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queste stituziuoì
Struttura economica e mercato del lavoro nel caso italiano di Nino Salamone
i Il fattore lavoro nel modello di svi-
luppo
5 Giuseppe De Meo, o dell'ottimismo isti-
tuzionale
7 La Malfa e Vinci: una con futazione
10 R. Jannaccone Pazzi: le tendenze di lungo periodo
12 Marcello De Cecco: le differenziazioni del mercato del lavoro
15 Luigi Frey: lavoro e accumulazione
17 Massimo Paci e la « maturità » del capitalismo italiano
19 Conclusioni
I caratteri strutturali e le dinamiche del mer cato del lavoro appaiono come l'elemento fondamentale dello sviluppo economico e sociale italiano nel secondo dopoguerra. Certo, la considerazione di tale fattore è essenziale in qualsiasi contesto, nel senso della non prescindibilità della variabile « lavoro» nella costruzione di qualsivoglia schema di crescita, ma nel nostro caso essa assume un valore preminente. Non si tratta, naturalmente, di ignorare l'importanza delle risorse fisiche e finanziarie, i caratteri dell'intervento statale o le condizioni dei mercati internazionali. Ma nel contesto di un'economia di trasformazione, a basso sviluppo tecnologico e al cui interno un'agricoltura arretrata gioca ancora un notevole ruolo, l'abbondanza di risorse umane si configura certamente come un « prerequisito » dello sviluppo nel senso dato a questa espressione per esempio da P. Bairoch'. Senza voler applicare all'Italia del secondo dopoguerra le categorie del sottosviluppo, bisogna infatti tener conto che si trattava di un paese in cui, ad alcune isole d'industrializzazione intensiva, corrispondeva un vasto retroterra ancora largamente preindu-
striale; in particolare un'agricoltura che, se pure largamente inserita nel mercato capitalistico, restava ancorata a rapporti sociali obsoleti e si caratterizzava per la bassa produttività e la sovrabbondanza di forza-lavoro. Esisteva, nelle campagne italiane, un vero e proprio esercito di riserva, costituito da una diffusa sovrappopolazione latente disponibile all'abbandono della terra non appena le capacità di attrazione del contesto urbano avessero superato una soglia minima. Il quadro era quindi quello di un'economia e di una società marcatamente dualistiche, al cui interno la risorsa « lavoro'> era potenzialmente in grado di svolgere un ruolo preminente rispetto al « capitale' e alla « terra », per usare le formulazioni tradiziorfali. Su tale contesto si sarebbe inserita, nella seconda metà degli anni quaranta, la scelta dell'apertura ai mercati internazionali e la conseguente assunzione di una posizione definita nell'ambito della divisione del lavoro: quella di paese trasformatore di materie prime importate e quindi esportatore di beni di consumo durevoli, per i quali la domanda interna era ancora assai carente. Parlare di economia di trasformazione significa immediatamente riferirsi ad un contesto di scarsità di materie prime, con le conse-
guenze che ciò comporta sulpiano delle scelte produttive; reciprocamente, parlare di dualismo significa far riferimento a pesanti strozzature del mercato interno, ovvero alla dipendenza dal mercato internazionale per quanto riguarda gli sbocchi del prodotto finito. La stretta connessione, in quest'ambito specifico, di dualismo ed apertura dell'economia, si configura quindi nella sostanza come dipendenza di tutto il sistema, sia dalla parte dell'input che da quella dell'output; una dipendenza dovuta essenzialmente, prescindendo qui dai condizionamenti di carattere politico derivanti da una precisa « scelta di campo» all'interno della logica dei blocchi, alla scarsità delle risorse interne sia in termini di materie prime che di reddito procapite. Date tali condizioni strutturali, il fattore lavoro assume potenzialmente un peso determinante nella dinamica dello sviluppo, nel senso che la sua abbondanza, e quindi il suo basso costo in un quadro anche politicamente sfavorevole alle classi subalterne, vengono a costituire un incentivo di prima grandezza rispetto alla crescita degli investimenti. Abbondanza di offerta di lavoro e suo scarso prezzo si configurano infatti come i fattori
Cfr. Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Einaudi, Torino 1967.
queste istituzioni gennaio-giugno 1979 Direttore: SERGIO RISTUCCIA - Condirettori: GIOVANNI BECHELLONI (responsabile) e MASSIMO BONANNI. Redazione: ENNIO COLASANTI, MARINA GIGANTE (Redattore capo), MARCELLO R0MEI, FRANCESCO SID0TI, VINCENZO SPAZIANTE. Segretaria di Redazione: ROSSANA BoNAzzI. DIREZIONE E REDAZIONE: Viale Mazzini, 88 - 00195 Roma - Telefono 354952. Conto corrente postale N. 57129009 - intestato a: GRUPPO DI STUDIO SU SOCIETÀ E ISTITUZIONI - casella postale 6199 - 00100 Roma Prati. «Queste Istituzioni » esce semestralmente in quattro o cinque fascicoli separati di 16-32 pagine ognuno dei quali dedicato ad un solo tema. Un fascicolo L. 700. Abbonamento ordinario: annuale L. 6.000, biennale L. 11.000. Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972). Spedizione in abbonamento postale - IV gruppo. STAMPA: Litospes - Roma.
3 capaci di riequilibrare i costi d'importazione delle materie prime da un lato, e di rendere dall'altro determinate produzioni concorrenziali sui mercati internazionali, fornendo così all'offerta quegli sbocchi che scarseggiano all'interno. Le considerazioni fino ad ora svolte portano immediatamente ad individuare la centralità del mercato del lavoro all'interno di un ambito strutturale dualistico ed aperto, che fonda le sue possibilità espansive sull'industria di trasformazione, e sulle favorevoli condizioni date dalle notevoli capacità di assorbimento manifestate dal contesto europeo occidentale. Le considerazioni di Vera Lutz 2 circa il carattere non avanzato ma neppure arretrato dell'economia del paese negli anni cinquanta giungono qui a proposito. Laddove una struttura industrialmente sviluppata fonda la propria crescita soprattutto sulla tecnologia, e un paese sottosviluppato non dispone delle risorse necessarie per valorizzare le potenzialità di una forza-lavoro abbondante e a basso costo, una struttura « intermedia» può, in condizioni internazionali favorevoli, investire le risorse disponibili nello sfruttamento estensivo del fattore lavoro: per questa via può costruire una propria identità nella divisione del lavoro e trasformarsi quindi in fornitore di quei prodotti che, in contesti più avanzati, divengono via via sempre meno significativi, e la cui produzione è perciò, in linea di massima, lasciata ad altri. In altre parole, una struttura « intermedia'> ha risorse sufficienti per sfruttare un elemento - il lavoro appunto, il cui utilizzo estensivo appartiene a fasi precedenti dello sviluppo di un paese industrialmente avanzato -' ed inserirsi quindi, sia pure in posizione dipendente, nel contesto generale di un'area economica sovranazionale in rapida crescita. La centralità del mercato del lavoro è del resto, esplicitamente o implicitamente, la caratteristica essenziale dei modelli interpretativi proposti rispetto al caso italiano 3; caratteristica ricorrente inoltre nelle diverse dimensioni, da quella specificamente econo-
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mica a quella più direttamente sociale e politica. E' da questo punto di vista che si tratta allora di svolgere alcuni dei temi già proposti all'attenzione, in riferimento al nostro paese, dai teorici dello sviluppo, soprattutto nel momento in cui il problema del mercato del lavoro e delle sue dinamiche è al centro di un serrato dibattito strettamente connesso alle origini e agli svolgimenti della crisi attuale. Del resto, le tematiche dell'occupazione sono quelle che più, nel secondo dopoguerra, hanno coinvolto le rappresentanze sindacali dei lavoratori, accentuando di volta in volta il loro peso in concomitanza col manifestarsi nel sistema di difficoltà che, sempre, si sono subito riflesse sugli andamenti occupazionali, quasi a testimonianza della fragilità strutturale di un determinato tipo di sviluppo dipendente. La prima domanda che è legittimo porsi è se la nozione di mercato del lavoro in generale, inteso cioè come struttura unitaria e almeno relativamente omogenea, sia sufficiente a render conto di tutte le implicazioni connesse ad una interpretazione analitica delle dinamiche dell'occupazione nel corso degli ultimi trent'anni. Diverse considerazioni fanno propendere per una risposta negativa. Siamo anzitutto di fronte ad un sistema fondato, come si è detto, su un profondo dualismo che vede la convivenza di strutture industriali relativamente moderne e di strutture agrarie arretrate. Ancora, le prime si insediano in zone relativamente ristrette, il famoso « triangolo industriale », che neppure costituisce tuttavia un tessuto omogeneo di attività a livello territoriale e produttivo; le seconde si estendono invece su intere regioni non soltanto meridionali e per esse si può parlare di una relativa omogeneità in in contesto di vero e proprio sottosviluppo (almeno fino alla fine degli anni cinquanta). La stessa industria infine, presenta, accanto a realtà produttive di tipo <(monopolistico» potenzialmente inseribili in un ambito europeo, un fitto tessuto di imprese tecnologicamente arretrate, il cui sviluppo costituirà del
2 Cfr. VERA LUTz, Il processo di sviluppo in un'economia dualistica, in Il mercato del lavoro in Italia, a cura di S. Vinci, Angeli, Milano 1974. Per un'analisi degli stessi cfr. il nostro L'economia politica della crisi, in «Queste Istituzioni », lugliodicembre 1978, n. 25.
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resto uno dei caratteri del cosiddetto « miracolo economico ». La domanda apparé quindi assai differenziata, laddove grandi e piccole imprese, imprese ad alta intensità di lavoro o, reciprocamente, di capitale, produttrici di beni di consumo durevoli per l'esportazione o per il soddisfacimento di una domanda interna non ancora evoluta (siamo sempre negli anni successivi al conflitto), presentano esigenze assai diverse per quanto riguarda il reclutamento della forza-lavoro. Altrettanto non omogenea appare l'offerta, e la cosa era particolarmente evidente all'inizio della ricostruzione: da un lato lavoratori da lungo tempo urbanizzati, più o meno qualificati ma caratterizzati comunque da esperienze di tipo industriale e destinati quindi a trovare o a mantenere l'occupazione in condizioni e settori determinati, dall'altro la for za-lavoro proveniente dalle campagne, e destinata ai tipici settori che costituiscono un ((ponte » tra la vecchia condizione contadina e l'inserimento definitivo nel nuovo contesto 4. Ancora, occorre considerare la specificità del lavoro femminile e i suoi particolari ambiti d'inserimento, raramente coincidenti con le tradizionali attività di tipo industriale riservate ai lavoratori maschi. Infine, con lo sviluppo della scolarizzazione e la crescita delle attività terziarie e di servizio, viene a porsi in evidenza uno specifico ambito di assorbimento di lavoro intellettuale e comunque non manuale, il cui irregolare andamento condiziona, come si vedrà, in modo decisivo questi ultimi anni settanta. In generale comunque, da una considerazione dei dati disponibili e da una lettura dei contributi più significativi sul tema emerge ben presto una conclusione di fondo: « ... la descrizione corretta del mercato italiano del lavoro non corre in termini di mercato unitario, bensì in termini di una pluralità di mercati, variamente collegati fra di loro » E la distinzione non è solo analitica, rimandando piuttosto direttamente ai caratteri strutturali di un sistema socio-economico largamente stratificato nelle sue componenti produttive e distributive. Sia pure non esplicitata e non svolta in tut1
te le sue successive implicazioni, la netta ripartizione del mercato del lavoro nel nostro contesto è già evidente in Vera Lutz, laddove l'Italia viene definita come paese a struttura dualistica a mezza strada fra sviluppo e sottosviluppo. Essa sarà poi ulteriormente affinata, e svolta sempre più esplicitamente, da autori quali Massimo Paci, Marcello De Cecco, Luca Meldolesi e altri ancora. Nessuna difficoltà a farla nostra, e ad utilizzarla come asse metodologico mediante il quale riguardare un quadro ed una dinamica strutturali cui la nozione di ((mercato del lavoro differenziato », o « pluralità di mercati del lavoro », conferisce al tempo stesso la sua complessità e specificità. Sotto questa luce, gli sviluppi complessivi della realtà occupazionale italiana appariranno come il portato di fenomenologie certo strettamente interconnesse, ma al tempo stesso specifiche e non riconducibili l'una all'altra, pena l'appiattimento del quadro d'insieme e quindi l'impossibilità di una visione che vuole essere generale in quanto puntualizza e analizza le diverse componenti. Al tema della differenziazione del mercato del lavoro, si accompagna quello della disoccupazione strutturale, del resto strettamente connesso al precedente in quanto legato al dualismo (territoriale e produttivo) del sistema. E' questo un dato che ha per così dire accompagnato lo sviluppo del paese, salvo brevissime fasi in cui sembrava che il problema stesse per essere 4uasi completamente risolto: in generale la domanda di lavoro non si è mai adeguata all'offerta, condizionando pesantemente le dinamiche sociali e politiche dell'ultimo trentennio. E' dall'intreccio di questi due dati (differenziazione del mercato del lavoro e disoccupazione strutturale), sull'evidente retroterra di una struttura dualistica ed aperta, che prendono le mosse i contributi che ci accingiamo ad analizzare. Lo scopo è quello di individuare le tendenze di fondo del sistema ricom• prendendo al loro interno i dati macroscopici forniti dalla letteratura più significativa: ((il quesito di fondo "consiste" nello stabilire se il processo di accumulazione attualmente in atto nell'economia italiana ten-
Si consideri, a questo proposito, il ruolo dell'industria edilizia nelle città, ben evidenziato p. es. da in Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 11-50. Cfr. Il mercato del lavoro in Italia, cit., p. 15.
MASSIMO PACI,
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de a perpetuare la frammentazione del mercato del lavoro e la disoccupazione strutturale, o se tenda viceversa a eliminare l'uno e l'altro fenomeno » 8 Con ciò si riconnettono strettamente, come del resto appare sottinteso nelle considerazioni precedenti, accumulazione e mercato del lavoro in uno schema unitario di analisi, tenendo conto della specificità del contesto in esame. Si tratta allora di riannodare le fila di un dibattito che si è svolto negli anni, in particolare dalla fine degli anni sessanta, quando apparve evidente, nonostante l'ottimismo di alcune interpretazioni « ufficiali », che la crisi « congiunturale» del 1963 aveva in buona parte cancellato le acquisizioni in tema di occupazione attribuite al precedente « miracolo economico », e che quella che ormai si palesava come una crisi di accumulazione del sistema avrebbe comportato il riproporsi sul lungo periodo del tema della domanda e dell'offerta di lavoro. E' appunto in quel periodo che si esplicitano i temi che diverranno l'oggetto delle diverse analisi, e si procede alla disamina analitica di fenomenologie quali « la riduzione del saggio di attività, la "mascolinizzazione" della forza-lavoro nell'industria, lo slittamento verso l'alto delle qualifiche operaie » 7; con particolare riferimento al primo e al secondo argomento nella misura in cui si riconnettono alla differenziazione del mercato del lavoro in compartimenti relativamente non comuniòanti. E' su questi dati, variamente interpretati dai diversi contributi - magari come indici dell'ingresso del nostro paese nell'area delle nazioni industrialmente sviluppate e caratterizzate, di conseguenza, dal fenomeno della « opulenza di massa » secondo formulazioni e schemi culturali e analitici d'importazione - che s'incentra l'attenzione dei diversi studiosi. In ogni caso, questi dati appaiono come gli indicatori più significativi della realtà sociale italiana e delle sue implicazioni di lungo periodo, e vengono quindi a trovarsi quasi naturalmente al centro delle argomentazioni di volta in volta presentate. 6
GIUSEPPE DE MEO, O DELL'OTTIMISMO ISTITUZIONALE E' del 1970 l'interpretazione in chiave ottimistica di G. De Meo circa la riduzione dei tassi di attività della popolazione nel suo complesso, che viene sostanzialmente ricondotta a tre ordini di fattori: « ...il maggiore afflusso di giovani agli studi determinato in buona parte dalla più diffusa osservanza dell'obbligo scolastico, [1'] estensione a nuove categorie di lavoratori del trattamento previdenziale, ...circostanze queste che ...hanno certamente contribuito nel nostro paese a ridurre il numero degli anziani costretti ...a prolungare l'attività lavorativa soprattutto in occupazioni di carattere marginale. [il] ridimensionamento dell'occupazione agricola [che] comporta il passaggio nella cosiddetta popolazione "non attiva" di molte persone (.:.) che nella precedente attività agricola della famiglia svolgevano lavori in occupazioni marginali o precarie, in qualità di coadiuvanti » 8 Sulla scorta di tali condizioni, apparirebbe quindi del tutto spiegabile la contemporanea diminuzione, dal 1951 al 1968, tanto dell'occupazione quanto della disoccupazione, ovvero la diminuzione complessiva delle « forze di lavoro in condizione professionale » che risultano costituite « al netto delle persone in cerca della loro prima occupazione » g. Riguardo al calo dell'occupazione, questo non sarebbe che apparente, in quanto avrebbe sostanzialmente coinvolto le donne « che coadiuvano i familiari nel lavoro dei campi o saltuariamente in periodi di punta dell'attività agricola o continuativamente in attività marginali (cura dell'orto, del bestiame ecc.) compatibili con lo svolgimento di mansioni più propriamente domestiche » . La contràzione dell'occupazione sarebbe quindi il naturale portato della massiccia emigrazione verso i centri urbani, alla qùale si accompagna « un'uscita dal mercato del lavoro di quelle ex-coadiuvanti agricole che, o a causa dell'età, o per gli impegni familiari, o per la mancanza di ogni qualificazione professiona...
...
Ibid.
Cfr. la prefazione di P. LEON a Sviluppo economico italiano e forza-lavoro, Marsilio, Padova 1973, p. 7. 8 Cfr. G. Da MEO, Evoluzione e prospettive delle forze di lavoro in Italia, Roma 1970, p. 99. Ibid., p. 226. '° Ibid., p. 230.
le, o, infine, per altri impedimenti che si frappongono all'esercizio di un'attività lavorativa in un centro urbano, lasciano il mercato di lavoro per dedicarsi esclusivamente al lavoro casalingo » Tutto ciò sarebbe naturalmente reso possibile da un aumento del reddito pro-capite in seguito al trasferimento nelle città, ovvero ad un'occupazione di tipo industriale per i maschi e in generale i capifamiglia in età lavorativa. Diminuzione del tasso di attività ed aumento del reddito per lavoratore occupato costituiscono per De Meo due indici, peraltro strettamente correlati, di un sicuro sviluppo economico. Del resto, la loro evoluzione nel senso descritto non costituirebbe il por tato di una situazione eccezionale quale per esempio quella del « boom» postbellico, ma una costante individuabile in tutte le fasi dello sviluppo italiano a partire dall'unità, laddove dal 1861 al 1961 l'incremento della popolazione totale sarebbe stato assai superiore a quello della popolazione attiva. Di più il fenomeno sarebbe generale e coinvolgerebbe, prima o poi, tutti i paesi avviati sulla strada della crescita economica, e quindi sociale e civile: « ... appare infatti evidente che la diminuzione del tasso di attività globale, sia per i maschi, sia per le femmine risulta fortemente influenzato dall'abbassamento del tasso di attività agricole e che pertanto il ridimensionamento dell'occupazione in tale settore - comune del resto a molti paesi, sotto la spinta del progresso tecnico e dello sviluppo economico - è tra le cause più influenti del fenomeno considerato» 12 . L'autore osserva ancora che, del resto, anche in questo campo l'Italia è tuttora meno avanzata di altri paesi, per cui sarebbe lecito aspettarsi, associato alla crescita ulteriore dell'industria ed alla sua ristrutturazione tecnologica, un nuovo ridimensionamento del tasso di attività. Il ragionamento, supportato peraltro da una serie di dati quantitativi profusi a piene mani, appare tutto sommato assai lineare: sviluppo economico e progresso sociale comportano necessariamente una contrazione relativa nel numero degli occupati, essenzialj' Ibid. 12 Ibid., •pp. 232-33.
mente per la maggior remunerazione consentita dalle attività industriali rispetto a quelle agricole, e la conseguente maggiore disponibilità di risorse in grado di liberare le donne da attività sussidiarie e i giovani dal lavoro precoce. Per questi ultimi si aprirebbe la strada della scolarizzazione di massa, e quindi la possibilità d'inserimento in un mercato del lavoro evoluto, quale per esempio quello offerto dal terziario avanzato. Nulla di patologico quindi nel fenomeno, da considerarsi invece un preciso indicatore dell'ingresso dell'Italia nel novero delle « società affluenti », sia pure in una posizione nòn ancora consolidata. Certo, il tasso di disoccupazione è ancora (1968) superiore a quello considerato « frizionale » del 2,5 Vo ma ciò non deve impedire di valutare positivamente la strada percorsa pur nella consapevolezza di quanto ancora resta da compiere. Lo schema delineato appare assai semplice: la storia sociale del nostro paese altro non è che una <clunga marcia » verso una società « affluente » le cui coordinate sono quelle caratteristiche dell'area avanzata occidentale. Alla base del ragionamento vi è il concetto che la crescita industriale è sinonimo di sviluppo, e che entrambi significano un progressivo, anche se lento, allinearsi a realtà più evolute. Gli squilibri esistenti altro non sono, in questa logica, che un semplice retaggio di un passato preindustriale, e quindi sanabili a condizione di non turbare un meccanismo di accumulazione che già altrove ha dato esiti positivi. Il processo di « riduzione » della realtà ad alcuni semplici parametri è qui quanto mai evidente: non solo viene ignorata la specificità del caso italiano, non solo si sottintende un eguale giudizio positivo rispetto a politiche economiche e sociali del tutto diverse quali quella « liberale » degli anni fra il 1880 e il 1920, quella del fascismo e quella del secondo dopoguerra, accomunate in un'unica valenza, ma si ignorano più in generale anche i problemi e le difficoltà del processo d'industrializzazione in altri paesi che si definiscono semplicemente come « avanzati ». E' allora possibile considerare un unico da-
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to, quello della riduzione del tasso di attività - interpretato peraltro in termini di una semplicistica fisiologia - come parametro sul quale misurare un'evoluzione relativamente indolore. E' su questo modo di procedere, e sulle conclusioni che se ne traggono, che si appunteranno da più parti critiche di diversa natura, e s'innesteranno tentativi di ulteriori approfondimenti nella direzione di interpretazioni più analitiche, e meno superficiali, di una fenomenologia complessa.
LA MALFA E VINCI: UNA CONFUTAZIONE
Pur nei limiti sopra messi in rilievo, l'interpretazione del De Meo ha il merito di porre all'attenzione, centrandolo su alcuni dati quantitativi di fondo, il problema dello sviluppo italiano, dei suoi squilibri e delle sue specificità. Essa si configura nella sostanza come il punto di partenza di un dibattito via via più ricco e articolato, che ha prodotto una serie di contributi significativi, nati spesso in chiave di lettura critica delle tesi sopra esposte. L'analisi di Giorgio La Malfa e S. Vinci, riferita agli anni 1959-68, parte dall'utilizzo degli stessi dati che già avevano attirato l'attenzione del De Meo, avendo però cura di approfondirli e di disaggregarli onde tentare interpretazioni meno semplicistiche. Secondo i due autori, sempre in riferimento al problema del tasso di attività della popolazione italiana, due sono gli elementi che si pongono in evidenza nel periodo considerato: complessivamente, le forze di lavoro sono diminuite di circa I milione e 500 mila unità, per cui il saggio di partecipazione è sceso di diversi punti in percentuale (e precis'mente dal 43,8 al 37,4%); all'interno di questa dinamica generale e di lungo periodo, la forza-lavoro femminile ha subito la riduzione più drastica, passando da 6 milioni e 500 mila a 5 milioni e 300 mila unità. Questa prima disaggregazione per sesso potrebbe non essere in sé significativa, e al li-
mite potrebbe convalidare le tesi del De Meo ove si consideri il lavoro femminile come attività ausiliaria tipica delle campagne, destinata quindi a contrarsi con l'urbanizzazione e l'inserimento della popolazione in strutture di tipo industriale. Un altro elemento, e questa volta decisivo, si può però cogliere disaggregando il dato complessivo a livello territoriale: « ...confrontando i tassi di partecipazione della forza-lavoro per le varie regioni ... si osserva che il tasso di partecipazione va da un massimo del 42,6% per il Piemonte e la Valle d'Aosta ad un minimo del 30,2% per la Sardegna » 13 . E ancora: « il tasso di partecipazione decresce regolarmente nel passare dalle regioni del Nord a quelle del Centro e da queste ultime alle regioni del Mezzogiorno » 14 . Disaggregato cioè il dato per aree geografiche, si osserva un andamento del tutto opposto a quello che confermerebbe la tesi secondo cui la caduta del saggio di attività sarebbe indotto dallo sviluppo in generale, e dalla crescita del reddito pro-capite in particolare. Per i due autori la conclusione è chiara: « Non si vede ... su quale base la riduzione del tasso di partecipazione possa interpretarsi come un fenomeno fisiologico connesso con un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione » ', se le zone di maggiore attività sono quelle in cui è più elevato il reddito pro-capite e viceversa. Si impone allora la necessità di altri schemi di analisi, che rimettano nel giusto rapporto i diversi elementi che concorrono alla definizione del tasso di attività. A questo proposito, La Malfa e Vinci adottano esplicitamente l'ipotesi definita « del lavoratore scoraggiato », secondo la quale esiste una correlazione diretta fra livello di occupazione in un contesto determinato e ricerca attiva di lavoro. Il parametro che sostanzia tale correlazione è costituito dal «costo » della ricerca di occupazione in questa o in quell'area geografica, ovvero in un ambito socio-economico specifico. Porsi attivamente sul rrfercato del lavoro comporta infatti, a detta dei due autori, una serie di oneri in termini sia fisici ed economici che psicologici, che possono essere af-
In Sviluppo economico italiano e /orza-lavoro, ch., p. 50. Ibid., p. 51. 1-5 Ibid.
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frontati, e di fatto vengono affrontati, solo in presenza di concrete prospettive di occupazione. In Italia, dove «la disoccupazione è concentrata in certe regioni, mentre l'attività manifatturiera è concentrata in altre » 16 tali oneri si configurano come piuttosto elevati. La ricerca di occupazione comporta infatti non indifferenti costi di trasferimento e di insediamento nel nuovo contesto, oltre che lo sradicamento da un preciso ambito culturale, per cui può svolgersi attivamente solo in riferimento a zone ed alto sviluppo industriale, e quindi con un alto tasso di attività, e da parte di soggetti fisicamente e psicologicamente idonei. Si può inoltre osservare che i costi economici del primo insediamento dell'immigrante gravano generalmente sul contesto di origine, la famiglia contadina per esempio, la cui disppnibilità ad <cinvestire » sulla ricerca di lavoro di un proprio membro idoneo è direttamente correlata alle prospettive. La tendenza di fondo é quindi quella dello scoraggiamento del potenziale lavoratore, qualora le sue condizioni e le sue caratteristiche fisiche (può essere il caso delle donne e delle persone relativamente anziane), la distanza geografica dai poli dello sviluppo industriale o il volume di risorse da destinare al «primo insediamento », costituiscano un disincentivo al compimento di una svolta radicale nella sua vita. Con questo, non si tratta di ignorare il peso di alcuni macrofenomeni quali appunto l'aumento del reddito pro-capite, la composizione della 'popolazione per età e la dinamica della sua distribuzione, ma di ricondurli àlle loro dimensioni reali, soprattutto quando si tratta del problema di zone a basso sviluppo economico e, contemporaneamente, a basso tasso di attività. In base ad interpolazioni sui dati disponibili per il periodo in esame, gli autori giungono grosso modo, alle seguenti conclusioni: a) è valida l'ipotesi del lavoratore scoraggiato, soprattutto per quanto riguarda le componenti « deboli » della forza-lavoro quali le persone relativamente anziane e, soprattutto, la potenziale manodopera femminile; 16
Ibid. p. 53. Ibid. p. 60. Ibid,, pp. 68-9. 19 Ibid., i,. 69.
17
<(la forza-lavoro maschile delle classi centrali di età resta sul mercato del lavoro anche in condizioni di cattiva congiuntura » 17, Più in generale: « ... esiste un comportamento ciclico differente tra le due componenti la forza-lavoro globale, e cioè fra la cosiddetta componente primaria costituita dai lavoratori di sesso maschile nelle classi di età fra i trenta e i sessant'anni, e la componente secondaria della forza-lavoro costituita dai maschi compresi nelle altre classi di età e dalla forzalavoro femminile nel complesso » 18 Delle due componenti, la prima appare relativamente indifferente alle oscillazioni della domanda complessiva, laddove la seconda: « ... affluisce nella forza-lavoro quando la situazione congiunturale è buona ed alta la probabilità di trovare un'occupazione, mentre esce dalla forza-lavoro (e ritarda il suo ingresso) quando la situazione congiunturale è sfavorevole e la probabilità di trovare una occupazione si riduce » 19 • L'analisi di La Malfa e Vinci individua così due componenti dell'offerta di lavoro le cui reazioni al ciclo sono profondamente diverse: da un lato si ha una componente «forte » non soggetta se non marginalmente allo stesso, dall'altro una componente «debole » per la quale si esplicano in pieno i meccanismi di espulsione-riassorbimento in conseguenza delle variazioni congiunturali, e più in generale, nell'ambito del modello di sviluppo complessivo, l'ipotesi del lavoratore scoraggiato. Nel caso italiano, tutto questo non può non apparire, tra l'altro, che come conseguenza della struttura dualistica (si ricordi l'osservazione circa la diversa localizzazione territoriale della forza-lavoro potenziale - in generale il Mezzogiorno e le zone agricole e dell'industria manifatturiera). Con ciò i due autori si riconnettono implicitamente alla ipotesi di Vera Lutz circa il livello ((intermedio » del paese, che non è possibile considerare fra quelli pienamente sviluppati o, reciprocamente, fra quelli decisamente sottosviluppati.
Della Lutz si confuta invece l'idea secondo cui il dualismo verrebbe approfondito dalle abnormi dimensioni del salario industriale (il « settore moderno »). Per La Malfa e Vinciii salario non è infatti determinante rispetto alla doppia struttura del mercato del ravoro, e non è anzi neppure considerato come una variabile significativa; la doppia struttura è direttamente derivata dalla tipologia dualistica (a livello territoriale soprattutto) del sistema, che dei resto si configura come funzionale, aggiungiamo, allo stesso modello di sviluppo. Tale funzionalità si esplica proprio nel comportamento <'a fisarmonica » della componente « secondaria » della forza-lavoro; un comportamento del tutto consono alle esigenze delle imprese industriali di fronte alle oscillazioni positive o negative del ciclo economico, in quanto mette a disposizione lavoratori a basso costo nei momenti di crescita, e li espelle con relativa facilità nei momenti di recessione. Occorre poi tener conto delle possibilità di decentramento e di ristrutturazione insite nella massiccia presenza di una componente « secondaria » della forza-lavoro, disponibile ad impieghi precari o temporanei in funzione di esigenze specifiche. Un'ultima osservazione: l'ipotesi del lavoratore scoraggiato conduce direttamente ad una critica di fondo alle impostazioni del De Meo ed alla definizione di disoccupato data dall'ISTAT, che per il modo stesso in cui è formulata sottostima gravemente il fenomeno della disoccupazione. Vale comunque la pena di riportare estesamente la conclusione complessiva dei due autori: « Alla luce di queste considerazioni ap-
pare esatta l'affermazione di Frey secondo cui per la forza-lavoro femminile solo una parte della caduta dei saggio di partecipazione in questi anni è da attribuire all'uscita volontaria dalle forze di lavoro di molte lavoratrici marginali. In più aggiungeremmo che Io stesso vale per i lavoratori giovani e per gli anziani. E' quindi solo in parte vero che l'innalzamento dell'età di frequenza scolastica ha comportato una riduzione del tasso di partecipazione » 20 Per cui: « In definitiva l'andamento dell'offerta di lavoro nel periodo 1959-68 e più ancora nel periodo 1963-68, è un'ulteriore conferma del non brillante comportamento dell'economia italiana nel periodo in esame e della persistenza di un serio problema di disoccupazione nell'ambito di un sistema che, sebbene abbia compiuto grandi progressi in questo dopoguerra, è ancora abbastanza distante da una situazione nella quale tutti coloro che sono disposti a lavorare possono trovare adeguata occupazione e remunerazione » 21 Al di là delle critiche cui è stata sottoposta 22, nell'interpretazione di La Malfa e Vinci si mette da un lato in evidenza, in modo più approfondito di quanto non avesse fatto per esempio Vera Lutz, la divisione del mercato del lavoro in due componenti specifiche che reagiscono in modo differenziato rispetto agli andamenti del ciclo economico; dall'altro fra il ciclo stesso e l'andamento dell'occupazione si individua una specifica correlazione che appare fondata su: ...
...
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1) l'esistenza di larghe fasce sociali la cui ricerca di occupazione viene scoraggiata tanto dai suoi costi psicologici, fisici ed econo-
20 Ibid., p. 70. E' opportuno osservare come ci si trovi di fronte ad uno dei primi contributi che ipotizzano una funzione del sistema scolastico in termini di « area di parcheggio », ovvero di alternativa alla mancanza di prospettive immediate di collocazione sul mercato del lavoro. Il dibattito su questo tema conoscerà significativi sviluppi. 21 Ibid. 22 Cfr. p. es . R. JANNACCONE PAZZI, Evoluzione delle forze di lavoro italiane nel periodo 1959-68. Un tentativo d'interpretazione, in Sviluppo economico italiano e forza-lavoro, cit., pp. 71-88. Secondo Jannaccone: «l'errore nel quale cadono La Malfa e Vinci consiste nel tentare d'interpretare, con un quadro di riferimento di breve periodo, un fenomeno che non può essere spiegato in questi termini: di qui, la scelta di un indicatore solo apparentemente congiunturale e la contrapposizione non corretta fra una ipotesi che accentua gli elementi di lungo periodo e una che tenta una spiegazione di carattere ciclico» (p. 82). Si tratterebbe cioè della scelta di un indicatore non significativo rispetto al fenomeno in esame, in quanto il rapporto fra volume della occupazione complessiva e popolazione (E/P) non può essere considerato adeguato ad una analisi di breve iperiodo. Th questo autore ci occupiamo nel paragrafo seguente.
lo mici, quanto dalla localizzazione delle strutture produttive (dualismo territoriale); 2) la non trasparenza di questo dato alle statistiche ufficiali, che per questa via tendono a fornire un'interpretazione parziale e distorta delle dinamiche complessive della realtà italiana (le tesi di De Meo rientrano pienamente in questo tipo d'interpretazioni). A prescindere da altre osservazioni, a parer nostro il limite ditale analisi risiede nel suo carattere essenzialmente descrittivo, nel suo non configurarsi come « ricerca delle cause », ciò che conduce, in definitiva, ad assumere il fenomeno del calo del tasso di partecipazione piuttosto come indicatore di determinati andamenti dell'economia che non come un dato strutturale da riconnettere ad altri dati strutturali. Ci sembra invece, e la cosa appare confortata da un sia pur rapido esame delle tendenze di lungo periodo dell'economia italiana, che il problema della disoccupazione vada assai al di là della congiuntura, per riconnettersi direttamente alla dinamica storica del nostro sviluppo.
R. JANNACCONE PAZZI: LE TENDENZE DI LUNGO PERIODO In questo senso l'analisi che ci accingiamo a discutere appare più puntuale 23, in quanto tenta preliminarmente di distinguere le variabili cicliche da quelle tendenziali e le riconnette solo successivamente in un unico schema analitico. / Se l'interpretazione di De Meo « lascia largamente insoddisfatti, sopratutto perché dalla elencazione di una serie di fattori rilevanti, nel determinare le variazioni del tasso di partecipazione, non è facile pervenire alla ricostruzione di un modello coerente, in cui le diverse relazioni funzionali trovino la propria collocazione » 24, quella di La Malfa e Vinci, utilizzando un quadro di riferimento di breve periodo, « ...non appare assolutamente adeguata a interpretare fenomeni di
modfficaz!one dellìoerta di lavoro che dipendano da fattori connessi alla natura dello sviluppo economico del sistema » 23. Si tratta allora di ricondurre il caso italiano alla sua dimensione specifica, in quanto l'elemento assunto da La Malfa e Vinci come ciclico (il rapporto E/P - ovvero l'andamento del rapporto fra occupazione e popolazione complessiva), viene ad assumere in realtà il carattere di un « aggiustamento di lungo periodo a modificazioni strutturali del sistema economico » 26, il che significa togliere al ritiro della forza di lavoro il carattere della provvisorietà (implicito in un'analisi connessa unicamente agli andamenti congiunturali) e quello della volontarietà (scelta di non porsi attivamente alla ricerca di un'occupazione di fronte a determinate difficoltà nel breve periodo). L'elemento della volontarietà, della scelta individuale in un momento e in condizioni specifiche, è proprio quello che viene a cadere, nell'analisi di Jannaccone, di fronte ad una serie di dati strutturali di tendenza connessi all'evoluzione complessiva del sistema economico-sociale. Andamenti di una specie determinata appaiono invece all'autore come il risultato di un'azione combinata di tendenze e forze largamente indipenti dalle scelte soggettive dei singoli o di gruppi ristretti quali i nuclei familiari, per cui il ritiro dal mercato sembra configurarsi come pura e semplice espulsione dalle forze di lavoro con scarsissime possibilità di rientrarvi. Sulla scorta di un simile risultato, è destinato a cadere l'elemento della « provvisorietà » dell'uscita, almeno nel senso che un « rientro » sul mercato non appare certo facile e comunque non dipende da una scelta. Per esempio: « L'uscita dalle forze di lavoro di un gran numero di donne che lavoravano in posizione di coadiuvanti in agricoltura è "volontaria" nel senso che la famiglia decide ... di operare in un altro settore economico, nel quale esiste una domanda di lavoro o non sufficientemente elevata o con caratteristiche tali (localizzazione, orari, qua-
23
Ci si riferisce a Evoluzione delle forze di lavoro..., cit.
24
Ibid, p. 79. Ibid., p. 80. Ibid., p. 86.
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11 lità) da non coincidere con l'offerta; non lo è nel senso che la decisione familiare appare largamente "obbligata", come dimostra l'entità della contrazione occupazionale manifestatasi nel settore primario » 27 C'è da aggiungere che nel caso della coadiuvante in questione la decisione è ancora meno volontaria in quanto essa è subordinata al nucleo, e in ogni caso la sua possibilità di trovare occupazione, in un contesto urbano e industriale assai diverso da quello agricolo di origine, è del tutto aleatoria. Qui la domanda si caratterizza infatti soprattutto nel senso di richiedere forza-lavoro maschile (è il caso dell'edilizia, classico settore d'ingresso nella nuova realtà - cfr. Massimo Paci) e, quando si rivolge alle donne, richiede, da parte di queste, un minimo di culturalizzazione che le renda atte allo svolgimento di attività terziarie e di servizio, quali quelle di dattilografa o di commessa; in queste perciò potrà essere parzialmente inserita solo la « seconda generazione », cresciuta nell'ambito urbano e dotata quindi di un certo grado di scolarità. Per la donna di mezza età, che superi cioè i trent'anni, lo spazio per una attività lavorativa sembra quindi inevitabilmente chiudersi, a meno del ricorso a mercati altamente dequalificati e all'interno dei quali il costo psicologico d'inserimento è assai alto (come nel caso delle domestiche). Stanti gli elementi sopra sommariamente enucleati, il discorso non può quindi svolgersi nell'ambito congiunturale, limitato e perciò stesso tendenzialmente fuorviante, ma va ricondotto alle modifiche strutturali di lungo periodo del sistema economico e sociale. A questo proposito « La singolarità del caso italiano sta nel fatto che, nell'arco di un decennio di intenso sviluppo economico, si sia manifestata una contrazione del livello occupazionale, con l'esclusione dal mercato del lavoro di una intera "fascia" di popolazione attiva, che non ha trovato impiego in quei settori (extra-agricoli) in cui si creavano nuovi posti di lavoro. Il mercato sembra aver operato una drastica selezione fra i gruppi di popolazione, in presenza di una domanda globalmente insufficiente a dare impiego alle forze di lavoro esistenti all'inizio 27 28 29
del processo di sviluppo, ma soprattutto caratterizzata da connotati qualitativi profondamente difformi da quelli posseduti dall'offerta » 28 E' questo un punto decisivo: lo squilibrio fra domanda e offerta sul mercato del lavoro è quantitativo solo in quanto è in primo luogo qualitativo. Non si tratta cioè soltanto dell'eccedenza di un fattore (l'offerta) rispetto all'altro (la domanda), ma di un divario strutturale fra i caratteri della prima e quelli della seconda. Il discorso merita di essere sia pure sommariamente affrontato. Probabilmente, ci si deve rifare a due elementi di fondo: da un lato la. rapidità dell'industrializzazione che ha caratterizzato il secondo dopoguerra, dall'altro la non esistenza, o quasi, nelle campagne italiane, di strutture industriali di trasformazione di prodotti agricoli in grado, per così dire, di « precostituire» una forza-lavoro maggiormente atta al successivo inserimento nel contesto urbano. I due elementi possono essere fusi in un discorso unitario nel seguente modo: la presenza di piccole industrie di trasformazione nel panorama agrario avrebbe reso meno rapidi e tumultuosi i processi di urbanizzazione, esistendo nelle campagne alcune possibilità d'inserimento produttivo meno precarie e più redditizie che non la posizione di coadiuvante (ci riferiamo qui alle donne), e contemporaneamente avrebbe consentito una qualificazione della forza-lavoro femminile preliminare all'inserimento nel mercato del lavoro urbano. Certo, ciò avrebbe comportato un processo d'industrializzazione meno rapido e tumultuoso, ma probabilmente più equilibrato anche perché la minore «velocità» d'insediamento nelle città avrebbe consentito la predisposizione delle strutture atte ad accogliere le inevitabili ondate di immigrazione che sempre caratterizzano le fasi di decollo industriale. In ogni caso, il rapporto fra le caratteristiche della domanda e quelle dell'offerta avrebbe mostrato un maggiore equilibrio qualitativo, nel senso che anche la forza-lavoro femminile avrebbe posseduto, almeno in parte,
Ibid., p. 87. Ibid. Per una disamina delle stesse cfr. il nostro L'economia politica della crisi, citO
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12 caratteristiche tali da renderla potenzialmente produttiva nel contesto di una industrializzazione relativamente avanzata. Ovviamente, la storia non si costruisce con i « se », ma si deve comunque constatare, all'interno di un bilancio complessivo dello sviluppo italiano, la presenza di processi d'industrializzazione « forzati », almeno nel senso della non esistenza di alcune delle precondizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo di altri paesi. Ci riferiamo per esempio all'Inghilterra, dove l'urbanizzazione intensiva della rivoluzione industriale venne preceduta da un lento sedimentare, nelle campagne, sia di piccòle industrie di trasformazione di prodotti agricoli, sia di attività artigiane rivolte ad un mercato già sufficientemente esteso, sia di una vera e propria industria tessile a domicilio, rispetto alla quale l'inserimento successivo nel tessuto urbano-industriale si configurò come un'evoluzione in certa misura «naturale » e comunque non forzosa, in presenza di un relativo equilibrio qualitativo fra domanda e offerta. Se queste considerazioni sono vere, ne segue che, nel caso italiano, si è trattato di una vera e propria « incompatibilità" fra domanda e offerta per quanto riguarda alcune fasce della forza-lavoro, incompatibilità che può essere ricondotta solo alle radici storiche e strutturali del nostro sviluppo. All'interno di simili ipotesi, la diminuzione del tasso di attività della popolazione non appare come la manifestazione di stati patologici, che si manifestino in seguito a crisi di tipo congiunturàle e che appaiano perciò destinati a risolversi col superamento delle stesse, ma si configura piuttosto come un diretto portato dei moduli di sviluppo del paese, ovvero dei caratteri strutturali della offerta e, rispettivamente, della domanda di lavoro. Occorre poi ricordare a questo proposito il discorso sulla funzionalizzazione del dualismo territoriale ad un determinato tipo di crescita, come avvenne negli anni cinquanta e sessanta, quando l'esistenza di ampie Il. serve di forza-lavoro «debole>' costituiva un deterrente di prima grandezza contro aumen-
ti salariali che potessero intaccare i tassi di profitto reali e attesi. Pare così di essere ricondotti, per questa via, alle interpretazioni fatte proprie soprattutto dal Graziani e, per altro verso, da Vera Lutz, che vedono i caratteri dell'offerta di lavoro, il dualismo e l'apertura dell'economia quali elementi di fondo sui quali costruire un bilancio dello sviluppo italiano nel secondo dopoguerra. Certo, una considerazione s'impone: ci sembra che, se La Malfa e Vinci trascurano il quadro storico e strutturale sul quale s'innesta l'endemica disoccupazione nel nostro paese e si affidano soprattutto ad analisi che utilizzano indicatori di breve periodo (o, secondo Jannaccone, utilizzano indicatori meglio atti ad analisi di lungo periodo), lo Jannaccone stesso sembra invece trascurare la presenza di un mercato marginale del lavoro. Per le quote «deboli » della forza-lavoro egli utilizza infatti soprattutto la categoria dell'espulsione dal mercato, non facendo cenno del lavoro precario in quanto funzionale alle logiche del sistema, tanto nelle fasi di crescita quanto nelle fasi di recessione. E' questo un elemento che va riaggregato ai precedenti, come si tenterà di fare successivamente.
MARCELLO DE CEcco: LE DIFFERENZIAZIONI DEL MERCATO DEL LAVORO
La disamina precedente ha permesso di evidenziare due dati di fondo: il carattere strutturale della disoccupazione in Italia, ovvero il declino progressivo del tasso di attività nell'ultimo decennio in connessione con tale Carattere, e con il fatto che l'emarginazione dal mercato del lavoro (almeno da quello «ufficiale ») riguarda in primo luogo alcune componenti specifiche della popolazione attiva. E' Marcello De Cecco che s'impegna in una discussione analitica su quest'ultimo punto °: « La proposizione principale che si cerca di verificare, dopo aver chiarito quali sono gli avvenimenti più importanti che si so -
Cfr. Un'interpretazione ricardiana della dinamica della forza-lavoro in Italia nel decennio 1959-69, in Il mercato del lavoro in Italia, clt., pp. 247-70. 30
13 no verificati nel sistema economico occidentale nel trascorso decennio, è che al declinare della domanda non declina proporzionalmente il saggio di attività di tutti i lavoratori, ma decresce il saggio di attività dei lavoratori "marginali", cioè delle donne, dei giovani fino a 25-30 anni e degli anziani dopo i 40 anni. I lavoratori "nel fiore dell'età" non sono interessati al declino della domanda se non in situazioni di vera depressione economica, perché sono da paragonarsi alle macchine maggiormente produttive che restano in produzione anche quando, in condizioni di domanda insufficiente, le macchine meno produttive sono progressivamente fermate » 31 . L'autore comincia col rilevare che: I) rispetto ai paesi dell'OECD, dove nel periodo 1959-69 l'indice di occupazione è passato da 100 a 104,3, in Italia lo stesso è sceso alla percentuale di 93,6; 2) nel nostro paese, nello stesso periodo, gli investimenti sono rimasti pressoché stazionari, mentre si sono accresciuti ('molto sensibilmente » nei paesi concorrenti. Tutto questo, a detta di De Cecco, non può essere spiegato che «collegando i due fenomeni stessi in un rapporto di causalità » 32 , introducendo cioè una nuova variabile rispetto a quelle utilizzate dagli autori in precedenza analizzati. Assumendo che l'andamento degli investimenti determina, almeno in prima istanza, la domanda di lavoro, si ha infatti: <'Se la domanda di lavoro è forte si dovrà utilizzare tutta la forza-lavoro disponibile, se essa è debole si utilizzerà la forza-lavoro più produttiva. Naturalmente, quando si passa da una forte domanda ad una meno forte domanda di lavoro, si cercherà innanzitutto di disfarsi dei lavoratori marginali, e solo se la domanda cade a livelli molto bassi ci si disferà dei lavoratori più produttivi, preferendo in una recessione di modeste proporzioni ridurre le ore settimanali da questi lavorate piuttosto che licenziarli perché, nel caso la domanda aumenti di nuovo, è assai più efficiente aumentare la produzione impieganIbid., i. 247. Jbjd., p. 248. 33 Ibid., p. 251. 3-1 Ibid., p. 255. 31
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do per più ore gli operai più produttivi che assumere di nuovo quelli marginali » 33 . Come tutti gli schemi, anche questo è caratterizzato dagli inevitabili limiti dalla sua astrattezza, soprattutto in considerazione della realtà cui si tratta di applicano (non si dimentichi infatti che lo Statuto dei lavoratori ha notevolmente ridotto le possibilità di manovra delle imprese per quanto riguarda la mobilità del lavoro, per cui per esempio risulterebbe oggi non ipotizzabile una scelta, da parte degli imprenditori, fra una riduzione dell'orario e il licenziamento della forzalavoro eventualmente in soprannumero. Tutt'al più resta a questi ultimi la possibilità di agire nel lungo periodo sul turn-over, non sostituendo quanti cessano l'attività per una ragione qualsiasi), e va quindi utilizzato tenendo presente quanto si sia lontani da condizioni che consentano scelte del tipo ipotizzato dall'autore. Entro queste specificazioni, il ragionamento consente comunque di operare, all'interno del mercato del lavoro, una distinzione di fondo: poiché i lavoratori «più produttivi » sono i maschi appartenenti alle classi centrali di età, questi vanno nettamente «separati» dai lavoratori marginali. Tale distinzione può essere a sua volta approfondita «disaggregando la stessa forza-lavoro per età e ordinando i lavoratori, quanto a produttività, secondo una distribuzione per età, simile al modello di produttività della terra ricardiano, che è stato . applicato anche nella analisi del grado di utilizzazione del parco-macchine dell'economia nel tempo » 34 . Una disaggregazione di questo tipo conduce immediatamente alla constatazione secondo cui il fenomeno della variazione (positiva o negativa, come nel caso italiano) del tasso di attività presenta caratteristiche assai differenti in relazione ad una possibile « scala delle anzianità » dei lavoratori. Quantitativamente si giunge, secondo l'autore, alle seguenti conclusioni in riferimento al periodo 1959-69: <'La ipotesi ricardiana appare praticata dal sistema con estrema precisione: nel decennio i tassi di attività che più diminuiscono sono quelli delle classi fra i 14 e i 19
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14 e 60 e 64 anni di età; seguono le classi intrmedie con una diminuzione più lieve ... infine v'è l'aumento dell'attività delle classi centrali; e qui massimo è l'aumento delle classi da 30 a 35 anni (da 97,8 a 98,4%) e da 35 a 39 anni (da 97,6 a 98,4%). La classe massimamente dinamica quanto a popolazione, quella dai 40 ai 44 anni, riesce a mantenere e a quasi impercettibilmente aumentare il proprio tasso di attività (dal 97 al 97,2%) »'. Ma non basta: per quanto riguarda la componente femminile della forza-lavoro, si constata che il suo tasso di attività è diminuito assai di più in agricoltura, dal 1959 al 1963 (periodo di « boom ») che dal 1964 al 1969 (periodo di ristagno). La stessa diminuzione è verificabile anche nell'industria, anche se « a parti invertite » per quanto riguarda la misura della diminuzione nei due periodi considerati. Ovvero: in Italia, ma non per esempio in Giappone, in Germania, la popolazio-
camente, si sarebbe teso sempre più alla « riduzione della forza-lavoro alla sua componente più omogenea [i lavoratori maschi delle classi centrali di età], più produttiva e più carica di responsabilità o, il che avrebbe « permesso la continuazione degli aumenti di produzione industriale senza aumenti dell'occupazione e senza aumenti degli investimenti, che ... è stata la caratteristica dell'economia italiana dopo il 1963 e che l'ha distinta dalle altre economie europee » 30 , Queste modificazioni nell'occupazione possono essere interpretate come un vero e proprio processo di «razionalizzazione » nelle peculiari condizioni deilo sviluppo italiano. Un riflesso, si potrebbe sostenere, di un analogo processo di ristrutturazione intervenuto nello stesso periodo nell'ambito delle imprese secondo le linee tracciate dal Graziani. A tali condizioni il De Cecco si connette tuttavia solo di sfuggita, attribuendo così alne attiva femminile è diminuita contempola sua analisi un carattere eminentemente raneamente nell'industria e nell'agricoltura. descrittivo. Questo laddove in Danimarca, Norvegia e Entro questi limiti, si tratta di un contribuFinlandia si è verificata addirittura una creto importante nella misura in cui si attribuiscita delle donne occupate. sce agli investimenti il ruolo di variabile prinNon è quindi vero che l'industrializzazione cipale e si istituisce quindi, sia pure non comporta in assoluto un decremento del tasesplicitando fino in fondo le conseguenze, un so di partecipazione, ed è ancor meno vero legame fra accumulazione del capitale e i che lo comporta necessariamente per le dondiversi livelli di utilizzo della forza-lavoro. ne. Il loro carattere di componente « deboManca tuttavia qualsiasi accenno al lavoro le» della forza-lavoro rimanda direttamente precario e alla sua funzione determinante in allo specifico italiano, e forse all'ipotesi da alcuni settori, ovvero al tema della ristrutnoi formulata precedentemente circa una turazione quale elemento qualificante della sorta di incompatibilità strutturale fra i cadinamica socieconomica nel periodo consideratteri della domanda e dell'offerta di forrato 37 . zaLlavoro femminile. In ogni caso, le argoD'altra parte, è proprio la crucialità del pementazioni del De Meo sono ancora una volriodo considerato a richiedere approfondita smentite. menti sia per quanto riguarda il nesso in Complessivamente, sembra al De Cecco che questione, sia partendo dal punto di vista si sia assistito, nel corso degli anni, ad un dell'offerta di lavoro come farà Massimo Paprocesso di continua « riduzione» della do- ci (cfr. successivamente). In ogni caso, è il manda di lavoro ad alcune componenti quarapporto fra accumulazione e occupazione lificate in termini « ricardiani »; più specifiche va ulteriormente specificato. -
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Ibid., p. 259. ° Ibid., p. 267.
Concordiamo a questo proposito con la critica di S. Vinci secondo il quale il saggio del De Cecco non « soddisfa pienamente le esigenze di collegamento fra meccanismo di accumulazione e andamento dei saggi di attività ». Vinci nota inoltre che «il riferimento all'attività d'investimento è molto sintetico », e che « vengono trascurati sia il settore agricolo che il settore terziario, i quali nel periodo in esame hanno rappresentato l'uno il serbatoio di espulsione e l'altro il serbatoio di ricezione di manodopera ». Cfr. Il mercato del lavoro in Italia, cit., p. 77. 31
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alimenterà ulteriormente gli squilibri esistenti » 41 . Luigi Frey 38 prende le mose proprio da In sostanza, sviluppo tecnologico delle strutquesto rapporto (laddove accumulazione e ture e crescita economica in generale non investimenti vengono considerati in connescondurrebbero quindi al risanamento dei vecsione col progresso tecnologico e col suo imchi squilibri, ma tenderebbero piuttosto a patto sui modi di produrre) per articolare perpetuarli, e addirittura ad aggravarli. Lo il proprio argomentare nei seguenti punti: stesso affermarsi, sia pure relativo, della in un contesto economico e sociale in cui « scuola di massa », si rivelerebbe funzionale scarsa è la capacità di direzione complessia questa dinamica anomala, costituendo una va, ovvero in assenza di strutture di prostruttura di «parcheggio » che non si pone grammazione, il progresso tecnico altro non il problema di una qualificazione dei giovani significa che una dilatazione delle <(capaciin rapporto al mercato del lavoro « regolatà produttive del sistema, lasciando però alre », essendo questo delimitato ai lavoratori tri margini di capacità produttiva inutilizmaschi delle classi centrali di età. zata in altre direzioni »39; a sua volta, ciò im- L'abbondanza dell'offerta di lavoro in un conplica testo in cui « lo stock di progresso tecnico un permanente squilibrio fra domanda e in senso lato disponibile (in termini di tecofferta di lavoro, nell'ambito di un mercato niche produttive, schemi orgamzzativi, "ecoprivo di punti di riferimento complessivi e nomie di scala" a livello di sistema) permetquindi scarsamente in grado di mettere in te di ottenere il medesimo prodotto ( ... ) con atto meccanismi autoregolativi, laddove, possibilità di scelta di tecniche alternative, a maggiore o minore intesità di lavoro rii fenomeni paralleli di occupazione/disocspetto al prodotto » 42, conduce direttamente cupazione connessi al progresso tecnico si alla presenza massiccia di lavoro precario ripercuotono in modo assai considerevole soprattutto « su una parte dell'offerta di nuo- e marginale, cui sono in particolare interessate le unità produttive « che non realizzano ve leve di lavoro e sui lavoratori avanzati d'età »40 (da una diversa chiave di lettura, sovrappiù crescente nella misura registrata altrove. si giunge comunque a individuare i « punti deboli » dell'offerta di lavoro nelle stesse caAll'interno ditali unità produttive, che postegorie già evidenziate dal De Cecco); sono avere una presenza addirittura domiin sistemi socioeconomici come quello ita- nante in alcuni settori, possono svolgersi due diverse dinamiche. Se i lavoratori non diliano, caratterizzati da una relativa abbonspongono di potere contrattuale « sufficiendanza dell'offerta effettiva e potenziale, il te ad imporre livelli salariali analoghi a problema dell'occupazione giovanile diviene quelli esistenti in altri settori o in altre imparticolarmente rilevante: « In sostanza ...le prese », allora « vi saranno differenziali saristrutturazioni del sistema produttivo italariali che consiglieranno di mantenere in liano, sempre più orientato alla ricerca convita le vecchie tecniche » 43. Ove invece tale tinua del progrèsso tecnico in senso lato, una potere sia presente e abbia modo di esplivolta lasciato alla logica interna e alla capacarsi, magari in connessione con una capacità autonoma di incidenza di esse sull'occucità contrattuale crescente dei lavoratori in pazione, tendono ad accentuare i fenomeni generale, la via scelta sarà quella del decendi disoccupazione-sottoccupazione giovanile tramento delle attività produttive all'esterno esplicita ed implicita, preparando altresì, con dell'impresa: in tal modo, essendo minori i l'inserimento temporaneo nel "serbatoio » costi del lavoro decentrato e/o precario (la della scuola, una riserva di lavoro localizzaidentificazione fra le due forme non è ovviata in specifici sottomercati del lavoro, che LUIGI FREY: LAVORO E ACCUMULAZIONE
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Cfr. Mercato del lavoro e suo disaggregazione, in Il mercato del lavoro in Italia, cit., .pp. 120-28. » Ibid., p. 122. ° Ibid. 41 Ibid., p. 123. 42 Ibid. 43 Ibid. 28
16 mente istituibile a livello analitico, ma si può agevolmente ipotizzare un nesso abbastanza preciso fra decentramento e utilizzo di lavoro «non garantito »), si sceglie l'alternativa del maggior contenuto di lavoro per unità di prodotto. In base quindi ai ritmi che il processo di accumulazione presenta nei differenti settori produttivi, abbiamo una prima distinzione fra lavoratori stabilmente occupati all'interno delle unità che registrano «un sovrappiù crescente)) e che si fondano sull'impiego di processi ad alta tecnologia e ad alta intensità di capitale, e lavoratori non occupati sul mercato del lavoro regolare, anziani e giovani soprattutto. Questi ultimi si trovano quindi a prolungare la propria permanenza all'interno delle strutture scolastiche, laddove sia gli stessi che gli anziani, ma soprattutto le donne, possono configurarsi anche come occupati marginali (part-timers, lavoro a domicilio) in rapporto a quelle unità produttive « che non realizzano sovrappiù crescente nella misura registrata altrove ». Proprio il lavoro a domicilio è il modo concreto di manifestazione, in Italia, di un mercato del lavoro marginale. Crisi e ristrutturazioni (è evidente qui l'analogia con altre posizioni quali quelle espresse dal Graziani circa le dinamiche prevalenti nel periodo 1963-73) incidono certamente sull'ampiezza dei fenomeni di occupazione precaria e di disoccupazione, ma non ne sono comunque all'origine. Questa va ricercata, come si è detto, nella sovrabbondanza di offerta di lavoro rispetto alla domanda, elemento quest'ultimo tipico di una struttura socio-economica « intermedia)> fra sviluppo e arretratezza, ed in uno svolgersi del progresso tecnico che consente, in diversi settori, scelte alternative fra alta intensità di lavoro e alta intensità di capitale. D'altra parte, secondo l'autore, non è neppure possibile postulare una omogeneità all'interno delle singole componenti del mercato del lavoro (o dei mercati del lavoro tout court, stanti le differenziazioni strutturali precedentemente messe in luce) in quanto « i fenomeni di emarginazione finiscono con l'interessare ampiamente e con diffe44 45
Ibid., p. 126. Ibid., p. 127.
renziazioni notevoli al proprio interno le diverse attività produttive » 44. Ne segue, inevitabilmente, « la necessità di analizzare le singole situazioni differenziate dell'offerta e della domanda di lavoro, che possono rispondere al potere selettivo disponibile presso la domanda date le condizioni globali e specifiche (con riguardo alle caratteristiche qualitative) dell'offerta '. Tale necessità: « riduce notevolmente il significato di analisi e di spiegazioni che si muovono essenzialmente sul piano aggregato, e impone ricerche accurate su di un piano molto disaggregato per componenti dell'offerta e per aspetti strutturali del sistema produttivo » 45 . Sembra qui volersi affermare l'esistenza di profonde disomogeneità all'interno della struttura delle imprese e fra i diversi settori produttivi, tali da comportare, conseguentemente, la presenza di canali precisi e reciprocamente distinti per tipi di offerta che non sono in alcun modo riconducibili ad una medesima dinamica. L'ipotesi sottintesa è, ancora, quella della atipicità del processo d'industrializzazione italiano rispetto a quello di altri paesi. Non si può ovviamente che consentire con l'opportunità e probabilmente la necessità di precipue disaggregazioni settoriali cile tendano a specificare le singole dinamiche che interessano un mercato del lavoro profondamente differenziato, ma non ci sentiamo per questo di sottoscrivere la tesi della non utilità di spiegazioni « che si muovono essenzialmente sul piano aggregato ». Tale piano ci sembra invece particolarmente fecondo in vista di quella riconnessione fra accumulazione e mercato del lavoro che lo stesso Frey cerca di svolgere nella prima parte della sua analisi, sulla scorta di un parametro certo importante quale il progresso tecnico. Sulla strada della costruzione di una visione d'insieme è quindi opportuno proseguire, pur tenendo conto del fatto che un'analisi aggregata ha una funzione soprattutto esplicativa e sintetica piuttosto che non direttamente euristica. In tale direzione il lavoro di
17 Massimo Paci ci appare particolarmente significativo.
MASSIMO PACI E LA « MATURITÀ » DEL CAPITALISMO ITALIANO
L'autore caratterizza gli anni successivi al 1963 come il momento della «maturità» del capitalismo italiano; tale momento si configura, sul mercato del lavoro, per una precisa caratterizzazione della domanda da parte del settore moderno del sistema produttivo: « Gli operai richiesti devono essere maschi, non troppo giovani né troppo anziani, preferibilmente sposati, in possesso del titolo di scuola media inferiore, già socializzati all'ambiente urbano-industriale » 46. Una simile caratterizzazione della domanda implica una decisa selezione a svantaggio delle quote « deboli>' della forza-lavoro; queste infatti, non essendo oggetto di domanda da parte del settore moderno, «cessano di •costituire un esercito industriale di riserva » non essendo in possesso delle qualifiche necessarie ad una stabile immissione all'interno delle strutture produttive. D'altra parte, la crescita dei costi della vita urbana costituisce un «potente disincentivo all'ulteriore inurbamento della forza-lavoro, anche di quelle quote che pure possederebbero i requisiti richiesti dal settore urbanoindustriale » E' sulla base di questi presupposti che si forma allora un mercato del 46
lavoro precario o marginale, «nettamente separato dal lavoro operaio, costituito dalle mille forme della sottoccupazione; lavoro a domicilio, a part-tiine, in "subappalto", ecc. » 49 tutto questo si accompagna, in seguito ai tumultuosi processi di urbanizzazione svoltisi negli anni cinquanta, un notevole movimento di accesso alla scolarizzazione che comporta: 1) il rinvio dell'ingresso sul mercato del lavoro; 2) una ricerca di Occupazione che s'indirizza specificamente verso il settore terziario non entrando in concorrenza quindi con la forza-lavoro stabilmente occupata nell'industria. I processi fin qui tratteggiati, operando congiuntamente in quanto prodotto di una stessa matrice (lo sviluppo «estensivo» degli anni cinquanta con i suoi massicci processi d'inurbamento), «si traducono in fattori di rigidità dell'offerta di lavoro operaio sul mercato urbano-industriale » °. In conclusione, l'autore ritiene che <'il mercato del lavoro nazionale stia conoscendo una frattura sempre più netta in tre aree o compartimenti maggiori: il mercato del lavoro marginale, il mercato del lavoro operaio e il mercato del lavoro intellettuale » 51 . E che: « alla progressiva abbondanza dell'offerta di lavoro sul primo e sul terzo tipo di mercato faccia riscontro una progressiva rigidità dell'offerta di lavoro operaio sul mercato ur bano-industriale » 52 . Con queste considerazioni, siamo quindi nel solco già aperto da La Malfa e Vinci e da
Cfr. M. PACI, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, cit., p. 219. Ibid., p. 214. A questo proposito il Paci è piuttosto critico circa la tesi del Meldolesi sull'esistenza in Italia di un massiccio esercito industriale di riserva, e più in generale sull'utilizzo di questo concetto in riferimento al capitalismo maturo (cfr. L. Meldolesi, Occupazione ed esercito industriale di riserva in Italia, Laterza, Bari, 1972). Secondo Paci infatti: « In realtà, il ricorso al concetto marxiano di esercito industriale di riserva non è utile per spiegare il funzionamento del mercato del lavoro nei paesi a capitalismo maturo. Esso è legittimo per tutta la fase "concorrenziale" o dell'accumulazione "estensiva" del capitale, quando effettivamente alla progressiva eliminazione dei rapporti precapitalistici, nei settori e nelle aree tradizionali, fa seguito una "emigrazione" di forza-lavoro verso i settori e le aree moderne o integralmente capitalistiche. Ma esso cessa di essere utile non appena ha inizio la fase « monopolistica» o di accumulazione "intensiva" del capitale, in cui - dal punto di vista dell'allocazione di riserve lavorative - il problema del capitale non è più quello della copertura di un crescente fabbisogno nel settore "moderno" (e, quindi, quello di disporre di un sufficiente esercito industriale di riserva), quanto quello di espellere dall'occupazione ampie quote di forza-lavoro, non in possesso delle qualit4 richieste, garantendosi nel contempo la pace sociale (e, quindi, quello della istituzionalizzazione dello spreco delle risorse lavorative » (p. 213). 48 Ibid., p. 220. 49 Ibid. ° Ibid., p. 221. -51 Ibid., p. 222. 52 Ibid. -11
18 Marcello De Cecco, pur con una maggiore puntualizzazione analitica e il conseguimento di un preciso risultato quale quello di una precisa tripartizione del mercato de! lavoro. Il momento chiave nell'analisi di Massimo Paci si configura, a parer nostro, nella distinzione dello sviluppo italiano dopo il 1945 in due specifici periodi: il primo, fino al 1963, caratterizzato da un processo di accumulazione « estensiva »; il secondo, quello degli anni successivi, da un processo di accumulazione « intensiva » tipico di tutte le economie industriali che abbiano raggiunto la fase della maturità. Laddove il momento dell'accumulazione « estensiva » vede una massiccia domanda di lavoro, comunque qualificato e non qualificato, da parte di un settore moderno in disordinata espansione a livello « orizzontale », il momento dell'accumulazione « intensiva» vede sia l'avvio di processi di selezione all'interno delle strutture produttive, col progressivo imporsi delle grandi unità, sia una precisa qualificazione della domanda di lavoro che induce sul mercato una prima suddivisione fra quote ((forti » e quote « deboli » della forza-lavoro. Nella sostanza, ad una domanda di lavoro relativamente indiscriminata da parte di un settore moderno che si espande a macchia d'olio a partire dai poli di più antica industrializzazione, succede una domanda più rigidamente qualificata, e questo non tanto in termini di professionalità, quanto in termini di alcune caratteristiche direttamente riconducibili da un lato alla produttività e dall'altro ai livelli d'integrazione sociale (sesso, età, condizione familiare, livello di socializzazione). Anche l'offerta si caratterizza per un progressivo processo di qualificazione distinguendosi in diversi settori relativamente non comunicanti. Ne segue che le quote ((deboli)) della forzalavoro non costituiscono, nella fase della maturità del sistema, una potenziale o effettiva concorrenza per le quote « forti », in quanto appaiono qualificate in modo tale da non poter essere destinatarie della domanda di lavoro proveniente dall'industria. Queste si costituiscono allora in offerta di lavoro ,53
marginale o precario, oggetto di unà specifica domanda sia da parte del settore « arretrato'> dell'economia sia da parte dello stesso settore moderno (ci riferiamo a processi di ristrutturazione comportanti forme di decentramento). Si apre così, nel corpo sociale, una netta dicotomia che si pone immediatamente come scissione del mercato del lavoro in componenti non o scarsamente comunicanti. Nello stesso tempo i processi di scolarizzazione di massa conseguenti all'urbanizzazione portano alla formazione di uno specifico mercato del lavoro intellettuale con caratteristiche proprie, e oggetto a sua volta di una domanda particolare. Il sistema si muove quindi in una direzione del tutto contraria rispetto a quella tipica per esempio dello schema di Vera Lutz , dove i processi evolutivi, in un contesto di relativa pace sociale, dovrebbero prima e poi condurre ad una eliminazione dei fenomeni di dualismo e alla unificazione del mercato del lavoro. Ciò che nella Lutz appare come patologia, si configura come portato diretto dello sviluppo, a prescindere dall'accentuazione maggiore o minore dei fenomeni in questione, in dipendenza dai caratteri specifici di un sistema dato. Non è allora in questione l'andamento congiunturale dell'economia, nel senso che qui il mutamento della domanda di lavoro, con il conseguente estendersi della sottoccupazione (e della disoccupazione) non viene messo in relazione diretta con le crisi attraversate dal sistema economico italiano dopo il 1962. L'autore fa infatti riferimento a processi di lungo periodo che intervengono, indipendentemente dal ciclo, nel corso dell'accumulazione. Il mutamento del carattere di questa ultima, la sua trasformazione da estensiva in intensiva, appare come un movimento immanente allo sviluppo nelle sue diverse fasi. Non molto diverso è in questo senso il modello interpretativo del De Cecco, laddove fa uso dello schema ricardiano di utiliz• zo dei fattori della produzione riferendolo alla forza-lavoro, o quello del Frey, quando ricosmette il disgregarsi del mercato del la-
ripreso recentemente dal Fuà, almeno nei suoi termini concettuali più generali (cfr. Occupazione e
capacità produttive, la realtà italiana, Il Mulino, Bologna 1976).
19 voro ai particolari caratteri assunti dal progresso tecnico in un contesto determinato. In tutti i casi citati non si fa infatti ricorso alle patologie indotte dalla crisi, ma ci si richiama piuttosto a leggi generali dello sviluppo industriale capitalistico. Questo ovviamente non significa escludere una influenza delle crisi sullo sviluppo stesso, ma limitare piuttosto la portata di tale influenza: essa riguarderebbe piuttosto lo specifico svolgersi di un determinato processo, nei suoi tempi e nei suoi modi, che non l'essenza e la generalità del suo esplicarsi. Il passaggio fra l'uno e l'altro tipo di accumulazione non appare, in altre parole, come il portato di fattori contingenti legati al ciclo, ma piuttosto come una tendenza generale. L'intervento di una crisi non sposta i termini del problema, anche se può turbare lo svolgersi del processo. Resta da osservare come il Paci, nella sua interpretazione, presti maggiore attenzione ai tratti sociali della forza-lavoro, e questo sia dal punto di vista della domanda che da quello dell'offerta. Non a caso infatti la domanda si esplica in direzione di fasce determinate dell'offerta. Questa, reciprocamente, appare per molti aspetti rigida, nel senso che alcune componenti della forza-lavoro potenziale sono in possesso di caratteristiche tali (scolarità, localizzazione territoriale, gradi d'integrazione, socializzazione) da renderle non disponibili all'occupazione se non in determinate condizioni. E' in questo senso che la nozione di « esercito industriale di riserva », inteso come forzalavoro disponibile all'occupazione prescin dendo largamente dai caratteri e dalla qualificazione dell'occupazione stessa, non viene dall'autore ritenuta utile alla interpretazione delle dinamiche del mercato del lavoro. Chi ad esempio è in possesso di un titolo di studio non si presenta in generale sul mercato del lavoro operaio, ed in tal senso non può essere considerato come « di riserva,) rispetto all'industria. La sua ricerca si indirizzerà piuttosto verso il settore terziario e dei servizi, e all'interno di questo verso determinate posizioni di lavoro « intellettuale », anche se spesso si risolverà in occupazioni precarie. Anche qui si tratta di processi che si svolgono indipendentemente dal ciclo, avendo le
proprie radici, in generale, nei processi avanzati d'industrializzazione. Le eventuali patologie presenti nel sistema in termini di disoccupatione e di sottoccupazione riguardano essenzialmente i modi e i ritmi dell'industrializzazione, e ovviamente il retroterra storico, sociale ed economico sul quale la stessa si svolge, ma non la presenza di momenti congiunturali negativi all'interno del processo. Certo, una crisi prolungata può incidere pesantemente per esempio sulla domanda di lavoro intellettuale, e può d'altro canto dar luogo a ristrutturazioni che vedano processi di decentramento produttivo con estensione dell'occupazione precaria e contrazione relativa di quella stabile; tutto questo avviene però sulla base di una struttura i cui tratti complessivi, nel nostro caso la tripartizione. del mercato del lavoro, sono già dati dagli specifici processi d'industrializzazione in un particolare contesto.
CONCLUSIONI
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a) La frammentazione del mercato del lavoro. Le note analitiche che precedono hanno messo in evidenza, attraverso un approfondimento procedente per successive approssimazioni, il costante rafforzarsi di una sorta di tendenza « malthusiana» all'interno del mercato del lavoro regolare. La domanda cioè, si è andata sempre più specificando, in rapporto alle esigenze delle imprese in un contesto squilibrato e dualistico, nei confronti di precise componenti dell'offerta individuate mediante alcuni parametri quali il sesso, l'età, il livello di culturalizzazione e d'integrazione nel tessut6 urbano. Il risultato, già evidente alla fine degli anni sessanta, è lo scomporsi dell'offerta in comparti specifici (è possibile indicarne tre, seguendo la classificazione del Paci) relativamente distanti l'uno dall'altro e ulteriormente divergenti: la componente operaia, la componente complessivamente definibile come « marginale », la componente intellettuale. Rispetto a questa tendenza, il decennio attuale si caratterizza in modo ancor più netto, ai limiti del patologico, in connessione alla crisi dei meccanismi di sviluppo pienamente operanti negli anni cinquanta, e ai caratteri parzialmente nuovi assunti dal rapporto fra im-
20 prese e lavoro regolare soprattutto dopo le ondate di turbolenza sociale che hanno scosso il sistema fra il 1967 e il 1975. E' tenendo presenti queste specificazioni, a nostro -avviso assai significative, che è possibile procedere ad alcuni approfondimenti in relazione alla situazione attuale. Non è questa la sede per soffermarsi sulle origini e sui caratteri della crisi, comunque definibile come strutturale, attraversata dal paese; basta osservare che il suo evolversi in una sorta di blocco dell'accumulazione in alcuni dei settori trainanti (è il caso della chinsica, ma anche della metallurgia per esempio) e il suo protrarsi nel tempo fra parziali riprese e nuove cadute, hanno implicato una costante riduzione delle possibilità di assorbimento di lavoro regolare nelle grandi imprese, del resto impegnate in processi di ristrutturazione intesi a fondare sull'uso intensivo della tecnologia le eventuali nuove possibilità di crescita 54. I dati forniti dall'ISTAT, che evidenziano una riduzione media dell'i % all'anno dell'occupazione regolare, sono a questo proposito eloquenti, se non altro come indicatori di una precisa tendenza almeno a non sostituire quanti, per ragioni di età o altro, abbandonano l'attività lavorativa. Il secondo fattore che ha inciso profondamente nel senso di una divaricazione fra mercato del lavoro regolare e settori « deboli » dell'offerta, è costituito dalla istituzionalizzazione di una serie di istanze tradizionali del movimento sindacale: un processo questo, che ha condotto ad un relativo attenuarsi del carattere di merce della forza-lavoro in alcuni settori. Ci riferiamo non solo all'entrata in vigore (1969) dello Statuto dei diritti dei lavoratori, ma più in generale alle conquiste degli occupati regolari in tema di garanzia del posto di lavoro, di capacità e possibilità di contrattazione, di mobilità entro e fra le imprese. Indubbiamente, questi elementi hanno com-
portato una serie di precisi vincoli nel rapporto fra le due parti, tali da configurare l'occupazione regolare come relativamente « garantita » rispetto alle oscillazioni della congiuntura economica da un lato e da eventuali processi di ristrutturazione dall'altro. Precisiamo subito che quanto si è sopra rilevato altro non è che una constatazione, peraltro neppure particolarmente originale se le stesse organizzazioni sindacali si sono poste il problema della possibilità di crescita delle imprese di fronte ai vincoli di cui sopra, o meglio di fronte ad un utilizzo esasperato dei loro meccanismi da parte dei lavoratori. Non si tratta infatti di esprimere giudizi in astratto su determinate acquisizioni della contrattazione nazionale e aziendale nell'ultimo decennio, ma di valutare alcune delle conseguenze che ne discendono in una situazione di complessivo ristagno nei settori trainanti e qualificanti a livello internazionale, di fronte agli specifici caratteri del sistema delle imprese e alla reazione delle strutture produttive. In altre parole, nella particolare congiuntura nazionale e internazionale che caratterizza gli anni settanta, determinati esiti sul piano del rapporto fra imprese e lavoro organizzato si sono di fatto tradotti in una accentuata rigidità del mercato del lavoro operaio, e in un virtuale blocco dei canali di reclutamento 55 , indipendentemente dal giudizio che si voglia dare, in via di principio, circa l'acquisizione di specifici diritti da par te del mondo del lavoro. Proprio in via di principio anzi, determinate acquisizioni, ancorché relative, presentano incontestabilmente una valenza positiva; tuttavia questa af fermazione non può che porsi su di un terreno del tutto diverso rispetto all'analisi fattuale delle conseguenze di tutto ciò in un contesto determinato (debolezza stdrica e strutturale delle forze imprenditoriali, loro arretratezza anche culturale, dualismo territo-
Sui problemi del rapporto fra occupazione e ristrutturazione produttiva, e più in generale sulla funzione, anche « politica », della seconda nel contesto italiano, cfr. Crisi e ristrutturazione nell'economia italiana, a cura di A. GRAZIANI, Einaudi, Torino 1975. Per un'analisi di questo lavoro e di quello del Fuà (nota precedente) cfr. il nostro L'economia politica della crisi, cit. 5 ,1 A questo proposito non sembra che il costo del lavoro costituisca l'elemento determinante, come invece sostiene tutta una pubblicistica (Fuà p. es. è su questo punto assai esplicito). Stando alle stesse posizioni degli ambienti imprenditoriali, i problemi della rigidità interna ed esterna all'azienda sono assai più pregnanti, e sembrano costituire le premesse di fatto alla politica di blocco degli organici.
21 riale, squilibri settoriali, virtuale blocco dei meccanismi di sviluppo). All'irrigidirsi del mercato del lavoro operaio ha corrisposto un analogo processo che ha coinvolto il lavoro impiegatizio, creando anche qui una situazione di virtuale blocco dei canali d'ingresso delle nuove leve nell'attività lavorativa, laddove peraltro minori sono state le resistenze ai momenti di ristrutturazione, data la maggiore disponibilità di questi lavoratori alle dimissioni spesso incentivate dall'erogazione di particolari «premi ». Parallelamente alla progressiva chiusura del mercato del lavoro operaio, accentuatasi come si è detto in forza anche dei nuovi termini del rapporto contrattuale, anche il lavoro intellettuale si è trovato di fronte ad una sempre maggiore carenza di sbocchi mentre l'offerta cresceva rapidamente. Per tutti gli anni sessanta, il settore dei pubblici servizi (dalla scuola agli enti locali) aveva costituito un canale d'inserimento alter nativo al lavoro manuale, rispondendo la sua dinamica occupazionale ascendente a due tendenze di fondo: l'aspirazione di massa alla promozione sociale attraverso la scolarizzazione e il successivo raggiungimento dello status di «colletto bianco », e l'esigenza del. partito dominante e delle sue appendici di mantenere ed allargare la propria quota di consensi con una gestione politicamente orientata dei posti di lavoro disponibili nel settore. Una pratica, quest'ultima, che trovava del resto le organizzazioni sindacali largamente «spiazzate », ché l'opporsi ad una gestione « assistenziale » di detérminati settori del pubblico impiego avrebbe significato da un lato l'impopolarità presso vasti strati del nuovo ceto medio, e dall'altro avrebbe contraddetto una politica da decenni impostata sul tentativo di risoluzione dei problemi dell'occupazione. Il caso della scuola è a questo proposito significativo. Qui le aspirazioni popolari al titolo di studio, in quanto veicolo di promozione sociale, si sono coniugate con l'esigenza di nuovi sbocchi ad una forza-lavoro intellettuale in rapida crescita, e con deter minati criteri politico-clientelari di gestione
del pubblico impiego. Alle vecchie « abilitazioni» si sono così sostituiti i « corsi abilitanti », dal contenuto culturale pressoché nullo e improntati al criterio della « salvaguardia del posto di lavoro » per quanti già in qualche modo fossero presenti all'interno della struttura. Da ultimo si è proceduto ope legis all'immissione nei ruoli, cosa del resto inevitabile di fronte ad un personale in ser vizio da anni in condizione precaria. Al crescere delle strutture scolastiche, cui nelle concrete condizioni di gestione del paese ha corrisposto un accentuato degradarsi delle strutture culturali (anche qui, non si tratta certo di contestare in via di principio il diritto all'istruzione!), si è associato, fino ai recenti provvedimenti di blocco delle assunzioni, l'ingigantirsi del settore dell'impiego pubblico a carattere burocratico-amministrativo, in quanto risultante della necessità di sbocchi per la nuova forza-lavoro munita di titolo di studio (ma non solo) e dell'ap- proccio politico alla gestione degli apparati di governo dello Stato e degli enti locali. Ebbene: alla fine degli anni settanta entrambi i canali di inserimento del lavoro intellettuale, o comunque non manuale, appaiono largamente chiusi. Forse non tanto per il venir meno di determinate esigenze - per esempio il rapporto fra popolazione scolastica e insegnanti non appare ancora ottimale, almeno in determinate situazioni, e il personale degli apparati appare comunque mal distribuito -, ma per i raggiunti limiti di crescita della spesa pubblica. In altre parole, la crisi dello « Stato assistenziale » -56 si è aperta anche in Italia, e proprio quando la dinamica dell'occupazione regolare nel settore privato mostra andamenti ancor più negativi che non nel passato, quando lo sviluppo del terziario, e la connessa relativa riduzione della forza-lavoro operaia, sembravano tutto sommato rientrare nella fisiologia di un paese industrialmente sviluppato, e apparentemente assimilabile alle società « postindustriali » dell'occidente. Il tema della crisi dello Stato assistenziale non coinvolge soltanto l'Italia, ma si presenta qui con accenti particolari innestandosi
Sulla iproblematica dello Stato assistenziale e della sua crisi recente cfr. J. O'CONNOR, The Fiscal Crisis o/ the State, in «Soci',Iist Revolution », marzo 1970, I, n. 2; C. FIOFFE, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977. La bibliografia sull'argomento è assai •più vasta, ma le opere citate appaiono sufficienti per n primo approccio.
22 su di una struttura tuttora dualistica, caratterizzata inoltre da problemi occupazionali di chiara origine strutturale. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, se ad esempio il De Cecco poteva parlare di una decisa selettività al suo interno e il Paci affermare l'esistenza di una tripartizione in settori specifici relativamente non comunicanti, le più recenti tendenze conflgurano una profonda crisi tanto del settore operaio quanto di quello intellettuale, laddove il mercato del lavoro marginale appare invece in pieno sviluppo. Su ciò è opportuno soffermarsi. Prescindendo qui dalle attività secondarie svolte da chi è già stabilmente inserito nelle strutture produttive e di servizio, la crescita del lavoro irregolare , risponde, a parer nostro, all'incontro fra due esigenze di fondo che percorrono, rispettivamente, l'offerta e la domanda di lavoro. Per la prima, o meglio per le sue componenti già definite « deboli », si tratta dell'individuazione e dello «sfruttamento » di canali alternativi ad un inserimento regolare, esigenza tanto più evidente quanto più si fa palese la crisi delle componenti operaia e intellettuale del mercato; per la seconda il discorso si lega immediatamente da un lato alle esigenze di ristrutturazione e di decentramento, dall'altro alla scelta di sfuggire ai vincoli istituzionali e contrattuali del lavoro regolare, essendo del resto evidente il nesso fra l'instaurazione di tali vincoli e i processi di decentramento e di riorganizzazione ». Rispetto agli anni sessanta, il lavoro irregolare non interessa più soltanto i settori arretrati della produzione e della distribuzione (per intenderci quelli a bassa intensità di capitale quali il tessile, l'abbigliamento, le calzature, ecc. 59), ma si è esteso a settori relativamente avanzati della produzione, come nel caso dell'assemblaggio di componenti elettronici o nello sviluppo di un esteso indotto delle grandi industrie che, attraverso la pratica del decentramento, danno vita ad un
microcosmo di piccole e piccolissime imprese che proprio sul lavoro irrgolare fondano le proprie capacità di sviluppo. Se tutto questo è vero, l'esistenza e la crescita di attività ai margini dell'economia «emersa » non costituisce più, o almeno non soltanto, il portato del tradizionale dualismo settoriale e territoriale che ha caratterizzato il modello italiano nei trascorsi decenni. Siamo piuttosto di fronte ad una diretta conseguenza dell'evolvzione dei rapporti sociali e della tecnologia sottostante alle attività produttive, in grado quest'ultima di « semplificare » alcuni processi rendendoli atti ad ina gestione decentrata affidata ad imprese di piccole dimensioni. Certo, non si è trattato e non si tratta di uno sviluppo obbligato Si è piuttosto in presenza di una precisa scelta da parte imprenditoriale intesa a « liberare» surrettiziamente le imprese dai « lacci e lacciuoli» (Carli) posti dall'intervento legislativo a codifica di un nuovo rapporto fra le parti presenti sul mercato del lavoro. Se la mobilità degli occupati comporta difficoltà assai maggiori che non nel passato, se il ridimensionamento degli organici richiede tempi assai lunghi in quanto non può che fondarsi, almeno in generale, sulla mancata sostituzione di quanti lasciano l'attività se gli oneri sociali hanno ormai superato le dimensioni di una retribuzione diretta il cui valore reale è peraltro protetto dai meccanismi della scala mobile ulteriormente esaltati dagli accordi del 1975, la risposta si concretizza immediatamente nel decentramento e nell'uso del lavoro irregolare, con meccanismi simili a quelli già sperimentati, sia pure su scala minore, nel corso della crisi congiunturale dei primi anni sessanta °. Le prospettive appaiono quindi abbastanza definite: a meno di un arretramento complessivo del movimento sindacale dalle posizioni acquisite, o, reciprocamente, di una capacità dello stesso di imporre un almeno par-
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-51 problematica del lavoro irregolare, oltre a numerosi articoli apparsi sulla rivista «Inchiesta », ricordiamo qui le ricerche condotte da LUIGI FREY: Illavoro a domicilio in Lombardia, a cura della Giunta Regionale Lombarda (Milano, 1972); Lavoro a domicilio e decentramento dell'attività produttiva (Angeli, Milano 1975), riferito ai settori tessile e dell'abbigliamento. Elemento questo già messo in luce dal GRAZIANI in Crisi e ristrutturazione dell'economia italiana, cit. 5 La ricerca condotta da L. FREY, citata in precedenza, è assai significativa circa le tendenze in atto nei settori « tradizionali » del sistema economico. °» A. GRAZIANI, op. cit.
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23 ziale « rientro» dell'economia « sommersa » nei meccanismi istituzionali che regolano il rapporto fra manodopera e imprese, la frattura fra lavoro regolare e irregolare è destinata ad approfondirsi, in senso sia qualitativo che quantitativo. A medio termine quindi le distorsioni del mercato, e quindi le nuove forme di dualismo che investono ormai direttamente anche i settori «avanzati» dell'attività economica, sono destinate ad aggravarsi. La tripartizione proposta dal Paci sembra, nella sostanza, affermarsi sempre più come un dato strutturale dell'economia italiana, e comunque come un elemento di fondo non facilmente eliminabile. b) Due società? Lavoro irregolare, economia «sommersa », nuovo dualismo: sono ormai questi i termini in base ai quali da più parti si tende a classificare lo squilibrio strutturale che caratterizza un paese che appare sempre più percorso da una precisa dicotomia fra occupati regolari e forza-lavoro marginale (donne, giovani), fra «garantiti» e «non garantiti ». E' sulla scorta di queste categorie, e sull'onda della turbolenza sociale che ha percorso in questi anni il mondo giovanile, che diversi intellettuali hanno esplicitamente (Asor Rosa61 ) o implicitamente introdotto la nozione dell'esistenza e del contrapporsi di < due società» entro il contesto nazionale. Da una parte i lavoratori regolari, sindacalmente organizzati e in grado di migliorare le proprie condizioni di lavoro, di reddito e status nonostante la crisi (si è più volte sottolineato come, unico caso nel mondo occidentale, le difficoltà di questi anni non abbiano sostanzialmente intaccato il potere d'acquisto dei salari, e come questo si sia, in alcuni settori, addirittura accresciuto); dall'altra una popolazione, in particolare giovanile e studentesca, ma non solo, largamente priva di concrete prospettive d'inserimento nel mondo del lavoro, e quindi marginale non soltanto rispetto al mercato ma anche rispetto alle istituzioni politiche e ai meccanismi del consenso. In realtà, al di là della sua funzione « pro-
vocatoria » e di stimolo all'approfondimento, una dicotomia di questo genere ha scarse possibilità euristiche. E' senz'altro vero che il fenomeno della marginalità si è posto prepotentemente in luce negli tiltimi anni 62, ed è altrettanto vero che è visibile l'esistenza di una profonda divaricazione fra una componente sociale inserita, a diversi livelli, nel meccanismo produttivo e di servizio, e una seconda componente la cui collocazione è del tutto precaria o comunque largamente instabile, ma ciò non implica una spaccatura verticale fra due mondi reciprocamente alieni. L'analisi di alcuni contributi significativi in precedenza condotta permette infatti di mettere in evidenza una situazione assai più complessa e per diversi aspetti ambigua. Non solo la divaricazione sociale è il prodotto di un unico meccanismo di sviluppo, ma i « luoghi» all'interno dei quali le due realtà si compenetrano e intrattengono reciproci rapporti sono assai numerosi, conferendo all'insieme delle relazioni un carattere assai meno netto di quanto ipotizzato dai sostenitori di una divaricazione rigida. A prescindere dalla labilità dei confini fra le due componenti (i lavoratori in cassa integrazione o appartenenti a imprese minacciate di smantellamento, appartengono all'una o all'altra?), la stessa famiglia nucleare costituisce un primo luogo di contatto e di ricomposizione oggettiva di un tessuto unitario. Qui componenti «forti» e «deboli» della forza-lavoro ricostituiscono momenti di ambigua solidarietà, laddove il contributo economico della prima (il lavoratore maschio) risulta come essenziale, e quello della seconda (la lavoratrice irregolare) di utile integrazione al bilancio familiare, comunque gestito solidalmente. Ancora: proprio per il suo tratto largamente generazionale, la divisione è interna alla famiglia anche sotto questo aspetto, per cui il giovane privo di prospettive a lungo termine può però usufruire dei « privilegi» salariali del padre e del lavoro irregolare della madre, oltre che, spesso, di proprie risorse derivanti da occupazioni saltuarie.
' A. AsoR ROSA, Le due società, Einaudi, Torino 1978. Un'esauriente disamina del problema della marginalità, contenente fra l'altro una vasta bibliografia, è presentata in Marginalità e lotte dei marginali, a cura di A. BIANCHI, F. GRANATO e D. ZINGARELLI, Angeli, Milano 1979. 62
Ma al di là di questo, esiste fra le due componenti un meccanismo di interazione sociale e politica per cui una serie di comportamenti che potrebbero apparire tipici dell'una vengono almeno in parte mutuati dall'altra. I « non garantiti » si comportano in fondo da « garantiti » quando, acquisito un titolo di studio, rifiutano il lavoro manuale, contando implicitamente sulle risorse familiari e mutuando atteggiamenti tipici del nuovo ceto medio improduttivo; reciprocamente, i « garantiti » si comportano da <(non garantiti » nella loro continua ricerca di ulteriori assicurazioni circa il proprio status economico e sociale. Non si tratta quindi, a parer nostro, di una precisa dicotomia fra le due aree, quanto di una lenta disgregazione di fronte alle vecchie e nuove forme di dualismo indotte da uno sviluppo distorto, conseguenti a scelte non equivoche compiute dall'imprenditoria lità pubblica e privata di fronte ai nuovi termini istituzionali del contratto sociale. Le considerazioni di cui sopra, per quanto som-
marie, ci dicono che siamo in presenza non di due società, relativamente non comuni- canti e per ciò conifittuali l'una rispetto all'altra, ma di un contesto di crisi percorso da vistosi fenomeni di degradazione. L'andamento del mercato del lavoro, o delle sue componenti significative, altro non è che la spia di una fenomenologia- più generale, che rivela nel blocco dell'accumulazione dei settori trainanti (chimica, siderurgia), nella crescita dell'economia marginale, nel diffondersi di una scolarizzazione meramente formale all'interno di struttùre lontanissime da qualsiasi connessione con la realtà produttiva e di servizio, le sue punte più significative. Accanto a ciò sta la crisi dello Stato assistenziale e di una burocrazia pletorica quanto improduttiva. Tutto ciò non sfocerà in un conflitto fra « garantiti'> e «non garantiti », ché molti e tenaci sono i legami reciproci, ma molto probabilmente in una sempre più accentuata ingovernabilità della struttura economica e sociale.