo etnico, a partire dalle provocazioni dell'articolo di Jerry Z. Muller, del quale non si devono necessariamente condividere le premesse teoriche e gli strumenti metodologici. Ha ragione Alessandro Silj - che non ha potuto partecipare al dibattito ma ha inviato un commento - il quale muove non pochi appunti critici all'autore ed all'articolo nel suo insieme, a partire dalla terminologia in uso. Ciò che conta è soffermarsi, nel quadro del dibattito sull'Europa, sul ruolo e sulle caratteristiche dell'etnonazionalismo, nella misura in cui esso può avere implicazioni rilevanti e concrete per la società e per le istituzioni, in relazione alle politiche che si rende necessario attuare. Mario Zucconi (Politologo, Public Policy Scholar - Woodrow Wilson Center for Scholars, Washington Dc) osserva che il problema principale che si pone l'autore, in quanto americano, è l'Iraq che non a caso è l'errore storico degli USA nel dibattito attuale. L'articolo di Muller, ad ogni modo, affronta un discorso trattato dagli studiosi negli anni passati, a partire dal 1991, con la discussione che confuta l'idea di naturalità dell'etnicità, e che ha portato ad un corpo di dati ben più rilevante e corposo; egli sembra non conoscere bene gli autori sull'etnonazionalismo (Walzer Connor ed Ernest Geliner) che cita solo nelle parti che gli fanno comodo e non in altri casi che andrebbero in senso opposto al suo in termini di senso generale e diffuso della nazione (cf. Eugene Webber, 1977 sul caso francese e la circoscrizione obbligatoria). In questo senso, i concetti cui ricorre l'autore sono poco chiari e corretti. Il concetto di etnia, ad esempio, è diverso da quello di nazionalità. Il caso più drammatico di

*Tenuto il 10 giugno 2008 a Roma, nella sede della rivista.


etnicità è quello del 1994, con lo scontro tra Hutu e Tutsi in Ruanda, dove l'etnia si è sovrapposta all'autoidentificazione. Non così negli Stati Uniti quale crogiolo di etnie e popolazioni. Così come le differenze andrebbero cercate anche in prospettiva diacronica, dalle guerre balcaniche del 1912-1913 al 1923, fino al nazismo. La riflessione ha bisogno di un contesto definito, che nel nostro caso è l'arena democratica. La sovrapposizione di Stato e nazione, nella teoria di Muller, secondo cui la decantazione dell'etnicità ha consentito la formazione degli Stati, con meno conflitti tra etnie a seguito anche degli spostamenti di interi gruppi da un territorio all'altro, non coincide con i dati statistici. L'omogeneità ètnica si riferisce a Stati con il 90% di presenza di una certa etnia quale popolazione principale, maggioritaria. È questo il caso di un terzo dei Paesi. Mentre il 50% degli Stati moderni presenta un'omogeneità del 75%. Sono tutti prodotti della storia. Walter nel 1978, sul Washington Quarterly, parlava del caso Inghilterra-Scozia, ed individuava nella negoziazione politica nel mercato politico la causa del risorgere dell'etnonazionalismo. Ancora una volta elementi differenti ed esterni all'etnia che giocano un ruolo importante. Si veda il caso della scissione tra Macedonia e Slovenia: in quest'ultima ha giocato il differenziale positivo rispetto alla Macedonia in termini economici, di tasso di disoccupazione, e così via.

Paolo Calzini (Professore di Relazioni internazionali e studi russi - Bologna) trova inesatto, disorganico ed approssimativo l'articolo di Muller ma utile quale occasione, base di discussione. Il problema che si pone è vedere quanto l'etnonazionalismo conti in Europa o quale potenziale abbia, dall'Europa occidentale (la questione basca) a quella orientale (la Cecenia). Ciascun caso richiede una definizione storica e geopolitica ad hoc, senza generalizzazioni rischiose. Alcuni appunti generali possono comunque essere fatti. Una linea di pensiero (Louis Snyder) distingue tra quattro tipi di nazionalismi: quello classico è civico o etnico. Cui si aggiungono quelli rivoluzionari, controrivoluzionari, etc.. Va detto, allora, che questa distinzione è troppo rigida. Poiché in molti casi vi sono forme ibride di nazionalismo: civici ma con sfumature etniche. Il caso della Russia è paradigmatico, con la presenza all'80% di russi e al 20% di musulmani, ceceni, etc.. L'ibridazione è sorta con il caso ceceno. Muller sbaglia anche a dire che, con il crollo dell'Unione Sovietica, le minoranze russe tornano in Russia, poiché ciò accade dall'Asia centrale, non dall'Ucraina, dai Paesi Baltici, dal momento che non esiste un forte senso 89


etnico russo. Il sistema ha retto, senza revanchismi. Infatti, la tradizione russa, non essendo in misura preponderante statuale, bensì largamente imperiale, ha saputo gestire in modo complesso la multiculturalità. L'esperienza sovietica è un altro modo di gestire questa diversità e complessità: il federalismo etnico o etnofederalismo è qui un concetto importante, con le ottantadue regioni sovietiche che tentano di ritagliare le diverse amministrazioni su base etnica. Si pone il problema della democratizzazione: la fase in cui si introduce la mobilitazione, il senso di partecipazione che apre ad una presa di coscienza e consapevolezza, aprendo anche al nazionalismo etnico come ideologia forte di concorrenza e competizione politica. Ecco che viene in evidenza il ruolo delle élites, degli imprenditori etnici che giocano su questo fattore, col rischio di iniziare con la democratizzazione e finire con l'autoritarismo.

Adriano Ferracuti (Economista ed analista dello sviluppo locale - Presidenza del Consiglio) esamina la prospettiva dell'economia dello sviluppo nell'esperienza delle politiche sul territorio negli ultimi anni (ad esempio, l'azione del ministero degli Esteri). Per quanto riguarda l'Italia, ci sono tre tipi di intervento in tale quadro, per il governo del fenomeno migratono nell'ottica dello sviluppo del nostro Paese e dei Paesi di origine: 1) i programmi di sostegno, in cui il nostro governo elargisce, come donor, risorse ai governi senegalesi, ghanesi, etc, per favorire il ritorno dei loro cittadini nei Paesi di origine; partito nel 2000, tale asse di intervento si è modificato nel 2002-03, con la presa di coscienza che non tutti i cittadini immigrati erano orientati a rientrare nei Paesi di origine. Ecco allora che è stata sviluppata la seconda strategia di azione: 2) tra il 2003-05, si avviano nuove politiche di valorizzazione sul territorio italiano degli immigrati, con il finanziamento di progetti a sostegno della piccola imprenditoria straniera svolta sul territorio di origine ma anche in quello italiano. È il caso del macro programma internazionale MIDA (Migration for Development in Africa) - cui l'Italia destina 2 milioni di euro (segmento Senegai e Ghana) - ed altri simili che affrontano il multiculturalismo etnico come ricchezza, come risorsa e non come elemento problematico. Con ottimi risultati. 3) Un altro filone attivo in Italia è quello costituito nel 2005, anno internazionale del Microcredito, sulla base della risoluzione ONU che incoraggiava politiche di sviluppo di tali metodologie di aiuto; l'Italia ha investito nei progetti in favore di alcune minoranze etniche, per la rivitalizzazione economica della Macedonia e delle zone balcaniche. 90


Siamo così usciti dalla canalizzazione degli aiuti dal sistema bancario classico, attraverso forme innovative della cosiddetta finanza partecipata o consolidata che coinvolge le municipalità dei Paesi di origine, quali motore dello sviluppo locale, attraverso il monitoraggio e la gestione delle risorse loro devolute. Negli ultimi anni, quindi, l'Italia ha iniziato a riconoscere nell'immigrato una risorsa, con un'innovazione forte rispetto al passato: non cercare più il rientro degli immigrati nei Paesi di origine, ma favorire comunque lo sviluppo di tali territori (insieme a quelli italiani che ospitano i flussi di immigrazione), attraverso la promozione di forme sinergiche di cooperazione tra Paesi, che attivino strategie efficaci di cogestione delle risorse e delle politiche, forme combinate di imprenditoria. Ci sono molti punti di criticità: in primo luogo, il low budget, la mancanza di risorse sufficienti che annienta la buona volontà, e rende gli interventi meno incisivi ed efficaci. Vi è poi la grave mancanza di coordinamento generale tra i vari attori centrali e locali, le Regioni e lo Stato centrale, con la conseguente duplicazione di azioni, che si rivelano ora sovrabbondanti, ora inefficaci. Altro problema enorme è la scarsa attenzione del sistema bancario finanziario nazionale a tali temi (la canalizzazione delle rimesse avviene spesso per canali informali; non vi sono statistiche ufficiali in materia, ma si stima che, attraverso diciassette diversi canali, di cui oltre due terzi sono non ufficiali, il flusso è pari a circa cinque milioni di euro), combinata agli ostacoli posti dai sistemi bancari dei Paesi destinatari dei finanziamenti italiani, con la richiesta di garanzie, collaterals, e con tassi di interesse praticati per piccoli prestiti (microcredito che diventa microusura) altissimi: ad esempio, in Macedonia, alcuni istituti bancari del microcredito, partecipati da istituzioni finanziarie internazionali, impongono un tasso di interesse del 24% annuo. Compromettendo seriamente lo sviluppo locale di questi Paesi.

Piero Bassetti (Presidente della Fondazione "Giannino Bassetti" e di "Globus et Locus") porta ad esempio l'iniziativa della Banca Intesa San Paolo, denominata "Progetto Imprenditori Immigrati a Milano", per agevolare l'accesso al credito e prevenire il ricorso alla "finanza informale" dell'imprenditoria dei cittadini immigrati, con obiettivi e requisiti molto puntuali e corretti. Va sollevata la questione del risparmio, non solo del finanziamento, degli immigrati. Detto ciò, la finalità concreta del progetto "Italici" di Giobus et Locus è quello di lavorare alla definizione del concetto di "italicità", diverso dall' 91


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italianita come cittadinanza definita e sancita dal passaporto. L italicità" agisce operativamente, ma sfugge ad una definizione. Urge una riflessione su quale metodo seguire per affrontare il tema e le provocazioni di Muller, scegliendo tra un approccio analitico-descrittivo ed un approccio funzionale-finalistico. La confusione tra i due approcci è foriera di drammi analitici e pasticci alla Muller, o di drammi funzionali e pasticci alla Hitler o al Burundi. Il contributo di una struttura come il Css è provare ad applicare le scienze sociali a tale questione delle appartenenze (come nella categorizzazione di Amartya Sen). Cosa cerchiamo di fare, se non di definire la natura del fenomeno, partendo dal modo di organizzazione prescelto? Una ricerca sociologica che mira a definire la caratteristica del gruppo, cioè se etnico o nazionalistico, è teoricamente carente, vaga. In termini di mercato politico, tali fenomeni di natura culturale e sociale, poi, sono oggetto di una gestione strumentale politica che è variata nella storia. La questione delle appartenenze e di come esse sono state recepite dall'organizzazione politica e quindi usate sarebbe una ricostruzione utile ed interessante al fine di fare rientrare tale approccio nei presupposti delle scelte dei politici che si muovono con una libertà definitoria assoluta. Si veda la Lega Nord ed i relativi discorsi che, lungi dall'essere intrisi di biologia, eugenetica ed antropologia per la definizione delle soggettività politiche, attingono all'intero repertorio sociologico e politico in senso lato, e confusamente. Muller però riesce a cogliere il punto centrale della questione, ponendosi la domanda "in questa confusione, quali saranno le possibili previsioni comportamentali?"; "possiamo dire che il nazionalismo conterà in un futuro che è già cominciato?". Si tratta di nodi importanti, se pensiamo alle strategie ed alla retorica americana in termini di melting pot. È vero che i criteri di aggregazione e di appartenenza dei demoi sono infinitamente variabili nella storia. Ma questa non deve essere una considerazione rinunciataria della politica: perché la politica dovrebbe in qualche misura contribuire a fare la storia. Va piuttosto preso atto che il confine territoriale dello Stato nazionale non è più valido nella definizione delle appartenenze. Lo è stato in passato, e le stesse istituzioni - la scuola in primo luogo - hanno svolto un ruolo di formazione delle identità nazionali. Anzi, sono sorte a tale scopo: formare l'appartenenza statuale dei cittadini di una nazione. Entrambi quali prodotti storici e culturali di una narrazione, ma soprattutto prodotti del potere. Come altro si spiega la stessa costruzione del nemico al fine di compattare il gruppo al suo interno? Una volta esaurita la forza del territorio, del confine, 92

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quale dato di partenza per la definizione delle appartenenze e delle identità, l'individuo si trova a fare i conti con la glocalizzazione, che poi significa mobilità, un diverso contesto di esistenza, in cui lavorare e vivere a contatto con l'altro diventa condizione necessaria e quotidiana. Il tratto caratteristico dell'uomo moderno è la pluriappartenenza, sicché egli dispone di nuovi modi di costruire la propria identità e di autodefinirsi, con cui l'etnicità ha poco a che fare, non c'entra niente o comunque c'entra poco. Sono altri i fattori che discriminano tra popolazioni. Il grottesco divieto di contrarre matrimonio tra romeni ed egiziani risponde ad elementi e considerazioni che non hanno nulla a che vedere con l'etnia, e che considerano l'appartenenza (i confini) all'Unione europea; è questa, in tale caso, ad originare una strategia di creazione di legami tra popoli extracomunitari e popoli comunitari, sulla base delle reciproche convenienze. Sarebbe stato lo stesso se ad essere cittadini comunitari fossero stati gli Hutu. C'è poi il caso della Svizzera, in cui lo Stato è costruito da pluralità di culture, etnie, e le sue istituzioni, a loro volta, creano cultura. Sono tutte sfide su cui ragionare, non da contestare.

Andrea Spreafico (Postdoctoral Fellow in sociologia presso l'Instituto de Ciéncias Sociais dell'Università di Lisbona) prende in considerazione alcune delle affermazioni di Muller da discutere criticamente, al fine di provare a valutarne la portata. La tesi dell'Autore è che "l'etnonazionalismo continuerà la sua azione di riconfigurazione del mondo anche nel ventunesimo secolo", anche dopo il momento culminante della disgregazione dell'ex Jugoslavia, "il trionfo del nazionalismo etnico". Si tratta di una provocazione che, anche avvalendosi di una serie di semplificazioni, sembra cogliere alcune delle dinamiche in atto in un mondo che è tuttavia in trasformazione. Oggi, infatti, democrazia, diffusione della conoscenza di più lingue, tecnologia e mezzi di comunicazione, sviluppi dell'economia, diritti umani, organizzazioni inter- e trans-nazionali, diaspore, migrazioni, mobilità (tutti aspetti che configurano l'intreccio dei processi di globalizzazione), oltre alla diffusione stessa del dibattito sulla differenza ed alla lenta ma effettiva produzione di misure atte a tenere conto di queste differenze da parte delle istituzioni politiche, possono cambiare il quadro, almeno in certe aree del mondo, in direzione di convivenze multiculturali, interculturali, trans-culturali, i cui protagonisti che sotto lo sguardo di alcuni possono apparire ancora appartenenti a una maggioranza e a delle minoranze etnicamente definibili - costruiscano le 93


loro identificazioni o in termini transnazionali, denazionalizzati e de-etnicizzati, o almeno capaci di coniugare in modo indissolubile la dimensione mondiale e quella locale (allo stesso tempo e senza mai toccare veramente il contesto dello Stato-nazione), o anche in termini individuali. Muller giustamente ricorda che vi sono aree che escono dalla fase di decolonizzazione ed in cui i processi di modernizzazione metteranno in moto "forze che premono per l'etnonazionalismo e la disaggregazione etnica", la quale sembrerebbe poter avere anche alcuni effetti coesivi e di stabilizzazione. Tuttavia, si potrebbe osservare che la disaggregazione etnica è un processo che ha una sua variabilità in termini di ulteriori stimoli alla divisione (potenzialmente) conflittuale: ad esempio, in Sudan - un caso che sembra mostrare quanto difficile sia evitare il conflitto tra gruppi etnico-religiosi differenti all'interno di un unico Stato - le popolazioni nilotiche nere del Sud, di religioni indigene, cristiane o animiste, sono divise in una pluralità di gruppi distinti, che però si uniscono nel rivendicare autonomia per le regioni meridionali di fronte a un Nord islamizzatore prevalentemente arabo e musulmano (ciò in presenza di più dialetti e gruppi etnici nelle diverse zone del Paese e di un ruolo dei militari). Le suddivisioni e le alleanze sono mutevoli al cambiare delle situazioni e gruppi etnici distinti si uniscono quando si trovano sotto pressione (l'elemento conflittuale etnico-religioso trae alimento anche da lontane competizioni per l'acqua nell'Ovest e dall'attuale desiderio di sfruttare la presenza di petrolio nel Sud del Paese); ma allora una regione che ottenga l'autonomia o la completa indipendenza, o la cui popolazione sia costretta a subire deportazioni o a migrare oltre confine, come spesso avviene, non troverà poi, prima o dopo, nuovi elementi di divisione? O il riattivarsi di divisioni precedentemente messe da parte? O elementi di conflitto con popolazioni oltre confine che la vedranno subire nuove violenze? Ciò anche in considerazione del fatto che povertà e competizione per risorse scarse possono essere fattori scatenanti di conflitti che si appoggiano su elementi identitari. La presenza di entità statali etnicamente omogenee può essere anche stabilizzante e fonte di solidarietà, come sembra dire Muller, ma rischia sempre di scontrarsi con il desiderio incessante di distinzione che è proprio dell'uomo, che tende continuamente a tracciare confini a scopi che possono essere di sicurezza identitaria (interazione tra solidità della costruzione identitaria individuale e sua edificazione mediante identificazioni in ambiti identitari collettivi) ed al contempo di interesse, ad esempio 94


di tipo economico. Vi è stato un periodo in cui italiani di lingua italiana, che facevano parte della Lega Nord, sviluppavano un discorso teso a descrivere i "padani" come un gruppo con caratteri culturali distinti dagli italiani, con una discendenza, delle tradizioni e dei riti creati come propri, ed a volte essi erano votati con l'idea che la separazione della "Padania" avrebbe permesso di tenere al Nord la ricchezza prodotta, senza obblighi di solidarietà verso aree meno ricche, come quelle italiane del Sud (ora, invece, il distacco si è rivolto verso gli immigrati, ma anche qui per mostrare quanto le distinzioni siano variabili nel tempo - prima il pericolo era identificato nei musulmani, ora invece è costituito da rom e romeni in genere, che non sono musulmani ... ). L'invenzione della tradizione, così come la creazione della differenza, sono processi comuni, che si formano e riformano, e comportano una continua attenzione per la loro gestione, in modo che non si arrivi a immaginare di trovare sempre una soluzione ai potenziali conflitti che essi possono generare in una progressiva frammentazione, alla ricerca di un'illusoria omogeneità. La ricerca di distinzione se non assume una connotazione culturale etnico-religiosa può sempre rivolgersi ad altri aspetti legati al genere, al conflitto sociale e così via. Muller ritorna più volte sui vantaggi della separazione geografica di fronte a conflitti etnici di elevata intensità. A parte il problema che le differenze si creano e si ricreano senza sosta, e che può dunque essere illusorio pensare che non si formeranno sempre nuovi conflitti in ambiti ipparentemente omogenei (si potrebbe poi aggiungere che forse addirittura la guerra di per sé faccia parte delle predisposizioni umane, come l'istinto di sopravvivenza, e che dunque sia meglio prima acquisire un'approfondita consapevolezza di questo aspetto umano), appare più realistico, come suggeriscono già diversi studiosi, tentare di istituzionalizzare il conflitto. La violenza sembra ridursi nel momento in cui si riesca - attraverso la comparsa di nuovi attori e/o la trasformazione di quelli esistenti - a canalizzare e rappresentare politicamente i rancori, gli odi, a conflittualizzare istituzionalmente le rivendicazioni. Si tratta di tentare di dare vita e poi sostenere forme di conflitto non violente, di discussione e confronto politico. Se nei fatti l'etnonazionalismo è un linguaggio che viene usato dalla politica, ciò non toglie che sia utile valutare se tale linguaggio offra vantaggi in termini di riduzione della violenza nei rapporti tra gruppi. Se l'etnonazionalismo riemerge è forse perché offre un discorso che fa facilmente presa sugli animi sia di chi si trova in una situazione di disagio (so95


ciale, economico, spirituale) e dunque trova (o è indotto a trovare) sfogo in meccanismi di divisione e di conseguente produzione di un capro espiatorio", sia di chi teme di perdere potere, o profitti, o controllo sulle credenze, nei confronti di coloro sui quali mira a mantenere tale situazione (obiettivi: possibilità di imporre ordine, di raggiungere guadagni, di affermare verità di diversa natura). In secondo luogo, si dovrebbe prestare attenzione al comprendere altre ragioni dei conflitti etnici; a volte innescati dalla concorrenza per risorse che, invece di essere a disposizione degli abitanti delle aree di conflitto, sono in mano di attori terzi di natura economica multinazionale; a volte innescati da ricadute di conflitti geopolitici per l'ampliamento delle rispettive aree di influenza e prodotti della competizione tra Stati geograficamente distanti dai luoghi del conflitto. Prima di dichiararsi incapaci di rapportarsi con la differenza culturale, se non attraverso l'omogeneizzazione per spostamento, si può pensare alla valorizzazione della nostra comune umanità, o a quella della mescolanza delle culture e alla formazione incessante di nuovi prodotti culturali a disposizione di tutti; o si può tentare di capire se determinati conflitti etnici non siano stati - direttamente o indirettamente - fomentati ed armati da attori politici ed economici interessati. Infine, separare le comunità e trasferirne alcune comporta il problema dello stabilire dove e chi debba essere effettivamente spostato, poiché si ritiene che esso si percepisca come chiaramente, e soprattutto, come membro di una comunità e non di altre; una questione non così semplice. L'identità si costruisce e si ricostruisce incessantemente all'interno degli scambi sociali, è sempre il risultato temporaneo di identificazioni - plurime - all'interno di una situazione relazionale e si avvale a questo scopo di una costellazione di possibili referenti identitari tra cui scegliere per presentare il proprio sé nelle interazioni, anche in quelle violente. Non bisogna ragionare in termini di etnia, di identità collettive, come se fossero entità naturali, ma di individui in relazione, dove ciò che più importa è come essi costruiscono e usano le identificazioni, a seconda di termini e significati che hanno a disposizione e delle scelte che effettuano tra di essi. Il discorso su come concepire le identità è centrale rispetto al modo in cui vengono poi interpretate le questioni inerenti le differenze. Oggi più facilmente si può parlare di diffusione di identificazioni transnazionali. Quando Muller parla di mancata integrazione dei musulmani in diversi Paesi europei opera una semplificazione discutibile: prima parla di "equi96


libri etnici europei" e poi, però, riunisce sotto un'etichetta religiosa, quella di "musulmani", gruppi molto diversi tra loro, anche nei confronti dello stesso aspetto religioso (ciò non toglie che in certi casi l'etnico possa avere un fondamento religioso: l'etnopolitica si è appoggiata nei fatti sul legame croati-cattolicesimo, musulmani di Bosnia-islam, serbi-ortodossia. L'etnico, elaborazione narrativa di esperienze vissute come collettive, è comunque una costruzione socio-storica mutevole). Di nuovo, si semplifica nel constatare una generale mancata integrazione dei musulmani in Europa, dato che ad esempio il discorso varia al variare delle dimensioni che si prendono in considerazione (oltre che al variare dei Paesi o delle aree di origine: quelli di origine subsahariana si trovano spesso in condizioni di ben maggiore difficoltà): molti immigrati che si rifanno all'islam (spesso consapevolmente ricostruito, personalizzato), o più spesso discendenti di seconda o terza generazione dell'immigrazione, sono ultra-socializzati agli aspetti culturali consumistici diffusi tra gli altri loro coetanei, ma vivono la frustrazione di non poter seguire nei fatti i modelli di vita di cui sono a conoscenza attraverso i mezzi di comunicazione, o per averli visti nel centro o nei quartieri più agiati delle grandi città. C'è da sperare, inoltre, che l'Autore, quando parla di "alienazione culturale" dei musulmani in Europa o di loro "limitata assimilazione", non stia pensando al fatto che essi debbano diventare esattamente come i supposti "autocroni" dal punto di vista culturale; credo che l'integrazione preveda da parte degli immigrati l'accettazione di una serie di regole e valori di fondo sui quali si basa il Paese di arrivo, ma che esso al contempo offra loro - oltre alla possibilità di un'integrazione socio-economica - una tutela della differenza culturale (sulle modalità della quale si discute; del resto diverse sono le declinazioni del multiculturalismo, alcune delle quali non sono rivolte alla "creazione di isole etniche" ma alla modifica di uno spazio pubblico statale comune - in direzione del riconoscimento di diritti culturali individuali - nel quale ci si vuole integrare ed in cui si vuole essere riconosciuti); spesso è proprio il riconoscimento della differenza - all'interno degli argini dei diritti umani - che permette di evitare il rinchiudersi in comunità blindate da parte di coloro che se lo vedono negare. Ciò che ci può indurre a sperare che, almeno in Europa, il conflitto etnico non sia un destino inevitabile (oltre al cambiamento del quadro a cui accennavo precedentemente) può essere poi dato dal fatto che gli immigrati si raggruppano in termini etnico-religiosi solo in certe fasi e condizioni; come l'appartenenza alla prima fase o generazione dell'immigra97


zione, che trova sostegno nello sforzo di integrazione grazie alla comunità, o alla terza generazione, che in condizioni di mancata integrazione socio-economica reinventa diverse identificazioni etnico-religiose. Successivamente, però, vi può essere dispersione, mescolanza, cambiamento dei gruppi di riferimento, al mutare del senso di integrazione sociale percepito, al tipo di attività lavorativa, al genere di politiche di integrazione messe in atto dalle istituzioni. Buona parte dei musulmani europei desidera integrarsi e questo in diversi casi avviene, mentre la dimensione religiosa non diviene fonte di conflitti violenti (con diverse eccezioni, anche terroristiche). I conflitti violenti sono invece legati alla presenza di sovrapposizione di disagio socio-economico, disoccupazione, discriminazione, protrarsi di periodi di crisi economica degli Stati di arrivo ed in cui si svolge l'esistenza delle generazioni discendenti dall'immigrazione, al di là e attraverso le loro origini. Per quanto concerne il rischio che siano, invece, gli Stati europei a reagire in termini etnonazionalistici - cosa che, come Muller, giustamente ci ricordano anche alcune delle persone qui intervenute, mettendo in relazione la crisi degli Stati nazionali e i'uso dell'arma etnonazionalistica -, si possono fare alcune osservazioni. Al di là delle limitazioni restrittive prodotte dalle leggi sulla cittadinanza, che (come in Italia) favoriscono coloro che possano vantare anche lontane ascendenze di sangue, si stanno lentamente e progressivamente affermando strumenti di attribuzione di diritti che superano la concessione di cittadinanza Stato-nazionale, così come si diffondono, lentamente e più a livello locale, strumenti di integrazione e tutela delle differenze. Al fianco di atteggiamenti populistici nei confronti del tema dell'immigrazione vi sono anche strutturate e multiformi coalizioni di attori che propongono una concezione solidarista favorevole all'inserimento dei migranti. In Italia vi sono già stati diversi progetti per la riforma della cittadinanza; vi è, inoltre, la necessità di distinguere, all'interno delle istituzioni, il livello della politica e quello dell'amministrazione. Quest'ultima spesso affronta e cerca di comprendere i fenomeni che è chiamata a regolare, e si avvale anche del contributo di studiosi. Siamo di fronte a una situazione incerta, che fa passi avanti per poi tornare indietro, soggetta spesso alle ricadute prodotte dalla retorica elettorale. Se si considerano i risultati del Migrant Integration Policy Index, appoggiato dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo (studio la cui esistenza è di per sé un segno di attenzione e dunque un elemento di 98


speranza), le politiche degli Stati europei rivolte all'acquisizione della nazionalità da parte degli immigrati sono giudicate molto lacunose: solo Svezia, Belgio, Portogallo, Regno Unito ed Irlanda hanno nel complesso una situazione ritenuta "leggermente favorevole"; subito dopo viene la Francia, che possiede un'ottima posizione secondo l'indicatore della doppia cittadinanza e buona per quanto riguarda le condizioni di eleggibilità (qui l'Italia è invece nella posizione peggiore), mentre meno buone sono le condizioni di acquisizione e la sicurezza dello statuto. L'Europa sta prendendo coscienza della necessità dell'integrazione e sembra auspicare una prossima convergenza delle diverse misure che ogni Stato può prendere al riguardo, con l'obiettivo di colmare il divario tra le politiche reali e le migliori pratiche individuate in Convenzioni del Consiglio d'Europa o in Direttive europee comunitarie. Si tratta di passi che esistono, in un percorso lungo e sempre pronto a sfociare in chiusure nazionalistiche, ad esempio in concomitanza con periodi di stagnazione o crisi economica. Il linguaggio etnonazionale può diffondersi con il diffondersi della percezione di insicurezza (che questa corrisponda o meno a fenomeni reali nei diversi settori, o che sia o meno frutto di una sua imposizione comunicativa), attivato per difendere interessi o/e per timore della differenza culturale, per la paura del confronto, della necessità di rimettere in discussione abitudini e tradizioni. Nel momento in cui Muller mette in relazione il successo della redistribuzione operata dal sistema di welfare e l'omogeneità etnica di uno Stato, sembra però presupporre anche che - prima delle diverse ondate di immigrazione che dall'Asia e dall'Africa sono giunte in Europa negli ultimi 40-50 anni - le migrazioni interne all'Europa, che dall'Italia, dal Portogallo, dalla Spagna giungevano nel centro-Nord del continente, non abbiano alterato la supposta omogeneità etnica degli Stati europei. Inoltre, come sappiamo, anche le nazioni sono già di per sé delle "comunità immaginate", e magari anche meticcie. Se, come egli sostiene, la sinistra difende l'immigrazione in nome del multiculturalismo (dove l'identità culturale va concepita però come una scelta), l'idea che gruppi culturali differenti non possano comunicare, essere compatibili e vivere nello stesso territorio è stata spesso identificata con posizioni di destra xenofoba, che fanno riferimento a un'immagine essenzialista delle identità culturali. Si potrebbe forse aggiungere che oggi il declino del ruolo e della autonoma capacità redistributiva dello Stato è prodotto dai processi di globalizzazione dell'economia indipendentemente dalla minore omogeneità della po99


polazione (anche se è vero che è più difficile far accettare l'eventuale allargamento della redistribuzione a nuovi arrivati e percepiti come diversi). Per rendersi conto appieno dell'impostazione dell'Autore può essere utile ora considerare questa sua affermazione: "man mano che la globalizzazione economica favorisce l'ingresso di sempre più Paesi nell'economia mondiale, ad esempio, i frutti di tale processo saranno goduti in misura maggiore da quei gruppi etnici che sono meglio attrezzati - culturalmente, storicamente - per trarre beneficio dal cambiamento, con maggiori chance di arricchirsi". Si tratta di un'affermazione giusta (infatti subito dopo si fa riferimento alla possibilità concreta che le regioni più ricche decidano la secessione da quelle povere) per un verso, ma allo stesso tempo rivelatrice della prospettiva dell'Autore: i frutti del processo di globalizzazione economica non sono tanto goduti da gruppi etnici nel loro complesso, ma da una parte di essi, da coloro che all'interno di quei gruppi hanno la dotazione di "capacità" per trarne vantaggio, insomma da individui. Applicando uno schema di lettura che vede comunque protagonista l'etnia, la realtà viene descritta e costruita di conseguenza. Le regioni non coincidono necessariamente con le etnie, e all'interno di entrambe vi sono individui con posizioni e dotazioni differenti. Gli studiosi hanno un'influenza; gli eventi sono influenzati anche dal modo in cui vengono descritti, magari attraverso interpretazioni che hanno successo e si affermano, per poi venir propagate dai media perché possono colpire l'immaginazione di pubblici che a loro volta le rendono effettive. Si potrebbe immaginare per il futuro anche un conflitto trans-etnico tra ricchi e poveri. Perché non immaginare ambiti urbani (dove ormai abiterà più del 60% della popolazione mondiale nel 2030) spazialmente segmentati, in cui in certi quartieri abitano i poveri di una serie di etnie, ed in altri quartieri abitano i ricchi, più mobili ed interconnessi a livello planetario, che fanno riferimento a una serie di etnie, solo in parte diverse, o a una pluralità di riferimenti identitari temporanei e mescolati o a nessuno? Non voglio negare l'esistenza e la possibilità di antagonismi etnici, ma vorrei considerarli come una delle possibilità in un quadro più ampio ed articolato. L'identificazione etnico-nazionalista è solo una di quelle a disposizione degli individui, in determinati contesti spaziali, temporali e di interazione. Inoltre, la dimensione culturale e quella sociale interagiscono, non è bene considerarle separatamente. I recenti conflitti nelle banlieues parigine sono in primo luogo conflitti sociali, i giovani hanno agito socialmente attraversando i confini etnici, religiosi, culturali. Sono alme100


no 25 anni che vi sono sommosse urbane nelle periferie francesi; povertà e disoccupazione permangono. Se, accanto alla disoccupazione, si considerano discriminazioni e razzismo subiti in diversi settori - oltre al problema che la stessa identità nazionale del Paese di arrivo subisce una spinta verso la sua riformulazione in seguito alla necessità di convivenze multiculturali - in ogni caso le due dimensioni interagiscono e si attraversano. Mi sembra, dunque, che Muller ci parli solo di una porzione, seppure importante, delle sfide che abbiamo di fronte. Sfide che vengono oggi portate a livello planetario anche da questioni di rischio ambientale, alimentare e da temi che, in ondate diverse, vengono diffusi da differenti movimenti sociali globali che valicano le frontiere etnonazionali. Alcune precisazioni conclusive. Già non è semplice parlare di "identità europea" (che potrebbe essere fondata su valori condivisi e su procedure, e non sulla condivisione di determinate caratteristiche culturali, etniche o religiose), ma si effettua una semplificazione notevole nel contrapporre un'identità europea a un attore unitario chiamato "islam" (attore ben lungi dall'essere unitario), ancor più quando diversi milioni di musulmani sono parte integrante dell'Europa, spesso sono cittadini di Stati europei. Ciò non toglie che questa contrapposizione venga effettuata spesso nei fatti, sempre con il bisogno di essere consapevoli della semplificazione. Quando Muller afferma che "molti europei sono finalmente pronti, e perfino ansiosi, di partecipare agli scenari transnazionali quali l'Unione europea, anche perché il loro bisogno di autodeterminazione collettiva è stato ampiamente appagato", così viene presupposto che ogni generazione conosca, senta e faccia sue le esperienze, le conoscenze ed i sentimenti delle precedenti o anche della precedente, e che lo faccia allo stesso modo, il che può essere oggetto di discussione. Si entrerebbe nei problemi della trasmissione della memoria, della diffusione di persone che vivono solo o prevalentemente nel presente assoluto.

Enrico Caniglia (Professore associato di sociologia - Università di Perugia) coglie e apprezza la provocazione lanciata dall'articolo di Muller: l'etnonazionalismo esiste e bisogna farci i conti. In quanto tale, esso è in grado di determinare effetti concreti. Se anche uno studioso volesse dimostrare che il nazionalismo etnico non esiste o non ha dimensioni tali da costituire un problema, magari ricorrendo ad argomentazioni valide quali la natura di "comunità immaginata" dell'etnonazionalità, ciò non sposta 101


il fuoco della questione, poiché quello che la gente pensa e in cui crede ha una sua efficacia sui comportamenti, ed affermare il contrario non cambia le cose, non può essere di alcuna consolazione o illuminazione per il mondo accademico, poiché non cambia la politica che va a rimorchio del linguaggio etnonazionalista. Resta una sfida importante. Che non è quella di convincere ciascuna comunità politica della natura fittizia e storicamente, culturalmente costruita della singola e distinta appartenenza. La soluzione - il senso stesso dell'articolo di Muller - è quella del realismo politico, che sia davvero tale. Non come quello americano, che si definisce realista e poi però tenta di cambiare il mondo e di esportare la democrazia nei luoghi più diversi e remoti. Il nazionalismo, dunque. Oltre alla distinzione tra civico ed etnico, vi è quella tra nazionalismo differenzialista e nazionalismo assimilazionista: la Francia rientra nell'incrocio tra civico ed assimilazionista, in cui si ammette la possibilità di diventare francesi, e infatti l'acquisizione della cittadinanza da parte di un immigrato o straniero si chiama naturalizzazione mentre quello dei Paesi balcanici è un nazionalismo etnico e differenzialista che produce omogeneità allontanando i gruppi minoritari appartenenti ad altre nazionalità. Una volta individuati i termini della questione, lo studioso che intenda trovare una risposta ai problemi che sono sul tavolo dovrebbe assumere il fenomeno del nazionalismo come una questione che sta per qualcos'altro. Ecco, questo qualcosa è la crisi dello Stato nazionale. L'etnonazionalismo esprime una disperata r,eazione degli Stati nazionali ai processi di globalizzazione, l'etnonazionalismo è espressione di una debolezza, di una crisi. Ecco che interventi in senso nazionalistico (ad esempio, in materia di cittadinanza) che altrove (negli Stati Uniti) sarebbero considerati in violazione dei diritti individuali sono perpetrati quotidianamente un po' ovunque. Sono segni di debolezza di Stati che non riescono a gestire i fenomeni dei flussi di popolazioni tutto sommato indifferenti al concetto di Stato nazione? Si cerca di ovviare a problemi nuovi con interventi tradizionali, molto probabilmente perdenti nel lungo periodo. Occorre distinguere tra fenomeni di immigrazione tra loro diversi: ad esempio, i cinesi di Honk Hong le cui famiglie vivono negli Stati Uniti, mentre i capifamiglia lavorano e fanno imprenditoria in Malesia ed investono in Gran Bretagna non hanno alcun interesse all'assimilazione in un Paese ospite, né a tornare in Cina. Si muovono pensando che il mondo sia il loro Paese, e scegliendo di volta in volta in base alle convenienze 102


(economiche, occupazionali, sociali, etc.). La vera forma di solidarietà che riconoscono è il nucleo famigliare, che però hanno reinventato, secondo una concettualizzazione espansa, allargata. Non vi è traccia, in queste strategie comportamentali, degli Stati nazionali. Né io Stato nazionale potrà mai essere in grado di gestire simili dinamiche.

Calzini osserva che, tuttavia, il caso cinese è da ricondurre ad un contesto storico di lunga durata e ad una tradizione culturale della diaspora sui generis, cui è dovuto anche il successo della ripresa della Cina. La grande massa dell'immigrazione non risponde agli stessi pattern. Il ragionamento è comunque bene impostato, volgendo la questione in chiave propositiva, al di là dell'analisi approssimativa di Muller. Emerge quindi il problema dello Stato, ovvero delle istituzioni, quale elemento chiave. L'aspetto istituzionale, a sua volta, si ricollega, fuori dalla retorica e dell'utopismo, alla domanda "istituzioni democratiche sì o no?". E, quindi, la differenza tra democrazia e democratizzazione e l'ir-rinunciabilitì della democrazia oggi come sistema di mediazione e di gestione istituzionale. Considerando che, ad esempio, la Spagna democratica ha affrontato la questione basca come la Russia semiautoritaria non è stata in grado di fare con il caso ceceno. Lo Stato nazionale, che pure funziona, scricchiola, anche in relazione ai temi delle Regioni, del rapporto del centro con le periferie e delle relative identità coinvolte e fortemente esibite. Con la prudenza richiesta dalla consapevolezza dei contesti di cui si parla. Giovanni Vetritto (Dirigente della Presidenza del Consiglio, Dipartimento Affari Regionali) si sofferma sul senso generale dell'articolo di Muller, piuttosto che sull'aspetto tecnico dell'etnonazionalismo; senso condensato nel titolo "Us and Them", ovvero il macrofenomeno di chiusura identitaria su diversa scala nei confronti del "diverso", di cui parlava anche Ralph Dahrendorf, nelle sue lezioni tedesche su un mondo instabile del 2003. La globalizzazione, indotta dai modelli postfordisti della produzione e distribuzione, disarticolati e svincolati dai territori, origina infatti paure, tensioni, sentimenti di anomia dell'individuo, profonde fratture nell'investimento e nell'adesione culturale e politica alle impostazioni opposte (l'individualismo e il cosmopolitismo), portando a reagire all'universalismo con la difesa del confine. Un punto rilevante, a questo proposito, è la distanza tra la politica e le politiche in gioco. 103


Un esempio utile è quello del progetto co-finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale per la cooperazione interregionale, cui lavora il Dipartimento Affari Regionali della Presidenza del Consiglio, realizzato da alcune Regioni italiane ed i Balcani, per sfruttare il risparmio degli immigrati come massa di risorse finanziarie da incanalare con vantaggio reciproco, per governare fisiologicamente l'ingresso del settore bancario in questi territori. In questo ambito, la Regione Veneto, che pure è percepita come espressione di sentimenti "leghisti", ha aderito al progetto, esplicitando tra le finalità della sua opzione un'insieme di politiche concrete sottotraccia da perseguire, quale quella di attrarre l'immigrazione dell'Est Europa, e manifestamente opposte ai processi ideologici proclamati a gran voce. Dunque, la politica si differenzia da le politiche. Eppure il pensiero sociale ha la sua importanza e le sue conseguenze, anche se evoca concetti culturalmente malfermi, soprattutto quando diventapogrom (gli assalti ai campi Rom). O, al contrario, quando si identifica in pluriappartenenze fluide: i giovani che si sentono cittadini d'Europa, ma non riconoscono come tali alcuni altri; il cosmopolitismo come appartenenza sì piui ampia ma sempre escludente nei confronti di alcuni "altri da sé", percepiti come diversi. Le direttrici da seguire per cercare di far fronte a questi immani problemi sono due. In primo luogo, nonostante il grave ritardo che si sta accumulando, occorre assecondare i processi di disarticolazione-riarticolazione del potere pubblico su molteplici livelli di governo (la cosidetta multilevel governance). Mentre la produzione e la distribuzione economica si svolgono nel mondo su scale territoriali differenti (la globalizzazione del sistema produttivo), i sistemi politico-istituzionali restano basati su strutture amministrative statali ed infrastatali che, irrealisticamente, dovrebbero confrontarsi con qualsiasi problema, su scala micro e macro (idealmente, dalla buca in strada al buco dell'ozono); sicché, la riflessione teorica sulla multilevel governance procede, ma non seguono le pratiche, le esperienze concrete; mancano le fihiere della sussidiarietà verticale che gestiscano politicamente ed amministrativamente quanto invece avviene già sul piano produttivo. La stessa Unione europea, che poteva e deve essere la sfida per un approfondimento dell'azione amministrativa e politica, ha imboccato la via dell'allargamento senza preoccuparsi del resto, escludendo di lavorare su un livello ulteriore, ed allargando l'area degli euroscettici, a fronte 104


di teorie astratte ed ingegnerie concettuali vuote. Cambia il diritto (la nuova fortuna della lex mercatoria), ma non l'amministrazione, non si implementano le necessarie sperimentazioni concrete di sempre più raffinate concettualizzazioni. Il secondo indirizzo rinvia alla questione sintetizzabile nei termini di come fare tutto ciò: ovvero, la questione della copertura politica delle enormi trasformazioni istituzionali da compiere. Il secondo grande assente è questo: classi dirigenti che non rincorrano nel "mercato politico" soltanto e sempre 1" us" (cavalcando i temi della sicurezza, della delinquenza, etc.). Mancano élites politiche che scommettano anche sul "them", che portino avanti le politiche del "them"; manca un gancio, un appiglio ideologico e politico altro per i discorsi sul them . Senza di esso, senza una visione politica "alta", le politiche concrete che pure si pensano per fronteggiare tale complessità non potranno avere successo. Vanno immaginate figure di player politici che investano su concetti "mitici" (il cosmopolitismo) del "them", piuttosto che coltivare retoriche e banalizzazioni pronte all'uso (è il caso di certe letture delle idee dei pensatori liberisti), e che consentano con ciò di superare le categorie trite del dibattito pubblico scommettendo convintamente sulla seconda polarità del dualismo organicismo-liberalismo, comunitarismo-individualismo. Altrimenti, l'eccesso di realismo, che alla fin fine è il cinismo della politica, che insegue le paure e le utilità immediate ed assolute, diventerà costruttivismo non più realistico. Mancano i politici coraggiosi, come Ugo La Malfa, del quale è appena stata pubblicata la bella biografia di Paolo Soddu, che narra come nel 1951 egli venne fischiato dagli industriali milanesi perché aveva scommesso sulla liberalizzazione degli scambi, senza considerare l'utilità contingente, ma con capacità di visione di lungo periodo, che in fin dei conti non gli pregiudicò una carriera politica brillante. A fronte del fatto che l'area di rappresentanza politica è abbastanza ampia per proposte politiche diverse, a patto di presidiare il terreno della propria opzione culturale e sperimentare le concettualizzazioni, per player politici di tal fatta c'è spazio. Neanche l'entropia della politica e della comunicazione è mai perfetta; occorre solo il coraggio di scommettere sui propri valori. Zucconi vede un'ansietà da ricerca di soluzioni strutturali al problema. Ma la politica è un processo, e i fenomeni in esame (nazionalismo, etnicità) sono tra loro diversi. Muller li sovrappone, considerandoli ed esem105


plificandoli però nell'ambito della territorialità degli Stati autonomi preoccupati dal problema della sicurezza, un contesto vecchio, dove contava avere una massa critica sufficiente (Slovenia e Croazia) per sopravvivere e non essere inghiottiti da altri Stati. Non è più così nell'era post-territoriale. È il caso della Slovenia dopo il 1991. Nel 1997, il ministro della Difesa sloveno raccontava che fino al 1994 la Slovenia non ha speso niente per la difesa, e ha ripeso a farlo solo per avere le credenziali necessarie ad entrare nella Nato. Il nazionalismo sloveno non esisterebbe, quindi, senza l'Unione europea che ha costituito da subito un'attrattiva tale da indurre alla disaggregazione su un versante per aggregarsi all'altro. Ecco, allora, che a contare sono una serie di fattori contestuali esterni. L'etnonazionalismo non è una costante, come crede Muller, bensì una variabile dipendente di valori esterni che non c'entrano niente. Ciò vale in generale per le identità, diverse da Stato a Stato. Gli imperi (si veda quello turco) sono un tema affascinante in tal senso, con un collante forte che nel caso della Turchia non era affatto la religione, fino a quando, con il penultimo sultano, si è reso necessario appigliarsi all'islam per ricostituire un nuovo collante a fronte di una popolazione al 75% di matrice islamica. Se si guarda alle statistiche sulla domanda di sharia in Turchia (indagine demoscopiche), nel 2001, periodo di crisi finanziaria, c'era un 21-22% di popolazione che chiedeva la sharia (fattore identitario forte); nel 2002, con un governo islamico (Erdogan) ed un grande successo economico, la percentuale scende al 7%. Tipicamente, anche negli Stati Uniti di oggi, c'è una risollecitazione dei fattori identitari a fronte di elementi di instabilità economica. Ci sono molti altri elementi che organizzano e che mobilitano nelle società, nell'arena della politica democratica. Conta capire quali sono. Il caso jugoslavo è quello più affascinante e discusso: il portafoglio dello Stato centrale, che negli anni Cinquanta riceveva risorse dagli Stati Uniti e dall'Europa per il 30% del bilancio federale, inizia a soffrire; nel 1973-74, il primo shock petrolifero e la mancata modernizzazione portano alla crisi jugoslava ed alla necessità di rimpinguare le casse. Nel 1974, Tito rincorreva l'autonomia per avere il consenso allo Stato federale, scavandosi la fossa da solo. Il Mercato unico europeo è stato determinante per il raggruppamento identitario del nazionalismo sloveno che da solo (la Macedonia non voleva; la Croazia si è aggregata al carro) ha portato alla guerra civile e alla separazione di uno Stato composito ma altrimenti unito. Sono fenomeni separati che giocano un ruolo solo in un dato contesto. Il problema di Muller è che prende 106


l'etnia come il colore della pelle, usandolo come elemento capace di conseguenze politiche immediate. Ed invece è un fatto che molto spesso i politici inseriscono nell'offerta politica perché non possono offrire altro; dopo la Guerra fredda, il consenso economico deve seguire i pattern del consenso economico: cosa ha fatto il politico per me ultimamente? La politica di gruppo è un modo di mobilitare la popolazione in determinate circostanze perché funziona in quelle circostanze. Non cambia la categoria, ma cambia la funzione, cambia il contesto. Ecco perché affrontare la categoria dell'etnonazionalismo non risolve niente. Ristuccia coglie nelle parole di Zucconi la prova che la provocazione di Muller è bene indirizzata, è giusta, nel senso che pone sì il problema di categorie analitiche diverse fra di loro, messe insieme in un modo un p0' "rozzo", ma serve comunque ad una funzione specifica: interrogarsi sul perché - a fronte del mosaico di elementi altri, del contesto esterno - l'etnonazionalismo è sempre lì pronto ad emergere, è la sola arma disponibile, almeno la sola usata in quanto fattore mobilitante nei casi presi in esame. E, con ogni probabilità, nei casi che seguiranno. Non un fatto secondario. Zucconi non è d'accordo. Poiché Muller non pone alcuna sfida. Quantitativamente, il fenomeno dell'etnonazionalismo e la sua incidenza è anzi diminuito! Negli anni settanta, ad esempio, si ci poneva il problema delle politiche di genere (femminismo) e di altre distinzioni di tipo culturale (religione) che diventano fatti politici in ambiti distinti. Bassetti torna sulla necessità di adottare un approccio funzionalista che miri alla sintesi politica e non uno analitico-descrittivo. Ci sono mille ragioni per affermare che praticare l'etnonazionalismo è sbagliato e che politicamente dire ciò non risolve, non interpreta la storia. Ma occorre riflettere su come mai, in un mondo con razionalità diversissime e talvolta assai sofisticate, l'etnicità resta uno slogan che agisce la storia. L'eterodossia ossessiva, soprattutto nell'ipotesi democratica, da rilevare è il ruolo dei media: insieme alla globalizzazione, subiamo la mediatizzazione delle culture, tutte. Tale processo cambia radicalmente il ruolo delle élites in una popolazione mediamente mediatizzata; e così accade per il potere stesso, trasformandone le caratteristiche desiderabili così come per i canali di selezione, nel senso che sono i media stessi ad imporre la scelta sulla base 107


del consenso. C'è un'entropia strutturale nella concezione moderna della democrazia. Il potere è riconosciuto a determinati caratteri individuali che rispondono alla crescente ed medita mercificazione dell'informazione. Tutte le imprese dell'informazione devono fare i conti con questo nel mercato di riferimento, se vogliono ampliare la diffusione. Siccome la politicà moderna, anche nei Paesi non democratici - nell'ipotesi fondante della globalizzazione del tempo e spazio zero nella circolazione dell'informazione - è costruita su un minimo di consenso, ecco che la sollecitazione delle corde antropologiche che stanno dietro gli etnonazionalismi, è una condizione nuova. E lo si vede anche nel risveglio delle religioni, nella nuova affermazione dei valori religiosi. Anche le religioni hanno una capacità comunicativa simbolica forte, evocativa, che altri discorsi razionali non hanno. E questi ragionamenti, come quello di Ugo La Malfa, sono intrisi di illuminismo. Agli industriali, in quel caso, non interessava capire se La Malfa aveva ragione o no, ma se li avrebbe danneggiati o meno. È questa la logica dominante. Gli intellettuali sono oggi continuamente sfidati in tal senso: se vogliono avere un ruolo devono comprendere i modi deteriori con cui la soggettività del globo procede nella storia. L'intelligenza globale non procede per mezzo di categorizzazioni logicorazionali. La componente che sta dietro ed è simmetrica al ragionamento dell'etnonazionalismo è quella secondo cui l'identità è paura. Il libro di Giulio Tremonti, in modo a volte banale e superficiale, fa questa operazione di speculazione politica che mira al potere, costruendo paradossalmente la speranza con i materiali e la logica della paura, senza che qualcuno glielo contesti. Il fenomeno dell'entropia è inarrestabile, e lavora al più basso livello possibile. L'effetto di provocazione su una problematica patologica, innegabilmente esistente ed incidente su fenomeni politici, deve indurre a considerare il processo rovesciato per cui le frenesie di massa condizionano i comportamenti della politica, ed i politici scendono a razionalizzare le frenesia (la demagogia che i greci avevano ben capito: il popolo è agito dal pregiudizio). Siamo nel campo degli istinti, non della razionalità. I media sono tra gli attori che, pur scegliendo gli arbitri, non aiutano a capire e a crescere, non aiutano neanche l'amministrazione. La crisi dello Stato nazionale agisce i sentimenti deteriori perché lo Stato nazionale, fondamentalmente di matrice illuminista, ormai si attacca disperatamente agli istinti, innescando una nemesi, in quanto nato sulla questione delle guerre di religione. Per finire come la Jugoslavia. L'antidoto all'etnonazionalismo è quanto mai euristico, perché obbliga a cercare 108


nell'avanzata di una statualità post-westfaliana, in cui il problema esaltato dall'etnonazionalismo territoriale è il male assoluto. Occorre uscire dalla cultura dello Stato nazionale. La proposta è nuova, come dice Calzini; allora non possiamo ancora discutere i concetti vecchi: dovremmo parlare di Stato globale, ed invece abbiamo parlato troppo di Stato nazionale. Ecco perché le religioni oggi si avvantaggiano rispetto agli Stati nazionali. Il localismo agisce secondo logiche e schemi molto eterodossi: gli immigrati del Nord si trovano (secondo una recente indagine della CgiI non sospetta) meglio nelle Regioni a guida leghista. Per un'ovvia ragione: il Comune, in quanto vicino, retroagisce sulla pseudo-ideologia debolissima del leghismo. Il sindaco di Treviso che deve trattare concretamente il problema degli immigrati non ha esitazione a trattarlo razionalmente. Non può invece farlo Maroni. I problemi delle nuove migrazioni e della nuova statualità vanno di pari passo. Civilization è qui un concetto importante: la vera contrapposizione rispetto al concetto di etnonazionalismo è questo, il concetto di civilization. L'universalismo non è una risposta politica, ancora non lo è. Nessuno sente l'appartenenza al globo, tranne le élites ecologiche i cui discorsi fanno fatica a diventare politici. Il discorso meta-nazionale, invece, che viaggia in un mondo grigio di incertezze, come quello della civilization o quello dell'italicità, si affaccia come fonte di organizzazione del consenso. L'aberrazione della legge sul voto degli italiani all'estero è che questa si attacca all'italianità non all'italicità, per ragioni legate all'anzianità delle categorie concettuali che sottostanno le elezioni, le circoscrizioni. Ponendo questioni scottanti, a fronte di senatori pienamente americani che siedono nel Senato italiano. Rivedendo tale legge, verrebbe fuori la questione dell'italicità. Legare la contestualità dei problemi evocati da Muller è un tema che richiede un lavoro importante di critica o apprezzamento, che però va fatto con categorie concettuali nuove, non quelle che la proposta dell'etnonazionalismo tenta di superare. Nel Manifesto dei glocalisti redatto da Bassetti (www.glocalisti.org ), l'intento è quello di fare emergere una coscienza analoga a quella che ha fatto nascere il nazionalismo, emerso ogni qual volta la difesa della territorialità richiedeva una strumentazione psico-politica, un'identità. I cinesi, avendo una cultura della diaspora diversa da quella ebraica, ovvero comunitaria, sguazzano nei preparativi dell'organizzazione multilevel (Gomorra esemplifica bene la superiorità nel modo di esistere dei cinesi, parallela solo a quella delle mafie). Abbiamo su questo piano, nell'ordine: le Chiese, le mafie e in coda lo Stato nazionale. Tranne nel caso degli Stati Uniti, che 109


hanno rivoluzionato le categorie politologiche, e sono un po' impero, un po' Stato nazionale, un po' quadrate legioni che si reggono sulle forza militare. Se riflettiamo su quali categorie di analisi politologica usano gli americani per gestire il loro potere e fare la storia, non troviamo nessuna delle categorie dei nostri trattati politologici; perlomeno, al massimo sono quelle di Huntington, che certamente non è condiviso dall'intellettualità avendo posto problemi che l'accademia non sa risolvere. Mancano le categorie concettuali. Tutto un set di concetti non è funzionale a rispondere alla provocazione dell'etnonazionalismo. E sul piano strutturale, la comunicazione, come mente acritica, ragiona solo su cose omeopatiche, non comprende il resto, non dice le cose che non sono già sapute.

Ferracuti ricorda che la Comunità economica europea è stata, ad un certo punto, se non un obiettivo almeno un mezzo culturale per realizzare lo stadio del concetto di sopranazionalità e sovrastatualità. Ma le ultime vicende smentiscono tale attesa. I referendum del 2005 sulla Costituzione europea (Francia e Olanda) parlano chiaro. In questi giorni, poi, si vota in Irlanda sui trattato di Lisbona, con molte incertezze sulla vittoria dei sì (il 53,4% dei votanti ha poi detto «no ' n. d. r.). Anche a causa della mancanza di coesione di politiche da parte egli Stati dell'Unione europea. Nessuno, ad esempio, parla della nuova Zona Euro-mediterranea di libero scambio che avrà un impatto gigantesco sulle relazioni economiche, sull'immigrazione, etc., attiva dal gennaio 2010. Poco fanno gli Stati nazionali, meno ancora l'Unione europea. Il rischio è di un'ulteriore dispersione ed annientamento delle politiche, trasferendoci ad un livello sopranazionale. Basset-t-i nota come la discrasia è enorme ed evidente. Il Presidente del consiglio irlandese ha dichiarato l'ovvio dato di fatto che l'Irlanda ha ricevuto molti vantaggi ed aiuti (55 miliardi di euro, dice Ferracuti) dall'Unione europea e nessuna ragione logica di contrarietà. Se c'è un'area di scettici, è perché i media l'hanno creata con un clima di opinione sfavorevole che ha creato il pre-giudizio antieuropeo. Zucconi legge come unica provocazione la sproporzione tra misurabilità della percezione della gravità del fenomeno dell'etnonazionalismo così come creata nel gioco politico e la sua reale dimensione rilevata dalle indagini demoscopiche. La provocazione che si vuole leggere in questo arti110


colo è in realtà tutt'altra cosa, è il problema di come si fa la politica, in una fase storica in cui c'è sempre meno guida e molto pii'J un andare a rimorchio dell'opinione pubblica intervistata per strada. Non stiamo vivendo una fase di acuto etnonazionalismo. E questa una fase in cui la percezione è tale perché la classe politica non è in grado di guidare in altra direzione.

Caniglia condivide l'assunto secondo cui l'etnonazionalismo è una variabile dipendente a fronte di responsabilità che vanno cercate altrove, come nel processo di trasformazione della ex Jugoslavia che però ha parlato il linguaggio degli etnonazionalismi; in particolare, l'attuale effervescenza dell'etnonazionalismo è espressione della crisi dello Stato come massima istituzione della politica. L'etnonazionalismo resta ancora il linguaggio fondamentale della politica. Le parole non restano tali, pur no •n essendo il fenomeno dell'etnonazionalismo un dato naturale. Sono tanti gli esempi che dimostrano la centralità di questi linguaggi; si veda, ad esempio, il saggio di Habermas sulla separazione delle repubbliche Ceca e Slovacca, in cui ciascun ex cittadino della Cecoslovacchia ha deciso su base elettiva se diventare ceco o slovacco con buona pace delle nature oggettive della loro appartenenza etnica. Questo caso dimostra la natura costruita, arbitraria e soggettiva delle appartenenze etnonazionali, ma anche dimostra l'impossibilità di prescindere dal linguaggio etnonazionale nella costruzione di uno Stato. Il linguaggio dell'universalismo, così come quello del cosmopolitismo, non serve a contrastare quello dell'etnonazionalismo, e neanche la ricerca di altri assi di conflitto e contrapposizione può indebolime la forza. Anche in Francia si sono fatti passi indietro sul terreno dello ius soli verso lo ius sanguinis, ancora una volta. L'idea delle identità trasnazionali invece potrebbe risultare efficace in quanto sono modalità concrete con cui alcune comunità già operano (cinesi e indiani ad esempio); ma si deve iniziare dalla ridefinizione delle stesse identità nazionali funzionali alle strategie della politica, per la quale interpretano le esigenze del territorio. Si tratta di inventare una serie di concetti. In questo gli studiosi si trovano spiazzati perché legano i loro ragionamenti ai dati empirici. Chi si muove su logiche politiche come Bassetti, riesce veramente a vedere più lontano e a stimolare la ricerca nelle giuste linee di approfondimento. Condizioni politiche impossibili ieri sono diventate reali oggi, come nel caso dello Stato che allontana i propri cittadini indesiderati indirizzandoli 111


verso altri Stati. I romeni sono inizialmente emigrati in massa nelle Repubbliche Slovacca e Ceca, dove i sindaci da tempo chiedevano poteri di polizia per fare fronte al flusso ed alla difficile gestione, distruggendo il patrimonio di integrazione con i romeni che invece abitavano là da secoli. Il flusso si è quindi spostato verso l'Italia che, come gli altri Stati nazionali, si avvale dei soliti strumenti nazionali di "non-gestione": cittadinanza, espulsione, rimpatrio, etc.. In mancanza di logiche trasnazionali che non esistono o non riescono a essere efficaci su queste dinamiche. Non sembra utile o risolutorio fermarsi alla critica della politica che non sa gestire la società e le sue contrapposzioni. Restano sul tavolo i problemi che il livello sopranazionale non sa gestire, e nel cui vuoto gli Stati nazionali ormai indeboliti si inseriscono per cercare opzioni di rafforzamento, avocando a sé e solo a se stesso, la capacità di intervenire, inficiando anche le chance di successo e crescita dell'Unione europea. Va ripensata la stessa democrazia che non coincide con lo Stato. La lezione degli Stati Uniti all'Europa in tal senso è che la democrazia non esiste soltanto quando i conflitti di riconoscimento e di identità appaiono poco radicali, ovvero quando non sono in gioco le identità etniche che invece sono forti. La democrazia, insegnano gli Stati Uniti, può esistere in presenza di conflitti di riconoscimento esattamente come in presenza di conflitti redistributivi incentrati sulle risorse e sulla loro suddivisione tra gruppi, secondo la negoziazione parlamentare. È vero che l'Europa democratica reagisce ai conflitti di riconoscimento con la separazione, l'espulsione. Non così in America, un Paese la cui democrazia tutto sommato regge, pur spaccata al suo interno (ci sono e ci sono state istanze esplosive, quali quella nera ieri ed islamica oggi).

Calzini invita a tenere ben distinti i concetti di democrazia e democratizzazione. Ristuccia chiude i lavori di un incontro il cui senso è stato quello di raccogliere discorsi su una provocazione che andrà incentrata sull'Europa. Si tratta, infatti, di cogliere una provocazione cosmopolita, per un modello europeo che certamente non potrà essere quello kantiano, ma necessita di una controproposta per il contenimento e la gestione migliore dei problemi affrontati, reali nei loro effetti. Si tratta del dibattito che da tempo impegna Ulrich Beck o, di recente, Massimo Cacciari nel suo confronto con Aldo Bonomi. Occorrerà continuare la discussione. Per rilanciare i temi 112


dell'Europa oltre le questioni di bassa cucina (il sistema elettorale e le relative soglie di sbarramento) e dissentire, come scienziati sociali, rispetto alla volontà di mantenere sempre un così basso profilo. In tal senso, al di là di Muller, ci sono altre provocazioni che vanno affrontate. Così Alessandro Silj in un paper di commento al testo di Muller: "L'impressione generale è negativa. L'articolo è un compendio di definizioni dell'etnonazionalismo spesso superficiali, deboli e in molti casi lacunose a livello teorico e contestabili a livello storico. Questo mio giudizio forse è troppo severo, ma senza dubbio influenzato da alcune affermazioni/interpretazioni della storia europea molto contestabili. Per esempio: - L'Autore parla di 'apogeo dell'etnonazionalismo negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale' quando nel periodo della Guerra fredda la stabilità dell'Europa sarebbe stata la conseguenza dell'ampio successo fin lì avuto dal progetto etnonazionalista'. Enunciato così perentoriamente, senza un corredo analitico, il lettore potrebbe essere indotto a credere che anche l'impresa della Comunità europea voluta dai padri fondatori è riuscita grazie all'etnonazionalismo, mentre è vero il contrario. - Nell'impero ottomano e negli altri imperi i contadini erano 'etnicamente distinguibili'? Che significa? Che soltanto alcune etnie fornivano manodopera all'agricoltura? Tra l'altro, l'impero ottomano rimane un raro esempio nella storia di rispetto di tutte le etnie e di società multiculturale. L'Autore forse non ha letto Taylor, e altri grandi studiosi del multiculturalismo? - L'istruzione e l'omogeneizzazione della lingua come strumenti per combattere l'analfabetismo avrebbero 'portato diritto ai conflitti tra gruppi con lingue e risorse locali differenti'? Dove, in quali Paesi, in che epoca? Questa e altre affermazioni dell'Autore non illustrate con esempi possono apparire gratuite. - L'affermazione che uno Stato moderno è caratterizzato da un legame diretto tra governo e individuo (quid delle democrazie parlamentari?), e che ciò indebolisce i legami tradizionali quali famiglia, comunità, ecc. andrebbe elaborata, per dire il meno... - Le pagine dedicate al regime nazista potrebbero suggerire che il nazismo è stata una manifestazione di etnonazionalismo (qui forse la mia lettura è sbagliata, però ... ) - il che, se in strictu senso può essere una rappresentazione corretta, storicamente è fortemente riduttiva. 113


- Dopo la caduta del Muro, si sono ridisegnati i confini e molte minoranze hanno cambiato casacche, scrive l'Autore. Esatto, ma come fa ad affermare senza precisazioni che 'le minoranze magiare della Romania sono andate in Ungheria' dimenticando che il nord della Romania è etnicamente tuttora ungherese e in Romania opera un partito politico 'ungherese'? - Appare presuntuoso scrivere, dopo un riferimento al collasso della Jugoslavia, che la trama della disgregazione di popolazioni nell'Europa moderna 'è scarsamente nota'; oltre al nostro Autore molti altri insigni studiosi ne hanno scritto e discusso. - Altra affermazione che andrebbe accompagnata da un minimo di analisi e di esempi: che l'espulsione di minoranze da parte di un gruppo di maggioranza 'è spesso il risultato del loro successo'... Io non sono uno studioso di etnonazionalismo, ma neppure lo saranno molti lettori di Foreign Affairs, quindi qualche elaborazione del concetto che l'etnonazionalismo è una conseguenza diretta della modernizzazione, ad esempio, mi avrebbe interessato. E, soprattutto, credo che occorrerebbero delle distinzioni tra i diversi modelli di etnonazionalismo e una più attenta visione storica. Per esempio, poiché il tema era l'Europa, sorprende l'assenza di cenni ai Paesi Baschi e all'Irlanda. E talvolta, sospetto, l'Autore non coglie le differenze tra movimenti (etno)nazionalisti e movimenti regionalistici (vedi la Catalogna). Infine, più fondamentalmente, se è vero che oggi di etnonazionalismo si può parlare per l'Europa orientale, ex Unione Sovietica e area balcanica (facendo tuttavia attenzione a non considerare come tale certi confronti tra maggioranza e minoranze), mi chiedo: nell'Europa occidentale non sarebbe più esatto parlare di movimenti identitari, di definizione (riscoperta, difesa) di una identità culturale e nazionale di fronte al globalismo e, soprattutto, all'immigrazione (in particolare quella di matrice islamica)? Concludendo, debbo ammettere che ho dei grossi problemi (pregiudizi) di ordine concettuale con il termine etnonazionalismo, nel quale confluiscono due fenomenologie che possono essere profondamente diverse; e sospetto che una storia dell'Europa contemporanea raccontata utilizzando esclusivamente e a 360 gradi questo strumento (addirittura anche per un commento sulle condizioni ambientali/etniche/genetiche/ecc. che possono favorire o limitare la creatività artistica - vedi l'osservazione su Kafka) è un esercizio che può portare a rappresentazioni distorte della nostra realtà". 114


queste istituzioni o. 1501151 luglio-dicembre 2008

Cosa vuoi dire "integrazione" nelle società dell'immigrazione? di Andrea Sprea fico

N

elle prossime pagine si proverà a discutere l'uso del termine "integrazione", cui possono far ricorso tanto gli studi sull'immigrazione quanto gli attori politici che intendono regolare il percorso e le conseguenze desiderabili di quest'ultima. Oggi molte analisi condotte nella prospettiva della sociologia, ma anche della scienza politica e del diritto, parlano dell'integrazione degli immigrati come di un problema, o meglio di un tema, tra i più attuali tra quelli che le società contemporanee si trovano ad affrontare. Ed anche le istituzioni politiche locali, nazionali e sovranazionali si occupano con crescente e/o rinnovato impegno della questione. Qui ci si propone di muovere i primi passi' sia al fine di mostrare l'ampio insieme delle connessioni di cui è necessario tenere conto quando si parla di integrazione, sia a quello di comprendere meglio di cosa si stia effettivamente parlando quando ci si preoccupi dell'integrazione degli immigrati e ci si proponga poi di pensare, produrre e mettere in atto delle politiche per integrare i primi con la consapevolezza che la distinzione tra destinatari e non-destinatari delle misure adottate spesso non è evidente. INTEGRAZIONE

In prima approssimazione, quando si parla di "integrazione" in termini sociologici si può pensare all'esistenza di un insieme, più o meno ampio, di persone potenzialmente interagenti (o al limite solo potenzialmente e reciprocamente influenzate nell'agire dall'esistenza di altri, cioè di altre persone dell'insieme) che si autopercepiscono - e vengono spesso percepiti dall'esterno - come un collettivo distinguibile che desidera permaneL'autore è Postdoctoral Fellow in Sociologia presso l'Instituto de Ciéncias Sociais dell'Università di Lisbona. 115


re (o le sue autorità desiderano far permanere) nel tempo, al di là della progressiva scomparsa e sostituzione di suoi singoli elementi costitutivi, e che, per farlo, ha bisogno di un livello di coesione sufficiente affinché il naturale conflitto che può manifestarsi al suo interno non ne produca la disintegrazione. Nel momento in cui si impiega il termine "percepire" si mette anche in luce il processo di costruzione della realtà dell'esistenza di tale collettivo, nel quale - in base alla particolare forma assunta dalle interazioni, avvenute e potenziali (attendibili), in un determinato periodo si possono produrre dei contenuti, delle istituzioni, che esistono in quanto vi è convergenza delle differenti attribuzioni di senso da parte delle persone che sentono di farne parte. La costruzione che si è messa in moto si avvale poi di due aspetti particolarmente rilevanti per la sociologia: da un lato, il processo situazionale di identificazione dei singoli in una pluralità di possibili costellazioni di simboli e riferimenti identitari, effettuato allo scopo di produrre un'identità individuale momentanea utile al destreggiarsi nell'affrontare l'azione sociale, i diversi e mutevoli scopi che ci diamo nella vita - processo che al contempo può fornire il senso, più o meno durevole, dell'esistenza di un'identità collettiva caratteristica ed accomunante. Dall'altro lato, il processo di categorizzazione linguisticoconcettuale che accompagna l'aspetto precedente., visibile ad esempio nel momento in cui la costruzione della frontiera identitaria 2 venga effettuata grazie al linguaggio. Come ci ricorderebbe Harvey Sacks (19641974/1995/2007), sulla scia di Austin e Searle 3 , molte azioni sono fatte con parole il cui significato varia con il loro uso sociale; dunque possiamo aggiungere, per i nostri scopi, una frase esemplificativa che una delle persone che ritengono di essere parte del suddetto collettivo potrebbe pronunciare durante una conversazione rivelatrice: "noi siamo italiani perché siamo nati nel territorio dello Stato italiano da genitori che prima di noi sono nati in Italia". Una frase più formale ma dal contenuto simile potrebbe, solo ipoteticamente, essere stata scritta nella legge sulla cittadinanza ed insegnata nelle scuole con termini analoghi, in questo modo chi non rientrasse nelle categorie linguistiche adottate per indicare i membri potrebbe essere genericamente categorizzato come un estraneo. Quest'ultimo non è ovviamente un estraneo di per sé, verrebbe percepito in questà modo in seguito a tale categorizzazione linguistica, categorizzazione che può essere modificata, ma che in genere tende ad essere data per scontata ed a costituire parte del senso comune. Finché non è modificata, l'estraneo che desideri diventare meno estraneo deve essere messo in con116


dizione di non rappresentare un pericolo per la permanenza nel tempo della collettività, con i cui membri è entrato, per diversi motivi, in rapporti di potenziale interazione; rapporti tali da essere percepiti (da coloro che sono considerati ufficialmente dei membri) come eventualmente meritevoli di essere presi a motivo dell'enunciazione verbale al nuovo membro dell'avvenuto passaggio della frontiera. Costui, dunque, proprio per non mettere a rischio la coesione del collettivo (il primo senso di integrazione è infatti integrazione del collettivo, un'entità in cui regni l'ordine sociale, grazie a una pluralità di fattori interagenti, dalla socializzazione all'identificazione, dall'imposizione di regole all'interesse razionale, dall'interdipendenza allo scambio e così via fino alla elevata diffusione di benessere, partecipazione, coscienza civica), dovrebbe essere dotato di diritti e doveri, formali e sostanziali, simili a quelli dei membri, in modo da poter condurre un'esistenza degna, secondo gli stessi standard qualitativi dei componenti "autoctoni" ai quali verrebbe parificato (il secondo senso di integrazione è infatti quello di integrazione del singolo nella collettività). Mentre la dotazione di diritti civili, politici ed economico-sociali solleva una serie di questioni sulle quali c'è una certa chiarezza (anche se non necessariamente convergenza di opinioni), un problema ancor più articolato e dibattuto si presenta nel momento in cui la definizione unguistico-identitaria di membro comporti la richiesta di rinuncia ad eventuali peculiarità di natura culturale che l'individuo, prima estraneo, percepisca come importanti per la sua persona, per il suo bisogno di riconoscimento, ciò che comporta anche la considerazione di diritti di natura culturale. Questa premessa, necessariamente sintetica e densa, ha messo in campo molti elementi importanti sui quali si baserà questo lavoro e su cui si tornerà nel corso delle prossime pagine, fornendo ùlteriori chiarificazioni a quanto qui è stato solo accennato. INTEGRAZIONE ED IDENTITÀ

Per evitare la disintegrazione del collettivo è necessario che siano tenuti sotto controllo quei fenomeni che vengono indicati con termini normalmente adottati in opposizione a quello di "integrazione", come: "anomia", "disordine", "delinquenza", "devianza", "alienazione", "esclusione", frammentazione , segregazione , marginalizzazione , ghettizzazione Si tratta di termini che però non bastano a chiarire sufficientemente, anche se in negativo, cosa sia l'integrazione (ad esempio, perché si può esse117


re integrati in un collettivo, in una società, in una posizione squalificante). Quest'ultima è una nozione polisemica che nel corso del tempo, in contesti diversi e per usi sociali differenti, è stata chiamata anche "assimilazione", "incorporazione", "inserimento", "adattamento", "inclusione"; termini concomitanti che hanno lasciato in eredità a quello di "integrazione" parte del loro senso, in un percorso di sedimentazione semantica che ruota tuttavia attorno a un medesimo processo sociologico. Qui non ci si soffermerà sui discutere se sia meglio impiegare un termine piuttosto che un altro - l'apparentemente neutro "inserimento" o quello (altrettanto valido e però a volte messo in relazione negativa con alcune esperienze coloniali o di trattamento degli immigrati poco sensibili alle differenze) di "assimilazione" -' ma si proverà a mostrarne determinate sfaccettature di senso, un modo di impiegare il termine scelto (qui "integrazione"), che lo mettano in una relazione più chiara con tutti gli elementi che oggi dovrebbero comporre il campo dei suoi referenti e ne facciano una nozione equilibrata; una nozione, cioè, non sbilanciata verso l'idea irriflessa di un'omogeneizzazione a senso unico degli integrandi a un ordine stabilito dall'ako4 . Per metterci in guardia sarà bene ricordare alcune considerazioni di un sociologo che molto ha dato allo studio dell'immigrazione, Abdelmalek Sayad (1994), arricchendole al fine di inserirle nel discorso qui condotto. L'integrazione è un processo continuo, che dura tutta la vita, e che riguarda l'identità. L'identità individuale di colui che si suppone si stia integrando e l'identità collettiva che viene linguisticamente assenta come esistente e come ipoteticamente caratterizzante il collettivo in cui avverrebbe l'integrazione. Da un lato possiamo avere uno Stato che, una volta entrato in contatto con ingenti flussi di immigrazione, è costretto a riflettere sulla finzione - divenuta inconscio sociale - della coincidenza tra popolo, nazione, sovranità, cittadinanza, sulla quale si era costituito nel tempo e sulla quale ha spesso innestato la retorica di un'identità nazionale che sarebbe costituita da specifici elementi caratterizzanti condivisi e conosciuti effettivamente da tutti come tali e come qualcosa che ci distingue da altri che non "possiederebbero" tali elementi 5 ; dall'altro lato, abbiamo il singolo che giunge nello Stato e che vive l'integrazione come un processo spesso incosciente, quasi invisibile, di socializzazione a un costrutto ideale che si è imposto, e che ha al contempo delle manifestazioni concrete, al quale si adatta variabilmente lungo tutto il corso della sua esistenza. Sayad ritiene che non sia un processo che possa essere volontariamente favorito e di118


retto, ma che implichi resistenze e conflitti; l'integrazione, anzi, non può essere solo il prodotto della volontà politica, di azioni coscientemente intraprese da uno Stato. L'integrazione è solo parzialmente il risultato di politiche pubbliche prodotte e messe in atto da una pluralità di attori pubblici e privati, che affiancano, sostituiscono, completano o si oppongono all'azione statale e a quella delle istituzioni comunitarie europee; essa si realizza spesso come effetto secondario di azioni con fini più ampi e diversi. Il processo di integrazione per un immigrato comincia nel momento in cui, già prima di partire, entra in contatto (ad esempio, grazie ai diversi mezzi di comunicazione) con la realtà della collettività nel cui ambito proverà ad inserirsi. Di questa realtà sarà ad esempio necessario capire il sistema economico, ma non ci si può attendere che l'integrazione coincida con la promozione sociale, dato che povertà e marginalità possono• anche accompagnarsi a una percezione di integrazione nella società, risultato complesso di affinità identitarie. L'integrazione è dunque anche il frutto di un incontro di credenze: credenze sui contenuti dell'identità e sull'esistenza di un'identità come se fosse una parte connaturata ed immutabile dell'essenza di un individuo e/o di una determinata collettività. Ciò si ricollega all'ideologia dell'esistenza di una società di arrivo degli immigrati come qualcosa di naturalmente unitario e omogeneo, al quale uno straniero dovrebbe semplicemente adattarsi individualmente, così permettendo, però, il manifestarsi del rischio di essenzializzazione della maggioranza 6. Sono credenze che, lo si ripete, hanno però dei referenti, dei risultati e delle manifestazioni concrete da prendere a riferimento: istituzioni, tradizioni, riti, procedure, contenuti culturali ed istituzionali, attitudini e così via. Manifestazioni che influenzano l'agire, a volte o spesso uniformandolo, e producendo la diffusione della percezione dell'esistenza di un qualcosa di comune ed allo stesso tempo distintivo; percezione che appare come evidente nei fatti, mentre rimane nell'ombra il processo di costruzione che ne è alla base. Ma è proprio quest'ultimo che ci mostra la possibilità, aperta e continua, della revisione delle determinazioni concrete risultanti da una costruzione, dato che questa è solo una delle possibili costruzioni e ricostruzioni che possono imporsi. Tale imposizione, inoltre, può essere più o meno formale o sostanziale, estesa o limitata, e comunque spesso frutto dell'enunciazione da parte di chi ha l'influenza, il potere o la capacità per farla apparire come naturale nel tempo. Chi detiene tali risorse afferma che l'identità collettiva è caratterizzata da certi riferimenti (a loro volta 119


frutto di trasfigurazioni simboliche di altri), dunque la definisce, mentre chi non le ha spesso subisce questa affermazione-definizione, o non la mette in discussione o ci prova con alterni risultati, soprattutto quando la definizione si è incorporata in istituzioni (sociali e giuridico-legali) e riti, che assumono un carattere sacrale e sono parte di una narrazione nazionale apparentemente condivisa, ma che alla fine non sfuggono a continui e parziali processi di reinterpretazione e ulteriore trasfigurazione. Si può poi precisare che l'incontro di identità potrebbe riguardare non solo quella della collettività in cui ci si integra e quella dell'individuo che si integra, ma anche quella, collettiva, di un insieme di individui immigrati che si integrano al contempo individualmente ma anche avendo la percezione di essere simili tra loro per caratteri così importanti per la loro autenticità di singoli da spingerli a domandare di essere integrati nel rispetto delle specificità che essi percepiscono (al di là delle differenze) come caratterizzanti sia della propria identità sia di quella della comunità che sentono di costituire ed al cui interno credono di aver forgiato parte del loro (allo stesso tempo libero) modo di essere; una comunità che si estende attraverso i confini, fin dove sussista questa percezione. Qui si innesta il tema delle rivendicazioni di integrazioni collettive, delle richieste di diritti comunitari, che animano i dibattiti sul multiculturalism0 7 . Si aggiunga, poi, che l'integrazione è un processo bidirezionale: la trasformazione - anche se spesso immaginata come unilaterale passaggio dall'alterità all'identicità - avviene in realtà nelle due parti, come uno scambio che attraverso la mescolanza produce nuove configurazioni culturali (Cuche 2001/2003): l'"acculturazione" (altro termine concomitante, che proviene dall'antropologia) non è mai a senso unico, non ha come risultato l'uniformità, vi è sempre "reinterpretazione", cioè ogni parte mette in atto nuove sintesi culturali in situazioni di contatto; ha dunque luogo una "interpenetrazione" tra configurazioni i cui confini non sono netti ma in relazione di continuità. L'identità, inoltre, non è una conseguenza diretta della differenza culturale, ma si costruisce e ricostruisce incessantemente all'interno degli scambi sociali, è sempre il risultato temporaneo di un'identificazione all'interno di una situazione relazionale, connessa al desiderio di differenziazione e distinzione ed allo scontro di poteri di definizione interni ed esterni. Ciò mentre è sempre più necessario pensare a, e parlare di, identificazioni (individuali e collettive) transnazionali, transtatali, diffuse sia tra chi è ufficialmente membro del collettivo di integrazione, sia tra chi tenta di ottenere questo stesso status. 120


Si capisce meglio ora perché l'integrazione di un estraneo in un collettivo può essere solo parzialmente il risultato di politiche (che in parte si dirigono bene all'integrazione del collettivo nel suo complesso), dato che lo spettro dei significati che il singolo può attribuire alla sua integrazione, così come al senso dell'integrazione in generale, è molto più ampio di quelli rintracciabili nei settori coinvolti dalle politiche di integrazione. Ogni persona ha una differente autopercezione della propria situazione di integrazione, che può essere in parte slegata dal grado di integrazione rilevabile attraverso i numerosi indicatori formali di integrazione economica, sociale, politica, di cui si dispone, in quanto connessa a dimensioni che questi non colgono, e che mutano nel tempo. Ad esempio, effettuando delle interviste in profondità o dei colloqui accorti (che permettono di cogliere aspetti che questionari o dati statistici disponibili non rilevano, soprattutto se pensati già a partire dagli stessi indicatori di cui si avvalgono le politiche) si potrebbe presentare il caso di un figlio di un immigrato che disponga di condizioni dignitose in termini di alloggio, istruzione, lavoro, reddito, sanità, che sia sposato con una "autoctona" che abbia dei figli per i quali vi siano normali prospettive di integrazione, che partecipi in condizioni di parità dei diritti sociali e di quelli politici (anche del voto alle elezioni nazionali), che non si senta discriminato o vittima di pregiudizi razzisti, che abbia dichiarato di sentire un certo senso di appartenenza al collettivo in cui si trova, ma che al contempo affermi di non sentirsi integrato, sia perché però non ritiene molto importante quel senso di appartenenza, in quanto magari non ne coglie la distinzione rispetto al resto dell'umanità, di cui si sente soprattutto parte nella sua interezza, sia perché pensa di vivere in una società in cui le istituzioni non siano democratiche quanto si dice ufficialmente, sia perché ritiene di subire delle imposizioni culturali che lo costringono ad essere diverso da come sente di essere, sia perché una qualunque e fortuita serie di interazioni sociali con "autoctoni" lo ha portato a costruire una propria frontiera identitaria difensiva, reattiva, particolare, attorno alla quale costruisce la sua identità in specifiche situazioni, in un procedimento sui quale hanno al contempo influenza sentimenti ed emozioni private, legate alla nostalgia, al ricordo, all'illusione, alla ricerca: aspetti, questi ultimi, che possono venire fuori ad esempio nelle interazioni proprie delle sedute dell'etnopsichiatria (Nathan 1993), ma che possono ad esempio essere compresi anche leggendo le pagine di Winfried G. Sebald (1992/2007) sugli emigrati ed il ricordo8 .

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INTEGRAZIONE DI CHI?

Fatta questa premessa, si tratta ora di capire chi fa parte del collettivo e chi no (mentre vi sono sempre più figure intermedie), nel momento in cui si decida di concentrarsi sulle politiche. Le politiche di integrazione hanno una pluralità di destinatari e di strumenti, ma tendono ancor oggi a rivolgere i loro effetti attesi positivi soprattutto verso coloro che sono identificati come membri ufficiali del collettivo all'interno del quale esse vengono elaborate. I destinatari, cioè, sono più spesso i residenti nel territorio ufficialmente considerato come ambito spaziale di riferimento del collettivo in questione (ad esempio, i confini dello Stato o i confini esterni del complesso dei Paesi membri dell'entità sovrastatale costituita dall'Unione europea) che al contempo siano considerati ufficialmente membri a tutti gli effetti di quel collettivo (cittadini). Ciò anche se in diversi altri casi i destinatari sono tutti i residenti indipendentemente dal loro essere cittadini o, in altri ancora, solo tutti i cittadini anche non-residenti (questa ultima possibilità è ad esempio quella dei cittadini che risiedono stabilmente fuori dai confini statali, ma che possono esercitare il diritto politico di voto alle elezioni nazionali del Paese di cui hanno la cittadinanza - mentre tale diritto non è concesso a coloro che vivono e lavorano legalmente nello Stato in cui sono immigrati e del quale per diversi motivi non hanno acquisito la cittadinanza 9); ma in alcuni casi si può arrivare a pensare che destinatari, potenziali, di alcune misure siano tutti gli esseri umani. Questa variabilità mostra la differente estensione che assume agli occhi dei decisori politici, e spesso di tutti i membri o degli osservatori, la società di cui si desidera la coesione. A volte si cercano di approntare misure di integrazione per una società dei cittadini (in riferimento all'eredità storica dello Stato-nazione pensato e costruito in termini etnici e di presunti legami di sangue); a volte per una società di residenti (comprensiva dell'immigrazione legale, in parte selezionata, dunque una società con aperture transnazionali, o extracomunitarie, in riferimento a legami territoriali; qui in alcuni settori si arrivano a comprendere anche gli immigrati irregolari e clandestini); spesso per una società di cittadini-residenti, a volte per una società globale. I passaggi da una categoria all'altra sono possibili, ad esempio, in seguito all'acquisizione della cittadinanza: quest'ultima è uno strumento necessario e non sufficiente di integrazione, strumento che è oggi in trasformazione e che è attualmente in fase di riconcettualizzazione da parte degli studiosilo. 122


Qui vi si accenna per ricordare che essa può assumere diverse aggettivazioni, che mettono in luce i possibili ambiti di applicazione (Stato-nazionale, sovranazionale, transnazionale, postnazionale, globale, flessibile, etnoregionale, locale) delle differenti categorie di diritti-doveri che essa potrebbe conferire (civili, politici, sociali, di "quarta generazione"hl e culturali), formalmente e sostanzialmente, assumendo così, in riferimento ad esse, anche altre qualificazioni (come, ad esempio, quella di cittadinanza multiculturale, o societaria), secondo il tipo di diritti, di prospettiva teorica che effettua la descrizione, di attori chiamati a renderli effettivi (Stato nelle sue diverse articolazioni, mercato, privato sociale), secondo il senso in cui i diritti sono intesi ed il tipo di relazione che hanno con i diritti umani. L'integrazione passa anche per vie diverse dalla concessione dello status di cittadino e del pacchetto di diritti ad esso connessi, ma dato l'ancora rilevante significato simbolico rappresentato da uno status che denota l'appartenenza a una comunità politica, si vuole qui mettere in rilievo come la rinnovata attualità e la trasformazione del tema della cittadinanza siano spesso il frutto di mutamenti sociali, economici, politici e culturali prodotti da fenomeni legati alla più recente fase di globalizzazione: ad esempio, la parziale erosione della sovranità dello Stato-nazione e dell'omogeneità della composizione delle società europee, la formazione di ordinamenti e solidarietà transnazionali, il dibattito sulla tutela dei diritti umani, l'interconnessione delle comunicazioni e la produzione di sfere pubbliche globali, le difficoltà dei sistemi tradizionali di welfare ed il mutamento del lavoro, il libero commercio, le opportunità e la necessità di partecipazione politica democratica, l'accelerazione della mobilità e le migrazioni, la reazione della logica nazionalista in direzione localistica. In tale contesto, Zanfrini (2007) ci permette di ricordare che l'idea che vi sia una vera frontiera a separare naturalmente certi individui e popolazioni da altri si è consolidata nell'immaginazione 12 attraverso Io sviluppo dei moderni apparati statuali, durante il quale si è ulteriormente rafforzata la costruzione formalizzata dello straniero. Lo Stato e la nazione si erano saldati in una costellazione di riferimenti i cui stretti legami oggi non possono invece più essere dati per scontati: identità nazionale, omogeneità culturale, territorio, sovranità, confine, cittadinanza, Stato non si sovrappongono. Ormai il senso di appartenenza non coincide con i confini degli Stati, li attraversa o semplicemente li sorvola passando da un punto a un altro del Pianeta, si tratta di identificazioni post o transnazionali (Appadurai 1996/2001), o diasporiche e deterritorializzate (ad esempio, sono i 123


dan familiari dell'attuale diaspora immigratoria manageriale cinese ad organizzarne la solidarietà ed il senso, sociale e non territoriale, di appartenenza) con frontiere percepite in continuo movimento, uso e concezioni flessibili della cittadinanza, legami ed interessi in più ambiti spaziali contemporaneamente (Ong 1999/2002 e 2003/2005; Wieviorka 2007/2008). Seguendo questi sviluppi, le migrazioni contribuiscono alla rimessa in discussione del ruolo della cittadinanza, mentre a loro volta diversi regimi di cittadinanza conducono a differenti definizioni di membership ed a differenti modelli di incorporazione, di distribuzione di risorse, di possibilità di partecipazione politica degli immigrati e dei loro discendenti. Mentre viene da più parti raccomandata la facilitazione dell'accesso alla cittadinanza, vi sono oggi diritti (soprattutto sociali e in buona misura non politici, in particolare non la possibilità di partecipare alle elezioni politiche nazionali del Paese di arrivo) attribuiti anche ai non cittadini immigrati, regolarmente e durevolmente residenti; ciò attraverso forme di denizenshipl 3 che offrono un pacchetto di diritti che conferiscono una sorta di "membershzp sociale", status intermedio tra straniero e cittadino. Tali diritti sono attribuiti all'interno di uno Stato territorialmente delimitato. Anche la "cittadinanza civica" prevista dalla Commissione europea dal 2000 è rivolta a un'estensione di diritti con l'aumentare dell'anzianità di residenza legale sul territorio. Ma in entrambi i casi si tratta di diritti potenzialmente revocabili, ad esempio con il mutare della situazione economica degli immigrati e delle legislazioni in materia. Gli immigrati regolari non godono di tutti i diritti dei cittadini, mentre al contempo, ad esempio nel Sud Europa, vi sono diritti attribuiti anche agli immigrati irregolari, come l'assistenza sanitaria urgente o essenziale, e l'istruzione obbligatoria per i minori senza permesso di soggiorno. Il complesso rapporto tra immigrazione e welfare è inoltre strettamente connesso all'integrazione di una collettività, dato che il timore per la possibile competizione tra cittadini e residenti per la protezione sociale - una protezione che si apre quanto più si formano stabilmente delle seconde generazioni - può innescare reazioni xenofobiche, mettendo in moto un elemento disintegrativo della società potenzialmente compresa entro tale protezione (cfr. Zanfrini 2007). Le aspettative generate da un welfare efficiente comportano paradossalmente il rischio di crescita di domanda, poi quello di sovraccarico ed infine di diffusione di timori a loro volta potenzialmente conflittuali. 124


Seguendo le trasformazioni che l'accresciuta mobilità, reale e virtuale, induce nella personalità e nei riferimenti d'identificazione degli individui contemporanei, ad esempio dei sempre più numerosi migranti circolari, anche tra più di due Paesi, è possibile concepire forme di cittadinanza transnazionale, in cui i diritti attribuiti siano validi in più di uno Stato (ad esempio, la doppia cittadinanza), o di cittadinanza postnazionale (Soysal 1994), in cui i marshalliani diritti civili, politici e sociali siano deterritorializzati, slegati dalla nazionalità ed agganciati all'essere umano, dunque compresi nei diritti dell'uomo. L'espansione del diritto internazionale, l'espansione della capacità individuale di ricorrere ad autorità giudiziarie sovranazionali, le convenzioni e le carte sui diritti umani tendono a mettere in profonda discussione il ruolo dello Stato-nazione per l'attribuzione di diritti e la stessa idea tradizionale di cittadinanza. Le prerogative statuali vengono esercitate entro vincoli giuridici esterni sempre più forti, che sembrano lasciare maggiormente aperto il passaggio dalla cittadinanza nazionale a quella cosmopolita 14 , sebbene la questione si complichi con la considerazione della relazione tra diritti umani individuali e diritti alla differenza culturale (che in alcune società vengono pensati come collettivi), la cui tutela è ricompresa a sua volta nell'idea di sviluppo umano. La stessa concezione di integrazione muterebbe se vista in quest'ottica: migrare attraverso il mondo e fermarsi in modo più o meno duraturo in un punto, disponendo di un pacchetto ampio di diritti universali di base della persona (che dal voto amministrativo potrebbero arrivare anche a quello politico, ultimo baluardo di una cittadinanza legata a un'appartenenza nazionale), che sia possibile far valere in quanto esseri umani, agevolerebbe il percorso di inserimento nel collettivo di sosta o di arrivo, rispetto a una situazione di conquista lunga e difficile delle condizioni per l'integrazione. La residenza diverrebbe il criterio guida e lo Stato assumerebbe una natura identitaria neutrale, tenuti insieme dal proceduralismo democratico (cfr. Caniglia 2006). Si tratta ovviamente di condizioni lungi dall'essere realizzate a livello statale, ma anche a quello sovranazionale, e potenzialmente postnazionale, europeo (dove per accedere alla cittadinanza europea bisogna ottenere quella di uno Stato membro, rispetto alla quale la prima è aggiuntiva), ad esempio nel momento in cui ci si discosti dal modello habermasiano del patriottismo costituzionale per tentare di sostanzializzare l'identificazione europea attraverso idee come quella, dibattuta, dell'identità cristiana dell'Europa, o quando ci si orienti alla limitazione delle possibilità di ingresso per i lavoratori mi125


granti e si rimettano in discussione gli istituti del rifugio politico e della protezione umanitaria, in direzione di un'Europa come fortezza in cui si dia priorità all'immigrazione circolare, e dunque temporanea, rispetto all'attenzione per l'integrazione di chi risiede nei Paesi dell'Unione (aspetti che invece dovrebbero andare di pari passo). Nel caso della sopra ricordata "integrazione postnazionale", ci si integrerebbe in collettività delimitate da istituzioni politiche, vi sarebbero percorsi di integrazione socio-economica, ma l'identità dell'integrando e della sua eventuale comunità di riferimento sarebbero messe in contatto non con un'identità collettiva nazionale essenzializzata con la quale contrattare un adattamento, ma con un nucleo di procedure proprie dello Stato di diritto a cui portare rispetto, ed il cui contenuto "non deve compromettere la neutralità del diritto rispetto al pluralismo delle diverse comunità etiche integrate a livello subpolitico. Esso deve invece acuire il senso della pluralità e integrità delle varie forme di vita coesistenti in una società multiculturale. [ ... ] Nelle società complesse, l'insieme dei cittadini non può più essere integrato da un consenso sostanziale sui valori, ma soltanto da un consenso sulle procedure relative a una legittima produzione giuridica e a un legittimo esercizio del potere" (Habermas 1996/2001, 94-95). Vi è, dunque, un primo livello di integrazione (societario), basato sul consenso procedurale, quanto più possibile astratto poiché si rivolge a persone con differenti orientamenti valoriali, e un secondo livello di integrazione (comunitario), subpolitico, in cui ogni persona va considerata anche "come membro di una comunità che è integrata intorno a una certa concezione del bene" (ivi, 93). Il secondo è sganciato dal primo, che invece ricomprende in eguale misura tutti i cittadini. Tale procedimento sembra basarsi su una serie di trasformazioni parzialmente in atto, ma ancora lontane dal giungere a compimento, in direzione di una progressiva cosmopolitizzazione delle coscienze, del pensiero, delle categorie interpretative, dell'agire e del partecipare, dei problemi e delle istituzioni, che tendono a valicare la dimensione europea per giungere a quella mondiale di una Terra-patria (Morin 1993/1994). Qui l'integrazione si configura come reciproca assunzione di responsabilità di ciascuno nei confronti di tutti gli altn, come capacità di ciascuno di comprendere e contribuire a risolvere problemi e sfide globali, dalla cui soluzione sembra dipendere la coesione della collettività umana (pronta a disgregarsi ad esempio di fronte alla competizione per risorse scarse) e la riconcettualizzazione del problema dell'ordine sociale. 126


IL CIRCOLO DELL'INTEGRAZIONE

Per comprendere appieno la costante interconnessione tra la dimensione della coesione di un collettivo e quella dell'integrazione del singolo nel primo è necessario ricordare che l'integrazione collettiva è anche condizione dell'integrazione individuale (delle parti nell'insieme): "più grande e più forte è l'integrazione del tutto, più forte e più grande è il potere integratore di questo gruppo, E ... ] più facile da realizzare è l'integrazione in questo gruppo delle sue parti [ ... ], vecchie o nuove" (Sayad 1994, 12), parti la cui integrità tuttavia non si dissolve nell'insieme. In riferimento alle parti, si può poi distinguere l'adozione di tratti culturali del collettivo di inserimento dalla conformità alle norme esistenti, dalla partecipazione attiva alla sua vita sociale fino alla partecipazione all'invenzione di nuove norme sociali. E questo ci permette di mostrare l'interconnessione in senso inverso: ci permette cioè di vedere come sentirsi partecipi della costruzione delle regole da osservare contribuisca a favorire il senso di integrazione degli individui nella società e li spinga dunque a produrne la coesione, grazie alla conseguente accresciuta propensione a rispettare e far rispettare tali regole. Problemi nascono nel momento in cui in un collettivo si forma uno schieramento che afferma l'insufficiente integrazione di un secondo schieramento (ad esempio, cittadini francesi che rivestono cariche politiche affermano che cittadini francesi discendenti da - più recente - immigrazione non sarebbero abbastanza integrati nella società francese, di cui fanno però parte allo stesso titolo dei primi) rivolgendo loro politiche di integrazione che inevitabilmente finiscono per stigmatizzarli come gruppo differente e che necessita di colmare una mancanza: ragionamento che viene a volte percepito come pronto a presupporre una differenza di potere tra due parti, una delle quali stabilisce le presunte lacune dell'altra 15 , e che può comportare rifiuto dell'idea di integrazione percepita in termini di squilibrio nei rapporti sociali. Ciò non toglie utilità a politiche di integrazione che non rimangano sulla carta, ma mostra come esse debbano essere proposte come rivolte al miglioramento delle condizioni dei destinatari - in modo da metterli in condizione di partecipare maggiormente alla vita collettiva di cui sono parte -, ma già grazie a una loro previa partecipazione e consenso. Quando le politiche d'integrazione riguardano la dimensione culturale è necessaria ancor maggiore cautela, dato che spesso l'obiettivo desiderato dai destinatari non è rivolto al raggiungimento di 127


condizioni formali e sostanziali di maggiore uguaglianza, ma di rispetto e riconoscimento per la differenza, in condizioni di parità con gli altri, ciò che comporta il confronto tra identificazioni costruite differenti. Allo stesso tempo, però, si ricorda come politiche di integrazione socio-economica possano finire per riguardare destinatari accomunabili secondo tratti di natura culturale: l'intervento dello Stato sociale in determinate occasioni, rivolto all'obiettivo democratico dell'uguaglianza reale, si particolarizza e prende in considerazione specificità etniche geograficamente concentrate (Schnapper 2002). I fondatori della sociologia si sono preoccupati innanzitutto dell'integrazione nel suo senso più ampio, di coesione della società, di permanenza dei legami sociali, sottoposti alle differenti pressioni disgregative che ciascuno di essi individuava in determinati aspetti della modernità 16 L'esistenza di comunicazione interpersonale, di interessi in fruttuosa competizione, di contratti sociali, di legami comunitari, di sentimenti, passioni e credenze comuni, di valori comuni, di norme sociali, di fiducia, di scambi, di interazioni, di specializzazione e complementarietà delle funzioni, di appartenenza a gruppi sociali intermedi, di conflitto con elementi esterni, di simboli in cui si incorpora l'unità sociale, di processi di socializzazione, di partecipazione a forme di azione collettiva, di individuazione di beni comuni, di regole condivise, di un diritto formale, è stata di volta in volta considerato il fattore (da solo o in relazione con altri) capace di sostenere efficacemente l'integrazione. Tra gli innumerevoli contributi, quello di Durkheim (1893/1962, 1897/1969, 1912/1963) è particolarmente prezioso. Nel corso della sua opera scientifica, infatti, egli ha individuato progressivamente alcuni degli elementi che sembrano fondare l'integrazione sociale 17 e che ancor oggi servono da spunto per gli approfondimenti della sociologia contemporanea: le credenze ed i sentimenti comuni della coscienza collettiva; la reciproca complementarietà dei ruoli e delle funzioni in una collettività differenziata; la presenza di numerose ed intense interazioni attraverso cui circoli il senso di unità morale che deriva dall'accettazione - e dal senso di produzione (anche grazie all'azione socializzatrice ed omogeneizzatrice dell'educazione) - di valori, regole e pratiche comuni, un senso che al contempo delinea fini collettivi; l'attaccamento degli individui a gruppi sociali in presenza di un certo grado di autonomia della volontà; l'intermediazione tra individuo e collettività svolta da gruppi professionali o corporativi - i quali favoriscono anche la costruzione di legami tra indivi-

.

128


dui - così come da famiglia e patria (un po' come per i neocomunitaristi americani, vi è un problema di integrazione all'interno dei gruppi e di integrazione tra gruppi in un ambito più ampio); l'oggettivazione, in momenti di effervescenza collettiva, dell'immagine della società, del nucleo centrale della sua identità collettiva trasfigurata ed idealizzata, in elementi simbolici che assumono natura sacrale ed attorno a cui si svolgono rituali dove tale società celebra se stessa e rafforza la sua coesione; la rilevanza di una concezione antiutilitarista dell'individualismo, che lega l'individualismo morale alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e al rispetto della dignità umana 18 Sono proprio questi elementi ad essere oggetto del dibattito della sociologia e della filosofia sociale, in cui viene tematizzato il rafforzamento delle capacità di solidarietà, che a sua volta favorisce l'integrazione di un collettivo. Il problema dell'integrazione, ad esempio quella degli immigrati appartenenti a minoranze etniche all'interno di società che si vanno facendo sempre più multiculturali e diseguali, si accompagna oggi al declino dei principali attori integrativi dell'epoca fordista, come la grande fabbrica, il movimento sindacale, lo Stato sociale keynesiano, i partiti politici di massa, ma anche delle tradizioni, della scuola, della piena occupazione, delle istituzioni politiche, la trasformazione della famiglia, della religiosità. A queste difficoltà è possibile aggiungere anche il conseguente e crescente senso di insicurezza (cfr. Sennett 1998/2001) diffuso a livello globale, la precedentemente ricordata erosione del ruolo degli Stati-nazione, le difficoltà che la tradizione giuridica occidentale incontra nel fare fronte alle richieste di un diritto alla differenza da parte di culture minoritarie. Ciò comporta una riconsiderazione dei termini della questione alla luce delle particolari sfide che oggi ci si trova ad affrontare (cfr. Schnapper 2007), anche perché si avverte sempre più la difficoltà di riferirsi a valori comuni forti, condivisi e unificanti, così come a scopi ed interessi unitari, ed è dunque necessario pensare habermasianamente all'inclusione dell'altro tramite il diritto e l'espansione della razionalità comunicativa di una sfera pubblica radicata nella società civile e/o alla condivisione riflessiva del valore generale del rispetto reciproco per il bisogno di riconoscimento 19 (ad esempio quello della propria differenza) di ognuno e dell'apertura verso la compatibilità delle credenze. La costruzione della coesione sociale e della solidarietà in società sempre più disomogenee dal punto di vista etnico, religioso e culturale non trova più un fondamento trascendente, un accordo su valori, ma può fondarsi sulla comune parte.

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cipazione alla vita politica e civile (Crespi e Moscovici 2001), su una rete di rapporti di riconoscimento reciproco delle rispettive differenze, consapevoli del legame tra identità, autostima ed atteggiamento solidale, sulla reciproca assunzione di responsabilità da parte di tutti nei confronti dei rischi globali (Beck 1986/2000), ad esempio ambientali. Vi è poi chi, come Rosati20 (2002b), ritiene che la solidarietà debba essere intesa come eguale rispetto e cura collettiva dei processi di riconoscimento intersoggettivi ed istituzionali per individui e gruppi. La salvaguardia della dignità umana degli individui che convivono in una società, la non umiliazione nelle loro relazioni reciproche, il rispetto delle differenti forme di vita e la cura dei processi di riconoscimento delle differenze degli individui e delle comunità di cui si sentono di far parte, il legame tra e con gli estranei (ZoIl 2000/2003), la lotta contro le disuguaglianze economiche e per la tutela delle fasce deboli, sono tutte declinazioni della solidarietà ed al contempo obiettivi per le politiche di integrazione e di coesione sociale.Ci si trova, dunque, a dover articolare uguaglianza e differenza, a muoversi tra richieste di sostegno nella povertà, di partecipazione al processo decisionale e di riconoscimento per la differenza culturale, pur nella consapevolezza del carattere riduttivo inerente a ogni definizione identitana - che non deve in nessun caso essere assolutizzata (Crespi 2004) legata a quest'ultima. Le difficoltà che si incontrano oggi nel rendere virtuoso il "circolo dell'integrazione" fin qui delineato sono date dal fatto che il tentativo di rendere gli immigrati parte attiva della società di arrivo si scontra contro la già presente spinta disintegratrice in moto in tali società e visibile, ad esempio, nella diffusione della flessibilità, precarietà o assenza del lavoro. Come ricorda Touraine (1997/2002), il rischio è che gli immigrati si trovino a subire e gestire l'insufficiente presenza di opportunità di partecipazione socio-economica (oltre che politica) in presenza di una spinta all'adozione di modelli culturali di vita che non possono essere sostenuti, che presuppongono cioè qualifiche e redditi che sia gli immigrati sia i loro discendenti spesso non possiedono. Per evitare conseguenti chiusure comunitarie sarebbe necessario coniugare, a livello personale-individuale, la partecipazione alla razionalità strumentale con la difesa delle differenti identificazioni culturali. Proprio nella progettazione di un'equilibrata integrazione pluridimensionale si concentra dunque la difficile sfida dell'evitare la diffusione dei conflitti urbani (cfr. Melotti 2007), che si diffondono in differenti parti del Pianeta e che coinvolgono l'interazione 130


di integrazione della collettività e di integrazione in essa dei suoi nuovi potenziali partecipanti. Dato che il processo di integrazione non coinvolge solo il singolo o il gruppo ma l'intero tessuto sociale ed istituzionale del contesto in questione, rifacendosi ai Rapporti curati da Zincone (2000 e 2001) 21 l'integrazione degli immigrati può ora, infine, essere osservata sotto il profilo politico-istituzionale e legata al rispetto di una serie minima di punti quali: a) la non discriminazione e l'inclusione delle differenze; b) la contaminazione e la sperimentazione di nuove forme di relazioni e comportamenti; c) la convivenza equilibrata e costante di particolarismi e principi universali; d) la prevenzione di situazioni di emarginazione, frammentazione e ghettizzazione che minaccino la coesione sociale; e) l'affermazione di principi universali come il valore della vita umana, della dignità della persona, della libertà femminile, della tutela dell'infanzia, sui quali non è possibile concedere deroghe neanche in nome del valore della differenza; f) un'interazione positiva tra immigrati regolari ed autoctoni (a livello individuale e collettivo), garantita dalla sicurezza fornita dal comune rispetto delle regole dell'ordinamento giuridico, in base al quale ciascuno non veda nell'altro un pericolo per la propria integrità e buona vita, ma riesca ad instaurare con esso dei rapporti improntati alla pacifica convivenza e non al sospetto ed alla stereotipizzazione reciproci; g) un buon governo che, tenendo conto del sistema politico di riferimento e delle sue tradizioni giuridiche e culturali, oltre che delle esperienze dei Paesi di più antica immigrazione, riesca a creare le condizioni in base alle quali le diverse componenti di una società possano confrontarsi ed instaurare degli scambi, grazie a un bilanciamento tra l'esigenza di riconoscimento delle differenze culturali e le legittime aspirazioni ad essere assimilati in termini di pari prospettive di avanzamento sociale e occupazionale (ad esempio con il contemporaneo sostegno all'apprendimento delle lingue del Paese di arrivo e di quello di provenienza); h) un ambiente socio-istituzionale che tuteli la dimensione privata e pubblica dell'esistenza degli immigrati, garantendo il rispetto dei diritti fondamentali della persona anche agli irregolari (ad esempio quello alla salute, comprensivo di tutte le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali anche se continuative, o quello allo studio, con l'obbligo scolastico per i bambini e così via), permettendo un pieno accesso sostanziale ai diversi diritti di cittadinanza per i regolari, anche in considerazione del rispetto del pluralismo delle loro identificazioni religiose, e rafforzando lo status giuridico dei residenti ,

131


di lungo periodo (anche grazie a una semplificazione delle procedure amministrative a cui si devono sottoporre); i) un'apertura alle forme di integrazione indiretta attuabili attraverso l'azione sussidiaria delle associazioni della società civile ed il ruolo del privato sociale.

Data l'ampiezza dell'argomento ed i limiti di approfondimento di un breve saggio, ci si limiterà qui ad offrire un affresco introduttivo, ma di ampio raggio, della questione trattata, rinunciando sia all'importante considerazione degli indicatori di integrazione (per i quali si veda ad esempio MIPEX 2007, alcuni dei lavori raccolti in VIT0RJN0 2007, CELLINI e FIDELI 2002) e delle raccomandazioni che li riguardano, sia a una ricognizione estesa dei differenti impieghi del concetto di integrazione nella ricerca e nell'analisi teorica della sociologia (per un primo panorama si veda ad esempio DEWITFE 1999). 2 Per quanto detto fin qui, all'interno di questo ultimo paragrafo, si vedano ad esempio gli elementi tratti (rivisti, ricomposti e messi in relazione) da SIMMEL (189011982 e 1908/1989), MERTON (195711959), BARTH (196911994), GALLINO (1978), MEsupE e SAVJDAN (2006), CANIGLIA e SPREAFICO (2007), SPF1co (2007) e

la letteratura citata in questi ultimi due riferimenti bibliografici. 3 Su questo aspetto cfr. CANIGLIA e SPrtEAFlco

(2008). Per esempio, a livello comunitario dell'Unione europea, a quello nazionale ed a quello locale, gli integrandi dovrebbero poter partecipare più direttamente alla scelta effettiva di molte delle misure ritenute adatte alla loro integrazione, accrescendo gli spazi di consultazione e pressione - in parte già esistenti ed attivi - di cui dispongono. Oltre all'importante ruolo delle differenti associazioni degli immigrati e delle organizzazioni pro-immigrati (autoctone, miste, cattoliche, laiche, legate al mondo del lavoro o del volontariato, politiche e non, e così via), ol132

tre che dei "Consiglieri aggiunti", interessante è ad esempio lo strumento delle Consulte, nel quadro locale ed in quello statale; in quest'ultimo si possono ricordare le Consulte per l'islam, a volte elettive a volte nominate dall'alto (su questi aspetti si veda la letteratura ricordata in Coi e SPREAFICO 2006 e 2008, e in SPFIco 2006), la cui incidenza ha tuttavia dei limiti sui quali qui non ci si sofferma. 5 Un esempio di affermazioni iderititarie di questo tipo potrebbe essere: "noi italiani siamo cattolici, o cristiani" (ma vi sono moltissimi altri non-italiani che lo sono, così come molti italiani che non lo sono, perché di religione diversa o perché non credenti o perché non attribuiscono all'elemento religioso grande importanza o perché non conoscono bene il contenuto di questa affermazione, e tale contenuto può avere significati in parte diversi a seconda delle persone; poi vi sono molti che dicono di essere cattolici a modo loro, in modo "personale", e molti che dicono di esserlo in teoria ma non in pratica e così via). Ma se ci allarghiamo a un livello sovra-nazionale troviamo: "nel dna dell'Occidente c'è la democrazia" (ma chi fa parte dell'Occidente e chi no? Vi è poi dibattito sul rapporto tra islam e democrazia e sulla loro non incompatibilità da molti invece presupposta - cfr. su questi temi CAssi'o e ZOL0 2007, CORRADETFI e Siico 2005, testo quest'ultimo al quale si rimanda anche per un approfondimento del rapporto tra identità e cultura -, e così ancora altre discussioni). 6 Cfr. FavelI (2001). 7 Sui quali si rimanda alla bibliografia contenuta in ClGL1A e SPREAFICO (2003), SPREAFIc0

(2005),

LANZILLO

(2005),

GALLI

(2006).


8 Gli immigrati, anche partiti da giovanissi-

mi, e spesso anche i loro figli, mantengono comunque un rapporto col Paese di origine, che in molti casi finiscono per formare tramite il ricordo, proprio e di altri, e la sua ricerca; una ricerca atta a colmare un vuoto, una mancanza, che affiora. Questo ricordare - che in Sebald passa attraverso testimonianze, scritti e foto (la fotografia ha un ruolo non di semplice arricchimento, ma di complemento, con pari valore, della scrittura: un suggerimento utile anche per il ricercatore che intenda indagare le vicende dell'integrazione, che si trova così a potersi avvalere di un altro mezzo sintetico di descrizione) - li conduce, però, a poter essere vittime della memoria, che li immalinconisce e li distrugge. Essa spesso li separa, più che avvicinarli, sia dal contesto in cui vivono, sia da quello verso il quale sentono un legame; ma gli esiti possibili sono anche diversi: ad esempio, il tentare di stabilire un contatto con un Paese che non è più il proprio, o non lo è mai stato in termini ufficiali, rappresenta un modo per vivere meglio nel collettivo in cui ci si integra (la società d'arrivo o quella in cui si è nati come discendenti di immigrati), avendo a disposizione uno spazio di fuga, anche solo potenziale e mentale, in cui rifugiarsi in prospettiva, quando le interazioni sociali attuali non offrono i risultati sperati. Sui possibili effetti virtuosi e creativi della dimenticanza si veda invece BAYARD (2007). 9 Cfr. ZINCONE (2006) per il caso italiano. IO La letteratura sul tema della cittadinanza è molto vasta ed in continuo aggiornamento, attraverso contributi che vanno dal diritto alla filosofia, dalla sociologia alla scienza politica, e non è dunque qui possibile farne menzione. Qui l'acquisizione della cittadinanza è vista come strumento dell'integrazione, utile a comprendere le differenti questioni che la riguardano e che l'immigrazione spinge a riconsiderare. Ci si limita dunque a ricordare alcune delle letture che hanno più recentemente contribuito a influenzare la stesura di questo testo: ZANFRINI (2007), CANIGLIA (2005), ALEINIKOFF e KLu-

SMEYER (2001), SCHNAPPER (2001), DONATI (2000), KYMLICKA (1995/1999).

Sono diritti di "quarta generazione", ad esempio, il diritto alla privacy o il diritto a vivere in un ambiente sano. 12 Cfr. ANDERSON (199 1/2000), 13 Cfr. HAMMAR (1990). Tali pacchetti di diritti potrebbero essere anche più ampi e raggiungere pure l'attribuzione di alcuni diritti politici, come accade - potenzialmente (è ad esempio presente una clausola di reciprocità) per i cittadini di Stati di lingua portoghese che abbiano il permesso di risiedere permanentemente in Portogallo: una situazione legata alla formazione della comunità transnazionale "immaginata" - ma per certi versi anche concreta (ad esempio, nel 1996 è stata creata la Comunità dei Paesi di lingua portoghese) - dei lusofoni, considerati così meno stranieri di altri (lvkRQUES, DIAs, MAPRIL 2005; MACHADO 2005) e con uno statuto particolare. Ciò mostrerebbe, inoltre, come la lingua comune venga considerata un elemento importante di integrazione, idealmente aperto a tutti coloro che riescano a parlarla. 14 HABERMAS (199812000) immagina lo sviluppo postnazionale di una solidarietà tra estranei sul piano civico e procedurale e Beck (2003), con atteggiamento a volte critico rispetto al primo, parla di cosmopolitizzazione delle coscienze, delle istituzioni, delle sfere pubbliche. 15 Cfr. LAPEYRONNIE (2003). 16 Scendere nei dettagli significherebbe ripercorrere - già a partire da autori come COMTE e SPENCER, fino a TONNIES, DURKHEJM, SIMMEL, WEBER e PARSONS, per poi arrivare ai giorni nostri - la storia della sociologia attorno a uno dei suoi temi fondatori, cosa che non può essere fatta qui; per un approfondimento si veda però SCHNAPPER (2007), PIREs (2003), BASTENIER e DASSETTO (1993), SPrtr.MIco (2005,95-110 e 121-141). 7 Quando si riferiva al tema della partecipazione degli stranieri e dei loro figli alla società di arrivo il sociologo francese impiegava invece il termine "assimilazione". 133


18

Per approfondimenti si veda ROSATI (2002a), SANTAMBROGIO (2002). 19 Cfr. HABERMAS (199612002) per la prima parte e CAILLÉ (2007) per la seconda.

Alla fine di un percorso di rivisitazione della letteratura in materia, una letteratura che passa ad esempio per HONNETH e MARGALIT.

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L'immigrazione rumena in Italia: un nodo irrisolto di Alessandro SiI]

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eriodicamente l'Italia diventa la meta di "invasioni barbariche" che turbano l'opinione pubblica e scatenano reazioni xenofobe. Negli anni novanta gli albanesi, oggi i rumeni. Nel 1991 l'emigrazione albanese avvenne dopo il collasso del regime comunista, e costituì soprattutto una fuga verso la libertà; nel 1996 fu una fuga alla ricerca di condizioni di vita migliori dopo la grande frode finanziaria nota come la crisi delle piramidi, quando fallirono le banche nelle quali tra un terzo e una metà della popolazione del Paese aveva investito i propri risparmi. In quegli anni l'esodo coinvolse oltre mezzo milione di albanesi, ovvero il 15 per cento dell'intera popolazione. L'esodo maggiore avvenne verso la Grecia, circa 300.000, in Italia tra i 150 e i 200.000. Sono soltanto stime, evidentemente, come sempre quando si tratta di flussi migratori irregolari. Allora vediamo ora che cosa sta causando il flusso verso l'Italia dalla Romania e che cosa lo distingue o lo accomuna a quello albanese. Le differenze innanzi tutto: l'Albania di allora era il Paese più povero d'Europa, oggi la Romania fa parte dell'Unione europea, e negli ultimi anni è diventato anche un Paese che registra un alto tasso di immigrazioni. Le somiglianze, tuttavia, sono significative, e sono soprattutto due. Anche in Romania la percentuale di emigranti sul totale della popolazione è molto alto, intorno al 10 per cento. In entrambi i casi le motivazioni di coloro che emigrano sono la povertà nelle condizioni di vita in patria e la speranza di trovare in altri Paesi un reddito da lavoro migliore. Oggi il salario minimo in Romania si aggira sui 150 euro (anche inferiore in alcuni casi) e il salario medio sui 250-350. Intanto l'aumento dei prezzi, in particolare quelli di prodotti di base (1,50 euro un chilo di zucchero), determina una perdita drammatica del potere d'acquisto. Quando le imprese italiane cominciarono a investire in Romania, inizialmente intorno a Cluj Napoca e Timisoara, nel Nord (in testa quasi 3.000 L'autore è Segretario generale del Css e direttore di Etnobarometro. 137


aziende venete), poi anche a Bucarest e nel Sud del Paese, pagavano i loro operai circa 100 euro al mese, talvolta anche cifre inferiori. "Fino alla fine degli anni novanta è stata una pacchia, davo lavoro a cinquemila persone, ma le cose sono cambiate..." ha dichiarato recentemente un imprenditore italiano in una intervista. Dal gennaio 2007, quando la Romania è entrata nella UR, molti operai si sono licenziati e sono emigrati in Italia, dove possono guadagnare di più (nel 2007 i rumeni assunti nel Veneto sono stati oltre 20.000, contro i 6.000 del 2006). Alcune aziende hanno chiuso, soprattutto a Bucarest e nel Sud, altre hanno reclutato operai cinesi o di altre nazionalità, bengalesi, pakistani, indiani. E questo vale anche, evidentemente, per le aziende rumene, drammaticamente a corto di manodopera. I cinesi rappresentano di gran lunga il gruppo di immigrazione più numeroso, grazie anche ai voli diretti tra Bucarest e il loro Paese, e sono quasi tutti immigrati regolari con tanto di contratto di lavoro. Basti pensare che a Bucarest il tasso di disoccupazione supera appena il 2 per cento, e che è mediamente del 5,5 nel resto del Paese. A parziale consolazione vanno citate le generose rimesse della diaspora rumena, che portano nel Paese valute pregiate. Ma non mancano i danni collaterali, le migliaia di bambini, figli di genitori emigrati in cerca di fortuna, in parte affidati ai nonni ma molti, troppi altri, più spesso, confinati in un orfanotrofio; le migliaia di madri sottratte alle famiglie dalle migrazioni di donne che in Italia e in altri Paesi si impiegano come badanti o collaboratrici domestiche; e infine molte colture agricole in stato di abbandono (sebbene nelle campagne l'esodo sia inferiore a quello registrato nei settori dell'edilizia e manifatturiero in generale). Vista in prospettiva questa situazione va considerata di transizione. Non sono pochi i rumeni emigrati che dicono che tornerebbero ben volentieri nel proprio Paese, alla cui cultura e tradizione restano tutti fortemente legati, a condizione di poter trovare un lavoro che offra loro un salario superiore a quelli attuali. Bisogna supporre che anche in una Romania inserita nel mercato della UE la crescita dell'economia porti, nei prossimi anni, a un graduale allineamento con gli standard degli altri Paesi dell'Unione, anche in materia di salari. Per quanto riguarda i rumeni residenti in Italia non sono stati colti segnali che facciano emergere una propensione a tornare nei luoghi di origine, non a breve termine almeno, malgrado le difficoltà incontrate nel processo di integrazione in Italia. Tra queste va segnalata quella relativa all'assistenza sanitaria. Prima dell'ingresso di Romania e Bulgaria nell'UE 138


per accedere alle cure di base gli immigrati si facevano rilasciare dalle Asi un tesserino STP (Straniero Temporaneamente Presente). Secondo il Testo Unico per l'immigrazione, quel documento tocca però ai cittadini extracomunitari, categoria dalla quale rumeni e bulgari sono usciti dal i gennaio 2007. I cittadini dell'UE che risiedono in Italia, se hanno un lavoro regolare, hanno diritto all'iscrizione al servizio sanitario nazionale a parità di condizioni con i cittadini italiani. Ma per potersi iscrivere debbono chiedere al Paese d'origine la Team (Tessera Sanitaria Europea), che però viene rilasciata solo ad alcune condizioni: in Romania, ad esempio, può ottenerla solo chi ha versato i contributi al sistema sanitario nazionale. Migliaia di rumeni non sono in grado di regolarizzare la loro posizione assistenziale perché non hanno versato tutti i contributi dovuti in patria (in Romania l'iscrizione al servizio sanitario non è automatica). Tuttavia, complessivamente, i dati indicano un processo di radicamento nella nostra società. Per esempio, a Roma e provincia sono ben diecimila gli immobili acquistati da immigrati rumeni nel 2007. E numerosi sono i rumeni che hanno avviato attività imprenditoriali in proprio. Ancora, il fatto che gli studenti rumeni nelle scuole elementari e medie dimostrano una buona padronanza della lingua italiana e la partecipazione dei loro genitori alle attività sociali collegate alla scuola sono altri indicatori positivi. Peraltro è anche vero che questi immigrati tendono a fare comunità a sé, essendo molto forte nella loro cultura il senso della famiglia (famiglia allargata) e il culto dell'amicizia. Quest'ultimo fenomeno è destinato ad accentuarsi nell'attuale clima di generale ostilità dell'opinione pubblica verso i rumeni in seguito a numerosi episodi di violenza, clima che crea nelle comunità rumene un'istintiva reazione di difesa tipica di chi si sente assediato. È pii difficile, in questo clima, socializzare e operare, per esempio un contratto di affitto può saltare all'ultimo momento quando il proprietario dell'appartamento si rende conto che il richiedente è rumeno. Spesso basta una sguardo ci ha detto un immigrato, a farti capire che sei sospettato o quanto meno non benvenuto." Questo immigrato, e molti altri, sostengono che la maggioranza degli atti di violenza che hanno scatenato paura e ostilità sono stati compiuti da cittadini rumeni di etnia rom. Non esistono dati che permettano di dire se è effettivamente così, e certe distinzioni, nella pratica quotidiana delle forze di sicurezza e degli organi giudiziari non sono facilmente verificabili. Né la stampa italiana ha tentato di farlo, e i media in questo portano una indubbia responsabilità. Comunque sia, il discredito si riversa indiscrimitamente su tutta la 139


popolazione rumena presente in Italia. È visibile, a chi come il sottoscritto ha frequenti rapporti con essi, la rabbia e la sofferenza che questa confusione crea tra la grande maggioranza di questi immigrati, gli onesti (tutti, senza escludere i rom) che vivono e lavorano nel nostro Paese. Nel corso di una ricerca condotta recentemente non siamo riusciti a ottenere dati che permettano di capire quanti rom di cittadinanza rumena sono entrati in Italia. Nessuno, né in Italia né in Romania, sembra in grado di fornirli. Eppure, poiché la Romania non entrerà nell'area Schengen che neI 2011 e i controlli di frontiera dovrebbero essere tuttora in vigore, non dovrebbe essere impossibile per le autorità filtrare i cittadini che emigrano. Non a caso recentemente i rappresentanti di alcune associazioni di immigrati rumeni in Italia hanno rivolto o stanno per rivolgere un appello al governo di Bucarest affinché prenda iniziative in merito, ivi inclusa addirittura la non concessione del passaporto ai concittadini che in patria sono stati già implicati in atti di violenza. Altre associazioni di immigrati hanno invitato i loro iscritti a denunciare alle autorità italiane e all'ambasciata rumena a Roma i comportamenti illegali commessi da propri connazionali: "Senza uno sforzo civico serio poche mele inarce causeranno danni gravissimi a tutti coloro che vogliono vivere, lavorare e integrarsi nella società italiana". Molti immigrati ritengono che quasi tutte le mele marce siano rom, ma come già detto, mancano dati a sostegno. In ogni caso, anche ammesso e non concesso che così sia, siamo su un terreno scivoloso. Trasformare la "caccia al rumeno" in una "caccia al rom", sarebbe altrettanto contrario alle più elementari regole di giustizia e convivenza civile, creerebbe un clima ancor più velenoso e non solo non risolverebbe il problema, ma lo aggraverebbe. E anche la chiusura delle frontiere va considerata una pia illusione (chi viene respinto una prima volta ritenterà e al decimo tentativo ce la farà) in questa nuova Europa ormai multiculturale e meticcia ma, di fatto, incapace di gestire razionalmente e serenamente le proprie diversità.

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dossier

Regioni, cooperazione e raccordo: le alchimie del potere

Il dossier sulle Regioni di questo numero ricomincia, intenzionalmente, da zero. Nel senso che propone due contributi conoscitivi che illustrano lo stato dell'arte nell'ambito dei poteri regionali in materia di rapporti internazionali e con l'Unione europea (Maria Romana Allevz), e del sistema di raccordo interistituzionale (Paolo Allegrezza), a seguito della rfòrma costituzionale attuata con legge n. 3 del 2001. In una fase che vede i leitmotiv del federalismo rzproporsi sul proscenio - anche se mai avevano abbandonato la scena - è utile fare il punto. PerchÊ in un modo o nell'altro, un'esperienza "parafederalista" si va accumulando entro ambiti parti colari che firngono da mini-laboratori. Le questioni sorte e affi-ontate aprono una serie di problemi di cui, certo, il soggetto istituzionale di ultima istanza sembra essere la Corte Costituzionale ma che, allo stesso tempo, forniscono coordinate interessanti per rivedere, correggere, procedere lungo la strada di unfederalismo compiuto e coerente. Quale che sia il modello di decentramento dei poteri e del loro assetto, va ponderato il raggio d'azione degli istituti pensati per governare i diversi livelli, dalla perifiria al centro, nell'ottica dell'uso ottimale delle risorse messe in gioco. Senza facili, presunti automatismi in punta di diritto. 141


Su questo tema, la letteratura internazionale è parimenti attenta: è il caso del Canada e del Regno Unito, dove, nell'ultimo decennio, i rispettivi governi hanno avviato un importante processo di devoluzione dei poteri in materia di politiche attive per il mercato del lavoro, dando vita a nuove forme di raccordo interistituzionale. Ed alle relative sedi. Conffetti sempre ben distinti, in rapporto alle diffi'renze annoverabili nella struttura di governo (grado di decentramento, finzioni o competenze di ciascun livello, forza ed influenza di soggetti terzi) e nélla struttura dello Stato (tzpo di Costituzione, numero di livelli ed asimmetria, divisione dei poteri e delle risorse). Sul punto, si vedano i documentati quaderni inglesi Regional and Federa! Studies. Ciò significa anche che, ad esempio - per restare sull'attualità - ogni disegno ed zpotesi di federalismo fiscale deve fare i conti con una ponderazione informata e comparata dei materiali che abbiamo a disposizione, dei vincoli e delle opportunità che essi rappresentano. Ovvero, il nostro ordinamento così come tratteggiato nel nuovo Titolo V della Costituzione italiana. Per non rischiare, come capita, che l'ingrediente segreto, sconosciuto anche allo chefi finisca col rovinare la festa a molti. (C.L.)

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Regioni e accordi internazionali. I poteri di attuazione ed esecuzione di Maria Romana Allegri

a legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 31, ha modificato il titolo V della parte seconda della Costituzione italiana nel senso di un rafforzamento delle competenze delle Regioni e degli Enti locali. Senza entrare nel merito dei complessi aspetti della riforma, in questa sede basterà ricordare che, in particolare, l'art. 3, n. 1, secondo comma, della legge citata ha modificato l'art. 117 Cost. 2, aggiungendo un nuovo primo comma, che ora recita: "La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali" 3 . Sempre in virtù della legge costituzionale n. 3 del 2001, è stato modificato il riparto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni, regolato dall'art. 117. Cost., tanto che ora la politica estera e i rapporti internazionali dello Stato con l'Unione europea sono materie di competenza legislativa esclusiva statale (art. 117, comma 2, lett. a), mentre sono materie di legislazione concorrente i rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni (art. 117, comma 3). Tali disposizioni, per un verso, interferiscono con le altre disposizioni internazionalistiche già presenti nella Costituzione italiana e, per l'altro, si ricollegano alla dibattuta questione delle competenze regionali in materia di rapporti internazionali (art. 117 Cost., commi 5 e 9) e all'esercizio da parte dello Stato del potere sostitutivo (art. 120 Cost.), come si vedrà nel prosieguo della trattazione. Le questioni sul tappeto - rispetto alle quali la dottrina e la scarsa giurisprudenza costituzionale non sono pervenute a soluzioni univoche - riguardano essenzialmente tre ordini di problemi, rispettivamente connessi all'interpretazione dei commi primo e quinto dell'art. 117 Cost. e del secondo comma dell'art. 120 Cost. Non si cercherà qui di dare una risposta

L

L'autrice insegna Istituzioni di Diritto pubblico e di Diritto dell'Unione europea presso la Facoltà di Scienze della comunicazione, Università di Roma La Sapienza. 143


compiuta e, in qualche misura, definitiva a problemi ancora aperti. Piuttosto, è importante evidenziare i nodi da sciogliere. La legge n. 131 del 5 giugno 2003 (c. d. "La Loggia") pur avendo dichiaratamente l'intento di adeguare l'ordinamento giuridico italiano al nuovo dettato costituzionale, in realtà, questi nodi non li ha sciolti. Anzi, ha lasciato più interrogativi di quelli a cui ha dato risposta. LADEGUAMENTO (AuToMATIco?) AL DIRITTO INTERNAZIONALE PATTIZIO. UNA NORMA DI PORTATA RADICALMENTE INNNOVATIVA

L'attuazione della novella costituzionale del 2001 è avvenuta con legge 5 giugno 2003, n. 131, con la quale sono state emanate, appunto, "Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3"5• In particolare, l'art. 1, n. 1, di tale legge recita: "Costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell'articolo 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all'articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all'articolo 11 della Costituzione, dall'ordinamento comunitario e dai trattati internazionali". Dalle norme suindicate, appare evidente che la legislazione statale e regionale debba uniformarsi alle norme di diritto internazionale sia consuetudinarie che pattizie in virtù di una esplicita norma costituzionale. Può anche sostenersi che, attraverso la disposizione dell'art. 117 Cost., primo comma, sia stato inserito nel nostro ordinamento il principio pacta sunt servanda, nel senso di realizzare una sorta di adattamento automatico anche al diritto internazionale pattizio, senza la necessità di ordine di un esecuzione, come a suo tempo sostenuto da Quadri 6 . Per gli accordi internazionali per i quali l'art. 80 Cost. richiede una legge di autorizzazione alla ratifica, l'ordine di esecuzione sarebbe quindi del tutto superfluo, poiché la necessità di adattamento dell'ordinamento interno al trattato internazionale sarebbe conseguenza diretta della legge di autorizzazione alla ratifica emanata dal Parlamento. L'ordine di esecuzione continuerebbe ad essere necessario, al limite, per consentire l'adattamento del diritto interno agli accordi internazionali conclusi in forma semplificata, per i quali mancherebbe altrimenti l'espressione della volontà del Parlamento. Tali considerazioni conferiscono al primo comma dell'art. 117 Cost. 144


una portata radicalmente innovativa, considerando che la Costituzione italiana, nella versione antecedente alla revisione del 2001, prevedeva secondo la dottrina pressoché unanime - un obbligo di adattamento automatico soltanto in relazione alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost., primo comma), mentre in relazione alle norme internazionali di natura convenzionale - quelle cioè derivanti da accordi sottoscritti dal nostro Stato - l'adattamento non poteva che avvenire mediante l'ordine di esecuzione. Soltanto Rolando Quadri già a suo tempo sosteneva che, data la norma di diritto internazionale generale pacta sunt servanda, attraverso l'art. 10 Cost. poteva prescriversi l'adeguamento automatico anche agli obblighi internazionali di matrice pattizia. Sposando la tesi dell'adattamento automatico al diritto internazionale pattizio, deve ritenersi che gli atti legislativi confliggenti con esso si pongano per ciò stesso in contrasto con la Costituzione, giustificando l'intervento della Corte costituzionale 7 . Ciò imporrebbe al legislatore ordinario il rispetto di prescrizioni che egli non ha contribuito a produrre, quali quelle derivanti dagli accordi conclusi senza autorizzazione parlamentare o in forma semplificata. Tuttavia, a tale obiezione si può rispondere che, in virtù del combinato disposto degli artt. 80 e 117 Cost., l'autorizzazione parlamentare sia indispensabile per tutti gli accordi comportanti modificazioni dileggi, e quindi anche per quegli accordi che intendono vincolare la legislazione futura. Il passaggio parlamentare è, e rimane, quindi, indispensabile8 La piii significativa obiezione alla tesi per cui il primo comma dell'art. 117 Cost. abbia inserito nella Costituzione italiana l'obbligo di adattamento automatico anche al diritto internazionale pattizio risiede nella collocazione stessa della disposizione, che desta alcune perplessità 9 Appare certo singolare che un principio generale relativo ai rapporti fra norme interne ed obblighi internazionali sia enunciato in un titolo destinato a disciplinare i rapporti fra enti territoriali" 0 . In secondo luogo, vale ripetere l'obiezione già ricordata per cui un'interpretazione estensiva della disposizione in oggetto, in assenza di una precisazione volta a salvaguardare il rispetto dei procedimenti interni sulla competenza a stipulare, stabilirebbe un vincolo per la funzione legislativa rispetto ad obblighi assunti anche dal solo esecutivo 11 , mentre il Parlamento, in mancanza di meccanismi preventivi di controllo di legittimità, non avrebbe strumenti per opporsi all'assunzione di obblighi internazionali che incidessero sulle proprie prerogative 12. Infine, la Corte costituzionale sarebbe chiamata a diri.

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mere tutti i possibili contrasti fra accordi internazionali e leggi interne, con un notevole aggravio dei suoi compiti 13 Ciò considerato, sembrerebbe più corretto interpretare l'art. 117 Cost., primo comma, in altra ottica, e cioè come norma tesa ad evitare che la distribuzione della potestà legislativa fra Stato e Regioni possa comportare l'impossibilità pratica di osservare gli obblighi internazionali' 4 . Infatti, nel momento in cui la riforma costituzionale del 2001 ha attribuito alle Regioni una competenza in materia di rapporti internazionali, occorre evitare che essa venga esercitata in difformità rispetto agli obblighi assunti dallo Stato. Tale interpretazione motiverebbe la previsione dell'art. 120 Cost. novellato nel 2001, che attribuisce allo Stato il potere di sostituirsi alle Regioni in caso di loro inadempimento nell'attuazione di obblighi internazionali 15 . Quindi, in virtù del primo comma dell'art. 117, così come la potestà legislativa regionale incontrerebbe il limite degli obblighi internazionali gravanti sullo Stato, altrettanto lo Stato non dovrebbe esercitare la propria competenza legislativa in modo intrusivo rispetto agli obblighi internazionali contratti dalle Regioni. In sintesi, tale lettura attribuisce all'art. 117 Cost., primo comma, la valenza di sottolineare come la Costituzione vincoli direttamente e paritariamente., con le medesime modalità, tanto il legislatore statale che quello regionale 16 . Ne segue che il vincolo degli obblighi internazionali costituisce un rilevantissimo elemento unificante dell'ordinamento complessivo 17 La scarsa giurisprudenza costituzionale relativa al primo comma dell'art. 117 Cost. non è di grande aiuto per prendere posizione fra i due opposti orientamenti, quello che individua nella disposizione principalmente un obbligo di adeguamento al diritto internazionale pattizio e quello che vi legge piuttosto la sottolineatura del ruolo paritario di Stato e Regioni nell'esercizio della competenza legislativa. Infatti, soltanto quattro anni dopo l'entrata in vigore della legge di revisione costituzionale 3/200 1 la Corte costituzionale si è pronunciata, per la prima e unica volta, in merito al primo comma dell'art. 117 Cost. con la sentenza 3 novembre 2005 n. 406.18 Effettivamente, l'art. 117 Cost., primo comma, era giunto dinanzi alla Corte come parametro di giudizio altre volte in passato, ma essa talvolta aveva dichiarato la questione infondata, altre inammissibile, altre ancora aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme impugnate, ma in relazione ad altri parametri. Qui invece, per la prima volta, la Corte ha assunto la norma in discorso come unico parametro del giudizio, assorbendo ogni altro motivo di censura, nonostante l'Avvoca.

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tura generale dello Stato ritenesse violato anche il secondo comma deIl'art. 117 Cost. (ritenesse cioè che la legge regionale impugnata eccedesse la competenza legislativa regionale). Tralasciando le implicazioni che la sentenza in esame comporta relativamente ai rapporti fra diritto interno e diritto comunitario e fra Corte costituzionale e Corte europea di Giustizia, che qui non interessano, non resta che segnalare positivamente lo "scongelamento" del primo comma dell'art. 117 Cost. auspicandone un ulteriore utilizzo come parametro di giudizio. Il che finora non è stato. LE COMPETENZE DELLE REGIONI RELATIVE AGLI ACCORDI INTERNAZIONALI

In seguito alla revisione costituzionale del 2001, l'art. 117 Cost., disciplinante il riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, è stato profondamente modificato. In particolare, rileva in questa sede il nuovo comma 5 dell'art. 117 Cost., che dispone che "le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano 19, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina l'esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza". Dalla disciplina citata emerge che le Regioni dispongono, nell'ambito delle relazioni internazionali 20, di due distinti tipi di competenze: una attuativa ed esecutiva delle decisioni assunte dallo Stato ed una effettivamente propria ed autonoma, da esercitare nelle materie di propria competenza, cioè quelle rientranti nella potestà legislativa concorrente (terzo comma dell'art. 117), quelle rientranti nella potestà legislativa residuale regionale (sesto comma dell'art. 117), nonché quelle eventualmente derivanti dall'applicazione del terzo comma dell'art. 116 Cost., che si riferisce ad ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia che una legge dello Stato, approvata con lo speciale procedimento ivi descritto, potrebbe attribuire alle Regioni ad autonomia ordinaria. Rispetto alla tecnica utilizzata dal Costituente nel riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni (art. 117 Cost., commi 2, 3, 4) - dove la competenza generale è delle Regioni, mentre quella esclusiva dello Stato è l'eccezione - con riguardo all'attività esterna è stata invece utilizzata una

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tecnica legislativa opposta, in cui la regola è data dalla competenza statale, con le eccezioni espressamente e tassativamente previste a beneficio dell'autonomia regionale2 1 Inoltre, l'art. 117 Cost., comma 2, lett. a, assoggetta alla legislazione statale esclusiva la politica estera, i rapporti internazionali dello Stato e i rapporti dello Stato con l'Unione europea, mentre il terzo comma del medesimo articolo demanda alla legislazione concorrente i rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni: tali disposizioni prevedono, quindi, che la legislazione statale sia legittimata a disciplinare le modalità con cui Stato e Regioni debbano agire sul piano internazionale, in modo integrale laddove il soggetto agente sia lo Stato e solo relativamente alla normativa di principio laddove il soggetto agente sia la Regione. Non è chiaro come dette disposizioni possano coordinarsi con quelle del comma 5 del medesimo articolo; in particolare, non è chiaro se la legge statale debba comunque dettare la normativa di principio - secondo la tecnica della legislazione concorrente - anche quando la Regione si avvalga delle sue competenze di attuazione ed esecuzione dei trattati.

Due linee interpretative La dottrina è divisa fra coloro che sostengono che le facoltà attribuite alle Regioni e alle province autonome in virtù del quinto comma dell'art. 117 Cost. possano essere esercitate soltanto dopo che le norme internazionali siano già state introdotte nell'ordinamento interno mediante un intervento legislativo statale - e allora si porrebbe il problema di individuare i limiti che le Regioni incontrerebbero nell'esercizio della loro potestà legislativa e amministrativa qualora le norme internazionali interferiscano in settori di competenza regionale 22 - e coloro che ritengono, invece, che le Regioni siano abilitate a dare direttamente esecuzione agli accordi internazionali anche in via legislativa, essendo l'art. 117 Cost., comma 5, una norma sull'adattamento al diritto internazionale convenzionale. Qualora si aderisca alla prima soluzione, che viene avvalorata dal rilievo che le sole norme che la Costituzione contempla sulla competenza a stipulare sono quelle degli articoli 80 e 8723, occorre distinguere l'ipotesi in cui il trattato internazionale sia di tipo self-executing - e allora l'attività delle Regioni non potrebbe che essere di tipo amministrativo e di mera applicazione - da quella in cui il trattato non sia self-executing, per cui la 148


Regione può legiferare negli ambiti di sua competenza dopo che io Stato ha consentito l'adattamento dell'ordinamento interno ai trattato mediante ordine di esecuzione; si verrebbe allora a creare una forma di competenza concorrente in cui lo Stato pone la normativa di principio e la Regione quella di dettaglio 24 . La seconda soluzione, comunque, sembra essere quella più corretta - almeno per quanto riguarda le parti degli accordi conclusi dallo Stato rientranti nelle materie di competenza legislativa regionale 25 - considerando che l'art. 6 della legge 131 del 2003 prevede al comma i che "le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di propria competenza legislativa, provvedono direttamente all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali ratificati, dandone preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed al Dipartimento per gli affari regionali della Presidenza del Consiglio dei ministri, i quali, nei successivi trenta giorni dal relativo ricevimento, possono formulare criteri e osservazioni. In caso di inadempienza, ferma restando la responsabilità delle Regioni verso lo Stato, si applicano le disposizioni di cui all'articolo 8, commi 1, 4 e 5, in quanto compatibili" 26 . Il controllo dello Stato sull'attività di attuazione ed esecuzione di accordi internazionali portata avanti dalle Regioni si esplica, quindi, in via preventiva mediante il controllo effettuato dal Governo 27 ed in via successiva mediante l'esercizio da parte degli organi statali del potere sostitutiv0 28 .

Una norma di procedura? La disposizione della legge ordinaria appena esaminata dovrebbe, dunque, costituire la "norma di procedura" cui fa riferimento il quinto comma dell'art. 117 Cost., al cui, rispetto è assoggettata la legislazione regionale. Eppure, consentire allo Stato di dettare norme di procedura non significa evidentemente ammettere qualunque tipo di ingerenza sull'attività regionale di attuazione. Occorre quindi valutare quale sia la portata dei criteri e delle osservazioni che lo Stato può formulare, tenendo presente che - come espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza 19 luglio 2004 n. 23829 - la legge n. 131 va interpretata nel senso che non consente al Governo "di esercitare un indebito controllo di merito sulle autonome scelte regionali" 30, quanto piuttosto di porre criteri "sempre e soltanto relativi alle esigenze di salvaguardia delle linee di politica estera nazionale e di corretta esecuzione degli obblighi di cui lo Stato è responsabile nell'ordinamento internazionale" 31 . Tuttavia, è ben difficile soste-

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nere che allo Stato debba essere precluso l'intervento nella fase di esecuzione dei trattati sulla base delle sue competenze interne, diverse dalla politica estera: è infatti possibile che l'esecuzione o l'attuazione di accordi internazionali da parte delle Regioni incida sulle competenze materiali riservate allo Stato, ovvero su quelle trasversali (come la tutela dell'ambiente, o la determinazione dei livelli delle prestazioni economiche e sociali). Ragionando così, però, "è da chiedersi quale spazio ulteriore residui per limitare il potere riconosciuto alle Regioni dal quinto comma dell'art. 117 Cost., dopo che l'accordo internazionale è entrato in vigore, e dopo che lo Stato ha esercitato le proprie competenze sulla base di titoli interni• dei quali si è detto" 32 . Una conclusione che può. proporsi è allora la seguente: allo Stato spetterebbe il compito di prospettare il proprio punto di vista circa la corretta esecuzione degli obblighi internazionali, senza però che le indicazioni governative siano da considerarsi vincolanti; la attuazione regionale degli accordi sarà legittima o illegittima in funzione del rapporto con la norma internazionale (e con le altre norme statali delle quali si è detto sopra), e non a seconda che rispetti o non rispetti i criteri del Ministro 33 .

Attuazione soltanto di accordi ratificati? Non si capisce perché la disposizione esaminata faccia riferimento soltanto agli accordi ratificati, omettendo qualsiasi riferimento sia ai trattati stipulati dal Governo in forma semplificata sia a quelli stipulati direttamente dalle Regioni, nel rispetto delle norme stabilite con legge dello Stato. Il riferimento ai trattati ratificati era originariamente presente nel disegno di legge 1545/2002 ma poi è scomparso dall'art. 1, comma 1, della legge 131I2003 3 È quindi singolare che tale riferimento ricompaia poi nell'art. 6. Una spiegazione potrebbe essere trovata nel fatto che normalmente gli accordi conclusi in forma semplificata vengano attuati in via amministrativa; ma ciò non è sufficiente per escludere a priori che essi, sebbene non incidenti nella sfera legislativa statale, possano incidere in quella regionale e debbano quindi essere attuati dalle Regioni 35 . La domanda che si pone a questo punto è: gli adempimenti procedurali imposti alla Regione dal primo comma dell'art. 6 della legge 131/2003 siano imposti alla Regione in ogni ipotesi di esecuzione di accordi internazionali nelle materie di competenza ovvero soltanto nel caso di accordi ratificati, come si esprime la disposizione richiamata e cioè di accordi stipulati e ratificati dagli organi centrali dello Stato? 36 . La lettera del testo farebbe .

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propendere per la seconda ipotesi. Lo spirito della norma - che in generale non riconosce alle Regioni un vero e proprio potere pienamente autonomo - fa invece credere che l'intenzione del legislatore sia stata nel senso della prima. Va anche detto che la potestà attuativa ed esecutiva delle Regioni in ordine agli accordi internazionali ratificati può esercitarsi a partire dal momento dell'effettiva entrata in vigore dell'accordo e non da quello della semplice ratifica 37 . Tale potestà, poi, dovrebbe essere esercitata sempre in via legislativa, onde permettere alla Corte costituzionale di svolgere eventualmente un controllo di legittimità38 Per Cassese 39 la soluzione più corretta è la seguente: i trattati stipulati dagli organi dello Stato (anche quelli stipulati in forma semplificata) debbono essere recepiti nell'ordinamento internazionale con legge nazionale, in virtù del fatto che l'art. 117, comma 2 Cost. riconosce allo Stato la competenza esclusiva in materia di rapporti internazionali dello Stato. Successivamente le Regioni potranno emanare la normativa regionale attuativa ed esecutiva. Infatti, se si ritiene che la disposizione del comma 5 dell'art. 117 Cost. sia riferita anche al potere di immettere nell'ordinamento interno le norme di esecuzione dei trattati internazionali nelle materie regionali, per i trattati che richiedono la previa autorizzazione alla ratifica si verificherebbe una scissione tra legge statale ex art. 80 e legge regionale contenente l'ordine di esecuzione; per questo motivo, dovrebbe ritenersi che spetti allo Stato l'esecuzione dei trattati conclusi dal Governo, anche nelle materie di competenza regionale 40, a prescindere dal riferimento all'esecuzione dei trattati contenuto nella norma in esame. Mentre un diverso discorso può essere fatto in relazione ai trattati internazionali stipulati direttamente dalle Regioni, nel rispetto della disciplina stabilita con legge dello Stato, che non influiscono sulla politica estera dello Stato. A questi trattati e accordi potrà essere data esecuzione con legge regionale41 . Apparterrebbe anche alla competenza legislativa regionale, secondo il riparto di competenze dettato dall'art. 117 Cost., la mera attuazione degli accordi statali nelle materie regionali 42 D'Atena43 ritiene, invece, che la disposizione dell'art. 117 Cost., comma 5, assegni alle Regioni la funzione di adottare l'ordine di esecuzione anche in riferimento agli accordi stipulati dallo Stato. Con ciò si porrebbe un argine alla prassi consolidata per cui il Parlamento, con un unico atto, autorizza la ratifica del Trattato e pone l'ordine di esecuzione. A questo punto si tratta però di intendere cosa significhi la norma secondo la quale .

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l'esercizio della potestà attuativa ed esecutiva da parte delle Regioni è subordinato all'emanazione di una legge da parte dello Stato. Tutte le distinzioni cadrebbero se fosse possibile che tale legge riservi unicamente allo Stato il potere di emanare l'ordine di esecuzione nelle materie soggette alla legislazione concorrente o, addirittura, in quelle di esclusiva spettanza regionale. In realtà, il quinto comma dell'art. 117 fa riferimento non ad una legge statale qualsiasi', ma ad una legge riguardante "norme di procedura"44. E tale può essere un atto normativo che riservasse esclusivamente allo Stato il potere di emanare l'ordine di esecuzione. UNA CONFUSA ATTRAZIONE CENTRALISTA

Vale a questo punto rilevare che la legge 131/2003, al comma 5 prevede penetranti poteri statali di indirizzo e coordinamento, difficilmente riconducibili a quella "norme di procedura" cui fa riferimento la Costituzione45 . A meno di non voler considerare tali gli oneri di preventiva comunicazione delle attività regionali al Ministero degli esteri ovvero di non volerli giustificare in nome del principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni 46 Ancora, il comma 5 dell'art. 117 Cost. abilita le Regioni all'attuazione e all'esecuzione dei trattati internazionali "nelle materie di loro competenza". Ci si chiede, quindi, se il legislatore avesse in mente solo la competenza legislativa concorrente (art. 117 Cost. comma 3), quella esclusiva residuale (art. 117 Cost. comma 4 e statuti speciali) ovvero entrambe: probabilmente, in mancanza di ulteriori specificazioni, è più corretto intendere entrambe47 Effettivamente, non è agevole individuare con precisione gli atti da assoggettare alla procedura della legge n. 131. "Se si considera che per il diritto internazionale ciò che conta è che il comportamento dello Stato nel suo insieme realizzi il risultato pratico voluto dal trattato, una lettura estensiva della disposizione condurrebbe al dovere di comunicare preventivamente alla amministrazione statale qualunque provvedimento idoneo ad essere valutato come adempimento o inadempimento di obblighi internazionali: ma questo in pratica equivarrebbe a configurare un procedimento di controllo preventivo di (quasi) tutte le leggi regionali, finalizzato al rispetto del limite degli obblighi internazionali. Dovrebbe quindi essere verificata la sostenibilità di una interpretazione restrittiva, che includa nel dovere di comunicazione - oltre all'ordine di esecuzione, se ritenu.

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to nella disponibilità della Regione - solo il primo atto di adattamento ordinario, per il quale si possa operare un confronto immediato con l'accordo internazionale" 48 . Un'ultima questione è quella del mancato ruolo delle Regioni rispetto alle decisioni relative all'assunzione da parte dello Stato di obblighi internazional149, a differenza di quanto accada con la formazione della normativa comunitaria, che prevede la partecipazione regionale nella c. d. "fase ascendente" come disposto dal quinto comma dell'art. 117 Cost., dalla legge 13 1/2003 e soprattutto dalla legge 11/2005 50 . Ciò situa le Regioni in una posizione deteriore rispetto allo Stato, soprattutto se si avalla l'idea che, in nome di presunte e sedicenti esigenze unitarie, lo Stato possa concludere accordi internazionali anche nelle materie di competenza regionale (cosa che l'art. 117 Cost. non esclude). Né a ciò pone in alcun modo rimedio la legge 11/2003. Infatti, la "filosofia" che emerge dalla lettura combinata degli art. 5 e 114 Cost. è quella di una Repubblica che si forma "dal basso", attraverso il concorso della Regione alla formazione della disciplina di principio adottata dallo Stato, mentre la legge La Loggia rovescia radicalmente tale prospettiva, delineando un modello per cui l'attività degli enti territoriali è pesantemente limitata "dall'alto" 51 . I POTERI SOSTITUTIVI PER VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI INTERNAZIONALI: NATURA, MODI D'ESERCIZIO, IMPATTO

Prima della riforma del 2001 non esisteva alcuna esplicita previsione costituzionale relativa al potere sostitutivo. Tuttavia, molteplici norme di rango legislativo - fra cui alcune disposizioni del d.PR 616/1977 (art. 4 e art. 6), della legge 400/1988 (art. 2, comma 3, lett. fi, della legge 86/1989 (art. 11) e del d.lgs. 112/1998 (art. 2 e art. 5) - prevedevano poteri sostitutivi statali relativi alle funzioni amministrative delegate, a quelle proprie delle Regioni e degli Enti locali e all'inattività amministrativa in relazione all'attuazione degli obblighi comunitari. Nonostante parte della dottrina rilevasse l'inidoneità dello strumento legislativo ordinario per alterare il principio dell'esclusività delle attribuzioni amministrative delle Regioni ex art. 118 Cost., primo comma, su queste disposizioni di legge si è esercitata la giurisprudenza costituzionale, che ha finito per giustificare e consentire i poteri sostitutivi statali in virti del rispetto del principio collaborativ0 52 . La riforma costituzionale del 2001 ha sensibilmente innovato il quadro

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normativo preesistente, dal momento che ora, ai sensi del quinto comma dell'art. 117 Cost., la legge dello Stato disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza delle Regioni nell'attuazione o nell'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea. A tale proposito, non è tanto corretto affermare che la novella del 2001 abbia costituzionalizzato i poteri sostitutivi precedentemente previsti solo in via legislativa, quanto piuttosto che essa abbia sancito nuovi e diversi poteri, al fine di provvedere alla tutela di istanze unitarie, sempre nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, che hanno preso il posto, almeno in parte, dello scomparso interesse nazionale. Nella nuova disciplina, il potere sostitutivo del Governo - precedentemente ammesso solo in via amministrativa - acquista una connotazione di tipo politico53 Un'altra ipotesi di esercizio del potere sostitutivo ricorre nel secondo comma dell'art. 120 Cost.: "Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria [...1. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione". 11 riferimento sia alle "norme" sia ai "trattati" internazionali rende chiaro che l'ipotesi ricorra sia nel caso di mancato rispetto da parte delle Regioni del diritto internazionale generale (consuetudinano) che in quella di mancato rispetto della normativa internazionale convenzionale. L'art. 120 Cost. prevede, in realtà, anche ipotesi di esercizio del potere sostitutivo diverse da quella relativa al mancato rispetto dei trattati internazionali (cioè il pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, la tutela dell'unità giuridica e dell'unità economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), ma in questa sede verrà esaminata solo l'ipotesi predetta. E pur vero, però, che l'esercizio del potere estero delle Regioni, come già accennato in precedenza, potrebbe essere tale da pregiudicare in effetti l'unità giuridica o economica ovvero il livello delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali: quindi, potrebbe darsi il caso in cui l'ipotesi del mancato rispetto delle norme dei trattati internazionali (come piii volte ribadito, non si prenderà in considerazione quella del mancato rispetto delle norme comunitarie) assorba anche le altre. .

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A proposito del potere sostitutivo, occorre chiedersi, di nuovo, se esso rappresenti una forma di parziale "riaccentramento" delle attribuzioni garantite dalla Costituzione agli Enti locali soltanto in via di principio, ovvero se rappresenti un necessario riequilibrio politico-costituzionale per assicurare il corretto funzionamento del sistema di check and balances. L'interpretazione più corretta è probabilmente quella che lo intende come istituto d'emergenza o d'eccezione, operante nell'ipotesi di specifiche disfunzioni indicate dalla Costituzione stessa 54 . Peraltro, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza 27 gennaio 2004 n. 4355, ha definito il potere sostitutivo "straordinario" e "aggiuntivo" rispetto agli altri poteri sostitutivi vigenti nell'ordinamento nei confronti degli enti territoriali. I poteri sostitutivi, inoltre, devono anche essere temporalmente circoscritti e non possono prolungarsi oltre il momento nel quale cessa la condizione che ne era il presuppost0 56 . Si può quindi affermare che i poteri sostitutivi vadano intesi come manifestazione di quel principio costituzionale di efficienza pubblica che dovrebbe sempre guidare la disciplina degli enti autoritativi57 .

Fattispecie di intervento sostitutivo In attuazione del dettato costituzionale, la legge 13112003 ha provveduto a disciplinare l'esercizio del potere sostitutivo. Quindi, la disciplina previgente in materia di poteri sostitutivi (art. 5 del d.d.1. 11211998) dovrebbe considerarsi abrogata dalla legge 13 1/2003, per lo meno nei casi in cui la potestà del Governo di sostituirsi agli enti territoriali era prevista in base ai medesimi presupposti ora indicati nella Costituzione; negli altri casi, invece, deve essere indagata di volta in volta l'esatta natura dell'intervento già attribuito dalla legge alle autorità dello Stato nei confronti delle autonomie territoriali 58 . Ovviamente spetta agli organi statali, in prima battuta, la valutazione circa la sussistenza dei presupposti costituzionalmente indicati per l'esercizio del potere sostitutivo; ma l'effettiva congruità dell'intervento sostitutivo rispetto a tali presupposti potrà essere oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale o di conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale, pur tenendo conto delle difficoltà che incontra il controllo della Corte data l'estrema genericità delle formule costituzionali, che lasciano ampio margine di flessibilità interpretativa 59 . Secondo il primo comma delI'art. 8 della legge 131/2003, "nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120, secondo comma, della Costituzio155


ne, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli Enti locali, assegna all'ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei ministri, sentito l'organo interessato, su proposta del ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario. Alla riunione del Consiglio dei ministri partecipa il Presidente della Giunta regionale della Regione interessata al provvedimento". Il secondo comma del medesimo articolo prevede la specifica ipotesi per cui l'esercizio del potere sostitutivo si renda necessario al fine di porre rimedio alla violazione della normativa comunitaria; come già ribadito, essa non verrà esaminata in questa sede. Analogamente, verrà tralasciato il commento della disposizione al comma 3, riguardante il potere sostitutivo nei confronti degli enti territoriali minori. Rileva, invece, il comma 4, secondo cui "nei casi di assoluta urgenza, qualora l'intervento sostitutivo non sia procrastinabile senzamettere in pericolo le finalità tutelate dall'articolo 120 della Costituzione, il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente, anche su iniziativa delle Regioni o degli Enti locali, adotta i provvedimenti necessari, che sono immediatamente comunicati alla Conferenza Stato-Regioni o alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali, allargata ai rappresentanti delle Comunità montane, che possono chiederne il riesame". E il comma 5: "i provvedimenti sostitutivi devono essere proporzionati alle finalità perseguite". Per evitare di ricorrere con troppa frequenza al potere sostitutivo, il comma 6 dell'art. 8 dispone che "il Governo può promuovere la stipula di intese in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, dirette a favorire l'armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni". Va infine ricordato che le disposizioni dell'art. 8, commi 1, 4 e 5, si applicano ove compatibili nei casi in cui le Regioni e le Province autonome non adempiano agli obblighi di cui al primo comma dell'art. 6 (preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri delle iniziative regionali concernenti l'attuazione e l'esecuzione degli accordi internazionali), ovvero - ex art. 6, comma 6 commettano violazione degli accordi di cui al comma 3 del medesimo articolo (cioè quelli esecutivi ed applicativi di accordi internazionali regolarmente entrati in vigore, o accordi di natura tecnico-amministrativa, o 156


accordi di natura programmatica finalizzati a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale). Le disposizioni costituzionali del quinto comma dell'art. 117 e dell'art. 120 sembrano richiamare due distinti tipi di intervento sostitutivo inerenti a diversi contesti 60 in particolare, la prima disposizione - che non fa riferimento al soggetto titolare del potere sostitutivo né al necessario rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione - sembrerebbe applicabile ad inadempimenti di tipo legislativo delle Regioni, mentre la seconda disposizione - che fa riferimento anche ad altri enti territoriali, che non implica necessariamente un inadempimento, che contiene un esplicito riferimento al Governo e che richiama i principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, propri dell'attività amministrativa - sembrerebbe attinente ad attività di tipo amministrativo. Comunque, il legislatore del 2003 pare averne dettato una disciplina sostanzialmente comune. Infatti, l'art. 8 della legge è dedicato all'attuazione dell'art. 120 Cost., ma le sue disposizioni si applicano, ove compatibili, anche nel caso dell'inadempienza prevista dal quinto comma dell'art. 117 Cost. per via del richiamo contenuto negli articoli i e 6 della legge La Loggia. Parte della dottrina 6 ' ritiene incongrua l'unificazione in una medesima disciplina dei due diversi tipi di potere sostitutivo, ma altri 62 obiettano che una distinzione avrebbe generato difficoltà applicative e che comunque il legislatore, nel prevedere l'applicabilità delle disposizioni dell'art. 8 solo "ove compatibili" rispetto alle ipotesi configurate dagli articoli i e 6 avrebbe comunque mantenuto la distinzione. L'art. 8 della legge 131/2003 - considerando che nell'art. 120 Cost. l'espressione "poteri sostitutivi" compare al plurale - disciplina in realtà tre diversi tipi di intervento governativ0 63 . Quello previsto al primo comma avrebbe funzione "preventiva", laddove si statuisce che il Governo, prima di emanare il provvedimento sostitutivo, assegna all'ente interessato un termine congruo per adottare i provvedimenti dovuti o necessari. Quello previsto al secondo comma sembrerebbe avere efficacia ablatoria dell'atto adottato dall'ente territoriale in violazione delle normative comunitarie. Infine quello di cui al quarto comma, da esercitarsi nei casi di assoluta urgenza (e presumibilmente, quindi, anche mediante il ricorso al decreto-legge), che si caratterizza rispetto a quello ordinario per la mancanza della fase preliminare di assegnazione di un congruo termine e per l'inserimento del successivo confronto con la Conferenza Stato-Regioni e Stato-città e autonomie locali. Ciò considerato, non sarebbe del tutto :

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corretto affermare che l'art. 8 abbia arbitrariamente uniformato la disciplina dettata dalla Costituzione in relazione alle due distinte ipotesi dell'art. 117, comma 5, e dell'art. 120, anche perché dei diversi procedimenti sostitutivi, quello "comunitario" e quello "d'urgenza" sono caratterizzati da norme derogatorie rispetto a quello "ordinario" - che si applica negli altri casi previsti dall'art. 120 Cost. - e a quello che si riferisce all'inadempienza ex art. 117 Cost., comma 5. Il criterio della proporzionalità alle finalità perseguite (art. 8, comma 5, legge 131/2003) è comune a tutti i procedimenti, mentre i principi di sussidiarietà e di leale collaborazione che vanno rispettati in relazione alla nomina del commissario del Governo (art. 8, comma 3, della medesima legge) inspiegabilmente non sono previsti con riferimento al procedimento di urgenza. INTERVENTI SOSTITUTIVI PER VIA NORMATIVA?

La legge La Loggia non chiarisce se i provvedimenti del Governo debbano avere carattere temporaneo o definitivo, ma, sulla scia della risalente giurisprudenza della Corte costituzionale, si può argomentare che nulla sia cambiato circa il fatto che, venendo meno il presupposto costituzionalmente indicato per l'esercizio del potere sostitutivo, debba venir meno anche il corrispondente provvedimento governativo. Tuttavia, gli atti sostitutivi non dovrebbero essere considerati di per sé provvisori, cioè automaticamente e retroattivamente cedevoli rispetto ad altri atti successivamente adottati dagli organi degli enti territoriali 64 Relativamente alla natura dell'intervento sostitutivo del Governo, l'inciso contenuto nel primo comma deII'art. 8 della legge 131/2003 - "il Consiglio dei ministri [ ... ] adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario" - porterebbe a ritenere che esso possa esercitarsi non solo in via amministrativa, ma anche in via normativa e addirittura mediante l'emanazione di atti con forza di legge, anche perché spesso l'intervento sostitutivo sarebbe concretamente irrealizzabile se non ricorrendo ad atti di rango legislativ0 65 . Tra l'altro, ad ammettere l'intervento del Governo in via legislativa si consentirebbe che sul provvedimento si eserciti il controllo della Corte costituzionale, che non sarebbe possibile con provvedimenti di altro tipo 66 La dottrina maggioritaria non è però d'accordo. Ad esempio, Anzon 67 ritiene che, nel caso dell'inadempienza ex art. 117 Cost., quinto comma, sia possibile l'intervento del Governo anche in via legislativa e anche preventi.

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vo, mentre nelle ipotesi sancite dall'art. 120 Cost., secondo comma, i poteri del Governo sarebbero esercitabili solo in via successiva, solo mediante atti amministrativi, solo in relazione all'attività amministrativa delle Regioni e a prescindere dall'eventuale inerzia di queste ultime. Anche per questo, del resto, mancherebbe nell'art. 117 Cost., comma 5, ogni riferimento al principio di sussidiarietà e di leale collaborazione presente invece nell'art. 120 Cost.: tali principi, infatti, inerenti all'attività amministrativa, mal si giustificano in relazione a quella legislativa 68 . La possibilità per il Governo, sancita dall'art. 8 della legge La Loggia, di intervenire anche mediante atti normativi potrebbe addirittura essere incostituzionale, poiché si scontrerebbe con il divieto di emanazione di regolamenti statali in tutte le materie regionali (art. 117, comma 6), oltre che con la riserva di legislazione in capo alle Regioni prevista dall'art. 117, commi terzo e quarto 69 Così anche Pizzetti 70, che chiarisce come l'ipotesi di inadempimento ex art. 117 Cost., quinto comma, riguardi gli atti legislativi delle Regioni, mentre l'art. 120 Cost. attiene ad atti non legislativi. Questo perché il riferimentoal Governo compare solo nell'art. 120 Cost. e "il Governo in quanto tale, infatti, non potrebbe sostituirsi comunque all'inadempienza del legislatore, mentre certamente può intervenire in sede di esercizio del potere sostitutivo di cui all'art. 120, secondo comma, rispetto ad atti o attività degli organi regionali e territoriali che non abbiano carattere legislativo. Per contro, il Governo è certamente l'organo piit naturalmente adatto ad esercitare il potere sostitutivo quando si tratti di mancato rispetto di norme comunitarie o internazionali provocato dall'attività non legislativa degli organi regionali e territoriali". Infine, ma solo per citare alcune fra le opinioni, Veronesi 7 ' ritiene che, a prescindere dall'ipotesi di incostituzionalità della potestà sostitutiva di tipo legislativo, essa potrebbe al limite essere riferita solo ad inadempienze regionali nell'attuazione e nell'esecuzione di accordi internazionali ed obblighi comunitari ex art. 117, comma 5, Cost., dove lo Stato è esplicitamente indicato come interveniente in via sostitutiva; infatti, poiché l'art. 120 Cost., comma 2, assegna la titolarità del potere sostitutivo in capo al Governo (e non allo Stato genericamente), o si afferma che il Governo può adottare provvedimenti sostitutivi rispetto ad una legge regionale, oppure occorre riconoscere che il potere sostitutivo summenzionato non riguarda inerzie di tipo legislativo bensì solo di tipo amministrativo. Ilriferimento all'intervento in via normativa non può nemmeno riferirsi all'approvazione di una legge di delegazione da parte del Parlamento 72 e 159


l'inciso è da intendersi, al limite, come possibilità per il Governo di ricorrere al decreto-legge. Tuttavia, alla possibilità per il Governo di ricorrere alla decretazione d'urgenza si oppone il fatto che il quarto comma dell'art. 8 della legge 131/2003 prevede che la Conferenza permanente Stato-Regioni possa chiedere il riesame del provvedimento e ciò - come pure gli altri passaggi procedurali imposti dalla legge La Loggia - appare incompatibile con il dettato deil'art. 77 Cost. Neppure la sostituzione "preventiva" dei quarto comma dell'art. 8, prevista per i casi di assoluta urgenza ricalca il modello delineato neil'art. 77 Cost., mentre delinea un procedimento che ben si adatta all'ipotesi di un intervento governativo di tipo amministrativo, a meno di non ritenere che sia stato creato un nuovo atto normativo con forza di legge di tipo diverso rispetto a quelli costituzionalmente sanciti. La giurisprudenza della Corte costituzionale non è di grande aiuto per chiarire, almeno in parte, le problematiche affrontate. Infatti, nonostante negli ultimi anni siano state emanate diverse sentenze relativamente all'esercizio dei potere sostitutivo, in nessuna ricorre la specifica ipotesi dell'inattuazione di obblighi internazionali da parte delle Regioni (art. 117, Cost., comma 5) o del mancato rispetto di norme e trattati internazionali (art. 120 Cost., comma 2). Può forse interessare unicamente la sentenza 20 gennaio 2006, n. 12, con cui la Corte ha ritenuto infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo (che stabilisce, tra l'altro, che la Regione "partecipa [ ... ] all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali dello Stato"), in quanto mancante del riferimento al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, disciplinante anche le modalità di esercizio dei potere sostitutivo in caso di inadempienza (ex art. 117 Cost., quinto comma), ritenendo piuttosto la Corte che in tale disposizione non sia rinvenibile alcuna volontà derogatoria della Regione Abruzzo rispetto alla normativa costituzionale. Per concludere, a prescindere dal piano di esperienza sui quale debbano esercitarsi i poteri sostitutivi, è certo che essi sono chiamati ad assicurare, da una parte, il necessario equilibrio tra unità e autonomia e, dall'altra, la piena osservanza degli impegni internazionali, il tutto in un quadro di leale collaborazione fra enti territoriali. In quest'ottica, gli atti sostitutivi non possono prescindere da una adeguata motivazione, dalla congruità dei mezzo impiegato rispetto al fine da perseguire e dalla possibilità che l'ente sostituito venga sentito e partecipi, per quanto possibile, alla definizione e all'attuazione delle misure sostitutive. 160


I Pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001. 2 Nella versione antecedente alla novella del 2001, il primo comma dell'art. 117 Cost. così recitava: "La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni: [seguiva elenco delle materie]". 3 In realtà, la precedente versione della norma, risalente alla c. d. "bozza Amato", non conteneva il ridondante richiamo al rispetto della Costituzione e faceva riferimento al riparto delle competenze fra il legislatore statale e quello

regionale: "la potestà legislativa è ripartita fra Io Stato e le Regioni, nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali ". ' Pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 132 del 10 Giugno 2003. Si tratta della c. d. legge La Loggia, dal nome del proponente. 5 Per E. CAJNIzzArto (Le relazioni esterne delle Regioni nella legge di attuazione del nuovo titolo V della Costituzione, in «Rivista di diritto internazionale», 2003, p. 759) "si avverte la tendenza della nuova legge a fuoriuscire dai binari della funzione attuativa, che sarebbe ad essa propria, e a determinare piuttosto un proprio indirizzo, non sempre compatibile con quello che emerge dal sistema costituzionale". 6 Questa è la tesi sostenuta da A. D'Atena, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l'Unione europea, in ((Rassegna parlamentare», 4, 2002, p. 925. ' A. D'ATENA, Lezioni di diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2006, p. 202. 8 A. D'ATENA, La nuova disczplina costituzionale. ... , cit., p. 926. Così anche Id., Lezioni di diritto costituzionale, cit., p.203. Ben espresse da E. CANNIZZARO, La rfi,rma 'federalista" della Costituzione e gli obblighi internazionali, in ((Rivista di diritto internazionale», n. 4, 2001, pp. 921-934. 10 lvi, p. 924. -

Il

Ibid. Ivi, p. 926. 'Ibid. 14 Ivi, p. 928. 15 lvi, p. 931. 16 F. PIZZETrI, muovi elementi "unfìcanti" del sistema costituzionale italiano, in ((Le istituzioni del federalismo», n. 2, 2002, pp. 231 ss. ' Ivi, p. 242. 18 In «Giurisprudenza costituzionale», 2006, p. 4429 ss. Commentano la sentenza C. NAPOLI, La Corte dinanzi ai "vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ": tra applicazione dell'art. 117, primo comma e rispetto dei poteri interpretativi della Corte di Giustizia, in ((Le Regioni», n. 2, 2006 pp. 483-492 e R. CALVANO, La Corte costituzionale 7ìi i conti" per la prima volta con il nuovo art. 117, comma 1 Cost., in ((Giurisprudenza costituzionale», VI, 2005, pp. 4436-4443. 19 C. PINELLI (I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l'ordinamento internazionale e con l'ordinamento comunitario, in "Il foro italiano", V, 2001, p. 195) fa notare che, •a differenza di tutte le altre disposizioni del titolo quinto della Costituzione, che si riferiscono semplicemente a "le Regioni", qui si chiamano in causa "le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano", mostrando chiaramente l'intento di comprendere sia le Regioni ordinarie che quelle a sfatuto speciale. 20 Tralasciamo di prendere in considerazione il ruolo delle Regioni nella fase "ascendente" e "discendente" della formazione della normativa comunitaria perché, come più volte ribadito, le problematiche concernenti i rapporti con l'unione europea non costituiscono oggetto di questo lavoro. 21 A. RUGGERI, Rfbrma del Titolo Ve "potere estero" delle Regioni (notazioni di ordine metodico-ricostruttivo), 2002, in www.giurcost.org/studi,p.4. 22 B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2002, pp. 344-345. 23 Anche se "i provvedimenti interni di attua12

161


zione emanati unilateralmente dagli organi centrali, ignorando e scavalcando le competenze regionali, dietro la semplice motivazione, o pretesto, che essi sono finalizzati a rendere operativo ed eseguibile un obbligo internazionale, dovrebbero ritenersi illegittimi sotto il profilo costituzionale" (G. Strozzi, Regioni e adattamento cit., p. 183). 24 Così G. STROZZI, Regioni e adattamento cit., pp. 149 ss. 25 Così R. DICKMANN, Osservazioni in tema di

limiti al 'ootere estero" delle Regioni e delle Province autonome alla luce del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione e della legge "La Loggia", in «Federalismi.it», rivista telematica, 12 giugno 2003, p. 5. 26 L'art. 8 è relativo all'attuazione dell'art. 120 Cost. sul potere sostitutivo in caso di inadempienza. Di questo si parlerà nel paragrafo successivo. 27 A tale proposito, il comma 5 del medesimo articolo recita: "Il Ministro degli affari esteri può, in qualsiasi momento, rappresentare alla Regione o alla Provincia autonoma interessata questioni di opportunità inerenti alle attività di cui ai commi da 1 a 3 e derivanti dalle scelte e dagli indirizzi di politica estera dello Stato e, in caso di dissenso, sentita la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per gli affari regionali, chiedere che la questione sia portata in Consiglio dei ministri che, con l'intervento del Presidente della Giunta regionale o provinciale interessato, delibera sulla questione". 28 Di cui si parlerà nel paragrafo successivo. 29 In Giurisprudenza costituzionale, 2004, p. 2487 ss. 30 A. AMBROSI, Politica estera e "attività internazionale delle Regioni" in una sentenza interpretativa di rigetto sull'art. 6 della legge 131 del 2003, in «Le Regioni», n. 1-2, 2005, p. 221. 31 Ibid. 32 Ivi, p. 222. 33 Ivi, p. 223. 34 Così A. ANZON, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto 162

costituzionale, Torino, Giappichelli, 2003, p. 275.

E. CANNIZZARO, Le relazioni esterne delle Regioni nella legge di attuazione del nuovo titolo V della Costituzione, in «Rivista di diritto internazionale», 2003, p. 759. 36 P. CAREUI, Potere estero e ruolo "comunitario" delle Regioni nel nuovo titolo V della Costituzione, in "Le Regioni", n. 4, 2003, p. 569. ' R. DICKMANN, Osservazioni in tema di limiti .... cit.,p.6. 38 Jbid 39 A. CASSESE, Diritto internazionale, vol. I, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 275. 40 Contra R. DICKMANN (Osservazioni in tema di limiti .., cit., p. 7) per il quale l'ordine di esecuzione emanato dal Parlamento non è affatto necessario e può ben essere sostituito da atti legislativi regionali, pur tenendo conto del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni dettato dall'art. 117 Cost. Contra anche E. Cannizzaro, (Gli effetti degli obblighi internazionali e le competenze estere di Stato e Regioni, in "Le istituzioni del federalismo", n. 1, 2002), per il quale la ripartizione delle competenze sul piano esterno fra Stato e Regioni si ispira non ad un principio di separazione, ma ad un principio di concorso di poteri (p. 7); questo perché si possono verificare delle interferenze fra l'indirizzo espresso dallo Stato in materia di politica estera o fra l'esistenza di obblighi internazionali ed il riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni exart. 117 Cost. (p. 8). 41 F. SORRENTINO, I vincoli dell'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali, in "Federalismi.it", rivista telematica, n. 19, 2004, p. 11. 42 F. SORRENTINO, Ivincoli..., cit., p. 12. 43 A. D'ATENA, La nuova disciplina ..., cit., p. 927. ' Al contrario, il progetto licenziato dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali il 30 giugno 1997, faceva più ampio riferimento ai "modi stabiliti dalla legge" dello Stato. 35


45

A.

D'ATENA,

La nuova disciplina ..., cit., p.

929. 46 P. BILANCIA, Ancora sulle competenze delle Regioni in materia di rapporti internazionali, in www.statutiregionali.it , 7 gennaio 2002, p. 2. 47 V. E. Bocci, Il potere estero delle Regioni e la partecipazione alle politiche com unitarie, in «Le istituzioni del federalismo», n. 1, 2202, p. 36. 48 A. AMBROSI, Politica estera e "attività internazionale delle Regioni" ..., cit., p. 220. 49 Così A. ANZON, I poteri delle Regioni cit., p. 276. 50 Legge 4 febbraio 2005, n. 11, Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 37 del 15febbraio 2005. 51 A RUGGERI, Rforma del titolo V ..., cit., P. 21. 52 Come esempio di tale atteggiamento della Corte costituzionale si può citare la sentenza della Corte costituzionale 15luglio 1976 n. 182 (n Giurisprudenza costituzionale, 1976, p. 1138 ss.) oppure la sentenza 26 luglio 1979 n, 81 (in Giurisprudenza costituzionale, 1979, p. 662 ss.). 53 Così G. VERONESI, Il regime dei poteri sostitutivi alla luce dell'art. 120, comma 2, della Costituzione, in «Le istituzioni del federalismo», n. 5, 2002, p. 737 Ss. 54 G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi del Governo nella legge 131 del 2003, in Aa. Vv., Iprocessi di attuazione del federalismo in Italia, a cura di B. Caravita, Milano, Giuffrè, 2004, p. 332. 55 In Giurisprudenza costituzionale, 2004, p. 594ss. 56 G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi .., cit., P. 333. 57 Ivi, p. 341. 58 G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi ..., cit., p. 337. 59 Ivi, pp. 345-346. 60 Tra l'altro, nel quinto comma dell'art. 117 Cost. l'espressione "potere sostitutivo" compare al singolare, mentre nell'art. 120 Cost. si parla

di "poteri sostitutivi" al plurale. 61 Ad esempio F. PIzzETTI, I nuovi elementi "unficanti"..., cit., p. 251. Oppure F. SORRENTINO, Ivincoli ..., cit., pp. 14-15. 62 G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi ..., cit., p. 360. 63 G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi ..., cit., p. 356 ss. e p. 367. Ai poteri sostitutivi del Governo si aggiunge quello delle Regioni per l'inattività degli enti territoriali minori. 64 Ivi, p. 357. 65 Così G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi cit., p. 349 ss., il quale sottolinea come tale soluzione emerga anche dai lavori preparatori alla legge 13112003. 66 G. M. SALERNO, I poteri sostitutivi .., cit., p. 354. 67 A. ANZON, I poteri delle Regioni ..., cit,, p. 282. e pp. 257-258. 68 Così F. PizzErri, I nuovi elementi unfìcanti cit., p. 253. Così anche F. SORRENTINO, I vincoli ..., cit., p. 15, che precisa inoltre che il potere sostituto ex art. 117 Cost., comma 5, non deve essere ritenuto espressione di una potestà legislativa esclusiva dello Stato, ma solo una forma di controllo statale delle inadempienze regionali e, per questo, collocandosi all'interno delle materie di competenza regionale, non sottratto alla regola del sesto comma dell'art. 117. 69 A. ANZON, I poteri delle Regioni ..., cit., P. 260. Così anche F. Pizzetti (I nuovi elementi unijìcanti ..., cit., p. 253): "è solo in questo quadro che diventa pienamente ragionevole e comprensibile che il quinto comma dell'art. 117 non individui nominativamente sia il soggetto che l'organo al quale spetta esercitare il potere sostitutivo nel caso in esso previsto. Proprio perché in questa ipotesi si tratta essenzialmente di esercitare il potere sostitutivo nei confronti dell'inadempienza del legislatore, non sarebbe stato ammissibile, se non a pena di una grave rottura del sistema, individuare nel Governo l'organo costituzionalmente abilitato ad esercitare tale potere". Anche G. Scaccia (Ilpo163


tere di sostituzione in via normativa nelle legge 131 del 2003, in «Le Regioni», n. 4, 2004, pp. 883-895), dopo avere approfondito accuratamente la questione, propende per l'incostituzionalità della disposizione in commento. 70 F. PizzErri, I nuovi elementi unfìcanti cit., pp. 251 ss. 71 G. VERoNEsI, Il regime dei poteri sostitutivi cit,, p. 742. 72 Per G. SCACCIA, Il potere di sostituzione in via normativa nella legge 131 del 2003, in «Le Regioni», n. 4, 2004, p. 886, "sembra innanzitutto da scartare la possibilità di fare ricorso alla delegazione legislativa. Di una legge di delega che, magari con cadenza annuale, autorizzasse in via generale la surrogazione, difetterebbero infatti alcuni dei presupposti costituzionali e precisamente: la definizione dei principi (e criteri direttivi), che è preclusa allo Stato nelle materie di potestà residuale delle Regioni (se non nell'esercizio di competenze funzionali) e l'oggetto, che non potrebbe essere così generico da abbracciare, indefinitamente, tutte le materie in cui la Costi-

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tuzione conferisce una competenza legislativa alle Regioni. La sostituzione normativa dovrebbe avvenire dunque nelle forme del decreto legge 73 Dalla sentenza 12/2006: "Tutte le attività delle Regioni volte all'attuazione ed all'esecuzione di accordi internazionali devono muoversi all'interno del quadro normativo contrassegnato dall'art. 117, quinto comma, Cost. e dalle norme interposte di cui alla citata legge n. 131 del 2003. Tale quadro normativo costituisce ad un tempo il parametro di valutazione della legitti mità costituzionale degli atti legislativi dello Stato e delle Regioni in materia ed il criterio interpretativo degli stessi. Il riferimento testuale dell'impugnata norma statutaria alla dizione usata dall'art. 117, quinto comma Cost. ("attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali") vale a confermare il suo inserimento nel quadro normativo di cui sopra, senza che sia rinvenibile alcuna espressione che possa far pensare ad una illegittima volontà derogatoria della Regione Abruzzo".


queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Prove di federalismo. Sedi di raccordo interistituzionale, burocrazia, equilibrio dei poteri di Paolo Allegrezza

A

circa un trentennio dall'inizio del dibattito sulle riforme, la democrazia italiana è divenuta una sorta di caso di scuola dell'impossibilità di procedere alla realizzazione di un nuovo modello istituzionale. Le elezioni politiche del 2008 hanno determinato una brusca semplificazione parlamentare che l'esperienza ci dirà se ha dissolto la frammentazione o la ha semplicemente trasferita all'interno dei due partiti maggiori. Le riforme approvate in questi anni si sono realizzate o sull'onda dello sconvolgimento prodotto dalle inchieste giudiziarie oppure in seguito all'autonoma iniziativa di uno dei due schieramenti, come quella del centro-sinistra nel 2001. In entrambi i casi si sono prodotte condizioni difficilmente ripetibili: il movimento referendario sostenuto dalla pressione dell'opinione pubblica in seguito a tangentopoli; la decisione di procedere a maggioranza adducendo il generale consenso delle autonomie territoriali. Entrambi i precedenti non sembrano costituire un modello di riferimento utile per la X\TI legislatura. L'esperienza della riforma costituzionale bocciata dal referendum del giugno 2006 ha dimostrato che questa materia non può essere affrontata contando esclusivamente su maggioranze politiche. Negli ultimi quindici anni sono state introdotte molte novità senza un disegno organico. Dall'elezione diretta di sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, agli interventi a costituzione invariata sui cosiddetto federalismo amministrativo, alla modifica costituzionale sul "giusto processo" nel '99, al nuovo Titolo V, alla contraddittoria introduzione del maggioritario nel sistema elettorale nazionale i Nel frattempo, al di fuori dell'ordinamento nazionale si sono verificati profondi cambiamenti che hanno implicato un ripensamento dei concetti

L'autore è studioso di Storia istituzionale e amministrativa. 165


stessi di Stato e sovranità. Sia il processo di unificazione europea con il parziale spostamento di poteri che ha comportato, sia il trasferimento di competenze dal centro alla periferia negli Stati nazionali, hanno disegnato una configurazione del ruolo pubblico sempre più plurale; si pensi soltanto al riconoscimento del ruolo delle Regioni contenuto nel Trattato di Maastricht e all'importanza che l'Agenda di Lisbona conferisce all'iniziativa degli enti territoriali. La tendenza verso il decentramento dei poteri ha coinvolto anche la Francia (la riforma costituzionale del 2002), il modello statale che meglio di chiunque altro ha incarnato le virtù del centralism02 . In questo scenario il regionalismo italiano sta lentamente raggiungendo un nuovo assetto la cui definizione dovrà tenere conto di alcuni nodi irrisolfi: il nuovo ruolo degli strumenti di raccordo, la distribuzione delle risorse centro-periferia, la forma di governo regionale. IL SISTEMA DELLE CONFERENZE

A venticinque anni dalla istituzione della Conferenza Stato-Regioni è forse venuto il momento di fare un bilancio degli organismi di raccordo che hanno rappresentato un momento fondamentale del particolare modello di regionalismo cooperativo sviluppatosi in Italia. Considerando le due importanti innovazioni nei rapporti Stato-Regioni previste dalla legge cost. n. i del 1999 sull'elezione diretta dei presidenti regionali (a sua volta preceduta dalla legge n. 81 del 1993 che aveva introdotto il medesimo sistema di elezione diretta per i sindaci e i presidenti di Provincia) e dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha riformato la seconda parte della carta. Interventi che hanno determinato le condizioni di un inedito protagonismo degli enti territoriali. In particolare, l'art. 11 della legge di riforma del Titolo V ha conferito ai regolamenti di Camera e Senato la possibilità di prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali; la cosiddetta bicameralina, ha la possibilità di esprimere parere contrario o favorevole condizionato all'introduzione di specifiche modificazioni su progetti di legge riguardanti materie di interesse regionale (artt. 117 e 119), vincolando l'Assemblea all'approvazione a maggioranza assoluta dei suoi componenti. In tal modo, si è indicato il superamento del carattere meramente consultivo nelle relazioni StatoRegioni su cui si è consolidato il sistema delle conferenze. Una speranza, però, tradita dalla mancata attuazione di quanto previsto dall'art. 11 e da166


gli stessi tentativi di una più organica modifica costituzionale che desse vita ad una seconda Camera espressione delle Regioni 4 Dalla sua istituzione nel 1983, il sistema delle conferenze ha visto crescere le sue funzioni e la sua rilevanza nel rapporto tra il centro e gli enti territoriali, acquisendo al momento di preparazione e definizione della decisione politica i governi territoriali nelle loro diverse istanze. Tuttavia, tale espansione è avvenuta nel mantenimento di un'impalcatura istituzionale che non ha intaccato lo squilibrio fra Stato e autonomie territoriali, ma ha dilatato il processo decisionale conferendo a queste ultime la possibilità, pur sbilanciata, di prenderne parte. In assenza di un compiuto processo di riforma che superi il bicameralismo paritario, lo strumento che attualmente garantisce il principio del dialogo e della collaborazione fra i diversi livelli di governo è rappresentato proprio dal sistema delle conferenze che negli anni novanta ha visto consolidarsi sempre più il suo ruolo. La Conferenza fu istituita dal primo governo Craxi con d.PcM del 12 ottobre 1983 come organo di raccordo fra l'esecutivo e le rappresentanze territoriali, ma di fatto emanazione della Presidenza del Consiglio. Un dato, quello della mancanza di equidistanza, che si confermerà anche alla luce della successiva evoluzione della Conferenza; a questa impostazione si ispirò la 1. 23 agosto 1988, n. 400 che ne sancì il carattere di organo permanente presso la Presidenza del Consiglio, specificandone il ruolo di strumento consultivo al servizio dell'Esecutivo. Da questo momento in poi la Conferenza vedrà un'espansione del suo ruolo che si tradurrà, innanzitutto, in un incremento della sua attività. Altri due passaggi legislativi consolideranno questa tendenza: la 1. 15 marzo 1997, n. 59, il provvedimento guida nel campo della semplificazione amministrativa che impose l'obbligo per il governo di acquisirne il parere su determinate materie, e il d.lgs 28 agosto 1997, n. 281 che ha per un verso esteso i compiti della Conferenza Stato-Regioni, per un altro ha provveduto alla sua unificazione con la neo istituita Conferenza Stato-città ed autonomie locali per le materie e i compiti di interesse comune (d.PcM 2 luglio 1996). Da allora, la Stato-Regioni ha ampliato la sua attività alla definizione di intese e accordi, alle deliberazioni comuni, all'informazione e collaborazione, all'interscambio di dati e informazioni, all'istituzione di comitati e gruppi di lavoro, alla designazione di rappresentanti regionali. I dati riferiti al numero delle sedute e alla definizione dei diversi atti danno l'idea dell'espansione vissuta dalle Conferenze: assumendo come punto di partenza gli anni '97-'06 si segnala l'au.

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mento cospicuo degli atti prodotti anche in assenza di un corrispondente aumento del numero delle sedute. Significativo il confronto tra le 19 sedute del 1997, cui ha corrisposto l'adozione di 167 atti e le 18 del 2006 con ben 325 5 Un dato ambivalente che rimanda ai rilievi su una prassi che avrebbe portato alla trasformazione dell'organo in "parerificio", a causa della crescente densità degli ordini del giorno delle sedute e del conseguente difetto di approfondimento nella stesura dei pareri (per i quali vige il termine dei venti giorni); l'aumento degli atti adottati si spiega anche con l'efficacia del coordinamento delle posizioni regionali in seno alla Conferenza delle Regioni e con il ruolo di raccordo svolto dalla segreteria della Conferenza in sede tecnica che costituisce il passaggio preliminare fondamentale per la definizione dell'accord0 6 Con la nascita dell'Unificata si è andata consolidando la prassi del filtro preventivo delle autonomie territoriali sulle principali decisioni governative, pur non essendo tale passaggio vincolante, in quanto pertiene al Governo la facoltà di smentirlo attraverso una successiva deliberazione. Si è così determinato un allargamento del consenso che ha avuto l'effetto di blindare i testi di legge da destinare all'esame parlamentare, limitando implicitamente le possibilità di modifica da parte dell'aula. Un processo che ha una duplice spiegazione: da una parte la sempre maggiore visibilità assunta dagli enti territoriali negli ultimi quindici anni grazie all'elezione diretta e alla stabilità dimostrata dai governi comunali, provinciali e regionali di contro al processo di segno opposto che ha caratterizzato dal '94 ad oggi il governo nazionale; dall'altra, la crisi di legittimazione della politica con la conseguente esigenza di conquistare un consenso più ampio. Tuttavia, si può rilevare come l'incremento quantitativo degli affari sottoposti all'esame della Conferenza, in particolare nel caso dei pareri, costituisce un fattore di depotenziamento dell'organo che corre il rischio di essere relegato ad un'attività di mera routine. Da sottolineare che la prassi del dialogo interistituzionale ha spinto le parti ad una dialettica ispirata a dati concreti piuttosto che a pregiudiziali politico-ideologiche; ne sono dimostrazione le alleanze, in sede di confronto con il Governo (si pensi alle polemiche sulla distribuzione dei fondi prevista dalla finanziaria 2009) fra Regioni appartenenti a maggioranze politiche diverse7 . Altro dato significativo la diminuzione del pur ancora elevato contenzioso costituzionale Stato-Regioni (115 ricorsi del 2004, 99 nel 2005, 111 nel 2006, 52 nel 2007) indice dell'azione di chiarificazione svolta dalla corte riguardo alla riforma del Titolo V e alla conse.

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guente affermazione del principio della leale collaborazione fra le diverse istanze di governo. Un effetto di prevenzione del conflitto interistituzionale è possibile anche adottando procedure miranti ad assicurare la governance della regolazione multilivello; si tratta di un processo di armonizzazione dell'azione dei diversi livelli di governo, indispensabile nella misura in cui si trasferiscono le politiche di regolazione al livello locale, prodotto dalla collaborazione tra apparati centrali (Dipartimento per gli Affari Regionali e della Funzione Pubblica) e territoriali 8 Negli anni novanta, gli organismi di raccordo si sono rafforzati parallelamente alla nascita del particolare federalismo in nuce che caratterizza l'esperienza italiana, anche dopo la riforma del Titolo V. In assenza di un riequilibrio dei poteri che potrebbe coincidere con la nascita di una Camera delle Regioni e delle Autonomie, prevista dalla bozza Violante prodotta dalla Commissione affari costituzionali della Camera durante la XV legislatura, il sistema delle conferenze si presenta al momento come lo strumento più collaudato per consentire la partecipazione degli enti territoriali al processo di decisione politica. Tuttavia, tra il consolidamento di uno strumento di consultazione prodotto dal regionalismo cooperativo e il nuovo assetto dei poteri prefigurato dal dibattito sul federalismo e dalla stessa riforma del 2001, vi è un problema di armonizzazione; così come vi è un'esigenza di bilanciamento tra il peso declinante delle assemblee elettive e quello in ascesa dei governi. La nascita di una seconda Camera federale, consentendo alle Regioni e alle autonomie locali la partecipazione a pieno titolo al processo legislativo, determinerà il necessario ripensamento degli organismi di raccordo che, ricordiamo, sono sorti come strumenti di consultazione. Nel nuovo bicameralismo non paritario italiano, le diverse istanze di governo potranno individuare nel sistema delle conferenze il luogo del confronto su questioni specifiche e del controllo sulla qualità della regolazione; non essendo più sede di concertazione in merito alle politiche riguardanti i territori, compito ormai svolto dalla seconda Camera. Ne potrà derivare un nuovo modello di raccordo che vedrà protagoniste le burocrazie delle diverse istanze di governo, imperniato sull'implementazione delle decisioni politiche. Una soluzione che presuppone una revisione del bicameralismo sul modello tedesco (Bundesrat) che può conciliare la richiesta di rappresentanza proveniente dai territori - cui non risponderebbe la proposta di concentrarla esclusivamente nel sistema delle conferenze - con la necessità di dare efficienza al lavoro legislativo9 .

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IL NODO DEL FEDERALISMO FISCALE

All'inizio della XVI legislatura è ampiamente avvertita l'esigenza di completare il disegno previsto dalla riforma del Titolo V procedendo alla realizzazione del federalismo fiscale. La mancata attuazione dell'art. 119 denuncia l'ennesima prova di debolezza della politica che, nonostante l'approvazione bipartisan della legge La Loggia del 2002, non è riuscita a concretizzare il passaggio più importante della riforma del 2001: l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. I testi da cui partire sono tre: la controversa proposta di legge approvata dal Consiglio regionale lombardo il 19 giugno 2007 e fatta propria dal programma elettorale del Pdl, il progetto Prodi-Lanziliotta approvato con emendamenti dalla Conferenza delle Regioni alla fine del 2007, il disegno di legge delega per l'attuazione dell'art. 119 presentato dal ministro Calderoli (24 luglio 2008) 10 Il progetto lombardo propone la soluzione più radicale: prevede una drastica revisione delle risorse consistente nell'attribuzione alle Regioni dell'80% dell'Iva prodotta sul territorio e del 15% dell'Irpef statale, oltre all'intero gettito delle accise su benzina, tabacchi e giochi. Una redistribuzione delle entrate che porterebbe forti squilibri sia in senso verticale (Stato-Regioni), sia in senso orizzontale (Regioni-Regioni) come evidenziato da recenti simulazioni sugli effetti della riforma. La proposta ha scatenato dissensi anche all'interno dello schieramento di centro-destra, con Regioni importanti quali il Veneto che si sono dichiarate contrarie. Nonostante il suo inserimento nel programma elettorale del Pdl, dopo la presentazione del d.d.l Calderoli non sembra più godere del favore della maggioranza. Il testo governativo riprende un'impostazione simile a quella del progetto Prodi-Lanzillotta: prima la definizione delle funzioni da assegnare agli enti territoriali, poi l'assegnazione delle risorse necessarie a garantire i servizi essenziali. Un passo indietro che, tuttavia, non esclude la possibilità di adottare altre parti della proposta lombarda. È il caso delle modalità di individuazione del fondo perequativo tra le Regioni previsto per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, terzo comma): nel progetto Prodi-Lanzillotta tale fondo era ascritto al bilancio dello Stato (perequazione "verticale") e concepiva lo squilibrio tra le economie regionali come un problema nazionale. Nella proposta Calderoli il fondo perequativo a favore delle Regioni con minore capacità fiscale sarà .

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alimentato dai gettiti prodotti dalla compartecipazione regionale all'Iva e con le nuove aliquote Irpef calcolate in modo da pareggiare i trasferimenti soppressi. Il principio ispiratore è quello dell'interesse delle Regioni finanziatrici ad un buon utilizzo del fondo, tale da indurre comportamenti virtuosi nelle Regioni destinatarie. Una soluzione che desta più di una perplessità perché in grado di suscitare un potenziale conflitto fra Regioni eroganti e finanziate, con le prime spinte a contenere i finanziamenti e le seconde interessate a dimostrarne la necessità al netto della nuova capacità di gettito e delle funzioni complessivamente esercitate. Preferibile è, invece, un meccanismo che preveda un finanziamento Stato-Regioni che stabilisca un legame tra accesso al fondo e adozione di comportamenti virtuosi dal punto di vista della spesa e della gestione. Partendo dall'individuazione dei costi standard condivisi per la definizione del fabbisogno regionale, è possibile commisurare a quella stima la quota di prelievo di pertinenza dell'ente territoriale; l'extra gettito prodotto da alcune Regioni, potrà essere destinato a finanziare il fondo perequativo per quei territori che non riusciranno a mantenersi nei limiti fissati dai costi standard. Gli altri passaggi dirimenti riguardano: a) la provenienza delle future entrate regionali, b) l'individuazione dei servizi essenziali secondo quanto stabilito dall'art. 117 della Costituzione. Riguardo al primo punto, vi è un modello di riferimento condiviso: la fonte delle entrate regionali non potrà che consistere in un mix di tributi propri da individuare (in sostituzione dell'Irap), compartecipazione ad entrate statali (gettito Iva e Irpef), fondi perequativi a vantaggio delle Regioni con minore capacità fiscale per abitante. Prevista anche l'introduzione di una tassa ad hoc per gli Enti locali che ne garantisca l'autonomia nelle entrate. Riguardo al secondo punto, ad una interpretazione che li vorrebbe limitare alla sanità, assistenza ed istruzione (proposta lombarda), se ne contrappone un'altra che prevede la loro estensione al trasporto pubblico locale e alle spese fondamentali dei Comuni minori (progetto Prodi-Lanzillotta). Sul trasporto pubblico locale il progetto governativo propone, come abbiamo detto, una soluzione di compromesso: non essendo considerato servizio essenziale non è oggetto di finanziamento integrale; tuttavia, sarà destinatario di finanziamenti che garantiscano un "adeguato livello del servizio su tutto il territorio nazionale". I parametri su cui saranno definite tali dotazioni e quale sia l'adeguato livello del servizio non appaiono di facile individuazione, il che dà la misura delle difficoltà che si determineranno nel passaggio dal cielo dei principi, alla terra della decisione politica. 171


Assumendo il modello dei costi standard, il disegno di legge Calderoli insiste sul corretto collegamento tra federalismo fiscale e buona amministrazione, accantonando la retorica sulla rivendicazione della gestione diretta della ricchezza prodotta da un territorio che spesso ha segnato il dibattito su questi temi. I principi ispiratori riprendono l'elaborazione che negli anni si è andata sedimentando: autonomia e responsabilizzazione finanziaria di tutti i livelli di governo, attribuzione di risorse autonome alle Regioni e agli Enti locali in ragione delle rispettive competenze, correlazione fra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio stabilendo un legame fra responsabilità finanziaria e amministrativa, premialità di comportamenti virtuosi ed efficienti nell'esercizio della potestà tributaria. La maggiore novità è rappresentata dalla definizione del sistema di perequazione: come abbiamo visto, è rigettato il criterio di spesa storica (comprendente sia i costi standard sostenuti da un ente, sia quelli derivanti dalle inefficienze), in favore di parametri di spesa che tengano conto di obiettivi di contenimento dei costi realizzabili, secondo un metodo ampiamente utilizzato nell'imprenditoria privata. Qui si giocherà il futuro della riforma: una volta individuati i costi standard (un punto ad oggi avvolto nella nebbia), il passo successivo non potrà che essere l'introduzione di meccanismi di controllo delle finanze regionali che permettano di arginare fenomeni di utilizzo clientelare delle risorse messe a disposizione. Per fare ciò sarà indispensabile l'acquisizione di dati sulle variabili territoriali della spesa (demografiche, economiche, organizzative) che consentano di misurare su basi certe i rispettivi fabbisogni standardll. Un primo tentativo in questo senso fu predisposto dalla finanziaria 2006 (art. 1, comma 22) che prevedeva per le pubbliche amministrazioni (con esclusione di Regioni ed Enti locali) l'obbligo di aderire a specifici parametri prezzo-qualità nell'acquisto di beni e servizi ai sensi dell'art. 26 della 1. 23 dicembre 1999, n. 488. Nel corso dell'attuale legislatura, nonostante il forte richiamo al contenimento dei costi e all'efficienza che informa il decreto legge n. 112/2008 predisposto dal ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione Brunetta, nessuno strumento di questo genere è stato predisposto. Il d.d.l. Calderoli prevede, inoltre, l'istituzione di una conferenza per il coordinamento della finanza pubblica di cui facciano parte tecnici in rappresentanza di tutti i livelli istituzionali, la cui mission sarà l'adozione di criteri per il corretto utilizzo dei fondi per la perequazione secondo i 172


principi di efficacia, efficienza e trasparenza. Il sistema per funzionare dovrà far sì che il Patto di stabilità Stato- Regioni di cui parla il progetto Calderoli sia dotato degli strumenti effettivi che consentano l'applicazione di sanzioni in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. Solo per questa via si potranno istituire quei meccanismi di controllo e verifica dei risultati che impediscano il ripetersi di fenomeni di maladminist'ration, giustificati dall'ombrello federalista. Ma lo spartiacque di una efficace o fallimentare applicazione del federalismo fiscale sarà il Mezzogiorno, soprattutto al livello della amministrazione locale che costituisce il vero anello debole del sistema. Alcuni dati possono aiutare a chiarire il quadro. Nella classifica europea (dati 2003) dei redditi pro capite per Regione l'Italia si colloca nella fascia alta (oltre il 125% della media UE) con Valle D'Aosta, Lombardia, Provincia autonoma di Trento e Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, mentre Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Basilicata sono posizionate nella parte finale della graduatoria (sotto il 78% della media UE). Tra le Regioni meridionali l'Abruzzo si colloca al 90,8 il Mouse e la Sardegna entrambe all'83,4 12 Passando agli Enti locali emerge l'elevato livello di dipendenza erariale dei Comuni siciliani (35,9%), calabresi (34,3%), lucani (32,3%), campani (31,7%); nonostante il dato migliore di Molise (21,7%), Puglia (23,8%), Abruzzo (15,7%); le Regioni settentrionali si attestano su percentuali ben diverse (il Veneto al 6,6, la Lombardia al 5,2, il Friuli al 2, l'Emilia Romagna al 5,2, la Liguria al 9,6) 13 . La condizione di svantaggio nella quale si muovono gli enti territoriali nel Mezzogiorno non è certo scoperta recente, tutta da definire è, però, l'incidenza delle condizioni esterne e di quelle legate a deficit nella gestione. Non disponiamo di dati approfonditi che quantifichino la rilevanza del fattore efficienza nelle diverse perfomance delle amministrazioni locali. Tuttavia, due elementi consentono di ipotizzare la rilevanza del fenomeno: considerando la media del periodo 2003-2005, l'incidenza, della spesa per il personale sul totale della spesa corrente sale sensibilmente nelle Regioni meridionali, soprattutto nei Comuni sotto i 5000 abitanti; il grado di rigidità strutturale della spesa (la somma delle spese per il personale e il debito, comprensivo di interessi e ammortamenti) vede un incremento nel confronto fra Comuni del nord e del sud, anche in questo caso con un'incidenza superiore nei Comuni sotto i 5000 abitanti. Dati confermati da diverse ricerche hanno dimostrato come a costi per unità di prodotto/servizio decisamen.

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te inferiori, i servizi forniti dalle amministrazioni comunali del nord siano ben superiori sotto il profilo qualitativo e quantitativo rispetto a quelli forniti nel meridione 14 La distribuzione di risorse proprie ai Comuni misurerà la coerenza con i principi del federalismo fiscale che prevede il massimo grado di responsabilizzazione finanziaria da parte di chi amministra; di qui il rischio, sovente paventato in questi anni da parte degli Enti locali, di una sostituzione del centralismo statale con quello regionale. Il federalismo fiscale si fonda sull'autonomia tributaria degli enti territoriali, siano essi Regioni o Comuni, che incoraggi la responsabilizzazione degli amministratori di fronte ai cittadini che li hanno eletti. La stessa analisi sul campo dimostra come l'andamento positivo della finanza comunale determinatosi nel triennio 2005-'07 sia da addebitare a riduzione della spesa corrente; il che conferma quanto la vicinanza fra amministratori eletti e cittadini agisca come fattore di responsabilizzazione degli amministratori' 5 . Auspicabile l'introduzione, come abbiamo visto contenuta nel disegno di legge Calderoli, di una nuova imposta comunale individuata con legge dello Stato; si tratterebbe della coerente applicazione del principio che vede nella finanza derivata una delle ragioni della cattiva amministrazione. .

Lo

SQUILIBRIO DELLA FORMA DI GOVERNO REGIONALE

Nell'ultimo quindicennio si è assistito al graduale indebolimento delle assemblee elettive cui ha corrisposto il rafforzamento dell'Esecutivo. Si tratta, come noto, di un fenomeno di lungo corso che si colloca in una dimensione soprannazionale, la cui origine risiede nella difficoltà dei partiti al cospetto della progressiva frammentazione della composizione sociale e nella tendenza a semplificare la risposta alle sollecitazioni provenienti dal basso. In Italia tale fenomeno ha avuto una particolare risonanza sia in parte del movimento referendario (la proposta del Sindaco d'Italia fatta propria da Mario Segni), sia nelle forze politiche successivamente alla crisi del primo governo Berlusconi. Si è sviluppata da allora una richiesta di stabilità che ha portato all'introduzione di meccanismi di rafforzamento dell'Esecutivo che si sono tradotti nel progetto di riforma bocciato dagli elettori nel referendum del 25-26 giugno 2006 e, prima ancora, nell'intervento sulla forma di governo regionale. È opinione diffusa fra i costituzionalisti che la I. cost. n. 1/1999, e la sua omologa n. 2/2001 per le Regioni speciali, abbiano avuto un impatto

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negativo sugli equilibri fra consiglio e presidente. I due interventi completavano il disegno maggioritario iniziato sotto la spinta della legge sull'elezione diretta degli esecutivi comunali e provinciali del 1993, anticipata dalla I. n. 94 del 1995 che aveva introdotto nelle Regioni un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza. L'introduzione dell'elezione diretta del presidente prevista dalle riforme del '99-'01, ha inserito un elemento di rafforzamento dell'esecutivo bilanciato dalla possibilità conferita agli statuti regionali di definire la loro forma di governo. Linsistenza sulla necessità di semplificazione del sistema, sviluppata nel dibattito pubblicistico spesso attraverso la contrapposizione tra instabilità dei governi nazionali e assetto degli enti territoriali, ha di fatto vanificato la possibilità degli statuti regionali di indicare forme diverse di governo. Non a caso nessuno dei nuovi statuti regionali ha previsto deroghe alla forma di governo prevista nella disciplina transitoria. Nonostante l'elezione diretta, la necessità del collegamento giunta-consiglio attraverso la fiducia, esclude un'assimilazione della forma di governo regionale al modello presidenzialista (nonostante la possibilità assegnata al presidente di nominare e revocare gli assessori) che implica, come noto, una legittimazione separata fra esecutivo e legislativo. La riforma costituzionale del '99 ha aggiunto a tale impianto il collegamento tra la sorte dell'assemblea e quella del presidente (scioglimento e nuove elezioni in caso di sfiducia della prima nei riguardi del secondo), dando forma giuridica alla cosiddetta preoccupazione anti-ribaltone che ha rappresentato uno degli equivoci del dibattito sulle riforme 16 Su questo esito ha agito la condizione di debolezza in cui si è venuta a trovare la classe politica regionale nei riguardi dei suoi elettori cui avrebbe dovuto spiegare la rinuncia ad una possibilità prevista dal legislatore nazionale ed altrove esercitata. A quasi un decennio dall'approvazione della riforma, appare difficilmente contestabile che il combinato tra l'elezione diretta e il legame indissolubile presidente-consiglio (scioglimento automatico anche nel caso di dimissioni del primo, secondo il principio del simul stabunt simul cadent), abbia determinato un irrigidimento dal quale è risultato uno squilibrio di poteri fra esecutivo e legislativo regionale. Il meccanismo è reso ancora più squilibrato dalla minaccia di scioglimento che grava sull'assemblea, qualora decida di votare la sfiducia al presidente. Ne è derivato un modello ibrido che non riconduce., come abbiamo visto, la forma di governo regionale né al presidenzialismo, né al parlamentarismo, in quanto mancante della qualità più riconosciuta di quest'ultimo .

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modello: la flessibilità. La debolezza del consiglio regionale è confermata sia dalla sua esclusione dagli organismi concertativi che sono appannaggio dei presidenti, sia dalla loro inevitabile assenza nel dibattito pubblico che appare tutto centrato sulla figura dei "governatori". È possibile ipotizzare una via d'uscita dal maggioritario senza contrappesi maturato in questi anni nelle Regioni? Il punto di partenza non può che essere il confronto sulle riforme scaturito dall'approvazione della Bozza Violante in conclusione della X\T legislatura; il testo, oltre ad una parte riguardante il rafforzamento del presidente del Consiglio, si occupa del superamento del bicameralismo paritario prevedendo la nascita del Senato federale. Tale nuova Camera - eletta su base regionale dai consigli regionali e, in misura minore, dai neo istituiti (art. 123 del nuovo Titolo V) consigli delle autonomie locali - risponde all'esigenza di dare una voce alle Regioni e alle autonomie locali nel processo legislativo, secondo il modello del Bundesrat austriaco praticato anche in Spagna e in India. Il nuovo procedimento legislativo indica quattro possibili iter: il primo, bicamerale paritario, prevede il mantenimento dell'attuale bicameralismo e riguarda i provvedimenti che incidono sull'assetto costituzionale o quelli che presiedono ai rapporti tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della repubblica; il secondo, un procedimento bicamerale a prevalenza Camera nel quale il Senato può apportare modifiche, restando alla Camera la decisione finale; un terzo riguarda i testi approvati dalla Camera e modificati dal Senato in materie comprese negli artt. 118, commi secondo e terzo, e 119, commi terzo, da riapprovare dalla Camera a maggioranza assoluta; un quarto che riserva al Senato l'esame di legge in prima lettura lasciando alla Camera l'approvazione definitiva 17 Alcuni aspetti del progetto proposto dalla Bozza Violante sono stati oggetto di critica. Innanzitutto, l'elezione dei nuovi senatori da parte delle assemblee degli enti territoriali configura la nascita di una Camera politica che, qualora le rispettive maggioranze non abbiano lo stesso colore, potrebbe riproporre gli scenari conflittuali che la riforma intende superare. Eventualità rafforzata dal fatto che sembra prevalente l'orientamento volto a conferire al procedimento bicamerale paritario la trattazione delle leggi cornice. In secondo luogo, è difficile ipotizzare il consenso del Senato per una soluzione che comporta il declassamento dall'attuale legittimazione popolare ad una di secondo grado ad opera dei consigli regionali e delle autonomie locali. .

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Non a caso la riforma costituzionale approvata nella )(IV legislatura e successivamente bocciata dagli elettori, prevedeva la nascita di un Senato federale che, pur perdendo la possibilità di sfiduciare il Governo, continuava ad essere eletto direttamente e manteneva il suo profilo politico. Tale obiezione vale a maggior ragione nel caso di un'ipotesi di riforma sui modello tedesco, laddove la seconda Camera sarebbe composta di membri degli esecutivi regionali. Motivazione che si andrebbe ad aggiungere a quella che richiama l'esigenza di non accentuare lo squilibrio presente nèll'attuale forma di governo regionale. Affidare, infatti, con le attuali regole la rappresentanza della futura Camera a componenti l'esecutivo regionale, costituirebbe un ulteriore elemento di indebolimento dei consigli; mentre questi ultimi, nella soluzione configurata nella Bozza, avrebbero almeno la possibilità di vedere rappresentata nell'elezione dei senatori anche l'opposizione. D'altra parte nella forma di governo dei lander tedeschi non vi è né l'elezione diretta, né tanto meno il meccanismo del simul simul. Da ciò consegue che un eventuale emendamento alla Bozza Violante in direzione tedesca non è ipotesi percorribile in presenza dell'attuale sistema di elezione diretta del vertice regionale. Rimangono due possibili scenari. Il primo, rimanendo nell'ambito del bicameralismo perfetto, consisterebbe in una riforma dell'attuale modello di governo regionale che disegni una forma di chiara derivazione presidenziale o, come appare più coerente con il nostro ordinamento, parlamentare, eliminando le attuali forzature maggioritarie. Ma si tratta in entrambi i casi di ipotesi di scuola, in quanto nessun partito sembra al momento disposto a percorrerle rinunciando al vantaggio politico derivante dalla debolezza della assemblea regionale. Né la classe politica potrà facilmente fare a meno dell'elezione diretta che si è rivelata tanto un'efficace forma di legittimazione ne1a prospettiva dello scenario nazionale, quanto una parentesi in grado di garantire visibilità nei casi di provvisorio allontanamento. L'altro scenario coinciderebbe con la nascita di uno schieramento bipartisan, per ora maggioritario tra gli studiosi ma minoritario tra le forze politiche, favorevole al modello tedesco (nella sua integralità, il che escluderebbe definitivamente innesti mirati da questa o quella forma di governo) che includa legge elettorale, poteri del Presidente del consiglio, bicameralismo non paritario sul modello BundestagBundesrat18 . Quest'ultimo punto fu preso in considerazione dalle forze politiche in una prima fase del dibattito sui federalismo collocabile alla metà dello scorso decennio: 177


ne troviamo traccia in una delle due ipotesi sul nuovo bicameralismo proposte dal comitato di studio sulle riforme istituzionali presieduto dal senatore leghista Francesco Speroni (1994). Scomparve già nel testo della commissione Maroni per la riforma delle Regioni e delle autonomie locali (luglio-dicembre 1994) e nel testo definitivo della bicamerale D'Alema in cui si prevedeva un Senato eletto a base regionale composto da duecento membri con cinque senatori per ogni Regione (con eccezione del Molise, due, e della Valle d'Aosta, uno) 19• Da allora il modello bicamerale tedesco, conseguente ad una forma di governo regionale di tipo compiutamente parlamentare, non ha ricevuto consensi significativi. Si tratterebbe di una coerente soluzione della transizione italiana fondata sulla archiviazione del binomio stabilità-elezione diretta che ha unito in un destino comune enti dalle finalità diverse quali i Comuni e le Province, le cui competenze sono amministrative, e le Regioni titolari di poteri legislativi e di indirizzo.

I Per un bilancio delle riforme approvate in riferimento alle Regioni, S. Ì'VIANGIAMELI, Il pro-

filo dell'istituto regionale a sei anni dalla revisione costituzionale, nel sito web dell'Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie "Massimo Severo Giannini" (Issirfa). 2 Un altro esempio del cambiamento in atto nella nozione di funzione pubblica, è dato dallo sviluppo delle autonomie funzionali; soggetti quali Camere di commercio e Fondazioni bancarie non assimilabili alla PA, ma che risultano espressiotle di soggetti fortemente rappresentativi della comunità sociale. Sul tema, si veda il focus organizzato dalla rivista telematica Federalismi, 1612008. Sulla riforma francese, si veda l'ampio dossier pubblicato su www.astrid-online.it. Una ricostruzione dell'evoluzione del sistema in G. Crtpi, La Conferenza Stato-Regioni. Competenze e modalita di funzionamento dall'istituzione ad oggi, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 191-213. "Sulla bicameralina, P. CARETFI, La lenta na178

scita della "bicameralina' strumento indispensabile non solo per le Regioni, ma anche per il Parlamento, in «Le Regioni», n. 2-3, aprile-giugno 2003, pp. 35 1-356. 5 Per una ricostruzione dell'attività della conferenza nel 2007, V. TAMBURINI, Gli istituti della leale collaborazione: la Conferenza Stato-Regioni nel 2007, sito web Issirfa, studi e interventi. Notizie e dati sull'attività della Conferenza dal 1990 al 2006 in www.statoregioni.it . Un'analisi critica, in R. BIN, I. RUGGIU, La rappresentanza territoriale in Italia. Una proposta di riforma del sistema delle conferenze, passando per il definitivo abbandono del modello Camera delle Regioni, in «Le istituzioni del federalismo», 612006. 6 Sul punto rimando al mio, La segreteria della Conferenza Stato-Regioni. Un'amministrazione di raccordo nell'evoluzione del regionalismo italiano, in «Rivista trimestrale di scienza dell'amministrazione», 212002. 7 Lesempio pii recente è dato dal documento approvato all'unanimità in Conferenza delle Regioni il 30 luglio 2008, sulla proposta di attua-


zione del federalismo fiscale. Il documento è stato, quindi, trasmesso al governo che nel progetto di legge Calderoli ne ha tenuto ampiamente conto. 8 Cfr., G. CERRACCHIO, Profili quantitativi del contenzioso costituzionale 2005, L. RONCH Erri,

Il contenzioso e la giurisprudenza su1 regionalismo italiano dopo il 2001, entrambi nel sito web Issirfa, studi e interventi. Le sentenze sono passate da 89 del 2004, a 87 del 2005, a 77 nel 2006, a 56 nel 2007, i dati sono tratti dal sito web della Regione. Emilia- Romagna contenente una banca dati del contenzioso costituzionale Stato—Regioni dall'entrata in vigore del nuovo Titolo V. Sulla governance della regolazione, Esame Ocse sulla rfrma della regolazione. Italia. Assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo, Ocse - Dipartimento della Funzione Pubblica - Formez, 2007. Sulla molteplicità di ruoli svolti dalla Conferenza, in assenza di una riforma costituzionale che porti ad una seconda Camera espressione dei territori, si veda, G. CARPANI, La Conferenza Stato-Regioni, cit., p. 207-208. L'ipotesi di affidare la rappresentanza territoriale al solo sistema delle Conferenze, in R. BIN, I. RUGGIU, La rappresentanza territoriale in Italia,cit. Osservazioni in chiave comparata anche in C. BAssu, La Conferenza Stato-Regioni nella rfrma costituzionale, in www.federalismi.it , pp. 2-3. 10 Sul progetto lombardo, M.E AMBROSANIO, M. BORDIGNON, Ricette di buon federalismo, in www.lavoce.info; A. ZAN.vnI, La ripresa del dibattito sul federalismo fiscale, in www.nelmerito.com . Una simulazione della distribuzione delle risorse prevista dal progetto governativo in G. AIcHI-A. ZANARDI, I conti con la bozza Calderoli, in www.lavoce.info. lI Sul tema, G. MuRAio, Alla ricerca del costo standara in www.lavoce.info. 12 Fonte EUROSTAT (Statistical Office of the European Communities), i dati sono disponibili sul relativo sito web. 13 Fonte ISTAT, Indicatori economico-strutturali delle Amministrazioni comunali per Regione e

classe di ampiezza demografica. Anni 2005 e 2006, disponibili sul sito web dell'Istituto. 14 Cfr., Ministero dell'Economia e delle Finanze, Commissione tecnica per la finanza pubblica, Libro verde sulla spesa pubblica, pp. 77-86. 15 Cfr., ANcI, Rapporto 2008 sulla finanziaria dei Comuni, pubblicato su www.anci.it . 16 Sulla forma di governo regionale, G. PrnwzZELL&, Sull'elezione del presidente regionale, in «Le Regioni», 3/maggio-giugno 1999, pp. 4 19-422. Una argomentata critica al modello dell'elezione diretta in E BASSANINI, La "manutenzione straordinaria" del "nuovo" Titolo V, in www.astrid-online.it/attuaz/Studi-ric, pp. 20-24. 17 Cfr., Camera dei deputati, Relazione della

prima commissione permanente (Affari costituzionali, della Presidenza del consiglio e Interni), presentata alla Presidenza il 17ottobre 2007 La cosiddetta Bozza Violante è in Camera dei deputati, Atti parlamentari, XV legislatura. Disegni di legge e Relazioni-Documenti. Relazione della I Commissione permanente Affari costituzionali, Presidenza del consiglio e Interni. 18 Una chiara indicazione a favore del modello tedesco è venuta dal convegno promosso da Astrid, Fondazione Basso, Fondazione Italianieuropei e altre associazioni svoltosi a Roma il 14 luglio 2008, Una moderna democrazia europea. L'Italia e la sfida delle rThrme istituzionali, in www.astrid-online.it/dossier sono pubblicati alcuni interventi. Sul federalismo tedesco e sulle sue evoluzioni, D. Shefold, Lo sviluppo costituzionale italiano fra regionalismo, devolution e federalismo. Un parallelo con la Germania?, R. BiFULCO, La rforina costituzionale del federalismo tedesco, entrambi disponibili in www.issirfa.cnr.it . 19 La proposta di una Camera delle Regioni e delle Autonomie sul modello Bundesrat fu presentata nel corso dei lavori della Bicamerale D'Alema dal deputato Natale D'Amico (gruppo Rinnovamento italiano), Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, Comitato Parlamento e fonti normative, seduta del 30 aprile 1997, allegato n. 23. 179



questeistituzioni

saggio

n. 1501151 luglio-dicembre 2008

Gli effetti e le politiche del "nuovo" mercato del lavoro di Sonia Bertolini

uesto saggio si propone di indagare alcuni degli effetti che si sono prodotti in Italia in seguito al processo di flessibilizzazione Qdel mercato del lavoro dagli anni novanta ad ora e quali politiche siano oggi sostenibili. Si cercherà di evidenziare come il nuovo contesto istituzionale abbia modificato le carriere e le relazioni di lavoro e come a livello macro l'effetto sia complesso e produca nuove forme di disuguaglianze di genere e di classe sociale. Si intende sottolineare l'eterogeneità degli effetti del lavoro atipico rispetto alla variabile geografica, alla classe sociale e al genere e la difficoltà a tracciare un quadro omogeneo rispetto ai rischi e alle opportunità. Di fronte all'insufficienza delle protezioni informali, che le diverse ricerche mettono in evidenza, nelle conclusioni si proporranno alcune politiche attuabili per sostenere i percorsi dei lavoratori atipici. IL QUADRO ISTITUZIONALE: LA FLESSIBILIZZAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO

Illavoro che fino a qualche tempo fa era considerato "la normalità" da un punto di vista giuridico era quello subordinato a tempo indeterminato. Si tratta del contratto che era tipico del sistema fordista, mentre le rimanenti forme di lavoro venivano definite in negativo come atipiche, cioè come mancanti di una o piià delle sue caratteristiche (Chiesi, 1990, Reyneri, 2002). Gli elementi del lavoro subordinatol, da un punto di vista giuridico, sono la retribuzione e la dipendenza sotto direzione. Sappiamo che storicamente il lavoro subordinato ha assunto la forma di una scambio tra tempo

J1autrice è ricercatrice presso l'Università degli studi di Torino, Facoltà di Scienze politiche. 181


del lavoratore e salario. Nello scambio si inseriva un terzo attore, lo Stato, che regolava la relazione tra i due: per esempio garantiva i tempi di pagamento e tutelava il lavoratore, in quanto cittadino che godeva pienamente dei diritti sanciti dallo Stato sociale. In pratica, al salario era associata la garanzia della sopravvivenza della forza lavoro, di cui si facevano carico il datore di lavoro o lo Stato (Bologna, 1997). Il contratto subordinato aveva, inoltre, assunto la caratteristica dell'assunzione a tempo indeterminato, garantendo, in linea di massima, la continuità lavorativa al lavoratore. I contratti a termine costituivano l'eccezione alla norma. Quello che sta emergendo oggi, invece, se analizziamo l'evoluzione delle varie forme contrattuali dagli anni ottanta in avanti, è una generale tendenza a introdurre nell'ordinamento italiano forme di lavoro che non assicurano tale continuità. Inoltre, si sta passando da un'idea di flessibilità in entrata, a una di flessibilità di carriera. Infatti, il contratto Formazione Lavoro e quello di Apprendistato, introdotti negli anni ottanta erano a tempo determinato, ma prevedevano la conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, se il rapporto continuava dopo il periodo di prova, o l'estinzione dello stesso. Non esistevano ancora, invece, forme contrattuali come le Collaborazioni Coordinate e Continuative (Co.Co.Co.) 2 e il Lavoro Interinale (L.I.) 3 , invece, introdotte nel 1997 dalla Legge Treu che non prevedono contrattualmente la trasformazione del rapporto in un rapporto a tempo indeterminato, ma danno la possibilità di stipulare successivamente altri contratti simili, con lo stesso datore o con altre imprese. In essi è contenuta quindi l'idea di una flessibilità di carriera. Infine, le forme introdotte dalla legge 30 del 2003 non solo presumono il rinnovo, e non la trasformazione contrattuale, ma moltiplicano le forme contrattuali flessibili. Le forme di lavoro introdotte dagli anni novanta in avanti contengono, inoltre, una minore tutela in caso di eventi che impediscono temporaneamente di lavorare e che sono probabili nella vita di un soggetto, come la malattia e, per le donne, la maternità. In particolare, per le forme coordinate, le co.co.co . e le co.pro, fino al i gennaio 2007 si aveva diritto in caso di malattia a una sospensione del contratto fino a 90 giorni, e un'indennità ridotta, e in caso di maternità una sospensione fino a 5 mesi all'80% dello stipendio. Solo dal 1 gennaio 2007 4 con tali categorie si ha diritto a un'indennità giornaliera in caso di malattia, ma per periodi ed importi limitati 5 e da allora è prevista la maternità anticipata. 182


Per le forme subordinate a tempo determinato si attuano le stesse tutele del lavoratore dipendente nel periodo di lavoro. Tuttavia, quando si applicano contratti molto brevi, Contini (2002) stima che la durata media di una missione di lavoro interinale sia di un mese, è difficile che il lavoratore possa usufruire delle protezioni sociali. I/le lavoratori/trici che lavorano con queste forme contrattuali sono, inoltre, soggetti a periodi di inattività in cui le tutele vengono sospese e, tra queste, quella della maternità. Una lavoratrice che entri in maternità nel passaggio tra un contratto e un altro non gode di alcuna forma di tutela. La protezione è, inoltre, bassa non solo a livello di reddito, ma anche per quello che riguarda la garanzia del posto di lavoro (Saraceno, 2002, 2005). Occorre tener presente che nel lavoro atipico è sempre in gioco uno scambio tra aspettative e impegni ridondanti, cioè oltre i termini contrattuali, tra datore di lavoro e lavoratore (Bertolini 2002, 2005): una maternità potrebbe anche significare un mancato rinnovo del contratto o la sua mancata trasformazione in tempo indeterminato. Infine, molti dei servizi per la conciliazione aziendale si applicano solo per i lavoratori dipendenti, come avviene, per esempio, per i nidi aziendali. GLI EFFETTI SOCIALI DEI CAMBIAMENTI DEL "NUOVO MERCATO DEL LAVORO"

In seguito all'introduzione di forme contrattuali atipiche, le carriere lavorative per molti soggetti oggi mutano aspetto. Il lavoro nel post-fordismo è sempre più un passaggio tra diverse posizioni: i percorsi dei lavoratori si differenziano e sono più diseguali tra di loro, rispetto a quello che avveniva nel sistema fordista. P. possibile, infatti, che i lavoratori nel corso della loro vita passino dal mercato atipico a quello tipico, ma anche da quello tipico all'atipico, o ancora da quello regolare all'irregolare. Una prima questione che si pone è che per questo tipo di lavoratori non si può parlare di carriera nel senso usuale del termine. Nel fordismo una volta entrato in un'organizzazione il lavoratore si trovava di fronte ad un percorso lavorativo di mercato interno, con stadi predeterminati e ascendenti, in cui ad ogni livello corrispondeva una aumento di salario e di qualifica professionale. Oggi, invece, i soggetti, anche con elevate competenze, si muovono sempre più sul mercato esterno. Per questo motivo, intendo parlare di percorso lavorativo, piuttosto che di carriera, che presup183


pone un ordine predefinito come: "un racconto della successione delle posizioni professionali, occupate nel corso del tempo, senza postulare che le regga un ordine" (Paradeise, 1998). Prevedere gli esiti di questi percorsi è molto più difficile rispetto a quello che avveniva nel sistema fordista, in cui le competenze e le carriere retributive si accumulavano incrementalmente nel tempo, in percorsi prestrutturati. Nel nostro Paese, è in corso un dibattito sui fatto che queste forme costituiscano solo una fase di ingresso nel mondo del lavoro, quindi una transizione verso il lavoro stabile o se siano forme che accompagneranno il percorso lavorativo dell'intera vita professionale di alcune persone, rinforzando la segmentazione del mercato del lavoro (Reyneri, 20026 ). C'è comunque chi ritiene che i giovani che sono stati a lungo precari rimarranno anche in futuro diversi da coloro che sono divenuti subito tipici o autonomi: "per le maggiori attese di un rapporto con il lavoro che consenta crescita ed espressione di sé, per la delusione più frequente e marcata con cui hanno vissuto le prime esperienze, per il senso di fatica che hanno sperimentato" (Franchi, 2005, p. 187). Certo è che oggi per molti giovani investire sul proprio futuro lavorativo significa giocare d'azzardo: come indica Sennet (2002) infatti, la società moderna obbliga l'individuo a spostarsi tra una posizione lavorativa e l'altra, senza essere in grado di prevedere gli esiti dello spostamento e con la consapevolezza di avere poche chances di successo. Il rischio è dunque spostato sulle capacità dell'individuo 7 che deve essere in grado di costruire un percorso coerente e nello stesso tempo ascendente a livello di reddito e di competenze, evitando il più possibile i periodi di disoccupazione tra un contratto e l'altro (Magatti, Fullin, 2002, Rizza, 2002, Laffi, 2000, Luciano 2002). Occorre evitare gli spostamenti laterali ambigui ovvero i casi in cui: "una persona che crede di muoversi verso l'alto, in una rete fluida in effetti si sposta solo orizzontalmente" (Sennet, 2002, p.84), o peggio ancora porsi in situazioni in cui si è obbligati ad accettare spostamenti discendenti. Le variabili soggettive diventano più importanti nelle relazioni di lavoro atipiche, rispetto a quello che avviene in quelle stabili a tempo indeterminato. In particolare, nelle caratteristiche del lavoro atipico vi è un elemento di sostanziale differenziazione che cambia la struttura stessa della relazione di lavoro: il rinnovo del contratto. Nelle relazioni di lavoro atipiche si sviluppano, infatti, delle possibilità di opportunismo, che derivano 184


dal fatto che vi è sempre in gioco il rinnovo del contratto o la sua trasformazione in contratto di lavoro tipico. Esse possono essere tematizzate in termini di scambi tra aspettative e impegni ridondanti (Bertolini 2002, 2005). Da un lato le risorse scambiate, lavoro e denaro, sono regolate dal contratto e come tali avvengono in condizioni di certezza. Dall'altro, tale tipo di contratto comporta anche una serie di aspettative e di impegni che potremmo definire "ridondanti", in quanto vanno al di là del contratto scritto. La struttura stessa del contratto atipico crea, infatti, una sfasatura temporale tra la prestazione lavorativa e la decisione del lavoratore di rinnovare il contratto e del lavoratore di continuare a lavorare per quell'azienda, che può dar luogo a una possibilità di opportunismo da entrambe le parti. Il datore può generare nel lavoratore un'aspettativa di rinnovo del contratto, per ottenere dal lavoratore il massimo della prestazione, cioè un impegno ridondante. Il lavoratore può generare nel datore un'aspettativa di continuità lavorativa, in modo che il datore si assuma un impegno ridondante in formazione. L'incontro tra aspettative e impegni ridondanti è differito nel tempo, in quanto si verificherà solo al termine del contratto. Questo pone entrambe le parti in una situazione di incertezza e può dar luogo a possibilità di opportunismo dai due lati del mercato. Inoltre, tanto più la prestazione svolta dal lavoratore atipico diventa specifica rispetto all'impresa, tanto più le possibilità di opportunismo sono elevate. Infatti, un eventuale mancato rinnovo dl contratto può diventare costoso per entrambe le parti; per il lavoratore perché la sua competenza sarà difficilmente vendibile sui mercato, per il datore perché quel lavoratore non sarà facilmente sostituibile 8 Spesso i lavoratori, specialmente quelli meno specializzati, con bassi titoli di studio e alle prime esperienze come i giovani, non hanno modo di verificare se le promesse saranno mantenute e impiegano tutte le loro energie in un rapporto di lavoro a termine, sperando nel rinnovo o nell'assunzione che poi allo scadere del contratto non avviene. Andare incontro a una serie di rapporti di lavoro che si risolvono in questo modo può avere delle conseguenze negative in termini di carriera, anche per coloro che partono da situazioni lavorative con delle buone prospettive (Bertolini, 2002), perché significa ogni volta ricominciare da capo. I nuovi tipi di percorso, inoltre, possono creare forti tensioni rispetto alla definizione della propria identità lavorativa. Sono soprattutto coloro .

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che hanno elevati titoli di studio a ricercare un lavoro ideale, consono con la propria formazione e le proprie aspettative. Per loro il lavoro non è solo una fonte di reddito, ma entra anche a far parte della propria identità. Dover cambiare lavoro spesso significa allora doversi continuamente ridefinire, specie se si varia anche la mansione. Chi riesce a lavorare nello stesso settore, investe in un professione che non è sicuro di poter continuare a svolgere anche in futuro e, quindi, non può proiettare la sua identità professionale "in avanti", deve essere sempre pronto ad abbandonarla. Come vedremo dalle ricerche c'è chi riesce a definire la sua identità indipendentemente dalla forma contrattuale con cui svolge il lavoro, atteggiamento più maschile che femminile, e chi invece ha problemi a definirsi perché il lavoro non è stabile. Fullin (2004) distingue due tipi di identità. Gli atipici che svolgono percorsi di lavoro orientati a svolgere una certa professione e riescono a definire la propria identità al di là dell'instabilità. Chi intraprende percorsi di transizione non è soddisfatto del lavoro che svolge e aspira ad un'occupazione più soddisfacente e sicura. Lavorare con forme contrattuali atipiche, e dunque a termine, permette a questi soggetti di non identificarsi con il lavoro che svolgono e quindi di accettarlo senza sentirsi troppo vincolati. Per lavoratori i cui percorsi lavorativi di mercato esterno sono caratterizzati dalla discontinuità contrattuale, le reti professionali giocano un ruolo di protezione importante, non solo per trovare un impiego, come avviene per i lavoratori "tipici" in Italia, ma anche per procurarsi sempre nuovi contratti o commesse e per garantirsi il rinnovo di quelli che stanno svolgendo. È essenziale, per esempio, per i collaboratori ampliare il più possibile il numero dei loro committenti. Attraverso la costruzione di reti sociali con i colleghi e i committenti, i lavoratori atipici maturano e diffondono una reputazione professionale, che permette loro di assicurarsi una continuità lavorativa di fatto anche se i contratti sono a termine. I lavoratori più specializzati riescono ad organizzarsi in vere e proprie comunità professionali informali, che permettono loro di acquisire forza sui mercato e di scambiarsi informazioni e commesse. Tuttavia, tale meccanismo non è attuato dai lavoratori più deboli che ne avrebbero più bisogno e che continuano a muoversi individualmente sul mercato dei lavoro. Dai punto di vista finanziario la situazione di incertezza reddituale dei lavoratori atipici, che deriva dalla mancanza di garanzia di continuità la186


vorativa, è amplificata dall' impossibilità di accesso al credito di tzpo tradizionale. Infatti, il credito tradizionale si basa su garanzie reali come il salario, inteso come retribuzione mensile a tempo indeterminato, che questi lavoratori non hanno. Le ricerche sociologiche mostrano che nell'impossibilità di accedere agli strumenti classici di finanziamento, i lavoratori atipici attivano due strategie: il risparmio precauzionalee il ricorso all'aiuto della famiglia di origine. La prima consiste nell'accumulo di denaro nei periodi di lavoro, per far fronte a eventuali momenti di non lavoro o di ritardi nei pagamenti. Questo risparmio forzoso non viene né investito, né utilizzato per sviluppare la propria attività a causa della difficoltà di previsione. Talvolta esso può essere eccessivo rispetto alla reale possibilità di rimanere "senza soldi" per un certo periodo. L'altra strategia è il sostegno della famiglia di origine per prestiti e per garanzie. Ricorrere all'aiuto della famiglia è considerato "normale" dalla maggior parte dai lavoratori atipici. LE DIFFERENZE NEL LAVORO ATIPICO

In questo paragrafo illustreremo i risultati di alcune ricerche sul lavoro atipico che mettono in evidenza l'eterogeneità degli effetti del lavoro atipico a seconda del territorio di appartenenza, del genere, dell'età e del titolo di studio. Si tratta, infatti, di variabili che devono essere tenute presenti negli studi sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro per disegnare le politiche del mercato del lavoro. La variabile geografica influisce sia a livello della struttura delle opportunità lavorative che il territorio può offrire, sia indirizzando l'atteggiamento e le aspettative dei soggetti che si presentano sul mercato del lavoro locale modificandone la struttura delle preferenze. Essere precari in mercati del lavoro che offrono molte occasioni di lavoro, anche se temporanee, è molto differente che esserlo in mercati dellavoro poco dinamici, poiché le uscite dall'occupazione possono essere riassorbite velocemente. Per questo motivo appaiono fondamentali quegli studi che ricostruiscono il contesto locale, in quanto dal loro confronto si possono in seguito trarre dei quadri analitico-interpretativi più generali. Le ricerche mostrano come in Emilia Romagna (Chicchi, 2001, Rizza, 2003) e in Lombardia (Semenza, 2004, Magatti Fullin, 2002, Fullin, 2004) chi perde il lavoro ne trova facilmente un altro e in questo senso il lavoro precario viene vissuto meglio rispetto a un contesto come quello 187


torinese, in cui il mercato del lavoro locale presenta livelli di disoccupazione più elevati e soprattutto è meno dinamico. Inoltre, a Torino le reti professionali sono tendenzialmente più "chiuse" e caratterizzate da legami forti rispetto ad altre città: non è facile accedervi, ma soprattutto se se ne viene esclusi diventa difficile ricollocarsi. La "cattiva reputazione" circola molto velocemente in reticoli di relazioni chiusi (Follis, 2002). Per questo motivo si rileva come i lavoratori atipici torinesi ad elevato titolo di studio (superiori o laurea), che lavorano nel settore dei servizi alle imprese con contratti di collaborazione (Bertolini, 2002, 2005) siano meno propensi alla costruzione di percorsi professionali autonomi rispetto ai loro colleghi milanesi in situazioni simili (Magatti, Fullin, 2000). Infine, in zone caratterizzate da disoccupazione elevata e da bassa mobilita interna, come in alcune citta del Sud d Italia: La diffusione di lavoro atipico si traduce in una maggiore instabilità generale, con conseguenti indebolimenti dei percorsi professionali" (Salmieri, 2006, p. 45). Inoltre, il tasso di conversione dei contratti atipici in tipici risulta più basso in tali aree rispetto al resto d'Italia e spesso il lavoro atipico si somma a quello irregolare, più presente che in altre Regioni. I risultati di uno studio localizzato nella città di Napoli (Salmieri, 2006) mostrano che paradossalmente questo produce l'effetto di una minor influenza della precarietà sui progetti di vita: la presenza diffusa di lavoro irregolare crea una sorta di socializzazione all'incertezza lavorativa, che diviene una "normale condizione di vita", specialmente per i bassi titoli di studio. Ci si potrebbe interrogare se si tratti di uno stato di rassegnazione, in mancanza di aspettative realistiche di stabilizzazione. Altre due variabili fondamentali nel modo di vivere il lavoro atipico sono t'eti e il genere. L'atteggiamento delle lavoratrici atipiche varia a seconda che si tratti delle prime esperienze di lavoro o di quelle a venire. L'aspetto dell'età è particolarmente sentito dalle donne, sia per il loro limite biologico di età alla maternità, sia perché culturalmente è ancora a loro che sono affidati i maggiori carichi familiari e quindi sono le prime a risentire del problema della conciliazione tra lavoro e famiglia quando si formano una nuova famiglia. Le donne più giovani, proiettate sul presente quotidiano e preoccupate di aumentare le proprie capacità professionali, non attribuiscono importanza alla forma di lavoro precaria; con l'età vivono questa situazione con maggiore preoccupazione. Le più anziane: "cominciano ad avver188


tire la fatica di un lavoro senza vincoli stringenti di orario ma che impone di fatto tempi lunghi e non programmabili, che cominciano a pensare alla pensione che forse non avranno mai, che avvertono i rischi dell'obsolescenza professionale" (Luciano 2002, p. 14). Possono essere utili per approfondire il problema i risultati di una ricerca9 su un campione costituito da 50 giovani donne con un'età compresa tra il 25 anni e i 40, con titoli di studio medio-elevati, per lo più laurea o specializzazione post-laurea, in discipline umanistiche, residenti a Torino e a Napoli. Si tratta di donne che lavorano nel settore dei servizi alle imprese (formazione come coordinatrici, docenti e tutors, scrittura progetti europei, consulenze organizzative alle imprese ecc ... ). I due terzi hanno attualmente forme contrattuali atipiche, co.co.co . o co.pro. e un terzo sono lavoratrici tipiche a tempo indeterminato. Nell'analisi (Bertolini, 2006) sono state ricostruite, attraverso l'approccio dei corsi di vita, le carriere lavorative, economiche e familiari delle partecipanti: i risultati mostrano che esistono delle età critiche tra le lavoratrici atipiche, delle tappe simili nel modo di vivere il lavoro atipico e nella sua influenza sulle scelte economiche e familiari. Le transizioni alla vita adulta (uscita dalla famiglia di origine, convivenza, matrimonio, primo figlio ecc..) avvengono in età ben prestabilite all'interno del gruppo delle lavoratrici atipiche e in quello delle tipiche, ma vi sono delle diversità tra i due gruppi. Le lavoratrici atipiche sotto i trent'anni sono proiettate sui presente quotidiano, sul miglioramento delle capacità professionali e sono soddisfatte; a trent'anni molte di loro vivono da sole, se non sono state assunte cominciano a preoccuparsi e a cercare di diversificare i committenti; i 35 anni sono un'età critica, in cui molte di loro convivono o sono sposate, hanno o pensano di avere un figlio, ma hanno forti difficoltà a conciliare tra la vita lavorativa e quella familiare. Coloro che lavorano con forme contrattuali tipiche sono in anticipo di 3 o 4 anni nelle diverse transizioni rispetto allé atipiche e sono mediamente più soddisfatte lavorativamente. Vi è, dunque, un'interdipendenza tra le carriere: la forma contrattuale con la quale si lavora, a parità di altre variabili, incide sulla progettualità di vita privata, scandendo le tappe del percorso di vita privata e facendo posticipare le scelte importanti. La ricerca sottolinea la criticità del lavoro atipico oltre i 30 anni specialmente per le donne, anche quelle più istruite. Si tratta di soggetti per cui il lavoro non è solo una fonte di reddito, ma contribuisce a ridefinire la loro identità. Lavorando con forme contrat-

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tuali che le proteggono poco dal punto di vista delle tutele e dell'assicurazione di una continuità lavorativa e di reddito, hanno attuato delle strategie di protezioni informali. Hanno diversificato il numero dei committenti e investono molto in capitale umano, per costruirsi una solida professionalità spendibile sul mercato. Si tratta di strategie che consumano molto tempo e per questo quando queste donne superano una certa età hanno dei grossi problemi in termini di conciliazione tra la vita lavorativa e quella familiare. Il rischio è quello di posticipare una transizione familiare desiderata oppure, nel lungo periodo, rinunciare ad un lavoro ad elevata professionalità per accontentarsi di un lavoro di bassa qualità, ma stabile. Un'altra ricerca 10 mette in evidenza l'importanza della variabile titolo di studio, che in Italia rimane fortemente legata a quella della condizione socio-economica della famiglia di origine. Nell'ambito di tale indagine (Berton, Contini, 2007) del 2006 sono stati realizzati due focus group sui temi del lavoro con giovani donne sotto i trent'anni, che erano iscritte ai Centri per l'Impiego di Torino e Provincia nel 2004. Sono emerse delle importanti differenze in relazione alle loro aspettative, ai percorsi di lavoro e alle protezioni informali. Esse derivano primariamente dal differente senso che le lavoratrici a basso e ad elevato titolo di studio attribuiscono al "lavoro" e a quanto contribuisce a definire la loro identità. Dai risultati emerge che per le lavoratrici a bassi titoli di studio" il lavoro è principalmente una necessità economica. Si tratta di giovani che non hanno un'occupazione a cui ambiscono e nella quale si identificano, l'importante per loro è lavorare per portare a casa un reddito. La maggiore difficoltà che hanno incontrato è stata quella di trovare un lavoro. I loro percorsi di lavoro sono frammentati, con esperienze molto diverse tra di loro, e con passaggi da un tipo di lavoro ad un altro e tra lavori che richiedono competenze medio basse. L'instabilità contrattuale è vista come un ulteriore ostacolo da superare. Non sono persone che hanno le risorse e le capacità per potersi progettare e costruire un loro percorso di lavoro coerente tra impieghi instabili, come sarebbe richiesto per lavorare con le nuove forme contrattuali. La famiglia per loro non costituisce una possibile protezione. Se vivono con la famiglia di origine nella maggior parte dei casi i genitori non hanno le risorse per mantenerle, e se convivono con il partner anche lui è spesso instabile o se ha un lavoro a tempo indeterminato, quasi mai ha uno stipendio sufficiente a sostenere tutte le spese. Paradossalmente, 190


quindi, tra le giovani sotto i trent'anni con bassi titoli di studio, che più ne avrebbero bisogno, la protezione della famiglia diventa una risorsa scarsa. Molto diverso è il profilo di chi possiede un titolo di studio elevato. La maggior parte delle donne di questo gruppo sta cercando di raggiungere un lavoro ideale, molte volte consono ai propri studi. Si tratta di lavoratrici per le quali il lavoro costituisce una parte rilevante della definizione della propria identità. Tuttavia, molto spesso il lavoro desiderato non è facile da raggiungere. Per questo motivo, intraprendono percorsi lavorativi tortuosi, fatti di alternanza tra lavoro e formazione, oppure sommano due contratti, uno di solito poco retribuito ma che corrisponde alla proprie aspirazioni, e un altro per integrare il reddito. La maggior parte delle donne con elevata istruzione preferirebbe il lavoro fisso, ma è disponibile ad accettare le forme contrattuali atipiche a condizioni di una continuità di fatto e di avere accesso al credito. Alcune di loro, specialmente le laureate, inoltre, perseguono l'obiettivo di ottenere un lavoro che reputano "ideale" e per questo sono disposte a lavorare anche con forme contrattuali instabili. Parallelamente, però sono donne orientate anche alla famiglia, di cui si vogliono occupare personalmente. Dunque, sono donne per cui il reale problema non è più la scelta lavoro o famiglia, ma come conciliare i due aspetti. Essere sposata con un marito che abbia un lavoro sicuro e un buon reddito. Per alcune di loro avere un partner con un lavoro stabile costituisce una possibilità di maggiore scelta nella sfera lavorativa. Tale funzione di protezione è stata richiamata esplicitamente dalle donne sposate. LE POLITICHE ATTUABILI A LIVELLO LOCALE

Di fronte alla discontinuità lavorativa delle nuove forme contrattuali e ai nuovi rischi da affrontare per chi si affaccia sul mercato del lavoro, in Italia, finora, non sono state introdotte adeguate forme di protezioni istituzionali, come invece è avvenuto in altri Paesi europei (si pensi alla fiexsecurity dei Paesi del nord Europa). I giovani atipici mettono allora in atto strategie di protezioni informali, che tuttavia sono deboli. La famiglia svolge spesso un ruolo di sostegno nella fase, talvolta lunga, di stabilizzazione sui mercato del lavoro del giovane, sia essa quella di origine o il partner con un lavoro fisso. Non bisogna dimenticare che questo aspetto rischia, 191


però, di riprodurre le iniziali condizioni di disuguaglianza sia a livello di classe sociale, sia di genere. Inoltre, ritarda l'entrata nella vita adultadi molti giovani. L'investimento in capitale umano è un'altra strategia di protezione. Un'istruzione elevata, per esempio, sebbene non garantisca più l'accesso immediato ad un lavoro stabile e di buona qualità, continua a giocare un forte ruolo sulla capacit2i dell'individuo di tenere insieme le esperienze lavorative. Per progettare delle politiche per i lavoratori atipici occorre riflettere su di loro come su un universo non omogeneo in cui i bisogni variano a seconda dell'età, della professione intrapresa, del titolo di studio e del genere. Per prima cosa questo saggio vuole cercare di argomentare che per progettare delle politiche per i lavoratori atipici occorre riflettere su di loro come su un universo non omogeneo in cui i bisogni variano a seconda dell'età, della professione intrapresa, del titolo di studio e del genere. Un problema rilevato rispetto al quale c'è necessità di intervenire è il disorientamento dei giovani e delle giovani rispetto ai percorsi di lavoro che appaiono sempre più frammentati e per cui è diventato più difficile di una volta stabilire "cosa farò da grande". In un certo senso, per i più giovani che sono alle prime esperienze potersi sperimentare sul mercato del lavoro senza contratti che pongano grossi vincoli può anche essere un'opportunità, che li aiuta a meglio definire i loro obbiettivi. La situazione, cambia, però dopo i primi anni e le prime esperienze lavorative che si concludono negativamente. La sperimentazione può assumere i tratti di una vagare senza meta, di una collezione caotica di esperienze di lavoro talvolta molto brevi e mal pagate e che non portano ad alcuna professionalità rivendibile successivamente sul mercato del lavoro. Per chi non ha la protezione della famiglia, talvolta, si tratta anche di accettare per necessità qualsiasi offerta di lavoro pur di guadagnare qualcosa. Quindi, una prima necessità è quella di sviluppare politiche per l'orientamento al lavoro, non tanto aiutando a trovare la singola occasione di lavoro, ma indirizzando e fornendo gli strumenti necessari ai giovani per la costruzione di un percorso di lavoro coerente e ascendente nel tempo tra impieghi instabili. In un mercato del lavoro come quello attuale, è necessario orientare i giovani a un'ottica di lungo periodo, insegnandogli per esempio a rifiutare un'offerta che sembra offrire grossi guadagni temporanei, ma non li aiuta a rendersi occupabili in futuro sui mercato del lavoro. Inoltre, è importante for192


nire loro strumenti che li aiutino a ordinare e costruire le esperienze di lavoro e informazioni sulle forme contrattuali. Tali servizi devono tenere conto dell'orientamento della popolazione locale al lavoro stabile. Un'altra politica che potrebbe essere trasversale, poiché risponderebbe ai bisogni di tutti i lavoratori atipici è il sostegno all'accesso al credito e/o la creazione di forme di microcredito. Per quanto riguarda i lavoratori con più elevati titoli di studio e più professionalizzati le strategie vincenti sembrano siano proprio l'investimento in una professionalità specifica e nella costruzione di reti professionali con i committenti e i colleghi. Si tratta di meccanismi informali, frutto delle strategie messe in atto dai soggetti che spesso sono deboli. Infatti, le reti sociali non sono un bene inesauribile: occorre tempo per costruirle, richiedono continui investimenti, e si possono distruggere facilmente (Coleman, 1990). Molte volte sarebbe necessario l'intervento di un'organizzazione formale per stabilire tessuti di relazioni in cui gli individui possano attivare strategie di collaborazione di lungo periodo (Bagnasco, 2002). Vi è dunque la necessità di un sostegno alla nascita e allo sviluppo di comunità professionali, di gruppi di lavoratori simili per condizione in cui ci si scambi informazioni e commesse e in cui si mettano in atto delle strategie collettive. Per i giovani meno professionalizzati e per le donne che si avvicinano ai 30 anni sarebbero necessarie strategie di stabilizzazione, come incentivi alle imprese che assumono stabilmente questi due target di lavoratore una volta che hanno avuto rinnovati un certo numero di contratti. Sarebbe necessario, inoltre, ripensare a strategie di sostegno al reddito per i giovani atipici più svantaggiati. Occorrerebbe, infine, agire sul problema della conciliazione lavoro-famiglia che passa prima di tutto dalla revisione degli orari di lavoro nel settore privato e delle libere professioni, per evitare l'abbandono del lavoro e delle prospettive di carriera da parte delle donne alla nascita del primo o del secondo figlio. Se non sostenute nei loro sforzi, queste donne sotto i 30 anni possono decidere di accontentarsi di un lavoro "qualunque" dopo i 30-35 anni, rinunciando alla realizzazione delle proprie aspettative.

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La definizione di lavoro subordinato è stata introdotta nel nostro ordinamento nel 1942. L'art. 2094 del codice civile stabilisce che: "E prestatore di lavoro subordinato colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore". 2 La legge 30 del 2003 trasformerà nella maggior parte dei settori le collaborazioni coordinate e continuative in collaborazioni a progetto, che si collocano sempre tra il lavoro subordinato e l'autonomo. 3 Oggi Lavoro in Somministrazione. ' Misure introdotte dalla Finanziaria 2007. 5 Indennità prevista per periodi non inferiori a 4 giorni e non superiori a un sesto della durata del contratto. L'importo è il 50% di quello previsto per indennità ospedaliera. 6 Per un'esposizione critica del dibattito si veda il par. 6, cap. 8. 7 Per approfondimenti sul tema del rischio nella società moderna si veda BECK, 2000, BAUMAN, 1999, RANcI, 2002. 8 Per un approfondimento delle strategie che si sviluppano tra datore di lavoro e lavoratore si veda BERTOLINI, 2002b. ' I risultati della ricerca empirica sono basati sul corso: "La formazione on-line per lo sviluppo delle capacità manageriale delle donne. Donne on-line" realizzato dal CIRsde in collaborazione con Poliedra e Studio Staff, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Adriana Luciano e Chiara Saraceno lo hanno promosso e coordinato scientificamente. I dati sono stati raccolti attraverso: interviste videore-

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gistrate; questionari; forum generale; esercitazione on-line. Nelle interviste videoregistrate le corsiste erano sollecitate a raccontare eventi critici positivi e negativi in relazione a vari temi, tra cui quello della conciliazione. Il questionario raccoglieva informazioni puntuali sulle loro diverse carriere familiare, lavorativa ed economica. Nel forum generale veniva proposta una storia inventata con protagonista Fiammetta, una giovane donna con caratteristiche molto simili a quelle delle corsiste. Per ogni episodio della vita della protagonista, che equivaleva a una transizione lavorativa o familiare o economica, veniva richiesto alle partecipanti di raccontare la loro esperienza personale (se si erano trovate a fronteggiarla, cosa avevano scelto, come l'avevano vissuta ecc ... ). La situazione del forum era simile a quella di un focus group on-line. Per ogni episodio della storia veniva, inoltre, richiesta un'esercitazione in cui occorreva analizzare la situazione di Fiammetta e proporre soluzioni, attraverso il materiale fornito nel corso. La metodologia ricordava quella di un esperimento o di una simulazione. IO Si tratta di una parte di ricerca inserita in un più ampio progetto Alfieri dal titolo: Le nuove Forme di lavoro in Italia e in Piemonte: opportunità o discriminazione, coordinato dal Prof. Bruno Contini, a cui hanno preso parte: Lia Pacelli, Fabio Berton, Patrik Vesan, Ilaria Madama, Stefano Sacchi, Pier Marco Ferraresi e Giovanna Segre, Valeria Sparano e Sonia Bertolini. Il progetto è stato finanziato dalla Fondazione CRT e Co-finanziato dalla Provincia di Torino. Il Medie inferiori o superiori senza altri corsi di formazione.


Note bibliografiche ADDABBO, T. e BORGHI, Riconoscere il lavoro. Una ricerca sulle lavoratrici con contratti di collaborazione, Franco Angeli, Milano 2001. BARBIERI, P. e RIZZA, R., Capitale sociale e lavoro atpico, in , «Sociologia del lavoro», n. 91, 2003, pp. 169-185. BASSANINI, C. e DONATI, E., Le condizioni di lavoro non standard secondo i lavoratori e le lavoratrici, in M. Samek Lodovici E R. Semenza (a cura di), "Le forme del lavoro. L'occupazione non standard: Italia e Lombardia nel contesto europeo", Franco Angeli, Milano 2001. BERTOLINI, 5., Il lavoro atipico e le sue strategie. Una ricerca sui Collaboratori Coordinati e Continuativi e i loro datori di lavoro a Thrino in una prospettiva europea, Stampatori, Torino 2002. BERTOLINI, 5., Strumenti concettuali per l'analisi del mercato del lavoro atipico:_ riflessioni ed esperienze di ricerca, in S. Bertolini e R. Rizza (a cura di), "Atipici?", in «Sociologia del Lavoro», Milano, 'Franco Angeli 2005. BERTOLINI, 5., La conciliazione per le lavoratrici atipiche, in «Economia e Lavoro» Anno XL, n. 1, gennaio-aprile, 2006, E BERTON e B. CONTINI, Le nuove Forme di lavoro in Italia e in Piemonte: opportunità o discriminazione?, Rapporto di Ricerca per Fondazione CRT e Provincia di Torino, 2007. BIAGIOU, M., REYNERI E., SERAVALLI, G., Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale, in «Stato e Mercato», n. 71, pp. 277-3 13, 2004. FOLLIS, M., Quanto convengono lepromozioni? Un'analisi secondaria, in «Studi organizzativi», n. 3, pp. 5-39, 2002. FRANCHI, M., Mobili alla meta. I giovani tra università e lavoro, Donzelli, Roma, 2005. FULLIN, G., Vivere l'instabilità del lavoro, Il Mulino, Bologna 2005. Is, Il lavoro atzpico in Italia: le tendenze del 2001, in «1zs Working Paper Series», n. 3, gennaio 2002. ISTAT, Rilevazione forze di lavoro, III Trimestre, Roma 2004.

LAFFI, S., Jlfirto mercificazione dell'età giovanile, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2000. LUCIANO, A. e SANTI, R., Giovani (poco) qualificati nel mercato del lavoro. Un'analisi longitudinale, in A. Luciano (a cura di), «Politiche del lavoro», Milano, Franco Angeli 2002. IVIAGATTI, M. e FULLIN, G. (a cura di), Percorsi di lavoro flessibile. Un'indagine sui Lavoratori intermali e Collaboratori coordinati e continuativi in Lombardia, Carocci, Roma 2002. MIGLIAVACCA, M., La condizione lavorativa della famiglie, in C. RANCI, Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, il Mulino, Bologna 2002. PARADEISE, C., Les comédiens. Profession et marchés du tra vai!, PUF, Paris 1998. PAUGAM, 5., Le salarié de la précarieté, PUF, Paris 2003. RANCI, C., Fenomenologia della vulnerabilità sociale, in «Rassegna Italiana di Sociologia», a. XLIII, n. 4, pp. 521-553, 2002°. REGALIA, I., Forme flessibili di impiego in Lombardia e in quattro regioni di Europa, in M. Samek Lodovici e R. Semenza (a cura di), "Le forme del lavoro. Loccupazione non standard: Italia e Lombardia nel contesto europeo", Franco Angeli, Milano 2001. REYNERI, E., Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna 2002. RIZZA, R., Il lavoro mobile, Carocci, Roma 2003. SALMIERI, L., Coppie flessibili, Progetti e vita quotidiana dei lavoratori atzpici, Il Mulino, Bologna 2006. SAMEK L0D0vICI, M. e SEMENZA, R. (a cura di) Le forme del lavoro. L'occupazione non standard: Italia e Lombardia nel contesto europeo, Franco Angeli, Milano 2001. SARACENO, C., I paradossi della flessibilità: una prospettiva di genere e generazionale5 in M. Magatti e G. Fullin (a cura di), "Percorsi di lavoro flessibile. Un'indagine sui Lavoratori interinali e collaboratori coordinati e continuativi in Lombardia", Carocci, Roma 2002. SARACENO, C., Le dflrenze che contano tra i

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lavoratori atpici, in S. Bertolini e R. Rizza (a cura di), "Atipici", in «Sociologia del lavoro» n. 97, Franco Angeli, Milano 2005. SCHERER, S., Stepping-stones or traps? The consequences oflabour market entrypositions onfiaure careers in- West Germany, Great Britain and Italy, in «Work, Employment and Society», vol. 18, n. 2, pp. 369-394, 2004, SEMENZA, R., Le nuove forme di lavoro indi-

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pendente, in «Stato e Mercato», n. 58, pp. 143168, 2000. SEMENZA, R., Le trasformazioni del lavoro. Flessibilità, disuguaglianze, responsabilità dell'impresa, Carocci, Roma 2004. SENNETT, R., L'uomo flessibile: le conseguenze del capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999.


questeistituzioni n. 1501151

2008

cronache dal Css

Money push vs. deal puil. Workshop sulla finanza per lìnnovazione

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i Consiglio italiano per ie Scienze Sociali ha promosso, con il sostegno della Compagnia di San Paolo ed il patrocinio del Comune di Torino, il Workshop internazionale "Money push vs. deal puli. Workshop sulla finanza per l'innovazione", a Moncalieri, presso il Collegio Carlo Alberto, nei giorni 30 e 31 ottobre 2008. Il workshop è stato rivolto ad operatori del settore appartenenti al mondo finanziario - seed e venture capitalist, finanziarie regionali, istituti di credito, organismi di garanzia - alle imprese, alle università e centri di ricerca nazionali ed internazionali (e loro uffici di trasferimento tecnologico), al mondo della professione e della consulenza, a policy makers, a studiosi dell'area dell'innovazione e tutte le organizzazioni della società civile, come ad esempio le fondazioni, che supportano, direttamente ed indirettamente, iniziative nell'area della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione scientifico-tecnologica. Lo scopo principale del workshop è stato favorire l'incontro tra questi operatori per presentare ed approfondire esperienze di làvoro concrete ed in fase di sviluppo. Inoltre, a partire da tali esperienze, il workshop ha inteso rappresentare ed analizzare criticamente elementi cruciali che stannoalla base dei processi di trasformazione e condiyisione della conoscenza scientifica e tecnologica tra ricerca, impresa e finanza. La focalizzazione del workshop sugli strumenti finanziari ha avuto l'obiettivo specifico di fare il punto su alcune esperienze rilevanti e sui progetti in corso (come quelli di alcuni fondi di seed e venture capital e di organismi per l'accelerazione del trasferimento tecnologico) avviati per finanziare progettualità in ambito technology transfer. Tutto ciò per poi accompagnare, all'analisi di casi concreti, delle riflessioni più ampie ed approfondite, dirette principalmente a policy makers dell'area dell'innovazione e del trasferimento tecnologico, per rendere le loro scelte più consapevoli, razionali ed efficaci. Tra i temi discussi nel workshop: 197


- investimenti pubblici e organismi di promozione internazionale della ricerca e del trasferimento tecnologico (attraverso contributi di rappresentati del Settimo Programma Quadro, dell'Autorità del Programma Galileo, dell'ESA e del CER.1'J); - le fondazioni per la ricerca (con c ntributi della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia, Cariplo e Telethon); - organismi privati per la ricerca e progetti di trasferimento tecnologico; - organismi di accelerazione del trasferimento tecnologico: esperienze nazionali ed internazionali (l'esperienze dell'Università di Oxford, del Karolinska Institute e del modello di partenariato pubblico-privato in UK). Esperienze di seed e venture capital ed altri strumenti della "filiera del finanziamento" dell'innovazione in Italia. Il "filo rosso" delle sessioni del workshop è dato da queste convinzioni: le risorse finanziarie (private, in particolare, i capitali di rischio) sono certamente i principali fattori abilitativi del trasferimento. Tuttavia non è solo questione di capitali ma anche di apporti di valore aggiunto in termini di partnership, di competenze manageriali e commerciali. I tempi fisiologicamente lunghi (10-15 anni) e non comprimibili dei processi di trasferimento tecnologico si scontrano con gli interessi dei soggetti privati (soprattutto finanziatori e imprese) interessati a giungere celermente alla valorizzazione commerciale del trasferimento. Di conseguenza, tali soggetti tendono ad evitare l'assunzione di rischi connessi a processi lunghi ed incerti. Di qui l'importanza di considerare adeguate coperture assicurative e di mitigazione dei rischi; altrettanto importante è il ruolo del grande credito che va approfondito e meglio inquadrato in un'era di evoluzione del mercato industriale di riferimento che va seguito ed interpretato. L'iniziativa ricade all'interno del programma biennale di attività del CSS "Industria, società dei servizi ed economia della conoscenza" nell'ambito del quale sono già stati promossi diversi workshop e pubblicazioni.

Per ulteriori informazioni si veda il sito internet: www.consiglioscienzesociali.org

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queste istituzioni n. 1501151 luglio-dicembre 2008

cronache dal

CRIC

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Un appello alle altre reti di pubblicazioni pubbliche

Assemblea della nostra associazione, tenutasi in Firenze il 22 maggio scorso, ha deciso di dare forte impulso a un'azione che offra maggiore visibilità e una piui ampia ed efficace rappresentanza al settore delle pubblicazioni periodiche a carattere culturale. L'apertura del gruppo di periodici culturali che hanno dato vita al Coordinamento Riviste Italiane di Cultura, nei confronti di tutte le altre reti di pubblicazioni, appartenenti alla variegata costellazione delle riviste culturali, è un passo opportuno e necessario soprattutto nell'attuale difficile congiuntura economica, che vede ulteriormente ridursi le risorse pubbliche destinate alla cultura. Il CRIc si rivolge dunque a testate pubblicate da case editrici, associazioni, cooperative, fondazioni culturali, dipartimenti universitari, pur confermando l'ispirazione iniziale del nucleo dei suoi fondatori che, nello Statuto, hanno inteso rivolgersi a "periodici che si caratterizzano perchè operano nel mercato al di fuori di ogni dipendenza accademica, per il taglio interdisciplinare dei contenuti e per il loro apporto all'analisi critica e all'innovazione delle idee sui diversi temi che interessano il dibattito contemporaneo, in ogni campo del pensiero e della creatività". La convinzione che la nostra proposta affronti punti di concreto interesse per le case editrici di periodici si fonda sull'esperienza dei quattro anni di attività, che hanno consentito, per la prima volta in Italia, di creare intorno al ruolo e alla forma "rivista", momenti significativi di aggregazione, di riflessione comune e di iniziativa collettiva. Proseguendo su questo percorso, riteniamo che il Ciuc debba e possa essere uno strumento essenziale per dare un avvenire alle riviste, catalizzando le energie e le alleanze necessarie per affrontare le sfide derivanti dalle problematiche vecchie e nuove del settore. Dai tagli ai Beni Culturali, con la drastica riduzione delle risorse economiche pubbliche, alla perdurante situazione di marginalità economica delle riviste di 199


cultura nell'industria della comunicazione e nei circuiti della distribuzione editoriale, in un contesto come l'attuale nel quale i cambiamenti tecnologici della società dell'informazione impongono di rinnovare i linguaggi della comunicazione culturale e di offrire ai lettori nuove modalità di accesso ai contenuti culturali dei periodici. Siamo convinti che, fra le molte difficoltà, le riviste italiane continuano a svolgere un ruolo insostituibile, per la circolazione delle idee e dei risultati della ricerca, per la diffusione degli studi e della cultura nazionale presso le più prestigiose istituzioni culturali e accademiche internazionali, e in particolare per l'espressione di un pensiero critico che contribuisca alla qualità della democrazia e alla formazione di una sfera pubblica europea. Nell'Assemblea del 22 maggio 2008 e nel Consiglio direttivo del 26 giugno 2008 sono stati, rispettivamente, rinnovato il Consiglio direttivo e confermata la presidente Marialina Marcucci

Organi direttivi Umberto Brancia - Confronti Biancamaria Bruno - Lettera internazionale Madel Crasta - Consorzio Baicr Sistema Cultura Marialina Marcucci - Ultima Communication Riccardo Monni - Doc Toscana Sergio Ristuccia - queste istituzioni, Consiglio Italiano per le Scienze Sociali Severiiio Saccardi - Testimonianze Fabrizio Serra - Fabrizio Serra Editore, Accademia Editoriale Francesco Stella - Semicerchio Lucia Zannino - Parolechiave, Associazione Istituzioni Culturali Italiane Presidente: Marialina Marcucci Segretario generale: Rosario Garra

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Il Consiglio italiano per le Scienze Sociali Il Css è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, negli anni Sessanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e pii efficaci.

Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in: tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui sguenti temi: le fondazioni in Italia; governo delle città e territorio; valutazione degli effetti delle politiche pubbliche. Vi è attualmente i gruppo di lavoro sul seguente tema: produzione e trasformazione della conoscenza scientifica e tecnologica. Vi sono anche 2 progetti speciali pluriennali: ceto medio; politica dell'innovazione e trasferimenti tecnologici. Da ricordare l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche in Europa.

Presidente: SERGIO RISTUCCIA Vice Presidente: ARNALDO BAGNASCO Comitato Direttivo: SERGIO RISTUCCIA (Presidente), MAURA ANFOSSI, ARNALDO BAGNASCO, FABRIzIO BARCA, PIERO BASSETTI, GIOVANNI BECHELLONI, ANDREA BONAccOpsI, GIUSEPPE DE MATFEIS, ANTONIO Di MAJO, BRUNO MANGHI, RICCARDO PATERNÒ, Lon.Nzo R0MIT0, CARLo RONCA, CABIA Rossi, FELICE SCALVINI. Collegio dei Revisori: MARCO CoToNio, MARCO MIGNANI, LUIGI PUDDU (presidente). Segretario generale: ALESSANDRO SILJ Vice Segretario generale: NICoi.& CREPAx Via Ovidio 20 - 00193 Roma Tel. 06.8540564 - Fax 06.8417110 cssroma@libero.it - cssroma@consiglioscienzesociali.org Via Real Collegio 30, do Fondazione Collegio Carlo Alberto 10024 Moncalieri (TO) - Tel. 011.6705290 - Fax 011.6476847 csstorino@consiglioscienzesociali.org www.consiglioscienzesociali.org


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Genova Libreria Feltrinelli Athena Milano Cooperativa Libraria Popolare Libreria Feltrinelli Manzoni


MARSILIO - SAGGI E RICERCHE - QUESTE ISTITUZIONI Daniele Archibugi, Giuseppe Ciccarone, Mauro Maré, Bernardo Pizzetti, Flaminia Violati - Advisory Commission on Intergovernmental Relations Il triangolo dei servizi pubblici, pp. 235, 2000, € 19,63 Sergio Ristuccia Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle fondazioni, pp. 181, 2000, € 12,91 Antonio Saenz de Miera L'azzurro del puzzie. Fondazioni e terzo settore in Spagna, pp. 289, 2003, € 23,00 Giancarlo Salvemini (a cura di) I guardiani del bilancio. Una norma importante ma di difficile applicazione: l'articolo 81 della Costituzione, pp. 161, 2003, € 12,91 Giovanni Vetritto La parabola di un'industria di Stato. Il Monopolio dei tabacchi 186 1-1997, pp. 160,2005,€15 Elinor Ostrom Governare i beni collettivi, pp. 353, 2006, € 28 Fabio Biscotti, Marco Saverio Ristuccia Trasferire tecnologie. Il caso del trasferimento tecnologico di origine spaziale in Europa, pp. 255, 2006, € 19


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