L'economia politica della crisi i Premessa 3 Crescita e crisi del sistema economico: interpretazioni a confronto di Nino Salamone Graziani: dualismo e apertura Lutz-Fuà: un'impostazione neoclassica Salario: fattore dominante? Salvati: il ruolo deifattori sociopolitici e il fallimento del riformismo La funzionalità del dualismo Per uno sviluppo dell'analisi
Caratteri strutturali dell'economia italiana e quindi anche le cause della sua crisi: questo il tema del saggio che attraverso l'esame di alcuni modelli interpretativi e delle sue variabili ripercorre i temi di un dibattito fattosi più intenso in questi ultimi anni. Apertura al sistema internazionale, dualismo territoriale e poi settoriale, mercato del lavoro e variabile salariale, fattori sociopolitici: dalla diversa combinazione, dalla diversa enfasi e dai diversi nessi eziologici tra le variabili prese in considerazione, scaturiscono modelli e periodizzazioni diverse. Può essere allora utile esaminare criticamente le varie impostazioni per tentare una loro classificazione verificandone la complementarità o l'incompatibilità. Questa almeno è la chiave di lettura di quanti siano interessati all'aspetto più propriamente economico del problema: la variabile indipendente è il dualismo territoriale-settoriale secondo lo schema del Graziani, il mercato e il costo del lavoro secondo lo schema Lutz-Fuà o un fattore sociopolitico come suggerisce il Salvati? Più che una risposta l'autore formula alcune ipotesi che dividendo in due gruppi i mode!li esaminati - quelli neo classici di Lutz-
Fuà da un lato, quelli di Graziani e Salvati dall'altro - tentano una ricomposizione di questi ultimi nella prospettiva di un approfondimento del dibattito. •che porta in primo Questo tentàtivo piano i fattori soàiopolitici e, il dùalismo settoriale - sposta il discorso sul piano dello sviluppo politico. La periodizzazione che ne risulta è quella di un arco 1948-1963 seguito da un periodo che va dal '63 a oggi, definiti come periodi di accumulàzione estensiva-accumulazione intensiva (Paci) o di sviluppo repressivo-maturità precoce (Salvati). Al centro il 1963, ovvero l'inizio dell'esperienza di centro-sinistra la cui valutazione - o, per essere più chiari, il cui fallimento - deve essere visto in questo contesto: il formarsi di un blocco di potere politico in connessione con settori industriali pubblici o privati ad alta intensità di capitale, il ruolo della borghesia di stato le pratiche della terziarizzazione assistita e di un finanziamento agevolato più assistenziale che razionale... Un tentativo, dicevamo. Poiché anche in questo quadro più ristretto, l'influenza e il peso reciproco dei vari fattori - e in particolare l'incapacità riformatrice e il dualismo settoriale - meriterebbe/merita di essere ulteriormente approfondita. Questo suggerisce un terzo modo di lettura, in chiave, se si vuole, di sviluppo culturale. Il problema è allora di esaminare in che modo il dibattito economico abbia accompagnato lo sviluppo politico.
I contributi qui esaminati segnano indubbiamente un processo di crescita rispetto ad approfondimenti più ideologici o comunque più settoriali, tesi còme sono a costruire un quadro di riferimento globale corredato di adeguati riferimenti empirici. Tuttavia è interessante notare che rispetto all'inversione di tendenza collocata nel 1963, tali contributi si collocano a cavallo degli anni '70: ai lavori del Paci del 1968 fanno seguito quelli di Graziani e Salvati negli anni '72'75 e quello di.. Fuà nel '76 mentre sul versante dello sviluppo politico i lavori di Amato, Scalfari-Turati e Galli-Nannei sono tutti del 1976. Questo per limitarci ai contributi qui utilizzati e senza considerare altri sviluppi non cadenzati bibliograficamente, penso ad esempio alla maggiore complessità dell'elaborazione sindacale negli anni più recenti. Come spiegare questo divario? Legge ineluttabile della conoscenza - l'uccello .di Minerva si alza in volo solo al calar delle tenebre - o non coincidenza tra sviluppo culturale da un lato ed economico-politico dall'altro? Noi propendiamo per questa seconda ipotesi. E allora, per un .sapere che non voglia tradire la promessa di fornire insieme quadri di riferimento e indicazioni operative non resta che accogliere l'invito di approfondire il dibattito per trovarsi con maggiore puntualità agli appuntamenti futuri.
Massimo Bonanni
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Crescita e crisi del sistema economico: interpretazioni a confronto di Nino Salamone
Un punto sembra ormai acquisito nel dibattito scientifico e politico: la crisi italiana è da considerare come strutturale, direttamente connessa cioè ai modi di crescita dell'economia e della società nell'ultimo trentennio e alle scelte di fondo compiute all'inizio di questo periodo: Partendo da tale assunto, la rassegna che segue vuole essere un tentativo di sintesi dei temi e dei problemi emersi da un dibattito che si è venuto svolgendo negli anni, e che ha accompagnato tanto lo sviluppo accelerato degli anni cinquanta e sessanta quanto il suo arresto sempre più evidente negli anni settanta. Non si tratta di proporre un'ennesima ipotesi interpretativa, quanto piuttosto di procedere ad una disamina di quelli che appaiono come i contributi fondamentali, tentando via via di riannodare le fila di un discorso di cui non sempre è facile cogliere i nodi significativi nel gran mare della letteratura. Il quadro evolutivo 'del sistema socio-" economico italiano viene generalmente di-. stinto in tre momenti fondamentali: gli anni della ricostruzione (1945-51); il periodo dello sviluppo accelerato (1951-62); la crisi (a partire grosso modo dal 1963) '.
Largamente comune è quindi la constatazione di una netta censura fra gli anni dell'espansione da una parte, quelli dell'instabilità e della crisi dall'altra. 111963 si pone come spartiacque, dividendo nettamente il ciclo ascendente dallo stato di economia bloccata 2 che caratterizza, fra. alti e bassi, gli ultimi quindici anni. Ove si accetti questa scansione, e la cosa non è difficile data la sua quasi immediata nscontrabilità a livello empirico, è opportuno, distinguere, sia pure in termini generali, la specificità delle due fasi, facendo riferimento ad alcuni indicatori macroeconomici quali l'andamento degli investimenti, il tasso di attività della popolazione e l'evoluzione del sistema dei prezzi. Una prima sommaria valutazione in questo senso mette subito in. evidenza le diffonnità esistenti fra la fase dello sviluppo accelerato e quello .che di volta in volta si definisce come momento della « maturità precoce » (Salvati) 3, dell'e economia bloccata » o, più genericamente, della crisi. Per quanto riguarda gli investimenti, laddove l'incremento percentuale medio annuo era stato, fra il 1951 e il 1963, dell'1,5%, fra il 1964 e il 1971 si scendeva allo 0,6% ", un vistoso deterioramento quantitativo quindi, al quale « si deve la maggior parte del
Cfr. A. Graziani (a cura di), L'economia italiana 194570, 11 Mulino, Bologna, 1972; M. Salvati, L'origine della crisi in corso, in « Quaderni Piacentini », n. 46, 1972; M. D'Antonio, pure all'interno della stessa logica, è più specifico distinguendo sei momenti: ricostruzione (1945-50), gli anni 1951-57 (la « fase di attesa e di preparazione all'espansione, economica »), il quinquennio 1958-63 (la fase del rapido sviluppo), il biennio 1964-66 (g la prima grave crisi »), la « lieve ripresa » del 1967-69 e la depressione degli ultimi anni (cfr. Sviluppo e crisi del capitalismo italiano, De Donato, Bari, 1975). Da parte sua, O. Podbielski distingue, dopo la ricostruzione, una fase di « sviluppo rapido e sostenuto » (1951-53), un periodo (1963-65) caratterizzato da defiazione e recessione, un quadriennio (1966-69) di « rinnovata e relativamente rapida espansione » e gli anni della « crisi dello sviluppo. (dal 1970 in poi). Cfr. O. Podbielski, Storia dell'economia italiana1945-74, Laterza, Bari, 1975. 2 L'espressione è di Nino Andreatta, che in un importante contributo definisce in questi termini lo stato attuale dell'economia italiana (cfr. Cronache di un'economia bloccata, Il Mulino, Bologna, 1973). In L'origine della crisi in corso, cit. Segretariato Generale della Programmazione Economica, 1973, in appendice.
4 rallentamento del tasso di espansione globale. Sono passati quattro anni prima che l'investimento fisso tornasse al livello raggiunto nel 1963; nel periodo 1970-1972, nel complesso, tale investimento è rimasto stazionario e soltanto nel 1973 esso ha presentato una ripresa vigorosa ma di breve durata » . Analoghe constatazioni, sia pure in termini lievemente difformi, sono fatte proprie dal Graziani e dal Salvati, secondo il quale anzi « a malapena nel '69 il livello di spesa in impianti e macchinari (a prezzi costanti) si avvicina a quello che era stato conseguito nel 1963. La quota del 1963 non verrà mai più raggiunta » Circa l'occupazione dipendente, fra il 1958 e il 1964 si ha un incremento del 21,1% (25,7 nell'industria manifatturiera) contro il 5,6% (11,3 nell'industria manifatturiera) nel sessennio successivo. Attualmente la disoccupazione palese è superiore al 7% con tendenza alla crescita, contro il livello, dai più considerato frizionale, del 2,5% nel 1963 . Altrettanto significativi sono i dati concernenti il saggio di partecipazione della forza-lavoro (rapporto fra la popolazione occupata più quella disoccupata attiva e il totale della popolazione stessa), pari• al 42% nel 1962 e contrattosi fino al 35,6% nel 1973 1. A questo proposito Giorgio Fuà osserva che « L'Italia, secondo le statistiche ufficiali, ha oggi un tasso di attività alquanto (ma non eccessivamente) basso rispetto a paesi con struttura per età simile; ciò risulta da un tasso piuttosto basso per le femmine adulte e da un tasso eccezionalmente basso per i maschi adulti. Quest'ultimo elemento basta, da solo, a costituire un segnale d'allarme » Per quanto riguarda l'inflazione, gli anni
successivi al 1962 mostrano un andamento decisamente sussultorio, con l'alternarsi di momenti di stasi relativa e di periodi in cui il fenomeno subisce una rapidissima accelerazione. A partire dal 1973 in poi, l'ascesa dei prezzi sembra non conoscere soste; solo recentemente, a prezzo di una decisa restrizione della domanda e degli investimenti, pare di assistere ad una sua attenuazione, pur restandosi ancora nell'ambito dell'inflazione « a due cifre ». Che il suo manifestarsi preceda la crisi petrolifera è significativo, in quanto ne dimostra le origini endogene. Ricordiamo poi di sfuggita come la breve ripresa economica del 1973, definita appunto come « drogata » dalla stampa dell'epoca, si sia manifestata proprio sull'onda di accentuati fenomeni inflazionistici, che in seguito non si sono attenuati nonostante i classici interventi di freno messi in atto dalle autorità monetarie. Il fenomeno della « stagflazione », presente in tutte le economie occidentali a partire dagli ultimi anni sessanta, ha assunto in Italia un peso particolare. Queste poche osservazioni appaiono sufficienti a tratteggiare il quadro del periodo successivo alla ricostruzione: dapprima un'economia in sviluppo ed una società in rapida evoluzione, in seguito una realtà ci stagnazione e infine di regresso che vede il riproporsi dei vecchi problemi (questione meridionale, disoccupazione). La situazione del paese si presenta oggi molto diversa da quanto veniva ipotizzato alla fine degli anni cinquanta. L'mtero processo è sfociato in un contesto in cui permangono le stesse aree di arretratezza che l'avevano contraddistinto in passato, sia pure in termini nuovi.
O. Podbielski, op. cit., p. 37. Cfr. A. Graziani (a cura di), Crisi e ristrutturazione dell'economia italiana 1963-73, Einaudi, Torino, 1975; M. Salvati,!! sistema economico italiano, analisi di una crisi, Il Mulino, Bologna, 1975. I dati sono tratti da M. Salvati, Sviluppo economico, domanda di lavoro e struttura dell'occupazione, Il Mulino, Bologna, 1976, cui si rimanda per ulteriori disaggregazioni. Ci si riferisce qui all'occupazione permanente, distinta da quella marginale. 8 Cfr. Tasso di partecipazione, mercato del lavoro, sviluppo dualistico di Brunetta, Grassivaro, Marcato, in Crisi e ristrutturazione..., cit. Cfr. O. Fuà, Occupazione e capacità produttiva, la realtà italiana,Il Mulino, Bologna, 1976, p. 13. 6
GRAZIANI: DUALISMO E APERTURA La letteratura individua generalmente due fattori sottostanti al rapido sviluppo degli anni '50: l'apertura dell'economia da un lato, il dualismo territoriale e settoriale dall'altro. Sottolineando il peso ditali fattori, non si intende sostenere che essi hanno costituito la. premessa dello sviluppo, ma piuttosto rilevare il loro carattere di elementi imprescindibili del quadro. Una considerazione è immediata: se il dualismo appare come un dato storico e strutturale, l'apertura appare come una scelta, almeno rispetto alle dimensioni assunte. Il primo elemento riguarda anzitutto lo squilibrio fra Nord e Sud, venendo però in seguito a caratterizzare la stessa struttura produttiva; il secondo comporta la crescita di un'economia dipendente dal mercato internazionale e quindi da esso condizionata. Se tali sono gli elementi di fondo dello sviluppo italiano, il loro specifico operare dipende dalle risorse sottostanti le potenzialità di crescita di un sistema economico. Nel nostro caso, la risorsa fondamentale non può chè essere individuata nella presenza di massicce quantità di forza-lavoro inutilizzata. I caratteri del mercato del lavoro, in particolare l'andamento dei suoi costi, si pongono così come condizione per l'operare dei due fattori sopra enucleati, e in questo senso appaiono come la più corretta chiave di lettura dello sviluppo e della èrisi del sistema economico italiano. Su questi elementi si fondano tutti i maggiori contributi circa i temi qui considerati, che si incentrano essenzialmente sulla considerazione ditali variabili e divergono soltanto rispetto al diverso peso assegnato a ciascuna di esse all'interno del quadro. Augusto Graziani così caratterizza la situazione italiana del secondo dopoguerra: 1) un altissimo tasso di disoccupazione e sot-
toccupazione; 2) un'agricoltura essenzialmente cerealicola e un'industria « .. .ancora basata su settori scarsamente dinamici e tecnologicamente arretrati » IO; 3) la preminenza di tre settori fondamentali: il tessile (fondato sul lavoro a domicilio), l'elettrico (« la più cospicua concentrazione finanziaria del paese » "), l'alimentare (che « si serviva in prevalenza di manodopera stagibnale e di tecnologie arretrate e semiartigianali » 12); 4) i settori moderni (siderurgico, automobilistico, chimico) « presentavano una rilevanza quantitativa assai modesta » Il quadro è quello di un'economia ad alta intensità di lavoro, che ha però ancora, specie in agricoltura, larghissime risorse di manodopera. Su questa struttura s'innestano due scelte politiche decisive, quella liberista e quella aperturista. Procedendo da queste scelte, i caratteri del nostro sviluppo appaiono al Graziani del tutto coerenti: si tratta di un'economia aperta la cui crescita si fonda sul commercio internazionale e sulle notevoli risorse di forza-lavoro a basso costo. É un classico modello di sviluppo a due settori, che si distinguono « . . . per il fatto che il primo adotta tecnologie avanzate, importate dall'estero, mentre il secondo non ha problemi di efficienza e assorbe l'intera manodopera disponibilè » 14• Lo sviluppo del settore moderno si fonda tanto sull'apertura (importazione di tecnologie), quanto sul dualismo (il settore arretrato assorbe le eccedenze di manodopera). L'apertura implica poi un deciso orientamento verso le esportazioni per entrambi i settori: dato il basso livello salariale, la loro competitività è indubbia. Si ha quindi una produzione tesa al soddisfacimento della domanda estera. In riferimento agli anni dello sviluppd (1951-63), l'autore individua, accanto ad alcuni aspetti « fisiologici » come il forte
'° L'economia italiana 1945-70, cit., p. 17 Ibid. 12 Ibid., p. 18. ' Ibid. A. Graziani, Lo sviluppo di un'economia aperta, ESI, Torino, 1969.
nella concorrenza internazionale. I due mosviluppo dell'industria manifatturiera, l'inmenti appaiono del resto connessi, in quantegrazione col mondo industrializzato, la to l'andamento dei costi del lavoro ha attetrasformazione degli insediamenti umani, nuato il « quasi monopolio » italiano su tre elementi che considera invece patologideterminate produzioni ora alla portata dei ci: a) l'accentuarsi del dualismo fra grandi paesi emergenti. Da tale connessione, e imprese ad alta intensità di capitale e « il quindi dalla duplice esigenza imprenditopermanere di piccole iniziative arretrate, riale di ridurre i costi del lavoro e di ristrutcaratterizzate da bassa produttività e ineffiturare l'apparato produttivo, nasce la deficienza » 15; b) la distorsione dei consumi nizione del decennio 1963-73 come periodo dovuta al peso decisivo della domanda estedi ristrutturazione. ra sui tipi di produzione; c) la mancata Ma procediamo con ordine. Nel 1960 per la soluzione della questione meridionale. prima volta la domanda eccede l'offerta di Nella sostanza, si tratta dell'approfondirsi lavoro, e lo stesso fenomeno si ripete nel del dualismo e del suo estendersi al di là 1961, dando origine ad una ripresa generadelle strutture territoriali, laddove i settori lizzata delle lotte sindacali. Il risultato è arretrati (costruzioni, piccolo commercio, un'inversione di tendenza per quanto ripubblico impiego) appaiono sempre più guarda la quota di reddito spettante ai come « le grandi spugne che hanno assorbilavoratori dell'industria manifatturiera to la disoccupazione trovando collocazione dal 70% del 1953, al 60% del 1961, al 65% a tutti coloro che venivano espulsi dàll'agridel 1963. Date le condizioni dei mercati colturae non trovavano impiego nei settori » 16• internazionali, la risposta padronale non dinamici dell'industria In questo quapuò esprimersi in termini di pura inflaziodro si ha una notevole stabilità monetaria, ne, per cui nell'estate del 1963 viene avviata in quanto la domanda. interna globale creuna stretta deflazionistica che sbocca in una sce a ritmi meno sostenuti rispetto agli rapida caduta degli investimenti e dell'ocinvestimenti. cupazione. Nel 1966 « la quota di reddito Gli sviluppi qui sommariamente illustrati del lavoro dipendente sul reddito nazionale sono, secondo il Graziani, caratteristici delannullando gli effetti cadde al 57% » l'Italia del « miracolo », ma è altresì nel delle precedti'lotte sindacali. Su queste loro esplicarsi fino alle estreme conseguenbasi si configura una limitata ripresa econoze, in un contesto privo di controlli, che mica, ma il clima generale resta di depresvanno individuati i fattori della crisi sione. Gli anni 1966-69 sono infatti nel loro successiva. insieme la continuazione della politica di Nei primi anni sessanta, due appaiono i dati restrizioni varata nel 1963, ed è in questa socioeconomici di fondo della situazione: fase che le grandi imprese cominciano a da un lato « il conflitto semnre oiù acceso dall'al- perseguire decisamente specifici obiettivi di fra padronato e classe operaia » ristrutturazione: « concentrazione tecnica e tro « un problema interno al padronato, finanziaria, ripresa vigorosa degli investiquello dell'esigenza di riconvertire parzialmenti, rinnovamento della struttura promnte l'apparato produttivo del paese » 111 . duttiva con sviluppo di settori dapprima Il primo si riferisce al mutamento del raptrascurati, rafforzamento ulteriore dei setporto fra salari e profitti a cavallo fra il '60 e tori esportatori » 20 • il '62, il secondo all'ingresso di paesi nuovi 15
L'economia italiana 1945-70, cit., p. 32. Ibid.,p.40. ' Crisi e ristrutiurazione..., cit., p. 7. IS Ibid. o lbid., p. 19. 20 Ibid.,p.22. IO
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Si delinea qui una netta distinzione fra imprese maggiori e minori. Le prime sono infatti coinvolte in un ampio pròcesso di ristrutturazione che tende ad allontanarle dalla produzione di beni di consumo durevoli in favore della produzione di impianti, macchinari e beni strumentarli, che si sviluppa rapidamente fidando nelle esportazioni. Nel corso della ripresa quindi « il settore industriale non viene coinvolto in una vicenda comune, ma si va invece delineando una distinzione netta fra imprese maggiori, che dalla depressione riuscivano a trarre vantaggi considerevoli in termini di espansione, consolidamento finanziario, eliminazione della concorrenza, e imprese minori che, invece, della depressione dovevano sopportare tutti i costi » 21, in termini di ridimensionamento produttivo, compressione dei profitti e spesso di uscita dal mercato. In tale contesto il 1969 costituisce un momento fondamentale, con la ripresa generalizzata del conflitto di classe da un lato e l'evidenziarsi di una frattura all'interno della stessa grande industria dall'altro. Rispetto alle lotte operaie, imprese ad alta intensità di lavoro e imprese ad alta intensità di capitale non adottano lo stesso atteggiamento. Il conflitto nasce dalla presenza di due distinte realtà: per le prime aumento della produzione significa sviluppo dell'occupazione, per cui prioritario è il problema della lotta alla pressione salariale e della pace sociale in fabbrica; per le seconde invece « il problema fondamentale è quello di procurarsi fondi finanziari per eseguire i cospicui investimenti necessari all'espansione degli impianti. Chimica, petrolchimica, siderurgia, sono settori nei quali ogni impianto o ampliamento di impianti richiede investimenti per centinaia di miliardi » 22 • Nel primo caso quindi i temi di fondo sono quelli della ristrutturazione interna (accrescimento della produttività senza crescita degli investimenti) ed esterna (decentra21 22
Ibid. p. 3 l.
Ibid.:p.51.
mento, uso del lavoro a domicilio, ecc.), oltre al rapporto col sindacato. Nel secondo caso l'interlocutore diretto è lo Stato (erogatore dei fondi di dotazione per le imprese pubbliche e delle diverse forme di credito agevolato per quelle private). Per quest'ultimo settore il problema dell'occupazione va risolto al di fuori dello sviluppo industriale, in quanto alla sua scarsa possibilità di assorbimento di forza-lavoro non può che corrispondere una politica volta ad estendere l'occupazione nei servizi (commercio al dettaglio, credito, pubblica amministrazione centrale e periferica). L'occupazione urbana terziaria viene così a svolgere un ruolo di « riserva » di manodopera, propria una volta dell'agricoltura. Le esigenze dei due settori differiscono poi su di un altro punto fondamentale: quelli ad alta intensità di lavoro tendono a strutture produttive decentrate nel nord del paese, laddove quelli « pesanti » puntano su massicci insediamenti al sud, sotto l'egida del sostegno statale (credito agevolato, contributi a fondo perduto). In questo quadro, che vede quindi un accentuarsi dei conflitti fra capitale e lavoro e di quelli interni all'imprenditorialità, s'innesta nel 1972 una manovra inflazionistica, alimentata questa volta, contrariamente al 1963, da una crescita dei prezzi a livello internazionale. La crisi petrolifera dell'ottobre successivo, la crescita vertiginosa della spesa pubblica, la ormai palese ristrettezza della base produttiva rispetto all'offerta di lavoro, sono tutti nodi inestricabilmente connessi. Alla fine del 1974 Graziani osservava che « la politica economica del governo è dunque una politica di aperta depressione, e chiaramente volta a provocare un ulteriore indebolimento dei settori esportatdri. La manovra cui assistiamo è quindi una manovra su due fronti. Da un lato, si provoca una contrazione dell'occupazione in funzione antisindacale; dall'altro, la frattura interna al padronato vede una netta prevalen-'
za dei settori pesanti sui settori esportatori ad alta intensità di manodopera... » 23• Si tratta di conclusioni ancora sottoscrivibili, in quanto mostrano l'operare di un nuovo blocco industriale-finanziario, che accomuna strutture statali e settori « pesanti » in un blocco di potere i cui interessi appaiono in contrasto tanto con l'incremento dell'occupazione industriale quanto con l'allargamento delle strutture produttive. I tratti fondamentali del modello appaiono quindi i seguenti: l'originario dualismo settoriale si perpetua specificandosi di volta in volta. Si passa da una dialettica settori avanzati-settori ar retrati ad una dialettica fra settori « pesanti » e « leggeri », laddove i secondi, pur « arretrati» rispetto ai primi, sono per lunghi periodi competitivi sui mercati esteri e tentano di mantenere queste posizioni attraverso le ristrutturazioni e le lotte all'aumento dei costi del lavoro; il dualismo territoriale, funzionale negli anni cinquanta ai settori « leggeri », diventa, nella fase del ristagno, funzionale ai settori « pesanti » pubblici e privati. Per questi investire al sud significa godere di crediti agevolati ed altre provvidenze: proprio in quanto comportano una maggiore dipendenza da finanziamenti statali questi costituiscono un elemento decisivo del formarsi di un blocco finanziario-industriale, per il momento vincente; quanto al mercato del lavoro, la crescita abnorme degli occupati nei servizi (e della disoccupazione) implica da un lato l'incapacità dei settori « leggeri » di allargare la base produttiva, ma dall'altro appare funzionale al nuovo blocco di potere. Tale funzionalità trova però un limite nel fatto che la dilatazione della spesa pubblica ha ormai superato la disponibilità di risorse, ed è finanziabile solo con un crescente disavanzo; 23 24
l'andamento del conflitto fra capitale e lavoro caratterizza le fasi dello sviluppo all'interno del modello, marcandone tanto i successi quanto i momenti di crisi. Se la scarsa conflittualità e i bassi costi del lavoro sono alle origini del « miracolo economico », l'accesa conflittualità e la redistribuzione momentanea dei redditi in favore del lavoro salariato appaiono come un elemento dirompente. Non si tratta di affermare in astratto che la conflittualità operaia è sempre disfunzionale al sistema 24, ma di osservare come, nel caso italiano e in due precisi momenti, il suo emergere abbia portato all'esplodere di contraddizioni legate ad uno sviluppo rapido e squilibrato, e al manifestarsi del conflitto interimprenditoriale latente all'interno della struttura dualistica. Che la dialettica capitale-lavoro abbia influenzato decisamente i contrasti interni al padronato dimostra, oltre alla debolezza storica dell'imprenditorialità italiana, la fragilità di uno sviluppo capace di successi solo di fronte ad una forza-lavoro debole e disorganizzata; ci si trova in presenza di un padronato che, quando pare mantenere le sue promesse, si trova in realtà ad aver messo in moto, con la piena occupazione nei settori trainanti e la tumultuosa urbanizzazione che induce bisogni sociali estesi e non più sopprimibili, i fattori della crisi.
LUTZ-FUÀ: UN'IMPOSTAZIONE NEOCLASSICA Che questi siano i dati di fondo del « caso italiano » è chiaro a studiosi dalle più diverse impostazioni. A questo proposito è opportuno esaminare le tèsi di Vera Lutz, anche se le sue considerazioni si fermano ai primi anni sessanta, poiché esse mettono in evidenza la connessione che tra accumula-
Ibid.,p.67.
La coflittualità, ovviamente nei limiti dati dai livelli di accumulazione, può infatti essere funzionale allo sviluppo: l'incremento salariale è fonte di ristrutturazione e di crescita tecnologica, e quindi in ultima anahsi di consolidamento e di rafforzamento delle strutture. Su questo punto cfr. J. K. Galbraith, Il nuovo Stato industriale, Einaudi, Torino, 1966.
zione e mercato del lavoro si determina in un contesto dualistico, in cui peraltro l'apertura dell'economia tende ad approfondire il dualismo stesso. L'Italia è considerata dall'autrice come un caso intermedio, « pòiché ad esso non corrispondono né i modelli di sviluppo di un'economia "avanzata" né queffi di un'economia prevalentemente "primitiva" » 25• Si tratta di un'economia a due settori: accanto a grandi unità produttive esiste una vasta area « preindustriale » o « precapitalistica », fondata sul lavoro artigiano o familiare - piccole aziende con capitali minimi e un bassissimo livello di reddito pro-capite. Ciò implica una distinzione fra lavoratori pienamente occupati, involontariamente sottoccupati e involontariamente disoccupati, laddove gli ultimi « devono essere considerati come concorrenti per i posti nel settore del "pieno impiego" e i disoccupati devono essere considerati, in più, come concorrenti per i posti della "sottoccupazione" » 26• Il sistema salariale è ovviamente dualistico: i lavoratori del settore avanzato sono infatti protetti dai sindacati, mentre i sottoccupati non lo sono. Si ponga come obiettivo dello sviluppo l'eliminazione del dualismo, e si assuma che « esistano larghe opportunità per nuovi investimenti, le quali sposteranno all'insù la curva della produttività media (e marginalé) del lavoro senza abbassare al tempo stesso la produttività marginale del capitale fino al livello minimo al disotto del quale l'investimento non è più conveniente » 21. In questo contesto l'unica via praticabile consiste in una tregua salariale nel settore della « piena occupazione », in quanto « fintantochè nel settore delle grandi imprese esiste una tregua salariale, la nuova accumulazione di capitale vi provocherà un'espansione dell'occupazione » 28• I be-
nefici ditale « nuova accumulazione » possono infatti distnbuirsi in tre modi diversi: 1) crescita del rapporto capitale-lavoro in svariati ambiti del settore delle piccole imprese; 2) data la minor pressione del lavoro in questo settore, una crescita del rapporto terra-lavoro per chi resta nell'agricoltura; 3) miglioramento delle ragioni di scambio fra settore moderno e settore tradizionale, con conseguente aumento della produttività nel secondo. Sbocco finale del processo, ove la tregua salariale durasse abbastanza a lungo provocando l'espansione dell'occupazione nel settore moderno, sarebbe la costituzione di un sistema tendenzialmente unificato dei salari, e un aumento generale della produttività in entrambi i settori. Il dualismo sarebbe così eliminato. In assenza di una tregua salariale invece, le grandi imprese saranno costrette ad investire al proprio interno i frutti dell'accumulazione, essendo necessario far crescere, attraverso investimenti intensivi, il rapporto capitale-addetto. I vantaggi dell'accumulazione non si riverserebbero quindi sul settore arretrato, e il dualismo tenderebbe a crescere in mancanza di nuova occupazione nel settore avanzato. In sostanza, « i lavoratori già occupati nel settore delle grandi imprese possono, spingendo sufficientemente in alto i loro livelli salariali, riuscire a riservare a se stessi, se non certamente tutto, di gran lunga la maggior parte dei benefici della nuova accumulazione di capitale. Il capitale aggiuntivo serve in questo caso principalmente a sostenere un aumento di produttività (indotto dai salari) nel settore delle grandi imprese » 29 . L'accostamento al caso italiano appare alla Lutz evidente: negli anni 1960-62, in forza della piena occupazione raggiunta nei settori trainanti dell'economia, un'ondata di lot-
' Cfr. Vera Lutz, Il processo di sviluppo in un'economia dualistica, in Il mercato del lavoro in Italia a cura di S. Vinci, Milano 1974, p. 159. 26 Ibid.,p. 161. 27 Ibid., p. 172. 28 Ibid., p. 174. 29 Ibid.p. 176.
lo te salariali ha come risultato incrementi di reddito per i lavoratori, superiori a queffi della produttività, con un conseguente blocco dello sviluppo in termini di occupazione e d'investimenti. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per gli anni successivi al 1969: il processo di concentrazione del capitale e delle strutture produttive a cavallo del 1966, con la vittoria delle grandi imprese sulle piccole, sulla linea tracciata dal Graziani, corrisponderebbe all'esigenza di impiegare il capitale aggiuntivo « per sostenere un aumento della produttività indotto dai salari », e alla stessa logica risponderebbe, più recentemente, il maggior peso del settore avanzato rispetto a quello ad alta intensità di lavoro. La logica della ristrutturazione, prevalente nel decennio 1963-73, s'inserirebbe nel discorso della Lutz, col conseguente approfondimento del dualismo settoriale e salariale, col blocco della dinamica del mercato del lavoro e la sua frantumazione. Proprio per la sua, almeno apparente, coerenza, questo schema .è stato recentemente ripreso, più o meno esplicitamente, da O. Fuà Anche qui il costo del lavoro nelle grandi imprese, connesso agli andamenti salariali, è la variabile indipendente intorno alla quale ruotano tutte le altre componenti del sistema. Presupponendo l'esistenza di un settore moderno e di un settore arretrato costituito soprattutto da imprese di piccole dimensioni, il Fuà colloca l'Italia in uno stadio di sviluppo « intermedio ». Il punto che più interessa l'autore è la distanza relativa che intercorre fra il nostro e gli altri paesi sviluppati della CEE, soprattutto in termini di capacità produttiva e di costi del lavoro nel settore moderno. Il punto di partenza è 30
rappresentato dai tassi di attività della popolazione, per i quali vengono individuate due specificità: « Il declino dei tassi di attività maschile nelle età anziane e giovanili..., è proceduto oltre il normale in Italia fino a toccare livelli eccezionalmente bassi... » 31 ; « il caso italiano è sconcertante non tanto perché la riduzione della popolazione attiva in agricoltura è forte, quanto perché è più forte dell'assorbimento di popolazione attiva da parte dei settori extra-agricoli » 32 In ogni caso il dato fondamentale sarebbe il seguente: « ... Si ha la sensazione che la dimensione raggiunta dal fenomeno [del lavoro occulto] in Italia sia eccezionale. Insomma, mentre siamo gli ultimi nel lavoro ufficialmente registrato, saremmo i primi in quello occulto » 33; esistendo nel nostro paese una vasta area al cui interno l'imprésa, per la sua impossibilità di sostenere i costi del lavoro vigenti nel settore moderno, non sarebbe in grado di conseguire alti livelli di produttività. La costante crescita ditali costi costringerebbe quindi il sett9re tradizionale a far ricorso in modo sempre più massiccio al lavoro non regolare, e comunque non protetto a livello salariale e normativo. Posto che l'Italia, « pur essendo ad un livello di sviluppo più basso rispetto agli altri paesi della Comunità Europea aspira a realizzare fin d'ora... livelli salariali e condizioni di lavoro prossimi a quelli di tali paesi » ne segue che gli alti costi del lavoro possono trovare applicazione « solo per una parte dell'offerta potenziale di lavoro » la restante dovrà « accontentarsi di lavori meno remunerativi svolti in proprio o per le imprese meno evolute, lavori che spesso assumono forme irregolari e sfuggono alla statistica ufficiale » 36
G. Fuà, Occupazione e capacità produttiva, la realtà italiana, cit. ' Ibid., p. 19. Ibid., p. 24. " Ibid., p. 36. Ibid.,p.41. " Ibid.,p.42. 36 Ibid.,p.70. 31
11 La spaccatura del mercato del lavoro in quote forti e quote deboli, con le seconde che concorrono solo marginalmente alla determinazione del tasso ufficiale di attività, nascerebbe quindi direttamente dalla pressione della classe operaia occupata nel settore moderno e sindacalmente organizzata. Le grandi imprese, impegnate ad inseguire gli incrementi salariali accrescendo la produttività ed investendo quindi al loro interno, non farebbero pervenire al di fuori del settore i benefici dell'accumulazione, del resto negli ultimi anni còmpletamente mancata, registrandosi anzi considerevoli perdite. A questo proposito l'autore è categonco: nel '74 e nel '75 i redditi da lavoro avrebbero assorbito l'intero prodotto netto lasciando alle imprese un margine insufficiente per l'ammortamento e nessun margine per l'interesse del capitale. Tutto questo implica ovviamente, oltre all'approfondirsi del dualismo, un blocco dello sviluppo di cui la forza-lavoro non protetta farebbe le spese. La crescita della disoccupazione giovanile sarebbe un corollario del tutto pertinente al discorso svolto, anche se l'autore non vi si soffermà in modo particolare. Su questa base, la quota del lavorò « nero » non può che crescere, a meno di una diminuzione del costo del lavoro comunque ottenuta. L'analogia con Vera Lutz, che considera una « tregua salanale » di lungo periodo
come l'unica strada per giungere ad una progressiva eliminazione del dualismo e ad una perequazione dei redditi da lavoro, appare qui evidente, anche se di recente Fuà ha tenuto a rimarcare le notevoli differenze 36 bis, come evidenti appaiono le consonanze fra questi schemi e altre posizioni oggi largamente diffuse (le linee espresse per esempio da Modigliani sulla stampa quotidiana ne costituiscono, a nostro parere, la sintesi più efficace). Il dualismo strutturale fra grandi e piccole imprese, approfondito dalla pressione salanale sulle prime, si traduce direttamente in dualismo del mercato del lavoro, o meglio in una sua frantumazione in comparti non comunicanti. In termini marxiani saremmo cioè in presenza di una forte sovrapopolazione latente (occupati a bassa produttività e non protetti) e stagnante (quote « deboli » non assorbite dal mercato del lavoro) destinata a crescere a meno di una inversione di tendenza. Tale sovrapopolazione non funzionerebbe però da esercito di riserva in quanto non concorrente rispetto agli occupati della grande industria e in generale del settore moderno. Su questo punto il discorso si avvicina a quello di Luca Meldolesi che, pur partendo da premesse diverse, caratterizza appunto su questi parametri l'accumulazione del capitale e le condizioni strutturali della forza-lavoro nel nostro paese: tuttavia, secondo questo autore, di eser-
Nell'articolo Sviluppo ritardato e dualismo, in « Moneta e Credito », dicembre 1977, p. 355 sgg., Giorgio Fuà scrive: « Poiché vari commentatori hanno accostato la mia posizione in materia di dualismo e sviluppo ritardato a quella di Vera Lutz, è opportuna qualche precisazione. L'opera di Vera Lutz è ricchissima di osservazioni e, cercando bene, ci si può trovare un'anticipazione di quasi tutti gli elementi che formano il mio discorso ( ... ). Ma al di là delle consonanze in molti punti particolari, noto un netto contrasto nella logica di fondo delle nostre analisi. Tra le mutue relazioni che collegano il ritardato sviluppo, il dualismo delle produttività, il dualismo salariale, io attribuisco una importanza prevalente alla seguente catena causale: il ritardato sviluppo determina il dualismo delle produttività, e questo fa sorgere il problema del dualismo salariale Vera Lutz privilegia invece una catena causale che ha direzione inversa: l'esistenza di un dualismo salariale aggrava il dualismo delle produttività, il quale a sua volta ritarda lo sviluppo. Da questa visione deriva la sua insistenza in favore di una politica che allinei al più presto i costi del lavoro per tutte le imprese, in modo che le imprese poco produttive siano scacciate dal mercato: a quel punto infatti, a suo avviso, la forza di lavoro esistente sarebbe finalmente tutta assorbita nelle imprese ad alta produttività. Io penso che la sua ricetta sarebbe forse appropriata in un'economia sviluppata che abbia problemi di dualismo connessi all'impiego di manodopera immigrata, ma non certo in un'economia come la nostra nella quale la rapida sostituzione di imprese moderne ad imprese premoderne,è ostacolata dalla "inelasticity of supply ofthe entrepreneurial factor" (o meglio del fattore "strutture organizzative"). Nella mia visione il superamento del dualismo delle produttività può ottenersi solo a lungo termine attraverso un'appropriata politica di sviluppo, e non a più breve andare per la semplice via della politica salariale
36.bts
12 cito di riserva si tratta e la sua esistenza è quindi del tutto funzionale all'accumulazione stessa . Le conclusioni del Fuà, che verranno del resto ampiamente riprese e in certa misura legittimate anche dalle recenti svolte sindacali, paiono comunque caratterizzarsi come il punto di approdo di tutto un filone di ricerca che parte da molto lontano. La sintesi dell'autore è significativa: « L'Italia ha realizzato livelli salariali elevati rispetto al suo livello di reddito ed ha raggiunto alcune mete più avanzate di quelle raggiunte da paesi più ricchi di lei per quanto riguarda i salari relativi delle donne e degli anziani e - a quanto pare l'insieme dei diritti dei lavoratori. Queste conquiste riguardano ovviamente le persone che hanno un rapporto di lavoro regolare, non gli irregolari; al fatto che esse siano tanto cospicue corrisponde, come rovescio della medaglia, la dimensione relativamente ristretta del lavoro regolare e l'estensione assunta dal lavoro irregolare in Italia. È emblematico che, mentre siamo tra i paesi che cercano di trattare meglio le donne e gli anziani regolarmente occupati, siamo anche tra i paesi in cui il tasso di occupazione regolare per queste categorie è più basso » . Da queste angolazioni appare una nuova dimensione del dualismo: al di là della sua originaria esistenza come elemento caratterizzante la struttura del nostro paese, il suo approfondirsi e le conseguenti distorsioni indotte a livello del mercato del lavoro sarebbero anche, se non soprattutto, il frutto della pressione, per lo meno inopportuna e comunque corporativa, del lavoro organizzato occupato nel settore moderno dell'economia. Il problema del salario in questo settore appare quindi primordiale, ed è opportuno affrontarlo interrompendo per un momento l'esposizione e l'analisi dei diversi contributi al tema del modello di sviluppo.
SALARIO: FATTORE DOMINANTE?
Gli approcci di cui al precedente paragrafo appaiono coerentemente ortodossi rispetto all'analisi neoclassica, e sono in tal senso portatori di una medesima logica, che vede il salario nel settore moderno come la variabile determinante intorno alla quale si svolge la dinamica di tutto il sistema economico-sociale; in particolare i salari erogati in questo settore avrebbero un'influenza decisiva sul livello e soprattutto sulla destinazione degli investimenti, che devono tradursi, qualora la pressione sindacale superi certi limiti, in corrispondenti aumenti della produttività all'interno del settore stesso. L'accumulazione si svolge quindi in un'area limitata del sistema, la stessa che viene interessata ài successivi flussi d'investimento. Ne deriverebbe l'impossibilità di allargare l'occupazione nel settore moderno, e quindi un ristagno della maggior parte della forza-lavoro nel settore arretrato o ai margini del mercato del lavoro. L'attività non regolare costituirebbe una duplice valvola di sfogo: per il padronato che recupererebbe su questo terreno quote di profitto, per i marginali che avrebbero comunque una possibilitàdi reddito. Un simile schema appare largamente insufficiente proprio al livello dei suoi presupposti. Si viene infatti implicitamente ad affermare che i lavoratori del settore moderno costituiscono, con i loro comportamenti reali, lo strato sociale che determina tanto le scelte del capitale quanto lè specificità della stratificazione delle classi subalterne in un contesto specifico. È il salariato della grande impresa che « decide » da un lato della qualità degli investimenti, e dall'altro il destino di chi non condivide la sua condizione di « privilegio ». All'interno della struttura produttiva si avrebbe cioè la presenza di un supermonopolio sindacale, di fronte al quale l'imprenditorialità si trove-
" Cfr. L. Meldolesi, Disoccupazione ed esercito industriale di riserva in Italia, Laterza, Bari, 1972. 38 Occupazione e capacità produttiva..., cii., p. 77.
13 rebbe costretta a decisioni consonanti con le imposizioni dei lavoratori organizzati. Rispetto all'esigenza di ricostituire i margini di profitto, strumenti come la manovra sul credito, l'uso dei processi inflazionistici, la diversificazione dell'offerta, il ricorso ai finanziamenti agevolati, sarebbero del tuÌtò inadeguati di fronte al supermonopolio sindacale. Tuttavia nell'epoca delle multinazionali e per di più in un paese il cui posto nella divisione del lavoro è determinato assai più dall'esterno che da fattori endogeni, appare eccessivo ritenere che gli occupati del settore moderno costituiscano una potente corporazione che decide del destino di un paese. All'articolato sistema di relazioni fra organizzazioni complesse che costituiscono il tessuto connettivo della società industriale, si sostituisce, con una drastica semplificazione, un nesso meccanico fra salari e investimenti. La corporazione dei « garantiti » decide dello sviluppo, del permanere o meno del dualismo territoriale e settoriale, dell'unificazione o della ulteriore frantumazione del mercato del lavoro. Alla complessità delle interdipendenze si sostituisce un semplice rapporto di proporzionalità inversa fra due grandezze determinate. Il punto di partenza è invece rappresentato dalla complessità del sistema industriale, delle interdipendenze al suo interno, dei suoi rapporti col mercato internazionale e della divisione del lavoro a questo livello. Sotto questo aspetto è semplicistico vedere la struttura produttiva come un insieme omogeneo che reagisce uniformemente di fronte alle variazioni di un'unica grandezza. Mercato, sviluppo tecnologico, uso della forza-lavoro, sono tutti elementi che si combinano in diverso modo entro i singoli settori produttivi, e si risolvono in comportamenti del tutto specifici che non possono essere connessi al solo costo del lavoro. Il rapporto fra questo e gli investimenti non può apparire quindi univoco e predeterminato; deve invece essere analizzato di volta in volta in connessione con l'insieme delle variabili che determinano gli andamenti di
uno specifico settore. Consideriamo per esempio i settori che il Graziani definisce « pesanti »: qui il capitale variabile costituisce una frazione del capitale complessivo (l'altissimo tasso d'investimento per posto/lavoro è un indice a questo proposito significativo), gli investimenti ammontano di volta in volta a centinaia di miliardi impiegati soprattutto in nuove tecnologie e/o nella costruzione di insediamenti. Per questi settori poi la domanda proviene essenzialmente dalle grandi imprese produttrici di beni di consumo durevoli (tipico il rapporto fra acciaio e industria automobilistica) o dallo Stato impegnato in programmi d'industrializzazione. In queste condizioni il volume degli investimenti ha poco a che fare con gli incrementi salariàli; esso è piuttosto connesso alla domanda di mezzi di produzione, alle politiche creditiiie svolte dalle pubbliche istituzioni o a decisioni prese in sede politica. Così, la costruzione di grandi strutture produttive nel Mezzogiorno non dipende dal costo del lavoro ma da una domanda, determinata anche da fattori politico-sociali, espressa dallo Stato, e che può venire soddisfatta solo attraverso il suo diretto contributo finanziario. Non sono certo le accese dinamiche salariali che possono bloccare simili processi. Che i settori « pesanti » investano soprattutto al loro interno allo scopo precipuo di un aumento della produttività (e non dell'occupazione) è poi chiaramente dovuto ad una specifica logica di crescita in termini dimensionali, di estensione e di controllo dei mercati e di potere all'interno del sistema socio-politico. Qui è addirittura banale il richiamo alle considerazioni marxiane circa la tendenza storica del capitale alla concentrazione. In ogni caso, non è affatto• dimostrato che una « tregua salariale » nei settori « pesanti » generi una maggiore occupazione al loro interno, quando è proprio qui che sono possibili quelle innovazioni tecnologiche, tese seminai a ridurre ulteriormente la quota del capitale variabile rispetto al costante. Una loro crescita cree-
14 rà probabilmente nuove occasioni d'investimento in settori ad essi connessi, con una relativa crescita dell'occupazione, ma questo è un discorso del tutto diverso rispetto a quello svolto nel modello che abbiamo definito neoclassico. Per i settori tradizionali, prescindendo per il momento dalla dimensione delle imprese, la variabile salanale esercita invece un grosso peso dato il relativamente basso livello tecnologico e l'uso estensivo della forzalavoro: tuttavia, anche qui non si tratta dell'unica determinante del volume degli investimenti. Insieme ai livelli retributivi giocano la domanda interna e internazionale, la, funzione più o meno trainante del settore, eventuali decisioni di diversificazione produttiva, ecc. Notevoli sono inoltre gli imput positivi o negativi forniti dai centri decisionali della politica economica in termini di credito, di agevolazioni, di incentivi. Tutto questo senza dimenticare il peso determinante esercitato sulla dinamica degli investimenti dalla maggiore o• minore solidità del quadro socio-politico: un medesimo incremento retributivo ha evidentemente effetti diversi sull'imprenditorialità a seconda che venga erogato in un quadro istituzionalmente e politicamente stabile, o si configuri come una conquista strappata attraverso conflitti che hanno scosso profondamente gli equilibri complessivi. Proprio per lo scarso peso attribuito a questi fattori, lo schema lutziano, ripreso dal Fuà, è scarsamente illuminante circa la dinamica della crisi attuale e le sue origini, oltre a non render, conto, come vorrebbe, della persistenza del dualismo. Una ulteriore vèrifica ditale assunto può essere svolta in sede storica, valutando di volta in volta la validità del rapporto inverso salari/ investimenti nelle diverse fasi dello sviluppo postbellico. La dialettica sindacatoimprenditorialità può costituire a questo proposito un parametro assai utile. In primo luogo, non si vede come l'organizzazione operaia degli anni cinquanta potesse determinare il salario reale del settore
moderno (non dimentichiamo che la Lutz si riferisce appunto a questo periodo). Si trattava infatti di un sindacato reduce dalla duplice scissione del 1948 e la,cui parte più combattiva, la CGIL, aveva subito pesanti sconfitte anche dopo avere accettato compromessi assai gravosi, prima fra tutte quella alla FIAT del 1953 (col trionfo del sindacato padronale e delle organizzazioni scissioniste). Bisogna poi tener conto dell'ambiente in cui' l'organizzazione si trovava ad operare: grandi masse di popolazione in movimento dal Sud al Nord, alla ricerca di una stabile occupazione nell'industria e di una retribuzione fissa, a prescindere, entro certi limiti, del suo ammontare; la presenza di milioni di disoccupati anch'essi disposti all'occupazione indipendentemente dal reddito che la stessa poteva garantire. In questo quadro, in cui la sovrapopolazione relativa esplicava quasi totalmente la propria funzione nella determinazione del salario reale, parlare di una classe operaia organizzata in grado di imporre le proprie richieste retributive è, almeno fino ai tardi anni cinquanta, del tutto improprio. Del resto, lo sviluppo si produsse allora, anche nel settore moderno, sulla base di salari nettamente inferiori alla media europea, ed è anzi proprio a questo fattore che si attribuisce generalmente la rapidità dello sviluppo stesso. Certo, succesSivamente le condizioni si fanno di mano in mano diverse: la mobilità del lavoro si attenua (ma solo negli anni settanta); la scala mobile, soprattutto dopo gli accordi del gennaio 1975, fornisce alle retribuzioni una relativa protezione rispetto ai processi inflazionistici (ma questo non accadeva, per esempio, negli anni fra il '63 e il '69). Tutto ciò è però insufficiente per ritenere che l'organizzazione operaia fosse in grado di determinare il salario reale. Infatti: 1) resterebbe da spiegare il comportamento di una controparte la cui arrendevolezza urterebbe in modo macroscopico gli interessi di cui è portatrice, tanto da porla in condizioni di profitto negativo e quindi non
15 solo di blocco ma di regresso dello sviluppo (è la tesi del Fuà quest'ultima, che contrasta tuttavia in modo stridente con l'andamento della produzione industriale e delle esportazioni durante tutto il 1976, laddove, per esempio la bilancia dei pagamenti sarebbe largamente in attivo prescindendo dal deficit energetico); si presuppone un sindacato che, pure in presenza di estesi fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione, è capace di agire da posizioni di forza, su tutti i fattori della produzione, determinando con la sua azione la dinamica di un intero sistema. Una situazione di questo tipo si configurerebbe come « prerivoluzionaria », e in ogni caso non sostenibile sul lungo periodo; si dovrebbe infine spiegare il divario fra la forza operaia in termini di contrattazione salariale e il sostanziale fallimento della lotta per le riforme. Un sindacato capace di imporre all'imprenditorialità le proprie scelte sul primo terreno non sarebbe poi in grado di concordare un'ancorché minimale soluzione ai problemi indotti dalla urbanizzazione di massa, e deve quindi assistere alla progressiva degradazione delle strutture sociali. Si tratta del resto di problemi che il sindacato non ha certo contribuito a creare, poiché il processo d'industrializzazione degli anni cinquanta e sessanta si è svolto sostanzialmente al di fuori del suo controllo Certo, l'organizzazione sindacale si presenta oggi, almeno nélla forma, come un autorevole interlocutore di controparti sociali e politiche, ma si tratta di un'acquisizione recente. Con queste poche osservazioni non si vuole certo negare che il salario (e più in generale il costo del lavoro nel settore moderno su questo punto Fuà è più analitico della
Lutz) costituisce una variabile che interviene nelle dinamiche dello sviluppo e del mercato del lavoro. Il dato salariale non può però essere considerato come fattore dominante dell'evoluzione del sistema. Il fatto che,» dopo il 1963, gli investimenti abbiano avuto un andamento più attenuato rispetto al periodo precedente e si siano concentrati all'interno del settore moderno, può senz'altro essere dipeso da un maggior costo del lavoro in aree determinate del tessùto produttivo; il punto è però che la più accentuata concorrenza dei paesi emergenti nei rami tradizionalmente esportatori ha giocato un ruolo ben maggiore nel volume e nell'orientamento degli investimenti stessi. A loro volta le concentrazioni degli anni 1964-67 hanno poco a che fare con la crescita dei salari reali - che tra l'altro nello stesso periodo subivano i colpi dell'inflazione -, ma si riferiscono piuttosto agli andamenti della domanda internazionale, al maggior ruolo assunto dal capitale finanziario e alle contraddizioni mterne al mondo imprenditoriale. Il minor peso delle piccole industrie tradizionali prima, e dellà grande manifattura poi, hanno radici in fenomeni che solo marginalmente hanno a che fare con l'azione sindacale1 Si tratta casomai di una sconfitta subita da questi settori nei confronti di quelli pesanti, assai più vicini al potere politico e maggiormente in grado di determinarne le scelte. A questo proposito, l'uso che è stato fatto della ingente massa di capitali riversata sul mercato, in seguito agli indennizzi erogati dopo la nazionalizzazione dell'industria elettrica (1963), ha motivazioni che si riferiscono alla crescita del capitale finanziario, ai conflitti interimprenditoriali ed alle scelte compiute dal potere politico 40• Il dilatarsi della spesa
Circa le considerazioni di carattere quantitativo rispetto p. es. alle dimensioni dei profitti aziendali negli ultimi anni, si runanda agli interventi, per la maggior parte critici, svolti da diversi autori in « Inchiesta », anno VI, n. 24. ° Al di là delle conclusioni cui gli autori pervengono, paiono interessanti a questo proposito le descrizioni e le considerazioni di Scalfari e Turani in Razza padrona (Feltrineffi, Milano, 1976) e quelle di Galli e Nannei in Il capitalismo assistenziale (Sugar, Milano, 1976). Circa i problemi della spesa pubblica è utile il saggio di G. Amato, Economia, politica e istituzioni in Italia (Il Mulino, Bologna, 1976) che esamina fra l'altro i rapporti fra questo tipo di spesa e potere politico. Su quest'ultimo tema si tornerà in sede di conclusioni.
16 pubblica e l'assunzione progressiva di privilegi da parte di determinati settori di dipendenti statali e parastatali non hanno nulla a che fare con gli incrementi salariali dei metalmeccanici, ma si riferiscono piuttosto a logiche proprie delle forze politiche. Analogo discorso può essere svolto per quanto riguarda la spesa pubblica nei settori produttivi e la gestione degli investimenti da parte dei grandi managers di Stato. Del resto, in altri contesti socio-economici, rapidi incrementi salariali possono avere causato alcune difficoltà, ma in ultima analisi hanno avuto un effetto impulsivo rispetto al progresso tecnico, alla diversificazione produttiva, e in generale rispetto a nuove strategie di sviluppo. Se tutto questo è vero, si tratta di collocare la variabile « salario del settore moderno » rispetto ad altre variabili, rappresentate in particolare nel nostro caso dal grado di apertura dell'economia e dagli andamenti della domanda internazionale in riferimento ad una struttura che si configura essenzialmente come fondata sulla trasformazione di materie prime importate ". Tutti elementi che vanno comunque integrati con le precedenti asserzioni circa i conflitti interni all'imprenditorialità ed i rapporti fra specifiche componenti della stessa ed il potere politico. Che in taluni settori produttivi tradizionali (e quindi non trainanti comunque) il costo del lavoro sia oggi tale da renderli non competitivi rispetto alla concorrenza internazionale è certamente un elemento di rilievo, ma non determinante., Il salario era un dato favorevole al capitale negli anni
cinquanta, può essere almeno in parte un dato sfavorevole oggi, ma non è stato e non è la variabile decisiva del quadro economico, sociale e politico. C'è piuttosto da chiedersi come il passaggio, peraltro parziale, dall'uno all'altro regime salariale, sia avvenuto in modo tanto brusco, e si sia configurato più come un fattore di turbamento degli equilibri del sistema che come un momento « fisiologico », sulla cui base compiere ulteriori passi sulla via dello sviluppo capitalistico. Ma ciò rirnanda ancora una volta ai caratteri storicamente determinati del blocco dominante, alle trasformazioni al suo interno, e ai suoi rapporti col potere politico in una fase specifica dello sviluppo. Sono tutti elementi che vengono implicitamente rilevati da Bruno Trentin, quando osserva come risulti a parer suo « difficile... affermare con sicurezza che un più basso livello dei salari reali italiani nelle imprese maggiori rallenterebbe un processo di decentramento produttivo, che presenta motivazioni ben più articolate (anche di efficienza organizzativa e finanziaria in alcuni casi), e sòprattutto che rallenterebbe il ricorso al lavoro precario, il quale trova a quanto sembra il suo alimento fondamentale nella possibilità per l'impresa di evadere anche a parità di retribuzione erogata al lavoratore - il fisco e i contributi sociali » 42 Nella sostanza qui si contesta, sulla base dell'esperienza italiana peraltro: 1) la correlazione fra crescita del salario degli occupati regolari e diffusione del lavoro precario; 2) la correlazione fra andamento del salario e dinamica degli investimenti.
Secondo'il Paci, per esempio (cfr. il suo intervento nel numero citato di « Inchiesta »): « In,definitiva, . ..se un fattore va privilegiato nella impostazione di uno schema esplicativo del basso livello di sviluppo relativo del nostro paese, questo è da ricercarsi nei condizionamenti internazionali della nostra economia e, in particolare, nella specializzazione produttiva che ci è stata imposta nel quadro della divisione internazionale del lavoro. . . .È in questo quadro che va allora collocata l'influenza esercitata dalla dinamica salariale e dalla rigidità della forza-lavoro... Se un elemento di rigidità interna va posto all'origine delle difficoltà della nostra economia, è alla rigidità tecnologica e produttiva del nostro apparato industriale che bisogna guardare, ben più che a quella della forza-lavoro ». 42 Cfr. Considerazioni sopra un recente lavoro di Giorgio Fuà, in Da sfruttati a produttori, De Donato, Bari, 1977. L'autore trova conferma di ciò nell'esperienza degli anni precedenti al 1968, quando « i tassidella crescita salanale in Italia non manifestavano un andamento sostanzialmente differente da quello di altri paesi europei » senza che per questo il lavoro precario trovasse margini di utilizzo molto minori che nel presente.
17 Il tutto in armonia con le osservazioni svolte da noi in precedenza, sulla scorta, soprattutto, delle argomentazioni del Graziani. Alle stesse conclusioni si deve giungere quando sj osserva che: « L'avvicinamento dei salari industriali italiani a quelli di altri paesi europei non sembra costituire ... né un fenomeno malsano per lo sviluppo industriale italiano né un fenomeno arrestabile in un'economia.aperta. A meno di scontare una fuga della manodopera verso altri settori di occupazione e sottoccupazione (ivi compresa la disoccupazione assistita) o dall'industria italiana verso quella straniera. E a meno di scontare un forte afflusso di manodopera. straniera dei paesi più poveri del terzo mondo in Italia; stante l'attuale disoccupazione di massa » Queste considerazioni mettono in luce l'esistenza di alcune tendenze oggettive in un'economia aperta, qual è quella in cui s'inquadra nello specifico la crescita salariale: si tratta di veri a propri nodi dello sviluppo che prima o poi le economie industriali affrontano e la cui risoluzione non può certo fondarsi su un ritorno al passato, incompatibile per esempio con la « creazione tendenziale di un mercato unico della manodopera europea »", ovvero con gli stessi caratteri di apertura del sistema. Quando poi si prevedono determinate conseguenze derivanti da un'ipotetica diminuzione dei salari, non si fa altro che mettere l'accento sull'esistenza di distorsioni ben più profonde di quella retributiva. Ancora una volta emerge il problema dei caratteri del blocco dominante, della sua storia, della sua composizione e dei suoi comportamenti; un blocco che affronta in chiave di patologia (vedi le vicende elettorali del 1963 con la spettacolare crescita dei voti liberali di fronte allo spauracchio del centro-sinistra) sintomi e sviluppi da consiIbid,p. CXLIV. Ibid., p. CXLIV. M. Salvati, L'origine della crisi in corso, cit., p. 3. Ibid.,p.4. 17 Ibid.,p.5.
Il
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derare, stando all'esperienza di paesi di più antica industrializzazione, relativamente prevedibili, e come tali da affrontare avendo presenti ambiti più vasti che non il semplice dato salariale. C'è in sostanza da chiedersi come il « costo del lavoro » nel settore moderno abbia assunto nel contesto italiano un peso tale da porlo in posizione di privilegio rispetto ad altre variabili nelle analisi correnti. L'interpretazione di Michele Salvati circa l'origine della crisi può fornire alcuni elementi di risposta.
SALVATI: IL RUOLO DEI FATTORI SOCIOPOLÌTICI E IL FALLIMENTO DEL RIFORMISMO Alla base di questa interpretazione c'è ancora una volta il grado di apertura dell'economia italiana considerata, soprattutto nei suoi comparti industriali avanzati, come « un'appendice dell'economia nord-atlantica » '. La crisi che ha rallentato e poi bloccato lo sviluppo a partire dal 1963 è tuttavia dovuta a fattori endogeni, in quanto si manifesta « in un momento in cui l'onda ascendente del commercio internazionale era ben lontana dall'esaurirsi » 46. Il periodo 1948-62 viene definito come epoca di « sviluppo repressivO », al termine del quale il paese assume i tratti fondamentali di un'economia avanzata almeno in termini di bilancia commerciale, di composizione delle esportazioni, di presenza di « un'industria efficiente, pienamente utilizzata dalla domanda proveniente dall'economia per consumi, investimenti, esportazioni » . Alla base di questa evoluzione stanno cinque decisioni fondamentali: la formaziòne dei governi centristi, accompagnata dalla scissione sindacale e dalla repressione; l'attuazione della linea deflazionistica di Einaudi, intesa a stimolare l'efficienza del
18 sistema produttivo, eliminando le imprese non competitive e favorendo la crescita della composizione organica del capitale; l'apertura dell'economia alla concorrenza internazioàale con la conseguente necessità di un forte incremento della produttività; lo sviluppo di un'industria pesante, nei settori siderurgico ed energetico, a partecipazione statale; decisione che il Salvati qualifica come « l'unica vera riforma strutturale perseguita dal governo anche in conflitto con forze rilevanti del blocco di potere» 48 ; una legislazione volta ad arginare le tensioni che lo sviluppo andava creando (Cassa per il Mezzogiorno, legge stralcio sulla riforma agraria, ecc.). Il risultato è una crescita economica fondata in primo luogo su un'intensa dinamica degli investimenti e delle esportazioni oltre che, sia pure in minor misura, sui consumi privati: accanto ad essa permangono però situazioni scarsamente produttive, in modo particolare nei settòri non industriali. È chiara qui la consonanza con le analisi del Graziani circa i contenuti. del dualismo settoriale e territoriale; in ogni caso, secondo il Salvati tali sviluppi sono politicamente e socialmente il frutto di una scelta: non si tratta cioè di distorsioni che il padronato non ha potuto dominare, stanti le pressioni sindacali, come appare alla Lutz e al Fuà. Tale scelta implica una precisa visione circa la funzionalità del dualismo allo sviluppo, in quanto per esempio « la mancanza dello sviluppo economico nel Mezzogiorno (e in altre aree) evita la formazione di una netta contrapposizione di classe e consente la sopravvivenza di ceti e di rapporti di produzione su cui può facilmente attecchire il gioco corruttore del potere centrale » A
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livello più generale, come si è già osservato, tale funzionalità si esplica nell'utilizzo delle aree e dei settori di « non sviluppo » come fonte di forza-lavoro a basso costo da trasferire nella grande industria a ritmi più o meno intensi. In sintesi, « in aree geografiche ed economiche marginalizzate dal tipo di sviluppo in atto, in settori che non partecipano allo squilibrato processo di crescita dell'efficienza capitalistica, si ripete, grosso modo, la stessa storia: persistenza di rapporti sociali di produzione che ostacolano una "facile" contrapposizione di classe; trasferimenti di ricchezza manovrati dal governo e usati a scopo cientelare; più tardi, insieme a questo, l'emigrazione, che dissangua le migliori energie e allontana le tensioni sociali che sarebbero sorte se i giovani fossero rimasti sul posto » 50 Questa situazione, che « non presenta contraddizioni insuperabili, né economiche, né politiche » muta col raggiungimento, alla fine degli anni cinquanta, della « piena occupazione » 51 nel settore moderno dell'economia. Il periodo successivo si caratterizza come momento della maturità « precoce » del sistema, laddove l'aggettivazione si riferisce ad « una base industriale incompleta,, mal distribuita territorialmente, con grosse riserve di forza-lavoro occupata in settori a bassa produttività » 52• Il decennio 1962-72 è visto, almeno al livello dei rapporti fra padronato e classe operaia, negli stessi termini del Graziani:. un ciclo di depressione-ripresa-depressione marcata dalle esplosioni salariali del 1961 e del 1969. C'è però un punto, squisitamente politico, sul quale il Salvati mette l'accento: il periodo 1964-67, considerato dal Graziani come di ristrutturazione intensiva, di concentrazione delle strutture produttive e di raffor-
Ibid., p. 7. Jbid.,p.9. Ibid., pp. 9-10.
" Con questa definizione Salvati intende: « quei livelli e quella struttura della domanda di lavoro che, data la struttura residenziale, professionale, e poi per età e sesso della popolazione che è caratteristica del nostro sviluppo, ingenera tensioni sulmercato del lavoro » Ibid.). (...)
(
52
Ibid.,p.11.
19 zamento del capitale finanziario, appare al Salvati in primo luogo come il momento delle occasioni perdute per il blocco dominante: « Quanto di nuovo ci si poteva aspettare dal Centro Sinistra (come riformismo capitalistico), cioè una coraggiosa aggressione alle distorsioni strutturali del nostro sviluppo, specie al di fuori dell'industria, e insieme la preparazione, economica e politica, di un nuovo slancio accumulativo, mancò quasi interamente » 53. Soprattutto « Mancò un piano organico rivolto sì a "sgelare" le riserve di forza-lavoro contenute nei settori a bassa produttività, ma anche a trovargli impiego in settori a produttività più alta, preferibilmente nelle zone di origine, e comunque predisponendo servizi adeguati (casa, trasporti, sanità, scuola ...) » La ripresa successiva al 1966, nata direttamente dall'accentuato sfruttamento della forza-lavoro e dalla caduta del salario reale, e fondata sostanzialmente sui vecchi moduli entrati in crisi con le rivendicazioni operaie dei primi anni sessanta, innesca quasi subito una nuova ondata di conflittualità. Circa le origini di questi sommovimenti Salvati è esplicito: « Sul versante operaio contò la ripresa dell'occupazione (per quella ridotta frazione della popolazione attiva che risulta "occupabile" nell'industria nel nostro distorto sviluppo economico: maschi, nel fiore dell'età, localizzati al Nord) e quindi l'attenuarsi del ricatto del posto di lavoro. Ma contò anche il crescente disagio della condizione operaia, dentro e fuori la fabbrica. Dentro per le ptggiorate condizioni di lavoro. Fuori per il peso crescente dei "tempi morti", per i trasporti e i servizi inadeguati, per le peggiorate condizioni residenziali, per il crescente costo della vita, e quindi per gli straordinari, il doppio lavoro. Fu dunque un momento di rabbia che esplose, innescato anche dalle. agitazioni Ibid. p. 14. Ibid. " .Ibid., pp. 15-16. 56 Ibid.,p. 19. Il Ibid. p. 23. 58 IbùL ' 53
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• sociali diffuse: una delle manifestazioni dello stesso disagio sociale (e di logoramento della capacità di mediazione delle istituzioni) che era esploso prima con la rivolta degli studenti, ed esploderà poi nel Mezzogiorno, dove è endemico, con i 100 giorni di Reggio » 55 . È il fallimento del centro-sinistra come blocco riformatore capace di raggiungere i. seguenti obiettivi: « tregua. salariale, pace sociale e consenso elettorale, contro rifor me che migliorassero decisamente le condizioni di vita dei lavoratori e nparassero le già evidenti storture accumulate nel decennio precedente » . A cosa è dovuto questo fallimento? Nella sostanza si tratta, per il Salvati, di un problema politico interno al blocco dominante. Delle due interpretazioni del centro-sinistra, quella riformisticorazionalizzatrice attraverso l'intervento pubblico, e quella che considerava il nuovo quadro politico come un modo per ribadire in forme mutate le vecchie pratiche, è la seconda che prevale decisamente. Questo perché sia l'imprenditorialità che il movimento operaio giungevano impreparati ad una tale esperienza: condizioni quali la storia sociopolitica dei due protagonisti, e più nell'immediato la situazione creatasi con la « piena occupazione » nei settori trainanti, impedivano ad entrambi di comportarsi secondo una visione coerentemente riformista. Da parte del blocco dominante si trattava della « ... enorme forza politica . . .di quegli interessi che, per comodo, possiamo definire come "arretrati", nel senso che essi sono l'espressione dell'arretratezza del capitalismo italiano » 57 e dellà « debolezza, la compromissione, la scarsa capacità egemonica del grande capitale di fronte ad un compito politico che, se non compreso all'inizio, andava diventando via via sempre più chiaro » 58• Da parte della classe operaia dal fatto che i suoi partiti,
20 data la realtà che rappresentavano, « non erano coerenti partiti riformisti », sia per « le loro tradizioni lontane e recenti », sia soprattutto perché « come il grande capitale non era riuscito a conquistare un sufficiente predominio sugli altri interessi conservaton, così i partiti del movimento operaio non riuscivano a conquistare una coerente egemonia sugli interessi non operai le cui proteste essi esprimevano. Bottegai, contadini poveri, imprese artigiane ... costituiscono ceti che in ogni caso verrebbero lesi da un coerente rifonnismo capitalistico » 59. Da questa reciproca incapacità di egemonia nasce il fallimento del tentativo di razionalizzazione, frutto della minoritarietà strutturale delle correnti riformistiche tanto nel padronato che in seno al movimento operaio. Si tratta nella sostanza di un falliinento prodotto dal fatto che. « nel corso degli anni cinquanta, mentre l'accumulazione procedeva senza quasi intoppi e la base industriale del paese andava trasformandosi come ben pochi avrebbero osato sperare al tempo della ricostruzione, in un china di pace sociale coatta, veniva costituendosi un blocco di potere sostanzialmente inadatto ad affrontare i problemi di trasformazione economica e di mediazione politica che gli anni sessanta avrebbero posto » 60• Nello stesso tempo emergeva, alla fine degli anni cinquanta, . « ... un soggetto sociale le cui azioni potevano avere influssi profondi sullo sviluppo economico; trascinati dalla forza della classe operaia sul mercato del lavoro, dalle sue autonome risposte alle situazioni di conflitto aziendale, riprendevano potere i sindacati e i partiti 'che con essi avevano i più solidi legami. Si poneva dunque per la borghesia un problema prioritario di sostituzione degli' strumenti di controllo » 61, proprio quel problema la cui mancata risoluzione ha avuto le conseguenze che conosciamo. Il resto è storia di questi
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anni: la crisi internazionale dopo la Guerra. del Kippur (1973) pesa su di un quadro interno già degradato, e va quindi vista come fattore di aggravamento di una patologia che ha le sue radici tanto nell'economia quanto nella politica e nella crisi dei rapporti sociali dominanti nel periodo dello « sviluppo repressivo ». Pur tenendo presente il dato strutturale, l'interpretazione del Salvati mette l'accento sui fattori sociopolitici, condizionati da uno specifico retroterra storico, che hanno determinato lo sviluppo del paese. Affermare che il fallimento del piano riformistico è il diretto portato delle caratteristiche e degli atteggiamenti di larghi strati del blocco dominante, significa privilegiare relativamente il momento delle scelte su quello del dato, e riportarsi su un terreno al cui interno le variabili quantitative si inseriscono in un contesto più generale, che vede la compresenza di fattori appartenenti al politico e all'ideologico. Nel caso che c'interessa, il salario appare qui come una variabile dipendente da elementi sociopolitici oltre che economici. Quanto le sue dimensioni negli anni cinquanta e la sua drastica riduzione dopo il '63 hanno influito sulle « esplosioni » del '61-'62 e del '69-70? Quanto le mancate riforme hanno pesato sullo sviluppo 'delle lotte sociali negli ultimi anni? Il nesso fra legradaione delle strutture urbane e richieste salariali è per esempio definito dal fatto che il fallimento del riformismo ha significato, nel breve periodo, un massiccio aumento dei costi per le famiglie operaie, costrette a sopperire individualmente alle carenze infrastrutturali, e si è quindi tradotto in una forte pressione, intesa al reperimento dei mezzi monetari necessari per sopperire ad esigenze e attese indotte sul terreno sociale da un'industrializzazione tumultuosa e distorta. Qui l'immobilismo comporta l'incanalamento della pressione in. una direzione determinata,
Ibid.,p.22. Cfr. Il sistema economico italiano, analisi di una crisi, cit. p. 12. IbùL,p. 13.
21° quella salariale, e quindi un impatto non indifferente sulle dimensioni del capitale variabile. D'altra parte, lo stesso andamento esitante degli investimenti, che implica una stasi dell'occupazione, fa sì che gli occupati facenti parte di un nucleo familiare debbano farsi carico del mantenimento di un numero maggiore di membri: ovvero produce una ulteriore pressione sulle retribuzioni. Nella sostanza, le lotte salariali dipendono, per intensità e àbiettivi, dal quadro più generale al cui interno si svolgono. L'impraticabilità di un determinato obiettivo, in questo caso le riforme razionalizzatrici, determina lo spostamento del movimento su altri tipi di rivendicazioni in certo senso « succedanee », come il salario. La non possibilità di espansione dell'occupazione significa poi difesa a oltranza del posto di lavoro, con conseguente maggiore rigidità del sistema economico nel suo insieme. Non si dimentichi poi che uno sviluppo fondato sui consumi individuali implica il crescere di esigenze che solo nell'ambito individuale possono essere soddisfatte, ovvero ancora una volta specifiche pressioni sulla variabile salariale. Con ciò si vuole affermare che le lotte sociali nascono certo dalle contraddizioni e dagli squilibri oggettivi di un sistema, ma la loro direzione viene in buona parte determinata dai modi in cui il blocco di potere gestisce le contraddizioni stesse. Il fatto è che in Italia il processo d'industrializzazione, con i suoi vistosi fenomeni di rapido inurbamento e di crescita impetuosa del' bisogni, si è svolto in presenza di un blocco sociopolitico dominante che non era in grado, per la sua storia e la sua struttura, di gestirne le conseguenze. Vedere la crisi come il risultato di una incapacità di questo tipo può forse apparire unilaterale, ma in ogni caso induce a considerare l'incidenza della politica sull'economia in termini non generici. I nodi individuati dal Salvati e dal Graziani
ci sembrano comunque decisivi: il fallimento dell'esperienza riformista e la prevalenza, all'interno del blocco dominante, della componente finanziario-industriale legata strettamente allo Stato, sono alla base delle vicende successive al 1963. I due elementi sono del resto strettamente connessi, ove si consideri, per esempio, il modo di erogazione e la successiva destinazione dei fondi attribuiti al padronato elettrico dopo la nazionalizzazione del settore 62 Il fatto che le « esplosioni » di lotte salariali nel 1961 e nel 1969 segnino due significativi punti di svolta del sistema - come appare ad entrambi gli autori (ma non solo ad essi) -, dimostra l'incapacità o la non volontà da parte dei centri decisionali di gestire il dato sociale se non in termini di reazioni immediate da un lato (dallo sciopero degli investimenti alla ristrutturazione selvaggia) e di trumentalizzazione dall'altro (con il crescere di strutture finanziario-industriali, la cui base produttiva si fonda sempre meno sull'uso della forza-lavoro, e sempre più sul capitale di volta in volta disponibile sulla scorta di determinati legami con gli apparati politici). Su questo quadro s'innesta poi il tema della funzionalità del dualismo territoriale, produttivo, occupazionale, che dislocandosi di vòlta in volta a livelli specifici, si rivela come un dato utilizzato sempre in termini strumentali, ed elemento. portante degli equilibri sociopolitici di volta in volta prevalenti. Il problema non è mai stato quello della eliminazione del dualismo, ma della sua gestione in funzione di interessi determinati: e ciò rimanda decisamente ai caratteri del blocco di potere ed alle sue successive ristrutturazioni. Sono tutti elementi che occorre approfondire e collocare in un quadro complessivo, avendo presente il nesso inscindibile fra politica ed economia, fra le lotte sociali e il loro « utilizzo » da parte di determinate frazioni del blocco dominante, fra sviluppo e sottosviluppo all'interno di un sistema dualistico ed aperto.
62 fondi vennero infatti erogati alle società, e non p. es. ai singoli azionisti, né alcun controllo venne effettuato, in sede di programmazione, sul loro reinvestimento.
22 LA Fi.JNZIONALITÀ DEL DUALISMO
In riferimento allo sviluppo italiano e alla sua crisi, i contributi sopra analizzati presentano chiavi di lettura diverse: laddove il Graziani sviluppa essenzialmente il tema della divergenza d'interessi all'interno dell'industria (dicotomia fra grandi e piccole imprese da un lato, fra settori avanzati e settori arretrati dall'altro), gli studiosi d'impostazione neoclassica privilegiano la variabile salariale, e il Salvati pone in primo luogo l'accento sul nesso fra sviluppo economico e scelte politiche; Fra l'approccio del Graziani e quello del Salvati appare tuttavia possibile una sintesi che tenga conto dei diversi elementi messi in campo dai due autori, rendendo così esplicita una sorta di complementarietà, finora soltanto sottintesa. Unà comparazione di questo tipo non può ovviamente coinvolgere le posizioni di Vera Lutz e di Giorgio Fuà, che, privilegiandò un'unica variabile, appaiono scarsamente atte a favorire la piena comprensione della dinamica complessiva dell'ultimo trentennio. Riferendoci in primo luogo alla periodizzazione introduciamo qui, riprendendole da Massimo Paci 63, le categorie di « accumulazione estensiva » e di « accumulazione intensiva ». Esse permettono di distinguere nettamente due specifici momenti, dello sviluppo socio-economico italiano: la fase del rapido sviluppo (1948-63) e quella della ristrutturazione e della crisi (gli anni successivi). Già a questo livello la comparabilità dei due approcci appare evidente. Sia il Graziani che il Salvati individuano nei primi anni sessanta il momento della svolta, e la caratterizzano entrambi sulla scorta di una pluralità di parametri economici, sociali e politici, tra i quali rientra anche il salario, senza tuttavia assumere una posizione di privilegio. Nello specifico anzi, la variabile salariale appare più che altro come il detonatore di contraddizioni strutturali latenti nel modello di sviluppo e nella
sua gestione: non causa della crisi quindi, ma piuttosto elemento del suo esplicitarsi. Secondo il Graziani, in questi anni si apre il contrasto fra due universi produttivi; secondo il Salvati, emerge la necessità di una razionalizzazione del sistema. Cogliere i punti di contatto è qui piuttosto facile, ove si tenga presente che ristrutturazione e riforme sono due aspetti complementari di unapolitica di razionalizzazione, e che in assenza delle seconde la prima viene attuata in modo « selvaggio », accentuando per ciò stesso le patologie cui si vuole porre rimedio. Ristrutturazione produttiva significa infatti prevàlenza delle grandi unità, riorganizzazione del capitale finanziario e sua più stretta connessione col settore avanzato del capitale industriale, diversa qualificazione della domanda di lavoro con l'espulsione o non immissione delle sue quote. più deboli. Ove tutto questo non venga temperato da interventi programmatori e dall'attuazione di riforme atte a contenerne gli effetti, il risultato non può che essere devastante per il tessuto sociale, dato il pieno esplicarsi dei contenuti anarchici del processo di ristrutturazione. È a questo livello che si situano le « occasioni perdute » del Salvati: il mancato intervento sui processi di riorganizzazione del capitale avrebbe dato luogo ad un loro esplicarsi nei termini indicati dal Graziani, col conseguente approfondimento delle divaricazioni fra le diverse componenti della società italiana. Entrambi gli autori, e con essi il Paci, pongono così l'accento su di un punto fondàmentale: il passaggio del sistema, nei primi anni sessanta, da una fase di accumulazione « estensiva » (nascita e crescita di tutta una serie di nuove iniziative, in particolare nel settore dei beni di consumo durevoli, sulla scorta del basso costo della forza-lavoro e dei notevoli spazi aperti all'iniziativa anche dei piccoli imprenditori), ad una fase di accumulazione « intensiva », che si verifica prevalentemente nei settori ad alta intensità di capitale, sulla scorta dei
' Cfr. Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna, 1968.
23 processi di ristrutturazione selvaggia e dell'eliminazione dal mercato di non poche delle imprese tradizionali sorte durante gli anni del rapido sviluppo. In assenza di interventi riformistici da parte del potere politico, il periodo 1963-67 vede approfondirsi la dicotomia fra settori labour intensive e capital intensive, con la definitiva affermazione di questi ultimi. Più in particolare, gli anni cinquanta vedono lo sviluppo di un paese ancora essenzialmente agricolo, al cui interno esistono isole d'industrializzazione fungenti da polo di attrazione per gli investimenti e la forzalavoro stagnante nelle campagne. È una fase che potremmo definire di capitalismo « concorrenziale », dove ampi spazi si aprono all'iniziativa individuale in presenza di un mercato, soprattutto estero, aperto ai prodotti provenienti dall'industria di trasformazione e dei beni di consumo. Nei primi anni sessanta il quadro è sostanzialmente mutato: la popolazione agricola è ormai una minoranza e per di più in continua diminuzione, il Nord del paese può considerarsi notevolmente industrializzato (sia pure con la presenza di notevoli squilibri, quali ad esempio queffi fra zone pianeggianti e montane), in alcuni settori produttivi è stata raggiunta la piena occupazione, la struttura dei consumi è spesso quella tipica delle economie avanzate (motorizzazione di massa, diffusione dei beni durevoli, tempo libero, ecc.). La fase dello sviluppo « estensivo » può dirsi conclusa: è il momento della qualificazione delle strutture produttive, delle concentrazioni e delle ristrutturazioni, del passaggio da una struttura per certi aspetti di « libera concorrenza » al progressivo predominio dei grandi gruppi finanziario-industriali, che successivamente si legheranno sempre più strettamente al potere politico 64•
L'evoluzione del sistema economico procede lungo linee che poco spazio lasciano ai fenomeni di disordinata espansione caratteristici del periodo precedente. La crisi, e ben lo rileva il Graziani, incide sul nuovo assetto provocando un'accelerazione del suo affermarsi. Esplosa con le rivendicazioni salariali del 1961, essa viene largamente utilizzata al fine della concentrazione del capitale, della « modernizzazione » di determinati settori produttivi capital intensive, dei massicci processi di decentramento e di riduzione della base pròduttivà nei settori tradizionali; ma non è all'origine delle nuove forme di gestione e di organizzazione delle imprese avanzate e del loro progressivo porsi come elemento egemone. È casomai un'occasione da éogliere, non un elemento che implica la percorrenza di strade obbligate. Il concetto di accumulazione « intensiva » riguarda proprio il nuovo assetto del capitale, lo svolgersi dell'accumulazione stessa prevalentemente all'interno delle grandi strutture sulla base del loro porsi in termini « monopolistici » 65 J « occasioni perdute » si riferiscono chiaramente al mancato intervento del potere politico nei processi in corso. A questo livello ci si può agevolmente riconnettere allo schema interpretativo del Salvati, che pure fa riferimento soprattutto ai fattori sociopolitici quando suddivide in prima istanza il trentennio in una fase di « sviluppo repressivo », e in quella che viene definita della « maturità precoce » del capitalismo italiano (significativamente, la scansione temporale è simile a quella del Graziani e del Paci). Diverse notazioni di fondo si richiamano comunque direttamente a criteri di tipo più generalmente econcimico. Quando si afferma che l'immagine dell'Italia nei primi anni cinquanta era quella « di un paese povero, eternamente •
In questo senso i già citati lavori di Scalfari e Turani, e di Galli e Nannei, colgono alcuni dei momenti fondamentali del formarsi delle nuove strutture finanziario-industriali, e del loro connettersi all'intervento pubblico rispetto ai flnanziamenti e alla localizzazione degli investimenti. Richiamiamo qui l'importanza di contributi quali La riorganizzazione del capitale finanziario di G. Ragozzino, Caratteristiche e prospettive dello sviluppo industriale di A. Lettieri, L'intervento straordinario: una politica per il trasformismo di A. Coljidà. Tutti in Contributi ad un'analisi del capitalismo italiano, « Problemi del socialismo » (Reprint, n. 1), Marsilio, Padova, 1972.
24 affamato di materie prime, e incapace di procurarsele mediante l'esportazione di manufatti » 66, con una base industriale « troppo debole rispetto a quella dei paesi concorrenti » 67 e preoccupato per la fine degli aiuti Marshall, e si contrappone quest'immagine a quélla di un paese dotato di « una base industriale alquanto estesa e di una struttura delle esportazioni e importazioni "grosso modo" simile a quella di un paese avanzato » 68, si mettono in evidenza tendenze e caratteri sicuramente connessi a quelli rilevati dal Graziani. Lo stesso può dirsi riguardo al concetto di accumulazione « intensiva » del Paci, quando in Salvati si legge che il paese è pervenuto alla situazione di altre economie industriali « prematuramente, con una base industriale incòmpleta, mal distribuita territorialmente, con grosse riserve di forza-lavoro occupate nei settori a bassa produttività » 69• La complementarietà è chiara anche qui, ove si osser vi che se da un lato si pone l'accento sul mutamento del tipo di accumulazione, dall'altro si insiste sulla « precocità » e rapidità di tale mutamento, e sulle patologie indotte nel sistema proprio da questi elementi. Si è parlato, per l'analisi del Salvati, di una chiave di lettura in prima istanza sociopolitica. Questo è immediatamente evidente nello stesso concetto di « sviluppo repressivo » laddove la repressione, tanto in termini politici quanto in termini economici con il drastico contenimento dei salari, appare come la premessa più generale dello sviluppo. Tale osservazione si riconnette alle variabili sociali del processo di accumulazione, la cui influenza si delinea nello schema con particolare chiarezza: basti pensare al carattere di quelle che il Salvati definisce come le decisioni fondamentali del dopoguerra, fra le quali il primo posto è, non a caso, occupato dalla formazione dei governi centristi e dalle scissioni in campo sindacale. Con gli scioperi dei primi anni sessanL'origine della crisi in corso, cii., p. S. Ibid. 68 Ibid. 69 Ibid.,p. 11.
Il 67
ta è proprio la premessa della pace sociale che viene meno, per cui la nuova conflittualità appare subito come uno degli elementi che, insieme alla « maturità precoce » del sistema ed alla crisi che si sviluppa parallelamente (o in seguito, secondo alcuni) alle lotte, tende alla trasformazione del processo di accumulazione da « estensivo » a « intensivo ». Il passaggio dall'una all'altra forma può essere interpretato anche come reazione del blocco dominante, o delle sue componenti più significative, alla nuova situazione: accelerare il progresso tecnico restringendo l'occupazione può infatti costituire, in una fase di accesi conflitti sindacali, una forma di risposta politica all'azione operaia. Che l'espulsione dalla produzione riguardi in prima istanza le quote deboli della forza-lavoro può certo indicare un processo di razionalizzazione, non privo tuttavia di valenza sociale e politica. Gli anni successivi al 1973 vedranno agire gli stessi meccanismi, laddove il processo sarà però imperniato soprattutto sulla ristrutturazione dell'occupazione in termini di espulsione e di decentramento (lavoro nero), piuttosto che in termini di innovazione tecnologica, come nel periodo 1963-67. L'interpretazione del Salvati è stata tuttavia oggetto di diverse critiche, soprattutto per quanto riguarda l'analisi della crisi come risultato dell'incapacità del blocco dominante di gestire i nuovi rapporti sociali nati dalle lotte in termini progressivi e di risposta riformatrice alle nuove tensioni. L'autore giudica infatti le contraddizioni indotte dallo sviluppo « repressivo » come non insormontabili, se non altro perché riconducibili ai caratteri generali del capitalismo « maturo » e in quanto tali già affrontate in chiave riformistica in altri contesti nazionali. In questa chiave il quadriennio 1963-67 può essere visto come il periodo delle « occasioni perdute », e l'esperienza del centrosinistra come l'immagine di questo fallimento.
25 Diciamo subito che tali critiche hanno una loro ragion d'essere: pur mettendo correttamente in rilievo il ruolo del blocco dominante nella gestione della crisi, Salvati sembra non spiegare a sufficienza le ragioni per cui si può parlare di « occasioni perdute ». Egli sembra far spesso riferimento ad un'astratta esigenza di razionalizzazione, che sarebbe stata tradita in sede di decisione e di azione politica sia per l'immaturità del movimento operaio che per l'incapacità congenita delle classi egemoni di porre il problema di uno sviluppo equilibrato. Ora, giudicare i comportamenti reali in base ad una ragione astratta, e accusare su questa base il blocco dominante di non aver saputo gestire la crisi in termini riformistici, significa in ultima analisi non rispondere ad alcune domande fondamentali. Perché si può parlare di «occasioni perdute »? chi le ha perdute? e come? Ed è lecito parlare di « occasioni perdute » in riferimento non a presunte esigenze generali, ma alla realtà delle diverse componenti sociali ed alla corposità dei loro interessi? Tentare una risposta significa procedere alla disaggregazione di tali componenti (nel nostro caso in riferimento al blocco dominante ed alle sue modificazioni interne) in un contesto che veda politica ed economia riconnettersi in un quadro unitario.
PER UNO SVILUPPO DELL'ANALISI
Riprendiamo la disaggregazione, proposta dal Graziani, del blocco dominante in due componenti al livello delle strutture produttive, componenti che si fondano rispettivamente su unità ad alta intensità di lavoro e ad alta intensità di capitale. Siamo evidentemente di fronte a due diversi tipi d'inte resse settonale, che mal si conciliano l'uno rispetto all'altro per quanto riguarda le rispettive esigenze strategiche. Nel primo caso si tratta di puntare su direttrici quale la lotta alla pressione salariale, la riduzione dei costi del lavoro, « la creazione di un clima di pace sociale e di efficienza in
fabbrica », l'esistenza di un esercito industriale di riserva di volta in volta smobilita-. bile o mobilitabile in coincidenza con determinate fasi dello sviluppo o della crisi. Nel secondo, « il problema fondamentale è quello di procurarsi fondi finanziari per eseguire i cospicui investimenti necessari all'espansione degli impianti ». Qui il costo della forza-lavoro, utilizzata intensivamente, non costituisce una variabile di rilievo, date le sue relativamente limitate dimensioni. E ancora: una volta raggiunta la fase della maturità, sia pure x precoce », e della « piena occupazione », gli obiettivi del primo settore non possono che cònsistere nel deviare le tensioni che potrebbero manifestarsi in un mercato del lavoro saturo, di fronte cioè ad una nuova forza dell'organizzazione operaia. Gli interventi sull'ambiente sociale e sul territorio (casa, scuola, sanità, ecc.) costituirebbero un grosso fattore di decongestione anche politica, laddove una loro mancata attuazione porterebbe a riversare le tensioni sul luogo di lavoro, dove si concretizzerebbero in rivendicazioni soprattutto salariali. Nei primi anni sessanta inòltre, la nuova concorrenzialità dei paesi emergenti induceva precise esigenze di ristrutturazione anche in termini di utilizzo della forza-lavoro, e comportava quindi un rapporto con le organizzazioni operaie che non si esplicasse soltanto in termini conflittuali. Infine, l'allentarsi della pressione salariale in seguito ad una soddisfàzione dei bisogni in termini sociali (riforme), avrebbe significato migliori margini di profitto, ulteriori incentivi ad investire e quindi possibilità di crescita dell'occupazione stabile. Nel caso dei settori ad alta intensità di capitale invece, il problema della pressione salariale, e dei mezzi per allentarla, si pone in termini assai meno prenanti; quanto all'efficienza, il suo perseguimento passa più attraverso l'uso intensivo della tecnologia che non attraverso il rapporto diretto con grandi quantità di lavoro vivo. Quanto poi ai problemi dell'occupazione, il settore,
26 data l'alta composizione organica del capitale, non è certo in grado di risolverli; anzi, il suo prevalere su quello tradizionale comporta una reale sottrazione di risorse ai rami produttivi, la cui espansione potrebbe accrescere il tassò di attività della popolazione, e determina un aggravamento del problema a meno d'interventi di altro tipo. Per tutti gli anni sessanta, a prescindere dal periodo della ripresa 1967-70, si assiste all'esplicarsi di questa dinamica: a livello generale si ha una restrizione del credito nei settori tradizionali e un afflusso di risorse in quelli avanzati, cui fa seguito il restringimento dell'occupazione industriale labour intensive. La tendenza, sempre più esplicita, sarà di demandare la soluzione dei problemi occupazionali alle strutture statali e parastatali attraverso l'allargamento delle piccole burocrazie terziarie assistite, l'ulteriore polvenzzazione della distribuzione commerciale, l'erogazione massiccia al Sud di fittizie pensioni d'invalidità, ecc. Tutto ciò mentre la programmazione resteà una mera parola, e le riforme verranno continuamente rinviate in quanto, fra l'altro, non compatibili con l'appropriazione di crescenti risorse da parte dei settori « pesanti ». Gli anni sessanta avrebbero, dovuto essere quelli della razionalizzazione e delle riforme; sono invece stati gli anni della formazione e del consolidamento di un nuovo blocco di potere nato dall'alleanza fra il partito dominante, con le sue appendici centriste, e i settori ad alta intensità di capitale (non importa qui se privati o insenti nelle partecipazioni statali) sussunti sotto la direzione di quella che Giorgio Galli chiama « borghesia di Stato » 7o Graziani definisce sinteticamente gli interessi di questi ultimi, dal cui perseguimento nasce la necessità di un rapporto organico con le strutture pubbliche (sistema bancario, ministeri finanziari, ministero dell'industria, ecc.) e col personale politico e amministrativo ad esse preposto, in grande maggioran. 70
In Il capitalismo assistenziale, cit.
za appartenente al partito dominante e comunque ad esso legato. In tale partito è ravvisabile il secondo contraente dell'alleanza, che vi partecipa in base a specifiche esigenze di mantenimento dell'egemonia sulla società italiana., La tumultuosa urbanizzazione 'degli anni cinquanta, con la massiccia trasformazione di contadini in operai salariati, dissolve almeno in parte la vecchia base rurale che era stata la componente determinante del successo elettorale del 1948 e del consolidamento, nel periodo successivo, di un blocco sociale conservatore che vedeva nei settori tradizionali dell'industria e nei ceti medi• urbani le altre componenti maggiormente significative (la prima in termini di peso economico più che quantitativo). L'ingresso in fabbrica comporta infatti una nuova socializzazione, che trova nel sindacato e nei partiti di sinistra uno dei principali vettori, e dà quindi luogo, in buona parte, a scelte elettorali diverse rispetto al passato. Non a caso negli anni cinquanta e sessanta la crescita del consenso nei cor.fronti dell'opposizione di sinistra sarà costante, fino a divenire addirittura tumultuosa verso la metà degli anni settanta, con l'acquisizione al blocco progressita di una parte degli stessi ceti medi urbani. Per il 'partito dominante si pone allora, e sempre più acutamente fino alla vera e propria crisi del 1975-76, il problema dell'egemonia. Si tratta, fin dai primi anni sessanta, di procedere alla ricostn'zione di una base di consenso stabile, che faccia appunto perno sull'urbanizzazione di massa che ormai caratterizza il nord del paese, e su strumenti di gestione diversi dal passato in un Mezzogiorno sempre più depauperato anche demograficamente. La crisi « congiunturale » del 1963-65 e le successive ristrutturazioni, col prevalere della grande impresa ad alta intensità di' capitale, costituiscono un'occasione storica. Due dei tradizionali interlocutori del partito dominante sono infatti soccombenti: l'in-
27 dustria tradizionale, perché colpita dalla crisi e sempre più subalterna al grande capitale industriale-finanziario (l'ondata di fallimenti, di fusioni, d'incorporazioni degli anni sessanta è a questo proposito significativa), i ceti contadini perché numericamente assai ridotti dal processo d'industrializzazione. I nuovi interlocutori non possono che essere ricercati da un lato nei settori « pesanti », dall'altro nei nuovi ceti medi urbani cresciuti sull'onda del « miracolo economico ». Il settore avanzato dell'industria rappresenta un interlocutore ideale: per il proprio sviluppo ha infatti assoluto bisogno di ingenti risorse finanziarie, e il partito dominante detiené i cordoni della borsa; d'altro canto tale sviluppo non comporta una crescita dell'occupazione operaia, che avrebbe conseguenze politicamente negative per il partito stesso. Inoltre, tale settore non ha grossi problemi di localizzazione degli investimenti, che possono essere « guidati » politicamente, per esempio nel Mezzogiorno, sulla base di considerazioni che poco hanno a che fare con una reale industrializzazione del Sud (le cosiddette « cattedrali nel deserto »), essendo piuttosto connesse a criteri di gestione complessiva degli apparati egemonici di partito. L'alleanza fra forza politica dominante e settori « pesanti » ha dunque basi strutturalmente solide: in cambio dell'erogazione di capitali, il partito « orienterà » gli investimenti, e si occuperà al tempo stesso degli sbocchi occupazionali che la crisi dell'industria tradizionale e lo sviluppo del settore moderno non possono più garantire. Si tratta quindi da un lato di condurre decisamente la politica dei « poli di sviluppo », e dall'altro di dare vita ad un massiccio settore terziario, parassitario e assistito, strettamente legato all'egemonia del partito dominante proprio perché ad esso deve la sua promozione sociale. Che si tratti di un ceto essenzialmente improduttivo non rappresenta un problema, in quanto il criterio che Cfr. Scalfari e Turani, Razza Padrona, cit.
presiede al suo allargamento è quello della sua produttività politica in termini di consenso, e di stabilizzazione del quadro socioistituzionale in termini di moderatismo. È inutile qui ricordare gli episodi salienti del formarsi e del consolidarsi di tale alleanza: altri lo hanno fatto in modo assai efficace . Basterà qui notare come la stessa istituzione delle regioni a statuto ordinario, pur presentando aspetti positivi, si sia a questo livello risolta in un deciso allargamento delle piccole burocrazie assistite e improduttive legate in primo luogo al partito dominante (almeno fino a che l'improvviso mutare degli equilibri elettorali alla metà degli anni settanta non darà luogo a criteri parzialmente diversi di gestione, con una certa ridistribuzione delle influenze politiche). In generale quindi la « terziarizzazione assistita » e il finanziamento agevolato si presentano come le due facce di una convergenza fra settori pesanti e potere politico, di fronte alla quale l'imprenditorialità grande e piccola, cresciuta sull'uso estensivo della forza-lavoro negli anni cinquanta, si trova sempre più in posizione di relativa debolezza. Le lotte operaie degli ultimi anni sessanta, mutando parzialmente il rapporto fra salari e profitti, hanno fra l'altro costituito un ulteriore passo in questa direzione. In nome di un ritorno alla pace sociale, del resto assai precaria, i settori tradizionali hanno pagato un certo prezzo, indebolendosi ulteriormente di fronte ad un capitale avanzato che non aveva certo problemi di credito, e che attraverso il finanziamento pubblico poteva agevolmente sopperire sia ai propri investimenti che agli incrementi retributivi. Non è un caso che l'Intersind, fin dal 1969, abbia fatto da battistrada rispetto alla conclusione delle grandi vertenze contrattuali, fissandone quei termini economici e politici che i settori tradizionali dovevano accettare, pena l'accentuarsi della conflittualità. D'altra parte, tali settori già in crisi per laconcor-
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28 renza internazionale e per il loro relativo minor peso, dopo le grandi ristrutturazioni degli anni sessanta, si presentavano ormai come troppo deboli per opporsi alle tendenze « populiste » del nuovo blocco dominante. Il resto è storia, di questi anni: la creazione di un esteso strato di forza-lavoro marginale occupata dalle imprese labour intensive, il virtuale blocco del processo di accumulazione (cfr. la relazione della Mediobanca per il 1977), data anche l'irrazionalità economica d'investimenti intensivi dettati quasi unicamente da esigenze politiche (emblematico il caso di Gioia Tauro), il pauroso deficit della spesa pubblica stretta fra erogazioni a fondo perduto per i setton « pesanti' » e dosi sempre più massicce di assistenzialismo, appaiono come i frutti più recenti dell'alleanza. E qui che vanno inoltre individuate le radici della cosiddetta « giungla retnbutiva », tesa a dividere corporazione da corporazione prima di unificarle tutte nel consenso, ad una determinata egemonia, dell'ostinata sopravvivenza dei cosiddetti enti inutili e, parzialmente, di quelle pratiche di « governo spartitorio » 72, cui le altre forze politiche hanno dovuto sottostare, pena la perdita diconsistenti quote di consenso elettorale. Resta il problema del mancato coagularsi, negli anni sessanta, di un blocco riformista. Salvati pone l'accento sulla immaturità, del movimento operaio (storica e politica) rispetto al quadro complessivo caratterizzante la fine del « rapido sviluppo », ovvero sulla sua ostilità di principio a. riforme che avessero un sapore « socialdemocratico » e razionalizzatore. È assai probabile che tale atteggiamènto abbia contribuito ad allontanare da una prospettiva riformista quelle componenti sociali che avevano un interesse oggettivo all'innesco di un simile processo (essenzialmente alcuni settori industriali labour intensive, fasce di ceti medi urbani,
settori della stessa distribuzione commerciale). Giova a questo proposito ricordare (come fa Giuliano Amato) come alcune componenti della maggioranza di centrosinistra intendessero le riforme come elemento destabilizzante rispetto al sistema capitalistico nella prospettiva di un assetto sociale del tutto diverso: le posizioni dell'ala « lombardiana » del PSI agli albori della nuova esperienza politica sono' altamente indicative. Ma non si tratta solo di un problema di « immaturità » del movimento operaio; si tratta anche del problema storico di una borghesia tradizionale strutturalmente arretrata, che. fin dal « decollo » dell'ultimo ottocento, è vissuta sfruttando a piene mani proprio quelle condizioni di sòttosviluppo che ci si sarebbe dovuto proporre di superare, e priva anche culturalmente di una visione strategica dello sviluppo economico. Una borghesia tradizionale che ha sempre colto i vantaggi momentanei di una determinata situazione, rifiutandosi sempre - e il fascismo lo ha dimostrato di pagare i costi di un processo di modernizzazione che avrebbe posto le basi di una crescita meno episodica e non legata alle contingenti debolezze del movimento operaio, provocate 'ora dalla repressione (da Bava Beccaris a Scelba), ora dalle crisi della sua unità (dalla scissione di Livorno a quella di Palazzo Barberini), ora dal quadro internazionale (come nel caso del secondo dopoguerra). Dati gli interessi del nuovo blocco di potere, e l'inconsistenza, per l'immaturità degli eventuali contraenti di un'alleanza riformista, dell'ipotesi. del coagularsi di un blocco riformatore, il centro-sinistra ha 'dunque rappresentato un'occasione perduta solo rispetto ad un'astratta esigenza di modernizzazione, ma non rispetto alle dinamiche reali in atto nel paese. Sotto il mantello di quella formula, il partito dominante e i settori « pesanti » hanno colto invece l'oc-
72 L'espressione è di G. Amato. Con essa si individua il concetto che, secondo l'autore, sta alla base delle pratiche di governo dell'economia e della società nell'ultimo trentennio. Cfr. Economia, politica e istituzioni in Italia, cit.
29 casione che si presentava, lucrando gli uni e gli altri sulla crisi e sulla disgregazione che, già nei primi anni sessanta investiva, sia pure in • sordina, la società italiana. Resta allora il fallimento del centro-sinistra come capacità riformatrice, restano le implicazioni politiche messe in luce dal Salvati, sia pure in una chiave diversa ed in stretta connessione con le formulazioni del Graziani. Non si può invece condividere l'analisi che attribuisce tale fallimento alla incapacità della classe dominante nel suo complesso di gestire le tensioni indotte dal rapido sviluppo prima e dalla crisi poi. A nostro avviso il punto è che una frazione del blocco dominante (peraltro responsabile
anch'essa del tipo di sviluppo degli anni cinquanta), per alcuni versi interessata a sbocchi 'riformistici, si è trovata di fronte all'alleanza fra settori « pesanti » e partito egemone, che hanno gestito sviluppo e crisi secondo precisi e specifici interessi. Queste qui enucleate, sulla scorta di un esame della letteratura, sono ovviamente ipotesi, che tuttavia consentono di nconnettere alcune formulazioni di fondo (soprattutto quelle del Graziani e del Salvati, ma anche del Paci, di Gorrien e di Amato), con una spiegazione di fenomeni macroscopici non altrimenti a parer nostro correlabili. Su questa strada si tratta di proporre ulteriori e più' puntuali verifiche.
RAPPORTI DI RICERCA Collana in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti
Amalia Signòrelli - Maria Clara Tiriticco - Sara Rossi
Scelte senza potere ; 11 ntorno degli emigranti nelle zone dell'esodo pp. 328, L. 8.500
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Officina Edizioni Passeggiata di Ripetta, 25 - 00186 Roma
RAPPORTI DI RICERCA Collana in collaborazione con la Fòndazione Adrino Olivetti
Silvano Fei
Firenze 1881-1898: !a grande operazione urbanistica. Diciotto anni di storia fiorentina vengono puntualmente esaminati attraverso la documentazione degli atti del Consiglio comunale e del carteggio riferito all'a affare-centro », per portare chiarezza sullà genesi, lo sviluppo e la realizzazione di una delle più sconsiderate operazioni edilizie avvenute alla fine del XIX secolò. pp. 320, L. 8.000
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Tre anni di queste istituzioni 1976/1978 11 11 controllo parlamentare Vincenzo Spaziante 21 Il dibattito sull'istituzione scolastica Manna Gigante 31 Partiti e società politica Francesco Sidoti 41 Il potere militare Paolo Mieli 51 Il Presidente della repubblica in Italia Marcello Romei 61 Sindacati e sistema amministrativo M. Gigante, D. Serrani, S. Ristuccia, V. Spaziante 7/ Il disavanzo del tesoro è una variabile decisionale? Maria Teresa Salvemini 81 Verifiche del sistema americano: supremazia mondiale e potere interno Noam Chomsky, James F. Petras, S. Ristuccia 91 Il credito: vicende di una amministrazione parallela Guido Sirianni Galleria'76 Franco Bevilacqua 101 Crisi economica e spesa pubblica: i conti del patto sociale inglese Paolo Filo della Torre, Maria Teresa Salvemini 111 Come governare le partecipazioni statali Paolo Leon Salvataggio, fallimento, occupazione Sergio Ristuccia 121 Taccuino della crisi. Discutiarno di parassitismo, austerità e controllo sociale Sergio Ristuccia 131 Le istituzioni politiche nella società cinese Yves Viltard, Tiziano Terzani 141 Le classì sociali in Italia - Note su un dibattito Gabriella Pinnarò 151 Classe media vecchia e nuova Francesco Sidoti 161 Prospettiva sulle istituzioni Usa Mauro Calamandrei, Henry S. Commager 171 Quali obiettivi per le partecipazioni statali Laura Pennacchi, Alberto Massera 181 Quali istituzioni di controllo Sergio Ristuccia, Francesco Garri 191 Parlamento e forze armate. Massimo Bonanni, Alberto Chellini 201 Tribunali amministrativi regionali - Un primo bilancio Emilio Rosini, Bruno Leuzzi Simscalchi 211 La politica ecclesiastica della sinistra storica in italia dal 1943 al 1977 Sergio Lariccia 221 Riflessioni sugli scandali politici Renata Adiler, Francesco Sidoti 231 Sindacati e sistema amministrativo: la contrattazione nel "parastato" Marina Gigante, Ennio Colasanti 241 Potere politico e Magistratura: il caso francese Maria Rosaria Ferrarese 251 L'economia politica della crisi Nino Salamone 261 L'energia nucleare in Parlamento: le molte ombre di un'indagine conoscitiva Vincenzo Spaziante