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queste uzioni

DI NUOVO: A CHE SERVONO I PARTITI EUROPEI? ANDREA VILLA FLESSIBILITÀ E NUOVE FORME DI SICUREZZA SOCIALE ARNALDO SOCIETÀ DEL RISCHIO E QUESTIONE DEL CETO MEDIO RESPONSABILITÀ DELLA POLITICA E RESPONSABILITA INDIVIDUALI NELLA GESTIONE DEL RISCHIO WALL STREET WATCH TUTTO ESAURITO COME WALI. STREET E WASHINGTON HANNO TRADITO L'AMERICA TALEBANI DEL MERCATO E CRISI COME "RIGENERAZIONE DELL'ECONOMIA" IL MUTARE DELLE METODOLOGIE NELLE SCIENZE SOCIALI


lilieste istituzioni Anno

XXXVI

n.

153

Redazione

Direttore. SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO Di MAIO Vice Direttore: GIOVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: CARLA BAssu, FABIO BIsCoTTI, ROSALBA CORI, ELINA DE SIMONE, FRANCESCO Di MAJO, ALESSANDRO HINNA, CLAUDIA LOPEDOTE, GIORGIO PAGANO, PIER LUIGI PETRILLO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, VALERIA VALISERRA, FRANCESCO VELO, DONATELLA VISCOGLIOSI, STEFANIA ZUCCOLOTTO

Collaboratori ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BETTIN LATTES, ENRICO CANIGLIA, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, CARLO CHIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILvI0 GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LAnCI, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAI0RIN0, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MnsLI, WALTER N0CIT0, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, OLIVIERO PESCE, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RIOTTA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, FRANCESCO SIDOTI, ALESSANDRO SI, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, GIANLUIGI TOSATO, GUIDO VERIJCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA ZOPPINI

Hanno collaborato: UMBERTO SERAFINI, FEDERICO SPANTIGATI, TIZIANO TERZANI

Segretaria Amministrativa: PAOLA ZACCHIN I Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00193 Tel.

Roma

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Responsabile:

GIOVANNI BECHELLONI

Editore: CONSIGLIO ITALIANO PER LE SCIENZE SOCIALI

ISSN 1121-3353 Stampa: Tipar Arti Grafiche - Roma Chiuso in tipografia: 15 giugno 2009

Foto

di copertina: Smederevo (Serbia), insediamento rom

(Simona Calco - Staiker, Progetto Campus Rom

2008)

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

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queste istituzioni n. 153 aprile-giugno 2009

Indi ce

III

Di nuovo: a che servono i partiti europei?

taccUillO i

La finanza pubblica regionale: progetti italiani e pratica dei liinder tedeschi diAntonino Tramontana

8

Terminator e il giorno del giudizio: la paralisi fiscale della California diJoe Certavoce

11

Flex-insecurity, dalla flessibilità alla precarietà di Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi

14

Flessibilità e nuove forme di sicurezza sociale: a proposito del Rapporto Supiot diAndrea Villa

La privatizzizionr dol rischio 27

La crescente insiurezza economica degli americani dopo la progressiva privatizzazione del rischio diJacob S. Hacker

42

Società del rischio e questione del, ceto medio. La centralità di un programma di ricerche di Arnaldo Bagnasco


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48

ResponsabilitĂ dellapoliticae'responsabilitĂ individuali nella gestione del rischio di Massimo De Felice

ornm: A picco nella crisi 61

Tutto esaurito. Come Wall Street e Washington hanno tradito l'America di Wall Street Watch

70

Talebani del mercato e crisi come "rigenerazione dell'economia" di Oliviero Pesce Intorno aUa crisi dei mutui subprime: un'analisi econometrica della liquiditĂ di Marco Mele

saggio 97

Il mutare delle metodologie nelle scienze sociali: il caso delle analisi economiche delle scelte pubbliche di Alessandro De Chiara eAntonio Di Majo


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editoriale

III nuovo: a che servono i partiti europei

Nei mesi addietro, quando di elezioni del Parlamento europeo non si parlava affatto, avevamo tentato di richiamare l'attenzione su questo importante appuntamento dalle pagine della rivista, con l'editoriale "Memorandum per le elezioni del Parlamento europeo del 2009" (n. 150-151, luglio-dicembre 2008). Scrivevamo che "la grandi crisi finanziaria ed économica globale chiama drasticamente in causa l'Unione europea e ne interpella le capacità". Ragione ulteriore per procedere ad una verifica del peso specifico dell'Unione: l'Europa c'è? Quali decisioni è in grado di prendere e rendere vincolanti per tutti? Il metodo comunitario, dicevamo, sembra essere tuttora vincente - nonostante la battuta d'arresto subita con la bocciatura del Trattato costituzionale prima e del Trattato di Lisbona poi - perché quel tavolo negoziale necessario e vincolante offerto dall'Unione resta al suo posto e nessuno riesce ancora ad immaginare di ritirarsi. Anche se è più che consistente il "pericolo del ritorno degli Stati nazione", col prevalere degli interessi nazionali come criterio di valutazione relativamente alle questioni e alle priorità sulle quali l'Unione europea è chiamata a formulare risposte, senza limitarsi a "rappresentare un elemento dell'ordine continentale" (A. Battaglia, Aspettando l'Europa. La crisi dell'integrazione e l'unità dell'Occidente, Carocci, 2007). Certo è, tuttavia, che la qualità della partecipazione al tavolo conta. E il risultato delle elezioni europee dello scorso giugno dice qualcosa sulla riluttanza di una parte ormai non più così limitata da poterla ignorare ascrivendola al fenomeno del naturale e fisiologico astensionismo democratico - della popolazione europea a considerare quel tavolo un luogo strategico e irrinunciabile per la durata e la crescita dell'Europa e dei suoi Stati. Tutto l'interesse per le elezioni europee si è destato, nei limiti in cui si è destato, soltanto all'ultimo minuto, per consentire ai soggetti politici locali di rinverdire la loro presenza e visibilità sui media, di consolidare azioni e intese reciproche, in qualche caso di tornare sulla scena abbandonata controvoglia rientrando dalla finestra, in altri casi di misurare reciprocamente le proprie forze e riscrivere così accordi e linee III


di azione coalizionali. Senza neanche una parola dedicata all'Europa. Paolo Ponzano (Elezioni europee o "nazionali"?, «Italianieuropei», n. 2/209, pp. 33-40) scrive che "si ripropone il comportamento strumentale della maggior parte delle forze politiche nazionali, le quali - con poche eccezioni - non sembrano avere l'intenzione di condurre una campagna elettorale su temi e scelte di politica europea". I media, le liste elettorali ed i partiti hanno beatamente ignorato il fatto che si trattasse di elezioni europee, concentrandosi sulle sole elezioni e trasformandole senza remore in un affare interno. Insomma, di Europa, in generale, si è parlato molto poco e magari solo per imputarle gran parte dei guai e dei disastri nazionali. Almeno questa volta, le cose sarebbero potute andare diversamente. Se non altro perché è evidente a tutti che il Parlamento europeo è un'istituzione assai importante per la vita democratica europea. Molto più di quanto fosse ai suoi esordi e dopo le prime elezioni del 1979. Il Parlamento di oggi vanta un'azione ben più ampia ed incisiva in ambito legislativo, poteri crescenti in materia di bilancio e strumenti efficaci di controllo sulla Commissione europea. Secondo Le Monde, "La montée en puissance du Parlement se confirme" (vendredi 29 mai 2009) su molteplici fronti, con riferimento ai poteri ed alle funzioni legislative, di bilancio, di emendamento, di intervento in Assemblea e in Commissione, e più propriamente politiche in materia di nomina. Del resto, la prospettiva di poteri crescenti che si aggiungono a quelli già effettivi - grazie soprattutto alla procedura di co-decisione che il Trattato di Lisbona (cf. Gian Luigi Tosato, "Quale Europa dopo Lisbona?", in L'Unione europea nel XXI secolo. Nel dubbio, per l'Europa. il Mulino, 2008 ), se approvato dai 27 Stati, introdurrebbe per circa i 2/3 delle decisioni (politica agricola comune, immigrazione e sport) - che Consiglio e Parlamento sono chiamati a prendere, ponendo Parlamento e Consiglio quasi sullo stesso piano in materia di funzioni legislative e di bilancio. Prospettiva che finora non sembra aver determinato un miglioramento della reputazione del Parlamento, rischiando di vanificare il vantaggio di cui godrebbe quale "democratic pillar" dell'Unione europea. "La montée en puissance du Parlement n'est cependant pas irrésistible", scrive ancora Le Monde. Così, anche secondo il report del CEPS (Centre for European Policy Studies), i cui estensori Julia De Clerck-Sachsse e Maciej Kaczyiiski (The European Parliament - more powerful, less legitimate?An outlookfor the 7th legislature, by Julia De Clerck-Sachsse and Piotr Maciej Kaczytiski, Politics and Institutions Series. CEPS Working Documents 2009), sostengono che il ruolo del Parlamento quale importante forum per il dibattito pubblico è ormai in rovinoso declino. Probabilmente, su questo punto le analisi devono essere approfondite e messe a confronto. Certo, la difficoltà dei lavori e del funzionamento istituzionale comincia con l'allargamento del 2004 ai dieci nuovi Stati dell'Europa centrale e orientale: aumentano i membri del Parlamento, raddoppiano le lingue ufficiali (da 11 a 23), cresce la confusione. Iv


I dati spesso raccontano di lavori parlamentari efficaci, ma la percezione e la conoscenza che se ne ha all'esterno non lo testimonia. I lavori parlamentari sono stati in gran parte trasferiti in sede di Commissioni interne, lasciando poco spazio alla discussione in seduta plenaria, oramai troppo allargata e dispersiva per un dibattito in profondità. Segno di istituzioni mature. Ma anche causa della latitanza dal dibattito pubblico dei temi oggetto delle politiche europee. C'è stato un vero boom di atti passati già in prima lettura, indice del fatto che "the bulk of political debate takes place behind closed doors, rather than publicly". Perdendo così il momento delle contrapposizioni politico-ideologiche del dibattito pubblico allargato ai partiti ed alla cittadinanza, di cui non si cattura neanche l'attenzione. Il Parlamento europeo "merely rubber-stamping the Council's decisions"? Secondo Eurobarometer, i cittadini europei sono consapevoli dell'importanza del Parlamento europeo, ma il 73% non ne conosce il funzionamento ed i meccanismi di base. Di certo non esiste ancora una sfera pubblica europea. Né ci consola sapere da Lutz Meyer dell'agenzia di marketing tedesca Scholz & Friends che il marchio "Parlamento europeo" va forte, stimato in milioni di euro dalle società commerciali, riconosciuto in Germania dall'85% dei cittadini, contro il 67% di Armani. La democrazia, infatti, è un prodotto sempre diffidilissimo da collocare sul mercato elettorale. Eppure, guardando le statistiche di partecipazione popolare al voto per il rinnovo dell'assemblea europea, il trend è inversamente proporzionale alla parabola ascendente disegnata dall'accresciuto ruolo del Parlamento: 61,99% nel 1979, 45,47% nel 2004. Nel 2009, il Parlamento europeo si ritrova a fare i conti con la crisi di legittimazione, eletto come è da appena il 43% della popolazione europea. Il calo di partecipazione a queste ultime elezioni complica le cose e rende arduo sostenere un accrescimento del ruolo del Parlamento, come auspicato da più parti. A questo punto, dobbiamo tornare ai partiti europei. Ne abbiamo parlato nell'editoriale prima ricordato. Di questi va rilevata ancora una volta la piena insufficienza in un contesto che invece renderebbe un'autentica classe politica europea di assoluta importanza per la vita politica dell'Unione. Nella normale vita democratica, insieme ai possibili correttivi di ingegneria istituzionale e funzionamento della macchina, sono i partiti ed i mezzi di comunicazione ed informazione gli intermediari tra istituzioni e cittadini. Spetta ad essi, in primo luogo, informare e fare conoscere le istituzioni. Sul secondo versante, i media nazionali, non mancano indicazioni e raccomandazioni europee volte a migliorare la conoscenza e l'informazione sull'Unione europea all'interno di ciascun Paese, con stringenti quote di produzione e trasmissione di contenuti europei a carico delle emittenti televisive che svolgono servizio pubblico. Per non dire del budget di 18 milioni di euro (cinque centesimi di euro per elettore) a disposizione del Parlamento europeo per questa campagna, sui tradizionali mass media ma anche su MySpace, Facebook, Flickr e EUtube. Eppure, non sono incorag-

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gianti le percentuali riferite alla consapevolezza e all'informazione dei cittadini sulle elezioni europee appena concluse: un misero 16% (http://www.europarl.europa.eul pdf/eurobarometre/EB71/eb71...first_results_elections_en.pdf), secondo un recente sondaggio di Eurobarometro. Sul primo versante, i partiti nazionali, non hanno alcun interesse a promuovere il dibattito attorno a questioni che non conoscono e che li distolgono dalle impegnative competizioni elettorali nazionali, in uno stato ormai di campagna permanente. Di Europa non ha parlato quasi nessuno (se non per affermare l'intenzione di usarla per promuovere e rafforzare le politiche di interesse nazionale). Chi ha mai visto o ascoltato un politico europeo in campagna elettorale? Un socialista francese, un socialdemocratico tedesco, un verde inglese? Qualche partito ha anche organizzato la sua kermesse ad uso e consumo (limitato) dei media: l'European Green Party (Ecp) a Montreuil, Parigi nell'ottobre 2008; l'European People's Party (Epp) a Varsavia nell'aprile 2009; gli European Liberals and Democrats (ELDR) a Stoccolma nell'ottobre 2008. Ma frequenti occasioni di pubblico dibattito e confronto tra le diverse rappresentanze nazionali sui principali problemi comuni e le linee politiche da tenere in Europa non ce ne sono. Formalmente e sostanzialmente, partiti europei non ci sono. Ci sono invece gruppi espressione di interessi organizzati a livello nazionale che in Europa finiscono sotto l'egida del raggruppamento più affine e più conveniente in termini di numeri. Lungi da loro dare vita ad una linea comune, ad un'alleanza politica. Ognuno per sé. E la caccia grossa delle lobbies è aperta. Perché è ovvio che i circa ventimila lobbisti (http://www.alter-eu.org/enlsystemlfiles/ publications/register-assessment-after-one-year.pdf) presenti a Bruxelles ed i loro uffici permanenti puntano anche al Parlamento europeo (cinquemila sono quelli accreditati), non soltanto alla Commissione, e qui parlano con i singoli parlamentari, cercando di intessere relazioni trasversali e creare piattaforme comuni, di voto, che i partiti non sono in grado di creare. L'impreparazione dei parlamentari - che non occorre spiegare viste le logiche di compilazione delle liste elettorali lontane anni luce dall'idea di costituire una compagine europea preparata e capace (potremmo partire dalla questione della conoscenza delle lingue che non si risolve con gli oltre quattromila traduttori ed interpreti a disposizione delle istituzioni) - rende pericoloso un gioco di ruoli che pure può avere la sua utilità e legittimità, nei termini di uno scambio di informazioni e competenze specialistiche, ftmzionali ad intervenire e decidere su qùestioni sempre più complesse. A patto, però, che chi deve decidere in ultima istanza possieda le capacità di policy necessarie a non farsi catturare dagli interessi, a elaborare politiche di lungo periodo, ed a tutelare l'interesse comune da interferenze indebite e poco altruistiche. Tornando ai gruppi europei, allora, perché essi diventino partiti europei a tutti gli effetti, preso atto che i partiti nazionali non saranno di aiuto in questo, è necessario riconsiderare il criterio della nazionalità e, in particolare, l'accesso ad un partito euVI


ropeo per il solo tramite del partito nazionale che vi aderisce, in favore del criterio dell'affiliazione politica diretta, cercando così di correggere la discordanza di programmi ed idee presenti all'interno di uno Stesso gruppo come somma di interessi più o meno affini delle rappresentanze nazionali che vi confluiscono. L'ideale sarebbe votare candidati selezionati dallo stesso partito europeo, gli Stessi per tutti gli elettori europei, in rappresentanza di idee e programmi definiti. Il che costringerebbe i partiti nazionali a ragionare su linee e progetti comuni, ad incontrarsi, a discutere, a comunicare sui temi europei. A condurre una campagna elettorale europea presso l'opinione pubblica. Solo così i partiti europei potranno proporsi con forti elementi di identificazione ed aggregazione, come promotori di idee e di obiettivi chiari e condivisi. Un primo passo in tal senso l'hanno fatto i Verdi. L'EGP, già nel 2004, aveva impostato una campagna elettorale europea, pur con variazioni nazionali talvolta sensibili. Nel 2009, Europe Ecologie, la coalizione elettorale francese nata nel 2008 e guidata da Daniel Cohn-Bendit, Danny il Rosso, che riunisce i Verdi ed altri movimenti ambientalisti ed ecologisti, ha raggiunto un risultato sorprendente per molti aspetti. Col 16,3% dei voti (contro il 10-12% delle previsioni), tallonando quindi i Socialisti, la coalizione del chiacchieratissimo Cohn-Bendit ha conquistato ben 14 seggi al Parlamento europeo per la sola Francia (14 in Germania, 5 in Inghilterra, 3 in Belgio e in Olanda), diventando la quarta forza parlamentare. Europe Ecologie si è fatta notare, prima che i risultati fossero noti, per la scelta - unicum nel panorama della campagna elettorale europea dei partiti nazionali - di rivolgersi all'elettorato europeo, con programma e proposte per l'Europa. "Le contrat ecologiste pour l'Europe": 9 principi, 27 proposte e 3 strumenti. Tutte politiche europee, poiché "Nous ne pouvons plus penser franco-franais". In circa sessanta pagine è scritto, con molta chiarezza, il programma della coalizione pubblicato sul sito web www.europe-ecologie.fr , in lingua inglese, francese e tedesca, insieme a molti materiali, dal Kit del supporter ai numerosissimi video di interviste, dibattiti, etc.. Il Web ha colpito ancora. Ma soltanto perché lo si è saputo usare e - soprattutto - perché c'erano i contenuti da veicolare e attorno ai quali mobilitare gli elettori: un'Europa sociale (e su di un tema creato e cresciuto in Europa: la protezione ambientale) che invece manca del tutto nell'offerta generale e che spinge gli altri elettori verso i partiti diffidenti in tema di integrazione che cavalcano l'onda della protezione e della sicurezza nazionale, in assenza d'altro. E "La lezione verde di Cohn-Bendit", come la definisce Mario Monti sulle pagine del Corriere della Sera (14 giugno 2009). Non si può certo negare che, non solo per i temi della sicurezza, la crisi economica ha pesato eccome. E più ancora ha pesato la crisi della politica che, a sinistra, non ha saputo fare fronte agli scossoni della crisi economica ed interpretare la domanda sociale dei suoi stessi elettori. Anche per questo - contrariamente a quanto detto dal vice Presidente del Parlamento europeo Alejo Vidal-Quadras, ovvero che la campagna per le elezioni europee non sarebbe stata un aggregato di ventisette differenti campagne nazionali, ma "a single campaign with a single message about choice" VI'


queste sono state elezioni più che mai nazionali, disegnate sulle questioni interne come abiti sartoriali, anche nelle stesse campagne: immigrazione e sicurezza in tutta evidenza nell'Europa del Sud; pari opportunità, nuove tecnologie e infanzia nei Paesi scandinavi. E nei risultati. Un caso per tutti, l'Olanda, tra i fondatori dell'Unione europea, e il successo della destra xenofoba, populista e razzista del Partito della Libertà (Pvv), secondo dopo i cristiano-democratici. E l'Europa degli Stati nazionali, "vittima e capro espiatorio delle loro deficienze" (Giulio Ercolessi, L'Europa verso il suicidio? Senza Unione federale il destino degli europei è segnato, Edizioni Dedalo, 2009). In essa, si fatica sempre più a trovare punti di convergenza su importanti politiche determinanti per il futuro stesso dell'Europa: immigrazione, politica estera, economica, sicurezza, etc.. L'avanzata della destra estrema in alcuni Paesi europei è un dato certamente significativo nei termini in cui lo pone Mario Monti, ma non preoccupante se si considera le difficoltà di coordinamento che molto probabilmente le forze dell'ultradestra - movimenti caratterizzati da agende a forte carattere nazionale (e nazionalistico) e con poca o nessuna esperienza di lavoro in ambito comunitario - incontreranno se vorranno collaborare per costituire una forza comune capace di un'azione efficace. E non soltanto esercitare un'azione negativa, ostruzionista e centrifuga in mancanza di una capacità di coordinamento e di intervento propositivo.

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istituzioni n.153 aprile-giugno 2009

La finanza pubblica regionale: progetti italiani e pratica dei lander tedeschi diAntonino Tramontana

on la presentazione di un disegno di legge delega sul federalismo fiscale (A. S., XVI Legislatura, n. 1117) anche il governo di centro-destra ha ripercorso la strada seguita dal precedente governo di centro-sinistra e da tutti i governi che da molti anni si susseguono in Italia quando devono impostare disegni legislativi di una certa complessità: il ricorso ad un disegno di legge delega anziché ad un disegno di legge ordinario. Ma, come è accaduto in molti casi precedenti, le deleghe conferite al governo, in luogo dei "principi e criteri direttivi" prescritti dall'articolo 76 della Costituzione, contengono espressioni talmente vaghe e generiche che lasciano al governo una mano completamente libera nella formulazione dei decreti legislativi delegati. E evidente che, quanto più vaghe e generiche sono le disposizioni del disegno di legge e quanto meno esso entra nella sostanza dei problemi, tanto più facile e

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rapida ne è l'approvazione da parte del parlamento e ciò spiega le ragioni di questo abuso. In questo modo, in sostanza, si realizza una delle modalità con le quali in Italia, ormai da molti anni, i governi di ogni colore politico cercano di appropriarsi dei poteri del parlamento. Inoltre, questo modo di procedere appare molto confacente con la "politica degli annunci" tanto cara ai governi che si susseguono in Italia: l'approvazione della legge delega può essere infatti propagandata con molto clamore all'opinione pubblica come una importante realizzazione del programma governativo, anche se in realtà nessun problema viene con essa risolto e tutto è rimandato ai successivi decreti delegati. E infatti nella legge-delega sul federalismo fiscale, approvata in via definitiva dal senato il 29 aprile 2009, le soluzioni alla maggior parfe dei problemi di struttura di questo federalismo restano indefinite

L'autore è Ordinario f. r. di Scienza delle finanze nell'Università di Perugia. 1


e rimandate ai decreti delegati da emanare entro due anni (ventiquattro mesi). Se si fosse voluto agire seriamente, occorreva introdurre in Italia il federalismo fiscale sulla base di una ponderata valutazione di tutti i suoi effetti da parte del parlamento e del Paese e ciò avrebbe richiesto non una serie di decreti delegati, il cui contenuto viene quasi totalmente determinato dal governo, ma una legge ordinaria ben articolata, approvata dopo approfondita discussione dai due rami del parlamento. Procedendo invece con una legge-delega, la formulazione di precisi principi e criteri direttivi sarebbe stata tanto più necessaria in una materia importante e delicata come quella del federalismo fiscale e, in genere, della struttura generale del sistema tributario e dei rapporti finanziari e fiscali tra Stato, Regioni ed enti locali, in quanto assai scarse sono le indicazioni contenute in questa materia nella nostra Costituzione. Ben diversa è, ad esempio, la situazione del federalismo fiscale in Germania, dove la Legge Fondamentale (Grundgesetz), che ha valore costituzionale, indica con precisione i tributi propri dello Stato federale (Bund), quelli propri degli Stati regionali (Lànder), e quelli comuni per Bund e Lànder, indicando anche per alcuni di questi ultimi (e precisamente per l'imposta sul reddito delle persone fisiche e per l'imposta sulle società) la misura in cui il loro gettito deve essere ripartito fra Bund e Lànder, mentre rimanda ad una legge ordinaria il compito di ripartire il gettito dell'imposta sugli scambi (Umsatzsteuer) corrispondente all'IvA italiana. 2

Ma poiché il federalismo fiscale riguarda le modalità di finanziamento dell'attività delle Regioni e degli enti locali e la ripartizione delle risorse finanziarie fra i diversi livelli di governo ogni discussione in merito richiederebbe una preliminare e precisa ripartizione di finzioni fra lo Stato e gli altri enti territoriali distinguendo, per questi ultimi, le funzioni esercitate in nome proprio da quelle esercitate per delega dello Stato. Prima di approvare una legge sull'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione si dovrebbe perciò anzitutto pensare all'attuazione dell'articolo 117 che ripartisce il potere legislativo fra Stato e Regioni. Come è noto, l'articolo 117 è stato riformato con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Mentre il vecchio testo definiva in positivo le materie attribuite alla competenza legislativa propria delle Regioni, il nuovo testo, che pretende di ispirarsi ad un (apparente) federalismo, le definisce in negativo, enunciando esplicitamente soltanto le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato e quelle di competenza concorrente fra Stato e Regioni. Ma leggendo il lungo testo del nuovo articolo 117 ci si accorge che il principio federalistico è soltanto apparente, perché, quando si escludano le materie di competenza propria dello Stato e quelle di competenza concorrente fra Stato e Regioni, ben poco resta alla competenza legislativa propria delle Regioni, forse anche meno di quanto veniva attribuito loro dal vecchio testo. Il problema dell'attuazione riguarda essenzialmente il terzo comma dell'articolo 117 che elenca le materie di competenza legislativa concorrente fra Stato e


Regioni e che rischia di sollevare un infinito contenzioso fra Stato e Regioni dato l'elevatissimo numero di tali materie, che va dal commercio con l'estero alla tutela del lavoro, dall'istruzione alle professioni; dalla ricerca scientifica alla tutela della salute; dai porti ed aeroporti alle reti di trasporto e distribuzione dell'energia; dalle casse di risparmio e rurali e dalle aziende di credito ed enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale, agli ordinamenti sportivi, alla protezione civile e al governo del territorio. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Ma non è facile stabilire fino a qual punto giungano i "principi fondamentali". Per ciascuna di queste materie di competenza concorrente occorrerebbe quindi delimitare, con una legge ordinaria, i confini delle competenze fra Stato e Regioni, affinché si possa più precisamente determinare l'ambito degli impegni di queste ultime e quindi anche le relative esigenze di risorse finanziarie, oltre che le modalità di coordinamento delle due iniziative legislative quando questo si dimostri necessario. Solo in seguito a questa più precisa ripartizione di competenze si dovrebbe passare alla definizione e alla attribuzione delle relative risorse finanziarie e, quindi, all'attuazione del federalismo fiscale. Quanto ai contenuti, la legge sul federalismo fiscale dovrebbe definire i tributi propri delle Regioni e degli enti locali, la ripartizione del gettito dei tributi comuni fra Stato, Regioni ed enti locali, i sistemi di compensazione delle capacità

fiscali delle diverse Regioni e le loro modalità di applicazione. I tributi propri delle Regioni, per essere ed apparire equi agli occhi dei rispettivi cittadini, dovrebbero essere costruiti rispettando i ben noti principi di equità dell'imposizione fiscale ed essere quindi applicati o in corrispettivo di prestazioni erogate dalle Regioni (principio della controprestazione o del beneficio) o in funzione della situazione economica, territoriale e sociale dei contribuenti (principio della capacità contributiva). Nel campo dell'imposizione diretta, ad esempio, imposte reali e proporzionali sui redditi di capitale, di lavoro e misti prodotti nel territorio regionale potrebbero costituire utili strumenti fiscali rispondenti ad un criterio di equità. Meno rispondenti a tale criterio sarebbero invece imposte personali sul reddito che, per la loro natura, colpiscono l'insieme di tutti i redditi che fanno capo a ciascun contribuente, indipendentemente dal luogo in cui sono stati prodotti. Nel campo dell'imposizione indiretta potrebbero essere applicate imposte specifiche sui consumi percepite nella fase del passaggio di beni e servizi al consumatore finale. In base al principio di controprestazione potrebbero essere applicati tributi sulle prestazioni che si intende far erogare dalle Regioni, soprattutto nel campo della sanità, dell'istruzione e dell'assistenza sociale, in modo da far partecipare il beneficiano ad una parte del costo di tali prestazioni. In base allo stesso principio potrebbero essere applicati canoni per l'utilizzazione dei beni demaniali delle Regioni. 3


Per i tributi propri delle Regioni le aliquote, le detrazioni, le esenzioni, le agevolazioni, ed ogni altro parametro strutturale dovrebbero essere lasciati alla libera determinazione delle Regioni. Solo in questo modo le Regioni potrebbero adeguare le entrate proprie alle spese necessarie per l'erogazione dei servizi di propria competenza e i cittadini sarebbero posti in grado di confrontare benefici e costi dei vari servizi. I tributi comuni resterebbero naturalmente disciplinati da leggi dello Stato e la legge sul federalismo fiscale dovrebbe disporre la ripartizione del gettito fra Stato, Regioni ed eventualmente anche Province e Comuni. Spese e tributi regionali Passando ora a considerare brevemente le disposizioni relative alla finanza regionale contenute nella legge recentemente approvata dal parlamento, con la quale è stata conferita delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, si può rilevare che le esigenze precedentemente ricordate non vengono affrontate e risolte in modo soddisfacente. L'articolo 8 della legge distingue le spese delle Regioni in tre categorie: 1)spese per prestazioni che, ai sensi dell'articolo 117, 20 comma, lettera m) della Costituzione, riguardano diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e per le quali lo Stato determina i livelli essenziali (fra queste rientrano quelle per la sanità, l'assistenza e l'istruzione); 2) spese diverse dalle precedenti; 4

3) spese finanziate con i contributi speciali, con i finanziamenti dell'Unione europea e con i cofinanziamenti nazionali. Le spese di cui al n. 1) dovrebbero essere determinate sulla base dei costi standard associati ai liveffi essenziali fissati dalla legge statale e finanziate con il gettito di tributi propri derivati valutato ad aliquota e base imponibile uniformi, della sovrimposta regionale all'IRPEF, della compartecipazione regionale all'IvA e con quote specifiche del fondo perequativo statale in modo da garantirne il finanziamento integrale in ogni Regione. L'articolo 7 definisce le entrate tributane delle Regioni le quali si ripartiscono in: - tributi propri, istituiti e disciplinati da leggi regionali; - tributi propri derivati, istituiti e disciplinati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni; - addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali; - compartecipazioni al gettito di tributi statali. Non si dà tuttavia alcuna indicazione su quali dovrebbero essere i tributi propri da disciplinare con leggi regionali. I tributi propri derivati dovrebbero essere l'imposta regionale sulle attività produttive (Iip) della quale peraltro la legge non stabilisce alcuna disciplina e prevede soltanto la sostituzione con altri tributi e quella che impropriamente viene definita addiziona/e regionale all'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e che in realtà è invece una sovrimposta, perché commisurata alla base imponibile dell'imposta e non al gettito.


Così come è stata finora applicata, questa sovrimposta ha carattere proporzionale e, sovrapponendosi ad una imposta progressiva ne riduce il grado di progressività complessiva, poiché riduce i rapporti preesistenti fra le diverse aliquote. Il tentativo di introdurre una sovrimposta regionale progressiva, atta a mantenere la preesistente scala di progressività, è stato respinto nel corso della discussione parlamentare. Per i tributi propri derivati le Regioni, con proprie leggi, possono modificare le aliquote e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti e secondo criteri fissati dalla legislazione statale e nel rispetto della normativa comunitaria; entro gli stessi limiti possono anche introdurre variazioni di aliquote e detrazioni per le sovraimposizioni sulle basi imponibili dei tributi erariali. Tuttavia, nessuna precisa indicazione viene data circa i limiti e i criteri che dovrebbero essere fissati dalla legislazione statale. Il gettito dei tributi regionali derivati e quello delle compartecipazioni al gttito dei tributi erariali sono attribuiti alle Regioni senza vincolo di destinazione. L'aliquota media di equilibrio della sovrimposta regionale sul reddito delle persone fisiche è stabilita in modo da produrre un gettito pari all'importo complessivo dei trasferimenti statali oggi erogati alle Regioni per il finanziamento delle spese di cui al n. 2 del citato articolo 6, che verrebbero pertanto sostituiti da questa fonte di finanziamento.

La perequazione finanziaria Il problema della compensazione delle capacità fiscali delle diverse Regioni è affrontato nell'articolo 9 il quale prevede l'istituzione di un fondo perequativo statale in favore delle Regioni con minore capacità fiscale. Il fondo è alimentato da una quota del gettito della già ricordata sovrimposta sul reddito delle persone fisiche e dalla compartecipazione delle Regioni al gettito dell'IvA. Mentre la prima fonte di alimentazione realizza una forma di pere quazione orizzontale, trattandosi di una redistribuzione, a favore di alcune Regioni, di una parte del gettito complessivo di un tributo regionale, sia pure derivato, e quindi interamente attribuito all'insieme delle Regioni, la seconda fonte dà luogo ad una pere quazione verticale, poiché si tratta di attribuire alle Regioni meno capaci fiscalmente una parte del gettito di una imposta statale. L'articolo 9, lettera g) definisce il criterio con il quale si determina la capacità fiscale delle Regioni. Sono Regioni a minore capacità fiscale, e quindi hanno titolo per ricevere i finanziamenti del fondo perequativo, le Regioni nelle quali il gettito pro-capite della sovrimposta sul reddito delle persone fisiche è inferiore al gettito pro-capite medio nazionale. Non hanno titolo a questi finanziamenti le Regioni che hanno un gettito pro-capite maggiore della media nazionale. E' peraltro evidente che questo criterio di determinazione della capacità fiscale, basato sul gettito di un solo tributo, è del tutto insoddisfacente.

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Per una più esatta valutazione della capacità fiscale si dovrebbe infatti prendere in considerazione almeno il complesso delle entrate tributarie procapite di una Regione e non il gettito di un solo tributo. Si può ricordare, a questo proposito, che in Germania per determinare la capacità fiscale di un Land si prende in considerazione non soltanto il complesso delle entrate tributarie spettanti al Land (siano esse derivanti da tributi propri o da compartecipazione ai tributi statali), ma anche il complesso delle entrate iiibutarie di tutti gli enti locali appartenenti alLand. Inoltre, la legge non contiene, alcuna disposizione per determinare la misura in cui deve avvenire la perequazione e ciò costituisce una lacuna particolarmente grave. Si afferma soltanto che la perequazione deve essere tale da ridurre in modo adeguato le differenze di capacità fiscale e questa espressione non può che confermare il carattere del tutto vago e generico - già precedentemente ricordato - di tante disposizioni contenute nelle leggi di delega. Può essere utile, anche a questo punto, un confronto con il modus operandi del sistema di perequazione nel federalismo fiscale tedesco (si veda: V. Losco: Il federalismo fiscale in Germania, Egea S.p.A., prima edizione, novembre 2005, pp. 71-73). La perequazione finanziaria (Finanzausgleich) fra i diversi Lànder si opera sulla base di un confronto fra l'indice di capacità finanziaria (Finanzkraft) di ciascun Land e l'indice diperequazione. Il primo indice si ottiene dalla somma di tutte le entrate tributarie di ciascun

Land, compresa la compartecipazione all'imposta sugli scambi (Umsatzsteuer), alla quale vanno aggiunte le entrate tnbutarie comunali, comprendenti anche la partecipazione all' Umsatzsteuer. L'indice di pere quazione risulta invece dalla moltiplicazione della capacità di entrata media pro-capite di tutti i Lànder per il numero di residenti in ciascun Land, ponderato in base alla densità della popolazione. L'ammontare dei trasferimenti perequativi è determinato dalla differenza tra questi due indici. Se un Land ha un indice di capacità finanziaria più elevato dell'indice di perequazione è tenuto ad elargire trasferimenti; se invece l'indice di perequazione supera quello di capacità finanziaria esso avrà diritto a ricevere sussidi. In sostanza, l'indice di perequazione esprime una misura di capacità finanziaria pro-capite ottimale o desiderata e potrebbe essere denominato anche indice di fabbisogno o di compensazione, calcolato su una base di bisogno medio a livello federale. La differenza dei due valori esprime il bisogno finanziario pro-capite di ciascun Land e gli strumenti perequativi cercano di colmare almeno in parte questo gap. I sussidi sono erogati in più scaglioni in modo che l'indice di capacità finanziaria di ciascun Land si avvicini a quello di perequazione, senza tuttavia mai eguagliarlo. La differenza tra i due valori non può essere mai annullata completamente poiché gli accreditamenti interregionali non possono indebolire eccessivamente i Lànder erogatori o livellare completamente le diverse capacità finanziarie per


non limitare ingiustificatamente l'autonomia dei Liinder. Si prevede, quindi, una prima serie di assegnazioni per portare l'indice di capacità finanziaria dei Lànder più poveri al 92% dell'indice di perequazione e una seconda serie di trasferimenti per quei Lànder che hanno una capacità finanziaria superiore al 92% , ma inferiore al 100% dell'indice di perequazione. La misura dell'accreditamento copre in questo caso il 37,5% della differenza tra il 92% e il 100% dell'indice di perequazione. Successivamente si procede ad ulteriori assegnazioni per consentire a tutti i Lànder creditori di raggiungere un indice di capacità finanziaria pari al 95% di quello di perequazione. L'entità dei prelievi dai Lànder più ricchi è stabilita proporzionalmente all'eccedenza del loro indice di capacità finanziaria rispetto all'indice di perequazione. Se l'eccedenza di un Land è dell'l% esso dovrà versare il 15% di tale eccedenza. Se l'eccedenza è tra il 2% e il 10% esso dovrà versare il 66% dell'eccedenza. Se infine l'eccedenza supera il 10% sarà costretto a versare l'80% di tale surplus. Ma il ricorso - che la nostra legge fa al gettito pro- capite della sovrimposta regionale all'IRPEF quale indice di capacità fiscale delle diverse Regioni è criticabile anche per un altro motivo ancora più grave. Infatti in Italia, dato l'attuale livello di evasione fiscale, con questo sistema verrebbero premiate le Regioni dove l'evasione è più elevata, le quali apparirebbero meno capaci fiscalmente e quindi meritevoli di finanziamenti perequativi. Poiché la capacità fiscale dipende dalla situazione economica sarebbe invece

certamente preferibile il ricorso ad un indice basato su dati riferiti all'economia reale, come potrebbero essere, ad esempio, il prodotto interno lordo reale regionale pro-capite o il valore dei consumi complessivi pro-capite rilevato in ciascuna Regione. Naturalmente dovrebbero invece essere trasferiti dallo Stato a tutte le Regioni i fondi necessari a finanziare l'esercizio delle funzioni e dei compiti che le Regioni svolgono per delega dello Stato. In conclusione, l'importanza e la delicatezza dei problemi che dovranno essere affrontati per l'istituzione di un equo ed efficiente federalismo fiscale in Italia avrebbero richiesto preliminarmente un approfondito studio delle condizioni economiche e delle capacità fiscali delle diverse Regioni, una precisa distribuzione ed attribuzione di funzioni allo Stato, alle Regioni ed agli enti locali, una chiara ed articolata formulazione non di una legge-delega, ma di una legge ordinaria dello Stato regolatrice del federalismo fiscale, attentamente discussa ed approvata ad opera del parlamento. Si è preferito scegliere un'altra strada, ma sarebbe difficile oggi dimostrare che per questa via il percorso sarà più rapido e che il prodotto finale sarà più soddisfacente. In ogni caso, si è persa una importante occasione per ristabilire un corretto funzionamento di tutte le istituzioni politiche del Paese mediante la piena restituzione al parlamento della sua fondamentale funzione costituzionale di legislatore: una esigenza che purtroppo sembra del tutto trascurata dalla nostra classe politica.

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TerMinator e il gioruo del giudizio: la paralisi fiscale della California diJoe Certavoce

L

a California, è stato detto a lungo, è il luogo dove il futuro avviene prima che altrove. Ma è ancora vero? Si chiede Paul Krugman su "International Herald Tribune" (State of Paralysis, 26 maggio 2009). Se è vero egli aggiunge - Dio aiuti l'America. Le ragioni di questa drastica opinione sono presto dette: la bolla immobiliare (the bubble housing) è stata in California maggiore che in ogni altro luogo e ancor maggiori sono stati i fallimenti. Il tasso di disoccupazione è dell'll% e i redditi sono crollati conseguentemente. Complessivamente, la crisi fiscale dello Stato della California è di dimensioni che mai si sarebbero immaginate pensando alle immense risorse umane e finanziarie di quel Paese. Ma le "politiche irresponsabili" di Arnold Schwarzenegger, governatore, hanno raddoppiato il debito dello Stato, pur in presenza dei vincoli che un referendum del 1978 aveva fissato con la famosa Proposition 13 che modificava in materia fiscale la Costituzione californiana. Vincoli tanto draconiani quanto scriteriati. A parte l'insensatezza

di decisioni in materia di tasse rimesse a referendum, e per giunta propositivi, gli elettori della California approvarono norme che fissavano la misura massima di qualsiasi tassa sul valore dei beni immobiliari (real property) non oltre l'l% del cd.full cash value dei medesimi. Valore, quest'ultimo, da calcolare sulla base di valutazioni fondate su una legge del 1975-76. Tali comunque da creare una. forte disuguaglianza fra taxpayers più anziani e quelli più giovani, e da costituire, comunque, le condizioni fiscali per una bolla immobiliare, fondata sui mutui sub-prime, più ampia che altrove. Ilsistema fiscale californiano è stato stravolto dalla decisione del 1978 perché ha spinto l'imposizione fiscale verso il prelievo sui redditi (income taxes); quei redditi destinati a cadere durante la recessione. In ogni caso, è l'imposizione fiscale nel suo complesso che è diventata un'arma spuntata. Infatti, la Proposition 13 ha fatto ancora di più rendendo estremamente difficile alzare le tasse anche in caso di emergenze. Qualsiasi aumento delle imposte può essere deciso soltan-


to con una maggioranza dei due terzi in ciascuna delle due Camere del Congresso dello Stato. Il che, interagendo con il fatto che la maggioranza è repubblicana - in materia di tasse su posizioni estremiste - ha creato la paralisi della politica fiscale in California. Il Governatore si è allora rivolto all'elettorato chiedendogli di approvare sei misure (budget measures) per prevenire quello che alcuni hanno chiamato "financial armageddon". La prima di queste misure (1F) vieta ogni aumento retributivo per parlamentari e pubblici amministratori quando il bilancio è in passivo. Le altre cinque, nellrdine, riguardano: la creazione di un fondo statale più ricco, dal 5% al 12.5%, per combattere il quarto anno consecutivo di siccità (lA); il reinvestimento di 9,3 miliardi di dollari nella scuola pubblica, in collegamento all'approvazione della misura precedente (1B); la ristrutturazione delle lotterie locali con i cui proventi si potrà accedere ad un prestito bancario pari a 5 miliardi di dollari (1C); il dirottamento dei fondi raccolti con le tasse sulle sigarette (1,7 miliardi di dollari) dai programmi di sviluppo per l'infanzia a nuove poste di bilancio, per cinque anni (1D); l'uso di un quarto del budget statale destinato a programmi di salute mentale per nuove poste di bilancio, per un periodo di due anni (lE). Il Governatore ha chiarito che, a fronte di un deficit di bilancio pari a 21,3 miliardi di dollari, non approvare queste misure significa tagliare sanità e scuola (così ripartiti, secondo il Los Angeles Times: taglio di 5.000 posti di lavoro pubblici; $5 miliardi in meno alla scuola; $2 miliardi presi a prestito dai governi locali; vendita di numerosi immobili statali tra

cui il penitenziario di San Quintino e il Los Angeles Coliseum; riduzione della copertura per le cure sanitarie). L'elettorato gli ha risposto di no, con l'eccezione della prima misura, l'unica ad essere approvata. Sulla modifica della Costituzione californiana varata nel 1978 molto si è scritto, anche perché alcuni altri Stati nordamericani si sono messi sulla scia. Il Massachusetts tra questi (v. Proposition 2.5 del 1980, Mass. Gen. Laws Ch. 59 § 21C). Gli elettori sono rimasti fedeli alla Prop.13 anche se la materia sembra molto controversa e ampiamente dibattuta fra i cittadini. Storicamente si considera la Proposition 13 come il primo passo dell'avvento alla presidenza di Ronald Reagan. E in questo senso, ha messo profonde radici tanto da creare quel mood antitasse responsabile dei grandi deficit anticrisi che gli Stati Uniti vanno accumulando per far fronte alla crisi dopo gli interventi decisi dall'Amministrazione Obama come potenzialmente disastrosi. In realtà, dice Krugman, attualmente le tasse americane sono ben al di sotio di quelle della gran maggioranza degli altri Paesi ricchi. In altri termini, le conseguenze fiscali della crisi corrente sarebbero del tutto governabili. Sarebbe necessario soltanto un modesto aumento del prelievo fiscale per coprire i maggiori pagamenti di interesse. Ma l'esempio della California è raggelante. "Who would have thought that America's largest state, a state whose economy is larger than that of all but few nations, could so easily become a banana republic?". Dunque, la questione è seria. In tempi drammatici, anche a non pensarla come


il premio Nobel Krugman, c'è da riflettere. L'interprete del cinematografico Terminator forse ha fatto male a chiedere supporto agli elettori se ha male amministrato. Però, se il titolare della column domenicale del Sole 24 Ore, "La mano visibile", ci scherza sopra lepidamente (vedi Terminator sconfitto sul ring delle tasse, 24 maggio), forse non ha capito che la repubblica delle banane, dove le tasse sono tabù, non è un grande modello da riproporre. Sì, certo, può darsi che il mes-

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saggio dell'elettorato sia stato "You are Termined". E può darsi che Terminator se lo meriti. Ma, al di là delle battute, vogliamo parlare del merito? Forse la colpa di Terminator sta nel non avere preso il toro per le corna (riconsiderare la struttura del sistema impositivo) e baloccarsi con le misure tampone. Alcune delle quali sono dolorose ma di breve effetto. La rimozione di Terminator - di questo si è trattato - non risolve i problemi!


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Flex-insecurity, dalla flessibilità alla preoarietì* di Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi

A

dicembre scadranno oltre 300mila contratti atipici. In tempi normali la stragrande maggioranza viene rinnovata dalla medesima azienda. Ora, con la recessione, c'è il rischio che i rinnovi calino e sia più lungo il periodo di disoccupazione per i lavoratori. Una larga percentuale non potrà beneficiare delle prestazioni di disoccupazione perché le regole di accesso penalizzano le carriere discontinue e i salari bassi. Occorrono sussidi di tipo assistenziale, soggetti alla prova dei mezzi. E in prospettiva, uno schema di mantenimento del reddito di stampo universalistico. Quanti sono i contratti che scadranno a dicembre? Quanti dei lavoratori che perderanno il lavoro saranno coperti dall'indennità di disoccupazione? I risultati di una nostra recente ricerca su perché in Italia la flessibilità del lavoro diventa precarietà ci aiutano a rispondere a queste domande 1 .

Quanti contratti scadono a dicembre?

Quanti contratti scadono a dicembre? La risposta alla domanda non è immediata, perché la scadenza dei contratti la conoscono solo le imprese e i lavoratori coinvolti. Negli ultimi giorni è circolata qualche stima di massima. Per ottenerne una più precisa, dividiamo il numero di occupati in ciascuna forma contrattuale per la durata media del contratt0 2 . Otteniamo così il numero di contratti in scadenza ogni mese. Dicembre è però un mese speciale: dai dati Whip sappiamo infatti che in genere a dicembre scadono il 40 per cento dei contratti in più della media di tutti i mesi dell'anno. Correggendo per questo fattore otteniamo dunque la nostra stima, riportata nella tabella 1. I dati ci dicono che in totale gli occupati con contratti di durata prefissata sono 2.574.642 e dunque, secondo i nostri calcoli, queffi con contratto in scaden-

* Tratto dal Sito www.lavoce.info. Pubblicato il 28.11.2008. 11


za a dicembre 2008 sono circa 305mila3 Si tratta di oltre lOmila apprendisti, 193mila dipendenti a tempo determinato, 16mila somministrati, 64mila collaboratori coordinati e a progetto. In tempi normali, avrebbero aspettato - in assenza di un passaggio diretto a un nuovo lavoro o di un rinnovo - in media dai nove mesi dei somministrati agli oltre diciannove dei collaboratori prima di trova•

Cfl Apprendisti Tempo determinato

re un nuovo lavoro. Spesso però il loro contratto veniva rinnovato dalla stessa impresa: neil'84 per cento dei casi per i somministrati e per oltre il 50 per cento dei casi per i collaboratori 4 Ora, con la recessione che avanza, c'è il rischio che la quota dei rinnovi sia inferiore e più lunga la durata della disoccupazione successiva. .

Totali occupati con contratti di durata prefissata

Durata media contratto (mesi)

Scadenze in dicembre 2008 (stima)

Durata media di disoccupazione successiva (mesi)

Senza sussidio di disoccupazione

79.871

21,2

5.245

12,1

50,1% (a)

247.584

34,0

10.172

12,6.

78,9%

1.557.166

11,3

193.353

12,7

38,1%

Somministrati Collaboratori coordinati e a progetto

60.638

5,2

16.317

9,3

47,8%

490.235

10,7

64.006

19,3

100%

Altro

139.148

12,0

16.199

TOTALE

2.574.642

305.300

Tabella 1. (a): stima riferita al 2003, quando i Cfl erano possibili anche nel settore privato. Oggi sono possibili solo nella pubblica amministrazione. Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat (Rcfl 2007, colonne 1 e 2), Whip (colonne 3, 4 e 5).

Quanti sono coperti dall'indennità di disoccupazione? La nostra ricerca mostra che molti di questi lavoratori affronteranno i tempi difficili che si annunciano all'orizzonte senza alcuna rete di protezione sociale. E questo non vale solo per i lavoratori parasubordinati, considerati autonomi dal punto di vista previdenziale, e dunque senza diritto alle prestazioni di disoccupazione. Come mostra l'ultima colonna della tabella, secondo le nostre stime, non sarà coperto dai sussidi di disoccu12

pazione neanche il 38 per sento dei lavoratori a tempo determinato (diventa il 47 per cento per quanti sono part-time), quasi il 50 per cento dei somministrati! interinali (il 63 per cento tra i part-time) e quasi l'80 per cento degli apprendisti. I particolari requisiti necessari per accedere ai sussidi, escludono infatti molti lavoratori con una storia lavorativa limitata o frammentata. In assenza di sussidi di disoccupazione di tipo assistenziale, o di uno schema generalizzato di reddito minimo, l'inverno per questi lavoratori si preannuncia davvero rigido.


Come siamo arrivati a queste cifre? Abbiamo considerato tutti i lavoratori dipendenti del settore privato presenti nella base dati Whip nell'ultimo mese dell'ultimo anno disponibile, dicembre 2003, e ne abbiamo ricostruito la storia contributiva. Abbiamo quindi applicato alle storie contributive individuali le regole per l'accesso alle prestazioni di disoccupazione 5 E abbiamo verificato quanti lavoratori a dicembre 2003 ne avrebbero effettivamente beneficiato, sia a requisiti pieni, sia a requisiti ridotti 6 . Dal 2003 a oggi, le regole per accedere alle prestazioni non sono cambiate e, pertanto, i tassi di accesso alle indennità possono essere aumentati da allora soltanto se le carriere dei lavoratori sono più continue a parità di salari reali, se i salari reali sono più elevati a parità di profili di carriera, o entrambe le cose. I nostri risultati mettono in guardia anche da ingenue estensioni del sussidio di disoccupazione ai lavoratori parasubordinati, così come è avvenuto nel 2007 con l'indennità di malattia. Secondo nostre stime, se applichiamo le regole di accesso alle prestazioni di malattia alle storie contributive dei parasubordina-

ti, vediamo che il 38 per cento di loro, pur formalmente coperto, non riuscirebbe a ottenerle, a causa del meccanismo dei requisiti contributivi e del metodo di calcolo e accreditamento delle mensilità contributive. Ancora più grave la stima relativa all'indennità di maternità per le lavoratrici parasubordinate, preclusa al 46 per cento di loro. Se l'estensione dell'indennità di disoccupazione ai parasubordinati avvenisse utilizzando i requisiti di contribuzione previsti per le indennità di malattia e maternità, in apparenza piuttosto blandi (tre mesi di contribuzione superiore ai minimi negli ultimi dodici), il 40 per cento di questi lavoratori ne resterebbe escluso. Che fare? Occorrono sussidi di disoccupazione di tipo assistenziale, soggetti alla prova dei mezzi. E in prospettiva, uno schema di mantenimento del reddito di stampo universalistico in caso di disoccupazione. In un mercato del lavoro come quello italiano, in cui i lavoratori atipici hanno salari inferiori ai tipici e carriere lavorative più discontinue, prestazioni sociali di tipo assicurativo non possono funzionare.

FABIO BERTON, MATTEO RICHIARDI E

sti lavoratori, sempre basata sui dati RCFL 2007 dell'IsTAT, potrebbe pertanto arrivare a 2.750.000, di cui circa 330mila in scadenza a dicembre. 4 Nostre stime su dati Plus. Whip è costruita sui dati amministra5 tivi dell'Inps, dunque le storie contributive che abbiamo ricostruito sono quelle reali. Non prendiamo in considerazione 6 l'indennità di mobilità nè la cassa integrazione guadagni: tali prestazioni sono infatti soggette a valutazioni discrezionali da parte dell'autorità pubblica e non configurano pertanto diritti soggettivi in capo al lavoratore.

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Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità del lavoro diventa precarietà, volume in uscita nel 2009 Fonte: dati RCFL ISTAT, 2007. 2 Dal computo dello stock di occupati 3 con contratto di durata prefissata abbiamo escluso circa 35mila lavoratori che dichiarano di essere "a termine", ma di non conoscere la forma contrattuale con la quale lavorano, nonché i lavoratori senzá contratto; all'interno di questi ultimi, Istat ne attribuisce circa 140mila alla categoria dei lavoratori con contratto di durata prefissata. Una stima meno conservativa dello stock di queSTEFANO SACCHI,

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Flessibilità e uuove forMe di sicurezza sociale: a proposito del Rapporto Supiot diAndrea Villa

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1 modello della fiexicurity è entrato a pieno titolo a far parte del dibattito sul mercato del lavoro europeo, assumendo, sempre più, i connotati di un obiettivo cui tendere. Questo saggio introduce e descrive il tema, cercando di coniugare il fascino e la ragionevolezza della proposta teorica con le sfide che essa pone agli individui e alle istituzioni. Per non giocare con le parole Il dibattito che da molti anni viaggia lungo il binario parallelo dell'estensione della flessibilità dei rapporti di lavoro e della riforma del sistema di protezione sociale non ha ancora raggiunto, nella concreta realtà, un giusto bilanciamento tra le ragioni dell'equità e quelle dell'efficienza. Da questo punto di vista, l'intento promosso negli ultimi anni in sede comunitaria è stato quello di stimolare i singoli Stati ad una sostanziale modernizzazione ed omogeneizzazione del mercato del lavoro. Tale intento è

stato fino ad oggi perseguito adottando, quale possibile obiettivo cui tendere, l'idealtipo della "flessicurezza" in stile nord europeo 1 Effettivamente, bisogna riconoscerlo, tale modello rappresenta uno degli spunti più interessanti per coloro i quali cercano di trovare un punto di equilibrio tra le ragioni derivanti dal mutamento dei contesti produttivi - efficienza e produttività del lavoro - e quelle relative alla promozione di un rinnovato insieme di diritti sociali. Tuttavia, l'avvicinamento delle realtà nazionali al modello della fiexicurity continua a pagare il dazio di un "pluralismo giuridico 112 endogeno, tanto ai singoli sistemi nazionali, quanto al grande mercato unificato. Quest'ultimo, da sempre caratterizzato da differenti modelli di Stato sociale e da eterogenee dinamiche evolutive del diritto del lavoro. Oltretutto, la stessa natura del termine in molti casi concreti "est un oxymore" 3 nella misura in cui sembra voler realiz.

L'autore è dottorando di ricerca in Sociologia, Università degli Studi di Firenze. 14

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zare la radicale riforma di due discipline distinte - la progressiva deregolazione del tradizionale rapporto di lavoro subordinato ed il conseguente adeguamento del modello di sicurezza sociale - insieme alla caratterizzante illusione di una sinergia di intenti che il concetto stesso lascia intendere: "La contradiction est ainsi au coeur du sujet: contradiction dans les intentions; contradiction dans les qffets supposés 114 Si tratta, infatti, di obiettivi e di riforme complesse che richiedono una grande capacità di sintesi e di coesione da parte delle forze politiche e sociali. Sovente, questo aspetto, che attiene alla efficacia delle relazioni industriali e a taluni aspetti di gestione della cosa pubblica, risulta latente o trascurato. Infatti, da un lato, la scelta delle modalità con cui introdurre tipologie flessibili di lavoro chiama, o avrebbe dovuto chiamare, in causa la capacità di dialogo e l'autorevolezza delle parti sociali nell'influenzare l'azione del legislatore, dall'altro, l'introduzione di nuove forme di protezione sociale coinvolge la capacità dello Stato nel reperire risorse per perseguire fini di equità distributiva. Equità, è giusto ricordano, non solo nell'allocazione delle pur fondamentali risorse pubbliche, ma anche dei diritti costituzionalmente garantiti. Queste ultime dinamiche sembrano essere effettivamente operanti con modalità differenziate nella gran parte degli Stati europei e anche da questo tipo di variabili scaturisce l'eterogeneità dei risultati finali. Eterogeneità che finisce col generare diseguaglianze di opportunità e disparità di trattamento tra lavoratori appartenenti a uno spazio comune di mercato. E non importa che siano que.

stioni endogene, ovvero di ineguaglianza tra lavoratori tradizionali ed atipici nel mercato nazionale, oppure rilevanti ai fini del mercato comune, come il differenziale salariale tra un lavoratore danese ed un analogo italiano o i differenti modelli di protezione sociale erogati. Si tratta, in tutti i casi, di diseguaglianze di un certo rilievo che rischiano di acuirsi ulteriormente alla luce della imponente crisi recessiva e dei suoi effetti sulla tenuta occupazionale dei vari rami produttivi. Occorre cogliere, nella differenza, tanto le regolarità di un modello di rapporti sociali in pieno sviluppo, quanto l'efficacia delle proposte e delle prospettive normative. Efficacia da mettere a disposizione di quei Paesi che, evidentemente, si trovano nella condizione di dover modernizzare il proprio mercato del lavoro, quand'anche di riprogrammare le proprie funzioni di utilità pubblica, perseguendo, sic et simpliciter, "un bilanciamento tra le ragioni dell'equità e quelle dell'efficienza". Tutto ciò premesso, sembra utile proporre ai lettori alcuni degli stimoli derivanti dalla dottrina europeizzante 5 evidenziando alcuni tra gli aspetti di uno degli studi più interessanti prodotti in questi ultimi anni, ovvero 4u-de1à de l'emploi: transformations du travail et devenir du droit du travail en Europe: rapport pour la Commission des Communautés européennes"6 frutto di una ricerca d'équipe coordinata dal giurista Alain Supiot per conto della Commissione europea. Il tutto cercando di estrarre alcuni spunti teorici da integrare alla specificità del contesto italiano. La consapevolezza della necessità di indirizzare il dibattito ,

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verso una possibile risoluzione dei nodi più scottanti che caratterizzano la realtà italiana del lavoro flessibile costituisce, indubbiamente, il leitmotiv di questo approccio ai temi del Rapporto. L'importanza del Rapporto Supiot Quel che concretamente dovrebbe distinguere il lavoro delle scienze sociali dalle eterogenee manifestazioni delle ideologie e della politica di parte risiede, primariamente, nella capacità di costruire un significato analitico in grado di interpretare il mutamento. Un significato che, nel caso del mercato del lavoro, riesca ad essere descrittivo degli effetti di tale mutamento sulle realtà istituzionali, così come sulle dinamiche concernenti la "liquida" 7 esistenza delle persone. Oltretutto, può essere utile ricordare una tra le difficoltà insite a tutte le comunità scientifiche: quella di riuscire a riconoscere il momento esatto in cui è opportuno emendare, se non addirittura abbandonare, una teoria o una categoria concettuale, al fine di produrre nuove interpretazioni al passo con la storicità del reale. A ben vedere, anche la progressiva introduzione di modalità flessibili di lavoro è stata a lungo interpretata attraverso "apologetiche neo-liberali sulle virtù maieutiche del mercato" 8, così come attraverso nozioni di tipo vetero-fordista. Interpretazioni, molto spesso, riconducibili nell'ambito della novecentesca contrapposizione tra pensiero liberai e communitarian: da un lato, l'ideale di una estrema deregolazione del mercato del lavoro, dove la flessibilità, in assenza di sicurezza, viene descritta come 16

una grande opportunità per tutti, oltre che come un'esigenza produttiva ed una efficace strategia occupazionale, dall'altro, l'altrettanto idealistico tentativo di riaffermazione delle tradizionali prerogative e tutele del lavoro subordinato a tempo indeterminato. Impostazioni, in entrambi i casi, figlie di schemi interpretativi da consegnare alla storia del ventesimo secolo. Allo stesso tempo, però, sembra indispensabile rilevare la permanenza di vere e proprie forme di rigidità istituzionale, riferendoci, in tal senso, alle difficoltà di alcuni contesti nazionali nel produrre nuove forme di sicurezza sociale; il che significa rilevare una sorta di impermeabilità delle istituzioni stesse al progressivo mutamento delle condizioni reali degli individui. E in questo contesto, infatti, che si producono e si riproducono le condizioni essenziali della libertà e dell'eguaglianza dei diritti dei lavoratori. Condizioni essenziali, è utile sottolinearlo, anche della stessa democrazia, oltre che dello sviluppo economico. In questo quadro, la "ben attrezzata" lettura di alcune delle regolarità caratterizzanti i mutamenti dei rapporti di lavoro nei vari contesti nazionali, assieme alla capacità di alimentare la prospettiva di un rinnovato "modello sociale europeo"9 rappresentano due validi motivi per cui il contributo dell'équipe Supiot°, con il trascorrere degli anni, conserva intatta la sua attualità. Un'analisi il cui valore sembra risalire alla capacità di costruire "il significato di mutazioni differenti che sottendono la stessa logica di mutamento" 11 Il mutato rapporto tra il prestatore ed il datore, il proliferare di multiformi ti.


pologie contrattuali, il nesso tra lavoro e tempo di vita, la funzione delle organizzazioni collettive e, non ultimo, il tentativo di definire alcune linee guida per la pubblica produzione di sicurezza sociale rappresentano i cinque nodi problematici oggetto delle attenzioni di questa ricerca. A partire da queste relazioni, il significato di alcune tra le più rilevanti dinamiche della moderna divisione del lavoro viene ricostruito tentando una concreta mediazione tra il punto di vista istituzionale e quello esistenziale del lavoratore. Mutamento che può essere ricondotto, nel Rapporto Supiot come in tutti i maggiori studi di questi anni 12 al tramonto del fordismo verso orizzonti che - seppur dai contorni non ancora del tutto definiti - prefigurano nuove dialettiche della modernità. Intorno al lavoro e alle sue trasformazioni assumono dunque nuova dislocazione i rapporti fra produzione economica e riproduzione sociale, fra tempi di lavoro e tempi di vita, fra autonomia e subordinazione, fra individuo e collettivo. Una dislocazione aperta, i cui esiti - tutt'altro che pregiudicati - dipenderanno dalla capacità che la società europea e le sue istituzioni sapranno mostrare nel governare politicamente i cambiamenti, nel solco della grande tradizione dello Stato sociaie novecentesco 1113 La consapevolezza della necessità di cogliere le nuove "dislocazioni" deriva direttamente dall'esigenza di abbandonare, tanto le forme di concettualizzazione che concepiscono il lavoro "per tutta la vita" parcellizzato, in serie e prevalentemente svolto dal capofamiglia poco istruito quanto un modello di protezione sociale rappresentato da uno Stato assistenziale , "

ed assicurativo che concepisce molti diritti sociali come direttamente mediati dalla sussistenza di una condizione di subordinazione e che considera la perdita del posto di lavoro quale evento contingente e non ricorrente. In linea generale, sembra possibile affermare, con Supiot, che, oggi, la maggior parte delle imprese hanno aspettative sempre maggiori rispetto ai loro lavoratori - in termini esistenziali, di livello di formazione, adattabilità, capacità di autonomia, mobilità e via dicendo - ma allo stesso tempo, non riescono più a garantire alcun tipo di sicurezza. Sicurezza che sia direttamente riconducibile al concetto di stabilità occupazionale: "là dove il modello fordista si basava sull'organizzazione stabile di gruppi di lavoratori, questi nuovi modelli si rifanno al• contrario a dei processi di coordinazione di individui mobili. Emerge così la necessità (e la difficoltà) di definire una nuova concezione di 'condizione professionale' che possa integrare l'individualizzazione e la mobilità dei percorsi di lavoro" 14 . Mobilità e individualizzazione sembrano, quindi, ridefinire i termini della subordinazione e della condizione stessa del lavoratore. Il tradizionale lavoro dipendente - ed il suo insieme di tutele e sicurezze - viene intaccato nella sua storicità, non soltanto dalla previsione legislativa di modalità contrattuali definite in un intervallo di tempo, ma anche - e non solo nel caso italiano - dai modelli "triangolari" di lavoro subordinato 15 che superano il cosiddetto "divieto di interposizione" 16 così come dalla previsione e dalla conseguente proliferazione di tipi di contratti più facilmente riconducibili al segmento ,

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dell'autonomia che a quello del lavoro dipendente 17. In virtù di ciò, la determinante della condizione del lavoratore finisce col migrare dalle circostanze interne ad un singolo rapporto di lavoro ad uno status esistenziale i cui termini e i cui diritti vanno ricercati nel nesso che si instaura tra il singolo lavoratore ed il mercato del lavoro nel suo complesso. La storia del diritto del lavoro novecentesco è ben rappresentata dall'evoluzione e dal conseguente miglioramento delle condizioni dei lavoratori e dall'implementazione dei diritti collettivi all'interno del rapporto di lavoro. Le problematiche e le nuove sfide disciplinari del diritto della sicurezza sociale e del giuslavorismo contemporaneo sembrano, invece, concretizzarsi sul terreno di una sempre maggiore enfasi della forza contrattuale del singolo lavoratore di fronte a una pluralità - o ad una sequenza - di controparti datoriali e di committenti. Forza che, nelle intenzioni, dovrebbe aumentare in ragione direttamente proporzionale al bagaglio di competenze ed alle professionalità acquisite. Sta di fatto che il rilevante potere contrattuale derivante da un'alta professionalità è effettivamente esercitabile soltanto da un segmento estremamente minoritario di lavoratori flessibili. Occorre, dunque, evitare che la flessibilità si trasformi in precarietà, ovvero in disoccupazione di lungo periodo e in forme di esclusione e marginalità sociale.

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Quale strategia per la sicurezza sociale? Come garantire il diritto ad accedere al lavoro? Potrebbe così essere utile porsi un quesito: quale deve essere la direzione di massima cui dovrebbero tendere le nuove strategie di sicurezza sociale in un contesto di sempre maggiore incidenza dei rapporti di lavoro flessibili sull'occupazione complessiva? In questo frangente, il contributo del Rapporto Supiot mostra tutta la sua originalità teorica. Un grande merito sta nel considerare il rapporto tra flessibilità e sicurezza quale luogo all'interno del quale è indispensabile ridefinire i termini generali di alcuni diritti fondamentali. Seguendo gli interessi specifici di questa trattazione, le fonti del diritto alla tutela della disoccupazione dovrebbero essere ulteriormente specificate in forza della complessità delle situazioni sociali e giuridiche che tale modello va generando nella media dei Paesi europei. Ad esempio, nel caso italiano, il principio costituzionale secondo il quale "i lavoratori hanno diritto che siano provveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di [ ... ] disoccupazione involontaria" 18 sembrerebbe, in virtù di ciò, necessitare di una specificazione ulteriore - di una maggiore attenzione verso la tutela della libertà di scelta individuale - anche al fine di meglio orientare e determinare l'azione tecnico-giuridica del legislatore. Avremmo, quindi, tre situazioni rilevanti per la sicurezza sociale del lavoratore: "Prima di tutto, la ricerca di un impiego, che può ben riguardare tanto i giovani al termine della loro formazione quanto


i disoccupati: a questa situazione corrisponde un diritto di accesso a/lavoro; in secondo luogo,.la discontinuità dell'impiego, che può derivare da politiche di flessibilità interna (modificazione o trasformazione del lavoro) o esterna (ricorso al lavoro precario). A questa discontinuità dell'impiego, il diritto del lavoro tende ad associare oggi un principio di continuità dello "status" professionale; infine, la perdita dell'impiego: è il dominio tradizionale delle leggi in materia di licenziamento, che non hanno più solo l'obiettivo di difendere i lavoratori subordinati dalla perdita del lavoro esistente, ma anche quello di offrire loro nuove opportunità, con l'emergere di un diritto a un nuovo avviamento al lavoro"19 Naturalmente, tale impostazione non viene costruita al fine di rendere possibile una previsione degli sviluppi futuri delle legislazioni, nazionali in materia, bensì quello "di riflettere sulle categorie di pensiero che emergono dall'analisi delle attuali trasformazioni dei modelli lavorativi, in modo sufficientemente generale perché ciascun Paese possa appropriarsi di tali considerazioni secondo le proprie caratteristiche" 20. Così, l'apparente aleatorietà di tali considerazioni ha il pregio di indicare, con estrema chiarezza, una strada giuridicamente e socialmente sostenibile. Un percorso all'interno del quale si produrrebbero effetti concreti di responsabilità sociale, non solo per quanto riguarda il fondamentale ruolo dello Stato, bensì, su tutti i soggetti protagonisti delle relazioni del lavoro (imprenditori, lavoratori e sindacati). La transizione dall'attuale vigente status di disoccupazione - o di inoccupazione - meramente assistenziale, alla .

considerazione della necessità di tutelare la continuità dello status professionale, racchiude in sé un indirizzo di policy all'interno del quale le imprese (e i sindacati) possano essere realmente protagoniste tanto del processo produttivo, quanto di quello formativo, di implementazione delle competenze e di innovazione organizzativa: "possiamo così osservare una certa tendenza in Europa a considerare le imprese non più come centri di produzione, ma anche come centri diformazione. Una nazione non si forma unicamente sui banchi di scuola, ma anche nelle imprese. Quest'idea dovrà essere promossa in tutti i settori della legislazione sociaie nei iavoro 21 Ancora, per meglio comprendere la nozione inclusiva di status professionale, sembrerebbe opportuno, secondo il Rapporto Supiot, prendere in considerazione l'ampio spettro di attività lavorative svolte all'interno della società dai cittadini, al di là delle tradizionali categorie di subordinazione stabile e retribuzione: "la nozione di lavoro salariato si è costruita gettando nell'ombra tutte le forme di lavoro non di mercato, quali l'autoformazione o il lavoro a titolo gratuito. Essa si è costruita anche per opposizione al lavoro indipendente [ ... ] La difficoltà è oggi quella di riuscire a percepire la 'condizione lavorativa' delle persone come qualcosa che oltrepassi l'impegno contrattuale del loro lavoro per abbracciare la diversità delle forme di lavoro sperimentate nella vita umana" 22. D'altronde, un siffatto status professionale sembrerebbe collimare in pieno con il cosiddetto paradigma dell'individualizzazione, sfuggendo, altresì, alla "solitudine del cittadino globale"23 descritta da Zygmunt 1

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Bauman. Una impostazione in cui ai cittadini ed alle formazioni sociali vengono attribuite sempre più responsabilità oltre che diritti, in forza del crescente desiderio di essere artefici della propria vita e dei propri progetti, non trascurando la promozione di forme di solidarietà ed utilità sociale. In questo quadro, "lo Stato appare innanzitutto come il garante del rispetto del principio di uguaglianza tra i cittadini"24. La cifra del dibattito politico-giuridico non dovrebbe essere più quella del XD( secolo sull'opportunità di scegliere tra laisser-faire ed intervento pubblico, bensì quella sulla capacità delle odierne democrazie costituzionali di continuare a produrre coesione sociale e condizioni di libertà alla luce del progressivo ed inarrestabile incremento di modalità di lavoro ed esperienze di vita tutt'altro che lineari. Utilità di una visione a cerchi concentrici

Normativamente parlando, tale capacità è realizzabile facendo riferimento ad una teoria dei "cerchi concentrici" dei diritti sociali, parzialmente desunta dall'evoluzione ael diritto positivo nell'ambito delle legislazioni dei Paesi membri. Il primo cerchio esterno è quello relativo ai diritti sociali "universali", cioè garantiti a tutti indipendentemente dal loro lavoro; due esempi validi possono essere l'assistenza sanitaria e l'istruzione obbligatoria. In linea di principio, secondo il Rapporto Supiot, in questo cerchio dovrebbe essere inclusa anche la formazione continua. Si potrebbe aggiungere 20

anche una protezione dei nuclei familiari bisognosi sui generis. Il secondo cerchio dovrebbe essere quello relativo ai diritti fondati sul lavoro non retribuito, non di mercato (dalla cura alla persona, alla famiglia, all'autoformazione, al volontariato e così via). "Questo lavoro è ben lontano dall'essere misconosciuto dal diritto sociale: numerosi testi legislativi, in effetti, legano l'accesso a determinati diritti sociali all'esercizio di un'attività socialmente utile" 25 (diritti previdenziali legati all'educazione dei bambini, così come per le attività di volontariato e di economia sociale, borse di studio e così via.). Il terzo cerchio è quello di un diritto comune dell'attività professionale. Alcuni di questi temi sono già stati posti in essere a livello comunitario (sicurezza ed igiene). Al di là del profilo comunitario, alcune realtà nazionali dovrebbero compiere passi al fine di elevare il regime di sicurezza sociale del lavoro a questo livello, uscendo dal contesto ristretto della subordinazione tradizionale (sussidi e formazione). Il quarto cerchio è quello del diritto proprio del lavoro dipendente retribuito e, in linea di massima, stabile. Quest'ultimo non dovrebbe contenere che le disposizioni direttamente legate alla condizione di subordinazione 26 e fare posto ad una "gradazione di diritti in funzione dell'intensità di tale subordinazione" 27 Seguendo questo schema concentrico, oltre ad estrarre importanti diritti sociali dalla mediazione della subordinazione (come la tutela della famiglia e delle attività connesse), si potrebbe definire uno status professionale che sia in grado di coprire "i periodi di inattività propria.


mente detti quanto i periodi di formazione, di lavoro dipendente retribuito, di lavoro indipendente o di lavoro al di fuori del mercato. Al paradigma del lavoro di mercato sarà così sostituito un paradigma della condizione lavorativa delle persone che non viene definita dall'esercizio di una professione o di un impiego determinato, ma che ingioba le diverse forme di lavoro (di mercato e non) che ogni persona è suscettibile di compiere nel corso della propria esistenza" 28 Da questo punto di vista, la questione centrale non è se introdurre o attenuare forme contrattuali di lavoro flessibile, la cui irreversibiità è sotto gli occhi di tuti. E piuttosto quella della promozione di una libertà concreta, ovvero di un contesto in cui la libera scelta sia possibile (il diritto di accesso al lavoro - di mercato e non - e alla continuità dello status professionale) e in cui la fles sibilità possa, altresì, divenire una funzione di utilità per tutti (individui e collettività) 29 "Fare spazio alla libertà individuale nella definizione dei diritti sociali obbliga a rompere con la concezione dominante di questi diritti, che sono stati definiti come la contropartita di rischi o soggezioni particolari. Q.yesta concezione è in parte legata alla figura passiva del lavoratore, che subisce contemporaneamente i rischi di vita e quelli legati alla subordinazione"30. In questo senso, anche gli eventuali costi (pubblici e privati) legati alla produzione ed alla riforma di aspetti determinanti della sicurezza sociale muterebbero funzione: da mero trasferimento di natura assistenziale a vera e propria forma di investimento sociale. .

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Sul caso italiano Evidenziare la distanza che intercorre tra le realtà concrete in cui la flessibilità si è realizzata con un certo grado di sicurezza sociale - come nel caso danese - e la specificità italiana, non è un terreno sul quale vale molto la pena soffermarsi. Tuttavia, due circostanze significative credo meritano di essere prese in considerazione, alla luce della tipizzazione di tali modelli. In primo luogo, quando parliamo di Jlexicurity, prendiamo in considerazione realtà nazionali in cui vige una disciplina del rapporto di lavoro subordinato tradizionale meno rigida rispetto alle caratteristiche della legislazione italiana. Nello specifico, la disciplina del licenziamento (quello economico-organizzativo) non è assoggettata al controllo del giudice creando, in partenza, una parità sostanziale di condizioni all'interno del mercato del lavoro (il tutto bilanciato da una indennità di disoccupazione erga omnes, formazione eccellente, uffici del lavoro cogestiti da autorità pubbliche locali, sindacati e imprese) 31 In secondo luogo, il contesto molto incisivo delle relazioni industriali e della concertazione (economia negoziata), ha saputo imprimere una strategia non meramente corporativa, bensì di interesse nazionale, contribuendo alla formazione di una sfera pubblica sulla fiexicurity quale modello di sviluppo per tutti. Non è errato prendere in considerazione questi aspetti legati alle civic attitudes delle organizzazioni e del corpo sociale nel suo complesso. Tratti indi$pensabili al fine di produrre, non solo una dialettica, bensì anche una consapevolezza diffusa .

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dei costi e delle sfide che tale modello trascina con sé 32 Tutto questo, senza trascurare il peso incidente di altre importanti variabili osservabili in quei Paesi che oggi suscitano l'interesse del dibattito sul mercato del lavoro: come ad esempio, il diverso peso demografico, il tasso medio di istruzione più alto, le condizioni favorevoli di bilancio pubblico e la minore quota di spesa pensionistica sul totale di quella destinata alle politiche sociali. Ritengo, però, fondamentale porre l'accento su queste due condizioni (parità tra le diverse forme contrattuali e costruzione di una sfera pubblica) per contribuire ad una migliore comprensione del differente quadro istituzionale - ovvero della volontà politica e sindacale - che ha caratterizzato e caratterizza il nostro Paese. L'introduzione 33 e conseguente proliferazione delle modalità flessibili di rapporto di lavoro, in Italia, è avvenuta, non soltanto in una ben nota assenza di una riforma del modello di protezione sociale, ma anche attraverso la, pressoché totale, sottovalutazione di questi due elementi strutturali, indispensabili per una fiexicurity realmente praticata. Sottovalutazione che ha finito per corrispondere ad una vera e propria frammentazione culturale del mondo del lavoro, inficiando direttamente sulla possibilità di mantenere un fronte unitario di sviluppo degli interessi di quella parte 34 Arriviamo, così, a ragionare, utilizzando la metafora di Pietro Ichino, di quella grande mela divisa in due parti che è il mercato del lavoro italiano. Da una parte, lavoratori molto protetti (pubblici e privati), tra cui più di cinque milioni e mezzo dipendenti di imprese di medie .

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e grandi dimensioni; tutelati dal sindacato, dai contratti collettivi, dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori 35 e così via. Dall'altra metà, una porzione altrettanto rilevante di lavoratori per i quali i diritti - interni ed esterni al rapporto sono considerevolmente attenuati, quando non del tutto azzerati: i dipendenti delle piccolissime imprese, i dipendenti a tempo determinato, i somministrati, i collaboratori autonomi, "a progetto", quand'anche i disoccupati e i lavoratori del sommerso. Di fronte alla progressiva frammentazione del mondo del lavoro non è più possibile fare riferimento, solo ed esclusivamente, ad una strategia occupazionale funzionale all'emersione della disoccupazione e del sommerso. "Le stime attuali in Italia parlano di più di 4 milioni di lavoratori atipici, il 35% circa della forza lavoro complessiva. La consistenza di tali forme contrattuali, inoltre, aumenta se si guarda ai nuovi contratti avviati con lavoratori al di sotto dei 35 anni, tra i quali è ben il 65% ad essere atipico 1136 . Un fenomeno trasversale che coinvolge tutto il mercato: dai contesti del lavoro poco qualificato agli ambiti altamente specializzati della ricerca scientifica. Così, la flessibilità, in assenza di sicurezza, cominciando ad assumere i connotati di un processo pervasivo di riorganizzazione dei rapporti di produzione, diviene, altresì, una cogente "questione sociale". Quest'ultima, direttamente connessa al problema della instabilità occupazionale: "I lavoratori stanno vivendo la crisi economica in modi molto diversi tra loro. Ci sono quelli - soprattutto dipen-


denti pubblici stabili, ma non soltanto - che dalla crisi traggono vantaggio: al riparo dalla tempesta, beneficiano della riduzione della rata del mutuo e di molti prezzi al consumo. Poi ci sono quelli che invece questa crisi la soffrono, eccome. Centinaia di migliaia di titolari di contratto a termine, lavoratori 'a progetto', 'partite Iva' simulate, che hanno perso o stanno perdendo il posto senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennità di disoccupazione. I dipendenti di aziendine cui è stato tolto l'appalto di servizi. I lavoratori in cassa integrazione, che allo scadere della cinquantaduesima settimana perdono il sussidio. Stanno col fiato sospeso anche i lavoratori di aziende private per i quali fin qui il lavoro non e mancato, ma e pur sempre a riscnio "37 E, proprio, in un contesto di congiuntura recessiva e di asimmetria del mercato del lavoro che, a mio avviso, si corre il rischio di rinviare ulteriormente la realizzazione di uno status professionale e di un diritto di accesso a/lavoro38 che superi le farraginosità e le manchevolezze di una sicurezza sociale incardinata nel modello della subordinazione tradizionale. Basti

pensare - oltrepassando, per un attimo, l'importante problematica degli ammortizzatori sociali - che l'attuale previsione, sia legislativa che giurisprudenziale39, è quella secondo cui, per il "precario", vale il principio della conservazione e non sospensione dello status di disoccupazione. Solo per rendere l'idea della distanza che intercorre tra questa formulazione e l'affascinante proposta normativa del Rapporto Supiot. in conclusione, i apparente prospettiva di medio termine, sembra essere ancora quella di mantenere in vita il, più semplice, assunto secondo il quale i lavoratori flessibili - anche loro - "hanno diritto che siano provveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di E ... ], disoccupazione involontaria"40. Tuttavia, anche se questo obiettivo venisse raggiunto, lo abbiamo intuito, saremmo ancora molto lontani dalla teoria descritta in questa sede. Teoria nell'ambito della quale la flessibilità possa trasformarsi, per il lavoratore e per il cittadino, in una libera e progettuale scelta tra le opportunità della vita.

"At the request of the Coundil, the 1 Commission has launched a public initiative, in dose cooperation with the European social partners, in the form of a 'Mission for Fiexicurity", in «http://ec.europa.eulsociallmain. jsp?catld=118&langld=en». Vedi anche: Strategie di Lisbona (Consiglio Europeo del 23 e 24 marzo 2000); il Green Paper sulla modernizzazione del diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI sec., 22/11/2006; la Comunicazione del 27/06/2007 dal titolo "Verso principi comuni in materia dijlexicurity".

Il concetto di"pluralismo giuridico" 2 viene utilizzato in un'accezione più marcatamente istituzionale rispetto ai tradizionali contenuti delle definizioni sociologiche di: E. EHRLICH, 1913, trad. it. a cura di A. FEBBRAiO, 1976; e di J. GURVITCH, 1935. "E un ossimoro", F. GAUDU, De laJle3 xicurité à la sécurité sociale professione//e. L'emploi enti-e mobilité et stabilité, in «Formation Emploi», n. 101, 2008. 4 "La contraddizione è il cuore della questione: contraddizione nelle intenzioni; contrad-

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dizione negli effetti supposti", Ibidem. 5 A. SUPIOT, Au-delà de l'emploi: transformations du travail et devenir du droit du travail en Europe: rapport pour la Commission des Communautés européennes, Flammarion, 1999; trad. it. a cura di E. MINGI0NE, P. BARBIERI, Iljìituro del lavoro, Carocci, 2003. Ibidem. 6 7 Utilizzando un vocabolo caro a Zygmunt Bauman (1999). 8 S. LEONARDI, Recensione. I/futuro del lavoro secondo Alain Supiot, in «Assistenza Sociale>', n. 01-02,2003, p. 262. 9 Secondo un'opinione molto diffusa (HABERMAS 2003, SHAW 2003, ALLEGRETTI 2003) ed egemone nel giuslavorismo più avanzato (GIuBB0NI 2003, SCIARRA 2003, BERGusssoN e altri 2002, SUPIOT 1999) la posta sostanziale in gioco nel processo di costituzionalizzazione dell'Unione risiede nella creazione di un Welfare State di stampo continentale che recepisca la ratio egualitaria e solidaristica dei sistemi europei di protezione sociale del secondo dopoguerra, anche se aggiornandone forme istituzionali e cataloghi dei diritti. 10 Commissione che ha lavorato al Rapporto su "Trasformazioni del lavoro e il futuro della regolazione del lavoro in Europa", preparato per la Direzione generale lavoro e politiche sociali della Commissione europea da un gruppo di esperti di diversi Paesi e discipline (giuslavoristi, sociologi ed economisti), sotto la direzione di Alain Supiot. Il testo finale del rapporto è stato presentato a un convegno europeo svoltosi a Madrid nel giugno del 1998 e successivamente pubblicato in varie lingue. 11 P. BARBIERI, E. MINGIONE, P. 11; in A. SuPI0T, 2003. 12 Cfr. U. BEcK, 1999; L. GALLINO, 2001; G. FULLIN, 2005; A. ACCORNERO, 2006. 13 S. LEONARDI, 2003, pp. 261-262. 14 A. SupioT, 2003, p. 41. 15 Ti cosiddetto lavoro somministrato, ex intèrinale. Il rapporto triangolare scaturisce dai tre soggetti operanti: il datore, il lavoratore e l'utilizzatore. La prestazione lavorativa, chiamata missione, si realizza, in verità, attraverso la stipula di due contratti: quello del lavoratore con il datore (agenzia di somministrazione autorizzata) e quello del datore con l'utilizzatore. 16 Legge 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 24

1, abrogato dall'art. 85, com. 1, let. c, del D. Lgs. 276/03. 17 Il lavoro a progtto, Co. Co. Pro. 18 Art. 38, com. 2, Costituzione. 19 A. SuPI0T, 2003, p. 43.

20

Ivi,p.63.

21 Ivi,p.45. 22 Ivi,p.64. 23 Z. BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Feltrineffi, 2000. 24 A. SupioT, 2003, p. 139.

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Ivi,p.66.

26 In questo frangente, occorre ricordare che nei modelli ancora marcatamente fordisti di Stato sociale coloro che non lavorano fruiscono di molti diritti sociali solamente per via indìretta, derivandoli, cioè dal rapporto di parentela col lavoratore subordinato (come nel caso delle politiche per la famiglia in Italia). 27 Ricorda, per l'aspetto delle tutele crescenti, l'idea del "contratto unico" discussa in Italia con la proposta dottrinale: T. BOERI, P. GARIBALDI, Un nuovo contratto per tutti, Chiarelettere, 2008. Così come in Francia. A tal proposito vedi anche: F. GAUDU, 2008. 28 A. SUPIOT, 2003, p. 66. 29 Vedi anche nozione di diritti di prelievo sociale: ivi, pp. 66-6 8. Ibidem. 30 31 Cfr. 7 F. GAUDU, 2008, pp. 74-75. 32 In tali realtà, infatti, i livelli contributivi, così come la fedeltà fiscale, sono tra i più alti. 33 I cui riferimenti normativi sono, in estrema sintesi: 1. n. 196/97; 1. n.30/2003 e d.lgs. n.276/03 34 Si rileva l'emergere di un corporativismo, non soltanto tra le controparti contrattuali, bensì anche tra gli interessi progressivàmente divergenti dei lavoratori tradizionali rispetto a queffi flessibili. 35 L. n. 300 del 20 maggio 1970. 36 TNPS, Regolarità, normalità e tutela. 11 rapporto su immigrati e previdenza negli archivi Inps, 2007, p. 34. 37 P. Ic-iir4c, Primo maggio coljiato sospeso, in «Corriere della Sera», 1 Maggio 2009. 38 Vedipar.3. 39 Dal punto di vista legislativo: d. lgs. 297/2002. Dal punto di vista della giurisprudenza: sentenza della Corte di Cassazione, n. 48361/08. 40 Art. 38, com. 2, Costituzione.


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La privatizza.zioue del rischio

C'è stata una polemica forte nei confronti degli economisti intorno alla questione 'perché non avete previsto in tempo la crisi o, comunque, l'avete prevista male' Ci sono state molte risposte. Per tutte, si può citare quella di Ignazio Visco (in La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti, Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza' 4 marzo 2009, Roma). Secondo questo autore, premesso che "l'incubazione di questa crisi si è a lungo sviluppata in un ambito che è al di fuori delle capacità conoscitive dei modelli macroeconomici", "l'incapacità di anticipare l'evoluzione della crisi è innegabile' Quello che però c'è da chiedersi è se il punto stia soltanto nella capacità delle discipline economiche e dei modelli di previsione da queste formulati. Se la domanda fosse soltanto questa, dovremmo trarre intanto una conclusione: che viene data per presupposto laprevalenza se non l'esclusività della scienza economica nel considerare, cioè valutare e prevedere, fenomeni dell'ampiezza di crisi come quella che stiamo vivendo a tutti i livelli, mondiale e nazionale. Certamente, si può rimproverare alla scienza economica l'insufficiente analisi di aspetti importanti del verificarsi delle crisi. Per esempio, ci si è chiesti se ci sia un'adeguata teoria analitica non tanto della crisi quanto specflcamente delle "bolle speculative". Questa osservazione è stata ripetuta recentemente anche da ambienti di analistifinanziari. Ma a parte alcune spec/iche lacune della scienza economica, abbiamo la convinzione che il problema stia sempre più nei Chinese walls che tengono distinte e separate le scienze sociali. Sempre più specializzazione disciplinare, sempre meno interesse al lavoro interdisciplinare. Questo è il problema. Il fattore di crisi costituito dall'espansione dei mutui sub-prime ha radici sociali che avrebbero dovuto essere colte ed esaminate. Senza dire del rapporto fra crisi e cicli politici. È quello che ha ben colto, parecchi anni addietro, il SSRC quando ha dato inizio alla ricerca di cui riferisce l'articolo di Jacob S. Hacker, pubblicato in questo dossier. Che caratteristiche ha La privatizzazione del rischio e quali effetti produce? Fino a quali limiti 25


può essere spinta? In fondo, l'esplosione dei "sub-prime" ha a che fare moltissimo con questi quesiti. Si tratta, però, di quesiti che non possono essere qifro ntati soltanto con gli strumenti analitici della scienza economica. Essi interpellano necessariamente l'apporto di molte altre scienze sociali. (S.R.)

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queste istituzioni n. 153 aprile-giugno 2009

La crescente insicurezza ecollomica degli americani dopo la progressiva privatizzazione del rischio* diJacob S. Hacker uando, nel settembre 2005, l'urgano Katrina si abbatté sulla Costa del Golfo, seminando morte, macerie e devastazione, agli americani fu ricordato che il rischio è parte integrale della vita quotidiana. I disastri naturali sono una lente i ingrandimento nella percezione che la gente ha del fato e della responsabilità; pertanto, quello che le ripercussioni dell'uragano hanno reso chiaro è che secondo la maggior parte degli americani - pur con tutta la loro fede individualistica orientata alla responsabilità personale - alcuni rischi devono essere affrontati come problema collettivo, comune a tutti, da affrontare in modo efficace solo con il ricorso a politiche cooperative di assistenza ed assicurazione. L'uragano Katrina ha creato, insomma, l'impressione forte che il rischio sia un fattore di aggregazione, in grado di mettere insieme le persone, creando comunità legate da una medesima sorte. Tuttavia, alla fine, il rischio è anche fattore di separazione delle comunità, quando la Società fronteggia il rischio in modi differenti. La sfortuna individuale talvolta è imputata all'imprudenza e all'irresponsabiità del singolo. oppure può .essere addossata all'azione di forze misteriose fuori dal controllo umano. A questo punto si può pensare di contrastare il rischio attraverso istituzioni private di mercato, o attraverso l'intervento di Strutture comunali, cioè con l'azione dei governi locali, oppure facendo appello al potere dello Stato nazionale. Ancora, si può immaginare una combinazione di tutti questi livelli di intervento. Per non dire che il rischio può anche essere ignorato, lasciando che gli individui e le famiglie facciano fronte nel miglior modo che sarà loro possibile, ma senza alcun sostegno. C in ogni caso una costante: il rischio è sempre una condizione sociale, sia che si tratti dell'esitodell'azione umana o della natura, sia che costituisca minaccia per i conti economici o per l'integrità personale. Non si ha rischio - in quanto probabilità di esito positivo o negativo - senza la varietà propria dell'esperienza umana. Il rischio rende alcune persone fortunate ed altre sfortunate, alcune ricche ed altre povere, alcune sane altre malate, alcune integre altre disabili. Il rischio crea esso stesso la varietà nella condizione umana, e quindi va considerata l'opportunità, da parte delle istituzioni sociali, di ripartire equamente i costi delle conseguenze del rischio tra tutti, così da alleggerire il carico dei singoli. L'autore è Professore associato "Peter Strass Family" di Scienze Politiche presso la Yale University. 27


Storicamente, avviene che tali istituzioni non siano quasi mai prefigurate con anticipo, ma mobilitate dalle contirigenze, in modo assai imperfetto. Sono così il prodotto delle istituzioni di mercato e delle organizzazioni politiche che riproducono - e spesso distorcono - le preferenze dei singoli e la domanda sociale nel suo insieme. Nonché, sono modificate dai significati, oggetto di attività interpretativa, così come attribuiti alle diverse situazioni dagli esperti analisti del rischio. Questi processi di interpretazione circa la percezione che le vittime hanno di se stesse e che gli altri hanno delle vittime spiegano in gran parte perché alcuni rischi sono visti come problemi collettivi ed altri invece come vicende e sventure individuali, o addirittura come veri e propri imprevisti. Il Social Science Research Council sta lavorando da tempo, con il progetto "Privatizzazione del Rischio", a tutti questi proftli di vitale importanza. L'oggetto specifico di studio è dato dall'insieme dei rischi economici con i quali gli americani devono confrontarsi in questo inizio del XXII secolo: quali sono le cause di tali rischi? In che cosa differiscono (se sono differenti) dai rischi del passato? Come si pone la gente di fronte ad essi? Ed i governi e il settore privato? Come si può risolvere il problema nel futuro? Il titolo del progetto (Hacker 2004) vuole porre l'accento su due trend collegati all'interno della gestione del rischio economico negli Stati Uniti. Il primo è quello dell'attuale apologia del settore privato quale unico e migliore mezzo per risolvere qualunque sorta di problema. Questo entusiasmo nei confronti delle soluzioni miracolose offerte dal settore privato non è certo nu6vo. Negli USA, la convinzione che debbano essere le istituzioni economiche private a gestire i rischi economici è di lunga data, con profonde radici nella cultura politica e nel contesto delle politiche sociali statunitensi, così come sono nate e si sono sviluppate (Hacker 2002). Eppure, oggi si assiste ad una ridefinizione di tale foga, alla quale si accompagna una generale sfrenata fiducia nelle nuove tecnologie e nei nuovi atteggiamenti sociali, quali soluzione definitiva ai problemi di gestione del rischio da parte delle istituzioni finanziarie e delle assicurazioni private. Secondo questa crescente fiducia cieca, il settore privato non solo dovrebbe poter gestire maggiori rischi, ma anche meglio di quanto farebbe qualunque governo. Queste considerazioni ci portano al secondo trend: lo spostamento delle responsabilità di gestione del rischio dal governo e dai lavoratori agli individui ed alle loro famiglie. Ho definito tale fenomeno "The Great Risk Shift" (Hacker 2006). Si tratta, secondo me, della trasformazione economica fondamentale del nostro tempo. La gestione individuale del rischio economico propria del capitalismo moderno - sia con il ricorso a fondi pensionistici privati, sia con investimenti personali in istruzione ed immobili - non è mai stata così diffusa e celebrata come oggi. Con questa forma di responsabilità si impongono anche alcuni nuovi interrogativi urgenti sulla capacità del singolo di percepire, pianificare e fronteggiare i rischi maggiori per la propria sicurezza economico-finanziaria.


Naturalmente, all'interno del Gruppo di studio del SSRC non vi è un unico punto di vista sul tema. Né sulle soluzioni possibili. Il trait-d'union è l'impegno a confrontarsi con un problema dalle mille sfaccettature, fonte di preoccupazione per il futuro economico degli Stati Uniti: quanto è aumentato il fenomeno della privatizzazione del rischio? Quali sono i fattori che l'hanno creato e configurato così come è oggi? Che cosa comporta per le famiglie americane? Il rischio può costituire un concetto di unione nella vita sociale. Qualcosa del genere avviene con le scienze sociali. Illustri studiosi di diversi ambiti cercano di mettere a frutto le proprie conoscenze e ricerche. Molti studiosi e ricercatori si sono impegnati a definire il concetto di "rischio" al fine di esaminare e rendere comprensibili alcuni strategici ambiti che sono rimasti inesplorati della vita sociale, politica ed economica. La privatizzazione del rischio non potrebbe essere tema più adatto ad una discussione di tipo interdisciplinare. CRESCITA DELL'INSICUREZZA ECONOMICA DELLE FAMIGLIE AMERICANE

Rispetto alle passate generazioni, i rischi economici delle famiglie americane sono aumentati in misura drammatica, a causa dei cambiamenti congiunti che si sono verificati all'interno dei luoghi di lavoro e delle stesse famiglie. I programmi pubblici per lo più sono stati fallimentari nel tentativo di adattarsi ai nuovi, intensificati, rischi; contemporaneamente, le misure private pensate per i lavoratori hanno visto erodere i propri effetti benefici. Sicché, ,i cittadini americani sono sempre più in un equilibrio economico precario, senza paracadute nel caso in cui, come sembra sempre più probabile, si trovino in gravi difficoltà. Il risultato non è solo una forte ansia per il futuro ed un ménage stentato. Vi è anche una incertezza economica di fondo che frena le scelte di investimento rischioso - per la casa, l'istruzione, i risparmi - e le conseguenti opportunità di prosperare in un contesto di incertezza economica che tuttavia rimane fortemente dinamico. I segnali della crescente insicurezza economica sono ovunque. Le percentuali di faffimento dei singoli si sono quintuplicate negli ultimi venticinque anni (Warren 2005; Jacoby 2005). Così quelle di pignorarnento ipotecario, che si sono triplicate a partire dai primi anni ottanta (e sono cresciute di nove volte dall'inizio del 1950). La percentuale di perdita del lavoro è anch'essa cresciuta (Farber 2005), la capacità di uomini attivi anche in età avanzata di conservare il lavoro è in calo, e lbsolescenza delle conoscenze e delle abilità professionali è sempre più rapida. I livelli di indebitamento personale sono schizzati alle stelle. Le principali forme di ricchezza delle famiglie principalmente, case e partecipazioni azionarie - sono esse stesse a rischio crescente. Nel frattempo, i lavoratori sono stati costretti a passare da un sistema pensionistico retributivo che assicurava loro una pensione precisa, ad uno contributivo - come i cd. piani 401(k) - che invece aumenta i rischi e le responsabilità scaricate sulle spalle del singolo lavoratore alle prese con la scelta del proprio piano pensiorlistico. 29


Per oltre un decennio, il numero e la percentuale di americani privi di un'assicurazione sanitaria hanno continuato ad aumentare quasi ininterrottamente. In soli due anni, una media di uno su tre cittadini non anziani si trova senza assicurazione (Families USA 2003). E comunque, non sono solo i non assicurati a dover fronteggiare eventuali rischi finanziari. Nel 2004, più di 14 milioni di persone non anziane hanno dovuto pagare premi assicurativi e spese mediche per un valore pari al 25% dei loro guadagni; 10 milioni di loro erano assicurati (Families USA 2004). Negli USA, le spese mediche e le crisi economiche sono fattori di bancarotta per circa il 50% degli individui, e l'80% delle famiglie in fallimento a causa delle spese mediche hanno un'assicurazione sanitaria (Himmelstein et. al. 2005). Non dovrebbe sorprendere se, sondaggio dopo sondaggio, si scopre che gli americani sono sempre più pessimisti sulle sorti dell'economia e sulla propria sicurezza economica (Newport 2005). Forse, la principale evidenza della crescente insicurezza economica è l'aumento della volatilità delle entrate delle famiglie. Insieme a Niagara Nargis dell'Università di Dhaka, ho esaminato la variabilità dei redditi delle famiglie con l'uso del Panel Study of Incombe Dynamics (PsID), una banca data gestita dall'Università del Michigan che, a partire dalla fine degli anni sessanta, ha registrato informazioni su un gruppo di famiglie rappresentativo a livello nazionale. L'importanza di questi dati sta proprio nella loro continuità di monitoraggio, diversamente da molte statistiche del governo - tasso di disoccupazione, indici di povertà, distribuzione del reddito annuale - che invece fotografano un particolare momento nella vita delle famiglie, senza offrire quel quadro dinamico, in forte movimento, in grado di mostrare con continuità quello che avviene alle persone nell'arco di alcuni anni (Pierson 2004). Seguendo le famiglie di anno in anno, il PsID consente di tracciare un profilo davvero dinamico ed evolutivo delle traiettorie verso l'alto e verso il basso che interessano i cittadini americani nel corso della loro vita. Sulla base di questo ritratto, emerge che le famiglie non solo sono marginalizzate economicamente, ma sperimentano una sempre crescente instabilità nel tempo delle proprie entrate. A partire dai primi anni settanta (Grafico 1), la volatilità dei redditi delle famiglie negli Stati Uniti è cresciuta. Essa è maggiore per le donne rispetto agli uomini, per i neri e gli ispanici rispetto ai bianchi, per i meno istruiti rispetto agli istruiti. A ciò si aggiunge il fattore della dimensione del nucleo famigliare, mentre la volatilità è ugualmente distribuita fra tutti i membri adulti. Comunque, la volatilità ha registrato un'impennata per, tutti i gruppi sociali, con diversi valori di base ma con gli stessi tassi di crescita, che si tratti di persone istruite o non. La crescita complessiva della volatilità è stata più veloce di quanto sia stata quella della disuguaglianza economica nella passata generazione. La volatilità dei redditi delle famiglie non è una misura della difficoltà economica, così come la volatilità di stock non è una misura del rendimento economico. Una maggiore volatilità può riflettere una accresciuta mobilità sociale, o può rappresentare un effetto per lo più positivo del rapido aumento delle entrate delle famiglie. Sfortunatamente, nessuna di queste ottimistiche interpretazioni dell'aumentata volatilità 30


sembra garantita. La mobilità sociale in America è oggetto di disputa, ma si può dire che in genere, secondo gli analisti, essa - intergenerazionale o all'interno della vita lavorativa del singolo - non è maggiore rispetto ad una generazione fa, anzi è forse inferiore. Né sembra possibile affermare che negli Stati Uniti essa sia rimarchevolmente più alta che altrove (nelle altre nazioni industrialmente progredite). L'economista di Princeton Alan Krueger ha di recente sostenuto che "Il dato per il quale gli Stati Uniti si collocano al di sopra degli standard degli altri Paesi è certamente la maggiore staticità della distribuzione del reddito tra le diverse generazioni, con poche opportunità di avanzamento". Grafico 1: Disuguaglianza ed instabilità del reddito Post-Tax and Transfer Family, 1974-2000 (medie quinquennali)

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Source: Panel Study of Income Dynamics (PsID), University of Michigan; Cross-National Equivalent File (CNEF), Corneil University Notes: Moffitt and Gottschalk's (2002) permanent-transitory model has been used

D'altro canto, i redditi delle famiglie americane sono certamente cresciuti dalla fine del 1970, soprattutto nelle aree economiche collocate in cima. Non così per chi si trova a metà della scala economica, dove la crescita media è stata incredibilmente modesta: i redditi delle famiglie, qui, sono aumentati del 15% tra il 1979 ed il 2000. Di più, circa tre quarti della crescita in questione - secondo Jared Bernstein e Karen Kornbluh - sono riconducibili all'incremento degli orari di lavoro delle donne. Le famiglie del ceto medio, quindi, possono dirsi più ricche, ma in misura limitata. E non perché i lavoratori guadagnano di più, bensì perché lavorano di più. L'aumento della volatilità dei redditi, in breve, non è il risultato di un miglioramento complessivo della mobilità sociale o di una nuova prosperità dei ceti medi. Al contrario, sembra il prodotto di complesse interazioni di due cambiamenti profondi nel contesto economico delle famiglie del ceto medio: l'accentuazione dell'instabilità nel mercato del lavoro, e la trasformazione della famiglia americana.

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RISCHI PER IL LAVORO E PER LE FAMIGLIE Una possibile ragione dell'accresciuta volatilità dei redditi è che la natura della disoccupazione è mutata. La visione tradizionale della disoccupazione è quella ciclica: i lavoratori sono licenziati o comunque perdono il lavoro quando l'economia va male, ma essi sono in grado di tornare a lavorare, con il loro stesso lavoro nella stessa industria, o simile, quando l'economia si riprende. Oggi, invece, la perdita del lavoro segna sempre più spesso una condizione persistente. I lavoratori hanno sempre più di rado la possibilità di tornare a svolgere lo stesso lavoro (o simile). Sicché, la disoccupazione termina solo quando e se il lavoratore accetta un nuovo lavoro che comporta tagli di salario e/o ore lavorative. Questo andamento si rileva in numerosi contesti. Nonostante il tasso di disoccupazione sia rimasto storicamente basso negli ultimi anni, quello della perdita involontaria del lavoro (definito da Farber - 2005, p. 13 - come "worker terminations as a result ofbusiness decisions unrelated to the performance of the particolar employee") è in aumento. Nella recessione del 2001, ha addirittura superato le vette registrate durante la forte flessione dei primi anni ottanta. Le ultime due recessioni del 1990-91 e del 2001 hanno registrato liveffi storicamente alti di disoccupazione di durata superiore ai sei mesi. Tradizionalmente, la disoccupazione di lunga durata ha raggiunto picchi da sei ad otto mesi a partire dalla fine della recessione. Tuttavia, negli anni 1990-91 il picco massimo di disoccupazione di lunga durata è stato di diciannove mesi prima della ripresa. Dopo la recessione del 2001, il picco è stato di ventinove mesi (Schreft e Singh 2003). Oltre un terzo di lavoratori che avevano perso il lavoro tra il 2001 ed il 2004 (un periodo, va notato, di ripresa) non riuscì a trovare un nuovo lavoro, ed il 13% trovò solo un lavoro part-time. Nel caso migliore, coloro i quali hanno potuto re-impiegarsi in un lavoro a tempo pieno hanno finito comunque col guadagnare circa 17% in meno del precedente impiego (Farber 2005). Una delle cause principali della dissociazione dei pattern della disoccupazione e della perdita del lavoro è poi il fatto che molti, una volta fuori dal mercato del lavoro, non cercano attivamente una nuova occupazione, quindi non sono considerati formalmente disoccupati. Eppure, non mancano le prove a sostegno della tesi che se solo ci fossero più opportunità, questi potenziali lavoratori rientrerebbero nel mercato del lavoro. Nel 2005, secondo Katharine Bradbury della Federal Riserve Bank di Boston, l'insufficienza di forza lavoro - paragonata a situazioni simili del ciclo economico del passato - era pari a 5,1 milioni di uomini e donne. Tale cifra porta il livello di disoccupazione ufficiale all'8,7%. Un livello mai visto dalla recessione degli anni ottanta. Il secondo principale cambiamento responsabile della volatilità economica delle famiglie americane è la trasformazione della famiglia, in particolare con il massiccio ingresso delle donne nella forza-lavoro (Warren e Tyagi 2003). Non deve sorprendere, anche se i commentatori solitamente raffigurano le famiglie con due fonti di 32


reddito come isole di felicità e stabilità nel mare magnum dell'instabilità sociale. Anche nelle descrizioni degli economisti, il doppio reddito è considerato una strategia, all'interno della famiglia, di risk-sharing che rende possibile aggirare le crisi. L'analogia è quella di una riserva economica. Invece di avere un solo portafoglio (lo stipendio del marito), queste famiglie ne hanno due. Parafrasando il vecchio adagio sulla diversificazione degli investimenti, una coppia di salariati non mette tutte le sue uova nello stesso paniere. Se una famiglia con due fonti di reddito gode certo di qualche vantaggio in termini di ripartizione dei rischi di natura privatalindividuale, non così di fronte al rischio economico. In questo caso, queste famiglie hanno addirittura rischi aggiuntivi. Il grafico i mostra come anche il massiccio ingresso delle donne sul mercato del lavoro non ha arrestato la variabilità dei redditi. E evidente che le strategie di risk-sharing privato non bastano a neutralizzare gli esiti della volatilità delle entrate delle famiglie che cresce rispetto al passato. In parte ciò avviene perché il mondo non si è fermato con l'ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Nella visione idealizzata della coppia bi-reddito, marito e moglie decidono di diversificare il rischio unendo le proprie forze sul mercato del lavoro, e poi fanno fronte al bisogno di lavoro non pagato, prima svolto dalle donne/mamme casalinghe, con sostituti privati (retribuiti). Nella realtà, invece, le cose vanno diversamente: la coppia quasi mai compie una scelta libera e calcolata, poiché - come notato da Elizabeth Warren - per molte famiglie oggi la seconda entrata non è un lusso, ma una necessità in una fase storica che vede la contrazione dei salari e l'espansione del costo della vita. Se leggiamo i sondaggi sui modi d'uso del tempo, uomini e donne che lavorano affermano di voler dedicare meno ore al lavoro e più tempo alle loro famiglie. Chiaro indicatore del fatto che questi lavoratori non possono permettersi di scegliere un dato mix di lavoro e famiglia come piacerebbe loro. Oltretutto, anche se le famiglie bi-reddito sono meno esposte all'evenienza di un catastrofico crollo delle loro entrate, esse sono soggette a minori fiuttuazioni verso l'alto dei redditi. Dopotutto, se ogni lavoratore ha pari probabilità di subire una contrazione del reddito, una famiglia bi-reddito ha maggiori rischi di shock del reddito. La contrazione del reddito famigliare è minore di quello che sarebbe se a subirla fosse il capofamiglia unica fonte di reddito. Tuttavia, si tratta di una circostanza probabile. Si può non perdere tutte le uova se queste si trovano in due diversi panieri, ma la probabilità di perderne alcune è maggiore. Questo se consideriamo le famiglie come lavoratori, non anche come genitori. Nei fatti, molte coppie lavoratrici hanno figli da crescere, e le compensazioni richieste dalla vita lavorativa sono maggiori. Chi sta a casa quando i bambini sono malati? Che cosa accade quando, dopo la nascita di un figlio, uno dei due lascia il lavoro per maternitIpaternità? O quando uno dei due deve occuparsi dei figli o dei genitori anziani? La supposizione che si fa di solito è che tutti questi servizi possono essere acquistati privatamente, sul mercato (babysitter per i bambini ed ospizi per gli anziani). Ma l'amore e la cura famigliari non sono incluse in questi servizi e talvolta non 33


è neanche possibile ricorrere ad essi. Le circostanze che richiedono tali cure danno origine a bisogni e stress che le famiglie monoreddito non conoscono. Per finire, l'ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha comportato cambiamenti nel ruolo genitoriale ma anche nella relazione economica della coppia, con una maggiore parità fra i due, ed una medita abilità della donna a mantenere se stessa ed i figli anche al di fuori del matrimonio (nonostante la permanenza di significative disparità di retribuzione tra i due sessi). In Occidente, il divorzio è diventato man mano più diffuso, proprio con l'espansione della forza-lavoro femminile. A significare non che il diritto e la cultura sono elementi immateriali, ma che l'aumentata instabilità delle famiglie americane ha le sue radici nella crescita dell'autonomia economica delle donne. E quindi possibile farsi un'idea del grande rischio insito in questi due trend guardando meglio alla caduta dei redditi delle famiglie. Nell'esperimento di PsID, circa metà delle famiglie coinvolte hanno sperimentato un crollo delle entrate nell'arco di due anni, e la percentuale si è mantenuta costante. Eppure, la caduta media è progredita da una soglia minima del 25% negli anni settanta ad oltre il 40% oggi. Per meglio tracciate questa tendenza, Nargis ed io abbiamo disegnato una regressione multivariata per stimare la probabilità di una contrazione del reddito famigliare pari ad almeno il 20% (Grafico 2). Mantenendo tutte le altre variabili fisse - ciascuna al proprio valore - nel corso di uno stesso anno, la probabilità ricercata è per le famiglie medie pari al 4% all'inizio degli anni settanta, quindi più che raddoppiata (10,6%) nel 2000. Grafico 2: Probabilità attese di caduta del reddito famigliare nella misura del 20% o più, 1970-2003

11O M 1974 1970 791* 1790 79*3 1904 7*30 0953 9940 7905 900* 1976 1996 2

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Source: Panel Study oflncome Dynamics, University ofMichigan Notes: Predicted probabilities are based on the time trend from a logistic regression using individuailevel fixed effects,with all other variables set at their annual means. Other variables in the model include age, education, race, gender, income level (average of five prior years), and a series of events (such as unemployment and illness) that potentially affect family income. The time trend is highly statistically significant (p<0.000); all standard errors are robust and adjusted for clustering.

INAZIONE DEL SETTORE PUBBLICO E RITIRATA DI QUELLO PRIVATO DI FRONTE AL RISCHIO ECONOMICO Non è discutibile il fatto che le politiche pubbliche e private esistenti non sono in grado di proteggere le famiglie dall'instabilità economica nella nuova età che caratterizza il lavoro e la famiglia. Una prova ci è data dall'esperimento di Ps i: mentre negli 34


anni settanta le contrazioni dei redditi delle famiglie erano attenuate dagli interventi pubblici attraverso lo strumento fiscale ed i trasferimenti del Governo, oggi queste misure non hanno più l'efficacia necessaria. La media della contrazione dei redditi nel 1970 era un terzo rispetto alla sua entità nel caso in cui non fossero state applicate le misure governative. Nel 2000, queste ultime hanno a stento inciso in qualche modo. Questo dato potrebbe in parte riflettere un aspetto lasciato fiori dall'esperimento di PsID, ovvero il ruolo in espansione dei benefici "in natura", non monetari, quale l'assistenza medica. Resta il fatto che, sul piano strettamente della protezione dei redditi, il governo non sta facendo quanto invece faceva in passato per assistere le famiglie dopo lo shock economico. In parte, perché i programmi sociali statunitensi sono sempre più incentrati sulla fase di vita del pensionamento; piuttosto che su quelle lavorative e produttive. A paragone, solo la Grecia ed il Giappone prevedono nelle loro politiche sociali una significativa attenzione a servizi e liquidità per gli anziani (Lynch 2000). Anche se la protezione pensionistica è fondamentale, l'accresciuta insicurezza economica dei giovani americani suggerisce che le lacune del sistema in termini di protezione sono maggiori per i rischi economici che minacciano le famiglie nel corso della vita lavorativa. Allo stesso tempo, i piani pubblici di assicurazione sociale sono sempre più compromessi. L'indennità di disoccupazione, in particolare, si è ridotta nel periodo in cui l'insicurezza del mercato del lavoro si è inasprita. Tra il 1947 ed il 1995, la porzione di lavoratori con copertura assicurativa che riceveva tali benefici è crollata dall'80% a meno del 40% (Graetz e Mashaw 1999). Il Government Accountability Office (GA0) ha recentemente riportato in un incontro su "Unemployment Insurance: Role as a Safety Net for Low-Wage Workers is Limited", che i lavoratori con soglia bassa di salario difficilmente ricevono i benefits di disoccupazione. Nel 1995, solo il 18% di questa categoria ne ha usufruito (GA0 2000). Non soltanto il Governo è meno attivo in materia di protezione dai rischi; i datori di lavoro hanno anche fatto venir meno gran parte dei benefits destinati ai loro lavoratori, che un tempo assicuravano con generosità. Gli Stati Uniti sono un caso unico per la misura in cui i lavoratori dipendono dai propri datori di lavoro per usufruire di tali servizi: cure mediche e piani pensionistici. Benefici che nelle altre democrazie industriali sono erogati dai Governi. Nei fatti, come ho già avuto modo di dimostrare (Hacker 2002), il Welfare State americano - con il forte peso che esso fa ricadere sui servizi privati sovvenzionati con le tasse - ha una portata pari a quelli di altri Stati nei quali si prendono in considerazione gli stessi servizi ed insieme il relativo carico fiscale. Queste forme private digestione del rischio sono in declino. Tra il 1979 ed il 1998, la percentuale di lavoratori con un'assicurazione sanitaria fornita dai propri datori è passata dal 66 al 54%; nel quinto di lavoratori meno pagati la percentuale è caduta dal 46 al 26%. I piani pensionistici e gli altri benefici per i lavoratori hanno subito tagli vistosi per questa ultima categoria. Ed il più importante cambiamento che riguarda 35


le pensioni è senza dubbio il passaggio a sistemi contributivi. Venti anni fa, circa metà dei lavoratori potevano contare su un preciso piano pensionistico. Oggi, solo il 20%. Con una tendenza decrescente. Mentre, i piani 401(k) e simili sono diventati di colpo l'ossessione di un'intera nazione. Dal 2001, circa il 60% delle famiglie i cui componenti erano vicini al pensionamento avevano investito denaro in un piano pensionistico, contro il 71% del 1983. I piani contributivi sono per lo più conti di investimento privati pubblicizzati dai datori di lavoro, che quindi aumentano vertiginosamente i rischi e le responsabilità insite nella scelta che deve fare il singolo lavoratore. Al contrario, i piani pensionistici tradizionali sono solitamente obbligatori e pagati dal datore di lavoro (invece di versare la somma contante al lavoratore). Essi sono quindi una forma di risparmio obbligatoria. Assicurati dal governo federale e minuzibsamente regolati per tutelare i lavoratori. Elemento ancora più importante, essendo questi piani predefiniti, il lavoratore è protetto dai rischi di flessione negativa dello stock di mercato e tutelato nella possibilità di vivere più a lungo di quanto atteso. Nessuna di queste condizioni è valida per i piani contributivi. La partecipazione è volontaria, legata alla mancata previsione di misure alternative messe in atto dal datore di lavoro, e molti lavoratori non si iscrivono ad alcun piano, o contribuiscono versando somme insufficienti. I piani non sono adeguatamente garantiti e regolati, pertanto i rischi sono maggiori. Il governo federale non assicura alcun piano pensionistico alternativo, seppure contributivo. Piani, questi, che non tutelano i lavoratori dai rischi di sistema o di longevità. Anzi, alcune caratteristiche di questi piani inaspriscono i rischi, nel caso in cui, ad esempio, il lavoratore prelevi anticipatamente i risparmi, senza lasciare una somma sufficiente al pensionamento. In una logica perversa, i rischi ricadono pesantemente ed in larga parte sui giovani e sui lavoratori meno pagati, proprio quelli che hanno più bisogno di protezione per il pensionamento. Una recente ricerca di Edward Wolff dà un'idea chiara della gravità di queste criticità. Da un esame dei dati del Federal Reserve Board,\ÌS.Tolff ha desunto che i risparmi accantonati per il pensionamento in media sono decresciuti tra il 1983 ed il 1998, nonostante una crescita generalizzata dello stock di mercato di quel periodo. Questo anche a causa delle riforme per la sicurezza sociale del 1983, che limitarono i benefici garantiti dal sistema di governo. Inoltre, il valore di questi benefici era anch'esso crollato con la diffusione dei piani contributivi. L'effetto-rete si abbatté sul livello del benessere della vita post-lavorativa e sulla distribuzione di questo benessere, sempre diseguale, sempre più favorevole per i benestanti. Nel 1983, una famiglia con ricchezza sufficiente a collocarsi nel 990 percentile della distribuzione di ricchezza deteneva una pensione di ben quattro volte superiore a quella delle famiglie dei ceti medi. Nel 1998, le stesse famiglie contavano su una pensione undici volte maggiore dei ceti medi. Tali trend saranno molto probabilmente esacerbati man mano che gli ultimi piani pensionistici tradizionali lasceranno il posto a quelli contributivi. 36


Il problema non è solo quello della scomparsa dei vecchi sistemi di assistenza ed assicurazione, nel pubblico come nel privato. L'aspetto più drammatico, infatti, è che ben pochi programmi sociali in America sono stati ridefiniti alla luce dei nuovi, intensificati rischi da fronteggiare nell'era post-industriale, nell'economia del doppio reddito. Il quadro attuale dell'assicurazione sociale è stato costruito in un'epoca nella quale i rischi più probabili e pericolosi erano l'interruzione temporanea del lavoro e un'insufficiente pensione. Oggi, anche i lavoratori con alte competenze devono far fronte al rischio di licenziamento senza prospettive di rapido reinserimento a livelli comparabili in termini di guadagno; e le donne sono sempre più spesso le capofamiglia e sempre meno casalinghe cui è affidata la cura dei figli e della famiglia. I rischi propri per le finanze delle famiglie originati a seguito di questi cambiamenti non sono ben considerati dalle attuali politiche. AGIRE PER PRESERVARE LE OPPORTUNITÀ E LA SICUREZZA SOCIALI In sintesi, gli americani sono sempre più insicuri. Questa insicurezza non solo crea inutili difficoltà per i singoli lavoratori e per le famiglie, ma ha anche enormi costi sociali. Il più ovvio di questi è l'aumento delle spese causato dai diffusi casi di bancarotta, dal sistema di assistenza sociale e dal ricorso al privato; quando poi nessuna di queste misure è in grado di svolgere le finzioni di assicurazione sociale. Ci sono poi maggiori costi che ricadono sull'economia e sulla società, quando le famiglie sono caricate di rischi economici eccessivi. Dislocazioni psicologiche associate al tracollo finanziario delle famiglie con perdita dello status e degli stili di vita cui si era abituati, instabilità mentale causata dalla perdita del lavoro, tensioni all'interno delle famiglie a seguito delle flessioni economiche negative. In modo rilevante, questi costi disincentivano le famiglie ad investire nel lavoro, nell'istruzione, nei figli ed altri tipi di avanzamento economico nel momento i cui tali rischi di investimento non sono adeguatamente contro-assicurati. I ricercatori e i policymaker hanno da tempo ammesso che le politiche che sono in grado di incoraggiare l'assunzione del rischio possono essere benefiche per l'intera società, poiché un numero sufficiente di questi investimenti rischiosi possono dare i loro frutti. Tuttavia, gli individui possono essere riluttanti a fare investimenti rischiosi. Il rischio di fallimento può essere troppo alto. La ricerca comportamentistica indica che i singoli individui sono altamente avversi alla perdita, pertanto essi hanno maggiore timore di perdere della soddisfazione che ricaverebbero da un eventuale consistente guadagno (Kahneman e Tversky 1984). Terzo, i ritorni di un investimento rischioso potrebbero comportare esternalità positive - ossia, benefici di non esclusivo godimento di coloro i quali hanno effettuato l'investimento, ma anche di altri al di fuori della transazione - e quindi è probabile che gli individui non siano sufficientemente incentivati ad investire in vista di questi benefici. 37


Molti degli investimenti economici fatti dalle famiglie sono di questo tipo. Diversamente dagli investitori ad alto rischio, che possono essere abituati alle grosse perdite e a considerare i propri capitali in termini di strumenti per ulteriori fini, le famiglie sono solite guardare ai propri risparmi e guadagni come un valore intrinseco, parte integrante della loro "dotazione" patrimoniale di base. Pertanto, come qualcosa per la cui perdita soffrirebbero tantissimo. Avere una casa, ad esempio, è un vantaggio per le famiglie e per la società. Tuttavia, implica un rischio finanziario (Shiller 2005). Sono le famiglie ad avere causato il rialzo dei prezzi del mercato immobiliare nelle aree dove si trovano buone scuole e forti comunità (Warren e Tyagi 2003). Sicché, sempre più famiglie sono legate ad investimenti finanziari per la casa assai rischiosi. Così anche per l'istruzione; in particolare, quella dei ragazzi. E un investimento i cui ritorni non sono di natura monetaria, e per di più sono a carattere molto variabile (secondo alcuni dati, lo stanno diventando sempre più. Cf. Bernhardt et al. 1999; Farber 2005). Inoltre, i genitori che investono nei figli non raccolgono molti benefici economici diretti/immediati, come accadeva un tempo, quando i figli contribuivano all'economia domestica e famigliare. I costi dell'investimento nella cura dei figli sono immediati e diretti, i guadagni invece proiettati nel lungo periodo, nel più ampio contesto della società. In breve, la creazione delle condizioni idonee a produrre vantaggi legati alle opportunità economiche, all'istruzione, allo svolgimento di un adeguato ruolo genitoriale, è un investimento ad alto rischio e spesso con esternalità positive. Unica istituzione sociale in grado di farlo, il governo può incoraggiare questi investimenti. Ne ha gli strumenti - e sovente anche gli incentivi necessari - atti a creare una maggiore partecipazione ad ampi ambiti di rischio e ad incoraggiare esternalità positive che non comportano guadagni individuali tali da incentivare un attore privato a rischiare. Per questa ragione, in particolare, il governo ha a lungo rivestito una funzione centrale nella gestione del rischio nel settore privato (Moss 2002). Il diritto societario ha da tempo riconosciuto il bisogno di limitare le conseguenze negative dell'assunzione del rischio al fine di incoraggiare le società ad assumersi una porzione di rischio appropriata dal punto di vista del guadagno aziendale. La disciplina della bancarotta ed il principio della responsabilità limitata - la nozione secondo la quale i gestori di un'impresa non sono personalmente responsabili del fallimento della stessa - fanno sì che gli imprenditori affrontino i rischi legati agli investimenti sapendo che questo non li esporrà alla rovina o all'indebitamento in caso di faffimento. Le assicurazioni sui depositi hanno contribuito ad accrescere le probabilità di risparmio ed a diminuire quelle di fallimento delle banche, facendo sì che gli intestatari dei depositi si sentano rassicurati, e possano attingere al proprio denaro in ogni momento. Una logica similare agisce anche per i cittadini americani. Q.uando i lavoratori o le famiglie sono posti di fronte a scelte economiche incerte con annessi gravi rischi - per esempio, il livello di studi da conseguire o la possibilità di corsi di formazione


per un nuovo lavoro - può accadere che essi siano riluttanti ad assumersi un rischio socialmente benefico. Pertanto, sono più numerosi coloro che fanno la scelta non rischiosa. Dare a queste persone e famiglie una base di sicurezza - non una forma di protezione totale dal, rischio, bensì una soglia minima oltre la quale non cadere - significa per il governo migliorare le opportunità e le condizioni delle stesse, ma anche il welfare sociale più in generale. Questo ragionamento non è solo un'utile analogia. Una crescente mole di dati supportano la tesi in questione. Le statistiche comparate, ad esempio, indicano che una disciplina sulla bancarotta più generosa nei confronti dei singoli è associata a livelli più elevati di imprese con capitali a rischio (Armour e Cumming 2004). La ricerca sui mercati del lavoro mostra che i lavoratori che temono di perdere il proprio lavoro solitamente investono meno nell'ambito lavorativo e nell'acquisizione di competenze di quanto invece fanno i lavoratori sicuri della propria condizione (Osberg 1998). Studi internazionali, poi, rivelano che la propensione ad investire in istruzione e formazione e nel perfezionamento professionale cresce quando i lavoratori hanno alcune forme basilari di tutela (Esteves-Abe, Iversen, Soskice 2001; Mocetti 2004). Quest'ultimo dato, che potrebbe sorprendere quanti svezzati con l'idea dell'assicurazione sociale quale inevitabile fardello per l'economia, è forse il più rilevante. I lavoratori, a quanto sembra, investono in attività e beni altamente specifici - quali, ad esempio, le competenze professionali che non è possibile recuperare agevolmente con il passaggio da un'impresa o occupazione ad un'altra - solo se i rischi della potenziale perdita dei ritorni di questo investimento sono mitigati da tutele assicurative minime non legate ad un particolare e specifico lavoro. Se non vi è alcuna forma assicurativa, i lavoratori riducono enormemente gli investimenti per attività e risorse cruciali all'interno del portafoglio della famiglia: tra queste, il valore dei singoli componenti in termini di capitale umano (Neal 1995). In sintesi, la creazione di un'assicurazione sociale non è soltanto un fattore importante per la sicurezza economica: è anche cruciale per il potenziamento delle opportunità economiche e per l'avanzamento in un'economia così dinamica. L'assicurazione sociale tutela le famiglie che "cadono in disgrazia" (Newman 1999), e pertanto deve essere promossa. Essa, poi, incoraggia le famiglie che non sono in difficoltà economico-finanziarie ad investire a beneficio proprio e della società. L'assicurazione sociale ha a che fare con l'efficienza e la crescita, con l'uguaglianza e con la giustizia (Barr 1998).

* Pubblicato con il titolo T[he Privatization ofRisk and the Growing Economic Insecurity of Americans su «Items and Issues», Vol. 5, no. 4/2006, pp. 16-23. L'autore, Jacob Hacker, presiede ilWorking Group del Social Science Research Council sul progetto "Privatizzazione del Rischio". I membri del gruppo hanno organizzato un forum di discussione consultabile all'indirizzo: http://privatizationfrisk.ssrc.org , dove sono pubblicate alcune relazioni. Tra cui: "Catastrophic Risks: The need for new tools, financial instruments and institutions", Graciela Chichilnisky, Columbia University; "The Privatization ofRisk and

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the Growing Economic Insecurity of Americans", Jacob S. Hacker, Yale University; "Rising Against? Change and Stabiity in Perceptions of Economic Insecurity", Elisabeth Jacobs, Harvard University; Katherine Newman, Woodrow Wilson School, Princeton University; "Identifying and Managing Household Risk: Lessons from Bankruptcy", Meissa B. Jacoby, University of North Carolina; "Risk versus Uncertainty: Frank Knight's 'Brute' Facts of Economic Life", Wifliam H. Janeway, Vice Chairman, Warburg Pincus; "The Rising Risks of Rising Economic Inequality: Do Americans Care?", Leslie McCall, Northwestern University. "Rewriting the Rules: Families, Money and Risk", Elizabeth Warren, Harvard Law School.

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queste istituzioni n. 153 aprile-giugno 2009

Società del rischio e questione del ceto medio. La ceutralitt di un programma di ricerche* di Arnaldo Bagnasco

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espressione "Società del rischio" è uno dei tanti modi in cui si è cercato di individuare il carattere ritenuto essenziale della società di oggi 1 , ovvero un suo carattere particolarmente rilevante, tale da permettere di riunire molti fenomeni o processi diversi, ma riconducibii a un denominatore comune, se non a una stessa causa; tale anche da poterne poi dedurre, per diretta derivazione o per analogia, ipotesi per interpretare altri aspetti delle trasformazioni sociali in atto. In realtà, la fenomenologia del rischio è molto diversificata: va dalla minaccia di una possibile fine dell'umanità a causa di una guerra atomica sino alla precarietà del lavoro, fenomeni che evidentemente non hanno stesse cause. E tuttavia, se ci mettiamo dal punto di vista delle persone, osserviamo che la percezione di rischi diversi, pur avendo cause diverse, produce effetti combinati di senso di disagio e di insicurezza generalizzata: i rischi collettivi sullo sfondo si sommano ai rischi privati nella vita quotidiana; una vignetta su un giornale americano di qualche anno fa mostrava un salotto dove la moglie, ascoltando al telegiornale il Presidente parlare di gravi problemi mondiali, diceva al marito: "povero Presidente, quante preoccupazioni!". Al che il marito rispondeva: "per me è peggio: io ho le sue stesse preoccupazioni, e in più le mie". L'effetto pratico del sommarsi dei rischi può produrre una sindrome psicologica per cui si diventa incapaci di reagire, o una inversa di reazioni scomposte. Si tratta allora di sviluppare capacità di distinzione analitica, ma anche di ricondurre un insieme di sintomi a comuni determinanti strutturali, che condizionano il formarsi di situazioni in cui le persone si trovano a decidere. La ricerca di famiglie di rischi rilevanti, e l'individuazione delle loro comuni determinanti strutturali, o per lo meno il suggerimento plausibile dell'utilità di pensarli insieme, indicando una certa prospettiva, può essere la strada per efficaci pratiche e politiche di reazione. Il tema della "privatizzazione del rischio", come tendenza degli ultimi decenni del secolo scorso, non interrotta nel nuovo, è una prospettiva strategica del genere. opportunamente è stata scelta alla base di un programma di ricerca del Social Science Research Council american02. Esso si riferisce ai rischi economici di persone e famiglie, e riformula in un modo sintetico e deciso questioni che già, con altre etichette, conoscevamo. Per molti aspetti questo programma di ricerca ne incrocia uno del Consiglio L'autore, vice presidente del Css, è professore di sociologia nell'Università di Torino, responsabile del programma del Css "La questione del ceto medio". 42


italiano per le Scienze Sociali dedicato a "La questione del ceto medio", che a sua volta prova a individuare un'altra via di ingresso alla comprensione di significativi problemi sociali di oggi. Sperimentazione o percezione di nuovi rischi economici sono infatti la comune materia sociale dei due programmi di ricerca. Di seguito mostrerò come questa comune materia può essere trattata nella prospettiva della questione del ceto medio3 .

SOCIETÀ E ISTITUZIONI NEL CAPITALISMO CHE CAMBIA: QUALCHE NOTAZIONE PER CENTRARE IL PROBLEMA DEL RISCHIO Cominciamo osservando che sia la tendenza di privatizzazione del rischio che una questione del ceto medio si presentano in tutte le società avanzate. I modi in cui queste si presentano sono poi in parte diversi, perché in parte diverse sono le società a economia di mercato che le attivario. Cultura, assetti istituzionali, organizzazione economica e non ultime le scelte politiche fanno la differenza. Possiamo assumere che i rischi economici per le persone e le famiglie siano effettivamente aumentati (su questo torneremo). In linea di massima, possiamo poi anche fissare i limiti all'interno dei quali si definiscono in concreto i modi di affrontarli: i rischi crescenti possono essere scaricati sulle spalle dei singoli individui, oppure possono essere in qualche misura ripartiti con l'intervento delle istituzioni sociali; la varietà delle soluzioni via istituzioni sociali è però notevole: va dalla carità privata mossa da principi culturali e più o meno organizzata, a contratti fra datori di lavoro e lavoratori, a specifiche forme di 'Welfare State, diversamente strutturate e più o meno impegnative. L'intervento istituzionale organizzato.può essere poi più fortemente affidato a contratti fra datori di lavoro e lavoratori e all'iniziativa di adesione dei singoli a programmi di istituzioni private, o essere più protettivo e più generalizzato sotto forma di diritti garantiti e servizi direttamente erogati da enti pubblici. Siamo abituati a pensare che la seconda via sia più tipicamente europea: questo è vero, ma come vedremo le cose sono un po' più complicate, e meritano qualche precisazione. Possiamo però fare subito una osservazione importante: il Welfare State non è cresciuto solo per fronteggiare possibili rischi, più o meno prevedibii nel corso della vita, ma più in generale per assicurare condizioni di vita considerate di persona civile, all'insieme della popolazione, secondo la famosa formula di lord Beveridge. I sistemi di Welfare State rispondono dunque a marketfailures, che rimandano a loro volta alle pratiche di equilibrio fra azione dello Stato e automatismi di mercato nella regolazione economica e sociale dei grandi sistemi economici. Dal punto di vista della regolazione sociale, si pone allora un preliminare bisogno di conoscenza, relativo alle disuguaglianze sociali e alla loro gestione: come è cambiata, per fasi successive sino a oggi, la struttura della disuguaglianza sociale al cambiare dell'organizzazione economica? E come sono cambiati i modi istituzionalizzati di gestirla? Un esame comparato fra casi nazionali diversi (per quanto ridotto a uno schema rapido che 43


oppone Stati Uniti e Europa) permetterà di vedere meglio la comune emergenza dei rischi, e di centrare meglio la questione specifica del rischio. I "trenta gloriosi" anni del dopoguerra sono stati l'età del capitalismo organizzato. Un trend continuo di crescita e un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita erano assicurati da efficaci meccanismi di regolazione delle grandi variabili aggregate dell'economia, da interventi pubblici di stimolo alla crescita e al pieno impiego dei fattori, da sistemi di Welfare State più o meno estesi a seconda dei Paesi. A grandi linee si può dire, come già anticipato, che l'Europa ha maggiormente sviluppato sia l'intervento diretto dello Stato sul mercato, sia la dimensione dei suoi sistemi pubblici di assistenza. Una maggiore privatizzazione del rischio negli Stati Uniti, e la sua accettazione sociale, venivano tradizionalmente giustificate in quel Paese nei termini di una cultura individualista e liberista. Possiamo dire che in entrambi i continenti, la promessa di un migliore tenore di vita per una quota crescente di popolazione, la sicurezza dai rischi della povertà, della malattia, della vecchiaia, erano contenuti in una specie di contratto sociale, per gestire il conffitto di classe; con il contratto sociale (evidentemente una metafora per indicare un progetto o una via di azione più o meno esplicita e condivisa) si pensava negli Stati Uniti di sradicalizzare il conffitto di classe: la promessa era creare le condizioni perché ognuno, impegnandosi nella sua attività professionale sul mercato, potesse migliorare le sue condizioni. di vita e i suoi consumi, artefice della propria fortuna; nel contratto europeo, invece, (di nuovo una metafora, più chiara per il compromesso socialdemocratico dei Paesi scandinavi) il conffitto di classe veniva istituzionalizzato, riconoscendolo e disciplinandone l'espressione nell'arena politica 4. Due strade diverse, dunque, due contratti diversi (e quelli europei in parte diversi fra loro), simili però nell'intenzione di fare crescere il numero di chi occupa una posizione intermedia nel mezzo della scala sociale, in condizioni migliorate. I contratti ebbero successo, e la crescita di una middie class fu alla lunga un esito simile, anche se si trattò almeno in parte di diverse configurazioni delle categorie sociali e della loro combinazione, esito di cambiamenti nell'organizzazione del lavoro e di regolazione politica. Il riferimento alla middie class, radicato nel potente collante culturale dell'american dream, era esplicita negli Stati Uniti, mentre era poco riconosciuto come tale in Europa, dove la formazione di un ceto medio, per molta parte, era individuata piuttosto come crescita e rafforzamento della classe operaia. Lasciamo però agli esperti di stratificazione sociale di sbrogliare meglio la questione, qui basta ricordare il caso dell'Italia dove un memorabile saggio di Sylos Labini 5 mostrò a un certo punto non solo l'importanza del ceto medio in Italia (commercianti, artigiani, impiegati) e la sua continua crescita, ma anche che la presenza di un rilevante ceto medio era una costante storica nel nostro Paese. In effetti, dobbiamo guardarci da immagini troppo semplificate del passato. Nella ricostruzione del caso americano deve essere integrata la storia del suo Welfare State, una storia di affermazione non di pochi anni, dal dramma della grande depressione sino alla "grande società" di L. B.Johnson. L'economista P. Krugman ha mostrato dati 44


impressionanti sulla progressività dell'imposizione fiscale in quegli anni, aggiungendo che "negli anni cinquanta e all'inizio degli anni sessanta... lo Stato sociale non era più considerato un elemento radicale, anzi chi voleva smantellarlo era considerato un fanatico 116 . La particolarità americana era, tuttavia, che i vantaggi garantiti a molta parte della popolazione - assicurazione sanitaria e per invalidità, indennità di disoccupazione, prestazioni pensionistiche -, a livello europeo di spesa complessiva, erano finanziati in gran parte a spese dei datori di lavoro 7 . Per molto tempo, dunque, la memoria della "grande depressione" aveva mantenuto la consapevolezza dei rischi possibili, e generato forza politica e sindacale sufficiente a farla valere, calibrando l'individualismo diffuso e l'anti-statalismo di fasce impor tanti della classe dirigente economica. Poi le cose sono cambiate, nuovi movimenti della politica e dei suoi temi, il cambiamento dell'organizzazione produttiva, le spinte crescenti della globalizzazione e della finanziarizzazione, hanno generato un contesto completamente diverso. Negli anni, l'economia ha continuato a crescere sotto la spinta della de-regolazione, ma insieme è cresciuta la disuguaglianza sociale. P. Krugman disegna bene il passaggio, sostenendo che si è appannata l'idea di una società di ceto medio come progetto culturale e politico: "L'America in cui sono cresciuto, quella degli anni cinquanta e sessanta, era una società costituita dal ceto medio, nei fatti e nei sentimenti. Le vistose... disparità nella distribuzione del reddito erano scomparse. Ma questo era tanto tempo fa. L'America della classe media era un altro Paese" 8 . LA QUESTIONE DEL CETO MEDIO

E su questo punto che una ricerca sulla privatizzazione dei rischi si incontra con quella sulla questione del ceto medio. Fermiamoci ancora in America: i rischi ai quali sono oggi esposti, nei venti della grande crisi, le varie frazioni professionali della middie class, nel senso allargato degli americani, che qui comprendono anche fasce di operai, sono emblematici di una attuale, e forse in prospettiva persino più grave, crisi sociale. Una questione critica che tuttavia era già avvertita in precedenza, che viene da lontano, il cui significato per quella società in generale è ben evidenziato oggi dall'attenzione che ha avuto nella campagna elettorale del nuovo Presidente. Molte delle misure da questo previste riguardano proprio un rafforzamento della spesa sociale, che certo toccherà le fasce più povere, ma in generale sarà un sostegno anche mirato alla middle-class: in discussione sta proprio quanta privatizzazione del rischio è davvero oggi sostenibile. Nei decenni scorsi si è assistito a un numero crescente di fallimenti famigliari (spesso di famiglie di classe media), sintomo evidente di cattiva calcolabilità dei propri bilanci in epoca di mercato del lavoro flessibile 9; si sono manifestati meccanismi perversi come la "trappola dei due redditi", per cui il costo dei servizi necessari a famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano, e che devono così essere acquistati sul mercato, hanno superato nel tempo in molti casi la somma dei due redditi 10; si è osservato che un evento come una malattia o un divorzio rischia

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di avere effetti drammatici per le persone coinvolte. In alcuni casi si sono registrati effettivi fenomeni di impoverimento di famiglie della middie class, ma più in generale si è diffuso un senso di disagio, di apprensione per il futuro dei propri figli, di esposizione al rischio. Questo sta fortemente spingendo verso una ricontrattazione del patto post-bellico, di cui vedremo in futuro vicende e caratteri. Se ora ci spostiamo all'Europa, una questione del ceto medio è emersa da alcuni anni sui media e nell'opinione pubblica, in parte, e con poca chiarezza, raccolta dalla politica. I toni di diverse ricerche sono allarmati, anche se, come in America, finora effettivi fenomeni di arretramento sono relativamente contenuti (ma questo è meno vero per i giovani), rispetto a una più generale situazione di apprensione per il futuro. Si dovrebbe pensare che la tradizione europea più politica di gestione dei problemi sociali possa essere un vantaggio; in realtà, le cose sono complicate dal costo raggiunto dai sistemi di Welfare State e da quello che può sembrare un movimento inverso al caso degli Stati Uniti: una deriva più o meno visibile di ritorno alla privatizzazione del rischi. La conclusione, comunque, è che i contratti sociali post-bellici, dell'età del capitalismo organizzato, sono oggi sotto stress: in modi diversi, come diversi erano i contratti, i cui effetti erano stati proprio di far crescere un ceto medio, nel quale una parte consistente della popolazione, in alcuni casi la maggioranza, si riconosceva. Si riconosceva infatti di ceto medio chi, tutto sommato, confrontandosi anche con gli altri, riteneva di aver trovato un posto per lui accettabile e riconosciuto nella società in cui viveva, senza seri problemi, per un soddisfacente tenore di vita e per la sicurezza in futuro; possiamo anche dire: chi riteneva di aver raggiunto una piena cittadinanza sociale. Indipendentemente dall'essere autonomi o dipendenti, nel settore pubblico o in quello privato, in posizioni professionali diverse - differenze che pure sono importanti, perché individuano modi diversi e anche conflittuali di stare nel ceto medio, livelli e combinazioni diverse delle risorse - essere ceto medio (la migliore approssimazione linguistica di middle class) significava posizioni medie e cresciute nella scala dei redditi e dei consumi, aumentato grado di istruzione, relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, protezione dai rischi della vita. E' difficile immaginare che si torni indietro da un'idea diffusa di ceto medio, raggiunta o possibile, senza forti conffitti e costi sociali. Una società con un ceto medio allo sbando corre poi pericoli anche per i suoi assetti politici, per lo meno per la qualità della sua democrazia. Osservando il ruolo al quale fu portato il ceto medio in Europa all'epoca dei totalitarismi e con riferimento a importanti ricerche di quel periodo, una storica ha individuato proprio nel ceto medio "l'area sociale del rischio" 11 Un nuovo contratto sociale - nel quale vecchie e nuove categorie professionali si possano riconoscere come un ceto medio economicamente, culturalmente e politicamente responsabile e generativo - sembra ormai necessario. Ma prima di tutto bisogna capire bene cosa cambia fra economia e società, e quali possano essere le vie culturali e politiche in grado di sostenere un cambiamento accettabile. .

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Il programma del Css sulla questione del ceto medio lavora a fornire conoscenze e punti di vista che spera utili per orientare una discussione pubblica informata su questi temi.

*A aJnente vi è una riscoperta o grande evidenza giornalistica data al ceto medio ed alla crisi che lo investe negli ultimi anni, con sondaggi secondo cui a dichiararsi e sentirsi parte del ceto medio era prima il 60% degli italiani, ed oggi una percentuale comunque superiore al 50. Insieme al lavoro statistico c'è il tentativo di capire che cosa c'è dietro la categoria statistica in sé. Si tratta di una categoria spuria che però costituisce un vero osservatorio, un luogo di osservazione privilegiato dei cambiamenti in atto, di processi generali che hanno esiti particolari. Nel primo volume del programma di ricerca del Css, v. A. BAGNA5CO (a cura di), Ceto medio. Perché e come occuparsene, Il Mulino, Bologna 2008, il ceto medio è considerato con riferimento a quattro dimensioni o linee di ricerca, di cui saranno presto disponibili i rapporti finali: la rappresentazione che ne dà la stampa; la transizione alla vita adulta come vissuta nel ceto medio; i modelli di consumo e gli stili di vita che lo caratterizzano (ad esempio, le scelte abitative); il lavoro autonomo. Il programma di ricerche intende attivare una quinta linea di cui si parla nel libro in termini di problematizzazione ("Ceto medio legato?"), riguardante il ceto medio immigrato. Possibile sbocco del programma potrebbe essere il tema: come la politica si rapporta al ceto medio e quali sono i progetti politici su di esso, sulle sue diverse categorie. i Il riferimento è a Risikogesellschaft di U.BEcK, trad.it . La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 1986.

Si veda l'articolo di JAcon S.HAcKER in 2 questo stesso numero della rivista. Non essendo molto lo spazio a disposi3 zione sarò molto schematico e argomenterò poco le affermazioni; posso però rimandare per approfondimenti su diversi punti al primo volume del programma di ricerca del Css, v. A. BAGNAScO (a cura di), Ceto medio. Perché e come occuparsene, Il Mulino, Bologna 2008. 4 1 due termini in O.Zut.z, Why the America Century?(l 998), trad.it . Perché il secolo americano?, Il Mulino, Bologna 2002. 5 P. SYLOS LABINI, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974. P. KRUGMAN, The Conscience of a 6 LiberaI (1987), trad. it. La coscienza di un liberal, Laterza, Bari-Roma 2008, p68. 7 lvi, p107. P. KRUGMAN, Requiem per la gloriosa 8 classe media, in «Reset», 75, p. 31. v. T.A. SULLIVAN, E. WARREN, J.L. 9 WESTBROOK, The Fragile Middle Class, Amencans in Debt, Yale University Press, New HavenLondon 2000. v. E. WARRENE. eA. WARRENTYAGI, The 10

Two-Income Trap. Why Middle-Class Parents ore Going Broke (2003), trad. it. Ceti medi in trappola. Come salvare le famiglie dai debiti, Sapere, Roma 2004. M. SALVATI, Da Berlino a New York. 11

Crisi della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli anni trenta, Bruno Mondadori, Milano 2000.

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queste istituzioni

n. 153 aprile-giugno 2009

Ilesponsabilitìi della politica e responsabilitiì individuali nella gestione del rischio di IViassimo De Felice

A

ll'inizio del secolo scorso, discutendo dei "confini dell'assicurazione", Ulisse Gobbi delineava una mappa efficace per definire le responsabilità nella gestione dei rischi: "c'è un campo nel quale il rischio è soppresso per l'individuo e per la società mediante la prevenzione; uno nel quale è soppresso per l'individuo perché l'operazione che lo implica è compiuta dalla comunità in modo che tutti ne approfittino indistintamente; un altro nel quale l'azione degli individui è indipendente, ma i mezzi per far fronte ai rischi relativi sono forniti a ciascuno dall'assicurazione; un altro, infine, in cui l'individuo assume intera la responsabilità del risultato" 1 L'ampiezza di questi campi è variata nel tempo e nei luoghi - in dipendenza delle scelte di politica economica - e ha interessato in modo diverso i "gruppi" sociali; ma per molti decenni del secolo scorso il ruolo della "comunità" è stato comunque rilevante, proseguendo nella tradizione della politica delle assicurazioni sociali (avviata in Europa da Bismark2). .

IL "GREAT RISK SHIFT" Negli ultimi venti anni si è andata determinando la tendenza verso la "privatizzazione del rischio", caratterizzata dallo spostamento delle responsabilità di gestione dei rischi (individuali) dai governi agli individui e alle loro famiglie (con il ricorso a fondi pensionistici privati - di accumulazione e di erogazione delle rendite vitalizie -' a coperture per fini sanitari, a coperture subordinate alla disoccupazione, a investimenti personali in istruzione e immobili). Q_uesto "great risk shift" ha ridefinito i "confini dell'assicurazione", riducendo il ruolo della comunità, trasferendo sull'individuo (e sulle famiglie) la scelta della quantità e del tipo di protezione da assumere, addirittura - in molti casi - la responsabilità della prevenzione. E' stato un carico di responsabilità che gli individui quasi mai hanno potuto sostenere con un bagaglio tecnico adeguato, rispetto ai problemi da affrontare; le scelte sulle "alternative di futuro" (in particolare sui livelli e sulle forme di indebitamento, sui modi dell'impiego del risparmio e dell'investimento pensionistico) sono state troppo facilmente piotate a vantaggio degli interessi commerciali degli intermediari finanziari. L'autore è professore ordinario di Matematica finanziaria e di Valutazione e controllo dell'impresa di assicurazione, Facoltà di Scienze statistiche, Università La Sapienza, Roma.


Ne è derivato - in vasti strati sociali - l'aggravamento della situazione economica 3 e un forte "disagio da incertezza", che ha riproposto l'immagine preoccupante del ceto medio come "luogo sociale del rischio 114 .

L'APOLOGIA DEL MERCATO

La "privatization of risk" è stata sostenuta con l'apologia del settore privato quale migliore mezzo per gestire il rischio, e del mercato come nuovo ed efficiente (ri) assicuratore. Come "format pubblicitari" possono essere presi a esempio i libri di Shiller 5 e di Attali6 . Sono, nella sostanza, esercizi di immaginazione sul lungo periodo che vedono l'assicurazione - insieme di istituzioni e strumenti finalizzati al controllo dei rischi al centro dello sviluppo del sistema economico. Shiller immagina il nuovo ordine finanziario del XXI secolo, come "infrastruttura di gestione del rischio, radicalmente nuova per contribuire ad assicurare la ricchezza delle nazioni"; propone sei idee, tutte incentrate sul principio di assicurazione "a lungo termine", che coinvolgono istituzioni private (compagnie di assicurazione e banche), i mercati finanziari, i governi, gli accordi tra gli Stati. Jacques Attali, nella breve storia de/futuro arriva a vedere nel 2050 le compagnie di assicurazione "prime industrie del pianeta" per volume d'affari e profitti, "sempre più potenti, a detrimento degli Stati"; le compagnie di assicurazione - e gli istituti di copertura dei rischi dei mercati finanziari - completeranno i regimi di sicurezza sociale; il sistema finanziario sarà sempre più concentrato intorno a enti di assicurazione e a fondi di copertura del rischio davvero audaci, che esigono una redditività sempre più elevata. Non c'è grande novità in questi esercizi; nulla che non possa cogliersi già nella storia, se non l'intensità e la dimensione attribuita a certi fenomeni: l'offerta di nuovi contratti agganciati a nuovi indici, per proteggere il potere di acquisto della busta paga individuale, i rischi di carriera, il valore economico delle abitazioni (l'home equity); il potenziamento dei mercati "tradizionali" e la creazione dei "macromercati": grandi mercati internazionali per contratti a lungo termine su redditi nazionali o redditi da lavoro dipendente; l'attenzione alle tecnologie: per potenziare le basi di informazione, per migliorare la prevedibilità, per imporre norme di comportamento, per gestire al meglio i comportamenti anomali (adverse se/ection e moral hazard). L'esperienza della crisi in atto conferma l'idea che le "soluzioni di mercato" - per il controllo dei rischi delle famiglie - andrebbero ripensate con grande immaginazione, e mitigate con il ricorso ai principi di mutualità. NON SI PUÒ RISOLVERE TUTTO CON L'ASSICURAZIONE PRIVATA

Ilcampo (di azione) dell'assicurazione "di mercato" ha limiti naturali, oltre i quali deve intervenire la comunità (lo Stato). L'assicurazione può provvedere ai "bisogni eventuali" proprio perché sono "eventuali", cioè imprevedibii; se viene meno l'in49


certezza su quei bisogni - sui fatti che li originano - non muterebbe per il colpito la necessità di farvi fronte, ma verrebbe a mancare la possibilità di rimediarvi mediante l'assicurazione. Il problema diventa carico di implicazioni etiche e sociali nel caso dell'assicurazione sulla vita (morte) e sulle malattie. Ogni progresso nella diagnosi precoce (di malattia) attenua l'efficacia del rimedio assicurativo: l'aumento di premio per assicurare in caso di morte un individuo riconosciuto "aggravato" rispecchia il fatto che il rimedio assicurativo funziona soltanto per riguardo allo sviluppo ancora incerto delle condizioni di salute per l'avvenire (rischio di morte per cause diverse e accidentali), mentre la parte derivante dal già accertato aggravamento attuale ne è esclusa; al limite, se l'aggravamento è forte, nessuno accetta di assicurare (com'è ovvio e giusto): il bisogno sussiste, ma il rimedio assicurativo è inoperante. Il raggiungimento della certezza mette fuori gioco quindi l'assicurazione privata; e per coprire il bisogno che resta - apre all'intervento della sicurezza sociale. La possibilità di utilizzare nuove tecnologie (di diagnostica, di controllo) che producono informazioni di qualità "nuova" rispetto al passato (sullo stato e sui comportamenti degli assicurati) richiama ancora il ruolo degli Stati e le scelte di politica sociale: va definendo sempre più delicato il confronto dell'assicurazione con la "data protection", e drammatico l'incontro con il "diritto di non sapere" (che la Convenzione europea sui diritti umanie la biomedicina - del 1997 - riconosce come un diritto della persona, all'articolo 10.2). Il caso dell'assicurazione malattia è di nuovo emblematico. Il timore dell'esclusione dal contratto di assicurazione può indurre soggetti a rischio a non sottoporsi a test clinici; nell'aprile del 1998 "l'Associated Press riferì che negli Stati Uniti il 32% delle donne invitate a partecipare a uno screening genetico rifiutò di farlo; la maggioranza spiegò questa decisione proprio con il timore della discriminazione genetica, non esistendo nelle normative americane sufficienti garanzie contro il rischio che le informazioni fornite dal test finissero nelle mani di datori di lavoro e assicuratori", con potenziali conseguenze anche sui consanguinei 7 .

PROBABILITÀ E "RESPONSABILITÀ DEMocRATIcA" I problemi connessi alla copertura dei bisogni dell"età anziana" hanno rappresentato l'esempio tecnico su cui Mervyn King - il Governatore della Banca d'Inghilterra - ha argomentato sul ruolo che è necessario dare all'incertezza e alla probabilità nel dibattito pubblico 8 molti di noi non si sentono a proprio agio con il linguaggio del probabiismo", e di fronte ai rischi "rimangono proni alla confusione" causata dall"illusione della certezza"; i temi dell'assicurazione e della previdenza oggi più rilevanti - rischio di longevità, copertura delle spese sanitarie, rapporti tra generazioni, tutela del potere di acquisto e dei livelli di reddito - richiedono per essere fronteggiati un cambiamento nei modi della politica; se si vuole impostare una terapia efficace bisogna prendere atto che lo "statistical thinking" è necessario all"efficient citizenship" tanto quanto "la capacità di leggere e scrivere"; il pubblico deve ricevere informazioni : "

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accurate sui rischi; essere abituato a vedere le grandezze del futuro rappresentate non da un solo numero, ma da una distribuzione di probabilità (come esempio efficace King mostra - a pagina 29 - i "grafici a ventaglio" ripresi dall'Inftation Report della Bank of England, che danno il proftlo delle distribuzioni dell'inflazione futura). L'esempio tecnico è portato a paradigma generale: l'educazione al probabilismo deve diventare un cardine del processo di decision-making e della giustificazione pubblica delle decisioni; deve essere riconosciuta e praticata come requisito essenziale per tutelare la responsabilità democratica ("democratic accountability"). Su questo impegno si inserisce - e andrebbe potenziato - il piano dell'O ECD finalizzato all"improving financial literacy" 9; e il progetto di definire le "good practices for enhanced risk awareness and education on insurance issues" 10 .

PER UNA "CULTURA DEL RISCHIO"

Ambire a un atteggiamento corretto verso la probabilità non è purtroppo ancora impresa agevole. Al di là di tante precisazioni tecniche (che pure sarebbero utili) in prima battuta si tratta di scegliere "se i metodi probabilistici... abbiano validità incondizionata oppure limitata a casi di natura particolare, all'infuori dei quali ci lascerebbero del tutto privi di guida nel valutare le situazioni e nel prendere delle decisioni" 11 . La scelta della posizione logica da occupare sembrerebbe ovvia per i vantaggi pratici che garantisce, ed è pienamente giustificata dalla teoria delle probabilità. Eppure è ancora considerata significativa la distinzione tra situazioni in cui la probabilità è "misurabile" da situazioni di "non-misurabilità" (tra risk e uncertainty, nel senso di Knight); e quindi si restringe la validità dei criteri coerenti (di decisione) sulla base di ipotesi superflue e mal-definibili - ai casi di "rischio", lasciando negli altri casi la decisione "all'intuito, oppure all'adozione arbitraria tra numerosi criteri più o meno artificiosi, suggeriti per esprimere sommariamente parziali motivi di possibile preferenza" 12 Naturalmente "ci possiamo trovare di fronte a dubbi o imprecisioni nel valutare una probabilità, ma non si tratta di una situazione di per sé significativa da teorizzare. Si tratta di uno stato necessariamente transitorio su cui si può cercare di dire qualcosa a titolo di chiarimento preliminare ma senza che ciò interferisca sullo studio effettivo della probabilità" 13 Le conseguenze della distinzione sono gravi, toccano i principi della scelta economica e dell'assicurazione. Meraviglia e lascia perplessi ritrovare la retorica del "risk vs uncertainty" tra i fondamenti metodologici di riferimento per la "società del rischio" 14 e per il "great risk shift" 15 perché i sociologi - sopra gli altri - dovrebbero prediligere un'impostazione della probabilità "vera, non chiacchieroide, o metafisicheggiante o astrazionesca, bensì operativa, behaviorista, pragmatista,basata... su scelte concettualmente (ed effettivamente) sperimentabii" 16 . (

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UN ESEMPIO DI AZIONE: IL PROBLEMA DELLE RENDITE VITALIZIE In molte sedi - istituzionali, politiche, sindacali -, a livello nazionale e internazionale, è stato definito rilevante il problema di sviluppare un mercato delle rendite vitalizie (annuity); è stato auspicato che le rendite siano rivalutabili (con la prestazione legata ai rendimenti finanziari e/o all'inflazione) e con un rendimento minimo garantito, a tutela del reddito frituro. Il dibattito sui contratti di rendita vitalizia ha posto all'attenzione degli aderenti ai fondi pensione il problema della valutazione e della scelta in condizioni di incertezza, e alle "autorità" il problema dell'educazione (degli aderenti) alla scelta "informata e consapevole". I temi tecnici del dibattito possono essere ordinati e riassunti distinguendo i tre punti di vista: dell'acquirente, del fornitore, degli Stati 17. Per gli acquirenti, le rendite sono prodotti difficili da giudicare (vincoli alla domanda): il pricing è opaco e impossibile da verificare agevolmente; la contrattualistica è complessa; non ci sono standard contrattuali che agevolino i confronti; non c'è sensibilità (educazione) allo "shared risk pool" ("consumers thinking that if they die early their money transfers directly to the profits of the insurance company"). Per i fornitori le rendite sono prodotti critici (vincoli all'offerta): sono prodotti finanziari "low margin", e i nuovi disegni normativi potrebbero aumentare i costi da capitale assorbito (il Solvency Capital Requirement di Solvency 1118); sono affetti dal longevity risk, difficile da gestire (sia in termini previsionali che di copertura); sono affetti da adverse selection; le criticità gestionali potrebbero crescere crescendo i volumi. Per agevolare lo sviluppo del "mercato delle rendite" i regolamentatori e gli Stati potrebbero contribuire al miglioramento delle basi statistiche e dei modelli previsionali (sostenendo "the development of more sophisticated, stochastic mortality modelling ... and encourage moving away from more limited, deterministic approach"); concedere incentivi fiscali; migliorare la qualità tecnica degli attuali; migliorare l'informativa (per rendere trasparente la procedura di pricing e comparabili i risultati); avviare o potenziare il processo di educazione dei consumatori; contribuire al mercato della "riassicurazione" del rischio di inflazione e del longevity risk. Un avvio efficace del mercato delle rendite potrebbe essere agevolato dalla costruzione di sistemi "pubblici" di calcolo e di confronto dei prezzi 19. La costruzione del sistema potrebbe coinvolgere tutte le parti interessate al mercato: gli acquirenti (in particolare, in Italia i fondi pensione), i fornitori, le autorità di vigilanza. Indurrebbe una migliore standardizzazione dell'informativa contrattuale (che comunque è nella sostanza già di buon livello); l'allineamento dei modelli di valutazione alla "best practice" finanziaria; la difRisione di una "cultura del rischio" che unifichi i punti di vista delle tecniche attuariali tradizionali e dell'economia finanziaria. L'utilizzazione pubblica degli algoritmi di calcolo in forma di software - distribuiti in rete - solleciterebbe pure la domanda (e quindi l'offerta) di basi statistiche sempre più adeguate e aggiornate; diventerebbe un sostegno nelle fasi di negoziazione; potrebbe essere

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sistema efficace per potenziare i progetti di "alfabetizzazione" sui temi finanziari e assicurativi già auspicati con forza nelle sedi istituzionali. Gli altri impegni non sono secondari, ma richiedono per la soluzione tempi più lunghi, presuppongono mercati più spessi e decisioni dei governi. Lo studio di modelli più accurati per la previsione della sopravvivenza è un lavoro in corso i cui esiti difficilmente potranno da soli risolvere il problema del longevity risk; lo sviluppo di un mercato della riassicurazione "indiretta" (per il rischio di inflazione e per il rischio di sopravvivenza) tramite l'emissione di titoli a indicizzazione reale, di mortality/longevity bond e di contratti derivati (su indici di inflazione e di sopravvivenza) è ancora un disegno strategico, con pochi episodi di sperimentazione. UN NUOVO RUOLO PER GLI STATI Per potenziare l'offerta di prodotti previdenziali - e di malattia - le Istituzioni internazionali e gli Stati sono stati chiamati a sviluppare un mercato delle obbligazioni "ultra-long fìxed income" e "inflation-linked", e a considerare un possibile ruolo nell'emissione di longevity-index bond 20. Questo tipo di intervento potrebbe portare a definire forme nuove - indirette - di partenariato pubblico-privato, rielaborando schemi sperimentati con successo in altri rami assicurativi: l'esperienza del Messico e della Spagna nell'assicurazione dei rischi agricoli 21 , ove le agenzie statali partecipano alle coperture con assicuratori e riassicuratori privati, potrebbero essere interessanti casi di riferimento. Dal punto di vista tecnico i titoli a reddito fisso di lunga durata e i titoli legati all'inflazione non pongono problemi per il disegno del contratto; si tratta di trovare i modi per aumentare i volumi emessi e per rendere "più profondo e efficiente" il mercato secondario. Ancora embrionale è la pratica di progettazione dei prodotti di copertura del rischio attuariale. Il mortality bond (a tre anni) emesso da Swiss Re e il longevity bond (a venticinque anni) proposto dalla Banca Europea degli Investimenti sono casi sperimentali interessanti; il Credit Swiss Longevity Index (una misura standardizzata della vita media attesa, per ora riferito alla popolazione degli Stati Uniti) e il New Goldman Sachs Tradeable Mortality Risk hanno aperto una via promettente verso la trasparenza del pricing e per la costruzione di contratti derivati; gli schemi di mortality option e swaptions, di mortality e longevityfutures, di annuityfutures e gli schemi di "securitization" delle rendite sono tentativi di progettazione in fase di studi0 22 È auspicabile che le critiche rivolte ai derivati e alle pratiche di "cartolarizzazione" sull'onda della crisi in atto - siano intese per ciò che debbono essere: non verso i contratti (e le tecniche) in sé, ma contro il malusare. Vale sempre il richiamo di Einaudi sui "grandi servigi" offerti dai contratti derivati, che hanno risposto all"occorrenza" di "trovare, per necessità imperiosa delle cose, un'altra forma di assicurazione" 23 .

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1 GOBBI U., L'assicurazione in generale, Roma, INA, 1974 (ristampa della seconda edizione del 1937), p. 242. 2 Si dice che con Bismarck lo Stato diventa "assicuratore"; nascono i primi schemi obbligatori di assicurazione sociale - per garantire liveffi di reddito e di qualità della vita, gestendo i rischi del lavoro e i "patti" tra generazioni -' contro le malattie (nel 1883), contro la vecchiaia e l'invalidità (nel 1889), contro gli infortuni (nel 1894). In Italia l'emersione della previdenza sociale si avrà soltanto pochi anni dopo (anche se il Regno Sardo aveva già istituito nel 1859 la "Cassa rendite vitalizie per la vecchiaia"), e in forma assolutamente innovativa. In particolare, per il mercato delle assicurazioni sulla vita, la costituzione dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), nel 1912, - esito del disegno di legge sul monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, preparato da Nitti e Beneduce, avversato da Einaudi e Pantaleoni - rappresenta un'innovazione fondamentale nella storia dell'intervento dello Stato nell'economia: è il primo istituto statale dotato di personalità giuridica propria, autonomo dalla burocrazia ministeriale e organizzato secondo modelli privatistici; il monopolio statale viene considerato non soltanto una garanzia contro i rischi di fallimento, ma anche strumento di mobilitazione del risparmio (CIoccA, P., ToNioLo, G., Storia economica d'Italia, (volume 2), Milano-Bari, Cariplo-Laterza, 1999, pp. 206-7). 3 La crisi in atto ha soltanto peggiorato trend negativi già accentuati; la situazione degli Stati Uniti è ampiamente documentata dai risultati della ricerca del Social Science Research Council su "The Privatization of Risk", disponibili nel sito www.privatizationofrisk.ssrc.org .; anche nell'articolo di Jacob S. Hacker in questo stesso numero della rivista. 4 L'espressione è di Mariuccia Salvati, citata in BAGNASCO A. (a cura di), Ceto medio. Perché e come occuparsene - Una ricerca de/Consiglio italiano per le Scienze Sociali, il Mulino, Bologna 2008, p. 74; anche nell'articolo di Arnaldo Bagnasco in questo stesso numero della rivista. 5 SHILLER,R.J., The New Financial Order. Risk in the 21st Century, Princeton, Princeton University Press, 2003; tr. it. Il nuovo ordinefinanziario, Il Sole240re, Milano 2003. 6 ATTALI J., Une bréve histoire de l'avenir, Librairie Arthéme Fayard, Paris 2006; tr. it. Breve 54

storia delfuturo, Fazi editore, Roma 2007. 7 RODOTÀ, 5., La vita e le regole, Feltrinelli, Milano 2007, p. 194. 8 KING, M., What Fates Impose. Facing Up To Uncertainty, The Eighth British Academy Annual Lecture, 2004. 9 OECD, Improving Financial Literacy. Analysis oflssues andPolicies, Paris, 2005. 10 OECD, OECD recommendation on good practicesfor en/ìanced risk awareness and education on insurance issues, Paris, 2008. 11 oz FINETTI, B., L'incertezza nella economia, in de Finetti, B., Emanuelli, F., Economia delle assicurazioni, Utet, Torino 1967, p. 35. 12 Ancora DE FINETTI, B., cit., p. 35. 13 IDE FINETTI B., SAVAGE, L.J., Sul modo di scegliere le probabilità iniziali, Biblioteca del Metron, vol. 1, Roma, 1962, p. 133. 14 BECK, U., Conditio humana. Il rischio nell'età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 3235,207,211. 15 JANEWAY, W., Risk versus Uncertainty: Frank Knight's "Brute"Facts ofEconomic Lft,June 07, 2006; disponibile in www. privatizationofrisk. ssrc.org ; riferimenti alla "non calcolabilità" del rischio sono anche in BAGNASCO, A. (a cura di), cit., p.93. 16 DE FINETTI, B., La probabilità. guardarsi dalle contraffazioni!, in «Scientia», 111, 1976, p. 271. 17 STEWART, E, Policy Issuesfor DevelopingAnnuities Markets, OECD Working Papers on Insurance and Private Pensions, 2007, n. 2. 18 L'accordo politico sulla Direttiva detta "Solvency Il" è stato approvato dal Parlamento Europeo il 22 aprile scorso e dall'EcoFIN il 5 maggio. Il regime di Solvency Il segnerà per le compagnie e per i gruppi assicurativi un cambiamento radicale nelle modalità di calcolo delle riserve tecniche e dei requisiti di solvibilità (Solvency Capital Requirement), nei criteri di ammissibilità degli attivi a copertura delle riserve e del patrimonio, nei principi generali in materia di governance, controllo interno e risk management, nell'informativa verso il mercato e le autorità di vigilanza. 19 Il problema di valutazione delle rendite non è agevole. Le rendite rivalutabili sono caratterizzate da meccanismi contrattuali complessi sono veri e propri contratti finanziari "strutturati" -, con variabili tecniche (tavole di sopravvivenza,


rendimento per la rivalutazione) che dipendono da scelte discrezionali del fornitore (del contratto). Per la valutazione e il confronto dei prezzi è perciò necessario definire "convenzioni" (benchmark tecnici), che siano di riferimento rispetto alla discrezionalità. La "valutazione convenzionale" se condivisa dagli agenti interessati potrebbe avviare un processo verso l'efficienza di mercato. Sistemi di "valutazione benchmark" cominciano a essere resi disponibili al pubblico; ma per fattispecie contrattuali semplici (rendite non rivalutabili) o con semplificazioni tecniche inadeguate per i contratti più complessi. Sulle semplificazioni indebite va posta attenzione; come sperimentato in altri segmenti di mercato, possono produrre inefficienze e lasciare a chi non le pratica ampi margini di arbitraggio. Considerazioni sui problemi della valutazione e sui modi di costruzione di un sistema "pubblico" di sostegno alla scelta tra rendite rivalutabili con minimo garantito (basato su pricing, confronto di prezzi e di redditività) sono in CASTELLANI G., DE FELICE, M., MORICONI, F., Sviluppare il mercato delle rendite vitalizie, Mefop,Working paper n. 22,2009. 20 Group of Ten, Ageing andpension system reform: ImplicationsforJlnancial markets and economicpolicies, A report prepared at the request of the Deputies of the Group ofTen by an experts group chaired by Ignazio Visco, September 2005, pp. 41-43. Swiss RE, Lo scenario assicurativo nei 21 mercati emergenti: sviluppo solido e terreno vergine per le assicurazioni rischi agricoli, Sigma, 3/2007, pp. 39-42. Nello schema di partenariato utilizzato in Spagna sono coinvolti tre soggetti: l'Entidad Estatal de Seguros Agrarios (ENE5A), il Consorcio de Compensaciòn de Seguros (Css), l'Agroseguro. L'ENESA è un'agenzia governativa, si occupa di proporre e attuare il "piano annuale" delle assicurazioni sui rischi agricoli; di proporre di conle condizioni tecniche certo con l'Agroseguro minime di coltivazione, il rendimento assicurabile, i prezzi e il termine ultimo di sottoscrizione delle polizze; di verificare i piani assicurativi; di condurre studi sulle misure di prevenzione dei rischi e la copertura; di promuovere le assicurazioni; di fingere da arbitro nelle controversie tra assicurato e compagnia di assicurazione. Il Css l'Ente -

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pubblico che fa capo al Ministero dell'Economia fornisce la riassicurazione obbligatoria e contribuisce a garantire la redditività delle assicurazioni attraverso un programma predefinito di compartecipazione agli utili. Agroseguro è un consorzio costituito da sessanta compagnie di assicurazione private; controlla e amministra le polizze; provvede al pagamento delle riassicurazioni al Css e alla raccolta delle sovvenzioni. Ogni anno l'ENEsA redige un piano operativo che determina quali materie prime/rischi saranno assicurati, la forbice delle sovvenzioni ai premi e la data ultima di acquisto. Agroseguro specifica le condizioni per ciascun prodotto, stabilendo distinzioni regionali delle aliquote di premi in linea con il livello di esposizione al rischio, e i costi di amministrazione e di riassicurazione; vende quindi le polizze attraverso la rete delle sessanta compagnie di assicurazione private. La riassicurazione obbligatoria è acquistata dal Css; il Css può trasferire quote di rischio nel mercato internazionale delle riassicurazioni. Lo schema di organizzazione consente di realizzare una serie di obiettivi considerati strategici per il futuro dell'assicurazione in generale: offrire copertura a una vasta gamma di sinistri (relativi alla produzione agricola e al capitale zootecnico); unire enti privati e enti pubblici in un unico sistema che fornisca una piattaforma unica per lo sviluppo di know-how e di prodotti e per la ripartizione dei rischi; la riduzione dei costi, favorita dall'amministrazione centralizzata; la gestione «trasparente" delle sovvenzioni pubbliche sui premi; la costituzione di un portafoglio rischi estremamente diversificato, con una volatilità relativamente bassa dei risultati. Swiss RE, Lo scenario assicurativo nei mercati emergenti: sviluppo solido e terreno vergine per le assicurazioni rischi agricoli, Sigma, 3/2007, pp. 39-42. BLAKE,D., CAIRNS A.J.G., DowD K., 22 Living with mortality: longevity bonds and other mortality-linked securities, Working paper, 2006; COWLEY, A., CUMMINS, J.D., Securitization of L~fe Insurance Assets and Liabilities, Working paper, 2005. 23 EINAUDI L., A favore dei contratti dfferenziali, in «La riforma sociale», 3(1896), 5, p. 411. -

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istituzioni

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Eorum

A pioco nella crisi

Era inevitabile: all'arrivo, assai di soppiatto, della crisi per molto tempo poco percep ita se non negata - nel volgere di pochi mesi, una volta esplosa la sua gravità, si sono aperte le cateratte del grande parlare di crisi.Ripetiamo: inevitabile. Questa rivista è stata altre volte attenta alle crisi economiche eJlnanziarie degli ultimi decenni. Adesso non può mancare all'appello. Per ora, tuttavia, non c'è che da raccogliere, innanzitutto, le opinioni dei collaboratori giunte in redazione. Ci riserviamo, come è d'uso, di tornare sulla crisi e sulle gravi questioni sociali che essa ha aperto. Lofa remo attraverso una riflessione che abbia un tema preciso, quello che stiamo tentando di mettere aflioco. Intanto, anche la crisi ha i suoi copioni. In questo Forum - una raccolta di analisi, punti di vista e giudizi assai diversi sul piano del genere narrativo e rispetto a dove si collocano nel dibattito sulla crisi - ne presentiamo uno maggioritario quanto alla visibilità che gli è generosamente concessa dai media. Insieme al suo controcanto. Il soggetto interpretato è la difesa dell'indfendibile. Una tradizione retorica ed argomentativa molto in voga e che non conosce crisi. Sappiamo infatti quanto certi media apprezzino i casi umani. Tra gli interpreti più noti, c'è Francesco Giavazzi, estensore, insieme a Piero Ostellino, di scritti ed articoli la cui tesi è "Il mercato ha sempre ragione' e alla quale Oliviero Pescefa le glosse. Sono quelli che... "la crisi come rigenerazione del mercato". Ovvero, i talebani del mercato, come li chiama Pesce. Perché è vero che nelle difficoltà ci si ingegna, sifa di necessità virtù, la necessità aguzza l'ingegno, l'artista dà il meglio di sé quando soffre e via dicendo (almeno così siamo certi di meritarci l'etichetta di luogocomunisti da parte di Giavazzi), ma a molti Il fantasma del mercato deve essere parso molto concreto, per esserci andati a sbattere contro. E quindi utile e benefica la pignola rassegna che Pescefa degli argomenti, a dire il vero molto poco argomentati, portati a sostegno dello status quo, anche dopo il disastro che tutti hanno sotto gli occhi. Per ripristinare un po' di buon senso. 57


In La crisi dei mutui subprime: un'analisi econometrica, Marco Mele propone uno studio sulle determinanti di lungo periodo della crisi finanziaria, per ricavarne, insieme alle variabili di breve periodo, un modello descrittivo delfenomeno ed un'interpretazione degli squilibri di natura reale del sistema economico-finanziario internazionale. Forse, sullo sfondo dell 'analisi, sorgono domande sulla possibile inflazione prossima futura. Tra le determinanti di lungo periodo, al primo posto, c'è la deregolamentazione del sistema finanziario, cui seguono le politiche economiche - principalmente americane e inglesi - dagli anni ottanta ad oggi, e la politica monetaria globale. Il regime di laissez faire e la deregolamentazione, così come avviate da Margaret T[hatcher in Inghilterra e da Ronald Reagan negli Stati Uniti, hanno inaugurato una stagione di estrema leggerezza ed avventatezza nel sistema bancario efinanziario, con crescenti in vestimenti ad altissimo rischio e garantiti da una base reale pressocché inesistente, con un uso forzato dei derivati, e con tassi di speculazione e volatilità ai massimi livelli. Di questi processi innescati dalla politica compiacente su pressione e lauti incentivi da parte dei soggetti finanziari, troviamo una buona analisi nel rapporto "Tutto esaurito. Come Wail Street e Washington hanno tradito l'America" del Wall Street Watch Project, Associazione indipendente, che affi-onta la questione della mercatizzazione della democrazia. La commistione tra qffari pubblici e privati è stata infatti l'ampl/lcatore del disastro. Quando cioè le scelte politiche sono frutto di manipolazioni da parte delle lobby invece di seguire percorsi trasparenti e ponderati. Le trame oscure e gli interessi biechi dei poteriforti hanno trovato nella politica corruttibile e senza visione o etica un compagno di merende. L'influenza di interessi organizzati e grandi società non ha più avuto un argine. né regole, né controllo. Nel medio periodo, altri fattori - tra cui l'ampio processo di cartolarizzazione che negli Stati Uniti ha visto protagoniste due società, Fannie Mae e Freddie Mac - hanno accresciuto la fragilità di un sistema finanziario anomalo. Non una serie di sfortunate coincidenze, dunque, non un ciclo naturale fuori dalla storia e congenito al sistema, bensì un insieme di specifiche, definite operazioni che sono misurabili e individuabili a partire dall'agosto 2007 nella lettura degli indici borsistici mondiali. Senza dire di ciò che rileva Joe Certavoce (che abbiamo' ospitato nel taccuino) a proposito di politichefiscali che hanno le proprie radici nello stesso clima culturale e sociale. La crisi ha cioè evidenziato in primo luogo l'imperfezione dei mercati lasciati a se stessi, un'imperfezione non ignota alla teoria classica. In secondo luogo, una serie di comportamenti generalizzati ed estesi, tesi - attraverso l'avvio di operazionifinanziarie oltre il limite dell'accettabilità del rischio professionale - alla massimizzazione del profitto di pochissimi, con lffetto perverso di rovinare le vite di molti. Quasi sempre ignari e sprovveduti, bruciando risparmi, rendite, lavoro efiducia. Sicché la crisi, quando arriva, investe l'intero sistema sociale. Non soltanto il mercato. Come pensare, allora, che il mercato debba rinnovarsi passando attraverso crisi di questa entità, senza interventi,finché è possibile?


Circo/a invece con spavalderia una certa attitudine ad accusare di liberticidio chi reclama regolè, norme, vigilanza e controllo, trasparenza, governance del sistema. Regole e norme che sono lì a tutela del mercato stesso, perché lafiducia consenta al meccanismo di andare avanti. Eppure, lo sappiamo, non è un assunto precostituito della natura umana,flguriamoci degli operatori del settorefinanziario. Efa bene Pesce a smascherare e criticare una certa ipocrisia da venditori, piuttosto che da fini semiologi, che dietro un'accurata scelta lessicale e terminologica cambiano i connotati ai fatti. In tempi di relativismo, questa è una attitudine che può anche avere qualche successo. I/rapporto de/Wall Street Watch che pure sembra avere gli occhi ben puntati sulla politica più che sulla Borsa, nonfa sconti alsettorefinanziario. La politica si èfatta corrompere, ma i corruttori sono indicati come tali. E il dato è signflcativo: 5,1 miliardi di dollari dal 1998 al 2001 travasati dalle casse del settore finanziario (banche, assicurazioni, revisori, società di vigilanza) alle tasche dei politici per sostenerne le campagne elettorali. E non fa sconti a chi avrebbe dovuto vigilare (agenzie di rating, revisori, certftcatori) ed invece è stato accomodante quando non collusivo con le malefatte dei sorvegliati. Che cosa sono questi? Circuiti virtuosi? O sono "scommesse che si infiltrano tra le norme"? Dieci anni è una misura di tempo sufficiente a parla re di patologia de/capitalismo. Per concludere questa nota introduttiva, segnaliamo il contributo di Lorenzo Sacconi su EconomEtica. Il suggerimento è di incominciare a rflettere su un nuovo ciclo del capitalismo che non può più continuare ad essere letto come ne/passato. Altrimenti, sifinisce con l'apparire poco credibili e inutilmente dogmatici. Secondo Sacconi, al centro del mondo e della società non si può porre il dogma del laissez faire come ricetta per ogni problema, attribuendo ogni fallimento ad altri, alla politica che interviene: "I/problema nasce dal fatto che i meccanismi di scelta collettiva che vengono posti in auge non sono più quelli della politica democratica, ma quelli del mercato, dell'impresa, del rating e della sorveglianza interni al mercato ecc. Perciò - se ci sono - emergono allora i cosiddetti fallimenti del mercato L'errore della politica in tal caso è non capire e non prevenire i probabili fallimenti del mercato". Sacconi propone di cambiare dogma centrale: "sostituire ad es. al criterio dello 'shareholder value' come guida di tutte le decisioni di banche e imprese delle economie capitalistiche, quello di 'stakeholder valuel, cioè i/perseguire in modo imparziale, cauto e bilanciato non i 'propri interessi - date le stock option '- ma l'interesse di tutti gli stakeholder (azionisti, risparmiatori, lavoratori, clienti, fornitori, comunità circostante, generazionifuture ...). Usare l'equilibrio equo tra essi come la stella polare della gestione strategica. Adottare una governance in cui gli amministratori devono salvaguardare la relazione fiduciaria con tutti gli stakeholder - cioè adempiere a doveri di responsabilità sociale - e non solo con chi ha il contro/lo. Ciò può esserefavorito da un regolazione pubblica imparziale, abilitante e non invasiva, e da un'autoregolazione sociale (agenzie di rating e certftcazione sociale) non collusiva né accomodante, in quanto le sue organizzazioni (meglio se non proflt) non abbiano gli stessi interessi di coloro che controllano, ma rappresentino un bilanciamento 59


tra gli interessi di molteplici stakeholder. L'impresa governata in base al principio del 'valore per tutti gli stakeholder, ad esempio, non remunerando il manager con la variazione di valore delle azioni su cui lui ha un'opzione (e che può manipolare), non venderebbe ai consumatori (clienti) false promesse e al contempo non adotterebbe condotte così rischiose (se è una banca: trascurare di fare il suo compito di analisi del profilo di rischio dei clienti, confidando poi sulla possibilità di rivendere i debiti, come titoli, ad altri risparmiatori) da mettere a rischio i posti di lavoro. Così, in cambio di una redditività più moderata, dfenderebbe nella sostanza anche i piccoli investitori". Queste indicazioni sintetizzano umori, atteggiamenti, modi di pensare che si vanno affermando. Purtroppo, è una linea di pensiero che si presta afondare nuovi conformismi se non si avvertono da subito le d#coltà delle applicazioni, l'importanza delle implicazioni, la necessità difare convergere contributi molteplici di analisi e diprogettazioni multidisciplinari. Dire questo non è, per noi, su queste pagine, un'avvertenza che costituisce un atto dovuto. E una profonda convinzione. (C.L.)


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forulil

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Tutto esaurito. oiue lYaII Street e Ufa.shiugtoll hauno tradito IAmerica* di Wall Street Watch

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rendetevela con 'VVall Street per la crisi finanziaria in atto. Banche d'investimento, fondi speculativi e banche commerciali hanno fatto scommesse assai azzardate con il denaro avuto in prestito. Hanno creato esotiche società di investimento nelle quali hanno realizzato ogni tipo di traffico. Società delle quali neanche i manager più alti in grado di Wall Street - per non dire dei dirigenti delle società finanziarie - hanno capito qualcosa. E hanno celato gli investimenti rischiosi in strumenti finanziari fuori bilancio, oppure li hanno capitalizzati mettendoli insieme a tutti gli altri investimenti. Hanno concesso prestiti predatori in misura esorbitante, prestiti che offrivano enormi profitti per un certo lasso di tempo, con gravi conseguenze nel momento in cui si sono rivelati insolvibii. Ed hanno creato, mantenuto e legittimato una bolla immobiliare che poi è esplosa, trascinando gli Stati Uniti ed il resto del mondo in una profonda recessione, con il risultato di un'epidemia di pignoramenti che ha travolto le collettività dell'intero Paese. Se 'Wall Street - intesa come i principali operatori dell'intero Settore finanziario, non solo a New York - è colpevole della crisi finanziaria e della recessione globali, ci sono tuttavia altri responsabili con i quali è giusto che condivida la colpa. Nelle ultime tre decadi, i regolatori finanziari, il Congresso e l'Esecutivo hanno costantemente eroso il sistema posto ad arginare il settore finanziario impedendogli di agire secondo le sue peggiori inclinazioni. Il sistema regolatorio messo in piedi a seguito della Depressione mirava ad aprire ed aumentare la trasparenza dell'informazione finanziaria rilevante per l'interesse pubblico; stabiliva limiti al ricorso alla leva finanziaria; tracciava un chiaro confine tra i 61


diversi rischi dell'attività finanziaria e proteggeva l'attività bancaria commerciale regolamentata dai rischi di investimento bancario tipici; rafforzava i già significativi limiti alla concentrazione economica, soprattutto nel settore bancario; garantiva una tutela consistente al consumatore (incluse le restrizioni sui tassi di interesse usurai); e faceva opera di contenimento del settore finanziario, così da mantenerlo subordinato all'economia reale. Un sistema di regolazione così ben assortito era, come è ovvio, assai imperfetto, e spesso non è stato in grado di mantenere tutte le promesse fatte. Tuttavia, non è stata l'imperfezione a portare all'erosione prima ed al collasso dopo del sistema regolatorio così come era stato disegnato in origine. E stato invece lo sforzo bene orchestrato di Wall Street, che ha continuato a guadagnare impeto con la grande eccitazione alla fine degli anni novanta, procedendo dritto per la sua strada fino alla prima metà del 2008. Ancora oggi, Wall Street non fa marcia indietro e difende molti dei comportamenti deteriori che ha messo in atto. A 'Wall Street interessa soltanto ridurre la portata e l'importanza della precedente regolazione e, se possibile, sotto le mentite spoglie della regolazione, ad indebolire ulteriormente il controllo pubblico sulle proprie operazioni. Adesso Wall Street non può che ringraziare la politica per l'arrivo della nuova regolazione finanziaria. Il principale messaggio contenuto nel rapporto approntato da Wall Street Watch Project è chiaro: la deregolazione finanziaria ha portato direttamente al disfacimento finanziario. Ci sono altri due messaggi importanti. Primo, i dettagli della questione. Il rapporto documenta una dozzina di specifici passi che hanno condotto alla deregolamentazione (inclusi i fallimenti della regolazione ed i faffimenti delle politiche di rafforzamento della regolazione esistente), consentendo a Wall Street di demolire l'intero sistema finanziario. Secondo, Wall Street non ha ottenuto che le politiche di regolazione cadessero in disgrazia portando argomenti forti e motivati in propria difesa. Ad ogni passo compiuto in tale direzione, infatti, non sono mancare le voci critiche, levatesi a dare l'allarme sui rischi di un'ulteriore deregolazione. Queste proteste, pur basate su dati di evidenza, non sono però riuscite a contrastare la grande influenza politica ed economica esercitata da 'Wall Street. Il settore finanziario, infatti, ha fatto piovere finanziamenti cospicui sulle campagne elettorali di entrambi gli schieramenti politici, ha investito grandi cifre in una vera e propria legione di lobbisti, ha pagato accademici e think tank perché sostenessero la tesi e le politiche che gli facevano comodo, ed ha ot62


tenuto la compiacenza della stampa, soprattutto di quella economica che ha fatto la parte di un coro di cheerleader. La prima parte del Rapporto, come detto, illustra dodici passi di deregolazione verso la disfatta finanziaria. Per ciascuno, si tenta di spiegare il tipo di azione regolatoria avviata o omessa, le sue conseguenze, il processo attraverso il quale le grandi società finanziarie ed i loro alleati politici hanno raggiunto gli obiettivi che si erano prefissati. Nella seconda parte, sono presentati i dati delle contribuzioni alle campagne politiche da parte delle società finanziarie, insieme a tutti gli altri investimenti in attività di lobbying. Il dato aggregato è sconvolgente: negli ultimi dieci anni, il settore finanziario ha investito oltre 5,1 miliardi di dollari a sostegno della politica. In questa decade, tutti i soggetti del settore finanziario (finanza, assicurazioni, mercato immobiliare) hanno inondato i candidati politici di contributi destinati alle campagne elettorali: oltre 1,7 miliardo di dollari per le sole elezioni federali dal 1998 al 2008. Per apprezzarne l'equilibrio, circa il 55% è stato versato ai Repubblicani ed il restante 45% ai Democratici. Soltanto nel 2008, i Democratici hanno ricevuto più del 50% del totale speso dal settore finanziario. Che nello stesso periodo ha speso anche di più - fino a 3,4 miliardi di euro - in attività lobbistiche ufficialmente registrate presso gli uffici federali. Tra il 1998 ed il 2004: - le società di revisione contabile hanno speso 81 milioni di dollari per contribuire alle campagne politiche e 122 milioni di dollari in attività di lobbying; - le banche commerciali hanno speso oltre 155 milioni di lire in forma di contributi alle campagne, ed hanno investito quasi 383 milioni di dollari in attività lobbistiche ufficiali; - le compagnie di assicurazione hanno contribuito con più di 220 milioni di dollari alle campagne elettorali ed hanno speso oltre 1,1 miliardo di dollari in lobbying; - le società di vigilanza hanno investito circa 513 milioni di euro in contributi alle campagne, ed ulteriori 600 milioni di euro in lobbying. Tutti questi soldi sono serviti ad assumere legioni di lobbisti. Il settore finanziario ne ha impiegati 2.996 nel 2007. Le società finanziarie hanno assunto un numero straordinario di ex funzionari di governo per attività di lobbying: ben 142 tra il 1998 ed il 2004, scelti tra alti funzionari di Governo, uomini dell'Esecutivo e del Congresso. Di seguito le dodici fasi di deregolazione sulla strada del collasso finanziario. 63


Il Fìnancial Services Modernizationd Act del 1999 ha formalmente abrogato il Glass-Steagall Act del 1933 (conosciuto anche come Banking Act del 1933) e le norme collegate, che proibivano alle banche commerciali di offrire tra i propri prodotti anche investimenti bancari e servizi di assicurazione. In una forma di disobbedienza civile corporativa, nel 1998 Citibank e il gigante assicurativo Travelers Group decisero di fondersi - un'operazione allora illegale, ma per la quale è stato concesso un periodo di tolleranza di ben due anni - sulla base della convinzione che nel giro di poco tempo sarebbe stato possibile modificare la legge di settore. Come poi è avvenuto. L'abrogazione, nel 1999, del Glass-Steagall Act ha creato le condizioni giuste perché le banche iniziassero ad investire in strumenti finanziari creativi (ad esempio, i contratti derivati del credito ed i titoli obbligazionari garantiti da ipoteca, investimenti azzardati che hanno dominato i mercati fino al 2008) il denaro depositato in conti correnti e libretti di risparmio.

Abrogazione del Banking Act ed esaltazione della cultura dell'avventatezza

Le azioni fuori bilancio in genere consentono alle società di escludere i titoli tossici o in passivo dalle informazioni finanziarie presentate agli investitori, così da rendere la società stessa più interessante e il suo valore più alto di quanto in realtà è. Le banche hanno usato le operazioni fuori bilancio - entità (Speciale Purpose Entity) o veicoli finanziari a finì speciali (Special Purpose Vehicle) - per i mutui ipotecari (securitized mortgages) che, ascritti ad entità fuori bilancio, non obbligavano le banche a detenere riserve patrimoniali contro i rischi di morosità. Simili operazioni sono ammesse dalle regole del FinancialAccounting Sta ndards Board, poste a incentivo delle grandi banche. La Securities Industry and Financial Markets Association e l'American Securitization Forum sono due strenui rappresentanti degli interessi lobbistici che oggi si oppongono alla riforma di questa norma.

Le passività nascoste: la rendicontazione fuori bilancio

I derivati finanziari sono del tutto privi di regolazione. Da ogni punto di vista, ciò si è rivelato un completo disastro; Warren Buffet, Presidente Berkshire Hathaway, dicendo che essi rappresentano "armi di distruzione finanziaria di massa", ha dimostrato grandi doti di preveggenza (Relazione agli azionisti, 21 febbraio 2002. Da World Wide Web: http://www.berkshirehathaway.com/letters/20031tr.pdf) . I derivati finanziari hanno amplificato la crisi finanziaria in atto, portandola ben oltre i problemi oramai inevitabili poiché connessi all'esplosione della bolla immobiliare.

L'Esecutivo respinge la regolamentazione dei derivati finanziari

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La Commodity Futures Trading Commission (CFTC) esercita la propria giurisdizione su contratti a termine, opzioni ed altri derivati connessi ai beni. Sotto l'amministrazione Clinton, la CFTC ha cercato di esercitare i propri poteri di controllo e di regolazione sui derivati finanziari, senza riuscirvi, schiacciata dall'opposizione del Segretario al Tesoro Robert Rubin e, su tutti, da Alan Greenspan, Presidente della Federal Reserve. I quali hanno messo in discussione l'autorità giurisdizionale della Commissione, insistendo sul rischio che la regolazione della CFTC potesse mettere in pericolo l'attività finanziaria esistente già su larga scala (per quanto non a livelli comparabili con quelli attuali). L'allora vice Segretario al Tesoro, Lawrence Summers, dichiarò al Congresso che le linee di intervento della Commissione "gettavano un'ombra di incertezza regolatoria su un mercato altrimenti fiorente". La deregolazione - o la non regolazione - dei derivati finanziari è stata suggellata nel 2000, con il Commodities Futures Modernization Act (CFMA), la cui approvazione è stata architettata dall'allora senatore Phil Gramm (Texas). Questa norma esonera i derivati finanziari, compresi i contratti derivati del credito, da ogni regolazione ed ha contribuito a creare l'attuale crisi finanziaria.

Il Congresso biocca la regolazione dei derivati nanziari

Nel 1975, la divisione per il commercio ed i mercati della Commissione per i titoli e gli scambi (SEc) promulgò una norma che imponeva alle banche di investimento di mantenere un rapporto debitocapitale netto inferiore a 12:1, e Droibiva il commercio in titoli se il • • rapporto in questione era pari o superiore a 12:1, ottenendo che molte società mantenessero nei fatti un rapporto ben al di sotto della soglia. Nel 2004, tuttavia, la Commissione dovette soccombere alle pressioni di alcune grandi banche di investimento guidate da Goldman Sachs ed il suo allora Presidente, Henry Paulson - ed autorizzò tutte le banche di investimento a sviluppare i propri fabbisogni di capitale netto secondo gli standard fissati dal Basel Committee on Banking Supervision. Questa novità ha nella sostanza condotto a complesse formule matematiche che non hanno imposto alcun limite reale, ed è stata applicata dalle singole banche soltanto su base volontaria. Con tale nuova libertà, le banche di investimento hanno spinto il rapporto di indebitamento fino a 40:1, come nel caso di Merril Lynch. Una leva finanziaria sproporzionata che non soltanto ha reso le banche più vulnerabili quando la bolla immobiliare è esplosa, ma ha anche consentito loro di creare maggiore caos con i derivati, sicché il faffimento - anche potenziale - di una singola banca di investimento è

Il regime di regolazione su base volontana della SEC per le banche di investimento

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diventato parte in causa della crisi di sistema. L'ex Presidente della, SEC, Chris Cox, ha riconosciuto che la regolazione su base volontaria Stata un completo fallimento. Nel 1988, i regolatori del sistema bancario globale adottarono un insieme di regole note come Basel I, volte ad imporre uno standard minimo di adeguatezza patrimoniale cui le banche dovevano attenersi a livello globale. Complicate manovre finanziarie hanno reso difficile determinarne flsservanza, deviando il processo verso una serie di negoziazioni su di un nuovo insieme di regole: Basel TI che, pesantemente influenzato dalle stesse banche, ha stabilito fabbisogni variabili di riserve patrimoniali, sulla base di fattori soggettivi di rating e su modelli di analisi del rischio interni a ciascuna banca. L'esperienza della SEC con i principi Basel TI ne illustra a dovere i difetti e le debolezze fatali. Le banche commerciali statunitensi avrebbero dovuto adeguarsi ai parametri Basel Il entro aprile 2008, ma varie complicazioni e le dispute intrasettoriali ne hanno ritardato sensibilmente l'implementazione.

L'autoregolazione delle banche come fenomeno globale: pronti a replicare il disastro?

Persino in un contesto di piena deregolazione, i regolatori bancari hanno conservato i poteri e l'autorità per prendere seri provvedimenti contro gli abusi in materia di prestiti predatori. Una simile attività di supporto avrebbe contribuito a rafforzare la tutela dei proprietari di immobili, e a depotenziare, anche se non a prevenire, l'impatto dell'attuale crisi finanziaria. Tuttavia, i regolatori non hanno agito come ci si sarebbe aspettato, ed hanno fatto poco e niente: la Federal Riserve Bank ha intrapreso tre azioni formali contro i prestiti subprime tra il 2002 ed il 2007. L'Office of the Comptroller of the Currency (OcC), che esercita la propria autorità su circa 1800 banche, ha condotto tre azioni a tutela del consumatore tra il 2004 ed il 2006.

Fallimento della prevenzione contro il prestito predatorio

Quando gli Stati hanno tentato di riempire il vuoto creato dalla mancata applicazione federale delle leggi a tutela del consumatore contro i presiti predatori, i federali si sono prontamente mossi per fermarli. "Nel 2003 - racconta Eliot Spitzer - al culmine della crisi dei prestiti predatori, 1' Office of the Comptroller af the Currency invocò una clausola prevista dal National Bank Act del 1863 al fine di istituire un parere formale di prelazione su tutte le leggi statali relative al prestito predatorio, ostacolandone così l'operatività. L'OCc ha poi promulgato nuove norme che impediscono agli Stati di applicare una qualunque legge interna a tutela del consumatore contro le banche nazionali".

Prelazione federale sulle leggi statali a tutela del consumatore


Secondo la legge federale vigente, con poche limitate eccezioni, solo il prestatore originario è perseguibile in caso di elementi predatori o illegali rinvenibii in un'ipoteca, anche quando questa sia stata trasferita ad un nuovo soggetto. Tale disposizione nei fatti rende immune chi acquista l'ipoteca ("assegnatario") rispetto a qualunque problema sorto con il prestito iniziale, e lo solleva da ogni onere o obbligo di verifica dei termini del prestito. Wall Street può quindi acquistare, raggruppare e mobiliarizzare i prestiti subprime - inclusi queffi con condizioni pericolose e predatorie - senza alcun timore di dovere rendere conto di condizioni di prestito palesemente illegali. La disposizione in questione ha lasciato i mutuatari vittime di abusi senza alcuna possibilità di azione contro chi non sia il prestatore originario, e senza difesa nel caso di preclusione del diritto ipotecario. Il rappresentante dell'Ohio nella House of Representatives Bob Ney - assiduo frequentatore degli ambienti di Wall Street, poi finito in carcere per lo scandalo Abramoff— è stato il primo ad opporsi ad un più equo regime di responsabilità degli assegnatari.

Rifuggire ogni accountability: la passività dei cessionari

In piena bolla immobiliare, le due società Fannie Mae e Freddie Mac sono stati i principali acquirenti sul mercato secondario dei subprime. Le due società semipubbliche, pur non avendo un ruolo primario nella vicenda, da semplici fondi di garanzia si sono trasformate in speculatori aggressivi, finendo ad accollarsi non pochi titoli subprime da collocare poi sui mercati finanziari, per almeno 57 miliardi di dollari. L'acquisto dei titoli subprime è stata una rottura con la prassi precedente, motivata dalle teorie dell'ampia accessibiità della proprietà immobiliare da parte delle famiglie a basso reddito, così come razionalizzate da modelli matematici presumibilmente in grado di identificare e stabilire il rischio con nuovi e avanzati livelli di precisione. Nei fatti, la motivazione alla nuova prassi è stata data dalla natura profit delle istituzioni in questione e dai particolari schemi di incentivo disegnati per i manager che le guidano. Poi, le attività di lobbying su larga scala - incluse, ma non solo, quelle presso gli amici democratici degli enti in questione - hanno consentito una deviazione dal focus tradizionale ed un tempo esclusivo di attività di questi enti, ovvero i prestiti primari. Fannie e Freddie non sono responsabili della crisi finanziaria. Sono responsabili della loro stessa fine, e della risultante generalizzata passività dei contribuenti.

L'ingresso di Fannie e Freddie nel mercato dei subprime

L'effettivo abbandono, lungo l'arco degli ultimi due decenni, della disciplina antitrust e dei correlati principi regolatori ha comportato

La mania delle fusioni

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una notevole concentrazione nel settore bancario, in anticipo anche sulle recenti operazioni di fusione societaria volte a preservare il funzionamento del sistema finanziario.Tutto ciò avrebbe dovuto portare a trattare le società di settore come aziende di pubblico servizio, quindi destinatarie di un'accresciuta regolazione e di un maggiore controllo del rischio; invece, sono state messe in atto ulteriori manovre deregolatorie (inclusa l'abrogazione del Glass-Steagall Act) che hanno fatto sì che queste grandi istituzioni beneficiassero di garanzie federali esplicite ed implicite, anche quando portavano avanti investimenti finanziari avventati e ad alto rischio. L'affidabilità creditizia è la chiave di volta nella storia della crisi finanziaria. Con 'Wall Street che mette i prestiti ipotecari in una cassa comune insieme agli investimenti cartolarizzati per poi farne tante fette da distribuire, il risultato è una maggiore appetibilità degli strumenti finanziari proposti agli occhi di sempre più investitori, attratti dagli alti guadagni promessi. Ecco perché o titolari dei fondi pensionistici e gli altri investitori non potevano non prendere parte al gioco, viste le ottime quotazioni dei titoli. Le società di rating del credito hanno fatto sì che questi investitori entrassero nel gioco, abbinando valutazioni positive a titoli che in realtà erano ad alto rischio - come hanno poi dimostrato gli eventi. Il conffitto di interessi evidente di queste società sta nel fatto che attribuiscono alte valutazioni ai nuovi strumenti finanziari sulla base del complesso rapporto che intrattengono con gli emittenti, dovendo tra l'altro premurarsi non soltanto di mantenere salde nelle proprie mani le attività commerciali di quelli stessi emittenti, senza calpestarne quindi gli interessi, ma anche di procurarsene di nuove. Tale fallimento istituzionale, insieme al conffitto di interessi, potrebbe e avrebbe dovuto essere prevenuto dalla SEC, ma il Credit Rating Agencies Reform Act del 2006 non ha dato alla SEC sufficienti poteri di supervisione. Nei fatti, alla SEC è richiesto un parere positivo sulle agenzie di rating del credito che aderiscono a standard autonomamente definiti, anche quando la SEC ritiene che si tratti di standard deboli e difettosi. Wall Street è oggi umiliata, ma non prostrata. Pur avendo drenato migliaia di miliardi di dollari dalle tasche pubbliche, i dirigenti di Wall Street continuano a diffondere l'allarme sui pericoli delle restrizioni ail"innovazione finanziaria" - anche se sono state proprio queste innovazioni a condurci alla crisi. E continuano a complottare e macchinare per far sì che l'attenzione che il Congresso dovrà presto

Il dilagare dei conffitti d'interesse: il fallimento delle società di rating


rivolgere alla regolazione finanziaria abbia come risultato quello di accentrare i poteri regolatori nelle mani delle agenzie compiacenti con il settore finanziario. Se invece vogliamo concentrarci sulla regolazione sostanziale di cui c'è reale bisogno, il Congresso deve adottare una diversa prospettiva e convincersi che Wall Street non ha titoli per reclamare un posto al tavolo delle riforme. Wall Street ha distrutto il sistema che ha arricchito i suoi stessi personaggi più ambiziosi, ed ha sprofondato l'economia globale in una profonda recessione. Il Congresso deve a questo punto dire a Wall Street che tutti gli investimenti che ha fatto fin qui a beneficio della politica per influenzarne le scelte non daranno più i frutti sperati. Questa volta, sarà la legislazione a controllare Wall Street, non più Wall Street a controllare la politica.

(traduzione di Claudia Lopedote)

* Traduzione dell'Executive Summary del Report "Sold Out. How Wall Street and Washington Betrayed America", March 2009, (httpi/www. wallstreetwatch.org ). Tra gli autori del rapporto: Robert Weissman e James Donahue, assistiti da Harvey Rosenfield, Jennifer Wedekind, Marcia Carroil, Charlie Cray, Peter Maybarduk, Tom Bollier e Paulo Barbone. The Wall Street Watch Project è promosso da Consumer Education Foundation (organizzazione californiana di ricerca, formazione e lobbying, non profit ed indipendente, al servizio dei consumatori) e da Essential Information (organizzazione non profit per la promozione di un'economia più equa, della salute pubblica e della sostenibilità ambientale). La conclusione di questo rapporto offre alcuni principi-guida per una nuova architettura di regolazione finanziaria. Di questi si potrà parlare in altra occasione.


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ueste istituzioni n. 153 aprile-giugno 2009

Talebani del mercato e crisi come "rigellerazi000 dell'economia" di Oliviero Pesce "Fanatico è sempre chiunquefa dogma di agir per impulso, o questo lo chiami grazia efficace, o lo chiami ispirazione, o lo chiami destino ... Ma il rinunziare alla propria ragione calcolatrice de/sì e del no è sempre la definizione del fanatismo". (Ferdinando Galiani a Francesco Sanseverino 1777)

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n recente articolo di Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera del novembre 2008 è una puntuale illustrazione di come, quando gli "scienziati" si trasformano in lobbisti di "un certo" mercato, e non, obiettivamente, del mercato, e guardino più alle conclusioni che non ai fatti, le tesi si estremizzano, e si pongono in contrasto con la realtà, e con il senso comune. La tesi è già tutta nel titolo: Ilfantasma delle regole. Il mercato ha sempre ragione, anche quando è inefliciente, anche quando crolla, anche quando il concentramento temporale dei suoi effetti, e la diffusione dei danni che arreca, sono palesi; sono le regole, il problema, qualsiasi regola. Leggiamolo e commentiamolo con l'attenzione che merita, per essere paradigmatico di un pensiero indebitamente dominante, oggi, nel mondo occidentale.

"È opinione comune che la crisi finanziaria in corso sia colpa di regole del gioco inadeguate e di regolatori disattenti, soprattutto negli Stati Uniti. Molti si esercitano nel proporre nuove regole capaci di evitare il L'autore è stato funzionario della World Bank, direttore centrale del Crediop e amministratore delegato di banche italiane all'estero. 70

La questione delle regole


ripetersi di simili crisi". L'opinione è comune, e quindi, per definizione stupida, "sciocchezze" (vedi il paragrafo successivo dell'articolo). La democrazia e l'equilibrio sono concetti da deboli: siamo (imperativo, non indicativo: soyons) dice Giavazzi, darwinisti, e minoritari. Autoincensiamoci, e dichiariamoci "eccellenti". E se le regole fossero state in generale corrette, ma eluse e disattese? E se fossero state disattese in primo luogo dai regolatori, nella loro veste di fornitori di eccessi di liquidità (alla propria corporazione)? Che non ha nulla a che vedere con "il mercato", ma può essere un modo invero insano di "regolano"? "Mi pare un'illusione. Le crisi finanziarie non sono una patologia del capitalismo. Sono intrinseche al capitalismo. Pensare che sia possibile, grazie a regole migliori e a regolatori illuminati, eliminare il rischio, e quindi le crisi, è una sciocchezza. Il rischio è l'anima del capitalismo perché il mestiere dell'imprenditore e del banchiere è cercare occasioni rischiose e scom mettere sulla propria capacità di vincere. Talvolta si vince, talvolta si perde. Spesso per vincere occorre costruire strategie che, pur non violando le regole, si insinuano tra le norme, fanno arbitraggi fra sistemi regolamentari diversi. Per ogni regola spesso esiste una strategia di investimento capace di aggirarla". Sarà, ma da parte mia ho sempre preferito essere regulated, nell'attività professionale, da persone come Einaudi, Menichella o Ciampi, che dai portatori di propri interessi personali. Giocatori e arbitri hanno ruoli profondamente diversi. Il rischio è certamente ineliminabile, dalla vita come dall'economia, e forse il mestiere dell'imprenditore è schumpeteriano, o darwiniano, se volete (anche se imprenditori d'azzardo, almeno nel nostro Paese, se ne vedono pochi: in genere si vedono prudenti coltivatori della propria rendita di posizione, che si tratti di un monopolio privatizzato a condizioni di favore, di una concessione dello Stato, o di una carica, o cattedra, a vita), ma certo non lo è quello del banchiere, che deve gestire il risparmio della propria clientela, e non metterlo a repentaglio; che concede e prende in affitto denaro e "fiducia", e non li può, criminosamente, distruggere. Se "si vince e si perde" (e per giunta chi vince sono i gestori, e chi perde i loro clienti, qualcosa forse non va, nel panglossiano mercato), le vincite debbono almeno superare le perdite, ed essere equamente distribuite. E non è possibile (it's the market, stupia) che non paghi mai nessuno, per gli eccessi. Né si tratta di "scommesse"; se no, giochiamo al lotto (come si fa su alcuni prodotti "derivati"). E le "insinuazioni tra le regole" sono certamente elusioni: scegliersi le regole meno rigide vuoi dire correre maggiori rischi, e trovarsi a incontrare facilmente sulla propria strada, o essere contigui a, Stati canaglia, mafie russe o americane, o nostrane, camorre; anche 71


quello della droga, è un mercato; anche quello delle armi vendute ai ragazzini e ai pirati somali o sudanesi (e le regole, un fantasma?). L"aggiramento", della lettera delle regole, è spesso la violazione patente di norme da X Comandamenti, da XII Tavole, di regole che consentono la convivenza civile: correttezza, sincerità, rispetto degli impegni assunti. Se l"aggiramento" è una frode, chiamarlo "strategia", non lo rende migliore. "E vero che negli Stati Uniti la politica ha corretto le regole, in particolare sottraendo alla Federal Reserve competenze sulla vigilanza delle banche di investimento". E vero; ma il problema non è la sottrazione; anni fa la vigilanza sulle banche di investimento non c'era, ma c'era una chiara distinzione di ruoli, ed esse mai avrebbero potuto pretendere, in case of need, l'ombrello della Banca centrale. Bello fare gli "imprenditori" "privati", con gli scudi "pubblici": gli utili sono miei e le perdite vostre. Il problema consiste nella sottrazione delle competenze ai regolatori, sommata però alla pretesa che intervengano a raccogliere i cocci; e nello scarso attivismo preventivo degli stessi. Bisogna capire se le regole siano state corrette, o corrotte. "Ma la crisi sarebbe scoppiata lo stesso perché la costruzione di leveJlnanziarie elevatissime, anziché all 'interno delle banche americane, sarebbe avvenuta altrove, in altri Paesi o attraverso strumenti diversi dalle banche come ifondi hedge e con effetti analoghi". Ma dove sta scritto! Se le leve "elevatissime" si fanno in Pakistan, non ci va nessuno, a farsele fare. Se le norme non danno garanzie, come in Russia, come nell'Itaha della lira periodicamente svalutata (anche l'euro è una regola), a ogni stormir di fronda le fughe dei capitali appena affacciatisi col bel tempo sono violente. Per ricordare al Prof. Giavazzi un milanese non certo antimercato, Cesare Merzagora, il capitale ha il cuore del coniglio, le zampe della lepre, la memoria dell'elefante. Sulla terza caratteristica si sbagliava di grosso, ma, sulle prime due, la sua vista era stata acutissima. Se alle leve "elevatissime" degli hedgefunds le regole avessero opposto un divieto alle banche commerciali di prestare loro più di una percentuale minima dei loro crediti complessivi, o se il peso "di Basilea 2" dei crediti concessi loro fosse stato un multiplo di quelli concessi all'industria e all'economia reale, e non basato su improbabii AAA di comodo (anche gli abbagli di Moody's e di Standard & Poor sono mercato? Su cosa possono mai fondare le proprie decisioni quanti al mercato partecipano non da Warren Buffet o da Goldman Sachs, ma da utenti minori, come chi si allaccia a una rete altrui? Il mercato, che ben si conosce, costoro li chiama parco buoi), i fondi hedge avrebbero potuto investire solo il denaro dei propri cien72

Leve elevatissime


ti, e non di più, gli intermediari del mercato sarebbero stati quelli necessari a mantenerlo liquido, e ad attribuirgli i necessari "spessore" e "ampiezza" e non quelli necessari a determinare bolle e panichi. "E d'altronde in Europa, dove ci vantiamo di avere una governance migliore di quella americana, le banche non sono al riparo della crisi". Forse perché non l'abbiamo così migliore, la governance, ma ci limitiamo a vantarcene (se loro hanno suonato le loro Enron, e i loro MTLV, nella quale avevano investito anche alcune prudenti banche centrali europee, e oggi Lehman e Citibank, noi europei abbiamo suonato in Italia le nostre Parmalat, Cirio, Popolari di Lodi, Bond argentini; altrove i Crédit Lyonriais, le Barings, gli scandali della Société Générale, con traders di basso rango che possono distruggere miliardi di euro, e l'impresa nella quale operano, e nessun PDG ne sa mai nulla; le Northern Rocks). E forse le banche europee non sono al riparo della crisi non per la mancanza di regole, ma perché, per eluderle e "insinuarsi" tra di esse, non potendo concedere credito in misura sufficiente a fare profitti tali da attribuirsi i bonus voluti, per fare solo un esempio una banca tedesca si è comprata i crediti di Fannie Mae e simili, travestiti da titoli di credito, per farsi contagiare dai virus americani con "strategie di investimento" che hanno costretto il governo tedesco a un ennesimo "salvataggio" (con quale costrutto per il Paese cui la banca apparteneva non si sa; ma lo Stato non essendo "il mercato", non può interessare certi economisti). "Regole perfette, capaci di eliminare le crisi non esistono: sono esistite solo nell'economia sovietica e si riducono ad una norma semplice, la proibizione della libera impresa. L'esperienza del secolo scorso dimostra che le economie di mercato, nonostante le loro crisi, sono luoghi migliori in cui vivere. E tanto migliori quanto più l'economia è libera". Abbiamo qui, con bella mossa retorica, anche l'apologia della perfezione sovietica e del rigor mortis: quanto è meglio il mercato! Le regole non saranno perfette; accontentiamoci però che siano buone, e onestamente gestite. Ma il mercato (frequentemente definito, dagli eccellenti, "perfetto"), non doveva servire a correggere, ad attenuare, ad autoregolarsi? Ma, se va tutto male, è perfetto lo stesso, si passa alla altrettanto perfetta "libertà" e, voilà, le inefficienze del mercato sono sparite. Sono ineliminabili, i rischi; se uno li determina, e altri ne sono danneggiati, tanto peggio. Ma se in questi ultimi anni si fosse trattato di licenza, piuttosto che di libertà? Liberali come Luigi Einaudi sapevano valutare certe differenze; e ci sono stati parecchi economisti, operatori e politici che avevano visto chiaramente dove si sarebbe arrivati.

La "perfezione" del mercato

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"Nonostante le crisi ricorrenti, le economie aperte crescono di più, innovano di più, creano più occasioni di lavoro. Negli ultimi vent'anni gli Stati Uniti sono cresciuti un punto all'anno più dell'Europa, un guadagno szq5ììciente per compensare il costo della crisi che non sarà lieve". Finalmente una frase con la quale si può concordare quasi per intero. Con alcuni caveat, tuttavia. Se sarà, il vantaggio acquisito nel ventennio trascorso, "sufficiente per compensare", lo sapremo solo alla fine della crisi, se non ci saranno catastrofi; "lieve" è aggettivo leggiadro: speriamo con Giavazzi. Manca però l'analisi: con il dollaro, gli Stati Uniti hanno potuto, per anni, vivere al di sopra dei propri mezzi, con un'economia, come dice Volcker (anche lui, mica un antimercatista), "drogata dal credito al consumo"; mentre l'Europa, a parte la Ban-, ca centrale, nonché un mercato più aperto che non in passato (ma le tentazioni in contrario sono forti, meglio padroni a casa propria che partners tra uguali, magari costretti a sottostare a impostazioni che non si possono controllare), non si è voluta dare un governo europeo, una politica, e una politica economica, europee. Infine, l'aggettivo "aperto", ormai infiazionato, ma politically correct, attribuisce dignità filosofica e popperiana a qualsiasi propaganda. Viviamo di luoghi "comuni". "Se le crisi sono inevitabili, come si possono attenuarne gli effetti sull'economia? Innanzitutto proteggendo il risparmio di chi non vuole partecipare al gioco dellafinanza e tiene i soldi in banca: questo in Italia è garantito ancor più dopo il decreto del governo". Ma, "se le crisi sono inevitabili" resta del tutto da dimostrare; è l'assioma, che, con un secondo gioco di prestigio, si cerca di dare per provato. Si trattava proprio di "attenuare", ed è ciò che negli ultimi mesi non è avvenuto. Prevenendo, non con i pannicelli caldi delle garanzie aggiuntive sui depositi bancari, ma impedendo che la crisi di fiducia, acutissima e pervasiva, si verificasse. Mai che si affrontino i rischi dove effettivamente sono, e mentre sono in gestazione. Tutti "auspicano": ma governi e banche centrali e fondi monetari debbono vigilare, efficacemente, sugli effetti "sistemici" di ciò che controllano, non fare prestiti ponte alla Turchia (attività peraltro meritoria). "Poi, imparare dalla storia e dalle crisi precedenti' Chissà perché, le regole esistenti sono sempre insufficienti, e quindi da cambiare, o addirittura superflue, e imparare dalla storia e dalle crisi precedenti serve per il prossimo giro (meglio "ciclo", è più scientifico), mai per quello in corso. La crisi in atto è ineluttabile, inevitabile, e poi conferma la libertà (di chi non l'ha saputa gestire) e, con un po' di "fortuna", sarà forse superata.

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Le crisi sono inevitabili?


"Nel 1929 il mondo fu colpito da uno choc di dimensioni simili a quello odierno: come ha spiegato Alberto Alesina (Sole-240re, 17 settembre) la ragione per cui quello choc si trasformò in una depressione che in akuni Paesi trascinò con séla democraziafu una serie di gravi errori di politica economica: i dazi imposti dal Congresso americano, gli errori della Fed, regole sbagliate introdotte dal presidente Hoover". Gli errori sono sempre della politica, del Congresso, della Fed, di Hoover. I politici, sembra, non imparano mai; la Fed sì, se provvede liquidità a oltranza, e sostiene il mercato, e i suoi eccessi. "Alla radice di questa crisi c'è la scarsa capitalizzazione del sistemafìnanziario. Per uscirne è necessario che nuovo capitale affluisca alla banche: se possibile dai loro azionisti, come è accaduto nei giorni scorsi in Unicredit, altrimenti, in via temporanea, dagli Stati". Logica ferrea. La scarsa capitalizzazione è il reciproco dell'aver concesso credito in misura eccessiva e/o con scarsa competenza, imprudentemente, dissipando i mezzi propri (e altrui). Allora, ricapitalizziamole, se gli azionisti hanno ancora mezzi (o altri possibili azionisti hanno ancora fiducia), ricorrendo a loro; se no, ricorrendo agli Stati, ma solo temporaneamente; Dio ne scampi, estromettere il management che ha faffito (ha rischiato, e il rischio è ineliminabile, mica colpa sua). "E poi evitare di riscrivere le regole de/gioco sull'onda degli eventi. Ricordiamoci che uno deifattori che hanno amplficato questa crisi sono le regole cosiddette di Basilea-2, disegnate per rendere più solide le banche" Sull'onda degli eventi, ridare i soldi a chi li ha dissipati; ma mai, mai, riscrivere regole, specie se efficaci (tanto, per definizione, il rischio è bello; altrimenti non si potrebbe più giocare, e ciò non è bello. La colpa è delle regole (inevitabilmente aggirate ed eluse); mai del mercato, o della ma/a gestio del capitalismo (non del capitalismo in quanto tale), degli azionisti, del management Loro sono li a servire, e mai vanno rimossi.

1. Il punto di differenziale, tra crescita annua americana e crescita annua europea, sopra invocato è stato principalmente dovuto allo Stato committente (che in questa veste, stimolandolo, non viene citato come altro dal mercato, ma come parte dei successi di quest'ultimo), che ha speso circa un 1% annuo del PIL in spese militari addizionali rispetto a quelle correnti, per un intero settennio, in Iraq. Se si detraessero, dal "maggior incremento" dell'economia americana, i costi sopportati dall'Iraq, per una guerra che i protagonisti hanno ormai ammesso essere stata ingiustificata, i conti andrebbero rifatti e larga parte del differenziale si rivelerebbe un miraggio.

Controcanti

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2. La maggior crescita statunitense, sempre che ci sia stata, è stata ottenuta al prezzo di portare la sommatoria tra debito pubblico dello Stato e degli Stati, debito del settore imprese e debito del settore famiglie (households), in parte basato sul boom dei prezzi delle abitazioni (trattate afair value, e quindi finanziate e rifinanziate più del lecito, e non solo in occasione dell'acquisto) e in parte dovuto all'uso smodato del credito al consumo e al debito dei finanzieri, impegnati in reciproche scommesse, l'indebitamento corrente nel Paese - in buona parte finanziato dall'estero - si è attestato a circa 3,5 volte il PIL. Impossibilitate le banche, e il sistema, malgrado gli inviti in contrario perché il redde rationem venisse sempre posposto, a continuare sulla stessa strada, la crisi - che non avrebbe avuto nulla di ineluttabile se qualche freno fosse stato applicato a tempo debito -, ha assunto dimensioni epocali; e lo stesso Alan Greenspan, fautore del sistema a orologeria, l'ha dovuta definire "uno tsunami che si può verificare una volta ogni cent'anni". Gli effetti si riveleranno solo con il tempo, comporteranno un "rientro" pluriennale, e potranno essere quantificati solo dagli storici dell'economia; troppo tardi per attribuire responsabilità a quanti, per anni, autodefinendosi eccellenti, si sono attribuiti meriti e potere (e bonus e stock options). La settimana dopo, sempre sul Corriere, gli tiene bordone Piero Le invasioni Ostellino. Stavolta il titolo è Le invasioni della politica, che non è più, della politica purtroppo, la più nobile tra le attività umane, della società civile, ma la palude, "che non sarà [essa] a tirarcifuori dalla crisi. Ci tireremofuori da soli, noi stessi,facendo ciascuno la sua parte, autonomamente e contando solo sul proprio ingegno. La società 'aperta' ha una risorsa di cui non si parla perché non fa notizia: non c'è mai una soluzione preconfezionata. C'è da augurarsi che nessuno pretenda di conoscerla e di imporla agli altri. La politica può adottare provvedimenti limitati e temporanei - come il salvataggio delle banche per tutelare il risparmio - ma non può, e non deve,fare di più". Traduciamo: se Ostellino si ammala, non va da un medico, da uno che "presume" di sapere. Fa da solo. La società "aperta" non è una società, non esiste come tale; ognun per sé, e nessuno per tutti. Nulla è sapere, nulla è "preconfezionato"; nessuno "conosce". Da dove verrà quindi "l'ingegno" non è chiaro: esistono solo "le banche". E il loro "salvataggio" (pagato dai risparmiatori), per tutelare "il risparmio". Ma tutelare "il risparmio", tutelando le banche che l'hanno dissipato (vanno infatti "salvate"; se non l'avessero dissipato non ci sarebbe bisogno di "salvataggi"), a spese dei risparmiatori (mediante tasse o inflazione; tertium non datur) difficilmente appare logica ferrea. Non può e non deve fare di più, "la politica" (ossia noi) perché 76


non sa - come non lo sa nessuno- che cosa succederà domani; e perch qualsiasi cosa facesse, nella presunzione di saperlo, farebbe solo danni". Conoscendo i politici sovietici, che Ostellino ha visto cadere, con il correlato "crollo di un impero", e i politici che ci sorbiamo in alcuni Paesi europei, la tentazione di tifare per la tesi è forte. Peccato si tratti di una tesi puramente ideologica, di parte. Perché gli Stati non possano fare di più, mentre dovrebbero fare di meglio e di più i banchieri che hanno faffito, ma vanno ricapitalizzati, meriterebbe una migliore spiegazione. Anche le. banche non sono il mercato, se mai sono al servizio del mercato, sono anche autorità, poteri, potentati, e debbono vigilare su ciò che fanno e sulla propria clientela. Se si deve necessariamente vivere in regime di (popperiana?) anarchia, essa non si deve riferire solo agli Stati, ma anche alle imprese dominanti, a qualsiasi aggregazione sociale, alle banche. Queste ultime, per meritare la nostra fiducia di clienti, ci spiegavano che sapevano allocare efficientemente le risorse, che sapevano valutare il rischio, concedere affidamenti (da "fiducia"). Ma chi può sapere cosa succederà domani? Ci sono "le libere scelte di ciascuno di noi", guai a interferirvi, ad avere la pretesa "di sapere dove va la Storia", di volere un minimo di razionalità (abbasso Platone, padre delle società "chiuse". Che si possa discutere in due o tre alla volta, e perseguire soluzioni condivise, "politiche", sia anatema, si potrebbe finire con Stalin). "Si accusa la Federal Reserve di una precisa strategia finanziaria - il lassismo monetario - come se la Banca centrale obbligasse le banche private, e non solo quelle americane, a imbottirsi di titoli aforte rischio e a spacciarli; e la sua "strategia" non fosse invece una opportunità (per quanto azzardata) che i banchieri erano liberi di cogliere come meglio avrebbero creduto" La si accusa invece di non avere impedito ad alcune di esse di creare titoli a forte rischio, e a spacciarli (imbottendo i gonzi); è la libertà "di spaccio" che spetta ai regolatori limitare, altrimenti poi debbono (anzi, imprudentemente, "vogliono") creare liquidità eccessiva nella speranza di limitare i danni, o quanto meno di posporli. "Ma se la diagnosi è sbagliata è probabile che anche i rimedi lo siano. Si parla di un 'coordinatore' del mercato finanziario mondiale. Così, si passa dall 'interpretazione della recisa strategia finanziaria" come una sorta di dirigismo liberista - una contraddizione in termini - al'coordinatore', una specie di Gosplan sovietico, che ne sarebbe il rimedio, questo sì autenticamente dirigista. Un delirio pianficatorio privo perfino di parvenza logica". Primo: la diagnosi, almeno per quanto riguarda il passato (ossia a che punto siamo giunti), non è sbagliata, è una certezza. Sono stati fatti degli errori, causati dei danni, che l'osservanza delle regole avrebbe in larga misura evitato. Secondo: la Banca centrale 77


non è un Gosplan. Nell'Unione Sovietica, infatti, non serviva a gran che; ma tutti gli altri Paesi, chi prima chi dopo, l'hanno inventata, tra il Cinquecento e i primi anni del secolo scorso, l'Inghilterra per prima, gli Stati Uniti tra gli ultimi, e non per questo sono economie pianificate. Ma basta dire "sovietico", anche a sproposito, e si ha subito ragione. E poi, come mai la Banca centrale - secondo queste tesi - non è il Gosplan se lascia gonfiare le bolle dei liberi banchieri, e lo diventa se stringe i freni e impone l'osservanza delle regole? Un po' di coordinamento, come sapevano Morgan e White, Keynes e gli artefici di Bretton Woods, e queffi del Piano Marshall (orrore: un piano!), a volte non guasta. Altro che "delirio pian/1catorio". A mondo globalizzato, coordinamento tra chi dovrebbe saper coordinare. Ha mai sentito parlare, Ostellino, di polizia, di alleanze? "Ci si strappa le vesti per la caduta delle Borse. M'a se si tratta di 'titoli spazzatura' è come lffetto della lavanda gastrica sull'organismo umano dopo un avvelenamento. Se si tratta di titoli dell'economia reale, è un (ri) allineamento ai fondamentali e una (re)distribuzione di ricchezza". O non sarebbe stato meglio non far circolare "titoli spazzatura", come ben si sarebbe potuto, evitando i problemi che sono stati trasmessi all'economia reale? Se ci rifilano la mucca pazza, non siamo mica tanto contenti. Ma no, nessun intervento, "ne usciremo perché milioni di consumatori e produttori stanno già program mando le loro vite e i loro interessi secondo la propria personale visione del mondo e i dati di cui dispongono. Ciascuno per conto suo, senza neppure sapere come e perché ne verrà un beneficio generale. E la libertà, bellezza. Ne usciremo a condizione, però, che la politica lasci fare alloro 'libero arbitrio'; non opponga divieti e ostacoli". Lo vada a raccontare a chi deve "programmare" (ma non si tratterà di un delirio pianificatorio?) avendo perso il posto di lavoro, o avendogli il suo "libero" gestore dissipato i risparmi, con i "dati" che passa il convento. Divieti e ostacoli ai salvati? Mai sia. Ma la libertà non va bilanciata dalle norme, evitando che quella degli uni si scontri con quelle degli altri? E infatti Ostellino chiude con un perfetto non sequitur (in questa trappola Giavazzi non era caduto): "La sola cosa che è giusto chiederle [alla politica] è di applicare i codici civile e penale - chi rompe paga - e di pretendere dalle banche maggiore trasparenza nei loro bilanci e una più limpida comunicazione sulle loro operazionifinanziane". Ma allora, forse, la crisi non era così ineluttabile, qualche colpevole c'era. Il problema, bellezza, e che pochi sanno leggere i bilanci delle banche e delle finanziarie, e adesso, come abbiamo visto, neppure banchieri e finanzieri. La trasparenza e le regole ci sarebbero, i

Un po' di prevenzione?


controlli, interni e esterni, pure: ma c'è chi è deputato a esaminarli, i bilanci, e avrebbe dovuto farlo meglio (revisori, finanziatori, società di rating, regolatori), per permettere al mercato di operare in base a informazioni corrette. Sarà per la prossima volta.

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ueste istituzioni n.153 aprile-giugno 2009

Intorno alhi crisi dei miltui subpriiue: un'analisi econonietrica della liquidit

L

e crisi finanziarie costituiscono un evento ricorrente nello scenario macroeconomico mondiale. Kindleberger e Fratianni (2008) ne hanno contate ad oggi 1622. Tuttavia, ad eccezione di quella del '29, tutte le altre sono state accomunate dall'aver investito esclusivamente i Paesi in via di sviluppo. La crisi attuale, originatasi nel mercato finanziario statunitense e diffusasi a tutte le economie, avanzate e non, può essere pertanto definita come la prima vera crisi di tipo sistemico dalla Grande Depressione degli anni trenta. Benché le cause scatenanti la crisi siano connesse allo scoppio della bolla dei mutui ipotecari subprime negli Stati Uniti ed al complesso meccanismo di cartolarizzazione ad esso associato, tali fattori rappresentano tuttavia solo determinanti di breve periodo. Le grandi crisi, infatti, sono spesso collegate a più profondi squilibri di natura reale che possono interessare l'economia interna e/o internazionale. Muovendo da tale premessa l'obiettivo di questo lavoro è verificare, tramite un modello econometrico, le determinanti della crisi finanziaria attuale attraverso l'esame congiunto delle sue cause di lungo e breve periodo. Nel primo paragrafo analizzeremo le determinati di lungo periodo; nel secondo quelle di breve periodo; infine l'analisi si concluderà con la stima di un modello econometrico.

L'autore è dottorando di ricerca della Facoltà di Scienze Politiche, Libera Università "San Pio W.

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LE DETERMINANTI DI LUNGO PERIODO

Le determinanti di lungo periodo sono riconducibili: 1) al processo di deregolamentazione dei mercati finanziari; 2) a scelte di politica economica adottate negli Stati Uniti a partire dagli anni ottanta; 3) alla politica monetaria accomodante attuata dalla FED dalla fine degli anni novanta. Nel corso dell'analisi considereremo in modo particolare lo squilibrio del conto corrente della bilancia dei pagamenti statunitensi, quale "determinante" dell'attuale squilibrio globale e della presente crisi finanziaria. Agli inizi degli anni ottanta, nel contesto di una strategia di politica economica volta a liberare il mercato dai lacci e laccioli che avevano sino ad allora caratterizzato il funzionamento dei sistemi economici, la Thatcher - in Inghilterra - e Reagan - negli Stati Uniti -, diedero l'avvio ad un processo di deregolamentazione che ha interessato anche il mercato finanziario. La misura più incisiva, in tale direzione, è stata adottata nel 1999 con la " Gramm-Leach-Bliley Ac/' che ha portato all'eliminazione della separazione tra banche commerciali e banche d'affari, trasferendo dalla FED alla Securities andExchange Commission, il compito di sorveglianza del settore bancario 1 In concomitanza, nel 2000, vennero deregolamentati nel mercato finanziario i derivati, i quali nati come strumento di tutela contro i rischi (di cambio, di tasso di interesse, di oscillazione dei prezzi delle materie prime) in poco tempo furono adoperati a fini speculativi. Le stesse banche, anche se non adeguatamente capitalizzate, iniziarono ad investire in tali prodotti, mosse dal desiderio di lucrare gli alti rendimenti consentiti dalla rischiosità dello strumento e dalla possibilità di nascondere tramite essi le perdite in bilancio. In una situazione di laissezfaire, il sistema finanziario e bancario non è più stato in grado di autoregolamentarsi e in pochi anni il mercato finanziario statunitense ha cominciato ad essere caratterizzato dalla presenza di un ingente volume di investimenti ad altissimo rischio, garantiti da una base reale pressoché inesistente e favorite dalla possibilità di aumentare il leverage offerto dalla liberalizzazione nel 2004 dei vincoli patrimoniali richiesti alle banche d'affari. Una dèlle caratteristiche della crisi finanziaria internazionale attuale, quale effetto della deregulation, è stata proprio quella dell'utilizzo forzato dei derivati, i quali hanno accresciuto la volatilità del settore finanziario, spostando l'attenzione degli operatori finanziari

La deregolamentazione del sistema finanziario

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EIi


dalle operazioni del mercato reale, risparmio ed investimento, a quelle puramente speculative. Nel quadro delle politiche di "supply-side economics", iniziate da Reagan agli inizi degli anni ottanta, caratterizzate, da un lato, da tagli al prelievo fiscale al fine di stimolare l'incentivo a produrre ed investire e, dall'altro, da una politica monetaria restrittiva volta al riassorbimento delle pressioni inflazionistiche, si è iniziato a registrare un processo di deterioramento del conto corrente della bilancia dei pagamenti statunitense. Infatti la diminuzione delle imposte incentivò i consumi, contribuendo ad accrescere le importazioni, mentre l'aumento del tasso d'interesse sui fondi federali favorì l'afflusso dei capitali dall'estero, determinando un apprezzamento del dollaro e, dunque, una riduzione delle esportazioni. Ciononostante, questa politica economica provocò un forte incremento del deficit interno e di quello delle partite correnti; di fatto, la competitività internazionale delle aziende americane venne ostacolata da un tasso di cambio sfavorevole. Da allora, come mostra la fig. 1, il disavanzo della bilancia dei pagamenti di conto corrente degli USA è andato sistematicamente peggiorando. A fronte dei crescenti disavanzi statunitensi, si sono registrati i crescenti avanzi del mondo emergente, in particolare, della Cina. Come è stato osservato da vari economisti, gli squilibri contrapposti delle bilance dei pagamenti, degli USA e dei Paesi emergenti, sono stati il riflesso di uno squilibrio strutturale che ha visto contrapporre l'alta propensione al risparmio dei secondi alla bassa propensione dei primi. 200 0 -200

1975 98098519907 1995 000200520072008

-400 -600 -800

Figura 1. Fonte: nostra elaborazione su dati: Forecast 2008.

Oxford Economic

Secondo una corrente di pensiero (Bernanke, Frankel, Edwards) l'eccesso di risparmio "savings glut" accumulato in Paesi, quali la Cina, avrebbe consentito il finanziamento indolore e a bassi costi dei crescenti disavanzi esteri degli Stati Uniti. Infatti, i surplus di parte

Le scelte di politica economica


corrente delle economie emergenti, derivanti da politiche di sviluppo export led, hanno favorito l'accumularsi di riserve che sono state utilizzate per acquistare attività finanziarie statunitensi. L'alta domanda di attività USA ha consentito così di tenere bassi i tassi d'interesse, contribuendo alla loro riduzione già favorita dalle politiche monetarie in atto negli Stati Uniti. Una politica monetaria accomodante che dalla fine degli anni no- La politica monetaria vanta ha cercato di assicurare un sentiero di crescita, caratterizzato da un sostentamento interno della domanda, può essere un'altra importante determinante della crisi finanziaria attuale, ricondotta alla politica monetaria espansiva attuata dalla Federal Reserve tra il 2001 al 2003. Alan Greenspan, infatti, per limitare gli effetti recessivi dell'attentato terroristico dell'undici settembre 2001 e della fine della bolla della New Economy 2 , dette l'avvio ad una politica monetaria espansiva, immettendo un'enorme liquidità nel sistema al fine di stimolare gli investimenti privati. Dal 2002 la massa monetaria (M3) è cresciuta ad un tasso medio di oltre il dieci per cento l'anno e all'espansione si è accompagnata quella della riduzione del tasso d'interesse sui fondi federali (fig.2).

19992000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

Figura 2. Nostra elaborazione su dati: Federal Reserve Statistical Release 2008.

Come si evince dalla figura (3), tra il 2000 e il 2003 i tassi d'interesse sono passati dal 6.5% al 1%, divenendo negativi in termini reali per gran parte del periodo. Le famiglie statunitensi hanno allora iniziato ad accrescere i consumi e la loro propensione all'indebitamento, approfondendo pertanto lo squilibrio strutturale che alimentava lo squilibrio globale creatosi. In tale modo, la politica monetaria adottata da Greenspan, invece di stimolare l'attività produttiva, si è tradotta in una bolla speculativa alimentata dalla domanda (Joseph E. Stiglitz-2006). Questa si è rivolta in modo particolare al settore immobiliare (i mutui immobiliari presso le banche aumentarono ad un ritmo del 18% ogni sei mesi) e la crescente domanda sostenuta dal credito ha innalzato in


modo esponenziale le quotazioni del mercato incoraggiando la costruzione di nuove abitazioni (addirittura su terreni che risultavano non edificabii). Dunque, una politica monetaria che ha cercato di assicurare alti livelli di consumo alle famiglie nonché la possibilità di nuovi investimenti privati, ha finito con l'approfondire quello squilibrio globale già iniziato con scelte di politica economica che hanno portato alla deregulation e al disavanzo persistente del conto corrente della bilancia dei pagamenti statunitensi. Quanto descritto rappresentano le condizioni che hanno determinato e favorito il prodursi di altre "cause", i cui effetti, si sono registrati nel breve periodo. 15

1

1:j o _5

I

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I 2002

2003

2004

2005

2006

2007

I I

Figura 3. Nostra elaborazione su dati: Freddie Mac, Office of the Chief Economist 2007.

LE DETERMINANTI DI BREVE PERIODO L'analisi delle determinanti di breve periodo dell'attuale crisi finanziaria non può prescindere dal considerare la particolare situazione che ha contraddistinto il sistema finanziario dei mutui a mediolungo termine prima della crisi. Tale sistema era caratterizzato da un vero e proprio processo di cartolarizzazione, che avveniva principalmente per mezzo di due società: Freddie Mac e Fannie Mae. Queste acquistavano dalle banche mutui che rispettavano determinati standard per trasformarli, in un secondo momento, in veri e propri titoli da collocare sui mercati finanziari. Di conseguenza, il rialzo del prezzo nel mercato reale degli immobili si è riversato in quello azionario attraverso una vera e propria speculazione al rialzo da parte degli intermediari finanziari. L'effetto è stato una crescita del valore dei titoli immobiiari sui mercati finanziari che ha generato, da una parte, abbondante liquidità in virtù della sottoscrizione di nuovi e più numerosi mutui, dall'altra, un crescente indebitamento privato. In breve tempo ciò ha determinato, in presenza di un'incompleta regolamentazione finanziaria, l'abbandono dei normali standard creditizi da parte di agenzie che, al solo fine speculativo, avevano


concesso finanziamenti a soggetti dotati di una capacità minima di indennizzo: i futuri debitori dei "mutui subprime". Definiti prestiti di "second chance", concessi a soggetti che normalmente non potrebbero accedere ai normali tassi di interesse di mercato, i mutui ipotecari subprime sono contraddistinti dalla presenza di due soggetti: i debitori subprime e i prestatori subprime. I primi vengono definiti tali allorquando presentano caratteristiche peculiari del rischio riconducibili a due o più pagamenti di crediti pregressi effettuati oltre trenta giorni dopo la scadenza negli ultimi dodici mesi, oppure uno o più pagamenti effettuati a sessanta giorni oltre la scadenza negli ultimi trentasei mesi ed insolvenza su un mutuo negli ultimi ventiquattro mesi. I secondi sono invece coloro i quali assumono il rischio associato alla concessione di credito a debitori scarsamente affidabii. L'elevato rischio implicito nell'operazione viene coperto con alti tassi d'interesse ed elevata mora. Pur trovandosi in presenza di soggetti che in realtà non sarebbero mai stati in grado di onorare il debito contratto, le banche statunitense hanno continuato a sottoscrivere nuovi e più numerosi contratti di mutui, i quali hanno registrato una crescita da 190 miliardi di dollari nell'anno 2001 a circa 700 miliardi nel 2007 (fig. 4). 000

600

400 -

200

0 2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

Figura 4. Nostra elaborazione su dati: Inside Mortgage Finance 2007.

La lievitazione dei mutui subprime è stata favorita dai cosiddetti mortage broker, intermediari delegati a svolgere tale compito. Percependo un incentivo monetario "yieid spreadpremium" pari ad una quota fissa del prestito (se il tasso praticato al debitore è superiore ad una certa soglia), i mortage broker hanno trovato più conveniente collocare sul mercato enormi quantità di mutui subprime rispetto ai normali mutui, nonostante i subprime rappresentino un rischio per gli intermediari stessi. In realtà, essi sono riusciti a ridurre il rischio attraverso lo strumento della cartolarizzazione. Introdotto nel 1983 dalla Generai Eiectric, il meccanismo della cartolarizzazione dei crediti ipotecari prevedeva, in origine, che i crediti posseduti dalle banche venissero accorpati in veri e propri titoli di

RIM


credito, i quali, potevano essere venduti, in un secondo momento, generando, in tal modo, un ritorno economico in attesa del rimborso dei mutui stessi. La cartolarizzazione rappresenta, perciò, una cessione di tipo pro soluto: il cedente è tenuto a garantire soltanto l'esistenza del credito ceduto e non anche la solvibilità del debitore; in tal modo i rischi gravano sui portatori finali dei titoli. Benché tale meccanismo sia stato ideato per i prestiti ipotecari che presentavano ampie garanzie di solvibilità, negli ultimi anni le banche - in modo particolare quelle statunitensi - hanno cominciato ad applicare tale tecnica anche a prestiti ipotecari di dubbia solvibilità, grazie alla bassa ripartizione del rischio prodotto dal frazionamento dei titoli (fig.5). 800 600

I

400 200 0-

-

1994

1998

2000

2002

2005

2006

Figura 5. Nostra elaborazione su dati: Standard &Poor's 2007.

In aggiunta a ciò, il processo di cartolarizzazione è stato caratterizzato da un'ulteriore distorsione. Di fatto, i continui aumenti del prezzo delle abitazioni hanno indotto coloro i quali erano specializzati nella sottoscrizione di mutui a ridurre, fino ad annullarla completamente, la quota del capitale che il debitore doveva versare al momento della stipula del mutuo stesso. In altre parole, i finanziatori hanno prestato scarsa attenzione al controllo dei rischi. Si sono così formate, sul lato della domanda e dell'offerta, posizioni cosiddette Ponzi: dal lato dell'offerta, i prestatori hanno fatto leva sul fatto che i continui aumenti del prezzo delle case avrebbero generato margini di sicurezza in caso di pignoramento delle abitazioni; dal lato della domanda, i debitori subprime hanno fatto invece affidamento su ulteriori riduzioni del tasso d'interesse e su redditi frituri utili per onorare il debito. In questo contesto si è inserito un vero e proprio mercato finanziario (ABx) di tutti i prodotti derivati dalla finanza strutturale in grado di trasformare i titoli garantiti da ipoteche (mortgage-backed Securities MEs) in CD0 (collateralized debt obbligation). In tale processo sono intervenute due tipologie di operatori: le assicurazioni e le agenzie di rating. Le prime dovevano garantire la copertura assicurativa dei CDO anche tramite sottostanti credit default swap (CDs); i secondi

M .


avevano il compito di attribuire garanzie ai contratti stipulati con soggetti che presentano diverso merito di credito (AAA, A.&, A, e BBB). Le garanzie e le coperture assicurative erano quindi essenziali per creare un'alta domanda di titoli collegati a mutui subprime. 50

-

401 30

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2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

AAA ---AA ----A —*--BBB

Figura 6. Nostra elaborazione su dati: JP Morgan Chase 2008.

Come si evince dalla figura (6), sebbene i contratti di rating BRE, che contengono solo contratti di tipo subprime, dovrebbero essere minimi ed evitati, dal 2001 al 2007 sono stati sottoscritti acquisti per tale indice di oltre 40 mila punti sul totale dell'indice ABX mentre, nel 2001, la quota più alta si registrava per sottoindici con alto merito di credito. Nel complesso, dunque, la cartolarizzazione ha accresciuto la fragilità di un sistema finanziario nel quale un debito è stato trasformato in un investimento sottoscritto dai vari risparmiatori sotto forma di quote di fondi pensione, prodotti strutturati o polizze unit-link. Poiché l'equilibrio di tale complesso creatosi nel settore immobiliare e non solo, era in ultima analisi, garantito dal pagamento delle rate sui debiti, quando nel 2004 hanno iniziato a manifestarsi le prime insolvenze per effetto dell'improvviso aumento dei tassi d'interesse (fig.2), il castello di carta creato intorno al settore immobiliare reale e finanziario, ha iniziato a sbriciolarsi, coinvolgendo il Sistema bancario e comportando domanda di riscatto da parte di coloro che avevano sottoscritto fondi pensione, prodotti strutturati o polizze unit-link. Tuttavia, la mancanza di liquidità in un sistema finanziario caratterizzato da contratti su prodotti derivati e non più reali, nonché l'impossibilità di vendere tali titoli in portafoglio, per l'assenza di compratori, hanno fatto sì che i vari fondi cominciassero a sospendere i riscatti (come nel caso della BNP-Paribas nell'agosto 2007). Le banche, che nel corso degli anni hanno garantito liquidità al sistema, di fronte all'aumento del tasso overnight nello stesso mese di agosto 2007, si sono trovate nell'impossibilità di approvvigionamenti di liquidità nel sistema interbancario, sia per finanziare i fondi pensione e i prodotti strutturati, che concedere prestiti alle famiglie o alle


imprese private. In aggiunta a ciò, a livello internazionale, negli stessi rapporti interbancari, si è diffusa una sorta di diffidenza, dal momento che ogni istituto bancario ha cominciato a dubitare dell'integrità finanziaria della controparte. 120 100 80 60 40 20 0

1 I 1

I giu-07

set-07

dec-07

mar-08

USA -Euro-zone _

Figura 7. Nostra elaborazione su dati: Committee on the Global Financial System, Central bank operazion in response to the Jinancial turmoil, CGFS Paper I'P31,

July 2008.

La liquidità interbancaria, che rappresenta il flusso maggiore del sistema creditizio mondiale, in pochi mesi ha registrato una forte frenata (fig.7), peggiorando, a causa della restrizione del credito, le aspettative congiunturali dell'economia reale e pertanto delle variabili stesse del Prodotto Interno Lordo. Il contagio, dal mercato dei subprime al resto del sistema internazionale, ha segnato il passaggio da una crisi finanziaria di tipo idiosincratico (interessante una parte limitata del sistema finanziario) ad una di natura internazionale. Dalla fine dell'agosto 2007, gli indici borsistici di tutto il mondo hanno di conseguenza iniziato a registrare chiusure negative di un ordine oscillante tra il -5% e il -15% nel bimestre settembreottobre 2008. L'ANALISI ECONOMETRICA3 Muovendoci dall'analisi delle determinanti di lungo e breve periodo, proveremo a stimare, tramite un modello econometrico semiogaritmico (AutoRegressive Moving Average - AutoRegressive Gondi tional Heteroskedaticity) i fattori che hanno influenzato, dal giugno 2007 a dicembre 2008, l'andamento dell'indice di Dow Jones. La scelta di utilizzare quale variabile dipendente tale indice borsistico, è dovuta sia al fatto che esso è considerato sia rappresentativo dei ritmi di crescita dell'economia americana, sia dell'andamento medio delle principali piazze finanziarie mondiali. Si considereranno i valori assunti pertanto dalla variabile dipendente Dow Jones e da una serie di regressori: il deficit delle partite


correnti statunitense, l'indice di tensione interbaricaria e la sottoscrizione di contratti di rating BBB (CDos) nell'indice ABX. Tra le determinanti di lungo periodo (deregolamentazione del mercato bancario-finanziaìiò, politiche monetarie eccessivamente accomodanti e scelte di politica economica che hanno determinato lo squilibrio globale) abbiamo deciso di utilizzare esclusivamente il deficit del conto corrente. Pur consapevoli dei limiti di tale scelta, l'impossibilità di utilizzare più regressori è stata dovuta da una parte, dall'impossibilità di quantificare il fenomeno della deregulation, dall'altra, l'uso congiunto del deficit del conto corrente e della politica monetaria espansiva della FED (M3) ha causato, nel VIF test, multicollinearità tra le esplicative. Pertanto il deficit del conto corrente della bilancia dei pagamenti statunitense rappresenterà - nel nostro modello - una variabile del tipo proxy, in grado di catturare altri effetti di lungo periodo riconducibili allo squilibrio globale statutinense. I dati di ogni variabile rappresentano delle time series settimanali, in un arco di tempo che va dal mese di gennaio 2007 al mese di dicembre 2008, per un totale di 96 osservazioni. Una volta individuato il modello per l'equazione della media, dopo aver sottoposto i residui di stima al test per la presenza di effetti ARCH, specificheremo un modello per la varianza condizionata in grado di catturare gli effetti dei cosiddetti volatility clustering, attraverso una stima del tipo ARCH a n°1 di ritardi. Tuttavia, prima di entrare nel merito di un'analisi prettamente econometrica, è necessario sottolineare i limiti che incontrano i modelli che interessano i mercati finanziari: - essi per quanto provvisti di sofisticati sistemi di stima e di successivi test, sono soggetti ai limiti della cosiddetta finanza comportamentale. In altri termini, la presenza di condizioni prettamente psicologiche, tipiche dell'agente finanziario (aspettative, euforia, ansia), potrebbero causare forme di distorsione nell'analisi econometrica stessa; - nella crisi finanziaria internazionale dei subprime si sono create, molto probabilmente, le condizioni affinché si generi un processo caotico, che potrebbe compromettere l'attendibilità dei risultati statistici. Di fatto, la dinamica non lineare e il carattere olistico, tipico dei sistemi caotici, confitterebbero la logica matematica secondo la quale, al verificarsi di un evento k, fa inevitabilmente seguito una illazione z ad un tempo t o t+1 (presente immediato o ftituro). Nulla esclude che i mercati finanziari caotici possono assumere forme


inaspettate, sfuggendo di conseguenza alla normale sequenza e comprensione matematica. Questo potrebbe essere il caso della presente crisi finanziaria. Infatti, il 21 luglio 2007 e il 18 settembre 2008, i principali siti borsistici online hanno pubblicato la notizia riguardante un particolare effetto 'farfalla" dell'indice ABX, accettando partanto l'ipotesi della teoria del Caos di Lorenz (1960) nei sistemi finanziari 4 La presenza nel contesto analizzato di un processo caotico potrebbe indirizzare un'eventuale analisi econometrica verso risultati poco attendibili. .

I RISULTATI Modello Arma-Arch family regressiòn -ar(i)Variabile dipendente: logdjones

deficit

-.14626 (.04888) -.16679 (.00163) _.07158*

ArchLl

(.00637) L1*

abxbbb distrust

SAMPLE:

1-72 -80.40635 .691' 71

Log likelihood R2 OBS.

Nota: in parentesi errori standard *p<O.00i;

calcolato nel modello di regressione

OLS

Wald Chi2 = 1999.90 con Prob> Chi2 =0.0000

Logdjones= a -0.07l5Deficit--0. l667Distrust - 0.1462Abxbbb+c

I risultati dell'analisi econometrica evidenziano l'influenza delle determinanti sull'andamento finanziario americano tra il 2007 al 2008. Le variabili indipendenti risultano tutte significative. In base al test di cointegrazione di Grangerle variabili si presentano cointegrate e dunque, da non differenziarsi. L'analisi del fenomeno della multicollinearitĂ , condotta tramite il VIF test - Variance Inflation Factory - , ne esclude la presenza per le variabili indipendenti. Efl


E' stata utilizzata per l'analisi dell'auto-correlazione dei residui la correlazione con un termine auto regressivo AR(i), nonché con un elemento a media mobile Il/Li(i). Il coefficiente dell'implemento dei contratti di rating BBB nell'indice ABX(CDOS) - abxbbb - ha registrato nel modello un valore negativo pari a (-0.146). Il risultato conferma la stretta relazione tra esso ed il processo di cartolarizzazione della crisi immobiliare subprime in grado di influenzare negativamente l'andamento dell'indice di Dowjones. Per quanto concerne il regressore che riproduce la tensione interbancaria - distrust— questo presenta un valore negativo pari a -0.167. Tale risultato descrive l'impatto avverso causato dal credit crunch bancario nel settore finanziario. Benché la riduzione del tasso ufficiale della FED - agevolando il credito e stimolando le attività economiche - avrebbe dovuto, grazie ad attese di una ripresa ciclica, rendere più attraente il mercato azionario influenzando al rialzo le borse finanziarie, tale circostanza non si è verificata. Il credit cruch americano sta rendendo, in realtà, inefficaci le manovre di politica monetaria espansiva della Banca Centrale, la cui liquidità non è adeguatamente utilizzata dagli intermediari finanziari. La causa potrebbe essere ricercata nel fatto che sia sopraggiunta una fragilità negli assetti patrimoniali degli intermediari finanziari stessi e che, le aspettative negative nel sistema economico, non permettano una ricomposizione dei portafogli privilegiandone il rischio. Il coefficiente del deficit della partite correnti .- Deficit—, variabile indipendente utilizzata al fine di catturare gli effetti delle determinanti di lungo periodo dello squilibrio globale statunitense, mostra un valore negativo pari a (-0.071).

Analisi dei coefficienti

Ad un primo esame sembrerebbe quindi - in base alla stima quantitativa dei coefficienti - che gli effetti delle determinanti di breve periodo abbiano influenzato negativamente l'andamento finanziario di Wall Street in maniera più rilevante rispetto a quelle di lungo periodo. Tuttavia, per quanto il criterio informativo di Akaike di fronte a modelli con esplicative differenti abbia "preferito" (in base all'analisi della bg-verosimiglianza) il nostro modello ARMA-ARCH, questo presenta - a nostro avviso - una sorta di distorsione temporale. Più precisamente, uno studio sugli effetti della determinante di lungo periodo - deficit dei conto correnti - avrebbe necessitato di un'analisi d'interdipendenza tra la variabile dipendente e il regres91


sore di almeno quindici anni. Infatti, già dagli anni ottanta, gli Stati Uniti hanno registrato continui deficit nelle partite correnti. Tuttavia, i contratti di rating BBB nell'indice ABx(CDos) rappresentano, al contrario, un evento recente e ciò non ha permesso la costruzione di un dataset nel quale fossero presenti serie temporali di dati decennali. Il divario temporale tra le variabili indipendenti non ha consentito, pertanto, un confronto omogeneo tra le esplicative. Ciononostante è di grande rilievo il fatto che, pur con riferimento ad un periodo limitato a soli due anni, il deficit delle partite correnti abbia ugualmente registrato un'influenza negativa sull'indice finanziario di Dow Jones. A livello puramente sperimentale abbiamo provato a stimare, al fine di eliminare il limite dovuto alla distorsione temporale, due modelli econometrici GARCH volti a studiare il primo, l'interdipendenza tra l'indice di Dow Jones e il deficit del conto corrente della bilancia dei pagamenti in un periodo di tempo compreso tra il 1985 e il 2008, il secondo tra la variabile dipendente Dow Jones e la sola esplicativa di breve periodo dell'implemento dei contratti di rating BBB nell'indice ABx(CDos) nel periodo giugno 2007-dicembre 2008. I risultati di questi modelli di regressione "semplice" sono stati differenti. Infatti, mentre il primo ha registrato un valore negativo del coefficiente della variabile indipendente (in valori logaritmi) di -1.95, con un errore standard di 0.0158 e un R 2 pari a 0.67, il secondo non ha fornito informazioni utili per quanto concerne l'andamento della variabile dipendente. L'analisi ha evidenziato un pessimo adattamento dei dati alla retta (R 2 =0.254), nonché la presenza di variabili omesse nel test di Ramsey, riconducibile appunto alle determinanti di lungo periodo. Ciò confermerebbe la nostra tesi che la crisi finanziaria dei mutui subprime ha radici in squilibri di natura strutturale che si sono accumulati nel corso degli ultimi decenni e che si sono tradotti in uno squilibrio globale caratterizzato dagli enormi disavanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti. VERSO UN RIEQUILIBRIO DELLA POSIZIONE DEGLI NELL'ECONOMIA MONDIALE?

STATI

UNITI

La crisi internazionale dei subprime verrà certamente ricordata come una grande crisi finanziaria internazionale e per molti aspetti, unica nel suo genere. Ad essa si potrà attribuire il "merito" - se così si può dire - di aver mostrato al mondo i limiti dell'attuale ordine economico interna92


zionale e in particolar modo, del settore monetario e finanziario. Un mercato che appariva ben solido anche perché presidiato da "attrezzi" teorico-pratici la cui elaborazione ha fruttato agli autori alcuni premi Nobel. Attraverso formule matematiche complesse (Black & Scholes, 1974), sembrava garantita, per esempio, l'eliminazione del rischio intrinseco nel prezzo del sottostante dei derivati. Tuttavia, il processo di cartolarizzazione presente in questi mercati a termine, alla cui base figurava il debito tipico dei prodotti subprime, ha minato nel corso di questi ultimi anni l'equilibrio di tale mercato. Di fronte ad un rallentamento dell'economia mondiale oramai poderosamente in atto il presente lavoro ha cercato di rispondere alla domanda circa le determinanti di questa grande crisi, analizzando, pertanto, l'influenza di alcune variabili sull'andamento dell'indice di Dow Jones. La peculiarità dell'esercizio svolto è stata quella di effettuare uno studio congiunto tra le possibili determinanti di lungo periodo e determinati di breve periodo, successivamente utilizzate per una quantificazione econometrica. Benché sicuramente consapevoli dei limiti della nostra analisi econometrica, e quindi, aperti ad ogni rilievo critico e confronto sulla loro interpretazione, chi scrive resta convinto che il cuore del problema della presente crisi finanziaria nasce da squilibri reali e finanziari che vedono Paesi emergenti finanziare il crescente debito estero americano. Già da tempo era stata individuata come soglia sostenibile di deficit del conto corrente statunitense un valore di circa il 3% del PIL oltre il quale si sarebbe registrato un profondo problema di sostenibilità economica e finanziaria a medio e lungo termine. Sul perché gli USA abbiano nel corso degli anni perseguito scelte di politica economica tali da ridisegnare l'economia statunitense da grande creditore a grande debitore, vi sono certamente ragioni connesse alla continua ricerca del consenso politico. Nei dibattiti elettorali, di fronte ad una popolazione - quella statunitense - abituata a ritmi di consumo al di sopra della disponibilità produttiva interna, i detentori del potere politico, già dagli anni ottanta, hanno evitato misure di riequilibrio macroeconomico esterno in virtù proprio del fatto che, l'alta propensione al consumo interno, necessita di un quantitativo di importazioni notevoli. Mancando gli Stati Uniti di un apparato produttivo competitivo rivolto all'export, gli unici effetti indotti dalla politica americana negli ultimi anni sono Stati principalmente recessione e disoccupazione anche nel resto del mondo. Si potrebbe addirittura dire che questi 93


due fenomeni o "beni" sono gli unici a presentare caratteristiche di export led. Certamente, a sostegno della teoria economica, nulla esclude il fatto che il mercato internazionale sarà nuovamente in grado di autoequilibrarsi andando a correggere, dapprima, gli errori del settore finanziario, e successivamente quelli reali. Tuttavia non possiamo ignorare che questa nuova grande crisi finanziaria lascerà alle spalle profondi cambiamenti tra i quali, primo fra tutti, la posizione economica degli Stati Uniti nel contesto internazionale. Ci si domanda infatti se gli USA saranno o meno in grado di continuare a guidare l'assetto del sistema monetario internazionale attraverso la posizione di leadership della propria valuta - il dollaro - e se quei Paesi (la Cina in particolare), che nel corso degli ultimi anni hanno finanziato i consumi americani attraverso l'acquisto di titoli di Stato statunitensi, continueranno o meno a mantenere lo stesso atteggiamento del passato.

Si eliminò in tal modo la "Glass-Stagall i Act" che, maturata sulla base della Grande Crisi, proibiva alle banche "deposito" di possedere nei propri portafogli attività del mercato dei capitali nonché di operare in più di uno Stato degli USA. L'attività bancaria venne divisa da quella finanziaria e ciò fu reso possibile tramite l'instaurazione di due modeffi di banche: quelle d'affari, che detenevano il monopolio del mercato dei titoli, e le banche commerciali che avevano il solo compito di raccogliere i depositi e concedere prestiti ai privati. Rappresenta una bolla speculativa che 2 ha preso forma nel corso della prima fase legata allo sviluppo delle soluzioni e dei servizi internet. Iniziata nel 1994 con la quotazione di Netscape nell'indice Nasdaq, questa bolla finanziaria iii caratterizzata dalla speculazione su innumerevoli prodotti finanziari legati al mondo tecnologico (tra il 2001-2002). I dati per la costruzione del dataset, 3 successivamente elaborati con il software STATA s.e 10.0, sono stati tratti da: variabile dipendente logaritmica DowJones Index: sito web ufficiale -www.djindexes.com- (logdjones); regressore del 94

deficit delle partite correnti statunitense: sito web ufficiale Oxford Economics Forecast -www.oef. com- (deficit); regressore dell'indice di tensione del mercato interbancario: Committee on the Gbbal Financial System, Central bank operation to the financial turmoil, CGFS Paper n'31, July 2008 (distust); regressore dell'implemento di contratti di rating Bisa (CDos-ABx): sito web ufficiale JpMorgan Chase —www.jpmorganchase.com- (abxbbb). 4 Il secondo effetto farfalla potrebbe essere stato causato dal fallimento della banca d'investimento statunitense "Lheman Brothers" - trascinata dalla crisi dei mutui subprime -, che ha causato una caduta improvvisa degli indici delle principali borse internazionali: le borse europee hanno perso in media il 7%, le borse asiatiche il 9%, DowJones e Nasdaq il 10%. Di rado si è assistito nella finanza contemporanea ad un simile evento: il fallimento di una società-banca ha avuto un eco tale da generare instabilità nel sistema finanziario mondiale. Eppure, secondo le teorie economico-finanziarie tradizionali (ipotesi dei mercati efficienti EMH), la probabilità che tale sequenza di eventi potesse verificarsi è estremamente bassa.


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istituzioni

n. 153 aprile-giugno 2009

Il niutare delle metodologie nelle scienze sociali: il caso delle analisi economiche dello scelte pnbhliche* di Alessandro De Chiara eAntonio Di Majo

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a scienza economica nasce con l'analisi dei comportamenti degli agenti economici che operano nei mercati. Ma, ben presto, gli economisti si chiedono se esistano e quali siano le leggi economiche che regolano l'uso delle risorse al di fuori dei meccanismi di mercato, ossia, in assoluta prevalenza, quello determinato attraverso scelte pubbliche. L'apparire della metodologia del marginalismo, nella seconda metà dell'Ottocento, favorisce la crescita dell'analisi scientifica delle scelte economiche individuali e questa metodologia, con le sue rilevanti evoluzioni, domina ancora oggi la scienza economica. L'economia delle scelte pubbliche, quella che in Italia assume la denominazione di Scienza delle finanze, cerca spiegazioni e "regole" per le scelte collettive, di Finanza pubblica, analoghe a quelle cercate per le scelte individuali di mercato. I tentativi di dare un fondamento rigoroso alle scelte economiche collettive vengono avviati, sul finire dell'Ottocento, ad opera di economisti italiani (Mazzola, De Viti De Marco, Pantaleoni, per citarne solo alcuni) 1 e di lingua tedesca (soprattutto l'austriaco Sax e lo svedese Wicksell), che estendono l'individualismo metodologico, cui il marginalismo fornisce il rigore, alle scelte pubbliche. Questo approccio, che si affermerà anche nei Paesi di lingua inglese, pur con sostanziali differenze (in quanto veniva trascurato il contesto politico-istituzionale che molti autori continentali ponevano al centro delle loro indagini) non avrà concorrenti almeno fino agli anni cinquanta e il merito della sua diffusione deve essere attribuito ad un economista tedesco emigrato negli Usa negli anni trenta del secolo scorso, R.A. Musgrave. Com'è noto, l'evoluzione dell'economia delle scelte individuali approda, attraverso le analisi di equilibrio parziale prima e di equilibrio generale poi, a quei risultati cui di solito si rimanda sinteticamente utilizzando l'espressione "economia del benessere". E l'economia del benessere richiede che le scelte collettive De Chiara è dottorando di ricerca in Economia politica, Di Majo è ordinario di Scienze delle finanze; Facoltà di Economia, Università Roma Tre. 97


(di Finanza pubblica) siano improntate alla ricerca della massimizzazione dell'utilità degli individui che compognono la collettività, compito che in realtà, come si dimostrò abbastanza presto, è teoricamente possibile (se si prescinde da altre importanti limitazioni) solo se si assimila il meccanismo delle scelte collettive a quello di un despota illuminato interessato a raggiungere quell'obiettivo. Questa semplificazione del "paternalismo benevolente" trascura, tra l'altro, le caratteristiche che assumono in concreto, nei Paesi democratici, i meccanismi di decisione collettiva, limitandone le capacità esplicative e rendendo puramente astratte le sue prescrizioni. Già sul finire dell'Ottocento alcuni studiosi italiani di Scienza delle finanze (Montemartini, Puviani, Conigliani, Barone, ... ) e alcuni tedeschi della "Finanzwissenschaft"(si pensi principalmente ad A. Wagner), con enfasi e considerazioni in parte diversi, avevano rifiutato l'adozione di una metodologia che trascurava completamente le complessità dei processi politici che regolano, a differenza di quanto avviene nel mercato, le decisioni economiche collettive. In particolare quegli studiosi italiani, accomunati con qualche semplificazione nel cosiddetto indirizzo politico-sociologico della Scienza delle finanze, ponevano enfasi sull'importanza, negli Stati democratici, degli interessi diversi da quelli degli elettori uti singuli nelle decisioni pubbliche (necessariamente attuate attraverso l'uso della coazione) e qualunque spiegazione e prescrizione non avrebbe potuto essere analizzata senza tenere conto dei diversi interessi economici in gioco in quelle scelte (quelli dei politici, l'egoismo dei burocrati, la pervasività dei gruppi di interesse, ecc.). Questo filone di analisi rimase minoritario e l'analisi economico-pubblica continuò a essere dominata dall'economia del benessere, con le sue varianti e gli opportuni adattamenti. Nel corso degli anni cinquanta del Novecento, però, J.M. Buchanan, ispirandosi esplicitamente a Wicksell e agli studiosi italiani dell'indirizzo politicosociologico, avviò un filone di ricerca sulle scelte pubbliche alternativo a quello del "despota benevolente", con l'obiettivo di inglobare nell'analisi un'articolazione più realistica del processo politico, anche al fine di individuare i limiti che l'azione governativa incontra nel realizzare quel "bene comune" che, al contrario, si può teoricamente ottenere nell'analisi tradizionale. Il nuovo approccio (definito "Public Choice" in contrapposizione alla tradizionale "Public Finance", e anche alla definizione attualmente più adottata nei Paesi di lingua inglese di "Public Economics") rappresentò una rottura nella consuetudine accademica consolidata non solo della scienza economica, ma anche di quella politologica. In anni molto più recenti alcuni economisti, in maggioranza con un "background" macroeconomico, hanno avviato un filone di analisi esplicitamente rivolto ad analizzare le decisioni politiche con quei metodi che la teoria economica ha sviluppato e affinato negli ultimi decenni. Ci si è chiesto se, come pretendono i sostenitori di questo filone, si tratta di un'innovazione epocale dell'analisi delle scelte collettive o, invece, di una mera evoluzione della "Public Choice", che si discosta però da questa per aspetti che la riavvicinano, come si vedrà, al filone tradizionale. Le riflessioni da fare su questo tema sono particolarmente interessanti sia per la rilevanza che questo


programma di ricerca più recente, che prende il nome di "Political Economics", ha assunto in ambito accademico sia per la pretesa degli economisti che vi afferiscono di formulare prescrizioni essenziali per le scelte politiche concrete. In queste pagine non si prendono in esame altre visioni sulle scelte economiche e politiche collettive (in particolare quelle di tipo organico, di classe nel senso marxiano, etc.) limitando l'esame alle differenze che si possono manifestare tra alcuni approcci che condividono l'individualismo metodologico 2 . DALLA "PuBLIc FINANCE" ALLA "PUBLIC CH0IcE"

Lo studio delle scelte economiche collettive viene rivoluzionato dagli studiosi che avrebbero costituito il nucleo fondante della scuola della Public Choice. Come accennato, le scelte pubbliche erano analizzate, per tutta la prima metà del Novecento, come il risultato di un processo di massimizzazione del benessere sociale posto in essere dal "governo", considerato come un'unica entità decisionale il cui interesse racchiudeva le preferenze di ognuno degli individui che componevano la collettività. In questo approccio, il processo politico democratico veniva lasciato in disparte, o enormemente semplificato, con accenni ai problemi posti dalla circolarità delle maggioranze, dalla prevalenza delle decisioni dell'elettore mediano e altri ancora, ma poi l'attenzione veniva unicamente volta alle condizioni di equilibrio, emerse nel corso dell'operazione di ottimizzazione, che avrebbero garantito il raggiungimento di determinati obiettivi di efficienza e, con ulteriori ipotesi e limiti, di equità. Diversi studiosi ponevano in dubbio la reale utilità di questa impostazione, in quanto non era in grado di fornire una spiegazione corretta dell'effettivo svolgersi del processo di decisione collettiva. Questa insoddisfazione crescente nei confronti dell'Economia del Benessere esplose negli anni cinquanta del secolo scorso, quando l'evoluzione del ruolo dello Stato e l'espansione delle risorse utilizzate dai bilanci pubblici nei Paesi industrializzati rese inaccettabile e fuorviante affidarsi a un'interpretazione così superficiale ed irrealistica del processo politico. All'indomani della seconda guerra mondiale, infatti, i bilanci pubblici degli Stati più sviluppati avevano raggiunto livelli rilevanti (e la tendenza verso un incremento del "peso" della spesa pubblica sul Pil sarebbe continuata per tutto il Novecento fino a raggiungere e, talvolta, superare la metà del prodotto complessivo in molti Stati europei). Questa evidenza empirica richiedeva uno studio specifico del meccanismo di decisione collettiva che, dovendo risultare coerente con il funzionamento di un Paese democratico, non poteva più avere a fondamento quella visione sostanzialmente organica dello Stato che caratterizzava l'utilizzo del concetto della "funzione del benessere sociale". In questo rifiuto dell'impostazione allora dominante nello studio delle scelte pubbliche deve essere individuata la nascita del programma di ricerca della Public Choice, che riuniva un gruppo di studiosi che avanzavano le loro critiche soprattutto nei riguardi della metodologia adottata dagli economisti dell'approccio tradizionale e delle ipotesi che venivano assunte per determinare le scelte collettive. In particolare, veniva conte-


stata l'ostinata ricerca di un criterio di determinazione dei diversi "Stati del mondo" che permettesse all'economista di identificare una soluzione socialmente efficiente (e possibilmente unica) attraverso l'utilizzo della Funzione del Benessere Sociale, prescindendo dal giudizio dei singoli membri che componevano la comunità, come se le politiche dovessero essere stabilite da un despota illuminato. Gli studiosi della Public Choice, primi fra tutti J.M. Buchanan e G. Tullock, sottolineavano la necessità di studiare il frmnzionamento del processo politico per poter effettuare un'analisi più realistica della policy pubblica. L'ipotesi di lavoro che avanzarono era quella di considerare il movente del comportamento umano comune a tutti gli individui, sia che operassero in un ambito che potremmo definire privato (ovvero nel mercato) sia che agissero in un ambito pubblico: in altre parole, ritenevano corretto estendere il postulato dell'homo oeconomicus, adottato nella microeconomia per spiegare le scelte private degli agenti economici operanti nel mercato, all'analisi del comportamento di quelle persone che agivano in un ambito pubblico, come elettori, politici, burocrati o all'interno di gruppi di interesse. Questo presupposto implica che le scelte economiche compiute dagli uomini siano dirette alla massimizzazione del loro personale benessere e che in questo calcolo utilitaristico non entrino, generalmente, motivazioni "sociali" o "altruistiche" 3. Tale ipotesi, che per certi versi può apparire piuttosto semplificatrice della realtà, in quanto trascura la diversità degli obiettivi che si potrebbero porre individui coinvolti in diversi ambiti decisionali, sembra essere, in ogni caso, meno controversa di quella che era sottesa all'Economia del Benessere e che veniva bollata, proprio dagli autori della Public Choice, come quella del dualismo comportamentale: nel mercato, le persone hanno in mente solamente il proprio interesse egoistico, generando così tutta una serie di inefficienze che determinano le condizioni teoriche per un intervento governativo nell'economia (come nel caso delle esternalità); quest'ultimo, a sua volta, può ovviare a quei problemi poiché gli "agenti" dello Stato, come i politici o i burocrati, hanno in mente solamente l'interesse della comunità, il "public interest". Se, al contrario, seguiamo l'approccio sviluppato dalla Public Choice e adottiamo un'ipotesi coerente sul piano del comportamento tenuto dagli individui quando operano nel mercato e quando sono coinvolti nelle decisioni pubbliche, allora la visione dell'intervento dello Stato nell'economia diviene meno idilliaca. E questo è proprio quello che è successo negli anni sessanta e settanta con l'affermazione di questa scuola che deve gran parte del suo successo alla capacità di analizzare efficacemente ed in maniera disillusa il funzionamento delle istituzioni, migliorando la nostra conoscenza dei meccanismi di decisione delle stesse. La sua visione, diffidente nei confronti dell'operato dei politici e dei burocrati (ovvero dei soggetti maggiormenti coinvolti nel processo di policy making e nell'attuazione delle decisioni stesse), ha condotto a numerosi contributi, molti dei quali vengono definiti come "fallimenti dello Stato", in contrapposizione a quelli del mercato, caratteristici dell'analisi dell'Economia del Benessere. Il funzionamento delle istituzioni pubbliche e le inefficienze generate dal loro operare nelle economie di mercato sono al centro delle indagini teoriche degli studiosi della scuola della Virginia (l'altro nome con il 100


quale si indica, solitamente, la Public Choice, dal momento che in quello Stato sono concentrati i suoi maggiori centri di ricerca e sono attivi i suoi più importanti economisti) ed hanno condotto allo sviluppo di una vastissima letteratura che comprende le analisi più svariate: da quelle relative al rent-seeking (ovvero posizioni di rendita chè, create da un soggetto governativo, sotto la pressione dei gruppi di interesse come nel caso di monopoli legali o delle barriere protezionistiche -, inducono gli imprenditori a sperperare risorse in attività di lobbying al fine di ottenere il diritto al loro sfruttamento) a quelle sulla burocrazia (dove viene posta enfasi sull'assenza di corrispondenza tra il soddisfacimento delle esigenze dei cittadini e la massimizzazione dell'utilità perseguita dai burocrati), dall'elaborazione di differenti modelli di voto allo studio del comportamento dell'elettorato. Negli ultimi decenni, molti scienziati della politica, intuendo l'enorme capacità esplicativa dell'applicazione del postulato dell'homo oeconomicus alle scelte pubbliche, hanno adottato lo stesso metodo dando vita alla corrente della "Teoria della Scelta Razionale", che oggi occupa un ruolo di rilievo in quella disciplina 4 Dalla maggior parte delle analisi effettuate dagli economisti appartenenti alla Public Choice sembrerebbe emergere una generalizzata e forte antipatia nei confronti dell'intervento pubblico nell'economia. Sebbene sia evidente che questi studiosi sono diffidenti nei riguardi dell'operato dei politici e dei burocrati (ed è ciò che, in primo luogo, ha portato all'estensione del principio dell'homo oeconomicus alla spiegazione del loro comportamento), occorre sottolineare come tale prospettiva non sia chiusa ad autori più ottimisti verso l'azione pubblica: è questo il caso di Mancur Olson, il quale non ha mai posto eccessiva fiducia nei riguardi dei risultati che possono essere realizzati dal solo operare del mercato ed ha analizzato le condizioni che assicurano l'utilità collettiva delle istituzioni e gli aspetti positivi della loro evoluzione, pur in presenza di comportamenti egoistici degli individui che le compongono 5 In generale, queste lucide analisi "positive" del funzionamento delle istituzioni sono state accompagnate dall'elaborazione di soluzioni utili a migliorare la corrispondenza tra le preferenze dei cittadini-elettori e le politiche attuate dai governi. A differenza degli studiosi tradizionali, che cercavano di individuare quale fosse la politica "migliore" che doveva essere realizzata da qualsiasi governo per promuovere il "benessere" di tutta la comunità, gli economisti della Public Choice sono consapevoli che tale modus operandi è del tutto sterile, dal momento che i membri dell'esecutivo al massimo perseguono gli interessi di quella maggioranza necessaria per permettere loro di mantenere il potere nella successiva tornata elettorale. Cosicché, il primario obiettivo di questi autori è quello di individuare le condizioni che possono meglio costringere i politici a ricercare l'approvazione della totalità dei cittadini e per questa ragione il loro approccio è process-oriented e non outcome-oriented. L'enfasi che gli studiosi di questa scuola attribuiscono alla necessità di avere una struttura decentrata di governo e di fare maggior ricorso alle istituzioni proprie della democrazia diretta (ovvero favorire, quando possibile, l'iniziativa popolare e il referendum) è giustificata proprio dal fatto che questi rappresentano meccanismi in grado di favorire la .

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manifestazione sincera delle preferenze da parte degli individui e possono creare le condizioni affinché i politici siano tenuti a rispettarle. L'ambito di ricerca che più di ogni altro è rappresentativo di questo approccio è quello dell"economia politica costituzionale". Il riconoscimento che anche gli individui coinvolti nei processi decisionali pubblici si comportano egoisticamente deve indirizzare verso modelli di istituzioni che rendano coerente il perseguimento dell'interesse personale con la determinazione di risultati vantaggiosi per tutti. Il potere discrezionale di cui dispongono politici e burocrati deve essere fortemente ridimensionato, dal momento che questi non sono agenti disinteressati, ed il luogo ideale dove tali vincoli devono essere stabiliti è l'assemblea costituente. A questo livello le regole devono necessariamente ricevere un consenso vasto e diffuso tra la popolazione per essere introdotte, cosicché gli interessi di tutti i cittadini vengano presi in considerazione. In tali riflessioni, sviluppate in più riprese soprattutto da Buchanan, Tullock e Brennan 6 il debito più evidente è nei riguardi di Hume, il quale aveva sottolineato la necessità di considerare ogni uomo come un "fturfante dedito alla ricerca del proprio interesse" se si volevano stabilire effettivi vincoli all'azione di governo 7 Le istituzioni democratiche dovrebbero essere modellate seguendo quella che viene definita la "logica dello scambio" 8 : far sì che ogni individuo riceva dei vantaggi dalla partecipazione alla vita associata, cosicché se potesse scegliere liberamente se farvi parte o meno, preferirebbe rimanere all'interno della comunità. Il contratto sociale, al pari di quelli privati sottoscritti nel mercato, richiede l'adesione volontaria di tutti i soggetti coinvolti e in una democrazia nessun individuo dovrebbe essere costretto a subire una decisione collettiva che non ha partecipato a prendere. Il postulato dello "scambio volontario" che insieme a quello della scelta razionale e all'individualismo metodologico accomuna tutti gli studiosi della Public Choice viene chiaramente ripreso da Wicksell, il quale, trattando delle decisioni di Finanza pubblica, cercava di determinare quelle condizioni che avrebbero permesso ad ogni membro della comunità di beneficiare delle scelte collettive ed era giunto alla conclusione che per raggiungere questo obiettivo fosse necessaria, per quelle scelte, l'adozione del criterio dell'unanimità (o una sua approssimazione) in parlamento 9 Tale regola di voto ha infatti la pregevole caratteristica di tutelare le minoranze, che dispongono di un diritto di veto, contro quelle decisioni collettive considerate particolarmente sfavorevoli nei loro confronti. Wicksell rappresenta indiscutibilmente un punto di riferimento per l'analisi normativa svolta dagli studiosi della Public Choice, così come la descrizione realistica del processo politico sviluppata dagli autori italiani di Scienza delle finanze di inizio Novecento è alla base della loro analisi positiva. E' necessario però ricordare, necessariamente in maniera molto succinta, i principali limiti di questo approccio. Anzitutto, non si chiarisce come i progetti di riforma costituzionale possano essere effettivamente introdottti, dal momento che dovrebbero comportare una radicale redistribuzione del potere a favore delle attuali minoranze e pertanto verrebbero fortemente osteggiate da coloro che nello status quo ottengono ,

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enormi benefici. Questo è un aspetto trascurato in quanto gli studiosi della Public Choice si sono sempre preoccupati di mostrare come le istituzioni pubbliche dovrebbero essere modellate al fine di creare una società realmente democratica (nel senso, già chiarito, di rispettare le preferenze di tutta la popolazione o, almeno, di una sua larghissima maggioranza) senza però indicare la strada da percorrere per raggiungere quell'obiettivo. Trattandosi di individuare un "processo" di decisione collettiva è particolarmente contraddittorio con le fondamenta della Public Choice non cercare di individuarlo. L'essersi disinteressati delle effettive scelte pubbliche ed essersi preoccupati principalmente della astratta individuazione dei processi più idonei a garantire la manifestazione sincera delle preferenze da parte dei cittadini (e il conseguente rispetto di quelle esigenze da parte dei governanti) ha lasciato spazio agli studiosi più vicini alla corrente tradizionale della scienza economica. Su alcune tematiche di grande rilevanza, come ad esempio la strutturazione del sistema tributario, le indicazioni fornite dagli autori della Public Choice non sono approfondite e sufficientemente articolate e si limitano principalmente ad avvertire sui pericoli che potrebbero derivare dall'eccessiva discrezionalità con cui le scelte tributarie vengono assunte e sulla rilevanza degli interessi particolari nella loro determinazione. Poca attenzione specifica è dedicata poi al ftinzionamento dei mercati che, come si è accennato, non sono considerati meccanismi che sfociano negli equilibri descritti dall'Economia del Benessere e di conseguenza non è condivisa da questo approccio l'utilità del concetto di "fallimenti del mercato". L'emergere dell'approccio di Public Choice è stato inizialmente .osteggiato fortemente dall'establishment accademico, ma nel corso del tempo la sua influenza si è estesa e anche l'attribuzione del premio Nobel a Buchanan nel 1986 ha sancito il riconoscimento della rilevanza accademica della scuola. L'acquisita consapevolezza che il metodo della Public Choice non implica necessariamente una scelta contraria all'esistenza dello Stato (o favorevole all'accettazione dello Stato minimo), anche se i suoi esponenti continuano prevalentemente a militare tra i conservatori più "liberisti"(ma non per ragioni scientifiche), ha aumentato la sua considerazione presso gli economisti di vario orientamento politico. I MODELLI DI "P0LITIcAL EcoNoMlcs": SOLO VINO VECCHIO IN OTRE NUOVO? La decisione degli autori di Public Choice di non basarsi sulla ricerca di equilibri economici efficienti, dal punto di vista della teoria dell'Economia del Benessere, lasciava spazio agli economisti "mainstream", interessati alla determinazione delle condizioni necessarie per l"ottimalità" delle scelte economiche pubbliche. Infatti, nonostante le critiche mossedalla scuola della Virginia a chiunque analizzasse le scelte sociali prescindendo da ùn'attenta e ponderata valutazione del funzionamento del proéesso politico, l'attrazione per eleganti soluzioni di equilibrio che, almeno teoricamente, potessero eliminare le inefficienze create dall'interazione tra gli agenti eco103


nomici (faffimenti del mercato), continuava ad esercitare un grande richiamo nella maggioranza degli economisti pubblici. Sulla scia di analisi del rent seeking basate sull'approccio tradizionale ( diverso da quello di Public choice 10 ) appaiono diversi contributi, in prevalenza non coordinati tra di loro, che trattano l'interazione tra mercato e istituzioni pubbliche restando ancorati alle "tecnologie" del mainstream della disciplina economica. 11 Così si afferma gradualmente una nuova corrente, indicata con il nome di Political Economics (o Political Economy), che accomuna quegli scienziati sociali (economisti, ma anche politologi) che condividono alcuni aspetti essenziali del lavoro di ricerca. L'obiettivo principale è quello di analizzare le politiche economiche dei Paesi democratici per cogliere le motivazioni che possano spiegare le difformità di risultati osservabili nei diversi Paesi. Viene studiato il funzionamento del processo politico e si indagano quei fattori che possono avere riflessi rilevanti sulle effettive politiche realizzate: di conseguenza, grande enfasi viene posta sulla considerazione degli incentivi che indirizzano le scelte dei governanti e sui limiti che i politici possono incontrare nell'attuare i loro piani, solitamente strutturati in maniera tale da apportare benefici solo a gruppi ristretti della comunità. Un elemento comune a tutti i contributi, che li distingue dall'approccio tradizionale di Public Economics, è la considerazione dello Stato (o meglio del "governo") come endogeno nella determinazione dei risultati dell'interazione tra gli agenti economici; di conseguenza, in presenza di situazioni inefficienti (fallimenti del mercato), non si può dare per scontata l'esistenza del "despota benevolente" disposto a correggerle. Sembrano, quindi, notevoli le affinità tra la Political Economics e la Public Choice, in quanto entrambe vogliono spiegare le scelte politiche usando la metodologia dell'homo oeconomicus. Qual è, allora, la ragione della nuova prospettiva? In quello che viene considerato il "manuale" della Political Economics' 2, si afferma esplicitamente che le tematiche sono comuni alla Public Choice, ma i limiti che affiiggono quell'approccio richiedono una nuova (ed autonoma) elaborazione. Gli studiosi della Public Choice sono accusati di non tener conto degli sviluppi, principalmente nelle metodologie di analisi quantitativa statistico-matematica, che hanno caratterizzato la scienza economica negli ultimi decenni. In particolare non utilizzano modeffi formali di teoria dei giochi per sviluppare le loro intuizioni né adottano le "aspettative razionali" come ipotesi di comportamento economico degli individui. Per queste ragioni le analisi di Public Choice sarebbero lacunose ed erronee e dovrebbero essere sostituite con studi in linea con i nuovi tools e le nuove teorie della corrente mainstream della scienza economica. Quindi la Political Economics si richiama alla Public Choice solo nella definizione dei problemi, mentre sceglie la cosiddetta "teoria della politica economica" come ambito metodologico essenziale di analisi, teoria che nasce in ambito macroeconomico. Essa trova origine nella critica di Lucas ai modelli econometrici tradizionali i quali, nel valutare gli effetti delle diverse politiche sulle variabili macroeconomiche, non consideravano la possibilità che la relazione stessa tra le variabili 104


potesse essere influenzata dalla policy adottata. Sono soprattutto le intuizioni di Kydland e Prescott (1977) ad aver spianato, per questo aspetto, la strada alla nascita della Political Economics; infatti, insieme con i successivi lavori di Barro e Gordon (1983), si è modificato radicalmente lo studio della determinazione delle decisioni politiche efficienti e delle circostanze affinché queste possano essere ottenute rispettando le condizioni di equilibrio. In estrema sintesi, si può dire che se le decisioni correnti degli operatori privati dipendono dalle loro aspettative sulle scelte politiche future, emerge per il governo una discrasia fra la politica coerente con quella annunciata e quella "ottimale": infatti, se le autorità in un secondo momento possono modificare lapolicy annunciata avranno convenienza a farlo in quanto non dovranno più tenere conto degli effetti delle loro scelte sulle decisioni del settore privato (il loro problema di ottimizzazione presenta un vincolo in meno). Tuttavia, se le aspettative degli operatori privati sono razionali, la scelta dei politici sarà correttamente prevista e gli agenti economici non crederanno nella politica annunciata dal governo. Cosicché, se il governo non può assumere l'impegno vincolante a rispettare quanto sostenuto in precedenza, si determina una situazione di equilibrio negativa dal punto di vista del benessere sociale 13 . Questo problema, definito di incoerenza dinamica, ha dato vita a una serie di studi volti ad individuare quelle condizioni, solitamente basate sulla reputazione del policymaker, che potrebbero garantire l'ottenimento di equilibri efficienti, anche nel caso in cui non si possa ricorrere ad impegni vincolanti. La Political Economics estende l'analisi dei problemi di credibilità allo studio delle istituzioni collettive e degli incentivi per i politici. Ne segue che la politica economica effettivamente realizzata non è altro che il risultato di equilibrio di un gioco non cooperativo in cui si scontrano i conflitti di interesse tra elettori e policymakers e tra differenti gruppi di elettori e partiti politici. Nell'ambito delle analisi che combinano le scelte politiche con il funzionamento dei mercati visto con l'ottica della tradizionale Economia del benessere va annoverato un insieme di contributi di diversa origine, che si distinguono da quelli di Political Economics in senso stretto, in quanto sono dettagliatamente definiti dal punto di vista microeconomico e non fanno riferimento ai fondamenti macro ditale indirizzo. Si tratta di modelli che stilizzano il funzionamento del mercato secondo il mainstream (tendenzialmente nell'ambito dell' equilibrio economico generale) e le scelte collettive seccndo criteri formalizzati di equilibrio politico. A questo filone appartengono i modelli di voto probabiistico, in cui si ipotizza che i partiti non sono a conoscenza delle preferenze politiche degli elettori e cercano di strutturare le piattaforme politiche al fine di massimizzare il numero dei voti attesi; i cittadini, a loro volta, basano la propria intenzione di voto sull'utilità che potrebbero ottenere dalla realizzazione dei programmi politici tra cui possono scegliere. Tra i lavori che si basano sul modello di voto probabiistico, si può ad esempio considerare quello di Hettich e Winer (1999), centrato sulle scelte di tipo tributario. In opposizione all'approccio dell'Optimal Taxation (tipico della tradizionale Public Economics), questi studiosi 105


enfatizzano il ruolo rivestito dal processo politico nella strutturazione dei sistemi tributari e osservano come nelle concrete scelte tributarie prevalga il peso dell'equilibrio politico rispetto a quello dell'equilibrio economico. In particolare esse sono il risultato del bilanciamento tra gli opposti interessi di individui razionali con preferenze eterogenee. In questi modelli il benchmark teorico della lump sum tax (l'imposta in somma fissa), talvolta della Optimal Income Tax, che tanto piace ai teorici della Public Economics, in quanto non distorcerebbe (sotto certe condizioni) le scelte degli agenti economici privati, ovvero consentirebbe di minimizzare le distorsioni in cambio di desiderati risultati in termini di distribuzione del reddito (nel caso della Optimal Income Tax), non appare in generale coerente con possibili equilibri politici democratici. Hettich e Winer estendono quindi l'analisi di equilibrio economico generale allo scenario politico e ai risultati generati in questo ambito, considerando i diversi vincoli che caratterizzano e distinguono i processi di scelta pubblici da quelli di mercato. Si può sostenere che l'equilibrio politico che emerge nei modelli di voto probabiistico completa il tradizionale approccio microeconomico, e permette di evidenziare risultati complessivi di second best (nel senso della teoria economica tradizionale) che si realizzano considerando il libero funzionamento del mercato e il complementare processo politico. In effetti, sia i modelli di Public Choice sia quelli di Political Economics (delle diverse varietà) fanno largo riferimento alle capacità autoregolatrici del mercato, per la "logica dello scambio" nelle analisi del primo tipo, più rispondenti a criteri di massimizzazione del benessere sociale nell'altro caso. L'approccio più recente si caratterizza inoltre per 1' utilizzo generalizzato di tecniche di ricerca empirica di tipo statistico-econometrico, che vengono applicate alle più varie tipologie di problemi di scelta collettiva: dalle politiche ridistributive a quelle monetarie, dal ciclo politico economico alla configurazione geografico-politica degli Stati. Le teorie degli studiosi appartenenti sia al filone macro sia a quello micro di questo approccio nascono sostanzialmente dai risultati delle stime empiriche e la loro validità è legata, quindi, all' utilizzo (e alla disponibilità) di dati appropriati e al proficuo e corretto uso degli strumenti statistico-econometrici. Per questi studiosi, le prescrizioni normative possono derivare solo da una conoscenza approfondita del concreto funzionamento delle istituzioni, realizzabile attraverso un gran numero di studi empirici. Questa esigenza, a sua volta, spinge a "costruire" quasi un modello per ogni aspetto indagato, ma questa frammentarietà risulta spesso poco utile alla formulazione di suggerimenti atti a migliorare, in generale, l'efficienza delle scelte collettive. Le ipotesi dei diversi modelli sono talvolta tra loro contrastanti, per cui non si sa se rappresentano spiegazioni complementari ovvero alternative dell'azione politica indagata. Gli stessi autori sembrano consci dell'irrealtà delle ipotesi adottate e della singolarità dei risultati, che spesso mutano con piccole modifiche delle ipotesi di partenza14 .

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"PusLIc CH0IcE" E "P0LmcAL EcoNoMlcs": (IN)EVITABILE CONTRAPPOSIZIONE? Le analogie e le differenze tra i due approcci sono state oggetto di uno scambio di opinioni, ospitato nella Rivista "Kykios", introdotto da un saggio di Blankart e Koester (2006). Esso segue precedenti osservazioni di alcuni eminenti studiosi di Public Choice che lamentano la pratica, costantemente seguita da diversi economisti della Political Economics, di trascurare i risultati delle ricerche della scuola della Virginia, presentando le proprie analisi come totalmente innovative. Blankart e Koester (2006) hanno cercato di comparare, in maniera sistematica, i contributi apportati dai due programmi di ricerca, per verificare se la Political Economics possa effettivamente e completamente sostituirsi alla Public Choice nell'analisi economica delle istituzioni collettive 15 . Il tono polemico e la messa in discussione della validità di alcuni risultati ottenuti dalla scuola più recente ha provocato una risposta alle accuse, che ha contribuito a chiarire le rispettive posizioni 16. Blankart e Koester hanno anche compiuto un'attenta analisi dei principali contributi della Political Economics, mettendone in evidenza i limiti. Essi riconoscono che alcune analisi empiriche sono apprezzabili. In particolare il contributo alla letteratura sul Political-Business Cycle, in cui sono stati riprese le indicazioni di Kalecky , Nordhaus e Hibbs,, sono considerate di utile sviluppo idonee della letteratura precedente 17 Particolarmente irritante risulta invece per la Public Choice la rivendicazione, da parte dell' altro approccio, di originalità e innovazione di risultati nella materia dell' "Economia politica costituzionale" 18 . Nonostante la rilevanza delle intuizioni e delle considerazioni presenti, ad esempio, in Buchanan e Tuliock (1962) e in Brennan e Buchanan (1986), è sorprendente notare come la letteratura di Political Economics trascuri completamente tali contributi. La distinzione fondamentale in questo campo riguarda il criterio di valutazione degli assetti istituzionali: per la Political Economics, nella tradizione dell' Economia del benessere, si deve valutare l'efficienza dei risultati, mentre per la Public Choice quel che conta è l'efficienza dei processi decisionali. In particolare, per questa scuola bisogna assicurare processi che garantiscano tutti i membri della collettività dalla possibilità che i policy-makers adottino decisioni fortemente sfavorevoli per le minoranze, mentre per i primi si debbono cercare quei risultati (definiti all'interno di certi vincoli) che massimizzano l'utilità (secondo i criteri dell'Economia del Benessere adattata all'uso di tools più moderni). In questo senso si spiega perché l'approccio seguito da autori come Persson e Tabellini, che mira a definire gli effetti economici associati all'adozione di differenti forme di governo e diverse regole elettorali, possa essere considerato statico dall'altra scuola. Questa invece cerca di suggerire innovazioni istituzionali in grado di assicurare una maggiore corrispondenza tra le preferenze del maggior numero possibile di cittadini e le scelte dei governi e quindi si pone su un piano di dinamica costituzionale19. La Political Economics adottando, come si è detto, un approccio di osservazione empirica, deriva i suoi suggerimenti dalla comparazione degli effetti economici degli .

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assetti istituzionali concretamente esistenti in un dato lasso di tempo. L"economia politica costituzionale" richiede invece, secondo gli autori di Public Choice, un approccio "creativo" e non può, di conseguenza, fondarsi unicamente su confronti basati sulle istituzioni esistenti 20 . La contrapposizione tra le due scuole è quindi in parte di tipo metodologico, come si è visto, ma in parte riflette diverse visioni dei compiti attribuibili alle scelte collettive. Importante è per gli uni la limitazione dei poteri dei governi (e degli altri agenti delle scelte pubbliche) nelle decisioni economiche collettive per evitare la tirannia della maggioranza e altri inconvenienti (come il rent-seeking, ecc.). Rilevanti per gli altri sono invece solo i risultati in termini di quelle variabili economiche che rappresentano gli obiettivi dell'azione pubblica. L'approccio di Public Choice è stato spesso associato dai suoi avversari con il modello del Leviatano21 , una visione del ruolo dello Stato nell'economia che negherebbe qualunque utilità alla politica economica. In realtà, secondo i sostenitori di questo approccio, questo modello viene adottato per fini meramente esemplificativi: serve solo a richiamare l'attenzione sui potenziali abusi che un governo, non sottoposto a vincoli costituzionali, può attuare nei confronti dei cittadini. Quella del Leviatano è, quindi, un'ipotesi strumentale, al pari di quella relativa all'homo oeconomicus, impiegata, almeno dai principali autori di Public Choice, per sottolineare i potenziali effetti negativi associati alla mancanza di efficaci vincoli costituzionali all'azione politica. Questi aspetti sono stati spesso mal compresi dalla comunità accademica 22 e hanno ostacolato un proficuo utilizzo dei risultati delle loro ricerche. La contrapposizione tra i due approcci appare in larga misura inevitabile per le diverse metodologie adottate e per il differente ruolo attribuito alle regole nelle decisioni economiche collettive, quantunque si condivida il rilievo degli interessi particolari degli agenti pubblici nel funzionamento complessivo del sistema economico. Forse in casi ben determinati (specificando le ipotesi, i dati e le metodologie seguite) talune ricerche dei rispettivi approcci potrebbero rivelarsi complementari nell'interpretazione delle politiche pubbliche. CoNcLusIoNi

Nel corso degli ultimi decenni l'entità delle risorse la cui allocazione e distribuzione è soggetta a decisioni economiche pubbliche si è progressivamente accresciuta fino a raggiungere, in buona parte dei Paesi sviluppati, quasi la metà del prodotto annuale. In queste condizioni è evidente che le spiegazioni del funzionamento complessivo del sistema economico non possono prescindere dall'analisi di come le scelte economiche collettive operano e interagiscono con quelle di mercato (private). L'approccio tradizionale della scienza economica attribuiva alle scelte pubbliche il compito di supplire (ipotizzando un obiettivo di perseguimento del public interest da parte degli agenti che concretizzano quelle scelte) alle deficienze ("fallimenti") del mercato.


La constatazione, da parte di molti economisti pubblici, di diffusi comportamenti degli "agenti' pubblici spiegabii più con il self interest che con il public interest, ha favorito la nascita di un approccio all'analisi delle scelte pubbliche che è di rottura rispetto alla tradizione precedente: la Public Choice si pone in alternativa alla Public Finance (o Public Economics) anche su un piano metodologico più generale. Non solo contesta l'utilità dell'ipotesi del "despota benevolente" che corregge i "fallimenti del mercato" ed enfatizza invece la rilevanza dei "fallimenti dello Stato", ma rifiuta buona parte della "scatola degli attrezzi" usati in precedenza, anche se condivide con l'approccio tradizionale l'individualismo metodologico che, anzi, più correttamente (secondo il nuovo indirizzo) viene esteso alla spiegazione del comportamento degli agenti pubblici. Lo stesso atteggiamento viene sostenuto da un approccio ancora più recente, quello di Political Economics, che vuole però riprendere (in versione ammodernata) la "scatola degli attrezzi" tradizionali della scienza economica mainstream, pretendendo di rappresentare un'innovazione epocale nella metodologia di analisi delle scelte economiche pubbliche. Questo atteggiamento, secondo gli altri studiosi, non appare giustificato dai risultati delle ricerche condotte nell'ambito di tale approccio. Queste obiezioni ci appaiono condivisibili e le carenze non sembrano solo attribuibili alla ancora "giovane età" della Political Economics (giustificazione che alcuni suoi esponenti avanzano quando non è possibile ricorrere ad altre difese). Mentre l'approccio tradizionale aveva una "visione" necessariamente ottimista del ruolo pubblico, la maggioranza degli studiosi di Public Choice e di Political Economics ne condividono una pessimista, contrapposta a una grande fiducia (diversamente motivata nei due approcci) nelle capacità di autoregolazione dei mercati. La opposta valutazione del comportamento degli agenti pubblici affonda le radici in visioni più ampie della società. In una memorabile settimana di confronti avvenuti a Monaco di Baviera nel 1998, J. Buchanan e R. Musgrave hanno avuto modo di esplicitare questo tipo di divergenze 23 .Sulle relazioni tra analisi economica e visione generale del funzionamento della società il primo conclude: "Observed opportunistic behavior, both in markets and in politics, suggest an absence of moral constraints", ma ciò nonostante non bisogna essere pessimisti e il suo atteggiamento "remains meliorist in its claim that properly designed institutional-constitutional change can move behavior at least some direction toward the classical liberai set of minimum standards that seem necessary" 24. E Musgrave: "One of my themes has been that market, efficient and helpful as it is, does not itself constitutes a moral order. The vision of a moral order, based on self-interest only, is incongruous" 25 ed egli preferisce una società "where individuals as citizens of their community share common obligations and do so on a daily base, including their conduct of the public sector". E' evidente che le diverse "lenti" indossate dagli economisti sia per spiegare le decisioni pubbliche sia per prescrivere politiche "migliori" sono modellate da convinzioni che non è possibile, in larga misura, sottoporre a verifica scientifica e la cui scelta non può che essère lasciata alla responsabilità e alla libertà di valutazione dello studioso. 109


*Già pubblicato sul sito della Società Italiana di Economia Pubblica come working paper. Senza ricorrere alle numerose citazioni 1 che sarebbero necessarie, si può far riferimento ad un recente paper di A. Fossati (2008) che sintetizza molto bene le posizioni di questo gruppo di studiosi italiani, del tempo a cavallo tra fine Ottocento e inizi del Novecento, sul ruolo dello Stato nell'analisi economica. 2 R. MUSGRAvE (1996) ricorda l'approccio "organico" allo studio dell'economia dello Stato, allrigine della Finanzwissenschaft tedesca e la sua graduale evoluzione verso una visione più attenta alle preferenze individuali, ma che non abbandona completamente l'approccio originario, ora definito del "Communal State". Con le parole di Musgrave (1996, pag 73): "In its extreme form, the personified state itself appeared as the subject ofwants, overriding the private preferences of its members. In its moderate form, only individuals experience wants, but a distinction remains between their private and communal wants. While the former are satisfied in lime with self interest, satisfaction of the latter involves an obligation to the community as a whole". Questo non significa che si possa sot3 tovalutare l'importanza del cosiddetto "Terzo settore" il cui sviluppo è in gran parte attribuibile a motivazioni altruistiche. In questo settore sono particolarmente importanti la storia e il ruolo attuale (entrambi molto articolati) delle Fondazioni. Si veda il Libro Bianco sulle Fondazioni del CONSIGLIO ITALIANO PER LE ScIENZE SOCIALI (2002) e, con riferimento agli Stati Uniti ma con argomentazioni largamente generalizzabili, il recente D. AKST (2008). 4 Sebbene sia stata oggetto di critiche, la più nota delle quali è esposta in D.P. GREEN e I. SHAPIRO (1994). M. OLsoN (1965, 1996,2000) e A. Di5 XIT e M. OLSON (2000). 6 In particolare J.M. BUCHANAN e G. TULLOCK (1962) e G. BRENNAN e J.M. BUCHANAN (1986). 7 D. HUME (1987). 8 Buchanan vede la scienza economica come una "scienza degli scambi" concentrata sullo studio delle istituzioni e delle proprietà che regolano il processo di negoziazione tra le parti

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coinvolte in un contratto e la contrappone al paradigma della "massimizzazione" a cui si rifanno, invece, gli economisti tradizionali (cfr. J.M. BuCHANAN 1975, 1983). Nel far questo, Buchanan segue esplicitamente l'impostazione di VON HAYEK (1982), che si definisce catallattica (dal verbo Greco katallassein che significa "scambiare", ma anche "ammettere nella comunità" e "diventare da nemici, amici") ed enfatizza i benefici che derivano dall"rdine spontaneo" del mercato. In questa ottica, ogni risultato a cui si giunge mediante l'accordo volontario tra gli individui è da ritenersi soddisfacente, mentre è insensato ogni tentativo di ricercare esiti stabili ed univoci del processo di contrattazione tra gli agenti economici. 9K. WICKSELL (1896). G.TULLOCK (1967). 10 11 A.O. KRUEGER (1974) eJ.N. BHAGWATI e T.N. SRINIvA5AN (1980). Si tratta dello studio della cosiddetta DUP ( directly unproductive projlt-seeking activity) che analizza il Rent seeking come attività che le scelte pubbliche (in unttica di ottimizzazione) devono contrastare. T. PERSSON e G. TABELLINI (2000), 12 pp. 2-4. Un esempio illuminante riguarda la tas13 sazione degli ut• :1'obiettivo del governo potrebbe essere quello di incentivare l'accumulazione del capitale, annunciando che i profitti non verranno tassati. Successivamente, quando gli investimenti produttivi sono stati realizzati, la scelta ottimale del governo diventa quella di concentrare l'imposizione proprio sui profitti: l'offerta di capitale ex-pOst è rigida, quindi tale imposta non genera alcuna distorsione e permette al governo di realizzare con il suo gettito i suoi obiettivi (qualsiasi essi siano: da ridurre la tassazione sul reddito da lavoro ad incrementare i suoi consumi od espandere il settore pubblico, etc.). Tuttavia, gli investitori privati, se sono "razionali", anticiperanno l'incentivo del governo a contravvenire alla promessa di non tassare gli utili e gli investimenti risulteranno inferiori alle attese. Tutto ciò accade se il governo non può vincolarsi a rispettare gli impegni assunti. 14 Si veda T. PARRSON e G. TABELLINI (2000), parte III. 15 Tra gli altri economisti che si sono lamentati dell'atteggiamento adottatp dagli autori di Political Economics nei confronti della letteratura di Public Choice, possiamo citare H.W.


URSPRUNG (2003), D.C. MUELLER (2007) e R.D. T0LLIS0N (2007). A. ALESINA,T PERSSON e G.TABELLI16 NT (2006). 17 I modeffi sul ciclo politico-economico realizzati dagli economisti di Political Economics partono dallriginario contributo di A. ALESINA (1987). 18 Cfr. la recensione di D. ACEMOGLU

(2005) a "The Economic Effects of Constitutions", il libro di PERSSON e TABELLINI (2003), che viene considerato da questo autore un lavoro fondamentale per chiunque volesse cimentarsi nello studio dell'influenza delle istituzioni sulle performance dell'economia. La difficoltà di accettare la netta distin19 zione tra regole costituzionali e decisioni politiche concrete è messa in rilievo da DIxIT (1996) come una delle cause della diffidenza degli economisti nei confronti della Public Choice: "a ... reason far

economists' hesitancy in accepting the pubiic choice approach may be that its distinction between the constitution ofeconomic poiicy and the policy process in individuai istances is too sharpiy drawn to be realistic" (cfr. A.K Dixit 1996 pag. 19). C.B.BLANIRTeG.B. K0ESTER (2006) 20 pag. 189. 21 Il modello del Leviatano ipotizza che i governanti, anche nei Paesi democratici, si comportino in maniera autocratica e il loro unico obiettivo sia quello di sfruttare tutte le rendite che possono ottenere nella loro posizione. Si veda G. BRENNAN eJ.M. BUcHANAN (1980). Anche da studiosi che non sono ricon22 ducibili ad una particolare scuola; si veda l'articolo diJENNINGS e MCLEAN (2008). 23 J. BUCHANAN e R. MUSGRAVE (1999). 24 Idem,pag2l7. 25 Idem,pag 232.

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IL CONSIGLIO ITALIANO PER LE SCIENZE SOCIALI

Il Css è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Sociali (Co.S.Po.S.) che svolse a suo tempo, negli anni settanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: - contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; - incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; - sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui seguenti temi: le fondazioni in Italia; governo delle città e territorio; valutazione degli effetti delle politiche pubbliche. Vi è attualmente un gruppo di lavoro sul tema della produzione e trasformazione della conoscenza scientifica e tecnologica. Vi sono anche due progetti speciali pluriennali sui temi del ceto medio e della politica dell'innovazione e dei trasferimenti tecnologici. Da ricordare infine, l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche d'Europa.

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La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica

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Alla vigilia della fine della seconda guerra mondiale e del tracollo della dittatura fascista, Adriano Olivetti - imprenditore di successo che fu fra i maggiori protagonisti del "miracolo economico" degli anni cinquanta del secolo scorso - si impegnò alla costruzione di una democrazia autentica e rinnovata nel nostro paese. Di qui il suo progetto istituzionale, minutarnente disegnato, che partendo dalle comunità territoriali - unità di base della democrazia - giungeva alla proposta di una costituzione compiutamente Federale. Nacque da questo impegno l'Ordine Politico de/le Comunità. Intorno al progetto Olivetti promosse daI 1945 fino alla sua morte nel 1960, un'intensa attività politica. Fondò il Movimento Comunità, di cui la rivista omonima Fu l'organo principale, e creò intorno alla rivista le Edizioni di Comunità. La sua fu una battaglia delle idee, ricca tuttavia di tentativi di alleanze concrete, piena di iniziative sociali sul territorio e infine neppure aliena da prove elettorali. Una battaglia chè è parte integrante della storia del riformismo italiano più riflessivo e costruttivo, fondato su una cultura aggiornata delle scienze sociali, rigoroso nel perseguire il coinvolgimento reale delle comunità concrete dei cittadini. La sua lezione va ripensata e rilanciata nel momento che il degrado della democrazia sembra prendere definitivamente la strada del populismo che semplifica e delega.

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