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qileste istituzioni Anno XXXVI n. 154 Redazione

Direttore., SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANToNIO DI MAJO Vice Direttore: GioVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: CARLA BAsSU, FABIO BISCOTTI, ROSALBA CORI, ELINA DE SIMONE, FRANCESCO Di MAJO, AlESSANDRo HINNA, CLAUDIA LOPEDOTE, GIORGIO PAGANO, PII:R LUIGI PETIIIIo, ELISABETTA PI;zzl, MASSIMO RIIIAuD0, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, VALEPJA VÀLISERRA, FRANCESCO VELO, DONATELLA VISc0GLI0SI, STEFANIA ZUCCOLOTTO. Collaboratori ARJNAIDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BETrIN LATTES, ENRICO CANIGIIA, OSVALDO CROCI, ROIANo BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANI I1LO, GABRIELE CALVI, MAN IN CARABBA, BERNARDINo CASADEI, MARIO CACIAG I I, CARLO CHIIVIENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'AI,BERGO, MASSIMO DE FI;LICE, DONATELLA DELLA PoIAT, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'OWFA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQiJALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FR0SINI, CARLo FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SIlVIO GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VAIERIA GIANNI;LLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LA CAvA, SIMONA LA ROCCA, GIANIiAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIPJNO LORELLI, ANN1CK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIEI I, W\LTER N0CIT0, EIINOR OSTROM, VINCENT O5TROM, ALESSANDRO PALANZA, OLI VIERO PESCE, ANDREA PIRAINO, BE,IwO PEZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO RI:Y, GIANNI RIOTTA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEI'E, FRANCESCO SID0TI, ALESSANDRO SILJ, VINCENZO SPAZIANTI;, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON,JIJLIA SZANTON, SALvAToRv TERESI, VAI,ERIA TERMINI, GIANLUIGI TOSATO, GUIDo VERUCCI, FEDERICO ZAMI'INI, ANDREA Z0PI'INI Hanno collaborato: UMBERTO SERAFINI, FEDERiCO SPANTIGATI, TIZIANO TERZANI

Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHI NI Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00193 Roma Tel. 06.68136085 - Fax 06.68134167 E-mail: qucsire@quesire.it - www.questeistituzioni.it Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972)

Responsabile: GIOVANNI Bl:CI IELLONI Editore: Consiglio italiano per le Scienze Sociali ISSN 1121-3353 Stampa: Tipar Arti Grafiche - Roma Chi uso in tipografia: 15 ottobre 2009

Foto di copertina: tratta da "Cultures ofCreativity - Birty of a 21st Century Museum" UlfLarsson, Editor - 2006 Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


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Indice III

L'Europa alla prova della democrazia tedesca Claudia Lopedote

Dihttito i "Avanti c'è posto". Sviluppo urbano e trasporti pubblici a Roma nell'ultimo secolo Sul volume di Tocci-Insolera-Morandi Dibattito in redazione

Dossier 31

Cultura, politiche e prassi del trasferimento tecnologico. Tra ricerca e finanza acura di Fabio Biscotti

Silgio 145

Il confronto tra "Public Finance, Public Choice e Political Economy" a cura diAlessandro De Chiara e Antonio Di Majo



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editoriale

L'Europa alla prova della democrazia tedesca

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a Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht - BverfG, sentenza del 30 giugno 2009) si è pronunciata per la costituzionalità dell'Atto che approva il Trattato di Lisbona (Zusrimmungsgesetz zum Vertrag von Lissabon) in quanto compatibile con la Legge fondamentale tedesca. Allo stesso tempo, tuttavia, la BverfG, esprimendosi sugli strumenti giuridici nazionali di ratifica, ha rilevato che allo stato attuale le assemblee legislative tedesche non godono di sufficienti diritti di partecipazione nell'ambito delle procedure legislative e di riforma dei trattati europei. Secondo la Corte, l'atto che estende e rafforza i diritti del Bundestag e del Bundesrat nelle materie comunitarie (Gesetz uber dieAusweitung und Sta rkung der Rechte des Bundestages und des Bundesrates in Angelegenheiten der Europàischen Union), e che accompagna la ratifica del Trattato, viola gli articoli 38.1 e 23.1 del Grundgesetz, poiché non contiene un'adeguata elaborazione costituzionale del diritto di partecipazione del Bundestag e del Bundesrat nell'ambito della procedura di emendamento dei Trattati in capo alle istituzioni comunitarie (con l'unanimità del Consiglio). Ragione per cui l'atto finale di ratifica del Trattato di Lisbona da parte della Germania è stato sospeso e rimandato ad una nuova legge nazionale di ratifica ad hoc, nella quale inserire esplicitamente i diritti di partecipazione del Parlamento tedesco. Legge pronta e varata già a metà settembre. Si tratta di tre atti legislativi che emendano la legislazione esistente sui diritti di partecipazione delle due Camere, e sui rapporti di cooperazione tra governo federale e Bundestag (EUZBBG) e tra governo federale e Lander (EUZBLG) nelle materie comunitarie, introducendo anche una nuova norma sulla Responsabilità per l'Atto di Integrazione (Integrationsverantwortungsgesetz). Nel complesso, sono salvaguardate e rafforzate le competenze del Parlamento federale, con ciò risolvendo le questioni - tutt'altro che accessorie nella lunga motivazione redatta dalla Corte di Karlsruhe - di sovranità inscritte in Costituzione, secondo le prescrizioni e nei casi esaminati dalla Corte (passerella, procedura di revisione semplificata, clausola di flessibilità, procedure "freni di emergenza", etc.). Le nuove III


disposizioni regolano così la partecipazione di Bundestag e Bundesrat nei casi di emendamento dei trattati che non sottostanno alle procedure usuali, e nei casi di ampliamento delle competenze comunitarie e di approfondimento del processo di integrazione. In tutti questi casi, è richiesta la partecipazione del Parlamento. Ad esempio, si rende necessaria un'apposita legge che faccia riferimento all'art. 23 della Legge fondamentale tedesca perché il governo federale tedesco possa esprimere il proprio consenso nell'ambito della procedura semplificata di revisione dei trattati (art. 48 Trattato sull'Unione Europea) in materia di mercato interno, politica monetaria e politica del lavoro. L'atto di ratifica del Trattato di Libona è stato così depositato il 25 settembre 2009. Tutto risolto, dunque? Probabilmente sì, nel contingente. Resta che la sentenza dei giudici costituzionali tedeschi porta la riflessione su profili delicati che, man mano che il processo di integrazione ed approfondimento dell'Unione uropea procede, sono destinati ad essere sempre più in evidenza nella loro problematicità. Meglio chiarirli al più presto. O almeno incominciare a discuterne a fondo, senza le pressioni dell'estemporaneità. Intanto, la motivazione chiarisce che i termini della questione sono quelli classici relativi ai sistemi di governo democratico: quale forma e funzionamento devono avere due differenti macchine chiamate ad integrarsi senza perdere senso e pezzi di democrazia? E un problema strutturale che deve fare da contrappeso all'importanza crescente che l'Unione Europea può vantare in non pochi ambiti, con competenze e poteri rilevanti. Una questione simile si è posta allorquando - prima della previsione esplicita dei diritti fondamentali dell'uomo come parte integrante dei principi generali dell'ordinamento comunitario, inseriti nel Trattato sull'Unione europea e poi codificati nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea - alcuni Stati nazionali (vd. sent. Frontini del 27 dicembre 1973, n. 183 per l'Italia; sent. Solange I del 29 maggio 1974 per la Germania) hanno inteso tutelare i diritti inalienabili della persona garantiti sul territorio interno in virtù di tradizioni nazionali più o meno consolidate. La Corte costituzionale italiana, in particolare, aveva elaborato la cosiddetta dottrina dei "contro limiti" in riferimento all'art. 11 Cost. che, in virtù della previsione delle limitazioni di sovranità, costituisce il fondamento costituzionale dell'adesione italiana alle comunità europee. Di qui, l'affermazione del rispetto dei diritti inviolabili della persona (insieme ai principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale italiano) come limite invalicabile, anche dall'ordinamento comunitario. L'interpretazione della Corte, pur presentando - secondo molti lettori - alcuni punti deboli, ha comunque contribuito a porre il problema e ad orientare la Corte di giustizia europea. Torniamo alla questione nei termini in cui è stata posta oggi in Germania. Se si guarda alle procedure di nomina, all'organizzazione ed alle decisioni interne, l'Unione Europea funziona per lo più come un'organizzazione internazionale; basata cioè sul IV


diritto internazionale ed il principio dell'uguaglianza tra Stati. Non in tutti i campi, tuttavia. In alcuni essa funziona come uno Stato federale. In ogni caso, il BverfG vede l'Europa come un'unione di diritto (Herrschaftsverband), una comunità ampliata che si fonda su sistemi giuridici e amministrativi nazionali eterogenei, ma è supportata dalla volontà degli Stati nazionali sovrani che garantiscono o si impegnano a garantire la messa in atto e il rispetto del diritto comunitario. Dunque, le responsabilità competono in primo luogo alle autorità nazionali ed agli organi costituzionali che agiscono in rappresentanza dei propri cittadini. Siamo ancora una volta al punto di partenza. Ovvero, la percezione di insufficiente legittimazione democratica delle istituzioni europee: scarsa affluenza alle urne per eleggerne il Parlamento, scarsa trasparenza di procedure interne sempre assai complesse e macchinose, scarsa conoscenza dei processi e delle regole che presiedono al suo funzionamento, ombre lunghe di lobbisti e interessi vari sull'operato delle commissioni e degli altri organi. Nel ragionamento dei giudici tedeschi prende corpo il discorso politologico sull'assetto istituzionale democratico. Il Parlamento europeo, in particolare - a fronte del rafforzamento che sarà introdotto dal Trattato di Lisbona - non appare agli occhi del BverfG sufficientemente attrezzato ad assumere decisioni uniformi sul piano politico, con una maggioranza che sia rappresentativa, misurata secondo i parametri in uso negli ordinamenti democratici nazionali., A partire dal metodo di formazione del Parlamento europeo, eletto sulla base di soli "principi comuni", non con procedure uniformi. Ogni Stato adotta un proprio sistema (diritto di voto ed elettorato passivo, circoscrizioni, liste, computo dei voti e formule di ripartizione dei seggi), senza quindi la necessaria realizzazione del principio di uguaglianza. La Corte tedesca è molto critica sul Parlamento europeo, con un'enfasi eccessiva se si considera che, sic stantibus rebus, anche il Senato statunitense non supererebbe l'esame del BverfG quanto a legittimità democratica. Quindi, un Parlamento ritenuto non competente ad assumere decisioni politiche vincolanti che realizzino un equilibrio sopranazionale degli interessi dei singoli Stati. Senza grande considerazione dell'accrescimento, in prospettiva, dei poteri del Parlamento europeo che il Trattato di Lisbona introduce, insieme all'impegno ad individuare criteri di uniformità per la sua elezione, a garanzia di una migliore rappresentanza diretta dei cittadini europei. L'abbiamo già detto. La Corte non manca di rilevare che l'attuale natura del Parlamento europeo quale organo sopranazionale di rappresentanza dei cittadini degli Stati membri, insieme all'assenza di un governo parlamentare e nell'impossibilità dei partiti di organizzarsi in un assetto di governo tradizionale con una propria opposizione, dà consistenza al deficit democratico strutturale dell'Unione Europea. In un tale assetto, l'elettorato europeo, cioè, non può esprimere un voto in grado di sortire un qualche specifico effetto politico, anche solo di orientamento delle decisioni. Figurarsi allora se, a queste condizioni, i Parlamenti nazionali possono, in tutta tranquillità, arretrare di buon grado sul terreno della sovranità e della rappresentanza dei propri cittadini.

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Non sono sufficienti le disposizioni pensate per recuperare questo deficit in qualche modo? Ad esempio, nel Trattato di Lisbona troviamo il principio della doppia maggioranza qualificata adottata dal Consiglio (art. 16.4), le disposizioni in materia di democrazia diretta, partecipazione ed associazione (art. 11), il riconoscimento istituzionale dei Parlamenti nazionali (art. 12). Secondo i giudici costituzionali tedeschi, no. Queste disposizioni non bastano. Tutt'al più, serviranno a migliorare il livello di legittimazione complessiva dello Staatenverbund europeo. A questo punto, una conclusione è chiara: il BverfG sembra pensare che il fulcro della questione democratica dell'Unione Europea vada individuato nel ruolo e nei poteri del Parlamento europeo. Se lo stato attuale del Parlamento europeo costituisce il cuore del suo discorso critico, ovviamente ciò non implica una sorta di "fin de non recevoir". Al contrario, la critica dei giudici apre la strada a miglioramenti sostanziali della democrazia europea. Il Parlamento europeo essendo la sola istituzione direttamente eletta dai cittadini, e quindi in grado di ricreare la rappresentanza democratica degli Stati nazionali, offre ampi margini di miglioramento. Attraverso gli opportuni interventi sul disegno istituzionale - anche quelli previsti dal Trattato di Lisbona - il ruolo del Parlamento europeo potrebbe diventare l'equivalente - o quasi - di quello dei Parlamenti nazionali, configurando un pieno ed effettivo potere politico nell'ambito dell'Unione Europea. E questo lo scenario tratteggiato in un recente rapporto dell'IM (Democracy in the Eu and the Role of the European Parliament, Istituto Affari Internazionali, Quaderno n. 14, March 2009). Solo allora, gli Stati nazionali potrebbero riconsiderare ruoli e prerogative dei propri Parlamenti all'interno di un assetto europeo di tipo federale, "based on the principles of subsidiarity, popular sovereignty and a balance ofpowers". E proprio qui che sta la valenza sopranazionale dell'Unione Europea come evoluzione verso un ordinamento federale, un'Unione di Stati e di cittadini. Ad oggi, e la Corte di Karlsruhe tiene a sottolinearlo, non è così, né il Trattato di Lisbona trasforma l'Unione Europea in uno Stato federale. Pur presentandone, a tratti, i caratteri. A quel punto, si potrà ancora parlare di "associazione di Stati" o dovrà essere rivisto il concetto di Staatenverbuncf? Sarà certamente un problema della Corte tedesca, la prossima volta. Collateralmente alla sentenza della Corte di Karlsruhe e a seguito della medesima, sono ripresi i discorsi euroscettici di vario tipo e spirito. Il problema è che oggi in Europa si fanno le politiche (policies). Alcune politiche. La politica no. E un'altra cosa, un'altra fatica. E evidente che l'Europa, in questo senso, non vive di vita propria. Tuttavia, non è corretto rubricare l'Unione Europea alla voce "relazioni internazionali" e chiudere il capitolo. Perché, altrimenti, qualcuno (leggi: Galli Della Loggia, Il Mulino, n. 1/2009) potrebbe affermare che per giungere a linee d'azione comune in alcune materie "basterebbe una serie di accordi, di vaste piattaforme di accordi". Non è così. Forse gli strumenti si assomigliano, ma né i processi né gli obiettivi sono gli VT


stessi. Gli uni si fondano sulla ricerca del minimo comune denominatore per raggiungere un punto di equilibrio in un contesto inizialmente non cooperativo. Si tratta, cioè, di interazioni necessarie, per lo più (im)poste da situazioni di involontaria e parziale intersecazione di interessi, risorse, poteri e sfere di azione. Nel caso dell'Unione Europea, invece, abbiamo detto su queste pagine che si tratta di un tavolo permanente e vincolante, due caratteristiche da non sottovalutare e alle quali va aggiunto il carattere di generalità delle politiche e dei temi discussi. Un tavolo che, per di più, è andato a costituire un vero e proprio livello di governo rispetto al quale sono stati armonizzati e modificati anche gli assetti interni originari degli Stati membri. L'Unione Europea - questo è il punto - crea interdipendenze vigorose e agisce sulla realtà degli Stati, non soltanto sulle strategie da questi usate per governarla. Chi conosce la storia delle intese più o meno flessibili, dei negoziati e degli accordi internazionali su specifiche politiche ed aree, e quindi il loro fallimento o gli esiti assai modesti nel migliore dei casi, vede bene che il percorso dell'Unione Europea si tiene, nonostante tutto, proprio perché ha strumenti aggiuntivi (nell'ambito della cd. comunitarizzazione, insieme agli accordi intergovernativi) ed un orizzonte ben più ambizioso, nella durata, nei vincoli e nelle finalità. Si parla, non a caso, di rapporto di integrazione. Siamo ben oltre il semplice coordinamento, secondo la formula giurisprudenziale degli "ordinamenti coordinati e comunicanti". Quindi, comunità di soggetti, di poteri e di garanzie. Anche la storia e la teoria delle relazioni internazionali si sono evolute, lasciandosi alle spalle il principio della necessità in favore di quello, ben più fertile e vigoroso, dell'opportunità. Ed anche di un certo idealismo, forse addirittura altruismo. Vogliamo dirlo? Magari non è l'idealismo a pesare nelle decisioni finali, sono altri i fattori e le variabili che contano, ma intanto c'è, c'era alle origini del progetto ed è riuscito a passare tra le strette maglie delle beghe nazionali fino ai cittadini, anche i più diffidenti. Ecco perché conta molto il processo ed è qui che vanno risolti i casi di equilibrio subottimale, prima ancora che negli esiti. L'abbiamo già detto: dall'Unione Europea non si torna indietro. Non è una mera, per quanto complessa, piattaforma di accordi. Altrimenti costerebbe poco tirarsene ftiori. Piuttosto, gli Stati nazionali cercano di pesare nel processo inarrestabile. E questo che ha fatto la Corte tedesca con tutta evidenza. Naturalmente, non sono mancati commenti e letture apocalittiche della sentenza da parte degli europeisti di residua e vaga fede federalista. Molto abili nel cercare tra le righe un sostegno a considerazioni corrive all'euroscetticismo di ritorno, assai poco meditate. Ogni qual volta si discute di Europa, indifferentemente dai piani e dai temi del dibattito, in molti accorrono per voltare il tutto nella solita tediosa polemica, animata soltanto da insistiti dubbi esistenziali che mettono in discussione l'idea stessa dell'Unione Europea. Invece, superata ogni crisi adolescenziale, è importante arrivare a discutere concretamente di "democrazia in Europa". Le annotazioni del BverfG vanno in questa direzione. Le questioni sollevate, pur ampiamente formali, riguardano forma ed organizzazione della rappresentanza democratica; sono questioni che diVII


scendono dall'attuale assetto dell'Unione Europea sul quale la Corte ritorna più e più volte. Rimanendo tuttavia sotto la voce "diritto e relazioni internazionali". Il BverfG non sostiene che l'Unione Europea è l'equivalente di una piattaforma di accordi internazionali. Ritiene che essa costituisca una categoria a se stante, come illustrato dalla teoria della sopranazionalità, laddove un ordinamento giuridico indipendente va ad integrarsi con quelli nazionali e su questi le sue istituzioni esercitano una singolare influenza. Delle unioni internazionali l'Unione usa alcuni strumenti, relativamente ad alcune politiche. Ma ben altro delle unioni sono le sue istituzioni, cui sono attribuite grande autonomia ed ampia decisionalità, potendo emanare provvedimenti vincolanti di carattere generale ed individuale, con efficacia diretta, e con poteri di iniziativa e proposta, controllo e sanzione. Le parole della Corte tedesca si collocano su un piano avanzato: quello cioè del migliore funzionamento di istituzioni e processi democratici, dandone per scontate la ragion d'essere, le finalità, il futuro. E proprio sul piano del buon funzionamento democratico che si incontra il principale ostacolo ad una delega ampia di poteri e responsabilità. L'Unione europea si evolve, crescono i poteri e le prerogative delle sue istituzioni, ed anche i meccanismi e le garanzie democratiche devono tenere il passo. Non essendo questo il caso, secondo i giudici, viene a crearsi un vuoto tra delega/rappresentanza (voto, nomina, elezione) - che origina fondamentalmente a livello nazionale - ed effettività delle decisioni e delle scelte fatte dalle istituzioni dell'Unione. Sembra, allora, che il fulcro della sentenza sia da spostare alla fase ascendente del processo di partecipazione all'Unione, il diritto interno, come è stato osservato da molti commentatori esperti (cf. Astrid, Seminario in memoria di Leopoldo Elia su "La sentenza del Buridesverfassungsgericht del 30 giugno 2009 sulla costituzionalità del Trattato di Lisbona e dei suoi effetti sulla costruzione dell'Unione Europea", Roma, 21 settembre 2009): come dare vigore e maggiore incisività al Parlamento tedesco in procedure definite. Procedure che non sono messe in discussione più di tanto (non più che in passato, e senza che ciò abbia creato grandi problemi e imbarazzi al governo ed al Parlamento tedeschi di fronte all'Unione Europea ed ai Trattati via via da ratificare. Cf. sent. Maastricht-Urteil, 12 ottobre 1993). Procedure che non sono affatto bloccate (persino la procedura semplificata e la cosiddetta "passerella", sui quali si appunta l'enfasi della Corte) a patto che siano assistite da ulteriori strumenti, anche di controllo, che ne certifichino la legittimità sotto il profilo e la qualità democratiche. Minimizzando, si potrebbe sostenere che all'Unione Europea la Corte non chiede nulla (il dispositivo della sentenza fa salvo il Trattato di Lisbona e riafferma il valore costituzionale permanente dell'integrazione europea, Europarechtsfreundlichkeit); ne ribadisce la natura attuale e, alla luce di questa, cerca di attrezzare meglio la Germania a starvi dentro secondo le regole esistenti. Vanno piuttosto salvaguardati i principi costituzionali interni, quale immutato ed irrinunciabile punto di riferimento per la.democraticità e la legittimità delle scelte di fronte ai cittadini. Certo, qualche avvertimento la Corte all'Europa lo dà, anche sulla base dell'analisi politica maturata in ambienti tedeschi circa gli sviluppi futuri dell'integrazione euroVT"


pea. Ojanto detta analisi sia frutto dei tempi e dei luoghi - la crisi, l'allargamento, e le questioni delicatissime della stabilizzazione e della convivenza - può essere oggetto di discussione. I sospetti sono inevitabili. Ad ogni modo, una lettura politica della sentenza che miri a fare della Germania il nuovo Babau dell'Europa non è giustificabile. I cittadini chiamati ad esprimersi tramite referendum sono ben più temibili. Del resto, non è la Corte di Karlsruhe - e quello che Riccardo Perissich ha definito "fondamentalismo democratico" o "gaullismo tedesco" - a dirci che i Parlamenti nazionali contano nel processo europeo. Di fatto, essi contano, eccome. E se sui governi qualche preoccupazione e diffidenza esiste, tutt'altro atteggiamento deve prevalere di fronte ai Parlamenti nazionali, la cui difesa - fintanto che altre, moderne, buone forme di partecipazione popolare resteranno utopia - è saggia e quanto mai necessaria in tempi di crisi e cambiamenti. Mentre, sembrano passare in cavalleria prassi sbrigative e accentratrici che marginalizzano le assemblee legislative in nome di governi votati all'efficientismo, vero o supposto tale. Ouesta sentenza dà corpo e visibilità ad un meccanismo da sempre operante, largamente in crisi a livello nazionale, ma attraverso il quale gli Stati cercano di gestire la propria presenza e partecipazione nell'Unione Europea, caso per caso. Se questo meccanismo, messo in atto più o meno sottobanco con accordi opachi tra governanti all'interno delle istituzioni europee, è stato considerato espressione di adeguata democrazia, non si capisce perché non se ne dovrebbe poter discutere. Come scrive Giuliano Amato ("Giuliano Amato e Ernesto Galli Della Loggia discutono di Europa", il Mulino, n.1/2009, p. 109), "il tempo eroico dell'Europa è di sicuro finito". Sarà una buona notizia se si riuscirà a fare a meno degli eroi e ad aprire il capitolo dei cittadini, della democrazia. In prospettiva, occorrerà lavorare in positivo sugli spunti dati da questa sentenza, a partire dalla qualificazione del principio democratico come "an individually assertable right". Volendo procedere con una interpretazione più politica della sentenza, occorre ricordare che essa risponde al ricorso presentato da 53 membri del Bundestag appartenenti alla Die Linke di Oskar Lafontaine, il deputato Peter Gauweiler della Csu bavarese e il suo Segretario generale Alexander Dobrindt (senza l'appoggio di molti dei colleghi di partito), e l'ex deputato europeo Karl-Ludwig von Staufferiberg. Alcuni commentatori tedeschi hanno ravvisato nella mossa di quanti hanno presentato ricorso una chiara mira (esclusivamente?) elettoralistica, che cioè racchiude il tentativo di cavalcare l'euroscetticismo dei bavaresi in tempo di crisi prima del voto federale del 27 settembre scorso. Con qualche distinguo. A sinistra, la Die Linke dell'ex ministro delle Finanze Oskar Lafontaine e l'ex militante del Partito dell'Unità Socialista Lothar Bisky si sono opposti al Trattato di Lisbona con motivazioni ideologiche più nette ed individuabili in termini di contrapposizioni sul piano della teoria politica tradizionale, definendo il Trattato un testo "neo-liberale e militarista". Sulla prima connotazione è possibile, visti i risultati delle recenti elezioni federali del 27 settembre, tentare qualche lettura interpretativa. Il duro colpo assestato alla socialdeIx


mocrazia tedesca, infatti, a molti è sembrato qualcosa di più di un segnale da ascrivere e ricondurre tout court al trend europeo del declino della sinistra, che certo presenta fenomeni e comportamenti elettorali atratti simili, in Paesi assai diversi. La verità è che i socialdemocratici tedeschi in parte "se la sono cercata", hanno cioè pagato il prezzo dell'avere governato. Come anche i colleghi esteri, ma qui la dinamica è forse più chiaramente tratteggiata. La responsabilità della Spd ha un nome: Schròder ed il corso neo-liberale da lui avviato con l'Agenda 2010; in particolare, ha nociuto una riforma dello Stato sociale invisa al suo stesso elettorato. All'interno del partito c'è stata una consistente flioruscita. Alle urne, sono stati circa due milioni gli elettori persi dalla Spd. Chi nell'elettorato attivo si colloca a sinistra ha premiato le proposte dei partiti a più forte connotazione socialista. Chi invece simpatizza con il mercatismo liberale ha votato l'originale, a destra. All'indomani della sconfitta, va considerato quale potrà essere il ruolo di un'opposizione che in sostanza dispone di rafforzati poteri parlamentari, un'opposizione che suo malgrado ma per volontà popolare - è oggi ben più folta e massiccia e che, all'interno della Germania federale dei prossimi cinque anni, potrà rappresentare un elemento di cui la maggioranza dovrà tenere conto. Anche perché, diversamente dalle posizioni assunte dalla Spd all'interno della grande coalizione - posizioni moderate, talvolta indistinguibili all'interno del governo - è probabile che la socialdemocrazia oggi debba riposizionarsi per tentare un ricompattamento delle forze in vista di un necessario recupero di credibilità (e consensi) all'interno dell'elettorato di sinistra. Anche in materia di Unione Europea. Ma, soprattutto, a partire dalle risposte e le strategie per combattere la crisi, che rischiano sempre, secondo i casi, di tirarsi dietro pezzi e temi dell'Europa o, viceversa (e soprattutto nella retorica nazionale), di essere trascinate da questa. Quanto al governo in carica, per il destino dell'Europa - con buona pace di questa sentenza, pur destinata a segnare il passo - si può essere certi che sono sempre valide le parole pronunciate, con qualche retorica, dalla cancelliera Angela Merkel di fronte al Parlamento europeo, in occasione dell'inaugurazione del semestre tedesco alla guida del Consiglio (17 gennaio 2007): "Anche vista dal suo interno l'Unione Europea è una casa fantastica. Anzi, trovo che sia persino più bella dall'interno che dall'esterno. Questa, almeno, è la mia esperienza degli ultimi diciassette anni... Non vorrò mai lasciare questa casa. Sono convinta che non ci sia un posto migliore dell'Europa, la nostra casa condivisa, in cui vivere! Oggi siamo nel mezzo del processo di allestimento dell'Unione Europea. La stiamo allargando. Stiamo rinnovando alcune parti. Talvolta penso che siamo così occupati ad ampliare e rinnovare l'edificio da non lasciare ai quasi cinquecento milioni di europei il modo e il tempo di sentirsi a casa, rischiando di perdere di vista, in tutto questo trambusto, la grandezza e l'unicità dell'Europa. Siamo a malapena capaci di vedere ciò che c'è di speciale in questa costruzione e qual è il suo cuore pulsante. Molti cittadini europei si chiedono che cosa debba essere l'Europa di oggi, perché ne abbiamo bisogno, che cosa la tiene insieme nel profondo, che cosa definisce l'Unione Europea. C chi crede che il tentativo di definire l'essenza -

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dell'Europa non abbia ragione di esistere. Ad essere sinceri, non sono d'accordo. Lasciate che vi ricordi il famoso appello di Jacques Delors: 'dare un'anima all'Europa'. Fatemi aggiungere il mio personale pensiero a riguardo: ciò che dobbiamo fare è trovare l'anima dell'Europa. Non abbiamo bisogno di dargliene una, perché ce l'ha già". Una casa che, tuttavia, ha bisogno di nuove regole, regole certe: "Sappiamo che con le regole attuali l'Unione europea non può andare oltre nel processo di allargamento, né è in grado di prendere tutte le decisioni che si rendono necessarie. Dobbiamo quindi superare questa situazione. Ecco perché abbiamo bisogno di dare una definizione chiara alle rispettive aree di competenza dell'Unione e degli Stati nazionali. Le regole procedurali dovranno essere compitate con maggiore chiarezza rispetto a quanto fatto fin qui. In altre parole, i trattati sui quali si fonda l'Unione Europea dovranno essere adattati alle nuove circostanze se vogliamo che l'Unione allargata tenga nel mondo di domani". Non è difficile sentire l'eco di queste parole arrivare fino a Karlsruhe. C.L.

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dibattito

"Availti c'è posto". Sviluppo urbano e trasporti pubblici a Roma nell'ultimo secolo Sul volume di Tocci-Insolera-Morandi

Dibattito in redazione Il seminario - svolto il 20 marzo 2009- prendendo spunto da/libro di Walter Thcci, vuole essere unaformula di discussione del tipo "dibattito in redazione" di queste istituzioni, da qualche anno rivista del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, ed allo stesso tempo una sessione dei lavori della Commissione Css sul "Governo delle città", coordinata da Giuseppe Dematteis, per dare un apporto laterale significativo alla rfiessione. Hanno partecipato: Lorenzo Bellicini (CREsME), Mario Castagna (Partito democratico), Flavia Cristaldi (Università "La Sapienza" di Roma), Andrea Declich (CERFE), Giuseppe Dematteis (Politecnico di Torino), Stefano Giovenali (Atac), Visenta lannicelli (Comune di Roma), Luigi Mazza (Politecnico di Milano), Fiamma Mignella Calvosa (Università LuM5A di Roma), Pierfranco Pellizzetti (Università di Genova, «Critica liberale»), Sergio Ristuccia (Presidente Css), Lorenzo Romito (Stalker), Walter Thcci (PD). Sergio Ristuccia Il libro di Tocci rappresenta un esempio rarissimo di momento riflessivo della politica. Rarissimo perché chi fa politica non disposto a riflettere sulla propria esperienza. Anzi, per lo più, non ne è capace, anche per mancanza di forti motivazioni di etica della responsabilità. Rarissimo perché la politica sulla quale si riflette, quando si riflette, è quella declinata al singolare: la politica del consenso, delle ideologie, e soprattutto degli "schieramenti". Veramente difficile risulta una riflessione agguerrita sulla politica al plurale, su aree precise di intervento sull'organizzazione della società e delle vita pubblica e collettiva. Il contributo riflessivo di Tocci è fondato sui presupposti necessari di critica scientificamente munita ed autenticamente autocritica, rivolta cioè alle azioni concrete cui si è preso parte, e ben coniugati nella ricostruzione delle vicende urbane di Roma, per trarne un'interpretazione che va tout court al cuore della


vita politica. La politica urbana che riguarda Roma appare in questa riflessione un elemento costitutivo della storia politica nazionale e di questa, comunque, offre una chiave interpretativa importante. A p. 67 del libro, ci sono Otto righe, una sintesi efficacissima, su come si è disegnato l'arco della storia urbanistica di Roma. Scrive Tocci: "Dopo la mancata modernità di corso Vittorio, l'aulico e il popolare iniziano una discesa inesorabile, fino ai giorni nostri, passando per l'isolamento monumentale e la modestia impiegatizia dei piemontesi, la raffinatezza del villino liberty e la medietà della palazzina borghese, la retorica fascista e l'emarginazione delle borgate, la speculazione alta dell'Hilton a Monte Mario e quella bassa, sotto il livello del fiume, della Magliana, fino alla dissonanza tra lo steccone di Corviale e la massa amorfa dell'abusivismo". Un quadro che evidenzia la mancanza di un'idea forte di Roma Capitale e la malagestione che caratterizza la politica urbana di Roma dal 1870 in poi, come capitolo forte e significativo, appunto, della storia del Paese. Le indicazioni di metodo che nascono dal libro sono a forte componente interdisciplinare e privilegiano strumenti di sociologia dinamica, come quelli tratti da George Simmel. Quindi, mirano ad interpretare l'evoluzione. A fronte di un più generalizzato uso di schemi di sociografia applicata al territorio. I limiti di questo approccio sono evidenti nella stessa esperienza olivettiana della Val d'Aosta ai tempi degli esordi dell'urbanistica come nesso interdisciplinare di discipline sociali. Altra indicazione forte di Tocci è l'uso dell'idea di accessibiità, più che quello di mobilità, come strumento di base della progettazione del territorio e dell'evoluzione della città. Anche in questo caso, un'indicazione di sicura valenza interdisciplinare. Queste mie considerazioni preliminari bastano a spiegare le ragioni dell'incontro di oggi, qui al Css. Luigi Mazza Chi apre questo libro immagina di trovare due saggi, uno politico (Tocci) ed uno tecnico (Insolera), concorrenti nel tema, ma autonomi; le due parti del libro sono invece intrecciate, come del resto avviene nella realtà dei processi di governo che si avvalgono di contributi tecnici. L'intreccio è tale da sollecitare almeno cinque diversi piani di lettura: uno teorico, uno storico, uno politico, uno tecnico, ed uno amministrativo. Il piano storico è molto importante, indispensabile perché il governo della città si misura soltanto nel lungo periodo; e perché, per intervenire su una realtà come Roma, Milano o ogni altra, ignorare i processi che hanno portato a determinate condizioni, conduce fatalmente ad errori clamorosi. Il risultato è una vera messe di temi e di problemi che escludo di poter richiamare se non in modo molto parziale. Si potrebbe sostenere l'esistenza di un altro piano di lettura che, scherzosamente, definirei sentimentale, in quanto riguarda l'amore degli autori per il tram. Una storia d'amore dichiarato senza pudori, anche con qualche imbarazzo per il lettore che si trova a questo incrocio di amorosi sensi rivolti ad un oggetto che è il tram. Per un mi2


lanese abituato ad una famosa canzone di Jannacci in cui un vecchio zio rincorreva un filobus ("La forza dell'amore"), questa cosa non è così scandalosa. Ci sono, comunque delle differenze, Tocci non ha ottant'anni, e rincorre un tram. Nelle conclusioni, Tocci confessa che la questione del tram è stata un pretesto per avere un filo che lo guidasse nel racconto dell'intricata vicenda romana, ma aggiunge subito un ultimo, conclusivo elogio dell'amato: "è l'unico mezzo di trasporto che accetta la vita quotidiana della città e allo stesso tempo mostra l'intenzione di cambiarla. Solo il tram pensa al futuro narrando il quotidiano, trasforma la struttura a partire dal paesaggio urbano, cura l'accessibiità avvicinando l'eterno ritorno del pedone". Siamo ormai fuori dallo scherzo. In queste righe ritroviamo la metafora che descrive un'intera proposta teorica e tecnica. Dunque il tram non tanto come pretesto per il racconto, ma come una metafora della vita urbana e dei modi di trasformarla attraverso la pianificazione e la progettazione urbana. Teorie. La proposta teorica sviluppa in realtà due teorie: una teoria dell'accessibilità, che in qualche misura è una teoria della pianificazione urbana, e una teoria della città o almeno un'idea di città, intesa soprattutto come teoria della vita quotidiana. Anche se non esplicita, la teoria della città è una teoria forte che Tocci salda alla sua teoria dell'accessibilità. Ma credo che si potrebbe condividere la sua teoria dell'accessibilità senza condividere per questo la sua teoria della città e viceversa. La teoria di Tocci non è facile da descrivere per molti motivi, non ultimo l'intreccio tra idea di città e idea di accessibiità. Inoltre, sulla scorta di Simmel, Tocci mette a punto una serie di concetti non semplici e di diversa natura: sociologica, antropologica e psicologica, a cui ricorre per ordinare nello spazio urbano quelle relazioni sociali e quel fare della vita quotidiana che, a mio parere, sono il vero centro del suo interesse. Credo che la teoria della città di Tocci possa essere collocata all'interno di una tradizione consolidata che celebra la vita urbana e si oppone all'antiurbanesimo esploso nella seconda metà dell'Ottocento. Lo sprawl urbano europeo può essere considerato il figlio bastardo del rifiuto colto della filosofia morale e sociale utilitarista - l'asse Carlyle, Ruskin, Morris, Unwin - e della reazione diffusa ai mali della città. Due componenti destinate ad essere immediatamente sfruttate in modo profittevole dal mercato immobiliare. Per inciso si può osservare che l'Italia non viene coinvolta da questa esperienza sino al secondo dopoguerra, quando più del modello dello sprawl fu il modello del quartiere auto-sufficiente a rompere la continuità urbana e ad iniziare un processo di frammentazione del territorio che avrebbe reso molto difficile, se non impossibile, l'organizzazione di un appropriato ed efficace trasporto pubblico. Roma, se non ho male inteso, sembra anticipare - ad esempio, rispetto a Milano - questi fenomeni e soprattutto aggiungere subito la frammentazione del suo territorio con un'edilizia a bassa densità. La prima reazione alla frenesia antiurbana è probabilmente quella di Thomas Sharp. Negli anni trenta Sharp osserva che la crisi della città non può essere spiegata solo con le ragioni, sempre citate, del vorticoso processo di urbanizzazione e moto3


rizzazione ma anche con l'incapacità della cultura tecnica di produrre un'immagine accattivante della città contemporanea. Un'immagine capace di offrire agli abitanti qualcosa di più desiderabile di una casetta a schiera. Tocci aggiungerebbe una città col tram. E cioè mancato un modello alternativo. Lasciando spazio a questa modalità distruttiva. Non va cioè sottovalutata l'influenza negativa di modelli tecnici esercitati dalla cultura tecnica a livello europeo prima della seconda guerra mondiale, e con la seconda guerra mondiale in Italia. Qui non abbiamo vissuto il problema dello sprawl come è accaduto in Nord Europa. Ma ha avuto la sua parte la filosofia politica inglese ottocentesca che considerava il quartiere il perno della democrazia, secondo l'idea che una società democratica si costruisca sul quartiere e sull'autosufficienza del quartiere. Nel 1945, questa idea viene recuperata in Italia, con effetti disastrosi. Si pensi all'urbanistica milanese che non è responsabilità del fascismo, bensì della sinistra progressista, quelli tornati da Mauthausen, in nome della separazione netta tra città vecchia e città nuova. Attraverso il quartiere autosufficiente, si cerca quindi il distacco totale, la città nuova che non si confonda con la città vecchia. Viene a mancare quel tema lefebvriano della continuità, tema fondamentale secondo cui non c'è città senza continuità e fluidità, e così inizia la frammentazione, lo spappolamento che non è lo sprawl, perché la densità è relativamente alta in alcuni quartieri popolari. Pur con modalità fisiche e sociali differenti, la conclusione rimane la stessa, tuttavia. Lefebvre e Simmel. L'argomento, largamente condivisibile di Sharp, manca di un quadro di riferimento più ampio che sarà possibile ritrovare quasi trent'anni dopo nella critica di Lefebvre al modernismo e nella sua proposizione di una città caratterizzata da centralità, densità, fluidità/continuità. Se non sbaglio, Tocci non cita mai Lefebvre. Come ho detto il suo principale riferimento è Simmel, e i concetti chiave di "centro di rotazione" (che si determina quando la "fissità spaziale di un oggetto d'interesse produce forme di relazione raccolte intorno ad esso") e di "aspirazione all'illimitato" (seconda potenza equivalente rispetto al primo). Nella coppia centro di rotazione/aspirazione all'illimitato, Tocci rintraccia "la dimensione creativa del conflitto" tra accessibilità e mobilità, per cui l'obiettivo è di rinforzare il più possibile i centri di rotazione nel tessuto urbano. Con la motorizzazione di massa l'aspirazione all'illimitato diventa la forza dominante, non più riequilibrata in modo adeguato dai centri di relazione, la forza che tra l'altro produce i non-luoghi, (un'espressione quest'ultima con cui confesso di non trovarmi a mio agio). Sarebbero i centri di rotazione a rivelare la natura dell'accessibilità, in quanto entrambi sono regola spazio temporale che rende compatibili le alterità. Come dicevo all'inizio, non ho la pretesa di riassumere la riflessione teorica di Tocci, ma di dare solo qualche cenno dei nodi e delle direzioni verso cui si orienta. Trovo comunque significativa la convergenza tra la riflessione di Tocci su Simmel e i principi lefebvriani, che costituisce fra l'altro una sollecitazione ad esplorare le relazioni, anche indirette, tra i due autori. Con riferimento ai concetti simmeliani e ai principi lefebvriani, giunge il tram, ridefinito come: 4


"un integratore della città prima che una modalità di trasporto". Il tram "restituisce al passeggero e al pedone lo spazio pubblico, connette il centro con la periferia, riconcilia l'accessibiità con la continuità urbana". Il tram, dunque, non è un pretesto ma lo strumento per realizzare l'idea di città che sta a cuore agli autori. Qui ci sono componenti metaforiche, simboliche, funzionali: come usare il tram per trasformare la città (che sia vero o meno, è irrilevante se c'è una decisione così forte secondo cui quello è lo strumento giusto per farlo). Non ci accorgiamo che buona parte dei comportamenti funzionali che abbiamo nello spazio sono comportamenti simbolici, frutto di una convenzione: urbano è ciò che si decide - attraverso un progetto politico che si configura nello spazio - che è urbano, sulla base di una certa definizione e motivazione di urbanità. Così per il tram e l'idea di pianale piatto, idea funzionale e simbolica insieme. E l'idea riflessiva della pedonalità e della città, l'idea della slow city, che non è una questione di lentezza, ma di riflessività. Accessibilità e mobilità. Condivido dunque l'idea riflessiva e "pedonale" di città che il libro propone e l'impressione che ne ricavo è solo positiva. Dove mi è più difficile seguire Tocci è nella contrapposizione tra mobilità e accessibilità e, in qualche misura, nella contrapposizione tra modelli idraulici e discreti di mobilità. A tratti percepisco la contrapposizione come una retorica per rafforzare la proposta, come quando scrive che "ormai mobilità è divenuto il contrario di accessibilità"; un'affermazione possibile solo se si fa coincidere le politiche della mobilità con quelle che sono spesso le politiche della aziende di trasporto. E evidente che non ci può essere accessibilità senza mobilità. Il problema è che si tratta di due termini poliformi. Non a caso parliamo di mobilità e di accessibiità non solo in termini spaziali, ma anche in termini sociali. L'accessibiità è sicuramente un carattere dei luoghi, ma proprio per questo riguarda ogni tipo di servizio e conversazione sociale, e quindi anche il dibattito politico, che può essere un senso diretto e traslato, più o meno accessibile. Sull'importanza del concetto di accessibilità non ci sono dubbi poiché si tratta di un carattere e strumento della cittadinanza, come Tocci sottolinea con riferimento ai tempi di pendolarità. Proprio per queste ragioni non vorrei che, istituendo una contrapposizione a procedere da una questione, forse solo terminologica - so che per Tocci le cose non stanno così - si possa finire con l'appannare o indebolire assunti di fondo di maggior rilievo. Un progetto di città. L'idea lefebvriana di centralità permette di affrontare il tema della periferia al riparo da retoriche illusorie sul policentrismo, illusorie perché, a parte l'Eur, non esiste uno stock di risorse capaci di alimentano, e illusorie perché il riscatto della periferia può essere concepito rafforzando funzionalmente e simbolicamente il suo rapporto con il centro. Il principio centro/periferia produce la scelta di rafforzamento della radialità. Non è un'affermazione ovvia in quanto implica che un modello di trasporti risponda sempre ad un'idea di città, e non a modelli astratti di funzionamento, che possono se mai aiutarci a capire come migliorare l'efficienza del sistema.


Non esiste modello di funzionamento che abbia in se stesso le ragioni che lo giustificano, quindi che si autogiustifichi. Non si giustifica mai una scelta di trasformazione urbana in termini funzionali assoluti. E l'idea di città che conta: gli assetti spaziali funzionali che si vanno a costruire si giustificano in quanto rispondenti ad un'idea di città, non funzionali ai programmi di investimento di tipo aziendale (l'azienda che li realizza). Così il tram per Tocci è lì a realizzare un'idea di città che l'autore ha in mente, un progetto umano prima che urbano. A chi paventa che, all'invasione dei turisti, con le radiali si aggiunga l'invasione delle popolazioni periferiche, si può obiettare che la propensione all'invasione è direttamente proporzionale al senso di esclusione. A proposito del progetto, Tocci usa un'espressione suggestiva "Rifare l'Ottocento", alludendo in particolare alla forza degli interventi sui lungotevere, ma credo che l'espressione possa essere assunta in una prospettiva più ampia ad indicare tanto l'opportunità, in assenza di proposte più convincenti, di assumere moduli se non modelli ottocenteschi, quanto la necessità di legare in modo significativo i nuovi interventi all'impronta ottocentesca lasciata sulla città. Non ho la competenza per entrare nel merito tecnico del progetto di Insolera e Morandi, ma è quasi superfluo aggiungere il mio apprezzamento e soprattutto che mi piacerebbe vedere il progetto realizzato. Il problema è se Roma sia pronta, non tanto ad accettare i tram, quanto ad accettare le limitazioni al traffico individuale che il progetto comporta. Si potrebbe aggiungere un caveat: pensare ad un tram che non cerchi di essere disegnato dal vento come un aeroplano o un treno ad alta velocità, e piuttosto evochi gli ascensori ad acqua, silenziosi e un po'lenti che, all'inizio del secolo scorso, venivano inseriti nei vecchi palazzi di lusso. Anche il tram-treno credo possa evitare di essere necessariamente arrotondato e sinuoso e mi chiedo quanto questi aspetti di disegno abbiano giocato, ad esempio, nella polemica contro il tram a Firenze. Traffico epianficazione urbana. Il tema del rapporti tra pianificazione dei trasporti e usi del suolo è un tema antico. Ad esempio, la cooperazione tra progettazione infrastrutturale e sviluppo edilizio è stata nell'Ottocento alla base di molti interventi dell'espansione londinese. Negli anni cinquanta e sessanta ha prodotto risultati di un certo interesse per la pianificazione metropolitana americana. Ma si tratta per molti motivi di una cooperazione difficile se non impossibile. Il problema è trovare un punto di equilibrio tra due processi di governo destinati a rimanere autonomi e in talune condizioni incompatibili. Che cosa fare? Due i provvedimenti principali: 1) un unico controllo politico per entrambi i settori amministrativi; 2) indicare per legge che a certi snodi dei processi amministrativi (ad esempio all'approvazione di piani e progetti) avvenga uno specifico riconoscimento reciproco in cui le rispettive decisioni e soprattutto i nodi di conflitto vengano argomentati sino a trovare una soluzione condivisa. La proposta è innanzitutto rivolta a fare trasparenza. Per produrre esiti è necessario un cambiamento significativo della pianificazione urbana, nel senso di ridurre le ambizioni di politiche generali di coordinamento complessivo e puntare su politiche specifiche più adatte a

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confrontarsi con le politiche settoriali dei trasporti. L'ipotesi è dunque di un sistema di governo in cui agiscono due flussi di azioni autonome che si confrontano processualmente. L'indicazione importante nella lezione di Tocci è in fondo l'idea di pianificare la città con le linee di trasporto. In tessuti molto consolidati come i nostri, il ridisegno delle linee di trasporto è l'ultimo ma importante grado di libertà rimasto per interventi di ristrutturazione importanti. Pianficazione e abusivismo. Tocci assume una posizione netta: "C'è sempre stato un rapporto simbiotico tra pianificazione e abusivismo ... la pianificazione è stata sempre una forza sterile, non è mai riuscita a dare dinamicità allo sviluppo e ha quindi trovato nell'abusivismo l'energia irregolare capace di travolgere tutte le tappe, superare le resistenze territoriali e normative, invadere nuovi spazi liberi, anche al di là dei confini da essa stessa stabiliti. L'abusivismo è l'antipiano, ma anche il motore di trascinarnento del piano". E storicamente vero anche se con motivazioni e modalità diverse a seconda dei contesti. Servirebbe una discussione ad hoc. In molti casi, la pianificazione ha indirettamente promosso l'abusivismo, ed è vero che si è determinata una sorta di rincorsa tra i due processi. Ma dipende molto dagli obiettivilattese della pianificazione: minori ambizioni e maggiore flessibilità marginale, potrebbero modificare il rapporto in senso positivo per il governo. Soprattutto, bisogna ricordare che si vive e si cresce anche senza piano. Milano, ad esempio, è una prova. Pianificare non è indispensabile, è una scelta, un progetto politico, una chance. Inutile senza un'idea politica alle spalle. Pianificare non è un automatismo, un'idea astratta di applicazione di standard. Diventa piuttosto una risposta tecnica per realizzare un'idea di città, diventa il tram. Trasformazione urbana e cultura sociale. Con riferimento alla Roma piemontese, Tocci scrive: "Mancò qualcosa di più profondo, fece difetto l'energia morale e culturale che sempre accompagna le grandi invenzioni urbane e agisce contestualmente sui diversi campi della sensibilità spirituale di un popolo". Credo, infine, sia questo il problema da sempre alla base di ogni fallimento di qualunque piano: ieri come oggi. Pierfranco Peffizzetti Questo è un libro appassionato, interessante e di una persona per bene. Potremmo dire un madrigale, una dichiarazione d'amore. Sicché il tram non è altro che la donna dello schermo, come nello stil novo. In realtà - facendo il processo alle intenzioni il vero amore dell'autore è un'idea di città più umana. Dunque il problema di ricostituire le legature sociali smarrite dalla città. Si è parlato della perfida Albione. Bertrand Russell scriveva che il tipo del gentleman era quel marchingegno concettuale delle aristocrazie per irretire le borghesie emergenti che avviò la deindustrializzazione in

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Inghilterra. Un precedente che dovrebbe indurci a inceritrare la discussione sullo spazio organizzato e costruito come luogo dei conffitti centrali. O meglio, lo diventa sempre più man mano che la fabbrica perde centralità. Se facciamo nostro questo tipo di approccio, allora Roma può diventare autobiografia della nazione. Insieme a Milano. Un'autobiografia in negativo, poiché entrambe le città non riescono a interiorizzare la dimensione del politico. A Milano vige un cortocircuito mentale: non si è mai capita la differenza tra politica ed amministrazione. Nient'altro che i residui della dominazione asburgica che lasciava gestire, mentre la politica veniva fatta a Vienna. A Roma, si tratta di assenza di civismo: una città di romanizzati e non di romani, dove un ethos civico non c'è o è difficile da far emergere. Ma questa città capitale di Italia, in un Paese dove il riferimento alla capitale non è mai positivo (per gli inglesi, Londra è il punto di riferimento; in Francia, è Parigi "Vie et Lumière"; in Spagna, se non si chiede ad un basco o catalano, è Madrid), risente del fatto di essere stata colonizzata dagli schemi organizzativi/amministrativi piemontesi. Walter Tocci Ci sono pagine durissime su questa chiave di lettura: Moravia parla di "tanto Stato senza statualità". Lui Roma l'amava. Pierftanco Pellizzetti Io penso invece che la migliore descrizione della capitale la fa Ennio Flaiano definendola "l'enorme garage del ceto medio d'Italia". Bisogna cioè dare conto, sempre nella logica dell'autobiografia della nazione, di due processi di colonizzazione: una prima colonizzazione che è ben descritta nel libro; ed una seconda che poteva essere trattata più approfonditamente, ovvero il processo di americanizzazione che inizia già negli anni cinquanta. Quando Alberto Sordi in "Un americano a Roma" (con il personaggio di Nando Meniconi) crea un tipo, il segno di un processo in avvio che poi è dilagato in tutto il Paese: lo spazio urbano ed extraurbano rimodellato dal consumo e. dai suoi ambiti dedicati. Non vogliamo chiamarli "non luoghi"? Preferiamo chiamarli alla George Ritzer "cattedrali del consumo"? Resta che il processo di americanizzazione da noi è avvenuto, è stato subito, in un contesto debole perché incapace di produrre anticorpi culturali. E quindi ci siamo adeguati all'idea del centro come distribuzione del consumo, quel concetto importato dall'America che andava trasformandosi in un grande impero-emporio, come dice la De Grazia. Senza capacità di creare edopporre controtensioni e processi difensivi. Le storie raccontate nel libro sono quelle di un bel progetto privo di volontà politica. Assenza che ritorna più volte nel libro. Qui sta il limite, evidenziato anche dall'idea salvifica del ricorso all'urbanistica. Penso invece che gli urbanisti debbano essere gli ultimi a essere chiamati in causa. E mai possibile pensare di affidare la progettazione delle città agli urbanisti? E l'ultima competenza che deve entrare in gioco. Prima ci vogliono ben altre competenze: di demori]


grafia, di sociologia, di economia. Ci vuole un'idea di città. Per cui pensare di costruire una città partendo dalla linea di trasporti è un gravissimo errore. Prima si parte dal tipo di città verso il quale si vuole tendere. Le vicende quasi eroiche dell'autore e dei suoi amici e collaboratori descritti nel libro fanno venire in mente il fallimento della destra storica. Fallimenti per mancanza di due operazioni fondamentali: quella strategica, ovvero l'idea di città, e quella del consenso, ovvero la ftinzione pedagogica (si sono perse le periferie, soprattutto quelle anulari, laddove negli anni sessanta, settanta ed ottanta si è rotto il meccanismo che regolava il rapporto tra vecchio popoio romano ed immigrati. Per cui Alemanno ora vi fa il pieno di voti). Modelli cui fare riferimento sull'asse che parte sì da Simmel ma arriva fino a Saskia Sassen - secondo cui le città sono diventate un centro-vetrina, con periferie sempre più degradate. Esempi cui attingere ce ne sono: i successi in materia di pianificazione strategica del territorio partiti negli anni ottanta con la città di Barcellona, proseguiti a Lione, Stoccarda, Lisbona, Londra, e in parte anche Torino, che infatti oggi pensa spazio; non Milano, secondo tradizione chiusa in una dimensione puramente amministrativo-municipalistica. E mancato un approccio di piano strategico attraverso cui la politica si riappropria della dimensione progettuale e - attraverso il pubblico dibattito che diventa pensiero condiviso sulla città - attiva consenso e fiducia. Q.uesta operazione nel libro di Tocci non si coglie. I riformisti sono rimasti disarmati come quella Destra storica che voleva costruire un'Italia migliore ma che è stata sommersa dalla plebaglia. Fiamma Mignella Calvosa C'è un legame forte ed immeditato fra le due parti del libro, quella politica di Tocci e quella tecnica di Insolera, entrambe in continuità con le precedenti ricerche sulla città di Roma moderna, partendo dall'Ottocento per giungere ad affrontare questioni contemporanee. Il percorso è sempre lo stesso: l'analisi del rapporto tra organizzazione sociale ed organizzazione dello spazio, laddove l'organizzazione dello spazio a Roma riflette i rapporti di potere ed i rapporti sociali e si fonda essenzialmente sulla rendita. Non è un caso che Roma ha 1300 chilometri quadrati di superficie e Milano ne ha 140. Perché i soggetti forti sono diversi all'interno di queste città: i rapporti di potere che si riflettono nell'amministrazione capitolina sono determinati da una forte presenza dei proprietari di aree e di immobili. Con una continuità dall'Ottocento ad oggi dei modi i cui gli immobiliaristi hanno deciso lo sviluppo della città ed evidentemente ciò si riflette sull'organizzazione dello spazio; il rapporto centro-periferia è determinato dai proprietari di aree, come anche altri fenomeni indotti: l'abusivismo spesso tutt'altro che spontaneo; l'espansione a macchia d'olio e quindi la dispersione, antichissime a Roma che fa riferimento alla necessità di costruire lontano per dotare tutti i terreni intermedi dei servizi e delle opere di urbanizzazione e quindi far passare la rendita da agricola ad urbana. Se non si coglie questo, e Tocci lo fa, non si capisce perché Roma ha questa organizzazione dello spazio: le sanatorie, i piani regolatori sono tutti definiti da questa necessità di inglobare sempre di più aree disperse. Questo lo dice Tocci nel-


l'analisi autocritica che fa degli interventi che si sono succeduti, compreso il nuovo piano regolatore che in qualche modo ricalca questo modello di dispersione, con le nuove centralità che tali non sono, sono cioè nuove periferie, che insiste sui temi della mobilità e dell'accessibilità, cioè connessi al problema dell'organizzazione dello spazio, come necessità di convergere verso il centro derivata dalla dispersione e gestita attraverso strumenti ed interventi che privilegiano il privato rispetto al pubblico, l'automobile rispetto al mezzo pubblico e quindi modificano l'organizzazione della mobilità. E questa una chiave di lettura socio-economica fondamentale che fa chiarezza sui soggetti fondamentali presenti a Roma. Torino è una città più facile da interpretare, perché sono chiari i soggetti fondamentali presenti e la capacità organizzativa che non a caso si riflette poi, anche a livello amministrativo, nell'adozione di un piano strategico. I soggetti fondamentali presenti a Roma sono molto più difficili da individuare ed uno di questi è sicuramente costituito dai percettori della rendita urbana che evidentemente stanno sotto tutta questa analisi dello sviluppo della città che Tocci fa. Una suggestione importante di questo libro. Un'altra sottesa al discorso è che c'è una qualità della vita di ciascun individuo che viene modificata fortemente dal modo in cui lo spazio è organizzato e nei modi in cui si sviluppa l'accessibilità. In tal senso, l'analisi sistematica dei tempi di percorrenza che viene fatta fa riferimento al tempo della mobilità come tempo di vita che viene sprecato, soprattutto nel mezzo privato; mentre il mezzo pubblico è utile alla conoscenza, all'uso della città: una forma di cultura del trasporto pubblica come forma unica a sanare la cattiva qualità della vita urbana. Allora, è vero che le aziende di trasporto pubblico hanno una logica aziendale propria, ma è anche vero che lo sviluppo del trasporto pubblico è un obiettivo politico e generale, non solo una politica che favorisce le aziende. LUigi Mazza Ma abbiamo idea del potere politico di un'azienda di trasporto pubblico? Fiamma Mignella Calvosa Lì però c'è una debolezza amministrativa: un piano di trasporto per la mobilità delle persone si fa su una base di analisi statistico-demografica; ovvero - ne parla Martinotti ma si sa - ci sono varie popolazioni metropolitane. Le uniche che possiamo conoscere dal punto di vista quantitativo con riferimento agli spostamenti sono gli abitanti e i pendolari. Il censimento dà informazioni precise su ciascuno, sugli spostamenti origine-destinazione per ragioni di lavoro e di studio, per costruire delle matrici di spostamento delle popolazioni, con la ricorrenza censuaria, e per costruire l'autocontenimento del pendolarismo e la mobilità al di fuori di determinate aree. E quindi una gravissima insipienza amministrativa che il Comune di Roma non ha elaborato i dati origine-destinazione nel censimento del 2001. Questa è una lacuna non solo tecnica, ma riferita al progetto di gestione della mobilità. 10


È vero che, come dice Tocci provocatoriamente, a Roma il problema del traffico non esiste; nel senso che il problema del traffico è un problema di organizzazione dello spazio, un problema delle soste, di comportamenti, pubblico e privato, quindi un problema molto complesso che non esiste di per sé. Un problema fondamentale ai fini della gestione è quello della mancanza di conoscenza degli spostamenti della popolazione in ragione dell'organizzazione dello spazio in questa città. Gli spunti ci sono. Stefano Giovenali Nel 1994 il Comune di Roma, grazie a Tocci, ha avviato una prima indagine campionaria degli spostamenti origine-destinazione di 40 mila famiglie nell'arco delle 24 ore. Il problema della mancata codifica dei dati è una questione annosa, che risolve meglio il Comune in quanto può tracciare il territorio, che non l'Istat che invece non ha mai codificato le destinazioni, poiché spesso la provenienza dai diversi Comuni è nota ma la destinazione no. Proprio sulla base della convinzione dell'assoluta importanza dei dati, l'indagine del 1994 è stata ripetuta nel 2004 ed è in corso un'ulteriore indagine da parte dell'Atac che aggiorna questi dati. Luigi Mazza In una città complessa come Londra, ad esempio, ancora adesso funziona un impianto - intanto occorre distinguere tra impianto di sistema stradale e sottoterra ed altri impianti mobili - disegnato da PatrickAbercrombie nel 1944, in assenza di qualunque dato, concependolo come un modello di funzionamento imperiale che garantisse che tutti potessero convenire al centro. Quindi, la necessità di un sistema radiale e non circolare. Il problema, ancora una volta, è che il punto di partenza non è la conoscenza, l'informazione nel senso prima descritto. Il punto di partenza è squisitamente ideologico. Se vogliamo fare funzionare le cose, dobbiamo avere un'idea di città. Tocci ce l'ha e può piacere o non piacere. Se si ha un'idea di città, in funzione di essa si può decidere dove vanno i tram e poi aggiustare le origini-destinazioni su quell'idea. A rinforzo di questo concetto, non si può pensare alla rendita come una variabile autonoma, altrimenti si cade in forme di economicismo per cui c'è una cosa che spiega tutto. Quanto alle differenze tra Milano e Roma, ad esempio, Milano è piccola per una precisa scelta ideologica: la classe dirigente milanese da sempre si è rifiutata di occuparsi del contado, quindi la speculazione edilizia milanese è stata sempre fatta solo all'interno della città. Dipende da come variano i valori non dalla superficie. L'aveva capito anche Piovene, un letterato, il quale notava che a Milano si continuava a costruire, demolire e ricostruire per far crescere i valori. Il problema della rendita è di nuovo strumentale ad una visione elitaria del destino della cultura di una città. I pianificatori progressisti milanesi, quelli che hanno fatto il piano AR, mettevano l'industria e la residenza operaia a 18 chilometri dal centro perché pensavano che ciascuno 11


dovesse stare al suo posto. La rendita fondiaria è strumento, non una forza autonoma che da sola trasforma il territorio, come una Borsa, come un mercato in cui si contratta l'organizzazione dello spazio. Fiamma Mignella Calvosa Certamente, però, i proprietari di area sono stati i soggetti fondamentali, la direzione che ha guidato lo sviluppo verso est prima, verso Prati dopo. A Roma non c'è stato lo sprawl perché si è verificato all'interno del perimetro del Comune di Roma, viste le dimensioni della città, talmente ampia che non c'è forse neanche il problema dell'area metropolitana. Poi in parte c'è per il pendolarismo e per l'influenza dell'espansione di Roma sui comuni limitrofi. Questa ampiezza è una specificità di Roma che emerge (prendendo una mappa di Roma, possiamo metterci dentro tutte le maggiori città italiane). Non a caso si ripercuote sul problema della mobilità cui fa riferimento il libro di Tocci, legando l'espansione della città all'organizzazione dello spazio ed al problema della mobilità. Il percorso storico illustra questo passaggio dal tram antico, quindi mezzo ferroviario, alle free way che circondano Roma, attorno ai centri commerciali, che non sono "non luoghi" come dice Marc Augé, poiché hanno un'identità; la stessa stazione della metropolitana ne ha una. Il film di Thomas McCarthy "L'ospite inatteso" mette in scena l'esistenza di punti di riferimento, di confidenza, all'interno della stazione della metropolitana per chi vi transita regolarmente. Sono i luoghi della modernità. Flavia Cristaldi Rivolgo un invito ad inserire anche l'approccio di genere nella pianificazione e nella gestione della città. Infatti, in tutto il discorso della mobilità, andrebbe introdotta un'ottica di genere/gender con riferimento non solo al tram ma anche all'autobus e alla metropolitana. Gli uomini e le donne disegnano diverse pratiche d'uso dello spazio ed elaborano differenti logiche di mobilità; infatti, fanno un uso disuguale dei mezzi pubblici. Le scelte operate dall'amministrazione, con l'introduzione di nuove linee di tram o autobus, possono incidere, indirettamente e positivamente, sull'aumento delle possibilità d'inserimento delle donne nelle attività economiche. Le donne devono fare i conti con le cosiddette trappole spaziali, per cui il tempo ridotto a loro disposizione (conseguente alla cura della famiglia e dei figli) configura anche uno spazio ristretto entro cui spostarsi e cercare opportunità lavorative. Dal momento che le finzioni economiche non sono ubiquitarie ma hanno diverse logiche di concentrazione nel territorio, a causa del ridotto spazio utilizzabile, alcune donne devono rinunciare al lavoro o accettare attività al di sotto del loro livello professionale. Se ne parla anche nel libro "La città delle donne. Un approccio di genere alla geografia urbana" (2006), nel quale si affrontano varie tematiche legate al diverso uso dello spazio urbano da parte degli uomini e delle donne. 12


Lorenzo Bellicini Una prima cosa importante in questo libro è la valutazione critica di un'esperienza importante di governo della città, in cui si è portata avanti una linea, un ruolo da valutare. C'è poi un atto d'amore motivato per una tecnologia, il tram, che è il portato dell'azione di Tocci come assessore a Roma. Il libro è anche occasione per raccontare Roma, ricostruendo la storia della città e mettendo in relazione un forte contrasto che Roma ha vissuto, quello tra assessorato alla mobilità ed assessorato alla pianificazione. Da qui emerge la valutazione critica degli ultimi quindici anni, delle quattro giunte di centro-sinistra che hanno guidato un processo di trasformazione urbana. E innegabile che in questi anni e sino a ieri Roma sia cresciuta in maniera eccezionale; è stata insieme a Verona la città più dinamica d'Italia: nei tassi di crescita economica, nel ruolo che ha avuto e nell'immagine, nelle criticità. Tanto è stato fatto e la città ha attraversato una fase di incredibile trasformazione: basti pensare che era fondata su tre grandi pilastri che erano quelli del settore pubblico, del commercio e delle partecipazioni statali. Tra gli anni ottanta e la prima metà dei novanta, tutti questi tre settori in qualche modo sono franati: il settore pubblico per la crisi del debito non è più trainante; il commercio è un settore maturo e in calo; le partecipazioni statali e la direzione di Roma sull'economia si frantumano e perdono centralità. In questa fase critica, la città rifiorisce dal punto di vista economico. Come? Come una città italiana. Il libro si sofferma appunto sullo stile italiano, l'incapacità di fare bene, che è una questione complessa. Roma è un luogo di grande intuizioni: il tram di Parigi dopo la visita del futuro sindaco a Roma; l'alta velocità in Europa che è iniziata con un pezzo della tratta Firenze-Roma; la storia delle autostrade, realizzate prima a Roma. E poi una grande entropia di processo, meccanismi disordinati con profonde radici economiche, non casuali. Roma è, in tal senso, una città mediterranea con i caratteri propri delle città e dei Paesi mediterranei, tra cui quello di fare e poi, ex ma/o bonum, tornare su quello che si è già fatto per cercare di mettere a posto. C'è cioè una marcata debolezza nel pianificare, progettare quello che si vuole fare, e quindi - diversamente da Francia e Spagna, con modelli di pianificazione completamente diversi tra loro, ma con una forte coerenza tra il disegno e la trasformazione della città - c'è sempre una grande discrepanza tra quello che si pianifica e di cui si parla tanto e che poi non si concretizza e quello che invece si realizza. Questo carattere conta. Anche per capire la forma della città: Roma è una città sgranata, larga e bassa, che non si chiude nelle sue ampie dimensioni territoriali. La periferia regionale, gli altri comuni della provincia che ne formano l'area metropolitana con un milione e trecento mila abitanti sono oggi la quarta area urbana italiana: gli altri comuni della provincia di Milano al primo posto, Roma al secondo, Milano al terzo e gli altri comuni della provincia di Roma al quarto. E evidente che sono pesi importanti che nel tempo sono cresciuti: dalla periferia storica a quella anulare ed oggi alla periferia regionale. Con esiti molto evidenti: sono decentrate le funzioni residenziali, si rafforza il ruolo economico del centro, si ottiene una città radiale e il tema è quello del flusso del traffico, il grande 13


tema non risolto di Roma, insieme a quello della scarsa qualità della produzione edilizia eccezionale. Un altro aspetto rilevante è la debolezza del dibattito urbanistico che c'è stato, un attore importante. In molti casi vi sono state due linee di pensiero che in qualche modo non si sono mai confrontate realmente. Lo dimostra l'esperienza delle porte di Roma che racconta Tocci. Al CRESME è stata chiesta dall'amministrazione di Roma una visione alternativa, uno scenario dimensionale residenziale e non residenziale del piano di Roma. Non c'è stata alcuna pressione sul lavoro del CRESME come soggetto terzo che ha definito lo scenario sulla base delle statistiche (che a saperle usare forniscono contenuti interessanti). Luigi Mazza Contenuti ma non scelte. Lorenzo Bellicini Quel che conta è che non c'è stato dibattito. Solo due posizioni differenti che non si sono mai confrontate. Il modello italiano, cioè, è caratterizzato da una forte individualità dei diversi gruppi o settori decisionali che difendono il territorio proprio e altrui nel segno della reciprocità, riducendo così le possibilità dello scambio e della verifica di un disegno. Peraltro, Roma è una città prodotto di grandi interessi ma anche di questa assenza di scambio. La razionalità degli interessi paga un ampio spazio all'ignoranza, alla impossibilità di mettere assieme in maniera intelligente diversi apporti, giungendo a risultati di buona qualità. Ognuno fa quello che gli compete. Chi sta dentro il meccanismo di decisione se ne rende conto. Tocci scrive alla fine alcune indicazioni operative. Primo, Roma non può più essere policentrica, le venti centralità sono troppe ed è vero che ci sono state troppe debolezze nella costruzione di queste centralità, senza un disegno; una costruzione schiacciata dalla decisione di andare avanti comunque e dalla forza della componente economica del settore delle costruzioni e del settore immobiliare, quale grande ricchezza di Roma con cui si devono fare i conti (c'è stato anche altro). Il problema non è che si è costruito tanto, ma che si è costruito male. Il problema dell'espansione non è la dimensione del volume e se c'è domanda, ma è la qualità del prodotto che viene realizzato e su quello Roma ha sbagliato, come ha sbagliato Milano. Luigi Mazza A Roma però c'è un vantaggio, ovvero questa relativamente bassa densità che potrà essere un'opportunità in un lontano futuro.

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Lorenzo Bellicini

Quindi, Roma non può essere policentrica. Vanno potenziati i raggi e poi le infrastrutture ferroviarie, lavorando sugli assi in altra maniera. Il tema è la periferia anulare: riportare dentro attraverso la densificazione la funzione residenziale a Roma, oggi esportata. Ma non si può più fare. Peraltro il territorio della provincia di Roma ha una eccezionale capacità di offerta tipologica insediativa: il mare, la Toscana della Sabina, la periferia, etc.. Ma è bene o male che la gente sia spostata? Roma è talmente grande che il tempo che si passa dentro la città o di li al sistema esterno è sempre quello. Il problema è che, se si guarda dove si sono localizzate le persone uscite da Roma, queste sono confluite lungo gli assi ferroviari. Ma non c'è una politica di valorizzazione di questi assi, come invece la Regione avrebbe dovuto fare. Né se ne tiene conto nelle politiche urbanistiche di questi comuni. E evidente che potenziando e riqualificando i nodi delle stazioni, il problema del flusso e della mobilità a Roma, data la struttura ad assi radiali, è risolto. Da ultimo, il tema della qualità della vita e della struttura urbana, della gestione dello spazio è centrale. Qui, il dibattito oggi è carente. Luigi Mazza

È carente perché abbiamo idee molto diverse della qualità. O c'è un'élite che afferma la propria idea di qualità o non ne veniamo fuori. Lorenzo Bellicini

Non ci sono linee-guida in grado di strutturare e trascinare il dibattito. L'esperienza di Roma ne è l'esempio: non è stata in grado di progettare contenuti strategici di sviluppo della città. Lorenzo Romito

Questo libro ed in particolare il capitolo "La chiamiamo ancora Roma" sono l'unica chiara prospettiva politica e urbanistica su questa città dagli anni novanta ad oggi. L'inefficacia - anche rispetto alla valutazione politica che ne fa Tocci - di questa visione strategica la dice lunga sul fatto che forse ragionare attorno ai modelli ed alle prospettive è efficace in sé rispetto al contesto in cui operiamo, ovvero la città in cui viviamo. Che cosa è diventata Roma ce lo dice questo libro. Secondo passaggi temporali importanti e condivisibii. Ad esempio, nella fase delle opportunità tra il 1994-5 che per Stalker sono stati gli anni della camminata attraverso gli spazi abbandonati della città, ad evidenziare il fatto che una struttura radiale della città disegnava enormi potenzialità e l'alta densità permetteva un gioco tra città e campagna, di tensioni reciproche. E poi, la grande delusione dalla politica, dalla società, da tutto: la stagione 15


speculativa, la distruzione della città, lo scempio. Il vantaggio viene dal fatto che comunque il laissezfaire asseconda il carattere mediterraneo della città, la sua capacità auto-organizzativa. In quest'ultima stagione speculativa, laddove si è avuto un processo di enclavizzazione, con i vari poteri che gestiscono realtà autonome poco ed in maniera autoreferenziale, creando una città ed un"oltrecittà" dispersa ad alto potenziale. Si tratta di una nuova dimensione e di nuove opportunità. I modelli che qui servono non sono tanto quelli previsionali, quanto quelli in grado di tracciare, senza l'ausilio di Costosi enti di ricerca, una mappa della mobilità esistente sul territorio, in tempo reale. Non credo che il processo debba essere affidato ad un'élite emergente, né che il nostro sistema sia in sé riformabile. Roma è anche luogo di una nuova emergenza: c'è uno spirito nuovo. La rottura con il sistema politico ha portato la cittadinanza, in modalità diverse, su questioni urgenti che riguardano proprio la qualità della vita e la convivenza, quindi ad auto-organizzazione e proporsi in qualche modo per la ricostruzione dei vissuti di comunità in questa dispersione urbana. Una ricostruzione interessante perché avviene tra soggetti molto distanti, come nei comuni dell'hinterland, interessati dal raddoppio della popolazione negli ultimi dieci anni: immigrati ed altre popolazioni straniere, un alto tasso di turisti anglosassoni ed olandesi che ormai abitano la dispersione metropolitana romana, l'abbandono dei centri storici agli immigrati da parte degli abitanti. Tutta una serie di appartenenze che si trovano a dovere inventare uno spazio di condivisione, e in questo c'è una grande potenzialità in termini di discorso dell'accessibiità e di governo del territorio. Problemi non risolvibili e gestibii attraverso i molti ed inutili livelli di governo locale. L'unica speranza di sopravvivere in tal senso è la crescita della politica. E trovare modalità con cui la definizione dal basso degli spazi di appartenenza possa aiutare la cittadinanza attivamente a ridefinire gli ambiti di pertinenza, di gestione e condivisione del territorio. Non sono certo le circoscrizioni, che restano una geometria molto astratta. L'altro discorso è quello dell'accessibilità che apprezzo molto daflàneur periurbano; il problema non è tanto la gestione dei flussi, quanto capire le geografie che si sono determinate e che hanno perso del tutto il nesso di continuità spazio-temporale. Lavorare su questo aspetto e capire, assecondare questi spunti emergenti, seguendo le dimensioni e le traiettorie della città così come sono state vitalizzate dagli immigrati - ad esempio gli hinterland, attraverso un ritrovato uso collettivo perso invece nei nostri centri - risolve il cortocircuito tra pianificazione e realtà emergenti, con la possibilità di soccorrere queste ultime, aiutarle a risolvere i problemi del quotidiano. Con la crescente difficoltà di poter concepire tutto questo come una città. Staiker inizia adesso una nuova azione sul territorio, un lavoro molto fisico segnato dal camminare, con una camminata che per tutta la primavera e fino all'inizio dell'estate seguirà a tappe il raccordo anulare. Per scoprire e conoscere altri luoghi, tra cui il campo Rom che spiega il fallimento delle politiche urbanistiche attraverso il caso della ghettizzazione e segregazione razziale e della responsabilità politica della sinistra in tal senso.


Lorenzo Bellicini

Il CRESME ha fatto una carta del Piano che non è servita a niente, ma che è diventata la carta delle micro città di Roma, individuandone circa duecento. Non c'era quindi centralità, bensì una forte identità reale con lo spazio, per lo spaesamento, per le grandi dimensioni di Roma e per altre ragioni. Ciò vale adesso per i comuni della provincia di Roma. C'è dal punto di vista progettuale una rivalutazione dello spazio. Roma si è sviluppata per quartieri e poi per borgate, tutte aree che hanno un determinato confine con un toponimo, ed è in esse che si può individuare un grosso progetto di riqualificazione, anche sui temi di microurbanistica, di questi spazi di incontro della città. Fiamma Mignella Calvosa A questo proposito, è stata fatta una ricerca su Centocelle, e ne è nato un libro al quale ha collaborato anche Insolera, La perfèria pe!fetta (FrancoAngeli 2006), per raccontare l'innovazione con riferimento a soggetti diversi che però si integrano in uno spazio che non è segnato da interventi violenti di urbanistica ed edilizia popolare, come è accaduto ad esempio a Tor Bella Monaca. Centocelle ha mantenuto un'organizzazione dello spazio che consente l'interazione a soggetti diversi e generazioni che si ritrovano in uno spazio che è una periferia: giovani, anziani, islamici, zingari. Visenta lannicelli I tram non sono stati "solo" un buon progetto. "Un buon progetto" sotto il profilo urbanistico e trasportistico, come ben sanno coloro che fruiscono dell'unico nuovo tram realizzato che collega il Casaletto con piazza Argentina. "Un buon progetto" sotto il profilo ambientale. Come non ricordare che da rilevazioni all'epoca effettuate risultò che il livello di inquinamento in via del Plebiscito era 3 volte superiore ai limiti della norma. E tali tassi di inquinamento erodono la salute delle persone e la struttura dei monumenti. Ed il tram costituisce , per entrambi, una soluzione possibile. "Un buon progetto" sotto il profilo della valorizzazione turistica: sia con la linea "archeotram" di servizio e di valorizzazione dei principali siti storici, posti anche ai margini del centro storico e, per tali motivi attualmente poco visitati; sia con la linea Giureconsulti-San Pietro che, di fatto, collegava i principali ambiti di ricezione turistica (Aurelio 20% posti letto, area centrale 55% dei posti letto). "Un buon progetto" sotto il profilo della valorizzazione degli spazi storici. Non si era progettata solo la "rete tecnologica", ma, cercando di emulare l'esperienza di Strasburgo, anche l'intero invaso stradale. I tram sono stati qualcosa di più: un programma operativo di intervento ed un progetto di innovazione politica. 17


Con finanziamenti: stanziati, rilevanti ed adeguati alla realizzazione della infrastruttura di trasporto, ma anche alla integrale qualificazione (arredi, pavimentazioni riassetto del vuoto stradale) degli spazi attraversati. Con progetti definitivi redatti da trasportisti, architetti e, in diretta collaborazione con la Soprintendenza BBAA (ricordo ancora riunioni in cui si approfondiva anche la tessitura delle pavimentazioni, le "fughe dei sampietrini" nei singoli ambiti del progetto). Con progetti approvati in conferenza di servizio, almeno per la parte di maggiore rilevanza Giubilare, il tratto San Pietro-Largo Argentina. Eppure è stato un programma su cui si è deciso di non procedere. Il timore è stato di non riuscire a completare i cantieri per l'evento giubilare. Ma anche dopo il Giubileo non è stato mai più ripreso. Vale la pena di approfondire i motivi più profondi di questa scelta, nella consapevolezza che le città non sono fatte né dagli urbanisti, né dai sociologi, né dagli economisti, ma sono la rappresentazione dell'equilibrio economico, sociale, e culturale (anche come cultura politica) che si configura in quella data realtà. Il sistema di alleanze che dopo la seconda guerra si è consolidato nell'area romana emerge da una sintetica analisi dell'utilizzo delle principali risorse pubbliche, che si sono concentrate: - sul completamento dei progetti previsti dal PRG del '31 (Eur, via della Conciliazione, ecc.); - sull'emergenza abitativa e sui servizi, tanto che la legge "167" è stata il vero motore della crescita urbana legale, (pur accompagnato dal diffuso abusivismo, sempre residenziale, segnalato in tutti gli interventi precedenti). La legge "167" ha avuto effetti sociali rilevanti (si vedano a riguardo le percentuali relative ai possessori di abitazione, che non ha eguali in Europa), ma ha anche determinato una crescita urbana prevalentemente monofunzionale. Gli ambiti urbani in tal modo generati, anche in ragione delle modalità di finanziamento, non sono Stati caratterizzati da una spiccata identità, fatta di gerarchie stradali, di centralità di quartiere basate sui servizi e sugli spazi pubblici, sull'integrazione funzionale, sul decoro degli edifici e nei casi più felici, anche di gerarchia dell'uso urbano del verde, come nel caso del quartiere delle Vittorie, che avevano i quartieri precedenti la guerra; - sulla realizzazione di opere di ingegneria, punto di forza di una imprenditoria di livello nazionale, che per anni ha esportato anche all'estero tali tecnologie: il muro Torto con i suoi sottopassi, realizzati in corrispondenza delle olimpiadi, i sottopassi sul lungotevere, la tangenziale est, anticipazione di quell'asse attrezzato previsto dal PRG del '62 che non si è realizzato neanche nella forma più contenuta dello SDO, e, più recentemente, in occasione del Giubileo, nuovamente un "sottopassino". Solo più recentemente sono state realizzate alcune singole opere frutto di un ragionamento sui temi dello sviluppo: non finalizzate esclusivamente all'impresa della realizzazione, ma anche e soprattutto alle diverse imprese della successiva gestione. L'Auditorium, la Nuova Fiera di Roma, ecc., con incerti e variegati risultati anche in


relazione al presidio pubblico e collettivo di sorveglianza e promozione della qualità e dell'equilibrio economiche, che si è ritenuto di attivare. Il programma dei tram non era, evidentemente, omogeneo a tale modalità di trasformazione e crescita della città. Inoltre la presenza di imprese di produzione di vetture, pure esistenti, non avrebbe messo al riparo dalla eventualità di un ingresso di soggetti economici stranieri. Certo era un rischio. Quando però sono stata recentemente ad Istanbul ed ho avuto modo di vedere la nuova linea tranviaria realizzata che porta fino nel cuore del complesso monumentale, mi sono detta che a Roma, sui tram, si è persa una occasione, una occasione anche di possibile sviluppo imprenditoriale suscettibile di competere in un mercato globale. Vorrei aggiungere alcune riflessioni sul tema del monocentrismo. Intendiamoci, a Roma non sarà mai possibile né auspicabile ribaltare il ruolo del centro storico, che per la natura del suo patrimonio edilizio prevalentemente non residenziale, si configura come un enorme e qualificato attrattore di tutte le funzioni più pregiate, e come concentrazione dell'identità collettiva della città. E il centro, a questo centro è necessario arrivare da tutta la città e i tram sarebbero un efficace sistema di adduzione pubblica. Però, proprio perché è un centro di grande valore nazionale ed internazionale, (l'intero ambito è individuato come patrimonio dell'Umanità dall'Unesco), va salvaguardato, tutelato, valorizzato e per far ciò è inevitabile individuare nuove centralità all'esterno che prevedano un alleggerimento della pressione, che per alcune funzioni e per alcuni ambiti, appare ormai insostenibile. Tali nuove centralità, che sarebbe stato auspicabile inserire in ambiti già serviti dalla rete di mobilità pubblica su ferro, devono configurare anch'esse un sistema in grado di strutturare, qualificare e fornire una identità alle porzioni urbane non centrali in cui si inseriscono. A mio avviso si tratta di procedere ad esplicitare delle vocazioni funzionali per parte di città. Sia chiaro non si pensa alla individuazione "a tavolino" di nuove funzioni da distribuire in modo un po' casuale, né ad un nuovo Eur, ma si pensa ad un processo che a partire da vocazioni e potenzialità già esistenti nei singoli ambiti urbani, dalle disponibilità dei diversi attori pubblici e privati, li valorizzi, li sostenga e punti ad una loro amplificazione, costruendo, in tal modo sistemi di centralità a rete, funzionalmente qualificate, all'esterno del centro storico, certo non in grado di competere con esso, ma in grado di favorirne un riequiibrio. Un esempio in tal senso può essere fatto sul turismo, attualmente concentrato (come ricezione e come fruizione), nel solo cuore centrale del centro storico, con conseguenti effetti di degrado (occupazione suolo pubblico, trasformazione del commercio, sicurezza, pulizia, ecc.) a tutti visibile. Non vi è dubbio che il centro storico resterà sempre il principale oggetto del desiderio di ogni turista che viene a Roma, ma non vi è ulteriormente dubbio che anche altri i'?]


ambiti del territorio comunale possono essere caratterizzati da una vocazione turistica integrativa (il litorale, gli ambiti vicini ai collegamenti internazionali, o quelli interessati dalla presenza di rilevanti attrezzature con vocazione turistica, o di ulteriori ambiti di fruizione qualificata e possibile), vocazione, che però va sostenuta, integrata e promossa. E se l'esempio fatto per il turismo fosse possibile ripeterlo anche per altri sistemi strutturati, nella consapevolezza che Roma, in qualità di capitale, ha il vantaggio di veder operare molti attori pubblici, si potrebbe tentare di mantenere la centralità principale, ma anche dare struttura ed identità all'intera città, utilizzando in modo finalizzato le opportunità già individuate, le risorse esistenti o attivabii sull'area romana. Luigi Mazza Non ci sono esempi storici in cui un'operazione di questo genere abbia avuto successo. Neanche in tempi di assolutismo, di potere statale forte. Ojesta idea che gli esperti siano in grado di definire delle vocazioni è un'idea fantastica, ma non è questo che si deve fare. E tempo perso che crea solo problemi. Pierfranco Peilizzetti Ma non è vero! Il progetto Lione 2010 una vocazione d'area l'ha individuata. E la Catalogna cosa ha fatto, se non lo stesso? E Stoccarda o Lisbona? Se c'è capacità politica e creazione del consenso, democrazia del consenso dal basso, si può fare. Se lo faccia spiegare dal suo collega catalano Oriol Bohigas, l'architetto ispiratore di questo nuovo tipo di programmazione volontaristica di successo. Luigi Mazza Di democrazia dal basso a Lione non c'è traccia. Faccio un esempio: in Italia è bruciato il Teatro "La Fenice", a Barcellona l"Opera". In dodici anni abbiamo ricostruito "La Fenice", mentre a Barcellona, non avendo neanche i disegni, hanno dovuto ricostruirli ed in quattro anni hanno fatto tutto, compreso l'esproprio di un isolato adiacente. Il sistema li è di controllo forte su decisioni di questo genere. Andare contro di esse significa non lavorare più a Barcellona. Altro che ricorso al TAR. Mario Castagna È vero che manca un modello di città, non solo pianificatorio, ma un'idea globale di città. Quello che sta entrando in crisi in questi ultimi mesi è un modello economico forte che mette in crisi, non a caso, sia Milano sia Roma, città basate su due diversi tipi di rendita: l'una è una rendita finanziaria, l'altra una rendita fondiaria, ma pur 20


sempre rendite. Non due città basate sul lavoro, che attraverserebbero lo stesso una crisi gravissima ma che troverebbero nella propria struttura sociale ed economica la soluzione per uscire dalla crisi, bensì due città basate sul consumo e sulla distribuzione. In questi ultimi anni a Roma sono comparsi come funghi centri commerciali e lo stesso piano regolatore è stato costruito in base alla localizzazione dei centri commerciali: i due più grandi esempi sono Parco Leonardo e Porta di Roma, ma bisogna capire che anche il commercio oggi è una rendita, con il costo quasi zero dei prodotti che vengono dalla Cina. Il conflitto vero che dovrebbe muovere creativamente l'idea di città oggi è quello tra produzione/lavoro e consumo/distribuzione/rendita. Non a caso, in questo conflitto, si inserisce Torino che è una città che ha saputo recuperare un tessuto produttivo vero. Va via Motorola dai centri di ricerca e subentra l'imprenditoria torinese, facendo il contrario di quello che è accaduto a Roma, dove abbiamo confuso l'economia della conoscenza con l'economia dell'effimero. A New York e San Francisco non è così. Dietro ogni impresa c'è il lavoro basato sulla conoscenza e l'innovazione, un valore reale e non effimero. Qui non è neanche più il profitto che guida l'economia. E la rendita. C'è poi la mancanza di una classe dirigente. Anche qui, Torino ha una storia recente differente: l'operazione di fusione Intesa-San Paolo la porta al centro di un circuito decisionale importante, pur con tutte le difficoltà del dualismo con Milano, le Olimpiadi ed il suo comitato promotore con l'attivismo della presidentessa Evelina Christillin, l'attività sempre molto visibile del sindaco Chiamparino, e così via. A Roma non è sempre stato così. C'è oggi una certa incapacità di creare classe dirigente e c'è un cambiamento della forma politica: manca il voto d'opinione ed aumentano le preferenze. Tutto questo avviene in un momento di grande sconvolgimento, l'economia come ancella della finanza scompare così come sembra scomparire la città come luogo della produzione e del lavoro: enclavizzazione, metropoli anonime, conflitti nuovi e vecchi (autoctoni vs immigrati e non più capitale vs lavoro). La politica deve ritornare ad essere il soggetto principale della governance urbana, ma come luogo di organizzazione del lavoro e della produzione. In alcuni momenti questo è stato fatto con piccoli interventi, ad esempio quelli delle leggi Bersani sull'autopromozione sociale ed i contratti di quartiere. Andrea Declich Chiedo a Tocci se non ci voglia un surplus di attenzione verso gli attori sociali che operano nella città e a come essi hanno influito o non influito sugli sviluppi della città stessa negli ultimi anni. Sono d'accordo su quello che si è detto oggi, molto, circa la centralità della politica. Così come sull'importanza di avere un'idea di città. Sarebbe meglio che una tale idea si producesse attraverso il dibattito sociale. L'idea di città 21


che guida la politica non si può elaborare "a tavolino". In questo quadro, un'analisi degli attori sociali in campo è importante. Gli interessi immobiliari certo muovono le città, ma vi sono anche altri soggetti, quali i comitati di quartiere, la Chiesa cattolica, i sindacati. Alcuni di questi, oggi, svolgono un'azione carsica e incostante. Non come in passato. Allora, ritengo importante che si individuino non solo gli interessi in gioco, ma anche i soggetti, gli attori sociali che li rappresentano. La sconfitta della sinistra nelle periferie è significativa, se si pensa che in questi contesti i ceti medi - come Tocci scrive nel libro - nascono grazie alle politiche della sinistra, alla quale, però, voltano le spalle. La questione degli attori sociali è una questione complessa ed interdisciplinare che va affrontata accanto a quella degli attori economici. Giuseppe Dematteis L'equivoco del policentrismo descritto da Tocci fa riferimento all'apparente paradosso del crescere degli spostamenti come segnale della debolezza di quelle nuove centralità e del prevalere della forza delle relazioni del centro storico. Dico apparente perché vanno fatte differenze di livello di centralità: c'è un livello locale dove la centralità è legata a forme prevalenti di auto-organizzazione; c'è un livello provincialeregionale dei grandi servizi, come quello degli ospedali, dei centri commerciali; e c'è un livello nazionale delle funzioni politiche e pubbliche. C'è poi un livello sopranazionale e globale, dove troviamo gli insediamenti delle multinazionali. Tutte queste cose stanno nello stesso spazio e andrebbero pensate insieme quando si fa un disegno complessivo di città. Separare questi livelli è pericoloso. Il policentrismo non è una balla come dice Mazza. Intanto, esiste nei fatti. Luigi Mazza Sì, c'è l'EuR. Giuseppe Dematteis In base a logiche settoriali, quando il campo di esternalità urbane diventa così espanso, c'è la possibilità per gli attori di diverso livello di scegliere dove collocarsi tra tanti punti al suo interno. Gli attrattori locali faranno in modo che vadano a collocarsi in una data area. Anche gli operatori pubblici operano con questa visione settoriale. Con conseguenze non sempre ottimali nell'ottica dei servizi (uffici postali, ospedali, etc.) per determinate categorie della cittadinanza. Su questi aspetti, quindi, è giusto pensare di razionalizzare un minimo la progettazione. Non significa fare la visione della città ideale, ma un po' si potrebbe lavorare, anche con logica retroattiva. Una ripresa della visione d'insieme multiscalare per garantire la qualità della vita. Per fare questo, i trasporti sono sicuramente una base essenziale. L'altro grande orientamento è dato dalla speculazione edilizia. Come si sceglie in questo ampio campo di esterna22


lità dove andarsi a collocare? Tramite alleanze tra i promotori, i costruttori, i finanziatori e gli altri operatori fondamentali. Allora, è possibile che non si possa avere un piano strategico, una visione globale di tutte queste componenti? Si dovrebbe avere. Anche in una città come Roma. Luigi Mazza Qui c'è un equivoco tra l'idea di centralità scalare e la centralità del tipo "centroperiferia" con forte connotazione simbolica. In tal senso, come dice Tocci, Roma ha una sola centralità che supera anche quella dell'EuR; è a questa centralità che si deve fare riferimento per ricostruire un'identità forte di città. Il problema è di carattere simbolico (Lefebvre), come lo è la centralità di cui si discute. E questo il senso di città che deve essere ritrovato. Distinguendo tra dimensione simbolica (l'idea di città) e divisione funzionale in senso stretto. Le due cose non vanno insieme. Walter Tocci Il libro ha un movente. Era per me necessario riflettere sui sette intensissimi anni passati in Campidoglio, una delle esperienze più intense della mia vita, forse la più dura e insieme anche la più appassionante. Essa ha lasciato un segno nel mio animo. Forse potevo andare dallo psicanalista, ma è più economico scriverci un libro. Sto scherzando ovviamente, non è una confessione privata, sento soprattutto il dovere pubblico come ex amministratore di rendere conto del lavoro svolto, dei successi raggiunti, degli errori commessi e soprattutto delle cose non fatte. Attribuisco grande importanza a quello che Ristuccia chiama il momento riflessivo della politica. Ho anche la pretesa di utilizzare questo materiale di ricordi per trarne qualche tentativo di elaborazione teorica che possa essere utile in generale al dibattito sulle politiche urbane. Mi pare di essere stato inclemente nell'autocritica, ma allo stesso tempo ho cercato di svelare il progetto della mobilità che ispirava le singole scelte di quegli anni. Fu comunque una stagione di speranze in cui si cercò di affrontare in modo organico il male più antico e più grave della città e vale oggi la pena di ritornarci sopra perché ormai se ne è persa memoria. Infatti, gran parte di quel progetto, soprattutto il tram e la ferrovia, è stata in una certa misura archiviata dalle amministrazioni successive di centrosinistra e oggi viene apertamente contestata dalla giunta di centrodestra. Sulle cause politiche della mancata realizzazione del progetto negli anni novanta credo si debba approfondire l'analisi, ma provvisoriamente possiamo assumere gli spunti proposti qui da Pellizzetti, Bellicini, Castagna, Dedich e da me condivisi pienamente. Quando si progetta una rete di trasporto bisogna tenere conto della domanda presente in ciascun bacino. Pertanto, non ha alcun senso abbandonarsi alle distinzioni ideologiche sui mezzi di trasporto, come nel dibattito romano è stato spesso fatto, con riferimento al tram e alla metropolitana, in particolare. Ogni mezzo va usato secondo necessità. Questo è quanto basta per una buona panificazione dei trasporti. 23


Quando però si passa allo studio dei fenomeni urbani non si può trascurare l'analisi delle diverse relazioni che i modi di trasporto iristaurano con la città: l'automobile impone la sua regola allo spazio fisico, la metropolitana elude la città passando sotto e il treno gira intorno a passi lunghi; solo il tram entra in relazione con la città esistente. Ciò è essenziale per comprendere il significato che nel libro attribuisco all'espressione "Rifare l'Ottocento". Nella città ottocentesca c'era confidenza tra il tram e il pedone. Vivevano nello stesso spazio. In una lettera ai familiari Freud racconta le sue impressioni durante una vacanza a Roma e, da grande conoscitore dei comportamenti umani, sottolinea proprio questa confidenza dei romani con il tram. Essa era una caratteristica di tutte le città ottocentesche e viene smarrita solo nel secolo successivo, quando si separano i percorsi dei pedoni e quelli della meccanizzazione. La grande invenzione ottocentesca del boulevard consisteva nell'istituire un luogo urbano in cui le differenze si riconoscevano e in una certa misura si integravano proprio mentre si facevano sempre più laceranti a causa dell'incipiente industrializzazione. Nel Novecento il boulevard evolve nell'autostrada urbana e ciò rappresenta, secondo la classica lettura di Marshail Berman, la lunga decadenza della modernizzazione ottocentesca. Ciò che teneva insieme le differenze diventa così motivo di separazione. Era inevitabile con la società di massa che si verificasse questo cambiamento? Io dico di no. Proprio il tram di Strasburgo, all'inizio degli anni novanta, dimostrò l'inesistenza di una necessità oggettiva della separazione e per questo ci incuriosì, spingendoci a imitarlo pur nelle condizioni più difficili e allo stesso tempo più avvincenti del centro storico romano. Il tram di Strasburgo e gli altri che seguirono in tante città europee promossero un ripensamento della mobilità basato sulla confidenza tra pedone e tram. La nuova tecnologia, ormai consolidata, arriva fino al punto di evitare anche lo scalino, assicurando una continuità tra la pavimentazione urbana e il pianale del mezzo, tra esterno e interno del tram. Il passeggero e il pedone tendono così a convergere nel cittadino che si muove senza fratture nello spazio urbano. A separare la persona dalla macchina, quindi, non è stata un'esigenza tecnica, ma un esito culturale della modernizzazione novecentesca che ritroviamo in tutta l'urbanistica, non solo nella decadenza del boulevard verso l'autostrada, ma nella perdita della contiguità sociale dei tessuti urbani, fino alla separazione delle funzioni produttive, distributive e riproduttive. Tutte queste separazioni mostrano un isomorfismo con la stessa organizzazione del ciclo produttivo fordista, basato proprio sulla parcellizzazione delle attività. Allo stesso modo, oggi nell'era del post-fordismo, a mio avviso, torna anche nella politica urbana la necessità di un approccio olistico e non più frammentato. Da qui il ritorno del valore del tram come mezzo di trasporto che integra le funzioni e crea continuità nei tessuti. Viceversa, l'automobile porta la frattura dei quartieri, l'isolamento delle periferie e la trasformazione del centro storico in un garage a cielo aperto. Non sono per criminalizzare l'automobile. Non avrebbe senso. A Roma, poi, da amministratore ho sempre avuto l'impressione di amministrare i 24


geni del traffico in automobile, anche con riferimento agli usi creativi che i romani fanno del mezzo. Se ci fossero le Olimpiadi del traffico a livello mondiale, i romani arriverebbero in finale con i napoletani che hanno un sistema di autoregolazione di gran lungo superiore, fino al punto di fare a meno del rosso e del verde dei semafori. Il romano, di contro, ha una grande professionalità nel parcheggiare. Nei giorni del Giubileo, con i settecento cantieri che complicavario non poco gli spostamenti, i colleghi assessori di altre città europee, che incontravo nei network della mobilità, mi esprimevano la loro incredulità di fronte alla capacità di sopravvivenza degli automobilisti romani nel traffico. Quella genialità romana nel muoversi in città è il frutto di una sedimentata disorganizzazione, ma potrebbe diventare una risorsa per l'attuazione di un progetto moderno di trasporto integrato in cui c'è spazio anche per l'automobile. Non nel centro della città, tuttavia. L'area storica è inadatta alle quattro ruote, non solo per il valore ambientale e culturale, ma per evidenti vincoli di spazio fisico disponibile. E l'unico modo per restituirla all'uso proprio pedonale consiste nel riprendere la storia interrotta del tram. Da qui l'idea di riportare questo modo di trasporto nell'asse ottocentesco Via Nazionale-Corso Vittorio Emanuele 11. "Rifare l'Ottocento", però, non può essere considerato solo un progetto di trasporto, perché implica una rielaborazione storico-fisica della forma urbana. Significa, anzi, entrare nelle pieghe di quel fallimento della trasformazione ottocentesca per scoprirne le potenzialità di un ripensamento: gli errori da sanare, i margini da riscrivere, le occasioni perdute e ancora valide. Il nostro, d'altronde, è stato un Ottocento breve, iniziò molto tardi a causa della resistenza papale contro l'unificazione e finì molto presto, non soltanto a livello delle strutture economiche, con il fallimento della Banca romana e la crisi edilizia, ma anche nelle forme estetiche, con il trionfo del monumentalismo crispino che portò ad ipostatizzare la modernità nella retorica nazionale. L'Ottocento breve mostra la sua incompiutezza e perfino il suo eclettismo nell'asse centrale che avrebbe potuto essere - ma non è stato - il nostro boulevard. Colpisce quel dualismo stilistico tra via Nazionale, come boulevard ancora acerbo, e dall'altra corso Vittorio, che è già un boulevard troppo maturo, quasi sfatto. C'è quindi un'impossibilità romana del boulevard? Colpisce l'aneddoto, riportato nel libro, dello stesso Hausmann che, chiamato a Roma dopo avere demolito la Parigi medievale e barocca, rifiuta l'incarico come preso da una specie di ritegno ad intervenire sulla città eterna, rivendicando la sua appartenenza, fino ad allora sconosciuta, alla Accademia delle Belle Arti. Persino l'inventore del boulevard mostra un certa soggezione di fronte al caso romano. Anche il grande filosofo del boulevard parigino, Walter Benjamin, si domanda come mai ilfldneur non ha avuto luogo a Roma. Vi erano le condizioni nel fascino della città, egli dice, ma fece difetto la forza culturale della classe dirigente. Nei quindici anni di buongoverno del centrosinistra è sembrato risolversi questo antico problema della debolezza delle classi dirigenti romane. Ma non aver tentato grandi ambizioni del tipo "Rifare l'Ottocento" segna il limite di quell'esperienza di governo, rivela la

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sua debolezza strategica che è diventata palese solo dopo la sconfitta elettorale. Tornando al boulevard alcuni critici francesi mi hanno fatto notare che l'inserimento del tram suscitò molte polemiche e venne rifiutato nella Parigi di fine Ottocento. E' vero, ci fu soprattutto una polemica da parte delle classi colte e aristocratiche contro la presunta invasione degli spazi pubblici da parte delle masse popolari che veniva favorita dal tram. Certo, è un argomento ricorrente, anche a Roma quando fu aperta la metro a piazza di Spagna ci furono simili reazioni. Ma nelle polemiche parigine giocavano anche altri fattori molto concreti, come la difesa monopolistica dell'azienda degli omnibus che cercò in tutti i modi di impedire la decisione a favore del tram. Comunque, è vero che il tram non ebbe mai vita facile e, anzi, quando arrivò la motorizzazione su gomma perse rapidamente il confronto con l'autobus, non solo per motivi industriali o ideologici, ma anche sul piano strettamente trasportistico. La sua capacità di trasporto, infatti, era limitata e comunque non superiore a quella dell'autobus. Questo limite era alla base del fenomeno dell'ingorgo tranviario, ben visibile in molte fotografie d'epoca; ad esempio, fa un certo effetto oggi vedere i tram incolonnati al Pantheon dove passava un'importante linea. Con la rinascita francese del tram - nelle città di Strasburgo, Montpellier, Grenoble - si afferma una tecnologia del tutto diversa da quella ottocentesca, caratterizzata soprattutto da una maggiore capacità di trasporto che supera di quattro-cinque volte quella dell'autobus. La nuova generazione del tram europeo consente, quindi, di soddisfare la domanda di spostamenti tra centro e periferia e offre le condizioni strutturali per ripensare non solo la mobilità ma l'assetto urbanistico delle città. L'opportunità di sistema che offre il tram è molto adatta ad affrontare l'altro grande problema della periferia romana. Essa si forma sovrapponendo all'incerto Ottocento una galassia infinita di nuclei edilizi sparsi nell'agro romano. Con la grande espansione novecentesca il tessuto edilizio si frantuma in tante monadi impegnando a bassa densità una conurbazione molto ampia. Questa forma granulare è alla base del cattivo funzionamento della mobilità. Manca quella densità urbana che è un requisito essenziale per l'efficacia di qualsiasi sistema di trasporto. Qui c'è sempre un punto difficile da spiegare ai non addetti ai lavori: Roma a grande scala è una città vuota. Quando dico questa cosa in un quartiere periferico uso sempre una certa cautela. Chi vive in borgata ha evidentemente una percezione del tutto diversa, sente una città ingolfata poiché la densità locale è spesso alta e soprattutto manca la continuità con il resto della città. Se osserviamo una foto satellitare vediamo un insieme disordinato di nuclei edilizi collegati tra di loro solo attraverso le vecchie consolari e immersi in grandi vuoti urbani. Infatti, in una superficie pari a quella di Parigi la popolazione è tre volte più bassa. Roma è una città vuota che ha assunto questa forma sgranata perché - spesso lo si dimentica - non aveva nessuna forza di contenimento, nessun ostacolo fisico, un vuoto enorme descritto dai grandi viaggiatori del Settecento che venendo dai bei paesaggi toscani ed umbri entravano in città dopo una faticosa traversata nelle paludi dell'agro. Non solo Roma non ha avuto un contenimento fisico, ma sono mancate anche quelle reti di piccole città nell'intorno che hanno 26


condizionato le dinamiche espansive di città come Napoli e Milano. E non aveva neppure impedimenti produttivi, perché c'era solo la pastorizia, non c'erano insediamenti industriali. Questo grande vuoto ha favorito la speculazione, poiché la materia prima del suolo era praticamente infinita. Da qui discendono le costanti della storia urbanistica romana a cui faceva riferimento Fiorella Mignella Calvosa. C'è uno stretto rapporto tra lo squilibrio con l'area regionale e la debolezza della città ottocentesca, e fu proprio Italo Insolera, con il suo capolavoro Roma Moderna, a spiegarlo a quelli della mia generazione. Per questo è stato per me un grande onore tornare a riflettere su questi temi proprio in un libro scritto insieme con il mio maestro. Un altro contributo molto importante per la genealogia della periferia romana venne poi all'inizio degli anni ottanta dalla Scuola di geografia urbana francese, con la pubblicazione del libro della Seronde-Babonaux. L'analisi della studiosa francese arricchì l'approccio territoriale con uno sguardo interdisciplinare verso gli aspetti demografici, sociali, e produttivi. E stato, inoltre, molto importante anche il libro della sua allieva, Colette Vailat, che è forse uno dei lavori più importanti sull'abusivismo romano, un libro che dovrebbe essere tradotto e pubblicato in Italia. La Vailat pone in evidenza il rapporto perverso tra abusivismo e pianificazione, in cui il primo faceva da testa d'ariete aprendo la strada al consumo di nuovi territori, mentre la seconda seguiva l'espansione prendendo atto delle nuove localizzazioni e aggiungendovi l'edilizia legale, fino alla nuova ondata abusiva che rompeva i confini e replicava il processo. Questa dialettica tra piano e antipiano ha segnato tutta l'espansione novecentesca ed ha conferito alla periferia romana quel tipico carattere granulare a bassa densità che è all'origine della sua debolezza strutturale, soprattutto nei trasporti pubblici. L'espansione è oggi arrivata a interessare gran parte dell'area regionale. Roma esporta la sua periferia nel territorio laziale. Durante il nostro quindicennio non siamo riusciti a mettere in discussione questa logica espansiva a bassa densità. E' doloroso riconoscerlo, almeno dovrebbe suscitare un ripensamento dell'urbanistica romana, ma non vedo in giro la disponibilità a farlo. Eppure, bisognerebbe analizzare che cos'è diventata oggi realmente la periferia romana, aggiornando quella tradizione di studi che in passato ha offerto chiavi di lettura penetranti. Servirebbero anche nuovi strumenti di analisi, come l'assunzione del punto di vista delfleneur periurbano, qui proposto da Romito. L'unico elemento strutturante di questa galassia periferica è il Grande Raccordo Anulare e da qui dovrebbe partire un'analisi realistica del sistema urbano. Ciò che i pianificatori nel 1962 avevano pensato di realizzare sull'asse attrezzato tramite un nuovo disegno della città, si è di fatto compiuto tramite l'abusivismo nella paccottiglia edilizia abbarbicata intorno al Raccordo anulare. I mezzi di trasporto come li conosciamo oggi (tram, ferrovia, metropolitana) non sono in grado, presi separatamente, di organizzare questa nebulosa periferica. Soluzioni utili potrebbero venire invece dalla nuova tecnologia del tram-treno che consente di integrare nello stesso mezzo le modalità del treno e del tram e di servire in modo flessibile le diverse densità dei territori slabbrati della periferia, determinando in tal 27


modo una terapia della frammentazione. Con Insolera rimanemmo incuriositi nel vedere la prima realizzazione del tram-treno a Karlsruhe e proponemmo ai ferrovieri italiani di studiarne l'applicazione al caso romano, ma ci risposero che era una tecnologia senza futuro. Pochi anni fa a Parigi hanno realizzato una grande esposizione dei mezzi di trasporto che hanno segnato la storia di Francia e alla fine hanno collocato il mezzo del futuro, era appunto il tram-treno. Infine, il punto teorico più discusso del nostro libro è la contrapposizione tra accessibilità e mobilità. Ha ragione Luigi Mazza nel cogliere nel mio approccio un certo carattere polemico; uso però questa parola non in senso spregiativo, ma secondo l'etimo greco polemos, che indica il conflitto in cui i contendenti si definiscono come tali. Accessibilità e mobilità acquisiscono i rispettivi significati solo quando le pensiamo in contrasto tra loro. Privilegiare la prima poi significa una cosa molto semplice: mettere l'accento sul fine, piuttosto che sul mezzo dello spostamento. L'automobile esaspera il mezzo a discapito del fine. Tanto è vero che oltre una certa soglia si crea l'ingorgo e non è più in grado di assicurare il fine. Il tram invece organizza la città in modo tale che diventi accessibile. Oui il libro è incompiuto, nel senso che avverto la necessità di andare oltre: ci vorrebbe una teoria organica dell'accessibilità. Non soltanto a livello tecnico di pianificazione come integrazione di discipline, anche se già sarebbe molto. Nella mia esperienza di assessore ricevevo dai tecnici quasi sempre un progetto di mobilità, quasi mai di accessibilità. Soprattutto in Italia si è creata una voragine tra l'ingegnere che progetta un'infrastruttura e l'urbanista che dice di progettare una città prescindendo dalle infrastrutture. Eppure, oggi i trasporti sono forse l'ultima matita a disposizione per progettare la città nel suo insieme, poiché modellando i flussi si può regolare il sistema urbano. Ma l'accessibilità non è solo una questione tecnica, riguarda le relazioni umane nello spazio, che poi è il problema che mi interessa di più, come ha ben colto Luigi Mazza. Per questo chiedo aiuto alla migliore sociologia del fenomeno metropolitano, quella elaborata da Georg Simmel, che offre una descrizione più generale e astratta del muoversi in città. Egli instaura una sorta di dialettica tra l'aspirazione all'illimitato e la potenza equivalente da cui scaturisce l'integrazione delle forze ovvero la relazione spaziale dotata di senso. La città nasce quando l'aspirazione all'illimitato del nomadismo viene contenuta nelle mura, quando cioè l'istituzione del confine, lungi dal costituire una mera limitazione, conferisce un plusvalore alle relazioni umane nello spazio. In fondo la città dell'automobile è un'aspirazione all'illimitato che non ha trovato un contenimento e proprio ciò ha prodotto una periferia senza senso. E questo impoverimento raggiunge la massima intensità nel moderno sprawl metropolitano. Simmel parla di accessibilità citando la parola francese rendez vous che significa allo stesso tempo sia il luogo dell'incontro sia la relazione tra le persone. Penso sempre a questa citazione quando verifico la difficoltà di dare un appuntamento in certe zone della periferia romana. In particolare, c'è un quartiere a me molto ostico ed è quello


del Laurentino 38, organizzato tramite un lungo anello che passa sotto i ponti. L'appuntamento è sostanzialmente un calcolo - "ci vediamo al settimo ponte" - invece che il nome di un luogo. Basta perdere il conto per mancare l'appuntamento. Sarà per questo che mi assilla il tema dell'accessibilità. Mi è stato rimproverato un amore spropositato verso il tram. E vero, ma devo confessare che il tram è un pretesto per dire altre cose. D'altronde, sul piano metodologico penso sia utile estremizzare i concetti per metterli alla prova e costringerli a sprigionare significati nascosti. Così l'enfasi sul tram in realtà rappresenta un inno alla città compatta e continua che abbiamo perduto nell'insensato sprawl. Certo, si tratta di una malattia internazionale, ma mi preoccupa la sua applicazione al delicato impianto ur banistico romano, nel quale produce effetti devastanti. Il tram serve a elaborare una critica di questo processo e se possibile ad individuare un'alternativa: una terapia del diradamento urbano fondata sulla connessione tra pianificazione trasportistica e ur banistica, secondo l'approccio qui proposto da Dematteis. L'accentuazione teorica del tram nasce anche dalla considerazione che tutto ciò non si è mai fatto in Italia e meno che mai a Roma. La mia è un'estremizzazione, quindi, che nasce dalla penuria di approcci simili. Una sorta di teoria della miseria. E talmente forte la miseria di quest'approccio che occorre portarlo all'esasperazione, almeno nel fare teoria. Infine il tram è anche un pretesto per raccontare limiti ed errori della nostra esperienza di governo, a cominciare dai miei. Credo sia essenziale partire da questa riflessione critica per il centrosinistra romano, finché non lo farà non sarà in grado di contrastare realmente la destra che senza particolari meriti si è insediata in Campidoglio. Intanto, i problemi della città tendono ad aggravarsi. Laddove si registrano difetti delle nostre amministrazioni, oggi rischiano di crearsi delle vere e proprie voragini. Non bisogna smettere di studiare la complessità di Roma, anzi si deve tornare a immaginare nuove politiche per il suo futuro. Torneranno utili quando vi saranno condizioni politiche favorevoli. In ogni caso il progetto per Roma non potrà mai essere una fuga in avanti, ma dovrà fare i conti con che cosa è diventata realmente la capitale, immaginando un modo intelligente di tirare fuori il bene dal male, ex ma/o bonum, come insegnava il grande Borromini. E forse a lui sarebbe piaciuto il tram, proprio perché è una tecnologia in grado di accettare la città esistente e allo stesso tempo di farla più bella.

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queste istituzioni n. 154 luglio-settembre 2009

ilossior

cultura, politiche e prai del trasferimento tecnologico. Tra ricerca e finanza

I

130 e 31ottobre 2008, presso il Collegio "Carlo Alberto" di IVioncalieri, si è tenuto il Workshop internazionale promosso da/Consiglio italiano per le Scienze Sociali sul tema dei rapporti trafinanza e l'innovazione tecnologica (in particolare, su unaforma dell'innovazione, che è quella del trasferimento tecnologico), dal titolo - volutamente provocatorio - 'Money push vs. deal puil". Il Workshopfa seguito a quello organizzato nel 2007 sempre a Moncalieri e di cui è riportata un'ampia sintesi degli interventi nel n. 149 di queste istituzioni. I due Workshop fanno parte di un più ampio 'programma speciale" di iniziative del Css denominato 'Industria, Società dei servizi ed Economia della conoscenza" condotto con il contributo della Compagnia di San Paolo. Ha preso parte al Workshop un'ampia varietà di "addetti ai lavori": uomini dellafinanza (seed e venture capital,finanziarie regionali, istituti di credito e di garanzia), accademici e ricercatori, imprenditori, scienziati sociali, professionisti, dirigenti della pubblica amministrazione, soggetti della società civile - inprimis lefondazioni —per presentare ed approfondire esperienze di lavoro concrete ed in fase di sviluppo. La focalizzazione del workshop sugli aspetti e strumenti più prettamente finanziari, in particolare, ha avuto l'obiettivo spec,fico difare i/punto sull'importanza del ruolo deifondi di seed e venture capital ma,più che altro, di investire in "cultura"per poter introdurre ed applicare tali strumenti in modo adeguato. Di qui il commento ad esperienze di organismi per l'accelerazione del trasferimento tecnologico - iniziative per lo più sperimentali, in Italia,più avanzate all'estero - di cui si è evidenziata la logica nuova e la sostenibilità dell'approccio. Pur con le precauzioni che sono d'obbligo nel valutare esperienze di contesti e Paesi dffi'renti dal nostro. Partendo da questi spunti, sono stati analizzati criticamente elementi cruciali che stanno alla base deiprocessi di trasformazione e condivisione della conoscenza scientifica e tecnologica tra ri cerca, impresa efinanza, sia in chiave di prassi e di esperienze che di policy. Il discorso ha affrontato poi problematiche più ampie: la natura dei rapporti tra i diversi soggetti dell'environment innovazione, quale maturazione culturale è auspicabile in termini di "senso" e semantica. 31


Le sessioni di lavoro sono state cinque. Investimenti pubblici e organismi di promozione internazionale della ricerca e del trasferimento tecnologico (attraverso contributi di rappresentati de/Settimo Programma Quadro, dellAutorità del "Programma GALIiEo", dell'EM e del CERN); Le fondazioni per la ricerca (con contributi della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia, Cariplo e Telethon); Organismi privati per la ricerca e progettidi trasferimento tecnologico (il caso di Next - Tecnotessile); Organismi di accelerazione del trasferimento tecnologico: esperienze nazionali ed internazionali (l'esperienze dell'Università di Oxford, del Karolinska Institute e del modello dipublicprivatepartnershij' in UK); Esperienze di seed e venture capita/ed altri strumenti della "filiera del finanziamento" dell'innovazione in Italia. Ha concluso i lavori una tavola rotonda in termini di piano di lavoro del Css per il fl.ituro.

Il 7ìlo rosso" delle varie sessioni del workshop è dato da alcune convinzioni. le risorsefinanziarie (private, in particolare, i capitali di rischio) sono certamente i principali fattori abilitativi del trasferimento. Tuttavia si è messo in risalto che l'innovazione (ed il trasferimento tecnologico, che è la via per l'innovazione che nel workshop è stata approfondita) non può essere - come slogan Ufl p0 ' troppo semplicistici tendono a mettere in risalto - solo questione di un'ampia base dati di conoscenze o di disponibilità di risorse finanziarie, ma anche e soprattutto dipartnership, di relazioni e di "ecosistema". Oltre che di osmosi con il mercato. IViercato, dunque, efinanza, per trasformare il "sapere" (la conoscenza) in otere" (innovazione), non sono componenti di un processo lineare, di unafiliera in cuifasi e soggetti sono disposti/inearmente e conseguenzialmente, ma parti di un tutto, protagonisti attivi, nodi centrali di una rete che si sviluppa e prendeforma, senza percorsi necessariamente prestabiliti. Non sono mancati approfondimenti di tipo più tecnico, in particolare dell'elementoflnanza: ne è emerso che i tempifisiologicamente lunghi (10-15 anni) e non comprimibili dei processi di trasferimento tecnologico si scontrano con gli interessi dei soggetti privati (soprattuttofinanziatori e imprese) interessati a giungere celermente alla valorizzazione commerciale del trasferimento. Di conseguenza, tali soggetti tendono ad evitare l'assunzione di rischi connessi aprocessi lunghi ed incerti. Di qui l'importanza di considerare adeguate coperture assicurative e di mitigazione dei rischi. Altrettanto importante è il ruolo de/grande credito che va approfondito e meglio inquadrato in un 'era di evoluzione del mercato industriale di rfèrimento. Un'avvertenzafìnale. quelli che seguono non sono, in senso stretto, gli "atti" del Colloquio ma una rielaborazione degli interventi a cura di Fabio Biscotti. Non si è seguito pedisse quamente l'ordine dei medesimi interventi, Alcuni sono stati opportunamente integrati. Altri, invece, non sono stati riportati in tutto od in parte. Tra questi vi è quello di Lorenzo De Michieli della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia che sta muovendo - sebbene a gran ritmo i suoi primipassi in merito allo sviluppo ed al rafforza men to dellaflrnzione "technology transfer". Di tale esperienza rileva la forte specializzazione della ricerca in aree tecnologiche di punta (quale la robotica, le nanotechh e le botech) e la spiccata internazionalizzazione e l'approccio 'istemico" con cui 1117' intende affrontare la sfida del trasferimento tecnologico. cioè un apprestamento di una completa gamma di attività (servizi di valutazione epiccolifinanziamenti) per curare tutti gli step del trasferimento (dallo scouting alprimo approdo sul mercato) eper valorizzare la ricerca in ogni sua forma: dalla cessione del brevetto, alla costituzione di una start-up, alla collaborazione con soggetti terzi ed avvio di piattaforme tecnologi che. 32


queste istituzioni n. 154 luglio-settembre 2009

I - Iticerca e innovazione attraverso il trasferimento tecnologico 14acro programmi e micro esperienze Marco Pascucci

SETTIMO PROGRAMMA QUADRO: RICERCA NON SIGNIFICA NECESSARIAMENTE IN NOVAZIONE I temi di cui parliamo oggi sono molto attuali e discussi ma penso che l'impostazione di questo workshop offra delle caratteristiche di novità. Parlerò del Settimo Programma Quadro dell'Unione Europea in materia di attività di ricerca e sviluppo tecnologico e del suo rapporto con il trasferimento tecnologico e l'innovazione. Inizio il mio intervento con una dichiarazione: ricerca non è innovazione. In sintesi, la ricerca è uno strumento, l'innovazione è un risultato. La ricerca è un costo (anche se può essere patrimonializzata da chi la produce), l'innovazione è un ricavo, se traslata all'interno dei prodotti. Ricerca e innovazione sono senz'altro due cose diverse e si può fare ricerca senza fare innovazione. Questa distinzione è alla base del mio intervento sul Settimo Programma Quadro. Definizioni e dimensioni. Sul Settimo Programma Quadro vi è moltissima documentazione e proprio per questo la mia presentazione sarà breve. Comincio da qualche dato: il budget totale è di 53,1 miliardi di euro, un aumento del 63% effettivo rispetto al Sesto Programma Quadro. E suddiviso in quattro principali blocchi di ricerca o programmi: a) Cooperazione (32 miliardi di euro); b) Persone (4,3 miliardi); c) Capacità (4 miliardi); d) Idee (7,5 miliardi). Vi è poi l'Euratom (2,75 miliardi di euro) ed il Joint Research Center (1,75 miliardi). Il programma "Idee" finanzia, sostanzialmente, borse di studio finalizzate a trattenere ed attrarre ricercatori ooperanti in settori emergenti. Fìnanzia, altresì, attività dell'European Research Coun cii. Il Programma "Persone" finanzia lo sviluppo professionale del ricercatore tramite le reti "Marie Curie", ed è finalizzato a trasformare il mercato del lavoro europeo della ricerca, a favorire l'internazionalizzazione della ricerca, a compensare la "ftiga dei cervelli", ad incentivare la mobilità degli scienziati. Il Programma "Capacità" ha come obiettivo l'ottimizzazione delle infrastrutture di ricerca, il rafforzamento delle capacità innovative delle Piccole e Medie Imprese, l'av33


vicinamento tra scienza e società e altri programmi specifici. Punta anche al rafforzamento delle cd. "Regioni della convergenza" (quelle meno o "sotto sviluppate"). Solo per il segmento "infrastrutture di ricerca" sono stanziati 1,8 miliardi di euro (di cui 1,3 destinati alle PMI). Il programma "Euratom" si pone l'obiettivo di studiare la tecnologia di fusione nucleare, per generare energia senza produrre le radiazioni derivanti dalla fissione delle tradizionali centrali nucleari. IlJoint Research Center (JRc) si occupa di varie altre cose: la prosperità, la solidarietà, la gestione responsabile delle risorse, la sicurezza e la libertà, la sicurezza globale e la cooperazione allo sviluppo. Il JRc riceve anche 500 milioni di euro per applicare questi studi al problema dei rifiuti. E senza dubbio un tema rilevante considerata la tendenza ad investire, nel mondo, nel nucleare a fissione. Parlerò più avanti del Programma "Cooperazione". Il Settimo Programma Quadro è diviso anche in 10 aree tematiche: spazio, sicurezza, salute, prodotti alimentari, biotech, ICT, nano-tecnologie, energia e ambiente, trasporto, scienze socio economiche ed umanistiche. L'area tematica con maggiori risorse finanziarie è l'IcT (con 9 miliardi di euro), al secondo posto la salute (6 miliardi), il trasporto (4), le nanotecnologie (3,5), l'energia (2,3). Se si pensa che quest'ultimo tema sia praticamente quello primario dell'economia mondiale, sui può dire che non siano moltissime risorse. Poco è allocato per il settore spazio (1,43) e agli altri settori. Vincoli e limiti de/Programma Quadro. Se, da un lato, il Programma Quadro appare ed è uno strumento fondamentale perché stanzia tantissimi soldi, non sempre le logiche di allocazione ed attribuzione sono funzionali alle esigenze che cerca di soddisfare. Nell'ambito del settore Spazio di cui sono responsabile, ad esempio, è stata presentata una proposta di finanziamento di 70 partner di 20 Paesi diversi, tra cui alcuni dell'ex Unione Sovietica. Mi chiedo come si faccia con proposte di questo tipo a raggiungere risultati che generino innovazione da portare sul mercato. E praticamente impossibile. L'Unione Europea, di fatto, favorisce la produzione di attività di ricerca che non può arrivare al mercato per via della modalità e dei requisiti richiesti ai consorzi proponenti (viene premiata l'ampia collaborazione tra soggetti proponenti, che spesso degenera in raggruppamenti eccessivamente affollati). Riguardo il settore Spazio v'è da sottolineare un altro problema di tipo amministrativo: dopo il bando 2007 è stato emanato un secondo bando nel 2008, ma non sono ancora stati assegnati i contratti. Cè un ritardo di oltre un anno e mezzo che è inconciiabile con le esigenze delle imprese proponenti. A/di là dei "lacci e /acciuo/i"quali prospettive? La mia presentazione, però, non vuole essere una mera descrizione dei finanziamenti e procedure del Settimo Programma Quadro ma esprimere considerazioni critiche su come talifinanziamenti siano stati identficati e ripartiti. Prendiamo, ad esempio, il Programma "Cooperazione" (il più importante in termini finanziari) che è quello nell'ambito del quale vengono finanziati progetti per lo sviluppo 34


delle nuove tecnologie e condotta la ricerca di base. Se è vero che questi finanziamenti dovrebbero essere utilizzati per nuovi prodotti e servizi, c'è da rilevare però che gli effetti sono sottoposti a leggi prestabilite, come, ad esempio, la proporzione standard ("1-1010cl') dei costi delle fasi tipiche di un processo di innovazione tecnologica ("prototipo", "industrializzazione", "commercializzazione"). Questa proporzione, ammesso che sia verificabile per i prodotti derivanti dal Programma Quadro (è sicuramente vera per il mercato di largo consumo) automaticamente ci dice quanto, alla fine, i finanziamenti del Programma "Cooperazione" siano relativamente pochi se da essi ci si attende di arrivare a generare innovazione sul mercato. Alcuni anni fa, l'Unione Europea, commissionò una ricerca che diede risaltati interessanti: il ritorno sull'investimento dei finanziamenti comunitari era inferiore ad 1. Significa che i soldi necessari per implementare le fasi ulteriori ai fini dell'innovazione (industrializzazione e commercializzazione) delle ricerche finanziate in ambito comunitario non vengono reperiti e spesi. Riferendomi alla citata differenza che passa tra ricerca e innovazione, inoltre, ho contato le volte in cui, nel documento ufficiale del Settimo Programma Quadro, è citata la parola "ricerca" (intesa come attivià di ricerca e non centri di ricerca) e la parola "innovazione". Ecco i risaltati: "ricerca" compare 177 volte, "innovazione", 16 volte. La parola "innovazione", nel settore "Spazio", è citata zero volte. Non è mai citata nella "Salute", mai nel settore "Alimentare", solo 3 volte nel settore "Ici', 3 nel settore delle "Nanotecnologie", mai nel settore Ambiente", mai in quello dei "Trasporti", mai nel settore dell"Energia", una volta nel settore delle "Scienze socio-economiche", mai nelle "Infrastrutture di ricerca", mai nel "Sostegno allo sviluppo sostenibile", mai nel settore della "Cooperazione internazionale". Chi ha avuto il "punteggio massimo", è stato il tema delle "Piccole e Mèdie Imprese", con 5 citazioni della parola innovazione. Inoltre, se si somma - all'interno dello stesso documento - la parola ricerca alla parola innovazione, le PMI hanno avuto il massimo dell'attenzione. Se le parole rispettano la volontà degli estensori del documento e, quindi, delle finalità del Programma, ciò significa che il Settimo Programma Quadro non è finalizzato a sollecitare innovazione ma solo ricerca. E quella poca innovazione che viene ammessa è demandata alle PMI. Come a dire, la vera innovazione la devono fare le PMI. "Piccolo è bello". Di solito questa frase la dicono le grandi imprese. Ben poche volte le piccole. Per concludere. Sono convinto che il trasferimento tecnologico sia il modo più semplice, efficace ed economico, e tutto sommato veloce per fare innovazione (di processo, di prodotto ed, in generale, nel mercato). Faccio l'esempio del materasso "Tempur", un materasso fatto di un materiale sviluppato dalla NASA molti anni fa per preservare la salute degli astronauti durante le prove di accelerazione centrifliga. Anni dopo la produzione e l'uso di tale materiale in campo spaziale, un imprenditore cominciò a produrre un materasso con lo stesso materiale della NASA. No so quanto abbia speso l'imprenditore per l'ingegnerizzazione del prodotto, ma credo molto poco in relazione 35


ai costi di ricerca che avrebbe dovuto sostenere se quel materiale non l'avesse già inventato la NASA. Oggi nessun'altra impresa vende quel tipo di materasso che ha un materiale innovativo la cui ricerca è costata praticamente zero. Sulla base dell'importanza che, secondo me, ha il trasferimento tecnologico, ho cercato quante volte l'espressione trasferimento tecnologico è contenuta all'interno del documento ufficiale del Settimo Programma Quadro. Risultato: zero volte. Nell'ambito del Settimo Programma Quadro (53 miliardi di euro) non sembra sia possibile proporre un progetto per realizzare un'iniziativa di trasferimento tecnologico. Se la priorità, dunque, è la produzione di nuove conoscenze occorre però sapere anche metterle a supporto dell'innovazione. Ciò è ancora un problema irrisolto.

Claudio Parrinello IL CERN: RICERCA SUL BIG BANG, CREAZIONE DI TECNOLOGIE SOFISTICATE, TRASFERIMENTO TECNOLOGICO Arr'RAVERSO IL NETWORK DEGLI 'ALUNNI"

Il CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) è uno dei maggiori programmi di ricerca di rilievo mondiale. Produce molteplici nuove tecnologie. Oggi si pone il tema di una strategia del trasferimento tecnologico legata alle peculiarità del CERN. Di questo mi occuperò. Innanzitutto cosa è il CERN. Nasce poco più di 50 anni fa come laboratorio per la fisica mondiale. Da spin-offdell'Unesco a laboratorio per la ricerca fondamentale tout court, è un'organizzazione internazionale con uno status comparabile a quello dell'ONu. Rappresentata da 20 Paesi (principalmente dell'Unione Europea), può essere considerata una vera e propria comunità di circa 12 mila persone tra cui dipendenti che utilizzano i laboratori per la ricerca del CERN (3 mila circa) ed "altri utilizzatori" delle infrastrutture messe a disposizione di tutta la ricerca mondiale. Questa apertura crea una dinamica di ricerca, sviluppo, ma anche formazione e centinaia di studenti l'anno svolgono la loro tesi presso di noi. Il CERN ha pressochè completato un grande progetto sperimentale di durata pluriennale: il "Grande co/usare adronico". Si tratta della più grande macchina per fare ricerca mai costruita dall'uomo, un tunnel di 100 metri sotto il suolo e di 27 km di circonferenza. Un gigantesco "autoscontro" al cui interno collidono due fasci di protoni che viaggiano in direzione contraria, ed il cui impatto produce frammenti di particelle. Tutto ciò allo scopo di rispondere alle domande fondamentali sull'universo che l'uomo si pone come, ad esempio, la questione del "Big bang" e della creazione dell'universo. Ci sono, infatti, due "Santi Graal" della fisica contemporanea: il bosone di Hix, la cosiddetta "particella di dio" e le particelle sub-sub metriche, la "materia oscura", quella che ha dato origine all'universo, che contiene tantissime sostanze, che non riusciamo neanche a vedere, da quelle infinitamente grandi a quelle infinitamente piccole che sono tra loro legate. Paradossalmente, siamo costretti a "spaccare" le particelle più piccole per osservare e comprendere l'universo. Il collisore è dunque un "anello" dove av36


vengono le collisioni registrate da quattro "macchine fotografiche". Tutto ciò è caratterizzato da tecnologie all'avanguardia, principalmente sviluppate in quattro aree: - la criogenia: la scienza grazie alla quale il CERN riesce a produrre temperature di 1,9 gradi Kelvin, una temperatura più fredda di quella dell'universo; - il sottovuoto: le tecnologie del CERN sono atte a produrre un vuoto dieci volte maggiore di quello intorno alla luna; - i magneti superconduttori: per imprigionare le particelle e fargli fare la traiettoria richiesta occorrono dei magneti in grado di operare a correnti elevatissime (si chiamano, infatti, superconduttori) che producono 10 Tesla di campo magnetico e sono in grado di operare a 13.000 ampere di corrente. Si tratta di numeri elevatissimi. - i rilevatori delle quattro gigantesche "macchine fotografiche", in grado di scattare 600 milioni di foto al secondo, sceglierne un centinaio in tempo reale e salvarle. Si tratta di una tecnologia elettronica ultraveloce di acquisizione foto di un gigabyte, equivalenti a 10 milioni di giga byte l'anno, 1.000 volte la produzione annua dei libri del mondo. Potenzialità di trasferimento tecnologico. Il CERN è un bacino di ricerca enorme e credo che tutti sappiano che il World Wide Web è stato inventato nei nostri laboratori. Come evoluzione del Web, al CERN si sta ora lavorando alla tecnologia Grid ("griglia") 1 consistente in un protocollo che permette l'accesso e l'utilizzo di una rete ampia di computer per sfruttarne le capacità di calcolo. E un'idea molto innovativa che ovviamente può applicarsi in mercati molto lontani dal "core business" del CERN. Il Grid, come il Web, non è certo un esempio di "trasferimento tecnologico" ma dà un'idea delle potenzialità innovative che risiedono al CERN. Volendo invece parlare di trasferimento tecnologico, si può dire che gli sbocchi applicativi della ricerca del CERN hanno due mercati chiave: a) la medicina, in particolare, la terapia oncologica e b) l'energia, in particolare, le energie rinnovabili e la generazione ed il trattamento di scorie nucleari. Naturalmente i risultati della ricerca non sono immediatamente applicabili ma è verso questi settori che si indirizzano le iniziative di promozione del trasferimento tecnologico. Nel campo medico, si fa riferimento al contributo del CERN allo sviluppo dell'adroterapia: una terapia all'avanguardia nel settore medico che è finalizzata alla cura di determinati tipi di tumore molto difficili da trattare per via della loro posizione sfavorevole (quelli, ad esempio, situati alla base del cervello). La tradizionale terapia mediante raggi X (fotoni ad alta energia o ioni di carbonio), per questi tumori, può causare molti danni collaterali. E stato scoperto che, invece di utilizzare il fascio di fotoni, si possono usare i protoni (la "materia prima" del CERN) che permettono di localizzare ed indirizzare meglio l'energia utilizzata. Il CERN, con un consorzio europeo (formato, tra l'altro dalla "Fondazione Tera di Novara"), è stato uno dei soggetti principali nell'avviare questa ricerca applicata in campo medico che sta contribuendo all'istituzione di un centro nazionale di adroterapia da completare entro il prossimo anno. Inoltre il CERN, sviluppando la tecnologia delle immagini e delle "fotografie delle particelle", contribuisce, di fatto, a migliorare il campo della diagnostica medica e della 37


radiografia. Una delle prospettive più interessanti è quella di utilizzare materiali radioattivi con funzione tracciante per evidenziare differenziazioni spontanee dei tessuti trattati. Grazie alla rilevazione di queste particelle, si possono dunque fare delle "foto" più raffinate delle tradizionali radiografie, ad altissima risoluzione, di tratti particolari del cervello. Da questa tecnologia sta nascendo una spin-off basata sulle tecnologie dei rivelatori. Nel settore energetico sono molte le tecnologie su cui il CErN può fare affidamento ai fini del trasferimento tecnologico. Vi sono, ad esempio, le tecnologie dell'ultravuoto da utilizzare per l'isolamento termico (sono molte le attività, anche di carattere industriale, che è più efficiente realizzare con il sottovuoto). Recentemente, ad esempio, è stato notato che, nella produzione, di pannelli solari, il vuoto spinto (se si riesce a mantenere nel tempo) può trasformare in maniera efficiente la radiazione solare in calore perché il pannello può raggiungere temperature elevate a causa della mancanza di dispersione del gas che si trova normalmente nelle intercapedini dei pannelli tradizionali. Il CERN ha depositato un brevetto sui pannelli solari ad altissimo rendimento che ha ceduto ad alcune aziende. Vi è, poi, un progetto embrionale di innovazione nel campo dell'energia nucleare che si sta discutendo in seno al CERN nato, tra l'altro, da un'idea di Carlo Rubbia. Questo il senso del progetto: una centrale nucleare tradizionale a fissione presenta due problemi: a) è una macchina "in discesa", ossia funziona grazie ad una reazione che deve continuamente essere "frenata" per non perdere il controllo; b) la centrale, bruciando il suo combustibile, produce scorie che in parte rimangono radioattive per tempi lunghissimi. Con tutti i conseguenti problemi di stoccaggio. L'idea di Rubbia porta ad una innovativa concezione di centrale nucleare a fissione (in attesa di produrre centrali a fusione) caratterizzata dal fatto che la reazione, se non viene stimolata da un impulso esterno (in questo caso, quel fascio di protoni su cui il CERN è abituato a far esperimenti) si ferma. Ciò la rende molto sicura (la probabilità di incidenti è molto bassa). Permette, inoltre, di usare come carburante degli isotopi meno rari e meno costosi ed il reattore può usare come combustibile dei materiali, anche pericolosi, prodotti dalle tradizionali centrali, contribuendo alla loro trasformazione e distruzione. Sarebbe, in pratica, una sorta di inceneritore che andrebbe a risolvere parte del problema delle scorie. Un progetto ad impatto altissimo. La fusione nucleare sarà una tecnologia stupenda, ma che arriverà tra molti anni, dopo molta ricerca, innovazione, che dovrà rispondere a problemi aperti anche se con un ritorno potenziale altissimo. Questo, invece, è un modo intelligente di usare subito la ricerca e le tecnologie che già esistono ed il CERN possiede il know how e le infrastrutture per realizzare il prototipo. E dunque possibile un "trasferimento tecnologico" anche in questo campo. Il CERN, di fatto, è il crocevia di praticamente tutti i fisici delle particelle del mondo. In questo senso il CERN è un vero e proprio hub di ricercatori (tra questi ci sono, ad esempio, il Ministro della Scienza del Portogallo che ha inaugurato l'acceleratore, l'inventore del Web e molte altre persone che ricoprono posizioni di rilievo in aziende


multinazionali). Ne segue che l'idea che sta alla base della strategia di promozione del trasferimento tecnologico del CERN è quella di capitalizzare e valorizzare questa confraternita mondiale di ex ricercatori del CERN. Lo schema d azione che il CERN intende promuovere è dunque quello degli Alunni del CERN, ex allievi, anche se il CERN non è un'università, una sorta di comunità federale. Agli "ex alunni" del CERN (circa 9.000 persone) offriamo già una newsletterer, informazioni sulle nuove tecnologie e servizi diversi: ad esempio, vi è un database degli alunni, che si sta rivelando utile al fine di un recruiting di personale presso le aziende interessate, per organizzare eventi di vario genere, e per avviare uno sportello informativo. Per organizzare meglio tale leva potenziale di "trasferimento tecnologico" si sta costruendo un database di curricula di personale che transita per il CERN e si stanno stimolando le aziende ad accedere a tale database. Nella convinzione che l'unico modo per intercettare i mercati non tipici sia quello di utilizzare gli ex ricercatori CERN che lavorino già in quei mercati. Essi sono, a tutti gli effetti, il "partner ideale" per l'applicazione di quelle tecnologie che hanno contribuito a creare. Un capitolo a parte è quello dei rapporti traCERN ed imprese mediante cui si esplica una modalità importante di trasferimento tecnologico. Il CERN ha una tradizione di rapporti frammentati con le aziende con cui collabora (in genere, ogni dipartimento del CERN non condivide informazioni con gli altri dipartimenti) e, per il momento, si può dire che c'è una forte volontà di cambiare l'approccio per favorire il "trasferimento tecnologico". Vi è poi un altro elemento aggiuntivo da mettere in rilievo: il CERN ha un capitale di idee e progetti potenziali di gran lunga superiore ai propri mezzi finanziari. Non ha sicuramente una tradizione di valorizzazione della ricerca, di sollecitazione del mercato e di collaborazione con fondi privati di cui pure si sente bisogno. C dunque molto lavoro da fare.

Frank Salzgeber EUROPEAN SPAcE AGENCY: COME UTILIZZARE ANCHE A TERRA LE TECNOLOGIE PER L'ESPLORAZIONE DELLO SPAZIO L'Agenzia Spaziale Europea (ESA) è un'agenzia dell'Unione Europea che collabora con molti centri di ricerca di fama internazionale come, ad esempio, il CERN la cui storia è stata appena illustrata. Vorrei illustrare alcune iniziative dell'ESA ed individuare e commentare alcuni problemi connessi al trasferimento tecnologico promosso dall'Agenzia premettendo che, in ambito ESA, sono stati promossi e realizzati alcuni piccoli ma eccellenti trasferimenti e che, in tutti i casi, abbiamo riscontrato problemi relativi al reperimento di capitali finanziari del trasferimento. L'ESA ha la missione di sviluppare le capacità spaziali europee coordinando le risorse finanziarie e intellettuali dei suoi membri. In questo senso non è propriamente 39


un Ente di ricerca ma gestisce le risorse grazie ad una struttura a matrice, caratterizzata da Direttorati e Programmi, ed una dotazione organica di 1920 unità proveniente da tutti gli Stati membri che include scienziati, tecnici, specialisti informatici e addetti all'amministrazione. Il 90% del suo budget, circa 3 miliardi di euro, è destinato all'industria spaziale europea con cui l'EsA realizza la ricerca e sviluppo; le allocazioni di tali risorse sono effettuate sulla base di programmi scientifici e tecnologici e sulla base del criterio del "ritorno geografico". Tra i programmi da cui nascono spunti per il trasferimento tecnologico vi è, ad esempio, il programma di telecomunicazioni "ARTEs" (nell'ambito del quale vengono utilizzate conoscenze per testare le tecnologie affinché funzionino con sistemi altamente sofisticati di "electron system freezing", "cooling" , " camere e simulazione del vuoto", ecc..). Vi è poi il programma di AIUANE (per la produzione di sistemi di lancio) ed una serie di programmi mediante i quali si studiano gli effetti della permanenza dell'uomo nello spazio (ad esempio, la costruzione dei moduli "Columbus" e la "Stazione Spaziale Internazionale"). Uno degli ambiti di maggiore interscambio tra settore spaziale e non spaziale, infatti, è senz'altro quello medico favorito dallo studio degli effetti della permanenza dell'uomo nello spazio. Gli astronauti, in particolare, sono individui particolarmente esposti a rischi ed a problemi medici in assenza di gravità (un problema tipico è che il cuore pompa troppo sangue alla testa) e, dunque, viene effettuata molta ricerca medica in assenza di gravità. Altra fonte importante di innovazione è quella che deriva dall'esplorazione spaziale: le missioni più estreme, come quelle che hanno permesso all'uomo di raggiungere la Luna prima e che permetteranno di raggiungere Marte poi (la NAsA ha investito 80 miliardi di dollari a tal fine, meno l'Europa) permettono senza dubbio i salti tecnologici più importanti. Tra i vari "Direttorati" dell' EsA, il "Direttorato Tecnologie", in particolare, permette importanti avanzamenti tecnologici nel campo dell"Energy consumption" , del "Remote contro?', della "Sicurezza" e della sua gestione in ambienti pericolosi (ad esempio, in suoli particolarmente sconnessi). A questo punto mi pare importante riallacciarsi alla differenza tra innovazione e ricerca, (che vale anche con riferimento al settore spaziale), per meglio comprendere il fenomeno del "trasferimento tecnologico". Sulla base della sola variabile temporale, l'innovazione è un processo relativamente velòce, mentre la ricerca è un processo lento e paziente. Un esempio di innovazione è l'Ipod. Si tratta certo di un'innovazione di design e di integrazione di sistemi, mentre il trasferimento tecnologico è qualcosa di diverso, è un'azione che richiede sforzi multidiscijilinari. Nel settore spaziale, in particolare, gli ingegneri si spingono generalmente fino alla realizzazione del prototipo di una tecnologia, non fino alla cosiddetta "prova del mercato", specie quella del mass market. Nello spazio, ad esempio, si fa un abbondante uso di alluminio e titanio, materiali scarsamente utilizzati dal mercato di massa, che invece fa un uso abbondante della più economica plastica. Volendo fare alcuni esempi di trasferimento dal settore spaziale non mancano casi interessanti: l'utilizzo di un software usato in campo spaziale per la simulazione delle 40


traiettorie di rientro delle sonde è stato applicato da un'impresa tedesca di confezionamento di patatine per velocizzare le operazioni di packaging. E stato calcolato che l'uso del software ha prodotto un 50% di incremento della velocità di impacchettamento della patatina e che l'azienda, dopo vari anni dall'introduzione di tale innovazione, è ancora sulla frontiera tecnologica rispetto ai suoi concorrenti. Altri casi di trasferimento possono essere citati in settori molto lontani dallo spazio: l'uso di materiali a basso contenuto di alluminio (il 30% in meno) per la produzione di lattine di bibite usati da una ditta giapponese; vi è poi un'importante trasferimento tecnologico nel campo della sicurezza, consistente nella realizzazione di una videocamera in grado di individuare oggetti pericolosi sotto gli abiti delle persone senza emettere raggi X, grazie allo sfruttamento delle conoscenze di osservazione dello spazio profondo; sono state realizzate innovazioni tecnologiche per il controllo delle vibrazioni nel campo delle costruzioni e dei tunnel; sono stati applicati nuovi materiali per la costruzione di protesi artificiali come quelle usate da alcuni atleti che hanno partecipato alle para-olimpiadi. Un caso molto originale è quello che ha visto l'utilizzo di uno strumento di misura della massa muscolare degli astronauti nei processi di controllo di qualità delle carni suine (in questo caso, una società spagnola ha adottato la tecnologia nel proprio processo di produzione). Non mancano esempi di applicazioni delle tecnologie spaziali in campi di utilità sociale: si pensi all'uso del satellite per il controllo del territorio, dello stato delle coltivazioni, del livello delle maree (problema particolarmente sentito in Olanda in cui si sta applicando tale soluzione) ed altri ancora. Vi è poi un caso di trasferimento tecnologico nel campo della navigazione satellitare da cui è nata una start-up che ha ricevuto dei firiariziamenti di venture capital, che utilizza la tecnologia satellitare e speciali algoritmi per far interagire, in tempo reale, in un videogioco, il giocatore con il reale svolgimento di una gara di Formula 1). Le molteplici iniziative dell'ESA per la promozione del trasferimento tecnologico. Per alimentare questo flusso di idee e potenzialità di trasferimento, l'EsA sponsorizza varie iniziative tra cui la "GALILEo Master Competition" da cui transitano circa 500 idee nate nel campo della navigazione satellitare. L'ESA promuove anche iniziative dirette di intermediazione che fanno riferimento al classico schema che si poggia sui tre pilastri "offerente", "ricettore" ed "intermediario". A tal fine promuove le cd. National Technology Tra nsfer Initiatives,joint-ventures di partenariato finalizzate al trasferimento tecnologico. Vi sono esperienze efficaci che si sono avviate, ad esempio, in Olanda ed in Belgio. Non ancora in Italia ed in numerosi altri Paesi. L'ESA si avvale anche di tre centri di incubazione che supportano, ad oggi, 60 p0tenziali start-up, sia in termini finanziari (mediante un contributo di seed) che di know how e di supporti professionali. Il centro di incubazione principale si trova presso l'European Space Research and Technology Center (EsTEC), in Olanda. Gli altri due centri si trovano presso 1'EsRTN, il Centro delle attività per l'osservazione della Terra, a Frascati, che esercita attività di pre-incubazione (e di incubazione tramite il Business 41


Innovation Center - Bic - del Lazio) e presso 1'European Space Operations Centre (Esoc), in Germania. Questi centri cercano di alimentare un dealfiow di progetti di trasferimento tecnologico spaziale che prendano la forma della start-up innovativa. Il caso dei progetti nati in ambito EsA rientrano in quella tipologia di iniziative di trasferimento tecnologico che prendono origine dai grandi programmi di finanziamento pubblico che, in genere, hanno tempi e necessità tutti diversi da quelli di chi vuole fare business. Nella realizzazione di questa attività, l'EsA si scontra infatti ogni giorno con un grande problema che è quello del reperimento delle risorse finanziarie necessarie per dare seguito all'attività di promozione del trasferimento tecnologico avviata in seno agli incubatori, fin dal reperimento del cosiddetto bridgefrnding (ammontante a circa 300 mila euro) per l'early stage della sta rt-up. In molti casi ci si ritiene fortunati se l'imprenditore riesce a raccogliere il cosiddetto "FFF money" (quello raccolto da Family, Friends, and Fools). Ovviamente, molto dipende dai Settori in cui si comincia l'intrapresa: nanotech, biotech, clean energy hanno sicuramente un mercato ampio. Dal punto di vista delle relazioni con il mercato della finanza, l'EsA collabora con l'European Venture CapitalAssociation (EvcA) per cogliere le possibili interconnessioni dei progetti di trasferimento tecnologico e tentare un matching con le società finanziarie, soprattutto per via di iniziative di presentazione e divulgazione dei progetti, tentando dunque di stimolare tale mercato. Esiste, c'è da dire, ancora un problema di dimensioni del mercato europeo del venture capital di tipo early stage, specie del comparto hi-tech, che è composto, di fatto, solamente da 15-18 operatori, che pur investono con una certa regolarità, ma che lamentano, comunque, problemi di accesso al deal flow. Sicuramente diversa è la situazione per altre tipologie di operazioni di private equity (Management Buy Out, Ipo, ecc.) che presenta un mercato più maturo. L'EsA si avvale, inoltre, di una Società di Gestione del Risparmio inglese, E-Synergy Ltd, che gestisce il fondo di venture capita! "Stella Growth Fune!' che l'ESA stessa ha promosso stanziando 5 milioni di euro. Per alimentare e stimolare tale mercato, l'EsA ha attive delle collaborazioni con la "GALILEO Supervisory Authority" e con delle "Nationalplalforms" che seguono le attività di incubazione e di seed capital del trasferimento tecnologico su scala locale. La "piattaforma" olandese, ad esempio, coordina e gestisce attività per 7 milioni di euro (prevalentemente destinate all'incubazione di sta rt-up). Per quanto riguarda l'Italia, c'è da dire che, nonostante la collaborazione con l'Associazione italiana del venture capita! (AIFI), non è stata avviata ancora nessuna iniziativa o piattaforma di trasferimento tecnologico in collegamento con l'ESA. Per dare maggiore impulso a queste iniziative sarebbe opportuna una maggiore integrazione tra vari soggetti a cominciare dall'Agenzia Spaziale Italiana.

Carlo Des Dorides IL PROGRAMMA GALILEO ED IL RITORNO SULL'INVESTIMENTO PUBBLICO Comincio dal fare cenno alla GALILEO SupervisoryAuthority (G5A), un organismo 42


della Commissione Europea creato quando si pensava di realizzare, finanziare e gestire il programma GALILEO in "partenariato pubblico privato". La GsA doveva essere la controparte pubblica del privato nella concessione, di durata ventennale, del sistema di navigazione satellitare. Il "Ppp" è di fatto tramontato ed ora la GsA ha un ruolo ridimensionato rispetto a quello inizialmente previsto, che tuttavia mantiene una notevole importanza soprattutto in merito alle questioni relative alla ricerca e all'aspetto security del sistema. Il baricentro delle decisioni strategiche si è comunque spostato in sede di Commissione Europea. Gli ultimi 12 mesi sono stati importanti per GALILEO. Nel settembre del 2007 si è deciso di non impostare più GALILEO secondo il projectfinancing e di finanziare tutta l'infrastruttura con fondi pubblici (si tratta di 3,4 miliardi di euro). Successivamente, nell'aprile 2008, è stata approvata dal Consiglio la regulation, che è la base giuridica sulla quale il programma GALILEO potrà realizzarsi: oltre alla dotazione finanziaria sono stati definiti i principi sui quali occorrerà provvedere ai procurements per la costruzione del sistema ed alla governance del programma. La gara per la realizzazione del sistema è stata formalmente avviata con notifica sulla Gazzetta Ufficiale dlla Comunità Europea del i luglio. Sono stati identificati sei segmenti: a) spaziale, b) terra, c) controllo, d) missione, e) lanciatori, f) operazioni di ingegneria di sistema. Su un numero cospicuio di partecipanti, ne sono stati selezionati 11 che stanno per iniziare un "dialogo competitivo" (una procedura sostanzialmente nuova anche in ambito comunitario) con la Commissione Europea per arrivare all'assegnazione del contratto - si spera - intorno all'estate dell'anno prossimo. Il sistema dovrebbe essere interamente dispiegato nel 2013, al massimo entro l'inizio del 2014. Nel frattempo, però è stato già compiuto un primo importante passo con l'implementazione di EGNOS, il sistema di augmentation del segnale Gs (il sistema americano che sarà il futuro naturale concorrente di GALILEO). EGNOs fornisce prestazioni supplementari, più accurate e precise, nell'ambito del territorio europeo, rispetto al Gs attuale. Si tratta del secondo sistema al mondo, dopo il WAAs americano (il sistema su cui si basa l'augmentation del Gps, in esercizio da 3-4 anni). EGNOs si sta dimostrando fondamentale per l'aviazione civile ed, in particolare, verrà utilizzato per rendere operativo l'accordo sul "cielo unico europe0 112 entro la fine dell'anno prossimo. GALILEO è un programma molto ambizioso in termini tecnologici; fornirà cinque servizi o segnali: a) un "open signa?'; b) un segnale di "safety oflfe" (per il mondo aeronautico); c) un segnale per il "social rescue" (di tipo bi-direzionale) per individuare la posizione del terminale in situazioni di emergenza; d) dei "public regulated services", mediante un particolare segnale criptato indirizzato alle protezioni civili, alle forze di polizia ed a questo genere di utenza; e) un segnale per "commercial services", un segnale più accurato rispetto all'open signal che può avere funzioni di autenticazione, molto importanti per i servizi a pagamento. Il più importante sistema alternativo a GALILEO è, come detto, il Gps, operativo oramai da parecchi anni. Il GPs è un sistema militare, ha un segnale aperto, non ha il 43


segnale dedicato alla "safety oflfe" e non prevede il "search & rescue" che invece garantirà GALILEO. Ma ci sono anche altri sistemi: il Glonass russo che, dopo aver subito battute di arresto, è tornato ad essere molto ambizioso. Il nuovo Glonass sarà dispiegato entro il 2012-2013. Anche il sistema cinese Compass (conosciuto anche come Beidou-2) è operativo; su di esso, però, non si hanno molte informazioni. GALILEO dovrebbe anticipare il Gs di terza generazione ed essere allineato ad esso in termini di prestazioni. Tra i due sistemi saranno mantenute le differenze attuali: il Gps, ad esempio, non avrà un segnale di tipo commerciale. L'importanza di tale sistema nel settore della localizzazione è fondamentale anche come integrazione di tecnologie esistenti. Attualmente, infatti, non esistono sistemi di localizzazione basati solo su satellite. Oggi essi si basano su Wi-Fi e GSM anche se non offrono copertura globale e non sono accurati come quelli sateffitari. Lo scenario che si intravede per il prossimo futuro è dunque quello dell'integrazione dei diversi sistemi che abbatterà i tempi attualmente necessari per ottenere informazioni di localizzazione. Una domanda che è naturale porsi, riguardo il sistema GALILEO è perché farlo se esiste già un sistema gratuito come il Gps. Più avanti si risponderà alla domanda. Prima, però, è necessario soffermarsi sulla catena del valore dei due sistemi ed, in particolare, di GALILEO. Qual è la catena del valore di GALILEO? Il sistema GALILEo è caratterizzato, innanzitutto, da una forte componente manifatturiera (la costruzione del sistema di 30 satelliti); poi c'è la componente relativa alla fornitura del segnale ed al downstream market. In questa catena del valore, l'upstream market (la componente manifatturiera) vale circa 19 miliardi di euro a livello mondiale, mentre la componente downstream market è di circa cinque volte più grande (circa 100 miliardi di euro). Anche il tasso di crescita dei due segmenti è diverso: l'upstream market è un segmento sostanzialmente maturo (la crescita si attesta intorno al 2-3 % annuo), mentre il downstream market presenta valori di crescita decisamente superiori. Un altro elemento importante dei sistema è il valore del "signalspace" che è cambiato nel tempo: due anni fa, durante la negoziazione della GsA con la parte privata del contratto di concessione di GALILEO, il valore dei ricavi attesi nell'arco dei 20 anni era stimato in circa 9 miliardi di euro in termini reali, di cui circa 5-600 milioni di euro l'anno relativi alla sola vendita del segnale. Allora tali valori erano sicuramente diversi ed inferiori rispetto al downstream market. Ora che è cambiata radicalmente l'impostazione del progetto GALILEO, la parte pubblica deve sicuramente capire l'obiettivo che deve perseguire: massimizzare i ricavi della vendita del segnale o quelli del downstream market? In funzione della risposta bisogna trovare delle soluzioni alternative. E, però, certo che nel segmento downstream vi è una componente di valore maggiore ed è anche in quel segmento che la parte pubblica dovrebbe identificare degli obiettivi. Il trend del downstream market è influenzato da determinate componenti. Quella di maggior valore è rappresentata dai cd. "device manufacturer" (i produttori di termi44


Estimated incremental benefit for Europe stemming from the introduction of Galileo and EGNOS, over the period 2008-2030

Scwce: LE.K an2IvVis

i I I

nali) cherichiedono sempre di più soluzioni flessibili e integrate. I produttori di piattaforme tendono ad inglobare i " chipset suppliers". La posizione dei "device manufacturers", inoltre, è molto forte poiché sono a diretto contatto con i clienti finali. Vi sono poi i " contentprovider" e i " serviceprovider". I "device manufacturer" sono rappresentati principalmente da Nokia e Tom Tom che hanno acquisito, rispettivamente, Navteq e Teleatlas (le due più grandi aziende fornitrici di contenuti di mappe digitali). Come "serviceprovider" e "còmmunicationprovider"vi sono le internet company come Google e Yahoo che sono ben posizionate (anche loro possono vantare un accesso diretto con l'end user). Il tutto è sintetizzato nella figura seguente. I risultati di uno studio fatto all'inizio dell'anno sul valore creato da GALILEO offrono spunti interessanti (si veda i grafici seguenti ed, in particolare, quello di destra).

GNSS

Chipset suppllers

rr0de i

I

comPeutiVa

Very weak ProvisIon 01 FacIIIUes InchidlnO Processing Ooftware/fl,mwarC (0.9. ICS, 0,IpoVtO)

descnpzion

I Main Pia 'ers

\..\\

/7

Platform Content& YZer-vice Dev,ces applications Provlders manufactur e) provuders

& receivers suppliers weak

Pradoctlon al 1tegrated Platfon,.s fo, assembws

strong ASSeflbIy/ PradOCt*ofl 01 6NSS enabied doVIces

.yTraq lodo.., UflOV )4iCrO01.

Tcxea IrS. RWWSaS Tedi. SI Micro., Qualcomin, NXP

P,ovslons 0l RoadIn mtcrlI , Into,n,atlo., al aolue to Che Carget n,arkct (0.9., mopo, toiflo Informarlo..)

Very strong Pronislan 01

vddtflU ,elated to GNSS cemnwnlcatlo,, ProVislen al dIstlbUtion, dllrWy and bIIlnp_serolcea

SerWce providero

Product providers 9RF,U-Bl0lRF MICrO DCV. Global I.010t45 Gloliar 14a,VCII Comm.,

Weak

\

Mobila 05)45, liVida. Motorola snmsung.Sony

Telo Aties, Nasteq, Map Tedi

Mobile 0011,15 A.ln,a,Øellwaro, E.TEN, IOTC

.,lc Software, j,j, GOOI09, Autodisk, AutonavI

FIlO To.,, Toni Gan,.ln, øed,e,, liageiian

MVAS PrOrlder$ Mapq503t, 000910 Nidwork 0pexOtors Vodaloita, T-MobiIa, AT&T, Telefonica

Scorte: LE.K. 0501155

45


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Se si osserva la percentuale di devices di telefonia mobile che hanno una predisposizione per il GlobaiNavigation Satellite System si osserva che la penetrazione nel merFolecasts GNSS enabied mobile phones solO 2011

Forecasts personal navlgatlon devlces sOld 2011

MIiiÌons per yoar

MiiIIons per year

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cato è già più che considerevole: nel 2008, circa 200 milioni di telefoni mobili hanno già la predisposizione per la navigazione satellitare. Nell'arco di tempo di 3 anni si prevede di raddoppiare questo numero. Ritornando alla domanda fatta precedentemente - perché se il GPs è gratuito vi è la necessità di fare un altro sistema? - si deve rispondere che il Gs è gratis solo apparentemente. In realtà, i 200 milioni di terminali Gs americani sono realizzati per oltre la metà all'interno degli USA (dalle aziende di produzione dei chi e delle piattaforme). Ogni chip vale un dollaro e solo in termini di corporate tax il ritorno per gli USA è formidabile. E stato, dunque, un ottimo investimento per l'amministrazione americana. Cosa sta facendo la Commissione Europea per GAULEO? Oggi tutte le attenzioni sono concentrate sul dispiegamento del sistema (ossia la costruzione ed il lancio dei 30 satelliti che ne formeranno la costellazione). In parallelo, sono stati allocati 350 milioni di euro nell'ambito del Settimo Programma Quadro (2007-2013), più del doppio rispetto ai 150 del Sesto Programma Quadro. Una grande attenzione è stata posta sulle applicazioni, sui terminali e sui market enablers ed allo sviluppo del sistema EGN0ss per renderlo operativo entro il 2009. Nel complesso, un grande impegno. Concludendo, la sostanziale modifica di obiettivi del programma GALILEO da "PPP" ad infrastruttura totalmente pubblica deve essere considerata come opportunità per ripensare GALILEO. Questo resta un impegno per la parte pubbica, che si deve impegnare anche a rispettare i tempi ed i budget stabiliti.

Carlo Mango FONDAZIONE CARIPLO: QUALE STRATEGIA DI SOSTEGNO ALLA RICERCA L'approccio seguito dalla Fondazione Cariplo nella promozione della ricerca scien46


tifica può essere illustrato partendo dalla tipologia e dai volumi (crescenti) delle erogazioni finanziarie della Fondazione che, a patire dal 2001, sono organizzate entro un'unità dedicata. Nel 2001 il volume delle erogazioni della Fondazione non raggiungeva la soglia dei 5 milioni di euro. Anche per questo Cariplo ha deciso di liquidare una fondazione appositamente dedicata alla ricerca scientifica. L'attività erogativa è poi progressivamente aumentata e lo stanziamento di Cariplo nel 2007 ha raggiunto i 48 milioni di euro. Non voglio, tuttavia, fermarmi sui numeri - principale elemento di confronto tra chi opera in quest'area - ma sul metodo che Cariplo ha deciso di adottare nel sostenere iniziative di ricerca e di trasferimento tecnologico. Infatti, non è sufficiente solamente investire ma serve anche "creare affezione" e "rendere conto" che i soldi siano spesi a beneficio delle iniziative davvero più meritevoli, promuovendo attività di valutazione e di rendicontazione dei progetti. Cariplo presta particolare attenzione all'aspetto della valutazione mediante un organo preposto che si riunisce mensilmente (è un organo che fa capo alla Commissione centrale di beneficenza). La valutazione consta di una valutazione ex ante che si articola sia mediante degli studi di foresight tecnologico sia, in ambito dei progetti sottoposti a Cariplo, mediante valutazione via peer review internazionale. Ovviamente si effettua anche la valutazione expost sull'impatto della ricerca finanziata dalla Fondazione. L'attività di finanziamento e supporto alla ricerca di Cariplo è gestita e coordinata mediante l'unità "Ricerca scientifica". Considerato il volume di finanziamenti erogati e l'attività ad oggi promossa, si tratta di un'unità organizzativa tutto sommato piccola in termini di staff anche se ad essa afferisce personale altamente qualificato proveniente dal mondo della ricerca (in particolare, dalle biotecnologie, dall'informatica, dall'ingegneria). I settori a cui prevalentemente si dedica l"Unità ricerca scientifica" di Cariplo sono: a) ricerca biomedica (in particolare, si tratta di ricerca di base); b) scienza dei materiali (ricerca applicata); c) agroalimentare (nel cui ambito è stata avviata un'iniziativa tra più fondazioni, denominata AGER, di cui si parlerà di seguito); d) interventi nel capitale umano. Con riferimento all'area della "Ricerca medica di base" Cariplo promuove diverse iniziative: principalmente, un bando annuale ed una cailfor idea inerente il concepimento di vaccini di nuova generazione per malattie trasmissibili. Il bando ha ad oggetto iniziative inerenti la medicina molecolare. E giunto alla seconda call (in primavera vi sarà la terza cali) e finora ha visto la ricezione di circa 200 domande l'anno. I progetti finanziati sono stati 30, per un ammontare di risorse complessive equivalenti ad 8 milioni di euro). Le proposte sono valutate da referees internazionali. La callfor ideas, invece, è una sorta di expression ofinterest che si pone nell'ottica di raccogliere idee e spunti liberamente da chi svolge ricerca in questo settore, senza orientare aprioristicamente filoni di ricerca con bandi che risulterebbero vincolanti per la ricerca stessa. Un altro progetto rilevante promosso da Cariplo è NOBEL (OperationalNetwork), 47


progetto concepito dal professore Renato Dulbecco, all'epoca commissario della Fondazione, per soddisfare la necessità di realizzare strumentazioni per la ricerca e puntare sulla valorizzazione del capitale umano mediante la formazione di giovani ricercatori. Dopo alcuni approfondimenti, il Progetto NOBEL si è focalizzato sulla messa a punto di "piattaforme tecnologiche" (in particolare, Genomica e Bioinformatica). Del progetto è stata protagonista attiva anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto che ha cofinanziato un'azione ponte con il Centro di ricerca di biologia in silico e di bionformatica realizzato a Trento. Dunque, in questo caso due fondazioni di due diverse città - Milano e Trento - hanno collaborato senza che si sia verificato il classico "paradosso delle fondazioni": le fondazioni, si sa, tendono ad occuparsi di problemi dell'umanità ma tendenzialmente mai al di ftiori dei confini delle province assistite. Questa logica risulta essere assolutamente superata, perlomeno nell'area della ricerca scientifica. Per quanto riguarda le tecnologie avanzate Cariplo opera attraverso due bandi (uno con scadenze prestabilite, l'altro senza scadenze) ed un progetto ad hoc. Il bando è stato lanciato a seguito di uno studio diforesight per identificare i bisogni nell'ambito della scienza dei materiali che ha di fatto avviato una serie di attività ed interventi di sostegno di progetti per materiali di nuova concezione. Non entro nei particolari, ma l'obiettivo dell'iniziativa è quello di realizzare ricerche che forniscano elementi per identificare opportunità di exploitation della ricerca stessa e di trasferimento tecnologico. Il bando senza scadenza, invece, è uno strumento particolare relativamente al tradizionale assetto Degli strumenti erogativi delle fondazioni: prevede un programma di reclutamento internazionale che si basa sulle condizioni di attrattività del nostro sistema al fine di verificare la possibilità di attirare ricercatori internazionali qualificati da coinvolgere in progetti di ricerca di durata pari ad almeno due anni. I progetti, generalmente, hanno Principallnvestigators stranieri (stiamo svolgendo progetti con 35 Pi internazionali provenienti da tutto il mondo, tra cui Giappone e Mii', venuti a dirigere team di ricerca composti da giovani ricercatori italiani). La leadership internazionale è importante anche ai fini di stringere legami con centri di ricerca straniera. Si tratta di una vera e propria sfida, lanciata nel 2004 ed oramai giunta alla quinta edizione. Vengo ora all'iniziativa "AGER". Si tratta del più grande progetto europeo avviato nel settore agroalimentare, a seguito di un'iniziativa congiunta avviata da 13 fondazioni italiane che hanno deciso di condividere metodi, priorità strategiche, fondi dedicati a progetti di "ricerca, tecnologie e innovazione". L'agroalimentare è un settore chiave per l'economia italiana che domanda ricerca al fine di mantenere alta la propria competitività. Cariplo ha avviato l'iniziativa stanziando 2 milioni di euro. Fin dall'inizio, l'obiettivo è stato chiaramente quello di coinvolgere altri partner ed all'appello ha subito risposto, dando un importante contributo, la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. Grazie al contributo di altre fondazioni, sono stati raccolti 27 milioni di euro e si è attivata una collaborazione fattiva tra le stesse fondazioni. L'iniziativa "Capitale Umano", invece, si pone l'obiettivo di sostenere una compo-


nente fondamentale della ricerca e dell'innovazione (appunto, il capitale umano), me diante strumenti ritenuti più efficaci dei tradizionali bandi (che sono utilizzati dalla maggioranza dei vari soggetti filantropici) finalizzati sostanzialmente e solamente all'erogazione di grants. Cariplo ha tentato di fare un passo avanti rispetto a questo modo di fare le cose. Un episodio significativo da ricordare è che, quando la Fondazione ha deciso di avviare il progetto ed ha convocato la prima riunione dei rettori degli atenei lombardi, tutti sono intervenuti, nonostante la convocazione ci sia stata solamente 10 giorni prima della riunione. E senza dubbio un segno di quanto sia sentita dalle università italiane l'esigenza di migliorare gli interventi di promozione della ricerca. Un discorso a parte va fatto sul rapporto tra fondazioni e trasferimento tecnologico. Qui occorre fare una premessa. Le fondazioni di origine bancaria (si tratta di 88 fondazioni, che investono complessivamente circa 200 milioni di euro nel settore della ricerca), pur avendo come obiettivo generale l'accrescimento dello sviluppo economico dei territori, per legge, non possono sostenere - neanche indirettamente - progetti di società di capitali. Si potrebbe dunque pensare che le fondazioni abbiano "armi spuntate" ma, dopo una serie di riflessioni, Cariplo per prima ha deciso di potenziare la "cassetta degli attrezzi" rafforzando il capitale umano, la ricerca di base ed applicata, promuovendo un fondo per il trasferimento tecnologico denominato "TTVenture". Insieme ad altre fondazioni, infatti (tra cui Cassa di Risparmio di Cuneo, Cariparma, Cassa di Risparmio di Teramo, Modena, Forli), si è dato avvio ad un fondo di 65 milioni di euro per progetti di creazione di nùova impresa mediante finanziamento di seed capital. I settori in cui investirà il fondo sono: agrofood, scienza dei materiali, tecnologie energetiche ed ambientali, lfe science. TTVenture è stato presentato il 14 febbraio 2008 e ad oggi ha ricevuto richieste da parte di circa 110 proponenti. I soggetti che hanno presentato richiesta sono principalmente start-up e spin-off di tipo universitario, anche se sono state ricevute richieste da parte di qualche PMI, prevalentemente di area biotech e scienze della vita. Quando si è parlato di applicazione della fisica del CERN ad altri settori, in particolare, al campo medico, il riferimento implicito è al Centro di adroterapia di Pavia. Vorrei solo dire che Cariplo ha contribuito con 5 milioni di euro (al pari della Regione Lombardia) per costituire tale centro. In questo caso, oltre a questi grani', la Banca Europea degli Investimenti ha concesso un prestito con una finestra molto ampia di restituzione del capitale prestato e con logica di integrazione delle più opportune strumentazioni finanziarie. Si tratta di esperienze sul campo sulle quali è opportuno riflettere per realizzare dellE buone pratiche di lavoro nel campo del sostegno della ricerca e dell'attività di trasferimento tecnologico.

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Chiara Cecchi FONDAZIONE TELETHON: DAL GRANDE PUBBLICO AGLI INTERVENTI. Telethon (Television Marathon) è una charity che raccoglie fondi e li distribuisce a favore della ricerca biomedica sulle malattie genetiche. Telethon nasce da un'idea dell'attore americano Jerry Lewis per raccogliere fondi per la ricerca sulla distrofia muscolare. L'idea venne successivamente importata in Francia e quindi in Italia, per volontà dell'associazione di pazienti ULDM (Unione Lotta contro la Distrofia Muscolare), con il fine di promuovere in via prioritaria la ricerca sulle malattie genetiche rare. Quelle, in pratica, trascurate dai grandi finanziatori sia pubblici che privati. L'andamento della raccolta fondi, dal 1990 all'anno scorso, è in progressivo aumento. Ad oggi Telethon ha raccolto fondi per 348 milioni di euro, di cui l'80% (pari a 276 milioni di euro), dedicati alla ricerca. I finanziamenti riguardano sia la ricerca interna (intramurale, degli istituti Telethon) che esterna (grants a ricercatori e ad enti di ricerca). Con i fondi sono stati finanziati progetti esterni (circa 2.000 progetti di ricerca, 245 borse di studio e 78 servizi) e progetti interni che fanno capo a Telethon. Telethon non effettua solo attività di raccolta fondi ma promuove l'attività di diversi istituti di ricerca: a) l'Istituto Telethon di genetica e medicina (TIGEM), nato nel 1994 a Napoli e che si occupa di identificazione genica delle malattie e di studiare i meccanismi delle malattie genetiche; b) l'Istituto di Terapia Genica San Raffaele di Milano, nato nel 1995, in joint venture al 50% con Telethon (joint venture che trova sostanza anche nella distribuzione dei proventi della protezione della proprietà intellettuale). L'Istituto si occupa di studi di terapia genica, protocolli cinici per malattie geniche e malattie lisosomiali; c) il Dulbecco Telethon Institute, un "istituto virtuale" nel senso che è un programma avviato da Telethon nel 2001 con lo scopo di erogare borse di ricerca in aree rilevanti per Telethon a giovani ricercatori che svolgono la loro attività in circa 30 laboratori afferenti a diversi istituti ed università italiane. Fanno riferimento all"Istituto" circa 40 persone. Esso offre un programma di carriera che ha attratto giovani ricercatori italiani dall'estero con borse (di 5 anni più 5); d) il TecnoThon, un laboratorio tecnico specializzato nel disegno di prototipi di ausili e Strumenti per disabili. Questo Istituto genera trasferimento tecnologico che viene autonomamente gestito: tutti i prodotti dell'Istituto sono brevettati e ceduti ad imprese a prezzo etico. Telethon si è occupata di più di 400 malattie genetiche (quelle conosciute al mondo sono circa 6.000) che riguardano circa il 5% della popolazione mondiale. Si tratta di malattie monogeniche, dunque molto rare. La ricerca più finanziata è senza dubbio la distrofia muscolare. La modalità con cui Telethon seleziona i progetti è quella della cail competitiva, incentrata su attente procedure di valutazione ex ante per il tramite della peer review effettuata da una commissione scientifica internazionale composta da 30 membri esperti in aree di interesse, che ogni anno valuta e seleziona i progetti. I finanziamenti, in generale, si ispirano a tre principi: a) giudizio dei revisori/merito scientifico; b) ri50


levanza della ricerca per Telethon; c) "vicinanza alla cura" del progetto proposto. In numerosi casi la ricerca finanziata da Telethon è stata segnalata al pari di quelle dell'americano National Institute ofHealth. I risultati di Telethon sono molto alti per quanto riguarda l'impatto delle pubblicazioni scientifiche (numero di citazioni che ogni paper riceve dagli altri paper della comunità scientifica). Telethon è stata la prima istituzione al mondo a mettere a punto una terapia genica efficace per l'ADAsKID, un'immunodeficienza congenita che costringe i bambini privi di sistema immunitario a vivere in ambienti sterili. Il Telethon San Raffaele ha messo a punto un protocollo di terapia genica grazie al quale sono stati curati 11 bambini (lo stesso protocollo è utilizzato anche negli Stati Uniti). Ad oggi le spese per le terapie sono tutte a carico Telethon ma è stata chiesta la registrazione della terapia al Sistema Sanitario Nazionale per far sì di ottenere il rimborso delle spese sanitarie ed estendere le possibilità di cura a più persone. Purtroppo l'esperienza fatta per ADASKID non può essere replicata in maniera sistematica per altre malattie perché il passaggio dal laboratorio alla clinica è molto complesso ed oneroso in termini di tempi e costi. Telethon è dunque in cerca di partnership anche al fine di individuare nuovi modelli di finanziamento per favorire il passaggio dei risultati della ricerca alla clinica. Nello scorso luglio, ad esempio, ha raggiunto un accordo con Farmindustria. Anche per questo Telethon intende sviluppare ulteriormente l'attività di trasferimento tecnologico e di collaborazione con le imprese. Per Telethon il problema del trasferimento tecnologico presenta aspetti particolari e difficili. Varrebbe la pena affrontarlo partitamente anche per certe sue esemplarietà. Qui bastano alcuni cenni ed avvertenze. Sicuramente il trasferimento tecnologico ha una funzione fondamentale per una charity come Telethon. Di qui la costituzione del Technology Transfer Office di Telethon, nato al fine di proteggere la proprietà intellettuale e trasferirla all'industria. Telethon si occupa, di fatto, della "prima parte" (la promozione dei risultati della ricerca), ma poi - per quel che riguarda la gestione delle facility pre-cliniche avanzate, il supporto normativo, la produzione, il marketing lo sviluppo dei farmaci - occorre il supporto dell'industria. Essendo una piccola charity il TT0 di Telethon esternalizza molti servizi: è attiva una collaborazione con il Politecnico di Milano per servizi di "prior art", per il reclutamento di esperti per la valutazione delle invenzioni e consulenti per l'attività di/icencing, di avvocati e di patent agency. Il curriculum di Telethon è il seguente: 19 invenzioni, 6 delle quali sono state cedute e 4 licenziate a soggetti terzi. Il TTO è nato nel 2005 con l'obiettivo di tradurre la ricerca d'eccellenza in risultati applicabili. In questo senso, il TT0 facilita il trasferimento tecnologico non in quanto processo in sé (attività che sarebbe molto complessa), ma favorendo l'emersione delle condizioni più favorevoli per instaurare il rapporto tra ricerca e industria (ad esempio, favorendo i contatti tra ricercatori ed aziende, ad esempio, mediante la partecipazione a meeting appositamente organizzati su argomenti di comune interesse). Telethon, come detto, si occupa di malattie rare. Questo appare contrario o, comunque, per definizione ostativo al trasferimento tecnologico in sé, che richiede mercati ampi per attuarsi. Infatti le aziende con cui confrontarsi sono poche, il mercato è 51


ristretto ed i costi per lo sviluppo di un farmaco raro sono gli stessi di quelli di un farmaco per malattie comuni. Cè dunque poca propensione a "ricevere" prodotti innovativi nonostante gli incentivi fiscali degli enti governativi. L'aspetto dellefonti difinanziamento ( assai scarse) del trasferimento tecnologico è cruciale per Telethon: i contributi di base che provengono da donatori italiani sono finalizzati al sostegno di base della ricerca per le malattie genetiche. Telethon deve prestare molta attenzione a non utilizzare una parte eccessiva dei fondi raccolti per il trasferimento tecnologico. C'è, in sostanza, un equilibrio da rispettare e da valutare molto attentamente. Se ci fossero - ma non mi risulta - dei fondi ad hoc per finanziare l'attività di trasferimento tecnologico delle fondazioni private, erogabili da enti terzi, ciò sarebbe una risposta importante a delle esigenze molto sentite da Telethon.

Solitario Nesti

NExT - TECNOTESSILE: LA PJCERCA PER LE IMPRESE DEL "MADE IN ITALY" Next Technology Tecnotessile è una società che offre servizi di ricerca applicata ed innovazione tecnologica alle imprese. E una società a capitale misto pubblico-privato, costituita nel 1972, a Prato, per iniziativa del distretto industriale tessile di Prato, grazie anche ai fondi per la ricerca applicata del Ministero per l'Università e la Ricerca, allora gestiti da Banca 1Ml. La società ha 26 soci (il 40% del capitale è detenuto dal MIuR), per lo più del settore industriale tessile, abbigliamento e meccano tessile. Quelle a cui eroga prevalentemente i propri servizi. La società offre servizi anche ad imprese non socie, specialmente Piccole e Medie Imprese. Nella nostra esperienza, il trasferimento tecnologico che ha come protagoniste le imprese, sostanzialmente prende avvio con l'identificazione dell'applicabilità di tecnologie esistenti a casi specifici di interesse per l'azienda. Solitamente, tale processo consiste nell'introduzione nell'impresa esistente di prototipi, macchine semi-industriali o industriali che, solitamente, si muove insieme a nuove competenze capaci di utilizzare le macchine stesse. Il trasferimento tecnologico nel settore tessile e dell'abbigliamento ha la peculiarità che si realizza nell'ambito di aziende che svolgono attività di cui sono generalmente molto gelose. Le imprese italiane di questo settore hanno, infatti, capacità manifatturiere elevate, ma incontrano storicamente difficoltà a "cambiare le regole del gioco", introducendo idee innovative. Next cerca di fornire idee per fare delle cose nuove. Il trasferimento tecnologico, in questo settore, è caratterizzato da diverse criticità che si riscontrano anche in altri contesti di trasferimento: oltre ad una conoscenza della tecnologia da trasferire, serve avere una approfondita conoscenza del settore nel quale si vuole trasferire ed applicare la nuova tecnologia. Va valutata, in sostanza, la "fattibilità industriale" della tecnologia nel nuovo contesto d'impresa. Questo è un passaggio delicato, testimoniato dai moltissimi tentativi e studi di trasferimento dal sistema di ricerca pubblica che sono rimasti sulla carta a causa delle difficoltà incontrate per realizzare il 52


passaggio all'industria. Altre variabili rilevanti sono quelle del "costo economico" dell'introduzione della tecnologia e dell'integrazione delle competenze già presenti nelle imprese (degli operai e dei tecnici) dal quale emerge il presupposto di formazione del personale che dovrà apprendere l'utilizzo della nuova tecnologia. Next cerca di offrire un contributo per superare alcune lacune del trasferimento tecnologico nel settore tessile e dell'abbigliamento, in particolare, mettendo a disposizione dell'impresa degli "impianti pilota" e promuovendo il trasferimento mediante attività di informazione e formazione tecnologica alle imprese per mezzo di tecnici. Cerca anche di farsi promotore di Raggruppamenti Temporanei di Impresa ed associazioni. Ne sono già stati realizzati diversi relativamente a progetti finanziati dall'Amministrazione Provinciale. Next, inoltre, diffonde informazioni sulle nuove tecnologie presenti sul mercato al fine di stimolare nuovi investimenti produttivi. Questo è solo l'inizio di un processo che può seguire varie direzioni e che può essere così sinteticamente descritto: a) individuazione delle fonti (internet, mostre, fiere, ecc.); b) ricezione di idee da parte del cliente (in questo caso, l'innovazione parte dalle idee del mercato per poi passare al costruttore della macchina); c) realizzazione della macchina (ad opera di Next) e del nuovo prodotto. Si tratta di un processo interattivo tra fornitori di tecnologia, università e centri ricerca, imprese utilizzatrici che prevede passaggi chiave quali la progettazione delle specifiche tecniche dei progetti, il coordinamento operativo, l'utlizzazione nelle aziende e la formazione del personale. L'ostacolo tipico che si incontra in questo processo - è forse scontato dirlo - è quello di "riuscire a vendere la ricerca, la conoscenza o la tecnologia". Le imprese, specialmente negli ultimi trent'anni, hanno fatto innovazione comprando la tecnologia poiché le imprese italiane sono storicamente scarsamente propense ad affrontare innovazioni: l'impresa è abituata a produrre ciò che sa fare. Questo va bene in periodi in cui il mercato "tira", ma oggi non può più essere così. In periodi come questi l'impresa chiude o subisce forti ridimensionamenti. L'innovazione è vista sempre con molta prudenza, perché viene percepita come un fattore di innalzamento del rischio, mentre l'atteggiamento dell'imprenditore è quello di minimizzare il rischio. Strategie per il trasferimento tecnologico: 'Reti di imprese" e t'iattaforme tecnologiche". La "Rete d'impresa" (che può essere "di scopo", integrata con università e centi di ricerca, ma anche con i fornitori delle imprese o da loro associazioni di categoria) è un "veicolo" mediante il quale Next ha intrapreso diversi progetti di innovazione tecnologica, soprattutto in ambito regionale. Importante, a tal fine, è stato il ruolo degli enti pubblici territoriali come promotori di tali progetti. Da queste iniziative sperimentali possono nascere interessanti sviluppi perché, in generale, gli imprenditori si possono convincere della funzionalità dell'innovazione e tentare il passaggio all'impianto industriale. Tra gli esempi di progetti intrapresi ve n'è uno molto interessante che ha portato alla progettazione di impianti innovativi per il trattamento delle acque reflue; un altro che ha portato alla realizzazione di materiali polifunzionali con nano

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particelle mediante l'uso di nanotecnologie; un progetto finalizzato all'uso delle microonde per accelerare le reazioni alimentari in maniera sicura e risparmiare energia, ed altri ancora. Questi sistemi, se implementati su larga scala, potrebbero apportare sia innovazioni di processo che di prodotto. Il programma 1.-Tex" si è avviato in Piemonte e poi ha avuto appendici in altre regioni. In Toscana sono stati avviati 5 progetti nell'ambito di questo programma (di cui Next è il coordinatore ed il prime proposal), coinvolgendo 5 imprese. Next, in questo caso, è il fornitore della tecnologia e le imprese collaborano alla costruzione del prototipo per sperimentare poi l'applicazione di nuove tecnologie di prodotto e di processo. Una forma alternativa di trasferimento tecnologico passa attraverso la costituzione di "piattaforme tecnologiche". Ve ne è una che ha ad oggetto il settore tessile, abbigliamento e moda, che è nata nell'ambito del Settimo Programma Quadro ed a cui Next ha contribuito alla costituzione. In ambito regionale, invece, Next ha contribuito alla costituzione di una piattaforma per il tessile, abbigliamento, pelle, concia, meccanica, con il fine di individuare modi per innovare i prodotti del settore. In particolare, si è sfruttata l'Azione 1.7.1. denominata "Reti per il trasferimento tecnologico" del Documento Unico di Programmazione 2000-2006. Tutto ciò è utile alla creazione e allo sviluppo delle condizioni che favoriscano la creazione di idee innovative mediante prove sperimentali e realizzazione di impianti pilota. E Next si propone come una sorta di laboratorio di ricerca esterno alle imprese che oggi non ne hanno più. Il fenomeno di scomparsa dei centri di ricerca interni è generalizzato, anche perché non ci sono più le grandi imprese chimiche o tessili che, in passato, erano in grado di investire in innovazione ed erano dunque dotati di propri laboratori di ricerca. Next offre ora questi servizi mettendo a disposizione, come detto, macchine, laboratori, giovani laureati ed esperti che sviluppano progetti direttamente con le imprese, puntano al brevetto e al raggiungimento di accordi per l'utilizzo dei brevetti. Next vanta e coltiva collaborazioni molto attive con l'università ed il mondo scientifico. Vi è, però, un limite a tutto ciò: è la dimensione (piccola e media) delle imprese protagoniste di questo settore che condiziona la valorizzazione del know how e l'apprendimento di nuovo know how. Un modo per superare, seppure parzialmente, questo limite è indubbiamente quello di fare rete, per creare conoscenza; pur in una sostanziale scarsità di luoghi dove fare innovazione e di risorse finanziarie reperibili nei modi e tempi compatibili a queffi che richiede l'innovazione e la competizione di oggi.

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COMMENTI E REPLICHE

Piero Bassetti

Una riflessione di carattere generale su questi primi rapporti. Mi pare che abbiano messo a flsoco il tema dellbriginante "ricercatore-scienziato" - afferente ad una "logica push" - e della validazione delle proposte affidate a criteri scientifici (peer review). La mia impressione è che sia Stata totalmente esclusa l'analisi dell'impatto finale dell'innovazione. La scienza è sempre buona cosa? Per fare un esempio, anche i mutui sub-prime sono considerati un'innovazione nel campo finanziario... Dunque, serve fare richiamo ad una riflessione sulla responsabilità della scienza quando si passa all'applicazione fattuale. Essa, infatti, pone dei problemi concreti e la responsabilità deve essere considerata come elemento costitutivo dell'innovazione che, altrimenti, ha in sé, in tutti i campi, un rischio reale fortissimo. Detto questo, sono stato molto interessato dal rapporto di Nesti. Esso introduce una logica completamente diversa, rispetto a quella che definirei una logica "puLt'. Nel caso di Next siamo senz'altro in un'ottica di servizio all'impresa la quale, in passato, approcciava l'innovazione attraverso l'ufficio ricerca&sviluppo interno. Inoltre, Nesti ha citato la ftinzione dei produttori di macchine nel circuito produttivo del tessile. In passato, e fino ad oggi, tutta l'industria tessile (ma lo stesso è successo anche per altri settori) si è sostenuta prevalentemente mediante l'innovazione di processo derivante dall'acquisto di nuove macchine. Ma i produttori di macchine hanno smesso di fare

ricerca. Allo stesso tempo, sono progressivamente spariti quei produttori (le grandi imprese) un tempo in grado di fare ricerca a causa della concorrenza sui costi comparati. La PMI sembra dunque obbligata ad innovare. Ma il suo problema, in ogni caso, è quello del calcolo della convenienza a fare innovazione ed, in definitiva, del suo costo rispetto ai benefici. L'imprenditore non insegue la perfezione tecnologica ma il profitto, cosa che gli deve essere dimostrata da chi propone l'innovazione. A tal fine, penso che le imprese abbiano bisogno anche di innovazione del sistema di calcolo preventivo dei costi-benefici e mi chiedo se Next, tra i suoi servizi, offre anche "soluzioni metrologiche" di valutazione ex ante dell'impatto dell'innovazione. Marco Pascucci Un commento ancora su Next. S'i tratta di un contributo fondamentale perché introduce il tema del trasferimento tecnologico alle imprese già operanti. Di solito si parla di trasferimento tecnologico nella prospettiva technologypush (quello da cui spesso si generano le sta rt-up) ma quando ci confrontiamo con realtà industriali già esistenti si intravedono i problemi a cui Nesti ha garbatamente accennato e che, in modo provocatorio, chiamo "resistenza al cambiamento". Posso garantire, per esperienza personale, che tale difficoltà è quasi insormontabile quando le dimensioni di impresa sono maggiori, al di là delle difficoltà intrinseche dei processi di trasferimento tecnologico. Il trasferimento tecnologico è, infatti, un "momento creativo" di tipo im-

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prenditoriale e che comporta dei rischi. Se ci confrontiamo con le imprese di dimensioni maggiori, strutturate in più livelli organizzativi, si incontrano in genere grandi difficoltà ad innovare che prescindono dal "momento creativo" dell'imprenditore. L'impresa punta prevalentemente ad obiettivi di budget (di management by objective). Lo stesso capo azienda, ammesso che abbia spirito imprenditoriale, trova grandi difficoltà nel tentare progetti di innovazione. Solitario Nesti Parto da una replica alle osservazioni di Pascucci. Next lavora prevalentemente per i costruttori di macchine, che sono i principali sviluppatori di tecnologia nel campo tessile e di abbigliamento, ma anche nel settore della concia e della pelle. Di fatto, i costruttori di macchine sono i soggetti che forniscono all'utiizzatore (il produttore di scarpe, di borse, ecc.) gli elementi base su cui fare innovazione. L'innovazione che c'è stata nel settore manifatturiero del "Made in Italy" è dunque avvenuta per l'interazione tra l'utilizzatore finale ed il costruttore della macchina, con il contributo di altri fornitori nel campo elettronico, chimico, del software e così via. Ma oggi il contesto è radicalmente mutato: gli utilizzatori sono in crisi, non investono e non comprano la macchina nuova; le macchine sono prodotte in Cina a prezzi più bassi (gli stessi italiani che hanno delocalizzato in Cina e India non sempre hanno avuto risultati positivi dal punto di vista della riduzione dei costi e si sono esposti al rischio di copia delle loro macchine). Fino a qualche anno fa l'impresa utilizzatrice

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aveva un obiettivo chiaro: produrre di più con maggiore qualità e a basso costo, in virtù di una domanda di commesse sostenuta; oggi, invece, mancano gli ordini commerciali. Inoltre, anni fa era diversa la prospettiva dell'innovazione: le commesse non richiedevano innovazioni di prodotto perché quelli esistenti trovavano il gradimento del mercato. Si doveva solo trovare il modo di produrre in maniera meno costosa. Oggi, invece, la produzione di un filo può essere fatta all'estero ad un prezzo minore e non eguagliabile. Dunque, ci vuole un filo diverso per rimanere sul mercato e ci vuole, di conseguenza, una macchina diversa, che adotta tec-. nologie diverse (integrando sensori, software, controllo elettronico, numerico, ecc.), anche mutuando conoscenze dal settore chimico, introducendo nuovi materiali. Applicando, in prospettiva tali nuovi prodotti in settori del tutto diversi da quelli tradizionali. C'è bisogno di rivedere completamente il modo di fare innovazione, contrariamente all'atteggiamento dell'imprenditore che - di fatto attende che "cambi il vento". Sono stato invitato a Montreal, dove c'è un distretto tessile come quello italiano. Devo dire che, in Canada, sono senza dubbio più organizzati e con le idee più chiare di noi che siamo conosciuti in tutto il mondo come il primo distretto del tessile. Devo dire che c'è una forte autoconvinzione ad essere i migliori, ma dobbiamo renderci conto che può non essere così. E necessario, per mantenere vantaggi competitivi, mettere insieme competenze diverse e "fare sistema" anche apprendendo da chi è partito dopo di noi, ad esempio, sul piano organizzativo.


Per rispondere alla domanda di Piero Bassetti: Next è una società mista a gestione privata che vive di commesse di servizio. Per proporci in maniera sostenibile dobbiamo dunque capire cosa serve realmente alle imprese e, per fare questo, "viviamo" insieme a loro, specialmente se le imprese sono piccole. In questi casi, molto spesso l'imprenditore "si convince" e si riesce a fare un po' di innovazione: Il processo che seguiamo nell'affiancare l'impresa è il seguente: Next svolge l'attività di ricerca, assumendosi anche un rischio alto, poi ci proponiamo all'imprenditore e gli chiediamo se l'intuizione individuata in laboratorio può avere un senso industriale. Interpretato il progetto d'innovazione sulla base delle idee dell'imprenditore, si tenta la strada del finanziamento dell'innovazione (cominciando dai canali pubblici) tramite il quale si riesce ad ottenere un primo contributo (si è nell'ordine delle cento, centocinquanta mila euro), con cui si riescono a coprire buona parte delle spese di ricerca applicata del progetto. Si riesce così a "far sopravvivere" il progetto di innovazione perché, in questo modo, l'imprenditore ha almeno una parte dei costi coperta dal finanziamento pubblico. Concluso il progetto, si realizza il prototipo e l'applicazione su scala imprenditoriale (finora il progetto è a costo zero per l'imprenditore). Eventualmente si passa al brevetto che richiede qualche investimento da parte delle imprese che intravedono possibilità di ritorni, riuscendo anche a valorizzare l'investimento pubblico mediante l'assunzione di personale addetto al funzionamento della nuova macchina.

Questo è un metodo sufficientemente rodato, che ha generato qualche ritorno sugli investimenti e, dal quale, ottenuti dei brevetti, si possono estendere contatti commerciali ed industriali al fine di ampliare il mercato di riferimento. Ferdinando Chiaromonte Finora si è parlato dell'innovazione che passa attraverso il trasferimento tecnologico. Mi preme segnalare chevi è una parte importante di innovazione che non passa per il trasferimento tecnologico e che è quella generata direttamente dall'impresa (anche detta open innovation). C'è poi da chiedersi: il trasferimento di conoscenze è diverso dal trasferimento tecnologico? Marco Pascucci Il trasferimento di conoscenza è certamente diverso dal trasferimento tecnologico. Per fare un esempio, si può "acquisire" della conoscenza assumendo una persona, ma se si intende acquisire una tecnologia si deve comprare l'azienda. E dunque una cosa diversa. A mio avviso, anche l'Open innovation è una rete, almeno in una certa concezione di Open innovation. E una rete retta da un perno intorno al quale si articola, secondo modalità diverse, l'innovazione. Il perno è solitamente un imprenditore (quello di una grande società, in genere) che non si accontenta delle capacità di innovazione delle proprie strutture e che quindi si apre a tutti gli stakeholder (generalmente, i suoi fornitori e partner) al fine di raccogliere idee per innovare. E questa una modalità di intendere l'inno-

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vazione che è stata studiata e standardizzata ad Harvard. Il modello di rete che ha messo in luce Nesti è quello delle aziende che, in qualche modo, sono competitor tra di loro e non è dunque il modello di Open Innovation a cui ora ho fatto riferimento. Si tratta di un modello di innovazione via reti di imprese ancor più difficile da gestire.

Frank Salzgeber Il rapporto di Nesti ha introdotto un problema di finanza diverso da quello tipico di altri casi di trasferimento tecnologico e che generalmente coincide con il capitale di rischio per l'avvio di una nuova impresa innovativa. A mio avviso, il problema della competitività aziendale e del conseguente bisogno di capitali finanziari si risolve in un rapporto tra impresa e banca, e non con il venture capital o con capitale di tipo bridgefinancing.


queste istituzioni n. 154 luglio-settembre 2009

11 - Esperienze di accelerazione del trasferimento tecnologico

Andrea Alunni Isis ENTERPRIsE-UNIvERsITÀ DI OxFoRD: COME ACCELERARE IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO

L'esperienza di trasferimento tecnologico dell'Università di Oxford negli ultimi otto anni di gestione del fondo University Chiallenge seedfund per la promozione della ricerca effettuata dai College e dai Dipartimenti e per la commercializzazione mediante licenze o spin-out suggerisce, innanzitutto, di ritenere fondamentale che gli attori del processo condividano linguaggio e strumenti di congiunzione virtuosi. Userò poche "parole chiave": "transnationalfunding" , "seedfunding", "proof of con ceptfunding". Si tratta di tre parole che stanno ad indicare uno stesso concetto: il finanziamento della ricerca al fine di renderla commercializzabile e renderla innovazione. A Oxford è stato fondamentale strutturare il processo di azione, in modo da standardizzarlo e renderlo sistematico: quando ci sono degli accademici e ricercatori che hanno il desiderio di commercializzare i risultati della propria ricerca, IsIs offre in cambio gli strumenti per farlo. IsIs non si propone ai dipartimenti dell'Università, sono gli stessi studenti e ricercatori che si rivolgono ad IsIs, ovviamente quando vogliono farlo. Solo a quel punto interviene ISIS. L'Università di Oxford è, di base, particolarmente competitiva nella ricerca medica, nelle scienze fisiche, matematiche, nell'elettronica, nell'ingegneria, nelle scienze sociali ed umanistiche. I dipartimenti di queste discipline lavorano in collegamento fra loro ed è quindi frequente che gruppi multidisciplinari di ricercatori si presentino ad ISIS con un'idea di trasferimento. C'è dunque un importante aspetto di interdisciplinarità, prima di tutto, che occorre gestire ma che è importante per il successo futuro dell'iniziativa. Vorrei ora presentare alcuni dati che si riferiscono alle iniziative di trasferimento tecnologico avviate proprio nei settori di ricerca appena ricordati. Ad Oxford esiste, dal 2000, un fondo di investimento - University Challenge Seedfitnd— creato nell'ambito di un programma nazionale del Governo inglese che, proprio a partire dal 2000, ha erogato dei contributi per la costituzione di fondi di "proofofconcept" aventi il fine di finanziare i primi passi della commercializzazione della ricerca di base. Il fondo di Oxford ha una dotazione di 4 milioni di sterline, donate in parte dal Governo, da

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Fondazioni, da Wellcome Trust e da altre fondazioni. Penso che i meccanismi di questo fondo siano rilevanti. Con la costituzione del fondo, l'Università ha istituito un advisory board per selezionare le proposte: le applications, dal 2000 ad oggi, sono state 133, di cui 94 accettate. L'advisory board è composto da persone altamente qualificate che operano una selezione fortissima. In questi 8 anni, sono state 94 le proposte accettate. Di queste, 23 sono state trasformate in società. Questo è un primo dato, magari non rilevantissimo a livello assoluto, ma che vale riportare. Il valore del fondo, che è un revolvingfund, un "evergreen", senza aspirazione di fare cap ital gains, è di 11 milioni di sterline (più elevato dei 4 milioni di euro del 2000, al momento della sua costituzione). Le disponibilità sono attualmente di 1,7 milioni di sterline. Alcune delle società in cui ha investito il fondo sono state quotate sul mercato di Londra ed il porifolio manager dell'Università sta disinvestendo alcune delle sue partecipazioni. Il valore delle azioni cedute è restituito al fondo per permettere di compiere altri investimenti. La disponibilità del fondo, ovviamente, varia di volta in volta a seconda dei disinvestimenti. Proofofconcept: uno strumento dffuso in UK. Passo ora a commentare qualche risultato dell'iniziativa "University Challenge Funds" promossa dal Governo inglese dal 2000 ad oggi. Il risultato, innanzitutto, è stato la nascita di fondi in 19 atenei su cui, negli ultimi mesi, è stata fatta una indagine (su 19 intervistati, hanno risposto in 15). I fondi hanno finanziato in totale 617 deals che hanno generato 262 società (spinout). L'ammontare di investimento è stato di 56 milioni di sterline che hanno attratto 434 milioni di finanziamenti aggiuntivi privàti. Di queste 262 società, 16 sono state vendute o quotate in borsa. A mio avviso, sebbene non si tratti di numeri molto elevati in termini assoluti, questi risultati testimoniano una storia ed un approccio di enorme successo di cui, naturalmente, l'Inghilterra va fiera. L'idea alla base di tale approccio è stata essenzialmente quella di aver riconosciuto che cifosse bisogno di una struttura specializzata dedicata al trasferimento tecnologico di supporto all'Università. E che la caratteristica fondamentale di tale struttura, per generare successo, fosse quella essere in grado di finanziare con risorse adeguate (non molte, come si può constatare) e gestite in maniera snella e trasparente, i primi passi del cd. "proof of concept", ossia le attività di analisi tecniche, economiche e finanziarie, necessarie per verificare la sostenibilità del trasferimento del risultato della ricerca. Qualche dato sulla media dei progetti censiti si spiega bene con i seguenti grafici.


Amounts ìnvestèd to date 90.000O

360

oc

250.000

2,000,000 50,000

15 12 15 14

11 13 8 5 5 2 4 10 18 I 3 vr age ,amount pr invstnent

um investd to data

Grafi - Somma media investita: 110K

L'ammontare medio per investimento dei 15 fondi è stato di 110 mila sterline (Grafico 1). Un dato interessante, soprattutto perché consolidato su un periodo di 8 anni. Come si può vedere, non si tratta di grandi cifre. Ciò significa che non c 'è bisogno di grandi sforzi. Questo può essere un dato interessante per altri potenziali fon datori di proofofconceptfunds.

Amouflts invested and number of investrnents

3,000,00.

1,000,000

i2i15411.13 surnJnveted,to date

56Ì

0

- far of ifvettmernt

13

I

Graf. 2 - Numero medio di investimenti: 41

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Il numero medio degli investimenti per ogni fondo è 41 (Grafico 2). Oxford ha fatto meglio della media (94). Ciò vuoi dire che, dato il tempo trascorso (8 anni), il fondo non deve necessariamente lavorare sulla quantità ma anche e soprattutto sulla qualità degli investimenti.

Graf. 3 - Media di investimenti per società: 2,35

Il grafico 3 illustra la media di investimenti per società. Non tutti gli investimenti si trasformano in società ed, in media, occorrono 2,3 investimenti per trasformare un'idea in una società. Ogni 2,3 investimenti, dunque, i diventa una società (la percentuale di successo è di poco inferiore al 50%). Il che costituisce un buon risultato, ripetibile altrove. Amount invested vs follow on 9,000.000

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Questo grafico (n. 4) evidenzia l'effetto leva che una sterlina spesa dal fondo può generare in termini di attrazione di capitali privati. Dopo 8 anni di gestione dei fondi il valore è di 7,6. Per ogni sterlina spesa dal fondo in un progetto, nel tempo ne seguiranno 7 da parte di investitori privati. Investmentvs fòIIow-on ioo:000.oà .

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Graf. 5 - Media di investimento esterno per azienda: 1,6 milioni

Riportando il dato precedente a livello di singola società (grafico 5), emerge che, per ogni società generata dall'Università, i milione e 600 mila sterline viene investito dal mercato dei capitali. Si tratta di un dato interessante se si pensa che queste società sono gestite da 4, massimo 5 persone e sono appena nate o hanno uno o due anni di vita. Qualche conclusione sui dati: gli University Challenge Funds e, quindi, i Proofof conceptfunds sono un fenomeno di successo in Gran Bretagna. Essi scaturiscono dall'idea di strutturare il processo di trasferimento tecnologico intorno ad un fattore chiave: degli strumenti finanziari a disposizione di ogni technology transfer office universitario. Ci si è resi conto che non si tratta di un'opzione ma di una vera e propria precondizione per le università, che allo stesso tempo devono attuare una politica di protezione intellettuale della ricerca molto forte. Si deve, cioè, brevettare e ad Oxford si aiuta il ricercatore anche in ciò. Il fondo, dunque, è un vero e proprio motore e strumento di politica di attrazione del venture capital, di Angel Investors e di altri soggetti finanziari che, per definizione, tendono a non investire in questa prima fase. Solo questo strumento può far raggiungere tali risultati ed innescare l'avvio di un processo di trasferimento tecnologico. I fondi di proofofconcept non sono di ausilio soltanto per l'università e per i suoi ricercatori ma, forse, ancor di più, per gèstori di fondi di veniure capitaL Questi potrebbero utilizzare tali fondi come canali per accedere ad un dealflow di progetti "garantiti" da: i) una selezione rigorosa, 2) dei finanziamenti iniziali adeguati e 3) da stime di ritorno apprezzabili dal punto di vista finanziario. Un fondo di questo tipo può essere dunque considerato come "magnete" per attrarre la comunità di investitori di rischio.

-31


Un ultimo aspetto da mettere in rilievo è quello della capacità di aggregazione e di fare sistema che si genera da strumenti di tipo "proofofconcept". L'Università gestisce, di fatto, un Angel Network di business angels che, investendo nei deals generati dalla ricerca universitaria, rimangono in contatto con l'Università. Per quanto riguarda Oxford, tale network è sostenuto dal sito internet di Isis, sul quale vengono "messi in vetrina" tutti i progetti di spin-out (siano essi conclusi o in progress), in maniera da rendere l'informazione accessibile a tutta la comunità dei Venture Capitalist e dello stesso AngelNetwork, ma anche dal mondo scientifico, così da facilitare ulteriori interazioni. Conny Bogentoft IL KAROLINSKA INSTITUTE IN SVEzIA: PRIMA DI TUTTO IL CAPITALE UMANO Presenterò ciò che avviene al Karolinska Institute per trasferire i risultati della ricerca medica. Qualche parola su di me: sono diventato un venture capitalist dopo un percorso di 42 anni di attività professionale, iniziata nell'ambito dell'Università, come ricercatore prima e docente di "medical chemistery" poi. Ho trascorso 27 anni nell'industria farmaceutica (presso Astra Zeneca e Pharmacia) e da 10 anni lavoro al Karolinska come responsabile dell"innovation process" del Karolinska Institute Innovation (KJAB), una società per azioni (Aktiebolag, AB) fondata nel 1996 dal Karolinska Institutet Holding AB e dedicata al trasferimento tecnologico del Karolinska Institute. Il KIAB lavora per commercializzare i progetti di ricerca potenzialmente validi ed in una fase molto precoce basati sulla ricerca medica e in tal modo contribuire al miglioramento della salute pubblica. Tali progetti provengono sia dal Karolinksa Institute che da altre università scandinave. Il KLAB conduce e finanzia le prime fasi di sviluppo del progetto, con l'obiettivo di giungere ad un accordo di licenza o di contribuire alla creazione di una sta rt-up. IJobiettivo del nostro lavoro è cogliere quelle esigenze mediche per cui non c'è una risposta diretta da parte delle aziende farmaceutiche. In particolare, nell'ambito di quelle numerose malattie per cui ancora non esiste una cura. Lavoriamo, infatti, sulla frontiera della ricerca che avviene nel mondo accademico e la nostra ambizione più alta è quella di dimostrare che investire in ricerca (di base ed applicata) è profittevole per la società e per tutti gli operatori coinvolti, inclusi gli investitori. Crediamo in questo ed abbiamo successo in termini difirnd raising sul mercato dei capitali privati. Basti pensare che la stessa KJAB è una società privata e non riceve praticamente nessun contributo dal Governo svedese: su un totale di 25 milioni di euro, 500 mila euro sono i fondi ottenuti dal governo e 24,5 quelli raccolti dal mercato dei capitali privati. Lavoriamo sulla frontiera mediante un network di esperti che varia tra le 300 e le 500 unità. E il mantenimento in vita di tale rete di esperti esterni e specializzati in ricerca e sviluppo la linfa che riesce a sviluppare nuovi farmaci in maniera più economica e veloce rispetto alle aziende farmaceutiche. E questo il valore aggiunto che ha permesso di ottenere un portafoglio di 45 start-up; lo stesso numero dei progetti di Astra

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Zeneca, che però può vantare di una dotazione di personale impiegato molto più alta (Astra Zeneca ha più 45.000 addetti in tutto il mondo, KIAB soltanto 500). La qualità delle risorse umane è dunque un fattore certamente fondamentale, ma assai importante è la formula con cui tali risorse interagiscono. Avere succsso nel campo della ricerca e sviluppo è essenzialmente questione di miscelare bene ingredienti diversi (network, relazioni industriali, capitali, mercato) di cui, il principale, è l'elemento "persona" e la "competenza". Non servono grandi organizzazioni ma il coinvolgimento delle persone giuste, di team piccoli. liberi di guidare e svolgere i progetti in maniera indipendente ed aperta alle collaborazioni. Serve poi far avere loro i giusti capitali e dare un po' di supporto a livello di management. Serve, insomma, una cultura ed un'atmosfera speciale. Da questa concezione nasce la "Frontiersfabrick" (Framtidsfabriken) che è una rete di laboratori diffusa tra 40 imprese locate in 8 città svedesi ed è una delle principali iniziative del nostro lavoro. Grazie a questo network riusciamo a garantire un'abbondanza di ricerca dalla quale è poi più facile che nascano iniziative innovative. Il processo di innovazione di KIAB si è particolarmente accelerato nel 2003, grazie ad una attività di raccolta fondi che ha permesso di sviluppare le attività di technology transfer anche in chiave di attivazione del venture capital. Abbiamo allora deciso di costituire il nostro venturefund - KD - con fasi successive di raccolta fondi. Siamo riusciti a cominciare con 10 milioni di euro nel 2003, andando avanti nel 2005, 2006 e 2007. Lo scorso anno, dopo aver creato i fondi KD I, TI, III, abbiamo fuso questi tre strumenti in una venture company - Karolinska Development AB (KDAB) - con l'ambizione di quotarla in borsa. Ciò non è immediatamente possibile, ma il progetto è arrivare alla quotazione entro un paio d'anni. I fondi raccolti da KDAB sono frutto delle sottoscrizioni di circa 230 soggetti (fondi pensione ed altri investitori privati) che - è importante sottolinearlo - decidono di investire in KDAB anche in questo periodo di crisi. La fonte principale del successo di I(DAB è senza dubbio la qualità e l'abbondanza della ricerca medica che, in numeri, è valutata in 700 milioni di euro l'anno e condotta da 5.000 ricercatori. KDAB lavora praticamente con tutte le università della Svezia e negli altri Paesi scandinavi, mediante accordi di cooperazione con sette università. Kt»13 gestisce più di 200 nuovi farmaci, frutto di una scrematura di circa un migliaio di progetti dal 1999 ad oggi. La prossima settimana saranno celebrati i 1.000 deals. Da questo emerge che KDAB punti molto sul processo di selezione e sull'investimento pre-seed (circa 1,5 milioni di euro sono costantemente investiti nel "very early stage") e I(DAB cerca di gestire tutto questo processo di trasferimento tecnologico: dal proofconcept, ai clinical trials, alla gestione della proprietà intellettuale che viene acquistata dagli scienziati (in Svezia la proprietà intellettuale delle ricerche è di titolarità dei ricercatori) al fine di avere il pieno controllo della ricerca da parte del team, alla fornitura di competenze necessarie, all'assistenza sul piano regolatorio, del business development, del marketing, della gestione della R&D, del network con altri imprenditori. 65


Entrando dunque negli aspetti più operativi dell'attività di technology transfer e, dunque, dei rapporti tra KIAB e KDAB si evidenzia che, in genere, ogni progetto di trasferimento tecnologico per un certo periodo di tempo, quello necessario a fare i primi passi, è sostenuto unicamente da KIAB in termini di capitali e competenze (potendo contare su un budget di circa 1,5 milioni di euro a progetto in media ed un network di 300 esperti cui si faceva riferimento precedentemente, che sono a disposizione di tutte le aziende nate dal processo i trasferimento tecnologico). Solo in un secondo momento parte la fase dell'attrazione di altri investitori. Idea FIow

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Graf. 3 - Media di investimenti per società: 2,35

Nella figura viene sintetizzato il processo di lavoro di I(DAB, che investe tramite come un investitore di seed convenzionale, facendo da poio d'attrazione di altri operatori di venture capital. I(DAB si sta ora specializzando in aree di ricerca medica: oncologia, malattie infettive, dermatologia, per cercare di aumentare la specializzazione ed attrarre ancor più capitali. KD

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Q_uesta figura sintetizza la composizione del portafoglio di KD in termini di numero, anno, stato di maturazione e valore dei deals. Si tratta del portafoglio di startup in campo bio-tecnologico e medico più grande d'Europa. Quello che è interessante notare è che ci sono 9 aziende in "Fase 2", dove si può realisticamente valutare la "medicalinnovation" e 5 in "Fase 1". Non vi è ancora un numero ampio di exits e, dunque, non possiamo provare a restituire agli investitori i profitti che si aspettano. Si spera però di poterlo fare nei prossimi due-tre anni poiché pensiamo di essere sulla giusta strada. Il KIAB ha, ad oggi, un portafoglio di 38 aziende - di cui 30 è il "lead investor" tutte operanti nel settore medico e biotech. In tutto si tratta di 100 milioni di euro di capitale che ha attratto anche ulteriore capitale privato. In un arco di tempo di cinque anni, il nostro portafoglio ha raggiunto un valore di 250 milioni di euro. Infine, sul modello di governance: KDAB è attualmente proprietario del 20% del KDAB (detiene delle specia/preference shares).

John Tidmarsh E-SYNERGY: COME TRATTARE L'EARLY STAGE IN UK E-Synergy Ltd è una società inglese che gestisce capitali di rischio di tipo early stage e che investe in aziende technology based. I professionisti che vi lavorano sono esperti di business e di tecnologia che sanno qualcosa della finanza piuttosto che dei finanziatori che sanno qualcosa della tecnologia e del possibile business. Penso che sia molto rilevante sottolineare questo quando si ha a che fare con investimenti di early stage perché i rischi più alti di queste nuove avventure sono in larga misura connessi all'aspetto tecnologico. E-Synergy gestisce fondi per circa 100 milioni di euro, ha un team di 20 persone con uffici a Londra e nell'East Midlands ed ha il progetto di aprire un ufficio in Irlanda del Nord. Per il fondo di cui si sta per parlare - lo "Stella Growth Fune!' - vi è l'obiettivo di aprire un ufficio a Ginevra. "Stella Growth Fune!' è un esempio di partnership tra pubblico e privato finalizzata alla condivisione e diminuzione dei rischi di investimento in operazioni di trasferimento tecnologico nel settore spaziale. Il fondo è stato presentato, esattamente un anno fa, in questa stessa sede del Collegio di Moncalieri, nel primo workshop organizzato dal Css. Bisogna essere Onesti ed aperti in merito al tipo di sfide, ai problemi, agli aspetti che funzionano e non funzionano e alle lezioni. O_uando si ha a che fare con investimenti in start-up, cioè aziende giovani e tecnologiche, si vivono momenti di rischio altissimo per via: dell'importanza della componente tecnologica, della possibile inadeguatezza del team promotore (costituito in genere da ricercatori), dell'incertezza della valutazione del mercato. Un insieme di cose che rendono la proposta non particolarmente interessante per la maggioraza degli investitori privati, tanto da venirsi a creare un "marketfailure". L'investitore privato percepisce rischi molto alti, quello pubblico, invece, non è propenso ad investire di-

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rettamente in queste operazioni perché, generalmente, non si considera qualificato per selezionare gli investimenti (oltre che per non interferire nei meccanismi di mercato). Ciò, pur in presenza di obiettivi che dovrebbero far convergere i comportamenti degli investitori pubblici e privati verso il finanziamento di queste iniziative: la creazione di occupazione e di ricchezza, in vario senso, per il soggetto pubblico; il ritorno sull'investimento per il soggetto privato. Per gestire, dunque, queste operazioni possono nascere (e sono nate) iniziative di partenariato pubblico-privato per diminuire e gestire i rischi di queste operazioni. Lo scorso anno ho parlato di vari strumenti che vengono promossi dal soggetto pubblico e gestiti dal soggetto privato che sono utilizzati, nel Regno Unito, per diminuire e condividere i rischi delle iniziative di trasferimento tecnologico e la nascita di nuove imprese innovative, i proof ofconceptfirnd di cui si è già parlato. E.Synergy ne gestisce alcuni come 1"Emerald fiind", di 3,37 milioni di euro. Il target di questo fondo è investire dopo la ricerca e prima della commercializzazione, proprio per valutare la potenzialità innovativa della ricerca. Oltre a fondi di questo tipo, E-Synergy gestisce ulteriori strumenti di accompagnamento e di preparazione all'investimento che sono in grado di apportare ulteriore valore aggiunto: si tratta dei cosiddetti Investment Readiness Programme (IRP), programmi di formazione dei promotori delle nuove aziende inglesi e di preparazione all'investimento. E-Synergy organizza tali IRP per circa circa 100 imprese l'anno. Gli incontri avvengono nell'arco di uno/quattro giorni per preparare l'imprenditore alla presentazione della sua proposta al soggetto investitore. In questi incontri si cerca di far capire alle aziende quali informazioni e dati interessano di più all'investitore privato a cui si chiedono capitali. Si cerca anche di far capire loro i punti di forza e di debolezza dell'offerta. Per E-Synergy questo è anche un modo di fare una due diligence a basso costo per poi selezionare i progetti d'impresa più promettenti da inserire nel dealflow ed, eventualmente, finanziarli direttamente. La condivisione del rischio passa attraverso altri strumenti finanziari, per fasi o step ulteriori a quello del "proof of concept". Si tratta di fondi Early Growth Funds, che co-investono soldi pubblici insieme a soldi privati. E-Synergy gestisce due "Early Growth Funds" che co-investono insieme ad un network di investitori privati, per un totale di 7,5 milioni di euro (il rapporto di finanziamento pubblico/privato è di 2 a 3) ed un "Enterprise CapitalFunds"(per cui il rapporto di finanziamento pubblico/privato è di 2 a 1). I ritorni finanziari di questo fondo vengono distribuiti in base ai ratios di partecipazione. E-Synergy gestisce anche un fondo dedicato al settore "clean tech" di circa 45 milioni di euro. Questo è un settore particolarmente attraente per gli investitori privati. Veniamo a "Stella Growth Funci'. Si tratta di un fondo di diritto inglese (UK limited partner) che investe in start-up connesse all'utilizzo di tecnologie spaziali e satellitari per fini terrestri, non scientifici che è stato promosso dall'Agenzia Spaziale Europea e che investirà nei 17 Paesi membri dell'ESA. La dotazione del fondo è di 40 milioni di euro, estendibili a 60, di cui 5 provenienti proprio dall'ESA. Questo è, 'SI.]


in sostanza, un fondo di venture capital europeo che usa non solo i soldi ma anche e soprattutto le risorse tecnologiche e le expertises dell' EsA per rendere gli investimenti più attraenti al settore privato ed aumentare le probabilità di avere un ritorno sull'investimento. Per raggiungere questo scopo sono tre le modalità di interazione con ESA: un accesso privilegiato al network e al dealjlow dell'ESA. Pochi sanno quanto sia grande questo network, formato da migliaia di aziende tecnologiche che fanno capo al "sistema EsA". Stella Growth Fund è l'unico fondo di questo network e il suo gestore ha il "diritto di primo rifiuto" rispetto alle opportunità che il dealflow dell' ESA è in grado di generare; un accesso alle conoscenze tecnologiche dell' ESA. Ciò è rilevante per quanto riguarda la selezione delle opportunità e per giudicare il vero valore delle diverse tecnologie che le potenziali start-up utilizzano; un accesso ai network commerciali dell'ESA. Ciò è fondamentale per "creare valore", aprire canali commerciali alle aziende una volta selezionate ed entrate nel portafoglio del fondo. Ciò è ovviamente fondamentale anche per gli investitori che, così, possono essere maggiormente garantiti nell'ottica di un exit. La partnership, dunque, riduce senza dubbio il costo di accesso ai deals, il rischio tecnologico e commerciale. Ma perché si è deciso di fare questo fondo? L'EsA è partita da alcune chiare motivazioni: è, innanzitutto, un modo per aumentare l'impatto dei propri investimenti nelle tecnologie spaziali (circa 5 miliardi l'anno, in totale) e di creare ulteriore lavoro ed investimento in settori connessi a quello spaziale. Per gli investitori privati questa partnership è un ottimo modo per creare valore e diminuire quel rischio - nei termini sopra indicati - e generare ritorno sull'investimento. Veniamo ora ad aggiornamenti più puntuali rispetto a quando lo Stella Geowth Fund è stato presentato nel corso del workshop di Moncalieri dell'ottobre 2007. Cercherò di trarre, dall'esperienza accumulata in un anno di lavoro, gli insegnamenti principali dal punto di vista operativo. Rispetto ad un anno fa, E-Synergy ha effettuato il fund raising (che non si è ancora concluso), ha negoziato la documentazione legale con i sottoscrittori delle quote del fondo (un'operazione molto più lunga del previsto, che è durata circa 6 mesi, da gennaio a giugno 2008), ha selezionato nuovi collaboratori per completare il team che si dedicherà alla gestione del fondo. Quest'ultimo aspetto è stato senza dubbio problematico e non semplice da gestire poichè i professionisti specializzati nell'early stagejìnancing sono pochi in Europa e sbagliare la selezione di personale con cui si dovrà lavorare per almeno dieci anni può essere un grosso danno. E-Synergy inizierà le operazioni di investimento entro quest'anno. Volendo trarre alcuni insegnamenti dal punto di vista della creazione di questo fondo e delfund raising, v'è da considerare, prima di tutto, quale senso e rilevanza l'operazione possa presentare per i potenziali sottoscrittori. Non dobbiamo infatti dimenticare che si tratta di un'offerta di investimento early stage e, dunque, considerata

M O


ad alto rischio e parte di quell"alternative asset" (comprendente il real estate, hedge funds o venture capita!) che costituisce non più del 10-15% del portafoglio dei private bankers. Pochi investitori vedono con interesse il venture capita/ed ancor meno l'ear/y stage. Tale offerta, per essere una "buona offerta" deve dunque far coincidere molti fattori di complessità. Inoltre, una "buona offerta" non aumenta le dimensioni dei capitali investiti ma aumenta la probabilità che gli investimenti vengano allocati nel proprio fondo piuttosto che nel fondo di qualcun altro. Di questi tempi, infatti, gli investitori trovano molto facilmente motivazioni per non investire. Dunque - è questo è un primo insegnamento - l'offerta deve essere la più accurata ed appetibile possibile fin dall'inizio per non far sorgere spontaneamente ragioni per non investire. Inoltre, vanno curati al massimo gli elementi più importanti di un business: il dealflow, il team ed il track record. Ci si deve altresì aspettare che ilfund raising sia sempre molto più lungo del previsto. Soprattutto se la raccolta è di capitali per l'ear/y stage, anche se molto può dipendere dal contesto economico o dal momento congiunturale: nel 2007, il tempo medio delfiind raising per fondi come questi, in Europa, oscillava tra i sei ed i dieci mesi. All'inizio del 2008, la media è salita a circa quattordici mesi. Oggi i tempi sono certamente più lunghi. Un altro insegnamento che si può trarre è quello di cominciare, se possibile, con quanti più capitali iniziali al fine di dare un segnale molto forte a potenziali investitori partner del fondo. Avere un cospicuo network e patrimonio di partenza è l'ideale segno di dimostrazione che il progetto sia buono. Ciò crea fiducia e diminuisce il tempo di raccolta dei capitali per la costituzione del fondo. Date queste caratteristiche occorre ben sapere a chi vendere il "prodotto". Nel nostro caso, interlocutori interessanti sono, fra gli altri, i Fami/y office. Ilfiind raising deve essere anche proiettato al ftituro con un certo anticipo: ecco perché i contatti devono essere attivati anche in finzione di sviluppi ulteriori del fondo (ad esempio, la costituzione di un secondo fondo, più grande e collegato al primo, per finanziare lo sviluppo dei deals). Instaurare per tempo rapporti di fiducia significa abbattere poi i tempi di fund raising al momento della necessità. Un'altra fondamentale questione da considerare è quella del timing dell'investimento. Su questo aspetto v'è da dire che le circostanze che inducono gli investitori a sottoscrivere quote di fondi ear/y stage (ma ciò vale per qualsiasi altro tipo di fondo) possono cambiare nel medio periodo. E-Synergy ha purtroppo sperimentato questa cosa recentemente: a causa di un'attesa forzata di circa cinque mesi per formalizzare una sottoscrizione. Il sottoscrittore ha nel frattempo cambiato le proprie priorità e si è ritirato dall'affare. Ci si deve dunque aspettare che mentre si raccolgono dei soldi per costituire il fondo se ne possano perdere degli altri considerati già acquisiti. Motivo per cui, non appena si ottiene un'adesione a sottoscrivere, sarebbe opportuno formalizzare al più presto. I partenariati pubblico-privati, in fondi per il techno/ogy transfer, possono però essere anche "poco attraenti" per diverse ragioni: prima di tutto il potere decisiona/e che 70


può esercitare l'Autorità pubblica è visto spesso dall'investitore privato come un limite all'autonomia di decisioni che devono essere prese sulla base della convenienza del mercato. Vi possono essere, infatti, esigenze particolari, territoriali, di settore che vanno tutelate da parte di un ente pubblico ma che, di fatto, frenano l'interesse di investitori potenzialmente interessati. Inoltre, un investitore privato può sempre fare l'obiezione: perché è necessario lo sponsor pubblico? Quale è il motivo di interesse? Spesso non è facile spiegare le ragioni dell'interesse e del coinvolgimento del soggetto pubblico ad un investitore. In questo caso gli insegnamenti sono ovvi: ilfind manager, pur in presenza di uno sponsor pubblico, deve aver garantita l'indipendenza decisionale, pur nel rispetto delle esigenze territoriali del partner pubblico che, in ogni caso, non devono sfociare in ingerenze od influenzare negativamente la gestione del soggetto privato. E importante avere una buona strategia di partenza nella creazione dell'offerta. Gli investitori sono pochi e bisogna alimentare un'offerta che, sin dall'inizio, sia molto vicina alle esigenze degli investitori. Serve dunque strutturare l'offerta già con l'idea molto precisa di chi investirà in questo fondo. Se possibile, occorre lavorare già dall'inizio con un "placement agent"4. Questo è forse il punto più importante. L'offerta dello Stella Growth Fund è caratterizzata da vari vantaggi competitivi: il dealflow, il supporto tecnologico dell'ESA, la scarsa concorrenza per la qualità dei deals,la diversità dell'operazione in termini sicuramente tecnologici (cd. "wow factor"). E un'offerta che, per certi versi, ha una forte componente di immagine (lo Spazio fa un po' sognare ed attira molta attenzione). Il profilo di rischio può essere interessante per il fatto che, generalmente, queste operazioni sono potenzialmente rischiose ma, con una buona gestione del portafoglio, il ritorno può essere alto. Qualche nota conclusiva sul contesto attuale e sulle prospettive future. Il contesto finanziario attuale può sicuramente modificare le decisioni ed i comportamenti degli investitori (il credit crunch ha impattato negativamente sugli hedgefund mentre sembra che ne abbiano tratto beneficio i fondi di fondi). Non è detto che tale situazione sia negativa tout court. Bisogna vedere sempre quale è la parte che ne trae beneficio e quale viene penalizzata. Inoltre, occorre considerare l'orizzonte temporale: nel breve periodo il credit crunch può causare seri problemi ma, nel lungo, anche maggiori opportunità. Il periodo attuale, ad esempio, è senza dubbio il momento giusto per investire in operazioni di venture capital. I nuovi fondi che nascono in questo periodo sono quelli che hanno le maggiori possibilità di successo. Abbiamo numerosi riscontri che ci confermano un aumento di allocazione di "investimenti alternativi" (alternative asset) come il venture capital. Ma occorre essere realisti: gli investitori aspettano che questa crisi passi o che torni un po' di chiarezza per cominciare a prendere delle decisioni a più lungo termine. Tutti i nostri interlocutori ci dicono che cominceranno a prendere sul serio nuovi investimenti di questo tipo all'inizio del prossimo anno. 71


Francesco Curcio ESPERIENZE DI SEED CAPITAL

Come medico che ha deciso di trasferire alcuni dei risultati della ricerca dal laboratorio "al letto del paziente" devo illustrare un'esperienza - una spin-offcornpany dell'Università di Udine, denominata T0R (Tissue and Organ Replacernents) - lontana dalle esperienze "stellari" innnanzi ricordate in materia di scienze biomediche. Cominciamo da qualche dato dell'OCSE sulla situazione italiana relativa all'innovazione e alla competitività che fa ben capire quale sia il nostro punto di partenza. I dati relativi al cd. "venture capital investrnent" italiano sono molto interessanti poiché evidenziano una concentrazione di investimenti nel segmento ear/y sz'age rispetto a quello dell'expansion ancora più scarsa che in altri Paesi. Con riferimento ai settori tecnologici è interessante sapere che, in Italia, la magVenture capita! ,nvestment, 2005 or !att'st avahia/ilL' vear (As apercentage ofGdp) Expansion

Early sta ges

Denmark Sweden United Kingdom Korea 1 United States Norway lceland 2 Portugal OECD Canada EU Switzerland Netherlarìds Finland Spain rrance Ireland Germany Australia Hungary Austria New Zealand Elelgium Japari taly Slovak Republic Poland Czech Republic Greece

0.5

0.4

0.3

0.2

0.1

0

Fonte: Ocse Innovation Scoreboara' 2007.

MA


gior parte degli investimenti ha ad oggetto il settore delle Telecomunicazioni e dell'ICT, mentre nei settori come l'Health ed il Biotech (quelli che più interessano il caso che mi accingo a presentare) tali investimenti rimangono ancora tuttosommato limitati. Interessanti sono anche i dati dell'intensità della R&S, in Italia, sia degli investi-

Sbare ofhigh-techno/ogy sectors in total ventzire capital, 2005 or Iatest availableyear (As a percentage oftotal venture capital investment)

Communicatìons Health/biotechnology Ireland United States Canada Switzerland Denmark Greece Austria Finland Beigium OECD Worway Korea' lceland 2 Sweden Germany Jaian United Kingdom EU New Zealand France Portugal Spain Poland Italy Siovak Republic Australia CzecIi Republic Netherlands Hungary

Information tec nology

-

-

0

20

40

60

80

100 o,.

Fonte: Ocse Innovation Scoreboard 2007.

73


menti pubblici che privati, così come quelli relativi alla "costruzione della conoscenza" che rimangono sostanzialmente bassi. Con riferimento alle percentuali degli studenti di dottorato di ricerca stranieri at-

R&D intensity, 2005

1.5 0.8 16.9 4.2 1.0 0.0 42.2 7.8 0.6 0.9 100 5.3 3.0 0.8 4.4 1.3 1.6 29.6 0.1 0.4 0.4 15.4 0.3 0.2 1.6

Swederì Finland Japarì Kore Switzerland (2004) lceland Unitecl States Germany Denmark Austria OECD France Canada Belglum Uniteci KÌrlgdom Netrierlaiìds (2004) Australia (2004) EU27 Luxembourg Norway Czecrì Repulìc China Ireland New Zealancl (2003) Spain

Sliare of total OECD 22 0.2 R&D expenditure, 2005 0.6 or l.atest available year 0.2 0.5 0.4 0.1 0.7 0.2 I 5

4

3

Russianjeration Hurigary Snutti Africa (2004) Portugal Turkey (2004) Polanci SIovak Republìc Mexico Greece

I

2

1

0

Fonte: OcsE Innovation Scoreboard 2007.

74


R&D expenditure by source oJfinancing, 2005 (as apercentage of the nationaltota)

Business eriterprises

Government

QTher (aTher national sources + abroad) Luxembourg (2003) Japan Korea Switzerland (2004) China Finland Germany (2004) Sweden (2003) United States (2006) OECD Belgium (2003) Denmark (2003) Irelancl (2006) Czech Repubbc EU27 (2004) France (2004) Australia (2004) Netlierlands (2003) South Africa (2004) Spain (2004) Iceland Canada (2006) Austria (2007) Mexico Norway Italy (1996) United Kingdom H unga ry New Zealand (2003) Turkey (2004) Siovak Repubhc Poland Portugal (2003) Russian F&Ieration Greece (2003) 100

80

60

40

20

0

Fonte: OCSE Innovation Scoreboard 2007.

75


tirati in Italia si deve osservare che il nostro Paese occupa gli ultimi posti della classifica, preceduta persino da Paesi emergenti come la Repubblica Slovacca. La distribuzione del personale impiegato nella ricerca e sviluppo ci vede penalizzati Share offoreign doctoral students 2004 (as a percentage oftotal doctoral enrolment in host country)

.19982

42.5

Switzerland

38.6

United Kingdom

14.6

New Zealand

23.3 20.0

.

Canada Belgium

178

Australia

n.a,

United States (2001)

16.8

Austria

7.0

Derimark

4.5

Sweden

3.5

Norway

5.5

Spain

n.a.

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4 Turkey(1999)

• 0

Fonte: Ocse Innovation Scoreboard 2007.

76

Korea (2003)

Siovak Republic Mexico (2002)


non soio in termini quantitativi ma anche qualitativi. Dai dati si consta che, per ogni migliaio di persone impiegate in R&S, i ricercatori sono i meno numerosi. Questo sia in termini relativi che assoluti, sia per quanto riguarda la ricerca pubblica che privata. Un'ultima informazione riguarda il contributo italiano alla ricerca e sviluppo dei R &D person nel, 2005 (per thousand ernploynzenÉ)

Researchers

M 0ters Finland Sweden (2001) Denmark Japan Luxem bourg Frarice (2004) New Zealand (2003) Russian Federation Norway Belgium Switzerland (2004) Australia (2004) Canada (2004) Germany Austria Nettierlands (2003) EU27 (2004) Korea Spain Czech Republic Ireland Greece Siovak Republic Italy (2004) Hungary Poland Portugal Soutil Africa (2004) Mexico Turkey (2004) China

• 25

20

15

10

5

0

Fonte: Ocse Innovation Scoreboard 2007

77


Paesi stranieri. A tal proposito c'è da dire che è fattivo il contributo italiano alla ricerca e sviluppo Top 20places oJ'origin offoreign scholars in the United States, 2005106 (Headcounts) Chinese Taipei United Kingdom 3334 Franca \ 3380\ \ Canada \ \

4496\

Germany 5117 Japan 5600

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Italy 2983

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1711 lsrael 1 618 Turkey 1 355 Australia 1 265 Mexico 1 250 Netherlands 996 Poland 983 Argentina 864

China 19 017 96 961 foreign scholars workirig in the United States academia in 2005/06 Fonte: Ocse Innovation Scorehoar/2007

di Paesi come gli Stati Uniti. In Italia si spende in media circa mezzo milione di euro per formare un dottore di ricerca che poi viene perso rapidamente perché trova lavoro all'estero. Facciamo, in sostanza, un ottimo lavoro per altri Paesi. Sono dati certamente non ignoti ma che non è facile trascurare una volta che si entra nel tema.

"Italy, a Nation with a grand andproud tradition ofKnowledge and Scientfic discoveries, the piace where Leonardo, Galileo, Marconi, Fermi and many other important Scientists were born, is quickiy transforming in one of the most underdeveloped European Country in Biotechnoiogy. Despite ofa large consensus ofthe Italian Scient/ic Community 012 the relevance ofbiotechnology ... This situation must be modfìed in the highest interest ofltaly" (Mel Sembler Us Ambassador to Italy in "Il Sole 24 Ore" del 24 luglio 2003). Questa è un'affermazione forse un po' sommaria dell'allora ambasciatore americano in Italia. Certo, la difficilissima situazione italiana nell'ambito del settore biotech è 11*2


quella che è. L'Italia è un Paese con grandissime tradizioni di conoscenze di tipo scientifico che, tuttavia, rischiano sempre di rimanere a mezz'aria. Viene in mente il caso della lampadina di Thomas A. Edison. Credo a pochi venga in mente il nome di Alessandro Cruto, l'inventore che, per pochi mesi, è stato battuto da Edison sul brevetto della lampadina. Cruto aveva prodotto qui a Torino un filamento per la lampadina molto migliore di quello di Edison (con prestazioni di durata di circa 500 ore rispetto alle 40 ore della lampadina di Edison). Edison, però, ebbe la fortuna di lavorare in un contesto in cui le banche ed altri finanziatori americani erano propensi e poterono supportare il suo progetto. Cruto, figlio di operaio, non particolarmente benestante, operava utilizzando i pochi soldi che la madre sottraeva dal bilancio familiare. Inoltre la città di Torino, al momento di scegliere il tipo di illuminazione da utilizzare per le sue vie, ha scelto quella derivante dall'invenzione di Edison. Cruto è riuscito poi a fondare una società di produzione di lampadine che, però, è fallita rapidamente ed è stata poi acquisita dalla Philips. C'è, dunque, un problema culturale in Italia che potremmo definire storico? Ma andiamo oltre la "questione culturale". Veniamo a quella relativa al 'jìnanziamento". Da un'indagine condotta su 56 nuove società italiane di biotech risulta che esse vengono finanziate prevalentemente con i fondi del personale e dei soci della stessa azienda. In misura largamente minore, da contributi statali, regionali e privati, solitamente bancari che non sono nemmeno, oltretutto, gli strumenti ideali per finanziare start-up o spin-off. Viene in mente, a questo punto, la differenza tra innovazione e invenzione. Qualcuno, tempo fa, ha detto che la vera innovazione giace all'intersezione tra l'invenzione ed il bisogno di mercato: Vorrei ricordare l'esempio della eolipila di Erone di Alessandria, realizzata nel 100 d.C. Erone aveva scoperto il principio del vapore da cui si può ricavare movimento. L'invenzione veniva utilizzata nelle feste come strumento di intrattenimento, non rendendosi mai conto che quel principio poteva essere estremamente importante in termini più generali. Erone non è riuscito a trasformare l'invenzione in innovazione. Insomma, oltre all'invenzione e al bisogno di mercato è anche importante avere un microambiente, che può anche essere molto complesso in cui vi sia la finanza (in particolare, venture capita!), il marketing, il management, l'ingegneria gestionale, l'imprenditore, oltre che qualche sponsor pubblico. Un microambiente che si reputa fondamentale per favorire il passaggio dall'invenzione all'innovazione e, dunque, all'industria. Lo sviluppo tradizionale dell'innovazione si muove - questo l'ho ritrovato anche nel documento di preparazione al Workshop - o da un recnhnologypush della ricerca, o da un bisogno del mercato. Questi input contribuiscono a creare valore per il paziente (lead user) ma devono essere supportati. In medicina e in campo biotech il paradigma dovrebbe, normalmente, essere rovesciato. Si parte prima di tutto dal bisogno del paziente (si è nel campo delle attività lead userguided), cioè dalla definizione dei bisogni dei tanti users che convenzionalmente chiamiamo "mercato" per poi passare alla ricerca e all'invenzione.

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E' così per lo più. Ovviamente, non sempre. Altre cose da non dimenticare. L'importanza dei processi di generazione della conoscenza mediante cross-fertilization. L'organizzazione a sistema che deve permeare ed assistere la ricerca del laboratorio: il network scientifico, industriale, il collegamento con discipline diverse. E molto importante, nel settore medico, la presenza di agenzie e di strutture di regolamentazione che possano vigilare sulle attività affinché rimangano nei limiti della sicurezza. A tal proposito c'è da dire che, nel 1998, in Europa, si sono fermati, tranne che in Italia, gli esperimenti di terapia genica a causa di una moratoria derivante da alcuni trattamenti e sperimentazioni fatte sull'uomo che non rientravano nei criteri adeguati. C'è poi l'amplissimo capitolo della percezione del pubblico o dell'utente finale rispetto all'utilizzo ed all'introduzione di una nuova tecnologia. Può trattarsi di un fattore di gravissimo impedimento allo sviluppo di quella stessa tecnologia. Le scienze sociali dovrebbero, a questo riguardo, dipanare molti nodi intricati. Quanto ricordato fa da sfondo all'esperienza del faticoso avvio di uno spin-off dell'Università di Udine. L'Università di Udine ha costituito qualche anno fa una società spin-off (T0R Tissue and Organ Replacements - s.r.l.), per operare nel campo della coltivazione e proliferazione di cellule umane per la sostituzione di tessuti e organi. Vale, al riguardo, fare un po' di storia. Nel 2003 è nata l'idea di sfruttamento della ricerca e, nel 2004, il gruppo che si è dedicato al progetto ha vinto il premio "Start-up Friuli Venezia Giulia". Nel dicembre 2004 è stato vinto il "Premio nazionale dell'innovazione" svoltosi a Torino. Sono stati raccolti, in tutto, 75 mila euro. Nel gennaio 2005 è stato chiesto l'accesso alle agevolazioni di cui all'art. 11 del decreto legislativo n. 297/99, di finanziamento degli spin-off. La notizia di approvazione della domanda è stata ricevuta solamente nell'ottobre 2005 (dopo ben dieci mesi!). Solo successivamente si è potuta costituire - con l'impegno di farlo rapidamente - la società: la normativa, infatti, prevede che fin quando non si ha la notizia dell'approvazione del finanziamento non si può costituire l'azienda, anche se si è disposti ad investire del proprio capitale; pena, l'annullamento del finanziamento. Il 50 % del finanziamento concesso è stato erogato nel febbraio del 2006, il 30% al momento in cui si è potuto documentare di aver speso il doppio dell'anticipo ed il restante 20% al termine del progetto. Nel giugno del 2006 l'iniziativa ha beneficiato di un contratto con l'Agenzia Spaziale Italiana (di 124 mila euro, di durata di tre anni); nel dicembre 2006 è stato ottenuto un ulteriore finanziamento sulla base della legge regionale dell'innovazione del Friuli Venezia Giulia, che ha concesso erogazioni finanziarie per la copertura di spese quali il reperimento del management, il marketing, la protezione della proprietà intellettuale. Erogazioni che oltre a portare benefici ci hanno fatto fare una corsa ad ostacoli: il finanziamento, infatti, viene erogato a consuntivo e non come anticipazionee ricevere il finanziamento occorre, dunque, effettuare prima le spese). Nel gennaio 2007 è stato aumentato il capitale e trasformata la società da Società a responsabilità limitata a Società per Azioni: 119 mila euro sono stati versati dai soci fonda-


tori, gli altri soci sono l'Università di Udine (10%) che ha consentito di poter avere una piccola leva finanziaria al fine di ottenere un secondo round di finanziamento di investitori che hanno acquisito delle quote della società, pagando un sovrapprezzo con un rapporto di 4 a 1. E possibile identificare cinque tappe fondamentali del nostro percorso di nascita e sviluppo: a) la partenza; b) l'identificazione dei bisogni clinici; c) il marketing; d) il finanziamento d'impresa; e) la definizione della governance societaria e delle attività. Prima di tutto, però, è stato difficile decidere di diventare imprenditori; per un docente, infatti, non è facile fare questa scelta in Italia perchè in quasi tutte le università il docente che vuole fare impresa deve chiedere l'aspettativa dalla docenza. Un vero e proprio freno. L'Università di Udine, fortunatamente, ha un regolamento un po' diverso perché consente al docente di "tentare l'avventura imprenditoriale" senza rinunciare al servizio di riecercatore. Un'ulteriore tappa di questo percorso è stato il "Premio nazionale dell'innovazione Start-cup" che ha dato l'opportunità di avviare lo sviluppo dell'impresa finanziando, in pratica, la fase dei clinical needs. Partendo dalla stessa tecnologia si sono realizzati prodotti prima diagnostici e poi terapeutici per consentire un ritorno sugli investimenti più rapido, seguendo un approccio chiamato "teragnostica" 6 Per avviare l'attività di impresa è stato fondamentale iniziare le attività di marketing molto presto perché nel panorama delle varie soluzioni tecnologiche che si possono trovare è molto meglio partire sapendo già cosa può trovare applicazione. Si è molto discusso se cominciare l'attività di marketing dopo aver sviluppato il prodotto (un periodo di circa 3-4 anni) ma si è considerato il rischio di rimanere ftiori mercato per via dello sviluppo tecnologico di altri concorrenti. Il marketing è iniziato dunque da subito: è stato reclutato un responsabile prima ancora di costituire la società, per orientare le strategie di ricerca. In biomedicina si deve sperimentare un marketing a più livelli. Il primo livello, è quello di identificare l'utilizzatore finale, il mercato vero e proprio. Nel nostro caso, il marketing di primo livello ha rilevato che esistono malattie rare, come la sclerodermia, una malattia mortale per cui ad oggi non esiste terapia, che si presenta con una sintomatologia molto comune: circa il 15% delle persone affette da questa malattia presentano il fenomeno c.d. di Raynaud 7. In un caso molto limitato di situazioni, questo è il primo sintomo della sclerodermia. L'approccio diagnostico è inadeguato per questa malattia perché la diagnosi attuale è soltanto clinica e quando la malattia è conclamata si può fare poco per il paziente. Qindi, il nostro "mercato" rappresenta circa il 15% della popolazione. Altri tipi di mercato sono il trapianto di osso, l'implantologia, la chirurgia estetica. Tutti settori nei quali c'è bisogno di una grande cooperazione di scienze multidispilinari che possano consentire lo sviluppo di prodotti innovativi. Il marketing di secondo livello è invece quello che permette di identificare il vero acquirente, l'industria a cui trasferire il "semilavorato". Il marketing si deve occupare di identificare il cliente per ciascuna delle fasi del processo di sviluppo. A tal proposito abbiamo appreso che all'inizio del processo di trasferimento, l'investimento è tutto .

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sommato esiguo ed il rischio è alto, mentre con il tempo le cose si invertono. Per quanto riguarda la governance va detto che siamo partiti da una società molto "pesante": cioè da 19 soci (tutti coloro che hanno contribuito allo sviluppo delle tecnologie in laboratorio) per poi giungere ad un riassetto grazie alla costituzione di una società per azioni di 5 soci istituzionali. 119 soci individuali, infatti, hanno costituito una società che ha la maggioranza relativa della società spin-off per azioni. Tutto ciò per avere una governance. accettabile per gli investitori. Molto importante è stato il fattore management. E emersa la necessità che sia il team lo strumento fondamentale per poter poi ottenere un rapporto con i finanziatori perché è sul team che si scommette in queste fasi di partenza. Quali sono stati i fattori critici affrontati nello start-up dell'impresa? Senza dubbio quello del finanziamento del "primo mezzo miglio" (è forse eccessivo parlare di "primo miglio") per coprire i costi del cosiddetto proof ofprinciple, della due diligence, della prova dell'idea. Una delle prove più difficili per una sta rt-up. Anche perché è difficile trovare persone in grado di effettuare la valutazione in Europa (in Italia questa figura professionale è praticamente inesistente). I fondi pubblici sono inadeguati soprattutto in termini di tempistica di erogazione. E sicuramente mancata una figura come quella del business angel americano che porta non solo denaro ma anche e soprattutto network, conoscenza, confidenza, ecc.

Andrea Di Anselmo META GROuP: UNA PUBLIC-PRIVATE PARTNERSHIP ITALIANA Come avvicinare la conoscenza al mercato e come valorizzare i talenti? Meta Group parte da questa domanda. Ne abbiamo tratto un meccanismo operativo fondato su tre livelli con tre società diverse. Un primo livello è attento agli aspetti di policy e interagisce con Regioni ed altri stakeholders per definire meglio politiche e interventi a favore dell'innovazione e della creazione di imprese knowledge based. Per fare questo, ci siamo occupati dell'iniziativa Jeremi, riguardante l'intervento del Fondo Europeo degli Investimenti in Italia. Un secondo livello è quello di operare con imprenditori e start-up per accelerarne la crescita e per aiutarli ad incontrare investitori di tipo early stage. Un terzo livello si occupa invece di gestione di strumenti di finanza early stage ed, in particolare, di seedfund. Esemplare della nostra esperienza è un fondo per partecipazioni in capitali di rischio in early stage della Regione Emilia Romagna. Il punto di partenza è la convinzione che ci sia veramente bisogno di imprenditori, cioè gente che ha intenzione di assumersi il rischio. La mancanza di imprenditori è un grande problema che ci deve preoccupare tutti, non solo oggi ma anche in futuro. Quando si ha a che fare con imprese knowledge intensive si presentano tre problemi. Mi concentro su uno in particolare: la necessità di denaro. E stato detto tante volte in questo colloquio, anche da Francesco Curcio, che l'investimento di partenza rimane sostanzial-


mente di tipo "Friends, Family andFools" ("FFF"). Ebbene, questa è la fonte più rischiosa di denaro che possa esistere. Essendo, inoltre, la più scarsa per definizione. Ciò che serve non è solo denaro, ma ciò che cominciamo a chiamare "ecosistema", un ambiente in cui la finanza gioca certamente un ruolo ma in cui fondamentale è il "sistema sociale" che c'è intorno, la qualità e quantità di imprenditori veri che possono svolgere un ruolo di mento?y. Non serve continuare ad utilizzare strumenti e metodi - come i classici incubatori, pensati per altri scopi - per promuovere imprese knowledge based. Con l'incubazione non si va da nessuna parte. Questa, ormai, è una convinzione diffusa. C'è poi un discorso importantissimo collegato all'internazionalizzazione ed alla dimensione globale. In Italia si pensa troppo in piccolo. Ci sforziamo di fare business col nostro vicino di casa, cerchiamo di ottenere la commessa dal Comune o dalla Provincia quando, se il prodotto è buono, con lo stesso tempo e lo stesso sforzo, potremmo acquisire una dimensione diversa di valore a livello internazionale. Un altro elemento molto importante - citato più di una volta - è quello di sviluppare una certa tipologia di investitori, i Business Angels, che ancora da noi, in Italia, non hanno il ruolo che giocano in altri Paesi. Essi sono uno dei mattoni fondamentali di questo ecosistema, perché apportano smart money, denaro intelligente. In generale, c'è ancora da capire che non tutto il denaro è lo stesso, che può avere un colore ed un peso diverso. Non si può avere successo né si riesce a fare il primo piccolo passo se non si esce dal circolo vizioso del "FFF", soprattutto a livello regionale. Questo è uno di quei temi su cui dovremmo riflettere ed assumere le nostre responsabilità. Lo dico da consigliere d'amministrazione di una società di sviluppo regionale. Dobbiamo imparare a prendere il rischio perché esso genera ritorni. Ilfondo Ingenium per l'early stage regionale. E' il fondo per l'early stage promosso nella Regione Emilia Romagna. Il fondo nasce con l'opportunità che non ha solo l'Emilia Romagna ma tutte le regioni italiane (così come la maggior parte delle regioni europee): quella di sfruttare delle misure inserite nelle precedenti programmazioni, cosiddette di "ingegneria finanziaria". Misure utilizzate per erogare prestiti partecipativi, prestiti convertibili e garanzie. Per rimuovere un possibile fraintendimento, lo strumento delle garanzie è importantissimo e utilissimo, irrinunciabile, ed ha permesso alle nostre piccole imprese di crescere e continuare a esistere. Ma alla condizione che, prima di tutto, ci sia capitale di rischio early stage, che non è Stato mai realmente attivato. L'unica regione che è riuscita ad attivarlo è stata proprio la Regione Emilia Romagna che, alla fine del 2005, ha emanato un bando ad evidenza pubblica per l'identificazione di un soggetto che gestisse "Ingenium". Il fondo è costituito, per il 70%, con capitali del Fondo Europeo per lo Sviluppo e la Ricerca (FEsR) e per il 30% da capitale privato. Ingenium è un fondo di partecipazione in capitale di rischio che può acquisire partecipazioni di minoranza nel capitale di società non quotate. E questo ha il suo senso poiché l'obiettivo dell'iniziativa è quello di creare una partnership, non una ownership. Si cerca di investire in imprese guidate da imprenditori motivati, non togliere motivazioni a chi vuole fare impresa. Abbiamo la consapevolezza che con il "fare insieme" Ek]


si può andare molto lontano. Il fondo può intervenire attraverso round successivi di investimento (foiow on). Il range di investimento va dai 300 mila al milione di euro, in alcune aziende si è investito fino a due milioni. La Regione, con questo strumento, ha di fatto dato una definizione semplice di early stagefinancing delegando il gestore ad investire in imprese con oggetto sociale molto ampio, purchè con meno di 36 mesi di vita. Il bando ad evidenza pubblica di livello europeo è stato vinto da Meta Group, l'unica società privata che, di fatto, gestisce questo tipo di misure in Italia. Per la gestione Meta Group riceve una managmentfee, un premio sulla gestione e, comunque, si impegna al coinvestimento. Il fondo è stato inizialmente capitalizzato per circa 15 milioni ed ha attualmente investito 7 milioni di euro di capitale pubblico. Dunque, il capitale pubblico non è più disponibile e si deve attendere la nuova programmazione 2007-2013 per accedere alla disponibilità delle nuove risorse. Sono stati realizzati sette investimenti (l'ultimo è in via di perfezionamento). Il fondo ha esercitato anche una forte azione di attrazione. Pur potendo investire solo in Emilia Romagna, il 20% delle proposte è giunto al di fuori dai confini regionali ed ha fatto sì che vi siano state ricadute nella Regione con uno sviluppo di un certo network. Il primo investimento del fondo è stato nella società PharmEste, una spin-off dell'Università di Ferrara, che opera nel mercato neuropatico. E un caso di successo di cui ha dato testimonianza Federfarma. In quest'impresa è stato investito un milione di euro dal fondo ed è stato poi effettuato un coinvestimento con altri investitori, per un totale di circa 3,5 milioni. La condizione posta dagli investitori è stata che ifounders assumessero un'amministratore delegato con esperienza nel settore biotech ed, in particolare, con esperienza infiind raising, al fine di arrivare ad uno stadio di sviluppo avanzato in tempi ragionevoli. Ad un anno dal primo investimento è stato realizzato un altro round di finanziamento di sei milioni di euro. PharmaEste è stata in gado di ottenere, complessivamente, un finanziamento pari a circa 10 milioni di euro. La seconda società in cui il fondo ha investito è TECGENTA, una società che opera nel settore I0T. Sono stati investiti nella società 2 milioni di euro in due round. Il risultato di tale investimento è la creazione, in Emilia Romagna, di un gruppo di 450 persone che si occuperanno di sviluppo di software aziendale. Il terzo dea/è ReSolar, spin-offmolto particolare del CNR, nato quasi per caso: due "aspiranti imprenditori" sono venuti a conoscenza che, nel processo di produzione dell'energia solare, vi è un nodo critico nella fase di approviggionamento del silicio e che l'identificazione di nuovi metodi e processi per ottenere silicio so/ar grade apporterebbe una innovazione molto conveniente. I due, mentre apprendevano ciò, hanno scoperto che dei ricercatori CNR stavano lavorando su questa linea di ricerca. Da li il contatto e l'idea di spin-offpresentata ad Ingenium che ha poi deciso di investire. Un anno dopo, questi imprenditori hanno convinto un gruppo di business ange/ ad investire una somma di pari ammontare ed oggi hanno raddoppiato il capitale a loro disposizione.

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Naturalmente, sia ReSolar che PharmaEste sono ancora nello stato di pre-revenue. Altre sono le società avviate che vale ricordare: HDs, che realizza facility management in maniera innovativa. Opera dunque in un settore tradizionale ma con approccio innovativo; InTrauma, era una società già costituita ma senza fatturato. Con il supporto di Ingenium ora ne ha uno importante. La società ha messo a punto un sistema particolare di viti, fissatori per interni da utilizzare in campo ortopedico, che si avvitano e svitano con facilità, semplificando moltissimo una serie di procedure; PASSPACK, una società che opera nel settore Internet, in particolare nella gestione di password. Anche questa è una società in stato di pre-revenue. Passpack è anche il primo esempio, in Italia, di coinvestimento di un fondo di seed con una delle più importanti business angels community in Italia ("ItalianAngelfor Growth"). Abbiamo creduto in questa società fondata da marito e moglie che avevano una forte esperienza personale (può essere il caso emblematico della experience driver innovation) e che ora sta entrando nel mercato e Sta intraprendendo la fase commerciale. Ouali idee abbiamo tratto dalla nostra esperienza? Innanzitutto, tra le cause dei problemi e del mancato decollo di questo genere di iniziative vi è una mancanza od insufficienza di ambizioni. Nella maggior parte degli imprenditori che incontriamo non c'è la volontà - come abbiamo già detto - di puntare ad un mercato globale sin dall'inizio. C'è la tendenza a lavorare per primo con il vicino di casa, poi in ambito regionale, poi nazionale e solo alla fine in ambito globale. Non si può più Seguire questo approccio. Occorre agire da subito a livello globale. Il problema della scarsa ambizione si riscontra anche nella scarsa propensione alla crescita. Ci si accontenta di un fatturato di due milioni di euro, di un'impresa di cinque addetti. Questo non è un bene per il nostro sistema e non interessa agli investitori, specie di early stage che cercano ritorni maggiori a parità di capitale investito. E inoltre da sottolineare, da un certo punto in poi, le iniziative sono di business o non sono. Serve dunque perfezionare meccanismi che devono generare profitti, non nuova conoscenza, fermo restando che la generazione di nuova conoscenza è un fattore cruciale ed è propedeutica a nuovo business. Un ulteriore fondamentale elemento da tenere in considerazione è che gli investitori cercano imprenditori, non manager. Persone disposte a condividere il rischio per creare e sviluppare imprese di successo e generare profitti, non "gestori di progetti". Le idee certo non mancano, ironicamente potremmo dire che esse sono una commodity. Quel che conta è la capacità di implementarle. E' questa che certifica la consistenza e la bontà di un'idea. Come gestori di fondi e valutatori di business prestiamo particolare attenzione a tre cose: alle persone, alle persone, alle persone. Negli investimenti di tipo early stage l'unica garanzia è la qualità del team proponente. Solo dopo viene il prodotto ed il mercato. Anche un grande progetto, senza le persone in grado di eseguirlo, non approda a nulla. E molto meglio avere un progetto di serie B ma un team di serie A che


il contrario. È stato citato Edison che dimostrava una cosa importantissima: nell'early stage, 10% è inspiration (ispirazione), ma 90% è perspiration (sudore). Altra questione: un'assunzione di responsabilità politica è doverosa nel nostro Paese. C'è stata una volontà di lanciare un sistema di risk capita/per l'early stage ma dobbiamo dire che le SGR a capitale ridotto, in pratica, non hanno funzionato per diverse ragioni ed, in un certo senso, era prevedibile che non avrebbero mai ftinzionato. Il nostro gruppo, in Emilia Romagna, investendo in due-tre deals l'anno (per un totale di sette milioni di euro in due anni), ha conquistato circa il 30% del mercato italiano. E' stata una facile conquista: sono infatti veramente pochi i fondi early stage presenti in Italia così come poche sono le risorse investite. D'altra parte, l'Unione Europea, nel tentativo di stimolare il mercato, con i regolamenti derogatori alla normativa sugli aiuti di Stato in casi di marketfailure non ha propriamente aiutato il settore. Personalmente non sono convinto che, in questo settore, siamo in presenza di un marketfai/ure solo perché vi siano poche risorse. Al contrario, ciò è sinonimo di un mercato che funziona a dovere, cioè finanzia ciò che è finanziabile. Chi si prende il rischio di investire come facciamo noi, guardando ad una prospettiva non breve di ritorno, quando invece si può investire nel mercato immobiliare? Non è, dunque, un problema di marketfailure. Il mercato è da creare e questo vuole una volontà speciale e il necessario coraggio, della politica in particolare. Il altri termini, è fondamentale comprendere che occorre spendere in early stage, perché senza ilproofofconcept non si va da nessuna parte. Il fatto che il proofofconcept sia funzione pubblica non è un marketfailure ma è un'espressa volontà politica che vuole investire in una fase cruciale dello sviluppo della nostra economia dove solo il pubblico, con regole giuste e controlli rigorosi, può investire. Non aspettiamoci che in questa fase ci possa essere una forte presenza di privati. Ci può essere, al limite, una possibilità di co-investimento. In Italia sono falliti dei fondi di early stage con dei livelli di co-finanziamenti del 50%. Non è certamente segno di marketfailure ma di un mercato ancora non nato in tutte le sue componenti. C'è da dire che l'esperienza della Regione Emilia Romagna, in particolare, sta funzionando bene perché è l'unica ad aver avuto il coraggio di delegare e di non fare mai ingerenza nella valutazione e nella selezione. Ha invece identificato, per mezzo di una gara pubblica, i professionisti con la capacità di gestire early stage investments in ottica privatistica e profit.

Simone Zanolo EPORGEN VENTUREs: DALL'INCUBATORE ALL'ACCELERATORE PER IL BIOTECH

Eporgen Venture è una società nata nel 2004 in partenariato con il Bioindustry park del Canavese che era allora beneficiano di risorse dei fondi strutturali europei dedicate all'avvio di un incubatore di impresa. Di qui la collaborazione: il Bioindustry Park ha messo a disposizione l'edificio, Eporgen l'esperienza dei suoi soci. M .


Quella di Eporgen è una storia un po' diversa da quelle presentate oggi. Si tratta di un'esperienza di incubazione con lo spirito dell'accelerazione cioè consapevole dei limiti di un'incubazione intesa in senso classico. Eporgen Ventures è il primo soggetto italiano sostenuto da investitori italiani non istituzionali interamente dedicato al finanziamento di seed capital nel settore delle biotecnologie. Tra le ragioni dell'avvio di questa avventura c'è la convinzione che l'industria farmaceutica internazionale ha ed avrà sempre più bisogno delle piccole società biotech per alimentare il loro portafoglio prodotti. Un dato su tutti, a conferma di tale considerazione: nel 2007 la Food and DrugAdministration (l'agenzia pubblica americana che approva i nuovi farmaci che vengono immessi nel mercato) ha approvato solamente 17 nuovi farmaci. Il numero più basso da oltre 10 anni a questa parte. Questo dato può essere un indicatore del fatto che il sistema della ricerca e sviluppo praticato all'interno dell'industria farmaceutica non riesce a dare le stesse performance del passato e che ha bisogno di un approccio più creativo che, in questo momento, può essere apportato solo per il tramite delle piccole società biotech, che hanno forse meno mezzi ma una motivazione fondamentale. Una seconda considerazione a suffragare l'opportunità di creare un soggetto come Eporgeri è relativa alla fonte principale di innovazione delle società biotech: questa è la ricerca difrontiera condotta nelle università e dai centri di ricerca pubblici. Eporgen, nella consapevolezza che sia sempre stato difficile per la ricerca pubblica "fare uscire" l'innovazione dal laboratorio universitario per introdurla in un meccanismo di valorizzazione, vuole dunque offrire una risposta come sistema completo di incubazione di tale valorizzazione. Un'incubazione diversa rispetto a quella tradizionale, che si limita sostanzialmente a fornire spazi e, nella migliore delle ipotesi, assistenza di tipo brevettale. Un'assistenza di servizi ad alto valore aggiunto e di strumenti di tipo finanziario, di capitale iniziali di investimento, di gestione della strategia brevettale (non solo la tutela, che significa supporto alle decisioni di protezione ma anche, ad esempio, supporto in merito alla scelta delle aree geografiche in cui brevettare), di pianificazione del business. Francesco Curcio diceva che la sua start-up ha subito avviato le attività di marketing. E stata una scelta giusta; non è mai troppo presto per cominciare a fare il marketing delle proprie attività. Il più delle volte, per questo genere di iniziative, manca il supporto "scientifico non accademico", ossia quello degli scienziati che hanno lavorato per anni in azienda e che sanno cosa fare per sviluppare un farmaco che funzioni. Persone che possano dare consigli concretamente utili per sviluppare un'idea. Dalla collaborazione tra Eporgen ed il Bioindustry Park è nato il progetto Discovery, una callforproposals che aveva, come unico vincolo, la presentazione di idee da parte di ricercatori italiani, operanti sia in Italia che all'estero. Per promuovere il bando è stato effettuato un road show nelle università italiane e si è dovuto purtroppo constatare, in molti casi, una mentalità di chiusura nei confronti di un'iniziativa non sviluppata in loco. Sono stati, comunque, ricevuti 23 progetti che rispondevano ad alcuni


semplici criteri: una base scientifica molto solida, un brevetto già esistente o la possibilità di brevettare a breve ed una forte motivazione da parte del proponente. Abbiamo riscontrato che in ambito accademico, in Italia, non c'è una diffusa cultura brevettuale. In molti casi abbiamo dovuto scartare idee molto interessanti brevettate in Italia ma prive di brevetto estero. Di questi ventitrè progetti ne sono stati selezionati sei ed Eporgen Venture ha deciso di investire in cinque di essi. Un panel di selezionatori ci ha aiutato nella selezione dei progetti. Certo, allo stadio early stage, nessun venture capita/ist avrebbe mai investito in un progetto di questo genere. Infatti è stato proprio così, ma degli operatori di venture capita/hanno comunque dato supporto al processo di selezione dei progetti, avviando di fatto una relazione che ci consente di poterli successivamente interpellare nel momento in cui il progetto avrà raggiunto un maggiore grado di maturazione. Discovery è stato riproposto una seconda volta (con modalità diverse). Nel complesso sono state finanziate otto società ed attivate relazioni con numerose altre imprese. Il portafoglio di Eporgen è composto, in particolare, da cinque società che sviluppano prodotti farmaceutici e da tre società che si occupano di sviluppo di altri prodotti (microelettronici, ingredienti ecocompatibili per vernici antivegetative per le barche, sistemi diagnostici per le malattie autoimmuni). L"incubatore" è l'asset principale della nostra iniziativa. Quindi, Eporgen offre anche degli spazi fisici, seppur ridotti (60 mq utilizzati sia come ufficio che come laboratorio) in cui però le aziende ospitate trovano un ambiente molto favorevole: ci sono diversi edifici che ospitano aziende farmaceutiche e laboratori di ricerca; la collocazione all'interno del parco permette di avere uno scambio di idee e di informazioni continuo e molto utile. L'incubatore assiste solo progetti che sono fortemente protetti a livello di proprietà intellettuale. Generalmente, le aziende create ed ospitate sono società a responsabilità limitata, ognuna con autonomi organi direttivi. A differenza di alcune esperienze prima presentate, Eporgen si riserva la maggioranza del capitale delle start-up in cui investe, con una clausola: i ricercatori sono garantiti per quanto riguarda il valore della loro quota per i primi tre anni di esistenza della società. Ciò significa che, in caso in cui si rendesse necessaria una nuova iniezione di capitale, i ricercatori possono dedicarsi alle attività scientifiche senza preoccuparsi del valore delle loro quote, che rimane garantito. Eporgen fornisce alle aziende delle competenze ed un'assistenza costante, sia per quanto riguarda aspetti gestionali che scientifici. Eporgen svolge anche attività di pre-seed, un po' come fa il Karolinska Development. Finanzia, in pratica, iniziative che, per il momento, non hanno ancora raggiunto la fase del proof ofconcept ma in cui ha ragione di confidare in termini di qualità e di sviluppo raggiungibile entro 6-8 mesi. Ogni altra decisione si prende successivamente. Per chiudere: l'esperienza Eporgen pone in questione il convincimento che il sostegno dell'early stage sia soltanto funzione pubblica.


Claudio Giuliano POLO ITALIANO DEL VENTURE CAPITAL ED OLTRE Sono responsabile, insieme ad altri colleghi, di Innogest e Piemoritech, due fondi che operano in Piemonte. Piemontech è un fondo che investe solo in Piemonte ed in progetti in fase di seed e pre-seed; Innogest, invece, investe in tutta Italia in progetti in fase di early stage. Piemontech investe da 100 mila euro fino ad uno, massimo due milioni ad azienda ed ha ad oggi circa 13 partecipate. Innogest ha finora assunto 11 partecipazioni. I due fondi sono abbastanza complementari e credo sia molto importante parlare, in questa occasione, di fondi di questo tipo o come quello promossi da Eporgen poiché rappresentano un primo tentativo di fare "massa critica" sul territorio nazionale. Da queste premesse deriva anche il concetto del "polo italiano del venture capita?', un'associazione in cui si presta del lavoro volontario ed in cui degli operatori di venture capita/si riuniscono periodicamente per parlare di deal, di operazioni, di aziende, con l'idea di stimolare co-investimenti. Una delle caratteristiche distintive dei territori "evoluti" nel venture capital, infatti, non è solo il numero di fondi, ma anche la tendenza dei fondi a co-investire. Anche grandissimi operatori - come "Sequoia", in Silicon Valley - che teoricamente potrebbero investire da soli, preferiscono co-investire perché giudicano l'investimento "in sindacato" non solo funzionalmente alla mera condivisione del rischio, ma soprattutto in ottica di moltiplicazione del/e opportunità di assistenza per le società in portafoglio, che sono intrinsecamente fragili e rischiose. Moltiplicare il network apportato da ogni singolo operatore di venture capital significa aumentare i vantaggi della singola impresa, aumentare il numero di persone che possono assisterle ed inserirle in circuiti virtuosi. E proprio questa la missione del "Venture Capital Hub" i cui soci tendono ad assumere, proprio per le ragioni appena ricordate, partecipazioni di minoranza. Non sarebbe possibile, ad esempio, costituire un "Private Equity Hub" perché i fondi di buy-out tipicamente vogliono la maggioranza societaria per massimizzare i profitti e non collaborano fra di loro. Il " Venture CapitalHub", è una partnership con le associazioni istituzionali sul territorio italiano, fra tutte l'IBAN (Italian Business AngelNetwork) e, soprattutto, l'AIFI (Associazione italiana del capitale di rischio). Associazioni come l'AIFI e l'IBAN sono estremamente importanti sul territorio italiano perché hanno un compito istituzionale di tracciamento e monitoraggio dei vari trend e perché svolgono funzione di lobby. Il Venture Capital Hub è un'iniziativa complementare perché rappresenta un gruppo di investitori che si riuniscono per fare degli investimenti. Il Polo, oggi, è formato da sedici investitori, dieci italiani e sei internazionali (Club degli Investitori, Dpixel, Eporgen Venture, Finlombarda Gestioni sgr, Friulia Finanziaria FVG, Innogest Capital, Piemontech, Qjantica sgr, Strategia Italia, 360 Capital Partner gli italiani, Doughty Hanson &co Technology Limited, Jupiter Venture, Kreos Capital, Intel Capital, Sofinnova Partners, TLC0m, gli internazionali). Quelli in-


ternazionali hanno ovviamente interesse ad investire in Italia e, di conseguenza, ad avere partner italiani che facilitino le operazioni di valutazione ed investimento. Sedici investitori sono un buon numero, anche se l'Italia continua ad essere un Paese sottosviluppato in termini di venture capital. I fondi italiani operano in ambito prevalentemente regionale e sono molto piccoli (DPixel gestisce un fondo di 2-3 milioni di euro, il "Club degli investitori" investe poche centinaia di migliaia di euro l'anno). I fondi internazionali sono tradizionalmente investitori di livello pan-europeo ed è compito del Polo e degli operatori radicati sul territorio agevolare le relazioni con questi finanziatori al fine di stimolare il loro intervento rispetto a quelli che potrebbero effettuare in Francia, Germania o in altri Paesi europei. Negli ultimi tempi si è strutturata di più la comunicazione ed il networking tra i vari investitori del Polo. Non che questo faccia esplodere il mercato del venture capita/in Italia, ma di sicuro lo agevola moltissimo. Un altro aspetto interessante è la segmentazione del venture capital e la relazione di questi segmenti con il Polo (vedi figura seguente).

i

poi lnting

Seod ErIy Stage

\k—E200k / €200k—E2Mln invostimnb / per investimenb di seminali / Venturo Capital di1°lieIIo I

Presenie In Italia

Presenze In Europa

PratIcamente liieslstenti in lorma Istituzionale Molte spesso legate ad individui o gruppi di individui

Tipica taglia del fondo 3Min Tipico perimetro geografico

- 25Mln

Regionale

'

aily Stago Later Rounds ZMIn —5MIn or investimento enturo Capital

i 2° livello

Lato Stago Growth Capital

- €50Mln ) E5Mln per irwostimor,to / Capital / Growth Mezzanino

I

Praticamente inesistenti

Motto poche

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>100 (es, >10 solo a Cambridge)

>100

>100

20Mln

- 70Min

t4acm-regionale

5OMIn

- 200Mln

Nazionale

100Mb

- 500Mln

Europeo

/ Europeo

In generale, il venture capita/è composto da quattro macro segmenti: a) Angel investing/pre-seed ( con target di investimento molto basso, fino a 200 mila euro); b) Seed-early stage (o venture capital di primo livello, per investimenti da 200 mila a due milioni di euro); c) Early stage (o venture capital di secondo livello, per investimenti fino a cinque milioni) d) Late stage-Growth capital (per operazioni più grandi, anche di mix di capitali di rischio e debito, generalmente di 10-20 milioni). Il Polo, grazie anche alla presenza degli operatori internazionali, garantisce la "copertura" di tutti e quattro i segmenti. E, dunque, una buona piattaforma per in-


vestire fin dal momento in cui ancora non esiste la società ma solamente una tecnologia che sta diventando prodotto, 'un'impresa e per continuare a seguire il deal per alcuni anni, quando occorre poi accelerarne lo sviluppo commerciale fino alla quotazione in borsa. Tra questi fondi ce n'è uno particolare, Kreos Capital, che è un fondo di venture debt. Kreos fa investimenti di debito senza richiedere garanzie, ma esclusivamente in società che hanno tra il loro capitale fondi di venture capital. E uno strumento abbastanza particolare, tanto che in Europa ce ne sono solo tre di questo tipo (Kreos è l'unico che abbia dei partner italiani) perché, al contrario di una banca, si occupa solo di mettere del debito in società molto "early". Il team di questo operatore è in pratica abituato a parlare il linguaggio del venture capital e delle start-up, a fronteggiare le crisi momentanee che possono avere questo tipo di società, mentre invecele banche chiederebbero subito il rientro. Per essere un investitore di debito, insomma, è abbastanza paziente. Quindi, i quattro segmenti del Polo si complementano con questo particolare segmento del venture debt. Il lavoro degli ultimi due anni ha portato a numerosi co-investimenti (Piemontech ha investito insieme ad Eporgen ed altri attori del Polo) segno che questa iniziativa comincia a funzionare.

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COMMENTI E REPLICHE

Andrea Silvestri A proposito di Meta Group, come vengono utilizzati gli eventuali utili dei fondi della Regione Emilia Romagna di provenienza FESR investiti in seed capital? Quale valutazione sul ruolo residuo degli incubatori? Andrea Di Anselmo Rispondo alla domanda sugli utili dicendo che, a tal proposito, vige il principio del "pari passo": tutti gli investitori sono uguali ed alla liquidazione del fondo gli utili sono ripartiti in base alle quote di sottoscrizione. 1170% tornerà dunque alla Regione Emilia Romagna che deciderà cosa fare degli eventuali ritorni, se acquisino tra le risorse proprie e finanziarci la pavimentazione delle strade oppure lasciarlo nella gestione di un nuovo fondo che nascerà successivamente con il medesimo scopo. Investitore privato e pubblico sono trattati allo stesso modo, a differenza di altri fondi in cui l'investitore pubblico viene in secondo ordine rispetto all'investitore privato. Qui vige pari dignità e condizione di tutti gli investitori. Sulla differenza tra incubazione ed accelerazione il discorso è più lungo. Eporgen è in realtà più un esempio di accelerazione che di incubazione. In Italia sono state lanciate politiche di incubazione principalmente con obiettivo occupazionale, a valle di grosse crisi industriali e di deindustrializzazione. L'incubatore funziona bene per il self-employment o neededentrepreneurship, per coloro i quali si inventano un lavoro. L'incubazione tra92

dizionale offre spazi e pochi servizi e non funziona per le knowledge based sta rt-ups che hanno necessità di crescere rapidamente, in una dimensione globale, gestendo gli intangibile assets. Necessità che vogliono strumenti, metodi di intervento, tipologie di gestione, azioni di marketing completamente diverse da quelle che può offrire un classico incubatore. In ciò sta la differenza tra incubazione ed accelerazione. Nella maggior parte dei casi, invece, cerchiamo di utilizzare strumenti creati per un fine per far ftinzionaré tutt'altro. Fabio Biscotti Dagli interventi emergono, tra gli altn, due aspetti: il primo è l'estrema importanza della qualità e della dotazione dei team delle strutture dedicate al trasferimento tecnologico degli enti di ricerca. Si è visto che IsIs Limited conta su un organico di oltre 30 addetti. Il confronto con la media della dotazione organica dei Technology Transfer Offices delle università italiane (poco più di 2) è impietoso e fa riflettere in termini di obiettivi che è legittimo attendersi. Il secondo aspetto riguarda il ruolo cruciale che i fondi di proof ofconcept e di seed capital hanno, nelle esperienze presentate, come leva per attrarre ulteriori risorse e fare da ponte dalla ricerca al mercato. Da rilevare come tali fondi sembrano funzionare quando nelle disponibilità, se non dell'università o dell'ente di ricerca (come ad Oxford), perlomeno in strutture ad esse collegate con cui interagire in maniera semplice e veloce (come nel caso Karolinska, che ha scelto di costituire dei fondi mobiliari ed affidarne la gestione ad


una società adhoc, KDAB). Oesto è senza dubbio un aspetto cruciale da mettere a fuoco in un quadro in cui la mancanza di risorse finanziarie viene indicata, dal dibattito che si ripete sul tema, quale anello debole del trasferimento e dell'innovazione nel campo scientifico e tecnologico. Va rafforzato il concetto che la finanza vada declinata mediante strumenti ad hoc (gli interventi seguenti completeranno il quadro a proposito) per il trasferimento. Il che non significa necessariamente creare nuovi fondi o strumenti finanziari. Possono essere adoperarsi anche quelli esistenti, ma con un forte sforzo di coordinamento ed indirizzamento da parte di soggetti specializzati. Ciò per non cedere alla retorica che occorra solamente aumentare l'offerta di capitali per dare impulso all'innovazione. Un mero "Money push" sarebbe insufficiente e, per certi versi, controproducente, se non accompagnato da adeguati meccanismi di valutazione degli aspetti tecnici, economici, finanziari, giuridici (e, dunque, del profilo rischi-opportunità) dei processi di trasferimento tecnologico che sappiano indirizzare le potenzialità del trasferimento verso le forze del mercato più idonee a sostenerne lo sviluppo in chiave commerciale. Errori causati da approssimazioni di giudizio creerebbero sfiducia, disinteresse e diffidenza nei confronti del settore. Tutt'altra questione è chi sia il soggetto valutatore e con quali risorse debba operare. La prassi segnala che questa fase del trasferimento tecnologico è caratterizzata da un vuoto di mercato. Non ci sono operatori profit disposti a finanziare fin da questo momento i processi di trasferimento tecnologico. Questo lavoro a monte (le necessarie ve-

rifiche pre-commerciali) è costoso ma non rende. Va dunque considerato come "investimento" diretto a ridurre il rischio e a selezionare i progetti con più alta probabilità di rendimento. Tale investimento può anche essere sostenuto con dei patrimoni ad hoc di strutture no profit o mediante qualche forma di sussidio istituzionale od intervento pubblico-privato. Purchè non sia eccessivamente vincolato (come purtroppo accade spesso in Italia) nell'utilizzo da procedure burocratiche, che finirebbero per inibire le potenzialità del meccanismo. Quella dei "transnationalfunds", ad esempio, è un'esperienza molto precisa che rappresenta come può essere fatto un corretto utilizzo di strumenti finanziari ad hoc per il trasferimento tecnologico in fase molto precoce ed altamente rischiosa. Questi strumenti, quando accoppiati a società specializzate in determinate aree di ricerca, accelerano il trasferimento tecnologico meglio di quanto non si possa fare attraverso procedure "calate dall'alto". Da qui viene anche la identificata differenza tra "incubazione" ed "accelerazione Su tutto ciò vorrei segnalare un àpprofondito studio di qualche anno fa sul Technology TransferAccelerator del Fondo Europeo degli Investimenti. Uno studio che cita ed esamina anche molte esperienze come esemplificazione di organismi di accelerazione e modelli funzionali al processo di trasferimento delle conoscenze dagli ambienti di ricerca che operano secondo le logiche virtuose sopra descritte. L'intervento di John Tidmarsh, infine, ha dato molti spunti concreti di riflessione. Ed è stato molo utile conti93


nuare a seguire l'esperienza di fondo di seed e venture capital "Stella Growth Fund' dedicato al trasferimento di tipo spaziale. Un intervento che completa quello di Frank Salzgeber dell'Agenzia Spaziale Europea per mettere in luce criticità ed opportunità del trasferimento tecnologico di origine spaziale in Europa. Marco Ristuccia A proposito della gestione del fondo early stage della Regione Emilia Romagna, mi rimane la curiosità di sapere se e quanto sia confortevole lavorare con un investitore pubblico, principale sottoscrittore del fondo, che probabilmente non dovrebbe mettere una pressione minore sul risultato rispetto ad un partner privato. Riguardo al tema accennato da Giuliano del rapporto fra debito e strutture di garanzia mi piacerebbe avere un uheriore approfondimento sul funzionamento del fondo Kreos che lavora nella logica equity ma che è un fondo di debt. Mi chiedo come faccia ad avere una "cultura di pazienza" rispetto alle banche tradizionali che, ovviamente, di fronte a momenti critici, oltre ad avere difficoltà ad erogare debt su progetti così rischiosi, tendono ad uscire dall'investimento affossando in pratica i progetti. Mi sembra molto interessante questo modello che lavora nella "logica del mezzanino".

Andrea Di Anselmo Non penso ci sia minore pressione nel gestire un fondo che per il 70% è finanziato dal soggetto pubblico. Sostanzial94

mente per tre motivi: a) c'è in ogni caso un 30% privato; b) nella quota privata ci sono soldi nostri; c) siamo una società privata che gestisce risorse e che ha come obiettivo avere successo e garàntire exit di successo. Il fatto che ci sia un 70% "facile" non faciita la vita, perché le nostre sfide e responsabilità rimangono le stesse nei confronti degli altri investitori, di noi stessi e, principalmente, del mercato. Perché se non riusciamo a dimostrare successo non ci sarà la possibilità di costituire il secondo, il terzo o il quarto fondo. Claudio Giuliano Conosco bene Kreos Capital ma sempre dal di fuori. Posso dare dunque informazioni parziali. Posso dire che di questi strumenti ne esistono veramente pochi, solo tre in Europa. Effettivamente è molto difficile operare secondo questa logica perché si devono selezionare molto bene le aziende. So che il management team ha dei rapporti privilegiati con dei fondi tra cui, ad esempio, Balderton Capital e che in questi casi - come in altri - conta moltissimo il rapporto fiduciario. Alcuni partner di Kreos mi spiegavano addirittura che, a seconda del tipo di investimento, si fidano di più a lavorare con certi partner di Balderton che non con altri. So inoltre che Kreos riesce ad essere molto remunerativa. Non chiedono garanzie, decidono in fretta, ma chiedono un tasso tra l'il ed il 13%. Inoltre, chiedono degli sweetener, dei warrants in caso di successo. Quando le cose vanno bene hanno ritorni dell'ordine del 15, 20, se non 30%. In periodi negativi evidentemente perdono ma sono sempre più co-


perti degli investitori di private equity anche perché, in caso di eventuale liquidazione, sono privilegiati rispetto ad un investitore in equity. In più Kreos eroga soldi un po' come se fosse un mutuo. Il prestito viene rimborsato in un arco di tempo prestabilito (in genere, 36 mesi). Riesce a riutilizzare molto il suo stesso fondo, in quanto i disinvestimenti avvengono gradualmente e reinvestiti in altre operazioni. Tutto ciò fa sì che Kreos abbia rendimenti abbastanza alti nonostante investa in start-up. Piero Bassetti

C'è stata una successione interessantissima di testimonianze. Quello che possiamo desumerne è che emerge una dicotomia tra il push e puil che è implicito nel titolo del nostro workshop, anche se non è mai stato detto esplicitamente. A me pare che questo convegno nasce figlio di una cultura del push e finisce figlio di una cultura delpull. Cioè ci si è resi conto che il "trasferimento" della conoscenza, come del resto è già stato osservato ripetutamente nell'ambito delle riflessioni del Css, è un'espressione molto criticabile. E, comunque, irrilevante o non del tutto rilevante rispetto al tema diversissimo dell'innovazione perché un conto è rifornire di conoscenza un'innovazione, un conto è credere che trasferendo della conoscenza dalla scoperta nasca l'innovazione, che è ciò che soggiace alla logica del push. Ho l'impressione che oggi siamo tutti illusi di poter trattare questa materia senza chiederci il perché debba essere guidata da una logica push o puil. E la stessa storia di quando, quarant'anni fa, il di-

battito si contrapponeva tra il "viva la grande impresa" e "viva la piccola impresa", senza che nessuno capisse che il vero problema non era quello della dimensione, ma quello - diciamo così - ontologico. La grande impresa, la tecnostruttura è diversissima dall'impresa del Brambilla. Un'altra osservazione: un conto è innovare in Svezia, tendenzialmente in maniera sistematica, in una società abituata alla ricomposizione dei fattori dentro l'impresa. Un conto farlo in un Paese culturalmente molto diverso come il nostro, in cui si è abituati a ricomporre i fattori dentro la persona. Il problema della conoscenza, del sapere, è diverso dal problema del saperfare. Bisogna avere una cultura che sia disposta a considerare la conoscenza in maniera diversa dal saper fare. Chi crede in una "conoscenza merce", in un certo senso, evidentemente lavora in modo radicalmente diverso da chi crede che la chiave sia il "saper fare". L'intervento di Curcio era interessantissimo da questo punto di vista. Si è capito dall'uomo produttore di sapere che diventa consumatore di sapere che l'innovazione non è una scoperta, ma l'uso della scoperta, la realizzazione dell'improbabile, l'incontro tra un plus di sapere e un plus di potere, sia esso potere politico, tecnologico o il potere del capitale. Se arriviamo a capire questo allora, forse, si può superare l'alternativa push o puil. A me pare che mentre ieri sono state presentate esperienze push minded, stamattina il contribuito è stato chiaramente intorno al problema di come si porta e si assorbe la conoscenza. Se il cavallo non beve, è inutile avere Nearco. La mia è dunque una riflessione e non una domanda. Grazie al workshop dello

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scorso anno avevamo capito che il trasferimento tecnologico non può rimanere nel clichè delle grandi strutture; in questo convegno ci è Stato fornito un parterre di esperienze vere dalle quali emerge chiaramente che l'innovazione non è questione solo di trasferimento della conoscenza ma di disponibilità di imprenditorialità sia essa personale che di impresa - che consuma conoscenza. Quindi, la criticità vera è Sicuramente il puil (da questo punto di vista l'intervento di Di Anselmo mi è sembrato fondamentale) e questo modifica radicalmente i tipi di intervento perché rivoluziona tutte le strutture concepite per il push per adeguarsi a diventare serventi del pull. Avendo vissuto l'esperienza del passaggio dall'impresa di grande dimensione alla piccola impresa dei distretti, mi viene in mente l'importante funzione dei Confidi. Non emerge mai chiaramente, nei dibattiti pseudo-finanziari, che lo sviluppo italiano della Repubblica sia stato sostenuto dai Confidi, non dalle banche. I Confidi sono stati il principale strumento di assistenza di un'imprenditore che "beve", che vuole soldi, sa cosa vuol fare. Oggi noi siamo senza imprenditori assetati, e crediamo di sostenere questo vuoto "pompando" tecnologia. Ma pompando cosa? Mi fermo qui, perché secondo me sarebbe un peccato che non sfruttassimo quel che a mio modesto giudizio sembra il filo rosso di questo convegno: dobbiamo capire che l'Italia non è la Svezia, a meno che la Svezia non venga a prenderci. Sono pienamente convinto che è inutile continuare con il motto della bandiera, della nazione. Ha ragione Di Anselmo, stiamo dentro tutti nella delocalizzazione

e nel mercato. Nessuno di noi ha proposto modelli alla Grameen bank8 ma, in realtà, oggi, se lo sviluppo italiano vuole passare attraverso la conoscenza scientifica prodotta dalla scienza e non prodotta dal saper fare, fronteggia problemi di imprenditorialità molto seri. Mi piacerebbe sentire qualche parere anche se del tutto estemporaneo da parte degli interessati. Andrea Alunni Sulla questione del push o puil vorrei rimarcare che ho presentato uno strumento che sta al centro di questa tensione e che è del tutto assente in Italia: il proofofconceptfund. Ad Oxford proviamo a fare un po' di push delle buone idee nate all'università finanziando tre, quattro mesi di lavoro di un CE0 che sia "assetato" di una buona idea con cui correre. Come Nearco. Finanziamo poi anche un"extra step" della ricerca per dare una maggiore credibiità e preparazione al progetto, al fine di attrarre investitori ed entrare nella logica pull del mercato. Questo strumento, che ho cercato di presentare con dei dati, è stato la chiave delle policy del governo inglese in questi ultimi Otto anni e dovremmo cercare di adottarlo anche in Italia in quanto "anello mancante" per unire il push con il puli. Cè una frase in tutte le aule dell'Università di Oxford: "Non cercare di essere intelligente, qui lo siamo tutti, cerca solo di essere gentile". Il senso è chiaro: non bisogna inventare chi sa che cosa. Se con quattro milioni di dotazione in otto anni il fondo dell'Università di Oxford ha generato 26 spin-out e vale circa 11 milioni, cosa potrà mai fare, con 2 milioni di euro, ad esem-


pio, l'Università di Perugia? È evidente che in Italia manca questo strumento. Non siamo certo la Svezia ma, con questo strumento, forse, potremmo riuscire a creare questo punto di incontro tra le tensioni che giustamente Bassetti ha sottolineato. Simone Zanolo

Io ho sempre delle difficoltà a dare delle definizioni. Non vedo una differenza netta tra il push e ilpull. Vedo, semmai, un'interazione fra le due cose. E forse una risposta all'italiana, ma vedo sicuramente un'interazione più che una contrapposizione. Se non ci sono strumenti di accompagnamento, di interazione tra il mondo accademico ed industriale, se non ci sono strumenti finanziari, quanto meno nel settore in cui opero, non vengono ftiori le idee. Francesco Curcio

La mia impressione è diversa perché, tutto sommato, parto da una posizione rovesciata rispetto a chi mi ha preceduto. Facendo il medico ho poi cercato di "andare dall'altra parte". In ogni caso il mio approccio parte sempre dal bisogno del paziente. Però è vero, a un certo punto il push e il puli devono assolutamente incontrarsi, vorrei dire sovrapporsi. E come valutare se un automobile debba avere la trazione anteriore o posteriore. Meglio che abbia quattro ruote motrici. Può dunque darsi che dobbiamo trovare - come diceva giustamente Zanolo - una sintesi tra queste due cose, mettere a disposizione del Paese uno strumento che ci consenta di fare questa sintesi. Altrimenti

c'è sempre qualcuno che spinge da una parte e uno dall'altra. Claudio Giuliano Penso che il push finanziario, come l'ho inteso rappresentare in questi ultimi dieci minuti di dibattito, in effetti sia un po'un male per l'Italia. E un po'un modo per drogare l'atleta. E nel lungo termine ciò non fa bene. Ho vissuto abbastanza queste esperienze. Si dice, ad esempio, che le banche non aiutino. Penso invece che le banche aiutino fin troppo. Si confonde spesso la necessità di essere attori sul territorio con il buonismo: l'imprenditore si presenta in banca, ha una buona idea, la banca non la capisce, l'impresa gestisce dei soldi in buona fede ma con il metodo tradizionale invece di cercare qualcuno che lo aiuti veramente (un business angel, un fondo, ad esempio). Non sono un economista, ma credo che andiamo incontro ad una penuria di capitali. Il push è anche molto costoso perché va un po' a pioggia. Ilpull significa invece premiare le eccellenze quando ci sono e quando si mostrano come tali. Culturalmente sono per il puil ma, in ogni caso, non abbiamo le risorse per fare altrimenti. Credo che i discorsi sono un p0' improntati al buonismo, come detto poco fa: cerchiamo di aiutare tutti i ricercatori, l'imprenditorre mediocre, perché in realtà la sua mediocrità è frutto dell'essere in un Paese come l'Italia e non nella Silicon Valley... Si tratta di buonismo perché nella Siicon Valley, accanto ai Google, ci sono migliaia di imprenditori più piccoli di cui nessuno parla ma quella è un'area dove c'è molta meritocrazia.


Andrea Di Anselmo Sul "come" finanziare il confronto penso che il discorso sia infinito, ma la domanda fondamentale èperchélo facciamo? Da questo punto di vista, a mio avviso, sbagliamo spesso tutti i "perché" e non riusciamo ad individuare quello giusto. L'importante è avere risorse investite con l'obiettivo giusto e, secondo me, l'obiettivo giusto è l'innovazione, che è business e non mera invenzione. Dobbiamo sapere, proprio perché siamo in Italia, non a Stanford, né in Svezia, che abbiamo un'unica priorità che ci siamo sempre dimenticati che è la capacità e la disponibilità di investire in talenti, nel modo giusto, cioè premiando motivazioni, ambizioni, capacità di prendere il rischio e, quindi, lo spirito imprenditoriale. Questo è quanto manca e deve essere il "perché lo facciamo". La soluzione sul "come", secondo me, si può trovare in seguito, e la troveremo. Prima dobbiamo metterci d'accordo sul perché. Massimiano Bucchi Mi scuso se la mia domanda sembrerà un p0' nafa chi ha competenze tecniche, ma io sono un sociologo che si occupa di rapporti tra scienza, tecnologia e società. E'stato opportunamente evocato il contesto culturale o micro environment e ne traggo spunto per una domanda sul contesto culturale di questo genere di iniziative. Nelle varie culture organizzative che si intersecano, in questo caso del business della ricerca, delle amministrazioni pubbliche e così via che posto c'è per la fortuna e per l'altra faccia della fortuna

che è ilfallimento? Lo chiedo perché storicamente, se ripercorriamo la storia della scienza, almeno fin dall'inizio del Novecento, la scienza era estremamente consapevole di questo elemento, del fatto che su dieci idee nove erano destinate al fallimento ed una ad avere successo. Pasteur, nel suo discorso all'Académie des Sciences per presentare il vaccino contro il carbonchio dice per prima cosa: "Ho avuto una fortuna sfacciata", poi si corregge subito e dice, però, "la fortuna aiuta la mente preparata". Certamente si tratta di una asserzione estremamente astuta. Per fare un'altra citazione, Arrigo Sacchi diceva che, per riuscire, nel calcio ci vuole pazienza, memoria e "una gande fortuna". E chiaro che poi, tradizionalmente, nei Paesi in cui c'è la cultura del business, il fallimento non è una sciagura ed è contemplato come evento estremamente probabile. E naturale poi che, nel momento in cui nasce la bigscience e la scienza diventa un'impresa statale, la tolleranza verso il faffimento sia molto bassa perché è spiacevole dire che dai soldi investiti per reclutare ricercatori universitari non venga fuori nulla. Lo stesso discorso si applica a progetti business oriented, specialmente nei casi di piccoli investimenti. Non parliamo del settore pubblico, che per sua natura è allergico a questo tipo di cose, né dei limiti dei programmi di finanziamento europei, che per lunga parte della loro storia hanno più o meno mascherato blandi sussidi all'industria e alla ricerca universitaria, soprattutto in alcuni Paesi. Chiudo rapidamente ma, ripeto, la mia è una domanda genuina. C'è un posto in queste culture organizzative - in Italia e in Europa -' per la fortuna?


Simone Zanolo

Direi che la fortuna conta per il 90% anche in laboratorio. Ed è certo che se non c'è un lavoro di preparazione alle spalle, per cui il ricercatore è pronto ad accoglierla e a segnalarla, anche la fortuna perde il suo significato. Sul fallimento si riscontra forse la più grande differenza che possiamo notare tra l'imprenditorialità di stampo anglosassone e quella italiana. Nel mondo anglosassone, in particolare negli USA, per la mia esperienza, chi fallisce non è subito tacciato di incompetenza. Addirittura, in alcuni casi, un imprenditore che ha tentato e non è riuscito è guardato con maggior rispetto di un neo-imprenditore. Chi ha fallito sa già dove ha sbagliato e può provare a non ripetere gli stessi errori. Inoltre, prima di fallire un'azienda viene sottoposta alle regole del chapter e/even 9 che, secondo il codice statunitense, non contempla subito la fattispecie del fallimento (che, in Italia, comporta la privazione per cinque anni di alcuni diritti dell'imprenditore) ma una situazione in cui si tenta di "salvare il salvabile". Credo che questo sia un grossissimo ostacolo allo sviluppo di quello che dicevamo prima edi un sistema pull. Claudio Giuliano Naturalmente il discorso culturale è molto importante. Non è che gli americani siano culturalmente più tolleranti al fallimento. Se negli USA si fallisce per mala gestione non si hanno poi molte chance di ricominciare. Se si fallisce, invece, perché si è fatto un percorso imprenditoriale andato male (per limiti tec-

nologici, di mercato, ecc ... ) si può tranquillamente ritentare. La differenza tra una cosa e l'altra è il giudizio che un operatore professionale può dare sulla vicenda. In Italia devo purtroppo constatare l'esistenza di un limite culturale poiché troppo spesso, nel campo, si danno giudizi sommari senza entrare nel merito delle vicende, sui motivi reali del fallimento. Il vecchio vizio del "pressapochismo"? Personalmente temo, e lo dico con amarezza, avendo vissuto tredici anni all'estero ed essendo tornato con l'illusione di trovare un Paese del rinascimento, che ci sia poca molta superficialità e poca professionalità. Enrico Castellano Mi pare giusto che si sposti il discorso su questi aspetti culturali, quasi di filosofia morale che, secondo me, in Italia, è proprio ciò di cui dobbiamo occuparci. Giuliano è stato fin troppo morbido nei giudizi. Io direi che siamo in una fase di piena decadenza culturale. Il primo punto che vorrei sottolineare è relativo all'uso che si fa, generalmente, del denaro pubblico. A questo proposito non c'è da perder tempo: una ricerca di due anni fa ha messo il luce che in Italia ci sono circa 130-150 entità che affermano di fare trasferimento tecnologico ma assai meno sono le realtà veramente operative. Lo stesso discorso vale per gli incubatori che promuovono, con poche centinaia di migliaia di euro, sostanzialmente autoimpiego, anziché impresa innovativa, offrendo solo un lavoro improprio a chi vuole veramente andare avanti. Non occorre inventarsi niente. Basta andare in giro per il mondo. Io mi occu-


po di innovazione e di finanza per l'innovazione. Al di là del fatto che ho sempre fatto innovazione, sin da quando negli anni settanta facevo ricerca alla Space Communication Division dell'ESTEC, mi occupo di queste cose solo da pochi anni, da quando mi sono ritirato e sto lavorando sia su progetti di utilità sociale con l'associazione Alumni di Accenture ma, soprattutto, perché sono uno dei nove fondatori di Italian Angels 4 Growth, un gruppo di Business Angels conosciuti dutrante un viaggio organizzato dall'Ambasciata americana nell'ambito del programma "Partnershifor Crowth"per studiare come funzionano gli ecosistemi dell'innovazione. Sul ruolo del soggetto pubblico vorrei citare l'esempio di Israele. Si tratta di un esempio eccezionale di uso efficace ed efficiente del denaro pubblico nel settore tecnologico, ma anche sulla capacità di fare - se occorre - dei passi indietro, quando ci si rende conto che non c'è più bisogno di continuare con gli strumenti che sono stati messi in piedi. Ciò vale anche per il programma degli incubatori. Israele ha promosso 24 incubatori che ha quasi completamente privatizzato perchè, a distanza di tempo, non c'è quasi più bisogno della "spinta pubblica". L'altro discorso fondamentale è quello del "Moneypush vs. dealpul?'. E per certi versi un discorso inutile non perché non sia legittimo tema di dibattito ma perchè il vero problema è che, in Italia, sia il push che il pull sono due nanerottoli, sono asfittici. Principalmente - ripeto - per un problema culturale. Ilpull, cioè le idee, ha un problema dal punto di vista dell'aspetto imprenditoriale. Uno dei gravi problemi italiani è la mancanza 100

di cultura imprenditoriale vera, non tanto quella dei molti imprenditori ("il Brambilla" di Bassetti e gli altri che ci sono in Italia) ma gli imprenditori formati per fare quel che in Italia si deve fare: i medici, i biologi, i tecnici, in generale gli "imprenditori laureati". In questi settori di eccellenza l'imprenditorialità media è bassissima ed il prof. Curcio (un medico che vuole fare impresa) è un uomo più unico che raro. Questo ha a che fare con una serie di problemi che abbiamo in Italia, inclusi i problemi di giudizio morale che si danno, ad esempio, sulle aspirazioni dell'uomo, sull'ambizione, sul successo. Noi frequentiamo ambienti tutto sommato di élite in cui non si è mai critici verso l'altro, omologo. Conoscendo la realtà di molte comunità locali e delle scuole, ho la percezione che nella media della popolazione italiana ci siano fenomeni devastanti di questo tipo. Proprio in questi giorni abbiamo le strade piene di studenti che, al solo parlare di "fondazioni" universitarie, si fanno il segno della croce, pensano che si tratti del diavolo e che la ricerca non debba essere contaminata dall'economia. Ilpullha questi problemi. Churchill diceva che "i/successo è saper passare da un fallimento all'altro senza perdere la motivazione". In Italia non c'è assolutamente questo spirito. Se pensiamo al push rileviamo lo stesso problema. Secondo me, in Italia, manca una cultura, un capitalismo che abbia voglia di rischiare anche perché lo ritiene un dovere di restituzione sociale. E qui si ha a che fare con il caso, con la fortuna. Se è vero che il successo dipende dal caso, dovrebbe essere anche vero che se un individuo ha avuto successo, deve restituire


qualcosa alla società. Purtroppo questo fenomeno non esiste quasi per niente in Italia. Parlavo poco fa del viaggio in USA. Da quel viaggio siamo tornati molto impressionati. Qualcuno entusiasta, specialmente dopo aver parlato con dei Business Angels, non della Silicon Valley, ma del Middle-East, di Milwakee, di Kansas City. Siamo stati con delle persone che ritenevano giusto e doveroso, a una certa età, ritirandosi dall'attività professionale, mettere una quota del proprio capitale a disposizione di giovani imprenditori, molte volte in una logica territoriale. Locale, ma sempre con uno spirito non utilitaristico. Il che non significa buonismo. Anzi, questi signori, neanche tecnologicamente evoluti, con il loro libricino facevano dei conti spietati sul ritorno, mettendo sotto pressione gli imprenditori. Ma questo non c'entrava niente con il loro interesse personale poiché, quando poi vedevano moltiplicato per 5 il loro investimento, donavano somme ingenti all'università. Questo spirito, secondo me, in Italia, è uno degli elementi critici mancanti. In estrema sintesi, dal punto di vista culturale, abbiamo bisogno di far capire ai giovani che l'opzione imprenditoriale è un'opzione importante. Dick Kamen, un grande inventore di strumenti scientifici e filantropo, sostiene che per far capire ai nostri bambini come ftinziona un videogioco è molto meglio costruirlo che giocarci. Dal punto di vista di chi ha i soldi, la consapevolezza di "restituire alla società", più che "fare donazioni", è un dovere morale. Certo è che se, in Italia, chi ha i soldi non ritiene neanche obbligatorio

pagare le tasse. Prima di arrivare alla pratica del give back la strada da fare è lunga e dura. Conny Bogentoft Ouesta discussione è il motivo per cui sono contento di essere qui oggi. Penso che in Italia abbiate tutto a portata di mano. So che c'è una buona ricerca nel settore medico (anche testimoniata dalla intensa collaborazione tra Svezia e Italia). Da questo punto di vista siete un grande Paese. Avete un " Venture capitalhub" che è uno strumento che non hanno molti Paesi. Eporgen lavora esattamente come facciamo noi. Penso, comunque, che non ci sia un unico modo di fare le cose. Penso che avete bisogno di una combinazione di push epuil. Si ha bisogno di un forte pull perché c'è prima di tutto bisogno di un mercato. C'è bisogno di una domanda dalla società di prodotti e servizi, ma la distanza tra l'accademia ed il mercato è generalmente troppo ampia ed è dimostrato che offerta e domanda tecnologica non si incontrano automaticamente. Per questo, da un lato, c'è sicuramente bisogno d el push per esporre e mettere in evidenza cosa la ricerca è in grado di produrre. C'è bisogno di visionari. E visionario "vendere" i prodotti della ricerca e servono persone visionarie per controllare il processo di sfruttamento commerciale. Questo è il motivo per cui venture capita/ist visionari e professionisti devono lavorare insieme. L'imprenditoria è necessaria, ma servono imprenditori professionali. E molto difficile essere giovani imprenditori in questo genere di business. Credo comun101


que che, in Italia, buona ricerca combinata con il Venture CapitalHub e seri professionisti faranno definitivamente funzionare l'ingranaggio. Ci vorrà certamente tempo (dieci anni?), ma sempre saranno necessari passione e combinazione di push epuil. Claudio Parrinello Tralascio alcune considerazioni generali suggerite dal fatto di essere un italiano che vive da quasi venti anni all'estero ritenendo, tuttavia, di conoscere l"animo italico"; un animo falsamente umile. Richiamo, invece, un'espressione che non ho ancora sentito pronunciare qui che è bestpractices. Gli anglosassoni dicono che non serve reinventare la ruota ma serve parlare con il più bravo al mondo, umilmente. Accetto questo suggerimento. Nei corridoi del CERN ci sono più premi Nobel che scarafaggi: abbiamo inventato il Web, potrei pensare che potrei facilmente trovare un modo per fare il trasferimento tecnologico. Poi sento il collega di IsIs, dell'ESA, di tanti altri organismi e ho capito che sono più bravi di me a fare trasferimento tecnologico. Il mio prossimo obiettivo istituzionale sarà quello di capire da loro il più possibile per farlo funzionare al CERN. L'esempio dell'Università di Oxford, corredato da numeri, mi sembra la best practice per quanto riguarda il seedfinancing, che è quello che voglio tentare di introdurre. So bene che funziona molto bene in Inghilterra, però è da li che dobbiamo partire per la nostra riflessione. Guardare chi è riuscito, fare come i giapponesi, copiare ciò che funziona sapendo che, 102

opportunamente adattato, potrebbe funzionare altrove ed altrettanto bene. Marco Ristuccia

Nel tentativo di dare un contributo all'analisi del mercato del trasferimento tecnologico di origine spaziale, qualche anno fa abbiamo cercato di analizzare i casi di successo (vd. Trasferire tecnologie. Il caso del trasferimento tecnologico di origine spaziale in Europa, di F. Biscotti e M. S. Ristuccia). Ritengo giusto che vengano scambiate informazioni sui fattori di successo o sulle difficoltà incontrate. E giusto parlare di ambiente culturale e soprattutto sui "casi di insuccesso". Da questi, infatti, si impara tantissimo, tanto è vero che altrove chi ha avuto insuccesso è considerato un utile caso di riferimento perché ha un bagaglio di esperienze tale che ha più probabilità di successo futuro se ha ben analizzato e compreso i motivi del precedente fallimento. Non sarebbe sbagliato costruire con i casi di insuccesso un utile benchmark di riferimento. Solitario Nesti

Credo sia comune sia al mondo dell'industria che a quello dell'università, il perseguimento di cose semplici. L'imprenditore cerca di fare soldi investendo il meno possibile. In molti casi le strutture di ricerca tentano di reperire soldi semplicemente per andare avanti. Credo sia il momento di riflettere su queste cose perché forse le cose semplici non sono più per noi ma per gli altri. Forse dobbiamo cimentarci in cose complicate per continuare a far lavorare le aziende e a produrre dei prodotti.


Credo molto nella creazione di valore a partire dalle università, dai centri tecnologici interni alle imprese. Ieri si diceva che anche le grandi multinazionali esternalizzano le attività di ricerca. Lo fanno per cercare di ridurre i costi, per cercare di far tornare i conti. Ho l'impressione che i conti tornerannò sempre meno se si continua a lavorare in questo modo. Secondo me occorre creare più valore nell'università, nei centri tecnologici, nelle imprese, nelle persone. Se creiamo valore forse abbiamo qualcosa da vendere. Diversamente, credo che ci metteremo in un vicolo cieco. Roberto del Giudice Sono tanti anni che ci confrontiamo con le esperienze straniere ma forse è inutile prendere a riferimento casi molto distanti da noi. Siamo Stati in Israele nel 1998 ed abbiamo appreso che è un sistema che funziona perfettamente, ma è culturalmente molto diverso da noi. Dunque, dobbiamo porci la domanda:

perché in Italia non si fanno certe cose? Che serve fare un fondo all'università lo sappiamo da 20 anni, ma non si fa. Quali sono le cause della nostra debolezza, considerato che tutti abbiamo studiato all'estero, tutti conosciamo Israele, Cambridge, Stanford? Facciamo ancora tantissima fatica a far capire alle nostre istituzioni, al Parlamento, la via migliore, anche imitando gli altri, al fine di far raddoppiare il mercato del venture capita/in Italia. Personalmente e provocatoriamente penso che cerchiamo un po' troppo il colpevole. L'università afferma che le banche non rischiano. In realtà le banche fanno dignitosamente il loro mestiere, altrimenti in questi giorni l'Italia starebbe messa molto peggio. Potremmo dire, di contro, che i professori universitari vogliono fare solo pubblicazioni, ma poi scopriamo che abbiamo tecnologie di tutto rispetto da trasferire. Cerchiamo il colpevole, ma in questa ricerca ci esauriamo. Diciamo che, d'ora in poi, dobbiamo rifuggire da questa tentazione.

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queste istituzioni n.

dosier

154 luglio-settembre 2009

III - Capitali, fillauziaffiefiti, garanzie

Marco Zanetti VENETO SVILUPPO: FINANZA AGEVOLATA E OLTRE Veneto Sviluppo è una Società per azioni controllata al 51% dalla Regione Veneto e al 49% dai gruppi bancari. Già dalla sua costituzione (1975), è stata un esempio, fra i pochi, nel panorama non folto delle joint venture tra soggetti pubblici come la Regione Veneto e privati come le banche. Lo scopo istituzionale è quello di attuare la politica economico-finanziaria del Veneto nei confronti delle piccole e medie imprese della Regione. Veneto Sviluppo ha applicato una forma tecnica di intervento che oggi è abbastanza comune. Come gestore di risorse regionali, Veneto Sviluppo ha la disponibilità di oltre cinquecento milioni di euro che, nel tempo, la Regione ha affidato in gestione, con il vincolo di tenere queste disponibilità gestionalmente separate da quelle relative alle altre attività della finanziaria regionale. Questi fondi sono stati utilizzati nell'ambito di normative regionali via via promulgate. Essendo fondi di rotazione, hanno la banale ma importante caratteristica di rientrare ed essere messi a disposizione per nuove iniziative. Veneto Sviluppo opera prevalentemente mediante strumenti finanziari di tipo tradizionale, sostanzialmente finanziamento di debito. Non può vantare altro tipo di esperienze. Anche se, vale osservare, si tratta di esperienze che è possibile replicare con formule tecniche che la programmazione regionale già prevede. Un aspetto peculiare di Veneto Sviluppo è l'agevolazione in ambito di ricerca e sviluppo pre-competitivo a beneficio delle PMI. A questo riguardo è necessario coordinare diversi ruoli: non solo quello della Pubblica amministrazione con quello delle banche, ma anche con quello di altri operatori finanziari e dei consorzi di garanzia. Si è venuto costituendo un network di operatori formato dalla società finanziaria regionale, dalle banche nostre socie e convenzionate, dai consorzi di garanzia (posto co104


munque che le agevolazioni trattate sono veicolate prevalentemente attraverso i finanziamenti bancari). Con l'intervento di Veneto Sviluppo c'è l'opportunità di ridurre il costo dell'indebitamento per investimenti e si creano le condizioni per accedere al credito in maniera più semplice. Queste forme di agevolazione valgono, infatti, fino al momento in cui le aziende che ne beneficiano hanno accesso al credito per finanziare i loro progetti. Fondamentale per questo è il ruolo dei consorzi di garanzia che oggi, in Veneto, stanno affrontando la sfida, imposta da nuove norme, relativa ad una serie di programmi di accorpamento e di ristrutturazione delle realtà imprenditoriali più piccole. Si è costituito, di fatto, un network di attori che possono intervenire congiuntamente. Il che avviene spesso anche se non è obbligatorio: la banca dà il proprio finanziamento, più o meno ordinario; Veneto Sviluppo dà la parte di finanziamento regionale a tasso zero (normalmente è questa l'agevolazione) e i consorzi di garanzia partecipano per migliorare, addirittura per consentire l'accesso al credito. Così, volta a volta, si fa "ingegneria finanziaria". A questi strumenti viene abbinato, in alcuni casi, un piccolo contributo a fondo perduto. Il che spesso riguarda imprese start-up - anche se non propriamente in settori di alta tecnologia - in particolare le imprese femminili e giovanili di nuova costituzione. Questo sistema funziona bene. Sta di fatto che i rientri dei fondi a volte non sono sufficienti a rifinanziare nuove operazioni; si creano, così, liste di attesa. Tutto ciò premesso come punto di riferimento, vale considerare le agevolazioni più specifiche nel campo della ricerca, innovazione tecnologica e sviluppo. Dal 2002 al 2008 sono stati emanati sei bandi relativi a fondi che sono caratterizzati prevalentemente da forme di contributo a fondo perduto. Si è constatato che questa non è una forma di agevolazione ottimale. Anzi, crea diversi problemi. In primis perché è la forma di finanziamento più appetibile e, come tale, provoca un interesse immediato delle imprese che tentano di accedere comunque alle agevolazioni. Interesse che va al di là della necessità di finanziamento e delle stesse competenze dell'imprenditore. In secundis, mette il gestore nella situazione di dover selezionare un grande numero di progetti ex ante. E ciò, nel piccolo mondo imprenditoriale delle piccole imprese venete, genera spesso notevolissimi malumori (ogni imprenditore è convinto di essere il più meritevole di altri e non si possono dare voti, che magari vengono pubblicati su internet. Sono problemi anche banali ma con cui occorre fare i conti). Ulteriori problemi, poi, sorgono durante la fase di rendicontazione e verifica dell'attività svolta rispetto a quella programmata: spesso si usa come indicatore di un trasferimento di una piccola e media impresa la collaborazione che si instaura da parte dei centri di ricerca piuttosto che da istituti di ricerca universitari. La verifica expost delle consulenze effettuate rispetto a quelle previste fornisce effettivamente dei dati sconsolanti. Insomma, il desiderio di far bella figura al più presto, evidentemente per avere più possibilità di ottenere risorse, spinge molte imprese a programmare in maniera abbastanza sconsiderata. L'uso delle risorse pubbliche deve essere fatto a mio avviso nelle diverse fasi di vita 105


dell'impresa in base a strumenti assolutamente diversi per natura tecnica. In modo da garantire una maggiore selezione, per non generare illusioni e, soprattutto, scaricare la pubblica amministrazione (e gestori delle sue funzioni) di inutili carichi di attività che non apportano valore aggiunto. Nel campo dell'innovazione, molto più che in altri campi, si può tendere ad una effettiva collaborazione con soggetti e professionalità private. Noi ci abbiamo sempre messo molto impegno ma abbiamo faticato moltissimo a spendere i soldi che erano disponibili. E un paradosso, ma è proprio così. La Regione Veneto, mettendo a frutto l'esperienza compiuta ha prodotto un documento fondamentale che è il "Piano strategico per la ricerca, lo sviluppo, l'innovazione", approvato questo mese di ottobre. Dovrebbe essere il punto di riferimento per il governo della "filiera" dell'innovazione che dalle università va alle imprese. Per questa linea di intervento la Regione ha stanziato notevoli risorse (il solo stanziamento iniziale è di 35 milioni di euro, che si aggiungono ad altrettante risorse che andranno recuperate dalla programmazione FESR). Nel Piano Operativo Regionale 2007-2013, in conclusione, è prevista la coesistenza, nel medesimo Asse, di 4 strumenti: a) un fondo per le acquisizioni di capitale di rischio (temporanee e minoritarie); b) un fondo di rotazione; c) un fondo dedicato ai consorzi di garanzia; d) contributi a fondo perduto. Si è cercato, dunque, di mettere più o meno in pratica i concetti di ingegneria finanziaria di cui si palava prima.

Marzia Guardati IL FONDO ROTATIVO DELLA CAMERA DI COMMERCIO DI PISA: ASSEFI Il Fondo rotativo della Camera di Commercio di Pisa è un'esperienza di seedcapital avviata sei anni fa'°. Il Fondo rotativo, di fatto, è uno strumento finanziario attraverso il quale la Camera sottoscrive quote nel capitale di nuove imprese innovative. L'esigenza sentita dall'Ente camerale è stata poi condivisa con l'amministrazione provinciale di Pisa che ha cofinanziato lo strumento a partire dal 2005. Il contesto di riferimento di questo strumento è molto favorevole: Pisa ha tre università (l'Università di Pisa; il Collegio Sant'Anna, la Scuola Normale), ospita una sede del CNR, tre Poli Scientifici e tecnologici, tre incubatori, vanta un elevatissimo numero di laureati rispetto al numero di abitanti (11 ogni mille, contro una media nazionale che è intorno al 3 per mille). L'obiettivo di questo strumento è quello di sostenere la nascita di nuove imprese innovative della provincia di Pisa e consentirne la loro capitalizzazione. Si tratta, infatti, di uno strumento che apporta mezzi propri e che, in un certo modo, incentiva la bancabilità dell'impresa finanziata. Rafforzando il patrimonio netto, ovviamente, è meno difficile reperire il capitale di credito. Lbiettivo di far nascere imprese innovative non crea ricchezza sul territrorio se non si abbina all'obiettivo di creare le condizioni di accompagnamento fino al mercato, 106


di crescita e di interazione e valutazione da parte di fondi di investimento, in particolare di venture capital, piuttosto che di altri finanziatori. Il fondo rotativo si colloca nella tipica fase di seed di un'impresa, quindi in una situazione di "vuoto di mercato", in cui non ci sono operatori di venture capital disposti ad investire (i fondi di venture capital anche quelli che, nella migliore delle ipotesi, operano nell'early stage, non investono importi inferiori a 500 mila euro ed il capitale di credito presso gli istituti bancari - per queste iniziative - è difficilmente reperibile a causa della intrinseca indisponibiità di garanzie reali da parte di queste iniziative). Si tratta della fase in cui l'idea non ha ancora raggiunto la produzione pilota e quindi non è ancora entrata sul mercato né, dunque, ha ricevuto dei riscontri oggettivi da parte di potenziali clienti. Ci sono alcuni operatori di venture capital che operano in questa fase ma, dato l'elevato livello di rischio, operano soltanto da una certa soglia in su, sicuramente superiore rispetto a quella necessaria per compiere questa fase (circa 200 mila euro, in media). Il fondo rotativo, invece, opera proprio in questa fase (importi non superiori a 200 mila euro destinati ad iniziative che sono in una fase embrionale) sostituendosi al patrimonio dell'imprenditore o dei cosiddetti "Fools, Family and Friends" e potendo esercitare un utile ruolo di pre-selezione e diminuzione del rischio per i venture capitalist. In un certo senso, il fondo rotativo consente agli imprenditori che hanno competenze ma non risorse di iniziare l'attività anticipandogli quei mezzi propri che avrebbero dovuto investire nell'attività ma che non hanno a disposizione. Le risorse del fondo rotativo possono essere utilizzate anche per l'intero periodo di start-up, il momento più delicato delle imprese innovative (periodo che arriva ai 3-5 anni). In questo periodo le imprese sono caratterizzate, generalmente, da cashflow negativo ed incapacità di autofinanziarsi. Se questo si abbina all'assenza di capitali da parte di imprenditori che propongono l'iniziativa è ovvio che l'impresa abbia difficoltà a nascere. Il bisogno di capitali di credito e di rischio è sicuramente il problema principale. Il capitale che deve essere fornito a queste imprese deve essere paziente, rimanere investito nella fase di start-up senza necessità di rimborso. E quindi evidente che l'apporto di mezzi propri in una fase iniziale, senza la richiesta di garanzie ai soci, diventa una sorta di sta rter di un processo che può generare una crescita. L'obiettivo di farle nascere non è sufficiente, però, come detto prima, se non si creano le condizioni di crescita di queste imprese. E questo lo si riesce a fare solo se si sviluppano competenze commerciali e manageriali per finalizzare il risultato tecnologico. Mezzifinanziari e catena del valore. I mezzi finanziari del fondo rotativo sono concessi sulla base della validità del piano industriale del progetto, senza che sia richiesta alcuna garanzia accessoria, né reale né personale. Il piano industriale viene inoltre valutato sulla base di una due diligence indipendente. Le risorse concesse non devono essere rimborsate per tre anni (estendibii a cinque); il disinvestimento avviene con la cessione della quota sottoscritta dalla Camera di commercio ai soci ad un prezzo sostanzialmente molto vicino a quello nominale di ingresso. Ovviamente, i soci non 107


vengono remunerati a scadenze prestabilite poiché si tratta di capitale di rischio. L'effetto che si dovrebbe creare con l'ausilio di questo strumento è, prima di tutto, l'incremento di risorse finanziarie per consentire: a) l'acquisto degli asset intangibili; b) il mantenimento all'interno dell'impresa delle competenze delle risorse umane al fine di evitare quel turn-over che, nella fase di start-up, è pericoloso per la sopravvivenza dell'impresa; c) il rafforzamento del patrimonio per migliorare la posizione dell'impresa nei confronti della banca prestatrice; d) la possibilità di avviare la produzione pilota e, quindi, l'azione commerciale. Insomma, l'attività commerciale ed i primi incassi. Questi mezzi finanziari sono importanti perché erogati prima dell'avvio dell'investimento, non ad investimento già realizzato. Se non fosse così non si aiuterebbe la nascita di nuove imprese. L'imprenditore ha bisogno in anticzo delle risorse con cui affrontare i nuovi investimenti. E inoltre importante sottolineare che i finanziamenti possono essere utilizzati per coprire le spese di tutta l'attività aziendale, senza particolari vincoli di destinazione. Dunque, anche le spese di funzionamento. L'impresa viene dunque capitalizzata senza richieste di garanzie e la way out avviene, come detto prima, mediante il riacquisto delle quote da parte dei soci proponenti. Da ciò che ho appena detto, è chiaro che siamo nel campo degli interventi ammessi dalla normativa sugli aiuti di Stato, poiché nessun altro investitore privato sarebbe disposto ad investire a queste condizioni (il profilo di rischio/rendimento di queste operazioni finanziarie è estremamente svantaggioso). Essendo un aiuto "non trasparente", che viene concesso senza la possibilità di calcolare l'Equivalente Sovvenzione Lordo (EsL) sui costi agevolabili, si fa riferimento al regime de minimis 11 . Potrebbe essere utilizzato tale aiuto se non che, l'art. 35 del nuovo regolamento di esenzione generale della Commissione (il n. 800 del 200812) - "SuperBER"— ,prevede che questo tipo di aiuto possa essere utilizzato dall'impresa una sola volta. Trattandosi di aiuti fino a un milione di euro, per cifre comprese tra i 100 ed i 200 mila euro, in alcuni casi potrebbe essere addirittura poco significativo, per l'impresa, l'utilizzo dello strumento. Beneficiari de/Fondo eprocedura di selezione. Il Fondo rotativo, come detto, si rivolge a PMI innovative. L'innovazione è qui intesa in senso lato: non solo innovazione di prodotto e di processo ma anche innovazione di tipo organizzativo e di servizio. La società deve essere di capitali, costituita o costituenda. Il Fondo opera soltanto per società che decidono di aprire una unità locale nella Provincia di Pisa, essendo uno strumento camerale e dunque a vantaggio dell'economia territoriale. La selezione delle candidature - come già detto - è abbastanza selettiva. Un comitato tecnico di valutazione, composto da tecnici di alto livello provenienti dal mondo dell'università, della professione, dei poli tecnologici, compiono un primo screening dell'iniziativa. Se il progetto supera questo primo screening viene allora affidato un incarico per una due diligence di esperti tecnologici e di mercato accreditati e convenzionati alla Camera a seguito di un annuncio pubblico. Solo in caso di esito favorevole

In


da parte del rapporto di due diligence viene proposto alla Giunta camerale l'ingresso nel capitale dell'impresa. Questo strumento non si sovrappone agli altri strumenti regionali messi in campo dalla Regione Toscana come, ad esempio, i fondi gestiti dalle SGR (come Sici, Sgr del Fondo Toscana Venture) che operano per tagli più elevati rispetto ai 200 mila euro previsti dal Fondo. Anzi, ci auguriamo sia possibile praticare una sorta di "staffetta" tra fondo rotativo camerale e altri strumenti regionali, al fine di far superare alle imprese in maniera agevole la prima fase di seed. Diminuendo il livello di rischio ed aumentando la necessità di risorse finanziarie, si può pensare all'ingresso di un altro fondo che accompagni lo sviluppo dell'impresa. Rapporti di governance nelle start-up. La percentuale di partecipazione del Fondo è sempre minoritaria (al di sotto del 25%), per evitare di qualificare l'impresa di grande dimensione, e temporanea (da 3 a 5 anni). La way ow' è definita all'interno dei patti parasociali. La Camera ha un approccio hands-off, nel senso che non nomina amministratori nella compagine aziendale e non ingerisce nella gestione dell'impresa. Può richiedere, al più, la nomina di un sindaco, chiedere un reporting periodico sull'andamento della gestione, fare un check-up trimestrale sull'andamento economico finanziario (che, nei primi 3 anni, è supposto in perdita) ed un check-up sulle strategie commerciali messe in atto. Per aiutare l'impresa nella messa a punto di tali strategie, la Camera di commercio organizza delle giornate di business matching, formazione ed iniziative analoghe "Start to business", "Club di imprese innovative" ed altre iniziative similari. I soci sono obbligati solidalmente al rimborso delle quote alla scadenza del periodo; hanno l'obbligo del reporting e, soprattutto, sono tenuti a far maturare la mentalità imprenditoriale volta alla crescita. Q!,uest'ultimo, di fatto, è uno dei principali problemi che l'esperienza del Fondo ha fatto emergere. Trattandosi di idee di impresa promosse da soggetti con elevate competenze tecnico-scientifiche, si riscontra quasi sempre una difficoltà nell'accesso al mercato, nelle competenze manageriali e nella gestione dell'impresa. Il che rallenta la crescita. Quali risultati, quali lezioni. Il Fondo è tutto sommato una iniziativa di dimensioni relativamente piccole rispetto ad altre avviate in Italia. Ha finora esaminato 42 candidature, ne ha selezionate 16 e finanziate 8. Altre 2 sono in corso di valutazione. La percentuale di successo può essere definita buona (circa il 20%). Evidentemente la selezione è forte perché l'obiettivo del Fondo è di finanziare iniziative che hanno buone possibilità di crescita ed una compagine imprenditoriale completa in grado di sviluppare l'impresa. Tra l'altro, tre delle società finanziate hanno già riacquistato completamente la partecipazione, prima della scadenza stabilita, in due casi grazie all'ingresso di soci industriali e venture capitalist. I settori in cui sono state selezionate le imprese spaziano dal biotech aIl'ICT, alle strumentazioni per la microchirurgia. Si tratta di settori abbastanza diversi. 109


Diversi sono anche i casi di successo: Yogitech Spa (finanziata dal Sici, Sgr dei Fondo Toscana Venture, per un milione di euro), EraEndoscopy Sri (finanziata da un Business Angei per i milione), Extrasolution Sri (valutata, dopo 3 anni dall'ingresso dei Fondo, circa 6 milioni di euro da un suo concorrente che voleva acquisirla), Lobim Sri (finanzata dalla merchant bank Ambrolnvestimenti), RTw (ha sviluppato un processo di integrazione verticale ed è stata acquisita dal suo principale cliente). Dal 2003 ad oggi, l'esperienza dei Fondo rotativo ha dato l'opportunità di trarre apprendimento dalle difficoità incontrate. In estrema sintesi esse sono state (a parte la scarsa managerialità e propensione all'attività commerciale da parte dei proponenti delle imprese, fenomeno ai quale già si è fatto cenno): la paura della crescita; la difficoltà a riacquisire le quote da parte dei proponenti, avendo questi come fonte soltanto i compensi percepiti; il livello di imposizione fiscale; i limiti del regime de minimis; la carenza di fondi disponibili a realizzare la "staffetta" dallo start-up allo sviluppo. Aggiungo, infine, che la Camera di commercio di Pisa ha iniziato questa esperienza e che Ferrara, Reggio Calabria, Lodi, ne stanno seguendo l'esempio. Vicenza ha creato una società "Futura Innovazione" per gestire lo strumento secondo modalità più privatistiche rispetto a quanto faccia Pisa. Tant'è che l'esperienza è stata notificata alla Commissione Europea che ha autorizzato ad operare al di fuori del regime dei de minimis e, quindi, come aiuto compatibile alla normativa sugli aiuti di Stato.

Aurelio Mezzotero INTESASANPAOLO ED I FONDI PER IL VENTURE CAPITAL: IL RUOLO DELLE GRANDI BANCHE CRESCE

IntesaSanPaolo è una grande banca. Ma oggi, parlando di innovazione, non voglio parlarvi di credito. Infatti, se parliamo di quella speciale manifestazione dell'innovazione, connessa all'evoluzione tecnologica, che è la nascita di nuove imprese e stariup, il convincimento che abbiamo maturato nel corso di questi anni ad IntesaSanPaolo è che il "credito" non sia uno strumento funzionale allo sviluppo di questi soggetti. Per molte ragioni che sono state in parte accennate nel rapporto sul caso.pisano. Prima di tutto non è conveniente dal punto di vista dei prenditori del credito che sono aziende che non hanno cashjlow e appesantirebbero molto la loro struttura finanziaria. Non ha neanche senso per chi eroga il finanziamento perché, sia a livello teorico che pratico, si effettuerebbe un'allocazione di un finanziamento ad un tasso fisso su un'operazione con gradi di rischio propri dell'e quity. Sono dunque queste le ragioni per cui, oggi, vi parlo di uno strumento di equity - un fondo di venture capital— comunque promosso direttamente da una banca. Da dove viene l'ispirazione? Un breve cenno al contesto ed alla visione che ha ispirato IntesaSanPaolo a costituire, in pochi mesi, un fondo di venture capital. Si è innanzitutto constatato che esiste un gap per molti versi inspiegabile fra il mercato del 110


venture capital italiano e quello degli altri Paesi europei. Fa impressione vedere che, anche escludendo il Regno Unito (che probabilmente ha delle modalità e possibilità più vicine agli Stati Uniti che all'Europa) ci sono dei dati che testimoniano come l'Italia si possa confrontare tranquillamente con altre nazioni ma, con specifico riferimento al settore del venture cpaital, è drammaticamente in ritardo. Ad esempio, escludendo i Paesi più avanzati, osserviamo la Spagna. La Spagna è battuta dall'Italia in molti campi, ad esempio sul tasso di imprenditorialità: in Italia c'è un tasso di imprese per abitanti altissimo, 10,5 imprese per 1000 abitanti, in Spagna 6 ogni 1000. Ciò nonostante, le imprese spagnole attirano più investitori delle nostre in settori tecnologici. IntesaSanPaolo ritiene che il venture capital sia un settore strategico perché è il segmento finanziario con cui si supporta l'innovazione tecnologica, che è l'arena su cui si giocherà la partita del futuro dell'Italia, la leva per aumentare i tassi di produttività e di sviluppo delle imprese. Ma si deve fare i conti con la realtà, ci si deve porre il problema di reperimento del capitale e delle condizioni di contorno: i volumi di questo settore sono limitatissimi, fatto 100 il mercato del private money (venture capital più private equity) in Europa (equivalente a circa 45 miliardi di eruo), l'Italia ha una percentuale molto limitata di questo valore (circa 3 miliardi di euro). La Francia può vantare circa un ammontare triplo. L'assenza di players fa sì che sia anche difficile operare attivamente, in quanto esiste un meccanismo di network tra operatori molto forte in questo settore. Se mancano players è anche difficile, per un operatore professionale, immaginarsi come potrà realizzare il way ow', come passare la mano ad un altro investitore, magari di uno stage successivo, come realizzare la staffetta. Se non c'è questo sistema, tutti rimangono alla finestra a guardare. Ci sono pochi esempi di grande successo. Purtroppo il fenomeno imprenditoriale è poco indagabile con le armi della sola razionalità economica. C'è una componente psicologica molto forte, ci sono importanti effetti imitativi. Se mancano i casi di successo è anche difficile generare quella cultura imprenditoriale che è, in genere, componente base per lo sviluppo di imprese emergenti. In Italia questi casi di successo, questi esempi di persone che hanno creato un'impresa da zero in pochi anni creando valore per la propria impresa, non sono molti e, se ci sono, sono anche poco pubblicizzati. C'è stato un periodo di grande euforia poi rivelatasi un'arma a doppio taglio - la fase internet prima del 2000 - dalla quale emerge un tema che, da solo, meriterebbe un convegno: la dffìcoltà di creare un marketplace, un luogo in cui sia possibile far incontrare la ricerca maturata negli ambienti di eccellenza con gli operatori finanziari ed industriali, che da quella ricerca possono estrarre valore. Manca un luogo dove fare un brokeraggio a beneficio di queste due forze. Possiamo dire, dunque, che il bicchiere è mezzo pieno. IntesaSanpaolo ha promosso uno strumento di venture capital ad hoc, a testimonianza del fatto che la nostra visione del futuro non è così depressa. Crediamo che ci siano grossissimi segnali di miglioramento, nel senso che l'innovazione sta entrando prepotentemente nell'agenda del discorso pubblico. Sono elementi importanti, basti pensare al clamore delle ultime settimane su tutto ciò che riguardava le nuove normative, a livello europeo, sulla ri111


duzione dei gas serra e sull'atteggiamento sia a livello politico che industriale del nostro sistema produttivo. Questo significa che certi temi di estrema rilevanza sull'innovazione stanno diventando sempre più importanti e interessanti per chi poi ha il ruolo di decision maker. Molti attori che negli ultimi anni sono stati alla finestra, anche a piena ragione, stanno rivedendo le proprie strategie e diventando innanzitutto molto più attivi: vi sono iniziative meritorie delle Camere di commercio, delle fondazioni di origine bancaria, delle stesse banche, delle associazioni territoriali, delle Pubbliche amministrazioni. Ci sono state, di recente, misure dipublicpolicy (ho citato due misure di stimolo "dall'alto" di processi di innovazione), ed un chiaro impulso, a partire da due-tre anni, al mercato del venture capita/che ha favorito il lancio di alcuni fondi con ottimo management. Una prima conclusione è che il nostro Paese non sembra oggettivamente in grado di dare grandissime soddisfazioni a chi vuole investire nell'innovazione. E questo ci porta un po' più nel vivo dell'argomento cruciale: quale atteggiamento devono tenere le banche. Se si osserva l'esperienza degli altri Paesi, il venture capital non nasce dal sistema bancario (si veda, ad esempio, la Silicon Valley). Allora perché pensiamo che ci possa essere spazio per un operatore di venture capital di origine bancaria in Italia? La prima risposta è che l'Italia, in definitiva, è un "sistema bancocentrico". Questo è un fatto che ha le sue spine ma anche aspetti positivi. Le banche hanno l'attitudine al dialogo con le aziende, si mettono, nei casi più virtuosi, sulla loro stessa "lunghezza d'onda". Inoltre, le banche hanno il potenziale per fare da network manager fra università, imprese, centri di ricerca, imprenditori che ruotano intorno alle banche. Il "prodotto" di IntesaSanPaolo di cui ora parlerò nasce proprio da questi assunti. Un fondo di venture capita/di una banca. Con il fondo di venture capital di IntesaSanPaolo c'è innanzitutto il riconoscimento, da parte della banca, dei limiti del proprio intervento secondo strumenti di tipo tradizionale. Come detto poco fa, qui si ha a che fare con un settore che esula dalle logiche classiche di attribuzione di credito e serve dunque dare più spazio ad uno strumento di venture capital che, comunque,fa parte di un bouquet di altri strumenti di cui la banca dispone per favorire l'innovazione d'azienda. Va detto che per la banca, visti i tempi che corrono, si tratta oggettivamente di un atto di coraggio allocare un certo capitale per iniziative di questo tipo, nella consapevolezza che, magari, si tratta di investimenti ad altissimo rischio che possono essere anche persi totalmente. Siamo consci che c'è bisogno di un approccio multidiscilinare e che l'esistenza di capitali, da sola, non porta da nessuna parte. Siamo aperti a creare dei processi di co-apprendimento insieme ad altri attori. Ciò, anzi, è assolutamente necessario per lo sviluppo di nuove aziende di tipo tecnologico. Penso sia abbastanza scontato il fatto che non possiamo fare venture capita/nel modo in cui viene fatto credito - per dirla in maniera molto banale - perché l'atteggiamento è tutto diverso: c'è bisogno di una maggiore compenetrazione all'interno della struttura dell'azienda as112


sistita e capitalizzata e per far questo occorrono una serie di strumenti e professionalità totalmente diversi rispetto a quelle tipiche del "fare banca". IntesaSanPaolo ha cercato di affinare sempre di più i suoi strumenti nel corso del tempo. Da quelli che sono strumenti di assistenza classici alle imprese, come gli Ipo, adattabili anche per accompagnare sul mercato delle start-up partite nell'area del venture capital, agli strumenti di assistenza alle aziende nel campo dei finanziamenti agevolati a sostegno dell'innovazione. Nel corso degli ultimi anni, Banca Intesa, in particolare la sua Divisione Corporate, e anche SanPaolo, prima della fusione, pur con diversi strumenti e società (fra cui 1Ml Investimenti), ha sperimentato attività di venture capital, seppur in modo non sistematico, quasi inconsapevole, sostenendo diverse start-up. Una in particolare, devo dire, ha dato risultati soddisfacenti: dieci anni fa Intesa è entrata nel capitale di Novamont, l'azienda creata per valorizzare il know how, le competenze ed i brevetti dell'ex Montedison nel settore della produzione di plastiche da biomateriali. E una società che sosteniamo da 10 anni e che è un esempio (di successo) di come sia possibile sostenere businessplan meritevoli. Il Gruppo ha da tempo avviato un altro strumento sperimentale, Intesallova, più affine a supportare piccole e medie imprese esistenti con finanziamenti destinati a progetti di innovazione (non parliamo di start-up né di venture capital). Un ulteriore strumento merita di essere conosciuto meglio: lo sportello di impresa Eurodesk che aiuta chi vuole accedere ai finanziamenti del Settimo Programma Quadro e che fornisce una completa assistenza agli imprenditori a tal fine. Infine, occorre dal conto del nuovo fondo Atlante Ventures. Si tratta del primo fondo di investimento promosso da IntesaSanPaolo gestito da una SGR del gruppo e da un team che si è formato all'interno dell'area merchant banking di Intesa. Ha una dotazione di 25 milioni di euro ed ha l'obiettivo di investire in operazioni early stage e late stage in Italia ed in Europa, in diversi settori molto intensi dal punto di vista tenologico (meccanica, elettronica, biomedicale, energie rinnovabili, nuovi materiali). La novità rispetto alle esperienze passate del gruppo, è la consapevolezza che si ha a che fare con un mestiere del tutto diverso, in cui la competenza paga e che ci sono grandissime asimmetrie informative fra l'imprenditore ed il finanziatore. Due soggetti che spesso non riescono a parlare la stessa lingua. Abbiamo trovato dei "traduttori", ci siamo procurati una serie di competenze, di advisors, sia scientifici che di business che ci aiutano a capire meglio i progetti che ci vengono presentati e a prendere delle decisioni più informate. Abbiamo inziato da poco. Questa stessa presentazione è un po' un'anteprima rispetto ad un lancio ufficiale che deve ancora avvenire. Abbiamo peraltro già realizzato un investimento e ci andiamo a collocare in un segmento di mercato che è già occupato da alcuni competitors che sono anche co-operators, fondi di venture capital che gli esperti del settore ben conoscono. Dunque, nella "catena del valore del finanziamento", Atlante Ventures si posiziona nel segmento del venture capital, ma non propriamente nel seed o nella fase del trasferimento tecnologico ancora in seno all'università. 113


Giuseppe Russo UNI0NFIDI PIEMONTE. GARANZIE, CONTROGARANZIE, INNOVAZIONE: UN TRIANGOLO POSSIBILE

In premessa va detto che all'interno di un contesto di investimenti in imprese molto innovative, il capitale di debito non è la leva appropriata. Si può pensare che il "garante del debito" possa dar modo di fare un utilizzo del debito un po' più avventuroso nelle imprese innovative, ma ciò non signffica che il debito sia la leva giusta. Infatti, in generale, anche se c'è un garante, è difficile finanziare con capitale di debito imprese innovative e che all'inizio non hanno cashJlow. Ma veniamo ad Unionfidi. E un organismo formato da società cooperative oppure consortili che costituiscono dei fondi di rischio tassando sostanzialmente tutte le imprese che hanno appetito di credito ed utilizzano poi l'insieme del fondo per pagare parte (il 50%) delle insolvenze delle imprese sfortunate o quelle cui l'avventura del business non è andata bene. In questo mestiere i Confidi (circa 800 in Italia) si sono esercitati per tanti anni. Recentemente, una norma dell'Autorità di Vigilanza di attuazione dell'articolo 13 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, ha recepito un indirizzo largamente comune in ambito comunitario, obbligando i Confidi a diventare intermediari finanziari vigilati (ex articolo 107 Testo Unico in materia bancaria e creditizia) qualora abbiano più di 75 milioni di outstanding, cioè di "rischio in essere". Settantacinque milioni è un importo bassissimo per riuscire a diventare degli intermediari finanziari vigilati. Solo Unionfidi Piemonte ha un importo di 1,2 miliardi lordi (850 milioni netti, dove netto vuol dire al netto di ciò che è già scaduto) di garanzie in essere. Come conseguenza della norma sono due anni che lavoriamo sull'adeguamento dei processi, e dei sistemi informativi, sulle segnalazioni di vigilanza; ultimamente abbiamo introdotto un sistema di rating ad hoc tarato sulle nostre imprese. Un rating quantitativo, in prospettiva validabile dal banchiere centrale. Dopo un grande sforzo (ci siamo adeguati per il 75 per cento del portafoglio) per maturare come intermediario finanziario vigilato. Cè da chiedersi se valga la pena fare tutto ciò e se sia essenziale che debba esserci l"anello Unionfidi". Tagliato il quale quantomeno si potrebbero risparmiare dei costi. La domanda, ad essere franchi, è legittima. I Confidi hanno a lungo ritenuto che nella valutazione del merito di credito siano un soggetto "più bravo" del banchiere. Nel regime di intermediazione vigilata cui i Confidi sono ora sottoposti, questa affermazione può non essere più vera. Su masse importanti e sistemi di analisi sostanzialmente omogenei le pratiche valutative tendono, infatti, a convergere. E vero, invece, che i Confidi sono, in sostanza, di recente costituzione e perciò meno legati a comportamenti "tradizionali". Tuttavia, i sistemi di valutazione, pur potenti, non sono così puntuali come quando i Confidi erano "piccoli" e potevano dedicarsi con maggiore attenzione ad ogni soggetto. Fatte queste riserve, bisogna dire che l'esistenza di Confidi abbia un senso per due ragioni: la prima è che, pur operando nel mezzo della catena creditizia, sono uno strumento con cui il sistema creditizio diventa più concorrenziale. Il nostro cliente medio, 114


approcciando un Confidi strutturato, ha un'offerta di 66 banche che gli permette di abbattere i costi di ricerca del partner bancario. La seconda è che un sòggetto Confidi riesce sempre ad essere vicino al mondo imprenditoriale. In termini di esperienza personale, dirò - a questo proposito - che negli ultimi due anni mi sono trovato a suggerire alle banche la necessità di offrire un certo prodotto finanziario. Ciò perché ho individuato un determinato bisogno, espresso da una certa comunità di associazioni di categoria con cui sono più in contatto. Dunque, non si può trascurare l'utilità di Confidi come canale informativo che aiuti lo sviluppo degli stessi prodotti bancari. Di nuovo, spingendo il sistema bancario a diventare per forza concorrenziale: il cliente ha sempre la scelta fra le varie banche che sono intorno a Confidi. Tutto ciò in generale. Ci sono poi le nicchie di intervento e l'innovazione è, per i Confidi, una nicchia di intervento su cui c'è un notevole impegno. Nel portafoglio medio di un Confidi, gli interventi su reali start-up non sono più del 3,5% del portafoglio (perlomeno in Unionfidi Piemonte). Noi ci siamo esercitati più di altri Confidi perché siamo su un territorio tecnologicamente fertile e siamo stati coinvolti in alcune iniziative. L'abbiamo fatto volentieri ma le percentuali - vale riconoscerlo - sono in ogni caso molto basse. Alcune esperienze. A questo punto è utile dare testimonianza di alcune cose che abbiamo provato a fare. Si tratta di esperimenti, di cui non è possibile fare un bilancio. I risultati arriveranno tra qualche anno. Una prima esperienza che abbiamo fatto è l'utilizzo di una facility del Fondo Europeo degli Investimenti. Siamo riusciti a portare sul territorio unafacility del FEI che controgarantisce gli investimenti quando c'è una crescita dell'impresa in termini di investimenti e addetti. Grazie a questafaci/ity abbiamo concesso garanzie per 11 milioni negli ultimi 9 mesi (siamo dunque sui 15 milioni l'anno per società start-up che hanno ricevuto del capitale di debito garantito da Unionfidi, controgarantito dal FEI, dunque fondi pubblici). In questo caso il ruolo di Unionfidi è stato un po' quello del banchiere. Il banchiere senza la garanzia non eroga, ma anche il garante, senza lafacililty di controgaranzia, non avrebbe garantito start-up. Il rischio associato a queste operazioni è troppo grande ma noi, in questo modo, lo abbiamo corso ed oggi il rischio può essere ripartito tra la banca, i Confidi ed il FEI. Ma attenzione! Quando si tratta di start-up molto spesso la valutazione è comunque complessa: infatti, è nuova la società ma normalmente non l'imprenditore. C'è pur sempre una "storia" che in qualche modo si può immaginare e valutare (a volte la start-up nasce dopo la chiusura di una prima avventura ed è quindi il frutto di una trasformazione di una vecchia società). La seconda esperienza che vorrei raccontare è relativa ad un prodotto che abbiamo ritagliato su misura per l'incubatore delle imprese innovative del Politecnico di Torino "13P". Si tratta di piccoli importi con un cap molto basso (non più di 50 mila euro ad impresa) che noi garantiamo per più del 50%, potendo usufruire, anche in questo caso, di una controgaranzia. Anche in questo caso siamo all'inizio dell'esperienza. 115


Nel 2007 abbiamo emesso garanzie per 512 milioni (su un totale di 1.200 milioni di euro di garanzie in essere). Sono piccoli importi ma che pesano qualche cosa anche sul fenomeno start-up. In questo caso siamo stati gli intermediari di una garanzia pubblica più che garanti diretti, anche perchè non potrebbero mai essere riscosse commissioni di garanzia proporzionate ai rischi connessi alle operazioni di start-up, che sono sostanzialmente invalutabili. Una porzione di rischio è rimasta in capo alla banca ma, evidentemente, questa si è sentita a sua volta in parte coperta dalla nostra garanzia. Come operatori del territorio il sistema dei Confidi ha una piccola riserva di intervento in iniziative locali. Il portafoglio in questi casi può essere più ampio e il criterio mutualistico conta: un piccolo aumento della commissione per tutti può garantire operazioni più rischiose sul 3,5% del portafoglio. Un investimento di cui si valuteranno i ritorni, come detto, tra qualche anno. L'ultima esperienza che presento è relativa ad una facility del Fondo di garanzia del Mediocredito Centrale (Mcc) che permette di garantire gli investimenti in equity. Confidi può intermediare questa garanzia, ovviamente entro un certo massimale. Il fondo di private equity "Nord-Ovest" (gestito da Strategia Italia SGR) sta investendo circa 20 milioni di euro in imprese del nord-ovest d'Italia. Investimenti ovviamente subordinati ad una istruttoria svolta da Confidi: non si tratta certamente di una garanzia automatica, ma esiste una convenzione con questo fondo. La nostra garanzia ha un cap di 500 mila euro, controgaranita dal Mcc. Confidi paga una commissione per questa controgaranzia. Beninteso, sono commissioni che non hanno niente a che fare con il valore atteso della perdita che non conosce assolutamente nessuno. In questo modo, però, sappiamo quale è la nostra perdita massima attesa. Tutto ciò che vantaggio produce? In qualche modo il sistema limita il downside risk dell'investitore di Private Equity che, avendo una missione non di sostegno territoriale ma di sviluppo territoriale, può beneficiare di una garanzia sull'e quity che limita i danni - in caso di investimenti negativi - al conto economico. Devo dire che le garanzie emesse sono ancora pochissime, perché si tende a valutare caso per caso e l'attività è iniziata da poco. Dunque, non abbiamo ancora una casistica rilevante e significativa da rappresentare. Vorrei ancora informare di un'altra iniziativa a cui stiamo pensando insieme ad un gruppo o club "Club di investitori". Si tratta di una garanzia sull'equity, sempre a condizioni che ci sia un controgarante di merito, chiamiamolo così, "benevolo": si tratta di una garanzia che aiuti i Business Angels che hanno portafogli molto concentrati a ripartirsi il rischio tra di loro. Un fondo, normalmente, ha una distribuzione del rischio su più investimenti (qualche decina), mentre un BusinessAngel che opera 2 o 3 investimenti corre un rischio sicuramente molto maggiore. Se, però, ci fosse un "club di Business Angels" Unionfidi potrebbe produrre una garanzia a copertura delle perdite. A condizione che vengano pagate delle commissioni su tutte le operazioni da parte del "Club". Questa iniziativa è ancora in fase di valutazione ma avrebbe il fine di migliorare l'approccio dei Business Angels, obbligandoli però ad associarsi. 116


Rispetto a questo stato di cose vorrei aggiungere tre considerazioni: il mestiere principale del Confidi, nonostante questi nuovi prodotti, resta quello di garantire le imprese. Non tutte le imprese, ovviamente. Tenderei ad escludere, ad esempio, quelle che hanno un merito di credito, perché probabilmente non hanno bisogno di garanzie. Un imprenditore ha contattato Unionfidi per richiedere una garanzia vantandosi di avere un "merito di credito scintillante". La risposta è stata: se ha un merito di credito scintillante perchè mai vuole pagare una commissione a Confidi? Può andare direttamente in banca. In realtà, se un'impresa ha un merito di credito non proprio scintillante, ma luminoso, può - se non supera i 250 dipendenti - rivolgersi ai Confidi, che normalmente possono fare qualcosa per l'impresa (dare qualche suggerimento, mettere a disposizione una serie di offerte bancarie), ma - sia chiaro mai investire direttamente nell'e quity dell'impresa; solo su una piccola parte del patrimonio Confidi ha ritenuto opportuno scommettere un po'. Ciò è stato fatio perché - per tutte le operazioni - esiste un controgarante riassicuratore di queste partite. Unionfidi è dunque utile in quanto selettore: la garanzia non va data a tutti ed essa viene concessa dopo un doppio grado di valutazione: prima quello di un istruttore fidi e poi del controgarante. L'operazione di scegliere i casi meritevoli passa, dunque, attraverso Confidi ed il controgarante. Se Confidi delibera ma non il controgarante, non viene erogata la garanzia; in questo momento occorre fare molta attenzione ad indebitare troppo le imprese. Un banchiere diceva pochi giorni fa: "se un'impresa troppo indebitata mi chiede credito e io glielo concedo, normalmente gli faccio un dispetto, non un piacere". Le statistiche ci dicono che il sistema delle PMI è già abbastanza indebitato ed ha dei coefficienti di patrimonializzazione che non sono migliorati negli ultimi 5 anni. I fatturati sono in crescita, ma non cresce la patrimonializzazione. L'unica nota positiva è che la qualità del debito è sostanzialmente migliorata (ce n'è più a lungo termine, meno a breve). In questo contesto, anche se l'indebitamento è contratto per realizzare una innovazione, non si può comunque prescindere da avere dei ratio patrimoniali e dei cashfiow che mi permettano di congetturare una sostenibilità del debito. Dunque, anche se l'impresa chiede del credito per investire (ci sono prodotti ad hoc per questo genere di operazioni) e, conseguentemente, chiede una garanzia su un prodotto strutturato, devono essere rispettate certe condizioni patrimoniali: il patrimonio deve crescere nei periodi in cui ovviamente ciò è possibile, al fine di far fronte ad eventuali peggioramenti congiunturali, portando un equilibrato rapporto tra patrimonio e debito. Se avvengono squilibri in tale rapporto, si crea un problema per i creditori e per i garanti, (che sono un po' come canarini: progettati per fallire un minuto prima delle banche). Personalmente sono contento che siamo progettati così, però fornisco sempre questo avvertimento al mio cliente. Devo dire, in conclusione, che il Fondo Europeo degli Investimenti ha rinnovato il suo impegno come controgarante utilizzando lo schema CiP "Competitiveness Innovation Programme", rivolto specificatamente alle Pmi che investono in innovazione. Il FEI ha erogato a Unionfidi, che è il secondo Confidi del Piemonte (forse il secondo 117


maggiore d'Italia) circa 240 milioni di plafond di garanzie da emettere nei prossimi 3 anni. Si può fare un facile calcolo della leva bancaria di questi 240 milioni di garanzie che Unionfidi ha già nel plafond. Dunque, per finire, una valutazione personale. Confidi è sicuramente un soggetto utile, ma mi chiedo se lopuò essere tutte le volte che si ha a che fare con un investimento innovativo (e su certi settori che sono anche ben individuati, come le energie rinnovabili ed altri settori tecnologicamente promettenti). La mia risposta è no. Ci sono, infatti, da rispettare parametri come il cashflow, nonostante ci si ritrovi spesso di fronte ad un progetto altamente innovativo. La questione cruciale è sempre quella che il debito deve essere sostenibile. E questo è in qualche modo un richiamo al fatto che bisogna finanziare dei progetti, ma non bisogna dimenticare che i progetti devono provenire da un contesto aziendale sano e che abbia già dimostrato di operare in maniera finanziariamente sana almeno nei periodi di crescita.

118


COMMENTI E REPLICHE

Fabio Biscotti

Qualche breve riflessione in relazione agli spunti forniti dai diversi relatori di questa sessione. In primo luogo la testimonianza di Mezzotero conferma come le ragioni del mancato sviluppo di un vero e proprio mercato del trasferimento tecnologico e, più in generale, dell'innovazione non vanno ricercate nelle carenze del sistema finanziario italiano nel realizzare la necessaria struttura di money push, ovvero nei limiti del mondo della ricerca in termini di cultura imprenditoriale flinzionale a creare un efficace processo di deal pulì, quanto piuttosto nella mancanza di una azione sinergica da parte di tutti gli attori coinvolti nel favorire lo sviluppo di un marketplace su entrambi i lati. Tali evidenze sono peraltro coerenti con le convinzioni del Css come peraltro evidenziato nelle conclusioni del volume "Trasferire tecnologie". In questo senso appare evidente la necessità di supportare una policy complessiva che permetta di mettere a sistema l'azione dei diversi protagonisti di questo mercato: la pubblica amministrazione, le camere di commercio e le altre associazioni di categoria, le fondazioni di origine bancaria, le banche e gli operatori del venture capital, il mondo delle professioni, le associazioni territoriali nonché l'università e l'articolato mondo della ricerca. Tutti soggetti che devono contribuire a costruire un mercato del trasferimento e dell'innovazione tecnologica funzionale a fornire tutte le capacità programmatiche, professionali e finanziarie necessarie a rispondere a tutte

le esigenze che iniziative imprenditoriali in questo campo richiedono. Restando al tema specifico della sessione, l'intervento di Mezzotero dimostra come anche un grande player del mercato finanziario abbia percepito la necessità di integrare sistematicamente risorse finanziarie di diversa origine e natura per creare una vera e propria "filiera del finanziamento" che supporti adeguatamente le iniziative di trasferimento e innovazione tecnologica; l'attenzione alle caratteristiche proprie del venture capital che stanno manifestando anche operatori più tradizionalmente operanti nel settore del mercato del credito - e il caso Intesa SanPaolo è emblematico in tal senso - rappresenta una risposta, seppur non "di sistema", alla necessaria integrazione e coerenza delle diverse risorse finanziarie in relazione agli altri aspetti e momenti di intervento, dalla fase di identificazione, a quella del proof ofconcept, a quella dell'avvio di new ventures, fino al way out ed al collocamento in borsa. In ogni caso ancora diverse tematiche in merito risultano irrisolte: non solo rimane aperta la questione di dove e come collocare il capitale di debito nell'ambito della complessa strutturazione finanziaria di progetti di questo tipo, ma anche di come ottimizzare il ruolo dei grani' di origine pubblica e di quali risorse debbano essere investite nelle necessarie coperture dei rischi di progetto. In tal senso assume rilevanza il tema che introduce Giuseppe Russo, il cui contributo è molto chiarificatore circa l'operatività e messa in campo e l'approccio al rischio di un operatore specializzato nel garantire strutture di finanziamento. Le esperienze rappresentate evidenziano come i Confidi possano 119


rappresentare un soggetto che interagisca e collabori con tutti gli altri protagonisti della filiera del finanziamento, essendo un soggetto capace di valutare il profilo di rischio delle operazioni del settore, elemento che spesso rappresenta una barriera all'entrata in questo mercato di capitali, siano essi di rischio o di debito. In tal senso colgo peraltro con grande interesse questa novitĂ di intervento di

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Confidi sull'e quity che ha bisogno di essere sviluppata con attenzione (considerando che di fatto modifica sostanzialmente la logica di intervento del capitale di rischio) poichĂŠ potrebbe rappresentare un importante elemento operativo per aumentare le capacitĂ di investimento del settore del venture capital nell'ambito di progetti di trasferimento e innovazione tecnologica.


Ø

queste istituzioni n. 154 luglio-settembre 2009

dossier

ti' - i'isione di silltesi e prospettive di lavoro

Andrea Bonaccorsi RISORSE E PERCORSI POSSIBILI PER RICERCA E INNOVAZIONE. PER RECUPERARE IL FORTE RITARDO

Provo ad identificare alcuni punti emersi nel corso del Workshop per identificare anche quali potrebbero essere le implicazioni di policy dei nostri ragionamenti. In un contesto in cui le risorse nazionali (in particolare quelle dedicate agli enti di ricerca italiani) sono complessivamente scarse. In questo quadro non va trascurata, però, una importante opportunità per il Paese che deriva dall'accesso ai finanziamenti europei organizzati all'interno del Quadro Strategico Nazionale (QSN 2007-2013) e dai piani nazionali (Piano Operativo nazionale e quelli del Ministero per lo Sviluppo Economico) e Regionali (i Piani Operativi Regionali). In passato, tutta questa strumentazione non è stata in gran parte utilizzata per gli obiettivi di innovazione e trasferimento tecnologico di cui abbiamo parlato in questi giorni. Credo invece che essi rappresentino un'opportunità importante e chiedo al CSs di farsi voce attiva su questo versante perché la programmazione dei prossimi anni (2007-2013) possa andare verso alcune delle direzioni che abbiamo immaginato.. Non ci sono risorse? Alcuni dati sui fondi pubblici destinabili alla ricerca e all'inno-

vazione: nell'ambito dei fondi europei 2007-2013 gestiti mediante "Docup", la proporzione dei finanziamenti destinati al settore "Ricerca e Innovazione" rispetto al periodo 2000-2006 è enormemente aumentata a discapito di altri settori: da poco più del 6% si è passati al 40%.

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Ripartizione percentuale risorse Docup Ob.2 2000 - 2006 e POR Ob. CR0 2007 - 2013

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Fonte: Elaborazioni DPS - MISE su dati Monit

Il dato viene approfondito dalla figura seguente con i dettagli sulle Regioni italiane. Ne emerge che, globalmente, sono disponibili sulle programmazioni regionali circa 3 miliardi di euro nei settori "Ricerca e innovazione", contro i 495 del periodo precedente. Tf!k

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I dati ci dicono anche che la componente dei fondi europei (fondi strutturali) dedicata alla "Ricerca e innovazione" è passata da un valore compreso tra il 5 ed il 10% del 122


totale al 30-40%, in alcuni casi anche oltre il 50% del totale. Le Regioni, in questo ciclo di programmazione, hanno dunque allocato una percentuale altissima delle risorse disponibili nel settore della "Ricerca e innovazione". Ciò è importante soprattutto al fine di limitare il rischio di dispersione delle risorse che, in genere, è molto alto in Italia. Questi che si presentano sono ulteriori dati relativi agli investimenti complessivi previsti dalla programmazione regionale (circa 8 miliardi di euro nel periodo) e alla quota parte riservato al settore della "Ricerca e Innovazione" (circa 3 miliardi di euro, pari al 38% del totale). Confronto risorse programmate Docup Ob.2 2000 - 2006 e POR Ob. CR0 2007 -2013 DP2

RSE 2734.338.1 122a833.8 787.032.403 427430.4 692433.1 41&8&3.774

180.613.2 713033228 7.182579A11

OO -

--

38,1% 17,1% 11,(IX, i QMA 9'h 5, 233/6

9, 1OO,O'

______

bpdutbo AnbMB Tunsrm

Qiira Traspxti R oaw Sdài'infTraza1e ATeaIÙD

TcaIe

i

21X17 -313 SE 15.046.616 0,2'A 1.809.993.948 22, 1% 27&685.973 34,{ 329.0.15 4,01A 1.0624.6 13,G'A 3.1J841.W4 38,2'A 767.2a39 9,4{ 792733.043 9,7,{ E1.176A68.7241 11X11

Fonte: Elaborazione DPS- MISE su dati Monit

Sarebbe un errore inaccettabile aliocare, nei prossimi anni, questi investimenti pubblici in direzioni che non rispettino le priorità che ormai sono piuttosto chiare. Credo che questo sia un tema su cui gli scienziati sociali e gli operatori non possono non soffermarsi. Criticità eproposte per un piano d'azione. Propongo una sintesi dei due giorni di dibattito, sulle esperienze presentate, dei loro punti di debolezza o errori commessi, dei risultati più promettenti, delle chiavi di successo su cui continuare ad operare. La sintesi propone anche di identificare dei possibili piani d'azione e delle indicazioni per le policy nazionali e regionali, che potrebbero essere avanzate sulla base di una riflessione congiunta tra scienziati sociali ed operatori che il Css, da un anno a questa parte, sta favorendo anche mediante i workshop di Moncalieri. Illustro rapidamente tre processi (o percorsi) di trasformazione della conoscenza tecnologica: 1) il primo processo è quello che ha origine dalla ricerca scientifica per andare verso il mercato e che si formalizza, fondamentalmente, attraverso la creazione di nuove imprese innovative; nel percorso il push ed ilpull interagiscono; 123


il secondo ha ad oggetto la collaborazione fra ricerca ed impresa esistente; il terzo si riferisce al ruolo delle PMI, di cui pure si ha avuto testimonianza nel nostro incontro, percorso che sicuramente merita maggiore attenzione. Per ogni "percorso" si evidenziano di seguito le criticità emerse, le buone esperienze e qualche suggerimento. Primo percorso "Ricerca - start-up". Le principali criticità sono sintetizzate nello schema seguente. Processo 1. Dalla ricerca al mercato (creazione di nuove imprese innovative) Fase

Debolezze! Errori da evitare

Esperienze di successo / leve

Piano di azione

Università

Bassa cultura imprenditoriale

Premio Start Cup PNI Cube

Finanziamento PON e iniziative su scala nazionale tnserire il meccanismo della Loi sur !'innovation francese

Stato giuridico docenti Normativa spinoff D.Lgs 297199 TTO/ ILO

Bassa qualità personale TTO

Modifica procedure D.Lgs 297 MuR Programmi di

Incubatori di nuova generazione

Linee guida lncubazione/ Accelerazione

Nuova gestione AP5TI

Programmi internazionatizzazione start up

Ruolo fondazioni bancarie

Inserire il Proof of conceptì Transiational funding come Misura separata

Difficoltà relazione TT0 ricercatori Accelerazione

Eredità Strumenti solo immobiliari

Pre-seed

Scarse esperienze fondi di pre-seed a livello di università

Seed capital

Assenza intervento pubbtico nazionale Scarsa azione Regioni DocUp 2000-2006

investment readine Mentoringl tutoringi training

NetVal

Moltiplicare fondi di seed capita! Esperienze regionali (PiemonTech)

Programmazione 2007-2013 QsN Regioni

Inserire il seed capita! come Misura separata Elevati costi di due

di!igence

Esperienze locali (fondi rotativi Cci)

Bandi di affidamento a operatori privati (anche con società ex art 106 Tu)

Limitata esperienza di valutazione e professionalità

Iniziative fondazioni bancarie (Cariplo)

Fallimento modello SGA a capitale limitato

Iniziative legate a incubatori (BioFund)

Eventi di formazione per valufatori

Limitato investimento privato nel VC vs. MBO/ expansion

Polo Italiano del Venture

Confermare strumento L. 388 (cofinanziamento pubblico 50%)

Assenza intervento pubblico nazionale/ Eccessiva ingerenza politica nella gestione

Esperienze SGR con privati e fondazioni bancarie (lnnoGest)

Ritardo Fondo HT nel Mezzogiorno

Esperienze SGR con finanziamento misto regionate - privato (Ingenium)

Fallimento di bandi per gestori fondi Vc misti pubblico (regioni)/ privato (es. Campania, Umbria, altre regioni Mezzogiorno)

Esperienze SGA con enti di ricerca nazionali, fondazioni bancarie e privati (Ouantica)

Scarso dea! 110w

Esperienze partnership pubblico-privato legate a incubatore (Eporgen)

Carenza di dea! 110w Venture capital

124

Capita!


Di questo processo si evidenziano le seguenti criticità: - una bassa cultura imprenditoriale del mondo della ricerca; - un problema di status giuridico dei docenti; - un'arretratezza normativa sul fenomeno degli spin-offi - i Technology Transfer Offices sono ancora - mediamente - di bassa qualità professionale, seppur diffusi ormai in molti atenei ed enti di ricerca. Essi rivelano una difficoltà di relazionamento con il corpo dell'università; - a livello di "incubazione" si soffre della pesante eredità di aver avviato delle politiche di creazione d'impresa a fini di sostegno all'occupazione mediante strumenti prevalentemente di tipo immobiliare; - vi sono pochissime esperienze nazionali di rilievo dipre-seed. Date queste criticità, si può far leva, comunque, su alcune buone esperienze. Esiste, a livello nazionale, un certo movimento bottom-up che passa, ad esempio, attraverso i premi Start-cup. L'incubatore "PNI Cube" ed il "NetVal" (network di atenei per la valutazione della ricerca) stanno, inoltre, contribuendo a far crescere le strutture di incubazione attraverso l'introduzione di nuovi concetti e strumenti aggiuntivi rispetto alle tradizionali facility finanziarie, attraverso concorsi, premi, l'analisi e la diffusione di esperiei:ìze tra i soci, la sensibilizzazione e promozione dell'adozione di politiche a favore di iniziative di incubazione di imprese, l'acquisizione di risorse indirizzate alle attività di creazione di impresa, attività cli formazione in Summer School, la redazione di survey e statistiche, l'organizzazione di seminari, workshop, la definizione di modelli valutativi e così via. Tutto ciò fa pensare ad alcune azioni importanti da prendere per potenziare l'efficacia d'azione di tali soggetti e strumenti: - Innanzitutto, le risorse finanziarie, presenti nei Piani nazionali dei ministeri e Regionali debbono mantenere l'allocazione nei settori dell'innovazione per iniziative a livello nazionale (ad esempio, le risorse P0N). - Occorrerebbe intervenire con delle modifiche anche sugli aspetti procedurali del decreto n. 297 sui finanziamenti agevolati per attività volte alla realizzazione di nuovi prodotti e processi e la creazione di spin-off - Occorrerebbe una introduzione di tutte le iniziative a valore aggiunto citate nel Workshop come fattori essenziali affinché cresca la qualità del sistema di trasformazione della conoscenza: ad esempio, gli Investment Readiness Programmes, la formazione, il mentoring delle attività che nascono dal mondo della ricerca. - Sul tema "incubazione", i nuovi modelli devono in qualche modo Sostituire quelli fino ad ora operanti secondo la vecchia logica "immobiliare". Non si possono più finanziare strutturedi intermediazione inefficiente che drenano risorse, togliendole a quelle che hanno più merito. - Sul Pre-seed è emerso che dobbiamo agire mediante policy che agevolino l'introduzione di strumenti come il proofofconcept o transnationalfunding, deve essere creato/provato il concetto, fare in modo che negli strumenti di policy nazionali e regionali questa prova abbia una sua entità oggettiva, diventi un elemento chiaro e ben identificabile nel processo dipolicy. 125


Ancora, sui problemi, ripartendo dalla fase del seed capital: - è stato verificato che c'è una carenza di iniziative nazionali; gran parte delle Regioni che hanno avuto l'opportunità di introdurre degli strumenti di seed capital non l'hanno fatto; - le iniziative di seedfunding hanno certamente problematicità inerenti all'esperienza di valutazione e dei costi elevati di gestione; - le SGR a capitale ridotto perla gestione dei fondi di seed non hanno del tutto funzionato; - in generale, c'è un problema delicato di reperimento di dealflow. A fronte di questo stato di cose sono state avviate delle buone iniziative: - delle esperienze regionali stanno funzionando: Piemontech (di cui non si è avuto modo finora di parlare) è forse il caso più rilevante nel settore del seed capital; - vi sono esperienze su scala locale, in particolare, provinciale (ad esempio, i fondi rotativi); - emergono le prime esperienze avviate dalle fondazioni di origine bancaria, legate alle iniziative di nuovi incubatori. L'obiettivo che, da queste cose, deve essere perseguito, è quello di moltiplicare le esperienze di seed capital. Il messaggo chiaro che emerge da questa giornata è, inoltre, quello che non c'è speranza che possa svilupparsi il mercato del venture capital di sufficiente ampiezza se non si moltiplica la parte bassa e più rischiosa che va ad alimentare il venture capital. Ciò deve diventare un oggetto di policy perché si affermi un partenariato fondamentale tra soggetti e risorse pubbliche e gestione privatistica degli strumenti di seed capital. Con riferimento alla fase del venture capital, sono state discusse a lungo differenti problematiche di seguito segnalate: - vi è Stato, di base, un limitato intervento pubblico per Supportare il mercato del venture capital; - a livello regionale, c'è spesso Stata un'ingerenza eccessiva del soggetto pubblico nella gestione privata; - segnalo, inoltre, un problema che, a livello nazionale, è ancora pendente: il lancio del fondo "High tech" nel Mezzogiorno, per il quale sono stati stanziati, oramai due governi fa, 100 milioni di euro. L'iniziativa ha subito degli enormi ritardi per via del ricorso presentato a seguito della selezione del gestore con gara pubblica. C'è il rischio che fenomeni come questo vengano, se non cancellati, sicuramente danneggiati. Se ci sono state esperienze negative di gestione a livello regionale, allo stesso tempo, abbiamo avuto una serie di testimonianze molto importanti: - quella del "Polo del venture capita!' che sta funzionando; - altre iniziative che seguono modelli diversi, alcuni totalmente privati (Innogest), altri misti con enti regionali (Ingenium) o con grandi enti pubblici di ricerca (Quantica). Dal punto di vista delle azioni da compiere in termini dipolicy è emerso come sia 126


fondamentale potenziare la leva finanziaria pubblica per sostenere il mercato del venture capital (in particolare, la legge 388 che introduce la possibilità di un cofinanziamento del 50% da parte pubblica di capitali privati). Il secondo percorso "Ricerca-impresa esistente". Il secondo processo fa riferimento alle esperienze che hanno presentato i grandi enti di ricerca. Processo 2. Collaborazione ricerca- impresa (imprese esistenti con R&S) Debolezze! Errori da evitare

Esperienze di successo / leve

Università /

Resistenze culturali

Programmi di technology

Ente ricerca

Scarsa cultura di mercato

transfer dei grandi enti di ricerca internazionali

Fase

Piano di azione

(CERN, ESA)

Difficoltà di gestione industriale dei progetti

Esperienza iniziate INFM

Confermare regime fiscale deduzione spese R&S

Eccesso di orientamento alla ricerca nelle iniziative pubbliche (distretti tecno!ogici, centri di competenza)

Industria 2015

Rischio di spiazzamento tra finanziamento pubblico e

Rivedere meccanismo L.46182 (FRA-FIT)

In questo secondo processo le difficoltà sono decisamente più chiare ed autoesplicative. Ci sono delle esperienze positive (quelle dell'ESA, del CERN, o dell'INFM) che possono fare da benchmark. Credo che, dal punto di vista delle policy, debbano essere confermate alcune iniziative nazionali intraprese negli ultimi anni (ad esempio, la deducibiità delle spese in ricerca per le imprese, soprattuto relative a contratti con gli enti di ricerca). Vanno evidenziate anche esigenze di revisione dei meccanismi di incentivazione della ricerca nelle imprese (segnalo, a tal proposito, il libro appena uscito a cura di De Blasio e Lotti - "La valutazione degli aiuti alle imprese" 13 in cui è stato condotto uno studio sugli impatti degli incentivi pubblici sulle imprese che segnala i rischi di spiazzamento). Su questo versante, tutta l'esperienza positiva dei laboratori congiunti avviati in Emilia Romagna è sicuramente da confermare. -

Terzo percorso: collaborazione ente di ricerca-piccola impresa esistente.Anche se non è stato l'oggetto principale del nostro dibattito, non va trascurato il percorso di trasferimento tecnologico a beneficio delle piccole e medie imprese. E noto che esse sono protagoniste di una partita difficilissima. Mentre nell'ambito del primo processo (dalla ricerca al mercato tramite la nascita di una nuova impresa innovativa) le azioni da compiere sono abbastanza chiare, nel processo di avvicinamento delle piccole e medie imprese al mondo della ricerca, nonostante qualche bestpractice, non si possono registrare esperienze numerose e soddisfacenti (soprattutto se si guarda all'indicatore "investimenti privati in ricerca e sviluppo"). 127


-

-

Nl Workshop c'è stata la testimonianza di Next Tecnotessile di Prato, ma ce ne sono anche altre di un certo successo; in ogni caso si tratta di esponenti di un sistema nel quale la dinamica di incontro tra push epull è largamente insoddisfacente. Processo 2. Collaborazione ricerca- impresa (imprese esistenti con R&S) Fase

Debolezze! Errori da evitare

Esperienze di successo I leve

Piano di azione

Assessment del potenziale innovativo

Approccio technology push o research-driven

Programmi di awicinamento (Area Science Park, Firenze Tecnologia)

Programmazione 2007-201 3

Finanziamento diretto alle

Metodologie di

università

PROBLEM SOLVING

QSN

(intermediazione)

Eccessivo ruolo intermediari sul territorio Ruolo parassitario di gruppi di interesse Progetti collaborativi

Resistenza al cambiamento

Laboratori pubblici a gestione privata (Next)

Industria 2015

Sfiducia verso università e ricerca

Parchi scientifici di nuova generazione (Area Science Park, KM Rosso)

Politiche regionali di Poli tecnologici

innovazione

Non voglio influenzare il panel su questo tema ma credo che il Css abbia il dovere di tentare di trasformare il dibattito in forme ed indicazioni di policy. Chiedo a coloro che animano questa tavola rotonda uno sforzo in questo senso, al fine di approfondire la conoscenza dei fenomeni per adempiere ad un dovere, civile e politico, di contribuire laddove altri Paesi hanno iniziato a muoversi ormai 10-20 anni fa, vantando un learning certamente più avanzato. L'Italia ha un'urgenza drammatica di essere molto più efficace, di trasferire esperienze con maggiore velocità e di suggerimenti ed indicazioni alla politica.

128


COMMENTI E REPLICHE

Piero Bassetti

Per una diversa semantica Vorrei continuare il discorso di Andrea Bonaccorsi facendo riferimento all'esperienza di questi ormai quasi 20 anni di Fondazione Giannino Bassetti. Credo che il primo problema che dobbiamo affrontare è di tipo semantico. Mi pare che questo dibattito abbia contribuito, anche ai fini di policy, a chiarire in parte il significato della parola "innovazione" e cosa essa veramente sia. L'innovazione è un fatto prodotto dalla presenza di un plus di sapere (tutto il lavoro di ricerca pro-ventate della scienza) ed unplus di potere, sia esso potere cogente, politico, finanziario. Inoltre, l'innovazione, è la realizzazione dell'improbabile e pone anche un problema di senso, di direzione e quindi di responsabilità: il subprime è sicuramente stata un'innovazione (finanziaria) gestita irresponsabilmente che sta producendo la più grande distruzione di ricchezza nella storia del capitalismo. Secondo questa definizione, il subprime realizza l'improbabile in quanto è sempre stato ritenuto improbabile vendere del credito "cattivo" come se fosse "buono". Da qui, un'altra considerazione: nessuno mette la scoperta delle stock options fra le innovazioni. Se poi si cerca la provocazione: le stock option sono un'innovazione? Qualcuno può rispondere di sì ma non è che le stock options vengano naturalmente assunte come fatto innovativo. A me è capitato di dire, suscitando un grande stupore, che l'li Settembre Bin Laden aveva fatto alcune innovazioni come quelle di trasformare gli aerei in missili e di poter contare su dei piloti

suicida. In quegli attentati c'era un contenuto di innovazione fortissimo, appunto come "realizzazione dell'improbabile". Ma l'innovazione, normalmente, viene postulata come cosa diversa. Di solito assumiamo che l'innovazione sia - più o meno - una crescita del tasso di presenza di ritrovati scientifici recenti. Produrre conoscenza vuoi dire aumentare il numero di ricercatori, di laboratori, e "bere conoscenza" vuoi dire introdurre prodotti a forte contenuto di questo tipo. La parola "innovazione", dunque, non è legata soltanto al cambiamento "science-intensive", ma può essere legata a dei cambiamenti di metodologie, anche in campo finanziario e va declinata nei suo senso di responsabilità. Chiarire cos'è la responsabilità è fondamentale se vogliamo "prendere sul serio la società della conoscenza", come intitola un documento molto importante dell'Unione Europea " Taking European Knowledge Society Seriously" 14 Il tema dell'innovazione esige un controllo di tipo più complesso di quanto non sia il tema della ricerca. Nessuno, infatti, può contestare che nell'ambito della ricerca qualunque ritrovamento è un contributo alla storia dell'umanità ed alla conoscenza della natura, altrettanto non si può dire di qualunque fatto nuovo che utilizza una nuova conoscenza. Il "prendere sul serio la società della conoscenza" deve essere sempre sullo sfondo delle considerazioni e delle valutazioni sull'innovazione. Se la semantica che ho usato fin qui è valida, la prima cosa che emerge è che il tasso di innovazione di un atto imprenditoriale non è funzione diretta della quantità di conoscenza che in esso è implicata: l'innovazione può essere non .

129


scien ce-intensive, methodological intensive oppure di tipo diverso. Il discriminante dell'innovazione non è il trasferimento dei risultati delle scienze dure o avanzate, è consentire che gli attori - e quindi in primo luogo l'impenditore o l'impresa siano in grado di recepire tutto quello che è unplus potenzialmente migliorativo del nostro sapere. Questo è, secondo me, importantissimo perché rivaluta l'importanza di quella combinazione tra sapere e potere che è il "saper fare". L'innovazione è legata al "fare" con un contenuto additivo per lo stato dell'arte. Dunque, trasferire conoscenze, anche se conoscenze avanzate, non basta e non basterà mai. Il problema è l'attore, cioè l'imprenditore e la sua capacità, nel presupposto dell'esistenza delle sue motivazioni, di "bere conoscenza", sia esso di tipo avanzato, scientifico o diverso. Non c soltanto il problema di favorire la produzione di nuovi saperi e di fare in modo che questo si trasferisca nel "fare", ma c'è anche il problema di garantirsi a priori una domanda di nuovi saperi da parte di chi deve poi cambiare il suo "modo di fare" (in genere, l'imprenditore). Questo problema, che in un certo senso è a valle, collega il push con il puil ed è il centro della questione. Non basta disporre di un surplus di conoscenze da "pompare" addosso all'imprenditore. Il problema è di far avanzare, come detto stamattina, la disponibilità di saperi e di domanda di uso operativo di questi saperi; il che implica che il vero protagonista non è solo il ricercatore o il finanziatore, ma il ricettore/domandante. Sto pensando ad una metafora. Si è parlato di "bere" ed è chiaro che, se non esistono soggetti attivi e vogliosi di consumare innovazione, il problema di spin130

gergliela addosso è inutile. Dunque, la collaborazione di chi deve "riempire il bicchiere"è fondamentale. Questo, in genere, è un aspetto notevolmente trascurato: il bisogno di innovazione viene postulato come un dato, legato a dei trend di sviluppo. Io credo, invece, che una p0licy debba adeguarsi alla capacità di consumare innovazione da parte degli imprenditori. Ciò, evidentemente, è collegato alla natura vera delle imprese e dell'imprenditore. Ad esempio, spesso si vuole imitare il modello "Silicon Valley" o dello scienziato che brevetta per poi fare l'imprenditore; oppure il modello della multinazionale che acquisisce il brevetto per poi inserire un prodotto sul mercato. A volte si segue il modello del "Brambilla" il quale intercetta, magari non compra, delle conoscenze, le riceve dal suo fornitore e prova a fare innovazione. Ma si dimentica che le policy che hanno favorito l'innovazione per trent'anni sono state realizzate attraverso i Confidi, la legge Sabatini. Inoltre, anche la struttura."piramidale" dell'impresa - come è stato rilevato - non consente di "pompare" conoscenza verso il basso se non c'è una mediazione interna. Mi avvio a concludere per dire che, all'epoca felice dello sviluppo italiano, chi "beveva" innovazione era senza alcun dubbio la folla delle piccole imprese. La dimostrazione è data dal fatto che, in questi ultimi trent'anni, l'Italia ha visto crollare le sue grandi imprese e crescere il valore del PIL e del valore aggiunto apportato dal piccolo e medio imprenditore. In quel periodo, la funzione elitaria di fornire conoscenza al piccolo imprenditore era detenuta dal grande imprenditore (ad esempio, la Fiat otteneva le sue in-


novazioni dall'indotto). Il problema del rapporto "scienza-conoscenza", in senso lato, seguiva un percorso che era molto gerarchizzato. Sembra che oggi questo "percorso" non sia più percorribile e che l'innovazione si debba invece innescare attraverso il cortocircuito tra la produzione di conoscenze ed il consumo da parte del piccolo e medio imprenditore. Ho qualche dubbio che stia avvenendo questo fenomeno e questo seminario ha messo in evidenza che cosa sta producendo il sistema: a) certamente un numero notevole di intermediari; b) azioni di stanamento dei professori universitari perché facciano gli imprenditori; c) supporto al venture capital, al seed money, ecc., per cercare di collegare le due cose. E la strada giusta? Sì, secondo me, ma a condizione che questa operazione non sia assunta come un'operazione tecnica ma sia assunta come un'operazione di senso; le scienze sociali hanno un ruolo enorme di integrazione della finanza, dell'economia, della tecnologia prese come saperi indipendenti tra loro. Varrebbe la pena fare allargare il discorso in chiave di policy coinvolgendo la scuola, ad esempio: un conto è il tipo di fomazione scolastica che occorre acquisire per un saper fare artigiano, un conto è maneggiare conoscenze sofisticate. In questo campo non stiamo facendo nulla. La dimensione culturale che è stata discussa stamattina resta fondamentale. Credo che oggi la sfida delle scienze sociali che il Css raccoglie, è quella di capire la dimensione epocale e l'introduzione, nel nostro modello di sviluppo economico, di una variabile indipendente che è la conoscenza scientifica. Essa non può essere isolata da tutta la problematica

del "crescere insieme", ad oggi assolutamente irrisolta. Il trasferimento della conoscenza è qualcosa che impegna tutta la società e questo per le scienze sociali (e per il Css) è un obiettivo: far interagire l'antropologia, la sociologia, l'economia, ecc. Tutti questi saperi devono essere coinvolti se vogliamo una società dell'innovazione. Non è un problema collegare i fisici con gli imprenditori, ma collocare il desiderio di costruire un mondo diverso e migliore, più ricco, alla luce delle conoscenze, comprese quelle di buon senso (non necessariamente sofisticate) di cui la società dispone. Rimane un significato, certamente, di trasferimento anche in senso tecnico ma ancor di più lo conserva in senso generale e politico. A che cosa serve il sapere se non si incarna nella storia, nella prassi, nei fatti? Non è facile concludere. Peraltro non tocca a me farlo. Rimango convinto che tutto il discorso è appeso a un chiarimento sul concetto di innovazione, perché anche la conoscenza di cui stiamo parlando dipende dal riferimento che abbiamo assunto di innovazione. Un esempio: è stato detto per quali motivi l'impresa grande non innova. E stata certamente un'innovazione l'introduzione della stock option. Questo è un concetto di innovazione che ha un rapporto con la problematica della conoscenza molto diverso da quello che invece si instaura tra la tecnologia satellitare ed il suo mercato. Ho l'impressione che sarebbe forse più corretto chiamare l'innovazione novità. La sfida è, e mi fermo qui, di accettare questa semantica. Per assumere una semantica diversa, dobbiamo responsabilmente accettare il contributo di questo Workshop. 131


Roberto Del Giudice I/mercato del venture capita/cresce ma troppo piano Dalla mia posizione si ha una visione parziale, che è quella di chi lavora per parte degli operatori di venture capita/come direttore dell'Ufficio studi di AIFI dal 1995. AIFI è un'associazione nata nei 1986: sono dunque più di venti anni che ci occupiamo di venture capita/in questo Paese. Il segmento dell'ear/y stage - si è detto - non ha fatto passi avanti. La mia sensazione è che, lasciando da parte i discorsi sulla crisi necessariamente sopravvenuti, il segmento dell'early stage sta cominciando a crescere, a recuperare il gap che abbiamo storicamente con il mercato americano ed altri mercati. Si segnala, dunque, qualcosa di nuovo, almeno a livello europeo. Anche in Italia questo mercato sta crescendo, ma ha dimensioni ridicole. Lo sappiamo, se ne è parlato più volte. Contiamo circa un centinaio di finanziamenti diretti a start-up l'anno, per un totale di circa cento milioni di euro investiti. Per la metà, però, si tratta di reinvestimenti (foiow on di finanziamenti precedenti), il che vuoi dire che il numero effettivo di start-up è circa 50. La metà di questi finanziamenti proviene da finanziarie regionali. Si tratta, dunque, di operazioni spurie: una decina sono finanziate da fondi esteri. Dunque, a conti fatti, le operazioni ear/y stage propriamente dette sono circa 15. E questo il triste mondo con cui ci confrontiamo. Poi però, come Di Anselmo ha ricordato, il mercato del capitale di rischio italiano si confronta con quello tedesco, spagnolo, ed è il terzo, quarto, in Europa. 132

Il che significa che in Italia, più che altrove, è stata fatta una scelta di posizionamento. Non è che non esistano fondi: i fondi hanno scientemente declinato l'invito ad andare a colmare il segmento dell'ear/y stage più che altrove. Questo è il punto di partenza. Cominciamo a capire ora quali sono i problemi che ci affliggono. L'AIFI ha scritto una ventina di libri, anche in merito a quelli che potrebbero essere i problemi di sistema. Secondo noi ci sono tre macro-categorie di problemi: - il microambiente. In Italia vi è una pletora di soggetti che fino ad oggi si sono comportati in maniera scoordinata. Sfido chiunque di voi a cercare dei dati puntuali sull'attività di incubazione in Italia. L'ultima indagine fatta parla di una settantina di incubatori sparsi.sul territorio italiano, ma non è dato sapere quante imprese ci siano dentro, né esattamente cosa fanno. Si sa che l'incubatore è una struttura prevalentemente di emanazione pubblica. Abbiamo novità positive, ma non recenti: sappiamo che ci sono gli incubatori universitari che hanno in parte cambiato sistema di fare incubazione in Italia, cominciano ad esserci delle storie di successo, ma si tratta pur sempre di azioni sporadiche. Abbiamo poi le Associazioni di Business Angels, circa 20 Business Angels Network, 15-16 operatori di venture capital, Parchi Scientifici e Tecnologici. Si contano anche alcune aziende che fanno o dicono di fare corporate venture capital. Abbiamo stimato un indotto di circa 500 aziende l'anno che passano per questo sistema di start-up finanziato nel "sistema Italia". Di queste aziende non si sa praticamente nulla. Non ci sono informazioni e, aggiungo, la mancanza di


informazioni non è quasi mai casuale. Nel nostro Paese la mancanza di informazione nasce dal fatto che l'informazione può portare alla valutazione e la valutazione non è gradita. Si è parlato dei fondi universitari: temo che uno dei motivi per cui in Italia questi sistemi non funzionano è perché potrebbe portare a valutazioni un po' troppo puntuali sull'attività svolta all'interno delle università e dei centri di ricerca. Il secondo problema è la dimensione: si parla spesso del mercato del venture capital americano. Io continuo a dire che sarebbe il caso di smettere di conftontarsi con mondi lontani dal nostro. La startup media americana riceve tra gli 8 ed i 10 milioni di dollari di finanziamento. In Italia si va alla ricerca delle 500 mila euro. Sono due mercati diversi, mondi e mestieri diversi. Con investimenti di 500 mila euro non si possono avere rendimenti soddisfacenti per un fondo di venture capital (per investire 60 milioni di euro servirebbero 120 inyestimenti, che non si possono gestire). E il motivo per cui i rendimenti del venture capita/in Europa sono nell'ordine del 2-3 % contro i 15-16% negli USA. Il venture capital, in Europa, conta dunque poco, meno delle operazioni later stage, buy out expansion. E questo perché le start-up europee ed italiane nascono con ottica regionale. Questo, a mio avviso, è un grande problema. Il terzo problema è di tipo culturale: se si parla di "Brambilla", di neo imprenditori, di attitudine imprenditoriale, le statistiche fanno vedere come tutte le realtà di nuova imprenditorialità siano un self-employment più che una ricerca di storie di successo. Aggiungo, con estrema

soddisfazione da napoletano emigrante, che il fenomeno imprenditoriale è molto più radicato al Sud che non al Nord, ed è molto più spesso extracomunitario che italiano. Evidentemente, tutta questa fame di impresa, noi italiani, non ce l'abbiamo. L'AIFI sta provando a fare qualcosa anche in termini di policy. Anzitutto sta cercando di far passare il messaggio che serve un referente. La politica deve capire che, se vuole investire in questo settore, deve individuare una struttura referente (che sia la Cassa Depositi e Prestiti, un'agenzia), qualcuno che si prenda in carico di definire quale sia lapolicy futura di medio e lungo termine del venture capital in Italia e che possa essere per tutti noi un punto di riferimento. In Italia questa figura non esiste. Questo fa sì che non ci sia nessuno che raccolga informazioni, che faccia sistema, che crei un linguaggio comune e che metta tutti intorno ad un tavolo. Nei Paesi in cui il mercato funziona si è partiti proprio da lì. In Israele il sistema di incubazione è meraviglioso e si è avviato prevalentemente grazie a immigrati russi. Certo, la materia prima è ben diversa da quella dei nostri Bic, ma in Israele, come negli USA e nel Regno Unito, hanno capito che forse serve anche qualcuno che gestisca il sistema, un'Authority, un referente, insomma. Faccio anche io riferimento al fondo dei fondi hi-tech. Il fondo dei fondi è lo strumento di mercato più accettato a livello europeo: soldi pubblici che vengono utilizzati per finanziare nuovi operatori di venture capital. Non si tratta di venture capital diretto ma di facilitare la nascita di nuovi operatori, dicreare l'offerta. Oggi fare un fondo di venture capita/è molto 133


difficile perché è difficile il fund raising, specie se chi raccoglie e gestisce i fondi è un team nuovo e giovane. In altri Paesi (ad esempio, in Francia e in UK) hanno tentato di creare tali fondi attraverso la Cassa Depositi e Prestiti o presso altre strutture. Vi è, però, un problema: ho sentito parlare di fondi inglesi in cui il rapporto tra capitale pubblico e capitale privato è di 2 a 1, quindi, comunque, c'è una priorità di capitale pubblico. In Italia abbiamo questa paura folle dell'aiuto di Stato, dell"andare contro". Già il 50% ci sembra troppo e non si può fare. Poi si scopre che tutto il mondo si spinge oltre. C'è anche un nostro problema di coraggio nell'affrontare certi temi. Sullo specifico caso del "fondo dei fondi per il Mezzogiorno" c'è da aggiungere che la scelta del gestore che è stata fatta per mezzo di un bando ha avuto un epilogo sfortunato. Come per altri settori, infatti, i tempi di aggiudicazione dell'appalto sono incerti: per via di un ricorso relativo all'aggiudicazione della gara, la procedura si è bloccata da nove mesi. Tutto ciò crea un forte danno di sistema: i soldi dovevano essere dati ad operatori che avevano già raccolto almeno la metà del capitale e possiamo immaginare il danno ricevuto da chi aveva già raccolto tale denaro e, a causa dello stop forzato, ha visto venir meno la disponibilità ad investire nel fondo da parte del sottoscrittore, soprattutto in questo cambiamento di scenario. Anche queste cose contribuiscono, in Italia, a non far funzionare il venture capital. L'ultima cosa a cui accenno è sul tema della fiscalità. La fiscalità è migliorata per i Business Angels e per le persone fisiche. Questo è stato un grosso cambiamento (la 134

manovra estiva prevede la defiscalizzazione del capitalgain ricavato da investimenti dei Business Angels in sta rt-up, purchè il capitalgain venga reinvestito). In Francia ed in Inghilterra questo modo di fare ha flinzionato molto bene anche per i privati che investono in fondi di venture capital. Quindi, se vogliamo che chi è stato più fortunato nella sua vita professionale voglia restituire qualcosa alla società, non basta solo lo spunto filantropico, ma deve anche essere incentivato a mettere in moto quella ricchezza. Pensiamo che questo possa essere un metodo per aumentare le possibilità e l'appeal dei fondi di venture capita/verso investitori privati.

Marco Pascucci Attenzione alla drenza di comportamentofra piccole grandi imprese Penso che siamo tutti d'accordo sul fatto che l'Italia sia un Paese con uno scarso tasso di innovazione e che sia un Paese "conservatore". E gli altri Paesi vanno ayanti. La mancanza di innovazione si sente dappertutto, non solo nelle piccole ma anche nelle grandi imprese. Queste ultime sono oramai poche e quelle che ci sono non innovano. Se poi quelle che fanno innovazione, come la Fiat (che ha realizzato per prima il motore multijet) la vende ai concorrenti, le prospettive di crescita sono limitate. Il fatto che l'haha non è un Paese che innova è un bel problema. Non è sufficiente avere - in questo contesto - dei venture capitalists che, per definizione, puntano unicamente al ritorno sull'investimento. Bisogna in ogni caso distinguere molto chiaramente il caso della grande im-


presa e quello della piccola impresa: la piccola impresa è un target del venture capita/finalizzato allo sviluppo dell'innovazione. Perché il venture capitalist può metterci soldi, comprare, gestire l'exit, quotare l'impresa in borsa e fare il suo utile. Questo è il suo scopo. Nel caso della grande impresa, anche se si intravedesse l'opportunità di fare un ottimo trasferimento tecnologico, non c'è questa possibilità, perché per il venture capitalist non ha senso comprare una minima quota delle azioni della grande impresa. Il meccanismo dell'innovazione nei confronti della grande impresa, dunque, è completamente diverso. E giusto pretendere un intervento del mercato del venture capitale della finanza privata nei casi delle start-up o, comunque, nel caso delle piccole imprese, laddove questo denaro può trovare il suo utilizzo istituzionale. In questo caso specifico si può decifrare la sequenza finanziaria che è Stata individuata dai diversi interventi di questi giorni: nell'ordine, il proofofconcept, il seed capital, l'early stageed il late stage. Sono quattro fasi distinte, dove ragionevolmente il late stage può stare anche da solo (ad esempio, se l'impresa è esistente ed ha bisogno di capitali per sviluppare la propria attività). Anche l'early stage, per altri versi, potrebbe forse essere considerato da solo se la società prenditrice fosse in grado di generare cashflow alla fine del proprio early stage (ma quasi mai ciò avviene). Vediamo allora i primi due step individuati: il proofofconcept ed il seedcapital. Da soli non servono a niente. Perché il modello di Oxford funziona? Semplicemente perché il mercato inglese è pronto, una volta erogate le risorse per il proofofconcept, ad intervenire con le fasi

successive (venture capita!). In Italia, io credo che sia opportuno concepire un meccanismo di anticipazione: nel momento in cui si investe nelproofofconcept o nel seed capital ci deve essere la certezza - o l'alta probabilità - che vi siano denari a completamento dello sviluppo del business. Sarebbe opportuno, ad esempio, coinvolgere fin dalle prime fasi del processo di valutazione degli investimenti di seed ed early stage, i soggetti finanziari che interverranno, successivamente con finanziamenti per natura diversi e di taglio più grande. Occorre che ci sia una "visione di sistema" completa del finanziamento, dalla prima all'ultima fase, ed eventualmente stimolare questo Sistema. Il caso della grande impresa, come detto, è completamente diverso da quello dello start-up: se l'impresa è, per così dire, "illuminata", instaura dei rapporti con l'università e centri di ricerca. Anche la semplice consulenza di qualche docente o dottore di ricerca, per acquisirne la conoscenza e poi sviluppare la tecnologia, industrializzarla e condurre l'innovazione al suo interno, è un modello di trasferimento di conoscenza (qualche volta, addirittura, di tecnologia) che in genere funziona. Vi è poi anche il caso in cui la grande impresa collabora con la piccola impresa che sviluppa innovazione ma si trova nell'impossibilità di arrivare al mercato da sola. Queste sono situazioni molto rischiose ed in cui si possono consumare dei veri e propri drammi. La grande impresa ha due strade, o assume il personale della piccola impresa più qualificato, portandogli via il proprio capitale umano, oppure, se è più "illuminata", mantiene in vita l'impresa, facendola lavorare, dan135


dogli commesse. Siamo, comunque, in quella forma di trasferimento tecnologico non strutturata, dove la tendenza alla protezione della proprietà intellettuale è molto evanescente. Una tipologia di trasferimento "da impresa a impresa" che reputo invece molto interessante è quella che può avvenire nell'area tecnologica spaziale. Lo abbiamo visto dagli esempi derivati dall'esperienza dell'ESA. Proprio per questo non vorrei decantare i vantaggi di questo tipo di trasferimento tecnologico ma soffermarmi, invece, sui problemi che, anche in questo settore d'elezione per l'innovazione, ostacolano il trasferimento tecnologico e l'innovazione stessa. La grande impresa, per cominciare, è strutturata ed opera in base a meccanismi di compensazione dei manager (sinteticamente chiamato Management by Objective MB0) ed ha chiaramente, in quanto soggetto economico profit, l'obiettivo della massimizzazione del profitto. La grande impresa che opera nel campo spaziale, dunque, ha una fortissima resistenza all'innovazione - come le grandi imprese degli altri settori - perché l'innovazione è pur sempre un investimento a lungo termine e rischioso e difficilmente compatibile con il rispetto dellè "logiche del budget", anche se richiedesse lievi scostamenti rispetto agli obiettivi prefissati. In ogni caso prevale la logica del breve termine e l'innovazione viene vista non come un investimento ma come una spesa che fa diminuire le performance aziendali. Ne è testimonianza il fatto - lo so per esperienza personale - che l'MBo del direttore della ricerca non viene calcolato sulla base dei brevetti internazionali che sono stati prodotti e depositati, né sul ri136

torno degli investimenti passati, relativi ai prodotti che ha inventato, introdotto, trasferito, ma sul risultato complessivo dell'impresa, sul cashflow, sull'utile, sull'EBIDTA, sui parametri complessivi. Tutto ciò determina che: a) non c'è una diretta premialità dell'attività d'innovazione; b) che l"area ricerca", in una grande impresa, è penalizzata in quanto le risorse ad essa destinata vengono utilizzate per ripianare l'eventuale scarsa performance dell'attività produttiva. Di conseguenza, la grande impresa effettua poca ricerca e punta maggiormente sull'attività commerciale. Ritengo, ovviamente, molto più importante che l'impresa investa in innovazione piuttosto che rispetti il budget annuo. Sembra una visione banale, ma so bene (perché ne sono stato un manager) che il problema è molto sentito nella grande impresa. Proprio per questo reputo fondamentale che chi è incaricato di apportare innovazione d'impresa sia compensato per l'innovazione che ha apportato. Ad oggi, in genere, non funziona così. Esiste il famoso fenomeno della "resistenza al cambiamento". A tal proposito vorrei riferire un episodio di cui può essere testimone Giorgio Petroni (Rettore dell'Università di San Marino). Su suo suggerimento ero riuscito - in qualità di direttore di tutta la produzione satelliti dell'Alenia Spazio - a concepire ed introdurre un metodo innovativo per effettuare il processo di testing delle antenne spaziali (un processo che evitava l'incollaggio di circa 200 accelerometri sull'antenna ed il collegamento di circa 400 fili, che garantiva un isolamento naturale, consentiva una riduzione notevole della strumen-


tazione di trattamento dati, ed altri vantaggi), sulla base di tecnologie laser atte a misurare microspostamenti e che consentivano di ottenere gli stessi risultati senza collegare nessun componente durante le prove di vibrazione. Saremmo stati gli unici al mondo ad utilizzare questo processo innovativo che avrebbe ridotto i tempi di produzione di una settimana. Io, che ero il capo della direzione, non sono riuscito ad introdurre questa innovazione perché la risposta che è stata data alla mia proposta è stata: "abbiamo fatto sempre così e così va bene". Sono passati cinque anni, sono state sempre stanziate delle risorse per concludere quella ricerca, ma i soldi non sono mai stati utilizzati. Per dire di un settore, quello spaziale, che dovrebbe essere il massimo del push di innovazione tecnologica.

Giovanni Degli Antoni15 Prevedibilità e imprevedibilità delle innovazioni Parlo sulla base della mia esperienza di docente universitario 15 che si considera un "imprenditore pubblico", avendo aiutato studenti ad essere imprenditori. Credo che almeno 250 piccole aziende siano nate intorno a me o grazie al mio contributo, alcune di queste sono cresciute fino ad avere più di 2.000 dipendenti. Partiamo dal mutato concetto di lavoro rispetto al passato. Il concetto di produttività delle grandi aziende è associato alla "macchina" per produrre prodotti e lavoro. In questi contesti non funziona mai nulla senza un processo di tipo industriale (installazione, verifica, manutenzione, formazione sull'utenza, ricerca

dei conifitti, risoluzione dei problemi di sicurezza, ecc.). La conseguenza di questo processo è che qualsiasi prodotto generato da imprese (soprattutto le multinazionali) vive se ha un grandissimo numero di utenti. Ciò comporta una grande capacità di drenare denaro e, generalmente, produce una maggiore concentrazione della ricchezza. C'è un modello di contrapposizione a questo processo che gioca su molti fattori e che potremmo definire un "sistema cibernetico", non economico né informatico, più o meno "reazionato". Nel caso dell'innovazione, se fossimo così capaci di farla, questa aumenterebbe e, di conseguenza, aumenterebbe la richiesta di innovazione, in un processo continuo. Ma esiste un freno automatico - come avviene nella legge di Neumann e Lenz nell'elettricità - una forza che si oppone intimamente, al di là della volontà degli uomini e dei signoli processi. I processi, essendo interconnessi, producono dei freni agli stessi processi. Fatte queste premesse, mi devo ripetere con Piero Bassetti, di cui condivido tutto quello che ha detto, aggiungendo il mio punto di vista. Prima di tutto, dobbiamo tener presente dove siamo. Siamo in un mercato dell'innovazione o su un mercato di prodotti? Questa è una confusione che ho sentito. Un conto è il mercato dell'innovazione che questo Paese promuove pur non innovando nulla (lo dico in modo un po' estremistico), altra cosa è quello dei prodotti. Le risorse finanziarie (prevalentemente pubbliche) sono state spezzettate in miriadi di canali e chi ha bisogno anche di pochi soldi non li trova o li trova solo se ha acquisito il particolare hnow how di come muoversi 137


in una giungla di finanziamenti. Naturalmente non si fa nulla per rimediare. Non si tiene conto che anche un miglioramento qualitativo (e non solo quantitavo) di queste risorse possa essere ricchezza. A mio avviso è chiaro che questo malfunzionamento un giorno o l'altro cesserà. Ritengo che la ricerca sia la trasformazione del denaro in conoscenza, mentre l'innovazione è la trasformazione della conoscenza in denaro. Questo processo comprende molti passaggi che rendono l'innovazione una "disciplina" complessa. La ricerca, invece, ha una sua tradizione storica, ha una sua correttezza, qualunque cosa indaghi. Ci saranno sempre problemi di valutazione (e di valutazione dei valutatori) e di riservatezza della proprietà intellettuale. Dunque, anche scarsa trasparenza. Il che è anche fisiologico al contesto in cui è inserita l'innovazione. Se operiamo in un mercato competitivo, perché mai le persone dovrebbero collaborare nell'innovazione? In un mercato competitivo devono competere. Non sono favorevole al mercato tout court, che è retroazionato dallo stesso mercato: se il mercato accetta un prodotto innesca retroazioni, ma l'innovazione è competitiva per definizione, non occorre "fare sistema"; al contrario, bisogna "distruggere" tutti i sistemi dell'innovazione che sono semplicemente delle entità totalmente inutili. Ci sono due tipi di innovazione. Vi è l"innovazione balistica", che è quella che è in grado di prevedere le traiettorie dell'innovazione stessa, perché conosciamo le leggi di caduta dei prodotti e quando non ne prevediamo gli effetti è segno che non li vogliamo prevedere. In generale, si tende all'innovazione balistica, soprattutto la vogliono le grandi aziende, ma an138

che le piccole e medie (se non anche nell'ambito delle innovazioni che nascono dagli ambienti di ricerca) per ridurre le incertezze per non perdere investimenti e risorse. Altro discorso è, invece, mantenere in vita le imprese ed il nostro Paese ha storie emblematiche in tal senso. Avevamo, infatti, un'industria elettronica solida e non lontana dai livelli internazionali. L'Olivetti era un'azienda di prima categoria, che ha prodotto il primo personal computer al mondo. Il primo computer di una elevata capacità di calcolo era stato costruito proprio dall'Olivetti con la collaborazione dell'Università di Pisa. Oggi le imprese di questo livello non ci sono più, un po' per il contesto internazionale, un po'perché è mancata una sorta di responsabilità e volontà di mantenere qualche cosa di "italiano" nell'innovare. La volontà è l'unica cosa che può opporsi alle innovazioni che si possono prevedere. In verità è prevedibile quasi tutto. Ci sono le leggi di Moore che dicono che la densità dei componenti elettronici aumenta con un certo tasso di 10 volte ogni 5 anni, 1.000 in 15 anni. Numeri terrificanti che modificano completamente la natura dei prodotti e delle persone. I microprocessori raddoppiano di velocità ogni 18 mesi. Lavorare su un nuovo algoritmo per migliorare le prestazioni di un computer significa sprecare tempo: se si aspetta e si compra un nuovo computer, questo va ad una velocità doppia. L'ottimizzazione non serve a niente se non collocata in una logica corretta. Ma le logiche di Moore hanno delle conseguenze: la terza legge, infatti, ci dice che il costo degli impianti nell'attuale tecnologia


elettronica dei semiconduttori, aumenta spaventosamente. Gli oggetti diventano piccoli, poco costosi, ma gli impianti mostruosi. Nell'innovazione balistica, a questo livello, è proibito sbagliare. Chi sbaglia chiude. Altro discorso è l'innovazione "quantum li" che è diversa dall'innovazione di tipo balistico. Un tipo di innovazione che chiama in causa, ad esempio, le nanotecnologie. Perché sono nate le nanotecnologie? Le nanotecnologie sono la risposta alla comprensione - non solo da parte di scienziati e tecnologici, ma anche da parte di alcuni politici (Clinton ed Al Gore) - del fatto che le leggi di Moore avrebbero progressivamente divorato gli USA. Il prodotto ultimo rispetto al "quantum lip" è l'elettronica di plastica, che è in arrivo. Potrà permettere di produrre, ad esempio, 100 mila microprocessori in un'ora ad un costo bassissimo. Questa tecnologia impone un modello di mercato (di produzione, di uso) completamente nuovo e lascio immaginare quale possa essere la resistenza delle aziende ad adottare questa tecnologia, nonostante i vantaggi che essa comporta. Ci sono obiettivi spaventosamente forti, ma in fondo occorre anche fare i conti con il naturale spirito di sopravvivenza delle imprese che non vogliono e non devono chiudere per continuare a far lavorare le persone.

Paolo Zanenga Quali rapporti tra innovazione tecnologica e cambiamento dei modelli di impresa? Sono convinto che un'economia centrata sul processo dell'innovazione richiede dei modelli di impresa diversi. La ci-

bernetica è stata, in età contemporanea, la scienza della complessità. La complessità è sicuramente il paradigma con cui ci dobbiamo confrontare in questi campi ed è un confronto che non è reso solamente obbligato dal fatto che ci troviamo continuamente a parlare di tecnologie sempre più avanzate, abilitanti, di nuovi cambiamenti e così via, ma perché, oramai, la conoscenza (non solo la tecnologia, che è una parte della conoscenza), sta creando la maggior parte del valore economico delle imprese e della società. Con tutti gli impatti sociali che questo comporta. Secondo una serie di studi abbastanza recenti (l'ultimo, lo scorso anno, della PriceWaterHouseCoopers) che forse saranno un po' stravolti dagli scossoni dei mercati borsistici degli ultimi mesi - scossi ma non stravolti, in realtà - il valore di libro delle principali imprese quotate nelle principali borse del mondo, che era il 90-95% negli anni settanta, negli anni recenti è sceso a circa il 30%. E questo è dovuto in gran parte alla crescita degli intangibili. Non dobbiamo confondere la finanza, la nuova finanza, che ha dato i problemi che sappiamo, con il valore intangibile dell'economia e delle società di oggi che fanno, a pieno titolo, parte assoluta dell'economia reale. Anzi, sono la maggior parte dell'economia reale e costituiscono la nostra speranza di ulteriore crescita. Sicuramente non possiamo crescere in un'economia del tangibile che peraltro è sottoposta alla legge di Moore. Dobbiamo immaginare delle organizzazioni che siano in grado di governare processi cognitivi che, di fatto, producono gran parte della ricchezza con cui abbiamo a che fare. Sono processi cognitivi 139


che hanno bisogno di essere finanziati. Al contrario delle imprese manifatturiere tradizionali, che funzionano con alta regolarità, con certi cicli di stabilità nel tempo e che finanziano i processi fisici ed i mezzi di produzione. La finanza, nell'economia della conoscenza, deve soprattutto andare a coprire quelli che sono i rischi dell'innovazione. I capitali che sono necessari a questo scopo ammontano ad un'ordine di grandezza superiore confronto a quelli che servivano per i mezzi di produzione fisica dell'economia industriale. Hanno, però, un vantaggio: la soglia minima è in qualche modo bassa, forse nulla, in certi casi sotto zero. Nel senso che l'innesco di questi processi è dato soprattutto dall'interazione tra soggetti che può apportare subito dei vantaggi. In realtà noi oggi assistiamo al fenomeno della convergenza fra gli agenti del push e quelli del puil. Diventano tutti interattori di uno stesso sistema cognitivo che genera nuova conoscenza e, nello stesso tempo, aggiunge quel quid di potere che consente alla nuova conoscenza di diventare innovazione. In questo quadro diventa estremamente importante capire che non è possibile pensare di risolvere il rapporto tra un'economia centrata sull'innovazione e la finanza attraverso dei modelli del tipo businessplan. Cioè dei modelli che, in fin dei conti, sono basati su un numero molto ridotto di variabili. Normalmente non si tratta di piani verificati. Questo perché, in effetti, l'evoluzione cui stiamo assistendo va da un'economia fatta di trasformazioni fisiche e caratterizzata da sistemi più o meno meccanicistici, ad alta regolarità e a bassa sostenibilità, ad un'econo140

mia caratterizzata da una serie di processi aventi una bassa regolarità (se non nulla) e un'altissima sostenibilità, proprio per il fatto che, come è normale nel "paradigma della complessità". Questi nuovi processi costruiscono il nuovo ecosistema in cui l'innovazione va a porsi. Il fatto di costruire in parallelo sia l'elemento nuovo, sia l'ambiente (il sistema), che ha le sue regole, equilibri (dinamici, non stabili), è un fatto che contribuisce molto a generare la sostenibilità necessaria. Qyesto fenomeno è analogo a quello che avviene quando si sviluppa la conoscenza in ognuno di noi: in qualche modo, l'innovazione del sistema economico è un po' simile alla generazione di conoscenza all'interno delle menti delle persone. Jean Piaget diceva che un bambino costruisce la sua mente insieme al suo mondo. Non c'è una netta differenza tra la visione che abbiamo del mondo e la nostra mente. Sono lo stesso sistema visto dall'interno e dall'esterno. Analogamente è così anche con la nuova generazione di ricchezza. Non sarà solamente una ricchezza che poi si concretizza in una transazione di scambio tra un cedente ed un cliente, ma sarà una generazione di ricchezza che ha degli stakeholders multipli, che avviene tramite un'interazione tra molti soggetti in cui anche i principali fruitori (quelli che oggi chiamiamo clienti) sono in raltà dei contributori, degli interattori estremamente importanti. Tutto ciò per dire - in modo ellittico - che la nuova produzione di ricchezza, avviene, come sempre, sulla base di una condivisione di conoscenza, nel momento in cui gli atti cognitivi, invece di essere semplici, diventano estremamente più complessi perché implicano la generazio-


ne di nuova conoscenza, è ovvio che la soluzione, il contesto ed il modello in cui queste cose si generano, sia diverso. Altre volte ho parlato del modello d'impresa che si chiama "TWG Lab" (che viene citato anche nel numero di queste istituzioni dedicato al Workshop di Moncalieri del 2007); questo progetto ha ben presente che il rapporto con la finanza di questo "sistema" è particolarmente importante perché, in pratica, tiene conto che un'impresa-azienda diventa un'impresa-rete, cioè da organizzazione chiusa passa ad un'impresa caratterizzata dall'incontro di più organizzazioni; in realtà un nodo di un'organizzazione aperta. E abbastanza logico che mentre nell'organizzazione tradizionale (chiusa), l'aziendafabbrica sia in qualche modo il centro anche un po' mitico - del sistema, nell'organizzazione aperta il centro sia proprio la finanza. Per questo pensare che la finanza possa entrare in gioco quando oramai l'idea di innovazione è già molto ben definita o addirittura "provata" è sbagliato. A quel punto è sicuramente tardi perché il proofofconcept si risolverebbe in un business plan che è una risposta ad un'esigenza "lineare" che non basta per interpretare uno sviluppo complesso. E necessario che gli attori finanziari entrino nell'interazione già nella fasefront- end of innovation e che condividano insieme ai creativi, designer, tecnologi, ingegneri di sistemi, clienti, community, esperti, tutto quel che entra nel sistema reticolare a produrre "perturbazione delle menti e creazione di nuova conoscenza". Devono partecipare anche i decisori dell'atto dell'investimento perché in quel modo possono avere maggior coscienza del progetto e di ciò che stanno facendo. Ovvia-

mente possono sempre farselo raccontarè in un momento successivo, ma il racconto sarebbe straordinariamente inefficace o costoso. O tutti e due. In ogni caso tale da far perdere moltissime opportunità. Si può immaginare e si deve dunque tendere ad un modello di impresa in cui la finanza sia vicina e tèmpestiva, tutte le volte che ci sono delle curve negli sviluppi di questi processi complessi, in modo da intervenire in modo consapevole e tempestivo. Piero Bassetti

Se non si chiariscono alcuni concetti minimali sul concetto di conoscenza che attiene al sapere - e, dunque, innovazione - diventa molto difficile dare un contributo alla finanza, come diceva Zanenga, rispetto al fine delle cose che diceva Degli Antoni. Se assumiamo la legge di Moore come un dato è chiaro che tutto il discorso della storia dell'umanità, nei prossimi anni, è già scritta. Io non voglio essere luddista, ma ho l'impressione che i fatti che caratterizzano la crisi di oggi e impattano sulla distribuizione della ricchezza potrebbero farci scoprire le ragioni della falsificazione della legge di Moore, in quanto indotta da trerid che sono frutto di certi equilibri. Che non possono darsi per scontati. Mi fermo qui ma ripeto: ho l'impressione che, a questo punto, esce rafforzata una grossa esigenza di categorizzazione. Andrea Bonaccorsi

Io trovo una tensione molto forte che non so risolvere e che forse non è nemmeno giusto risolvere, tra una riflessione 141


che ci porta più avanti della realtà, ci fa parlare di senso dell'innovazione, di modelli organizzativi nuovi ispirati alla complessità e non alla linearità, di altri elementi e che quindi contribuiscono alla nostra riflessione su dei futuri possibili, da un lato e, dall'altro, una netta percezione di difficoltà rispetto a far funzionare almeno quei pezzi di sistemi di innovazione che sappiamo esistere e che sappiamo funzionare in altre parti del mondo. E da qui parte l'appello del Css che ha un ruolo di anticipazione o di visione di più lungo termine e da sempre una dimensione di forte attenzione alla responsabilità civile ed ai processi reali che si muovono nel Paese, a livello di istituzioni e delle politiche. Rispetto a questi temi osservo che i contenuti di questa riflessione hanno aggiunto - invece che approfondimenti di policy - aspetti meno banali e molto più interessanti. Però ricordo il ruolo del Css nell'evidenziare storie di errori e di mancanza di elementi che possano facilitare i processi di innovazione. Se questi processi sono sistemici - si può discutere su quanto "non lineari", ma sicuramente sono sistemi cibernetici - significa che hanno componenti che interagiscono fra loro. Ed è evidente, ad esempio, che la finanza di rischio ha una

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scarsa domanda che alimenta una carenza di offerta e viceversa. La carenza di deal JZow alimenta la carenza di operatori e questa rende difficile il dealflow. Vi è un problema complesso nel senso che la risoluzione richiede di agire simultaneamente su più fronti. Potremmo anche sostenere che sono problemi complessi e che le policy non servono. Ma io credo nell'idea, che è anche quella del Css, che valga la pena cimentarsi con questa sfida. Detto questo, sono molto d'accordo con le provocazioni che sono state lanciate: non dobbiamo né mutuare modelli da altri sistemi, né ragionare in materia semplicistica come se l'innovazione fosse tutto ciò che è nuovo, né ragionare come se la finanza fosse un pezzo - come dire - già canalizzato dentro pipeline molto lineari. Mi resta una preoccupazione importante: spero che anche l'intellettualità di questo Paese non si allontani dal suo ruolo di contribuire al miglioramento delle policy. E evidente che questo contesto è vischioso, opaco, poco trasparente, per mille versi scoraggiante, ma abbiamo un dovere civile di mantenere la presa su queste cose, di alternare, di far interagire riflessioni anche più ampie con riflessioni che possano poi impattare su pezzi di realtà e in qualche modo far agire tra loro meglio pezzi del loro sistema.


i I Grid computing o sistemi Grid sono un'infrastruttura di calcolo distribuito, utilizzati per l'elaborazione di grandi quantità di dati, mediante l'uso di una vasta quantità di risorse. In particolare, tali sistemi permettono la condivisione coordinata di risorse all'interno di un'organizzazione virtuale. Dunque è stata elaborata un'interfaccia grafica che permette all'utente di inserire le caratteristiche del sistema Grid, di cui si analizza il comportamento, presentandone di volta in volta la ricostruzione grafica (http://it.wikipedia.org/wikilGrid). 2 La creazione di un "cielo unico europeo" prevede l'introduzione di norme comuni sull'utilizzazione dello spazio aereo dell'intera Comunità al fine di ridurre i ritardi nel traffico aereo e la congestione dello spazio aereo. 3 Si tratta di bandi attuativi dell'Azione 1.7.1 del DocUp 2000-2006 per il finanziamento di Reti per il trasferimento tecnologico con sede nelle aree Obiettivo 2 e phasing out della Toscana. 4 Un individuo od un'azienda specializzata nell'identificare investitori istituzionali interessati ad investire in un fondo di private equity o in un'azienda (traduzione da http://vcexperts.comlvce/library/ encyclopedialglossary_view.asp?glossary_id=238). 5 Recante: "Riordino della disciplina e snellimento delle procedure per il sostegno della ricerca scientifica e tecnologica, per la diffusione delle tecnologie, per la mobilità dei ricercatori". 6 Il primo clinical need ha avuto ad oggetto le malattie immunitarie delle ossa, cartilagine e tessuti. Il secondo, la produzione di tessuti per trapianto per far fronte alla nota scarsità di organi per interventi di trapianto salvavita. Il trapianto di tessuto, infatti, non ha funzione salvavita ma può garantire un miglioramento della qualità della vita (si pensi, ad esempio, che circa [160% dei calciatori avrebbe bisogno di cartilagine nuova per le ginocchia). 7 Il fenomeno di Raynaud consiste in un vasospasmo eccessivo per uno stimolo fisiologico di vasocostrizione per stimoli simpatici (emozione, spavento) o passaggio da ambienti caldi a freddi. Il fenomeno di Raynaud si verifica soprattutto in quei distretti a maggior dispersione calorica e minore rischiesta metabolica (più sacrificabili) cioè le dita. La prima fase è quella caratterizzata da insensibilità ma non dolore ed è la fase ischemica con riduzione del flusso di sangue nelle singole ar-

teriole segmentarie; la seconda fase cioè la fase della stasi venosa è caratterizzata da cianosi, formicolio, dolore. A volte quando tutto si risolve c'è la fase di iperemia reattiva. Il fenomeno di Raynaud è idiopatico o secondario ad altre malattie come appunto la Sclerodermia, Lupus eritematoso sistemico, Sindrome di Sjogren, malattie ematologiche che alterano la viscosità del sangue, Dermatomiosite, connettiviti in genere, iatrogeno a uso di farmaci quali beta bloccanti. Fonta: http://it.wikipedia.org/wikilFenomeno_di_Raynaud 8 La Grameen Bank è una banca che si occupa di microfinanza in Bangladesh. Fondata da Muhammad Yunus nel 1976, è stata la prima banca dei poveri. L'ente concede, infatti, microprestiti alle popolazioni povere locali senza richiedere garanzie collaterali e garantendo così il loro accesso al credito. Il sistema si basa sull'idea che i poveri abbiano attitudini e capacità imprenditoriali sottoutilizzate e sulla fiducia. La Grameen Bank oggi ha 1.084 filiali in cui lavorano 12.500 persone. I clienti in 37.000 villaggi sono 2.100.000, per il 94 per cento donne. L'organizzazione non è in perdita: il 98 per cento dei prestiti viene restituito. La banca, inoltre, raccoglie depositi, fornisce altri servizi, e gestisce varie attività economiche finalizzate allo sviluppo, tra cui società commerciali, telefoniche e nel settore dell'energia. All'organizzazione e al suo fondatore, Muhammad Yunus, è stato congiuntamente attribuito [1Premio Nobel per la Pace nel 2006, "per i loro sforzi diretti a promuovere lo sviluppo economico e sociale dal basso". http://it.wikipedia.org/wikilGrameen_Bank. 9 Il Chapter 11 (letteralmente 'Capitolo 11') è una parte della legge fallimentare statunitense che permette alle imprese che lo utilizzano una ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario. Il Chapter ii è utilizzabile sia delle imprese, in forma societaria o individuale, sia da privati cittadini (nell'ordinamento statunitense, infatti, anch'essi sono soggetti al fallimento). L'utilizzo di gran lunga prevalente è però quello da parte delle società. E grossomodo equivalente all'amministrazione controllata prevista nella legislazione italiana. Il Chapter 7, per contrasto, riguarda ilfallimento vero e proprio che sfocia nella liquidazione totale dei beni dell'impresa, mentre il Chapter 13 è relativo alle procedure che coinvolgono privati individui con debiti di importo relativamente limitato (il tetto al 2007 era pari a circa 300.000 dollari 143


di debiti non garantiti e 1 milione di debiti garantiti). Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Chapter-11. 10 Il Fondo rotativo è nato nel 2003 su volontà dell'allora segretario generale Antonio Palmieri grazie alla collaborazione del professor Andrea Bonaccorsi e della dottoressa Cristina Martelii che hanno messo a punto questo strumento per la Camera di commercio. 11 Il trattato istitutivo dell'Unione Europea vieta gli aiuti concessi dagli Stati alle imprese sotto qualsiasi forma in quanto incompatibili con il mercato comune. Si presume infatti che tali aiuti, favorendo alcune imprese o alcune produzioni, possano falsare la concorrenza. Esistono tuttavia eccezioni a tale divieto. Esse sono rappresentate da: - aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali; - aiuti destinati a promuovere la realizzazione di importanti progetti di comune interesse; - aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di alcune attività o di alcune regioni economiche; - aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle aree depresse ossia delle aree in cui il tenore di vita sia anormalmente basso o in cui ci sia una grave forma di disoccupazione; - aiuti doricessi secondo la regola "de minimis" (owero di importo modesto). Per aiuti "de minimis" si intendono agevolazioni concesse entro importi regolamentati che, in quanto tali, non sono ritenuti in grado di falsare la concorrenza tra gli Stati membri. In particolare il limite degli aiuti "de minimis" è di € 200.000,00 su un periodo di 3 anni a decor-

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rere dal giorno di erogazione del primo aiuto. Il limite è fissato a € 100.000,00 per le imprese di trasporto su strada. Secondo il Piano Anticrisi, la Commissione ha deciso di ritenere compatibili con il mercato comune, fino al 31 dicembre 2010, aiuti fino all'importo complessivo € 500.000,00, concessi nel quadro di un regime ad imprese che non appartengano ai settori dell'agricoltura e della pesca. In tale importo rientrano anche eventuali aiuti che l'impresa dovesse aver ricevuto in de minimis dal 1° gennaio 2008. Non si tratta di una semplice estensione della soglia de minimis. Gli aiuti in questione possono infatti essere concessi unicamente nell'ambito di regimi di aiuto previamente notificati e il Governo italiano sta procedendo in tal senso. 12 Regolamento (CE) o. 800/2008 della Commissione del 6 agosto 2008 che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con le regole del mercato comune, in applicazione degli articoli 87 e 88 del Trattato (regolamento generale di esenzione per categoria), e dunque non falsanti la concorrenza tra le imprese. 13 De Blasio G., Lotti F. (a cura di), La valutazione dekli aiuti alle imprese, Hoepli, 2008. 14 Rapporto della Commissione Europea "Taking European Knowledge Society Seriously" http://ec.europa.eulresearchlscience-society , i cui lavori sono stati coordinati dal prof. Brian Wynne. Il Workshop ne dà conto riportandone un commento nell'Editoriale di "queste istituzioni", n. 149. 15 Giovanni Degli Antoni è fondatore del Dipartimento di Scienze dell'Informazione presso l'Università degli Studi di Milano.


queste istituzioni n. 154 luglio-settembre 2009

Il coutrouto tra "Publie Finallue, Publio Choice e Political Economy" a cura di Alessandro De Chiara e Antonio Di Majo

A completamento del saggio diA. De Chiara eA. Di Majo pubblicato nel n. 153,presentiamo una bibliografia essenziale sul tema a cura degli autori.

L

e basi della Public Choice vanno ricercate negli articoli e nei libri pubblicati daJames Buchanan e GordonTullock a partire dalla fine degli anni quaranta. Oltre a loro, un posto d'onore spetta a Mancur Olson che è stato in grado di offrire delle fondamentali intuizioni, complementari a quelle provenienti direttamente dagli studiosi della Scuola della Virginia. Alle radici di questo filone di ricerca, ci sono i lavori degli studiosi italiani di Scienza delle Finanze di fine Ottocento (ripubblicati in Musgrave e Peacock 1958) e le celebri considerazioni di Wicksell relative alle decisioni fiscali in un Paese democratico. Un peso molto rilevante hanno avuto anche i lavori svolti nell'immediato secondo dopoguerra da Black e Arrow sulle scelte sociali. Per quanto attiene l'influenza esercitata sulla scienza politica, che ha contribuito alla nascita della Positive Political Theory, si possono menzionare i lavori di Riker e Ordeshook, come quelli sul paradosso dell'affluenza alle urne. Due manuali che, invece, permettono di avere una visione di insieme dei contributi della Public Choice sono quelli di Cullis e Jones e quello di Mueller. Mentre il recente scritto congiunto di Buchanan e Musgrave permette di capire le differenze con l'approccio piÚ tradizionale di Public Finance. Aiow, KENNETH J. (1963). Social Choice and Individual Values, second edition, New York: John Wiley and Sons. BRENNAN, GE0FFREY EJAMES M. BUcHANAN (1980). The Power to Tax:Analytical Foundations of a Fiscal Constitution. 145


BRENNAN, GEOFFREY E JAMES M. BUCHANAN (1986). The Reason ofRules: Constitutional PoliticalEconomy, Cambridge, Uk: Cambridge University Press. BUCHANAN,JAMES M. (1949). The Pure Theory ofGovernmentFinance:A Suggested Approach, Journal of Political Economy, pp. 496-505. BUCHANAN, JAMES M. (1954a). Social Choice, Democracy, and Free Markets, Journal ofPolitical Economy, pp. 114-123. BUCHANAN,JAIVIES M. (1954b). Individuai Choice in Voting andthe Market, Journal ofPolitical Economy, pp. 334-343. BUCHANAN, JAMES M. (1975). A Contractarian Paradigmfor Applying Economie Theory, American Economic Review, pp. 225-230. BUCHANAN, JAMES M. (1983). The Pubiic Choice Perspective, Journal of Public Finance and Public Choice/Economia delle Scelte Pubbliche, pp. 7-15. BUCHANAN,JArVIES M. (1998). Stato, Mercato e Libertà, a cura di Domenico da Empoli, Bologna: il Mulino. BUCHANAN,JAMES M. E GORDON TULLOCK (1998). li Calcolo del Consenso, a cura di Paolo Martelli, Bologna: il Mulino. Edizione originale (1962): The Cakuius of Consent. Logicai Foundations of Constitutionai Democracy, Ann Arbor: University of Michigan Press. BUCHANAN,JAMES M. E RICHAIW A. MusGRAvE (1999). Pubiic Finance andPubiic Choice: Two Contrasting Visions of the State, Cambridge, MA: MIT Press. CuLLIs, JOHN E PHILIP JONES (2009). Pubiic Finance and Pubiic Choice,3rd edition, Oxford: Oxford University Press. MUELLER, DENNIS C. (2003). Pubiic Choice III, Cambridge: Cambridge University Press. MUSGRAVE RICHARD A. E ALAN T. PEACOCK (1958). Ciassics in the Theory ofPublic Finance, London: Macmillan. OLS0N, 1VIANCUR (1965): The Logic of CollectiveAction. Public Goods and the Theory ofGroup, Cambridge (Mass): Harvard University Press. RIKER, WILUAM H. E PETER C. ORDESHOOK (1968). A Theory of the Cakuius of Voting, The American Political Science Review, pp. 24-42. TULLOCK, Go1DoN (1967). The Weifare Costs ofTar, Monopolies, and Theft, Western Economic Journal, pp. 224-232. WICKSELL, KNUT (1896). Finanztheoretische Untersuchungen, Jena, in Musgrave e Peacock (1958) - tradotto come ANew Principie ofJust Taxation.

Oi1GINI DELLA P0uTIcAL EcoNoMIcs I lavori da cui è scaturita la Political Economics (e non solo) sono quelli di Kydland e Prescott e Barro e Gordon. Anche i lavori sulla Directly Unproductive Profit-seeking activity (quelli di Krueger e Bhagwati) sono indubbiamente legati alla successiva produzione scientifica che si colloca all'interno di questo filone. 146


BA1uo, ROBERTJ. E DAVID B. GORDON (1983). Rules, Discretion andReputation in a Model ofMonetary Policy, Journal of Monetary Economics. BHAGWATI,JAGDISH N. E T.N. SRINIVASAN (1980). Revenue Seeking:A Generalization of the Theory of Tar, The Journal ofPolitical Economy, pp. 1069-1087. KRUEGER, ANNE 0. (1974). The PoliticalEconomy of the Rent-Seeking Society, The American Economic Review, pp. 291-303. KYDLAND, F'INN E. ED EDWARD C. PREscorr (1977). Rules Rather than Discretion: The Inconsistency of Optirnal Plans, The Journal of Political Economy, pp. 473-492.

PoLITIci BUSINESS CYCLE Per questo filone della letteratura risulta difficile non fare richiamo ai classici lavori di Kalecki, Nordhaus e Hibbs. In tempi recenti, sono stati soprattutto i lavori svolti da Alesina a gettar luce sul legame tra elezioni e performance economica. Sempre da una prospettiva che possiamo definire di political econornics rilevanti sono i lavori, tra gli altri, di Rogoff, Tabellini e Persson. Negli ultimi anni sono da menzionare i lavori svolti da Drazen. Mentre, un autore vicino alla Public Choice che si era interessato a questa tematica è Frey. ALESINA, ALBERTO (1987). Macroeconomic Policy in a Two-Party System as a Repeated Carne, The QuarterlyJournal of Economics, pp. 65 1-678. ALESINA, ALBERTO E HOWARD ROSENTHAL (1995). Partisan Politics, Divided Government, and the Economy, Cambridge: Cambridge University Press. ALESINA, ALBERTO, NOUR1EL R0uBINI E GERALD D. COHEN (1997). Political Cycles and the Macroeconorny, Cambridge (IVIA): The MIT Press. BRENDER, A. AND ALLAN DRAZEN (2005). Political Budget Cycles in New Versus Established Democracies, Journal of Monetary Economics, 1271-1295. DRAZEN, ALLEN (2001). Political Business Cycle after 25 Years, in B. Bernanke and K. Rogoff, eds. NBER Macroeconomics Annual 2000, Cambridge, MA: MIT Press, 75-117. Fiy, BRuNO S. E FIUEDRIcH SCHNEIDER (1978). An Empirical Study of PoliticoEconomic Interaction in the United States, The Review ofEconomics and Statistics, pp. 174-183. HIBBS, DOUGLAS A. (1977). PoliticalParties andMacroeconomic Policy, The Amencan Political Science Review; pp. 1467-1487. KALECKI, Mici-IAL (1943). PoliticalAspects ofFullEmployment, Political Quarterly, pp. 322-33 1. NORDHAUS,WILLIAIVI D. (1975). The Political-B usiness Cycle, The Review ofEconomic Studies, pp. 169-190. PERSSON, TORSTEN E GUIDO TABELLINI (1996). Politica Macroeconomica, Roma: La Nuova Italia Scientifica.

147


EDIZIONE ORIGINALE (1990): Macroeconomic Policy: Credibility and Politics. ROGOFF, KENNETH (1990). Equilibrium PoliticalBudget Cycles, The American Economic Review, pp. 21-36. ROGOFF KENNETH E ANNE SIBERT (1988). Elections andMacroeconomic Policy Cycles, The Review ofEconomic Studies, pp. 1-16.

COMPARATIVE P0LITIcAL EcoNoMlcs In questo ambito di ricerca, particolarmente amato dagli autori riconducibili alle due scuole, troviamo anzitutto i classici lavori di Buchanan scritti a quattro mani con Tullock e con Brennan (già menzionati nel paragrafo relativo alla Public Choice) e i lavori più moderni di Mueller e Persson-Tabellini. Una gran mole di articoli sono stati prodotti in tempi recenti da autori riconducibili alla Political Economics, tra cui diversi italiani come Lizzeri e Persico. BLANKART, CHARLES B. E DENNIS C. MUELLER (2004). The Advantages ef Pure Forms ofParliamentary Democracy over Mixed Forms, Public Choice, pp. 431-453. MUELLER, DENNIS C. (1996). Constitutional Democracy, New York: Oxford University Press. PERSSON, TORSTEN E GUIDO TABELLINI (2000). Political Economics: Explaini'ig Economic Policy, Cambridge (1VIA): The MIT Press. PERSSON, TORSTEN E GUIDO TABELLINI (2003). The Economie Effects ofConstitutions, Cambridge (IVIA): The MIT Press.

RECENSIONI E TESTI CRITICI Gli articoli pubblicati sulla rivista Kykios sono quelli che hanno fatto emergere il dissidio, già esistente, tra gli studiosi delle due scuole e sono quelli dove sono meglio esplicitate le rispettive posizioni. Critiche da parte della Public Choice sono espresse anche da Mueller, Tollison e Ursprung. Anche la Public Choice e, più in generale, la volontà di molti studiosi di attribuire agli individui coinvolti nelle decisioni politiche il requisito della razionalità al fine di studiare l'esito dell'azione collettiva e di capire come meglio strutturare le istituzioni è stato oggetto di critiche, in particolare da parte di Greene e Shapiro. Inoltre, è possibile ricondurre a questa categoria quei testi che meglio enfatizzario le differenze con l'approccio dei costi di transazione, filone vicino alla scuola di Chicago. Su questi temi, illuminanti sono gli articoli e i libri di Olson e Di.xit. I principali bersagli di questa polemica, soprattutto quella mossa da Olson, sono Wittman e Becker. 148


ACEMOGLU, DAR0N (2005). Constitutions, Politics, and Economics: A Review Essay on Persson and Tabeiini's the Economic Effects of Constitutions, Journal of Economic Literature, pp. 1025-1048. ALESINA, ALBERTO, TORSTEN PERSSON E GUIDO TABELLINI (2006). Reply to Biankart andKoester's PoliticalEconomics versus Public Choice: Two Views ofPoliticalEconomy in Competition, Kykios, pp. 201-208. BECKER, GARY S. (1983).A Theory of Competition among Pressure GroupsforPolitical Influence, the QuarterlyJournal of Economics, pp. 371-400. BLANKART, CI-IARLE5 B. E GERRIT B. KOESTER (2006). PoliticalEconomics versus Public Choice: Two Views ofPoliticalEconomy in Competition, Kyklos, pp. 171-200. DIxIT, AvIN SAI-I K. (1996). The Making ofEconomic Policy. A Transaction-Cost Politics Perspective, Cambridge, IVIA: MIT Press. Dlxii', AvIN5AI-I K. E MANCUR OLSON (2000). Does Voluntary Partecipation Undermine the Coase Theorem, Journal of Public Economics. GREEN, DONALD P. E JAN SHAPIRO (1994). Pathologies ofRational Choice Theory: a Critique ofApplications in Political Science, New Haven: Yale University Press. JENNINGS, C0LIN E IAIN McLEAN (2008). PoliticalEconomics andNormativeAnalysis, New Political Economy, pp. 6 1-76. MUELLER, TENNIS C. (2007). Torsten Persson and Guido Tabellini, The EconomicEffects of Constitutions: Book Review, Constitutional Political Economy, pp. 63-68. OLSON, MANCUR (1996). Big Bills Left on the Sidewaik: Why Some Nations are Rich and Others Poor, The Journal of Economic Perspectives, pp. 3-24. OLS0N, MANCUR (2000): Power andProsperity. Outgrowing Communist and Capitalist Dictatorships. Toffison, Robert D. (2007). Old Wine, New Wine, Public Choice, pp. 3-5. URSPRUNG, HEINRICH W. (2003). Where Do We Gofrom Here? in Stanley L. Winer e Hirofumi Sibata: PoliticalEconomy andPublic Finance, Northampton (MA): Edward Elgar. Wrn'IviAl'.i, DONALD (1989). Why Democracies Produce Efficient Results, The Journal of Politica! Economy, pp. 1395-1424. WITTMAN, DONALD (1995). The Myth ofDemocratic Failure: Why Politicallnstitutions are Efficient. University of Chicago Press.

ALTRE OPERE CITATE NEL SAGGIO DI A. DE CHIARA E A. DI MAJO AKsT, DANIEL (2008). A cosa servono lefondazioni.2, queste istituzioni, n. 148.

Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (2002). Libro Bianco sulle Fondazioni, queste istituzioni, n. 127. FOSSATI, AMEDEO (2008). The Idea of State in the 'Scienza delle Finanze"from Antonio De Viti De Marco to Mauro Fasiani, SocietĂ Italiana di Economia Pubblica, WP n.615. 149


VON HAK, FRIEDRIcH A. (1982): Law, Legislation andLiberty. Chicago: Univer-

sity of Chicago Press. HETTICH, WALTER E STANLEY L. WINER (1999). Democratic Choice and Taxation: a Theoretical and EmpiricalAnalysis. Cambridge, UK: Cambridge University Press. HUIIVIE, DAvID (1987). On the Independency ofParliament, in Essays, Moral, Political, andLiterary, Liberty Fund, inc.

150


IL CONSIGLIO ITALIANO PER LE SCIENZE SOCIALI

IlCss è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Sociali (Co.S.Po.S.) che svolse a suo tempo, negli anni settanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: - contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; - incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; - sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui seguenti temi: le fondazioni in Italia; governo delle città e territorio; valutazione degli effetti delle politiche pubbliche. Vi è attualmente un gruppo di lavoro sul tema della produzione e trasformazione della conoscenza scientifica e tecnologica. Vi sono anche due progetti speciali pluriennali sui terni del ceto medio e della politica dell'innovazione e dei trasferimenti tecnologici. Da ricordare infine, l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche d'Europa. Presidente: SERGIO RI5TuccIA Vice Presidente: ARNALDO BAGNASCO Comitato direttivo: SERGIO RISTUCCIA, MAURA ANF05SI, ARNALDO BAGNASCO, FABRIZIO BARCA, PIERO BASSETTI, GIOVANNI BECHELLONI, ANDREA BONACCORSI, GIUSEPPE DE MATTEIS, ANTONIO

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Elinor Ostrom Governare i beni collettivi

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Governing the commons è un classico della letteratura in materia. Pubblicato dalla Cambridge Univcrsitv Press nel 1990, è stato poi tradotto in diversi Paesi. TI volume affronta una delle questioni più antiche e controverse nel campo della gestione dei beni collettivi: come l'utilizzo di questi può essere organizzato in modo da evitare sia lo sfruttamento eccessivo sia costi amministrativi troppo elevati. Ostrom sostiene, con vigore, l'esistenza di soluzioni alternative alla 'privatizzazione», (la una parte, e al forte ruolo di istituzioni pubbliche e regole esterne, dall'altra. Soluzioni, invece, fondate sulla possibilità di mantenere nel tempo regole e forme di autogoverno di uso selettivo delle risorse. L'Autrice che prende in considerazione una gamma molto ampia di casi basa le sue conclusioni sul confronto di casi di successo e fallimento dell'autogoverno e identifica alcune caratteristiche fondamentali dei sistemi di gestione di risorse collettive che hanno avuto successo. I)i qui la formulazione di veri e propri princIpI» da rispettare nell'uso delle risorse collettive. Data la complessità dei fenomeni empirici studiati e il tipo (li teoria necessaria per spiegarli, è stato necessario uno studio approfondito dei casi di successo soprattutto per (luci che riguarda l'interazione con gli utenti. LAtitrice, insieme a un gruppo di ricerca, ha raccolto molteplici dati che sono stati inseriti in un apposito archivio. E stato selezionato un sottoinsieme più ridotto, destinato a ulteriori esami, codificazioni e analisi. Seguendo il metodo dell'»analisi istituzionale», che era risultato da precedenti lavori della Ostrom, sono stati necessari alcuni anni di lavoro racconta la stessa Autrice soltanto per leggere un sufficiente numero di casi, studiare i precedenti tentativi di sintetizzare le conclusioni provenienti da campi specializzati e sviluppare i moduli di codificazione. Durante questo processo si è tentato di costruiic e illustrare una teoria che fosse in grado di comprendere le costanti che si cominciavarno a vedere leggendo questi diversi materiali. Uauspicio finale di Ostrom è che altri studiosi di scienze sociali continuino a monitorare e interpretare il fenomeno dei con/mo/is. -

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Elinor Ostrom è Arthur F. Bentley Professor of Political Science e co-direttore del Workshop in Political Theory and Policv Analysis a Bloomington, Indiana University. È co-direttore, inoltre, del CIPEC (Center for the Study oflnstitutions. Population andEnvironmental Change). Ha ricevuto molteplici riconoscimenti e premi per la sua attività scientifica. Da ultimo, nel 2006, il William Riker Award dellAPSA (American Political Science Association) per il volume Understanding lnstitutional Dfversity(2005). Fra le molteplici pubblicazioni si ricorda il libro, scritto in collaborazione con Vincent Ostrom e Robent L. Bish, Il governo locale negli Stati Uniti, commissionato dalla Fondazione Adriano Olivetti e uscito in italiano nel 1984 prima che in edizìone inglese.

Cristiano Andrea Ristuccia è Fellow e Director of Studies in Economics a Trinity Hall, Cambridge, UK Giovanni Vetritto è dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri e docente a contratto dell'Università di Roma Tre.

Francesco Velo è dottore di ricerca e docente a contratto all'Università di Pavia. Il Consiglio italiano per le Scienze sociali e il Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive dell'Università di Trento hanno patrocinato la pubblicazione del libro.

Saggi e rapporti

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QUOTE DI ABBONAMENTO 2009 (IVA inclusa) Abbonamento annuale (4 numeri) € 43,00 Abbonamento per studenti 50% di sonto Abbonamento per l'estero € 57,00 Abbonamento sostenitore € 105,00 CONDIZIONI DI ABBONAMENTO L'abonamento si acquisisce tramite versamento anticipato sul dc postale n. 24619009 o bonifico bancario e/o Intesa SanPaolo, Ag. 80 di Roma Prati - Via E. Q. Visconti, 22 - 00193 Roma - IBAN: 1T12 X030 6903 3150 7400 0004 681 intestato a «Consiglio Italiano pe le Scienze Sociali>,. Si prega di indicare chiaramente nome e indirizzo del versante, nonché la causale del versamento. L'abbonamento decorre dal 10 gennaio al 31 dicembre e, se effettuato nel corso dell'anno, dà diritto ai fascicoli arretrati. Gli abbonamenti che non saranno disdetti entro il 30 novembre di ciascun anno saranno tacitamente rinnovati e fatturati a gennaio dell'anno successivo. Ifascicoli non ricevuti devono essere richiesti entro un mese dalla data di pubblicazione. Trascorso tale termine verranno spediti ; in quanto disponibili, contro rimessa dell'importo più le spese postali. In caso di cambio di indirizzo allegare un talloncino di spedizione. L'IVA è assolta dall'editore ai sensi dell'art. 74 lett. c) del d.PR 26.10.1972 n. 633 e successive modificazioni nonché ai sensi del d.m. 29.12.1989. N.B.: Per qualsiasi comunicazione si prega di allegare il talloncino-indirizzo utilizzato per la spedizione.


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AnnoXXXVI - n. 154/luglio-settembre 2009 Spedizione abb. postale DL 353/2003 (conv. in L. 27/0212004 N46) Art. 1 comma 1


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