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queste IStItUZIONI 1982/2 ° semestre

LE ISTITUZIONI DELLA COMUNITA' ECONOMICA EUROPEA VENTICINQUE ANNI DOPO Il sistema è bloccato o vale ancora la scommessa federalista? di Riccardo Perissich

La spinta sovranazionale della Comunità europea si è esaurita; l'evoluzione prevalente è verso un sistema di cooperazione intergovernativa »... « Il potere si sposta sempre di più dalla Commissione verso il Consiglio dei Ministri »... Queste affermazioni, ed altre analoghe, che si possono leggere quasi quotidianamente nella stampa, nelle analisi dei politologi, negli stessi discorsi dei responsabili, sono vere. « Gli stati nazionali europei sono sempre più incapaci, isolatamente, di assicurare l'indipendenza, il benessere e la sovranità dei propri popoli »... « L'Europa intergovernativa non è un concerto di Stati, ma una cacofonia di velleità, senz'anima e senza volontà »... Anche queste affermazioni si leggono, quasi quotidianamente, in giornali, riviste, discorsi; spesso portano in calce le stesse firme delle precedenti. Anche esse sono vere. Chi ha in qualche modo vissuto le vicende dell'ultimo ventennio di vita delle istituzioni europee è tuttavia preso, alla lettura, da un sottile senso di malessere, come se la verità, quasi lapalissiana, delle parole celasse una profonda mistificazione. In realtà tutte queste affermazioni sono prive di data, o meglio potrebbero essere datate di un giorno qualsiasi, dal 1965 ad oggi. Se si analizzano i rapporti di forza in seno alle istitu zioni (come ci sforzeremo di fare) ciò che sorprende non è tanto la vittoria dell'elemento intergovernativo, quanto il fatto che, nonostante l'intrinseca debolezza, la spinta sovranazionale abbia potuto sopravvivere, al punto da rendere necessaria, a guisa di esor-


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• cismo, una quoti&ana orazione funebre. Se poi si esaminano i sondaggi di opinione, si vede che la maggior parte dei cittadini della maggior parte dei paesi resta caparbiamente attaccata, e disponibile, al sogno cli un'Europa più integrata. Poiché è improbabile ch'e 1a maggior. parte dei cittadini della maggiòr parte dei paesi desideri, così caparbiamente, una corsa, assurda, vale la pena di cercare di rispondere ad un certo numero di domande più complesse:. quale era in realtà il sistema istituzionale voluto dai « padri fondatori »? c'è mai, stata un'epoca d'oro della sovranazionalità? quale è realmente l'< ordine Intergovernativo » che si proclama trionfante? Per rispondere; ci sforzeremo di analizzare 'la logica interna. del sistema voluto dai Tratta. ti; vedremo "poi comé esso si è concretamente :realizzato; tratteremo quindi dell'evoluzione délle principali istituzioni per tentare' di trarre qualche conclusioie per l'avvenire.

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Associato ailUspi: Unione Stamna Periodica italiana


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Un 'sistema coerente? cosa vollero i « padri fondatori»

E' stato spiegato da Altiero Spineffi, e la sua analisi resta il punto di partenza di ogni discussione sull'argomento, che le attuali istituzioni europee rappresentano il 'compromesso fra le tre componenti fondamentali dei pensiero" europesta del dojoguerra: i federalisti, i funzionalisti e gli intergovernativi. A proposito di questi ultimi preferiamo 'questo termine a' quello, più émotivo e per certi versi più chiaro, 'di 'nazionalisti, poiché non bisogna 'dimenticare che, per tutto il trentennià' il' dibattitò è sempre stato, almeno nei sei « membri fondatori », un dibattito interno 'fra « europeisti », cioè fra forze"che concordavano su un punto fondaméntale: quello

di creare una unione indissolubile e permanente fra i popoli e gli Stati dell'Europa li-' bera. Le forze 'che si' opponevano all'idea europea, l'estrema destra nazionalista, i Comunisti e, in alcuni paesi, 'parte ' dei socialisti, hanno avuto scars'a 'influenza sugli' avve nimenti essendo state per lungo tempo escluse dal potere; in seguito, nella misura in cui vi si sono avvicinate, hanno comunque assimilato e condiviso 'gli obbiettivi europeisti. Fra i' membri attuali' della 'Comunità, sòlo in Gran Bretagna, in Danimarca e in Grecia,, in paesi cioè di recente o recentissima adesione, una parte significativa delle' forze « 'di governo » resta opposta all'obbiettivo' fondamentale. (Il caso del PCF non modifica questa analisi). I federalisti reclamano un trasferimento di alcune funzioni fondamentali dello stato ad istituzioni politiche 'europee, dotate' di una legittimità é sovranità proprie e' non derivate, dagli' Stati nazionali. Per i funzionalisti il problema è soprattutto di metodo,: L'in-

tuizione è semplice, ma rivoluzionaria: la storia dell'Europa moderna conosce solo la egemonia o la dominazione; qualsiasi tentativo "di unificazione basato su un rapporto tradizionale fra stati è inevitabilmente destinato a 'produrre uno di questi due risultati; bisogna quindi trasformare i dati del problema e trasferire la responsabilità della soluziòne ad una autorità comune, superiore agli stati, ma in cui essi siano presenti in condizioni di assoluta parità. Applicare una simile "teoria," nel 1950, ai rapporti francotedeschi, aveva del temerario. I funzionalisii pongono' in primo piano l'obbiettivo di creare, nel tessuto economico e sociale, delle solidarietà di fatto; a questo fine propongono un 'trasferimento parziale di sovranità in alcuni « settori limitati, ma significativi »; per essi il problema della legittimità, e quindi del carattere politico; delle istituzioni, è secondario rispetto al problema dell'efficacia: l'accento, viene quindi posto sull'esistenza di una amministrazione centrale e di un sistema di cooperazione fra essa e le 'amministrazioni nazionali. Gli intergovernativi ritengono .invece che gli Stati-nazione sono un dato necessario e permanente della realtà europea, e come tali 'unica fonte possibile della legittimità;' per essi non di «trasferimento » si deve parlare, ma, di «esercizio congiunto » della sovranità; ne discende che le istituzioni comuni hanno una pura funzione di mediazione' e di esecuzione. I federalisti e gli intergovernativi, così in contrasto sull'essènziale, concordano almeno su ùn punto, il primato della politica: il problema della legittimità è centrale ed è' quindi dubbio che 'si possano realizzare trasf eri-


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menti frazionati di sovranità. I federalisti ed i funzionalisti, in disaccordo sul metodo, sono invece d'accordo sull'obbiettivo finale: quello dtistituzioni sovranazionali dotate di ampi poteri. La creazione delle istituzioni europee è stata in gran parte il prodotto del pensiero funzionalista e, soprattutto, del suo principale ispiratore, Jean Monnet. Bisognava tuttavia distinguere due fasi precise. Nella prima, fino al 1954, (caduta della CED), gli stati usciti dalla, guerra erano deboli (Francia), mesistenti, ('Germania) o screditati (Italia). Il federalismo era la. nuova idea forza ed il. funzionalismo, sotto la guida pressante di Monnet, il suo braccio secolare. Non bisogna del restb dimenticare che, forte anche dei successi ottenuti nell'organizzare alcuni aspetti dello sforzo bellico degli alleati, il, «monnettismo » imperava non solo in Europa, ma nell'intero mondo occidentale: le istituzioni europee erano solo un elemento, anche se il più ambizioso, della creazione di tutto un sistema di istituzioni internazionali di tipo funzionalista. Il disegno si, sviluppò, all'inizio, in modo coerente. La CECA era infatti un'organizzazione rigorosamente funzionalista: la scelta del settore, chiaramente delimitato, rispondeva ad una .necessità oggettiva. Il trasferiinento di sovranità era però sostanziale: all'Alta Autorità 'era devoluto quasi tutto il potere, il Consiglio dei Ministri esercitando una funzione di controllo e, in alcuni casi, di veto. L'obbiettivo era però dichiaratamente federalista: basta leggere la dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950. Ancora più chiaro fu l'obbiettivo negli sviluppi successivi. La CECA non era ancora entrata in funzione che già si lanciò l'idea di una Comunità europea di difèsa (CED) e, subito,' di una Comunità Politica destinata a congiobarla e dirigerla. La preparazione della "Comunità Politica fu affidata all'Assemblea parlamentare della CECA; opportunamente.

trasformata in « Assemblea ad hoc ». L'esperienza funzionalista era quindi servita a rompere il ghiaccio, a verificare chi era disposto ad unirsi all'impresa, ma si preparò subito il salto qualitativo in senso federale. L'analisi, del fallimento di questo disegno, col voto negativo del Parlamento francese nell'agosto del 1954, non è compito di questo scritto. ' Qùando i fili del discorsà furono riannodati a Messina la prospettiva era profondamente cambiata. L'ispirazione fu ancora di pura marca funzionalista. Prendendo spunto dalla crisi di Suez che diede all'Europa Al primo fremito petrolifero si pensò ad una Comunità che ponesse sotto un'autorità comune l'energia del futuro: l'atomo. Ancora una volta un trasferimento di sovranità in un settore « limitato e significativo », ma denso di potenzialità politiche. Ancora una volta la creazione di una precisa solidarietà di fatto per forzare la mano alla storia, Ma accanto all'idea dell'Euratom si fece strada, un'altra: quella del Mercato comune, .o piuttosto della ,Comunità Economica Europea., Anche in questo caso, un passo concreto de-. stinato a rispondere ad una necessità ogget-' tiva:, la liberazione degli scambi per favorire la ripresa economica, e creare, interdipendenze negli interessi economici e sociali. E' sxato detto e ripetuto che la CEE è una organizzazione sottoposta ad una ideologia liberista, o liberale. Nulla di più inesatto. Il Trattato riflette la dottrina dominante dell'epoca, che era già quella di un'economia mista sottoposta alle leggi del mercato. Quanto alla natura e allo scopo dell'intervento pubblico, la distanza fra le filosofie dei vari governi era già notevolissima. Ciò spiega, almeno in parte, il criterio che ha determinato, per le materie coperte dal Trattato, la ripartizione di competenze fra la Comunità e gli Stati. 'Alla' prima è affidata la gestione del mercato, col suo necessario corollario della politica commerciale, 'e' 'di al-


5 cune politiche come l'agr.icoltura, di cui si riconosceva esplicitamente il carattere dirigista. Agli Stati era affidato l'intervento pub-. buco, inquadrato però da alcuni articoli fon dàmentali delTrattato: l'art. 222, che lascia esplicitamenté impregiudicato il regime di proprietà; : l'art. 90, che impone• alle imprese pubbliche un comportamento compatibile con l'econòmia di mercato; gli artt. 103 e seguenti che pongonò limiti all'esercizio della politica congiunturale ed economica; gli articoli 92, 93 e 94, che disciplinano gli aiuti pubblici. In altri termini, il Trattato era concepito in modo che sia i conservatori moderati che la sinistra riformista, cioè le forze che rappresentavano la stragrande maggioranza dellò schieramento politico, potessero convivere nel suo ambito. Il secondo aspetto del « contratto » fu un insieme di obblighi e di vantaggi che ogni paese 'c6ntraeva, e scontava, tenendo conto della propria situazione' strutturale, delle proprie aspirazioni e dei propri fantasmi. Il Trattato costitùiva in effetti un « pacchetto » assai complesso, pazientemente elaborato in lunghi mesi di negoziato al Castello di Val Duchesse a Bruxelles, in cui entravano anche elementi impliciti di carattere squisitamente politico. Così, per esempio, l'Italia e la Germania vi ritrovavano la riconferma definitiva della loro recuperata rispettabilità internazionale; i paesi del Benelux una garanzia di uguaglianza di fronte ai « grandi » mai sognata nei precedenti tentativi di cooperazione europea. Alcuni degli elementi del pacchetto si rivelarono caduchi, altri illusori. Così, per esempio, l'Italia, entrata nel negoziato con lo spirito di un paese agricolo e depresso, si aspettava grandi vantaggi dal le politiche agricola e sociale mentre temeva per il futuro della propria industria; in realtà fu parzialmente delusa nelle sue aspettative agricole e sociali, ma questa frustrazione fu più che compensata dalla straordinaria creatività e dal dinamismo con cui

un paese in tumultuosa mutazione industriale seppe approfittare del nuovo grande mercato europeo. Ma l'elemento fondamentale del pacchetto era l'impegno reciproco, fran-' co-tedesco, di realizzare allo stesso tempo il libero scambio industriale e un mercato agricolo organizzato. Il terzo elemento del « contratto » stava nell'equilibrio istituzionale. L'infrastruttura con-' cettuale era la stessa che aveva portato alla creazione della CECA, ma era questa volta applicata su una dimensione di gran lunga più vasta e, elemento non trascurabile, per una durata illimitata. Certo, la componen-, te. intergovernativa era molto rafforzata. Di riflesso, gli elementi specificamente federa-, listi si trovavano notevolmente indeboliti. Delle grandi ambizioni degli anni Cinquanta sopravviveva un Parlamento Europeo, con ruolo solo consultivo, ma con il potere (simbolio?) di censurare la Commissione; era anche introdotta la possibilità di prevederne, ad una data ulteriore, l'elezione a suffragio' universale. C'era anche un preambolo, certo privo di contenuto operativo, ma sufficientemente audace per fornire, ancora oggi, la base intellettuale per molti progetti ambi ziosi. L'erede dell'Alta Autorità, declassata alla denominazione crudelmente banale, e così poco attraente per l'opinione pubblica, di « Commissione », manteneva la sostanza del suo ruolo di istituzione sovranazionale. Collegio di individui, emanazione dei Governi, ma indipendente da essi, sottoposta alla censura del Parlamento, la Commissione detiene il monopolio dell'iniziativa, oltre, naturalmente, al compito di eseguire le decisioni comuni o, più spesso, di controllarne la corretta esecuzione da parte degli stati membri. Il potere di decisione, che il Trattato CECA aveva largamente attribuito all'Alta Autorità, sfuggiva tuttavia in gran parte dalle ma ni della Commissione. Ciò dipendeva in una


6 certa misura dalle carattristiche della CEE, in sostanza un « trattato-quadro », ma rifletteva soprattutto il mutato equilibrio politico. Questo potere di decisione era attribuito al Consiglio dei Ministri, espressione dei governi, ma con modalità che miravano a stabilire un equilibrio dei poteri su cui vale la pena di soffermarsi qualche sitante. Secondo il Trattato, le decisioni del Consiglio sono di norma prese, a maggioranza semplice, salvo che la maggioranza qualificata o l'unanimità siano espressamente richieste. In realtà tutti i casi importanti richiedono l'unanimi tà o la maggioranza qualificata (per questa ùltima, in generale, a partire 'dalla fine della seconda tappa del periodo transitorio). La ponderazione di voti necessari per raccogliere la maggioranza qualificata è accuratamente calcolata per evitare una sopraffazione dei « piccoli » da parte dei « grandi ». La lista dei casi ché prevedono unanimità o maggioranza qualificata è altamente istruttiva. In generale si può dire che l'unanimità è richiesta (dopo le prime due tappe del periodo transitorio) per decidere nuove 'politi-

che o azioni comuni, o quando è coinvolta laresponsabilità dei governi di 'fronte ai rispettivi' parlamenti (per esempio l'armonizzaziòne delle legislazioni). La maggioranza qùalificata vige invece per l'esecuzione di politiche esplicitamente previste dal Trattato, o per l'attuazione diretta di norme del Trattato. Sarà utile ricordare questa logica quando si tratterà della disputa ancor oggi vivissima, intorno al voto a maggioranza. Queste disposizioni sono completate da quelle, fondamentali, dell'art. 149, secondo cui, nei casi in cui il Consiglio può decidere a maggioranza qualificata, esso lo può fare solo in conformità con le proposte della Commissione. Quest'ultima dispone del monopolio dell'iniziativa, è padrona di decidere quando e come presentare una proposta e, quando e come emendarla; viene quindi posta al centro del processo legislativo del Consiglio, come garante dell'< interesse comune ». Questo equilibrio di poteri era simI?olicamente completato dalla disposizione secondo cui la Commissione era nominata dai governi, non dal Consiglio in quanto tale, e non era quindi sottoposta a quest'ultimo.


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La Comunità a sei: la scommessa perduta del funzionalismo

Che questa sapiente costruzione potesse facilmente funzionare, come previsto, probabilmente lo credettero, fin dal primo giorno, solo pochi addetti ai lavori. E' stato detto e ridetto che la Comunità è una « costruzione originale, non riconducibile ad alcuno dei modelli statali conosciuti ». Con questa rassicurante balità sì evita in genere. di aggiungere che la principale originalità del sistema consiste nell'ignorare completamente il principio della separazione dei poteri, che rappresenta la sintassi per non dire la grammatica, comune a tutti gli ordinamenti costituzionali dei paesi europei. Nel Trattato manca infatti sia pure un abbozzo di distinzione fra funzione legislativa e funzione di governo. Il sistema dispone quindi di una grande coerenza interna, ma legata, per così dire, ad una « geometria non euclidea ». Non deve quindi sorprendere che coloro che furono chiamati, a tutti i livelli, a far funzionare la Comunità si affrettarono immediatamente ad interpretarla secondo le categorie logiche assimilate quotidianamente nei rispet tivi paesi. In realtà, oltre ad essere una « costruzione originale », la Comunità era soprattutto un abile compromesso fra la tendenza federalista e quella intergovernativa. Gli uni e gli altri si affrettarono ad interpretare il compromesso a modo loro. Per gli « intergovernativi » si trattava soprattutto di erigersi a difensori dalle prerogative del Consiglio. I federalisti erano certo indeboliti dal tempo della CED, ma tutt'altro che fiaccati. La nuova impresa comunitaria offriva loro la possibilità di tentare una strada meno traumatica di quella della CED e della Comunità

politica: un federalismo nutrito dalla lezione di Monnet. Alcuni politologi americani si prestaròno a fornire il quadro concettuale: la teoria dello spili over, secondo cui il dinamismo dell'integrazione economica avrebbe aggregato in torno alla Comunità interessi materiali sempre più importanti, obbligando così quest'ultima a risolvere i conflitti attraverso un « incremento di integrazione.»; ad ogni tappa del processo il potere delle istituzioni, ed in particolare della Commissione, si. sarebbe rafforzato. Del resto una lettura « federalista ,> del Trattato era possibile: secondo essa la Commissione era l'embrione di un Governo federale, il Consiglio di un Senato, Camera degli Stati, a cui avrebbe dovuto, un giorno, aggiungersi un Parlamento. dotato di pienezza di poteri. Questa dialettica fra due concezioni contrapposte avrebbe forse potuto svilupparsi senza eccessivi. traumi e forse addirittura essere benefica per il gioco istituzionale, rendendo il dibattito più vigoroso, se °. non si fosse verificato un fatto politico imprevisto, e di non piccola importanza. Più ò meno contemporaneamente alla entrata in vigore dei Trattati di Roma, la Quarta repubblica era crollata in Francia ed aveva lasciato il posto alla Quinta sotto la guida del generale De Gaulle. Il conflitto tra la tendenza intergovernativa e quella federalista, o sovranazionale, aveva fino a quel momento conservato il carattere di « dibattito di famiglia » fra europeisti. Ove esisteva, l'opposizione all'idea sovranazionale era motivata soprattutto da scetticisco, prudenza, realismo, ma non da un rifiuto a priori. L'opposizione del gollismo era ideologica e.


H. totale. La Comunità faceva parte del « cedimento nazionale » dell'odiata Quarta repubblica; la Francia era nuovamente attraversata dal conflitto fra « armagnacchi e borgognoni ». La Quinta repubblica decise tuttavia di rispettare gli impegni e di applicare i Trattati. Era utile sfruttare l'apertura dei mercati per dare una frustata di rinnovamento all'industria francese, addormentata da secoli di colbertismo; era soprattutto necessario ottenere i, risultati sperati in campo agricolo Alle aberrazioni istituzionali •si sarebbe pensato in seguito. Il lavorò delle nuove istituzioni cominciò quindi in modo vigoroso ed efficace sbaragliando le. difficoltà che gli autori del Trattato avevano previsto, e temuto, soprattutto per la fase iniziale del periodo transitorio. E' difficile esprimere un giudizio sommario sullo straordinario successo di quel primo periodo zdi , vita della Comunità, fino ai conflitti politico-istituzionali degli anni' Sessanta. Certo, il clima economico e politico internazionale favoriva grandemente il movimento. Certo,' l'esistenza nel Trattato di un programma e di un calendario precisi per la attuazione dei suoi principali obbiettivi forniva un quadro di riferimento a cui difficilmente i governi, anche i più riottosi (ma nessuno lo fu veramente) potevano sottra±si. 'Ma una parte almeno del successo va ascritta a merito del sistema istituzionale o, come si. comincerà a chiamarlo, del « metodo comunitario ». Il progresso più importante fu. realizzato nel 1962 con la definizione dei primi regolamenti di base della politica agricola comune, fondata su organizzazioni di mercato, gestite dalla Comunità e finanziate in comune. Lo spili over sembrava funzionare a meraviglia e il Consiglio dei Ministri, pur di arrivare ad una decisione, si assoggettava a lunghe e faticose maratone, che coinvolgevano più d'un ministro per paese, e ricorreva, pur di

rispettare le scadenze, alla tecnica di « fermare l'orologio ». Ma la guerra della Quinta repubblica contro le istituzioni era solo rinviata. La prima crisi avvenne nel 1963 a proposito ,del vetò di De Gaulle alla candidatura posta dal primo minitro britannico,. Macmillan, all'ingresso nella, Comunità. Questa candidatura rappresentava in 'sé un grande successo per la Comunità. Questo grande paese che era restato in disparte al tempo della CECA aveva boicottato la CED. e aveva fino all'ultimo tentato di sabotare la CEE pioponendo al suo posto una « zona di libero scambio », dopo soli pochi anni bussava alla porta dell'Europa. Le, implicazioni istituzionali di questa .crisi' furono scarse e quindi essa nozi rientra nell'ambito di .questa analisi. Le istituzioni, ed in particolare la Commissione, che pure reagirono con irritazione al. veto, erano soprattutto preoccupate dal Trattato, ancora in gran parte da attuare: in fondo, a sei si poteva forse lavorare meglio. Ma il problema britannico' era posto ed era, destinato a restare per l'intero decennio « l'ombra di. Banco .» : della politica ,,europea e. ad avvelerare i rapporti fra gli stati e quindi fra le istituzioni. Una seconda questione assumeva un rilievo anche . più. importante. Lo stesso successo della Comunità faceva apparire l'impossibilità di continuare ad ignorare i temi più :squisi tamente politici, consapevolmente messi da parte dopo la caduta 'della 'CED. Del resto il periodo di relativa tranquillità nelle relazioni euro-americane dopo la crisi di Suez / volgeva al termine; il 'dinamismo della nuova amministrazione americana, 'impegnata ad avviare la coesistenza pacifica, obbligava l'Europa a guardare al di là del còmmercio. La logica còmuhitaria avrebbe voluto che i temi della politica estera fossero affrontati' nell'ambito' della Comunità o almeno con un metodo assimilabile, a quello comunitario. La iniziativa. venne però dalla Francia, e assunse


9 una forma diversa. Il « piano. Fouchet » di unione politica infatti prevedeva un sistema rigorosamente intergovernativo a cui la Comunità sarebbe stata di fatto subordinata. Inoltre le strutture multilaterali erano destinate ad essere completate da una rete di accordi bilaterali di cui il trattato franco-tede. sco fu l'unica, ma importante, realizzazione. L'analisi del Presidente-generale, che si av viava ad essere consacrato dal suffragio universale, era limpida. 'Esiste potere legittimo solo ove esso è radicato nella storia e consacrato dal suffragio popolare. Le istituzioni comunitarie non dispongono di questa legittimità; trasferire ad esse la sovranità significa in effetti creare in Europa un vuoto di legittimità che potrà essere colmato solo dalla potenza imperiale: gli Stati Uniti. Il sistema europeo, se vuole essere «europeo » e non « atlantico » deve quindi essere basato sulla fònte della legittimità, sulle naziozioni; e, fra di esse, la Francia era la più nazione di tutte. Sembrava per alcuni aspetti di riudire l'analisi dei federalisti che, al tempo della CED, avevano preteso il passaggio alla Comunità politica; ma le conclusioni erano opposte. La sfida non fu accolta e bisogna riconoscere che 1 partnérs della Francia, presi dalla vertiginé che gli europei sembrano provare dopo il 1945 di fronte a temi come l'indipendenza o l'autonomia, si nascosero in parte dietro a problemi istituzionali per celare reticenze di altro tipo. Ma la difesa della Comunità era basata anche su preoccupazioni genuine e profondamente radicate. Infatti, il « metodo comunitario » era visto, soprattutto dal Benelux e dall'Italia, ma anche dalla Germania, come una garanzia di uguaglianza contro ogni possibile egemonia. Ora, il disegno gollista conteneva molto Metternich, ma anche un'inquietante ombra di Mazzarino. Il negoziato sul « piano Fouchet » finì nel nulla, ma la frattura che si era aperta ebbe due conseguenze importanti.

La prima, fu di accrescere l'importanza del problema britannico, soprattutto agli occhi del Benelux e dell'Italia: se il « metodo comunitario » era rimesso in discussione e apparivano pericoli di egemonia francese, la presenza .riequilibratrice della Gran Bretagna diventava ancor più necessaria. Reazione c'he era, inevitabilmente, interpretata a Parigi come un'ulteriore prova di una volontà di sottomissione alla egemonia americana. La seconda fu di porre fine all'idillio dei primi anni di funzionamento delle istituzioni. Per proseguire si fece sempre più ricorso al metodo dei « pacchetti », inieme èquilibrato di concessioni. Ma se lo sviluppo spontaneo era interrotto, i '« pacchetti » erano ambiziosi e sostanziosi, le decisioni si prendevano, le maratone continuavano a funzionare. Il periodo transitorio, superata con successo la prima tappa, si avviava alla terza, quella fondamentale poiché prevedeva il passaggio, in molti settori, al voto maggioritario. Fu in quelcontesto che avvenne la famosa crisi del 1965. La storia è nota. La Com. missione doveva presentare proposte per la messa in opera definitiva delle organizzazioni dei mercati agricoli, ma essa le completò con due altre proposte: il finanziamento del la politica agricola doveva essere assicurato non più con contributi degli stati, ma con « risorse proprie » derivanti inizialmente dal gettito della tariffa doganale comune e dai prelievi agricoli; inaltre, queste finanze dovevano essere sottoposte al controllo del Parlamento europeo. Le proposte erano coerenti dal punto di vista economico e si iscrivevano nella logica del Trattato. Ma il loro valore politico era quello di una bomba, poiché conducevano ad introdurre nel sistema, con poteri reali, l'istituzione più inequivocabilmente politica e sovranazionale: il Parlamento. Quando nel giugno il Governo francese si rese conto che gli altri cinque paesi erano


lo disposti ad entrare nel gioco della Commis sione, la reazione fu violentissima e si aprì la cosiddetta crisi della « sedia vuota ». In altri termini ; la Francia ritirò il proprio Rappresentante Permanente, si astenne dal partecipare alle riunioni ministeriali e permise solo la gestione corrente. Fu presto. chiaro che là sostanza delle proposte non era. il vero centro del problema. Fidando sulle forze dell'ingranaggio comunitario; la Commissione, . con la complicità dei « cinque », ricattava la Francia non con un « pacchetto » tradizionale in cui varie concessioni economiche si equilibravano a vicenda, ma con uno scambio fra politica agricola e sottomissione al principo della sovranazionalità. Era quindi l'ingranaggio stesso che doveva essere rot to. . Le richieste francesi furono chiaramente enunciate da De Gaulle in persona in una celebre conferenza stampa e. ciò nonostante la Commissione si fosse nel frattempo spontaneamente piegata a sfrondare le. sue proposte degli elementi più controversi. Innanzitutto la Commissione doveva ,definitivamente rinunciare ad atteggiarsi a Governo dell'Europa, e tentare di imporre la sua volontà agli Stati; inoltre il ricorso al voto maggioritario, previsto dai Trattati, doveva arrestarsi di fronte all'interesse vitale degli Stati. Il colpo era particolarmente duro per la Commissione che vedeva attaccate non solo le sue ambizioni politiche, ma apche uno dei principali strumenti. cli cui &sponeva per realizzare il proprio compito, il ricorso alla procedura dell'art. 149. Si può ritenere che l'obbiettivo di De Gaulle fosse doppio; da un lato assicurarsi che la politica agricola, così faticosamente definita, potesse essere messa in discussione da una maggioranza più sensibile ad interessi industriali e, sopratttutto, d'oltre Atlantico. D'altro lato però si voleva soprattutto porre una questione di principio sulla natura della Comunità: concerto di stati sovrani o organizzazione sovranazionale.

Il «disacccirdo di Lussemburgo » del gennaio 1966 concluse mesi. di laboriosi negoziati. Alla Commissione. veniva imposto un «codice di comportamento »' non molto importante, ma politicamente significativo. La questione del voto veniva risolta ccin un parziale disacèordo. Tutti i paesi convenivano che, inpresenza di un «problema vitale » di. uno Stato. convenisse continuare a cercare una soluzione che potesse raccogliere il consenso unanime. Tuttavia, mentre i « cinque » pensavano che dopo aver esaminato tutti i tentativi . di mediazione, si dovesse comunque passare al voto, la Francia vi si opponeva.:. . . . Il grande sconfitto era lo spirito sovranazionale e soprattutto il suo principale alfiere, la Commissione. Essa era colpita non solo nelle sue ambizioni politiche, ma anche nel dinamismo che aveva 'introdotto, nei rapporti privilegiati con: le amministrazioni nazionali. In un certc senso con la conclusione della crisi i governi, e .non solo quello .francese, riprendevano in mano il controllo delle proprie amministrazioni, a volte . troppo pronte a farsi catturare nell'< ingranaggio », e ricordavano loro che il rapporto con la Commissione includeva necessariamente un elèmento di concorrenza, se non di conflitto. Ma quale era il risultato dal punto di vista francese? Se si fosse trattato solo di interrompere una dinamica istituzionale, l'obbjettivo . era raggiunto. Ma vi 'è da ritenere che l'ambizione di alcuni esponenti della Quinta repubblica, e probabilmente dello, stesso Generale, fosse stata molto più grande e cioè quella di modificare esplicitamente la natura della Comunià. In realtà, se da. un lato la. Comunità era notevolmente . indebolita, dall'altro la Francia accettava di venive a patti con un sistema istituzionale moltò lontano dalle sue concezioni; soprattutto, accettava che il pilastro della Comunità, il frutto per essa più prezioso, l'agricoltura, . fosse, regolato secondo procedure interamente , sovranazionali e


11 gestito largamente dall'odiata Commissione. Il socialista olandese, Sicco Mansholt, Commissario responsabile dell'agricoltura, si apprestava ormai a. divenire, nelle campagne, più conosciuto degli stessi ministri nazionali e fronteggiava, a Bruxelles, manifestazioni di tutti gli agricoltori europei. L'equilibrio istituzionale chè uscì da Lussemburgo non è. più stato sostànzialmente modificato anche se i suoi contorni sono emersi con chiarezza solo gradualmente. Pochi lo ammisero, ma in effetti, anche il gollismo era stato integrato nel « dibattito di famiglia ». Il conflitto istituzionale si spostò dal piano dell'equilibrio, dei poteri a quello delle competenze; Già si è detto della crescente difficoltà, per la Comunità, di ignorare le questioni legate alla politica internazionale. Ma anche in campo economico nuove esigenze premevano. L'avvicinarsi della realizzazione dei principali obbiettivi del Trattato poneva il problema di un'estensione delle attività comunitarie a nuovi campi, ignorati o scarsamente considerati dal Trattato, come l'industria, la ricerca, la difesa dell'ambiente, la politica regionale, ma, soprattutto, la moneta. Si apriva così un dibattito., destinato a pro. lungarsi nel decennio successivo., che vedeva a confronto due tesi contrapposte che possono essere così schematizzate. Secondo alcuni la' costruzione europea doveva assumere la forma di cerchi concentrici in cui si potevano disporre le varie materie, che sarebbero state regolate' da procedure e regole, via via più rigorose, dalla semplice cooperazione alla politica comune, ma rette da un sistema istituzionale unico. Secondo altri si sarebbe trattato di filiere del tutto parallele ed indipendenti: accanto ad una filiera comunitaria, altre sarebbero state del tutto intergovernative; . il passaggio da una filiera all'altra non sarebbe stata una questione di gradazione, ma un salto qualitativo. Dal canto suò la Commissione, tenace asser-

trice della prima tesi, si mise alacremente al lavoro in due direzioni. La prima fu quella di una minuziosa esplorazione della « virtualità » del Trattato; la seconda fu l'analisi concettuale di problemi nuovi, come la politica industriale. Queste esplorazioni della « zona grigia » restarono in gran parte lettera morta, ma servirono a preparare il terreno per l'attivismo che accompagnò, come vedremo, l'allargamento. Sarebbe un errore pensare che la fine del decennio fu un periodo di stasi. Il dinamismo economico che sosteneva l'attuazione del Trattato continuava a funzionare in pieno e il periodo transitorio fu addirittura completato in anticipo sulle scadenze previste. Inoltre la Comunità poté felicemente condurre a termine il grande negoziato tariffario del Kennedy Round,. un grande successo per la Commissione negoziatore unico a nome della Comunità. Nel 1967 fu anche deciso di fondere in un'unica Commissione gli esecutivi delle tre Comunità, consacrando 'così la supremazia della CEE sulle altre due. Ma il progresso più significativo fu l'avvio del processo, detto di « cooperazione politica », fondato dal cosiddetto « piano Davignon ». Meno ambizioso del « piano Fouchet» il nuovo sistema prevedeva una procedura di consultazioni regolari, anche se non vincolanti, sui principali temi di politica estera, sia a livello dei Ministri che a quello dei direttori degli 'affari politici. La modestia del passo rispecchiava lo scarso livello di consenso politico, ma evitava anche gli scogli dottrinari posti dal « piano Fouchet » e permetteva comunque la ripresa di una cooperazione specificatamente europea su temi politici., anche se i problemi di difesa erano esplicitamente esclusi. Il nuovo sistema era rigorosamente indipendente dalla Comunità. Georges Pompidou, succeduto a De Gaulle alla guida della Quinta repubblica nel 1969, impose alla Comunità una svolta decisiva e


12 propose un rilancio basato su tre capitoli: il completamento, l'allargamento e l'approfondimento. L'iniziativa aveva una sua profonda logica politica. Di fronte alla paralisi determinatasi nella Comunità il veto alla Gran Bretagna diventava politicamente insostenibile. Del resto una Gran Bretagna certamente non « sovranazionale » avrebbe allentato l'isolamento della Francia sui piano istituzionale e costituito un utile contrappeso alla crescente forza della Germania, ancora « nano politico », ma sempre più «gigante economico ». Perché l'operazione potesse realizzarsi era tuttavia necessario che la politica agricola fosse definitivamente completata, soprattutto nei suoi aspetti finanziari e che la Comunità fosse rafforzata, soprattutto sul piano monetario. L'allargamento si iscriveva quindi in un disegno convincente, ma molto lontano da quello voluto dai funzionalisti entusiasti di dieci anni prima. Come potevano comunque i cinque sottrarsi alle offerte francesi? Il completamento della politica agricola era nello interesse di tutti, come pure l'idea del rafforzamento della Comunità. Quanto all 'allargamento, esso era stato la richiesta principale dei cinque per un decennio e, per quanto riguardava l'atteggiamento della Gran Bretagna sui problemi istituzionali, essi potevano sempre affidarsi alla speranza che la « madre del Parlamento » non sarebbe restata alla lunga insensibile alla necessità di dotare la Comunità di istituzioni forti e democratiche. Il Governo laburista non aveva del resto accettato, in occasione della visita a Londra del Presidente italiano Saragat nel 1969, di inserire nel comunicato finale un riferimento all'elezione del Parlamento Europeo? In tutti i casi, sul piano istituzionale, la Comunità era comunque bloccata, e anche i cinque pensavano alla Gran Bretagna come a un utile contrappeso, ma contro lo strapotere francese. Il « completamento » fu realizzato in modo

sostanzialmente conforme alle sventurate proposte di Hallstein del 1965. Il regime finanziario definitivo del bilancio comunitario, compresa la politica agricola, fu basato, con gli accordi dell'aprile 1970, su un sistema di «risorse proprie » comprendente, oltre agli introiti dei dazi doganali e dei prelievi agricoli, anche una quota del gettito dell'IVA, fino all'l% della base imponibile. Al Parlamento Europeo veniva attribuito il controllo sulla spesa ma, su richiesta francese, il Parlamento ebbe l'ultima parola solo sulle cosiddette « spese non obbligatorie », quelle cioè che non derivano automaticamente dal Trattato o da atti legislativi. Questa limitazione, non senza logica poiché il Parlamento restava privo di poteri legislativi, era ritenuta essenziale dalla Francia sempre preoccupata che una qualsiasi procedura sottratta al suo controllo potesse rimettere in discussione, direttamente o indirettamente, la politica agricola comune. Anche per quanto riguarda le « spese non obbligatorie », la capacità del Parlamento di determinare la spesa era limitata da un « tasso massimo », legato all'evoluzione economica generale e all'andamento della spesa pubblica degli Stati. Anche con queste limitazioni i poteri ottenuti dal Parlamento erano tuttavia notevoli e superiori, per esempio, a quelli della Quinta repubblica di Francia. Vale la pena di notare a questo punto che, alla fine del decennio, le principali dispute che avevano condotto alle grandi crisi degli anni '60 erano state risolte. La questione istituzionale restava tuttavia impregiudicata. Lo si vide chiaramente nel modo come furono - affrontati gli altri due elementi del trittico di Pompidou: l'allargamento e l'approfondimento. Sarebbe stato possibile, e propabilmente logico, legare le due questioni e procedere con i candidati ad un negoziato globale. In questo contesto i problemi istituzionali della Comunità allargata avrebbero logicamente un posto di rilievo. Si scel-


13 se invece un'altra strada, quella della separazione rigorosa fra l'allargamento e l'approfondimento e soprattutto, si decise che i problemi istituzionali non sarebbero stati, per il momento, affrontati. Prevalse in effetti il timore che un negoziato globale avrebbe fatto apparire troppo presto in superficie i disaccordi fra i sei e la Gran Bretagna, e all'interno dei sei, col rischio di rimettere tutto in discussione. L'allargamento fu quindi basato sulla integrale ripresa da parte dei candidati di ciò che era stato realizzato, compresa la struttura istituzionale. Per quanto riguarda 1« approfondimento » furono fatti alcuni tentativi a sei, di cui il più importante era un ambizioso piano di unione monetaria (piano Werner), presto travolto dalle tempeste monetarie del 1971. Era dunque illusorio parlare del futuro senza i nuovi membri. Ciò fu fatto a negoziato concluso, in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo che ebbe luogo a Parigi nell'ottobre 1972. Lo sforzo era considerevole. Il comunicato finale del vertice comprendeva un programma articolato che indicava obbiettivi comuni in un certo numero di politiche nuove: industriale, di ricerca, regionale, sociale, energetica e fra cui spiccava il rinnovato impegno a raggiungere, entro la fine del decennio, l'unione economica e monetaria. Delle istituzioni non una parola, nonostante lo stesso Pompidou avesse posto, alla fine del 1971, il problema di un « Governo europeo ». Veniva però psto l'obbiettivo di una «unione europea » di cui si ammetteva, anche se non era detto esplicitamente, che avrebbe dovuto comportare una revisione istituzionale. Il disegno era quindi chiaro: prima creiamo nuove solidarietà di fatto, poi penseremo alle istituzioni. Ragionamento che non mancava di logica, ma che evitava di chiarire se le istituzioni esistenti fossero in grado di realizzare i nuovi obbiettivi intermedi. La Commissione si mise subito alacremente

al lavoro a preparare i rapporti richiesti. La mancata attuazione del programma del 1972 resta uno dei più gravi insuccessi della Comunità. E' difficile dire quanto sia dovuto al rifiuto di affrontare il problema istituzionale e quanto invece a problemi oggettivi. E' anche difficile, a cose fatte, rispondere alle critiche di coloro che ritennero il programma di Parigi troppo ambizioso e pensano che sarebbe stato più opportuno concentrarsi su obbiettivi più selettivi e preoccuparsi innanzitutto di realizzare l'allargamento e di completare l'attuazione di quegli aspetti del Trattato ancora restati inapplicati. A Parigi si ritenne invece, a nostro avviso giustamente, che l'integrazione dei nuovi membri avrebbe potuto realizzarsi con successo solo in una Comunità dotata di un forte dinamismo; questa intuizione restò tuttavia confusa e al programma di Parigi, quale che fosse la sua ambizione, mancava l'approfondimento concettuale, lo sfor2o di analisi e l'identificazione degli strumenti operativi, che avevano accompagnato quindici anni prima la redazione dei Trattati. Questo compito fu lasciato alle istituzioni, ma esse mancavano della forza necessaria ad assolverlo. E' un fatto che gli avvenimenti presero presto una piega del tutto contraria agli impegni solennemente presi. I tentativi di cooperazione monetaria •annegarono nel disordine che si era permanentemente installato nel mondo occidentale. La crisi energetica provocò una vera e propria esplosione di egoismi nazionali. Soprattutto, l'espansione economica del dopoguerra si avviava alla fine, per dar luogo ad una lunga recessione. Fu presto chiaro che, nel mutato clima economico, le istituzioni erano ancora in grado di far rispettare gli impegni del Trattato, ma che per tutto ciò che andava oltre, la responsabilità restava saldamente nelle mani degli Stati, unici dotati di legittimità, nono-


14 stante la diffusa consapevolezza della loro insufficiente dimensione. Per quanto riguarda l'equilibrio istituzionale tre fenomeni meritano di essere segnalati. Il primo riguarda il comportamento della Commissione.. Consapevole del clima politico sfavorevole, essa rinunciò a presentare proposte che avevano la finalità di instaurare vere politiche comuni, sul modello di quella agricola, preoccupandosi piuttosto di occupare il m3ssimo spazio disponibile con proposte che consistevano in realtà in azioni puntuali, inserite in un contesto di coordinamento delle politiche nazionali. Così facendo si rispondeva certo ad un bisogno reale, quello del coordinamento, e si permetteva all'azione comunitaria di entrare in nuo vi territori, acquisendo esperienze utili e ponendo fine alla vecchia querelle sulle competenze e sulla « zona grigia ». Ma il risultato era anche quello di portare il dibattito politico ad un livello molto basso, di svilire il concetto di politica comune, di rendere sempre più ambigua e nebulosa la determinazione delle ragioni e delle finalità dell'intervento comunitario. Il secondo è che l'adesione dei nuovi membri si rivelò molto più difficile del previsto. La Gran Bretagna, da cui sia i cinque che la Francia si attendevano una forte presnza, in parte temuta, in parte desiderata, era in realtà un paese in preda ad una grave crisi strutturale e profondamente diviso sul concetto stesso di appartenenza alla Comunità. Questo fatto esplose con insospettata violenza al momento dell'avvento al potere, nel 1974, dei laburisti, fra cui la componente antieuropea era maggioritaria. La crisi si risolse con una abile operazione diplomatica chiamata, quanto mai impropriamente, « rinegoziato », che lasciò le cose come stavano, ma che contribuì in modo non indifferente alla paralisi della Comunità. Cosa più grave, nonostante che il « rinegoziato » si fosse concluso con un referendum che produsse

una schiacciante maggioranza in favore del la Comunità, il problema dell'appartenenza della Gran Bretagna alla Comunità non fu in realtà mai risolto, né per la classe politica, né per l'opinione pubblica. Certo, il mu tato clima economico non facilitava le cose, ma i problemi furono più gravi del previsto. Sul piano istituzionale, la Danimarca soprattutto, ma anche, e con più peso, la Gran Bretagna, mostrarono di avere una concezione molto riduttiva ed una interpretazione del «compromesso di Lussemburgo» privo persino delle sfumature che comunque esistevano nella posizione francese. La nozione dei nuovi membri era semplice: nella Comunità si decideva all'unanimità, punto e basta. E così fu (tranne che per le questioni di bilancio) nonostante periodiche dichiarazioni in senso contrario e il lodevole impegno di alcuni governi, in occasione del loro turno alla presidenza del Consiglio. Il principio dell'unanimità veniva così portato alle estreme conseguenze in una Comunità a nove, in cui la ricerca del consenso unanime era inevitabilmente molto più difficile che in una Comunità a sei. Il terzo fenomeno è l'insorgere di ciò che è stato impropriamente definito il « gollismo tedesco ». Il fatto che il dinamismo dell'integrazione si fosse interrotto aveva avuto effetti importanti sul comportamento della Germania. Sul, piano politico, la Comunità non poteva più rappresentare, per i tedeschi, quella grande alternativa spirituale alla riunificazione che i « padri fondatori » aveva no voluto. Sul piano economico, le spese comunitarie evolvevano in modo da fare della Germania in misura crescente, in compagnia della Gran Bretagna, il principale pagatore. Certo, la Germania trae dalla Comunità immensi vantaggi di altro tipo, economici e politici, sicuramente superiori ai costi finanziari, modesti in 'termini assoluti; ma questi vantaggi, tutti legati alle realizzazioni dei primi anni, sono dati sempre più per


15 acquisiti, non essendo più arricchiti da nuovi programmi. Cosa ancora più difficile da comprendere, la Germania operava trasferi menti non solo verso paesi più poveri, come l'Italia e l'Irlanda, ma anche a favore di paesi con un livello di prosperità paragonabile al suo, come la Danimarca, l'Olanda e la stessa Francia. La Germania avrebbe potuto reagire a questa situazione mettendo sul piatto della bilancia tutto il suo peso politico ed economico per imporre nuovi progressi nell'integrazione. Ritenne invece di essere, ancora troppo vulnerabile politicamente per tentare un'operazione che non avrebbe mancato di risuscitare vecchi demoni. La Germania si trasformò così in un tenace assertore dello status qua comunitario, soprattutto sui piano finanziario; nonostante la Comunità continuasse a mantenere un posto centrale nella politica estera tedesca, quei st'ultima si sviluppò, soprattutto dopo' la messa in opera della Ostpolitik, secondo linee più complesse: in sostanza la Germania riscopriva, anche con prudenza, gli elementi di una politica estera nazionale. Il fatto che l'intera costruzione del Vertice di Parigi si trovasse in macerie non impedì di avviare le riflessioni che dovevano condurre all'Unione europea. Le istituzioni furono invitate a preparare rapporti, che poi dovevano servire al Primo Ministro del Belgio, Tindemans, per preparare un rapporto ai governi. La Commissione produsse un rapporto dichiaratamente federalista. Lo stesso avvénne per Tindemans, anche se le propos te operative erano molto più modeste. Era tuttavia chiaro che tutta l'operazione aveva un carattere essenzialmente liturgico e infatti non se ne fece nulla.

Questa dei « rapporti » sulle istituzioni della Comunità non era una novità. Già in occasione dell'allargamento la Commissione aveva richiesto un rapporto ad un gruppo di esperti presieduto da Georges Vedel. In se'guito, avvicinandosi un nuovo allargamento fu commissionato un nuovo rapporto a tre « saggi » indipendenti. Analoghi esercizi f urono effettuati dalla Commissione e dal Parlamento. La lunghezza di questo scritto non consente un'analisi dettagliata di tutti questi rapporti; essa non ci pare del resto necessaria. E' invece opportuno descrivere alcune caratteristiche di questo esercizio di riflessione che è durato un intero decennio. Con la sola eccezione di quello della Commissione del 1975, che si poneva in una prospettiva di superamento non solo dei Trattati, ma di una radicale revisione dell'equilibrio istituzionale, tutti gli altri rapporti affrontavano problemi concreti, restati insoluti dopo la crisi del 1965: il voto a maggioranza; il ruolo della Commissione, il ruolo del Parlamento. Quattro elementi sono significativi. Il primo è che le proposte si situavano tutte in una prospettiva sovranazionale, ma all'interno del sistema previsto dai Trattati. Il secondo è che esse divennero via via meno ambiziose. Il terzo è che, anche se alcune di esse, in genere le meno impegnative, furono in seguito accolte, nessuno di questi rapporti condusse ad un vero dibattito politico d'insieme. Il quarto è che l'introduzione delle innovazioni istituzionali più significative del decennio è stata in genere del tutto indipendente dalla di scussione dei rapporti in questione. In sostanza, nessuno voleva riaprire il dibattito del 1965.


MI

L'evoluzione delle istituzioni nell'ultimo decennio

A questo punto, è necessario parlare dei principali elementi dell'evoluzione istituzionale concreta che ha avuto luogo nel decennio successivo al primo allargamento.

LA COOPERAZIONE POLITICA

Il primo elemento riguarda lo sviluppo della cooperazione politica. Essa si è rafforzata ed istituzionalizzata, contribuendo ad avvicinare in maniera notevole i punti di vista dei vari paesi sulle principali questioni internazionali. Pur restando indipendente dalla struttura della Comunità, la cooperazione fra i due sistemi si è progressivamente rafforzata. La presenza della Commissione è Ormai accettata e spesso sollecitata. La creazione di un « segretariato politico », sempre temuta dai difensori della Comunità, è stata evitata e sostituita dalla maggiore presenza della Commissione e da un sistema flessibile di cooperazione in seno a una « trojka » comprendente la presidenza attuale, quella precedente e quella successiva. Cosa più importante, la separazione rigorosa dei primi anni fra le riunioni ministeriali della cooperazione politica e quelle del Consiglio dei Ministri, che aveva condotto a famosi quanto ridicoli spostamenti in massa da una capitale all'altra nel corso della stessa giornata, è ormai caduta. Infine, sia pure con molta prudenza, anche problemi relativi alla sicurezza sono ora trattati in seno alla cooperazione politica. Tutto questo sviluppo è avvenuto senza testi giuridici, in base ad accordi politici o diplomatici privi di carattere vincolante. Para-

dossalmente quéstò successo dell'< informale» nel campo della cooperazione politica• è stato utilizzato come arma contro i difensori del metodo comunitario, di cui si denunciano la pesantezza, la buròcratizzaziòne ela mancanza di confidenzialità. Critica quanto mai ingiustificata, poiché del deterioramento dei meccanismi comunitari sono in gran parte responsabili proprio quei difensori del metodo intergovernativo che si fanno paladini delle virtù della cooperazione politica. Il successo 'della cooperazione politica ne delinea allo stesso tempo i limiti: come è stato detto, l'Europa è in grado, e non sempre, di reagire, ma non di agire sulla scena internazionale. Del resto le poche occasioni di vera e propria azione comune' sono scaturite dall'utilizzazione congiunta della cooperazione politica e delle procedure comunitane, come nei recenti casi di ricorso (e forse di abuso) alle sanzioni commerciali. La distensione fra i due sistemi ha anche facilitato una migliore organizzazione della presenza europea nelle materie di competenza « mista », comunitaria e nazionale. Così si è sviluppato il ricorso, nelle conferenze internazionali, al portavoce misto CommissionePresidenza al Consiglio. Questa tecnica ha in particolare permesso di risolvere il delicato problema della presenza della Comunità ai cosiddetti « vertici » dei sette principali paesi occidentali. Si è anche moltiplicata la presenza di rappresentanti diplomatici della Comunità in quanto tale presso le principali capitali e organizzazioni internazionali. Infine le diplomazie nazionali si sono abituate a collaborare non solo a Bruxelles, ma anche nelle capitali estere. In questo modo, se è


17 eccessivo dire che l'Europa parla ormai con « una sola voce », si evita almeno la cacofonia di tempi ancora recenti.

IL CONSIGLIO EUROPEO

Il secondo elemento di innovazione è costituito 'dalla creazione del Consiglio Europeo. Le periodiche riunioni (vertici) di Capi di Stato (per la Francia) e di Governo appartenevano già all'epoca di De Gaulle. Tuttavia il disaccordo sul piano Fouchet e la crisi del 1965 avevano reso impossibile una formalizzazione e, soprattutto, la definizione del loro ruolo rispetto alle istituzioni comunitarie. La pratica di queste riunioni si era comunque affermata, soprattutto nell'epoca di Pompidou. L'occasione di un accordo fu trovata al « vertice» di Parigi del 1974. Nasceva così il «Consiglio Europeo », destinato a riunirsi tre volte all'anno, due nella capitale della Presidenza, una in una sede comunitaria. Esso non è una istituzione nuova, ma la forma suprema che assume rispettivamente il Consiglio dei Ministri della Comunità e la Cooperazione politica; 'le procedure, in caso di decisioni, sono le, stesse dei rispettivi ordi namenti; la Commissione, a lungo boicottata e a volte in passato umiliata, vi partecipa a pieno titolo. Bisogna riconpscere che la vittoria dei « comunitari » era soprattutto formale, poiché la realtà era quella della creazione di un nuovo organo, superiore alle istituzioni esistenti. Si deve tuttavia anche ammettere che la decisione rispondeva ad un bisogno obiettivo. Il moltiplicarsi dei terreni di coperazione rendeva necessaria una istanza di sintesi e di orientamento globale. Quanto più le attività comunitarie si estendevano e incidevano sulle realtà nazionali, tanto più i ministri settoriali si rivelavano incapaci di decidere da soli, né i ministri degli esteri erano sufficientemente forti per operare la mediazione.

L'Europa ha in realtà cessato di essere solo un elemento della politica estera dei nostri paesi per far parte, per molti versi, della politica interna. La mediazione spetta quindi ai Capi di Governo. Infine, per alcuni paesi, il problema stesso dell'appartenenza alla Comunità è ancora aperto. E' quindi indispensabile che la massima autorità politica vi sia impegnata personalmente. Il giudizio dell'esperienza di questi primi anni del Consiglio Europeo è molto complesso. Certo esso ha grandemente contribuito, anche attraverso la conoscenza personale e la pratica di riunioni frequenti, ad avvicinare i punti di vista e probabilmente ad attutire le difficoltà. I risultati concreti sono tuttavia stati scarsi. Significativa è la mancata soluzione del cosiddetto « problema britannico », caso tipico di disputa che solo il Consiglio Europeo è in grado di affrontare in tutti i suoi aspetti. D'altro canto l'unico progresso di rilievo che la Comw nità ha realizzato negli ultimi anni, la creazione del Sistema Monetario Europeo (SME), è stata l'opera del Consiglio Europeo ed in particolare di due dei suoi membri, Giscard d'Estaing e Schmidt. In quel caso, il contatto personale e l'assenza di impedimenti burocratici, riuscirono ad affermare il primato della politica e resero la decisione possibile. In sostanza, se il Consiglio Europeo rappresenta la forma più compiuta ed efficiente del metodo intergovernativo, ne esprime anche il limite invalicabile, la mancanza di continuità, il carattere necessariamente episodico, frammentario e fragile dei risultati.

IL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Una caratteristica importante del Consiglio Europeo è quella di essere allo stesso tempo la conseguenza e la causa del deterioramento del Consiglio. L'esistenza di una istanza superiore d'appel-


18 lo ha infatti notevolmente contribuito a deresponsabilizzare l'istituzione a cui i Trattati avevano attribuito proprio la responsabilità più importante, quella di decidere. Il declino del Consiglio ha evidentemente anche cause più profonde, legate in primo luogo alla ricerca sistematica dell'unanimità. Inoltre un sistema che dopo il 1965 si sforza di negare'un aumento di deleghe alla Commissione, scarica inevitabilmente responsabilità sempre maggiori sulle ammnistrazioni nazionali. Il Consiglio è diventato così sempre meno un organo ministeriale e sempre più una complessa macchina burocratica di cui le riunioni di ministri rppresentàno solo la punta dell'iceberg. Questa burocratizzazione, che è il risultato della pretesa di accollare al Consiglio ogni minuta decisione, anche di carattere tecnico, ha trasformato l'istituzione in un organismo immobilizzato dal proprio peso che riesce ad agire solo con esasperante lentezza. Bisogna a questo proposito notare che la burocratizzazione è in realtà il risultato non tanto degli apparati delle rappresentanze permanenti a Bruxelles, il così vituperato Comitato dei Rappresentanti permanenti (COREPER), in realtà piuttosto esiguo, quanto del crescente peso nelle procedure di decisione delle amministrazioni settoriali, e a volte locali, dei paesi membri. In questo senso hanno ragione coloro che sostengono che le amministrazioni, che nel disegno funzionalista avrebbero dovuto essere, con la Commissione, il motore dell'integrazione, ne sono diventate uno dei principali freni. La situazione è aggravata dal fatto che in un crescente numero di paesi, fenomeno del resto comprensibile in regimi democratici, anche i parlamenti intervengono sempre di più nella preparazione delle decisioni comunitarie, con il risultato di contribuire ulteriormente al bloccaggio. Come si è visto, lo stesso Consiglio Europeo è in molti casi obbligato a mediare in campi di grande complessità tecnica. Emerge così il

paradosso di un sistèma intergovernativo che pretende di gestire un numero crescente di decisioni. La moltiplicazione delle materie e degli interessi, in assenza di delega ad istituzioni sovranazionali, rende indispensabile il rafforzamento della mediazione e del coordinamento a livello nazionale, con il risultato di irrigidire le posizioni, di ridurre lo spazio di negoziato e di rendere quindi la decisione . più difficile. In questo modo, i ministri portatori di una . posizione rigida, non dispongono più di spazio negoziale; spesso forniscono all'opinione pubblica l'immagine di chi va a Bruxelles per battersi contro gli altri partners o la Commissione e non per l'interesse comune. In questo modo il Consiglio cessa di .essere un'istituzione per trasformarsi in un terreno di scontro verbale ove ci si indirizza più alla propria stampa che ai propri colleghi comunitari. Del resto, parlare del « Consiglio » come di un'istituzione unica è un'astrazione. Il Trattato, è vero, lo descrive come un unico organo anche se con composizione variabile, secondo le materie trattate. In un certo senso così è stato all'inizio: i Ministri degli Esteri controllavano l'essenziale delle decisioni e anche le lunghe maratone che condussero. alla definizione della politica agricola e, soprattutto, con il moltiplicarsi delle materie trattate, i cosiddetti « Consigli settoriali » hanno assunto di fatto sempre più autonomia; è quindi ormai giustificato parlare di diversi « Consigli » su cui il potere di supervisione del Consiglio dei Ministri degli Esteri diventa sempre più teorico. Tipico è il fenomeno dei ripetuti tentativi, sempre falliti, dei Ministri degli Esteri e soprattutto dei Ministri delle Finanze, di mettere un freno alla totale autonomia di decisione dei Ministri dell'Agricoltura. Le ragioni di questa evoluzione sono molteplici e tutte legate al fatto, già ricordato, che le attività comunitarie superano di gran lunga l'ambito della politica estera dei paesi


19 membri e raramente. i Ministri degli Esteri possiedono la forza per imporsi: ai Ministri responsabili sul piano interno; in pratica la mediazione non può che essere esercitata dal Primo Ministro. Come si è visto è stata questa una delle principali ragioni che hanno condotto alla creazione del Consiglio Europeo. ii « Consiglio » si trova quindi ad essere non solo frammentato ma anche, in un certo senso, schiacciato, fra il Consiglio Europeo ed un altro organo su cui è necessatio spendere qualche parola, il Comitato dei Rappresentanti permanenti (COREPER). Esso nacque quasi subito, con compiti di coordinamento e di preparazione delle decisioni del Consiglio; la sua esistenza fu in seguito formalizzata con il Trattato di fusione degli esecutivi del 1967. Questo organo, vituperato e difeso con uguale accanimento, è diventato in un certo senso il simbolo dell'evoluzione intergovernativa della Comunità. La realtà è più còmplessa. La sua esistenza rappresenta indubbiamente uno schermo tra la Commissione e il Con siglio. Tuttavia, le crescenti, e già ricordate, pesantezze delle macchine burocratiche nazionali fanno della presenza a Bruxelles di questi alti funzionari un aiuto prezioso e non solo un concorrente per la Commissione. Come spesso succede in diplomazia, gli Ambasciatori Rappresentanti permanenti, pur continuando ad essere i più gelosi difensori delle prerogative del Consiglio di fronte alla Commissione, si sono anche spesso trasformati nei più tenaci avvocati dell'interesse comunitario presso i propri governi. In realtà la grande maggioranza delle decisioni formalmente prese dal Consiglio sono semplici ratifiche di accordi già intervenuti in seno al COREPER. Certo può sorprendere che paesi democratici deleghino in pratica dei poteri legislativi ad un gruppo di diploma. tici. Coloro che più si scandalizzano sono spesso tenaci assertori della sovranità nazio-

nale: farebbero bene a riflettere sui fatto che questo è il prezzo da pagare per una Comunità che vuole prendere decisioni, ma si rifiuta di delegare poteri ad istituzioni politiche sovranazionali. Se il COREPER ha avuto un indubbio successo in uno dei suoi compiti,.quello di preparare e facilitare le decisioni del Consiglio, non ha però avuto molta più fortuna dei Ministri degli Esteri nell'altro compito, quello del coordinamento. Anche a livello burocratico infatti l'estendersi delle attività ha condotto al moltiplicarsi dei gruppi tecnici. Ciò rende di per sé il compito del COREPER pesante e complesso. Con l'andar del tempo alcuni di questi gruppi, come il Comitato Monetario e il Comitato Speciale Agricoltura, che si riuniscono a livello molto elevato, hanno assunto una autonomia quasi totale e provvedono di fatto in modo indipendente alla preparazione del Consiglio dei Ministri della Agricoltura e del Consiglio dei Ministri delle Finanze. Ma anche in altri settori, come quello dell'energia, la volontà di coordinamento del COREPER si è scontrata a serie difficoltà. A ciò si aggiunge il crescente peso del Comitato dei Direttori per gli Affari Politici, incaricato di preparare le riunioni della Cooperazione Politica. Si è così verificata la curiosa situazione per cui, mentre a livello politico (Commissione e Ministri) vi è ormai osmosi fra discussioni comunitarie e discussioni relative alla Cooperazione Politica, l'elemento più acuto di concorrenza si situa a livello di due organi che sono entrambi emanazione delle stesse burocrazie nazionali. Ciò ha condotto ad un certo rafforzamento della solidarietà fra la Commissione e il COREPER, percepito, fra i due Comitati, come quello più sensibile ad una visione « comunitaria » dei problemi. Un fenomeno che ha caratterizzato l'evoluzione del Consiglio nell'ultimo decennio è il peso crescente assunto dalla Presidenza. Attribuita ad ogni paese per periodi di sei


20 mesi, secondo unà rotazione alfabetica, essa doveva, all'inizio, avere una funzione puramente procedurale. Con l'andar del tempo, e parallelamente alla perdita di potere della Commissione, la Presidenza ha progressivamente assunto un ruolo sempre più importante di guida dei lavori del Consiglio, di mediazione e anche di iniziativa politica e di rappresentanza della Comunità verso il resto del mondo. Questa evoluzione ha caratteri positivi e negativi. Presidenze diplomaticamente abili e politicamente forti sono infatti spesso riuscite a contribuire alla soluzione di problemi delicati, compensando in alcuni casi la debolezza politica della Commissione. Inoltre il semestre di Presidenza è spesso un'occasione per avvicinare la Comunità all'opinione pubblica dello Stato in questione e di darne una immagine meno lontana e bu rocratica; ha anche facilitato la presa di coscienza, da parte di alcuni, della complessità dei problemi obbligando il Presidente di turno ad abbandonare, o almeno attenuare, certe rigidità nazionali per evitare che il semestre si concludesse in un insuccesso. D'altro canto, questo sistema ha accentuato; anche a causa della breve durata, la discontinuità del Consiglio sul piano procedurale, politico e dello stile amministrativo. Soprattutto nel caso di alcuni piccoli paesi il fardello amministrativo si rivela quasi insostenibile. .A volte, soprattutto nel caso di grandi paesi, il periodo di presidenza, a causa spesso di errori psicologici, ha piuttosto accentuato le diffi denze e le tensioni. Infine, quando la Presi denza coincide con particolari difficoltà interne, di carattere politico o elettorale, essa rischia di essere un fattore di paralisi. Questi inconvenienti sono difficili da correggere. La proposta di estendere il periodo ad un anno non pare utile, perché allungherebbe troppo la durata del ciclo di rotazione. Anche l'idea di estendere il citato metodo della « trojka » applicato alla cooperazione politica, è poco praticabile, poiché apparirebbe co-

me un tentativo di egemonià da parte dei grandi paesi. La crescente instabilità governativa di un gran numero di paesi, soprattutto quelli retti da coalizioni, ha infine posto pienamente in luce uno dei principali problemi del Consiglio: quello della mancanza di continuità. La girandola dei ministri, inevitabilmente ossessionati dagli sviluppi interni di breve periodo, ha reso via via più difficile il consolidarsi di quella rete di accordi e complicità personali, basati sulla reciproca fiducia, che sono il necessario presupposto di qualsiasi accordo multilaterale. In realtà il deterioramento del Consiglio, come pure il déclino della Commissione, dipendono solo in parte dai conflitto ideologico sulla natura delle istituzioni. Essi sono dovuti all'arresto della definizione di vere politiche comuni, cioè all'abbandono dello spirito del Trattatò, per far posto alla prati ca sempre più diffusa del semplice coordinamento di politiche nazionali, accompagnate da misure puntuali, spesso incoerenti fra loro. Ne è prova il fatto che l'unico Consiglio che ha mantenuto vivacità politica e capacità di decisione è quello agricolo, che è chiamato a decidere di una vera politica comune.. Un caso tipico di bloccaggio istituzionale provocato dall'arresto del dinamismo . dell'integrazione. è dato dal cosiddetto « problema britannico ». Come è noto, dopo la fine del periodo transitorio, la Gran Bretagna si è trovata nella situazione di «contributore netto » al bilancio della Comunità per somme simili a quelle della Germania, modeste in termini assoluti, ma non indifferenti rispetto al totale del bilancio comunitario. Questa situazione, obiettivamente delicata se si tiene conto del fatto che la Gran Bretagna non è fra i paesi più ricchi della Comunità, andava corretta. Per comprendere il problema bisogna però tenere conto della natura del bilancio della Comunità. Essa non


21 è una federazione, e tanto meno uno stato unitario; il suo bilancio, quindi, che del resto rappresenta a malapena l'l% del PIB totale, non ha, né può avere, effetti macroeconomici o fini di redistribuzione sociale; esso non è altro che il riflesso finanziario delle politiche decise in comune. Poiché la politica agricola, che è la sola vera politica comune, rappresenta circa due terzi del bilancio, è inevitabile che i paesi che per motivi strutturali non ne possono trarre grandi vantaggi siano pagatori netti. Questa situazione, che era nota al momento dell'adesione, poteva essere corretta solo in un modo: creando politiche comuni più rispondenti agli interessi della Gran Bretagna. Si trattava cioè di integrare questo paese nel « contratto » originario che, come •si è visto, comportava un insieme di impegni e di obblighi immediati, di aspettative su sviluppi futuri, di vantaggi non quantificabili, e di benefici di tipo squisitamente politico. Era questo del resto uno dei principali significati dell'ambizioso programma deciso a Parigi nel 1972. Come si è visto l'effetto dinamico non si è verificato, anche, ma non solo per colpa della Gran Bretagna. Il problema si è quindi ridotto alla sua dimensione finanziaria. Non potendo, o non volendo, trovare la compensazione nello sviluppo di nuove politiche la Gran Bretagna ha avuto davanti a sé solo due strade, rivelatesi entrambe vicoli ciechi: cercare di smantellare la politica agricola, po nendosi così in conflitto con gli altri Stati membri, e con la principale realizzazione della Comunità; oppure chiedere delle compensazioni finanziarie che, salvo abbiano un carattere transitorio, sono la negazione dei princìpi stessi che reggono il finanziamento delle politiche comuni e il sistema delle risorse proprie. La situazione di stallo che si è verificata ha a sua volta contribuito al bloccaggio delle decisioni, e quindi dello sviluppo delle nuove politiche; essa ha anche compromesso l'au-

mento delle risorse proprie della Comunità, già pericolosamente vicine al tetto dell'l% dell'IVA deciso nel 1970, che sarebbero necessarie per sviluppare le nuove politiche. Così un problema creato dall'arresto del di namismo, e che potrebbe essere corretto solo dallo sviluppo della Comunità, ha contribuito a rendere questo sviluppo ancora più difficile. E' signiflcativo che a queste contraddizioni del problema britannico siano legati due sviluppi molto importanti degli ultimi mesi: il primo legato all'interpretazione del « compromesso di Lussemburgo », il secondo, che discuteremo più avanti, al ruolo del Parlamento. Nell'aprile 1982 la decisione annuale sui prezzi agricoli era bloccata da un veto britannico legato non a questioni agricole ---- i ministri dell'agricoltura erano pervenuti ad un accordo unanime - ma al mancato accordo sulla compensazione finanziaria al Regno Unito per il 1982. Su proposta della Presidenza belga e della Commissione si decise di passare al voto. Il Regno Unito invocò l'interesse vitale, ma nonostante la Grecia e la Danimarca lo appoggiassero, i prezzi furono approvati a maggioranza. La Gran Bretagna considerò l'accaduto una grave violazione del « compromesso di Lussemburgo » e minacciò la crisi, che venne tuttavia evitata per l'intervenuto accordo sulla compensazione finanziaria. Ciò che rende la vicenda particolarmente interessante non è tanto il fatto che, per la prima volta, si sia votato su una questione importante, quanto l'atteggiamento francese. La Francia, infatti, artefice del compromesso di Lussemburgo, avrebbe potuto con la Gran Bretagna, la Grecia e la Danimarca, costituire una minoranza di bloccaggio. Sarebbe troppo semplice spiegare l'atteggiamento francese con una questione di interesse agricolo; se così fosse stato, questo paese, così attaccato alle questioni di prin-


22 cipio, avrebbe probabilmente preferito prendere atto dell'assenza di decisione e adottare misure nazionali. Se si pensa alle motivazioni della posizione francese durante la crisi del 1965, si possono invece tirare da quanto è avvenuto nel 1982 due conclusioni. La prima è che l'obiettivo politico di interrompere l'evoluzione in senso federale essendo stato raggiunto, una applicazione rigida del principio dell'unanimità non è più necessaria. La seconda è che, contrariamente alle aspettative francesi del 1965, la politica agricola si è consolidata ed è ormai difesa, nella sostanza, da nove paesi membri su dieci: ogni timore di restare in minoranza sui fondamenti stessi di questa politica è quindi del tutto ingiustificato. Il «compromesso di Lussemburgo » rischiava quindi di rivolgersi contro il suo obiettivo originario che era la difesa della politica agricola. Emerge così una interpretazione del « compromesso di Lussemburgo » del tuttp nuova, secondo cui col voto dell'aprile 1982 non si è voluto negare l'interesse vitale britannico, ma, poiché l'atteggiamento di questo paese creava un danno sproporzionato per gli agricoltori e costituiva un vero e proprio attacco alla politica agricola, si è voluto difendere l'interesse vitale della Comunità. Un processo politico analogo, anche se in effetti non si è passati al voto, è avvenuto nel dicenibre in occasione del rifiuto danese di accettare alcuni aspetti della politica comune della pesca.

IL PARLAMENTO EUROPEO

Il terzo elemento di novità intervenuto nel decennio riguarda il Parlamento Europeo. Come si è visto, questa istituzione aveva ottenuto nel 1970 alcuni poteri in materia di bilancio, poi rafforzati nel 1974 e accompagnati da una procedura di concertazione

non vincolante con il Consiglio per gli atti legislativi ad incidenza finanziaria. Tuttavia il fatto più importante è stata la sua elezione a suffragio universale diretto, decisa nel 1974 in concomitanza con la creazione del Consiglio Europeo ed intervenuta nel maggio 1979. Questo evento formalmente si presenta come una semplice attuazione di una disposizione del Trattato; in realtà rappresenta l'attuazione della disposizione più anomala e federalista, poiché costituisce l'introduzione, in un sistema basato sulla sovranità degli Stati, di una istituzione dotata di legittimità popolare diretta. Sarebbe troppo lungo tentare qui un'analisi dettagliata di questi primi anni di vita del Parlamento eletto. Ciò ci condurrebbe senza dubbio ad identificare notevoli errori ed insufficienze di comportamento e di organizzazione. Entro certi limiti ciò non deve sorprendere. Il Parlamento è un'istituzione gio vane, che rispecchia tradizioni parlamentane diverse, priva di poteri legislativi e di un governo da eleggere e controllare; esso non può quindi essere ricondotto ad alcuno dei due modelli conosciuti, né quello europeo, né quello americano. Manca soprattutto al Parlamento, del resto eletto con un sistema molto imperfetto e con una partecipazione popolare spesso nettamente inferiore alle medie abituali, quel tessuto connettivo rappresentato da una lingua ed abitudini comuni, da partiti consolidati, da un dibattito e una convivenza politica quotidiani: tutti elementi presenti nei Parlamenti nazionali. Manca in sostanza una « carriera politica europea »; la presenza al Parlamento europeo non è altro, nella situazione attuale della Comunità, che un momento, per alcuni lungo, di una carriera politica nazionale. Queste difficoltà sono inoltre accentuate dalla assurda dispersione dei luoghi di lavoro. E' del resto significativo valutare le tre possibili forme di aggregazione all'interno del


23 Parlamento: quella partitica, quella nazionale e quella dei difensori e degli avversari della sovranazionalità. La prima, formalmente l'unica accettata, si è rivelata in effetti la più debole. I Gruppi parlamentari, organizzati in generale per « famiglie » politiche plurinazionali gestiscono il potere interno all'jstituzione ma raramente riescono ad impoire una disciplina sufficiente nei voti sulle questioni concrete. Su queste ultime, i comportamenti riflettono invece molto spesso le appartenenze nazionali, più che quelle politiche, compresa, a volte, la sgradevole tentazione di riprodurre a Strasburgo dibattiti puramente interni agli Stati membri. E' sul piano istituzionale invece, quindi della concezione della Comunità, che si sono verificati i fenomeni più interessanti, che ora cercheremo di esaminare. Era del resto naturale che ciò avvenisse. Le carenze strutturali più gravi del Parlamento, l'assenza o la indifferenza dei leaders politici di rilievo, lo scarso peso dei parlamentari europei nei rispettivi partiti, il difficile rapporto coi parlamenti nazionali sono infatti problemi che non potranno essere risolti che nel lungo periodo e che sono legati allo sviluppo generale della Comunità. Il suo ruolo nel contesto istituzionale della Comunità è invece un tema concreto su cui il Parlamento eletto doveva misurarsi subito, se non voleva essere prematuramente schiacciato. I poteri attribuiti al Parlamento in materia di bilancio si sono rivelati più ricchi di virtualità di quanto molti avevano pensato in origine. Il Parlamento li ha approfonditi, interpretati e sfruttati con tenacia, incurante di turbare l'armistizio istituzionale e anche di interferire a volte nel difficile negoziato fra i Governi. La caparbietà con cui il Parlamento ha saputo affermare i suoi pochi diritti è stata seconda solo all'ostinazione con cui il Consiglio ha intralciato ogni tappa del cammino e ha cercato di vuotare di contenuto ogni concessione fatta. Ciò ha prodotto

di anno in anno una situazione di conflitto permanente intorno al bilancio. Non disponendo il Parlamento di poteri legislativi, e quindi della possibilità di influire sulla base giuridica della spea, i suoi margini erano molto ristretti, ridotti in pratica alle cosiddette spese « non obbligatorie », cioè quelle che non sono automaticamente determinate da atti legislativi. E' stato appunto sulla definizione di questa categoria di spese; e sul tasso massimo consentito per il loro aumento, che si sono verificati gli scontri più duri. Il risultato, raggiunto sia pure faticosamente, è che il Parlamento dispone ormai di un largo ed effettivo controllo sulle spese « non obbligatorie », la cui definizione si è andata peraltro allargando nel corso degli anni. L'evoluzione della spesa comunitaria, soprattutto agricola, ha fatto sì che il limite dell'l% della base imponibile dell'IVA, disponibile per finanziare il bilancio è ormai vicino. Ciò rende i poteri faticosamente conquistati dal Parlamento particolarmente fragili; esso ha reagito da un lato spostando l'accento sulla qualità della spesa, e non solo sull'aumento, e dall'altro facendosi il principale paladino dell'aumento delle risorse proprie della Comunità. Questa situazione ha inoltre spinto il Parlamento a dedicare sempre maggiore attenzione alla propria principale debolezza: la mancanza di poteri legislativi. La procedura di concertazione sugli atti legislativi a incidenza finanziaria ha prodotto modesti effetti. Nel cercare di influenzare le politiche che determinano la spesa, il Parlamento ha soprattutto rivolto la sua attenzione verso la Commissione, stimolandone, anche contestandolo, il diritto di iniziativa e difendendone, di fronte al Consiglio, le prerogative in materia di esecuzione della spesa. Tipiche a questo proposito sono le continue battaglie con tro l'istituzione di comitati il cui parere vincolante il Consiglio cerca costantemente di


24 imporre alla Commissione per l'esecuzione delle politiche comunitarie. Ma questa difesa della• Commissione di fronte al Consiglio non ha impedito al Parlamento di interferire, esso stesso, con le prerogative della Commissione, come nel caso delle vendite di burro all'Unione Sovietica. E' così emerso, tra le due istituzioni, un rapporto diverso da quello dei primi anni. All'inizio il Parlamento si era soprattutto assunto il compito di essere la cassa di risonanza• politica della Commissione, di cui condivideva la concezione di una Europa sovranazionale. Più recentemente, anche se permane una forte solidarietà fra le due istituzioni, si è sviluppato fra di esse e il Consiglio un vero rapporto triangolare. Questo rapporto stenta ancora a trovare un quadro stabile, e non solo per il permanente disaccordo circa la rispettiva sfera di competenza. Dal punto di vista delle strutture, la Commissione e il Consiglio, punte politiche di un grande iceberg burocratico, si sono formati e cresciuti per dialogare insieme. L'organizzazione del rapporto con il Parlamento, grande testa politica con un esile corpo amministrativo, si rivela molto difficile. Esistono anche particolari ambiguità nel doppio rapporto Parlamento-Consiglio e Parlamento-Commissione. Il Parlamento infatti si ostina a vedere il Consiglio esclusivamente 'come « l'altro ramo » della funzione legislativa, mentre questo ultimo si considera in realtà, essendo espressione di governi e non di Stati, soprattutto come partecipe, anzi detentore, della funzione di Governo. Rispetto alla Commissione l'ambiguità risiede nel fatto che, mentre il Parlamento non ha alcuna influenza sulla sua nomina, dispone invece di un potere di censura. Si tratta in effetti dell'unico importante potere che il Parlamento non ha finora esercitato, anche se a più riprese ne è emersa la tentazione. Varie ipotesi sono state formulate sulle cònseguenze che in-

terverrebbero per il sistema istituzionale se un simile evento si verificasse. Non ci dilungheremo su di esse poiché ci pare che tutto dipenda dal contesto politico e dalle particolari condizioni del momento. Bisogna però notare 'che si tratterebbe della messa in opera concreta della seconda importante « anomalia » di tipo federalista, oltre all'elezione diretta, che gli autori del Trattato introdussero nella filosofia funzionalista delle istituzioni. L'importanza di .questo nuovo rapporto triangolare è emersa con grande chiarezza nella recente vicenda del bilancio supplementare per il 1982 destinato alle compensazioni finanziarie del Regno Unito. Il problema, già trattato, dello squilibrio finanziario di cui soffre la Gran Bretagna era stato• provvisoriamente regolato nel maggio 1980 con un sistema di compensazioni. finanziarie, della durata di due anni, legate alla realizzazione in questo paese di programmi strutturali, peraltro definiti in modo alquanto generico. Alla Commissione era sta to dato mandato di studiare una soluzione definitiva. Le idee della Commissione, presentate nel 1981, riflettevano un approccio legato all'ortodossia comuùitaria: a lungo termine uno 'sviluppo delle politiche comunitane ed una revisione della politica agricola al fine di contenere la spesa; nel breve termine, un temporaneo proseguimento del sistema di' compensazioni. Le lunghe discussioni protrattesi fra i governi dall'inverno 1981 all'estate 1982 non consentirono né di ottenere alcun risultato apprezzabile in materia di sviluppo a lungo termine, né di raggiungere un accordo su un sistema di compensazioni temporanee e degressive.' Ci si ridusse quindi alla definizione di una compensazione per un anno rinviando a più tardi la soluzione definitiva. Si era anche prodotto un fatto nuovo: la Germania, ritenendo di sopportare un peso eccessivo nel 'finanziamento della Comunità,


25 che la conduce a operare trasferimenti anche a favore di paesi con un livello di prosperità simile al suo, era riùscita ad ottenere a sua volta una compensazione, o meglio un alleggerimento della sua partecipazione alla compensazione in favore della Gran Bretagna. La Commissione, che era stata parte attiva nella ricerca del compromesso senza il quale si sarebbe aperta una gravissima crisi fra la Gran Bretagna e la Comunità, propose il bilancio supplementare necessario a finanziare l'operazione. Il Parlamento che aveva, sia pure con malumore, accettato le compensazioni per gli anni precedenti, lo respinse a larga maggioranza. Compiendo questo atto il Parlamento non aveva la validità politica dell'accordo intervenuto fra i Governi; tuttavia al termine di un fallito tentativo di con• ciliazione in cui il Consiglio aveva mostrato una particolare mancanza di sensibilità, aveva fòrmulato, con la « risoluzione Barbarella », tre condizioni: che le spese fossero classificate «non obbligatorie »; che i programmi si inserissero in vere politiche comunitane; che il sistema di compensazioni fosse definitivamente sostituito da una soluzione conforme alle regole della Comunità. Queste tre condizioni esprimono con precisione il timore che il sistema- di compensazioni, ormai esteso alla Germania, si installasse definitivamente nella pratica della Comu nità, snaturandola e riducendo il bilancio ad un puro strumento di trasferimento. Come esempio dell'aberrazione di questa evoluzione, basti pensare che per trasferire alla Gran Bretagna gli 850 milioni netti di ECU pattuiti a livello politico, a causa di un complesso gioco di compensazioni e di rimborsi incroèiati, era necessario iscrivere in bilancio quasi un miliardo e mezzo di ECU: più dei fondi disponibili per pagamenti dell'intero Fondo regionale! Con sorpresa di molti la crisi è stata evitata. La' Commissione ha presentato un nuovo pro-

getto di bilancio, più conforme alle esigenze del Parlamento, soprattutto perché lega una parte della spesa allo sviluppo della politica energetica della Comunità. Il Parlamento e il Consiglio lo hanno approvato. Il miglioramento ottenuto dal Parlamento, anche se significativo, non rappresenta tuttavia il risultato più importante di questa vicenda, che si è pur sempre conclusa con l'approvazione delle compensazioni a Regno Unito e Germania. Ciò che conta è il significato politico. Il primo dato rilevante è che non si è trattato del classico conflitto fra Consiglio e Commissione, quest'ultima essendo spalleggiata dal Parlamento; la Commissione ha invece questa volta agito come vero e proprio mediatore fra Parlamento e Consiglio, impegnando la propria credibilità nei confronti di entrambi. Il secondo è che, essendo il Parlamento intervenuto in un terreno che coinvolgeva aspetti politicamente « vitali » dei rapporti fra i governi, questi ultimi hanno accettato di trattare. Il terzo è che il Parlamento è riuscito a creare le condizioni politiche che rendono la ripetizione di un sistema di compensazioni del tipo finora attuato molto difficile, se non impossibile; inoLtre esso ha vincolato la Commissione a proporre, ed il Consiglio almeno a discutere seriamente, sia lo sviluppo di nuovo politiche che l'aumento delle risorse proprie necessarie per finanziarle: tutte cose che il dialogo Commissione-Consiglio durato per tutto il 1972 non' era riuscito a produrre. Anche se è difficile dire per ora quali saranno i risultati del processo messo in atto, è innegabile che si tratta del successo concreto più importante ottenuto finora dal Parlamento eletto. Il modo con cui il Parlamento ha affrontato i problemi legati all'equilibrio istituzionale generale è stato, all 'inizio, più tradizionale, consistendo soprattutto nella partecipazione alla produzione dei numerosi «rapporti » di cui si è già fatto cenno. La lunga guerra di


26. trincea con il Consiglio sui problemi di bilancio e la generale stasi dell'equilibrio isti tuzionale hanno però fatto maturare una iniziativa radicalmente diversa. Su iniziativa del cosiddetto « club del Coccodrillo » creato da Altiero Spinelli, il Parlamento ha infatti approvato una risoluzione che istituisce una « Commissione istituzionale » incaricata di preparare un progetto di Trattato di Unione Europea che dovrebbe essere adottato prima delle prossime elezioni del 1984 e che dovrebbe costituire quindi una specie di manifesto di quella campagna elettorale. L'iniziativa ha la caratteristica di porsi esplk citamente in una prospettiva di superamento dei Trattati esistenti, sia sul piano delle isti tuzioni che su quello delle competenze, perché comprenderà anche le materie relative alla politica estera e alla difesa. Il Parlamento aveva del resto già tenuto ad affermare la sua competenza in questi campi, organizzando diversi dibattiti in proposito, nonostante il malumore iniziale di qualche governo. Tuttavia l'aspetto più interessante dell'iniziativa riguarda il metodo. Sul piano interno essa costituisce un tentativo, di cui è ancora prematuro prevedere il successo, di creare in seno al Parlamento un « partito federalista » che attraversa i gruppi, sia politici che nazionali, tradizionali. Si tratta anche di riproporre il metodo utilizzato trenta anni prima, senza successo, con « l'Assemblea ad hoc », incaricata di proporre il progetto di Comunità Politica. In sostanza il Parlamento, sfruttando la sua legittimità diretta, si pone come l'unica istituzione della Comunità capace di guardare oltre la Comunità; esso conferma così, in un certo senso, le profezie di quegli esponenti gollisti che si opposero alla decisione del Presidente Giscard d'Estaing di accettare le elezioni dirette perché queste avrebbero potuto mettere in moto un ingranaggio federalista molto più pericoloso di quello avviato dalla Commissione e bloccato nel.1965

LA COMMISSIONE

Rispetto alla vitalità del Parlamento sul piano dei rapporti istituzionali, l'evoluzione della Commissione apparè indubbiamente più opaca. Ciò mostra innanzitutto quanto il problema della legittimità sia al centro di ogni rapporto fra le istituzioni. Ma dipende an che da circostanze più complesse, legate alla specificità del sistema comunitario quale si è sviluppato dopo il 1965. Che un certo declino del ruolo della Commissione sia intervenuto a partire dal 1965 è innegabile. Come per le altre istituzioni, non ci interessa qui discutere i fatti contingenti o le vicende degli individui, ma cercare di identificare alcuni fattori obiettivi. Il primo è evidentemente costituito dall'interruzione del dinamismo istituzionale avvenuta nel 1965, su cui non torneremo. Tuttavia, il fatto che, dopo la realizzazione dei principali obiettivi del Trattato, la Comunità, sia di fatto rimasta senza un credibile programma di sviluppo a lungo termine può essere attribuito solo parzialmente alla responsabilità della Commissione. Nel sistema comunitario essa può stimolare e guidare la realizzazione di un programma comune; secondo la prima definizione che aveva tentato di dare di se stessa, essa può anche tentare di forzare la mano agli Stati accelerando l'evoluzione, ma non può in nessun modo sostituirsi all'assenza di un programma. La struttura è tuttavia tale che ogni insuccesso della Comunità diventa automaticamente l'insuccesso della Commissione, su cui pesano due compiti in parte contraddittori: quello di organizzatore del consenso degli Stati e quello, necessariamente in conflitto con il Consiglio, di promotore del rafforzamento della Comunità. L'ambiguità della sua posizione si è riflessa sull'esercizio del potere di iniziativa e quindi sul funzionamento del « metodo comunitario ». Secondo l'interpretazione ortodossa,


27 la Commissione, dopo averi effettuato approfondite consultazioni con le amministrazioni nazionali e con' gli ambienti economici e sociali .inieressati, presenta la proposta e met•te il Consiglio di fronte alle sue responsabilità: la funzione di iniziativa e di stimolo lascia allora il pàsto a quella di mediazione. La situazione creatasi dopo il' 1965 e.il progressivo incepparsi dei meccanismi del Consiglio, dove a volte gli, stessi esperti consuitati in precedenza bioccano .per mesi le proposte della Commissione, ha però prodotto una diffusa sensazione di impotenza della Comunità che, in definitiva, si rivolge contro la stessa Commissione, quali che siano le sue responsabilità oggettive. .Non vi è dubbio che in un certo numero di casi le proposte siano state, frettolose, mal concepite o irrealistiche. Più spesso. però l'ostacolo è.di altra natura. Un modo di rispondere a questa situazione è quello di una maggiore selettività, cosa. dei resto non facile di fronte a crescenti pressioni, tutt'altro che selettive, provenienti dal Parlamento Europeo. Si è così svilippata un'altra tendenza consistente nel sondare l'umore degli Stati con memorandum politici non impegnativi, e nell'attendere, prima di presentare la proposta formale, che un consenso maturi in seno al Consiglio. In molti casi questa tattica risponde a saggezza; essa evita infatti vistosi insuccessi o estenuanti .negoziati al termine dei quali la proposta originaria è del tutto snaturata. Essa rappresenta però una indubbia deviazione rispetto al ruolo di iniziativa previsto dal Trattato, poiché tende a coprire i conflitti piuttosto che a farli maturare attriverso un confronto aperto su una proposta precisa; permette anche agli Stati membri di evitare il più a lungo possibile di prendere delle responsabilità; è, infine, comprensibile che essa irriti il Parlamento che si sente ancora più escluso dal dialogo politico fra Commissione e Consiglio. Una parte del problema deriva dalla natura

stessa dell'istituzione. Nominata dai governi, ma responsabile di fronte al Parlamento, la Commissione ha inevitabilmente una doppia anima. Se i suoi membri trascurano le pro prie radici politiche, inevitabilmente anche nazionali, corrono il rischio di isolarsi dalla realtà e quindi di diventare improduttivi; se trascurano il proprio dovere di lealtà esclusiva all'interesse comune, rischiano di trasformare l'istituzioie in una ombra del' Consiglio. Nessun'altra istituzione politica si trova, nei nostri sistemi democratici, in una situazione di 'ambiguità così forte. Certo non si tratta di un caso del tutto isolato: la moltiplicazione delle lealtà è un 'fenomeno sempre più importante del mondo contemporaneo. La Commissione però è obbligata a vivere questa situazione in condi zioni particolari che derivano dalla sua struttura, dalla sua 'composizione e dal particolare tipo della sua legittimità. 'Come è già stato ricordato a proposito del Parlamento, non esiste ancora una carriera politica 'èuropea che conduce, o include, la funzione di Commissario. La composizione' della Commissione non riflette una qualsiasi scelta politica, ma risponde ad un rapporto predeterminato fra le nazionalità e riflette gli equilibri politici interni dei singoli pae'si; per i grandi paesi comprese, in generale, le forze di opposizione. Ciò la rende' certo più ,capace di comprendere e mediare fra interessi ed esigenze ,diverse, ma ne coinpromette in parte l'omogeneità e ne sbiadisce l'immagine politica. Caso unico, un Parlamento senza maggioranze definite si trova di fronte ad un esecutivo senza colore preciso. ' Questa situazione è estremamente difficile dà correggere. Un tentativo è stato fatto negli ultimi anni, decidendo che il Presidente della Commissione sia designato dal Consiglio Europeo con sufficiente anticipo perché possa da un lato prepararsi al suo compito, dall'altro partecipare alla scelta dei suoi col-


28 leghi. Gli effetti pratici non sono tuttavia stati molto grandi poiché i governi rifiutano di fatto interferenze esterne nella designazione della Commissione. Un'altra situazione complessa è quella legata alla natura collegiale dell'istituzione. Essa rappresenta un elemento importante tenendo conto del carattere multinazionale della Comunità; è molto difficile prevedere un accrescimento dei. poteri della Commissione senza le adeguate garanzie sul piano di una corretta applicazione del principio della col legialità. Tuttavia l'esercizio concreto della collegialità è reso difficile da un certo numero di fattori, che si sono recentemente accentuati. In primo luogo l'evoluzione del ruolo del Presidente. Questi, formalmente solo un primar inter pares, è in realtà l'unico Commissario nominato collegialmente dai governi; la nomina degli altri membri viene di fatto lasciata a decisioni nazionali. Inoltre, mentre la Commissione partecipa come istituzione alle riunioni del Consiglio, il Presidente partecipa in quanto tale alle riunioni del Consiglio Europeo. In secondo luogo la pratica di ripartire le responsabilità in seno alla Commissione,, sul modello dei Governi nazionali, in portafogli rigidi, si scontra con la realtà del carattere particolare ed evolutivo delle priorità nel lavoro cqmunitario. Inoltre il numero dei Commissari eccede nettamente quello dei veri « portafogli » ministeriali disponibili, situazione che si aggraverà con l'allargamento. Tutto ciò ha creato le premesse per una certa incoerenza organizzativa ed una frammen tazione nell'immagine esterna della Commissione. Forse in nessuna altra istituzione politica europea il ruolo delle qualità individuali è così importante come alla Commissione: questo non è necessariamente un elemento negativo, ma contribuisce a. rendere

più difficile' l'esercizio, e la 'presentazione esterna, della collegialità. 'Nonostante 'questè obiettive difficoltà, l'immagine accreditata di un netto declino, o persino 'di una caduta, della Commissione è tuttavia in gran parte inesatta. Hallstein 'si era sforzato' di porre le fondamenta di un'istituzione che aveva la dignità, lo stile e la credibilità, anche' se non i poteri, di •un Governo. Anche se' 'la crisi del 1965 ha interrotto 'questo processo; i successori di Hallstein sono riusciti in gran parte a conservare; per esempio rispetto ai paesi terzi, questa immagine di istituzione responsabile e credibile, capace di rappresentare l'Europa per le materie di' sua competenza. ' Sul piano internò se la Commissione' non è riuscita finora a promuovere lo sviluppo "di nuove politiche comuni, il suo ruolo' si è consolidato nella gestione di quelle esistenti e si è spesso rivelato indispensabile nella composizione dei conflitti interni' fra gli Stati membri. In realtà, se è légittimo lamentare gli scarsi progressi della Comunità, bisogna anche ammettere die 'n'essùn progresso è avvenuto 'senza, il concorso attivo e spesso determinante della Commissione Sul piano istituzionale infine, la Commissione non ha potuto annullare i risultati della crisi del 1965, ma'è riuscita, anche se lentamente, a recuperarè un certo numero di posizioni. In particolare è riuscita ad , inserirsi, tutto sommato con successo e superando grandi ostacoli, nell'evoluzione che, ha. condotto allo sviluppo della, cooperazione politica e allà creazione 'del Consiglio Europeo. Anche se permangono tensioni e diffidenze, l'accettazione del carattere necessario di una istituzione di tipo sovranazionale nel sistema comunitario è ormai universale e si estende fino ai più tenaci difensori della concezione intergovernativa.


'Un sistema bloccato

Vorremmò ora tentare di dare qualche risposta'alle domande poste all'inizio e; con molta prudenza, tirare delle conclusioni. Vorremmo innanzitutto rassicurare coloro che saranno legittimamente sorpresi dell'assenza, in questa analisi, di ogni rifèrimento alla Corte di Giustizia. Non si trattà di dimènticanza, né di una volontà di trascùrare una istituzione il cui ruolo è invece fondamentale. I limiti di spazio imposti ci obbligavano a fare una scelta e abbiamo dato la preferenza agli aspetti politico-istituzionali rispetto a quelli giuridici. Trattare della Corte avrebbe richiesto uno spazio molto più lungo e avrebbe condotto il ragionamento in direzione del tutto diversa. Quello creato dal Trattato non è un sistema istituzionale originale, dotato di un dinamismo proprio, ma un sistema spurio, necessariamente instabile. Una prima fase della vita della Comunità ha visto un vigoroso dibatti to, e un aspro scontro politico, il cui obiettivo era di chiarire il problema di fondo, quello della finalità ultima della costruzione europea. Questa fase si è risolta nel 1965 non su un accordo, né su un compromesso, ma sulla constatazione dell'impossibilità di risolvere il problema. Ne è risultato un sistema con crescenti caratteristiche intergovernative, ma obbligato a ricorrere a procedure ed istituzioni di tipo sovranazionale ogni volta che si è voluto attuare una politica comune o risolvere un delicato problema di mediazione multilaterale. Ciò che è stato messo in discussione non è tanto la concezione originaria dei Trattati, che riconosceva la sovranità degli Stati come base della legittimità comunitaria, quanto la loro interpretazione

dinamica verso un'evoluzioné di tipo federale. Si sono così realizzati i principali àbiettivi del Trattato; se ne è anche preservato, finora, l'essenziale nònostante le pressioni in senso' inverso derivanti dalla crisi economica e sociale degli anni Settanta. 'Vi è motivo di ritenere che ciò non sarebbe statò possibile se almeno i principali elementi 'della costruzione istituzionale originaria non fossero 'so pravvissuti 'alla crisi del 1965.' Nel frattempo molte delle' dispute degli anni Sessanta hanno trovato soluzione. Là competerza comunitaria è ormai, salvo frizioni occasionali, riconosciuta per la cosiddetta « zòna grigia » in campo economico e sòciale, ma in nessun settore si è potuto superare la fase del coordinamento e delle azioni puntuali per avviare politiche comunI che aves sero un' livello di integrazione paragonabile alla politica 'agricola. La cooperazione politica si è sviluppata indipendentemente dalla Comunità, ma con crescenti contatti con' essa; 'la Commissione vi partecipa ormai a pieno titolo esi è evitata la creazione di strutture antagoniste. Il Parlamento Europeo è stato eletto a suffragio universale e si è visto attribuire poteri in materia di bilancio che sono tuttavia disconosciuti, nei fatti, dai governi. Il 'Consiglio Europeo ha trovato il suo posto nel sistema, come unico organo capace di una sintesi politica globale. Come si vede,' l'evoluzione si è verificata in modo contraddittorio. Il sistema si è arricchito sul piano delle competenze, della legitkimità, 'del controllo democratico, ma si è degradato per, quanto riguarda la capacità di decisione. Le crisi degli anni Sessanta hanno visto un importante arretramento delle


30 istanze sovranazionali, ma non una sconfitta definitiva. Il dibattito si è in realtà spostato dal piano dell'equilibrio dei poteri a quello della natura e della finalità delle politiche comunitarie. La messa ii opera di vere politiche comuni privilegia infatti l'elemento sovranazionale, mentre soluzioni fondate essenzialmente sul coordinamento di politiche na zionali vanno piuttosto nel senso di procedure intergovernative. Che la Comunità sia oggi percepita come sempre meno « sovranazionale » dipende dal fatto che, negli ultimi anni, si sia scelta quasi sempre la seconda strada rispetto alla prima, più che da una vera e propria modifica dell'equilibrio istituzionale. Le principali vittime di questa situazione sono state le due istituzioni che erano al centro della tempesta: la Commissione e il Consiglio e, paradossalmente, il secondo più della prima. Ne è risultato, in definitiva, non un sistema stabile, ma un sistema bloccato. I responsabili politici sono stati spesso coscienti di questa situazione e hanno avviato le procedure più diverse per avere una risposta. Il risultato è stato costantemente lo stesso: il capitolo istituzionale, fiduciosamente aperto, è stato sempre frettolosamente ritichiuso. Sono mancate in generale iniziative radicali: unica eccezione, il rapporto della Commissione sull'Unione europea, come si è visto, di segno dichiaratamente federalista. Migliore fortuna non hanno avuto neanche le numerose proposte più moderate, che restavano ancorate al Trattato. I difensori dell'idea sovranazionale hanno pensato che i rapporti di forza erano. troppo sfavorevoli per correre il rischio di uscire dal sistema. Ma, dal punto di vista intergovernativo, anche i più modesti miglioramenti erano interpretati come un tentativo di riaprire le ostilità. L'armistizio faticosamente raggiunto è restato alla base del sistema, senza riuscire mai a trasformarsi in « pace istituzionale ». Entrambi i campi contrapposti si sono così ar-

roccati su un basso livello di ambizione, preoccupati più di impedire evoluzioni nel senso temuto che di promuoverle nel senso desiderato. Lo scarso vigore del', dibattito istituzionale dipende anche dall'evoluzione della posizione della Germania e dei piccoli paesi. Della Germania già si è parlato. Basti ricordare che l'effetto negativo più importante dell'arresto dell'integrazione sovranazionale è stato quello di riportare il problema nazionale al centro delle preoccupazioni tedesche. Non si può promuovere un'« Europa delle nazioni » e negare proprio ai tedeschi il diritto al sogno nazionale. All'inizio dell'avventura comunitaria i tre paesi del Benelux avevano mostrato di comprendere bene che il carattere sovranazionale delle istituzioni era la migliore garanzia per non restare schiacciati dal rapporto francotedesco. Essi avevano inoltre interpretato il loro ruolo in senso dinamico e attivo; a questa concezione si era sostanzialmente unita anche l'Italia. Se l'intesa franco-tedesca costituiva il pilastro ed il motore della Comunità, i « piccoli paesi » ne erano il cemento e l'indispensabile lubrificante. Con i due successivi allargamenti la situazione è cambiata.- I nuovi « piccoli paesi » erano ' tutti geograficamente marginali ed -estranei al travaglio - storico e politico che aveva condotto alla formazione della Comunità. Nel caso della Danimarca e poi della -Grecia -- la concezione istituzionale era del tutto opposta a quella del Benelux. Inoltre, la crisi economica e sociale degli anni Settanta ha - scosso e indebolito i sapienti equilibri politico-sociali su cui i « piccoli paesi » avevano in generale basato nel dopoguerra la loro forza e la loro prosperità. Nel momento in cui il problema della sicurezza è ritornato al centro del dibattito, questi paesi si sono mostrati più vulnerabili dei grandi » alle influenze pacifiste e neutraliste. Il loro ruolo politico nella Comunità si è quindi obiettivamente indebolito; la loro


31 posizione oscilla sovente fra l'espressione di una profonda inquietudine e la difesa ad ol tranza di uno status quo che, soprattutto in campo agricolo, ha spesso portato enormi vantaggi economici e finanziari. Questa analisi, certamente severa, delle istituzioni non deve tuttavia farci dimenticare un'altra considerazione Il bloccaggio delle istituzioni della Comunità è in realtà solo un capitolo, e non il più importante, della generale crisi che 'attraversano le istituzionidell'occidente democratico; è, ingiusto e irrealistico applicare alla Comunità standards qualitativi e di efficienza più severi di quelli, con cui si giudicano sistemi' nazionali, radicati nella storia e dotati di una legittimità incomparabilmente superiore. Scaricare sulle istituzioni le responsabilità degli insuccessi della Comunità significa in realtà chiedere troppo ad un 'sistema giovane e quindi necessariamente fragile. Resta da vedere quanto l'equilibrio sia duraturo. E' probabile che, a politiche costanti, le forze interessate alla conservazione della struttura istituzionale , attuale continueranno a prevalere su quelle interessate a cambiarla. La riserva, « a politiche costanti», ci pare tuttavia fondamentale e bisogna quindi verificarne la validità. L'armistizio istituzio nale degli ultimi diciassette anni ha potuto funzionare anche perché la particolare conce zione dell'economia mista che era alla base della ripartizione di competenze fra Stati e Comunità è restata dominante anche dopo' l'interruzione del dinamismo iniziale. Vi sono seri motivi per credere che questo equi librio sia diventato precario. Il « contratto » originario era fondato sul fatto che il peso specifico dell'intervento pubblico nell'insieme dell'economia, venti anni fa, rappresentava poco più del 30% del reddito nazionale della Comunità; oggi supera il 5096. Questa evoluzione si è'verificata in modo sostanzialmente analogo quale che fosse l'indirizzo ideologico dei Governi. 'Nei

due 'decenni trascorsi, l'espansione dell'intervento pubblico è stata dovuta soprattutto a motivi sociali; l'orientamento prevalente è oggi quello di una inversione di tendenza, che si scontra peraltro contro notevoli difficoltà. In tutti i casi l'intervento pubblico resta, nelle mutate condizioni economiche,' uno strumento essenziale di accompagnamento degli aggiustamenti strutturali necessari per ridare competitività all'economia europea. Gestire il « mercato» con strumenti che, con l'eccezione dell'agricoltura, non attribuiscono alla Comunità alcuna presa reale ' sull'intervento pubblico o, come alcuni dicono, pochi strumenti per promuovere l« integrazione attiva », si rivelerà quindi in futuro sempre più illusorio. La possibilità che la Comunità ha di coordinare o di in tervenire sulle politiche degli Stati poggia infatti interamente su un piccolo numero di articoli del Trattato, vaghi, mal definiti, e di controversa e difficile applicazione. Così gli artt. 103 e 90, che trattano rispettivamente della politica di congiuntura e delle imprese pubbliche sono restati praticamente inapplicati. Gli artt. 92, 93 e 94, che regolano la disciplina degli aiuti pubblici e sono basati sul principio che l'intervento pubblico sia l'eccezione si rivelano sempre più inefficaci in una situazione economica che vede tutti gli Stati sostenere massicciamente l'attività economica. L'art. 100, che regola l'armonizzazione delle legislazioni, è di pesante e controversa applicazione e permette di intervenire solo a posteriori; sfugge quindi in gran parte alla Comunità un'azione comune preventiva nei nuovi settori in cui i poteri pubblici sono spinti a intervenire dal progresso tecnologico e che celano i più gravi pericoli di protezionismo. La Comunità appare sempre più come un potere capace solo di opporsi alle iniziative nazionali, del resto con scarsa efficacia; e questo in una situazione di crisi in' ,cui l'opinione pubblica chiede invece' interventi attivi. Questa ca-


32 pacit'à di intervento attivo è quasi interamente affidata al ricorso dell'art. 235, quanto mai vago e controverso e comunque sottoposto all'accordo unanime degli Stati. I cosiddetti fondi strutturali, regionale e sociale, sono percepiti dagli Stati principalmente come strumento di trasferimento finanziario e sono comunque inadeguati rispetto ai principali problemi strutturali della Comunità. La stessa. erosione del peso delle competenze della Comunità si è verificata nel campo delle relazioni internazionali, con la perdita di importanza dei fattori tariffari e commerciali rispetto ad altri aspetti della cooperazione economica e, soprattutto, con l'irrompe. re crescente nei rapporti economici di fattori politici o strategici. Oltre a questi nodi, di carattere generale, ve ne sono' altri, pii specifici, che non possono in alcun modo essere risolti « a politiche costanti »: il nuovo allargamento alla Spagna e al Portogallo e, come si è visto, il cosiddetto « problema britannico ». L'equilibrio fra competenze della' Comunità e competenze degli Stati deve quindi in qualche modo essere modificato per tenere conto delle ' mutate condizioni. Ciò può 'ovviamente avvenire in due direzioni. La 'prima è quella 'del trasferimento, o messa in comune, di nuove 'parti di 'sovranità in settori in cui la dimensione nazionale si rivela inadeguata e si può trarre un 'beneficio netto dell'azione 'comune. Tuttavia, se questa evoluzione sarà bloccata, poiché la realtà non tollera vuoti di potere, gli Stati, anche quelli meglio disposti verso la Comunità, saranno obbligati a riappropriarsi di parte della libertà d'azione perduta. Si accelererà quindi il processo, in parte già iniziato, di erosione delle competenze comunitarie e di 'pariale rinazionalizzazione delle politiche comuni. La difficoltà di raggiungere un nuovo -consenso 'sugli obiettivi della Comunità è ag-

gravata dalla crescente divergenza fra gli Stati, sia sul piano strutturale che su quello politico. Sul piano strutturale il primo allargamento ha già introdotto una importante anomalia, la Gran' Bretagna, nella politica agricola; una Comunità a dodici conoscerà differenze enormi sul piano delle strutture industriali, economiche e sociali.' Sarà quindi sempre più difficile trovare soluzioni applicabili in modo uniforme. Ma le divergenze più gravi riguardano i temi politici e, soprattutto, la concezione stessa della Comunità. E' un fatto che, a dieci anni dal primo allargamento, i nuovi membri non hanno ancora pienamente assimilato la concezione di una Comunità' alla cui fondazione non hanno' partecipato e di cui non hanno potuto godere i frutti negli anni di maggiore' sviluppo.' Anche chi, come noi, crede che la loro appartenenza all'Europa sia irreversibile, non può' fare a meno di constatare la differenza: da un lato un'opinione pubblica fondamentalmente favorevole alla costruzione europea e' un modo di affrontare la Comunità certo non privo di conflitti, anche aspri, ma ricondu cibile quasi- sempre, come si è visto, ad un « dibattito di famiglia »; dall'altro, un'opi nione pubblica' ancora divisa ed una diffiàltà permanente, non importa se oggettiva ò soggettiva, ad adattare le proprie struttùre' alla realtà comunitaria: Tutto lascia pensare' che questi problemi si riproporranno, anche' se in termini' diveri, col nuovo allargamento. Questa contraddizione tra la lentèzza del processo di adattamento dei nuovi venuti e la necessità di progredire deve in qualche modo essere affrontata. Per tentare di 'rispondervi è nato ormai' da tempo un dibattito, rilanciato recentemente' da Antonio Giolitti, sulla giustificazione 'del criterio che tutte le politiche comunitarie siano applicate in modo uniforme e da tutti i paesi membri. A questo dibattito, iniziato come 'è noto col rapporto Tindemans, sono state applicate varie etichette, « dué veloci-


« geometria variabile », ecc.; l'ambiguità dei termini utilzzati contribuisce già in sé a complicano. Un certo consenso esiste ormai per ritenere necessaria una più grande flessibilità, o « differenziazione » nell'applicazione delle politiche comunitarie. Più difficile è l'ammissione del principio che le politiche comuni possano non :applicarsi ad uno o più Stati membri. Di questa eventualità sono state date varie interpretazioni, di cui due ci sembrano particolarmente pericolose. La prima, che si può desumere dalla lettura del rapporto Tindemans, individua l'elemento discriminante nella capacità economica di assumere impegni; la seconda, in genere di origine francese, vede lo sviluppo della Comunità come una rete di progetti puntuali con partecipazione. variabile. Entrambe le prospettive rappresentano la negazione stessa del concetto di Comunità. La realtà mostra tuttavia che un certo numero di iniziative importanti già ora implicano la rinuncia alla partecipazione unanime. Ma esse si sono sviluppate o ai margini del Trattato, come .il Sistema Monetario Europeo, o mediante vere e proprie acrobazie .giuridiche, come la non partecipazione, prima dell'Italia e dell'Irlanda alle sanzioni contro l'Argentina, poi della Grecia e quella contro l'URSS. Poiché è prevedibile che le occasioni in cui l'accordo unanime è impossibile si moltiplicheranno in futuro, la scel ta rischia di diventare sempre più quella fra accordi parziali al di fuori delle istituzioni o l'assenza totale di decisiòne. Né giova rispondere auspicando un più grande ricorso al voto maggioritario. Se ciò ha un senso per decisioni prese all'interno di politiche già definite, non ne' ha alcuno quando si tratta di decidere della definizione di politiche nuove che nessuno Stato sovrano può accettare di vedersi imposto da una maggioranza. Ci sembra quindi inevitabile che un nuovo « contratto » comunitario dovrebbe in-' cludere, oltre ad una 'sfera di obblighi asso-

lutamente comuni, compreso evidentemente ciò che è stato finora realizzato, anche una sfera di possibili politiche la cui attuazione non richiede necessariamente la partecipazione unanime fin dall'inizio. Un simile sistema potrebbe probabilmente funzionare e contni buire al progresso della Comunità, a quattro condizioni: che la « sfera » comune sia sufficientemente ampia; che le decisoni siano in tutti i casi prese dalle istituzioni della Comunità e che queste siano sufficientemente forti per compensare le spinte centrifughe; che un consistente « nucleo duro » di paesi sia presente in tutte le politiche; che esistano procedure e strumenti atti a facilitare la progressiva integrazione dei membri assenti. Quali sarebbero le implicazioni di un nuovo « contratto » per la struttura istituzionale? Se il nuovo equilibrio sarà trovato nel senso di una « ninazionalizzazione » anche parziale di quanto finora realizzato, è probabile che il sistema sarà lasciato più o meno immutato; si vorrà infatti evitare l'ulteriore trauma del ridimensionamento di istituzioni ormai in parte inutili e si preferirà lasciare avvizzire i rami secchi invece di tagliarli. Quali sarebbero invece le conseguenze, per le istituzioni, di un nuovo significativo progresso dell'integrazione attraverso lo sviluppo e l'approfondimento delle politiche comuni? A questo proposito è possibile formulare due ipotesi. La prima riguarda uno sviluppo di nuove politiche settoriali, in conformità con il mode!lo del Trattato. In questo caso il problema istituzionale si porrebbe in termini quantitativi, per così dire di « capacità di assorbi mento », e non di salto di qualità. La Comunità resterebbe un'organizzazione di Stati sovrani, depositari della legittimtà, che delegano una piccola parte della propria sovranità ad istituzioni comuni; tuttavia almeno alcune delle disfuzioni attuali dovrebbero essere corrette


34 I già citati rapporti dell'ultimo decennio sono ricchi di suggerimenti di possibili miglioramenti. Ci limiteremo qui all'identificazione di alcuni nodi che ci paiono fondamentali. Si tratta innanzitutto di ridare vitalità e capacità di decisione al Consiglio. Il voto sui prezzi agricoli dell'aprile 1982 ha creato un clima nuovo sul «compromesso di Lussemburgo» che va sfruttato e approfondito. L'in-. segnamento da trarne è che il problema non è tanto di definire la nozione di « interesse vitale », che deve necessariamente essere lasciata ai paesi interessati, quanto di stabilire il principio 'che l'interesse vitale di un paese può essere preso in considerazione' solo se non si scontra con un interesse vitale della Comunità. L'apprezzamento di quest'ultimo non può che essere collettivo e deve evidentemente anche tenere conto delle conseguenze che un voto potrebbe, in 'determinate circostanze, avere sull'appartenenza stessa alla Comunità del paese minorizzato. Una più corretta applicazione del « compromesso di Lussemburgo » dovrebbe così permettere un ricorso più sistematico al voto nei" casi previsti dal Trattato. Tuttavia un simile sviluppo risolverebbe solo una parte dei problemi. L'evoluzione concreta della Comunità ha fatto sì che la filosofia che ha presieduto, nel 1957, alla definizione dei casi che prevedono la maggioranza e di quelli che prevedono l'unanimità ab-' bia in parte perso di significato. Un certo numero di decisioni, per esempio nel quadro dell'art. 100 o dell'art. 235, che richiedono l'unanimità, rientrano in realtà, nell'ambito della semplice applicazione di decisioni di principio già prese. Per questi casi, merita quindi di essere presa in considerazione una proposta, recentemente formulata dalla Com-, missione nel quadro dei negoziati di allargamento, di modificare il Trattato in modo che i casi di applicazione della maggioranza siano estesi a condizione ,che il Parlamento si sia anch'esso espresso positivamente con lar-

ga maggioranza sulla decisione in questione. Impossibile ci. sembra invece, nello stato attuale della Comunità, prevedere che il voto a. maggioranza possa 'essere utilizzato per deci-' dere della'messa in opera di nuove politiche.' Per evitare bloccaggi di questo tipo' l'unica soluzione' ci sembra essere il ricorso a' formule di « differenziazione » già. discusse in precedenza. Una simile evoluzione in seno al Consiglio contribuirebbe già di per sé a ridare vigore e credibilità al diritto di iniziativa della Commissione; tra l'altro le disposizioni dell'articolo' 149 riprenderebbero il loro senso origi-. nano. Un progetto sostanziale sarebbe però indispensabile anche su un altro terreno, spesso oggetto di dichiarazioni di principio costantemente inattuate; quello della delega, di poteri . esecutivi alla Commissione, eventualmente accompagnata da un ricorso più. largo al diritto di appello al Consiglio. Le idee, a volte discusse sulla procedura di. nomina della Commissione e sul ruolo che il Parlamento potrebbe esercitare a questo' proposito ci trovano invece francamente me-, no interessati. Modifiche simboliche o, formali non avrebbero alcun valòre pratico. Cambiamenti sostanziali solleverebbero il pro-, blema della legittimità politica della Commissione e quindi della sua « vocazione » ad essere il Governo dell'Europa; ciò condurrebbe a riaprire la sostanza del dibattito isti•• tuzionale, in condizioni che noti ci paiono. realistiche. ' Il problema dell'efficienza e del funzionamento interno della Commissione è invece grave ed' urgente. A questo proposito la proposta di ridurre, in occasione dell'allargamento, il, numero dei Commissari merita almeno di essere esaminata. Bisognerà inoltre ridare un senso alla nozione di « politica comune » e restituire al bilancio della Comunità la sua vera funzione:.' quella' di strumento' operativo delle politiche. comunitarie' 'e non di perequazione finanzia-


35 ria. Eiste nella Comùnità anche un'ampia sfera di materie che non sono mature per essere gestite in comune, ma ove una coòperazione o un coordinamento possono 'essere utili e necessari. Stabilire una distinzione più chiara e trasparente fra queste due sfere d'attività permetterebbe di eliminare un certo: numero di malintesi, a volte incoraggiati dal velleitarismo con cui si è tentato in alcuni casi di forzare la mano agli Stati senza che decisioni chiare di principio fossero sta te prese. E' infine essenziale porre le premesse per una « pace istituzionale» fra Parlamento e Consiglio. Ciò implica soprattutto la rinuncia da parte di quest'ultimo alla tentazione costan te di negare nei fatti l'aumento di competenze ottenute dal Parlamento nei testi giuridici e negli accordi politici. La riforma' del sistema di risorse 'proprie e la messa in opera di nuove politiche potrebbe essere l'occasione per superare, almeno in parte, il vecchio dibattito su spese « obbligatorie » e « non obbligatorie » associando entrambe le istituzioni ad una programmazione pluriennale della entrata e della spesa. Quanto detto si fonda sull'ipotesi di uno sviluppo delle politiche comunitarie secondo il modello del Trattato. Questa ipotesi può apparire a molti già sufficientemente ambiziosa al punto da essere quasi irrealistica. Altri potrebbero però, a nostro avviso legittimamente, fare una obiezione di segno contrario. Ci si potrebbe infatti interrogare sulla credibilità di uno sviluppo di politiche settoriali nel contesto economico e politico attuale. Sul piano economico sarà difficile evitare lo scoglio della divergenza delle politiche monetarie e di quelle economiche generali. Lo sviluppo di politiche settoriali può contribuire a rafforzare la convergenza, ma non può esserne lo strumento principale. Per quanto riguarda la politica economica generale e quella monetaria, il passaggio dallo stadio

attuale di coordinamento a interventi più vincolanti o, per lo SME, il passaggio alla cosiddetta « seconda fase », implica dn trasferimento di sovranità difficilmente concepibile nel quadro delle istituzioni attuali. Ma c'è di più. Il mutato clima internazionale ha riportato al primo posto delle preoccupazioni degli europei un tema da lungo tempo dimenticato: quello della sicurezza e della difesa. Se gli europei, o alcuni di essi, dovessero a lungo rifiutare di integrare pienamente questi problemi nel sistema della Cooperazione Politica, ciò non mancherebbe, alla lunga, di avere conseguenze 'negative e forse fatali sulla coesione e sulla sopravvi. venza stessa della Comunità. ,Ma è anche possibile che, in, qualche modo, questo passo fondamentale venga compiuto. E' probabile che in questo campo, còme pure in quello della politica economica generale e della moneta, una lunga fase di coordinamento e di cooperazione intergovernativa sarà necessaria prima di poter concepire strutture più vincolanti. Tuttavia, ad un certo punto l'Europa si troverà di fronte ad un salto di qualità che non potrà essere affrontato con i raffinati gradua. lismi del metodo comunitario. Se la sovranità econonica è, in parte, divisibile, quella monetaria ed ancor più quella militare, o come diceva De Gaulle, « l'essenziale », non lo sono. In questo caso si riproporrebbe il problema, eluso al tempo del CED e poi di nuovo al tempo delle crisi col gollismo: quello della legittimità e dell'autorità delle istituzioni. E' difficile credere che la soluzione potrebbe essere trovata nel sistema previsto dal Trattato, prospettando un « ritorno alle origini », che non risolverebbe il problema fondamentale della legittimità. Altrettanto impercorribile ci sembra la strada di un rafforzamento delle strutture intergovernative di cui l'isti tu2ione del Consiglio Europeo rappresénta, come si è visto, il limite invalicabile.


36 Resta l'ipotesi di riproporre un'interpretazione evolutiva delle istituzioni attuali in senso federale. Brutalmente scartata negli anni Sessanta, questa ipotesi appare ancora più aleatoria oggi che le istituzioni in questione hanno perso molto della loro originaria credibilità. Di fronte a queste incertezze, e alla stanchezza delle soluzioni tradizionali, si potrebbe quindi ripresentare per i federalisti l'occasione perduta al tempo della CED, e mai da allora ritrovata, di proporre soluzioni radicalmente nuove. L'esame delle probabilità che un simile scenario si verifichi ci sembra appartenere al regno della pura divinazione, dove quindi non ci avventureremo. Più interessante ci sembra, per concludere, chiedere come il processo di definizione di un nuovo « contratto », poiché da lì tutto deve partire, può essere avviato. Due possibilità ci sembrano ovvie. La prima fa ricorso ai depositari ultimi dell'attuale legittimità politica: gli Stati. Ma un negoziato collettivo fra Stati può essere l'occasione per ratificare e precisare un disegno globale, non certo per elaborano e proponlo. Questo non può che essere il compito di un paese, o gruppo di paesi. Bisogna però constatare che non si vede ancora chi potrebbe assumere

oggi il ruolo che fu di Schuman all'inizio degli anni Cinquanta. L'altra strada percorribile parte dall'iniziativa presa con l'istituzione già ricordata dalla Commissione istituzionale ad hoc del Parlamento Europeo; Al momento di concludere questo scritto non è dato di sapere quale. orientamento definitivo prenderanno i. suoi lavori. E' tuttavia prevedibile che essi avran no un certo tono federalista ed un forte accento sul ruolo dell'istituzione parlamentare. Il contenuto preciso delle proposte che ne usciranno ci sembra tuttavia meno importante del processo che esse possono mettere in moto, essendo il Parlamento l'unica istituzione la cui legittimità, anche se limitata, non è derivata dagli Stati, e la cui vocazione va per definizione oltre l'attuazione del Trattato. Abbiamo iniziato questo scritto con un riferimento alle aspirazioni della maggioranza dei cittadini della maggioranza degli Stati membri. Questi stessi cittadini saranno chiamati nel 1984 a rieleggere il Parlamento Europeo. Per quest'ultimo sarà la prova cru cle dell'esistenza stessa della sua legittimità popolare. Per i suddetti cittadini sarà l'unica possibilità loro offerta di esprimersi, o di non esprimersi, sul futuro dell'Europa. Sarebbe molto grave se si trattasse di un appuntamento mancato.

L'autore è funzionario della Commissione della Comunità Europea, ma si esprime qui a titolo perso. nale. Le opinioni espresse in questo scritto non possono in alcun modo essere attribuite all'Istiti.i2ione a cui l'autore appartiene. 4,


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