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L'UMANESIMO DELLE SCIENZE SOCIALI. PERCHÉ IL METODO INTERDISCIPLINARE TERZO SETIORE E PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI: UN RAPPORTO TRA RISCHI ED OPPORTUNITÀ DEMOCRAZIA E DEMOCRATIZZA7IONE. NOTE DOLENTI SULLE ELEZIONI AFGHANE BERNARDO PIZZETfl SERVIZI PUBBLICI LOCALI: E SE DESSIMO LA PAROLA Al CITIADINI? INTERVISTE IN REDAZIONE IL CASO DEL PARTITO DEMOCRATICO MARCO DE NICQLÒ, GIUSEPPE DE RITA, STEFANO ROLANDO I PREFETII IN ETÀ REPUBBLICANA


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Illeste i1ituzioiii

Anno XXXVI n. 155 Redazione

Direttore: SERGIO RISTIJCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttore: GIOVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVI;RiA ADDOTTA Comitato di redazione: CARLA BASSU, FABIO BIscoTTI, ROSALBA CORI, ELINA DE SINIONE, FRANCESCO DI MAJO, ALESSANDRO HINNA, CLAUDIA LOPEDOTE, GIORGIO PAGANO, PIER LUIGI PETRILLO, ELISABETTh PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, VALERIA VAIJSERRA, FRANCESCO VELO, DONATELLA VISCOGLIOSI, STEFANIA ZUCCOLOTTO. Collaboratori ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERL\, GIANFRANCO BETTIN LATTES, ENI1ICO CANIGLIA, Osv,LDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID BOGI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CAC1AGLI, CARLO CIIIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, EPJ'IESTo D'ALBERGO, MASSIMO Di FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'ORTA, SRAGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGUARDUCCI, FRANCO GALLO, SILVIO GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LA CAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QJIRlNO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, WALTER NOCITO, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, OLI VIERO PESCE, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELU, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIo REY, GIANNI RIOTTA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, ERIzIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPI:, FRANCESCO SID0TI, ALESSANDRO SILJ, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAWD SZANTON,JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, GIANLUIGI TOSATO, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA ZOPPINI Hanno collaborato: UMBERTO SERAFINI, FEDERICO SI'ANTIGVI'I, TIZIANO TERZANI

Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00193 Roma Tel. 06.68136085 - Fax 06.68134167 E-mail: quesire@quesire.it - www.questeistituzioni.it Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972)

Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: Consiglio italiano per le Scienze Sociali ISSN 1121-3353 Stampa: Tipar Arti Grafiche - Roma Chiuso in Éiporafia: 28 febbraio 2010

Foto di copertina: illustrazione di Jean Folon, "La metamorfosi di Kafka". Libro strenna Olivetti, 1973 Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


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n. 155 ottobre-dicembre 2009

indice III

L'umanesimo delle scienze sociali. Perchè il metodo interdisciplinare

taccuiuo i

Sulla crisi corresponsabilitĂ a catena: economisti, politici, stampa economica Roberta Canini

8 Terzo settore e pubbliche amministrazioni: un rapporto tra rischi ed opportunitĂ Saveria Addotta 14

Democrazia e democratizzazione. Note dolenti sulle elezioni afghane Claudia Lopedote

21

Servizi pubblici locali: e se dessimo la parola ai cittadini? Bernardo Pizzetti

26

Da Trino a Stoccolma. Un premio Nobel all'economia (del bene comune) Norberto Patrignani

29

Le relazioni tra sviluppo economico e lingue. Riflessioni per un approccio post moderno Remigio Ratti

37

In ricordo di Renzo Zorzi Beniamino de'Liguoni Carino


dibattito 40

Il caso del Partito democratico. Interviste in redazione (dopo l'editoriale del n. 152) Adolfo Battaglia, Enzo Bianco, Salvatore Biasco, Carlo Chimenti, Paolo Corsini, Gianni Cuperlo, Giulio Ercolessi, Paolo Gentiloni, Enzo Marzo, Bernardo Pizzetti, Walter Thcci, Luigi Zanda

forum 71

73

Cose della PA (a cura di Ersilia Crobe) I prefetti in età repubblicana. Un'élite amministrativa della Repubblica Marco de Nicolà, Giuseppe De Rita, Stefano Rolando

85

Bilancio dello Stato, una storia grande a piacere di cui si dice e non si dice Giorgio Pagano

91

Royal Mail. Se le cose stanno così, non scioperare sarebbe una follia! SeumasMilne


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editorliule

L'llmalleimo dello SCiOIIZO sociali. Perché il metodo illtordisciplillare

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009. La storia inizia il 12 ottobre, quando Elinor Ostrom è insignita del Premio Nobel per l'economia (insieme a Oliver \)Villiamson), "for her analysis ofeconomic governance, especially the commons". Ma prima c'è un lungo flashback. Ed un finale aperto. 1990. Ostrom pubblica un intenso lavoro, Governing the Commons. The Evolution oflnstitutionsfor CollectiveAction (trad. it. Governare i beni collettivi. Marsilo, 2007), nel quale sviluppa una teoria sul governo comunitario delle common p001 resource, anche dette common property resource (CPR), in grado di tutelare e preservare le risorse comuni (la cui fruizione è caratterizzata da scarsa escludibilità e alta sottraibilità) e gestirne l'uso e il consumo delle unità marginali distribuibili. Punto di partenza dell'analisi di Ostrom è l'articolo di Garrett Hardin del 1968, The Tragedy of the Commons. La studiosa ne contesta la premessa, ovvero l'insostenibilità dello sfruttamento delle risorse terrestri a seguito della pressione demografica crescente e dell'appropriazione individuale priva di vincoli: la "tragedia della libertà in una proprietà comune". Secondo Hardin, non resta che la gestione statale. Se non si vuole privatizzare, lasciando al proprietario la fissazione di regole e prezzo d'uso. Ostrom dimostra empiricamente (e storicamente) che le due soluzioni classiche del binomio Stato-mercato non soltanto non sono le sole possibili, universalmente valide, ma non costituiscono neanche la soluzione ottimale per un uso sostenibile e produttivo delle risorse comuni. I casi di successo sono quelli in grado di sviluppare endogenamente le istituzioni e le regole di gestione ed uso. Quella di Ostrom è una teoria della complessità che individua tutti gli elementi e le condizioni dell'interazione uomo-ecosistema necessari ad una gestione comunitaria equa, efficiente e sostenibile nel tempo. Molte discipline sono chiamate in causa: economia (la teoria dei giochi), diritto (la teoria delle III


istituzioni), antropologia, sociologia, e così via. Eccezionale nel lavoro di Ostrom è non tanto, non soltanto, il cosa, ma il come. Il metodo empirico interdisciplinare di Ostrom non ha niente a che vedere con l'astrattezza dell'economia mainstream che, nelle parole di Ronald Coase, "is a theoretical system which floats in the air and which bears little relation to what happens in the real world". Attraverso una intensa e globale ricerca sul campo, Ostrom ha realizzato un sostanziale apporto di elementi e dati qualitativi al fin troppo corposo set teorico di tipo quantitativo a disposizione degli economisti. Così da immaginare e comprendere in quale direzione andrebbe sviluppato un modello funzionante ed efficace per l'applicazione alla realtà. Nel mondo dell'economia, qualcuno non è stato contento. Steven Levitt, apprezzato economista antidogmatico, sostenitore tardivo ma convinto dellavoro di Ostrom, ha commentato: "the economics profession is going to hate the prize going to Ostrom even more than the Republicans hated the Peace Prize going to Obama" (http://economistsviewtypepad.com ). Ha avuto ragione. Le critiche di un'ampia porzione di economisti si sono appuntate sui rischi (!) di "contaminazione delle discipline economiche" (sic!). Sì, perché l'economia da sempre rivendica uno status privilegiato rispetto alle altre discipline, rifuggendo ogni contatto con le scienze sociali. "Povertà di immaginazione", l'ha chiamata qualcuno. Talvolta, gli economisti sembrano averne anche troppa, nell'immagine di se stessi e nella deformazione della realtà. Manca loro la curiosità per le altre discipline e, soprattutto, per il mondo reale. Ecco, Ostrom è riuscita a dare una lezione sull'importanza del nesso teoria-realtà. Quando, in campo economico, ancora se ne negava il bisogno. E veniamo alla crisi. La bolla speculativa e il disastro che ne è scaturito con la crisi iniziata nel 2008 ha consentito il disvelamento di una struttura economica e sociale che si regge sempre più spesso su disuguaglianze spaventose e crescenti, come fossero il sottoprodotto inevitabile di un modello altrimenti, anzi comunque, perfetto. Perché funziona, i calcoli tornano, le strategie disegnano imponenti volute. Dritto verso magnifiche sorti. Creando l'indotto delle molteplici concezioni dei mercati acchiappatutto. Ne parliamo in questo numero e se ne è discusso nei precedenti. Oggi è chiarissimo che il programma scientifico ed etico della comprensione del mondo sociale richiede aggiustamenti profondi e continui di cultura scientifica. Occorre una ricerca di senso attraverso ragione, esperienza e valori civili condivisi. Le scienze dispongono già di uno strumento efficace per realizzare questa ricerca ed attribuzione di senso, ai fini di una maggiore comprensione: il metodo interdisciplinare. La disciplina che si è dimostrata più sorda al discorso e al già debole dibattito sull'interdisciplinarità è l'economia. AJIa notizia del Premio Nobel ad Ostrom, sui blog degli economisti si sono riversate aspre critiche e delle più becere. Il commento più moderato ha accostato il Nobel ad Ostrom a quello IV


ad Obama. Ovviamente sul piano dell'inconsistenza e della astrusità delle motivazioni. E invece, è proprio l'economia ad avere più bisogno del metodo interdisciplinare. L'economia dovrà essere interdisciplinare per essere significativa, visto il fallimento marchiano nel comprendere e predire la realtà. Non ci sono alternative. Qualcuno se ne è accorto, e ha chiesto alla Commissione per il Premio Nobel se la crisi c'entrasse qualcosa con la decisione presa. La risposta della Commissione, impeccabilmente, è stata che il premio non è assegnato sulla base degli avvenimenti dell'anno precedente, ma in considerazione di un corpo di studi e di lavori che, talvolta, durano una vita. E però la crisi c'entra. Ne siamo convinti. Una delle lezioni dell'eccellente lavoro di Ostrom è che sono le istituzioni (regole e comportamenti) a disegnare l'economia. Istituzioni diverse originano modelli di produzione e consumo - nonché modi di esistenza - diversissimi. Ciò che insegna l'esperienza empirica dei commons è che scambi di mercato, produttività, efficienza e prosperità si realizzano date le giuste istituzioni. Il che significa: reti, comunità, cooperazione, approccio bottom-up. Il cosa quale funzione del come. E l'economia istituzionale. Quella che certi economisti considerano una disciplina minore, frutto della contaminazione con le scienze politiche. Elinor Ostrom, per fortuna, è in ottima compagnia. C'è chi nel suo lavoro e nella sedimentazione delle mille suggestioni e proposte ivi contenute ha intravisto non poche analogie con la "ricchezza delle reti" di Yochai Benkler. E non ha sbagliato. L'economia delle reti di Benider, applicata ai commons della Rete, riprende la concettualizzazione dell'apertura dei modeffi di mercato e di quelli centralizzati ai processi sociali, in chiave partecipativa e creativa, per allargare lo spazio delle libertà individuali, senza rinunciare all'efficienza ed al controllo sulle risorse comuni. Una prospettiva largamente condivisibile, pur non trascurando le difficoltà esistenti nella fitta complessità del governo della Rete. Torniamo alla teoria economica mainstream, dove cioè il dibattito sull'interdisciplinarità non riesce a decollare, confinando gli studiosi entro costruzioni astratte spesso nonsense all'insegna del riduzionismo, nemiche di ogni epistemologia della complessità che, come dimostrato da Edgar Morin per primo (Introduzione a/pensiero complesso, 1993), chiama le discipline a prendere coscienza dell'insufficienza delle teorie analitiche pure, e ad appropriarsi, per quanto possibile, di un approccio olistico e globale quando si applicano ai problemi del mondo reale. L'interdisciplinarità è, per l'appunto, complementarietà, integrazione, interazione, convergenza tra le scienze, per giungere, come scriveva Jean Piaget, "a reciprocità di scambi, tale da determinare mutui arricchimenti". L'idea è realizzare una sintesi, una mediazione, che possa correggere ed oltrepassare i limiti insiti in ciascuna disciplina, aggiungere competenze e conoscenze a disposi-


zione della comprensione dell'umano, sulla base di una ricerca di strutture più profonde dei fenomeni, che siano cioè in grado di descriverli e spiegarli. In tal senso, possiamo parlare di interdisciplinarità orizzontale e verticale. Nel primo caso, si tratta di chiamare a pronunciarsi su uno stesso oggetto molteplici discipline, ciascuna con un proprio set di dati, strumenti, teorie e tecniche, metodologie. Per estrarne ogni dato, informazione e lettura disponibili. Quindi, dialogo tra discipline attorno ad un problema. Con interdisciplinarità verticale, si intende che una data disciplina si applica all'analisi e alla comprensione di più dimensioni della realtà, a più oggetti, contribuendo, affiancando ed integrando - dando una conferma o una smentita - i risultati prodotti da altre discipline, per una lettura a 3600 del campo di studio scelto. Illuminando aspetti che le altre discipline, per caratteri costitutivi ed impostazione scientifica, non colgono o non sono interessate ad esaminare. Quindi, incrocio tra dimensioni di una macroarea di investigazione, con diversa rilevanza, diversi sottoinsiemi di intervento per ciascuna disciplina. I due metodi sono, inutile dirlo, a tratti coincidenti. Non viaggiano su binari paralleli. In ogni caso, realizzano un controllo incrociato di dati e teorie, in grado di agevolare la comprensione di fenomeni e processi sociali che non si curano dei confini disciplinari. E tuttavia, chiedono di essere governati. Si tratta di un approccio complesso, che richiede uno sforzo maggiore e tempi più lunghi. Forse per questo inviso e ignorato dalle decisioni pubbliche sempre più dettate, in una spirale irrefrenabile, da una logica di breve, brevissimo termine. Veniamo alle conseguenze dell'astrazione autoreferenziale e ideologica cui è pervenuta la teoria economica nella sua splendid isolation. Abbiamo già parlato su queste pagine di alleanza tra teoria economica e fondamentalismo liberista, di finanziarizzazione dell'economia, di liberalizzazione dei mercati finanziari, di deterioramento e annichiimento delle tutele e delle condizioni di lavoro, di grandi disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Così nasce la crisi. In questo contesto non ha molto senso parlare di "economia reale". Una tale divaricazione fra economia finanziaria ed economia reale è inaccettabile. Non si potrà restare a lungo sordi ad un appello che viene da più parti. E di questi giorni la proposta dell'Associazione Paolo Sylos Labini (egli è stato fra i principali fondatori del Consiglio italiano per le Scienze Sociali) di un Manifesto per la libertà de/pensiero economico contro la dittatura del/a teoria dominante eper una nuova etica che, nel richiamare l'economia al servizio delle persone, pone l'interdisciplinarità quale condizione del cambiamento metodologico ed etico ("La scienza economica deve essere intesa in modo ampio, senza definizioni unilaterali e con piena apertura all'interscambio con le altre scienze sociali. L'obiettivo della ricerca dovrebbe consistere nella comprensione della realtà sociale che ci circonda, come premessa per scelte politiche dirette a migliorare la condizione di vita delle persone e il bene comune"). L'interdisciplinarità con VI


un ruolo, quindi, di ricomposizione critica e significante delle conoscenze settoriali della realtà , attuando ciò che Piaget auspicava: la rottura stabile dellefrontiere. Ostrom, malgrado quello che pensano certi economisti, è anche un'economista, un'economista delle istituzioni che ha sviluppato un campo di riflessione, a partire dal tema dei commons, che afferma la prospettiva dell'economia sostenibile che si avvale dell'apporto innovativo e intrinsecamente democratico e umanista dell'economia della conoscenza. Il riconoscimento del Premio Nobel è importante e va preso con soddisfazione. Arriva a vent'anni dalla pubblicazione del volume Governing the Commons. Che cosa vuol dire? Che ci sono stati considerevoli ostacoli nel prendere atto dell'esistenza e del valore di un campo di studi e di un approccio conoscitivo che smentiscono ogni radicalismo teorico fintamente a-ideologico. C.L.

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Sulla crisi corresponsabiIit a catena: economisti, politici, stampa economica di Roberta Canini A/an Greenspan. «Ifound aflaw. Idon't know how signficant orpermanent it is, but l've been very distressed by thatfact. Henry Waxman: Youfound aflaw in the reality... A/an Creenspan: Flaw in the model thatIperceied is the critica/functioning structure that defines how the world works, so to speak. Henry Waxman: In other words, youfound thatyour view of the world, your ideology, was not right, it was noi' working? A/an Greenspan: That is -precisely. No, that t precisely the reason I was shocked, because I had been goingfor 40years or more with very considerable evidence that it was working exceptional/y wel/*.

ischiamo di creare una geerazione piena di idiot Rnavants, abili nella tecnica ma del tutto ignari dei problemi dell'economia reale". L'avvertimento era stato lanciato per tempo: per la precisione nel 1988, a opera di una Commissione sull'insegnamento dell'economia nelle università, messa all'opera dall'American Economic Association. 1988. Vent'anni prima della grande crisi che ha trascinato nel suo crollo, oltre a finanzieri, banchieri, brokers e milioni di lavoratori, la disciplina degli idiot savants, gli "idioti sapienti", definizione che non è un insulto ma una diagnosi psicopatologica, e che

con accenti più o meno pesanti ricorre spesso nell'accusa più grave che oggi viene rivolta alla corrente dominante del pensiero economico degli ultimi 20-30 anni: "avete perso il contatto con la realtà". E' quello che dicono con chiarezza gli economisti anglosassoni ai quali dobbiamo la citazione riportata in apertura 1 . E quello che ripetono da una parte all'altra del mondo quei pochi studiosi dell'economia che il contatto con la realtà non l'avevano mai perso ma ai quali era stato semmai tagliato il contatto con i politici e i media. E quello che ammettono anche alcuni "ortodossi", sopravvissuti alla tempesta nella mainstneam.

L'autrice è giornalista economica, collaboratrice dell'Espresso, coordinatrice di www.abilanciamoci.info


E' quello che più liberamente sostengono alcuni osservatori esterni. Insomma, sull'economia piovono parole e pietre. L'intensità del diluvio fa pensare che siamo a una svolta critica e autocritica nel pensiero economico. Ma forse è presto per dirlo, è possibile che da domani i cattedratici ricomincino a dare allegri buoni consigli ai praticoni di \)Vall Street che nel frattempo hanno già ripreso a dare cattivi esempi. Nell'attesa, può essere utile un percorso di lettura attraverso la grande crisi della scienza economica e della sua divulgazione. Il contatto con la realtà Un buon riepilogo dei capi d'imputazione a carico della "scienza triste" è nel libro di Roberto Petrini, Processo agli economisti2 Le società moderne li hanno messi a fare da vedetta al benessere collettivo, ma mentre si avvicinava l'iceberg della crisi, dalla tolda delle università e delle grandi istituzioni internazionali non hanno lanciato l'allarme. Si sono distratti, hanno detto bugie, oppure è la loro scienza che mostra dei limiti?". A queste premesse Petrini fa seguire l'analisi dei capi d'accusa a carico degli economisti: sbagliano le previsioni, hanno perso il contatto con la realtà, hanno creduto troppo nel dio mercato, hanno troppo potere, sono incapaci di comunicare, hanno smesso di sognare. Capi d'accusa tra loro assai strettamente correlati: se proviamo a sostituire a ciascuna virgola la congiunzione "perché", il ragionamento fila alla perfezione. Grande importan.

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za, nel "processo" di Petrini, è data alla prima delle grandi accuse agli economisti: hanno sbagliato le previsioni. Essendo un giornalista e potendo produrre i documenti che via via si è visto sfilare sotto gli occhi al suo desk, Petrini compone una tabella dall'effetto esilarante e deprimente: la tabella delle previsioni smentite, via via corrette e poi ri-smentite. E sbugiarda in modo abbastanza evidente alcuni tra i più gettonati commentatori economici italiani, citando loro frasi rosee o quantomeno rassicuranti, pubblicate a larga tiratura appena alla vigilia del grande crollo3. Insomma, fino all'orlo del precipizio e poi anche oltre, molti economisti con grande influenza sull'opinione pubblica e con ruoli importanti nelle istituzioni nazionali e internazionali hanno sbagliato le previsioni, prima non vedendo quel che stava arrivando e poi sottovalutandolo. Come mai? Saltiamo in un'altra lettura, più vicina alla comprensione del mondo degli "economisti che sbagliano", per avere una prima risposta. "Le nostre previsioni saranno in generale buone solo quanto le nostre teorie", scrive Ignazio Visco, vicedirettore generale della Banca d'Italia, citando Herbert Simon, in un testo letto davanti a studenti e cattedratici romani, dedicato proprio alle previsioni degli economisti4, nel quale inquadra i problemi teorici e analitici che la crisi ha impietosamente messo a nudo nel contesto dei cambiamenti economici, tecnologici e finanche demografici degli ultimi vent'anni. Visco concede agli economisti - a partire dal suo rilevante entourage, quello del ser2


vizio studi della Banca d'Italia - più di un'attenuante, rimarcando anche il fatto che non tutti gli economisti hanno sbagliato e che alcuni di essi hanno messo in guardia contro la situazione pericolosa che gli squilibri economici mondiali - originati dall'indebitamento americano - stavano determinando. Ed è tentato dallo scaricare assai di più le colpe sul "processo decisionale di policy": i politici assai più che gli economisti, scrive Visco, sono stati ammaliati dall'era della "grande moderazione", quella in cui sembrava che il sistema fosse in grado di assorbire ogni choc. Però poi deve dar conto di un effettivo "fallimento previsivo", che collega a varie cause, alcune delle quali attengono all'attendibilità e regolarità delle statistiche in tempi di grandi mutamenti, ma la principale delle quali è più semplice e agghiacciante: "la generazione corrente di modelli dell'economia si è rivelata carente soprattutto nel rappresentare gli aspetti che maggiormente contano nella trasmissione della crisi in corso, quelli, cioè, che riguardano le interrelazioni tra mercati finanziari ed economia reale". Ops, ci eravamo dimenticati la realtà. Le idee, gli interessi, i fatti

Una simile dimenticanza, per un ramo del sapere che nasce sulla materia, su merce, lavoro, soldi e commerci, insomma sulla "roba", non è cosa da poco, non può essere un lapsus o un abbaglio collettivo. Ma è frutto diretto della teoria, o meglio ancora potremmo dire dell'ideologia, adottata: quella che adesso viene definita senza mezzi

termini "fondamentalismo di mercato". Quella per cui il mercato non è un mezzo ma un fine, e l'equilibrio economico generale non un'ipotesi di studio, sottostante a particolari e precise condizioni, ma un inevitabile punto d'arrivo dell'agire delle spontanee forze dell'interesse egoistico individuale nel libero mercato. In questo contesto, la "colpa" principale degli economisti, scrive Giacomo Becattini 5, non è tanto non aver previsto questa crisi, quanto l'aver seguito "linee di sviluppo teorico che hanno fatto dimenticare ai loro utilizzatori - soprattutto i governanti, ma anche i cittadini - non solo la possibilità della crisi, ma anche l'inevitabile ricorrenza delle crisi economiche di ogni società di mercato, e dei relativi costi per i poveri diavoli". Becattini così prosegue, randellando senza pietà i "fondamentalisti del mercato" e i "modellisti disimpegnati": "Impegnati nella costruzione di modelletti capaci di spiegare, piùo meno convincentemente, aspetti particolari della realtà - scissi, beninteso, dalla totalità sociale mediante ipotesi semplificatrici, esplicite ed implicite - hanno rimosso, e fatto rimuovere ai loro utilizzatori, il problema del fttnzionamento complessivo del capitalismo attuale". Più o meno nelle stesse settimane Paul Krugman, premio Nobel per l'Economia nell'anno 2008, editorialista del New York Times, usava parole simili per spiegare "come hanno potuto gli economisti sbagliare tanto" 6 Sono andati ftiori strada perché hanno confuso la bellezza, rivestita di calcoli matematici affascinanti, con la verità"; costruendo modelli in cui i prezzi delle : "


attività finanziarie erano correlati a quelli di altre attività finanziarie, e mai messi in relazione al mondo reale, per esempio agli utili di un'impresa. Di fronte al crollo di questa teoria, Krugman chiede ai suoi colleghi di rassegnarsi: "dovete imparare a convivere con il disordine", dice, proponendo una ricetta in tre mosse: 1) "accettare la scomoda verità che i mercati finanziari sono ben lontani dalla perfezione, che sono soggetti a incredibili abbagli e all'irrazionalità della folla"; 2) "riconoscere che l'economia keynesiana resta la migliore struttura a nostra disposizione" per capire la recessione; 3) "inglobare nella macroeconomia la realtà della finanza". Insomma tornare a Keynes, dopo gli anni del ftirore antikeynesiano, definiti da Krugrnan "il medioevo della macroeconomia ; acquisendo tutti gli strumenti teorici che nel frattempo sono stati elaborati per approfondire le analisi di comportamenti che non si possono condurre dentro la gabbia della perfetta razionalità e perfetta efficienza dei mercati (Krugman cita il filone di studi della finanza comportamentale). Ma soprattutto, l'economia deve uscire dall'economia, rendersi conto che non basta a se stessa 7. Tornando al vivace articolo di Becattini, lo studioso ripropone la validità di un approccio semplice quanto dimenticato, così definito dalle parole di Paolo Sylos Labini, Siro Lombardini e Giorgio Fuà 8 "una visione dell'economia politica come disciplina che ha contenuti e responsabilità sociali". Tale visione non è mai scomparsa nel pensiero e nell'insegnamento dell'economia, e non a ca-

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so abitano da queste parti, e non tra i fondamentalisti del mercato, alcuni.degli economisti che hanno salvato la faccia della categoria awertendo dei rischi in corso e in alcuni casi formulando previsioni sull'imminente crack. Qualcuno l'aveva detto, e anche scritto, sia negli Stati Uniti che qui in Italia. Però - piccolo particolare - non se l'era ftlato nessuno. Si trattava di economisti fuori dalla corrente principale, e dunque inesistenti per gli occhi e le orecchie dell'establishment. [Su questi temi si vedano anche sul n. 153 di questa rivista gli articoli contenuti nel dossier Forum: apicco nella crisi, n.d.r]. Tutta colpa della politica? Con il che passiamo a un altro capitolo della storia, il rapporto tra gli economisti e i decision makers: i politici, i regolatori. Negli ultimi mesi spesso gli economisti si sono difesi dicendo: non toccava a noi intervenire, ma ai responsabili dei processi politici. E' colpa della politica se le cose sono precipitate in questo modo. Argomentazioni simili sono state portate da Chicago a Trento (Festival Economia 2009) da Luigi Zingales e da altri. Fanno pensare che i tempi sono davvero duri; se i consiglieri del principe arrivano a deplorare il fatto che il principe abbia seguito i loro consigli: non intervenire, lasciar fare, lasciar lavorare, lasciar specularé. Ma anche laddove i consiglieri non hanno dato esplicite direttive, c'è da chiedersi per lo meno quanto le loro idee abbiano plasmato lo "spirito del tempo": "gli economisti - scrive Luigi Spaventa9 - hanno con4


tribuito a creare una sorta di Zeitgeist che ha influenzato le azioni e le omissioni dei politici e dei regolatori". Spaventa introduce un altro tema, quello della banalizzazione delle teorie degli economisti ad uso della politica: "Pochi si sono opposti alla versione volgare delle loro dottrine, quale era richiesta dalle congregazioni a cui erano indirizzate le loro prediche, che includevano soggetti dell'industria finanziaria con ben precisi interessi". Dunque, anche quando le teorie non erano del tutto votate al fondamentalismo del mercato, anche qualora gli economisti nei loro ragionamenti e modelli includevano premesse, cautele e condizioni, poi venivano sistematicamente volgarizzate e banalizzate per poterne trarre quelle ricette più consone all'establishment finanziario. Lo stesso establishment non teneva poi nel minimo conto avvertimenti, ipotesi e teorie formulate da quel largo numero di economisti che nuotavano fuori dalla corrente principale. Insomma, solo alcuni dei consigli dati da alcuni degli economisti sono stati seguiti dai politici. E non si sono trovati anticorpi né inceppi a un circolo vizioso: quello per cui una sola delle teorie economiche ha avuto ascolto a corte, e man mano ha plasmato di sé le istituzioni mondiali di governo dell'economia, le università, le scuole, i libri, i giornali. Tra le idee e gli interessi costituiti più che un conflitto si è avuta una piena sinergia. Il perché è presto detto: questo andazzo faceva comodo ad entrambi. Man mano che i modellini degli economisti si allontanavano dalla vita

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reale, le loro teorizzazioni servivano sempre più all'establishment politicofinanziario che quella vita reale pretendeva di governare. Roberto Artoni10 descrive così il nesso tra crisi dell'economia e crisi degli economisti, individuando l'epicentro del duplice terremoto negli Stati Uniti: "Il modello ortodosso ( ... ) è stato proposto come termine di riferimento per le scelte di politica economica di tutti i Paesi, sviluppati e non. La giustificazione stava nel successo relativo dell'economia americana, misurata da un tasso di crescita del Pil procapite superiore di circa 1,5 punti rispetto a quello europeo e dai buoni risultati occupazionali. ( ... ) Oggi la crisi economica permette letture certamente più meditate. Le ragioni dell'apparente successo stavano in primo luogo nell'assenza di vincolo estero per l'economia americana In secondo luogo, il forte indebitamento delle famiglie ha consentito di più che compensare gli effetti depressivi della progressiva diminuzione della quota di reddito destinata ai redditi medio bassi. Si deve qui osservare che l'esplosione dei costi di servizi sociali essenziali ha finito per coinvolgere anche le classi medie. Ovviamente, l'assenza di controlli sugli intermediari ha consentito modalità di finanziamento molto permissive". Per concludere: "L'irresponsabilità complessiva delle politiche americane, derivata anche da una teoria economica irrealistica e ideologica al tempo stesso, ha prodotto la crisi attuale. Qjesta crisi, collocatasi dapprima sul versante finanziario, si è progressivamente estesa a


quello reale, e per l'interdipendenza delle economie, a molti Paesi". C'è anche chi accusa gli economisti di colpe ben più gravi. Non solo di aver suggerito e sostenuto le politiche sbagliate, sulla base di teorie con fragili basi analitiche ma gradevoli effetti pratici per gli interessi finanziari; ma anche di essere stati parte integrante dello stesso sistema finanziario, e cioè di aver agito sovente in conflitto di interessi. Lette qui in Italia, queste considerazioni faranno poco più che solletico, ma sono argomenti forti per chi ha ancora a cuore una qualche divisione di ruoli e funzioni: "Molti accademici, in particolare da istituzioni che godono di alto prestigio e reputazione, hanno seri interessi nel business e una rete di interessi finanziari che li lega a quelle stesse istituzioni delle quali i loro studi trattano. Qiesti interessi vanno da lucrosi ingaggi per discorsi, ruoli di advisor in istituzioni finanziarie, ruoli manageriali fino alla proprietà di quote di fondi di private equity ed hedge funds", ha scritto Devesh Kapur sul Financial Times11 , auspicando delle regole di comportamento a tutela della correttezza e della trasparenza degli economisti, simili a quelle introdotte nel campo delle scienze biologiche. Una chiamata in correità

Forse non tutti gli economisti ortodossi sono dei maneggioni interessati, ma certo l'avvertimento a guardare bene gli interessi in campo è utile. E se tale allarme vale per la scienza, a maggior ragione vale per la comunicazione. Arriviamo qui all'ulti-

mo degli imputati (ma non per importanza), l'informazione economica, alla quale si può rivolgere la stessa domanda che la Regina Elisabetta ha fatto agli economisti: "Come mai non avete visto quel che ci stava piombando addosso?". Quanti dinoi, ha scritto autocriticamente il direttore del Financial Times Lionel Barber 12, hanno dato notizia con evidenza della cruciale decisione della SEC, nel 2004, di allentare le regole sulla leva finanziaria? E quanti hanno analizzato i rischi che c'erano dietro la decisione di dare garanzia pubblica ai fondi Fannie Mae e Freddie Mac? Pochi, forse nessuno tra quelli grandi, i più strutturati e preparati anche per vedere dietro le tecnicalità. Barber tenta qualche spiegazione: difficile andare controcorrente, mettere in discussione il mito della casa in proprietà per tutti. Complicato convincere il capoT redattore della necessità di raccontare le ombre del "sistema finanziario ombra", mentre lui dalla Borsa vuole solo buone notizie. Rischioso dare spazio a voci e fenomeni sgraditi agli inserzionisti. Insomma, pur senza affondare troppo il coltello nella carne, il direttore del Financial Times i temi ingombranti del giornalismo economico li nomina tutti. E li cala nella nuova realtà, ancor peggiore, in cui sono i media mondiali adesso: travolti anch'essi dalla crisi, per la concomitanza dello choc da recessione (calo di pubblicità) e della rivoluzione di internet (calo delle vendite). Mentre cercano un nuovo modello di business nell'era della rete, i giornali, e quelli economici in particolare, devono fare N .


i conti con la falla mostrata dal vecchio modello: il legame troppo stretto con quello stesso circolo dell'establishment che è stato protagonista e complice della grande crisi. Le previsioni non sono rosee. Per un buon giornalismo economico servono molte risorse e molti soldi: redazioni strutturate, esperte, con il lavoro di molte persone e l'archivio dell'esperienza di un numero ancor

1 Il testo è contenuto in una "lettera alla Regina" scritta da un gruppo di dieci economisti, docenti in università inglesi e australiane, resa pubblica sabato 15 agosto. Nella lettera, firmata da Sheila C. Dow, Peter E. Earl, John Foster, Geoffrey C. Harcourt, Geoffrey M. Hodgson,J. Stanley Metcalfe, Paul Ormerod, Bridget Rosewell, Malcolm C. Sawyer, AndrewTylecote, si risponde - con leggero ritardo, e criticando una precedente risposta data da altri economisti e assai più bianda verso la categoria - alla domanda posta dalla Regina nel suo famoso intervento alla London School of Economics del novembre 2008: "Com'è possibile che nessuno si sia accorto che stava arrivandoci addosso questa crisi spaventosa?". 2 ROBERTO PETRINI, Processo agli economisti, in «Chiarelettere», maggio 2009. 3 "La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l'economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda" (Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 4 agosto 2007, cit. in Petrini, Processo agli economisti). 4 La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti, Ignazio Visco, lezione inaugurale al Master diii livello in Economia Pubblica, Università degli Studi di Roma La Sapienza, 4 marzo 2009. 5 Ilmea culpa degli economisti, GiAcoMo BECATTINI, Il Ponte, Ottobre 2009. 6 PAuL KRUGMAN, How Did Economists Get It So Wrong? In «The New York Times Magazi-

maggiore di persone. Ma soprattutto serve un'indipendenza molto maggiore di quella dimostrata nel passato: indipendenza dai potenti, dai finanziatori e anche dalle proprie fonti. Nel mondo il dibattito è aperto, su questo. Da noi, a proposito dell'informazione, è fermo un p0' più indietro, più o meno all'abc. Ma questo è un altro discorso.

ne», 2 settembre 2009 (tradotto in italiano da In-

ternazionale, Gli errori degli economisti, 13 settembre 2009). 7 In questo senso sono stati letti da molti commentatori i due premi Nobel all'Economia assegnati nel 2009, a Oliver Wilhiamson e Elinor Ostrom, così come il Nobel 2008 a Krugman era stato letto come una sospensione (temporanea?) della "linea Chicago-Stoccolma" che ha caratterizzato per anni le scelte dell'Accademia svedese sull'economia. 8 La citazione è da una lettera indirizzata il 30 settembre 1988 al direttore de La Repubblica. 9 Le responsabilità degli economisti, Luioi SPAVENTA, lavoce.info, 26 agosto 2009. 10 La cultura economica e la crisi, ROBERTO ARTONI, Econpubblica, short note n. 3, maggio 2009. 11 Academics bave more to declare than theirgenius, DEVESH KAPUR, Financial Times, 23 giugno 2009. 12 LIONEL BARBER, Flawedfirst drafi of history, Financial Times 21 aprile 2009. Dalla testimonianza di Alan Greenspan davanti al Congresso Usa, ottobre 2008. Greenspan è stato governatore della Federal Reserve dal 1987 al 2006. Waxman, membro del Congresso, all'epoca era presidente del Committee on Oversight and Government Reform). Gli articoli citati sono quasi tutti consultabili sul sito di informazione economica www.sbilanciamoci.info alla voce dell'archivio dedicata a "teoria e critica ecnonomica".


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Terzo settore e pubbliche aiuuiiuistrazìoui: 1111 rapporto tra rischi e opportunità di SaveriaAddotta

N

el volume Dove lo Stato non arriva, AsTRID (Associazione per gli Studi e le Ricerche sulla Riforma delle Istituzioni Democratiche e sull'innovazione delle amministrazioni) analizza l'articolato rapporto tra Pubblica amministrazione e Terzo settore. Pubblicato da Passigli e curato da Caterina Cittadino (con prefazione di Stefano Zamagni e postfazione di Franco Bassanini), il volume presenta nella prima parte, dopo averne analizzato la dimensione costituzionale, le diverse tipologie di soggetti del terzo settore: le associazioni di promozione sociale, le cooperative sociali, il volontariato, le fondazioni di scopo, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza, le organizzazioni non governative e l'impresa sociale. La seconda parte del volume presenta vari tipi di rapporto tra PA e settore non profit analizzando aspetti quali la partecipazione di quest'ultimo alle attività di pianificazione e programmazione delle politiche di settore; gli

acquisti etici e l'affidamento di attività di pubblico interesse da parte delle PA. Il volume analizza anche i rapporti atipici tra i due soggetti e l'impegno delle Camere di commercio nel far partecipare il Terzo settore alla qualità dello sviluppo del territorio. L'attenzione del sistema camerale al Terzo settore, già presente nel passato, è stato rafforzato più di recente dall'approvazione della legge delega sulla disciplina dell'impresa sociale che sancisce l'obbligo anche di questo tipo di impresa all'iscrizione al registro delle imprese. Leggi importanti ma non risolutive Ilvolume ricorda che l'attenzione della PA verso quella che è stata una vera e propria rivendicazione, da parte delle organizzazioni autonomamente costituite dai cittadini di un ruolo di "rilevanza pubblica" per affrontare problematiche sociali divenute sempre più complesse si ha a partire dalla fine dagli anni ottanta.


La maggiore sensibilità ed attenzione da parte delle istituzioni politiche verso "un mondo composto da milioni di cittadini che cominciano ad essere visti come risorsa per un rinnovato sviluppo del Paese entro una logica di superamento di una concezione statalista dell'iniziativa pubblica", si concretizza con l'approvazione di una serie dileggi: la 1. 43 del 1987 sulla Cooperazione Internazionale, a cui segue poi la legge 266 del 1991 sul volontariato, la 381 sempre del 1991 sulla cooperazione sociale. Con il d.lgs. n. 460 del 1997, poi, viene creata la figura delle ONLus (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale); con il d.lgs n.153 del 1999 Si formano, invece, le fondazioni di origine bancaria. Nel 1999 si ha anche la nascita del Forum sul Terzo settore, il primo coordinamento tra soggetti non profit; nel 2000 si ha la 1. 328 sulla riforma dell'assistenza (che riconosce un ruolo importante al Ts nell'erogazione dei servizi socio-assistenziali) e la n. 383 che disciplina le associazioni di promozione sociale; nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione con l'approvazione del novellato articolo 118 della Costituzione, sancisce l'introduzione del principio di sussidiarietà sia orizzontale che verticale. Ancora nel 2001, con il d.lgs. n. 207, si normano le IPAB (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficienza). Ultimo intervento normativo, il d.lgs.n. 155 del 2006, in cui viene delineata l'impresa sociale. Il Terzo settore viene ormai considerato come una delle "leve sociali e

economiche" del nostro Paese ma la legislazione di settore risente indubbiamente della mancanza di organicità e sistematicità - norme speciali, leggi regionali, écc. - che impone, come ribadiscono anche gli autori del volume AsT1UD, l'emanazione di un Testo unico delle leggi del Terzo settore; per questo è necessario arrivare anche ad un riforma del codice civile in materia, e definire così anche un coordinamento con la riforma del diritto societario che è stata approvata nella scorsa legislatura. I rapporti tra PA e Ts Il rapporto tra PA e Ts risulta sicuramente complicato per questa difficoltà da parte della Pa di codificare il ruolo del Ts. Resta il pericolo, ad esempio rispetto al volontariato, di mutarne la natura di apporto solidale e gratuito attraverso il "terreno scivoloso del 'rimborso spese'. Una soluzione potrebbe aversi nel far partecipare il Ts alla stessa produzione normativa, non soltanto per le politiche sociali ma più complessivamente riguardanti il sistema di governance del Paese. Alcuni tentativi sono già stati fatti: nel 1999 il Forum permanente del Terzo settore è stato riconosciuto dal Governo quale "parte sociale" avendo firmato il Protocollo di intesa integrativo del Patto sociale per lo sviluppo del Paese. Le regioni, con l'approvazione degli statuti, hanno previsto spazi per il confronto con i rappresentanti del Ts. La legge sulle associazioni di promozione sociale (la 383 del 2000) pre-


vede la partecipazione di queste al CNEL con 5 membri designati dall'Osservatorio nazionale del volontanato e 5 dall'Osservatorio nazionale delle Associazioni di promozione sociale. Il rapporto tra PA e soggetti del Ts si gioca soprattutto a livello locale e in materia di politiche sociali, come viene rilevato anche dal più recente rapporto, realizzato dall'Auser (l'associazione della Cgil e del Sindacato dei pensionati Spi-Cgil nata per promuovere l'invecchiamento attivo degli anziani) su "Enti locali e Terzo settore". Secondo tale rilevazione, continua a crescere la tendenza dei comuni ad affidare all'esterno la gestione dei servizi sociali: nel 2008 il 47,4 % della spesa è stato destinato a servizi gestiti dal non profit. L'indagine ha preso in esame i bandi per l'affidamento dei servizi alla persona di un campione di comuni con più di 30mila abitanti, analizzando 232 selezioni pubbliche e "ristrette" (procedure negoziate e a licitazione privata) per una spesa prevista per quasi 53 milioni di euro, di cui circa 23 milioni sono stati assegnati in base a bandi e capitolati d'appalto. Più garanzie e meno discrezionalità per le associazioni

Dalla ricerca è emerso che si tende ad affidare servizi continuativi nel tempo solo alle cooperative sociali, mentre al volontariato spettano servizi sperimentali o integrativi. Questa scelta causa una serie di problemi: dalla mancanza di trasparenza (il 38 % delle amministrazioni privilegia proce-

dure discrezionali, accordandosi con le singole organizzazioni di volontanato; la metà utilizza un mix flessibile di rapporti e solo il 12 % segue regolamenti ben precisi); alla breve durata degli incarichi (nel 28% dei casi non vengono superati i 12 mesi; 45 % dei casi in Sicilia e Sardegna) e all'utilizzo delle gare al ribasso (di norma il 16 %, percentuale che sale al 36 % nel Sud). Il rapporto dell'Auser rileva che se in alcune realtà si riesce ad offrire migliori servizi, determinando un equilibrio fra livelli di spesa e prestazioni, troppo spesso ci si trova di fronte a deleghe che non garantiscono la qualità, dando vita a disuguaglianze e clientelismo, soprattutto dove non è presente una rete dei servizi pubblici riconoscibile e definita, come spesso accade nel Sud. Da questo rapporto emerge, quindi, un Terzo settore subordinato al potere decisionale degli enti pubblici, soprattutto in materia di volontariato, che si vede sempre meno riconoscere la possibilità di partecipare attivamente a causa della mancanza di linee guida per gli operatori comunali; delle poche procedure di assegnazione di fondi o contributi (nonostante siano stati adottati uno o più registri delle organizzazioni del Terzo settore); della quasi mancanza di gare pubbliche indette mediante "appalto-concorso", nonché della resistenza dei comuni a progettare insieme a cooperative e associazioni un servizio, secondo le indicazioni della riforma dell'assistenza (la legge 328/2000 e il Dpcm 30 marzo 2001). 10


Il paradosso nel rapporto tra Enti locali eTs L'Auser parla di "enorme paradosso" al centro delle relazioni tra Enti locali e organismi di Terzo settore: a fronte del rilevante apporto che associazioni e imprese sociali forniscono alla gestione dei servizi sociali, le autonomie locali sono ancora inadempienti nella creazione di un sistema di regole davvero efficiente e trasparente, per consentire al Terzo settore di erogare servizi di qualità e svolgere una funzione importante anche in termini di programmazione e di sussidiarietà orizzontale. La collaborazione con il settore non profit si avvia, infatti, a diventare "normale prassi gestionale", in particolare nel campo dei servizi alla persona. Il Ts finisce, così, per essere soprattutto soggetto di offerta e spesso le sue attività non si traducono in opportunità di espressione e protagonismo della domanda. I soggetti del Terzo settore intraprendono perlopiù la strada della "pubblicizzazione", alla ricerca di finanziamenti pubblici. A livello regionale e locale sono rari gli esempi di regolazione degli interventi pubblico/privati nei settori sanitario e sociale. Essendo la programmazione sociale incerta, e rari i controlli e la valutazione possono aversi problemi sia nella regolazione dei diritti dei lavoratori che da parte dell'utente del servizio che può non essere garantito. Spesa sociale e servizi acquistati dai comuni Nel 2008, il 47,3% della spesa sociale 11

impiegata nei medi e grandi comuni (capoluoghi di provincia) è gestita attraverso l'intervento delle cooperative sociali e di altri soggetti del Terzo settore. Una percentuale che aumenta fino al 49,5% nelle aree del Sud. Incidenza della quota di spesa dedicata agli acquisti di servizi sociali nel 2008 (comuni capoluogo diprovincia). Nord-Ovest 45,14% Nord-Est 47,85% Centro 47,89% Sud 49,48% Italia 47,38% Le cooperative sociali gestiscono in particolare servizi di assistenza domiciliare agli anziani, interventi assistenziali di base (gestione di centri con ospiti residenziali) e servizi all'infanzia, specie quelli a carattere educativo e ricreativo. Alle associazioni di volontariato i. comuni affidano in particolare la gestione di servizi cosiddetti innovativi e integrativi, di supporto agli interventi "complessi", quali laboratori di animazione sociale, interventi di sollievo e supporto psicologico, servizi agli immigrati, accompagnamento e trasporti sociali. Anche a seguito della riforma del Codice degli appalti (d.lgs. 163/2006), nei comuni, specie nei più piccoli, viene utilizzata la prassi degli affidamenti diretti a cooperative sociali e volontariato per la gestione di servizi e interventi sociali. Si stima che il 38% delle amministrazioni comunali si accordi con le singole OdV su specifiche iniziative o progetti, privilegiando procedure discrezionali. Il


12% delle Amministrazioni ha codificato o regolamentato il rapporto con le OdV, anche privilegiando procedure ristrette e negoziate, in alcuni casi in riferimento ad eventuali dispositivi regionali. Il 50% dei comuni attua un mix di rapporti - regolati o informali - con una strategia flessibile a seconda della situazione o del soggetto con cui interagiscono. Le modalità del rapporto Enti locali

—Ts Le organizzazioni di volontariato in genere non vengono assimilate agli altri fornitori di servizi, come le cooperative sociali, che sono. quasi sempre chiamate a dimostrare la loro effettiva idoneità operativa e progettuale attraverso la partecipazione a bandi di gara per l'appalto di servizi o agli inviti pubblici per l'affidamento di questi. Per il volontariato ciò avviene in misura limitata. 8 comuni capoluogo su 10 riconoscono in modo esplicito o argomentato nel loro statuto la funzione e/o il valore del volontariato. 4 comuni capoluogo su 10 hanno confermato con specifiche linee guida per gli operatori comunali il ruolo e la funzione del volontariato. Un comune su 3 dispone di un albo delle sole organizzazioni di volontanato (lista dei fornitori e dei soggetti con cui essi hanno un rapporto fiduciario e su cui le Amministrazioni possono contare per specifici interventi). Accanto agli albi specializzati vi sono quelli "generalisti", ovvero

comprensivi di tutte le organizzazioni nonprofit che realizzano interventi o gestiscono servizi sociali. In conseguenza, circa il 50% dei comuni capoluogo ha adottato un registro delle organizzazioni di Ts operanti nel sociale. Comunque, soltanto 4 comuni su 10 hanno redatto un apposito regolamento per stabilire modalità e procedure di assegnazione di fondi o contributi. Una forma di partecipazione del volontariato alla decisionalità pubblica in tema di politiche sociali consiste nell'istituzione della Consulta del volontariato. I comuni che l'hanno promossa e realizzata sono ancora una minoranza: circa il 25% dei capoluoghi di provincia. L'organo di consultazione, comunque, raramente è sostenuto da un regolamento (2 casi su 10). Aree problematiche e opportunità Per gli estensori del rapporto Auser occorre individuare presto livelli essenziali delle prestazioni sociali, ovviamente con adeguata copertura finanziaria, e considerare che il processo che conduce alla individuazione dei diritti sociali esigibili deve necessariamente fare i conti con la necessità di una nuova lettura dei bisogni (materiali ed immateriali) e con l'evoluzione delle caratteristiche demografiche delle popolazioni. L'individuazione dei costi standard deve consentire agli Enti locali di fornire garanzie al cittadino, sia sai grado di copertura dei servizi, sia rispetto alla qualità dei servizi. In questa pro12


spettiva; occorreaprireundibattito sul ruolo della cooperazione sociale e del volontariato nella gestione dei servizi comunali; sono necessarie regole chiare orientate almeno a ridimensionare il fenomeno della gestione di "serie B" (appalti, personale, prestazioni all'utenza,ecc.) dei servizi socio-assistenziali. Occorre che regioni e comuni individuino e applichino criteri certi e rigorosi per l'accreditamento delle strutture sociali, che dovranno essere chiamate a svolgere un ruolo di agenzie pubbliche. Gli estensori del rapporto si chiedono, in conclusione, cosa è ancora possibile fare di fronte di: gare al ribasso in cui il costo del lavoro e della sicurezza sul lavoro sono minimi; paura e precarietà permanente degli operato-

13

ri; una legge inadeguata. L'Auser propone una soluzione nel fissare i livelli essenziali di assistenza, da garantire a tutti, e nell'assicurare costi standard che facciano da punti di riferimento. Opportuno sarebbe, inoltre, che i volontari vengano adeguatamente formati e che anche gli amministratori e funzionari pubblici abbiano competenze necessarie alla valutazione dell'impatto dei servizi e delle politiche scelte. Sarebbe indispensabile, quindi, "una legge-quadro complessiva, affiancata ad una cittadinanza responsabile, creativa ed autonoma, che sollevi problemi, metta in campo iniziative, formi persone e che senza farsi portavoce di una bandiera partitica, contribuisca a dettare l'agenda sociale del Paese".


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Democra.zia e democratizzazione. Note dolenti sulle oleziolli afghaue di Claudia Lopedote Allis hubris. The arrogance of the empire has mutated into the arrogance ofliberalism. It must be the most extravagant punitive expedition to the Asian mainland since Agamem non set offofTroy.

(Simon Jenkis)

H

a ragione Simon Jenkis che, in un assennatissimo articolo (Western Export of the baliot box elisir ispure hubris,The Guardian, 20.10.09), in sostanza dice: a chi importa dei brogli elettorali in Afghanistan! Le parole non sono esattamente queste, ma forzando un po', lo stato d'animo corrisponde. Riandiamo ai fatti del 20 agosto 2009. Dopo una cupa campagna elettorale, tra minacce e morti veri (circa trenta) per mano dei talebani, nonché cinquanta feriti, sparatorie e incidenti vari, gli afghani hanno votato per scegliere il nuovo Presidente, confermando il candidato incumbent Ahmid Kharzai ed aprendo una profonda crepa nel già fragile sistema, sulla base di fondate accuse di brogli e irregolarità diffuse nello svolgimento delle operazioni. Elezioni tra le bombe, come ha scritto più di un cronista.

E se nella provincia di Herat c'è molta soddisfazione per un'affluenza vicina al 60%, così non è per le aree più esposte all'influenza ed alle sopraffazioni talebane, nelle province meridionali ed orientali del Paese. Centinaia dei seggi dedicati al voto delle donne sono rimasti chiusi. Nei giorni successivi alle elezioni presidenziali, gli attacchi si sono intensificati e i morti, civili e militari, sono aumentati. A detta di molti, una grande prova di coraggio da parte del popoio afghano, o almeno dei cittadini che hanno potuto votare. Non una prova brillante per la democrazia afghana. Ecco che le ragioni per condividere lo schietto realismo di Jenkis, fuori da ogni retorica, sono almeno tre. Come i problemi dell'Afghanistan oggi: diritti umani, corruzione, sistema politico. Capitoli ponderosi a volerli sfogliare, che svelano l'in14


consistenza e la superficialità del disegno americano per la democrazia afghana. Le questioni importanti

Intanto, rammaricarsi delle irregolarità verificatesi alle urne risulta quanto meno incredibile. Come se non ci si rendesse conto che ben altri problemi dovrebbero indurre ad una riflessione definitiva. Andiamo alle questioni importanti, quelle irrisolte dalle armate tecnologicamente all'avanguardia, sempre naturalmente inclini a impersonare la controfigura moderna di Brancaleone alle crociate (e duole dire così pensando al rischio mortale e alle vite perdute). I prolegomeni delle libere e regolari elezioni, della democrazia, sono troppo ingombranti per fingere di non vederli. In un'analisi politica sempre più allucinata, sono in troppi a dimenticare che questa vicenda ha ormai una storia lunga che parla da sola. A volerla riprendere dal passato recente, il processo di Bonn del novembre 2001, già qualche perplessità e qualche fastidio cominciano a manifestarsi. Se il buongiorno si vede dal mattino, non si può certo dire che la proclamazione del governo ad interim di Karzai e l'adozione della nuova Costituzione siano stati dei gioielli di democraticità, trasparenza e partecipazione. La Costituzione, in particolare, è stata "adattata all'unanimità" come Saddam Hussein era eletto dal popolo. Altro che maggioranze bulgare! Il disegno americano di democrazia afghana è stato chiaramente, sin 15

dal principio, quello di un sistema liberale - non certo rappresentativo centralizzato e accentratore, sbilanciato sulla figura del Presidente, con il Parlamento in posizione subordinata. Questo il punto di arrivo. Nel frattempo, più che un processo assistito dagli Stati Uniti, la democratizzazione afghana appare sotto tutela, non è ancora chiaro se per minore età, incapacità naturale o interdizione. In un panorama interno affollato di entità terze, dalla NATO all'ONu, passando per una miriade di agenzie e organizzazioni per la promozione della democrazia (National Democratic Institute, International Republic Institute, International Foundation for Electoral Systems, National Endowement for Democracy, per citarne soltanto alcune), anche il mercato èfree ed open (per restare in tema), tra deregolazioni, privatizzazioni e mano lunga delle corporazioni straniere, americane ofcourse, sulle risorse naturali. Numerosissimi gli osservatori, le braccia e le menti di buona volontà, quindi. Eppure è sfuggito loro il curriculum dei principali candidati alle elezioni presidenziali (nonché dei loro vice e collaboratori) che, secondo la Commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan, potevano contare su efficaci gruppi armati attivi per l'SO% dei casi nelle province, e per il 60% nella capitale. Immaginiamo quale uso ne abbiano fatto. Del resto, si dirà, questo tipo di conflitto di interessi non è spesso contemplato neanche dalle nostre smaglianti democrazie.


Si capirà, tuttavia, se agli afghani anche alla maggioranza di illetterati che per non sapere né leggere né scrivere hanno occhi e orecchie buone queste elezioni, come le precedenti (le presidenziali nel 2004 e nel 2005 per il Parlamento) sembrano una recita di quart'ordine. A questi afghani la democrazia degli Stati Uniti non piace. Tanto meglio tenersi il sistema precedente che almeno ha, nella storia, un'apparenza di legittimità su base tradizionale e religiosa. Come scriveva Luigi Pintor, "posso anche tollerare le ingiustizie, ma che l'ingiustizia sia additata ad esempio proprio no!". Le elezioni come exitstrategy E veniamo ad un secondo elemento di meraviglia di fronte all'operato degli Stati Uniti. Per un momento, caliamoci nella parte e soppesiamo la generosità degli Stati Uniti nel voler portare la democrazia in Afghanistan anche a costo della vita dei propri soldati. E della gente afghana. Si tratta allora di un clamoroso fallimento di strategia di guerra da parte delle forze statunitensi in Afghanistan. Anni e anni di bombardamenti, scontri, morti e feriti da entrambe le parti, e nessuna decente via di uscita all'orizzonte. Fa effetto leggere in un articolo di Victor Sebestyen (Transcri,ts of defeat, The New York Times, October 29, 2009) le trascrizioni di una sconfitta che è sì quella in Afghanistan, ma di oltre vent'anni fa, con l'Unione Sovietica dall'altra parte. Leggendo la corri-

spondenza tra il Politburo e il comandante Sergei Akhromeyev nel novembre 1986, le lettere del ministro della Difesa Dmitri Ustinov e del capo dello staff alla Difesa Niholai Ogarkov, e gli appunti privati di Mikhail Gorbachev e Anatoly Chernyayev l'Afghanistan diventa il Vietnam sovietico, anzi peggio. Sembra di sentire Stanley McChrystal, comandante in capo alle forze militari in terra afghana, che parla al presidente Obama. La storia non si ripete mai identica a se stessa, ma qualche lezione potrebbe insegnarla. Nel 1988, l'allora direttore della CIA Robert Gates, fece una scommessa con Michael Armacost, sottosegretario di Stato, dicendosi certo che l'Unione Sovietica non avrebbe mai avuto la faccia di andare via dall'Afghanistan, ritirandosi senza onore. Gates dovette presto sborsare 25 dollari. Ecco allora che le elezioni diventano un mezzo per dare forma a quella exit strategy che gli Stati Uniti cercano da tempo. Una chance perché il fallimento bruci meno, e perché non si dica che le morti dei soldati americani sono state invano. Le libere elezioni, tuttavia, non sono che una precondizione - tra le altre, tante - di una democrazia. Fanno parte delle regole del gioco. Le elezioni (libere) non sono il mezzo per garantire la democrazia e non sono il traguardo della democrazia. Sono un elemento necessario ma insufficiente. (A dirla tutta,la storia suggerirebbe neanche tanto necessario. In principio). 16


Democratizzazione e democrazia

Soprattutto se, prima e nel frattempo, non si tiene in alcun conto la democratizzazione intesa come processo graduale e pervasivo di conversione sistemica e costitutiva dell'intera società alla democrazia. Porre le istituzioni democratiche non serve a niente se tutt'attorno le condizioni di vita economica, sociale, politica, costituiscono terra dura come cemento per le radici fresche della democrazia. Certamente le istituzioni democratiche sono un buon punto di partenza ma non possono agire e sopravvivere nel vuoto pneumatico. Bisognerebbe lavorare ai fianchi del sistema per garantire la tenuta, la stabilità e la solidità dell'esito. Così, il processo democratico deve pur contare qualcosa, se non altro perché o lo si piega al risultato, oppure influenzerà quest'ultimo, almeno in parte. E non soltanto in termini proiettivi. Ecco perché non ci si può accontentare della sola apparenza di democrazia formale, se non è percepita come tale, con le fattezze giuste, con un minimo di legittimazione ed accettazione - anche nel segno della parziale continuità con la cultura, la storia e le tradizioni - da parte della popolazione. Per la democrazia sostanziale, c'è tanto da lavorare. La democratizzazione non funziona alla stessa maniera ovunque. Non è esportabile, non è pianificabile a tavolino, non risponde a parametri e procedure standard e neanche note ai più. E una questione di equilibri. La 17

democratizzazione come processo di adattamento concreto alla democrazia, riempimento dello scheletro e sua calcificazione, richiede tempo, non dà garanzie, dipende dal contesto e da quanto è stato pensato bene l'adattamento delle istituzioni democratiche, dei meccanismi, delle garanzie, ai contesti reali. Credere che libere elezioni possano aprire la strada alla vita democratica è un van'eggiamento. Che non conosce prove e verifiche empiriche. Siamo alla democrazia come wishful thinking. Meno degli esperimenti del piccolo chimico: un pizzico di questo, una spolverata di quello, un'ombra di quest'altro, pensa intensamente e magari ne esce una democrazia nuova di zecca. Forse. Chissà. Non è sbagliato ritenere che gli Stati Uniti avrebbero fatto meglio a lasciare che si instaurasse un governo provvisorio tradizionale, senza rotture eccessive col passato, una monarchia, per quanto con funzioni più di cerimoniale che altro. Come è accaduto nelle maggiori democrazie europee, che si lasciavano alle spalle storie e vicende tutt'altro che pacifiche. Nei fatti, le elezioni democratiche non producono governi percepiti come legittimi, democratici, giusti dai cittadini. Ed è qui che si giocano le sorti del disegno democratico che ispira l'azione esterna, degli Stati Uniti in primo luogo: "L'esperienza mostra che il momento più pericoloso per un cattivo governo è in genere proprio quando sta cominciando ad emendarsi" - parola di Alexis de Tocqueville. Quello che accade oggi


in Afghanistan è proprio il rifiuto, da parte di una popolazione stremata e provata dalla lunga guerra, e tanto esposta alla retorica americana, di una democrazia non all'altezza delle promesse. Già nelle premesse. Legittimità democratica e le sue fonti Quel che manca agli Stati Uniti è un p0' di teoria democratica. Lo storico Eric Bergerud, intervistato più volte sulla strategia americana, ha attribuito l'insuccesso dell'azione in Vietnam prima e in Afghanistan oggi non all'azione del contro-insurrezionalismo, bensì all'incapacità di promuovere un governo percepito come legittimo dalla maggioranza della popolazione. Una maggioranza minima stimata attorno all'85-90% del totale. Un miraggio per l'attuale governo afghano! La legittimità democratica, ce lo insegna Max 'VVeber, può essere di diversa natura e tre sono le sue fonti: tradizionale, religiosa, legale. La nostra democrazia, quella che cerchiamo di esportare, è su base legale. E così il governo Karzai che, di fatti, non gode di molta legittimità e neanche popolarità. L'esatto contrario della legittimità secondo gli afghani che delle elezioni si preoccupano molto poco. Né la loro regolarità potrebbe o avrebbe potuto sopperire all'effetto di un taglio brusco con le tradizioni e la cultura, compiuto poi per volere e nei modi imposti da un altro Paese. Il che mantiene viva l'attrattiva esercitata ancora oggi dai Talebani come alternativa

autoctona, locale, su solida base etnica e religiosa. In queste storia e cultura esistono cioè degni competitor della democrazia. Di fronte ad una proposta insoddisfacente, la storia e le tradizioni politiche afghane autorizzano a considerare l'opzione exit prima ancora che voice. Si dimostri loro, almeno, la convenienza della democrazia che qualche vantaggio sul piano delle libertà ce l'ha, quando sa essere all'altezza della sua fama. Ma se già i diritti non sono per tutti, e poi l'uguaglianza proprio non esiste, è una ben misera democrazia. Allora, la diffidenza non potrà che essere la sola risposta di buon senso da aspettarsi. I bei tempi epici degli indigeni festanti che portano in trionfo i messi del progresso e della civiltà non sono mai esistiti. Quello che nelle democrazie di qualche esperienza è un tabu, non lo è in Afghanistan, dove lo sguardo può ragionevolmente volgersi a sistemi non democratici ma altrettanto, se non più, legittimi e addirittura efficienti. Non si tratta di inconcepibili estrosità esotiche. In un'epoca di spinto relativismo etico che ha fatto dell'individuo il depositano della verità, una per ciascuno, è capzioso che non si riesca a concepire che le tradizioni e la cultura di un popolo (la religione, in questo caso: quale fattore più potente?), forgiate dalla storia, sono dure più della pietra di fronte ad ogni volontà esterna di cambiamento. Eppure, possono essere modellati con gli strumenti giusti, rispettando l'appello e la giusta aspirazione all'autodeterminazione dei popoli. W.


Il peso della corruzione endemica Niente di tutto ciò si ritrova nella cronaca delle elezioni del 20agosto scorso, con la contestata vittoria di Hamid Karzai, considerato lo yes man degli americani (cui, certamente, cont.ribuisce il clima denso di teorie cospiratorie e xenofobia, alimentato dalla frustrazione crescente di questi ultimi anni di stallo e aspettative deluse), e negli eventi che l'hanno preceduta. Ecco, allora, che in Occidente parte il cabier de doléances e ilpianto sull'ingiusto maltrattamento riservato alla democrazia (che qui innocente non è). E siamo alla fine. Tra affari e democrazia posticcia, la corruzione in Afghanistan è oggi un fenomeno di proporzioni e di gravità enormi. Si tratta di una situazione che è impossibile sottovalutare. E che va messa in conto quando si apre la retorica della democrazia e delle libere elezioni. Che resta vuota e finanche irritante se si finge di non capire che la corruzione endemica dell'apparato pubblico (621 casi nel 2008) è, in qualunque società ed in qualunque regime o sistema di governo, un fenomeno molto invasivo, che ha la capacità e lo scopo di penetrare ogni spazio ed interstizio della società: affari, informazione, politica, economia, etica pubblica, vita privata, etc. E di qui che si deve ripartire nel processo di democratizzazione e, prima ancora, di normalizzazione di un territorio, di una società, non a prescindere da tutto ciò. Per poi allargare e rendere effettivi i diritti, le 19

libertà, le opportunità di tutti e di ciascuno. Prima di tutto i diritti umani Si devono contare e pesare le teste, i giornali e le copie vendute, le televisioni, le radio, le associazioni, le libere riunioni, i gruppi di interesse, gli autobus, le strade, i treni, le scuole e gli studenti, i libri e i tribunali. Non basta dire che sono aumentati. Si fa presto a contare uno più di zero. Sono questi i presupposti che danno concretezza ai diritti umani e a tutti gli altri. Non si può andare alle elezioni sapendo che i signori della guerra dispongono di metodi di persuasione efficaci, che le donne non potranno votare, che in molti casi chi si reca alle urne rischia la vita (con effetti innegabili sulla partecipazione al voto, già circoscritta), che il tasso di analfabetismo nelle aree rurali è vertiginoso (oltre il 90%), che le condizioni di esistenza sono spesso disperate, aggravate ancora più dalla lunga guerra. E poi preoccuparsi della legittimità del voto, perché ad essere illegittimo è, prima di tutto, il sistema elettorale implicito in tutto ciò, che manipola e stravolge la teoria, i numeri, le speranze. La democrazia degli affari In conclusione, volendo fare nostra la finzione americana della guerra condotta a fini umanitari e di progresso, per l'instaurazione della democrazia, la strategia è bocciata.


Tòrnando invece alla realtà delle cose e alla necessità per il Governo americano di assicurarsi in Afghanistan un governo stabile e amico che consenta adeguato sviluppo agli interessi economici delle corporation petrolifere statunitensi (la costruzione di una rete di oleodotti) dopo il collasso delle forze progressiste nel 1992 l'inizio della storia, tuttavia, si colloca ben prima, negli anni settanta, quando gli Stati Uniti muovevano i primi passi in Afghanistan aprendosi la strada a suon di dollari, dopo le pesanti interferenze politiche negli anni della Guerra fredda - si può ipotizzare che qui l'uscita sarà lunga e certo non repentina. La strategia annunciata da Obama a West Point a fine 2009 fissa a luglio 2011 l'inizio della transizione in Afghanistan che sarà, secondo il Segretario di Stato Clinton, "responsible" e "conditions-based", "a real target for us to aim at." Quali sono queste condizioni? Secondo Jim Jones, National Security Adviser, si tratta di una strategia complessiva, "which will involve the Pakistanis doing things on

their side of the border, President (Hamid) Karzai really forming a cabinet and fighting corruption, fighting the war on drugs, and organizing training and equipping his Afghan national security forces to be more effective and more visible, and better integration of economic development so the Afghans can see a better ftiture for themselves." L'ottimismo certamente non scarseggia, priorità ed obiettivi li hanno chiari in mente. Manca l'autoanalisi. E non c'è soltanto lo stolto progetto di costruire una democrazia con la materia degli affari e degli enormi interessi strategici, con l'arroganza del liberismo e della retorica economica. Ci sono anche i conti elettorali da fare. Qualcuno già dice che un presidente che chiude con l'Iraq prima e con l'Afghanistan dopo può soltanto essere "a one-term president". Obama e prima ancora Bush devono avere pensato, come Gor bachev nel 1986: "We cannot leave in our underpants... or without any." Questa volta, più che mai, non si tratta semplicemente di restare in mutande.

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Servizi pllbblioi locali: e se dessimo la parola ai citta4illi di Bernardo Pizzetti

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a oltre un quindicennio il tema dei servizi pubblici locali (SPL) è oggetto di attenzione da parte del legislatore, con una alternanza di esiti più o meno felici nel perseguire riforme efficaci e che possano effettivamente corrispondere agli obiettivi - almeno formalmente sempre dichiarati - di introdurre maggiore efficienza nel comparto e nel consentire ai cittadini di godere di servizi pubblici di sempre migliore qualità a costi sostenibili. Le alterne vicende sono state conseguenza della più o meno accentuata capacità dellegislatore di saper cogliere, di volta in volta, lo "spirito del tempo" che consentisse di interpretare adeguatamente i bisogni della società traducendoli, appunto, in riforme. Un quindicennio di riforme Così è stato, ad esempio, quando fu approvata la Legge 481 del 14 novembre 1995, che ha contribuito in maniera significativa ad innovare e 21

modernizzare l'intero settore energetico attraverso l'istituzione dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas e la definizione di principi e norme stringenti sia nel definire i nuovi assetti concorrenziali del settore, sia di tutela degli utenti e che riusciva a coniugare le esigenze di modernizzazione dei settori energetici con l'affiato liberalizzatore di quegli anni. Con minor forza di impatto, furono successivamente approvate altre tre riforme settoriali: la c.d. legge Galli 1 , di ristrutturazione delle modalità organizzative e gestionali del servizio idrico, il decreto legislativo2 sul trasporto pubblico locale ed il Codice ambientale 3 che definisce, fra le altre cose, le norme di gestione del ciclo dei rifiuti. Tuttavia, alle riforme settoriali concepite e portate avanti dal legislatore si sono affiancati nel corso dell'intero quindicennio numerosi tentativi di riforma orizzontale dell'intero comparto dei servizi pubblici locali, a partire dall'assai dibattuto (e contrastato) disegno di legge c.d. "Vigneri".


Tentativi, sia detto senza intenti polemici, destinati inevitabilmente ad incontrare ampie riserve ed obiezioni, sia di merito che di sostanza, proprio perché privi del necessario legame fra necessità di modernizzazione (peraltro già garantita dalle singole riforme di settore) e "spirito del tempo". Sarebbe assai laborioso ricostruire qui i termini del dibattito che, a seconda dei casi, si è nutrito di molta ideologia, di roveili giuridico-amministrativi e di aspetti specifici connessi agli impatti sui diversi settori; potrebbe essere sufficiente limitarsi a rammentare che la critica maggiore è riconducibile fondamentalmente al fatto che tutti i tentativi hanno interpretato le indubitabili necessità di riforma del settore dei SPL privilegiando quasi esclusivamente il loro assetto organizzativo e proprietario, confondendo spesso privatizzazione e liberalizzazione. In altre parole, si è tentato di curare tutti i mali con il salasso, considerando (erroneamente) i SPL come un magma indistinto ed unitario.

rebbe stato già un significativo passo in avanti distinguere fra due grandi categorie di servizi pubblici: a) quelli dotati di infrastruttura (ad esempio acqua, metropolitane e ferrovie, segmenti del trasporto su gomma, impianti di smaltimento dei rifiuti), per i quali le caratteristiche di monopolio naturale rendono assai problematica l'introduzione di forme concorrenziali nella maniera eccessivamente semplicistica della sola previsione delle gare o della cessione della proprietà e b), i SPL non dotati di infrastruttura (ad esempio, farmacie comunali, assistenza sociale e domiciliare, spazzamento delle strade e raccolta dei rifiuti) per i quali, viceversa, i benefici di un sistema concorrenziale e liberalizzato potrebbero essere maggiormente diffttsi di quanto non risulti attualmente. L'aver accuratamente evitato di tenere conto di questa semplice e primaria diversità strutturale, può concorrere a spiegare parte dell'insuccesso di quei tentativi. Gli ultimi provvedimenti

Una semplice distinzione

Tale pregiudizio ha condotto mevitabilmente i proponenti le varie ipotesi di riforma ad immaginare che soluzioni adatte alle farmacie comunali sarebbero potute essere agevolmente replicate anche per l'igiene urbana od i trasporti pubblici. Evidentemente così non è. Senza entrare nelle specifiche questioni e peculiarità di ogni tipologia di servizio pubblico locale e volendo ipotizzare di mantenere l'approccio "orizzontale" della riforma, sa-

Ma spesso i percorsi della politica assumono traiettorie non perfettamente lineari e, in questo caso, la tenacia è stata premiata: da ultima, infatti, è intervenuta la Legge 133 del 6 agosto 2008 che sarà poi modificata dal Decreto Ronchi di cui parleremo fra poco. Anch'essa segue l'impostazione di fondo sopra descritta e, nel dettare disposizioni relative all'obbligo di gara per l'affidamento delle gestioni e/o per la scelta dell'eventuale partner privato della so22


cietà che risulterà affidataria delle concessioni di servizio pubblico secondo modalità che dovevano essere definite in un regolamento attuativo di cui si è persa ogni traccia, ha comunque provveduto ad abrogare le disposizioni contenute nell'art. 113 del TUEL che sarebbero potute risultare incompatibili con quelle appena definie nella legge medesima e che rappresentavano l'architettura portante del sistema di gestione dei servizi pubblici locali. In assenza del regolamento tuttavia, l'unico effetto finora prodotto è quello di accentuare ulteriormente la già diffrisa incertezza normativa del settore. Nonostante le evidenti difficoltà di riuscire a trovare la quadratura di una impostazione che risente di un eccessivo contenuto ideologico, qualche seme deve aver attecchito se anche l'attuale governo ha ritenuto di dover assumere e fare propria tale filosofia. E' stato infatti approvato dal Consiglio dei Ministri il decreto legge n. 135 del 25 settembre 2009 (decreto Ronchi) che, introduce, all'art. 15, modifiche sostanziali nell'assetto dei servizi pubblici locali per i quali, sia detto per inciso, non esiste alcun obbligo comunitario da assolvere a dispetto della denominazione4 assunta dal decreto medesimo. In attesa della conversione in legge (il cui iter al momento in cui si scrive questa nota, non sembra del tutto sgombro da ostacoli, anche sostanziali5), può essere utile esaminare alcune possibili ricadute della norma, in particolare sulle società quotate. Come noto, la nuova disciplina sostiene principalmente due cose: 1) che dbra in poi 23

l'affidamento dei servizi pubblici potrà avvenire solo attraverso una gara indetta o per la gestione del servizio, oppure sul capitale di una società mista (che avrebbe l'affidamento diretto) a patto che questa sia partecipata da un socio privato per almeno il 40% del capitale ed al quale debbano essere attribuiti con compiti operativi; 2) che tutte le gestioni cosiddette "in house" cesseranno il 31 dicembre 2011 o, in caso di società quotata, nel 2012. Una dismissione forzata

Fino ad ora, qualunque ipotesi di riforma del settore aveva escluso le società quotate, per non deprimerne il valore e non determinare un danno per gli enti locali ed i risparmiatori che detenevano azioni. Adesso, invece, si introduce una medita prospettiva. La norma prevede infatti che la società quotata possa mantenere la gestione del servizio fino alla scadenza naturale dei contratti (normalmente periodi pluridecennali), se e solo se entro il 2015 sarà ridotta fino al 30% la quota pubblica nell'azionariato, mediante gara o collocando i titoli privatamente presso investitori qualificati e operatori industriali. Al di là della ragionevolezza dell'intera operazione di dismissione forzata delle partecipazioni dei comuni su cui permangono forti perpiessità, è sulle modalità attraverso cui dovrebbe realizzarsi la cessione delle azioni che sorge più di un timore. Perché, infatti, obbligare l'ente locale a vendere le quote non sul mercato borsistico ad un pubblico indistinto tramite OPv


(come sarebbe normale ed opportuno, visto che l'azienda è quotata in borsa) ma, piuttosto, costringerlo ad individuare investitori e operatori industriali sia utilizzando "procedure ad evidenza pubblica" (cioè le gare), sia individuandoli "privatamente"? L'esperienza delle passate privatizzazioni italiane ed europee e la logica non aiutano a dipanare l'interrogativo, a meno che non siano già scritti i nomi degli acquirenti di così ricchi mercati monopolistici. La scelta agli enti locali

Apparentemente la scelta adesso passa agli enti locali che dovranno compiere valutazioni importanti sull'intero panorama dei servizi cittadini. O_uanto tali scelte siano legate ad effettivi progetti industriali di rilancio di singole aziende e di interi settori o quanto, al contrario, sarà determinato da sempre più stringenti esigenze di bilancio dei Comuni, sarà materia di dibattito futuro. Indipendentemente dall'aspetto eziologico della scelta, a norma vigente per le società non quotate in borsa, il Comune può decidere di mantenere la proprietà ed adempiere agli obblighi di legge mettendo a gara i servizi, rischiando così che una delle sue aziende ne perda la gestione. Oppure, come rammentato, può fare la gara per individuare il socio privato della società mista che, in cambio, avrebbe affidamenti diretti per molti anni. Mentre la prima ipotesi, anche se solo nel momento in cui si effettua la gara, può introdurre pressioni concorrenziali (e. potrebbe

essere utilmente sperimentata nello spazzamento delle strade e nella raccolta dei rifiuti), la seconda è esiziale e, vale la pena sottolinearlo, rappresenta il colpo di coda di un paradigma di pensiero che tutto il mondo si sta lasciando rapidamente alle spalle, cioè privatizzare senza liberalizzare. Se esistono capitali disponibili e così ansiosi di trovare un impiego, è opportuno che siano indirizzati verso iniziative imprenditoriali, nello stimolo all'innovazione, nel rimettere in moto investimenti e non, invece, verso la facile rendita privata di monopolio. Di ciò non si sente alcun bisogno. Tuttavia, è innegabile che questa possa rappresentare la scelta più semplice (e, probabilmente, obbligata) per l'ente locale, perché consente di evitare il rischio insito nella procedura di gara e, allo stesso tempo, di fare cassa. E quindi lecito attendersi che l'esito della cosiddetta riforma possa essere in gran parte proprio quello paventato, cioè la consegna di ricchi monopoli locali a non meglio identificati imprenditori privati, senza che ne risulti alcun beneficio di carattere concorrenziale, contrariamente allo spirito che, almeno formalmente, dovrebbe aver ispirato la nuova disciplina. La questione acqua

Il settore industriale su cui inciderà maggiormente il decreto Ronchi sarà quello dell'acqua potabile, elemento che deve giungere nelle nostre case in quantità sufficiente, di ottima qualità ed a tariffe ragionevoli; ove una sola di queste caratteristiche dovesse rapida24


mente declinare -peressere .sacrificata sull'altare del profitto d'impresa, ne conseguirebbero preoccupanti elementi di tenuta sociale in molte comunità. Il settore idrico ha la caratteristica di essere un monopolio naturale permanente in cui cioè, contrariamente a quanto avviene nel settore elettrico o nel gas, il cittadino non potrà scegliere né ora né in futuro fra diversi fornitori, perché non è possibile né conveniente immettere nelle condotte acqua di operatori diversi. Se non è tecnicamente possibile liberalizzare, è pertanto politicamente sconsigliabile privatizzare. Da ultimo una considerazione di ordine generale. Si è detto che tutto questo armamentario si regge sulla base del presupposto che esista nel nostro Paese una disponibilità di capitale privato tale da poter soddisfare contemporaneamente le esigenze della totalità dei servizi locali che verranno messi a gara a partire dal 31 dicembre 2011, termine in cui scadranno obbligatoriamente gli affidamenti diretti. A parte la non secondaria circostanza relativa all'individuazione dei soggetti (gli enti locali? Con quali ri-

sorse?) che dovranno sostenere finanziariamente il riscatto del periodo residuale della concessione che, è bene ricordarlo, è stata affidata nella maggior parte dei casi a termini di legge e che pertanto ha fatto maturare un diritto in capo agli attuali incumbent che ora viene a cessare, a scenario fermo risulta assai difficile immaginare tale disponibilità, a meno di non fare affidamento sul rientro dei capitali provocato dal c.d. "scudo fiscale", anch'esso recentemente varato dal Governo Berlusconi. Sarebbe veramente singolare se l'esito della "riforma" dei servizi pubblici fosse quello di consegnare un ricco monopolio e la gestione dei servizi pubblici a soggetti che per anni hanno tenuto i loro capitali all'estero eludendo le imposte e che ora potrebbero rivelarsi titolati a richiedere di corrispondere loro delle tariffe. Questa situazione giustificherebbe oramai anche un ricorso all'istituto referendario, in modo che siano i cittadini a chiarire quale assetto organizzativo sia più indicato a garantire quantità, qualità ed efficienza nella fornitura di servizi.

Legge 5 gennaio 1994, n. 36 D. L.vo 19 novembre 1997, n. 422 D. L.vo 3 aprile 2006, n. 152 che abroga ed integra il precedente D. L.vo 5 febbraio 1997, n. 22 «Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sen-

tenze della Corte di giustizia delle Comunità europee". 1122 ottobre 2009, la V Commissione del Senato (Bilancio) ha espresso parere negativo sull'art. 15 che riguarda, appunto, l'intero nuovo assetto dei SPL all'interno del decreto Ronchi.

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Da Trillo a Stoccolma. Uil premio Nobel all'ecollomia (del belle comulle)* di Norberto Patrignani

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el lontano 1275 il marchese del Monferrato Guglielmo "Il Grande" donò alle famiglie della zona di Trino Vercellese un bosco. I beneficiari del dono, che si chiamavano "partecipanti" ovvero che partecipavano alla gestione ed alla fruizione delle risorse provenienti dal bosco, stabilirono fin dall'inizio delle regole molto precise. Crearono un sistema di amministrazione collettiva che ha permesso di far sopravvivere fino ai giorni nostri il bosco. Esso comprende più di 500 ettari, oltre 400 specie diverse, ed i complessi architettonici dell'Abbazia di Lucedio, di Montarolo e di Madonna delle Vigne. L'idea alla base fu quella di costituire una entità, la "Partecipanza dei Boschi", proprietaria "pro-indiviso" del bosco. Il taglio degli alberi venne rigidamente regolamentato da un sistema a rotazione sopravvissuto

fino ai giorni nostri: ogni anno una zona di bosco viene scelta per il taglio e suddivisa in un determinato numero di parti, a ciascuna di queste viene assegnato un numero. Nel mese di novembre, tutti i "partecipanti" estraggono "a sorte" un numero, lasciando così al caso la decisione della zona dove ciascun socio avrà diritto di raccolta. Ecco perché dal 1991 il bosco è diventato Parco Naturale del Bosco "delle Sorti" della Partecipanza di Trino, unico caso dove la funzione naturalistica e scientifica del parco convive con la tradizione dell'antica "Partecipanza dei Boschi" (i soci al 2007 erano 1272), unico "patrimonio di comunità" ancora attivo in Piemonte. Oggi, visto dall'aereo, si presenta come una preziosa zattera galleggiante su un mare di risaie, ultimo brandello dell'antico bosco della bassa vercellese.

pubblicato sul quotidiano locale «varieventuali», Ivrea, 16 dicembre 2009.

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•Da Vercelli a Stoccolma 12 Ottobre 2009, per la prima volta nella storia, il Premio Nobel all'Economia viene assegnato ad una donna: Elinor Ostrom, della Indiana University, School of Public and Environmental Affairs. La sua opera è racchiusa in due libri fondamentali per chiunque voglia interrogarsi sui possibili scenari futuri per l'ambiente e la gestione dei beni comuni per le prossime generazioni: "Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action", Cambridge University Press, 1990 (trad.it . "Governare i beni collettivi", Marsilio 2006) e "Understanding Knowledge as a Commons. From Theory to Practice", MIT Press, 2006 (trad.it . "La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica", Bruno Mondadori, 2009). Quando il 12 Ottobre scorso si è sparsa la notizia di questo Premio Nobel, molte persone sono rimaste colpite dalla motivazione dell'Accademia delle Scienze di Svezia con la quale veniva spiegato il principale merito della Ostrom: "... per la sua analisi delle regole che disciplinano la gestione (governance), in modo particolare dei beni comuni, dei beni posseduti collettivamente. Elinor Ostrom ha dimostrato come la proprietà comune possa essere gestita con successo dalle comunità degli utenti. Essa ha .fidato l'ideologia convenzionale che afferma che i beni collettivi vengono gestiti male se non vengonoprivatizzati o affidati ad autorità centralizzate' 27

- - Infatti la Ostrom ha documentato per molti anni (oggi ha 76 anni) come varie comunità gestiscono le risorse comuni (le acque, le foreste, le riserve di pesca, ...) in modo equo e sostenibile nel lunghissimo termine. Finalmente il lavoro di una vita ha ricevuto il giusto riconoscimento: ha sfatato il mito della cosiddetta "tragedy of the commons", usato dagli inglesi durante la privatizzazione delle terre nel X\TIII secolo. Il mito sostiene che solo la proprietà privata riesce a gestire in modo sostenibile le risorse finite (e quindi ad evitare la "tragedy of the commons"). In tutto il mondo, questo premio alla Ostrom ha aperto un grande dibattito sulla speranza per un futuro basato sui modelli emersi dai suoi studi, sulla legittimità di una gestione di un "patrimonio di comunità" fondato sulla cooperazione invece che sulla proprietà privata (o "statalizzata" all'estremo opposto), sull'autogoverno invece che su grandi strutture centralizzate con costi amministrativi troppo elevati. Di fronte alla drammatica crisi sociale ed ambientale che l'umanità sta vivendo, finalmente si iniziano a proporre modelli nuovi (o antichi), ma collaudati sul campo da secoli. Una sfida per l'ortodossia economica che sostiene che l'unico modo per generare benessere per gli umani risieda nel mercato, nei suoi meccanismi di autoregolazione, e nella privatizzazione dei beni comuni. Elinor Ostrom ha dimostrato con le sue ricerche sul campo, dal Nepal al Kenya, dal Guatemala al New Mexico che "... quando


iparteclanti ad una comunità gestiscono unaforesta, hanno una prospettiva a lungo termine, essi controllano piùfacilmente e reciprocamente l'uso che viene fatto della terra, sviluppando regole di comportamento. E' una area che le teorie standard del mercato non toccano. Quello che abbiamo finora ignorato è quello che possono fare i cittadini e l'importanza del coinvolgimento reale delle persone interessate". In altre parole la Ostrom ha mostrato l'emergere di meccanismi di

controllo sociale che regolano l'uso dei beni comuni senza necessariamente ricorrere alla proprietà privata. Di fondamentale importanza è dunque il ruolo delle relazioni tra le persone e non le scelte individuali come sostenuto dai molti fanatici del libero mercato. Ad esempio, l'acqua (forse il più antico bene comune) la dobbiamo proprio privatizzare come sostengono i nostri governanti?

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Le rolaziolli tra sviluppo ecouomico e liugue. Itillessiolli per uu approccio post uloderllo* di Remigio Ratti

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ell'epoca della mondializzazione dell'economia e della società anche le relazioni tra economia e lingue vanno viste sotto una luce nuova: agli Stati nazionali si sovrappongono le entità istituzionali sovrannazionali; i rapporti di una lingua con la società e l'economia sono allora messi a confronto non più con quelli della nazione ma con quelli della globalità. Nel medesimo tempo, cambiano i processi relazionali perché questi rapporti passano da una dimensione territoriale a quella funzionale in un contesto di accelerazioni dei cambiamenti. Molte sono le domande che nascono di fronte a questi cambiamenti. Dapprima ci si può chiedere quale sia la legittimità e il posto dell'economista nell'analisi evolutiva delle lingue ed eventualmente nella definizione di politiche linguistiche.

Come definire la natura stessa della relazione tra economia e lingue? - Qali sono gli approcci scelti o da scegliere? - Quali paradigmi di ricerca adottare in uno scenario che tenga conto della globalità? - Quali indicazioni, convergenti o contraddittorie, scaturiscono dalle analisi empiriche? -

Crediamo e temiamo che le risposte a queste domande siano e restino ancora molto aperte. Per questo vi propongo alcune riflessioni personali dal mio osservatorio di economista-ricercatore appartenente alla minoranza svizzera di lingua italiana; un osservatorio 1 certo limitato ma con il vantaggio di prestarsi quale laboratorio d'analisi linguistica2 privilegiato per i tratti originali e post-moderni della storia di questo Paese.

L'auroreè docente di Economia internazionale presso l'Università di Friburgo e l'Università della Svizzera italiana, Presidente di Coscienza svizzera.

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L'apporto dell'economia allo studio sulle dinamiche linguistiche Al contrario della sociologia che ha sviluppato un ampio spazio di specializzazione oggi chiamato socio/inguistica, le altre discipline delle scienze umane e sociali - come l'antropologia, le scienze politiche e l'economia - hanno preso coscienza solo negli ultimi decenni e con minor enfasi dell'importanza delle lingue nel nostro convivere quotidiano e nello sviluppo della società. Franois Grin, economista e direttore di ricerche nel campo dell'economia dell'educazione e dell'economia del linguaggio nell'Università di Ginevra, ammette il ruolo ancora marginale dal profilo accademico degli approcci economici, ma nel frattempo ne constata l'esigenza e la pertinenza in particolare in materia di politica e di pianificazione dell'allocazione e della ridistribuzione delle risorse in materia di educazione e politica linguistica3 In primo luogo si riconosce come l'economia possa essere determinante nelle fortune di diverse lingue. Per esempio, nell'economia-modo mediterranea e poi atlantica le fortune di Venezia, di Lisbona, di Amsterdam, poi di Londra e di New York rappresentano nel medesimo tempo la fortuna e la decadenza di una società e, rispettivamente delle loro lingue. A livello micro-economico, per esempio nell'economia del libro, gli aspetti economici possono essere determinanti nel determinare il successo di un editore e quindi di un autore in relazione all'ampiezza del mercato lin.

guistico. Ne sanno qualcosa tutti gli autori appartenenti a una minoranza rispetto alla nazione o, com'è il caso odierno, rispetto alla globalità. In senso inverso e reciprocamente, le variabili linguistiche hanno un impatto sui processi e le variabili economiche. Per esempio le conoscenze linguistiche di una persona possono, in diverse situazioni, dar luogo a differenze e a disparità salariali non indifferenti e per lo più indicative della forza economica di una lingua. Oppure, a un livello macro economico, la consistenza demografica di un'etnia può determinare una domanda aggregata di beni e di servizi specifici legati a una determinata cultura e lingua. Questi aspetti delle relazioni tra economia e lingue giocano nelle due direzioni e si ritrovano poi quali considerazioni - sebbene non centrali soprattutto nelle politiche educative e di sviluppo delle lingue e di sostegno alle minoranze. L'approccio che si è andato maggiormente sviluppando è quello dell 'economia delle lingue, consistente appunto nell'applicare i paradigmi che vanno per la maggiore in economia e studiandone le possibili implicazioni per le variabili linguistihe. Abbiamo così dei filoni di ricerca nel campo del mercato del lavoro (relazioni tra lingue e reddito dei lavoratori), dell'attività produttiva considerando in particolare il costo delle lingue (formazione ed eventuale traduzione) o, ancora e soprattutto l'economia delle politiche linguistiche, dove l'economia rappresenta la dimensione dell'uso parsimonioso ed efficiente di risorse scarse. 30


Dal punto di vista-dello sviluppo - ne tra economia-e società-se le istitueconomico sociale di lungo termine - zioni sono definite democraticamenla dimensione che personalmente te e all'interno di un sistema orientapreferiamo - occorre tuttavia a nostro to alla valorizzazione delle forze inavviso fare riferimento e sviluppare dividuali e collettive. In questo senso nuovi approcci. In particolare ricor- anche dal punto di vista economico diamo le potenzialità dell'approccio le lingue e le loro culture sono consieconomico istituzionale, quello della derate come un elemento quadro e New Institutional Economics, consa- prese in considerazione quale fattore crato con l'attribuzione di due premi di stimolo allo sviluppo economico e Nobel a Ronald Coase nel 1991 e a sociale. Douglass North nel 1993. In queCon quali conseguenze? Tutto dist'approccio le lingue e la loro cultura penderà ancora da cosa si deve intensono considerate come elementi codere per sviluppo economico e sociale stitutivi delle istituzioni, definite coe soprattutto come si misura. Con il me le regole del gioco che una società PIL (prodotto interno lordo)? Verosisi dà e più precisamente come le nor- milmente no, per lasciar posto a indime, formali o informali, che gli uomi- catori multipli che meglio rispettano ni si danno per disciplinare i loro rapla qualità della vita e lo sviluppo soporti. Queste regole - quindi compre- stenibile. so quelle espresse da una cultura e linIl vantaggio allora è quello di vegua specifica - costituiscono degli indere la relazione tra lingue ed econocentivi agli scambi, siano essi incentivi mia in conformità ad altri paradigmi politici, sociali o economici. e in una logica sistemica che valorizzi Interessante è allora considerare - la globalità (unità nella diversità) e si è il pregio della "Nuova Economia distanzi invece dalla globalizzazione, Istituzionale"— come le istituzioni cointesa come processo a linguaggio stituiscano il quadro di valori e di unico. norme che reggond le organizzazioni, Lo svantaggio (ma anche la ricdefinite come ogni raggruppamento chezza potenziale) della lettura ecodi persone unite per perseguire collet- nomico-istituzionale consiste nel tivamente uno scopo determinato. Le carattere ancora embrionale dell'apimprese, le associazioni economiche e proccio e nella diffidenza da parte sindacali sono appunto delle organizdegli economisti abituati all'applizazioni che soggiacciono per defini- cazione - certo rigorosa, ma non zione alle norme istituzionali, entro le sempre pertinente rispetto alle ipoquali agiscono e, eventualmente, contesi di sviluppo durevole - dei paratro le quali si muoveranno per adedigmi neoclassici e dello strumento guare e rinnovare le norme. matematico. In principio non vi è, o non doLa forza di una lingua dipende vrebbe esserci, nessuna contraddizio- dalla forza della nazione e la forza 31


della nazione dipende dalla forza della sua economia. Un sistema di equazioni tradizionale ancora necessariamente vero? Nella fase storica degli Stati-nazione, cosi come uscita dall illuminismo del X\TTII secolo, la lingua ha spesso giocato un ruolo unificante e la sua traiettoria si è quindi legata alla forza dello Stato-Nazione. Quasi parallelamente, con l'avvento della rivoluzione industriale che dall'Inghilterra ha poi raggiunto il continente europeo, gli Stati-nazionali hanno poi costruito la loro forza attorno allo sviluppo della loro economia nazionale e dei rapporti economici con le altre regioni. In sintesi - per almeno due secoli - il divenire di una lingua (sovente correlato a una forte tematica identitana) sembra essere stato legato a quello della propria economia di riferimento nazionale. La dimensione del colonialismo economico, con le proprie implicazioni linguistiche, è una delle manifestazioni più forti di questo paradigma accanto alle derive delle politiche nazionalistiche in materia culturale e letteraria. Queste manifestazioni non cancellano tuttavia una realtà linguistica cresciuta in generale nella tradizione nazionale e indubbiamente beneficiaria (o penalizzata) dallo sviluppo economico. Un'importante eccezione è quella della Svizzera dove, al contrario del Belgio, la nazione è stata costruita attorno ad un unico sentimento pur essendo un Paese multilingue. Come vedremo più tardi, la Svizzera può co-

stituire un modello post moderno, utile anche nella nostra ricerca delle reciproche relazioni tra economia e lingue. Ma in che misura quest'equazione tradizionale è stata vera o rimane vera nelle contingenze odierne di un mondo globalizzato? Le analisi sui processi di globalizzazione 5 del noto sociologo tedesco Ulrich Beck, della London School of Economics, portano a smantellare questo sistema di. equazioni o comunque a smantellare le logiche tradizionali di questo processo circolare tra economia, società e istituzioni (dove, lo ripetiamo, inseriamo anche le lingue). Infatti, la globalizzazione, secondo Beck, è il processo dialettico in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità sono condizionati e connessi trasversalmente da nuovi attori transnazionali e dai loro orientamenti (quindi dalle loro identità e reti). S'infrangerebbe così l'alleanza storica tra economia di mercato, Stato sociale e democrazia mentre la globalizzazione si traduce in nuove forme di governanza e di regole del gioco. Se forme di globalizzazione sono già state presenti nel passato - ricor,, diamo i economia-mondo di Ferdinand Braudel - la novità sta nell'auto percezione individuale della globalità, nella consapevolezza complessiva delle nuove sfide ecologiche e trans cuiturali, nell'apparizione di nuovi attori transnazionali e consistenti dimensioni ftinzionali di concentrazione econo mica. 32


I rapportidiunalingua con la società e l'economia sono allora messi a confronto non più con quelli della nazione ma con quelli della globalità. Nel medesimo tempo cambiano i processi relazionali poiché questi rapporti passano da una dimensione territoriale a quella funzionale. Con quali conseguenze? Questo significa che le lingue che non possono dirsi trainanti nel processo di gbbalizzazione dell'economia e della società sono destinate a indebolirsi e a uscire dal gioco? E certamente probabile e il mondo sembra darlo per scontato. Ma, una nuova lettura economica territoriale e istituzionale lascia anche intravvedere nuove possibili risposte. Le lingue a confronto con il funzionalismo economico e la globalità: verso nuovi paradigmi? Una risposta delle lingue ai processi di globalizzazione passa attraverso la presa di coscienza - caratteristica dell'approccio economico istituzionale - del valore di una lingua e della sua cultura quale istituzione quindi quale assieme di valori e norme che regolano il comportamento degli uomini di una specifica società, oggi non più identificabile necessariamente con quella dello Stato. Il problema delle sfide e dei confronti di una lingua con realtà e dinamiche emergenti non è una novità ma nuova può essere la risposta nell'epoca della rivoluzione informatica e delle comunicazioni che di fatto de-territorializzano il campo d'azione. 33

Le risposte tradizionali sono state quelle di legare, con vicende alterne, una territorialità linguistica alla territonalità dello Stato, anche se spesso a scapito delle minoranze linguistiche. Un'altra risposta, che già supera la territorialità geografica stretta, è passata e passa - com'è il caso della francofonia - attraverso la somma di culture territoriali separate ma unite dalla stessa lingua, quale superamento del colonialismo. Oggi la risposta funzionale potrebbe trovare un nuovo paradigma, quello della prossimità. Una prossimità che non è più da intendersi come prossimità geografica ma sempre più come prossimità relazionale. Intesa nella sua accezione scientifica moderna 6 la prossimità assume i contorni di un trittico da leggersi attorno ad una prossimità geografica, una prossimità organizzativa e una prossimità istituzionale; una prossimità intesa a costruire nuove forme di territorialità 7, firnzionali e non più territoriali. In che misura la lingua in senso lato è partecipe della costruzione delle nuove prossimità? Per rispondere dobbiamo chiaramente definirle. La prossimità istituzionale esprime l'adesione degli attori a uno spazio comune di rappresentazione 8 di modelli e di regole di pensiero e di azione. La prossimità istituzionale può tradursi in un linguaggio comune tra attori che condividono le stesse rappresentazioni, le stesse risorse cognitive, che permette loro di coordinarsi meglio. Secondo questa definizione


appare evidente il ruolo della lingua quale spazio di sostegno9, quale campo base per questo tipo di prossimità. Come già citato, la Svizzera rappresenta un esempio - anti-storico e oggi post moderno - di una nazione che nonostante le quattro lingue non è una federazione multiingue (non vi è una vera e propria nazionalità territoriale legata alle lingue) e dove la prossimità istituzionale, nel senso da noi definito, ha sempre giocato un grande ruolo10. L'esempio più forte riportato alla realtà italiana c'è proposto da Piero Bassetti, già Presidente dell'Unione delle Camere di commercio italiane e oggi Presidente dell'Associazione Giobus et Locus che da dieci anni promuove il concetto d'italicità11 "L'italicità esprime la dinamica di una comunità transnazionale che accomuna gli italiani oriundi, l'italofono, gli italofili e tutti quelli che, senza una goccia di sangue italiano, hanno però abbracciato i valori, stili di vita e modelli di quella 'Italian way of life' diffusa nel mondo dall'espansione dell'economia italiana di questi ultimi decenni. L'italicità è una rete di persone sparse in tutto il globo - rete che comincia a riconoscersi e a comunicare" 12 . In quest'accezione gli italici nel mondo sarebbero oltre duecento milioni. La prossimità d'organizzazione è la capacità di mettere in comune delle informazioni e del sapere frammentario attraverso interazioni tra organizzazioni. Essa può essere letta sia come una relazione di similitudine nel senso che condividono uno stesso .

sapere - che di appartenenza, nel senso di appartenere a uno spazio d'interazioni effettivamente avvenute. Qal è allora il contributo di una lingua e di una cultura, per esempio di quella italiana, alla costruzione di questa prossimità organizzativa, quale nuova forma di territorialità 13 Un valido esempio storico può essere visto nella rete degli istituti di cultura italiana nel mondo 14 , rete che tuttavia si è confrontata con le nuove sfide. Inoltre, anche qui troviamo nuove potenzialità se è vero che lo strumento odierno di questa prossimità organizzativa si trova nei media elettronici e nella comunicazione multimediale. Non esiste purtroppo una rete televisiva in italiano a diffusione mondiale - com'è il caso per le reti mondiali anglofile (quali CNN e BBc),Tv5 (francofona) e SAT i (germanofona), ma si stanno sviluppando una serie dfferte che vanno orientate strategicamente, come RAI Internazionale, la piccola ma vivace Comunità radiotelevisiva italofona15 - che lo scorso mese di ottobre ha tenuto in Albania un Convegno "Italicità e media nell'Europa sud orientale - e soprattutto si fa spazio al 'Web, alla rete internet 16 . Si tratta di un ambito di cui si ha poca coscienza17, fatta eccezione per Radio Vaticana. Quest'ultima, quale strumento della chiesa cattolica universale, può metodologicamente essere presa ad esempio nella costruzione del trittico della prossimità e nella sua forza rispetto alla globalità; ?

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Le reciproche relazioni tra sviluppo economico e lingue sono stravolte dalla globalizzazione, ma si possono dimostrare nuove potenzialità anche per le lingue non dominanti nella scala mondiale. In particolare, l'approccio economico-istituzionale, mettendo in risalto il lungo termine e valorizzando il capitale relazionale e normativo delle lingue e della cultura offre a quest'ultime una possibilità di intravvedere nuove piste di risposta alle sfide della globalità 18 . Con l'avvento di nuovi attori sovrannazionali - e il conseguente declino delle sovranità e delle economie territoriali nazionali -, la forza di supporto rappresentata dall'economia va

ritrovata in nuovi spazi funzionali e a geometria variabile. La relazione tra economia e forza di una lingua passa attraverso un nuovo paradigma che si può intravvedere nel trittico della prossimità, geografica, istituzionale e organizzativa. Le implicazioni di politica linguistica e culturale di tale paradigma sono strategicamente sostanziali ed esigono un riorientamento e un coordinamento delle pur valide componenti che già possono dirsi fondamentalmente orientate all'italicità, al "sentire italico", la coscienza di vivere da tempo in una società mondiale, costituita dall'insieme dei rapporti sociali che non sono necessariamente integrati nella politica dello Stato nazionale o non sono da essa determinati o determinabili.

Relazione tenuta il 25 novembre 2008, alla Giornata di studi organizzata dall'Accademia della Crusca per "2008: Anno internazionale delle Lingue", Salone dei duecento, Palazzo Vecchio, Firenze. RArrI RErvncIo, Leggere la Svizzera - Origini e divenire del modello elvetico. Saggio politico-economico, Milano-Lugano 2005. 2 DARDANELLI PAOLO, Multi-lingual but Mononational - Exploring and Expanding Switzerland's Exceptionalism, in CAIVIINAL MIGUEL e REQuEJO FERRAN (eds), Democratic Federalism andMultinational Federations, Institut d'Estudis Autonòmics 2008. La Svizzera è infatti un Paese multilingue sono quattro le lingue nazionali, il tedesco, il francese, l'italiano ed il romancio, di cui le prime tre sono lingue ufficiali - ma nello stesso tempo la Svizzera non è un Paese multinazionale. Questo significa che la nazione non si è costruita attorno alle lingue - non vi sono quattro nazioni linguistiche - ma la nazione è il frutto di un sentimento costruito nel corso ormai di più secoli in una territorialità fatta di sfide, di intraprendenze e di dipendenza rispetto alle forze esterne e di equilibri rispetto alla dinamiche interne.

GRIN FRANOIS, Language Planning andEconomics, in Language Planning, "Current Issues in language Planning", Vol 4, N° 1,2003. NORTH DOUGLASS, Institutions, Institutional Change andEconomic Performance, Princeton N.J. 1990. BEcK ULRICH, Was ist diegiobalisierung? Irrtùmer des Globaljsmus - antworten auf Globalisierung", Frankfurt am Main. Tradotto in italiano con il titolo, Che cosè la globalizzazione. Rischi eprospettive della società planetaria, Roma 1997. 6 RATTI FIORENZA, Il concetto di prossimità nell'economia spaziale dell'innovazione, Editrice Sapiens, Lugano 2002. "Nelle scienze umane, e in particolare per il geografo, la 'territorialità' è un paradigma che esprime una relazione complessa e dinamica tra un gruppo umano ed il suo ambiente... La territonalità di un Paese è quindi una costruzione, un fatto socio-culturale, economico e politico (non riconducibile a un fatto fisico), nonché un procedimento complesso attraverso il quale una società crea una propria capacità di risposta e

CONCLUSIONI

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di gestione - verso l'interno e verso l'esterno - del mutamento" in RAm, Remigio (2005), op.cit. 8 BAILLY ANTOINE, Les représentations de l'espace - une approche cognitive, in AURAY e ali, Encyclopédie d'économie spatiale, Economica, Paris 1994. Rmri REÌvUCIO, L'espace régional actf une ré ponseparadigmatique des régionalistes au débat localglobal", in «Revue d'économie régionale ert urbaine», n 4, Paris 1997. 10 Nella reputazione e nella definizione pur unitaria della piazza finanziaria svizzera Zurigo-Basilea, Ginevra o Lugano hanno potuto ognuna definire un proprio spazio di mercato di cultura anglotedesca, francofona o italica: Zurigo con uno spazio verso nord, da Londra a Berlino; Ginevra definendo il suo spazio dalla Francia alla penisola iberica; Lugano all'Italia e al Mediterraneo. La crisi finanziaria attuale e i suoi strascichi sembrano dimostrare invece gli effetti più dirompenti laddove il primato è sfuggito a questa realtà di prossimità. 11 Parola non ancora entrata nei dizionari. L'Accademia della Crusca sta studiando il caso. 12 ACCOLLA PA0LIN0 e d'AqtIINO NICCOLÒ (a cura di), Italici. Ilpossibilefi4turo di una community globale - Incontro con Piero Bassetti, Giampiero Casagrande Editore, Lugano/Milano 2008. 13 RArri REMIGIO, Promuovere nuove forme di territorialità, in, MACCANI, Lucia e VIOLA, Marco,

Comunicare l'identità - Una strategia di valorizzazione delle minoranze linguistiche, Franco Angeli, Milano 2008. 14 Altri enti e iniziative andrebbero ricordati. Non lo facciamo poiché non rientra nell'ambito di questa relazione-conferenza. 15 www.comunitaitalofona.org 16 Vedi, per esempio, i siti a carattere globale di News Italia Press, che propone notizie e approfondimenti di tipo italico (ww.newsitaliapress.it ) o quello di Italradio, che diffonde 24 ore su 24 sperimentalmente, "in streaming", prodotti radiofonici in lingua italiana (http://portale.italradio.org ). 17 RAj Internazionale ha recentemente tolto la produzione in altre lingue che non siano l'italiano; il sentire italico avrebbe invece compreso la produzione e diffusione anche in altre lingue di messaggi italici. 18 In questa direzione troviamo il contributo di BURCKHARDT TILL (2008) La langue commefacteur de développement régional - Une lecture économicoinstitutionnelle de la territorialité et dii multilinguisme dans l'évolution du secteurfinancier en Suisse, contributo presentato al Colloque de 1'ASRDLF (Association de science régionale de langue franaise) di Rimouski 25-27.8.08 (Québec, Canada).

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queste istituzioni

n. 155 ottobre-dicembre 2009

In ricordo di Ronzo orzi* di Beniamino de'Liguori Carino

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entre questa mattina andavo a Verona per partecipare alla cerimonia fimebre, pensavo a cosa avrei potuto dire per accogliere la richiesta che la signora Angela Zorzi mi aveva fatto ieri, di ricordare suo padre anche per la sua attività al fianco di Adriano Olivetti, in particolare alle Edizioni di Comunità, cosa avrei potuto dire per esprimere l'autentica riconoscenza e la profonda affinità che lo legavano alla Fondazione Adriano Olivetti. Pensavo che tutti queUi ai quali mi sarei rivolto certamente conoscevano già l'importanza e la straordinarietà di quell'esperienza perla storia culturale, e non solo, dell'Italia. Pensavo che tanti altri avrebbero avuto parole certamente più giuste e avvertite per parlare di quella storia, più commosse e intime delle mie, che ho potuto incontrarlo solo due volte, per raccontare la sua vita. Pensavo e avevo paura, paura che l'unico modo per ricordare

quella parte di vita del dottor Zorzi fosse, per me, quello di parlare in modo un po' retorico, e certo inopportuno, di ciò che conosco meglio, di Adriano Olivetti e del pezzo di strada che fecero insieme. Ho però riletto il discorso che proprio Renzo Zorzi pronunciò per ricordare Adriano Olivetti in occasione del tngesimo dalla sua scomparsa, discorso pubblicato poco tempo dopo dalle Edizioni di Comunità in un piccolo libro commemorativo pieno di suggestioni. E' stato così proprio il dottor Zorzi, con le sue parole appassionate e oneste, a sollevarmi da quel timore e a dare, credo, consistenza a un ricordo fatto di alcuni volti della sua avventura al fianco di Adriano Olivetti negli anni cinquanta. L'impegno e la dedizione, la condivisione profonda e consapevole di un progetto insieme ambizioso ed essen-

Contributo già pubblicato sul Sito della Fondazione Olivetti, www. fondazioneadrianolivetti.it

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ziale come quello di Comunità, il saper riconoscere di quel progetto gli aspetti meno ovvi, quelli non immediatamente riferiti agli indispensabili mandati teorici e tecnici, il saper, al contrario, cogliere anzitutto il nucleo sentimentale e l'affiato religioso che caratterizzano l'ideale comunitario; in tutti questi segni che il dottor Zorzi restituisce nel ricordare Adriano Olivetti in quelle pagine, mi pare ci sia la qualità dell'uomo prima ancora che la misura dell'intellettuale, di cui non sono in grado di parlare mentre altri lo hanno fatto e lo faranno più propriamente e con maggiore diritto di me. C'è in quello scritto la capacità cli sintonizzarsi con i risvolti più intimi e complicati da cogliere dell'uomo e delle sue necessità, quelli in fondo più preziosi quando si immagina e ci si impegna per il suo riscatto. Ho incontrato il dottor Zorzi due volte, perlomeno sono due quelle che io posso ricordare. La prima fu in occasione delle celebrazioni per il centenario delle nascita di Adriano Olivetti, ad Ivrea. La seconda è stata qualche anno fa nella sua casa di Albisano per un'intervista che mi concesse mentre lavoravo a una piccola ricerca sulle Edizioni di Comunità. La sua disponibilità e la commozione nel parlare, nel raccontare e ricostruire una parte così breve per quanto intensa della sua vita professionale, mi ha dato allora la misura di quanto quella vita passata fosse stata per lui significativa anche negli anni e nelle cose che fece dopo, sollevando allo stesso tempo degli interrogativi che, per la prima volta, mi misero di fronte all'esperienza di

Adriano Olivetti al di là e oltre la persona di Adriano Olivetti. Allora oggi, che anche lui se n'è andato e la signora Angela ha domandato che in questa triste occasione si ricordasse l'impegno di suo padre, l'impegno di Renzo Zorzi con Comunità, mi sono chiesto e mi chiedo cosa resta, cosa resta che può testimoniare ancora e nel tempo a venire, l'esperienza dei comunitari e l'esperienza di Renzo Zorzi che, come lui stesso mi disse, a quel progetto dedicò la giovinezza. Viene insomma da chiedersi quello che lui stesso si domandava nel 1960 e che, questa mattina, mi ha chiarito il senso di questo ricordo:" in un momento come questo in cui non si può sfuggire a un esame di coscienza e a un chiarimento di intenzioni, sentiamo la necessità di spiegarci quale sia stato il senso della sua vita e della sua opera, in quale spirito le sue iniziative debbano continuarsi e, se sarà possibile, crescere; perché dalla trama fitta di tanti interessi e direzioni di lavoro qualcosa debba essere salvato alle nuove generazioni e allo sviluppo civile del Paese Se quest'identità tra l'esperienza di Adriano Olivetti e la vita di Renzo Zorzi con e dopo di lui è dunque autentica come appare, è vera, se, come scriveva lui stesso, "ciò che fa di un uomo un uomo è l'intelligenza del cuore", mi permetto oggi di ripetere in nome di quelle nuove generazioni, della mia che forse come mai nessun'altra prima si interroga con angoscia sul senso da dare al suo impegno per il futuro, e di ripetere in nome

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della-Fondazione Adriancr Olivetti che per missione in quella direzione si adopera anzitutto attraverso la tutela e la riformulazione del patrimonio che da quella storia le arrivano, anche quello editoriale, mi permetto di ripetere, dicevo, quello che in un

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altro giorno triste di esattamentecinquant'anni fa, Renzo Zorzi scriveva guardando davanti a se, che "il suo lavoro, la sua testimonianza, conoscerlo, nel nostro, nel mio caso, è l'onore della nostra vita, è la speranza di non averla perduta".


queste istituzioni n. 155 ottobre-dicembre

2009

dibattito

Il ctso del. Partito democratico. Iliterviste III redIzi011e (dopo l'editoriale deI 11. 152)

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editoriale pubblicato sul numero 152 di questa rivista, Il caso del Partito democratico, hapostopiù di una questione sulle ragioni, sui propositi, sulla nascita, sulle incertezze del Partito democratico. Nel quadro, ovviamente, della crisi economica mondiale e di quella cronica del sistema politico italiano. Crisi, quest'ultima, del Paese, ma che ripropone in ambito nazionale una serie di processi politici che originano e agiscono a livello europeo. L'editoriale era, in realtà, quel che rimaneva di un'ambizione più grande: quella di seguire dall'interno e con indiendenza la vicenda di un Partito ritenuto di grande importanza per darefrnzionalità ed attendibilità minima alle istituzioni della democrazia italiana. La nascita del Partito democratico ha avuto una gestazione troppo lunga, per poi subire una drastica accelerazione. Egià questo stimolava ad un'indagine particolare. Di tale ambizione iniziale è prova la lettera inviata a Walter Veltroni e Dario Franceschini il 6 maggio 2008. Siproponeva loro una ricerca 'parteczpante" sul Partito Democratico in fieri, per affrontare il compito di una prima valutazione de/sistema politico come si andava assestando in Italia, del qua/e ilPD è certo la maggiore novità del sistema, anche se di possibile grande volatilità. La metodologia proposta per la ricerca era di tipo interdisczplinare, per evitare qualsiasi intrappolamento in logiche disczplinari precise, politologiche e sociologiche (e le loro vulgate insopportabili). Cercando una risposta alla domanda su "democrazia (e politica) oggi", sembrava importante interpellare il Partito Democratico su tre questioni di ampio respiro, così sottoposte all'attenzione di Ve/troni e Franceschini. L'Europa e il ruolo dei partiti dei partiti europei Ilposizionamento del PD nell'area dei partiti europei richiede unaforte capacità di iniziativa. Le elezioni europee del 2009 avrebbero potuto e dovuto essere certamente occasione per verificare, avendo una maggiore disponibilità di tempo, la tenuta ed ilprogresso del PD, pur sapendo che avrebbero richiesto una forte concentrazione 40


sui problemi dell'Europa oggi, sottraendo il tema agli addetti ai lavori. Lo scarso favore verso l'Europa, accentuato dalla recente politica senzafantasia per il rientro nei parametri di Maastricht, induce ad una considerazione approfondita dell'agenda europea (come sarà applicato il Trattato di Lisbona? Sarà possibile un "bilancio europeo" e in che misura è ragionevole la prospettiva di "euro-bonds", mirati a precisi obiettivi di cui parla Tremonti? Quale revisione del Trattato di Schengen in ragione del coordinamento delle politiche sull'immigrazione? La questione Balcani; etc.). E induce anche e soprattutto ad una aggiornata visione di medio periodo. Dalla scomparsa delle generazioni dei grandi europeisti, l'Europa si è appiattita sul basso profilo, al di là del giusto e del ragionevole. Nei termini in cui ne hanno scritto due "scienziati sociali" importanti come Anthony Giddens e Ulrich Beck. Cosa immagina dipoterfare il PD? La "petite democratie" e l'attenzione ai problemi delle comunità concrete Il grado e la misura del rapporto con il territorio è un test importante, soprattutto quando il territorio si integra con la Rete epuò consentire qualcosa di più e di molto diverso dal cosiddetto "radicamento" di concezione tradizionale. Si tratta di sperimentare forme di democrazia deliberativa attraverso un partito "animatore" delle comunità locali. Primarie e referendum fra gli &critti, o meglio fra i cittadini, dovrebbero essere momenti cruciali della democrazia promossa dal PD. Sulpunto è interessante verificare le prospettive del partito. L'alterità governo-partito e il modo di fare opposizione Una questionefondamentale sulla quale il PD non ha avuto modo di rjflettere anche perché non c'è stato il tempo di affrontarla compiutamente - è l'alterità necessaria tra governo epartito. Paradossalmente, questo problema è accentuato in un sistema maggioritario e deve trovare le sue regole. Il partito, quando è maggioranza, non può appiattirsi al mero ruolo di sostegno parlamentare del governo. Népuò ovviamente esserefattore di confusione. Di qui l'attenzione alle necessarie distinzioni. Per esempio,fra piattaforme elettorali e programmi di governo. In quest'ordine di idee, si pone la questione di comefare opposizione e di come organizzare il 'governo ombra" Non è soltanto un problema di comportamenti parlamentari né di rapporti con l'Esecutivo di maggioranza, ma di "macchina" per riflettere eprodurre azioni politiche. E, anche qui, un governo ombra non rappresenta compiutamente la capacità propositiva del partito. Insomma, si tratta di reagire puntualmente, con gioco di rimessa, all'azione della maggioranza; ma si tratta, contemporaneamente, di incidere sull'agenda politica. Anche la "macchina di governo ombra" è, di conseguenza, una macchina difficile da costruire che va ben studiata. Questi sono ipunti sui quali avremmo voluto ragionare insieme, magari aggiungendone degli altri, come, per esempio, "quale processo diformazione della classepo41


litica?" e «quale processo di apprendimento/intelligenza della politica da offrire ai cittadini?' La lettera non ha avuto risposta (segno, per lo meno, di una assai malconcia organizzazione di staff). Certo, quell'idea di indagine appare oggifondata su aspettative (una fra tutte, la durata nel tempo dell'incarico assunto dai due destinatari) che si sono rivelate molto fragili. Tanto da andare di concerto con un'altra possibile zpotesi balenata allora. considerare il processo di formazione de/partito da/la parte dei circoli. IVIa, da qua/e attendibile mappa dei circo/i partire? Come scegliere un campione rappresentativo per poi cercare di stabilire contatti attendibili? E ancora. malgrado l'idea che i circoli dovessero essere la realtà conseguente all'adesiòne di tanti cittadini alle primarie" del 2007, nessuno veramente è apparso in grado di raccogliere e tenere informazioni sulla consistenza dei circoli medesimi. IVieno che meno la stampa, la cui informazione politica è in mano quasi esclusivamente ai giornalisti parlamentari, tzpicifrequentatori del Transatlantico, raccoglitori professionali di notizie sul «chi sta con chi", cioè parte integrante del circolo vizioso del degrado del l'informazione e dell'analisi politica. Capire che cosa sono i circoli significa andare in giro per l'Italia a cercare persone, interrogarle, verficarne le iniziative, sentire rumori e così via. Tutto sommato, un'inchi estafaticosa e costosa senza avere qualche speranza di interessare il grande pubblico. Nemmeno con lo scoop eventuale della scoperta che «i circoli non ci sono' Per concludere: il caso del Partito democratico rimane per noi importante. Dunque, scriviamone. Epoi chiamiamo a discuterne collaboratori e amici della rivista che siano nel Partito o che guardino ad esso dal di fuori, con qualche empatia, sia pure preoccup ata. I temi dell'editoriale sono molti: conviene quindi fare rinvio al testo pubblicato sul n. 15212009 della rivista. Si poteva organizzare il dibattito in redazione suggerendo di concentrarsi su alcuni argomenti, ovvero lanciando un libero brainstorming. Così abbiamofatto, considerando gli interventi una sorta di "interviste" a persone interessate al PD all'interno o all'esterno della vita del partito. Gli interventi che pubblichiamo sono stati rivisti dagli autori (Battaglia, Biasco, Chimenti, Corsini, Gentiloni, Pizzetti, Ristuccia, Zanda), con successivo editing della redazione.

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Paolo Corsini IlPd dopo i/Pd La situazione attuale del Partito democratico va collocata su di un orizzonte più ampio, quello della crisi del sistema dei partiti, ormai irreversibile. E della crisi della società italiana, della stessa democrazia. Uno dei mancati impegni del Partito democratico è stato quello di non essere riuscito ad inverare l'aggettivo "democratico" in modo tale da autenticare il sostantivo. Eppure la costituzione del Partito democratico va ricondotta ad un'intuizione largamente condivisibile, un'istanza fondata, ovvero la prospettiva democratica sia a livello internazionale che nazionale. Unica ed irrinunciabile proiezione possibile per dare soluzione alle grandi fratture funzionali (le cleavanges di Stein Rokkan) che caratterizzano le contraddizioni dello sviluppo della società italiana, ad alcuni temi rilevanti quali quelli del lavoro, dei diritti, delle istituzioni di governance, delle liberalizzazioni e della concorrenza. Se si prende in considerazione la politica italiana e la sua storia, non solo quella repubblicana, c'è un anello mancante di grande rilievo: l'Italia non ha mai conosciuto un esperimento compiuto di riformismo dispiegato, definito. Questa considerazione vale a maggior ragione oggi se, come da più parti si sostiene, siamo in presenza di un processo di progressiva alterazione del principio democratico. Non solo per quanto concerne le istituzioni parlamentari e gli organi costituzionali, ma anche per quanto attiene alla vita eco43

nomica e sociale. (Laura Pennacchi, ad esempio, mette bene in luce le problematiche attinenti il sistema di protezione sociale nel suo recente volume La moralità del we/fare). A ciò si sommano tre altri paradossi significativi: il liberalismo si rovescia nel berlusconismo; il socialismo si traduce in una tendenziale e talora diffusa propensione ad una sorta di radicalismo laicista; la cultura di ispirazione religiosa nell'esperienza politica si evolve - soprattutto in presenza della sostituzione all'associazionismo da parte di alcuni movimenti - in una pratica di "riconquiste" fondamentaliste, con una chiara parabola di passaggio dalla teologia del laicato alla ecclesiologia del papato. Rispetto a tutto ciò il Partito democratico vive anch'esso una stagione di contraddizioni. Ci sono stati, continui ondeggiamenti sulle grandi questioni sociali, si è disegnato un profilo identitario debole (il rapporto con la Cgil e con i movimenti rivendicativi; le prospettive di riforma elettorale rispetto alle quali convivono nel partito posizioni contraddittorie e inconciliabili; la tematizzazione del rapporto tra pubblico e statale; la questione dell'autosufficienza culturale ed elettorale). Tutti temi sui, quali si registra un'iniziativa dall'andamento sinusoidale, con la conseguenza di una linea politica irriconoscibile e discontinua. E stata rimossa e liquidata con eccessiva fretta la grande stagione dell'Ulivo, che aveva prodotto alcuni risultati significativi sotto il profilo del dispiegamento di una democrazia compiuta. L'Ulivo aveva rimosso il fattore K, aveva decretato la fine del-


l'unità politica dei cattolici, aveva promosso il bipolarismo e aperto la strada ad una democrazia competitiva, determinando la chiusura di un'esperienza pluridecennale retta sulla democrazia bloccata. Detto questo si deve, però, guardare alla prospettiva del Pd dopo il Pd, non arrendersi ad una fine fallimentare, irrimediabile. Se si cercano possibili risposte e ftioriuscite, occorre ripensare a come nasce il Pd. Tre mi sembrano le caratteristiche di fondo. Prendiamo le mosse anzitutto dal partito post ideologico e post identitario, o delle plurime identità storiche, che tuttavia rischia di diventare il partito post valoriale. In ragione del fatto che tende a sommare le debolezze delle due principali culture politiche che lo compongono. La prima, è l'incapacità da parte della tradizione cattolico-democratica di affrontare in modo adeguato la sfida portata dalla teoria del relativismo e la sfida dovuta al processo di "sacralizzazione delle libertà". Il cattolicesimo democratico è soprattutto una teoria e una pratica della laicità dello Stato e della modernità. Stiamo altresì vivendo il tempo che potremmo definire della "sacralizzazione della religione delle libertà", dopo i tempi della sacralizzazione dello Stato, della nazione, della classe. Di fronte a questo il cattolicesimo democratico sembra muto, si ritrae. L'altra debolezza è quella della tradizione socialista, socialdemocratica, che ha esaurito la propria spinta non per fallimento bensì per compimento. E quindi difficile definire un partito che è post ideologico e che deve

trovare una identità valoriale culturalmente riconoscibile. Peraltro in presenza di uno sfondamento, persino antropologico, da parte del berlusconismo. L'ultimo libro di Aldo Schiavone, L'Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, rende conto in modo convincente di quanto sto sostenendo. Berlusconi sfonda facendo leva su un impasto ideologico fatto di privatismo, anti-comunismo, antistatalismo, neo gueffismo (affidamento alla chiesa ed al papa della finzione di garanzia dell'unità etica nazionale), populismo e bonapartismo: il partito del Presidente che riproduce la Costituzione materiale del Paese. Uno sfondamento culturale prima ancora che politico ed elettorale. Pertanto di fronte alla vittoria dell'individualismo anomico e dell'egoismo proprietario ed acquisitivo, si pone un problema di controffensiva e di reattività culturale. Un secondo aspetto è che il Pd nasce nel segno della discontinuità, della mixofilia (per dirla con Zygmunt Bauman), una sorta di comunità di fusione, se si vuole evocare Sartre, un nuovo amalgama da impastare sotto tre profili: cultura politica; forma ed organizzazione del partito; base di rappresentanza. Già abbiamo richiamato le apone del progetto sotto il profilo della cultura politica. Esse sono altrettanto evidenti per quanto riguarda forma ed organizzazione del partito: un partito liquido e gassoso, un accampamento di tribù, retto da oligarchie che si perpetuano e autoriproducono per cooptazione e designazione. Gruppi di potere soprattutto periferici, che si rafforzano in assenza di partito. 44


Walter Tocci ha parlato di partito come organizzazione in franchising 1 di cui il centro detiene il marchio e le élites periferiche dei notabili detengono il patrimonio. Anche il Partito democratico, all'interno della partitocrazia senza partiti, vive questa contraddizione. Una grande delusione se si pensa che avrebbe dovuto nascere una nuova forma-partito, quella della mobilitazione civica e civile. Questo il senso delle primarie e della grande partecipazione da esse attivate. Nella realtà, le primarie hanno rappresentato un inizio plebiscitario senza contesa, un'investitura non contendibile. Una critica che si indirizza non a Veltroni, ma a chi non si è candidato. Quindi primarie come strumento di risoluzione delle controversie, invece che come leva per valorizzare nuove opportunità, come innovativo paradigma di organizzazione popolare della politica. Pesano ancora le vecchie appartenenze politiche, al punto che si ha la percezione di come la linea del Pd sia spesso dettata da fenomeni esogeni: i movimenti della scuola e dell'università, i giudici, i media, gli organi di informazione, i conduttori televisivi. Un'esperienza sconsolante per un partito senza più momenti di partecipazione democratica. E con un fortissimo sradicamento territoriale. Ha ragione Ilvo Diamanti2 quando sostiene che la sinistra, un tempo utopica, è oggi atopica, nel senso che non ha luogo o spazio, mentre Forza Italia domina lo spazio virtuale e la Lega controlla i luoghi di cui esalta le culture neo-tribali. Infine, una questione serissima: la questione 45

generazionale affrontata nei termini avanguardistici di una mistica del neo-giovanilismo: "l'oltrismo dei quarantenni" per i quali la rivendicazione della successione ereditaria (il posto da occupare) sembra prescindere dai necessari titoli di legittimità (quello che si pensa e si produce). La base di rappresentanza del PD, ormai senza popolo, è quella restituitaci dall'altimo sondaggio 3 del Sole240re: manca una ricognizione della composizione sociale del PD, una composizione sempre più evanescente se rapportata alla consistenza dei "popoli" della Lega e del berlusconismo. Ed ancora più grave è la mancata riflessione sulla scomposizione del lungo ceto medio di cui parla Giuseppe De Rita4 . A questo punto siamo certi che possa bastare il neo gramscismo di Schiavone, la consolazione che a sinistra disponiamo di maggiore conoscenza, di un sapere più educato, di un migliore allenamento alla riflessione? Può essere sufficiente avere individuato i vizi d'origine della storia italiana (l'assenza dello Stato, la mancanza di un grande partito borghese, la debolezza della tradizione e della cultura liberale, il carattere minoritario della cultura laica, etc.)? Può bastare la consolazione che viene dall'idea che il berlusconismo sia alla fine della sua parabola e il liberismo stia concludendo la sua fase, ponendo fine al ciclo politico aperto negli anni ottanta? Se non si riparte affrontando di petto le aporie che ho richiamato, non si riuscirà a dare slancio al nostro progetto nel quadro di una auspicabile riaffermazione del ruolo della politica e di una


conferma-rinnovamento del sistema di regole che dovrebbe presiedere allo sviluppo democratico. Enzo Bianco La vedo nera

La disamina di Corsini potrebbe essere chiosata con un commento sintetico che Leonardo Sciascia mette in uno dei suoi deliziosi scritti, Occhio di capra, un detto siciliano che recita "Sebbene sono orbo, la vedo nera". Le ragioni e le preoccupazioni richiamate ci stanno tutte. Ma occorre provare a inserire il caso del PD in un orizzonte più ampio e più lungo. Più largo: il problema richiamato da più parti è quello della sinistra democratica in Italia e in Europa. Nel giro di circa dieci anni, la stagione europea dell'ampia esperienza politica riconducibile alla sinistra, quella del socialismo liberale esemplificato da Tony Blair, è entrata in evidente grande difficoltà. Non solo in Italia. Dopo avere guidato l'Europa in una stagione molto delicata negli anni novanta, la sinistra arranca in tutti i Paesi, dove le forze politiche di matrice riformista sono tendenzialmente minoritarie e marginali. Un altro problema, finalmente entrato nel confronto politico, è quello del corto respiro, che caratterizza 11 dibattito italiano, la mancanza di progettualità generale, non solo a sinistra. Si tratta di una difficoltà anche questa della politica in Europa. Il PD sta però rischiando di compromettere l'idea stessa alla base del partito, un'intuizione giusta e preziosa, ovvero l'idea che le formazioni politiche di vecchia

militanza avessero comunque segnato il loro tempo. L'idea di un grande soggetto riformatore, il Partito democratico, come risposta a tutto ciò è altrettanto giusta. Non soltanto legandola all'evoluzione del sistema politico in senso bipolare, ma proprio come intuizione felice a prescindere sulle grandi culture politiche e popolari del passato. La forte crisi di identità attuale del PD è tuttavia indubbia. Non è corretta l'idea secondo cui la crisi possa essere risolta nei termini di un possibile accomodamento e temperamento, un equilibrio instabile delle varie anime preesistenti presenti al suo interno. Il rischio è che non nasca mai un'identità nuova e convincente. Da qui lscillazione continua. Non solo sui temi sui quali lscfflazione è fisiologica, soprattutto in fase di avvio, ovvero i temi etici, ma anche su questioni di carattere economico e sociale, dove si vede la conseguenza di un errore, quello di lavorare per mediare tra le culture politiche esistenti invece di creare nuove identità. Va recuperata la spinta propulsiva che aveva caratterizzato l'avvio del Pd, il coraggio del cambiamento e dell'innovazione, che alimentava l'idea che il nuovo partito potesse discostarsi dalla cultura politica del passato, anche quelle da cui veniva ftiori. La difesa dell'esistente in un Paese che invecchia e che è guidato dalle spinte corporative è infatti il problema principale dell'Italia, il problema che non ci fa crescere, andare avanti. Il PD deve recuperare su ognuna delle grandi questioni questo coraggio, questa innovatività. O perde il senso della sua missione. Il 46


momento è delicato, tra tante elezioni. Non c'è soltanto il rischio di rimettere in discussione l'idea stessa del Partito democratico, ma anche quella che lperazione del PD resistendo e andando avanti, cambia pelle, sostanzialmente diventando un partito di stampo socialdemocratico europeo che ma- j gari aderisca al gruppo del PsE - sia pure con parziale cambiamento di nome - che al proprio interno vede prevalere uno schema di riferimento socialdemocratico. Un altro modo per perdere l'idea del Partito democratico. Adolfo Battaglia Ifondali necessari Si può partire utilmente dalle riflessioni già fatte fin qui: che il profilo politico del Pd sia debole non c'è dubbio, che ci sia un deficit di cultura politica omogenea è evidente. Forse il primo fatto dipende dal secondo. Certo si tratta di una fase iniziale, di transizione del Partito democratico. Ma la situazione pone un problema, il rischio di trasmutazione indeterminata del Pd. Quindi si deve andare verso un orizzonte più largo, e tuttavia pensare ad un Partito democratico fondato sulla realtà politica fattuale. Può quindi essere utile andare a vedere al cuni fondali per la costruzione di un partito che tenga in tal senso. In primo luogo, va tenuto presente che la globalizzazione non comincia oggi, ma ora è chiaro che il suo fenomeno cruciale è il passaggio di potere economico dai Paesi ricchi ai Paesi poveri. Se guardiamo alle cifre, il numero di persone povere che vivono 47

con meno di un dollaro al giorno è diminuito della metà dal 1970 al 2005, e dal 2005 al 2015, se non ci fosse stata la crisi economica, le attese avrebbero coinciso con un'ulteriore dimezzamento. Si tratta di un fenomeno epocale le cui conseguenze per l'Europa non sono sufficientemente prese in considerazione dalla politica. Il secondo fondale è che il ciclo storico dell'Unità europea è finito perché l'Europa non ha più alcuno dei caratteri e delle condizioni con cui è stato fondato il processo di integrazione. Sono venute meno le ragioni politiche: il comunismo non c'è più, il mercato non è più europeo ma mondiale, c'è la globalizzazione, la Nato non ha più modo di essere quello che era, la Germania è riunificata. L'Europa si è allargata e continuerà ad allargarsi, verso Est, ed ingiobando la Turchia. Ecco quindi che oggi a contare è l'unità dell'Occidente, che corrisponde al problema mondiale della globalizzazione così come l'unità dell'Europa coincideva con i problemi del mercato europeo. E quindi solo all'interno di questo nuovo ciclo che si possono utilmente affrontare i problemi all'interno dell'Unione europea, in forma completamente diversa da quella degli ultimi cinquant'anni. Il terzo fondale è che i sistemi politici che non tengono conto della necessità di essere efficienti al di sotto di un certo grado ottimale ma al di sopra di una soglia minima sono destinati a deperire. Antonio Maccanico ha scritto per L'Acropoli 5 un bel saggio breve intitolato Teorema, e la sua tesi è che i sistemi efficienti hanno certe


caratteristiche ma la base è il bipolarismo politico. Senza di esso non c'è sistema efficiente. Il Partito democratico risponde a questa condizione. Il quarto fondale è che le concezioni che reggono il Partito democratico sono, per l'appunto, quelle democratiche. Non è vero che democratico non significa niente. Né è vero che c'è la scelta di una reincarnazione dell'americanismo. C'è un pensiero democratico europeo ed occidentale molto ricco, che l'Italia ha ignorato per molto tempo, nonostante queste posizioni siano state espresse da uomini e posizioni molto rilevanti: da Nitti a Salvemini da Gobetti a Rosselli, da Dorso a La Malfa. C'è quindi un pensiero democratico che non è né socialista né liberale, non è né per il mercato sregolato né per lo statalismo dirigista. E un pensiero ben preciso ed identificato nella storia del Paese. Se è a questo che il Pd si richiama, ha possibilità di sopravvivere. Se si richiama invece al laboratorio italiano, laboratorio particolare (di cui parlava Ingrao), è spacciato. Il quinto fondale è che la struttura organizzativa di un partito deve fare i conti, se vuole avere consenso, con una questione lungamente ignorata dai partiti del Novecento: il rapporto fra politica e scienza, la grande novità del XX secolo, che ha diretta influenza sulla politica. Non c'è rivoluzione politica per quanto ampia che abbia prodotto risultati concreti di progresso e di sviluppo maggiori di quanto abbia prodotto la scienza. E un legame organico che non si può risolvere con la nomina di consulenti e Commissioni.

Le buone decisioni politiche derivano dalla capacità tecnica, scientifica di individuare uno o l'altro problema. Fra i tanti, anche il problema della partecipazione che nasce dalle tecnologie contemporanee, quindi il rapporto fra politica, partecipazione e media, comunicazione. Su questo Obama segna una svolta definitiva per l'organizzazione partitica. Berlusconi ha sotterrato il partito del Novecento - in particolare quello della Prima Repubblica italiana - con le caratteristiche che conosciamo: antidemocratiche, forse non al limite dell'attentato costituzionale, ma certamente bonapartiste, efficientiste ma in maniera distorta. Fondando così le ragioni del successo che finora si è ripetuto. Sergio Ristuccia Sì, ma di che tipo di democrazia parliamo?

Intervengo subito a proposito dell'appunto critico sulla questione posta nell'editoriale sul "caso del Partito democratico" e sul significato della parola "democratico". Il richiamo forte alla storia novecentesca europea del pensiero sostanzialmente minoritario che si è sviluppato attorno ai personaggi citati non risolve la questionè. Il punto è che cosa significa democratico proprio in relazione alle considerazioni del quinto fondale citato da Battaglia: i rapporti tra scienza, comunicazione, globalizzazione e partecipazione. I contenuti e i significati della democrazia a fronte del quinto fondale sono tutti da inventare. Obama e Berlusconi, intanto, non hanno usato en-


trambi le nuovetecnologie. Berlusconi si è attestato a lungo sulla frontiera della televisione analogica, e da quella ha parlato alle folle, mentre Obama ha usato appieno e sistematicamente Internet e l'interattività. Sono mondi diversi. Se la democrazia deve essere l'una o l'altra cosa è un discorso aperto. Le stesse ragioni per contrapporsi all'America di Bush riandando al pensiero europeo novecentesco che più è stato trascurato valgono e durano poco. Quale democrazia vuole il PD, questo è il tema fondamentale.

Ricoffi6, appare condizionato nella sua azione politica dall'essere minoranza nel Paese, dall'essere cioè l'opposizione. Il che gli pone una quantità di grossi problemi, sui quali esso appare spaccato, e quindi incapace di risolverli. Ne accennerò solo tre. Il primo è di sostanza, e consiste nel fatto che, per potere svolgere con qualche speranza di successo la sua azione politica, il Pd appare spesso costretto ad esercitare, parallelamente ad essa, un'azione "pedagogica", intesa a preparare il terreno su cui sviluppare quella politica, mettendo gli italiani in Carlo Chimenti grado di capirla e di apprezzarla. Così, Le due Italie e una spregiudicata consi- ad esempio, siccome la maggioranza derazione del rapporto Governo-Parla- degli elettori non percepisce affatto mento come mortale pericolo per la nostra democrazia la circostanza che un Devo fare una breve premessa: sequalsiasi "stramiliardario" - è accaduto condo me, attualmente, in conformità con Berlusconi, ma potrebbe ripetersi ad un passato secolare, siamo di fronte con altri - abbia la libertà di andare al a due Italie antropologicamente diverGoverno e di restarci (pur potendo, se. L'una, l'Italia "eterna", maggiorita- grazie ai suoi miliardi, dapprima falria anche oggi, connotata - avrebbe sare la competizione per governare, e potuto dire Giacomo Leopardi, ag- poi asservire i poteri governativi ai giornando un p0' il suo vocabolario - suoi interessi privati), ne viene che in senso conservatore, qualunquista, obiettivo prioritario dell'azione polianarco\individualista e flirbacchione. tica del PD dovrebbe essere la sensiL'altra minoritaria (salvo rari e brevi bilizzazione degli elettori su questo periodi) progressista e sinistrorsa, per punto. Nella consapevolezza che - pala quale qualunquismo, furbizia etc. rafrasando D'Azeglio - fatta la deetc. sono peccati inescusabili. Il PD, mocrazia restano da fare i democratiper come lo vedo io, vorrebbe far parte ci. Impresa di lunga iena, come è ovdi questa "altra" Italia. E perciò, oltre a vio, su cui si può sorridere se - per risuscitare - assieme a tutta la sinistra, calcare il sarcasmo di Bertolt Brecht che viene talora ironicamente accosta- la si paragona a quella del Comitato ta al caviale, per via di una certa supe- Centrale del partito comunista che, riorità morale e intellettuale non di radinanzi alla contrarietà del popolo alla do esibita, ma non sempre giustificata linea del partito, deliberava di cam- le diffuse antipatie di cui parla Luca biare il popolo; ma che invece è cosa


serissima e benemerita, se vi si coglie il profilo "educational". Impresa da cominciare, peraltro, impegnandosi per addivenire ad una normativa prudentemente restrittiva dell'accesso al Governo, ma che tuttavia - temo molti militanti del PD, ipnotizzati da un'interpretazione estremista dell'art. 51 Cost., non sarebbero disposti a condividere. Il secondo problema è di metodo (sebbene in verità ne implichi anche un altro di sistema politico) e riguarda la scelta delle modalità più appropriate per esercitare, nel quadro di una democrazia pluralista, l'anzidetta finzione oppositoria in Parlamento e nella società. E chiaro che, in teoria, queste modalità sono le più svariate; ma a mio parere la scelta è riducibile ad un'alternativa elementare, che può riassumersi nella seguente domanda: l'opposizione, in via di massima e salvo limitate eccezioni, deve quotidianamente contestare l'avversario politico, o viceversa deve biandirlo? Detto con altre parole (anche per prevenire obiezioni banali): l'interesse generale del Paese, che anche l'opposizione deve tendere a soddisfare, va da lei perseguito cogliendo ogni occasione per mettere l'avversario in difficoltà, così da cacciano dal potere il più presto possibile, o viceversa va perseguito aiutando Governo e maggioranza a risolvere di volta in volta i singoli problemi che si presentano? Personalmente non avrei dubbi, dacché - una quindicina d'anni fa - abbiamo compiuto una scelta di fondo, adottando per motivi che non è il caso di stare qui a ricordare una sorta di democra-

zia bipolare e competitiva nella quale le opzioni politiche principali sono state sottratte al Parlamento e ai partiti per affidarle (almeno apparentemente) alla diretta decisione degli elettori (chiamati a votare non più per il solo Parlamento, ma anche per il Governo e il suo programma). A me pare infatti evidente che, se vogliamo mantenerci coerenti con quella scelta di fondo, dobbiamo mettere gli elettori nelle condizioni di prendere al meglio, a tempo debito, le decisioni di loro spettanza, premiando col voto o il Governo uscente o l'opposizione ad esso. Ed a tale scopo mi sembra indispensabile scansare (a parte casi eccezionali) qualsiasi coinvolgimento, soprattutto parlamentare, dell'opposizione nelle iniziative del Governo, affinché appaia con la massima chiarezza "chi ha voluto che", nella passata legislatura, e pertanto "chi è responsabile di cosa". Ma se non la si pensa così - e credo che oggi nel Pd siano parecchi a ritenere che un "antiberlusconismo" di principio sarebbe controproducente - è meglio smetterla di professarsi fautori della democrazia bipolare e competitiva, e proporre qualcos'altro. Che poi non potrebbe che essere, sostanzialmente, una versione riveduta e corretta della democrazia consensuale abbandonata, appunto, tre lustri addietro. E questa dunque l'alternativa radicale rispetto alla quale il PD deve compiere una scelta, nel momento stesso in cui si pone il problema delle modalità con cui oggi esercitare la finzione oppositoria: rimanere entro l'ambito della democrazia bipolare e competitiva, 50


ovvero puntare verso un ritorno a quella consensuale e multipolare, da ritenere più consona all'Italia eterna? Un terzo problema è di carattere istituzionale, e può sintetizzarsi così. Volendo evitare di precipitare nel Sultanato di cui parla Giovanni Sartori 7 - o meglio, per rimanere entro un orizzonte occidentale, senza scivolare in un sistema proteso ad imitare nel Governo nazionale la "governance" delle SpA - è giocoforza prevedere che il Governo, anche a costo di vedere ritardata la sua volontà di realizzare con sollecitudine quanto si propone, incontri nella sua azione qualche contrappeso atto a bilanciare la soverchiante forza politica che, altrimenti, esso esprimerebbe per via della semidiretta estrazione popolare. Ora, è risaputo che - a parte il presidenzialismo statunitense, dove un serio bilanciamento fra i poteri inerisce all'applicazione rigida del principio della loro separazione - in tutti i regimi di tipo parlamentare, dove il principio formulato dal barone di Secondat riceve un'applicazione souple, è il Parlamento che in teoria dovrebbe bilanciare il Governo. Senonché, in concreto, contro la possibilità che il Parlamento riesca davvero a fungere da contrappeso rispetto al Governo milita, in primo luogo, il rapporto di fiducia che lega i due organi e che - il più delle volte lungi dal mettere il Governo alla mercé del Parlamento (dal quale potrebbe vedersi revocata ad nutum la fiducia), ottiene il risultato opposto (per il timore del Parlamento di essere disciolto, se abbatte il Governo senza riuscire a farne uno nuovo). Ed in secondo 51

luogo militano i sistemi elettorali maggioritari che, di solito, immettono nel Parlamento una grossa maggioranza che marcia all'unisono col Governo, e fanno sì che quest'ultimo divenga il Comitato direttivo (e non già esecutivo) delle Assemblee parlamentari; le quali a loro volta diventano il fedele sostegno (e non un valido contrappeso) del Governo. Ne viene che, come è stato rilevato da Angelo Panebianco (I due ostacoli alle riforme, Corriere della Sera, 28 aprile 20098) e da Andrea Manzella (Ritornare alle d,fese costituzionali, Corriere della Sera, i maggio 2009), l'opposizione si illude se spera di bilanciare l'azione del Governo attraverso le Camere, magari esercitandovi il fantomatico controllo parlamentare. Il contrappeso può venire soltanto da organi terzi rispetto al circuito Parlamento\Governo (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Regioni, Magistratura), dotati di qualche effettivo potere di interdizione. Le Camere, tutt'al più, potrebbero essere chiamate ad attivare, attraverso minoranze qualificate, taluno di questi organi, onde arginare attraverso i suoi atti eventuali straripamenti di maggioranza e Governo. Direi però che il PD fa fatica a prendere atto di questa realtà, visto che continua ad inseguire il mito di una "centralità" del Parlamento che ahimè, rebus sic stantibus, appare irrecuperabile in funzione di contrappeso rispetto al Governo. Per cui, fino a quando il Pd non riconoscerà che, in un parlamentarismo competitivo, puntare sul vecchio slogan "Parlamento forte-Governo forte" equivale a sperare di avere la botte pie-


na e la moglie ubriaca, e che perciò è vano pretendere che il Parlamento sia molto più di una tribuna politica e di una sede per acquisire informazioni, ben poco esso potrà incidere nel contesto politico istituzionale. Salvatore Biasco Comunicazione o cultura? Un partito senza prestigio

La sinistra è stata tutt'altro che deficitaria sul piano della comunicazione, anzi ne ha abusato, sovraenfatizzandone l'importanza. Ma è andata su piste sbagliate. Vorrei che di qualche leader del PD si possa dire quello che ha scritto Nicholas D. Kristof (Obama and the War ofBrain, in The New York Times, November, 2 2008) presentando Barack Obama come leader che con il microfono in mano si esalta di fronte alla complessità dei problemi, parla per frasi intere e non per slogan televisivi. Un leader che ha usato, sì, tutti i mezzi di comunicazione, anche quelli interattivi, ma avendo un'idea dell'America in testa e un progetto di trasformazione da proporre. Un paragone impietoso con ciò che la sinistra ha avuto da comunicare in campagna elettorale. Un programma tutto inventato, con un pirotecnico, "pianificato" (e scoordinato) susseguirsi di parole d'ordine (la successiva killer della precedente), senza nulla dietro e senza un'elaborazione vera. Slogan programmatici diffusi da un partito del quale era difficile individuare sullo sfondo una cultura, una concezione politica e sociale, una visione del mondo.

Tutto ciò svuota di prestigio e autorevolezza una forza politica e le impedisce di avere influenza diffusa, da spendere anche fuori da una responsabilità di governo. I personaggi prima citati da Battaglia, come anche il Partito comunista, pur essendo minoritari, avevano un prestigio che consentiva loro di esercitare un peso innegabile sulla società, peso culturale, di orientamento, sulle linee programmatiche. L'assenza di prestigio e autorevolezza nella società è qualcosa di più importante del consenso elettorale, anche se poi le due cose vanno assieme. Quando si arriva a non ricevere la stima dagli stessi elettori la situazione è grave. Ma non l'ha determinata il PD. I Ds si sono sciolti senza lasciare traccia o eredità alcuna, una cultura, idee sulla società, un dibattito culturale, un'idea di governo. Altrettanto dicasi per la Margherita la cui identità è stata fino alla fine declinata in negativo più che in positivo, come non essere diessini . Il PD e erede di qualcosa che si stava deteriorando profondamente, da cui non poteva scaturire molto di dissimile a quanto ne è scaturito, a meno di una vera e propria rivoluzione interna. Quale? Do atto a Veltroni di averne intuito la necessità, ma di essere andato totalmente fuori pista, quasi in direzione opposta a quella richiesta, aggravando la confusione culturale. Ha inizialmente tentato di dare una caratterizzazione culturale al Pd, collocandolo sul versante liberale. Diciamo che vi era la convinzione di un partito, non più basato su insediamenti sociali specifici, il cui perse52


guimento fosse quello di liberalizzare l'economia per rompere le incrostazioni di potere, il corporativismo e indurre una competizione a vari livelli capace di mettere in moto la società italiana. Q_uesta è un'idea romantica dell'Italia, che non ha a riferimento una società reale, fatta di aggregazioni, reti, relazioni solide, centrali che orientano il giudizio dei singoli, condizioni sociali molto differenziate di partenza; ha piuttosto a riferimento una società di individui atomizzati, che dovrebbero apprezzare una azione riformatrice sospinta dall'alto e apportarvi consenso in virtù di un giudizio strettamente razionale (attribuendo ai singoli il canone di razionalità di chi propugna le soluzioni). Una linea impossibile in Italia, che nello stesso PD non ha retto al di là dell'enunciato, tanto è vero che è stata contraddetta immediatamente con proposte assistenzialistiche e sensibilità ai veti sindacali. Temo che la discussione avrebbe dovuto vertere sulle modalità con cui il governo di una società stratificata e complessa possa essere esercitato attraverso una composizione degli interessi, ma tale da mantenere un irrinunciabile orientamento universalistico. Sono convinto che il governo di questo Paese passi attraverso la capacità di volgere in positivo i particolarismi che lo pervadono, inducendo le istanze e gli interessi che trovano rappresentanza nella società a trovare un perseguimento dentro un orizzonte comune che possa fungere da mediazione e da amalgama, e che sia ispirato a un interesse generale in massima parte condiviso. 53

Altre vie sembrano solo illusorie scorciatoie. Non è un discorso che possa essere svolto in due battute. Ma vale almeno la pena di richiamare che in questo contesto il PD non poteva ignorare di essere ormai tagliato fuori da una larga parte di società produttiva, che si è venuta identificando culturalmente con la destra. Perfino nelle frange di questa società che votano a sinistra e mantengono tradizionali legami con le amministrazioni di sinistra vivono coordinate culturali tratte dall'esterno (il che fa temere sulla loro tenuta alla lunga dentro il partito). Il PD non ha mai posto all'ordine del giorno una riflessione su come dialogare con questo pezzo d'Italia, presentare un programma adeguato ad esso, dare rappresentanza e comporre gli interessi che esprime con quelli generali. Ricevendone in cambio diffidenza (e finché sarà così permarrà il deficit di consensi ed elettorale). Ma ciò non è che un aspetto o un riflesso della perdita di contatto con quegli insegnamenti che sono sempre stati una stella polare della socialdemocrazia e del cattolicesimo democratico: l'idea che le riforme sono un modo per costruire la società. A ciò si aggiungono altri elementi di caratterizzazione del PD. L'attrazione un po' acrifica verso le virtù del mercato e della competizione, che si è fatta strada vieppiù (in mezzo a tante altre suggestioni) ha posto il PD in controtendenza rispetto ad una società che chiedeva protezione e governo nel merito minuto dei problemi, che aveva paura della globalizzazione (senza per questo darne una connotazione necessariamente negativa), che


esprimeva alcune insicurezze sociali ed economiche che guadagnavano momento nel nuovo scenario mondiale. Insicurezze che la destra ha riconosciuto prima. Il PD - per cattiva analisi, assenza di legami con l'Italia profonda, senso di colpa per il proprio passato statalista - è stato preso in contropiede da ciò che stava awenendo. Dove serviva un'idea più comunitaria, solidaristica e cooperativistica cercava ispirazioni in orizzonti competitivi. La perdita di capacità di elaborazione, la dispersione e distruzione di capitali intellettuali e la selezione alla rovescia dei gruppi dirigenti hanno determinato una non indifferente subordinazione culturale a ciò che offriva (a senso unico) il mercato delle idee. Ad esempio, è inconcepibile che un partito di centro sinistra si sia innamorato acriticamente e abbia assolutizzato la questione del merito, senza prima riflettere sul tipo di governance necessario a far affermare una società meritocratica, e senza essere sfiorato dal dubbio che in una società stratificata come la nostra il merito può anche diventare strumento attraverso il quale l'élite perpetua se stessa. Ma soprattutto è sorprendente l'attrazione esercitata dal modello americano di economia (degli anni novanta e in poi) che, male interpretato, ha portato ad assorbire il fascino aprioristico dell'economia dell'offerta, della competizione e della flessibilità. Anche qui una cattiva lettura nata da scarsa autonomia culturale, nuovismo e perdita di categorie analitiche. Per colmare i deficit occorre essere consapevoli dei deficit. Il punto di

pessimismo non è in ciò che è stato, ma nella scarsa reazione, perfino a una sconfitta elettorale. Giulio Ercolessi Ipresupp osti che mancano alla democrazia italiana (e delPD) Parto da una domanda: è possibile che in Italia posizioni che altrove nell'Europa occidentale si ritroverebbero abbastanza naturalmente in un partito del centro-sinistra non si sentano da così tanti anni rappresentati e non vedano, in prospettiva neppure molta vicina, la possibilità di tornare ad essere rappresentati? Si tratta esattamente di quello spicchio di società civile individuato anche negli studi sulle categorie di consumatori applicate al mercato della politica, svolti dagli Istituti demoscopici che lavorano con la sinistra stessa, e che Critica liberale ha cercato di rappresentare in questi anni. Sono quelle stesse posizioni presenti, per esempio, nel dibattito europeo e ampiamente riconosciute come tali nei network dei liberali e dei liberali di sinistra europei, ma che poi non trovano rappresentanza nel sistema politico italiano. Il problema qui in l'Italia è che non si sa mai se si tratta di arretratezza o di avanguardia di un arretramento comune anche ad altri Paesi. Se davvero fosse finita la speranza europea, allora è finita la prospettiva italiana che nasce non nel secondo dopoguerra, ma almeno nel 1848. Mi limiterò a due soli punti: 1) il rapporto del PD con il sistema delle 54


regole e delle garanzie; 2) il rapporto tra bipartitismo tendenziale o anche bipolarismo e secolarizzazione. Per la prima questione, penso che non ci si è resi conto che la frattura novecentesca destra-sinistra non esiste più e in Italia non è stata sostituita da una nuova frattura destra-sinistra. C'è una larga corrività nel PD a definire centro-destra l'avversario e ad autoidentificarsi spesso più con la sinistra che con il centro-sinistra. C'è corrispondenza tra questo centro-sinistra e questo centro-destra italiani e quelli degli altri Paesi europei? C'è stata una grave, drammatica sottovalutazione iniziale della riformulazione del sistema politico italiano nato nel 1993 al punto che è oggi molto difficile per la classe politica che non ha saputo capire che cosa c'era aU'orizzonte trovare una credibilità per riproporsi come l'interprete di un normale centro-sinistra europeo. Nel 1993, una persona che coglieva molto bene gli umori che circolavano all'epoca nel Pds mi disse: meglio avere adesso Berlusconi come avversario piuttosto che rischiare l'anno successivo di avere come avversario il leader dello schieramento opposto, Mario Monti. Questa sottovalutazione di Berlusconi si riproduce sistematicamente. Ignorando fatti ben noti che in qualunque Paese provocherebbero la morte politica di un simile personaggio all'istante. Mentre in Italia Berlusconi è riconosciuto come il capo di uno schieramento tutto sommato normale, e addirittura nobilitato attribuendogli una corrispondenza con posizioni che pure non si condividono e che sono largamente presenti in for-

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ma ideologicamente radicale all'inter no di altri Paesi europei. Credo che ci sia - eredità della Prima Repubblica un serio problema di sottovalutazione delle regole e delle garanzie giuridiche che fa sì che l'essere comunque presenti negli accordi ed avere la promessa, anche se poi non mantenuta dalla controparte, di essere parte del futuro accordo diventa una garanzia più rilevante, concreta di ogni altra garanzia giuridica e costituzionale. Perché altrimenti non si spiega la disponibilità a riformulare con un simile avversario le regole del gioco. Se anche si ha bisogno di urfoperazione a cuore aperto, la si fa anche se è rischioso, ma se il solo a farsi avanti per operare è il macellaio del paese aiutato dal barbiere e con il pusher della cosca locale come anestesista, allora no, è meglio aspettare che le cose cambino. La società italiana nel 1993 ha preso Berlusconi per la Thatcher italiana che si aspettava da anni, ma la sinistra italiana ha avvalorato questa illusione e non ha preso atto della realtà. Si continua a non dare il giusto peso, ad esempio, alla pubblicità elettorale in televisione che per Berlusconi non è solo una partita di giro come si pensa. Per due volte la sinistra è stata in maggioranza e non ha pensato di dare esecuzione ad una sentenza della Corte costituzionale, perché si è preferito pensare che tutto sommato stare li dentro contasse di più. Come si può essere credibili dopo? Quando, ad esempio, si levano le barricate per qualche atto sconcio sul piano dell'educazione, quando poi, all'indomani, confidando nella smemoratezza generale sulla quale confida anche l'altra


parte, si torna a proporre tavoli di trattativa. Tenere fermo il problema delle regole e non avventurarsi in giochi che poi non si è in grado di sostenere, avere presente che il problema dell'accesso ai mezzi di comunicazione nella normalità di un sistema di informazione e comunicazione è il presupposto attraverso il quale avere una normale vita politica democratica, comprendendo che la televisione sta facendo cambiare mentalità alla gente, giorno dopo giorno, goccia a goccia, suscitando in qualcuno il rigetto ma in tutti gli altri l'adeguamento. Questo stato di fatto e la corrività della sinistra non può evitare che molti di noi non si sentano da essa rappresentati. Si cambiano le fratture di oggi con quelle di ieri e si dice che occorre essere moderati rispetto alle fratture di oggi, che riguardano poi la decenza, come se si trattasse di assumere una posizione differente sul piano delle riforme economico-sociali. E per di più, si crea una sostanziale subalternità all'unico modello di democrazia ossessivamente proposto almeno dai tempi in cui l'ha riproposto Luciano Cavalli con i libri che apparvero negli anni ottanta su spinta craxiana, a proposito della rivalutazione di tutti i possibili meccanismi di crescita di leadership carismatiche, senza probabilmente conoscere i testi politici oltre che quelli teorici dell'ideatore della Fùhrer Democrauie plebiscitaria. Altro problema: la secolarizzazione e il bipartitismo. Qi il modello è stato quello americano. Ma c'è un equivoco colossale in questo. E ben vero che sia nel Partito democra-

tico che nel Partito repubblicano americani ci sono fautori di diritti legati alla secolarizzazione e loro negatori, ma non in uno stesso luogo. Il paragone reggerebbe con un futuro sistema politico europeo in cui nello stesso partito alla fine, sul piano federale, convergessero gli eletti in Polonia e gli eletti in Olanda, gli eletti in Irlanda e gli eletti in Francia, ma non accade che in Alabama esistano dei repubblicani favorevoli all'aborto o in California, a New York esistano democratici contrari al matrimonio gay o ad un suo largo riconoscimento. Quello che è negli Stati Uniti la conseguenza del fatto che ci sono cinquanta o più sistemi politici separati all'interno dei quali si svolge una competizione tra candidati che poi si ritrovano a livello federale nello stesso partito non può essere trasposta in una situazione nella quale le fratture territoriali sono state addirittura ribaltate e dove la parte tradizionalmente più modernizzante e secolarizzata del Paese, per ragioni tutte interne alla distorsione del sistema politico e mediatico, è diventata formalmente la più tradizionalista. Tutto questo porta il sistema ad interpretare in modo distorto quello che succede altrove: in Spagna, per esempio, se si vedono i dibattiti di un'ora e tre quarti ciascuno tra José Lui s Rodriguez Zapatero e il segretario del Partido popular Mariano Rajoy, nessuno dei temi che la classe politica ed i media italiani dichiaravano essere al centro del dibattito politico spagnolo è stato anche soltanto evocato. Stessa cosa per Franois Bayrou 56


che, tutto sommato, rappresenta posizioni vicine a quelle che si vorrebbe fossero compresenti all'interno del Partito democratico. Ma ogni laicista sarebbe felice di ritrovare anche solo in Rifondazione comunista posizioni simili a quelle espresse da Bayrou nell'intervista al quotidiano cattolico La Croix10 per intenderci l'Avvenire italiano, come candidato alle elezioni presidenziali. Insomma, modernizzare l'economia e la società andando in controtendenza sul piano delle questioni eticamente controverse. E questa la sacralizzazione delle libertà o invece siamo sul terreno opposto? Si può prendere sul serio questa denominazione, il Polo delle libertà? Ricordo che Pecoraro Scanio lo fece, proponendo alla sinistra di chiamarsi Polo delle solidarietà, che significa esattamente avvalorare, prendere sul serio una candidatura che non ha alcun senso nella realtà. Questo Polo delle libertà è l'unica maggioranza a destra del centro, solida, duratura, che non ha mai fatto negli ultimi dieci anni una sola liberalizzazione o privatizzazione di rilievo. Però siccome gli elettori di destra amano definirsi liberisti e si vantano di esserlo, mentre gli elettori del Pd non lo amano, si arriva a parlare di sacralizzazione delle libertà per un partito che ha promosso la legislazione in materia di fine vita che tutti conosciamo. Sono questioni che non si può rischiare di vedere rappresentate da frange lunatiche come accade da noi, il solo Paese dell'Europa occidentale in cui posizioni come quelle che i laicisti cercano di interpretare vengono ,

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attribuite a frange radicali e posizioni estreme. Altrove fanno parte del centro-sinistra mainstream di qualunque altro sistema politico europeo. Da ultimo, se questa non è la destra italiana neppure liberista, ma è qualcosa di abnorme non riconosciuto come tale, è difficile proporsi dopo la crisi e con la tentazione di un ribaltamento dei paradigmi discorsivi della liberalizzazione economica per andare a cercare qualche forma di redistribuzione di risorse alle clientele. Enzo Marzo Come si smentisce l'essere «democratico" Essere più duri sul Partito democratico di Corsini e della storia sullrbo siciliano è difficile, ma ci provo. Come facitore di rivista ho una preoccupazione:, fra tre-quattro mesi il Partito democratico sarà ancora argomento di conversazione e dibattito politico oppure sarà come parlare di Veltroni che già sembra lontanissimo dalla discussione sull'attualità. Sono tra quelli che contestano al Pd quel "democratico". E stato sventolato per mesi che il leader del PD era, più di ogni altro leader italiano, accreditato e legittimato da tre milioni e quattrocentomila voti, senza dire che è lì la mancanza di democrazia, laddove il leader del PD ha fatto anche bei discorsi, molto vaghi, ma senza dire tre cose fondamentali, relative a quale fosse la linea della sua Segretaria, che si è vista solo una settimana dopo il voto degli italiani che è stato un voto sul nulla. La linea è stata,primo, quella delle mani libere sulle alleanze dopo


le elezioni; secondo, la rimozione del problema Berlusconi, mai citato in campagna elettorale, neanche quando questi a poche ore dalle elezioni ha abbracciato chi aveva affermato che Mangano era un eroe, dando un messaggio preciso in termini di linea politica; e terzo, il passaggio senza discussione dall'ipotesi di bipolarismo al bipartitismo inteso come modo per liquidare i potenziali avversari per legge e per decisione politica autonoma, dando all'avversario la patente di unica alternativa. C'è da chiedersi che cosa sarebbe accaduto se queste tre cose fossero state dette agli elettori il sabato prima delle primarie. Questo è il punto della democrazia in questo Paese. Dite quindi che Berlusconi ha sfondato? No. Ha trovato la porta aperta. La politica del PD ha avuto un mare di oscillazioni su tutto, ma su una è stata rigorosa come una falange macedone: sul fatto cioè di non riconoscere la pericolosità del mutamento strutturale della democrazia nel nostro Paese. Quello che persino Franceschini chiama l'antiberlusconismo che è morto, riprendendo una frase di Veltroni, è proprio questo: non capire che dal 1993 ad oggi è avvenuto in Italia un fenomeno che ha proprie caratteristiche sociali, politiche, nei rapporti con l'Europa e con il mondo occidentale, con la Russia. Non capirlo significa aprire la porta e andarsene. Quando arrivò il fascismo, la cultura italiana, di destra e di sinistra, e anche quella fascista, iniziò ad analizzare il fenomeno del fascismo. I dirigenti del PD, non sembrano avere letto i testi in questione e nep-

pure i tanti, per esempio, sul populismo carismatico e mediatico. Sono quindici anni che non c'è un dirigente a sinistra che abbia detto: esiste un problema che supera ogni questione accessoria. Il nostro avversario non è Chirac o Giscard d'Estaing. Siamo arrivati ad un punto di non ritorno gravissimo per il Paese. Siamo al punto che, mentre ancora si discute se essere per il bipolarismo o per il bipartitismo, il PD, un partito che non riesce neanche a riunire le 18 tribù al suo interno, che non le sa gestire, dichiara su tutti i giornali di essere in grado di aggregare tutti - anzi, non solo le diciotto tribù, ma tutti gli altri partiti, dalla Binetti al trotskista di Rifondazione comunista - non in un unico polo, ma addirittura in un unico partito! Nel frattempo, facciamo governare Berlusconi per i prossimi cinquecento anni. Nella speranza dell'avvio di un discorso politico che non si comincia neanche a fare, a dire esplicitamente. Su un punto il PD è stato rigoroso: non volere o sapere riconoscere il cambiamento. Bernardo Pizzetti La distribuzione del reddito: tema centrale spinto al margine

Mi sono sempre chiesto, nella fase di avvio del progetto del PD, perché la sintesi tra le culture debba avvenire a monte dentro un partito e non, ad esempio, nella formazione delle liste, o attraverso accordi politici o in sede parlamentare Questo punto non è stato spiegato a sufficienza oppure non ho avuto la capacità di coglierlo


e rimane per me un interrogativo irrisolto. Ad ogni modo, per discutere delle debolezze del PD, potremmo partire dal titolo stesso dell'editoriale di Sergio Ristuccia: Il caso del Partito democratico. E la prima volta che si parla di un partito politico riferendosi ad esso come ad un "caso". L'impressione è che occorra un investigatore abile per risolverlo, presumendo che ci siano un cadavere ed un colpevole. Vediamo alcuni punti. Il tema della debolezza (o delle debolezze) del PD come partito di massa (o, comunque, a vocazione maggioritaria che dir si voglia) di cui è denso il dibattito politico in generale e che viene fuori anche da alcuni importanti spunti attorno a questo tavolo, a mio avviso risulta deficitario di un punto fondamentale: non tiene cioè conto del fatto che un partito che ambisce ad essere di massa, per tentare di raggiungere tale obiettivo, può caratterizzarsi e costruire una sua identità fondamentalmente su di un solo tema, quello della distribuzione del reddito; in caso contrario, ed è esattamente ciò che sta avvenendo, entra a far parte di quelle esperienze minoritarie, anche nobili, di cui parla Ristuccia. Registro il fatto che nel PD e in generale, nell'esperienza della sinistra italiana, non se ne parla più da venti anni. Perché penso che questo sia il punto centrale della vicenda? Perché è solo intorno all'idea di come si produce e poi si distribuisce il reddito che è possibile aggregare un consenso ampio e differenziato, mettendo insieme le diversità territoriali e le categorie sociali. Una volta che si ha ben chiara tale impostazio59

ne, sarà poi anche più semplice ricomporre o comunque gestire i problemi e i conffitti di altro tipo. Penso, ad esempio, al caso Engiaro. L'argomento della distribuzione del reddito, infatti, parla a tutti perché il reperimento delle risorse per vivere è un tema comune. Ho l'impressione che, invece, il PD declini questo tema in termini limitati di contrasto alla povertà. Il punto non è questo. Nellttica di un partito a vocazione maggioritaria e nella attuale condizione italiana, la povertà è per fortuna un problema che interessa un numero relativamente circoscritto di persone, anche se pericolosamente crescente. C'è una più ampia "questione borghese" aperta, sulla quale il Pd avrebbe potuto e dovuto essere l'interlocutore adatto e naturale. E la "questione" è figlia dei bisogni che si evolvono. La sinistra che negli anni sessanta e settanta rappresentava gli operai oggi deve rivolgersi anche ai figli degli operai, che fortunatamente hanno fatto un pezzo di strada in più sulla scala sociale e che, a vario titolo e con gradazioni diverse, va ad ingrossare le fila del ceto medio. Ne nasce una diversa richiesta di protezione sociale che non è stata intercettata dal PD perché ha cessato di interrogarsi su di essa. Tornando alla questione della distribuzione del reddito, oltre all'ovvia necessità di ragionare sul livello di salari e stipendi che garantiscano un adeguato tenore di vita, il nuovo problema che si affaccia è quello del risparmio. Tradizionalmente, l'Italia è un Paese del risparmio. La borghesia italiana degli anni cinquanta e sessan-


ta si è caratterizzata per avere di fatto finanziato il welfare con il proprio risparmio e, in base a questo fatto, aveva una funzione sociale riconosciuta, innanzitutto da se stessa. Oggi, invece, si trova di fronte ad una circostanza medita. Non ha più un ruolo e una funzione perché il reddito è stato progressivamente eroso. Gli anni della creazione del debito pubblico hanno mitigato in parte questo processo trasferendolo in avanti con un effetto "freno" che però penalizza le generazioni future. I nodi da cinque-sei anni a questa parte sono venuti al pettine. Per sostenere i consumi ed il tenore di vita si è quindi attinto al risparmio che, tuttavia, in parte è stato spazzato via dalla crisi attuale e, per ciò che ne residua, ha rendimenti vicino allo zero. Se salta il risparmio, saltano le strutture preesistenti e la funzione nazionale di una intera classe sociale. E questo il tema che sta di fronte al PD, ed a qualunque partito riformista o in qualche modo socialdemocratico. Deve ripartire dai fondamentali. A questo proposito, osserva Adolfo Battaglia, nei fondamentali bisogna tuttavia tenere presente che la prospettiva è la diminuzione progres siva del reddito. E difficile che un partito di massa si aggreghi attorno ad un problema di distribuzione del reddito che non esiste più nei termini classici. Il problema è destinato a dissolversi. Nascono invece altri problemi, come il trasferimento del reddito dai Paesi ricchi ai Paesi poveri. Discorso serio da approfondire, ma di scarsa capacità aggregante. Almeno allo stato del dibattito ricorrente.

Paolo Gentiloni Risposta global-democratica e mixofihia L'analisi di Corsini è stata molto completa ed abrasiva nell'individuare guai, difetti e problemi. Tra i guai ha puntato il dito su quello della mixofiha. Eppure, andando a fondo nelle posizioni di ciascuno, che si intuiscono essere diversissime, questo tavolo ci mostra che un mix c'è. Qui sta la complessità del problema. Io sono un innamorato deluso del PD e da come sono andate le cose in questo anno e mezzo. Ma non penso che si debba fare una cosa diversa. I guai fanno parte di questa opzione. Se dovessi dire quale è la causa fondamentale, è che questa operazione è stata un'impresa lasciata incompiuta, è stato fatto poco e non ci si è creduto abbastanza. Se dovessi dare una risposta sintetica, direi che ci vuole molto più PD, non meno, di quello che la classe dirigente è riuscita a fare fin qui. Ragionerò quindi soltanto su questo punto. Con una premessa: senza sminuire le specificità italiane che hanno a che fare soprattutto con il nesso tra democrazia e libertà. L'Italia può essere l'esempio vivente di una possibile e tendenziale scissione tra le due, un laboratorio abbastanza specifico, da questo punto di vista, per la "questione Berlusconi" e non soltanto. Ma non c'è dubbio che il caso non è italiano ma europeo. Se infatti ci fosse un'anomalia italiana rispetto ad un panorama europeo in cui tutto sommato esistono ricette, strade percorribili, allora basterebbe guardare lì, copiare le soluzioni. C'è stato un mo-


mento in cui, dieci anni fa, sembrava che l'ultima versione liberale delle socialdemocrazie potesse rappresentare una risposta vincente. Ma se guardiamo oggi al panorama della sinistra europea, francese, inglese, tedesca, il contesto non è meno disastrato. Anzi! La bella epoque degli anni novanta è chiusa. Ci sono partiti che erano dati per morti, è il caso di Bayrou, e dei liberal-democratici inglesi, che rischiano di superare i partiti di sinistra alle prossime elezioni o comunque di attestarsi attorno al 15%. Quindi, bisogna accordarsi su una premessa: non è il centro-sinistra italiano ad avere perso la testa mettendosi a fare strani esperimenti fiori dal solco. C'è un problema generale, legato ai nuovi scenari della globalizzazione ed alle paure che essa ha suscitato, cui la destra ha risposto in un modo tutto sommato rapido e tendenzialmente vincente, senza essere una destra liberale e liberista; purtroppo, perché la destra liberale e liberista negli anni ottanta ha fatto molte cose buone, da Reagan alla Thatcher. Non è un caso che la socialdemocrazia di Giddens non abbia poi smontato quasi nulla di quanto fatto dalla Thatcher. La sinistra deve chiedersi se esista una risposta democratica, progressista, di sinistra, di centro-sinistra, alla gbbalizzazione. Per me esiste. Ed è una risposta pro globalizzazione. La primissima scelta che il Pd dovrà fare in tal senso è "global-democratica". Su questo, deve rendersi conto della mutazione della destra italiana che sta diventando per molti aspetti - al di là dell'esibizione del corpo di Berlusco61

ni - antimoderna, protezionista, con addirittura accenti statalisti. Questa è la destra italiana, non certo quella di Reagan e della Thatcher; è una destra che non ha fatto alcuna riforma o liberalizzazione: Dio, Patria e famiglia è lo slogan che riecheggia in alcune posizioni di Tremonti. Per farla breve, ci sono tre punti per rispondere alla necessità di "più PD". Primo, l'identità plurale. In questo anno e mezzo il PD ha fallito nel tentativo di costruire un'identità plurale, perché ogni tanto l'ha venduta come fosse una sintesi tra Moro e Berlinguer, tra i reduci della sinistra democristiana e quelli del partito comunista, oppure come una sorta di tecnocrazia avaloriale, unita nel non parlare di questioni spinose e nel cercare un punto che metta insieme tutti sulle questioni di policy ed economia. Come ne usciamo? Tornando a riaggrapparci ai brandelli, ormai boffiti, delle vecchie identità del Novecento? Penso di no, sarebbe il peggiore dei rimedi possibili. Va interrotto il cortocircuito secondo cui un'identità plurale non si fa sulle scelte fondamentali: lavoro, globalizzazione, biopolitica, libertà, i nodi che non vanno lasciati alle religioni laiche o cattolica, perché ognuno cucini i valori a proprio piacimento. I valori sono un elemento fondante per un grande partito. Secondo, la questione della rappresentanza e della composizione sociale. Sono molto d'accordo con quanto dice Ristuccia nell'editoriale: curiosamente, due giorni prima delle sue dimissioni, 'Walter Veltroni aveva fatto


una cosa molto importante, riunendo a Piazza di Pietra, attorno alle proposte del PD, tutto lo schieramento delle forze sociali, da Confindustria alla Cgil, agli artigiani. Tutti interessati. E questo il nostro schema? Per me è questo. I dati di Nando Pagnoncelli sul Sole240re non raccontano una storia nuova, forse la misura può colpire, ma è un problema vecchio quello di cui parla; si tratta dei due cleavages DC-PC, "presenza di operai" e "frequenza alla messa", hanno retto per trentacinque anni, ma fino agli anni settanta-ottanta. Di li le cose sono andate convergendo. Non prendiamoci in giro, non è la lontananza di una parte degli operai il nostro problema. Il problema è semmai essere un partito che si rivolge alla maggioranza sociale di questo Paese. Terzo, l'organizzazione interna del PD e la forma partito. Anche qui, torniamo indietro? La maggior parte dei quadri di apparato del PD pensa di sì, esprimendosi contro il nuovismo. Ma il modello del Novecento non regge più, non esiste. Né ci si può accontentare del partito liquido. Si tratta di costruire un nuovo modello di partecipazione attiva, presenza sul territorio, uso dell'interattività della Rete, molto innovativo e bene organizzato, pur nella spontaneità (sappiamo tutti che è così che è andata con Obama). L'esperimento delle primarie ci inserisce in questo modello. Perché non ha poi ftinzionato l'operazione di quest'anno? Perché sono state primarieplebiscito. Per dire una cosa sola: se diciamo che l'esperimento è fallito e tiriamo i remi in barca, facciamo un

grande errore. Il nostro problema è costruire le condizioni perché questa clamorosa operazione incompiuta abbia poi, su diversi piani, la possibilità di compiersi, di incominciare a compiersi. Purtroppo risposte pronte da copiare non ce ne sono. Luigi Zanda Ripercorrere criticamente le ragioni degli errori Analizzare i problemi del PD in pochi minuti mi imbarazza, è difficile. Ero e sono tuttora convinto della necessità di un forte Partito democratico. Farlo era necessario nell'interesse dell'Italia (che ha bisogno di un grande partito riformista di centrosinistra) e dei due partiti fondatori, Ds e Margherita, da tempo in evidente flessione elettorale. Ds ormai al 16-17% e la Margherita al 10-11%. Niente faceva pensare che questo loro trend negativo si potesse assestare e invertire. La mia convinzione era ed è che il Partito democratico fosse la strada giusta di uscita dalla crisi politica dei due partiti e la risposta giusta ai problemi del Paese. A prescindere dall'analisi delle diverse identità e culture politiche che confluivano nel nuovo partito. Ds e Margherita erano alleati da tempo (al governo o all'opposizione) e ambedue in vistosa difficoltà. Davanti ad una avanzata consistente del centro-destra, il PD era l'unica risposta politica possibile e credibile. Naturalmente le cose si sono fatte subito molto difficili. Se davvero decideremo di analizzare con chiarezza e completezza le cause del deteriorarsi della situazione politica 62


italiana (come si è giunti allo strapotere di Berlusconi e alla crisi PD) sarà necessario non fermarsi al passato recente, ma andare indietro di decenni. La condizione dggi è il frutto di una serie di "cambiali" negative firmate da tutte le forze politiche e sociali che nei decenni hanno governato l'Italia o influito sulle decisioni di chi di volta in volta governava. Tra queste forze la presenza della sinistra e del centrosinistra è stata consistente. Le cause del progressivo disfacimento del sistema politico e dei partiti italiani sono molto antiche. Ne parleremo in altra occasione. Oggi, parlando di noi e fermandoci ai tempi più recenti, dobbiamo onestamente riconoscere d'aver sostanzialmente sprecato i cinque anni della legislatura dal 2001 al 2006. Non abbiamo costruito niente di stabile, a parte attaccare Berlusconi, denunciarne le anomalie e i vizi. Li abbiamo denunciati per cinque anni, ma abbiamo fatto solo quello. E vero che non c'era ancora il PD, ma solo l'Ulivo. Ma cinque anni allbpposizione per partiti politici con i piedi per terra possono essere una straordinaria occasione per rigenerarsi, per riorganizzarsi. Invece, abbiamo affrontato le elezioni del 2006 un po' alla garibaldina, confidando di poter lucrare elettoralmente dall'impopolarità di Berlusconi e dal suo malgoverno. Che invece si è dimostrato essere molto minore di quel che avevamo immaginato. Abbiamo fatto le primarie credendo che così come le avevamo organizzate fossero una buona prova di democrazia interna di partito. Abbiamo sbagliato. Le nostre primarie con un solo candidato 63

(e quindi con la sua vittoria già decisa in anticipo) sono state delle grandi manifestazioni di popoio che hanno fatto emergere grandi entusiasmi politici, sono state vissute come "festa politica", ma certo non sufficienti a determinare la leadership stabile di chi le ha vinte (Prodi e Veltroni). Non hanno "selezionato" la leadership. Poi ci sono stati i 20 mesi dal 2006 al 2008. Prodi ha fatto bene, ma l'Unione è stata un disastro politico. Non avevamo una maggioranza numericamente sufficiente ed eravamo troppo divisi politicamente. Il Governo è stato impopolare (anche ingiustamente), i suoi 105 componenti hanno suscitato disdoro, troppi dissensi interni, troppe le ftioruscite dalla maggioranza, troppi i ministri in piazza contro la politica del loro stesso governo. Tutti colpi dai quali non è facile riprendersi quando si ripetono senza soluzione di continuità. Così i grandi problemi politici sono rimasti tutti aperti. Il rapporto del Paese con Berlusconi è uno dei più importanti. Non abbiamo avuto l'immediata capacità di comprendere (i nostri commenti al suo discorso programmatico di maggio 2008 sono stati tutto sommato positivi) quanto sia grave l'affievolimento, l'indebolimento della democrazia prodotto dall'azione politica di Berlusconi e dai suoi comportamenti personali. Un fenomeno grave che sta sconvolgendo il nostro sistema politico-istituzionale. Nel 2005, contro la nuova legge elettorale, avremmo dovuto occupare il Parlamento, pur di non farla approvare. Anche noi del centrosinistra siamo corresponsabili


per non aver saputo mobilitare una opposizione efficace contro una legge elettorale che mina alla base la democrazia parlamentare. C'è poi la questione dellrganizzazione interna del nostro partito, altro nòdo irrisolto. Qiiestione che è emersa anche in occasione di una recente assemblea del nostro Gruppo parlamentare. E solo un piccolo esempio. Abbiamo affrontato il problema delle ripetute assenze dei nostri senatori alle sedute di Commissione e d'Aula con conseguente impossibilità di battere il Governo anche quando sarebbe stato possibile farlo. Qualcuno ha sostenuto, a questo proposito, che i problemi politici di un partito non possono essere risolti sul piano organizzativo! Non è il nostro caso. Il PD ha problemi organizzativi così consistenti che ormai sono diventati essi stessi dei gravi problemi politici. Le difficoltà della segreteria Veltroni ne sono un esempio molto chiaro. Tutte le fusioni sono complicatissime. Anche quelle dell'industria o delle banche. Quelle politiche in Italia non sono mai riuscite, sono le più difficili. Oltre ai problemi delle differenze ideali e programmatiche, nelle fusioni di due partiti politici esiste una "piccola" questione: quale organizzazione dare al nuovo partito. Come riorganizzare e con quali dirigenti il presidio del territorio, la presenza politica nelle regioni e nelle città, i circoli. Con un'assemblea costituente di cinque mila persone, come oggi ancora prevede lo statuto del PD, non si va da nessuna parte. Il Partito democratico ha bisogno di buone regole capaci di garan-

tire sia la "forma partito", sia la reale democrazia interna. La strada da fare per raggiungere questi obiettivi è ancora lunga e passa anche attraverso una ampia revisione del nostro statuto. Quindi, più Partito democratico, ma con una vista lunga. Se continuiamo ad occuparci solo delle prossime contingenze - oggi le elezioni europee, domani le amministrative, poi le regionali, dopodomani il congresso e poi di nuovo le politiche -, se ci occupiamo solo di quello che succederà fra tre mesi e se non iniziamo a lavorare sui tempi lunghi, allora non si potrà essere molto ottimisti. Questa è la scommessa. Costruire un partito vero, con un pensiero forte, una buona organizzazione, grande democrazia interna. E vista lunga. Gianni Cuperlo La discussione necessaria dentro il PD Tra i diversi paradossi della sconfitta di un anno fa, sono venuto convincendomi che uno riguarda il racconto della sconfitta che incide un po' anche sui toni del dibattito di questa sera. Sono usciti parecchi studi analitici e molto seri sul voto, da quelli classici di Itanes al volume recente dell'Università "La Sapienza", curato da Mario Morcellini e Michele Prospero, sulle ragioni della sconfitta (Perché la sinistra ha perso le elezioni?). Sono stati pubblicati non uno ma diversi pamphlet polemici e anche abbastanza abrasivi nei confronti del PD; l'ultimo è uscito i questi giorni, ed ha un titolo indicativo, FlopPd, di Giuseppe Salvaggiulo, un giornalista 64


de La Stampa di Torino:Molto critico nei confronti di questa nostra esperienza. E stato citato questa sera L'Italia contesa di Schiavone, che è un ottimo libro. Poi c'è il saggio di Marc Lazar (L'Italia su/filo de/rasoio), quello di Enrico Letta sulla cattedrale (Costruire una Cattedrale). C'è un genere letterario che si è venuto componendo nel corso di questo anno. Quello che colpisce è che da un lato c'è questa corposa letteratura, con livelli qualitativi differenziati ma complessivamente interessante, e dall'altro un partito che ha perso le elezioni, ha comunque raccolto il 33% dei voti, ha visto il suo leader - per la prima volta eletto a plebiscito da un voto popolare - dimettersi dopo la sconfitta della Sardegna, e che non discute, non affronta una discussione di merito su quello che è accaduto. Io credo che questo vuoto di discussione è divenuto con il tempo uno dei fattori della crisi attuale. E possibile, capita, che si perdano le elezioni e che si perdano male. E meno frequente che un grande partito che perde malamente le elezioni sostanzialmente non discuta, per un anno, di tutto ciò. Altro flash. Da qualche settimana si rincorrono alcuni sondaggi che parlano di un PD in tenuta elettorale dopo un inverno gelido, e cioè, dopo il picco negativo di febbraio saremmo in risalita già testati attorno al 26-26,5%. Il paradosso nasce dal fatto che se in questo momento l'intero gruppo dirigente del PD potesse apporre la firma in calce ad un impegno che certifica questo dato alle europee, tutti i dirigenti accetterebbero. Al domanda più natura65

le è: a fronte di un partito che in meno di un anno assume l'ipotesi di una flessione del suo consenso di 6-7 punti percentuali e considera questa una linea di tenuta sostanzialmente positiva, che cosa è accaduto? Che cosa produce un meccanismo, anche psicologico, di questa natura? Ad essere benevoli si può dire che in un anno, al di là degli errori di conduzione che pure possono esservi stati (nell'editoriale, si fa un'analisi di alcuni di essi, soprattutto con riferimento al Governo ombra), è cresciuta la percezione del rischio di un cedimento strutturale che rappresenta un pericolo, anche ai piani alti, tale da indurre ad una rinuncia del progetto che stava all'origine di tutto. Quindi al di là dei limiti umanamente comprensibili della sua applicazione. Il combinato di questi due flash dovrebbe fare scattare un allarme rosso. Non significa che il PD è un progetto fallito. Tutt'altro. Le implicazioni di una tale idea sarebbero assai rilevanti sul piano storico e politico dell'intero Paese. E necessario dirsi, però, con la stessa chiarezza, che serve una svolta radicale su come abbiamo inteso fin qui il nostro partito. E chiaro che in campagna elettorale si cerca di arginare i danni. Però, il rischio rimane. Il rischio è che la discussione non affronti i nodi di fondo delle difficoltà che ci investono. Veniamo a due sole difficoltà. Una è il ricatto della logica emergenziale incalzante all'interno del partito, rimandando la discussione stiategica ad altri passaggi meno pressanti. In un Paese dove si vota più e più volte e che è perennemente in crisi economica


e politica e dove è facile trovare il pretesto dell'urgenza. L'altra questione è l'idea emersa nel PD all'interno della politica del confronto politico. Il messaggio che riesce a coinvolgere emotivamente la platea in modo più efficace, è il messaggio sull'unità di questo partito, la discussione di merito che riguarda la strategia, la linea politica, e non lo scontro di poteri interno al PD. Il risultato è che per moltissime persone, e non è un aspetto banale, i problemi del progetto del PD deriverebbero in buona sintesi dal fatto che noi abbiamo discusso troppo. Quando invece il problema è opposto. Da molto, troppo tempo, noi non discutiamo. Come dimostra la difficoltà a capire le ragioni della sconfitta di un anno fa. Sono assolutamente d'accordo con Biasco sulla sovrastima della dimensione specifica della comunicazione che abbiamo avuto rispetto alla politica. Negli ultimi quindici anni, però, non nell'ultimo semestre. Con una battuta: abbiamo svuotato gli uffici studi e riempito gli uffici stampa. Leffetto finale dal punto di vista della capacità di interpretare i fenomeni reali non è stato lo stesso. Sono molto d'accordo con Luigi Zanda quando dice che il ritardo o l'errore nasce almeno dallo spreco fatto della legislatura 2001-06. Quando cioè, come partito, abbiamo inteso lo stare allbpposizione non come una condizione difficile e dolorosa da cui riparlire, ma come uno spiacevolissimo incidente di percorso che la saggezza politica e la sapienza tattica, il gioco delle alleanze, e l'intervento sulle regole, a partire dalle riforme elettorali, avrebbero potuto con facilità capovolgere in una logica a nostro vantaggio. Come in par -

te, ma solo in parte, è avvenuto nel 2006. Ma non abbiamo affrontato un passaggio importante che - qui si è parlato degli anni novanta in Europa - altre forze e culture politiche hanno affrontato: la Thatcher vinse le elezioni nel 1979, ma poi i laburisti inglesi tornano al governo nel 1997; ci sono stati diciotto anni di ininterrotto dominio conservatore lungo tutti gli anni ottanta e novanta. E quando il partito laburista di Blair torna alla ribalta, non ha più nulla a che vedere, come è ovvio, con il partito del 1979. Allora, che cosa facciamo? A noi serve un grande atto di onestà e di sincerità, nel riconoscimento dei limiti e degli errori compiuti fin qui. Il modo con il quale noi siamo approdati al PD ha pesato molto a danno della tenuta del progetto. Penso in particolare al modo con il quale noi abbiamo sciolto la sinistra italiana, l'esperienza dei partiti che sono confluiti nel PD, penso alla superficialità con cui i Ds si sono sciolti. Sono anche io un convinto assertore della necessità di questa scelta e di questo partito. Tuttavia, facendo autocritica, è davvero stupefacente oggi la semplicità, la superficialità e la semplificazione con la quale il più grande partito della sinistra italiana ha affrontato passaggi decisivi per il futuro. Resta nella memoria l'indeterminatezza delle memorie profonde, delle ragioni di questa scelta, che non erano soltanto quelle di cartello elettorale; è stata una scelta rappresentata come propedeutica, anticamera di processi politici molto più impegnativi. L'altro problema è stato pensare che la necessaria accelerazione nell'atto costitutivo di un nuovo partito, con l'anticipo di due anni rispetto al timing


iniziale, fosse qualcosa che si traducesse nella scelta da parte dei gruppi dirigenti di Ds e Margherita in una mera semplificazione dell'approdo. Cioè noi abbiamo avuto un'indicazione molto netta: espungere dal dibattito politico e strategico le ragioni potenziali di turbolenza in volo e concentrare l'energia, le motivazioni, sui fattori unificanti del progetto. Ma abbiamo finito con l'espungere dal dibattito tematiche e questioni, elementi identitari, che avrebbero avuto immediatamente dopo un impatto fortissimo sulla tenuta del progetto stesso. Non solo sulla cronaca della politica (i Dico, il testamento biologico, etc.) ma sull'intera questione del rapporto tra politica e scienze come nucleo di una nuova epistemologia della politica che la contemporaneità ci consegna. Noi abbiamo rimosso tutto questo pensando di poterlo tranquillamente traguardare nella logica di una retorica che voleva fondere i diversi filoni del riformismo italiano. Adesso bisogna spiegare dove si vuole arrivare con ciò. Questa è una questione che abbiamo rimosso e che invece ci è tornata addosso con gravità. Abbiamo nominato Obama e la Rete. Obama è anche una grande offerta politica di modernizzazione. L'ultimissima battuta, telegrafica, riguarda le alleanze. Quello che abbiamo rimosso è la presa d'atto che la sconfitta brusca di un anno fa è la sconfitta di una scommessa che aveva come legittima ambizione, con una forzatura politica ed elettorale, lo sfondamento in senso bipartitico del nostro sistema politico. Dobbiamo prenderne atto nella logica di una vo-

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cazione maggioritaria, non intesa come autosufficienza. Abbiamo giocato una partita elettorale decisiva con le regole vecchie, mentre dall'altra parte così non è stato e abbiamo lasciato all'avversario la scelta del campo di gioco, del pubblico sugli spalti e delle regole. L'errore è di grammatica politica. Oggi dobbiamo recuperare il valore politico di una cultura delle alleanze. E paradossale che l'uomo arrivato alla politica come un neofita quindici anni fa, Berlusconi, sia diventato uno straordinario teorico ed interprete della politica delle alleanze, delle sue regole, di come si costruiscono. In Sardegna, abbiamo perso la sfida di Soru con Cappellacci, ma le forze che oggi sono all'opposizione nazionale nel voto sardo di febbraio hanno raggiunto il 54% dei consensi. Abbiamo cioè perso le elezioni in Sardegna perché sul terreno squisitamente politico, di professionalità politica, su cui potevamo vantare più di qualche tradizione ed esperienza, il neofita che non è più tale è riuscito a praticare una buona politica delle alleanze che, arrivando persino a contare un pezzo del PsdA, il Partito sardo d'azione, ed inglobando l'UDc, ha creato le premesse per un risultato di quel tipo alle elezioni. O noi lasciamo perdere il discorso della vocazione maggioritaria che sarebbe uno scardinamento degli equilibri politici ed elettorali del Paese, anche interessanti ma caratterizzate da forte velleitarismo, o riprendiamo l'antica tradizione che fa parte dell'abc della politica, quella di fare anche un'analisi realistica dei rapporti di forza nella costru-


zione delle condizioni interne di azione per rovesciarle o comunque modificarle, o c'è poco da fare. Enzo Bianco domanda: E governiamo i/Paese con un'alleanza che va dall'UDC a Rfondazione comunista?

leitarismo che punta alla maggioranza del 51% in ragione del fatto che gli italiani scoprono che siamo migliori degli altri. Si fa anche con l'umiltà di ricostruire una trama di rapporti politici che recuperi forze leali sotto il profilo del consenso di un'alleanza di centrosinistra di segno nuovo.

Gianni Cuperlo No, non teorizzo affatto attorno ad un ritorno all'Unione. Dico che i numeri hanno una loro forza e che noi abbiamo deciso, consapevoli dopo le primarie, che la maggioranza di governo dell'Unione era una maggioranza ormai in crisi, per un'accelerazione sul progetto del PD. Abbiamo deciso che l'esperienza dell'Unione come centrosinistra esteso di matrice ulivista e prodiana degli ultimi quindi anni in Italia è una strategia chiusa ed è stata fallimentare. Abbiamo portato i libri in tribunale e siamo andati davanti al giudizio del Paese, perdendo. Nel 2006, noi abbiamo pareggiato le elezioni con diciannove milioni di voti alla Camera, che è il massimo del consenso del centro-sinistra dal 1994, da quando si vota col sistema maggioritario, in una coalizione larga e non più proponibile che andava da Rifondazione comunista fino a Mastella. Ma se noi non vogliamo tornare a quella coalizione slabbrata ed ingovernabile, un ritorno impresentabile al Paese, abbiamo il dovere politico, come classe dirigente, di porci il problema di come, a fronte dei rapporti numerici e politici che ci mettono in minoranza sistematica da quindici anni, riusciamo a modificare questi equilibri. E non lo si fa sulla base di un vel-

Walter Tocci Dirsi "democratici" è una sceltaforte Alla fine, il caso del PD non l'abbiamo risolto, però mi pare che la discussione abbia dimostrato che la formula era ben posta. E la difficoltà di dirsi democratico in Italia. E vero che c'è lo sfondo della crisi generale, però quando usiamo questa formula, "il caso del Partito democratico", intendiamo il fattore nazionale che produce questo effetto, la vibrazione locale di queste onde lunghe, insomma. Credo che nella parola "democratico" c'era un'ambizione forte che poi non siamo riusciti a corrispondere. Perché certo che in Europa dirsi democratico è una cosa normale, ma la storia italiana ha una sua specificità; quindi, se un partito italiano sceglie questo attributo, significa che esso mostra attenzione a risolvere un problema nazionale, un'anomalia italiana. Se guardiamo alla nostra storia repubblicana, siamo saliti sul tetto della democrazia passando per le scale esterne dell'edificio. Il problema di dirsi Partito democratico signffica trovare un modo per salire sul tetto della democrazia salendo per le scale interne dell'edificio, e cioè per la questione su come si affronta il rafforzamento e la crescita della democrazia in un Paese come l'Italia.


Ovvero, passare alle regole, alle virtù civiche, ad una statualità che un Paese come il nostro non ha mai avuto. Ha ragione Ercolessi a dire che dirsi Partito democratico avrebbe comportato un certo radicalismo e invece così non è stato, è subito emersa più di una difficoltà da parte nostra. Però credo che quando si fa un grande partito, più o meno consapevolmente, ci si porta ciletro sempre una specifica idea e interpretazione della storia nazionale. Non è solo mettersi insieme, fare un programma, etc.. Vediamo quello che ha fatto Obama, con la sua biografia che è diventata biografia nazionale, con un rapporto intensissimo tra l'idea della finzione di una nazione e la sua proposta politica. In una certa misura l'ha fatto anche Berlusconi: mettere tra parentesi la storia resistenziale, un trentennio di storia nazionale, e ricollegarsi ad un filone del radicalismo delle classi dirigenti non da poco. C'è una naturale ed intensa compenetrazione tra la biografia di un partito, la biografia di un leader, la biografia di un Paese. Il PD è una grande idea, ma il terreno che abbiamo messo in maggiore evidenza quello della ricomposizione tra sinistra e cattolici - non è altrettanto interessante, perché era un terreno già consumato. Due decadenze che si mettevano assieme. Era molto più interessante invece questo dirsi democratico in Italia, questo ricostruire un passaggio per vie interne all'edificio della democrazia. Qjesto comporta l'altra grande questione italiana: il rapporto tra riforme e consenso. Mai risolta perché la borghesia italiana non ha mai avuto capacità egemonica. E perché dall'altra parte

non c'è stata una socialdemocrazia capace di farsi portatrice di certe istanze al governo. Quindi noi siamo ancora al dibattito fra Ingrao e La Malfa degli anni sessanta sulla programmazione, ovvero come si fanno le riforme con il consenso popolare. E su questo che il Partito democratico era chiamato a creare un fatto nuovo. Se noi guardiamo a quello che è avvenuto negli ultimi due anni, il tracollo del PD è avvenuto proprio su questo, le riforme e il consenso, la partecipazione politica. Il PD ha fallito su entrambe in pochi mesi. Sulle riforme perché non è vero che il Governo Prodi è finito per il discorso della frammentazione. Nei primi sei mesi, nel Governo Prodi ha comandato il gruppo riformista ed ha fatto scelte sciagurate, dimostrando una chiara impreparazione a governare. Con una finanziaria demenziale, che dà cinque miliardi agli industriali e se li mette contro. Quella impreparazione, ha ragione Ristuccia, nasceva dal modo in cui abbiamo fatto opposizione. Nasceva anche prima, da altri fattori - come ha scritto Salvatore Biasco 11 - dal rapporto tra cultura e politica. Noi siamo stati davvero riformatori quando abbiamo portato l'Italia in Europa, quando, dopo la Prima Repubblica, dal 1993 al 1996, ha funzionato un certo rapporto tra cultura e politica. Il programma di Prodi del 1996 raccoglieva tutta una serie di elaborazioni della sinistra del riformismo italiano di quegli anni, proprio quando cadevano i partiti. Poi il rapporto si è spezzato. Siamo passati dall'intellettuale organico allo staffe piano piano ad un irrigidimento ed mandimento di questo rapporto. Se noi faces-


simo un bilancio delle politiche pubbliche che noi abbiamo promosso ed elaborato in questi ultimi anni, dovremmo dire che sono state spesso irrealizzabili, banali, scontate. Il riformismo del primo Governo Prodi è molto distante. C'è una crisi riformatrice. La capacità di governo del PD è assolutamente al di sotto della sua controparte, anche perché non c'è stato ricambio negli ultimi dieci anni. Altro punto è la questione delle primarie. E giusto il discorso sulla non trasparenza democratica, ma a me non interessa il fatto in sé, cioè la regola di partecipazione, quanto invece il fatto straordinario che si è espressa un'energia post-ideologica di milioni di persone, un'energia vitale formidabile. Averla delusa è un fatto grave. Lì c'è una responsabilità del ceto politico che ha protetto le sue case matte, perché ha capito che, se il discorso iniziato

con le primarie fosse stato portato fino in fondo, si sarebbe dovuto smantellare quello che io chiamo il partito del franchising. Questo ha creato una mutazione, da partito della partecipazione politica quale potevamo essere siamo diventati il partito della passivizzazione del nostro elettorato, che non va più a votare. Non è che sta vincendo Berlusconi: lui sfonda perché noi abbiamo fermato i nostri. Questi due problemi che dovevano essere l'anima dell'invenzione del PD, ossia nell'Italia di oggi riproporre una capacità riformatrice con il consenso popolare, sono stati trascurati. Lo smacco è serio. Il progetto è fallito su elementi importanti. Tutto si può riprendere, ma è importante confrontarsi sul perché dello smacco. Un confronto sul perché in due anni si è bruciata una grande idea politica. Dalla diagnosi dovrà pur venire ftiori una soluzione.

http://www.lafrusta.netlrec_ricolfi.htflhl

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le/29/LUNCA_MARcTA_DECLI_INVISIBILI_CO_9_

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090429006.shtml

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http://www.lacropoli.itlarticolo.php ?nid254

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queste istituzioni

n. 155 ottobre-dicembre 2009

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IIoe della N

"La questione della burocrazia è anzitutto e sopratutto questione di uomini' Era il maggio del 1922 e - nel momento più acuto della crisi dello Stato liberale Augusto Monti, dalle pagine del settimanale gobettiano "La Rivoluzione Liberale", sentenziava che "a risolvere la questione della burocrazia si può concorrere anzitutto creando e rinfocolando tra gli impiegati la religione della cosa pubblica, cioè educando gli impiegati» Il passo verso l'attuale polemica antfannulloni è breve. Le osservazioni di Monti e la corrente vulgata (mutatis mutandis) mettono in luce come ilproblema dell'inefficienza dell'amministrazione sia spesso stato ricondotto al problema degli impiegati: una permanenza che, a dire il vero, ha caratterizzato anche l'approccio politico al tema delle rjforme amministrative. La soluzione, ci sembra, dovrebbe essere cercata più in profondità. Nell'editoriale del n. 145, Ritrovare ragioni e presupposti di una buona amministrazione, si invocava - nuovamente - una animazione del mondo dell'ammini strazione, nella piena convinzione che buon governo sia, innanzitutto, buona amministrazione. Torniamo sul tema, proponendo alcune riflessioni su quel mondo gnomo (la felice espressione è di Sabino Cassese) che è la burocrazia pubblica. Innanzitutto un esempio di travettismo virtuoso: ilprefetto. Dal convegno, tenuto il 14gennaio 2009 presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione in occasione della presentazione del volume "Iprefetti in età repubblicana. 1946-2002" [si riportano gli interventi dei relatori: Marco de Nicolò (Università di Cassino), Giuseppe De Rita (CENsI8), Stefano Rolando (Università IuLM)], emerge unafigura amministrativa perfettamente inserita nelle dinamiche sociali in atto, che ha saputo dimostrare, ancora una volta, profonda conoscenza del territorio, grande capacità professionale e disponibilità a nuove funzioni. Cogliendo appieno le novità istituzionali degli ultimi decenni e declinando il proprio ruolo verso i cambiamenti 71


in corso i prefetti fanno realmente parte delle élite del Paese: questa la conclusione che emerge dagli interventi dei discussants. Il secondo contributo, partendo da una rfZessione sul Bilancio dello Stato, spinge il ragionamento verso una (quasi) elementare constatazione: spesso strategie pubbliche ed applicazione delle stesse non coincidono. Continue riforme (normative) hanno reiterato nel tempo principi generali e obiettivi generici, senza che sia mai stata valutata l'ffettiva incidenza sull'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e —fondamentale - sul personale predisposto ad implementare quelle stesse riforme, con il grave —per il Paese - risultato di invalidazione delle innovazioni introdotte. Senza una "inclusione parteciativa" dei pubblici dipendenti nei tentativi di riforma delle amministrazioni si rischia di rimanere bloccati al momento normativo, senza ottenere alcun risultato importante per la modernizzazione del sistema pubblico del Paese. L'ultimo intervento proposto è un articolo del quotidiano inglese "The Guardian", sullo sciopero dei dipendenti della Royal IVJail, le poste britanniche. Le agitazioni che lo scorso ottobre hanno interessato il servizio postale inglese, con laparteczpazione allo sciopero di oltre centomila dzpendenti, hanno posto il governo anglosassone di fronte all'ormai sempre più incombente difficoltà che gli amministratori contemporanei si trovano a doverfronteggiare: la disponibilità economica infinita non èpiù un concetto che rientra tra le possibilità a disposizione dei nostri governanti. Come si conciliano concetti quali privatizzazione, esternalizzazione e scarsità di risorse con la necessità di preservare migliaia di posti di lavoro? Il ruolo della contrattazione sindacale èpiù che mai centrale per il raggiungimento di una mediazione, poiché non è sempre vera l'inconciliabilità tra gli interessi delle burocrazie e quelli del Paese. Il capitale professionale delle amministrazioni pubbliche è una enorme risorsa e può essere una grande opportunità: a tale .fida i governi dovrebbero dedicarsi,poiché essa può condizionare/o sviluppo de/Paese reale. Ne siamo convinti. Ersilia Crobe

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I prefetti io età repubblicalla. Uu'lite aiiiuiioistrativa della Repubblica di Marco De Nicolò, Giuseppe De Rita, Stefano Rolando

MARCO DE

J

NIcOLÒ

prefetti costituiscono un'istituzione che ha attraversato senza soluzione di continuità la storia unitaria del nostro Paese. Perfino istituzioni pubbliche più importanti, pensiamo al Parlamento durante il periodo della' dittatura fascista, ad esempio, hanno avuto nel corso della storia nazionale momenti di interruzione delle loro attività, oppure trasformazioni radicali delle loro attribuzioni. Riflettere sul ruolo e sulla figura di questo importante funzionario è di fondamentale importanza - nella convinzione radicata che la storia amministrativa sia parte integrante della storia sociale del Paese. Il volume "Iprefetti in età repubblicana. 1946-2002", a cura di Stefano Sepe e con saggi di Laura Mazzone, Ignazio Portelli, Giovanni Vetritto e Michele Fianco (Il Mulino, 2006) consente una buona riflessione sul tema. Innanzitutto ci sono nel volume notevoli elementi di novità. Apprezzo il riferimento temporale dello studio: sul periodo repubblicano la letteratura disponibile è piuttosto scarsa, questo è il primo contributo che abbraccia un arco temporale così ampio, offrendo una fotografia delle varie fasi e delle varie "ricollocazioni" della figura del prefetto nella storia recente del Paese. Un'ulteriore novità - fondamentale, direi - è la definitiva concettualizzazione del prefetto come élite amministrativa: in dottrina questo è un argomento soggetto a diverse interpretazioni, ma oggi, in questo libro, se ne trova la definitiva teorizzazione. Il prefetto è un'élite amministrativa, nel senso più ampio del termine: lo è stato a lungo nel periodo liberale come terminale degli impulsi del potere centrale ma anche come recettore delle istanze locali; lo è stato nel periodo fascista quando la gerarchia del Partito nazionale fascista ne ha insidiato il primato nelle province; lo è stato per il periodo repubblicano prima dell'istituzione delle regioni per continuità amministrativa di riferimento (sia dello 73


Stato, sia delle pubbliche amministrazioni, sia dei cittadini) e lo è stato anche dopo il 1970, quando le regioni sono state finalmente istituite e il suo raggio d'azione si è solo apparentemente ridotto perché sono cresciute progressivamente le sue possibilità d'azione in ambito sociale. Sono convinto che lo sia anche oggi che il baricentro degli equilibri di potere va spostandosi verso la periferia senza un corrispondente spostamento di competenze. E proprio perché il prefetto viene continuamente formato, perché è continuamente sollecitato dalle concrete questioni che gli si presentano sul campo e proprio perché una corrispondente formazione manca nella crescita complessiva della nostra classe politica e di amministratori locali, il prefetto "torna utile", anche oggi. In questo sfortunato (per il Paese) "scarto" di professionalità e preparazione vengono enfatizzate l'autorevolezza del ruolo prefettizio e le sue competenze. Ancora oggi, dunque, il prefetto è pienamente parte della classe dirigente del Paese. Altro elemento di assoluta novità è la metodologia utilizzata nella ricerca: in questo libro i prefetti prendono voce. Qjesto è un tema che più volte con Stefano Sepe abbiamo toccato, anche in occasione di altri convegni. Ricordo che nel 2002 eravamo presso la Scuola Superiore dell'Interno in occasione di un convegno e mi rivolsi alla platea implorando i prefetti presenti di scrivere memorie! Se da un lato, infatti, il prefetto è una delle figure più indagate dalla storiografia, mancano quasi totalmente autobiografie. Non so se questo sia riconducibile alla notoria riservatezza del corpo prefettizio; i prefetti non hanno un culto ottuso della gerarchia, piuttosto, mantengono un orgoglio discreto, che ha origini nella lunga tradizione della carriera. Certo, ci sono delle eccezioni rispetto a questa assenza complessiva (il prefetto Buoncristiano ne è un esempio), tuttavia si sente la mancanza di avere a disposizione un corpo di memorie o diari personali, impressioni e riflessioni che possano gettare un fascio di luce sul sentire dei prefetti, sul loro vivere la professione. Inoltre, vista l'attitudine alla scrittura, propria dei prefetti, che certo non si lasciano intimorire da un foglio bianco, il rammarico è ancor più vivo. E qui che il gruppo coordinato da Stefano Sepe è riuscito.— con doti ammirevoli di persuasione - a far parlare questi funzionari dello Stato, offrendo allo studio un valore aggiunto in originalità: sembra questa una delle parti di maggior interesse del volume, poiché si offre al lettore una raccolta di testimonianze organizzate, non impressioni di funzionari buttate giù in preda a ricordi estemporanei, ma una serie di riflessioni organizzate sistematicamente che riescono a dar conto dell'idea che il prefetto ha di se stesso, della propria professionalità e del ruolo che questa istituzione ha nell'ordinamento statuale. Un altro elemento di rilievo spicca nella ricerca: non si è solamente fornita un'interpretazione sul ruolo del prefetto in età repubblicana, ma anche - ecco l'innovazione più rilevante - l'ulteriore sforzo teso a tracciarne una sorta di 74


identikit, una felice sintesi della rappresentazione e dell'autorappresentazione del corpo prefettizio. Voglio citare un passaggio, l'incipit del saggio di Giovanni Vetritto, che dimostra quale conoscenza del corpo prefettizio abbia il gruppo di ricerca per poter, con poche righe, sintetizzare in modo magistrale l'identikit de/prefetto: "maschio, con assoluta certezza de/passato meno prossimo, con altissima probabilità anche in annipiù recenti nei quali si attenua ma non scompare il tabù di genere. Meridionale, probabilmente campano o siciliano, e in questo caso rispettivamente più spesso napoletano o palermitano. Con altrettanta probabilità proveniente da picco/i centri piuttosto che da città capoluogo. Laureato, quasi sempre in giurisprudenza o solo in rari casi, in seconda istanza, in scienze politiche; munito a vo/te di una seconda laurea spesso a carattere non giuridico istituzionale' E si va avanti così, con una descrizione che invoglia a continuare pagina dopo pagina e che unisce la fluidità del linguaggio ad un apparato critico forte. Oesti elementi sono al servizio di un volume che si può leggere: riesce ad appassionare coloro che non hanno un background di letture così approfondito, ma, nello stesso tempo, avvince anche gli appetiti più robusti. Risulta appassionante anche la riflessione storica sulla vita del prefetto lungo l'arco del periodo repubblicano: il saggio di Laura Mazzone traccia un'interpretazione convincente. I prefetti ebbero un ruolo fondamentale nel periodo della Ricostruzione, non solo quella materiale ed economica del Piano Marshall, ma anche quella morale del Paese: un Paese che usciva dalle macerie della guerra e della dittatura, smarrito nella sua identità e che cercava di ridefinire se stesso; un Paese nel quale non esisteva autorità, o meglio, diviso tra due autorità statali, una forza dccupazione, forze armate prima nemiche poi liberatrici. Insomma, un Paese senza Stato: eppure i prefetti c'erano, erano li ed incarnavano l'immagine dello Stato, lo Stato prossimo, quello ancora non definito. Si può dire che quando lo Stato non c'era, c'erano i prefetti comunque a rappresentano, a segnare una linea di continuità, una certezza di riferimenti per la collettività. Nel Sud i prefetti agirono in funzione di quello che possiamo definire il loro regno, l'emergenza. In una situazione in cui lo Stato centrale era latitante e si andava costruendo un governo che, almeno nella struttura e nelle funzioni, tentava di ricordare una condizione di normalità, i prefetti erano in prima linea, con il loro tradizionale ruolo di mediatori tra centro e periferia, con particolare attenzione, però, a catturare le istanze della periferia e trasferirle al centro. Parliamo di urgenze pratiche: necessità di carburante, di manodopera, urgenza di materiali per costruire, assistenza medica. Emerge, dunque, una capacità di resistenza all'urto della guerra, un adattamento alle circostanze più proibitive, che nessun'altra istituzione, messa alla prova, è riuscita a dimostrare. Nessuno di loro ha avuto la fama di Jean Moulin, ma molti hanno dimostrato comunque, anche se più modestamente, da quale parte stare nel momento delle scelte.

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Naturalmente, c'è anche dell'altro: sarebbe troppo benevolo - nonché sciocco saltare le pagine che descrivono le "fasi dmbra": non si può omettere le responsabilità di molti di questi funzionari nel nuovo contesto internazionale della guerra fredda. Con un'adesione "naturale" alle necessità di mantenimento dellbrdine pubblico, a volte alcuni di essi tracimarono in interventi eccessivi, superando quella linea di confine che è la neutralità dell'intervento prefettizio. Certamente è sempre bene tener presente che il prefetto è anche un organo politico, un agente del governo, e questa dipendenza è rimasta immutata dalla nascita fino a oggi. Oindi si deve sempre porre la questione: a chi risponde il prefetto nell'esplicazione delle sue funzioni. Nonostante tutti possano riconoscere nella figura prefettizia uno degli istituti longevi, che è stato sempre confermato, in ogni tipo di regime, che ha superato rovesci politici a cui non hanno resistito partiti e istituzioni centrali, l'istituto è stato più volte messo in discussione. Nel corso del periodo repubblicano più voci si sono levate a favore dell'abolizione di questa figura amministrativa; fin dal momento di stesura della costituzione si palesarono le due correnti di pensiero (pensiamo ai dibattiti in Commissione dei 75), alla fine, la questione fu rimandata a legge ordinaria; scegliendo di non pronunciarsi, i costituenti, decretarono la "debolezza congenita" del prefetto repubblicano, ritenuto anacronistico e, a volte, addirittura "anticostituzionale". Grandi nomi, dei più diversi orientamenti politico ideologici, si sono pronunciati per la sua abolizione: Luigi Einaudi, Massimo Severo Giannini, Guido Carli, solo per farne alcuni, autori pregiatissimi, che tutti noi abbiamo apprezzato per il loro grande contributo intellettuale. Non per difendere pregiudizialmente l'istituto prefettizio, ma anche a rileggere oggi quelle pagine, pur volendo dare per fondati i motivi della desiderata abolizione, essi non hanno offerto una valida alternativa. Sembra, piuttosto, che essi si scagliassero contro l'istituto prefettizio per scagliarsi contro lo Stato autoritario, contro il sistema accentrato, contro la negazione delle autonomie locali, quasi il prefetto incarnasse le scelte compiute dal potere politico. Devo confessare che rimango sempre un po' colpito nel rileggere quelle pagine, quasi a sorprendermi sempre che autori non solo cari, ma persone di specchiata onestà intellettuale, abbiano voluto negare a se stessi le vere origini e le vere responsabilità della negazione delle libertà che cercavano di ritrovare. La riprova è che il prefetto - come dimostra questo libro - non solo è sopravvissuto egregiamente nel sistema democratico repubblicano, non solo ne è stato uno dei punti di forza, ma non ha certo alterato la natura democratica della nostra Repubblica. Se fossi ottusamente sistematico dovrei prendere in considerazione, per completare il discorso, anche quelle interpretazioni più recenti che ritengono ormai superfluo l'istituto prefettizio. Ma mi sembra il caso di continuare a volare alto, per cui dopo aver citato oppositori dell'istituto di così alto livello, non voglio precipitare

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nell'analisi di posizioni propagandistiche e nella facile contestazione di una deriva ideologica "territorialistica". Certo è che il prefetto è stato spesso una sorta di parafulmine per la classe governativa del Paese: dalla cattiva coscienza di una politica debole e incerta in alcuni frangenti, come nel caso dell'ascesa del fascismo, così come nel banale e routinario scarico di responsabilità sull'anello debole della catena. Il prefetto Mosca, in altra occasione, ricordava come in Francia venga appunto definito "il fusibile", proprio a causa della posizione scomoda e su cui possono essere riversate anche responsabilità altrui. Un ultimo passaggio, più che una riflessione sul volume, vuole essere un ragionamento generale su alcune dinamiche in atto. La nostra è una democrazia che ha avuto molte incertezze nel definire il suo assetto territoriale: pensiamo al lungo percorso che ha portato, partendo dal dettato costituzionale, all'istituzione delle regioni negli anni settanta. Oggi assistiamo all'affermazione di un'idea - che, a dire il vero, è un termine che secondo me poco fonda nella vera sostanza giuridica - il federalismo. Da studente mi era stato spiegato che il federalismo è l'unione di più Stati che volontariamente decidono di rinunciare a parte della loro sovranità in favore di un ordinamento sovranazionale: ebbene, oggi questa definizione è superata? Non ho ricevuto mai risposta. Oggi si parla di federalismo per descrivere il passaggio di alcuni poteri dallo Stato centrale alle regioni, certo anche il regime fiscale dovrebbe mutare, ma continuo a rimanere perpiesso per la facilità con cui, non solo nel dibattito mediatico, ma anche in quello di maggior livello, tale termine sia stato acquisito come fosse un termine corretto da usare, come se la Regione Lazio, per fare un esempio, potesse disporre di una propria polizia, dileggi che comportano rilievo penale diverse da quelle della Toscana. Ma, a parte questa mia personale perplessità, questo indirizzo impone, anche nel dibattito che stiamo facendo, una domanda: c'è posto per il prefetto in questa nuova realtà ordinamentale? Ebbene, vi devo confessare - da cittadino appassionato, più che da studioso -' i più recenti indirizzi mi preoccupano: sono sempre più terrorizzato nel constatare il continuo e progressivo affievolimento dei controlli, l'idea di una sempre più estesa influenza della politica (nazionale o locale che sia) nella cosa pubblica, sia perché a tale estensione del ruolo che la politica si auto attribuisce non corrisponde un'adeguata preparazione del personale politico, sia perché la cronaca ci racconta di una perdita del senso delle regole, sia perché la classe politica nel suo insieme non ha dato né prove né garanzie di pulizia etica. Si è usciti dal rivolgimento del 1992-1993, che ha cancellato partiti fondatori della nostra Repubblica, tanto che oggi il partito di più lunga vita è la Lega Nord e ci sono molti tra noi che già erano adulti quando non esisteva ancora, non con una maggiore certezza del diritto, non con una serie di più efficaci (non più numerosi, si badi) controlli, ma con uno spirito di insofferenza verso un maggiore rigore e con un concreto depotenziamento di regole e controlli. 77


E un sistema di controlli non significa imbrigliare una democrazia ma, al contrario, garantirle maturità, offrire serenità e fiducia ai cittadini, dare capacità di provvedere alla propria trasparenza. Concludendo, credo che la media del personale politico e amministrativo locale non sia oggi in condizione di garantire quella preparazione, quella competenza e quel puntamento sulla stella polare del diritto, assicurata finora dai ftinzionari dell'amministrazione dell'Interno. Questi professionisti dell'amministrazione hanno dimostrato, nel corso di tutta la loro storia, di saper garantire una grande professionalità: quindi dopo avere espresso le mie preoccupazioni di cittadino, devo dire da studioso che non sono troppo preoccupato per la loro sopravvivenza, poiché molte volte ancora la comunità si troverà ad aver bisogno dell'importante apporto dei prefetti. In questi anni il prefetto ha saputo arricchire la sua importante funzione di mediazione tra centro e periferia con grandi capacità di coesione e dialogo tra le varie componenti della società, e questo, a mio giudizio, lo rende ancor più indispensabile.


GIUSÉPEDF RITA

C

ome si colloca il prefetto nella grande bufera in corso di trasformazione strutturale della società? De Nicolò ci ha ricordato come la figura prefettizia abbia attraversato tutta la storia unitaria: l'unità, la dittatura, l'8 settembre, la repubblica. Il prefetto è sempre rimasto fermo al suo posto, continuando a svolgere le sue funzioni, una permanenza dell'organizzazione "ordinamentale" del nostro Paese. Oggi si assiste, però, all'insorgere di due culture che mal si coniugano con il ruolo prefettizio. Innanzitutto, il federalismo. L'affermazione del federalismo svuota gravemente la funzione prefettizia, non a caso in alcune regioni a statuto speciale, la Val d'Aosta ad esempio, il presidente di regione ricopre anche il ruolo di prefetto. Questo mi sembra, ad oggi, uno dei più importanti mutamenti morfologici della società con il quale i prefetti devono fare i conti. Non l'Europa, che impone direttive settoriali, imponendo un modello verticale di decisionalità, ma la cultura del federalismo, perché essa presuppone una rincorsa a/potere elettivo. E' l'orizzontalità che spaventa i prefetti, ed il federalismo, portando con sé concetti quali il policentrismo e la dispersione-delocalizzazione dei poteri, sembra essere la rivincita dei governatori, dei rappresentanti eletti, sulla carriera prefettizia. De Nicolò ha espresso con sincerità i suoi timori riguardo alla sempre più estesa influenza della politica nella cosa pubblica: è questa una dinamica in corso da ormai qualche decenapre più emergente drammatizzazione/personalizzazione delle emergenze. Se infatti l'emergenza è sempre stata, come si è detto, il regno dell'attività prefettizia, oggi assistiamo ad una personalizzazione del potere - se ne ebbe un antecedente nella crisi di Sigonella, ricordate Craxi in quell'occasione - che porta ad un'enfatizzazione drammatica delle situazioni di emergenza. Se andiamo ad analizzare alcuni casi recenti - penso all'emergenza dei rifiuti in Campania o alla crisi per la piena del Tevere a Roma - vediamo che i poteri eletti, Presidente del consiglio piuttosto che sindaco, non delegano al prefetto, ma giocano un ruolo di primo piano, al massimo demandando a uomini di riferimento, come il commissario straordinario Bertolaso, in maniera tale da mantenere a sé la responsabilità. Leggendo le interviste riportate nel volume ho percepito, in alcune risposte date dai prefetti, una sorta di malinconia per lo svuotamento mediatico di questo corp d'Etat; elemento fondamentale, come giustamente osservava Stefano Rolando, dell'identità dei prefetti è la percezione che gli italiani hanno del ruolo del prefetto, anche grazie al modo con cui il sistema mediatico ha rappresentato questo funzionario dello Stato. La personalizzazione in atto, ne svuota totalmente il significato simbolico. 79


Insomma, la crisi del prefetto oggi non è riconducibile alle voci illustri che si levavano contro l'utilità del prefetto, da Nitti a Carli, per citarne alcuni. La crisi del prefetto oggi è nei fatti, nel progressivo svuotamento e nella lenta erosione di quel significato simbolico cui si faceva riferimento. Questo è il punto centrale del rapporto tra prefetto e Stato. E' secondo me fondamentale partire da queste considerazioni per capire chi è il prefetto oggi e se fa parte o no dell'élite del Paese. Come ha splendidamente sintetizzato Stefano Sepe, nell'introduzione al volume, il prefetto è immagine dello Stato in cui s'incarna e in cui lavora. Sembra necessario, quindi, chiedersi che cos'è lo Stato, oggi. C'è una bellissima riflessione di Paolo Prodi sulla trasformazione dello Stato moderno da "Stato sovrano" a "Stato sistema". La nostra idea di Stato, che risale a cinque secoli fa, è in trasformazione: lo Stato forte e centralizzato, che impone la sovranità dall'alto, che tutto regola e gestisce, non esiste più. I prefetti del periodo unitario erano strumento di quella sovranità, avevano finzioni di mediazione con le popolazioni di riferimento, ma rientravano perfettamente in quella modalità piramidale di potere propria dello Stato sovrano. Oggi si va verso uno "Stato sistema", nel quale c'è una frantumazione dei vecchi paradigmi di riferimento, forme di deresponsabilizzazione e delega del potere verso l'alto (Europa) e verso il basso (legittimazione popolare attraverso il voto) che creano un vuoto di sovranità, che può essere riempito solo da chi agisce sul territorio. La vera svolta è questa: il potere ce l'ha chi riesce a fronteggiare la quotidiana gestione del territorio, chi riesce ad essere un problem solver. E' qui che il prefetto può giocare un ruolo centrale, riproponendosi come permanenza dellbrdinamento dello Stato: il prefetto, più degli eletti, può riuscire in questo, ne ha la capacità e la preparazione necessari. In questo, il corpo prefettizio può essere élite del Paese: dal volume si evince che i prefetti lo hanno capito benissimo. Dalle interviste si capisce come lo spirito di appartenenza si sia rafforzato: le domande sull'identità, sulla socializzazione tra colleghi e sull'associazionismo professionale mostrano una coesione che non è possibile rinvenire in nessun altro corpo dello Stato. I dati offerti nel volume sono un'ulteriore conferma della consolidata cultura della professione: se andiamo a guardare gli incarichi esterni al ministero dell'Interno vediamo che si riduce sempre più il numero di prefetti che esce dall'amministrazione, dimostrazione del grande orgoglio del ruolo svolto. Altro elemento che ritengo essere fondamentale è la formazione generalista dei prefetti, che fornisce loro la capacità di governare la dimensione del pragmatismo, i problemi reali del Paese. Sono questi i punti di forza del corpo prefettizio, le caratteristiche che lo renderanno figura in grado di gestire la postmodernità, che lo privilegeranno nei prossimi decenni, che lo renderanno, ancora, una permanenza di riferimento. 1.1101


STEFANO ROLANDO

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l libro curato da Stefano Sepe sull'evoluzione del ruolo prefettizio nell'Italia repubblicana è costruito su una originale ricerca identitaria, effettuata sui fogli matricolari dei prefetti italiani. Cosa che ha permesso di imbastire un'analisi interpretativa basandosi su preziosi elementi strutturali (la provenienza geografica, gli studi, i percorsi di carriera, la qualità e la tipologia degli incarichi, eccetera). E' Laura Mazzone a dirci che l'istituto prefettizio viene da molto lontano (il praefectus era un ftinzionario romano) e che all'atto dell'unità d'Italia la classe dirigente cavouriana scelse alla fine il modello costituzionale francese basato sulla centralità dello Stato e sul ruolo dei prefetti rispetto al modello per il quale pure batteva il cuore di quel parlamento, ovvero il modello federalista, in realtà perché si temeva che all'epoca il controllo del territorio vedesse troppa forza nei preti e nei briganti così da non suggerire per il momento ipotesi di decentramento e di federalismo. La ricerca di Sepe e del suo gruppo di studio consente quindi di esaminare fatti legati alla formazione di un ceto professionale pubblico ed esaminare fatti legati al rapporto tra ftinzioni e poteri. Il mio punto di preferenziale attenzione è quello dello sviluppo di un profilo simbolico riguardante il ruolo dei prefetti, ovvero quello della percezione identitaria. Innanzi tutto di sé stessi, poi da parte della società italiana e poi del sistema mediatico. Per fissare un punto alto nella auto-percezione dei prefetti oggi operativi, segnalo una riflessione di Carlo Mosca contenuta nella sua presentazione del libro, che si riferisce tacitamente al lungo ciclo di crisi e poi di fuoriuscita dalla crisi che il sistema dei prefetti italiano ha vissuto ed espresso a partire dagli anni settanta (con l'avvio del sistema regionale) e che poi si è riacutizzata negli anni novanta nel quadro di un accentuato dibattito sulle riforme istituzionali. Scrive Carlo Mosca: "Bisogna riscoprire le ragioniper cui i prefetti aderiscono pienamente a una cultura istituzionalefondata profondamente e con assoluta indzpendenza sulla logica del servizio pubblico e sul senso dello Stato". Una linea che il prefetto Mosca ha dimostrato di impersonare anche in contesti difficili e delicati e pagando prezzi personali. Questa riflessione qualche anno fa sarebbe sembrata ovvia. A me sembra che - letta nel contesto culturale e politico del Paese oggi - essa non sia affatto scontata. Il senso di appartenenza ha qui motivi molto mirati per esprimersi. Naturalmente noi dobbiamo riportare questo discorso sul tema della percezione ad un quadro più ampio di percezioni. La presenza qui di Giuseppe De Rita induce a mettere al primo posto il tema della cultura istituzionale degli italiani, ovvero di cosa resta di un lungo e negli ultimi anni tormentato dibattito su come è formata oggi l'idea di Stato, di Patria e di Nazione (concetti distinti ma complementari) nella coscienza collettiva degli italiani.


Oui si colloca anche il tema della "meridionalità" della pubblica amministrazione italiana, che in particolare nel sistema dei prefetti mi fa ricordare (io nipote di un prefetto siciliano) che negli anni in cui ero di ruolo alla Presidenza del consiglio dei ministri si diceva che il prefetto nato più a nord di tutto il sistema era il prefetto Carlo Gelati nato a Parma. Ho scritto più volte che non si può rimproverare ai meridionali di avere scelto - nel quadro di distinte vocazioni forzate dello sviluppo dei territori italiani - la via del lavoro nell'amministrazione quando la borghesia del nord per tutto il Novecento ha considerato una diminutio immaginare per i propri figli un lavoro nella cosiddetta burocrazia Vi è poi il tema della collocazione valoriale dello Stato nelle nuove geometrie istituzionali intese non come il rigido sistema amministrativo ma come l'ambito di differenti perimetri in cui si esercitano le forze dell'economia e dei consumi. E quindi alla fine anche delle decisioni sugli interessi collettivi. Parlo dell'Europa - che obbliga a cedere sovranità - e parlo della dimensione giocai che non è governata da istituzioni ma che è il teatro di realtà sempre più condizionanti. Noi dobbiamo avere la forza di misurare il ruolo dei rappresentanti più ortodossi della statualità, come lo sono i prefetti, all'interno di queste geometrie che differenziano il rapporto tra poteri e interessi. Penso che scopriremmo sia fattori di tenuta che di spaesamento. Ci torneremo tra un attimo. Abbiamo parlato di ruolo e abbiamo parlato di simboli. Ora la relazione tra valori simbolici e valori reali è espressa dalla comunicazione, da un racconto, da una rappresentazione di sé. E anche qui bisognerebbe porsi una domanda: di quanta cultura di comunicazione dispone oggi quel Ministero e quel corpo professionale per procedere con forte o meno forte presidio a quel racconto, a quella rappresentazione? Come si capirà non parlo della comunicazione che è prevista e prescritta dalla legge 150 del 2000. Parlo di quella complessa capacità interpretativa che si esplicita nell'attività di accompagnamento della società, di intervento civile sui cittadini e sulle imprese. Parlo di una più generale cultura di branding che investe ormai in modo importante le istituzioni. Parlo della coltivazione della relazione come leva strategica dello sviluppo delle proprie funzioni. Ebbene, mi sia consentito ricordare che alla fine degli anni novanta l'allora ministro dell'Interno Rosa Russo lervolino mi chiamò per propormi di progettare qualcosa di simile a ciò che avevo appena finito di realizzare al ministero della Pubblica Istruzione chiamato da Luigi Berlinguer a disegnare il profilo organizzativo dell'attività comunicativa - prima inesistente - di quell'amministrazione, fino a costruire una riattivazione di 1500 posti di lavoro che con prov vedimento normativo ebbero il via proprio nel 1999 sulla base di un mio rapporto di ricerca. Dissi al ministro che sarebbe stato velleitario fare un progetto prescindendo completamente dal quadro di volontà e di resistenze interne e


che era bene procedere prima con una serie di riservate interviste a tutti i direttori generali. Quella che mi impegnò di più fu quella con il prefetto Masone, capo del Dipartimento di Ps. Ebbene quel Dipartimento aveva il 90% delle risorse e del carico operativo di comunicazione di tutto il Ministero. L'attività cosiddetta civilistica - tutta - non arrivava al 10%. Era chiaro che ciò schiacciava su una funzione "patologica" (ovvero di intervento sulle patologie) l'intera azione di un corpo professionale pubblico che non doveva invece essere letto solo come un ministero di Polizia. Lo stesso prefetto Masone capiva il problema del riequilibrio purché non gli si sottrassero risorse. Cambiò repentinamente il ministro e quel rapporto iii sotterrato. Anche culturalmente. La distorsione rimase. E i risultati si sono visti. Alla luce degli spunti che ho brevemente presentato arriva così il punto da fare su un nodo storico circa il ruolo prefettizio, che investe anche tutta l'alta amministrazione italiana. Si può correttamente parlare di "classe dirigente"? Nel senso di riconoscere in pieno nel loro operato i tre caratteri della competenza, della decisionalità e della responsabilità? Il vocabolo stesso "prefetto" viene dal latino prae-facere cioè mettere a capo. Dovrebbe dare già una risposta. Ma nella realtà il breve ricordo che ho citato mi induce a fornire questi elementi: l'amministrazione non ha proceduto ad un vero riequiibrio tra le sue anime; la formazione dei prefetti non ha avuto una svolta rilevante nei confronti delle materie socio-economiche, rispetto ai canoni tradizionali della formazione giuridica, così da sintonizzare meglio il ruolo con le dinamiche che la società esprime producendo anche crisi e conflitti; l'innovazione della regia nel territorio presso le prefetture delle presenze istituzionali decentrate non ha avuto serio sviluppo (ricordo lo sforzo, poi frustrato, fatto in questo senso a suo tempo a Milano dal prefetto Caruso) per l'indisponibilità delle amministrazioni centrali di avere altri riferimenti decisionali per i propri terminali. Insomma per questi - e forse anche per altri - aspetti noi dovremmo essere prudenti nel considerare tutti i prefetti classe dirigente di per sé, solo per il nome che si porta e il ruolo formale che si riveste. Naturalmente va presa in seria considerazione l'argomentazione che Sepe sviluppa nell'introduzione in ordine proprio al profilo di "élite amministrativa" con la plausibilità del sostenere che essa sia parte delle classi dirigenti del Paese. E' vero infatti che i prefetti hanno agito negli ultimi anni anche a fronte di due contesti in cui sono stati capaci di presidiare nuovi bisogni e quindi nuovi spazi di ruolo incidente. Uno è l'ampliamento degli eventi collocati nell'area della crisi e dell'emergenza in cui i prefetti (e ben inteso il corpo dei Vigili del fuoco), più di altri corpi dello Stato hanno dimostrato di cogliere un adattamento a fare sintesi ed efficacia che in molti casi ha portato a vivere esperienze che hanno mostrato l'ineludibilità del ruolo.


L'altro è il porsi come tessitori di rapporti tra Stato e territorio laddove tradizionalmente era il cetà politico a esercitare pienafriente questa mediazione ma, laddove lo scadimento di capacità e di qualità di questo ceto politico ha aperto varchi, il sistema ha chiesto interlocutori a fronte di tendenze conffittuali da governare e i prefetti che hanno visto il varco hanno utilizzato questa interlocuzione dando anche più volte valore aggiunto alle prestazioni. Ciò ci consente di leggere il ruolo prefettizio oggi come un ruolo vivo nel rapporto tra professioni pubbliche e Paese, ma nel quadro di problemi irrisolti propri e dell'amministrazione nel suo complesso.


queste istituzioni n. 155 ottobre-dicembre 2009

Bilaucio dello Stato, ua storia graude a piacere di cui si dice

011011 si dice

di Giorgio Pagano

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aro direttore, prendo spunto da alcune pagine riguardanti il bilancio dello Stato pubblicate nel numero 152 di "queste istituzioni" (De Ioanna, Altimari, Montanino), per fare qualche (piccolo e semplice) ragionamento su una delle cose che maggiormente mi ha colpito - a volte con profondo senso di turbamento ed irritazione - nella mia vita lavorativa (di burocrate). Negli ultimi dieci anni di esperienza lavorativa al Tesoro mi sono dovuto interessare soprattutto dell'utilizzo di risorse finanziarie: soldi. Risorse pubbliche per far funzionare un dipartimento e, in particolare, uno dei piÚ importanti progetti di innovazione nel panorama delle pubbliche amministrazioni - la razionalizzazione degli acquisti - e, infine, per gestire e governare una direzione generale di sistemi informativi. Devo premettere che, circa ventotto anni fa, sono entrato in amministrazione tramite il reclutamento della Scuola superiore e una delle prime cose che ho dovuto studiare è stata la riforma del bilancio dello Stato del 1978. Come ricorderai, la legge 468/78 ha dato inizio alla mia collaborazione con te, allora Capo di gabinetto del Ministro Andreatta (persona di cui, maggiormente oggi, si avverte la dolorosa assenza). La legge 468 mi ha accompagnato per un intero anno di borsa di studio e nei primi due anni di lavoro svolti alla Ragioneria generale dello Stato. Da allora, ho tentato di seguire sempre da vicino i vari interventi di riforma. Ricordo ancora alcuni seminari e piccole ricerche che ho avuto modo (e la fortuna) di seguire in Fondazione A. Olivetti sull'argomento. Poi arrivò nel 1988 una nuova riforma con la legge 362. Nuova rivoluzione. Nuovi seminari, nuove ricerche. Questa volta il mio interesse era interno all'amministrazione. Avevo avuto modo di conoscere le istituzioni e i suoi uo-


mini che si interessavano dell'argomento (Ragioneria generale dello Stato, Senato, Camera, Corte dei conti, Banca d'Italia, università e studiosi). Come in tutte le cose della vita lavorativa pian piano (a volte anche velocemente) si imparano tante cose. Poi una nuova riforma nel 1997, con la legge 94 che ho avuto modo di vivere molto da vicino lavorando al Gabinetto del Tesoro. E, infine, nel 2007 ho vissuto (chiedo perdono ma ho dovuto subire) l'introduzione di programmi e missioni. Questa volta, almeno, una riforma senza scomodare il Parlamento. Fatta questa premessa vengo al ragionamento. Gran parte della letteratura ha un approccio molto alto delle questioni di bilancio, senza tener quasi mai conto di chi opera quotidianamente su linee operative delle pubbliche amministrazioni. Quando si parla di bilancio si intende parlare di tutto il processo, quindi, dalle proposte di richiesta di disponibilità finanziarie per poter operare, ai controlli, alle variazioni - onnipresenti - alla "consuntivazione" ed al referto finale: come dire, esiste una architettura perfetta sia nelle norme che nella letteratura ma non esiste analogo ragionamento sulle strutture coinvolte (Ragioneria, Amministrazioni, Corte dei conti). Mi viene da esemplificare con il calcio. Ammettiamo che l'iscrizione al campionato di serie A, B e C fosse facoltativo ed il costo dell'iscrizione fosse stabilito in ragione dell'importanza della categoria scelta. Ogni squadra tenterebbe di capire quali giocatori "possedere" per poi individuare la categoria nella quale concorrere e quindi stabilire la cifra da investire, quale programma da creare e infine decidere acquisti e cessioni di giocatori. Quando si parla di riforme pubbliche (in questo caso il bilancio dello Stato) nessuno usa il "metodo calcistico". Si "scrive" ma non si analizza la possibilità di capire se i giocatori siano in grado di giocare la partita e se i soldi siano sufficienti. In particolare, nel caso del bilancio dello Stato, gli attori (i giocatori) e gli strateghi (i dirigenti delle società di calcio) si muovono sempre senza alcun senso di complementarietà. Dalla legge sulla contabilità ad oggi la gestione avviene sempre per capitoli (a metà degli anni novanta erano circa 6000, nel 2005 secondo l'analisi del bilancio di previsione fatta dal CNEL erano circa 11.000), vi sono i residui, le variazioni, i controlli. Arriviamo recentemente ai piani gestionali per consentire una maggiore granularità delle informazioni e ovviare al tema annoso dei capitoli promiscui, sacrificando molto quanto a semplificazione e chiarezza. Certo, la riforma del '97 ha semplificato il lavoro di senatori e deputati con l'istituzione delle unità previsionali di base, rendendo più agevole la leggibilità, la deliberazione e il controllo del bilancio: ma, alla fine, ci si scontra ancora pre-

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valentemente con un bilancio incrementale, con una serie di adempimenti che non tengono mai conto di chi opera e di quali risultati siano stati raggiunti. Negli anni sono stati investiti ingenti quantità di risorse per rendere il bilancio e i relativi processi decisionali e di gestione più agevoli utilizzando massicciamente l'informatica. La realtà è stata ben altra: carta, carta e ancora carta. Nessuno riesce a capire i saldi, le disponibilità, le valutazioni, il perché crescono alcuni capitoli a decremento di altri. In un recente seminario di presentazione di un libro sul bilancio scritto da Paolo De loanna e Chiara Goretti, l'ex ministro Padoa Schioppa ha tenuto a precisare che nei 20 mesi da ministro non è riuscito a capire chi avesse i dati di bilancio e con molto sconcerto affermò che neanche la Ragioneria generale dello Stato era in grado di fornire dati attendibili. Ma cerchiamo di tornare al problema di come si fa o si dovrebbe fare cambiamento. Sabino Cassese qualche anno fa in un seminario sulle organizzazioni dello Stato sostenne - giustamente - che le organizzazioni esistenti rappresentano, per definizione, le migliori organizzazioni che si hanno a disposizione. Ciò vale anche per il personale delle stesse organizzazioni. Cerco di spiegarmi. Studiare le organizzazioni e la loro popolazione è il principio cardine per capire quale trasformazione sia possibile. Non conoscere, non studiare le organizzazioni e il loro potenziale umano significa avviarsi all'insuccesso. Utilizzo una esemplificazione concernente i progetti informatici. Nel campo dell'informatica gli insuccessi sono sempre tangibili, evidenti. Esistono applicazioni informatiche integrate che consistono nell'utilizzo di una piattaforma per il supporto di più processi appartenenti alla stessa catena del valore. Ad esempio: contabilità, acquisti, gestione del magazzino, pagamenti, rendicontazione, ecc. Tutte le pubblicazioni più autorevoli sui temi dell'Information & Communication Tecbnology (IcT) evidenziano i benefici delle applicazioni integrate: peccato che chi gestisce le singole linee di processo non riesca a comprendere o semplicemente non abbia voglia di condividerle ed integrarle per una miope "micro-rendita" di posizione. Questa rappresentazione ci fa comprendere come la strada del cambiamento sia caratterizzata da molte insidie e l'insuccesso sia sempre dietro l'angolo. Per i cambiamenti riguardanti il processo operativo del bilancio - volutamente tralascio la parte parlamentare - questo è ciò che accade. Tornando alla questione programmi e missioni, riporto parte di un ragionamento fatto prima che programmi e missioni divenissero operativi (anche se credo che nulla sia cambiato). L'argomento che utilizzo è il pagamento di circa 1.500.000 stipendi pubblici al mese.


Un pubblico dipendente riceve (una parte in forma smaterializzata) tra i due ed i quattro cedolini al mese. Chiunque abbia un minimo di buon senso proporrebbe inevitabilmente l'unificazione in un solo cedolino (dematerializzato possibilmente) di tutte le componenti stipendiali del pubblico impiegato. L'attuale struttura del bilancio dello Stato prevede che, per ciascun centro di responsabilità, per il pagamento delle competenze fisse siano individuati tre capitoli distinti: il primo relativo al pagamento della retribuzione netta al dipendente, compreso l'Irpef e gli oneri previdenziali a carico del dipendente; il secondo si riferisce agli oneri sociali a carico del datore di lavoro; il terzo è riservato all'IRAP. Pertanto, per ogni pagamento che viene effettuato a favore di un Ente creditore (enti previdenziali, erario, banche, finanziarie, organizzazioni sindacali, ecc.) è necessario emettere un titolo di pagamento per ciascun capitolo presente nel bilancio dello Stato. Inoltre, in applicazione della recente norma prevista nella finanziaria 2007 che stabilisce che le addizionali comunali debbano essere versate direttamente ai comuni dal sostituto d'imposta, chi elabora il singolo cedolino deve emettere, per ciascuno degli 8.000 comuni italiani, "enne titoli" per ciascun capitolo di bilancio e per ciascuna tipologia di ritenuta. Nel caso limite, i titoli da emettere saranno: 8000 (comuni), 200 (capitoli di bilancio), 4 tipologie di ritenuta (acconto addizionale, saldo addizionale, acconto addizionale 730 e saldo addizionale 730) per un totale massimo di 6.400.000 titoli al mese solo per il pagamento delle addizionai comunali. Dal punto di vista informatico si riesce a risolvere agevolmente il problema di una eventuale proliferazione dei capitoli di bilancio legati ai Programmi, come dovrebbe essere previsto dalla nuova struttura del Bilancio dello Stato. Il problema si pone, in particolare, nei primi mesi di ogni anno per la difficoltà che hanno tutte le amministrazioni ad attribuire ad ogni dipendente il corretto capitolo di bilancio sul quale va imputata la spesa per il pagamento della retribuzione fissa. Normalmente questi aggiornamenti vengono eseguiti con molto ritardo dalle amministrazioni e il sistema RGs e Corte dei conti non consente di modificare l'attribuzione della spesa al capitolo di competenza in quanto l'imputazione del titolo, una volta rendicontato da Banca d'Italia, non può essere più modificata. Si verifica quindi una discordanza tra gli stanziamenti previsti dal Bilancio e il consuntivo che sarà parificato dalla Corte dei conti. Considerata lttima organizzazione dei sistemi informativi del ME1, non sarebbe auspicabile prevedere un accorpamento dei capitoli di bilancio all'interno di ciascuna Amministrazione, ai fini della disposizione di pagamento, e provvedere successivamente, tramite un sistema contabile secondario, ad imputare la spesa alla competente UPB o al competente Programma?

L'I.,


Solo in questo modo potrà essere garantito: 1) l'elaborazione di un unico cedolino; 2) il raffronto tra lo stazionamento previsto e il consuntivo. Questo è uno dei tanti esempi che si possono utilizzare per dimostrare che discutere di bilancio senza analizzarne la ricaduta sulle organizzazioni può comportare appesantimenti e difficoltà. Si tratta di un esempio, potrei citarne svariati (introduzione delle carte di credito, fallimento dell'introduzione di carte elettroniche per gli acquisti, dati per il controllo di gestione ... ) per dimostrare come innovazione e bilancio dello Stato (contabilità e procedure di bilancio) non sempre procedano di pari passo. Si, bisogna concordare che l'introduzione di programmi e missioni rappresentano una buona novità, ma soltanto in relazione alle decisioni macroeconomiche. La domanda che vorrei fare al mio amico De Toanna è: come si fa a lavorare meglio sulle linee operative? Come si fa ad innovare senza scontrarsi inesorabilmente con le procedure e la gestione del bilancio? Il "legislatore" del decreto legge 112/08 per l'anno 2009, validando l'impostazione del bilancio su missioni e programmi, in nome di una flessibilità gestionale tutta da dimostrare, ha previsto la possibilità di operare variazioni amministrative tra programmi appartenenti alla stessa missione per importi limitati e per alcune tipologie di spesa. Tali provvedimenti devono essere sottoposti alle competenti commissioni parlamentari e sono poi da confermare col provvedimento di assestamento: ma che succede se il provvedimento di assestamento - ipotesi di scuola - non recepisce le suddette variazioni? Chi è responsabile dei provvedimenti di spesa eventualmente emanati sulla base di quelle variazioni? Si è proprio certi che la nuova impostazione - confermata come sembrerebbe nella circolare per le previsioni di bilancio per il 2010 e ampliata nel disegno di legge di riforma della contabilità di Stato in discussione alla Camera (Ac 1397) - possa agevolare l'aspetto gestionale o non porti ad una spoliazione/committment del Parlamento, senza alcun beneficio reale per la gestione amministrativa? Ecco che allora mi sovviene ur ulteriore dubbio, che sottoporrei alla riflessione del ministro Brunetta: come si possono introdurre sistemi di valutazione del personale, dei dirigenti, dei dirigenti generali e dei capi dipartimento (sarebbe interessante sperimentare anche la valutazione dei capi di gabinetto e dei capi ufficio legislativo), performance di uffici e di amministrazione con simili procedure? L'art. 9 della legge 3 agosto 2009, di conversione del decretolegge 1 luglio 2009, n. 78, vale soltanto come un buon indicatore di come si sia operato fino ad oggi, se si avverte la necessità di ribadire norme positive sulla responsabilità dei funzionari, già presenti nella contabilità di Stato sin dalla legge De Stefani ed anche prima. Infine, a lato del ragionamento, nessuno più parla di cosa dovrebbero fare le pubbliche amministrazioni e, quindi, i loro dipendenti?


Anche il ministro Brunetta ha dovuto prender atto che un conto è dichiarare guerra ai fannulloni (la politica) un conto è controllare effettivamente le assenze per malattia degli stessi (la gestione): altrimenti non si spiegherebbe il passo indietro sulle "finestre" di controllo giornaliero per le visite fiscali. E' interessante, in tal senso, l'articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera del 2 settembre e la risposta del ministro Brunetta il giorno successivo sullo stesso quotidiano. Insomma, "per cambiare la pubblica amministrazione forse, va cambiata prima la pubblica amministrazione" (Giancarlo Del Bufalo intervento al seminario CambiaPa del 17 luglio 1998, Palazzo Vidoni Roma). Finora le varie riforme della PA hanno riguardato gli obiettivi e i principi generali senza però incidere sui comportamenti degli appartenenti alla stessa PA. Il persistere di questi comportamenti ha di fatto annullato, o quantomeno notevolmente ridotto, gli effetti dei cambiamenti introdotti. Per uscire da questo paradosso è necessario introdurre meccanismi che portino realmente a modificare i comportamenti dei pubblici dipendenti (effettivi strumenti di gestione delle risorse umane e finanziarie che comportino più autonomia e responsabilità, ecc.). Caro direttore, se avessimo ancora voglia come in tempi passati, forse potremmo mettere intorno ad un tavolo un po' di persone per ragionare come strategie publiche ed applicazioni delle stesse, per il bene dell'operatività delle amministrazioni e per una maggiore trasparenza dei comportamenti pubblici, possono essere coniugate


queste istituzioni n. 155 ottobre-dicembre 2009

Royal Mail. Se le cose stallilo così, 11011 scioperare sarebbe na follia!* di Seumas Mi/ne

N

iente riesce - come e più del fatto che i lavoratori manuali mal pagati scioperano per difendere i propri interessi - a far intonare a politici, media e capitani d'azienda un coro unico di rimostranze moralistiche e di considerazioni narcisistiche. Soprattutto se quei lavoratori, scioperando, creano qualche problema agli affari di questi signori. E ciò che è accaduto da ultimo con la Royal Mail inglese, fino allo sciopero del 22 e 23 ottobre scorso che ha coinvolto circa cinquantamila dipendenti tra addetti allo smistamento e guidatori, e circa settantamila addetti alla raccolta ed alla consegna della posta. C'è un gran parlare di violenza e disordini. C'è chi dice che i lavoratori delle poste stanno perseguendo un patto sindacale suicida. Il Sun ritiene sia una "follia"; il Financial Times parla di una situazione paradossale, come se i tacchini si dichiarassero favorevoli al giorno di Natale e al giorno del Ringraziamento. La serie di ottusi paragoni con gli scioperi dei minatori del 1984-5 è lunga. Un giornalista del Times assicura che i lavoratori delle poste sono "del tutto suonati". Il ragionamento - chiamiamolo così - è il seguente: come possono anche soltanto pensare di scioperare quando l'economia è ancora in ginocchio e il settore delle poste è assediato da competitori privati e dalle lusinghe di Internet? Ildirettore generale di Royal Mail, Matk Higson, descrive la decisione di scioperare presa dalla Communication Workers Union come "un attacco inverosimile ed ingiustificato agli utenti". Lord Mandelson of Foy, che tecnica- Faced with such an attack, it would befolly not to strike, by Seumas Milne, <The Guardian, Thursday 22 October

2009.

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mente è il boss di Royal Mail in quanto Segretario generale, si dice "più che arrabbiato" per la follia degli impiegati delle poste. Tornando nel mondo reale, la verità è che i lavoratori delle poste sarebbero stati folli a non decidere di scioperare. Nei mesi recenti, le teste di rapa che guidano Royal Mail hanno spinto molto sui tagli e sulla chiusura di numerosi uffici, su turni di lavoro e settimane lavorative sempre più lunghe, su carichi di lavoro più gravosi, e giri di consegne lunghi e accelerati, sull'incremento del lavoro part-time e delle collaborazioni saltuarie, e su consistenti tagli dei salari, mentre si moltiplicano le cronache sul dilagare delle soverchierie, delle molestie e dei licenziamenti pretestuosi, senza fondamento. Nel frattempo, si colpiscono le pensioni e i saggi salariali sono congelati. Nello stesso periodo, la Royal Mail registra profitti per 321 milioni di dollari e il direttore generale Adam Crozier - prima alla Saatchi&Saatchi - mette in tasca, tra compenso e bonus, 3 milioni di sterline un anno e 1,2 milioni l'anno successivo, comparati ad un salario medio di un impiegato postale pari a 18.000 sterline. Qualunque categoria di lavoratori, di fronte ad un simile attacco alle proprie condizioni base di lavoro, sarebbe obbligata ad opporre resistenza. Qui il sindacato non sta chiudendo le porte alle nuove tecnologie, a cambiamenti nelle routine e nel processo di lavoro, o a riduzioni di personale rese necessarie per la sopravvivenza ed il buono stato del servizio postale. Nei fatti, soltanto negli ultimi cinque anni sono stati tagliati ben 63 mila posti di lavoro, ed è stata la rottura di un precedente "patto di modernizzazione" su cambiamenti negoziati tra le parti ad avere condotto all'attuale vertenza. Il sindacato si è fatto avanti proponendo un nuovo accordo triennale basato sul principio di "consenso e democrazia sul luogo di lavoro". Tuttavia, il segno più chiaro delle effettive responsabilità che stanno dietro alla precedente rottura è che, mentre il sindacato si è detto disposto a tentare la conciliazione davanti allbrgano preposto (AcAs, Advisory, Conciliation and Arbitration Service) per una discussione aperta, senza porre alcuna precondizione, la Royal Mail ha invece rifiutato - spalleggiata dal Governo - chiedendo che gli scioperi fossero prima revocati, e reclutando 30 mila lavoratori occasionali per recidere la questione alla radice. Con queste premesse, non si fa fatica a comprendere le ragioni che hanno portato il leader degli impiegati postali, Billy Haynes, a concludere che "Stanno cercando di disgregare il sindacato, minandone il potere e l'influenza tra i lavoratori". Se è questo il caso, seguiranno mesi di agitazioni e scompiglio. Questo è un settore arrugginito da anni di sottoinvestimenti, minacce di privatizzazione ed un regime regolatorio costruito per favorire i competitori del settore privato. E vero che la Rete (e la recessione) è responsabile della diminuzione dei volumi di lettere, ma è vero anche che grazie ad essa cresce il volume di pacchi e plichi inviati, man mano che aumenta la gente che compra e fa affari online. 92


Le poste sono benlontane dal capolinea. Certamente, insistendo col conferire a società quale TNT un accesso privilegiato alla rete di Royal Mail, coltivandola così come l'orticello dal quale trarre i maggiori profitti, il Governo ha accumulato ritardo nello sviluppo di nuovi servizi. Allo stesso tempo, alcuni vecchi servizi sono stati soppressi, come la raccolta domenicale e il secondo tentativo di consegna. Dal momento che il piano di parziale privatizzazione portato avanti da Mandelson è stato, secondo l'interessato, "messo al muro" dall'opposizione dei deputati laburisti appena quest'anno, non è stato possibile appianare il deficit del fondo pensioni di Royal Mail come promesso, facendo slittare ancora i possibili investimenti. Ne è risultata una incessante pressione sulla forzalavoro e quindi gli scioperi. Le agitazioni del settore postale non sono la sola lontana eco degli scioperi del settore pubblico nell"inverno dello scontento" che caratterizzò gli ultimi giorni dell'ultimo governo laburista nel 1979. Potrebbero essere un assaggio di ciò che ancora potrebbe accadere se dovesse arrivare David Cameron. La decisione di centinaia di netturbini di Leeds di continuare lo sciopero contro i tagli alle paghe superiori a 5.000 sterline, sciopero durato già sei settimane, con le montagne di rifiuti che hanno invaso le strade della città, va letta come una risposta agli attacchi che ne minacciano la sopravvivenza stessa. I netturbini di Leeds e i postini dell'intera nazione stanno resistendo contro la corsa al ribasso a loro danno che ormai è il brutto marchio di fabbrica degli ultimi due decenni. Non serve protestare contro la crescente disuguaglianza, o prendere coscienza, come fa Mandelson, del fatto che i rapporti di lavoro sono fondamentalmente disuguali e ingiusti, se poi ci si oppone nei fatti all'uso dell'azione sindacale per cercare di cambiare le cose. E sarebbe sì follia, anzi suicidio, se il Governo dovesse avviarsi allo scontro con i lavoratori del settore pubblico prima delle elezioni generali, come fece l'amministrazione Callaghan, su una scala addirittura più ampia, trent'anni fa. E preoccupante che Gordon Brown, secondo quello che si dice, sia stato consigliato di bollare banche e poste come "interessi acquisiti" con cui prendersela. Piuttosto, i politici farebbero bene a dare a Royal Mail nuove prospettive all'interno del settore pubblico, con le garanzie del settore privato alle spalle e nuovi manager in grado di portare i dipendenti dalla loro parte. I negoziatori del sindacato postale hanno riferito di essere stati più volte vicmi all'accordo. Trovarlo sarà un test importante per capire se i manager di Royal Mail e il governo intendono dare un futuro di progresso e sviluppo ad un servizio pubblico così importante, o se invece si avviano ad un confronto autodistruttivo con una tra le maggiori e più forti categorie del settore pubblico.

(traduzione di C. Lopedote) 93


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Il Css è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Sociali (Co.S.Po.S.) che svolse a suo tempo, negli anni settanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: - contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; - incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; - sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui seguenti temi: le fondazioni in Italia; governo delle città e territorio; valutazione degli effetti delle politiche pubbliche. Vi è attualmente un gruppo di lavoro sul tema della produzione e trasformazione della conoscenza scientifica e tecnologica. Vi sono anche due progetti speciali pluriennali sui temi del ceto medio e della politica dell'innovazione e dei trasferimenti tecnologici. Da ricordare infine, l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche d'Europa.

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