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queste ostituzioni 1983/1° trimestre
POLITICHE DELL'OCCUPAZIONE E POLITICHE SINDACALI
5/ Le misure speciali in favore dell'occupazione in Gran Bretagna: una valutazione critica
di David Metcal/ 29/ I nodi della contrattazione sindacale prima e dopo l'accordo deI 22 gennaio
di Giuseppe Berta
Appaiono cenni di ripresa dell'economia mondiale in questa primavera 1983. E tuttavia nessuna tranquillità riemerge in tema di occupazione. Molti ambienti dello stesso establishment si chiedono con preoccupazione se la ripresa farà regredire le ci/re della disoccupazione, in quale misura e per quanto tempo. E' convinzione diffusa che le ragioni della disoccupazione siano profonde e difficili da rimuovere: che il sistema economico sia, in sostanza, in una fase di mutazione della propria dinamica strutturale. La disoccupazione è dunque lo spettro che percorre il mondo occidentale. Forget Fuil Employment! annuncia la copertina di un recente numero della « New York Review of Books ». L'ampio dibattito sviluppatosi intorno alla natura delle cause dell'attuale disoccupazione e delle conseguenze di ordine sia economico-produttivo che sociale che tale fenomeno comporta, ha trovato concordi tutti forze politiche, sindacati, studiosi - almeno in questa preoccupazione di fondo. Ma rimane invece, se non meno esplorato, certo fortemente controverso e dibattuto il tema delle modalità d'intervento e delle misure necessarie per muoversi nella direzione di una soluzione. In Italia, il dibattito sulle politiche per l'occupazione - la cui necessità è stata recente-
2 mente avvalorata dai risultati dell'indagine ISTAT sulla disoccupazione - ha avuto eco anche all' interno del docìimento di accordo tra le parti sociali del 22 gennaio scorso. L'accordo tra sindacati, imprenditori e. governo, nella parte più specificatamente dedicata a questo aspetto, sembra recepire, anche se talvolta in allùsivo, tilcune delle tenden ze emerse a livello europeo, miranti a favorire un aumento di occupazione e ad eliminare le carenze e le distorsioni nel funzionamento del mercato del lavoro attraverso una sua riarticolazione: vengono infatti privilegiate forme di intervento volte più, selettivamente, a modificare la domanda e l'offerta di lavoro, che all'adozione di politiche espansive generalizzate. Il contenuto del decreto n. 17 del 29 Gennaio, che ha tradotto in legge l'accordo, affronta dunque alcuni dei punti nodali del mercato del lavoro in Italia. L'accento più forte viene indubbiamente posto sulle misure relative alla disciplina del collocamento e, all'interno di questo, ampio spazio viene dato all'attuazione di contratti di formazione per i giovani tra i 14 e 29 anni. Tale provvedimento, unitamente alla possibilità accordata alle imprese, per l'anno in corso, dell'assunzione nominaliva per la metà della richiesta numerica, dovrebbe far sì che vengano a cadere quelle rigidità e quei vincoli da cui è carat: terizzato il nostro mercato del lavoro. Una maggiore elasticità ed un adattamento degli abituali schemi e degli strumenti di intervento fin qui adottati sono oltretutto necessari se si considerano le modificazioni verificatesi all'interno della struttura sociale e i bisogni e i valori che ad esse si ricollegano. Nuove forme di occupazione sono dunque necessarie se si vuole soddisfare una diversa offerta; nuove forme però che potrebbero anche rappresentare, se applicate adeguatamente, un avvio di soluzione al pròblema « disoccupazione »: si inserisce in questa direzione « l'ampliamento delle possibilità di ricorso a forme di occupazione a tempo parziale ». Appare sempre più evidente infatti - ed è stato sottolineato anche da recenti indagini, ultima in ordine di tempo quella curata dal CESPE - come non sia più possibile distingue-
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3 re nettamente tra occupati e disoccupati, tra coloro che partecipano al processo produttivo e coloro ch,e ne sono, più o meno involontariamente, estromessi. Soprattutto la componente giovanile della forza-lavoro sembra essere più incline verso .f orme di partecipazione al. lavoro più flessibili' che, mentre non riescono ad essere rilevate compiutamente (per, esempio nelle indagini ISTAT), costituiscono evidenti segnali di un modo nuovo di porsi quali agenti attivi del processo produttivo. . E' indubbio, . comunque ch.e la riduzione della disoccupazione, intesa qui in. senso stretto, richiede l'adozione di misure che non esauriscano la loro azione in. un breve arco temporale, o rappresentino forme fittizie di soluzioni destinate a gravare sullo Stato, ma che ccistituiscano invece la base di un intervento più. duraturo sul mercato del lavoro, capace di arginare anche nel lungo periodo la mancanza di lavoro e far fronte alle difficoltà legate. all'introduzione sempre più intensa di nuove tecnologie. La riduzione dell'orario di lavoro -. vista qualche tempo addietro come l'obiettivo . di una maggiore « libertà » dal lavoro - sembra assumere adesso il ruolo di principale strumento nella lotta alla disoccupazione. La riduzione di 40 ore nel monte-ore annuo proposta nel documento di gennaio, ma, che si• realizzerà pienamente soltanto nel 1985, non può essere ovviamente considerato il nucleo di una strategia che leghi la creazione di occupazione ad una riduzione dell'orario di lavoro, poiché molti sono ancora i dubbi legati a questa misura. Essa si inserisce 'però in una generale linea di tendenza che accomuna tutti i paesi europei. L'esigenza di dare. risposte al problema occupazionale riguarda un po' tutti i paesi europei. 'e sta impegnando le energie di vari. organismi operanti in sede internazionale. Tra gli interventi più recenti in materia di occupazione può essere citato il seminario organizzato a Copenhagen nel giugno 1982 dall'European Centre for Work and Society, sul tema « Employment Generation in 'Europe ». Si è trattato di un utile contributo alla conoscenza delle politiche occupazionali adottate nei singoli paeii europei. Dalle relazioni svolte al seminario è emerso come siano ancora preferite le misure' tendenti alla creazione diretta di nuovi posti di lavoro. Emblematico, in questo senso, il caso del Belgio. La consapevolezza che non sia possibile, attualmente, una relazione che leghi sviluppo e occupazione sulla base di politiche genericamente espansive, ha indòtto ,il governo belga ad adottare una politica di creazione 'diretta di posti di lavoro attraverso la costituzione di un « terzo settore » di occupazione permanente, distinto sia dal settore privato che da quello pubblico. Scopo principale di questo nuovo « circuito del lavoro » è fornire occupazionè ai disoccupati cosiddetti' strutturali 'e 'sviluppare contemporaneamente un programma di servizi di utilità sociale" 'che soddisfino le nuove eiigenze emergenti , della collettività. Le attività interessate - nel campo del miglioramento ambientale, come nell'educazione o nell'assistenza sociale, ma sempre rigorosamente labour-intensive per il loro particolare aspetto non-pro fit comportano uno scarso interesse da parte del settore privato, mentre sarebbero, più facilmente inquadrabili in un programma del settore pubblico. La volontà di evitare che i servizi pubblici assumano il ruolo di cuscinetto com pensatore, dilatandosi o contraendosi in relazione alle esigenze dell' ammontare della disoccupazione, spiega la preferenza per questa formula. Una formula per l'occupazione che, alle ggerita di vincoli e rigidità derivanti dalla sua natura « pubblica », dovrebbe costituire i' essenziale strumento per cogliere e aggredire i diversi aspetti dell'aggregato « disoccupa-
4 zione. L'esperienza danese riprende alcune delle proposizioni presenti nella impostazione del governo belga, ma allarga il raggio di azione delle politiche per l'occupazione. Da una parte, infatti, sono stati attuati progetti specifici miranti ad aumentare la domanda di forza-lavoro riferita a particolari gruppi, come ad esempio i giovani e i disoccupati da ùn lungo periodo di 'tempo: un simile programma, insieme a schemi di qualificazione e riquali-' flcazione della manodopera, ha, tra l'altro, la funzione di far aderire l'offerta' di forza-lavoro alla domanda. Dall'altra, è stato adottato un approccio più generale volto a incidere sui livelli occupazionali 'attraverso la riduzione dell'offerta di' forza-lavoro. Si tratta principalmente dell'introduzione dello schema di pensionamento anticipato volontario, che' ha consentito la riduzione della disoccupazione nel 1981 di circa il 29ó della forza-lavoro, e di altre misure quali- il prolungamento del periodo cli ferie e di maternità. La riduzione dell'orario di lavoro non viene invece ancora pienamente realizzata, né in questo paese né negli altri, in ragione delle incertezze e delle difficoltà che essa comporta dal lato dei costi. E' questo, 'infatti,- il punto più controverso di una- misura che tuttavia potrebbe diventare entro breve tempo una scelta obbligata, almeno per i paesi europei, non potendo essere adottate a- lungo misure esclusivamente « temporanee ». Alcune delle politiche alternative rispetto alla riduzione dell'orario 'di lavoro, e che avrebbero ugualmente un effetto permanente sull'occupazione - come ad esempio il prepensionamento -' comportano d'altra parte grandi difficoltà in relazione all'incremento conseguenziale dei disavanzi pubblici previdenziali. E' evidente dunque, come la complessità del problema occupazionale e della sua soluzione risieda principalmente negli effetti collaterali delle specifiche politiche adottate soprattutto per quanto riguarda gli oneri, diretti o latenti, sulla finanza pubblica. Il dilemma fondamentale della poli/ica per l'occupazione - se vogliamo prescindere dal problema già, segnalato di come far fronte àll'ipotesi della rilevante accentuazione della caduta strutturale dell' occupazione - pare questo: se nel breve periodo ci siano possibilità di tamponamento della disoccupazione solo in termini di misure macroeconomiche refiazioniste o espansioniste ovvero se ci siano misure speciali in favore dell'occupazione entro certi limiti neutrali nei confronti delle linee di politica macro e comunque tali da consentire un mix di interventi non incoerenti con la politica economica generale. Su questo tema ci pare interessante riprendere dalla « Midland Bank Review » l'articolo di D. Metcalf. La rassegna del caso inglese - che s'in quadra nel lavoro del gruppo CLARE di cui fanno parte oltre a D. Metcalf anche A. Cairncross, J.R. Sargent, R.C.O. Matthews ed altri studiosi - è importante anche, e soprattutto, nella prospettiva del passaggio dalla linea laburista di politica dei redditi a quella monetarista e di rigido controllo del disavanzo pubblico che è propria del governo conservatore guidato dalla Thatcher. L'orientamento dell'A. è chiaramente per una politica macro refiazionista. Egli tuttavia compie una valutazione interessante e puntuale delle singole « misure speciali ». Daniela Rossi
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Le misure speciali in favore dell'occupazione in Gran Bretagna: una valutazione critica di David Metcalf
Nel Regno Unito la disoccupazione, aumentata sei volte dal 1973 in poi, è raddoppiata nel corso degli ultimi due anni'. Le cause di un aumento così rilevante sono state da molti attribuite ora ad un aumento del tasso di disoccupazione di eqùilibrio, cioè del tasso calcolato indipendentemente dalle fluttuazioni della domanda, che è salito dal 4% del 1969 aI 6% del 1979; ora ai problemi posti da un necessario processo di riconversione industriale e da una di minuzione dei profitti. Non ultima, è stata anche sottolineata una minore tendenza dei lavoratori ad offrirsi sul mercato del lavoro. Ma a tali fattori non può di certo essere attribuito l'aumento di i milione e mezzo di disoccupati che si è verificato nei sedici mesi chè vanno dal maggio 1980 al settembrè del
1981. In realtà la causa principale di un così forte aumento della disoccupazione risiede certamente in una carenza sistematica di domanda aggregata. Nell'attuale situazione che richiederebbe quindi l'attuazione in tempi brevi di una politica reflazionistica, il governo britannico si mostra invece riluttante ad intraprendere questa via, principalmente per timore di non riuscire a rispettare l'obiettivo del PSBR, cioè del Public Sector Borrowing Requirement. Come conseguenza, le misure in favore dell'occupazione, che nonostante tutto sono state adottate in Gran Bretagna, hanno avuto uno scarso effetto. In altre parole, il gover-
no si era dimostrato disposto ad .accettare una situazione di tre milioni di disoccupati pur di ottenere un tasso d'inflazione ad una sola cifra. In un quadro di riferimento di questo tipo, l'adozione di misure speciali in favore dell'occupazione, che comportano tra l'altro un minor costo netto per l'erario per ogni nuovo posto di lavoro creato, rappresenterebbe una necessaria soluzione, soprattutto alla luce delle previsioni circa la crescita della forza-lavoro. La tendenza della popolazione in età lavorativa mostra infatti un aumento per gli anni fino al 1986, come si può vedere dal grafico e dalla tab. 1. Anche se è probabile che l'andamento della forza-lavoro effettiva non registri il medesi-. mo aumento, a causa di una diminuzione del tasso di attività dovuta al cosiddetto « effetto del lavoratore scoraggiato », si prevede che la disoccupazione rimarrà anche nel 1986 elevata e sicuramente superiore ai due milioni. Il contenimento della disoccupazione entro tale cifra comporterebbe infatti l'adozione di misure tali da permettere un aumento an nuo dell'occupazione nell'ordine del 2%. Se si considera una probabile crescita della produttività negli stessi termini, risulta evidente come l'economia inglese dovrebbe crescere ad un ritmo di sviluppo del. 4% annuo per il prossimo periodo, per poter raggiungere l'obiettivo suindicato.
6 Tabella 1.
Popolazione,
forza lavcro e occupazione:
(Gran Bretagna,
1977,
1981,
1986
milioni) 1977
3981
1986
32,7
33,4
26,1
26,0
26,7
24,3
22,9
Popolazione,
16-59/64 anni
31,9
Forza' ìavor
da 16 anni in su
Forza lavoro occupata
,
le
• Note. La popolazione in età lavorativa è compresa tra i 16 e i 59 anni p'er
donne e tra i 16 e i 64 anni per gli domini. La forza lavoro si riferisce a tut • tele età dai 16 anni in su; la sua definizione differisce lievemente dalla de-' fizione dell.a popolazione occupata.', La proiezione a] 1986, per quanto 'concerne la forza lavoro, si basa sulpresupposto che la disoccupazione si aggirerà, in me dia, 'sui due milioni tra il 1981 e ±1.1986. La forza lavoro occupata è composta dai lavoratori dipendenti, da quelli autonomi e dalle forze armate. Fonti: House of Lords, leport of, Select Commi'ttee on Unemp)oyment,
vo]. 1,, mag-
gio 1982, pp. 167-168; Labaur Force Cutloo1 to 1986, Deoartment of Employmer.t Group
Gazette, 'aprile1981; pp. '167-i73 e marzo 1982, tabella 1.1; Youth Task Report, Manpower Servite Commission, ari2e 982, allegato 2.
'
MUTAMENTI DELLA POPOLAZIONE, DELLA FORZA LAVORO E DELLA OCCUPAZIONE
•
IN GRAN 3RITAGNA. '1977/81 '- 1981/86 mlioni i
,
105
I/P01az01e
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o
Forza lavoro occupata , -iL -
1977
1961 '
16
i
n
s
7 OCCUPÀZIONE, PRODUZIONE E COSTO PER POSTO DI LAVORO
Far fronte ad una prospettiva di questo genere impone certamente un cambiamento nelle linee della politica economica fin qui attuata 2 . Occorrerà infatti adottare misure capaci di ridare competitività e redditività all'industria britannica, operando attraverso una riduzione del costo unitario del lavoro, in riferimento soprattutto ai prezzi di produzione ed • ai livelli esteri dgli stessi. Sarà richiesta inoltre anche l'applicazione di provvedimenti fiscali di natura espansiva ed una ridefinizione più idonea degli obiettivi monetari. Il semplice aumento della disoccupazione incide infatti sull'entità del PSBR a causa dell'indennità di disoccupazione a carico del Tesoro; in secondo luogo anche la cosiddetta imposta da inflazione potrebbe essere •, eliminata dal deficit, permetten-: done •una diminuzione in termini nominali. Il PSBR dovrà, in ultima analisi, assumere un'importanza minòre nella formulazione dell'indirizzo di politica economica e soprattutto non essere 'presentato come una prova di saggia amministraziòne se impedisce una po.litica macroeconomica più espansiva. La creazione di posti di lavoro sufficienti a' ridurre la disoccupazione a due milioni nel 1986 è quindi certamente un impegno di vasta portata ed implica programmi di spesa non indifferenti. Nella, tabella 2 sono analizzati gli effetti e i costi delle misure più frequentemente utilizzate, o richieste, al fine di un aumento della occupazione. I confronti tra le varie misure riguardano esclusivamente l'impatto sulla occupazione, non prendendo 'in considerazione gli effetti nrodotti dalle stesse su altre variabili, quali la produzione, l'inflazione, la bilancia dei pagamenti etc. I costi che risultano dall'applicazione di normali misure reflazionistiche sono generalmente superiori ai costi derivanti dall'adozione
delle misure selettive speciali a favore dell'occupazione: in particòlare, le agevolazioni fiscali, e nella fattispecie l'abolizione della sovrimposta sui contributi previdenziali - la National Insurance Surcharge - richiesta dalla CBI (Confederation of British Industry), comportano la creazione di pochi posti di lavoro unitamente ad un alto costo in termini :di spesapubblica annuale. ' In realtà i costi effettivi netti di ciascuna misura risultano più bassi, grazie ad alcuni rientri per' il Tesoro dovuti da una parte al risparmio per l'indennità di disoccupazione e dall'altra alle imposte sui reddito versate dai nuovi occupati. E' anche vero comunque che le stime della tabella si basano sull'elasticità della produzione rispetto al gettito fiscale ed alla,spesa, e , sull'assunzione di rapporti tra produzione ed occupazione che sono' di difficile definizione, implicando, quindi un ulteriore elemento di incertezza» La crisi attuale è inoltre caratterizzata, contrariamente a quanto avvenuto nel passato, da una notevole ripresa del livello di produttività, che contribuisce ad aumentare la relàtività delle indicazioni espresse nella tabella: se infatti il trend della produttività continuerà a migliorare, sarà meno sentita 'l'esigenza di' un aumento dell'occupazione, quantn meno in relazione al livello di produzioné3 .
CARATTERISTICHE DELLE MISURE SPECIALI PER L'OCCUPAZIONE
L'attuale livello di disoccupazione e le modeste prospettive di ripresa dell'occupazione, sia nel settore manifatturiero sia in quello dei servizi, inducono a ritenere che le misure speciali per l'occupazione (SEM) continueranno a svolgere un ruolo di primo piano negli interventi volti a ridurre la disoccupazione e ad aumentare l'occupazione 4 . Scopo
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TaEli sulle imposte dirette
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Spesa pubblica Calcoli dci
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- Contributi a favore dei
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bilanci,, 12112
12.000
50.000
5.300 (opesa 6.300 tollo EVA
14.500
.
- Trasferimenti
il
-5.750
60.000
cedimento
Coinsuenatorl
Pi oposta TUC per
120.000
Modello del tesoro (3)
40.1100
17.750
30.000
23. 500
677.01)0
12.251)
Tesoro, li. simile all'iepatto triennale)
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Unte. il ilatioinii lootitute tornisce uricarnente I 'cambiamenti dello disOccopolont 'relativi alle riduzioni delle ivpste sui redditi e dello imposte indirette. Le clfrt do esso forn)te sono state tradotte ad libi-' tuO in modi firme del) 'occupazl nec partendo da I pr050ppi,cto che. i I rapporto tra modifica dell 'occupazione e modifica della disoccupazione ala iii 5 • 4.. t'abolizione della N1S ci 'riferisco ad una variazione
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- T. flarber, Lon8-Ternn Recooery A Return to 1582, Tabella 2.
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ei)o2, 'Lioyds Rsnk Revlez", o. 143, gennài,,
- "Econuinic Recito" del Natioi,'al inustitute . nocoebre 151)1, tu. 2'1. - Tesoro, documento inedito. ottobre 774. - TUC, l'rciu,em for Neco, "tcnnooi e lune i no". febbraio i 5112. - £Cu,oio, The Goveroenni, ui fapcnj i un,•v Il una I 512-IJ3 tu I 'Ilit-lib CMOS dati vui nurezzi),
9 delle SEM è quello di far crescere la domanda di manodopera oppure di ridurne l'offerta relativa. Le misure volte ad incrementare la domanda comprendono i contributi sui salari e i programmi di creazione di posti di lavoro (che possono essere intesi come sussidi al 100% sui salari nell'occupazione del settore pubblico). Alcune di tali misure sono rivolte principalmente ai giovani. I provvedimenti per la riduzione dell'offerta di manodopera comprendon misure volte a ridurre i tassi di attività della forza-lavoro, come ad esempio il pre-pensionamento e i progetti per ridurre l'orario lavorativo annuo. La spesa per le SEM ha ovviamente anche una diversa efficacia rispetto ad un medesimo ammontare impiegato in misure reflazionistiche tradizionali. La tab. 3 ne sintetizza i principali effetti: (i) Le SEM comportano una maggiore riduzione della disoccupazione rispetto alle agevolazioni sulle imposte dirette. L'impatto delle SEM sulla disoccupazione è talvolta ridotto sia per l'effetto « pesomorto » (deadweight) sia per l'effetto « spostamento » (displacement): il. primo si ha nel caso che parte della spesa vada a beneficio di persone che sarebbero state assunte in ogni caso; il secondo si, ha quando alcune riduzioni di disoccupazione dovute alle SEM provocano un aumento di disoccupazione altrove. Ma, anche in presenza di questi effetti negativi, le SEM hanno un maggior impatto sulla disoccupazione per ogni sterlina investita in esse. Tuttavia « deadweight » e « displacement » rendono particolarmente rischiosi i calcoli sulla occupazione prodotta dalle SEM per unità di spesa. (ji) Le misure volte a far crescere la domanda di manodopera provocano un aumento dell'occupazione, così come avviene anche nel caso del progetto di riduzione degli ora-
ri lavorativi. Altre misure relative all'offerta, quali il pre-pensionamento, possono avere invece un effetto negativo sulla occupazione. A mano a mano che la disoccupazione viene ridotta, l'afflusso di fondi al Tesoro, sotto forma di aumenti delle entrate fiscali e di. minori esborsi per indennità di disoccupazione, provoca una riduzione della spesa netta e quindi l'effetto delle SEM sul PSBR è più favorevole rispetto alle agevolazioni fiscali. Secondo il Tesoro le SEM hanno un effetto favorevole sulla bilancia dei pagamenti, mentre più incerto o nullo è il loro impatto sull'inflazione. E' probabile comunque che anche in questo caso l'effetto possa essere positivo, - poiché le SEM interessano principalmente soggetti economici che non sono direttamente responsabili del processo inflazionistiCo indotto dai salari. Il problema indubbiamente più importante nei confronti delle SEM, riguarda comunque il valore della produzione ottenuta con la loro attuazione: in taluni casi infatti, la natura della produzione potrebbe non richiedere l'adozione delle SE'M per la sua realizzazione. Tuttavia, l'impulso alla formazione che esse danno, può esercitare un influsso favorevole sulla produzione nel lungo periodo. Se si adducono poi considerazioni di più vasta portata, quale il possibile impiego futuro della forza-lavoro, allora forse le SEM non possono essere ritenute inferiori agli sgravi fiscali in termini di produzione netta. Le SEM provocano soprattutto un miglioramento delle prospettive di occupazione e di reddito dei percettori di salari più bassi rispetto a quelli più elevati, e sono quindi più apprezzabili da un punto di vista di equità sociale. Le SEM possono inoltre essere considerate misure volte ad eliminare distorsioni provocate dalle disposizioni governative. Ad esempio,
TĂ beila 3. Effetti delle SEM rispetto a quelli di una spese ana'oga sotto forma di agevolazioni fiscali
Disocctpazio Cct4azicne ne registrata misurata
Provvedimenti
Bilancia dei pgitnti
Iflf]azione
Produzine netta
Distribuziciie
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+
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4
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Effetto relativo agli sgravi fiscali: + = positivo; O = neutro; - = negativo.
.
V. nche: Main Rj ,ton the Evolution of the Special Employment Measures, giugno 1979,' 1 cjcI,atiti) dei Diparti mento del Lavoro; R. Layard 1 Costs and Benef'ita of Se]ective .Employrnent. Measures, in "British Journal of Indutriai Reations', Jug]i.o 1979.
11 gli aumenti dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro e le leggi che proteggono l'occupazione hanno provocato aumenti del costo del lavoro. Lo Youth Opportunities Programme (YOP), che fornisce al datore di lavoro la manodopera a titolo gratuito, in questo caso riequilibra il maggior costo del lavoro.. Inoltre, la disoccupazione conseguente alla immobilità della manodopera, provocata dalle particolarità del mercato edilizio, può essere bilanciata dai programmi di creazione di posti di lavoro. E' da sottolineare comunque che le SEM hanno tutte un costo marginale di attuazione crescente: a mano a mano che un numero sempre maggiore di persone vengono assunte grazie alla concessione di contributi sui salari, nel quadro dei programmi di creazione di posti di lavòro, o sono indotte ad uscire dalla forza-lavoro, la spesa destinata all'incremento dell'occupazione per ciascuna persona crescerà.
CONTRIBUTI SUI SALARI E CREAZIONE
Ammontare delle sovvenzioni: i contributi possono coprire parzialmente o completamente i costi dell'imprenditore. In alcuni casi vengono coperti anche costi non dipendenti dalla manodopera. Durata delle sovvenzioni: il periodo di applicazione dei singoli progetti è generalmente limitato, non solo per ragioni di risparmio sui costi, ma anche perché se non vi fosse una limitazione l'elemento selettività sarebbe progressivamente eroso con il passar del tempo. Alcuni esempi possono riuscire utili. Il Temporary Employment Subsidy (TES) era un contributo parziale, senza limitazioni, corrisposto per 18 mesi a coloro che erano minacciati di licenziamento per eccesso di personale. Lo Youth Opportunities Programme .(YOP) è un contributo completo, della durata di circa 8 mesi, corrisposto ai giovani disoccupati assunti per un lavoro che preveda una componente di addestramento. Il Community Enterprise Programme (GEP) è simile allo YOP, ma è rivolto agli adulti disoccupati da un lungo periodo cli tempo.
DI POSTI DI LAVORO
Le modalità di applicazione e l'entità dei sussidi concessi differenziano le varie misure speciali per l'occupazione. Possono essere comunque individuati alcudegli elementi che normalmente caratterizzano le misure in esame. Categorie di beneficiari : i programmi per l'occupazione interessano tutti i lavoratori attualmente disoccupati o minacciati di licenziamento. Particolare attenzione viene inoltre rivolta ai giovani ed alla loro posizione all'interno dell'economia. Categorie di occupazioni: non esistono restrizioni per nessun tipo di categoria di occupazione. Uno degli obiettivi è comunque di evitare, o di ridurre al minimo, i licenziamenti dei lavoratori che non ricevono contributi.
Contributi sui salari. Lo strumento più efficace per combattere la recessione sembra sia rappresentato dai contributi sui salari anziché dagli sgravi fiscali, poiché i primi provocano effetti di sostituzione oltre che di scala, comportando quindi un maggior aumento di occupazione per unità di spesa. L'occupazione infatti, aumenta sia perché crescono la domanda e la produzione (effetto di scala) sia perché il costo del lavoro è minore in seguito al contributo (effetto di sostituzione). Inoltre i contributi sui salari, essendo equivalenti ai sussidi (netti) alla esportazione, incidono favorevolmente sulla occupazione nei settori inseriti in un ambito competitivo a livello internazionale. Infine, i contributi sui salari possono essere finalizzati: se essi sono destinati a fasce di lavoratori che hanno la più alta incidenza di
12 disoccupazione, ne risentirà positivamente la loro efficienza e potrà verificarsi anche una minore pressione verso l'alto dei salari. Tuttavia, i contributi sui salari presentano alcuni problemi. Tra le difficoltà amministrative figurano ad esempio il controllo dei contributi stessi e il dover decidere se l'unità di base per l'applicazione debba essere il singolo stabilimento industriale o l'intera azienda. I contributi danno luogo a distorsioni e anomalie tra le aziende, e tra un'area geografica e l'altra. Inoltre il valore della produzione può essere discutibile. Può darsi infatti che un dato contributo riesca a far crescere l'occupazione interna, ma sia in contrasto con le norme del GATT o della CEE, specialmente se il contributo è concentrato in particolari industrie. Infine, i contributi salariali possono rivelarsi meno efficaci di una reflazione generale per una ripresa degli ud• li e della produttività, elementi determinanti, nel lungo periodo, ai fini dell'occupazione. I contributi versati allo scopo di sostenere posti di lavoro precari, intere aziende, oppure per produrre posti di lavoro extra sono, in linea di principio e per fini strettamente anti-ciclici, uno strumento più efficace sia dei sussidi per incentivare le assunzioni sia dei contributi concessi per l'intera forza-lavoro di un'azienda. I sussidi per incentivare le assunzioni infatti possono intensificare l'avvicendamento della forza-lavoro, in quanto stimolano un continuo ricambio di manodopera in vista della concessione del sussidio stesso. Da ciò può conseguire una più equa distribuzione dei posti di lavoro disponibili, ma l'occupazione complessiva ne riceve scarso beneficio. D'altra parte, i contributi a sostegno dell'intera forza-lavoro di un'azienda fanno sì che il loro ammontare risulti ampiamente distribuito e quindi abbia una minore incidenza. Se le medesime erogazioni vengono invece concentrate sulle fasce meno produttive dell'occupazione, l'imprenditore ha modo di assumere altre perso-
ne, ovvero di conservare i posti di lavoro precari con un minimo aggravio di costi. Due esempi di contributi di questo tipo sono il Temporary Employment Subsidy (TES), adottato tra il 1975 e il 1979 per il mantenimento dei posti di lavoro, e quello proposto dai proff. Layard e Nickell, della London School of Economics, mirante a generare nuovi posti. Il TES ha rappresentato il maggior provvedimento adottato tra il 1975 e il 1979; la spesa lorda relativa è stata di oltre 500 milioni di sterline (a prezzi 1978). Il numero totale complessivo di occupati che hanno goduto del contributo del TES per un dato periodo è stato pari ad oltre il 696 dell'occupazione dell'industria manifatturiera ed a circa il 2,5% del totale degli occupati in Gran Bretagna. Il TES ha però violato gli accordi comunitari del Trattato di Roma e infatti la disoccupazione è cresciuta in misura sproporzionata negli altri Paesi membri della CEE, nei settori in cui il contributo del TES era molto elevato. La CEE ha pertanto disposto che la Gran Bretagna abolisse tale misura. Essa è stata sostituita, nel 1979, dal Temporary Short Time Compensation Scheme (anche noto con l'espressione « worksharing » che si riferisce ai posti di lavoro con orario ridotto). Anche questo programma mira a conservare i posti di lavoro, ma attraverso il pagamento di contributi a favore del tempo libero anziché della produzione. In base al TES, i datori di lavoro disposti a differire il licenziamento della manodopera in eccesso, composta da 10 o più operai, avevano diritto a ricevere una somma pari a 20 sterline settimanali per ogni posto di lavoro, a tempo pieno, conservato. Il contributo poteva essere corrisposto al massimo per il periodo di un anno. Inoltre un supplemento al TES, nella misura di 10 sterline la settimana per ciascun posto' di lavoro a tempo pieno non soppresso, veniva assegnato per un periodo massimo di sei me-
13 si .a favore degli imprenditori che avessero raggiunto il limite di un anno consentito dal TES e che, in mancanza di ulteriori sussidi, fossero costretti a dichiarare un eccesso 'di manodopera. Nel periodo di applicazione, il TES ha contribuito a tener in vita circa 150.000 posti di lavoro e ha tenuto fuori dalle liste di collocamento circa 100.000 operai. Tessile, abbigliamento e calzature - settori ad alta intensità di lavoro che si muovono in un ambito internazionale estremamente concorrenziale - hanno assorbito il 43% dei posii di lavoro coperti dal programma, ma pari a meno del 4% dell'occupazione totale. Valutazioni interne del Dipartimento del Lavorb (DE) hanno rilevato che il TES in realtà non ha costituito un aggravio di costi per l'erario, in quanto il flusso di entrate che ne è conseguito è stato superiore alla spesa richiesta dallo stesso TES. Deakin e Pratten, che hanno effettuato un dettagliato esame dei posti di lavoro interessati dal TES, hanno osservato che il costo netto per il Tesoro è stato positivo, ma è ammontato solo all'incirca alla metà del costo lordo 5 Essi hanno calcolato che per ogni 100 posti di lavoro inizialmente coperti dal contribu to si sono avuti i seguenti risultati: .
Posti di lavoro perduti . . . . 11 - Posti che sarebbero stati conservati senza il contributo (Cioè « deadweight ») .........29 - Posti di lavoro sovvenzionati' dal TES, messi in pericolo a causa della concorrenza da parte di imprese anch'esse fruitrici di contributi, cioè il cosiddetto « domino » . 12 - Posti perduti in imprese non fruitrici di TES (cioè « displacement »)
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- Posti di lavoro conservati dal TES . 39 Il risultato netto - cioè poco più di i posto di lavoro su 3 sussidiati, che rappresenta
un guadagno netto per il TES - è pari a circa la metà dell'effetto ipotizzato dal DE. A sua volta questo ultimo Ministero poneva il costo netto (a prezzi 1978) a 625 sterline per persona in un anno, ovvero al 60% del costo lordo. Invece di conservare posti di lavoro si può anche intervenire càn una sovvenzione marginale al fine di incoraggiare occupazione extra° . La CBI (Confederazione dell'Industria Britannica) chiede insistentemente la riduzione della sovraimposta sui contributi previdenziali (National Insurance Surcharge): se essa venisse completamente abolita (rispetto all'epoca precedente all'aprile 1982) il costo dell'assunzione di un nuovo lavoratore scen derebbe di appena poco meno del 3,5%. Ma se lo stesso ammontare di contributo fosse concentrato su i ogni 25 operai, il costo marginale dell'assunzione dell'operaio extra scenderebbe dell'87,5% (25 x 3,5%). In una fase di recessione l'utilizzo di una sovvenzione che interessi l'occupazione aggiuntiva produce migliori risultati, in merito all'aumento di occupazione, rispetto ad una sovvenzione che interessi tutta la componente lavoro. La ragione è la seguente: per ogni data sovvenzione, la riduzione media dei costi salariali resta immutata sia che. venga applicata su tutta l'occupazione, sia che venga concentrata sull'incremento dell'occupazione. Ma i costi salariali marginali sono ridotti maggiormente da un sussidio marginale. E' improbabile, quindi, che quest'ultimo abbia un unpatto inferiore sull'occupazione rispetto ad una sovvenzione generalizzata ed è probabile che faccia aumentare molto di più l'occupazione, poiché molte imprese sono pricetakers sul mercato mondiale. Ecco perché il costo netto per posto di lavoro è inferiore se si opera attraverso una sovvenziàne marginale, destinata cioè all'incremento di lavoro,
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qualsiasi tipo di posto di lavoro extra, indirispetto ad una riduzione di contributi che pendentemente da qualsiasi livello precedeninteressi tutta la componente lavoro. temente stabilito. L'elemento « deadweight » Layard ha proposto una sovvenzione settirappresentato da contributi versati a famanale di 70 sterline per tutti gli aumenti dell'occupazione al di sopra di un livello di vore di lavoratori che sarebbero comunque stati assunti - èdifficile da valutare, e proriferimento stabilito in precedenza. Un abbassamento dei costi marginali potrebbe com- babilmente risulterebbe piuttosto elevato se portare un miglioramento della bilancia dei il contributo venisse incluso nel contesto di un più vasto paniere reflazionistico avente pagamenti. Inoltre non si potrebbe sosteneil fine di elevare l'occupazione. Questa, unire che in questo modo si tengono in piedi le tamente alle difficoltà di ordine amministraaziende incapaci, poiché si fa riferimento ad aumenti dell'occupazione. Il costo netto an- tivo, è forse la ragione per cui il programnuale, per posto di lavàro e in termini di ma non è stato attuato. PSBR, di una sovvenzione di questo tipo, è di appena 2000 sterline, cosicché è possi- Pubblico impiego selettivo. I programmi bile produrre un numero molto maggiore di destinati alla creazione di posti di lavoro posti di lavoro di quanto non sia possibile vengono intrapresi quasi esclusivamente nel con una spesa equivalente in termini di refla- settore pubblico. Molti di essi sono predisposti a favore dei lavoratori più giovani, zione classica: 250.000 posti di lavoro per una spesa netta, in termini di PSBR, di 500 ma esiste anche un modesto programma di milioni di sterline. Una simile sovvenzione pubblico impiego - il Community Enterpotrebbe venir elargita per un certo numero prise Programme (CEP) - che interessa gli di anni (sempre che l'azienda mantenga il adulti disoccupati da un lungo periodo di nuovo maggior livello di occupazione) e po- tempo. L'impiego pubblico attuato in modo selettrebbe essere fatta scemare gradualmente, prima di venire abolita, per dissuadere la tivo offre numerosi vantaggi rispetto ad una spesa pubblica generalizzata. Esso può esseditta dal licenziare operai che non ricevono re diretto verso categorie di lavoratori con più il sussidio. un salario basso ed inclini alla disoccupazioQuesta misura a favore dell'incremento delne. Inoltre, mediante la concentrazione sui l'occupazione potrebbe essere diretta ai disoccupati da un lungo periodo. Si tratta di disoccupati, l'aumento di occupazione coincide con la riduzione della disoccupazione. una questione di rilievo, perché i disoccuIn questo tipo di programmi vengono impiepato su 3 è senza lavoro da oltre un anno: ma un simile obiettivo comporterebbe un gate solitamente tecniche che richiedono aumento dell'apparato amministrativo prepo- un'alta intensità di manodopeia, per cui ben sto alla gestione del programma e sarebbe poca parte della spesa primaria filtra verso anche discriminante, in quanto gli operai ri- i settori con salari più elevati, nel restante quadro dell'economia. Inoltre i beneficiari petutamente colpiti da brevi periodi di disoccupazione non potrebbero beneficiare del- di queste misure probabilmente non svolgono un ruolo-guida nel processo inflazionistila sovvenzione. co indotto dai salari. Il problema principale Il programma è indubbiamente attraente, e non si tratta inoltre di un « sussidio ideale », che deriva dall'attuazione di un programma di impiego pubblico selettivo, riguarda invecioè corrisposto esclusivamente per posti di ce la sua efficienza économica. del sussidio stesso. Si in virtù lavoro creati Il CEP è un programma per la creazione di tratta piuttosto di un beneficio concesso per
15 posti di lavoro, finanziato con fondi pubblici, che fornisce una occupazione temporanea nell'ambito di attività senza fini di lucro, svolte a beneficio della collettività. Vi sono due principali gruppi di beneficiari: quelli di età compresa tra i 19 e i 24 anni, disoccupati ininterrottamente da oltre 6 mesi, e quelli di età superiore ai 25 anni, disoccupati ininterrottamente da oltre i anno. Il CEP può assegnare circa 30.000 posti di lavoro temporaneo, della durata di circa 8 mesi ciascuno. I progetti appoggiati dalla Manpower Services Commission (MSC) riguardano essenzialmente servizi di pubblica utilità, come ad esempio l'assistenza agli anziani. Nel 1981-82 il DE ha calcolato che il costo annuo netto, per l'erario, di un operaio beneficiano del CEP è stato di 1.362 sterline e il rapporto costi-benefici è stato valutato in ragione di 1 a 2,4. Con l'ampliamento e lo sviluppo del programma stesso, il rapporto costi-benefici è destinato comunque ad aumentare notevolmente. Il numero dei disoccupati da oltre 1 anno attualmente è superiore a i milione (nell'aprile del 1966 era di soli 47.000), e quest'anno il numero di coloro che supereranno la soglia dei 12 mesi sarà di oltre 400.000. Quindi si può affermare che il CEP ha appena scalfito la disoccupazione di lunga durata o, come si dice, strutturale. Le offerte di lavoro dovrebbero quindi essere rivolte all'attuale milione di disoccupati da oltre i anno e, in base agli attuali livelli di disoccupazione, circa altre 400.000 offerte andrebbero fatte ogni anno successivo. Anche nell'ipotesi che sia possibile trovare i posti adatti, se a ciascun lavoratore venissero corrisposte 4.000 sterline l'anno, il costo lordo per poter far fronte al solo flusso di disoccupati da un anno sarebbe pari a circa 1,6 miliardi di sterline. Se, da una parte, una simile spesa dovrebbe
preoccupare l'attuale governo (anche se il costo netto sarebbe molto inferiore), va sottolineato che, nonostante l'accento posto sugli incentivi al lavoro, è evidénte che molti di coloro che desiderano lavorare non riescono a trovare un posto: è questa una delle ragioni dell'espansione del CEP, dall'ottobre del 1982, sotto il nuovo nome di OPS (Community Prograrnme Scheme). Quest'ultimo programma fornirà 130.000 posti di lavoro temporanei, soprattutto parttime, per lo stesso tipo di beneficiari del CEP. Quando sarà operante in pieno, il CPS interesserà all'incirca un decimo dei possibili beneficiari. Il salario medio sarà di 60 sterline la settimana, con punte massime fino a 90 sterline. Quando il Cancelliere dello Scacchiere ha formulato il progetto originario di espansione del CE?, nella sua proposta di bilancio del marzo 1982, egli ha suggerito di versare ai beneficiari l'indennità di disoccupazione con una quota integrativa di circa 15-20 sterline a settimana. Si è trattato però d'i una proposta molto criticata, in quanto poteva sottintendere che l'indennità di disoccupazione avrebbe potuto esser fatta dipendere dalla partecipazione al programma. Il progetto rivisto dalla MSC (Manpower Services Commission) supera tale ostacolo, ma nel contempo ne provoca un altro. La paga media settimanale del CPS è infatti notevolmente inf eriore a quella che un capo-famiglia avrebbe potuto ricevere in base alla formula « indennità più » proposta dal Cancelliere. Il CPS apparirà quindi come meno favorevole proprio agli occhi della categoria di lavoratori più bisognosi di esso, e cioè i disoccupati da lungo tempo, con famiglia a carico. Il programma ampliato mette anche a fuoco la questione del « displacement ». I membri della Commissione appartenenti al TIJC - Trade Union Congress - temono infatti che alcuni progetti possano portare alla soppressione di posti di lavoro permanenti
16 nel settore degli enti locali e in quello privato, e sono perciò riluttanti a concedere il proprio completo appoggio al nuovo piano.
LE MISURE IN FAVORE DEI GIOVANI
Nell'aprile del 1982 vi erano nel Regno Unito oltre mezzo milione di giovani, al di sotto dei venti anni, disoccupati. La cifra è quasi cinque volte più alta di quella corrispondente del 1975. Le cause di un aumento così esplosivo della disoccupazione giovanile sono alquanto controverse. La ricerca più esauriente, condotta dal DE, mostra che i movimenti della disoccupazione giovanile sono strettamente dipendenti da quelli di tutta la disoccupazione, ma l'entità dei mutamenti della disoccupazione giovanile è maggiore: per esempio, per la com ponente maschile l'elasticita della disoccupazione giovanile rispetto a quella totale è di 1,7. I giovani sono normalmente i più colpiti durante una recessione, a mano a mano che gli imprenditori riducono le assunzioni, poiché essi hanno una scarsa esperienza specifica dell'azienda presso cui lavorano e il datore di lavoro non ha alcun incentivo per mantenerli all'impiego. Si sostiene, da parte di molti, che sono i giovani stessi che si sono fatti espellere dal mercato del lavoro per motivi legati al livello retributivo. Le prove in realtà sono alquanto controverse. Tra i lavoratori manuali maschi, il rapporto del salario orario tra operai al di sotto e al di sopra di 21 anni di età è salito dallo 0,45 allo 0,61 nel 1979. Parte ditale aumento è semplicemente un effetto di composizione del gruppo giovanile, dovuto all'estensione dell'obbligo scolastico da 15 a 16 anni verificatosi all'inizio degli anni Settanta. Inoltre l'abbassamento della maggiore età da 21 a 18 anni ha fatto sì che ad un numero molto più elevato di giovani venissero corrisposti salari da adulti a 18 anni, con un rapporto
che è passato da 1 a 10 nel 1970 a 1 a 2 nel 1979. Peraltro, nessun mutamento si è verificato, per entrambi i sessi, nella paga oraria dei giovani di età inferiore a 20 anni rispetto agli adulti dal 1974 in poi, per cui sembra improbabile che la retribuzione relativa dei giovani sia la causa principale della loro disoccupazione. Inoltre quelli che talvolta vengono definiti fattori strutturali, non sembrano avere una grande rilevanza nello spiegare l'aumento della disoccupazione giovanile: le industrie che impiegano più intensivamente gi6vani operai non hanno subìto infatti un calo di occupazione superiore ad altri settori. Le misure volte a stimolare l'occupazione giovanile hanno ricevuto costantemente la precedenza assoluta fin dall'inizio dell'adozione delle misure speciali a favore dell'occupazione nel 1975. Vi sono alcune valide ragioni in proposito: il mercato del lavoro giovanile può essere stimolato con minori conseguenze sul piano inflazionistico rispetto al mercato degli adulti; l'occupazione giovanile dà impulso al potenziale produttivo mediante il suo impatto sulla formazione e la disciplina del lavoro. Ma il fattore più importante è costituito dal generico pericolo che la disoccupazione giovanile getti un'ombra che non si cancella in tutto il corso della vita: un periodo di disoccupazione da giovani è associato, a parità di altre condizioni, con una maggior probabilità di periodi di disoccupazione e di disagio in seguito nella vita. Poiché, dunque, la disoccupazione giovanile sembra esercitare un influsso negativo sulle prospettive future, è importante cercare di prevenirla o di distribuirla più equamente tra i componenti di un dato gruppo di età: alcuni prògrammi per i giovani si propongono infatti di accrescere il numero netto dei posti di lavoro in seno all'economia,' mentre per altri lo scopo è principalmente quello di redistribuire i posti disponibili a favore dei lavoratori più giovani.
17 Contributi per le assunzioni. I primi interventi volti a ridurre la disoccupazione dei lavoratori più giovani hanno assunto la forma di contributi sui salari dei nuovi assunti. Queste misure - il Recruitment Subsidy for School Leavers, seguito dallo Youth Employment Subsidy - prevedevano entrambe la concessione di contributi per un periodo di 6 mesi ai datori di lavoro, a beneficio dei giovani da loro assunti. Le valutazioni da parte del DE ponevano in rilievo come in 3 casi su 4 le sovvenzioni corrisposte fossero del tipo « deadweight », in quanto il datore di lavoro avrebbe comunque assunto il giovane lavoratore. In metà dei casi residui i giovani si sostituivano ad altri lavoratori, principalmente donne sposate o lavoratori a tempo parziale, e quindi solo in misura di i su 8 rappresentavano un aumento netto delle assunzioni, ed anche un tale favorevole impatto sull'occupazione subiva un'inversione una volta venuta a cessare la sovvenzione. Dato l'attuale livello di disoccupazione l'elemento «deadweight » probabilmente è alquanto minore. Inoltre la sostituzione degli adulti da parte dei giovani probabilmente è vista con favore sia da coloro che considerano la disoccupazione giovanile come il problema sociale di maggior rilievo, sia da coloro che vogliono in questo modo esercitare una pressione in favore della diminuzione dei livelli salariali degli adulti. In parte per queste ragioni, è stato recentemente introdotto un nuovo contributo, alquanto ingegnoso, avente le seguenti caratteristiche: - i datori di lavoro possono richiedere un contributo di 15 sterline la settimana per ogni dipendente il cui salario lordo non superi le 40 sterline settimanali; - può, inoltre, venir chiesto un contributo di 7,50 sterline la settimana per i dipendenti il cui salario lordo sia compreso tra le 40 e le 45 sterline; contributi possono venir chiesti per i di-
pendenti di età inferiore a 18 anni e che, all'atto della richiesta, abbiano cominciato a lavorare da meno di un anno; - il periodo massimo di corresponsione del contributo, nei confronti di ciascun lavoratore, è di 12 mesi. Una misura di questo tipo non è certamente ben vista dai membri del' TUC, che temono di veder minacciati in questo modo i livelli salariali sindacali: il salario medio dei lavoratori sedicenni, nel 1981, era infatti di 47,50 sterline la settimana. Il governo è quindi indubbiamente convinto che il salario dei lavoratori giovani sia un fattore-chiave nei riguardi dell'occupazione giovanile, come dimostrano le dichiarazioni dell'ex Mi nistro del Lavoro James Prior: « [ ... ] Nel corso degli ultimi anni i giovani lavoratori hanno cominciato ad auto-espellersi dal lavoro a causa dei salari. Non vi è alcun dubbio in proposito ». Lo YWS (Young Workers Scheme) per esempio si prevede costerà nel 198283 60 milioni di sterline e, quando sarà pienamente funzionante nel marzo del 1983, il DE. calcola che circa 130.000 giovani usufruiranno del contributo, ma solo all'incirca 20.000 di essi occuperanno nuovi posti di lavoro. Tuttavia, se il governo vi riuscirà, il salario medio dei giovani verrà ridotto a 45 sterline e il numero dei beneficiari dello YWS aumenterà. Il DE calcola che il numero dei casi di « deadweight » crescerà a circa 300.000 e i posti di lavoro indotti saranno inferiori a 30.000, mentre il costo annuo lordo salirà forse a 300 milioni di sterline. Nel caso si ritenga opportuno mantenere il sistema di assunzione dei giovani attraverso i canali tradizionali, e cioè apprendistato e posti di las'oro la cui durata prevista sia superiore ad i anno, l'YWS potrà costituire un complemento importante dello Youth Opportuni. ties Programme (YOP) e del proposto Youth Training Scheme (YTS). Poiché in base allo YOP e allo YTS le ditte ottengono la mano-
18 • dopera giovanile gratuitamente, questi programmi rischiano di infierire un colpo mor- tale al normale mercato giovanile e i contributi per la loro assunzione dovrebbero far sì che, almeno in parte, le assunzioni stesse possano continuare ad aver luogo attraverso i canali °ortodossi.
YOP e YTS. Lo YOP è un programma che si è quadruplicato dall'inizio del 1978 e nell'anno in corso si prevede che vi accederanno circa 630.000 giovani. Le attività svolte riguardano essenzialmente l'esperienza lavorativa e la formazione. Circa due terzi dei nuovi partecipanti passano attraverso il WEEP (Work Experience on Employers Premises). Lo YOP è riservato ai giovani disoccupati che hanno assolto l'obbligo sco-
lastico e ai sedicenni e diciassettenni che risultano iscritti nelle liste di collocamento da 3 mesi. I partecipanti allo YOP ricevono una indennità settimanale esente da imposte (attualmente nella misura di 25 sterline), mentre agli enti promotori vengono rimborsate le spese amministrative e alcune spese generali. La durata del posto di lavoro è di circa 6 mesi. A quanto risulta lo YOP si è rivelato abbastanza efficace. Partendo da ragionevoli ipotesi circa le possibilità alternative esistenti per i giovani che vi partecipano, e circa la misura in cui i giovani lavoratori « scacciano » i lavoratori adulti, è stato possibile formulare le seguenti stime, basate su informazioni desunte dalla Gazette (marzo• 1982, pp. 113-116) del DE:
Costi e benefici equivalenti per un intero anno per persona
(prezzi 1981-82; lire sterline) Costo per gli enti promotori
Beneficio alla produzione
Rapporto benefici/ costi
Costo per l'erario
Costo
lordo
netto
risorse
852
724
633
0,87
1.087
733
1.970
2,69
Programma Weep
3.875
1.223
Progetti comunitari
3.309
2.858 •
Il costo del finanziamento del WEEP per gli enti promotori è superiore al costo lordo per l'erario, a causa dell'onere per il personale che gli enti in questione sostengono di dover impiegare per il controllo dei giovani che seguono i corsi di formazione. Il costo netto per l'erario è decisamente inferiore al costo equivalente di un giovane disoccupato. I Progetti Comunitari, tradizionalmente affidati agli enti locali, ad organizzazioni volontarie e ad enti morali, riguardano programmi ed impieghi volti al miglioramento dell'ambiente e dei servizi sociali, ed hanno un rapporto benefici-costi vantaggioso. Anche se tale rapporto per il WEEP è legger-
mente al disotto dell'unità, occorre notare che i benefici stessi riguardano solo i vantaggi di ordine finanziario e non tengono conto dei benefici di ordine psicologico che derivano agli interessati dal far parte dei programmi. Malgrado i suddetti aspetti piuttosto favorevoli sul piano dei costi, lo YOP ha subìto le seguenti critiche: - molti sindacati che rappresentano lavoratori con modesti livelli salariali quali il NUPE (National Union of Public Employees), l'USDAW • (Union of Shop Distributive and Allied Workers) e il NTJAW (National Union of Agricultural Workers) riten-
19 gono che la sostituzione degli adulti con i giovani dello YOP sia più rilevante di quanto non ammetta la Manpower Services Commission ('MSC); la dimensione dello YOP ha presumibilmente contribuito all'abbandono delle procedure tradizionali di assunzione al lavoro dei giovani; - si ritiene che lo YOP spesso fornisca posti di lavoro che sono fini a se stessi (il che contraddice in parte la prima critica sopra riferita); - è difficile seguire un programma che prevede circa 200.000 schemi in atto; - l'esperienza successiva dei partecipanti allo YOP è motivo di preoccupazione: la recessione che si aggrava fa sì che meno di un terzo dei partecipanti continui a lavorare al termine del programma. L'insoddisfazione nei confronti sia del grado sia della qualità della formazione dei giovani occupati e gli effetti più che altro palliativi dello YOP, hanno indotto, alla formulazione di altre proposte. A tutti i sedicenni che non frequentano la scuola a tempo pieno sarà offerto un programma di formazione e di esperienza lavorativa di base della durata di un anno. Si spera in seguito di poter estendere l'offerta anche ai giovani di 17 anni che lasciano la scuola. Questo programma, noto sotto il nome di Youth Training Scheme (YTS), riguarderà 460.000 giovani, due terzi dei quali figureranno nel quadro di programmi promossi da datori di lavoro pubblici, privati e da enti volontari; mentre un terzo farà parte di programmi "estiti direttamente dalla Manpower Services Commission. Gli enti promotori riceveranno la somma di 1.850 sterline l'anno per allievo, di cui 1.300 destinate alle indennità di formazione da versare ai giovani. Il giovane disoccupato che rinunci all'offerta di un nosto nel quadro del programma YTS subirà una riduzione della propfia indennità sup-
plementare (supplementary benefit) per un periodo di sei settimane, anche se l'intenzione originaria del governo era di annullare del tutto l'indennità supplementare in questi casi. L'YTS suscita una serie di questioni spinose per quanto concerne i tempi, la quantità e la qualità della formazione, il ruolò della procedura di assunzione al lavoro secondo i canoni classici e il finanziamento del programma7 La questione fondamentale, finora non affrontata, riguarda i tempi di applicazione del progetto. Per molti giovani che non continuano la scuola oltre i 16 anni di età sarebbe più logico infatti poter disporre del ponte tra scuola e lavoro a 15 anni. Non vi è dubbio che la proporzione della manodopera fornita di istruzione professionale è inferiore, in Gran Bretagna, rispetto alla maggioranza degli altri Paesi europei, per cui le proposte della MSC potrebbero dimostrarsi un piccolo passo avanti utile a modificare un tale stato di cose. Tuttavia, esse non sono state formulate tenendo presente la scarsità della formazione professionale, ma perché l'entità della disoccupazione giovanile ha spinto i governi succedutisi a « fare qualcosa ». Occorrerà quindi far sì che lo YTS abbia un serio orientamento professionale e non sia semplicemente una operazone annuale marginale di travaso dei giovani disoccupati dal mercato del lavoro tradizionale. Lo YTS prevede, tra le altre cose, un periodo minimo di formazione teorica della durata di 13 settimane. Se si vuole che lo scopo sia veramente quello di elevare la qualità della forza-lavoro è, però, necessario adottare un sistema più completo che comporti la frequenza di corsi d'istruzione professioriale. Qualche perpiessità è stata anche manifestata circa la disponibilità di un numero sufficiente di enti che si occupino dei 300.000 .
20 posti dell'YTS da affidare ad aziende pubbliche e private, ad enti locali e ad organizzazioni volontarie. Questo peraltro non sembra essere un problema, in quanto numerosi datori di lavoro riceveranno i giovani senza alcun costo o con minima spesa. Piuttosto, è più importante prendere in considerazione ciò che può accadere alle assunzioni attraverso i canali tradizionali: i datori di lavoro saranno ancora spinti ad assumere i. giovani al di fuori del programma YTS? A sua volta, ciò mette in discussione la ragion d'essere del programma Young Workers Scheme (YWS): la MSC desidera infatti eliminarlo perché ritiene che esso sia un contributo all'occupazione che non privilegia la formazione, ma sarebbe ugualmente lecito sostenere che il contributo in questione è essenziale se si vuole mantenere in vita un sistema normale di assunzione dei sedicenni. Nel settembre 1982, lo YWS interessava 113.000 giovani ed è importante che esso continui ancora ad operare. Vale comunque sottolineare che la spesa per l'YTS non si ridurrà necessariamente con il diminuire della disoccupazione giovanile, in quanto il programma riguarda sia i giovani disoccupati sia quelli occupati. E' probabile comunque che, con l'andar del tempo, si attui una redistribuzione degli oneri finanziari tra Stato e imprese: ciò sarà tanto più probabile in quanto maggiori pressioni verranno esercitate nei confronti del governo per l'introduzione dell'Education Maintenance Allowances (indennità di permanenza a scuola) per i giovani che continuano a frequentare oltre il 16° anno di età, per evitare che essi siano tentati di accedere all'YTS semplicemente per poter ricevere il beneficio delle 25 sterline settimanali.
RIDUZIONI DELL'OFFERTA DI MANODOPERA
Da tempo vengono suggerite riduzioni nel numero dei partecipanti alla forza-lavoro co-
me strumento per poter conseguire una diminuzione della disoccupazione. Giacomo I accolse con entusiasmo l'idea di esportare i disoccupati in Virginia ed a Terranova, anche se né l'una né l'altra fossero entusiaste all'idea di doverli accogliere. Nel sec. XIX e ai primi del sec. XX si è molto parlato di una soluzione del problema della disoccupazione nei centri urbani mediante « l'esportazione della classe lavoratrice in generale [ ... ], della quale vi è sovrabbondanza a Londra, negli insediamenti agricoli delle colonie ». A tali misure sono stati decisamente contrari alcuni sindacalisti dell'epoca, che le ritenevano semplicemente un espediente per ridurre i salari dei lavoratori coloniali; altri invece le vedevano con favore in quanto costituivano un modo per mantenere inalterati i livelli salariali dei lavoratori in patria 8 Gli attuali orientamenti in materia di riduzione della forza-lavoro riguardano soprattutto o la riduzione del tasso di attività o la riduzione delle ore lavorative annue. Il tasso di attività è dato normalmente dal rapporto tra forza-lavoro, ripartita eventualmente per età e per sesso, e la popolazione. Una contrazione della forza-lavoro può ottenersi, ad esempio, incoraggiando i giovani a prolungare il periodo d'istruzione scolastica, ovvero favorendo il pensionamento anticipato dei lavoratori. Il governo sarebbe altresì favorevole alla riduzione del numero delle lavoratrici coniugate. L'orario lavorativo annuo di ciascun occupato può essere ridotto accorciando la settimana lavorativa, riducendo le prestazioni di lavoro straordinario, o prolungando i periodi di ferie. .
Anche se la diminuzione della forza-lavoro e la contrazione degli orari appaiono, a prima vista, sistemi allettanti, nonché ovvi, per ottenere una riduzione della disoccupazione, occorre essere assai prudenti nell'adottare tali misure.
21 Le modifiche dell'offerta di manodopera possono verificarsi in due modi. In primo luogo, le còntrattazioni collettive tra sindacati e imprenditori vertono non solo sulla retribuzione, ma anche su altri aspetti del rapporto di impiego. Così nel corso degli anni settanta l'orario settimanale di base dei lavoratori manuali è stato ridotto da 44 a 42 e quindi a 40 ore, ed attualmente in molti settori è stato ulteriormente ridotto a 39 ore. Il TUC ha dichiarato esplicitamente la propria intenzione di veder fissata la settimana lavorativa di base a 35 ore per tutti i lavoratori entro il 1986. La contrattazione coi. lettiva incide inoltre anche sull'età del collocamento a riposo. In secondo luogo, anche il governo può influire direttamente sull'offerta di manodopera. Ciò può avvenire in maniera non selettiva - ad esempio, fissando l'età del collocamento a riposo a 60 anni sia per gli uomini che per le donne - oppure mediante misure specifiche reversibili, quali il Job Release Scheme (pensionamento anticipato selettivo) ovvero il Temporary Short Time Working Scheme (anche detto «Worksharing », cioè occupazione a tempo parziale). Nel corso degli ultimi anni i governi succedu tisi non hanno incoraggiato le parti in causa nei contratti collettivi ad impegnarsi sul piano dei lavoro part-time su base permanente, né hanno adottato misure legislative di ampia portata volte a ridurre la forza-lavoro. Qual è la ragione di una simile posizione, assunta sia dai governi laburisti sia da quelli conservatori? Innanzi tutto, la riduzione dell'orario di lavoro implica una retribuzione ridotta. Il dibattito sul modo di combattere la disoccupazione sarebbe più chiaro se il lavoro a tempo parziale venisse definito anche « salario parziale ». Infatti, se la retribuzione settimanale o annua venisse ridotta in corrispondenza della riduzione dell'orario lavorativo settimanale o annuale, l'orario di lavoro ridotto avrebbe una notevole capacità di ridurre la
disoccupazione. Ma se, come chiedono i sindacati, il salario settimanale deve rimanere inalterato una volta ridotto l'orario di lavoro, il costo per unità di lavoro crescerà e sarà o esclusivamente inflazionistico o, nella misura in cui le imprese non siano in grado di trasferire interamente sui prezzi i più alti costi unitari, provocherà una diminuzione dell'occupazione piuttosto che un aumento. L'esperienza francese è estremamente indicativa in questo senso: il governo Mitterand aveva originariamente intenzione di ridurre la settimana lavorativa normale (« legai ») in Francia da 40 a 35 ore tra il 1981 e il 1985, lasciando alla contrattazione collettiva la facoltà di negoziare la retribuzione. Ma l'implicito aumento dei costo unitario del lavoro ha provocato la limitazione dell'orario alle attuali 39 ore, rinviando ulteriori riduzioni ad eventuali accordi in sede comunitaria. In secondo luogo, gli incentivi al pre-pensionamento, oppure ad una più ridotta partecipazione alla forza-lavoro delle donne coniugate, recano in sé il pericolo di una caduta della produzione capace di provocare un degrado del tenore di vita sia per gli occupati che per i disoccupati. La produzione è destinata infatti a diminuire se non si procede alla sostituzione di ciascun lavoratore dimissionario con un disoccupato, oppure se non aumenta la produttività della forza-lavoro occupata, anche se, in quest'ultimo caso, vengono a mancare le condizioni per l'assunzine al lavoro di disoccupati. In terzo luogo, la riduzione dell'orario di lavoro non funziona nel caso in cui gli interessati siano contenti di continuare a lavorare con l'orario e la retribuzione del tempo pieno: essi, infatti, presumibilmente attribuiscono maggior valore al salario ricevuto e al risultato del loro lavoro che non al tempo libero cui rinunciano. Tale obiezione nei confronti della riduzione dell'orario risulterebbe meno rigida qualora risultasse chiara
22 complessivo di disoccupazione tale problel'insoddisfazione degli interessati nei confronma può porsi per alcune categorie specifiche ti degli orari di lavoro settimanali o annuali, di occupazione. ma finora non esistono indicazioni in tal senso. 1) Pre-pensionamento9 In quarto luogo, il governo della signora Thatcher sostiene decisamente, dato l'attuaL'età pensionabile fissata dalle norme naziole atteggiamento dei sindacati, la necessità nali della previdenza sociale (National Indi un alto tasso di disoccupazione per poter surance Pension) è di 65 anni per gli uomini ricondurre il tasso di inflazione entro una e di 60 per le donne. I vari governi finora sola cifra. A suo avviso, la riduzione della hanno scoraggiato qualsiasi generale tendenforza-lavoro non servirebbe a nulla in quanza al pre-pensionamento, preferendo invece to sarebbe pur sempre necessario il medesiassegnare fondi a favore del reddito reale dei mo tasso di disoccupazione. Anzi, ogni ripensionati. Tuttavia, nel corso degli ultimi duzione dell'offerta di lavoro complessiva, a anni l'atteggiamento dei lavoratori compresi fronte di un dato livello di domanda monetra i 60 e i 64 anni di età, nei confronti deltaria, potrebbe dare una spinta all'aumento la permanenza in seno alla forza-lavoro, è dei salari, rendendo l'obiettivo antinflazioninotevolmente mutato e il pre-pensionamento stico più difficile da raggiungere. si è posto in primo piano quale mezzo per In quinto luogo, non risulta chiaro in che ridurre la disoccupazione. Negli anni 1975-80 modo le ore « risparmiate » con la riduziola posizione all'interno dell'economia dei lane del lavoro possano venir trasformate in voratori compresi nel gruppo di età 60-64 posti di lavoro equivalenti a tempo pieno. anni è mutata come segue: Ad esempio, è possibile che determinate li1975 1980 nee di produzione richiedano livelli fissi di personale addetto. Inoltre la struttura dell'occupazione è diversa dalla composizione Economicamente attivi 73 84 della disoccupazione sia in termini di qua- Occupati 68 81 lifiche che di distribuzione. Ma forse non Non occupati 5 3 è il caso di preoccuparsi tanto di ciò, dato 27 16 che l'economia si è dimostrata sufficiente- Economicamente inattivi 16 4 Pensionati mente duttile da assorbire le passate ridu10 10 Permanentemente inabili zioni degli orari lavorativi. 2 1 Infine, alcune particolari modifiche dell'offerAltri ta di lavoro indotte da un abbassamento dei La percentuale di coloro che erano economilimiti di età per il collocamento a riposo o camente attivi ha subìto una brusca caduta, da una riduzione a 35 ore dell'orario lavorarispecchiata dall'aumento di quattro volte tivo settimanale, non si prestano ad una fadella percentuale dei pensionati. E' probabicile inversione nel momento in cui si verifile che questa tendenza continui e si accentui ca la ripresa, il che comporterà a quell'epoca nel corso della attuale recessione. dei sacrifici nel tenore di vita. Ma tutte le Il Dipartimento del Lavoro valuta il costo previsioni indicano, nel migliore dei casi, il del pre-pensionamento in base ai seguenti persistere degli attuali livelli di disoccupapresupposti: zione e quindi non è il caso di soffermarsi - età pensionabile ridotta a 60 anni; troppo sul problema della irreversibilità. Tut- andamento del pensionamento del gruptavia, anche in presenza di un elevato tasso
23 guati in pieno al livello di pre-pensionarnento, la disoccupazione si ridurrà di 540.000 unità. - tasso di sostituzione pari a 0,67: per ogni Le pensioni aggiuntive da pagare avranno un 3 persone che vanno in pensione ne vengocosto pari a 3.000 milioni di sterline (a prezno assunte 2 dalle liste di collocamento. zi 1982-83). Il costo netto, tenuto conto delIl Dipartimento del Lavoro calcola che dopo la sostituzione cn i disoccupati, viene Calche le imprese e i lavoratori si saranno ade- colato come segue: po 60-65 anni analogo a quello dell'attuale gruppo 65-69 anni;
(Imposte perdute (Pensioni) + del gmppo di età 60-64 anni)
(Diminuzione complessiva delle indennità di disoc/ cupazione)
Quindi, il costo netto annuo di ciascun nuovo occupato risulta pari a circa 3.100 sterline (1.650 milioni diviso 540.000). Il tasso di sostituzione è essenziale ai fini di tale calcolo. In una indagine relativa a 400 stabilimenti industriali, White ha accertato che in media i dirigenti prevedevano di sostituire oltre i 4/5 dei lavoratori pre-pen. sionati. Di conseguenza la previsione del Dipartimento del Lavoro, secondo cui vengono assunti 2 lavoratori ogni 3 pre-pensionati, non appare eccessivamente ottimistica dati gli attuali livelli di disoccupazione. Un. elemento che è stato trascurato nel calcolo che precede, è quello che concerne la notevole pressione che verrà esercitata nei confronti degli imprenditori perché adeguino i propri schemi pensionistici all'età pensionabile dei pubblici dipendenti. L'ufficio attuariale del governo ha calcolato che ciò comporterebbe un aumento di spesa dello 0,8% della voce salari per ogni anno di abbassa mento dell'età pensionabile. Ciò comporta anche un peggioramento delle prospettive dell'occupazione a lungo termine, dato che vengono così scoraggiati maggiori investimenti di capitale. Il Job Release Scheme (JRS) consente ai lavoratori anziani di ritirarsi dal mercato del lavoro prima del raggiungimento dell'età pensionabile prevista dalla Previdenza Sociale, in modo che il loro posto possa esser
(imposte corrisposte da + lavoratori giù disoccupati)
= 1160 milioni di sterline.
coperto, direttamente o indirettamente, da lavoratori iscritti nelle liste di collocamento. I lavoratori che lasciano anticipatamente l'impiego ricevono una indennità settimanale fino al raggiungimento dell'età pensionabile per lo Stato. Il JRS costituisce quindi una forma selettiva di pre-pensionamento. Nel settembre del 1982 risultavano coperte da tale piano 73.000 persone, mentre si prevede che il loro numero salirà a 95.000 entro marzo del 1983. La spesa lorda per il JRS è valutata in 224 milioni di sterline nel 1982-83. Considerando che un 15% sarà costituito da « deadweight » (cioè versamenti a favore di lavoratori che si sarebbero comunque messi in pensione), il Dipartimento del Lavoro calcola che il costo annuo netto per ogni nuovo assunto al lavoro sia all'incirca di 1.200 sterline (a prezzi 1982-83), con un vantaggio pari a circa 3 volte rispetto ad una riduzione generalizzata dell'età pensionabile. La Commissione di indagine sulla disoccupazione della Camera dei Lord ha proposto di recente una ingegnosa variante del JRS. La proposta concerne l'assunzione part-time di 2 lavoratori ultrasessantenni al posto di uno a tempo pieno. Ciascuno riceverebbe metà salario ma sia l'imprenditore sia i lavoratori interessati sarebbero esentati dai contributi previdenziali. Anche se si ponesse come con-. dizione che uno dei due debba provenire
24 dalle liste di collocamento e che alla retribuzione di entrambi i lavoratori part-time si debba aggiungere un contributo statale in ragione di 20 sterline la settimana, il costo netto per ogni lavoratore proveniente dalle liste di disoccupazione resterebbe pur sempre al di sotto di 2.500 sterline l'anno. Il pre-pensionamento selettivo, comportando un graduale passaggio dal lavoro allo stato di quiescenza, sembra di gran lunga il più ragionevole modo di ridurre la forza-lavoro, se questa riduzione è ritenuta auspicabile.
2) Riduzione dell'orario di lavoro lG Circa un secolo fa, Tom Mann, leader del sindacato dei portuali dichiarava: « sei ore al giorno, cinque giorni la settimana, sono più che sufficienti per un lavoro del genere di quello che dobbiamo fare noi. Non ci daremo tregua finché vi sarà un solo disoccupato ». Sono molti oggi coloro che propongono la riduzione dell'orario di lavoro come mezzo per alleviare la disoccupazione. Ad esempio, la Economic Review del TUC nel 1982 ha dichiarato che « l'obiettivo del TUC è di ridurre l'orario lavorativo del 10% entro il 1986, ovvero del 2% l'anno, attraverso una combinazione di riduzione della settimana lavorativa, di riduzioni dello straordinario sistematico, di prolungamento delle ferie e di pre-pensionamento. Si renderà così possibile l'attuazione di un orario settimanale di base di 35 ore ». La riduzione dell'orario di lavoro è un elemento di rilievo nella strategia generale del TUC, volta ad accrescere l'occupazione con 4 milioni di posti di lavoro extra entro il 1986. Alcune riduzioni per quanto riguarda la settimana lavorativa sono già state negoziate durante il 1979 e il 1980, e solo alcune delle misure concordate devono ancora entrare in vigore. Si è trattato di accordi che interessano i maggiori settori industriali quali la mecca-
nica, le costruzioni e le ferrovie, nonché intese aziendali come si è verificato nel caso della 1Cl e della Woolworths. Nel 1981 circa 4 milioni di lavoratori manuali, cioè quasi la metà della forza-lavoro manuale occupata a tempo pieno, avevano già stipulato accordi che prevedevano una settimana lavorativa inferiore a 40 ore; e inoltre, entro la fine dell'anno in corso, 9 lavoratori su 10 avranno un periodo di ferie di 4 settimane, mentre nel 1978 questo trattamento era riservato solo a 3 lavoratori su 10. La capacità della riduzione d'orario di produrre occupazione dipende dai seguenti fattori: - (i) Lavoro straordinario: se parte della riduzione dell'orario normale si traduce in un aumento del lavoro straordinario diminuiranno le possibilità di ridurre la disoccupazione. Precedenti riduzioni della settimana lavorativa normale nel periodo 1959-62 (da 44 a 42 ore) e 1964-66 (da 42 a 40 ore) inducono a concludere che le ore di lavoro effettivo si riducono in misura all'incirca pari alla metà della riduzione ufficiale dell'orario normale. - (ri) Salario: se la retribuzione settimanale rimane costante, i costi orari della manodopera aumentano di circa il 2,5% per ogni riduzione di 1 ora dell'orario normale, salvo, che la produttività del periodo lavorativo fissato per contratto non aumenti in corrispondenza. Produzione totale: il punto sostanziale della riduzione dell'orario sta nel fatto che la produzione resta inalterata mentre aumenta il numero dei lavoratori occupati; per cui se con la riduzione dell'orario lavorativo diminuisce la produzione, il fine della riduzione dell'orario risulta frustrato. Produttività - produzione uomo/ora: l'aumento dei costi unitari della manodopera decresce con l'aumento della produttività, anche se, così facendo, si altera la possibilità
25 di ulteriore occupazione, dato il livello della produzione. Inoltre non è del tutto chiaro il motivo per cui, se vi è la possibilità di un aumento della produttività, esso non si sia comunque verificato. Il Dipartimento del Lavoro ha calcolato che se l'orario settimanale venisse ridotto da 40 a 35 ore, senza corrispondente perdita di salario nominale settimanale, e se la perdita potenziale di produzione fosse calcolata come segue
riduzione stabile della disoccupazione lungo questa strada. Nel triennio 1977-79 gli addetti al settore manifatturiero hanno cumulato 15 milioni di ore di lavoro straordinario la settimana. Anche nel 1981, quando la disoccupazione aveva raggiunto l'11,3%, i suddetti operai hanno cumulato ogni settimana 9,2 milioni di ore di lavoro straordinario. Non deve quindi sorprendere che si sia pensato alla riduzione del lavoro straordinario quale mezzo per ridurre la disoccupazione. - aumento di occupazione . . - 35% Vi è tuttavia una certa differenza di vedute - aumento di produttività - . . 20% nei confronti della funzione del lavoro stra- aumento di lavoro straordinario . 35% ordinario, specie da parte dei sindacati. Ad - diminuzione di produzione - . 10% esempio, il TUC lo descrive come un mezzo economico di risposta alle oscillazioni della la disoccupazione si ridurrebbe di 350.000 domanda, ma imputa al lavoro straordinario unità, con un aumento del costo della masistematico la determinazione di « consenodopera dell'8,5%. Il minore esborso di guenze che possono arrecare danno ad enindennità di disoccupazione e l'aumento del trambe le parti interessate [ ... ] I corrispongettito delle imposte farebbe scendere il denti vantaggi della riduzione del lavoro straPSBR di 1.750 milioni di sterline (a prezzi ordinario sistematico sono chiari. In molti 1982-83). Tutto ciò sembra assai appetibile, casi ai lavoratori può esser concesso più temma è molto importante tener presente che po libero con poca spesa in termini di produsi tratta solo di un primo effetto. Con l'anzione e di salario [ ... ] ed i costi di gestione dar del tempo, l'aumento dei costi unitari di un sistema elevato di straordinari possodella manodopera darà luogo ad un aumento no essere ridotti ». dei prezzi. Questo sarà un secondo effetto Non è allora chiaro perché, se il lavoro stradella manovra. Se il tasso di cambio è fisso, ordinario non arreca alcun beneficio ad enne conseguirà un abbassamento delle esportrambe le parti, non sia stato abolito attratazioni nette e dell'occupazione. Se il tasso \ verso un accordo. Più coerentemente, nel di cambio oscilla, la conseguente svalutazione presente contesto, se il lavoro straordinario comporterà la necessaria riduzione del teno- non serve ad alcuno scopo reale, è improbare di vita già implicita nel programma sin bile che si possano creare molti posti di ladall'inizio. Il Tesoro ha calcolato che circa voro eliminandolo. Se, invece, si parte dal un terzo dell'impatto positivo della riduzio- presupposto che le ore di lavoro straordinane dell'orario di lavoro nei confronti dell'oc- rio sono produttive, l'abolizione del livello cupazione e della disoccupazione si perderà dello straordinario del 1981 si traduce in entro due anni in seguito al secondo effetto. oltre 200.000 posti di lavoro nel settoré delLa riduzione dell'orario lavo rativo comporta l'industria manifatturiera e ad oltre 500.000 dunque anche una riduzione del reddito reale. nel complessodell'economia. Ma non è faA meno che le singole persone non siano dicile tràdurre in pratica una relazione di quesposte a sacrificare parte del proprio reddito sto tipo. Anzitutto è da rilevare che il comreale, vi sarà quindi scarso spazio per una plesso del lavoro straordinario oscilla prin-
26 cipalmente perché varia il numero dei lavoratori che vi partecipano e non a causa di un'oscillazione delle ore di lavoro straordinario per ciascun operaio, che sono rimaste ferme ad una media di 8,5 la settimana dal 1976 in poi. Ne deriva che la parcellizzazione delle ore in posti di lavoro sarebbe difficile. In secondo luogo, gli operai che hanno un salario orario basso tendono a lavorare di più e possono non gradire le riduzioni del loro salario reale disposte per creare altri posti di lavoro. D'altra parte le aziende fanno ricorso al lavoro straordinario se è più conveniente prolungare l'orario della manodopera esistente anziché assumere nuovi operai. Se il TUC ha realmente l'intenzione di ridurre il lavoro straordinario per creare nuovi posti di lavoro, dovrà proporre l'adozione di misure che comportino un aumento del costo del lavoro straordinario alle aziende. Ad esempio, il compenso potrebbe essere aumentato forse fino a cinque volte rispetto al salario per le ore normali, oppure si potrebbe adottare un criterio di aumento fortemente progressivo dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro. Tali misure incoraggerebbero certamente le imprese che hanno bisogno di servizi extra di manodopera ad assumere altri operai anziché prolungare la settimana lavorativa. Nel corso degli ultimi due anni si sono avuti notevoli aumenti di occupazione ad orario ridotto, grazie all'attuazione del Temporary Short Time Working Compensation Scheme (TSTWCS). Quest'ultimo programma può considerarsi il successore del TES ma, mentre il TES ovviava all'eccesso di manodopera attraverso la concessione di contributi alle aziende per il mantenimento al lavoro produttivo dei lavoratori, il TSTWCS evita l'eccesso di manodopera concedendo contributi alle aziende per flni non produttivi, limitandosi cioè a ripartire il lavoro disponibile mediante la riduzione dell'orario settimanale.
Il programma opera nel modo seguente: se una impresa è costretta ad offrire un minor numero complessivo di giornate lavorative ai propri dipendenti ed è in procinto di dichiarare una eccedenza di 100 operai occupati in una normale settimana lavorativa di cinque giorni, essa potrà chiedere un contributo in ragione di 500 giornate di contrazione del lavoro per settimana. Lo stesso vale, ad esempio, se si tratta di 250 operai costretti a perdere due giornate lavorative la settimana. A tutti i dipendenti collocati in regime di settimana corta dovrà esser corrisposto almeno il 50% della paga normale per ogni giornata senza lavoro, ed essi dovranno tornare al lavoro per una normale giornata lavorativa dopo un massimo di sette giorni consecutivi di interruzione del lavoro. All'impresa verrà rimborsato il pagamento della settimana corta (cioè il 50 per cento della paga normale) per un periodo massimo di 6 mesi. Nel marzo 1981, periodo di maggior applicazione del programma, le imprese hanno ricevuto compensi per 948.000 operai con orario ridotto. Il numero dei posti a tempo pieno sovvenzionati era di 219.000 e le liste di collocamento risultavano alleggerite di 148.000 unità, mentre il costo mensile lordo del programma era di oltre 50 milioni di sterline. Il programma TSTWCS non elimina quindi la disoccupazione, ma la redistribuisce in modo ragionevolmente efficace in termini di spesa. Tenuto conto del flusso delle imposte e dei contributi previdenziali, il costo netto del programma per l'erario è in larga misura identico a quello che si verificherebbe lasciando crescere liberamente il numero degli iscritti nelle liste di disoccupazione. Un nuovo progetto mirante a sdoppiare un posto di lavoro a tempo pieno in due a tempo parziale verrà attuato dal gennaio 1983
27 fino a marzo 1984. Nell'ipotesi che vengano divisi. 100.000 posti di lavoro e il contributo del governo sia fissato a 750 sterline per posto, il costo lordo del programma per l'erario sarà all'incirca di .75 milioni di ster lime per la sua intera durata. Tuttavia, il costo netto potrà essere nullo o addirittura negativo: la ragione risiede nel fatto che, quando il posto di lavoro viene sdoppiato, esso viene assegnato a due disoccupati, o ad un disoccupato e ad un occupato a tempo pieno, oppure a due occupati a tempo pieno, uno dei quali sarebbe stato altrimenti dichiarato in eccesso. Il programma in esame conferisce ulteriore impulso allo sviluppo dell'occupazione a tempo parziale. Il numero degli operai part-time si è raddoppiato nel corso degli ultimi 20 anni, raggiungendo i 4,4 milioni (circa i occupato su 5) e mascherando la diminuzione di oltre 2 milioni di impieghi a pieno tempo. L'articolazione di un simile programma, affiancato da adeguati provvedimenti in materia di trattamento pensionistico, potrebbe in ultima analisi costituire anche un utile strumento per un graduale mutamento dello status degli anziani all'interno della forzalavoro, prima di un loro definitivo pensionamento.
CONCLUSIONI
1. Al fine di ridurre la disoccupazione occorre adottare misure macroeconomiche di espansione dell'economia. Sarà necessario abolire la sovrimposta sui contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro (employer's national insurance surcharge). Occorre inoltre promuovere una politica dei redditi per far sì che la reflazione si nutra,
per quanto possibile, di produzione e di occupazione anziché di salari e prezzi. Nelle circostanze attuali, si impongono anche misure speciali per l'occupazione. Rispetto alle agevolazioni fiscali, esse producono un minor costo all'erario per posto di lavoro; esercitano un impatto meno sfavorevole sulla bilancia ,. dei pagamenti; esercitano una minor pressione inflazionistica; possono esser rivolte verso gruppi particolari e possono correggere distorsioni che altrimenti provocherebbero un calo dell'occupazione. I contributi sui salari e i programmi di creazione di posti di lavoro devono costituire il centro di qualsiasi iniziativa speciale a favore degli adulti. Ad esempio, potrebbero essere istituiti contributi per incoraggiare le aziende all'assunzione di manodopera extra. Sarà quindi necessario ampliare i programmi che mirano alla creazione di posti di lavoro del tipo del Community Programme Scheme. Il governo dovrà decidere se lo YTS debba avere principalmente lo scopo di elevare la quantità e la qualità della formazione o non debba invece semplicemente servire a rendere « innocui » i giovani disoccupati. Sarà necessario avviare lo Young Workers Schen-ie, che prevede l'integrazione salariale, se si riterrà opportuno continuare ad effettuare il collocan-iento attraverso i. canali ortodossi. Le riduzioni dell'offerta di manodopera sono meno efficaci dell'aumento della domanda della manodopera. stessa ai fini della riduzione della disoècupazione. Comunque, I 'adozione dell'orario lavorativo ridotto riuscirà a ridurre la disoccupazione solo se sarà accompagnata dall'adozione di un reddito ridotto.
28 i Per una più completa trattazione si veda S. NiCKELL, Deterrninants of Equilibrium Unetnployment in Britain, in Economie Jour.nal, Settembre 1982; A.P. THIRWALL, De-industrialization in the U.K., in Lloyds Bank Review, 144, aprile 1982; A.K. CAIRNCROSS, P.D. HENDERSON, Z.A. SILBERSTON, Probleins o! ,Industrial Recovery, in Midland Ban'k Review, primavera 1982. 2 Per un'analisi delle misure reflazionistiche necessarie si veda anche R.C.O. MATTHEWS e J.R. SARGENT: Macroeconomic Policy in the U.K.: is there an alternative?, Midland Bank Rcview, autumn/winter 1981. Si veda anche M. MILLER: In/I ation
Adjusting the Public Sector Financial Deficit: Mesurement and Implication br Policy, in J. Kay (editor) The Budet, Institute for Fiscal Studies, 1982. Si veda in propsito,. H.M. Treasury: Rccent Trnds in Labour Productivitv, in Economie Progress Report, 1.4 gennaio 1982; S. SMITH-GAVINE e A. BENNET, Index 0/ Percentage Utilisation of Labour, ciclostilato del Leicester Polytechnic, maggio 1982; D. TONES, The Recent Rxses in Labour Productivity. An Appraisal, ciclostilato del Thames Polytechnic, maggio 1982. Una utilissima trattazione delle misure speciali per l'occupazione è contenuta nella relazione dcl Selcct Committce of the House of Lords; capp. 9 e 10. B. DEAKIN e C. PRATTEN, Effects of the Tempo-
rary Employment Subsidy Department o! Appiied Economics, Occasional Paper 53, Cambridge University Press, 1982. 6 Si Veda R. LAvARD e S. NIcKELL, The Case br Subsidizing Extra Jobs, in Economic Journal, Marzo 1980; R. LAYARD, The Long-Tern Unemployed: Is Therc aii ilnswer? In The Times, 23 giugno 1981. L'articolaeionc del dibattito a sostegno delle suddette proposte è complessa. Sostanzialmente il governo era favorevole ad un progetto che interessasse i licenziati della scuola dell'obbligo non occupati, mentre la Manpower Services Commission desiderava introdurre un ponte assai più ampio per la <i transizione dalla scuola al lavoro ». La versione finale si basa principalmente sulle 'proposte della MSC. Si veda in proposito: MSC New Training Initiative, maggio 1981; Dipartimento del Lavoro:
A New Training Initiative: A Pro grainme br aclion, Cmnd. 8455 HMSO, 'Dicembre 1981; MSC: Youth Task Group Report, aprile 1982; N. Dccltrr: Oni o/ the Dole Quene and Thto a Skill, The Timea, 22 giugno 1982. Anche la Commissione di indagine sull'occupazione e il Comitato Con sultivo sulla previdenza sociale della Camera dei Comuni hanno partecipato al dibattito. 8 J• GARRATY, Unemployment in History, Hatper and Row, 1978; J. HARRIS, Unernployment and Policy, O:cford University Press, 1978 Si veda De Gazette, marzo 1978, pp. 283-285; aprile 1980, pp. 366-369; aprile 1981, pp. 167-173; maggio 1982, pp. 196-199; M. WHITE, Sborter
Working Time, Political Studies Institute, N. 598, dicembre 1980. '° Si veda De Gazette, aprile 1978, p.p. 400-402, J. HUGHES, The Reduction in the Workin,g Week: a Critical Look at Target 35, British Journal of Industrial Relations, luglio 1980; TUC, Pro gramme /or Recovery, in Economie Review, 1982, cap. 4.
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I nodi della contrattazione sindacale prima e dopo l'accordo del 22 gennaio :di Giuseppe Berta
Discutere della crisi del sindacato è ormai dell'aumentata incidenza politica e sociale un fatto così ricorrente, nell'Italia degli andelle relazioni industriali, si è molto spesso ni ottanta, da essere divenuto un luogo cosoffermata sulle ragioni e sulle manifestaziomune, almeno quanto il riferimento alla ni del ritardo culturale delle organizzazioni crisi del sistema politico. E in effetti, a esa- sindacali - e ha avuto buon gioco nel minare le cronache dei giornali e la pub- mettere in evidenza limiti e fragilità della blicistica sulle relazioni industriali, parreb- « cultura del conflitto » degli anni settanta be che nessun aspetto della politica riven-, ma si è oltretutto frequentemente ardicativa e della struttura organizzativa delle restata alle soglie dell'analisi delle cause di confederazioni sia andato esente dal rivelare fondo all'origine dell'impasse dei sistemi di costanti e crescenti segni di declino, a parti- rappresentanza degli interessi sociali. E anre da quella storica vertenza dei « 35 gior- cora più arduo è sembrato definire in poni » della Fiat dell'autunno 1980 destinata sitivo quale può essere il nuovo spazio di a restare come un discrimine profondo nelmovimento del sindacato e quali politiche le vicende del movimento sindacale italiano. rivendicative e organizzative possono attiDopo la politica salariale, che ha sopportato vario. l'accusa di essere la causa essenziale di una Una valida occasione per stimolare delle omogeneizzazione dei redditi perniciosa per riflessioni sul percorso che il sindacato sta il rispetto dei ruoli sociali e produttivi e la oggi compiendo nell'Europa della crisi è stafonte di inevitabili spinte inflazionistiche, ta costituita dall'iniziativa dell'IRES-CGIL l'accento è stato posto sulla crisi di rappredi promuovere un convegno (che si è tenuto sentanza che sconterebbero le organizzazioa Roma il 16 e 17 dicembre 1982) sulla ni sindacali ancorate a modelli rappresentacòntrattazione sindacale nella recessione. L' tivi ormai svuotati di capacità democratica. interesse del convegno non è stato rappreSu tutti questi motivi, si è poi innestata la sentato tanto dall'opportunità di procedere paralisi della contrattazione, bloccata ormai a una ricognizione comparativa ulle varie sia a livello confederale che delle grandi ca- politiche sindacali che si stanno attuando in tegorie industriali, impantanate in una de- Europa, né dall'aver suscitato un confronto fatigante trattativa sul costo del lavoro che che, nelle intenzioni degli organizzatori, doè apparsa a molti priva di sbocchi reali. veva essere « misto », cioè doveva porre a Difficile inquadrare entro nuovi modèlli di contatto studiosi e sindacalisti. Di per sé comprensione teorica questa lunga e tortuoqueste operazioni, pur necessarie, non fuosa marcia del sindacato dentro la crisi: la riescono dal novero dei tentativi compiuti folta schiera di studiosi del sindacato che per rinnovare l'armamentario culturale del è andata crescendo in questi anni, sull'onda sindacato italiano. E nemmeno l'introduzione
30 in forma sostantiva del tema della contrattazione nell'alveo di una tradizione come quella della CGTL, da sempre tenacemente attaccata ai caratteri solidaristici generali dell'azione sindacale, può essere vista come l'elemento centrale di interesse dell'iniziativa. Il vero fattore di novità del convegno sta altrove, nell'aver esso offerto le condizioni perché si dispigassero e si ponessero a confronto le principali interpretazioni correnti dell'azione sindacale, così come esse sono germinate entro divergenti contesti organizzativi. Il nodo dell'impasse del ruolo contrattuale del sindacato ha messo dunque a dura prova la tenuta e l'efficacia dei modelli teorici applicativi tuttora in corso, che forse lasciano fuori del loro raggio più dei fenomeni che riescono a ricomprendere. Il primo modello ad essere messo seriamente in questione è stato quello del neo-corporativismo, perciò quello che probabilmente ha avuto più larga circolazipne negli anni recenti. Guido Baglioni si è sentito di affermare che dalla rassegna delle tendenze in atto in Europa - dopo che la gravità della recessione ha restituito credibilità a terapie liberiste, monetariste o semplicemente deflazioniste - lo schema ottimale neo-corporato della triangolazione tra sindacato, Stato e imprese - ove ogni attore dispone di risorse da scambiare con gli altri - non solo non tiene più nella pratica politica, ma non pare neanche più proponibile. Per Baglioni, questo non significa che il sindacato debba rinunciare a definire e a possedere una propria proposta complessiva di politica economica; ancor meno significa che esso debba abbandonare una propensione « macroeconomica », in favore di una sottaciuta adesione a una linea di condotta « microeconomica », pronto a contrattare là dove ci sia disponibilità alla contrattazione e a subire invece le politiche economiche governative. Pronunciata da un esponente di primissimo piano e da un autorevole interprete della
tradizione culturale della CISL - che ha, nel suo passato, il merito storico della prima rivendicazione teorica dell'articolazione contrattuale -, questa difesa di un impegno macroeconomico del sindacato che è anche, inevitabilmente, una difesa della centralizzazione, fa un certo effetto. Ma ancor più impressiona il senso di indeterminatezza circa lo sbocco politico che la proposta lascia: a quali soggetti istituzionali dovrebbe rapportarsi questo sindacato portatore di logiche ispirantisi alla formazione di interessi generali? Se lo scopo non ,è quello di un patto da istituzionalizzarsi nella prassi politica con altri contraenti, qual è il senso da dare allo scambio politico di cui parla Pierre Carniti, unico tra i massimi dirigenti confederali ad avere accolto la terminologia degli studi politici di questi anni? Posto che il sindacato non può procedere da solo aI governo delle grandezze economiche fondamentali., quali forme di pressione, di mobilitazione dovrà esercitare, quali' risorse di organizzazione e di consenso dovrà spendere per sostenere la sua strategia di politica economica e, in definitiva, con quale linguaggio parlerà ai suoi interlocutori istituzionali? Il consueto gusto per l'empirismo che caratterizza gli interventi di Gino Giugni ha cer cato di rimuovere, se non proprio di dissinate, i dubbi di Baglioni circa le strategie istituzionali di concertazione. Per Giugni, lungi dall'essere terminata, la storia dei tentativi di collegare stabilmente i tre possibili vertici del triangolo detto « neo-corporativo » ha di fronte a sé ancora molta strada da compiere. Anzitutto, ha tenuto a precisare Giugni, non è detto che la politica di concertazione sia sempre indissolubilmente legata, nel bene e nel male, al destino delle grandi socialdemocrazie nordiche: nel quadro della sinistra europea, sarebbero invece molte le novità che si profilano entro l'area mediterranea. Soluzioni nuove possono emergere anche dalla Spagna e dalla Grecia, e
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31 i primi segnali sembrerebbero indicare che la via sarebbe ancora una volta quella della consultazione istituzionalizzata e della concertaziqne. La riforma e l« ingegneria » sindacale che Giugni giudica oggi necessarie possono tendere solo in questa direzione, posto che il sindacato italiano debba affrontare la crisi rivedendo in profondità le sue politiche rivendicative. A differenza che nel decennio passato, esso sconta ora una situazione di asimmetria col padronato per quel che riguarda i rapporti diretti di potere, ed è probabile che le indifferibili revisioni di linea possano portare a un ulteriore deterioramento dei margini di consenso sociale in cui si muovono le confederazioni. Se questi sono i rischi che ha innanzi a sé il sindacato (per quanto Giugni non l'abbia forse esplicitati fino in fondo), una via d'uscita - tale da ricostituire un sistema di garanzie per le organizzazioni dei lavoratori - potrebbe essere rappresentato da un rilancio, in termini originali e profondamente. rinnovati rispetto all'esperienza passata, della legislazione di sostegno. Insomma, se si comprendono correttamente le considerazioni di Giugni, il sindacato potrebbe scambiare la propria moderazione e la propria disponibilità a rivedere alcuni istituti contrattuali (a cominciare, beninteso, dalla scala mobile) con una serie logica e conseguenziale di dispositivi di legge che si assumerebbe il compito di garantire la continuità della sua presenza e di sostenere il suo ruolo di agente negoziale. Prescindiamo pure da ogni commento circa l'esistenza, nel Parlamento italiano, di uno schieramento concorde di forze pronte a farsi carico di tali obiettivi legislativi, giacché la coerenza della proposta di Giugni non deve essere valutata sul metro esclusivo dei rapporti politici quali si presentano in questo momento. Tuttavia, c'è davvero da esser convinti che il problema della rappresentatività sindacale - -perché di questo, né
più né meno, alla fine si tratta - possa o debba essere delégato a una legislazione di sostegno, e per di più quindi pericolosamente consegnata (non si sa quanto affidabilmente) al sistema politico? Certo, le argomentazioni di Giugni hanno il pregio di far uscire i tanto dibattuti termini dello scambio politico dal limbo della generalità e di tradurii nel volgare di una possibile politica realizzabile nello scenario italiano. Ad esse, si può anche riconoscere il merito di un accento di concretezza maggiore di quello che hanno le proposte di scambio politico fondate sui baratto di .contenimenti salariali con più investimenti industriali, dell'allargamento della base produttiva e di quant'altre vagheggiate, generose misure anticrisi così poco disposte, però, a 'parlare con il linguaggio della realtà. Ma si ha l'impressione che il sindacato sarebbe comunque il soggetto di uno scambio ineguale, dal momento che ben difficilmente l'intervento legislativo riuscirebbe a compensare la duplice penalizzazione in alto, verso gli imprenditori, di risorse di potere; in basso, verso i lavoratori, di risorse di consenso - a cui dovrebbero soggiacere le confederazioni. Convinto al pari di Giugni che i modelli neocorporativi di concertazione non siano parte del passato del movimento sindacale europeo, ma piuttosto componente viva del uo presente e del suo prossimo futuro, Marino Regini ha portato altri argomenti a favore di questa tesi, non esitando a manifestare la propria opinione riguardo all'opportunità di resuscitare, con novità d'accenti e significati, la politica dei redditi. E va notato che se le parole di Regini avrebbero provocato, un paio d'anni fa, quanto meno una subitanea riserva davanti, a un pubblico composto anche da sindacalisti, è certamente un segno dei tempi che questa problematica sia ora accolta di fatto come interna sia dal sindacato che dalla sinistra. Ma prima di riserbare ancora qualche osser-
32 vazione a questo vecchio tema, come lo stesso Regini l'ha definito, della politica dei redditi, merita qui ricordare almeno un altro intervento denso di spunti critici e di interrogativi tra quelli pronunciati dalla tribuna del convegno dell'IRES-CGIL. Si tratta dell'intervento di Carlo Donolo che ha anch'egli preso di petto la questione della praticabilità dei modelli di concertazione neocorporativa, ponendo in dubbio tuttavia, con una ricchezza di motivi di cui non è possibile dare sommariamente conto, che la dinamica reale della contrattazione, quale essa si configura attualmente, possa rientrare nerle linee del negoziato politico. Donolo ha recato molti esempi alla logica del suo discorso, mostrando come le tendenze conflittuali e rivendicative che si sono espresse nel composito universo del lavoro dipendente possano essere sussunte solo in parte alle regole centralizzatrici che sovraintendono al tipo di scambio politico previsto dai modelli neocorporativi. In realtà, le concrete manifestazioni dell'azione rivendicativa sembrano convergere sempre meno sul modello centralizzato ,della grande organizzazione sindacale, solidamente attaccata alla sua matrice operaia e industriale: nulla ci autorizza a credere, nella perdurante e accresciuta instabilità dei sistemi di rappresentanza, che il futuro ci ponga davanti a un'organizzazione dei lavoratori modellata sul centralismo classico di un sindacato come la DGB tedesca. Al contrario, requisiti di centralizzazione, unità di decisioni, compattezza appaiono necessari per il funzionamento di un patto neo-corporativo. E' sulla scia di queste considerazioni che pare vada riconsiderato integralmente il (falso) dilemma di centralizzazione o decentramento. Posto che nessuno può seriamente pensare nel sindacato che il decentramento possa significare l'accordare via libera alle più differenti spinte rivendicative e tendenze negoziali, giacché sarebbe questo il segno
della subalternità della politica sindacale, va detto che la necessità di un controllo e di un coordinamento centrale della contrattazione non può significare la chiusura di ogni esperienza di decentramento negoziale. Ciò che piuttosto deve essere ricercato è un certo grado di flessibilità tra le esigenze di coordinamento di vertice, al livello confederale, della politica contrattuale e le istanze di decentramento per la sperimentazione di nuove strategie negoziali, sia a livello aziendale che shop-/loor. Questo è probabilmente possibile, a patto che non si pensi a patterns negoziali di base simili a quelli sviluppati negli anni settanta. La trasformazione a cui è attualmente soggetto il rapporto di lavoro necessita, a motivo della sua portata e intensità, che si lasci uno spazio per una contrattazione decentrata, attenta a porsi nel solco delle innovazioni organizzative e produttive. E' l'innovazione a sospingere l'azione sindacale in questa direzione, se l'organizzazione dei lavoratori non vuole perdere il passo con i rivolgimenti che si stanno producendo nell'area del lavoro dipendente. Scegliendo la via della centralizzazione (e dunque concentrando tutta la sua attenzione in materia contrattuale esclusivamente sul tema del livello delle retribuzioni), il sindacato non potrebbe che divenire totalmente subalterno all'iniziativa imprenditoriale sui luoghi di lavoro : ponendo le premesse della sua emarginazione. Per questo (e se ne ritrova traccia nelle relazioni di Paolo Perulli, di Mario Dal Co e Matteo Rollier al convegno dell'IRES-CGIL), il sindacato deve essere posto nella condizione di contrattare l'innovazione. Ma torniamo al nodo della politica dei redditi, questo risorto scoglio su cui, secondo alcuni, rischierebbero di infrangersi le terapie anticrisi delle sinistre. Nel corso di un dibattito torinese, Claudio Napoleoni, che da vent'anni (e da differenti prospettive politiche) invita a ripensare alle opportunità offer-
33 te da un'incomes policy, ha detto che per politica dei redditi deve intendersi oggi « la determinazione preventiva della dinamica di tutti i redditi nominali ». E Giorgio Ruffolo, nella medesima sede, ha voluto rammentare che solo in Italia si crede che la politica dei redditi sia « di destra », mentre essa appartiene storicamente, a tutti gli effetti, all'armamentario teorico e politico della sinistra europea. In molti sensi Ruffolo ha ragione: la storia delle socialdemocrazie europee di quest6 dopoguerra è intrecciata alla storia dei tentativi di prograrnmare la dinamica dei redditi commisurandola alla crescita delle altre grandezze economiche fondamentali, prima tra tutte la produttività. La politica dei redditi ha fatto realmente parte della strumentazione di una strategia di modernizzazione e di trasformazione sociale in un quadro economico che era quello dell'espansione post-bellica, dalla ricostruzione agli anni sessanta. Anzi, essa è stata elemento portante di quella strategia della concertazione tra le parti sociali e lo Stato, la cui istituzionalizzazione nel tempo ha colpito gli studiosi di scienze politiche e sociali inducendoli a coniare la categoria del neocorporativismo. Ma, magari per un eccesso di rigore storico, verrebbe da consigliare di lasciare la dizione di « politica dei redditi » a questo suo lungo e tutt'altro che inglorioso passato, alla stagione della high theory keynesiana e all'età delle grandi riforme socialdemocratiche, se è vero che il problema odierno, come ce lo presenta Napoleoni, è essenzialmente quello del contenimento della dinamica monetaria delle retribuzioni. Quando poi non si tratta di pianificare la crescita, bensì di delineare un percorso realistico che consenta il controllo degli effetti della crisi, e si riferisce l'andamento dei salari al tasso di inflazione prima che allo sviluppo della produttività, allora si è inequivocabilmente davanti ai problemi di definizione di un programma eco-
nomico che non può non esorbitare da] quadro delle politiche classiche della sinistra europea. Ma prospettare l'eventualità di predeterminare l'evoluzione degli incrementi retributivi può non essere assunto a simbolo di soggezione nei confronti di terapie d'urto neo-conservatrici o di semplice incapacità prescrittiva della sinistra in materia economica. Soltanto sembrerebbe che, dal momento che radicalmente nuovi devono essere i termini di analisi della crisi e dunque anche i rimedi proponibili, a una situazione tanto mutata debba corrispondere un inedito apparato concettuale. A questo punto, non sarebbe meglio evitare la ripresa anche terminologica di formule che, proprio a ragione della storia che si portano appresso, prestano immediatamente il fianco a vecchie obiezioni e riecheggiano annose polemiche? rn una fase in cui si domanda al movimento sindacale di procedere a una riclassificazione complessiva delle sue categorie culturali, non sarebbe forse inutile sgomberare preliminarmente il campo da tutto quanto possa divenire causa della riapertura di tradizionali motivi di contrasto e far scattare reazioni le quali, pur non essendo pertinenti al presente, hanno il potere di scatenare resistenze e tensioni. Infine, il richiamo alla politica dei redditi ha pure il difetto di evocare modelli di gestione istituzionale dei conflitti sociali che appartengono, nella versione italiana, agli anni sessanta e che presuppongono una configurazione estremamente datata del patto neocorporativo. Già Dono]o ha osservato che la scarsa applicabilità di quest'ultimo dipende in larga misura dall'aver esso sottovalutato, passandole quasi sotto silenzio, tendenze e vischiosità del sistema amministrativo che la crisi impone di affrontare frontalmente. Se, dal lato delle relazioni industriali, il controllo dei processi economici attende di essere fronteggiato contestualmente al ripristino dell'efficacia dei sistemi di rappresentanza (e senza entrare in con-
34 traddizione con essi), è chiaro che all'intervento sull'amministrazione e sui settore pubblico tocca un ruolo di primo piano. E su questi temi l'ingegneria sindacale e istituzionale prevista nelle soluzioni già conosciute di politica dei redditi ha poco da dire: tanto vale, quindi, ripartire da zero.
dicembre 1982
Proscritto (maggio 1983). Non sempre il ritardo nella pubblicazione cli uno scritto riesce inopportuno. Nel caso di queste note che devono essere considerate come dei semplici appunti a margine del dibattito sui problemi dell'azione sindacale nella crisi italiana - verrebbe anzi da dire che il differimento della loro pubblicazione può costituire un'utile occasione per esaminare i termini nei quali si presenta l'analisi del sistema di relazioni industriali. Un sistema di relazioni industriali che appariva, nel tardo autunno scorso, per molti versi « bloccato » e non tanto e non solo perché non si riusciva allora a immaginare una via d'uscita per i rinnovi contrattuali, quanto perché si incontrava una diffusa attesa circa la necessità di una svolta, i cui caratteri persistevano però del tutto indeterminati. Se stiamo a molte opinioni di autorevoli commentatori la svolta, poi, ha finito col prendere consistenza e una definizione piena con l'accordo tra governo e imprenditori siglato, con l'attivo intervento 'del ministro del Làvoro, il 22 gennaio scorso. Credo che a chi volesse tentare una pur sommaria rassegna di tutto quanto è stato scritto su tale accordo, a pochi mesi soltanto dalla sua firma, il compito non si presenterebbe affatto facile. E' probabile che nessun evento della recente storia sindacale italiana - neppure 'l'aspro conflitto svoltosi alla FIAT nell'autunno 1980 - abbia avuto più potere di attirare su di sé l'attenzione degli' studiosi, che ad esso hanno dedicato già un numero
più che ragguardevole di articoli e saggi; Notevole anche la gamma di categorie interpretative a cui si è fatto ricorso per intendere il sènso dèll'accordo e dare' ad esso la giusta collocazione nel novero dei' modelli di relazioni industriali esistenti: per giusta. mente valutarlo si è parlato nuovamente di «scambio 'politico » -' con' i consegùenti, ovvi riferimenti al « neocorporativismo » -, ma anche di « n'eocontrattualismo» o di « contrattualismo concertato ». In quasi tutti i commenti, comunque, l'accento è venuto a cadere sugli elementi di originalità e di svolta aperti dall'accordo nel quadro delle relazioni industriali.' In fin dei conti, si può dire che abbia finito col fuùzionare, nella opinione di molti, quel segnale che lungamente era stato indicato come la pietra di paragone su cui misurare il tasso di innovazione nei rapporti sindacali, e cioè la revisione del meccanismo. di calcolo dell'indennità di contingenza: forse, per troppo tempo si era detto che, con la modifica del sistema di indicizzazione delle retribuzioni, doveva necessariamente mutare il trend generale delle relazioni contrattuali perché quando ciò si fosse verificato non dovesse diffondersi automaticamente la convinzione 'che la svolta era avvenuta. ' Sta di, fatto che quando si farà la storia sindacale' di questo periodo si dovrà' registrare che l'enfasi è stata eccessiva e che la fretta di interpretare il mutamento in atto ha giocato ad alcuni commentatori un brutto tiro. A quattro mesi dall'accordo di gennaio - che avrebbe dovuto assolvere alla funzione di ridare coerenza ai vari livelli della contrattazione sindacale -' ancora nessuna delle condizioni indispensabili ai fini della sua efficacia si è realizzata. Per incominciare, il primo contratto rilevante concluso dopo la stipulazione dell'accordo - quello del pa'rastato - ha' tranquillamente infranto, i limiti di compatibiità - la correlazione tra andamento delle retribuzioni. e' rispetto della
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35 barriera del 13 per cento d'inflazione annua - che in esso erano stati stabiliti. La deroga sarebbe già grave in sé, ma la sua contraddittorietà appare tanto più stridente quando si ricordi che l'accordo sulla rejisione della scala mobile era stato fatto accettare, nel corso delle consultazioni di base, presso le categorie industriali in cambio della riapertura dei negoziati per il rinnovo dei loro contratti di lavoro. Ora, non solo la Confindustria appare intenzionata a mantenere le sue note posizioni intransigenti sui contratti, ma i lavoratori dell'industria si vedono nuovamente scavalcati nella contrattazione da alcune categorie del pubblico impiego che. continuano a impiegare risorse negoziali differenziali e particolari. Ma i metalmeccanici dell'industria di Stato hanno visto concludersi le trattative e questo, almeno in linea di principio, è un risultato che si potrebbe ascrivere in positivo alla, logica dell'accordo di gennaio. Purtroppo, anche qui le contraddizioni continuano ad assommarsi alle contraddizioni: appena firmato il contratto, il presidente del]'Iritersind - per non trovarsi in oggettivo conflitto con il presidente della Confindustria, da una parte e, dall'altra, per smentire il vecchio presupposto secondo cui il ruolo dell'industria pubblica nella contrattazione sindacale è di aprire il solco entro cui, in un secondo tempo, siinerisce l'industria privata - ha affermato che i termini dell'accordo non sarebbero « esportabili ». E allora questo che significa? Che all'industria di Stato tocca un ruolo mediatorio e compensatorio che trova una giustificazione esclusivamente politica, in subordine all'intervento dell'esecutivo? Basterebbero questi esempi a far dubitare della validità di un accordo che può applicarsi soltanto a una parte dei contraenti dichiarti dal momento che un'altra parte di essi - distribuita da ambo i lati del tavolo delle trattative - tende di fatto a svincolarsene. Non ci vuole molto, dunque, ad ac-
corgersi che ci troviamo entro i confini di un modello tutto affatto particolare, confini che a tratti risultano così labili da far nutrire più di un sospetto sulla effettività del modello. Poniamoci pure all'interno della logica presunta dell'accordo di gennaio, senza esprimere un giudizio complessivo di valore: è evidente che essa per funzionare con un po' di efficienza avrebbe bisogno di procedure precise, come anche di sanzioni per i soggetti che non le rispettano o che si discostano dagli indirizzi indicati. Ma nulla di tutto ciò è previsto. Così, le confederazioni non hanno nessun potere di imporre sanzioni alle formazioni sindacali che hanno la forza di sfuggire ai vincoli predeterminati e ai modelli centralistici. Ciò rivela, in definitiva, come sia fondata la critica, che è già stata richiamata, circa la scarsa tenuta attuale dei patti che si ispirano alle prospettive e alle esperienze del neocorporativismo. La tardiva traduzione in Italia di forme di concertazione negoziate sconta infatti, oltre alle ben conosciute debolezze politico-economiche del contesto italiano, anche la difficoltosa praticabilità di soluzioni compattamente centralizzatrici. Se un certo grado di ceritralizzazione pare realizzabile all'interno delle grandi categorie industriali e nel rapporto tra di esse e il vertice confederale, la stessa cosa non può dirsi vera per le organizzazioni sindacali che operano all'interno del settore pubblico allargato. Ma anche quest'ordine di problemi rimanda, alla fin fine, alla precarietà del quadro politico-istituzionale entro cui dovrebbe iscriversi il modello della contrattazione concertata. E' inutile negarlo: lo scenario italiano resta quello consueto, caratterizzato dalla presenza (assai poco innovativa) di un governo che - come osserva giustamente 'Paolo Perulli (I tre attori del negoziato, « Demo. crazia e diritto », 1983, n. 2, p. 67) -
36 non è propriamente né pro labour né anti labour. Difficile definire una politica complessiva di concertazione per le relazioni industriali quando non si è scelta una strategia di politica economica. Del resto, proprio uno dei protagonisti della lunga mediazione che è sfociata nell'accordo di gennaio, Gino Giugni (che anche ha scontato su di sé, vittima di un grave attentato terroristico, le conseguenze del gran battage che si è fatto sulla scia dell'accordo) ha detto di recente che la svolta sindacale ha la necessità di trovare un referente autorevole nel sistema politico. Giugni ha auspicato che la campagna elettorale ora in corso possa essere l'occasione per discutere del modo di costituire un valido retroterra alla politica di concertazione. Ma, a quanto sembra, c'è da dubitare che sarà così. In conclusione, non è certo azzardato pronosticare che l'accordo del 22 gennaio non sarà, di per se stesso, la tanto attesa e (prematuramente) celebrata svolta nelle relazio-
ni industriali. I nodi da sciogliere restano ancora quasi tutti, dati l'indeterminatezza degli indirizzi di governo, il vuoto che permane a caratterizzare la cornice di politica economica, l'assenza delle politiche industriali. Fin tanto che, pezzo su pezzo, non si metteranno in piedi degli assetti politico. economici congruenti - in cui sia fatta chiarezza sulle procedure che devono accompagnare i processi di formazione delle decisioni dei soggetti sia del sistema politico sia del sistema di relazioni industriali - gli accordi generali rischieranno di rimanere delle empty boxes. Il problema di come contemperare, nell'azione sindacale, istanze di centralizzazione ed esigenze di decentramento richiede di essefe affrontato e risolto non in astratto, ma sul banco di prova rappresentato da opzioni su materie specifiche, su elementi di giudizio certi e vincolanti. Anche da ciò dovrebbe scaturire una legittima diffidenza di fronte alle tentazioni del gbbalismo.