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questo istituzioni 1983/2 ° semestre
UN SISTEMA ELETTORALE IN DISCUSSIONE 4/ Alcune proposte per cambiare di Ernesto Bettinelli
19/ Contributi
di Carlo Chimenti, Luigi Berlin guer, Mario Caciagli, Roberto Ruffilli, Paolo Armaroli, Piero Aimo, Fulco Lanchester, Gian franco Pasquino, Mario Galizia, Orazio M. Petracca, Pasquale Scaramozzino.
Le libere elezioni sono l'elemento caratterizzante delle democrazie. Il sistema elettorale è la principale modalità di funzionamento di una democrazia, ed insieme il distillato dei rapporti di forza fra le aggregazioni sociali e le organizzazioni politiche di un paese ma anche della sua cultura politica. I risultati delle elezioni sono, di volta in volta, i vincoli imposti al processo di decisione di una democrazia e definiscono i confini dell'area di manovra della classe di governo. Q veste affermazioni, per quanto riduttive e semplificate, dicono 1' importanza del tema: elezioni, sistemi elettorali, comportamenti elettorali. Difficile è insomma evitare il tema quando si affrontino i problemi del funzionamento delle istituzioni e della loro riforma. In Italia sono ormai oltre dieci anni che è apparso il fenomeno del voto fluttuante, cioè di una mobilità piuttosto consistente degli elettori. Una mobilità che è probabilmente maggiore di quella che si coglie a prima vista, di elezione in elezione. Data infatti la pluralità dei partiti, molti cambiamenti di preferenza elettorale si compensano fra loro pur nello accresciuto movimento. Con la maggiore consistenza del voto fluttuante si è rot ta la rigidità della divisione iJel corpo elettorale per aree ideologiche, un tempo individuata come causa del blocco stesso del sistema politico. Ma già si è sostenuto nelle pa-
gine di questa rivista (Carlo Chimenti, La forma di governo dopo le elezioni del 1979: riflessioni sulle origini di una democrazia bloccata) che questa rigidità non è stata superata in misura sufficiente. E ciò a causa di una « zavorra elettorale » creata, fra l'altro, dallo stesso permanere dell'obbligatorietà del voto. (In questo fascicolo Chimenti riprende e approfondisce la sua linea di pensiero). Dopo le elezioni politiche del 26 giugno 1983, bisogna dire che il fenomeno del voto fluttuante - di cui l'astensionismo può essere correttamente considerato un aspetto assai significativo - non solo non si è fermato né è receduto ma è diventato sempre più consistente e determinante. Esso costituisce ormai il segno di una trasformazione degli stessi comportamenti sociali ed è da considerare un fattore innovativo del sistema politico. Sempreché le sue potenzialità abbiano modo di essere colte e favorite attraverso aggiustamenti e modifiche del sistema elettorale. Si può non avere ancora un progetto chiaro di modifica: difficile è negare però questa richiesta di mutamento di meccanismi e il suo carattere positivo. Detto tutto ciò, non si vuole semplificare e neppure soltanto facilitare l'implicita carica sempli/icatoria che talora ha il discorso sulle elezioni, sia quando si parli di sistemi sia quando ci si riferisca a singoli episodi elettorali (il ricorso alle urne!). Nel secondo dopoguerra la riconquista e l'allargamento del suffragio universale furono considerati come il primo dis piegamento della democrazia. Tanto più in Italia: quando dopo la dittatura, fu proprio nel suffragio universale (e nelle garanzie che esso fosse esercitato) che le grandi forze politiche (quelle che sapevano di avere maggiori radici nella società) cercarono e trovarono la loro principale legittirnazione. Più tardi, dopo i veleni della contestazione politica del '68 e del post-'68, dopo il successo in tutto il mondo occidentale delle nuove comunicazioni di massa e delle sue tecniche di manipolazione del consenso, sarà anche possibile chiedersi se il suffragio universale sia contro la democrazia (come ha fatto - anche se non sempre appro/onditamente e convincentemente - il francese Philippe Braud con il libro appunto Le suffrage universel contre la démocratie,
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e
Aseociato allUapi: Unione stampa Periodica Italiane
3 PUF 1980). .È da chiedersi se, anche per il problema elettorale - così come per altri fondamentali problemi di una sòcietà che si riscopre complessa - non si debba seguire una linea di maggior so/I sticazione dei meccanismi. Non solo sul piano delle correzioni del sistema proporzionale con elementi maggioritari, ma proprio sul piano dell'integrazione del sistema del suffragio universale con elementi di scelta o selezione per valori aristocratici. Si tratta soltanto di diminuire l'area del pro porzionalismo puro e di consentire una maggiore personalizzazione delle scelte, o bisogna anche tornare a riflettere sull'onnipotenza attribuita al modello di scelta o decisione del suffragio universale, sia esso realizzato per mezzo del voto a singo Lk personalità sia esso realizzato per mezzo del voto ai partiti? In quale misura sono pens4bili procedimenti- elettivi in cui, nell'ambito di un controllo sociale effettivo, valgano anche collegi del merito e della competenza? È chiaro che mi sto qui richiamando alle suggestioni di un testo, talora affascinante talora indis ponente, quale è L'ordine politico delle comunità di Adriano Olivetti. Un testo che appartiene alla non ampia letteratura della proposta costituzionale elaborata durante il conflitto mondiale, nel periodo delle grandi attese. A quarant'anni dalla pubblicazione varrebbe la pena lame una seria rilettura critica. Intanto, ad Ernesto Bettinelli, che è ben consapevole di tutte le implicazioni del problema elettorale e sa bene che esso porta lontano e che va affrontato partendo da lontano (rinvio alla sua introduzione al libro All'origine della democrazia dei partiti), è stato chiesto un esercizio diverso, volutamente « realistico »: delineare alcune proposte di riforma del sistema elettorale sulla base di una ricognizione delle aree minime di consenso esistenti oggi fra i partiti, cioè fra i soggetti che dovendo decidere in materia elettorale decidono - o deciderebbero - del loro stesso futuro. In questo fascicolo sono contenuti i risultati di questo esercizio insieme alle osservazioni di un gruppo di studiosi e uomini politici autorevoli. S.R.
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Atcune proposte per cambiare di Ernestò Bettinelli
1. Davanti al materiale ormai piuttosto voluminoso e variegato, prodotto negli ultimi lustri, di analisi sulle •disfunzioni del nostro sistema politico costituzionale e di proposte per aggiornano' e recuperarlo a una dimensione fisiologica, alla vigilia poi 'dell'inizio dei lavori della Commissione bicamerale «dei 40 », recentemente costituita con il « compito di formulare proposte di Hforme costituzionali e legislative » in materia istituzionale, previo l'esame di una serie complessa di questioni puntualmente elencate nelle risokizioni approvate dai due rami del Parlauriento 2, sorge' quasi spontanea l'esigenza di una semplificazione delle discussioni per riportarle ai loro ie'rmini essenziali, soprattutto di ordine metodologico. In particolare si avverte la necessità di reimpostare il confronto su un terreno di « realismo », quello del « possibile », tenendo quanto meno conto dell'ambiente (non solo politico, ma anche culturale e sociale) in cui si svolge il dibattito, senza dimenticare che gli utenti primi delle eventuali correzioni degli attuali congegni istituzionali saranno i cittadini o - per usare un'espressione in questo caso più significante - la massa dei cittadini. Del resto pressoché da ogni parte si conviene che l'esito delle ipotizzate riforme, quali che esse siano, deve essere la restituzione della politica ai cittadini. L'individuazione di un tale obiettivo, pur così generico, è il risultato a sua volta di una generale constatazione: l'insoddisfacente rendimento della « democrazia dei partiti »
fin 'qui realizata e la 'progressiva caduta' di legittimazione del sistema dei partiti nél suo complesso '. E' inutile in questa relazione, meramente orientativa, riconsiderare le varie « spie » che inducono a siffatta conclusione: le indagini in proposito, condotte a diversi livelli, si sprecano. Ciò che' importa è rimarcare come si tratti, anche in questo caso, di una percezione comune Ecco perché, prima di procedere ad escogitare i rimedi ritenuti più idonei a fronteggiare una situazione così drammatica, mi pare' pregiudiziale che si risponda a una domanda, né provocatònia, né retorica: la democrazia fondata sui partiti è un 'modello tuttora valido, òppure, allo stato dell'vo1ùzione '(che alcuni qualificano degenerazione5) dell'organizzazione delle forze politiche - le strutture portanti del sistema -, essa si presenta ormai come un « non luogo »? Già nel 1950, quando la « nuova » democrazia dei partiti, affermatasi con l'esperienza resistenziale - costituente, e quindi presupposta e recepita dalla stessa Carta, era ancora al suo esordio, certo non facile, vi fu chi, come Ernesto Rossi, giudicava improduttivo per l'ordinamento democratico il circuito partiti-elezioni-rappresentanza politica-governo, in quanto non più funzionale alla selezione dei capaci, degli Onesti, degli uomini liberi da condizionamenti corporativi e clientelari, nonché autonomi dagli apparati delle formazioni, politiche O• Ernesto Rossi, allora, prospettava come soluzione alternativa che il Parlamento venis-
5 Che cosa significa tutto ciò, se non una rinnovata ammissione che i partiti e, complessivamente, il sistema fin qui realizzato dei partiti producono effetti quanto meno regressivi sul funzionamento delle istituzioni (di governo, ma anche di controllo politico)? Si perviene poi a un ulteriore riconoscimento: l'esigenza di una separazione (che, secondo alcune versioni, si palesa invero più come una frattura) tra le istituzioni in generale e i partiti, tra la politica delle istituzioni e la politica dei partiti, smentendo, « Il nostro attaccamento alle istituzioni democratia mio avviso abbastanza clamorosamente, il che non discende da una concezione ottimistica, ma da una concezione estremamente pessimistica disegno del costituente che aveva invece imsull'umanità; dalla nostra sfiducia nella capacità maginato una logica di continuità, quasi una politica delle masse; dalla consapevolezza che il « dissolvenza » dei governati - attraverso i potere corrompe anche i migliori; dalla paura delpartiti - nelle istituzioni governanti (e in l'arbitrio dei governanti e della potenza maciullauna tale prospettiva si ponevano le teoriztrice dello Stato moderno; dalla tragica esperienza 11) zazioni sulla democrazia « semidiretta » che abbiamo vissuto sotto la dittatura dell'Uomo deila Provvidenza, che aveva sempre ragione » Dinanzi a uno scarto così notevole tra tipo E' chiaro che non si può aderire a questa ideale di democrazia dei partiti e sua attuaimpostazione, alla difficile convivenza tra de- zione concreta, è utile negare il tipo ideale mocrazia e pessimismo, alla collocazione (im- come « non luogo »? plicita) degli intellettuali, dei competenti, de- Ove si giungesse a una risposta positiva, sengli onesti tra gli uomini della provviden- za peraltro accostarsi alle dottrine autoritarie za . Inoltre una simile concezione, al di o totalitarie, si dovrebbe nel contempo indilà di altri possibili giudizi di valore, cade care la forma entro cui può sopravvivere il davvero nell'utopia e, pertanto, è poco utile principio del ' pluralismo politico (e sociale) a qualsiasi tensione progettuale (pur in sen- che è uno dei cardini del sistema di valori accolti in Costituzione (e che, in sintesi, deso lato). finisce la nostra forma di Stato). 2. Eppure, a trentatre anni di distanza, in In realtà la democrazia competitiva dei paruna' situazione storico-politica che si è ovvia- titi appare tuttora il modello più perfeziomente alquanto modificata, ci si accorge che nato e più percorribile (anche considerando i sentimenti, le apprensioni, la sfiducia nella i rischi) di organizzazione dello Stato; e, capacità di rigenerazione del sistema politico, conseguentemente, la selezione dei governanmanifestati dal polemista de « Il Mondo » ti attraverso il metodo elettorale non pare proprio surrogabile. sono tuttora ampiamente diffusi e si riconoscono in taluni atteggiamenti propositivi: D'altro canto, come si è già accennato, non è dubbio che la democrazia dei partiti e quando, ad esempio, anche a sinistra, si prospettano rimedi quali i « governi dei tecni- il circuito che la esprime siano in crisi. ci » o i « governi autonomi, legittimati dalla Il tema della « democrazia bloccata » è difiducia del Capo dello Stato », protetti, quin- ventato anch'esso di acquisizione comune di, dalle indebite ingerenze dei partiti, dalla e, in un tale contesto, le equazioni incomponibili che generalmente si propongono si p05loro attitudine « pervasiva ».
se' formato attraverso il metodo del sorteggio tra coloro che risultassero forniti di determinati (e accertati) requisiti di competenza e professionalità anche, politica . Solo in questo modo - sosteneva - le Camere avrebbero potuto ritornare ad assolvere effettivamente le funzioni loro attribuite . Una simile prospettiva era il frutto di una « concezione pessimistica » della democrazia, a cui Ernesto Rossi dichiarava esplicitamente di aderire:
6 sono molto schematicamente così rappresentare: arresto dello sviluppo economico - necessità di una maggiore selettività delle domande sociali; governi cli coalizione programmaticamente disomogenei incapacità (e/o impossibilità) decisionale 13 Un siffatto assetto di governo - si conviene - è il risultato della sclerosi dei congegni istituzionali attualmente vigenti che non consentono l'alternanza tra « poli » omogenei. E, in un simile quadro, il ragionamento sulla democrazia bloccata coincide in buona parte con il ragionamento sulla crisi degli apparati decisionali Coerentemente con questo approccio l'attenzione di molti studiosi-riformatori si rivolge quasi esclusivamente alla funzionalità dei rapporti tra gli organi costituzionali che definiscono la nostra forma di governo; nel senso che il problema immediato è individuato nella creazione dei presupposti costituzionali atti all'instaurazione di un governoeffettivamente maggioranza, in grado, ciàè, di assolvere alle funzioni di scelta e di decisione. Da qui tutta quella serie di proposte di « macroingegneria » che in questi anni sono state escogitate e che non pare necessario di nuovo menzionare. Non di rado si è rimproverata una sorta di eclettismo, se non di volubilità, a chi si è assunto l'onere di prospettare differenti e apparentement'e discordanti ipotesi (dal governo presidenziale, alla modifica in senso maggioritario dei sistemi elettorali - magari con l'introduzione di sperrklauseln fino ad immaginare forme di regime a caratterizzazione presidenziale e via dicendo) In verità tali proposte sono certo diverse, ma non divergenti, essendo tutte indirizzate al conseguimento di un medesimo esito: la semolificazione degli schieramenti partiticiparlamenti ti. la pratica dell'alternanza nella resnonsahilità di governo e soprattutto l'esistenza di govèrni stabili ed omogenei. .
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3. Al di là delle tante critiche (pur esse ampiamente note) a queste elaborazioni, a me sembra che la prospettiva da cui muovono sia carente nel suo retroterra analitico; che, in particolare, esse abbiano sorvolato eccessivamente nella diagnosi del fenomeno del «blocco» del nostro sistema democratico. Se è stata ben messa in evidenza la situazione di stallo in cui versano l'istituzione-governo e l'istituzioneParlamento o, ancora •più puntualmente, i rapporti (inceppati dalla prassi deresponsabiizzante dei veti incrociati) tra le parti contraenti le maggioranze di governo, si è peraltro mancato di considerare con il richiesto approfondimento gli effetti di ritorno che una simile realtà ha prodotto sulle organizzazioni dei partiti (di governo e, sia pure con ripercussioni diseguali, di opposizione). Intendo richiamare l'attenzione su come la sclerosi istituzionale abbia, se non provocato, certo aggravato la sclerosi della organizzazione partitica, di quella sede, cioè, dove si dovrebbe formare e « incanalare » la volontà politica dei cittadini. Nel frangente in cui viene a cessare, o a ridursi sensibilmente, il potere selettivo delle domande sociali ad opera dei governi, accade che anche i partiti perdono la loro natura di luoghi di composizione degli interessi o, come s'usa dire, di « sintesi ». I programmi delle forze politiche tendono a configurarsi più che come una graduatoria di obiettivi, come un elenco di obiettivi (seppure variamente combinati) e quasi sempre a futura memoria ' giacché assai difficilmente essi potranno avere una soddisfacente attuazione nella politica di governo, stante appunto il costume già segnalato dei veti incrociati 17 Se i partiti non sono (più) in grado di produrre indirizzi politici univoci e credibili, in un'epoca in cui anche le ideologie (nella loro versione di sistemi rigidi di valori) trovano sempre meno acquirenti che cosa possono offrire per mantenere l'indispensabi-
7 le insediamento sociale? Offrono risorse, occupazione. Risorse ed occupazione che il governo centrale è sempre meno in condizione di garantire. Anche su questo aspetto di degenerazione del sistema politico esistono analisi diffuse e abbastanza concordi. Sarebbe comunque assai interessante poter disporre di indagini socioeconomiche rirate ad accertare nell'ambito del settore terziario il livello di occupazione (nei servizi che potremmo genericamente definire di « impegno politico ») coperta direttamente dai partiti, salvo talora l'intermediazione formale (impropriamente: ratifica) di organi rappresentativi o di governo, centrali e periferici Le recenti polemiche e denunce sull'« assemblearismo spartitorio » delle (e nelle) Unità sanitarie locali 20 potrebbero davvero stimolare ricerche in tal senso. In un simile trend dell'organizzazione dei partiti (e delle aspettative « particolaristiche » che essi suscitano nel tessuto sociale) un ruolo di primo piano viene ad essere assunto dalle loro articolazioni periferiche, cioè i centri dove avviene la distribuzione più diffusa delle risorse occupazionali. Si attua in sostanza un processo di « clientelismo » (ma il termine probabilmente è improprio, perché evoca l'esperienza in parte superata dei favori elargiti daI notabilato locale) che muove non tanto dall'alto verso il basso, quanto piuttosto in senso ascendente; cosicché si può anche comprendere e accettare l'opinione di chi sostiene che, in generale, i quadri locali dei partiti sono moralmente e politicamente meno qualificati del personale politico di livello nazionale 21 4. L'insieme di questi rilievi ci può indurre a un'ulteriore osservazione: l'ingovernabilità degli stessi partiti politici. Infatti il potenziale accoglimento di pressoché tutte le domande sociali plausibili, senza mediazioni selettive, comporta pure una trasformazione ra-
dicale delle stesse relazioni interne ai partiti. Entra in crisi il correntismo vecchia maniera che, anche quando era espressione di una concorrenza personalistica tra leaders, presentava comunque una sua specificità di differenziazione politica 22, in quanto le correnti medesime hanno ora sempre più bisogno di un'immagine multiforme, al pari dei partiti in cui esse si collocano 23 La mutazione del correntismo « vecchia maniera » trova una conferma, indiretta ma egualmente significativa, nella prassi adottata da alcuni partiti (fino ad ora: DC, PSI, PSDI e da sempre il Partito radicale, che tuttavia rappresenta un caso a sé e che per la sua anomalia nel sistema politico non rileva ai fini del presente discorso) dell'eleziòne dei rispettivi segretari nazionali ad opera dei congressi. Il risultato politico-organizzativo che si ottiene attraverso questa procedura immediata non è soltanto quello, più apparente, di segnare senza equivoci di sorta la supremazia di un gruppo nei confronti di un altro, destinato, perché sconfitto, a rimanere in minoranza; bensì anche (e forse soprattutto) quello meno manifesto, eppure non meno essenziale, di rappresentare all'esterno i'unità organizzativa del partito, che rimane peraltro cornposito quanto all'immagine che di sé produce. Non è un caso che i segretari politici eletti dai congressi si preoccupino subito di costituire una gestione unitaria del partito, da condividersi con le frazioni soccombenti (ciò che è accaduto nel PSI e nella DC, dopo i loro ultimi congressi, con la designazione di esponenti di punta della minoranza alla carica di vicesegretario 24) La mia impressione è che, al di là delle ricorrenti manifestazioni di «grinta» dei vari leaders, essi, nonostante l'investitura congressuale, non siano lo stesso in grado, per le cause che si è sin qui cercato di individuare, di governare i propri partiti (e di avviare concretamente ipotesi di un loro rin-
8 novamento). E talvolta appare anche che, almeno in parte, la conflittualità interparti. tica diviene uno strumento ad uso interno per acquisire aree di influenza altrimenti non controllabili. A questo punto si può proporre una prima conclusione: la sclerosi dell'istituzione-governo nutre la sclerosi dell'organizzazione-partito in una spirale irresolubile. Sono perfettamente consapevole che io schema prospettato è approssimativo, che singoli punti di questa analisi non si attagliano a tutti i casi, a tutti i partiti, che bisogna distinguere tra partiti di governo e partiti di opposizione e che le indiscutibili trasformazioni all'interno di ciascun partito dipendono in buona parte dalla rispettiva storia 25 Ciononostante mi pare che il quadro nel suo insieme tenga. In ogni caso queste ipotesi di lavoro, laddove se ne riconosca la tendenziale plausibilità, consentono di arrivare problematicamente a una seconda conclusione metodologica riguardo all'identificazione degli strumenti utili per « sbloccare il sistema ». Risulta cioè abbastanza evidente la priorità che deve essere assegnata a riforme che possano incidere sugli assetti interni dei partiti, sulla ricostituzione nel loro ambito di centri decision ali effettivi (e, quindi, selettivi). Si tratta allora di escogitare quegli agenti istituzionali esterni capaci di (ri)mettere in movimento la competizione politica infrapartitica, quale presupposto per pervenire a una reale, chiara, risolutiva competizione interpartitica, nel rispetto dell'inderogabile principio democratico della pari opportunità tra le forze concorrenti (che è un principio fondante, un connotato genetico, addirittura precostituente, del nostro sistema politico) 26 5. Anche in considerazione di questo insopprimibile dato costitutivo, paiono fuorvianti, estranei alla logica del possibile, quei progetti indirizzati al mutamento della for-
ma del governo parlamentare o all'abbandono della convenzione proporzionalistica (per essere più esatti: relativa al riconoscimento del principio proporzionaiistico; il quale è certo suscettibile di applicazioni diversificate che si adattino alle varie congiunture dello sviluppo del sistema politico). Tali progetti, peraltro, si prefiggono pur essi di cambiare, contestualmente alla forma di governo, lo stesso funzionamento del regime dei partiti, di rimuovere, pertanto (operando alla radice della spirale) i fattori di sclerosi innanzi denunciati. Secondo siffatta impostazione la fisiologia dell'alternanza, avviata da nuove regole costituzionali, obbligherebbe i partiti a modificare le proprie strutture, a rigenerarsi, ad adeguarsi 27; e sovente si richiama, a sostegno di questa prognosi, la suggestiva esperienza francese. La quale, in verità, per la sua specificità e, per certi versi, irrepetibilità, assai difficilmente può assurgere a modello. E, ad ogni buon conto, vale la pena di rilevare come oltralpe l'ordinamento costituzionale è mutato sulla spinta di una radicale trasformazione del sistema dei partiti, in presenza del fenomeno gollista 28 Proprio questa notazione suggerisce la necessità-opportunità di procedere nell'ingegneria costituzionale quanto meno in maniera gradualistica e di non rischiare, quindi, scommesse totali. Vi è infatti un dubbio che non può essere facilmente fugato: è davvero probabile che in Italia si creerebbe spontaneamente la supposta situazione di osmosi tra nuova forma di governo e regime dei partiti, i quali non farebbero altro che prendere atto che il gioco è cangiato e che per. tanto per essi si tratta semplicemente di dotarsi degli indispensabili nuovi strumenti (cioè di nuovi moduli organizzativi)? Non credo che sia gratuito pessimismo figurarsi che un simile adattamento non sia poi così automatico, in quanto nella presente congiuntura i partiti sembrano del tutto a
9 secco delle risorse di partenza che pur occorrerebbero per una tale riconversione (e per risorse intendo i collegamenti non occasionali con i settori non parassitari della società civile e, più in generale, il consapevole consenso politico dei cittadini) 29 Ritengo, di conseguenza, che sia preferibile (e più prudente) procedere in via preliminare avviando una serie di riforme « omeopatiche» ai fini di una rigenerazione del sistema dei partiti, le quali non siano incompatibili Tné con la struttura della società civile, né con i presupposti costituzionali che regolano la dinamica del pluralismo partitico così come si è affermato in Italia. Tali innovazioni dovrebbero mirare alla ricostituzione dell'identità e della funzione dei partiti, costringendoli innanzitutto all'univocità di immagine e di messaggio e alla selezione del proprio personale dirigente e rappresentativo.
e permanente (e in varia misura decentrata) di pressoché tutte le formazioni politiche e stimolare la ripoliticizzazione in senso pieno delle loro articolazioni locali, inducendole a processi più selettivi di quanto non accada oggi, sia del proprio personale politico, sia delle domande sociali indirizzate in maniera sempre più indifferenziata verso tutti i partiti; e, dunqué, ricondurre nei medesimi le relazioni tra centro e periferia a un costume di dialettica politica, affrancando di conseguenza le leaderships nazionali da quel groviglio di condizionamenti d'apparato (o, meglio, di apparati) che così pesantemente le avviluppano all'atto della determinazione degli orientamenti politici generali;
6. Ho già avuto modo di abbozzare in un recente saggio 30 tre « idee-base », legate tra di loro da un medesimo intento che, se accolte, potrebbero a mio avviso quanto meno allentare il « blocco » della nostra democrazia. Sono idee molto semplici, ispirate alla soddisfazione delle seguenti esigenze:
Quanto al profilo procedurale, la realizzazione di queste « tre idee-base » non richiede il ricorso all'iter previsto dall'art. 138 della Carta, anche se indubbiamente esse sollecitano a riconsiderare la congruità della vigente struttura bicamerale della rappresentanza politica. Non si tratterebbe comunque - come già precisato - di sovvertire la forma di governo parlamentare.
- essere immediatamente percepibili alla massa dei cittadini, nel momento in cui esse assecondano sentimenti e pretese largamente comuni: l'instaurazione del principio della responsabilità nelle scelte politiche e la loro trasparenza (anche nelle sedi partitiche); - rispettare la convenzione proporzionalistica di modo che nessun attore politico possa ritenere di essere pregiudizialmente penalizzato; al tempo stesso correggere, però, almeno in parte i suoi effetti perversi, attinenti soprattutto alla dequalificazione delle rappresentanze politiche; prendere atto dell'organizzazione diffusa
- adeguare la competizione interpartitica alle linee di tendenza del sistema politico, al mutato ambiente che risente della diminuzione della distanza ideologica tra i gruppi con.correnti, della personalizzazione della politica, dell'avvento dell'era telematica etc.
7. Ecco in sintesi il contenuto di queste tre idee: I. Si dovrebbe stabilire l'incompatibilità tra l'incarico di ministro e sottosegretario (ma non di Presidente del consiglio 31) e mandato parlamentare 32• Ne sortirebbe che i senatori e i deputati chiamati a far parte del governo non rientrebbero nei loro seggi ove questo si dimettesse in corso di legislatura, in seguito a crisi. Ho già indicato nel saggio appena richiamato il senso di questa proposta: conferire una
lo maggiore autorevolezza e Omogeneità alle compagini governative, creando alcune condizioni perché si affermi al loro interno una maggiore solidarietà, sì da sottrarle a quelle logiche di partito (e di corrente) che sono tra le maggiori cause di instabilità ministeriale. Ne risulterebbe pure esaltato il « primato » del Presidente del Consiglio, il quale, oltre ad avere una maggiore autonomia nella scelta dei ministri, potrebbe assolvere con maggiore profitto alle, sue funzioni costituzionali di sovraintendere all'unità dell'indirizzo politico ed amministrativo del governo, di promuovere e coordinare l'attività dei suoi collaboratori, come dispone l'inapplicato art. 95 della Costituzione Il. Si dovrebbe introdurre tout court la forma « presidenziale » nell'organizzazione comunale e, più precisamente, nelle località con popolazione superiore ai 10 mila abitanti . Le linee essenziali di questo disegno comporterebbero: l'elezione diretta del sindaco ad opera del corpo elettorale con un sistema a doppio turno, cioè con ballottaggio finale tra i due candidati che abbiano conseguito i maggiori consensi nel primo scrutinio, ove risulti che nessuno abbia ottenuto la maggioranza dei voti validamente espressi (in tal caso vi sarebbe elezione immediata). Onde evitare una eccessiva proliferazione (anche per fini di disturbo) di candidature, si potrebbe prescrivere che la loro presentazione sia accompagnata da un adeguato numero di elettori-sottoscrittori, pari allo 0,50 per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali del comune (una soglia così alta incentiverebbe i partiti a scegliere le personalità più popolari, magari attraverso procedimenti - tipo primarie semi aperte in grado di favorire la partecipazione dei cittadini 35) Esistono in argomento, come è noto, progetti di legge soprattutto di parte demo-
cristiana, i quali, però, contengono temperamenti che alterano non poco gli effetti d'insieme dell'elezione diretta dei sindaci, se questa deve essere davvero indirizzata ad aumentare il potere decisionale dei governati e a deprimere l'attitudine manipolativa e disinvoltamente compromissoria degli apparati partitici. Così nella proposta dei deputati G. Bianco e Ciccardini si contempla la possibilità di rinuncia al ballottaggio di uno dei due candidati (o al limite anche di entrambi) che abbiano riscosso al primo scrutinio i maggiori consensi . Una tale clausola, tra l'altro, diminuirebbe l'autonomia poiitica delle stesse organizzazioni locali dei partiti a vantaggio delle direzioni centrali che, con ogni probabilità, tra il primo e il secondo scrutinio avocherebbero a sé le determinazioni sull'opportunità o meno dei ritiri, al fine evidente di consentire intese nazionali tra i partiti appartenenti alla medesima area di coalizione per una distribuzione contrattata degli incarichi in sede periferica. Perdurerebbe, quindi, quella nefasta prassi in auge, che incide così negativamente sulla posizione di autonomia nell'ordinamento costituzionale delle stesse amministrazioni locali, contribuendo a destabilizzarle, giacché assai facilmente scatena conflitti non solo interpartitici, ma anche infrapartitici. Nella logica della presente proposta, invece, le singole forze politiche dovrebbero chiarire le proprie opzioni e i reciproci rapporti già anteriormente al primo turno elettorale, ben potendo, in certe situazioni concordate, astenersi dal presentare propri candidati alla carica di sindaco, per convergere su quelli di altri gruppi alleati (i quali, a loro volta, eventualmente potrebbero, in cambio, non partecipare alla competizione per l'elezione del consiglio comunale). Come si vede la gamma delle possibili combinazioni negli accordi preventivi tra i partiti non subirebbe neppure eccessivi restrin-
11 gimenti, mentre sarebbe garantita quella trasparenza delle strategie e dei comportamenti che rende più consapevole il giudizio di chi si reca alle urne. L'impostazione presidenzialistica qui accolta per una riforma dell'organizzazione del governo municipale comporta anche che sia il sindaco, espressione diretta del voto popolare, a provvedere alla nomina dei componenti di giunta, al di fuori del consiglio '. Questo organo, poi, dovrebbe essere eletto in coincidenza con il secondo turno di votazione del sindaco - ove fosse necessario il ballottaggio finale - o nella seconda domenica successiva all'elezione del primo cittadino avvenuta al primo scrutinio 38• Per la formazione del consiglio comunale riterrei opportuno riconfermare l'adozione del sistema proporzionale con scrutinio di lista e con voto preferenziale, sostituendo magari il metodo d'Hondt (che penalizza in misura non irrilevante i gruppi minori) con quello più equilibrato dei quozienti alternati (metodo di Saint Lgue) 89• In questo nuovo quadro istituzionale diverrebbe indispensabile provvedere a una più razionale distribuzione ed esaltazione delle competenze consiliari, incentrandole soprattutto sul controllo politico della spesa e sull'approvazione dei bilanci Mi pare quasi inutile sottolineare i riflessi che un simile disegno, se realizzato, potrebbe avere sull'intero sistema politico: la pratica e l'abitudine all'alternanza, assicurata quanto meno in ambito locale, la conduzione unitaria ed omogenea delle amministrazioni municipali attorno alla figura coagulante del sindaco - che già oggi rappresenta l'istituzione più popolare, più vicina alle aspettative dei cittadini 41 -, la responsabilizzazione dell'elettorato. Tutti questi fattori assieme non potrebbero non influire positivamente sul corportamento complessivo dei partiti e sui loro stessi moduli di organizzazione interna.
8. III. L'ultima idea che, rispetto alle prime due, può apparire « medita », in quanto non ha finora trovato riscontro nei dibattiti sulle riforme istituzionali, concerne il sistema elettorale per la formazione del Parlamento. E' un tentativo di rivalutare, apportandovi le opportune correzioni, il metodo « spurio » attualmente vigente per l'elezione del Senato e che da talune parti si vorrebbe invece abbandonare 42 In particolare pare congeniale alle linee del discorso fin qui proposto l'associazione collegio uninominale-proporzionale. Il collegio uninominale consente infatti di soddisfare quelle esigenze di trasparenza e di semplificazione della lotta inter e infrapartitica, su cui mi sono già soilermato. L'applicazione di tale metodo anche per la costituzione della Camera dei deputati sarebbe un incentivo forse determinante verso quell'univocità di immagine e di messaggio, a cui le formazioni politiche oggi sfuggono (perché non vi hanno interesse). La selezione di un solo candidato per collegio depurerebbe non poco il clima di ambiguità e di compromessi, non sempre edificanti, tra le varie componenti interne che condiziona, pur in diversa misura, i partiti all'atto della predisposizione delle liste, le quali, appunto, permettono ad essi di presentarsi agli elettori con un volto proteiforme. La scelta di un'unica personalità sarebbe effettuata a una soglia qualitativa assai più alta, di quanto ora non accada, entrando in gioco in maniera preponderante, come deterrente, la concorrenza con gli altri gruppi in lizza, in una fase in cui la personalizzazione della politica sembra destinata a diventare un fenomeno irreversibile e del tutto connaturale con le trasformazioni d'ambiente recate dai « nuovi » mass-media (senza dimenticare altre concause già segnalate, come il declino della forza e del fascino delle ideologie, l'omogeneizzazione del sistema politico e così via).
12 Si otterrebbe, infine, l'eliminazione del voto di preferenza che settori sempre più vasti di opinione pubblica denunciano come un veicolo di corruzione o, quanto meno, di degenerazione delle competizioni elettorali (soprattutto per la possibilità di contravvenire al fondamentale principio della segretezza del voto e per il costo della campagna elettorale dei singoli candidati, facilmente condiscendenti all'accettazione di sovvenzioni e finanziamenti raramente disinteressati) 43 E' vero che un simile risultato potrebbe conseguirsi anche con il sistema delle liste rigide", ma questa soluzione non eviterebbe, anzi aggraverebbe gli inconvenienti di una esasperata conflittualità tra le componenti interne dei partiti al momento della disposizione delle graduatorie fra i candidati; e darebbe inevitabilmente luogo a quei compromessi ai quali si è innanzi accennato e che impediscono agli elettori di conoscere e valutare l'effettiva identità di ciascun gruppo. In ultima analisi, l'espediente delle liste rigide diminuirebbe ancora di più il potere di scelta dei cittadini, costretti ad accettare i candidati in blocco e nell'ordine formulato dai partiti e senza che questi, in cambio, siano vincolati ad offrire di sé una rappresentazione coerente, inequivoca, che non giochi sui chiaroscuri. Contro il repechage del collegio uninominale anche per l'elezione della Camera dei deputati non potrebbero poi più valere le obiezioni classiche (il collegio uninominale favo. rirebbe il notabilato locale, quindi il clientelismo, quindi la corruzione; impedirebbe la costituzione di forze politiche stabili a dimensione e vocazione nazionale ... ), quelle cioè su cui anche alla Costituente insistettero soprattutto gli esponenti dei partiti di massa ". La democrazia dei partiti è ormai decisamente consolidata. Anzi, il problema è ora piuttosto quello di una « departitizzazione » della società". E la presente pro-
posta intende muoversi proprio in questa direzione: non tanto negare la realtà dei partiti, quanto liberarli dai soffocanti lacci burocratici e organizzativi per restituire loro quella funzione di determinazione della politica nazionale promessa dalla Costituzione all'art. 49. Sulla necessità-opportunità di riconfermare l'adesione alla convenzione proporzionalistica valgano le considerazioni innanzi svolte. 9. Come ho già avvertito, il sistema elettorale attualmente adottato per il Senato richiede, per poter essere utilmente « recuperato » e applicato anche alla Camera, aggiornamenti non marginali, tali da fargli assumere una fisionomia per certi versi originale. Le correzioni che ritengo indispensabili si possono sinteticamente così specificare: A) ferma restando la base regionale, i collegi ritagliati in tale ambito dovrebbero essere il più possibile omogenei quanto a densità demografica Essi, complessivamente, dovrebbero essere pari ai 3/4 dei seggi da coprire 48, virtualmente distribuiti tra le varie regioni in conformità con i criteri vigenti (cioè in rapporto al numero di abitanti di ciascuna). Si sottolinea « virtualmente », in quanto il numero effettivo di seggi spettante a ciascuna regione dovrebbe essere determinato successivamente, all'atto dello scrutinio, e dipendere non dal totale degli abitanti, ma dal totale dei voti validamente espressi nella regione medesima °. Una simile clausola vuole rappresentare una sorta di sanzione o forse sarebbe meglio dire « registrazione » del dato politico (che non può continuare ad essere istituzionalmente indifferente o improduttivo) del « non-voto » nelle sue possibili manifestazioni (astensione, schede bianche, schede nulle). Sarebbe anche questo uno stimolo non di poco conto a un più soddisfacente radicamento dei partiti nella società civile e ad una elevazione
13 dei toni delle competizioni politiche (inter e intrapartitiche). B) Risulterebbe immediatamente eletto nell'ambito del collegio il candidato che conseguisse la maggioranza assoluta dei voti validamente espressi Nessuna modifica dovrebbe invece apportarsi al sistema dei collegamenti (e alla formazione dei gruppi di candidature) previsto dalla legge elettorale per il Senato, salvo inibire a ciascun candidato di presentarsi in più collegi 51 Come contrappeso ai vantaggi che il metodo d'Hondt (che si intende mantenere) arreca ai gruppi più forti in sede di assegnazione in ambito regionale dei seggi non conquistati direttamente nei collegi, si dovrebbe stabilire che, per la determinazione delle cifre elettorali regionali di ciascun gruppo, siano computabii anche i voti ottenuti dai relativi candidati soccombenti nei collegi in cui vi è stata elezione immediata; sterilizzando, invece, l'eventuale surplus cli suffragi (cioè quelli eccedenti la maggioranza assoluta), conseguiti da coloro che si sono aggiudicati il seggio 52 La « regionalizzazione » anche delle elezioni
per la Camera dei deputati assumerebbe un significato più ampio che non quello di semplice tecnica elettorale. In effetti si muove nella direzione di un superamento tout courl del bicameralismo , e, in ogni caso, di quello paritario oggi vigente su cui si appuntano critiche ormai da ogni parte . E su un simile sfondo mi pare comunque opportuno conservare un collegamento, anche nella scelta del sistema elettorale, tra Parlamento (monocamerale) e autonomie regionali . Ma con qùeste osservazioni si entra nella più ampia problematica relativa alla necessità di una riorganizzazione della rappresentanza politica o, quanto meno, di una sua semplificazione anche attraverso una drastica riduzione del numero dei parlamentari, cui si può provvedere soltanto mediante una revisione della Costituzione °. Si va oltre, quindi, i propositi di questo contributo metodologico-propositivo, attraverso cui si è cercato soprattutto di legare la prospettiva del (micro)riformismo istituzionale alla prospettiva di evoluzione (e rigenerazione) del nostro sistema politico.
E' davvero impossibile dare conto di tutti i contributi apparsi sia in sede scientifica, sia in sede giornalistica. Per i primi si rinvia a G. ROLLA,
stagione di convegni sui temi istituzionali, in «Quaderni costituzionali », 1981, p. 425 ss. E' indispen-
.
Ri/orma delle istituzioni e costituzione materiale, Giuffrè, Milano 1980, nonché ad A.
DI GIOVINE,
Ingegneria costituzionale tra crisi delle istituzioni e strategie politiche, in AA.VV., Crisi politica e ri/orme delle istituzioni. Dal caso italiano alla Comunità europea, Tirrenia Stampatori, Torino 1981, pp. 11 ss. (il saggio è ricchissimo di riferimenti). Si veda anche il quaderno di « Parlamento », n. 4, 1982: Forma di governo, riforma delle istituzioni. Né si possono dimenticare le raccolte di sag. gi di G. AMATO e G.F. PASQUINO, rispettivamente in Una Repubblica da riformare, Il Mulino, Bologna 1980 e in Degenerazioni dei partiti e riforme istituzionali, •Laterza, Bari 1982; recentissimo il volume di S. GALEOTTI, che ripropone i suoi scritti e interventi sui medesimi temi, Alla ricerca della governabilità, Giuffrè, Milano 1983. Utilissima, poi, la rassegna di F. LANCHESTER, Una
sabile anche consultare le ultime annate delle riviste pubblicistiche e politologiche (e, in particolare, « Il Mulino », « Laboratorio politico », «Democrazia e diritto », « Diritto e società », « Quaderni costituzionali », «Politica del diritto » ... ). Per quanto concerne gli interventi sulla stampa, essi sono stati sistematicamente raccolti nei vari fascicoli del «Bollettino di attualità costituzionale » (dal 1977 al marzo 1980, poi cessato) e nelle rassegne curate dall'Ufficio documentazione-stampa
del Senato: Problemi istituzionali e funzionalità del Parlamento (in particolare si 'veda il fascicolo •n. 9 del novembre 1979 che ospita gli articoli pubblicati tra il marzo e il maggio dello stesso anno: un periodo in cui il dibattito è stato piuttosto ricco di opinioni, anche per l'imminente scioglimento anticipato delle Camere). 2 'Le espressioni •tra ivirgolette sono tratte dalla risoluzione sulle «riforme istituzionali » approvata
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dalla Camera dei deputati il 14 aprile 1983 (res. somm. si . 662, p. 9 ss.) e identica a quella successivamente deliberata dal Senato. Tali documenti sono stati sottoscritti dai presidenti dei gruppi par. lamentari DC, PRI, PLI, PSDI, PSI, PCI. Una mozione dal contenuto assai simile era stata in precedenza presentata dai soli capigruppo dell'area di maggioranza (Camera dei deputati, 18 gennaio 1983, res. sonrm. n. 609, p. XX ss.). L'opportunità di coinvolgere a pari titolo in questa fase di « riflessione» sull'ordinamento costituzionale anche la opposizione comunista (in modo da ricreare una sorta di continuità con il « patto costituzionale » da cui è sortita la Carta del 1948) ha condotto a una rielaborazione unitaria dell'originario testo, che comunque non ha subito revisioni radicali (anche se alcune correzioni e precisazioni metodologiche non possono valutarsi come meramente formali). Come è noto la Commissione non ha potuto nemmeno iniziare la sua attività per il sopravvenuto scioglimento anticipato delle assemblee legislative. Indajìni, per così dire, propedeutiche sulle questioni istituzionali erano state compiute tra il settembre e l'ottobre 1982 dai comitati ad hoc, istituiti su iniziativa dei Presidenti delle due Camere, in seno alle rispettive commissioni «Affari costituzionali ». Gli atti di una simile attività di confronto e di ricerca, pubblicati da ciascun ramo del Parlamento, comprendono, oltre alle relazioni finali dei presidenti dei comitati medesimi (ed ai resoconti stenografici delle discussioni svoltesi in quello della Camera dei deputati), anche vario e cospicuo materiale di documentazione. In particolare il comitato del Senato ha raccolto in apposito allegato (vol. III) i « documenti in materia istituzionale trasmessi dai gruppi politici » che. seppure - siano talora redatti in forma assai sintetica, possono comunque considerarsi come gli orientamenti ufficiali dei partiti sui diversi problemi affrontati. Innumerevoli gli interventi sul punto. Mi limito a citai-e A. BALDASSARRE, Partiti e società: una crisi di legittimazione, in I partiti e lo Stato, De Donato, Bari 1982, .p. 23 ss. (il volume, che raccoglie gli atti del convegno organizzato dai gruppi parlamentari della Sinistra indipendente a Roma il 6-7 luglio 1981, è ricco di contributi di esponenti delle varie aree culturali e politiche,, i quali concordano, quantorneno •nelle valutazioni di massima, con l'analisi 'proposta dall'Autore appena citato). Sintoanatico può essere in proposito un editoriale di E. SCALFARI che, commentando l'indizione anticipata delle consultazioni politiche per il 26 giugno, scrive: « Al di là dei risultati positivi o negativi per questo o quel partito, il vero significato delle elezioni che stanno dinanzi a noi somiglia più ad un referendum che ad -una scelta tra simboli ed etichette ormai abbastanza vuoti di contenuta. Ed il referendum è: o una rinnovata fiducia nel sistema dei partiti o una secca denegazione di legittimità » (Referendum sui partiti, in « La Repubblica », 24 aprile 1983). Mi riferisco al titolo del 'libro già citato di G. F. PASQUINO, Degenerazioni dei partiti ecc. Così
l'Autore descrive il fenomeno della « degenerazione a: « La partitocrazia... si presenta come una difesa coaporativa di interessi di ceto, come paura di concedere spazio alle istituzioni e alla società civile, come tentativo di rafforzare la 'propria separatezza, come non-disponibilità ad affrontare una competizione politica senza rete » (a p. 6 dell'introduzione). 6 Nella stessa epoca denunciava l'irreversibile declino del sistema dei partiti e, quindi, della conseguente rappresentanza politica anche A. OLIVETTI, che faceva proprio e rendeva attuale il giudizio di P. Gobetti sulle forze politiche nel primo dopo'guerra: « ... Oggi i partiti si sono limitati a formule vaste e imprecise, da cui nulla si può logicamente e chiaramente dedurre... Nella vita attuale dei partiti di concreto c'è solo un circolo pernicioso per cui gli uomini rovinano i partiti e i partiti non aiutano il progresso degli uomini... ». Anche Olivetti, già socialista e poi fondatore del « Movimento Comunità », auspicava il superamento della democrazia dei partiti e, come noto, immaginava un « nuovo ordine » (appunto: L'ordine politico delle Comunità, titolo del suo saggio fondamentale, pubblicato -neI 1945), in cui potessero affermarsi ed essere effettivamente rappresentati i valori spirituali dei cittadini, quelli della competenza e delta professionalità. Si vedano compiutamente le sue considerazioni sulla « decadenza del regime parlamentare » nell'altro suo volume Società Stato Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1952, in particolare nel capitolo Democrazia senza partiti, p. 133 s. (da cui è tratta la citazione di Gobetti). Cfr. l'articolo Occhiali per la democrazia, ne « Il Mondo », 15 luglio 1950, ora ripubblicato assieme ad altri in Aria fritta, Laterza, Bari 1956, in particolare p. 51 sa. 8 Da altre posizioni e con altre prospettive nella stessa epoca indirizzava aspre critiche contro il « regi'me partitocratico » - ma anche contro il complessivo disegno costituzionale - G. MARANINI, che individuava le cause di degenerazione del sistema soprattutto nel mancato coerente accoglimento del principio della divisione tra i poteri. A suo avviso era la stessa costituzione scritta a consentire quella u confusione di poteri » che inevitabilmente si convertiva « in favore di organismi refrattari a ogni controllo costituzionale, i 'partiti ». E annotava: « dunque, possibilità virtuale di quella accumuLizione di tutti i poteri nelle stesse mani che, sulle tracce di Montesquieu, Madison chiamava "la vera definizione della tirannia" » (Crisi del costituzionalismo e antinomie della Costituzione, in « Studi politici », 1953, passim e in particolare' p. 91). ° Le serve padrone, ne « Il Mondo », 22 giugno 1950, ora in Aria fritta, cit., p. 44. 10 In proposito vengono in mente alcune riflessioni di A. TOCQUEVILLE sui ruolo dei giuristi nella democrazia, sulla loro funzione di contrappeso al «potere del popolo »: « Il corpo dei giuristi forma il solo elemento aristocratico che possa mescolarsi facilmente agli elementi naturali della democrazia e combinarsi in modo 'felice e durevole con essi. So bene quali sono i difetti inerenti allo spi-
'5 teatri, dei conservatori, dalla Rai-tv alle 670 Unità sanitarie locali, via via fino all'assunzione dei netturbini. Con un risultato evidente: gli uomini dei partiti sono impegnati a tempo pieno da una parte in u.na costante ricerca di denaro per mantenere apparati sempre più ipertrofici e costosi e per garantirsi la propria personale carriera; dall'altra, in una gigantesca opera di redistribuzione delle risorse e di allargamento di quell'area di italiani che direttamente o indirettamente, in tutto o in parte, di politica campa » (così in un'inchiesta Sulla nuova generazione di politici: votati alla carriera, a cura di P. FRANCHI, in e Panorama », 11 aprile 1983, p. 49). Più in generale, riferendosi ai moduli organizzativi della pubblica amministrazione, in rapporto all'attuale sistema politico, F. FERRARESI sottolinea « la logica di una classe politica che basa il proprio potere sulla manovra delle gratificazioni particolaristiche », entro cui si consuma oltre alla tradizionale inefficienza del sistema amministrativo, anche la pratica dei « negoziati clientelari »: « importanti strumenti di potere nelle mani dei gruppi interni e delle gerarchie dominanti, che sono in grado di trasformare in oggetto di scambio quelli che dovrebbero essere doveri istituzionali adempiuti in maniera automatica» (Burocrazia e politica in Italia, Il Mulino, Bologna 1980, p. 264). La forma di governo dopo le elezioni del 1979: 20 Mi riferisco, in particolare, all'inchiesta di M. riflessioni sulle origini di una democrazia bloccata, MAFAI, comparsa in varie puntate (aprile 1983) su in «Queste Istituzioni », n. 27, gennaio-giugno « La Repubblica ». Quanto mai esplicita l'opinione 1979. di M.S. GIANNINI sulle origini della riforma sani13 Su queste sequenze insiste, come è noto, G. taria: « ... Tutti i partiti erano allora interessati alla creazione di alcune migliaia di nuovi posti per AMATO. Tra i suoi saggi raccolti in Una repubblica da riformare, cit., si vedano in particolare le conil loro personale politico. Il che è avvenuto. Ma clusioni de Il potere senza consenso delle nostre l'esito di questa scelta è stato rovinoso... » (Una istituzioni (p. 97 ss.) e le considerazioni svolte in riforma da buttare?, loc. cit., 21 aprile 1983). La riforma delle istituzioni centrali: la forma di 21 Gli ultimi clamorosi scandali delle amministragoverno e il sistema elettorale (p. 173 ss., passim). zioni locali di Torino e i recentissimi arresti di po14 Si vedano sul punto le osservazioni di C. DoNolitici in Liguria sembrerebbeco proprio non lasciare alcun dubbio in proposito! LO, Ingovernabilità, in « Laboratorio politico» n. 1, 22 Al riguardo si vedano le conclusioni dell'indagigennaio-febbraio 1981, p. 93 ss. 15 Una tale critica è in particolare contenuta nel ne condotta da A. SPREAFICO e F. CAZZOLA, Correnti di partito e processi di identificazione, in « Il documento del Centro per la Riforma dello Stato Politico », 1970, Sp- 713 ss. I termini attuali della questione istituzionale, pub23 Una tale trasformazione è stata sia pure probleblicato in « Democrazia e diritto », n. 1, 1983. (Cfr. il prg. 10: e Il dibattito sulle riforme istituzionali: maticamente segnalata in alcuni dei contributi del oscillazioni e tatticismi », p. 183). volume collettaneo a cura di G. SARTORI, Correnti, frazioni e fazioni nei partiti politici, Il Mulino, Bo111 In proposito valgono tuttora le considerazioni di A. SPREAFIc0, I programmi dei partiti, in AA. logna 1973. 24 Alludo alla designazione di V. Spini nel PSI e VV., Ideologia e comportamento politico, Edizioni di R. Mazzotta nella DC, entrambi esponenti di pundi Comunità, Milano 1977, p. 81 Ss. ta di correnti avverse, quanto meno inizialmente, Sul punto G.F. PASQIJINO, Degenerazioni dei parai gruppi che hanno espresso la segreteria. titi ecc., cit., p. 8. Su questi aspetti metodologici si veda A. PANE8 Sui cambiamenti ambientali che hanno determiBIANCO, Op. cit., P. 103 ss. nato l'insorgere di questo fenomeno, si vedano le 26 Si aderisce pertanto alla «prospettiva sistemiintelligenti osservazioni di A. PANEBIANCO, Modelli di partito, Il Mulino, Bologna 1982, p. 483 ss., ca » indicata da G.F. PASQUINO, quella « interessata nonché P. FARNETI, Il sistema dei partiti in Italia, a riforme che migliorino complessivamente la tra1946-1979, Il Mulino, Bologna 1983. smissione delle domande politiche dai cittadini ai partiti e la traduzione di queste domande in deci1<1 «La propensione a considerare l'impegno polisioni da parte dei partiti... »; di contro alla « protico come un investimento è largamente incoragspettiva partigiana », « interessata soprattutto a progiata, a Roma e in periferia, dall'ampliarsi a dismicurare vantaggi sicuri e rapidi ad una parte polisura dei campi in cui la parola decisiva spetta ai tica, un partito specifico o una coalizione di parpolitici: dai vertici degli enti pubblici a quelli dei
rito dei giuristi, tuttavia dubito che la democrazia possa governare a lungo la società senza quell'unione dello spirito giuridico con io spirito democratico e non credo che oggi una repubblica possa sperare di mantenere a lungo la sua esistenza, se in essa l'influenza dei giuristi sulla politica non aumentasse proporzionalmente al potere del popolo...» (La democrazia in America, voi. TI, nella versione curata da G. CANDELORO, Cappelli, Bologna 1932, p. 139. Si legga, però, tutto il paragrafo « Lo spirito giuridico negli Stati Uniti, come esso serva da contrappeso alla democrazia », p. 135 Ss.). ' Il riferimento d'obbligo corre a C. MORTATI, in particolare a suoi numerosi interventi in Assemblea Costituente, ora raccolti nei voi. I della Raccolta di scritti del medesimo: Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato, Giuffrè, Milano 1972. Si vedano anche sulla funzior,e dei partiti di «tramite » tra la volontà popolare e quella dello Stato-apparato le considerazioni svolte dallo stesso Autore nel suo Commento all'art. 1, nel Commentario della Costituzione (a cura di G. BRANCA), Principi fondamentali, Zanichelli, Bologna 1975, in particolare a p. 35 Ss. 12 Un'analisi e storicizzata » del « blocco » del sistema politico italiano è proposta da G. CHIMENTI,
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titi, ad esempio, e che subordina, più o meno raffinatamente, a questo vantaggio il tipo di riforme
suoi aspetti degenerativi - a partire dalla periferia. Significative al riguardo, per esempio, le argo•mentazioni contenute nella relazione al noto progetto di legge di riforma della legge comunale e provinciale, redatto da un gruppo di autorevoli studiosi (nell'ambito di una ricerca condotta dall'Istituto di diritto pubblico della Facoltà di giurisprudenza di Pavia, per incarico della Giunta regionale della Lombardia). Si parte dalla constatazione che l'odierna configurazione organizzativa degli enti locali è il frutto della stratificazione di due concezioni, l'una di tipo privatistico superata (seppure sottesa in molte disposizioni dell'ordinamento comunale) e l'altra che risponde invece al modello « di un'organizzazione politico-rappresentativa fondata sui partiti, secondo il sistema affermatosi a livello dell'organizzazione costituzionale dello Stato a. E, quindi, senza esprimersi sulla funzionalità di siffatta coincidenza, si osserva che « ...gli elementi propri del modello "partitico" sovrappostosi [al modello privatistico] non solo risultano tuttora vitali, ma appaiono strettamente legati e difficilmente scindibii dai caratteri del nostro sistema politico... a. «.Si vuoi dire, cioè, che una eventuale modifica degli aspetti connessi a tale modello sarebbe qualcosa di più che una modifica dell'assetto organizzativo dell'amministrazione locale, in quanto •verrebbe ad incidere sul modo in cui opera l'intero sistema politico a livello locale, con non iniprobabili ripercussioni anche ad altri livelli. Ora, qualsiasi cosa si pensi, nel merito, delle proposte o delle tendenze volte a modificare i caratteri della rappresentanza politica del nostro paese, e quindi a influire sul sistema politico attraverso operazioni di "ingegneria istituzionale", va detto che una nuova legge sulla amministrazione locale non sembra la sede idonea per affrontare questa tematica, che ne travalica net-
che intende introdurre » (Degenerazioni dei partiti ecc., cit., p. 174). 27 Su questi obiettivi, soprattutto dei progettisti di parte socialista all'inizio del dibattito sulle riforme istituzionali, ho già avuto occasione di soffermarmi in Esecutivo forte o partito libertario, in « Argomenti radicali », n. 10, ottobre-dicembre 1978, p. 38. 28 Cfr. l'approfondita indagine di S. BARTOLINI, Ri-
forma istituzionale e sistema politico. La Francia gollista, Il Mulino, Bologna 1981. 29 In termini diversi si può sostenere che l'attuale problema dei partiti è quello della loro « identità a,
come dimostra F. CAZZOLA, Le differenti identità dei partiti di massa, in « Laboratorio politico », n. 5-6, 1982, p. 50 ss. 30 Il caso Pertini non fa testo, in « Mondoperaio »,
n. 3, 1983, p. 20 ss. 81 Una tale soluzione, che indubbiamente accentua - come segnalo immediatamente in fra - la diversità di posizione formale e sostanziale tra ministri e presidente dei Consiglio che, pertanto, non potrebbe più conflgurarsi semplicemente come un «primus inter pares », può porre problemi di compatibilità costituzionale, ove si accolga l'interpretazione che assicura al Consiglio dei ministri la « preminenza» politica nell'ambito dei governo (limitando non poco l'autonomia del Presidente). (Sulla questione si veda A. RUGGERI, Il Consiglio dei ministri nella Costituzione italiana, Giuffrè, Milano 1981, soprattutto la parte prima, p. 25 ss.). Proprio per superare questi dubbi, nel già citato scritto su « Mondoperaio » ho prudentemente ravvisato l'opportunità che la riforma prospettata sia introdotta con un procedimento di revisione costituzionale. 32 L'incompatibilità tra « le funzioni di membro del Governo » e « l'esercizio del mandato parlamentare » è, come noto, prevista dall'art. 23 della vigente Costituzione francese. 33 Queste esigenze, così come la necessità di dare finalmente attuazione alla previsione costituzionale relativa alla legge sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio e sull'organizzazione dei ministeri, sono riconosciute sia pure con motivazioni diverse da pressoché tutti i partiti politici. Sul punto si può rinviare alla Relazione del Comitato per lo studio delle questioni istituzionali redatta dal sen. F. BoNIFAcIo, coordinatore del Comitato stesso (trasmessa al Presidente del Senato il 29 ottobre 1982), Roma, 1983, in partipolare a p. 58 ss. (ma si vedano anche le conclusioni a p. 111). .34 Un simile modello organizzativo, certo radicalmente diverso da quello oggi in vigore, suscita le più varie perplessità e diffidenze anche negli ambienti più sensibili a prospettive di riforma delle amministrazioni locali, che le rendano effettivamente autonome. Sovente vengono avanzate obiezioni alquanto conformiste, nel senso che tendono a piegare le pur conclamate esigenze di autonomia all'attuale sistema politico, che si ritiene (chissà perché) non possa essere corretto - soprattutto nei
tamente l'oggetto » (Legge generale sull'amministrazione locale, Cedam; Padova 1977, p. 35 ss.).
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Nei più recenti programmi istitu2ionali di alcuni partiti - la DC e il PSI, in particolare - si contempla l'elezione diretta dei sindaci..., ma per i comuni con popolazione non superiore ai 20 mila abitanti (ove, proprio per le ridotte dimensioni di tali centri, una tale innovazione, quando non controproducente, sarebbe comunque assai poco significativa). 3 -5 Alcuni partiti hanno già tentato di sperimentare un simile metodo in occasione delle elezioni per il rinnovo dei consigli comunali nel giugno 1980. Il P.C.I., in particolare, ha provveduto in taluni comuni alla distribuzione agli elettori (anche se non iscritti al partito) di schede per una « consultazione preliminare segreta » per la formazione delle proprie liste. (Traggo la notizia da « La Provincia pavese » dell'8 marzo 1980, che riproduce anche tale scheda di consultazione). 36 Pare opportuno, per la sua singolarità, riportare integralmente una simile previsione: « Se nessun candidato ottiene la maggioranza richiesta, le votazioni sono ripetute con le stesse modalità il 140 giorno successivo a quello in cui si è aperta la votazione del primo turno/Sono candidati coloro i quali hanno ottenuto le due cifre elettorali più alte nel primoturno di votazione, a meno che non
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17 intervenga rinuncia/Nei 5 giorni successivi alla proclamazione dei risultati, i candidati possono presentare dichiarazione autentica di .rinuncia ... /Con la dichiarazione di rinuncia si può indicare il nome del candidato che ha partecipato al primo turno di votazione a favore del quale tale rinuncia è fatta. In mancanza la rinuncia si intende fatta a favore del candidato che ha ottenuto la cifra elettorale più alta . tra quelli esclusi/Nello stesso periodo di 5 giorni, ogni candidato al primo turno può fare dichiarazione preventiva di non accettare la candidatura nel, secondo turno di votazione...» (art. 13 della proposta «Norme per la elezione popolare diretta del sindaco », presentata il 6. febbraio 1981, doc. n. 2328). Altra proposta di parte democristiana (a firma dei deputati LETTIÉRI e altri) contempla pure l'elezione diretta del sindaco, ma in ùnico scrutinio, esserio proclamato il candidato che abbia ottenuto semplicemente il maggior numero di voti validi (art. 4 della propòsta presentata il 4 novembre 1981 alla Cam. dep., doc. n. 2925). 31 Anche la proposta G. BIANCO, CIccARDINI, innanzi menzionata, contempla che sia il sindaco a nominare la giunta municipale, ma ammette, che possano entrarvi anche membri del consiglio comunale (art. 18). 38 E questo anche per consentire ai cittadini (e agli stessi partiti) di meglio valutare la situazione politica venutasi a creare in seguito a un tale esito nell'elezione del sindaco. ° Le cifre elettorali di ciascun gruppo devono, cioè, essere divise per 1, 3, 5, 7 ecc. Il « potenziale» di proporzionalità 'di questo, come di altri metodi, dipende comunque dall'ampiezza delle circoscrizioni, con riferimento .al numero di seggi da distribuire. Sul punto: D. FISICHELLA, Elezioni e democrazia, Il Mulino, Bologna 1982, p. 167. 40 Per una possibile linea di riforma in proposito si veda il progetto già citato Legge generale sull'amministrazione locale, p. 62 ss. 41 E' in effetti assai diffusa la consapevolezza del ruolo « aggregante» (talora carismatico, comunque popolare) che assume molto spesso la figura del sindaco nella politica locale. Scrive, per esempio, G.F. PAsQUIN0: « . . .Non è forse un caso che oggi sia il sindaco una delle personalità più visibili della nuova politica, sicuramente appartenente al ristretto gruppo dei politici «popolari", rispettati e spesso amati» (Aperti alla sfida del m,derno, in « Rinascita », n. 19, 13 maggio 1983, p. 22. Nello stesso numero della rivista comunista si veda anche, 'nel medesimo senso e con una impostazione più marcatamente sociologica, un articolo assai significativo di O. CALABRESE, Quell'epifania di un sindaco, p. 31). 42 Questa, in particolare, la posizione del partito socialista, per il quale «per il Senato è ormai tempo di abbandonare la finzione (e gli effetti arbitrari) dei collegi uninominali e di passare direttamente a elezioni regionali di lista, con assegnazione dei seggi non più ai quozienti successivi, ma ai quozienti alternati, in modo da correggere le forti sperequazioni attuali » (così nel documento presentato •
dal Sen. JANNELLI per il PSI al Comitato per lo studio delle questioni istituzionali, allegato alla Relazione cit., voi. III, p. 75). Per una critica al sistema vigente per la formazione della seconda Camera, si veda pure G. AMATO, I sistemi elettorali in Italia: le difficoltà del cambiamento, in « Quaderni costituzionali », 1981, p. 524. Tra gli altri A. SPREAFICO, rifacendosi ai risultati di ormai numerose indagini, osserva che « nella grande maggioranza dei casi, il voto di preferenza non è un fatto spontaneo e individuale, frutto di una libera scelta dei cittadino elettore, ma il portato dell'organizzazione di partito e di corrente. Come tale esso tende a concentrarsi su un ridottissimo numero di candidati che rappresentano il vertice del partito o dei suoi organismi collaterali che sono in condizione di mobilitare vaste schiere di attivisti, iscritti e simpatizzanti o intere cientele »
(Il rendimento dei sistemi elettorali: il caso italiano,, in « Quaderni costituzionali », 1981, pp. 505 506, con dovizia di riferimenti bibliografici nella nota 21 e con una assai indicativa tabella relativa alla percentuale di voti di preferenza - in rapporto ai voti esprimibili -, per zone geografiche e liste nelle elezioni politiche del 1979 per la Camera dei deputati). 44 Per cui, ai fini dell'elezione dei candidati, varrebbe l'ordine prefissato dai partiti. Una tale ipotesi fu ampiamente discussa già in periodo precostituente, all'atto dell'elaborazione della legge elettorale per la Costituente. Ma essa trovò una ferma opposizione nei partiti d'opinione, i più sensibili a garantire una «piena » libertà di scelta agli elettori. Alla fine, come è noto, si optò per una formula intermedia: le liste rigide furono ammesse soltanto in sede di collegio unico nazionale per la ripartizione dei seggi residui. Un tale espediente fu poi confermato dall'Assemblea costituente (sia pure tra molte contestazioni) per la legge elettorale relativa alla formazione della Camera dei deputati (ulteriori notizie in: E. BETTINELLI, All'origine della democrazia dei partiti, Edizioni di Comunità, Milano 1982, a p. 151 ss. e a p. 348 ss.). Nel documento già citato presentato dal PSI ai Comitato del Senato per lo studio delle questioni istituzionali si propone, come contributo « alla qualificazione del personale parlamentare e alla moralinzazione della vita politica », di creare per l'elezioné della Camera dei deputati « un effettivo collegio unico nazionale, in cui vengano eletti candidati presentati su apposite liste nazionali » (si presume rigide) e di ridurre le 'preferenze in ambito circoscrizionale (loc. cit., p. 75). Analogamente G. AMATO, secondo' il quale la quota di parlamentari da eleggere con tale sistema dovrebbe essere pari a non più del 10 per cento, in modo da consentire l'accesso alla Camera a un « personale prezioso... il meno vincolato da mandati corporativi e settoriali » ('I Sistemi elettorali in Italia ecc., cit., p. 531). 45 Cfr. E. BETTINELLI, All'origine della democrazia dei partiti, cit., .p. 52 ss., passim. 40 Come sostiene G.F. PASQUINO, Crisi dei partiti e governabilità, Il Mulino, Bologna 1980, p. 65. La disòmogeneità delle circoscrizioni nel vigente
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51 La legge vigente contempla invece che ciascun sistema elettorale per la Camera dei deputati crea, candidato possa concorrere in tre collegi (al mascome risaputo, gravi effetti distorsivi quanto al nusimo). mero dei suffragi necessari all'elezione di un depu52 tato nelle diverse zone. E' nota la polemica sul In questo 'modo mi sembra che possano essere «costo» dei seggi (in termini di voti), sensibilmendel tutto superati gli inconvenienti segnalati da A. te differente per le formazioni maggiori e per quelSPREAFICO (loc. ult. cit., p. 503) riguardo alla dile minori, come, tra gli altri, documenta anche A. spersione dei voti, a danno dei partiti minori, che SPREAFICO, il quale ricorda poi la pronuncia della si potrebbe verificare con il vigente sistema adotCorte costituzionale tedesca, che nel 1961 ha ditato 'per il Senato. (Ma si tratta ) in 'verità, di una chiarato illegittima una eccessiva sperequazione nelipotesi teorica, stante l'estrema rarità dei casi di l'ampiezza delle circoscrizioni, ritenuta contraria al elezione immediata dei candidati nei collegi; nelle principio dell'uguaglianza del voto. (Ciò che ha incompetizioni politiche del 1979 ciò è accaduto solo dotto il legislatore della RFT a limitare il divario una volta). tra il numero degli elettori dei vari collegi a non Ho già avuto modo di esprimere e motivare, sia più del 25 per cento) (Il rendimento dei sistemi pure sinteticamente, le mie propensioni per un sielettorali ecc., cit., p. 501). stema monocamerale in Riforme costituzionali: un'alUna ridefinizione in senso omogeneo dei collegi in ternativa al presidenzialismo, in « Argomenti radicaambito regionale potrebbe - ai fini della presente li », n. 14, novembre 1979, p. 64 ss. proposta - risultare oggi un'operazione non eccesIl favore nei confronti dell'opzione unicamerale è sivamente ardua o rischiosa (per eventuali malaptradizionalmente di sinistra. Recentemente si veda, portionments). I flussi migratori interni negli ultiperò, anche A. RONCHEY, che propone l'abolizione mi dieci anni si sono notevolmente attenuati; il della Camera dei deputati « ormai pressoch ingomovimento naturale della popolazione si mantiene vernàbile oltreché scadente », per conservare il solo sempre alquanto difforme 'nelle varie regioni del Senato con il sistema elettorale attualmente vigente paese, ma per grandi aree geografiche (Nord, Cen(Venga a fare l'eletto da noi.., in « La Repubblica », tro, Sud). (Si vedano i dati in Le regioni in cifre, 3 maggio 1983). a cura dell'Istituto centrale di statistica, Roma 54 Si vedano al riguardo gli orientamenti dei par1982). Per garantire la conservazione dell'omogeneititi prodotti in seno al Comitato per lo st'udio delle tà dei collegi si potrebbe comunque provvedere a questioni istituzionali (Relazione di F. BoNIFAcIo, rettifiche decennali (con trasferimento di sezioni da cit., p. 37 ss). un collegio all'altro), sulla base dei risultati dei " Per un Parlamento «destinato a rappresentare il censimenti. punto di raccordo e di snodo dello "Stato regiona48 Anche adesso questo è, per il Senato, il rapporle", in quanto chiamato a collegare, sul terreno delto tra seggi da assegnare (315) e collegi (5238), vela valutazione dell'interesse nazionale, l'intero sistenutosi a creare in seguito alla 1. 27 febbraio 1958 ma delle autonomie territoriali con l'apparato cenn. 64 (che ha stabilito l'immutabiità dei collegi trale », insiste E. CI-IELI, La centralità parlamentare: uninominali individuati dalla 1. 6 febbraio 1963 n. sviluppo e decadenza di un modello, in « Quader29) e alla I. cost. 9 febbraio 1963 n. 2 che ha dini costituzionali », 1981, p. 351. sposto il nuimero fisso dei senatori elettivi. 30 Questa ipotesi è considerata con favore soprat49 Ciò comporta, pertanto, che il numero di seggi tutto dal PCI (Relazione di F. BONIFACIO, cit., che ciascuna regione dovrebbe coprire (con variap. 43). zioni in più o in meno rispetto ai seggi « virtuali ») verrebbe a dipendere dalle differenze (in termini percentuali) relative appunto al dato dei voti validamente espressi, tra regione e regione. In sostanza risulterebbero sottorap.presentate, rispetto alla propria popolazione quelle regioni dove si registrasse un più alto livello di « non-voto» (come si chiarisce immediatamente nel testo). Questo espediente avrebbe anche il vantaggio di limitare ancora di più il problema del costo-seggi tra i diversi gruppi concorrenti. 30 Mentre l'attuale legge per l'elezione del Senato stabilisce che venga immediatamente proclamato il candidato che ottenga un numero di voti validi non inferiore al 65 per cento dei votanti. Favorevole alla soluzione dell'abbassamento di tale quorum al 50 per cento 'più uno dei voti validi il partito liberale, « in modo che senza rompere il legame dell'eletto con il partito, gli si possa conferire una carica di indipendenza, legata all'elezione locale, e una più schietta rappresentanza degli interessi regionali» 4
(Atti del Comitato del Senato per lo studio delle questioni istituzionali, cit., voi. III, p. 45).
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Proviamo con la libertà di voto di Carlo Chimenti
In un magistrale commento alle elezioni del giugno scorso •(« La Stampa », 10 luglio 1983) Norberto Bobbio mette in luce che il dato più sconfortante di esse consiste nel fatto che gli spostamenti di voti verificatisi nella circostanza, pur essendo di una certa consistenza (ma gridare al crollo della DC perché ha perso il 6% dei consensi precedenti è un tipico caso di esagitazione manipolatoria della realtà), non hanno prodotto alcuna alterazione nei rapporti cli forza fra i due maggiori partiti: DC e PCI. Così da rendere ancora una volta impossibile, dopo 35 anni di egemonia democristiana, un effettivo ricambio nella direzione politica del paese, con oggettivo pregiudizio per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche al quale tale ricambio appare sempre più indispensabile. Risultati altresì deludenti - e di nuovo con riferimento oggettivo al sistema prima ancora che ad una kòinè di sinistra, come direbbe Salvati - se si considera, in particolare, che in questi 35 anni la cosiddetta Sinistra '(ossia PCI e 'PSI insieme) è aumentata di una percentuale risibile: dal 39,7 nel '46 al 41,3 nell'83, passando attraverso un minimo del 35,2 nel '58 ed un massimo del 44 nel '76. Una stabilità, dunque, molto simile alla paralisi che Bobbio, forse pensando al malgoverno, o al non governo, o anche semplicemente al governo rispetto al quale in tutti questi anni la parte maggiore della Sinistra ha sempre (o quasi) rappresentato l'opposizione, giudica incredibile e inspiegabile. Scopo delle considerazioni che seguono è di
prospettare al riguardo un'ipòtesi di spiegazione e di indicare, in coerenza con essa, una possibilità di rimedio, pur sapendo che tale spiegazione chiama in causa un fenomeno che, correntemente, viene magnificato dai commentatori delle nostre vicende politiche, ed al quale viceversa, per il solo fatto di porlo alla base di quella abnorme stabilità, bisognerà riconoscere una valenza negativa.. Si tratta dell'altissima percentuale dei votanti (sempre intorno al 90%) che caratterizza le nostre consultazioni elettorali, e della correlativamente bassa percentuale dei non votanti (sempre intorno al 10%). In ordine a tale fenomeno va fatta anzitutto chiarezza dal punto di vista terminologico, poiché spesso si parla genericamente di « astenuti » per indicare sia coloro che non si recano alle urne sia . coloro che vi si recano ma che votano scheda bianca od annullano la scheda. Terminologia che però è fuorviante, poiché solo alle schede bianche ed a quelle volontariamente rese nulle può attribuirsi il valore di una presa di posizione politica consapevole, mentre al non votante va accreditata ordinariamente (e quindi all'infuori da assolutizzazioni fuori luogo) una radicale incertezza e/o indifferenza rispetto alla vicenda elettorale. Anche nelle ultime elezioni, in •vista delle quali era stato agitato, probabilmente ad arte e giocando sull'equivoco terminologico suddetto, il fantasma di una valanga di astensioni, all'attacco pratico i non votanti sono cresciuti di una percentuale trascurabile ed i votanti sono rimasti saldamente attestati
20 sul 90%. Ora è chiaro che in una marea così vasta di votanti qualsiasi « movimento » all'interno del corpo elettorale finisce per stemprarsi e perdere rilievo. Infatti spostamenti di voti da un partito all'altro, trasformazioni di voti validi in schede bianche o nulle e viceversa, mutamenti nel rapporto di forza fra i partiti, in una simile situazione diventano percepibili e provocano effetti concreti soltanto se investono, a loro volta, percentuali relativamente elevate di elettori: mentre l'esperienza insegna in tutto il mondo che i movimenti di questo genere, in quanto espressione di particolare sensibilità politica o semplicemente di riflessione critica in ordine alla politica nazionale, riguardano quote relativamente esigue di elettorato. Vi sono paesi nei quali a valorizzare le scelte di queste quote di elettorato provvede, accanto ad una relativamente bassa percentuale di votanti, il sistema elettorale maggioritario: è, ad esempio, il caso dell'Inghilter. ra. Ma non c'è dubbio che qualcosa di simile potrebbe prodursi anche da noi, pur in costanza di una legge elettorale proporzionale, per effetto di un sensibile abbassamento della percentuale dei votanti: se, ad esempio, questo colpisse esclusivamente i due partiti maggiori, il terzo partito potrebbe diventare il primo. Vero è che un consolidato stereotipo culturale considera le nostre altissime percentuali di partecipazione alle elezioni come uno splendido indice di consapevolezza e di maturità politica di massa. Tant'è vero che i pur lievi segni di cedimento in tale partecipazione, manifestatisi nelle ultime consultazioni amministrative, regionali, europee e referendarie, sono stati melodrammaticamente descritti come prodromi di declino del regime democratico. Il che - fatto in buona o in mala fede - era comunque un errore perché, come si è ancora una volta dimostrato nel giugno scorso, le elezioni politiche sono da noi un'altra cosa (per le ragioni che ve-
dreino subito). Ma intanto bisogna sottolineare che l'anzidetto stereotipo culturale, lungi dall'essere fuori discussione sul piano della scienza politica, viene addirittura rovesciato da alcuni studiosi, come Lipset, per i quali è la bassa partecipazione alle elezioni che si rivela sintomo di buona salute del sistema politico, in quanto denota in esso un ridotto tasso di conflittualità. A parte ciò, è in ogni caso difficilmente credibile la tesi secondo cui da noi le elevate percentuali di votanti siano un buon segno: mentre, infatti, ci fanno somigliare, da questo punto di vista, ad un paese d'oltre cortina, esse superano di circa il 20% quelle dei paesi occidentali con popolazione paragonabile alla nostra (Gran Bretagna, Francia, Germania), che mediamente si aggirano intorno al 70%. Sarebbe indubbiamente patriottico pensare di possedere, a livello di massa, maggiore maturità e consapevolezza democratica di quanta se ne trova in quei paesi. Ma sarebbe anche ingenuo, poiché rispetto a tali paesi siamo, storicamente, dei parvenus della democrazia (anche rispetto alla Germania, che prima del nazismo fece l'esperienza di Weimar) e d'altra parte registriamo, quanto al più elementare strumento della cultura politica di massa, la stampa quotidiana, livelli di diffusione di gran lunga inferiori ai paesi stessi. Ci troviamo quindi dinanzi ad un contrasto apparentemente .paradossale fra l'elevata qualità democratica dell'elettorato, presunta in base alla percentuale di partecipazione al voto, e la mancanza di presupposti convincenti di essa. Ma il paradosso si dissolve se si prende in considerazione l'ipotesi che quella presunzione sia errata, e che a portare la marea dei votanti alle urne non sia soltanto maturità e consapevolezza politica, ma sia in buona parte - giust'appunto, per quel 20% di scarto che si riscontra fra il nostro e gli altri paesi presi ad esempio, o magari per qualche punto in più -. l'obbligatorietà del voto. La qi.ialé, negando all'elettorato la
21 libertà di disertare le urne, costringe a votare, per la parte in questione, elettori verosimilmente sprovveduti e/o indifferenti politicamente, che se non fossero impauriti dalla violazione di un obbligo impiegherebbero altrimenti il loro tempo, e che per il tipo di motivazione in base al quale si inducono a preferire l'uno o l'altro partito pesano bensì nel gioco democratico, ma come zavorra. Sono almeno tre i motivi che lasciano ragionevolmente supporre che sia l'obbligatorietà del voto a mantenere così alta la nostra partecipazione alle elezioni politiche. Anzitutto la circostanza che nei citati paesi, dove la partecipazione è nettamente minore, il voto non è obbligatorio ma del tutto libero. Si suole dire a questo riguardo che anche in Italia, praticamente, il voto è libero nel senso che la conclamata obbligatorietà non è accompagnata da sanzioni apprezzabili. Il che è vero, e lo vedremo meglio più avanti. Ma sta di fatto che, come risulta da una pregevole indagine comparata di Lanchester, ciò che incide sul livello di partecipazione elettorale è l'obbligatorietà o meno della partecipazione stessa, mentre resta pressoché indifferente, là dove l'ordinamento sancisca l'obbligatorietà, il tipo delle sanzioni che l'accompagnano e quindi anche l'assenza (in fatto) di esse. In secondo luogo va notato che c'è un paese europeo, l'Olanda, in cui si è verificato dapprima il passaggio dal voto libero al voto obbligatorio e poi da questo c'è stato un ritorno al voto libero. Ed in Olanda si è constatato che il primo passaggio ha fatto salire i votanti dal 70% circa ad oltre il 90%, mentre il secondo li ha fatti discendere altrettanto repentinamente all'80%. In terzo luogo non va trascurato che da noi si registra da sempre una significativa diminuzione della partecipazione rispetto alle elezioni politiche, quando si tratta di elezioni amministrative o d'altro genere. Ciò può essere ascritto anche alla minore mobilitazione dei partiti quando non è in
gioco la politica nazionale, ma una causa concorrente sta senz'altro nella mancanza, nella legge elettorale amministrativa, di una clausola di obbligatorietà simile a quella della legge elettorale politica. Il che, del resto, si collega con la minore mobilitazione dei partiti nel senso che a questa viene meno la leva normativa specifica con cui pungolare l'elettore. Il che dimostra che, pur in un quadro generale tendente all'obbligatorietà, l'elettorato è sensibile a maggiori o minori costrizioni, e fa presumere che se fosse laciato del tutto libero, probabilmente si comporterebbe come gli altri elettorati europei, e cioè lasciando a casa la zavorra. Vocabolo, beninteso, il cui valore negativo deve evidentemente essere circoscritto al comportamento elettorale, o politico in generale, ed al quale ulteriori valenze deteriori potrebbero essere attribuite soltanto da chi ancora oggi credesse in un primato totalizzante della politica su tutte le altre ragioni per cui la vita merita di essere vissuta. Conviene chiedersi a questo punto come nasce e in che consiste, da noi, l'obbligatorietà del voto. Per quanto riguarda la nascita, si può dire in termini generali che, ignota al regime statutario, l'obbligatorietà del voto viene introdotta dai Governi del CNL in vista del referendum istituzionale e delle elezioni per l'Assemblea Costituente del 1946. E viene introdotta per le stesse ragioni che, come risulta dall'indagine di Lanchester, l'avevano già fatta apparire, per poi magari sparire, in altri paesi europei: ossia per contingenti convenienze politiche. Infatti, per quanto validamente difendibile sul piano dei principI quale conseguenza della concezione « funzionale » del voto, all'interno di una visione organicistica della società e delle istituzioni, l'obbligatorietà è su tale piano altrettanto validamente contrastabile in nome della concezione « potestativa » del voto, dalla quale
22 discende invece l'assoluta libertà di esso come fondamentale diritto individuale. Sicché, in definitiva, come già scriveva Arangio Ruiz nel 1913, la scelta di applicare concretamente, in determinate situazioni, l'una o l'altra concezione dipende da « argomenti politici ». Storicamente, peraltro, se è innegabile che a prima ispirazione di costringere i cittadini a partecipare alla vita politica è giacobina, è altrettanto innegabile che, in epoca più recente, il voto obbligatorio è sempre stato una bandiera di destra sul presupposto, come ricorda Lanchester, che « gli strati meno attivi, e quindi più astensionisti dell'elettorato erano quelli moderati ». Per cui è sempre stato interesse della maggioranza silenziosa (e non solo silenziosa, si direbbe, ma anche pigra) di incentivare artificiosamente la propria partecipazione, portando di forza '« alle urne i meno attivi e passionali » o, se vogliamo dirla più brutalmente, i meno capaci di intendere e di volere politicamente. Tant'è vero che sono gli esponenti di quella maggioranza - essi in verità tutt'altro che silenziosi o pigri o sprovveduti - ad inventare il voto funzionale per difendersi dal vo to espressione di libertà, così come avevano escogitato la sovranità della nazione per re.sistere alle implicazioni della sovranità popolare e il voto plurimo per compensare 1' allargamento del suffragio. Invenzione, del resto, tutt'altro che banale, quella del, voto funzionale, che non per nulla ha incontrato « la tradizionale opposizione di giuristi e politici del movimento' operaio » ({anchester). Il voto obbligatorio, insomma, costituisce un potente strumento politico che « si coordina con il problema 'dell'estensione del suffragio » allo scopo di « garanzia nei confronti del processo di democratizzazione » (Lanchester). Un potente strumento, quindi, in funzione conservatrice. E certamente in tale funzione l'obbligatorietà del voto viene introdotta da noi per le elezioni del 1946. Infatti, a battersi con estremo accanimento a
favore dell'obbligatorietà fu' la DC, sospinta vigorosamente dal Vatìcano che a questo proposito fece scendere in campo nientemeno che il Papa, e significativamente appoggiata con entusiasmo dal PLI che all'epoca si collocava su posizioni di massima conservazione. Di contro stavano le Sinistre, con il sostegno 'di azionisti, repubblicani e demolaburisti. E, come risulta dal documentato libro di Bettinelli sulle origini della democrazia dei partiti, fu una lunga battaglia politica che, al di sotto delle argomentazioni di principio, lasciava chiaramente trasparire il contrapposto interesse dei due raggruppamenti ad attivizzare oppure no masse contadine e di ceto medio, scarsamente politicizzate, presumibii portatrici di istanze moderate. Anche l'esito di tale battaglia fu tipicamente politico: un comprmesso fra gli opposti schieramenti. Nella riunione del Governo del 27 febbraio 1946 le Sinistre cedettero alla volontà di De Gasperi di far decidere direttamente dal popolo, mediante referendum, la sopravvivenza o meno della monarchia, mentre la DC cedette qualcosa a proposito della obbligatorietà del voto. In realtà però quel che la DC cedette fu ben poco, poiché la legge approvata in vista delle elezioni del '46 stabiliva: « L'esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno a un suo preciso dovere verso il paese in un momento decisivo della vita nazionale. L'elenco 'di coloro che si astengono dal voto nelle elezioni per la Costituente, senza giustificato motivo, sarà esposto per la durata di un mese nell'albo comunale. Per il periodo di cinque anni la menzione "non ha votato" sarà iscritta nei certificati di buona condotta che vengono rilasciati a chi si sia astenuto dal voto senza giustificato motivo ». ii che, certamente, significava l'introduzione di un obbligo sostanzialmente privo di sanzione, non risultando accolta alcuna delle sanzioni proposte dai democristiani alla Consulta (da quelle banal-
23 mente pecuniarie alla più raffinata decadenza della tessera annonaria, dall'impedimento a partecipare a concorsi pubblici all'impossibilità di ottenere licenze e concessioni amministrative), ed essendo in luogo di esse prevista l'anzidetta menzione nel certificato di buona condotta dalla quale - se non altro per la mancata specificazione dei motivi giustificanti il non aver votato - non poteva giuridicamente derivare alcun danno. E tuttavia, a raggiungere l'effetto intimidatorio che la DC si prefiggeva sarebbe sicuramente bastato (come bastò) il concetto stesso di obbligo legale, che venne appunto sancito nel DLL 10 marzo 1946 n. 74, il quale oltre a giustificare una martellante propaganda dello Stato all'insegna del motto « votate per chi volete, ma votate », fornì una copertura statuale alla mobilitazione generale del clero a favore della DC. Per giunta, la citata disposizione di legge, con l'oscura formula relativa alla sanzione, pareva fatta apposta non già per tranquillizzare, ma al contrario per attizzare paura e diffidenza in una popolazione che dello Stato non aveva mai avuto molti motivi di fidarsi. Come mai le Sinistre - che pure valutavano esattamente l'importanza decisiva della posta in gioco, tant'è che Togliatti era giunto a dichiarare « Il Governo il quale approvasse l'introduzione del voto obbligatorio faccia conto di essere il giorno dopo dimissionario, perché non conterà più i comunisti nel suo seno» - accettarono un compromesso in cui l'obbligatorietà non era neppure mascherata nelle parole, ma solo inesistente nella realtà giuridica? Possibile che si illudesse che simile marchingegno sarebbe, stato capito non solo da qualche migliaio di persone acculturate, ma dai milioni e milioni di elettori inesperti del giure? Possibile che non si rendesse conto che tra il voto alle donne - che la DC si era assicurata poco prima, senza praticamente incontrare ostacoli a Sinistra poiché l'opporvisi in nome della pura verità
(cioè l'assoluta impreparazione politica della massima parte dell'elettorato femminile) avrebbe regalato paradossalmente alla DC la difesa dell'emancipazione delle donne - e l'obbligatorietà si sarebbe trovata in mezzo ad una tenaglia diabolica? La risposta è, con ogni probabilità, che pur non ignorando tutto questo, la Sinistra sapeva anche che - come abilmente alcuni democristiani avevano sostenuto nelle varie sedi in cui il dibattito sull'obbligatorietà s'era svolto - un elevato astensionismo nelle elezioni per l'Assemblea Costituente avrebbe rischiato di delegittimare alla radice il nuovo regime democratico, così da renderlo irreparabilmente debole non solo dinanzi ai suoi potenziali nemici interni (che, fra l'altro, la conta del referendum istituzionale avrebbe dimostrato molto numerosi), ma anche sui piano internazionale. Un personaggio d'esperienza come Bonomi prevedeva, ad esempio, in base ai dati delle elezioni prefasciste, che la partecipazione spontanea alla consultazione del '46 non avrebbe superato il 50%, tenendo soprattutto conto della presumibile bassissima quota di votanti donne. Ed un acuto fautore dell'obbligatorietà come Mortati nòn perdeva occasione per sottolineare che l'unico mezzo per garantirsi una percentuale abbastanza elevata di votanti tale da legittimare senza incertezze la nascitura democrazia, era l'adozione del voto obbligatorio. Se il cedimento delle Sinistre su questo punto si spiega così, bisogna subito aggiungere che esso non fu inutile poiché la percentuale dei votanti sfiorò il 90 016 nonostante che, per difficoltà organizzative connesse agli ancora freschi sconvolgimenti bellici, oltre il 5 016 dei certificati elettorali non poté essere consegnato agli interessati. Un risultato, dunque, dal quale la legittimazione del nuovo regime democratico uscì trionfalmente affermata. Le successive vicende del voto obbligatorio confermano la spiegazione qui prospettata.
24 Una volta ottenuto il successo di partecipazione che si è detto alle elezioni del '46, in Assemblea Costituente, pure restando invariato lo schieramento dei favorevoli e dei contrari, viene raggiunto senza gravi lacerazioni l'accordo sulla formula del « dovere civico », inclusa nell'art. 48 della Costituzione, che rappresenta un decisivo arretramento testuale rispetto all'« obbligo cui nessuno può sottrarsi » contenuto nella legge elettorale per l'Assemblea Costituente. Ed anzi, per il modo come fu approvata (i liberali la votarono in quanto non vincolava il successivo legislatore ordinario in alcuna direzione), quella formula significa sostanzialmente la rinuncia alla obbligatorietà a livello costituzionale. E viene altresì raggiunto con relativa facilità l'accordo per modificare il testo legislativo del 1946 (in vista dell'elezione del primo Parlamento repubblicano nel 1948), accordo in base al quale nel nuovo testo scompare qualsiasi accenno a sanzioni e la norma suona così: « L'esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venire meno a un suo preciso dovere verso il paese ». Norma che, in tali termini, nei quali può leggersi una sorta di obbligazione naturale di diritto pubblico, è tuttora in vigore. E' questo dunque lo stato della questione relativa all'esercizio del voto quale attualmente si presenta in Italia: una doverosità « civica » (ma proprio perciò politica e comunque non giuridica) affermata dalla Costituzione; una obbligatorietà giuridica, affermata dalla legge elettorale, ma con i tratti tipici delle obbligazioni naturali in quanto completamente sprovvista di qualsivoglia sanzione per l'eventualità di violazione; una percezione generalizzata negli elettori della necessità dell'andare a votare, quanto meno come misura prudenziale intesa a scongiurare le imprevedibili ritorsioni da parte del pur sempre minaccioso potere pubblico, percezione che rappresenta il retaggio diretto dell'im-
bonimento cui l'elettorato fu sottoposto nel 1946 senza che, successivamente, nessuno si sia mai preoccupato di chiarire all'elettorato, con altrettanto impegno, che l'obbligo non esisteva più o che comunque era inefficace. Una situazione quindi che sembra costruita su misura per dare ragione a Lanchester quando rileva l'indifferenza dei modi dell'obbligatorietà, dove questa sia statuita o la si reputi statuita, agli effetti della partecipazione popolare alle elezioni. Si può pertanto affermare che in apparenza - o, per meglio dire, per la massima parte dell'elettorato, la quale non ha dimestichezza con le sottigliezze dei compromessi legi slativi e della loro interpretazione - il voto è ancor oggi pienamente obbligatorio e quindi nulla è cambiato sotto questo profilo dal 1946. Nel frattempo, però, è altrettanto certo che sono profondamente mutate le condizioni generali del paese. Mentre allora, cioè, si rendeva necessaria la più massiccia presenza dell'elettorato alle urne, ai fini della legittimazione del nuovo regime democratico, che a sua volta rendeva quanto meno opportuna la scelta dell'obbligatorietà del voto, oggi non c'è dubbio che il regime democratico è pienamente legittimato (e guai, d'altronde, se non fosse così!), per cui l'obbligatorietà del voto, come sopra finalizzata, si rende superflua. E, se si rende superflua, è per ciò stesso consentito che la si rimetta in discussione, allo scopo di valutare se l'esigenza di consolidamento del regime democratico, che oggi sostituisce quella della legittimazione, non consigli l'adozione dell'opposta regola della libertà. E' appena il caso di avvertire che, nel riaprire il discorso sulla libertà di voto, non c'è alcun ésprit de révanche nei confronti dell'obbligatorietà e dei suoi antichi fautori, e tantomeno c'è l'intenzione di sostenere che in astratto è preferibile la concezione potestativa del voto rispetto a quella fun-
25 zionale. Si vuole semplicemente dire che, venute meno le ragioni di opportunità per le quali si doveva - 35 anni fa - cercar di ottenere la massima quantità di votanti, oggi emergono quelle a 'favore della qualità di essi in funzione, soprattutto, del superamento della situazione di stallo rilevata da Bobbio, nella quale consiste ormai la più grave insidia alla stabilità del regime democratico. E si vuoi dire che, a questo fine, l'obbligatorietà del voto non serve, mentre dalla sua totale libertà può aversi quella selezione spontanea dell'elettorato potenziale che, risolvendosi (come diceva Piccardi) in una correzione naturale del suffragio universale, potrebbe riuscire a rafforzare la base stessa del regime. Non dunque ragioni di principio suggeriscono di riaprire quel discorso, ma ragioni pratiche, del resto anticipate nel '46 da un democratico indiscutibile come Jemolo, e così sintetizzate da Bettineffi: « la democrazia non si regge soltanto sulle maggioranze numeriche, ma vive soprattutto sulle maggioranze di energie, ricche di fede e di volontà di agire. Far entrare per forza sulla scena politica le masse amorfe vuoi dire contraddire i fini della rappresentanza proporzionale e alterare nello stesso tempo il funzionamento. delle istituzioni rappresentative. Le quali implicano una consonanza fra paese legale e paese reale, intendendosi con questa espressione l'insieme degli individui che contano per le loro convinzioni, per l'intensità del loro impegno, per il loro sacrificio ». Al che si può aggiungere l'ulteriore considerazione che lo stesso Bettineffi ricava da uno scritto coevo di Piccardi, e cioè che « l'affermazione del diritto di voto a tutti i cittadini, con il conseguente riconoscimento della loro eguale dignità morale, non significa però la negazione del diverso contributo che ogni cittadino in relazione alle sue differenti qualità naturali, alla sua varia maturità politica, alla sua maggiore o minore sollecitudine per l'interesse generale, porta alla dire-
zione del suo paese. Il voto obbligatorio, spingendo la massa degli elettori volente o nolente alle urne tende ad un annacquamento del suffragio, cioè ad attenuare proprio la naturale differenziazione che si manitesta in seno al corpo elettorale stesso ». Queste considerazioni - in cui non deve scorgersi una posizione narcisisticamente elitana, perché sono seminai rivolte, tutt'al contrario, a proteggere la grande maggioranza degli elettori dall'aliquota nettamente minoritaria, anche se ingente, dei disinteressati alle elezioni - erano già valide all'epoca in cui furono prospettate, seppure invano, poiché su di esse fece premio la necessità di legittimare il 'regime. Oggi, con la cessazione di quella necessità, esse acquistano rinnovato valore. E consentono di rispondere a chi obiettasse che la libertà di voto è garantita, anche in regime di obbligatorietà, dal fatto che l'elettore può scegliere, oltre ai vari simboli partitici, la scheda bianca che la libertà di voto deve comprendere e tutelare anche il diritto di non recarsi affatto alle urne. A parte invero che « in democrazia tutti gli atteggiamenti elettorali richiedono di essere tollerati: pure l'astensionismo che non raramente può anche rappresentare l'espressione di un dissenso contro le posizioni di tutti i partiti o addirittura contro la stessa organizzazione dello Stato » (Bettinelli), bisogna tenere conto del fatto che, ormai, l'elettore per obbligo, se continuerà a sentirsi costretto ad andare alle urne, se cioè non si sentirà totalmente libero di fare quel che vuole, non comincerà a depositare scheda bianca, ma continuerà a votare - visto che alle urne c'è andato esattamente come votava prima. Del resto, per rispettare l'eguaglianza di trattamento degli elettori, come si agevola in tutti i modi il potenziale votante (recapitandogli il certificato elettorale a domicilio, spiegandogli come si fa per votare, moltiplicando i seggi perché tutti possano avere il proprio a por-
2 tata di mano ecc.), così bisogna agevolare anche il potenziale non votante, riconoscendogli non solo la libertà di scheda, ma anche quella di non recarsi al seggio, senza timore di alcuna condanna che non sia quella di tipo meramente politico, ed emanante dal sistema partitico, per la.. violazione del « dovere civico ». .Tanto più che la Costituzione, prima di formulare il. concetto di tale doverosità,. esprime quello della libertà del voto, nel. quale la pari dignità giuridica del votare e. del non votare non può non essere compresa. Nonostante che siano abbastanza visibili le ragioni per le quali, ai fini del consolidamen.t .,delle istituzioni, varrebbe la pena di tentare la carta della libertà di voto, di essa non si fa più parola, .né. . a livello politico né fra gli studiosi, dai tempi della Costituente. Lo stesso Lanchester, nel saggio citato sul voto obbligatorio, rilevando come . il dibattito sulle istituzioni abbia del tutto pretermesso questo aspetto, non sente il bisogno di sottolineare il fatto che nessuno ha suggerito di passare dall'obbligatorietà alla libertà di voto, ma che nessuno è intervenuto « per proporre, di fronte all'accrescersi di un feno meno .per noi ancora di dimensioni fisiologiche (e cioè dell'astensionismo), un inasprimento della legislazione relativa all'espletamento di quel comportamento che il testo costituzionale definisce come dovere civico ». In particolare, è abbastanza curioso che gli antichi fautori della libertà di voto, dopo aver ottenuto « silenziosamente » lo smantellamento dell'obbligatorietà, non abbiano avvertito l'opportunità, neppure quando è venuto di prepotenza in discussione il tema della riforma del sistema elettorale, di affrontare il punto in questione risollevando quella bandiera che furono costretti ad ammainare nel 1946. Così alla fine della scorsa legislatura stava per andare in porto - dopo una elaborazione faticosa (conclusa alla
Camera con la relazione Mazzola del 4 agosto 1982), resasi necessaria per superare oggettive difficoltà tecniche - un progetto di legge inteso ad allargare ulteriormente la platea dei votanti, concedendo la possibilità di votare per corrispondenza agli italiani all'estero. Progetto in relazione al quale, sul piano dei principi nulla c'è da eccepire, . ma che avrebbe potuto offrire lo spunto per porre, sia con riferimento agli italiani all'estero sia con riferimento ai residenti, la questione della libertà di voto, che di problemi tecni ci non ne presenta alcuno. E invece nulla. A livello, di dibattito, politico, poi,. negli ultimi anni sono fonte le più sofisticate proposte di variare il vigente meccanismo' proporzionalistico di trasformazione dei voti in seggi, sulla premessa che questo - pur coi suoi difetti - rispecchia troppo fedelmente la frammentazione della società, così da rendere necessaria l'adozione di qualche accor.gimento « deformante » per, evitare che, trasferendosi nelle istituzioni, quella frammentazione continui ad ostacolare la governabilità. E certo, si tratta di proposte ragionevoli, benché sia difficile negare che la proporzionale, pur non rientrando nella Costituzione scritta,, faccia parte di quella materiale, per cui le resistenze . che tali proposte hanno incontrato sono del tutto 'comprensibili,., Ma nessuno ha pensato all'introduzione della libertà di voto, la quale potrebbe dimo strane che il nostro meccanismo proporzionalistico ha dato esiti sempre più sconfor. tanti soprattutto perché deformato esso, stes so, alla base, da quel 20% di zavorra elettorale di cui si diceva, mentre alleggenito di questa sarebbe ancora in grado di far funzionare le istituzioni. Libertà che . d'altronde non incontrerebbe alcun ostacolo, una volta intesa come libertà giuridica, né sul piano della Costituzione scritta né tantomeno su quello della Costituzione materiale. Non sul secondo, ché. anzi la libertà in-
27 dividuale, in tutte le' sue manifestazioni, è uno dei principali ingredienti di . quel coacervo di' fini fondamentali . storicamente determinati in' .cui consiste 'la Costituzione materiale' dell'Italia postfascista. 'Ma neppure, sul primo, poiché, come si è visto, il concetto. di' « dovere, civico » . inserito •nell'art. .48 attiene ad una .sfera metagiuridica al di sotto della 'quale il legislatore è rimasto libero di configurare l'esercizio del voto vuoi come obbligò vuoi come diritto individuale. Per di più, mentre qualsiasi modifica del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi è immediatamente decodificabile a tavolino in termini di profitti. o cli perdite che, con riferimento, agli ultimi risultati elettorali, "ne trarrebbe ciascun partito (per cui' è inimmaginabile che modifiche del generé possano essere approvate senza « spargimento di sangue »), viceversa l'imprevedibilità degli esiti della libertà di voto dovrebbe consentirne una sperimentazione priva di analoghi traumi. Conviene insistere brevemente su questo punto. Quale che sia la riduzione percentuale dei votanti che si reputa plausibile in conseguenza dell'affermazione della libertà del voto, è infatti ipotizzabile che essa si ripartisca proporzionalmente fra i partiti in gara, così da non alterare i rapporti di forza fra loro. Ciò significherebbe, ovviamente, il fallimento del tentativo di far uscire, cotiC la restituzione agli elettori del diritto alla più totale autodecisione che gli è stato a suo tempo confiscato, il sistema partitico dallo stallo in cui da tempo si trova. 'Ma non sarebbe una buona ragione per non effettuare il tentativo, dal momento che esso non comporta rischi: alla peggio, la situazione resterebbe qual è ed avrebbero un argomento in più coloro che pensano di risolvere il problema della governabilità mediànte il cambiamento del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi. Se tuttavia quella della riduzione perfetta-
mente proporzionale delle forze dei -vari' partiti è, forse, l'ipotesi meno probabile, mentre è. verosimile che la riduzione, colpirebbe i vari partiti in diversa misura, non è in alcun modo prevedibile a priori - se non a puro titolo di scommessa - quali partiti essa andrebbe a colpire, e tantomeno la quantificazione del colpo. Ben poco infatti si può argomentare dal fatto che, originariamente, è stato lo schieramento cattolico-liberale . a pretendere l'obbligatorietà del voto. A parte che, coine si è visto, anche lo schieramento opposto alla fin fine la accettò, c'è da dire che, a circa 35 anni di distanza, non soltanto non esistono più le preoccupazioni per la legittimazione del regime democratico che diedero allora giustificazione obiettiva all'obbligatorietà, ma sono profondamente mutate le condizioni socio-politiche del paese, oltre ad essersi ovviamente e largamente rinnovata la platea dei potenziali votanti. E mentre è ragionevole supporre che una parte di essi a'bbia ereditato dai propri predecessori il timore di non andare a votare, nulla autorizza a pensare che questa .parte abbia ereditato altresì l'indicazione per chi votare. Vero è che alle ultime elezioni si è dovuta registrare una sortita della Conferenza episcopale che ha inopinatamente rinfrescato la necessità di recarsi alle ùrne, così da far sospettare che è sempre la stessa parte a nutrire timori per la libertà di voto. 'Ma è pure vero che un'altrettanto inopinata sortita nel medesimo senso l'ha compiuta l'Amministrazione di Sinistra del Comune di Roma. I timori, quindi, sono 'equamente ripartiti. Ma proprio perché tali, essi possono essere sconfitti imparzialmente in nome della libertà di voto, la quale in regime democratico maturo non deve fare paura a nessuno. Anzi, poiché ciascun partito riuscirebbe a mobilitare, senza la « droga » dell'obbligatorietà, solo la parte di elettorato che consapevolmente si
28 riconosce in certe posizioni politiche, l'operazione dovrebbe risolversi in un vantaggio per tutti. Tutti i partiti, cioè, dovrebbero cogliere con favore l'opportunità di liberarsi assieme agli altri della rispettiva za. vorra elettorale: diversamente dimostrerebbero di affidare ad essa le proprie fortune. Prima di passare, dunque, alla modifica del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, perché non provare quali risultati dà l'instaurazione della libertà di voto? Certo, il tentativo non potrebbe consistere esclusivamente nell' abolizione dell' art. 4 della legge elettorale in vigore, già citato, che parla di obbligo. •Di per sé, questa sarebbe una turlupinatura, qualora non ci fosse un impegno dello Stato, di intensità almeno pari a quella esibita nel '46, per pubblicizzare il fatto che, diversamente da prima, ora l'esercizio del voto è un diritto che cia-
scuno è libero di gestire come crede, anche non andando a votare. E non c'è dubbio che i partiti,. o altre organizzazioni interessate, potrebbero contrapporre a tale pubblicizzazione l'esortazione agli elettori di recarsi alle urne in nome del dovere civico (anche se, così facendo, dimostrerebbero di temere l'abbandono della propria. zavorra elettorale). Ma, come si è detto, qualora il tentativo fallisse non accadrebbe nulla di peggio di quanto già accade. Perché, allora, non provare? Certo, se il tentativo riuscisse ne deriverebbe un'alterazione degli ultratrentennali rapporti di forza fra i partiti, che hanno portato alla situazione di stallo segnalata da Bobbio. Ma siamo o non siamo convinti che sia proprio questa situazione a dover essere superata per scongiurare il collasso delle istituzioni democratiche?
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Partire dal cittadino di Luigi Berlinguer
Il filo del ragionamento di Bettinelli è complessivamente condivisibile (salvo alcuni dettagli). Due osservazioni generali, però, mi sentirei subito di fare: anzitutto, mi pare di cogliere una vena di velleitarismo ingegneristico per aver circoscritto tutto il discorso al versante istituzionale, mentre esso è prima di tutto politico. E secondariamente, ho l'impressione che le tre proposte avanzate (a mio avviso poco risolutive), non siano affatto di natura omeopatica, anche perché qualcuna di esse si rassomiglia o si avvicina sensibilmente a quelle più radicali che vengono invece criticate e scartate. Condivido, ripeto, l'approccio complessivo al problema, che parzialmente corregge quello definito ormai convenzionalmente « decisionistico » per puntare invece al versante partitico della crisi della rappresentanza. Forse va osservato che in buona misura questa crisi ha anche una componente storica oggettiva, imputabile all'evoluzione sociale e istituzionale di questi 40 anni, al modo cioè in cui si sono evoluti la tipologia socio-economica e gli stessi equilibri nei rapporti di forza. Una tale oggettività del mutamento delle condizioni sottostanti è poi decisamente amplificata da tutti gli effetti perversi del blocco del sistema politico (ma su questo tornerò più tardi). Giusto quindi partire dai partiti e dalla critica nei loro confronti. Giusta, però, anche e per converso la ribadita convinzione -che il pluralismo politico - assolutamente fuori discussione - resta principalmente affidato
alla rappresentanza politicopartitica. Anche qui è forse opportuna una precisazione, che mi pare Bettinelli condivida: la crisi e l'invadenza partitiche sono certo notevoli e da superare (e 1' abbiamo criticate da tempo). Non è invece accettabile una linea di liquidazione o di drastico ridimensionamento delle formazioni politiche organizzate, specie quelle di massa, perché ciò comporterebbe una caduta della qualità e della quantità di -partecipazione politica a cui in Italia siamo tutto sommato abituati. A questo punto ritorna l'osservazione generale fatta all'inizio. Se si tiene il ragionamento solo sul filo istituzionale non se ne troverà il bandolo. Ad esempio, è vero che si è verificato un processo di oniologazione parziale fra i partiti, per il ridursi - prima di tutto nella società - della radicalità della componente antisistema. E' anche vero che la base sociale di ciascun partito si è allargata, ed i mutamenti sociali degli ultimi decenni hanno favorito anche sotto questo aspetto il processo di parziale omologazione. Tutto ciò, però, non autorizza un discorso indistinto né la collocazione di tutti i -partiti sullo stesso piano, particolarmente a proposito della capacità di selezionare la domanda; né tanto meno consente la rappresentazione di un quadro politico assolutamente mancante di opzioni alternative. Nella politica estera, in quella economica, nelle varie politiche di settore le opzioni fra due o più linee mi paiono abbastanza chiare e distinte, come del resto avviene in altri •paesi europei. La confusione nasce dal fatto che, da
30 noi, è nella maggioranza che spesso convivono posizioni diverse, ma questo è imputabile alla eterogeneità della coalizione di governo ed alla natura (questa sì, poco selettiva) della DC. In altri termini, non è possibile né corretta un'analisi realistica e quindi una soluzione incisiva della nostra questione istituzionale partendo da un'eccessiva omologazione della categoria « partiti », oltre quel tanto che la sua varia realtà riesce a sopportare. E soprattutto accantonando in questo esame i profili indotti dal blocco del sistema politico. Mi si consenta in proposito un'osservazione particolare. Nella fase storica più recente il partito che più ha insistito sulla riforma istituzionale è stato il PSI; esso è stato quello, del resto, dalle cui Me sono autorevolmente uscite le proposte di modifica più radicali. Tuttavia, il PSI è anche la forza politica in cui ormai l'intreccio fra quadri di partito e quadri istituzionali è il più stretto; è quello al cui proposito si è parlato di rendita di posizione per le nomine; è quello meno disponibile nei fatti ad un allentamento della presa partitica sulle istituzioni. Tornando al ragionamento principale, mi pare che si debba convenire con Bettinelli per le sue riserve a proposito del « decisionismo ». Soprattutto per una fondamentale ragione di analisi ; che purtroppo resta soffocata dal clamore di cui soffre il dibattito istituzionale. In Italia l'organo che ha la minore capacità di decisione, proporzionalmente, non è il Parlamento ma il Governo. E' il Governo che non riesce a varare una riforma di se stesso; della Presidenza del Consiglio, dei suoi apparati. La disarticolazione ministeriale è la ragione prima dell'insabbiamento dei relativi disegni di legge in Parlamento, e non viceversa. E' il Governo che lascia scadere i termini delle deleghe legislative, che ha totalmente rinunciato alla propria funzione regolamentare. Né è vero che esso sia immune dalle pres-
sioni corporative, che secondo i recenti critici troverebbero la loro sede privilegiata in Parlamento. La verità è un'altra: la pressione degli interessi sulle decisioni politiche esiste e si esercita sempre su entrambi gli, organi (Governo e Parlamento), con la differenza che gli interessi più deboli in genere trovano udienza solo presso i singoli o le commissioni parlamentari, quelli più forti trovano il modo invece di influire anche e direttamente sul Governo. La riforma della rappresentanza non . può prescindere da questa realtà. Ho il timore che la proposta (di Bettinelli ed altri) che i ministri non siano parlamentari accentui questo fenomeno e rischi una maggiore deresponsabilizzazione del . Governo. Temo cioè che essa abbia piÙ controindicazioni che vantaggi. Trovo al contrario più utile, una prassi come quella attuale, di alcuni casi di ministri « tecnici » non parlamentari, da estendere anche alle giunte. regionali e locali. L'elezione diretta dei sindaco,, invece, di per sé discutibile ma niente affatto « scandalosa », presenta soprattutto il rischio del contagio, di costituire l'anticamera di un'estensione dello stesso sistema all'esecutivo nazionale, con i rischi '.che lo stesso Bettinelli paventa '(oltre a quello, temo, di un consolidamento moderato nel paese). Interessanti, infine, le proposte sulle norme elettorali pe.r il Senato, certamente da approfondire. Il ristretto spazio assegnatorni non consente . ulteriori considerazioni'. Le valutazioni de1l' proposte che in questa sede ci sono'state avanzate da Bettinelli non possono però esimerci da riprendere le note critiche di fondo avanzate fin dall'inizio. La « Commissione parlamentare dei .40 » non sembra nascere sotto una 'buona; stella, per il dissehso radicale che pare la 'dii'ida al suo interno a• proposito, dei contenuti delle sue scelte. D'altro canto vi è il rischio che la '« grande riforma » si riduca alla fine alla modifica del sistema elettorale e all'aboliziò-
31 ne del voto segreto per l'approvazione delle leggi. In ultima analisi credo che il motivo principale della debolezza profonda del dibattito istituzionale risieda nell'illusione decisionistica di quei costituzionalisti che hanno aperto la partita, la quale resta abbastanza estranea all'opinione pubblica (nonostante il battage di alcuni giornali). A me sembra che occorra invece uno sforzo culturale e politico per capovolgere il discorso, partendo dal cittadino. Partendo cioè dalle novità sociali e istituzionali che hanno ormai reso insopportabile per gli utenti sia l'invadenza partitica sia l'inefficienza dell'amministrazione pubblica. Credo che i veri problemi istituzionali italiani siano altri: l'eccesso di consociazione, la carenza di dialettica nella società e nelle istituzioni - che è anche carenza di responsabilizzazione, di autonomia, di semplificazione delle procedure anche a fini di trasparenza - e in questo senso anche la scarsità di partecipazione. Mancano cioè in tal modo alcune delle condizioni più efficaci per la alternanza. Ecco: su questo io credo si debba lavorare, senza ovviamente trascurare i rami alti, la riforma monocamerale, la rappresentanza nazionale del sistema delle autonomie locali e quella degli interessi (non certo nella formula del CNEL), la Presidenza del Consiglio (cominciando dal dipartimento della funzione pubblica) e l'odinanaento delle autonomie territoriali, ma prima di tutto la pubblica amministrazione (che significa innovazione tecnologica, procedimento amministrativo, dirigenza, diritti dei cittadini, responsabilizzazione, efficacia). Senza trascurare alcuni rami alti, quindi, ma in. un'ottica diversa da quella che ha aperto il •nostro dibattito istituzionale. Ha ragione Bettinelli: partendo dai partiti (e quindi da norme che li riguardino: controllo del finanziamento pubblico, preferenze elettorali, numero dei parlamentari, 'collegi elettorali, ma anche nomine, autonomia della pubblica am-
ministrazione). Sì, dai partiti, ma - aggiungo io - anche dal cittadino, visto che la soggettività politica è oggi più ampia di quella partitica, e visto che in Italia sono troppo gravi le carenze in tema di tutela, del singolo rispetto all'amministrazione. Si lavori per costruire soluzioni procedurali ed istituzionali tecnicamente efficaci, per armare il cittadino nei confronti degli abusi e dell'inefficienza amministrativa e politica, distinguendo opportunamente politica da amministrazione - si farà così la più grande riforma istituzionale di questo momento. Ma si ricordi che alla base di tutto sta lo sblocco del sistema, che prima ancora che istituzionale è problema squisitamente politico. 'Neanche l'esame scientifico può prescindere da questo dato. Nessuna proposta tecnica di riforma funzionerà se il sistema resterà bloccato. 'La stessa rigenerazione partitica è in grande misura affidata all'alternanza, anche se qui siamo in presenza di un reciproco rapporto di causa ed effetto. Limitarsi quindi alla sola analisi ingegneristica rischia di deresponsabilizzare, di fare buio e quindi render tutte le vacche grigie, di occultare la scelta prioritaria - che è politica. Forse, in sede tecnica, un'opera è possibile: quella di studiare e codificare meglio le garanzie dell'alternanza, le condizioni e le regole del gioco senza le quali essa non è possibile. Esse non risiedono soltanto in quella - principe - della reversibilità, della possibilità che sempre chi va in minoranza possa tornare al governo, se ne troya il consenso elettorale. Risiedono infatti anche in altre condizioni, pur esse importanti, come l'« imparzialità » di talune delicatissime strutture che invece ora in molti casi sono supporti di regime, in altri sono comunque troppo legate alle forze dominanti (pubblica amministrazione, TV e radio, nomine di taluni enti delicati, forze armate, magistratura, e così via).
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E' possibile una diversa selezione della classe politica? cli Mario Caciagli
1. Per cominciare ad aggredire le disfunzioni del nostro sistema politico-costituzionale, Ernesto Bettinelli propone di muoversi sul terreno del « realismo » e del « possibile ». Nelle sue intenzioni non c'è però alcuna astuzia tattica per voler preparare il terreno ad operazioni di più sconvolgente portata - anche se fra le righe ce lo vorrebbe far credere. Egli appare infatti perfettamente convinto che, ogni obiettivo si voglia perseguire e qualunque strumento si escogiti, non si possa uscire dall'ambito ben definito di un sistema storicamente dato le cui colonne portanti non si possono toccare. Condivido pienamente questa impostazione. I due principi fondanti del nostro sistema, che Bettinelli ricorda, la democrazia dei partiti e il sistema proporzionale, non si possono e non si debbono toccare. Il primo di questi principi ha addirittura carattere universale: a questa altura storica la democrazia competitiva non può che essere la democrazia dei partiti. Con tutti i suoi difetti e le sue degenerazioni, la democrazia dei partiti è insostituibile. Il disagio di Ernesto Rossi è oggi perfino più comprensibile, ma la sua proposta di sorteggiare i parlamentari, palesemente paradossale, era ed è fuori dal mondo. Oltre il sistema dei partiti non ci sono che soluzioni autoritarie, o l'utopia regressiva della competizione individuale. Il sistema elettorale proporzionale non ha invece valore universale: la sua alternativa secca, il sistema maggioritario, funziona egregiamente altrove ed esistono inoltre un mucchio di proporzionali corrette. Ma il princi-
pio sul quale si fonda l'accentuata proporzionalità italiana (garantire la più ampia rappresentatività alle opinioni concorrenti) appare attualmente irreversibile nel sistema e profondamente radicato nella cultura politica. Proprio Bettinelli ha brillantemente ricostruito in un suo recente libro il processo di affermazione del principio proporzionale nella fase costituente degli anni 1945-48, dlimostrando che la scelta adottata era assolutamente legata alla concezione della democrazia dei partiti. Lo era nella visione dei padri della repubblica, ma lo rimane ancora nella nostra mentalità. Una riforma elettorale che modifichi radicalmente i criteri di equa proporzionalità fra voti e seggi è in Italia fuori della logica del' possibile. Ammesso, poi, che ci sia una forza politica che la voglia sul serio. D'altronde non è nel sistema elettorale in quanto tale, come erroneamente si continua a sostenere da qualche parte ignorando le risultanze empiriche della ricerca politologiCa, che derivano gli annosi problemi della instabilità dei governi o la lentezza dei processi decisionali che travagliano il sistema italiano (ma non solo quello italiano). Quindi, mettendo da parte i voli utopici e la macroingegneria costituzionale, Bettinelli sembra saggiamente invitare a volar basso, confrontandoci con alcune soluzioni parziali e, magari, sperimentali. 2. 'Ma anche proposte di intervento con raggio più limitato richiedono ugualmente chiarezza sui fini che si vogliono raggiungere,
per non dire sui valori ai quali ci si ispira. Dai riferimenti, impliciti o espliciti, a quelli che gli appaiono come i maggiori difetti dell'attuale funzionamento del sistema italiano, si possono dedurre i fini ai quali Bettinelli vuole tendere ed i valori che gli premono. A ben vedere i fini sono: a) il rafforzamento dell'esécutivo (con il valore dell'efficienza) e b) una migliore selezione della classe politica (con i valori della competenza e magari dell'onestà, contrapposti all'invadenza dei burocrati di partito e all'opportunismo dei professionisti). In ambedue i casi si tratterebbe, mi par di capire, di assicurare maggiore autonomia dai partiti ai governanti a tutti i livelli. Se ciò è vero, bisogna allora discutere se i fini sono importanti e necessari e se le riforme proposte sono adeguate a perseguirli. Esaminiamo le tre « idee-base », come Bettinell le chiama. L'incompatibilità tra l'incarico di ministro e di sottosegretario e mandato parlamentare darebbe probabilmente « maggiore autorevolezza e omogeneità alla compagine governativa » ed anche « responsabilità nelle scelte politiche e trasparenza » di fronte ai cittadini. Osservo di passaggio, perché non è questo il punto decisivo, che dietro questa proposta c'è una buona dose di sfiducia nelle capacità di controllo del parlamento e nelle possibilità dei parlamentari di rendersi autonomi dalle segreterie dei partiti. Ma allora ci si dovrebbe porre anche il problema di « rivitalizzare le assemblee legislative », come si dice, oltre che di rafforzare l'esecutivo. Comunque, se si vuole dare autorevolezza e omogeneità alla compagine governativa, la proposta di Bettinelli è inutilmente tortuosa. Il nodo della questione - intorno al quale girarono al largo i costituenti, memori del potente « capo di governo» di nome Mus solini, e intorno al quale, per la stessa ragio-
ne di memoria storica, si aggirano con grande prudenza giuristi e politici a tutt'oggi riguarda, e Bettinelli lo dice apertamente, il « primato del presidente del consiglio » che dovrebbe trovare piena realizzazione nella « maggiore autonomia nella scelta dei ministri » e nelle funzioni finalmente esercitate di promozione e di coordinamento dell'attività dei suoi collaboratori. Ma se è così, si deve affrontare con più coraggio la problematica del conferimento di maggiori poteri e più ampia discrezionalità al presidente del consiglio, al fine di rendere quest'ultimo più autorevole e più autonomo nella sua azione dalle pressioni della maggioranza parlamentare (cioè dei partiti) e dal potenziale di ricatto dei partner della coalizione (cioè, ancora, dei partiti). Un presidente del consiglio più forte e, s'intende, più responsabile di fronte al parlamento e ai cittadini, potrebbe anche scegliere alcuni ministri fuori dalle camere con un'autorità e, perché no?, una spregiudicatezza che nessuno finora ha usato (nonostante sia formalmente possibile). Così, anche l'aspirazione di Bettinelli, con tutte le conseguenze positive che egli si immagina, sarebbe prontamente soddisfatta. Uno sguardo ad altri sistemi ci conforta in proposito. Uno dei punti cardinali della stabilità (e della omogeneità di indirizzo) dei governi della Repubblica federale tedesca va rintracciato, ad esempio, non tanto nel voto di sfiducia costruttivo, come talvolta si crede, quanto nel potere di investitura che deriva al Cancelliere dal fatto di essere eletto dal Bundestag e di potersi poi scegliere i ministri. E' così che il governo (l'istituzione) acquisisce autonomia dai partiti che lo sostengono (fino alle tensioni fra Schmidt e la SPD, il più forte dei partiti tedeschi). E non a caso l'istituto della fiducia al presidente che preceda la formazione del governo è stato recepito, ad esempio, dalla nuova costituzione spagnola del 1978, per vari altri aspet-
34 ti: ispiratasi al Grundgeseiz di Bonn: l'intento è stàto proprio, quello di ottenere gli effetti positivi che l'esperienza -tedesca ha dimostrato. .11 fine desiderato da Bettinelli, con la relativa piena attuazione dell'art. 95 della nostra -Costituzione (che è poi, in fin dei conti, .ciò che egli, pretende) può essere quindi raggiunto cominciando dalla testa invece che dalle braccia. Mi pare una strada più semplice, anche se non so se possa essere percorsa in Italia. 3. La seconda idea-base di Bettinelli, e cioè la /ormazione presidenziale nell'organizzazione comunale, insomma l'elezione diretta del sindaco nei comuni più grandi, non mi convince, invece, per nulla. Non ne vedo la necessità al fine di conseguire il primo obiettivo, ciòè il rafforzamento dell'esecutivo. I governi locali sono sufficientemente stabili nei nostro sistema. L'attuale fase di tensioni (e di confusione) deriva da una più. generale e diffusa -incertezza nella strategia -dell'alleanza, non - certo dai meccanismi - elettorali ai quali, al solito, bisogna stare attenti ad addossare colpe che non hanno. In realtà a Bettinelli sta a cuore il secondo obiettivo, cioè una miglior selezione del ceto politico-amministrativo (questo obiettivo era latente anche nella prima idea-base e ritorna a vele spiegate nella terza). Qui bisogna proprio intendersi, tanto in merito ai giudizi sulla realtà empirica quanto di fronte ai principi (cioè alle scelte di valore). Purtroppo -le ricerche empiriche sul governo locale o sul ceto politico e amministrativo della periferia non sono tanto abbondanti nel nostro paese. Sostenere che « i quadri locali dei- partiti sono moralmente e politicamente meno qualificati del personale politico a livello nazionale » è, appunto, « un'opinione », per quanto, a detta di Bettinelli, gene-
ralizzata. Da parte mia non mi sento di condividere. quest'opinione in assenza di verifiche empiriche sufficienti - e Bettinelli - si scopre troppo riportando (nella nota) i casi, questi sì eccezionali e perciò scandalosi, dei socialisti di Torino e di Genova, - senza far riferimento ad alcuna. indagine scientificamente approfondita. - Se si facessero indagini, si- potrebbe anche scoprire che il paese è pieno di buoni sindaci e di alacri- assessori, competenti e capaci,-indipendentemente dal - modo della loro elezione. - - Figure coagulanti. » di sindaci - ce ne sf0 già - come ce ne sono già state: ci si rammenti di Achille Lauro che nella Napoli degli anni Cinquanta avrebbe ottenuto un consenso plebiscitario se avesse avuto a disposizione un sistema « presidenziale ». Di certo c'è anche che queste figure sono andate crescendo di numero negli anni recenti, proprio per quel bisogno di-immagini concrete e per-cepibili di leader che oggi - si avverte per stanchezza degli anonimi apparati. Bettinelli coglie il segno dei tempi, ma stia tranquillo che cominciano ad accorgersene gli stessi partiti, magari con la vischiosità - e la lentezza loro proprie. Sul piano dei principi (o, più modestamente, dei gusti) non condivido tanta enfasi sulle personalità di spicco e -sul loro, ruolo. La personalizzazione - della lotta politica pare proprio inarrestabile, vista l'evoluzione di altri sistemi e visto il crescente peso di alcuni fattori, primo fra tutti la televisione. E' proprio, necessario favorire questo pròcesso, comunque lo si giudichi, introducendo innovazioni nei meccanismi elettorali? 4. Si sarà ormai capito che non riesco ad entusiasmarmi per le personalità « ad una -soglia qualitativa più alta » (che vuol dire? più competenti? più oneste? più brillanti?). Non c'è quindi bisogno che impieghi molto per spiegare perché non apprezzo nemmeno -la
35 terza idea-base: il collegio uninominale per la camera dei deputati.
Posso solo dire che non scorgo come si possano raggiungere per questa via i risultati che Bettinelli intravede: trasparenza, semplificazione, univocità di immagine e di messaggio. A me pare che si rischi di raggiungere proprio il risultato, opposto: sotto uno stesso simbolo di partito si avrebbe davvero un volto proteiforme a seconda delle zone e del tipo .di interessi e di cultura, prevalente. Non entro nemmeno nei, dettagli di questa proposta e provo invece a ricapitolare le mie argomentazioni critiche..
.5. A. proposito della prima idea-base, ritengo.. quindi che l'obiettivo (il rafforzamento dell'esecutivo nei confronti dei partiti e dei gruppi parlamentari - dei gruppi, s'inten.de, non del parlamento nel suo insieme) sia giusto, ma che lo strumento (tutti i ministri fuori dal parlamento) sia spropositato. Ed h indicato quale potrebbe essere la strada più semplice per soddisfare la stessa esigenza. A proposito delle altre due idee-base è il fine (una migliore selezione della classe politica) che mi convince fino ad un certo punto., pochissimo per quanto riguarda il potere locale. E' naturale quindi che non mi convincano affatto le soluzioni presidenzialista e .uninominalista. Dire, in fondo, che la classe politica è l'immagine del paese non è una boutade, ma
una concreta verità. Anche con gli strumenti attuali gli elettori potrebbero liberarsi di certi personaggi (e qualche volta lo fanno). Se i giornalisti facessero meglio il loro mestiere, invece di far sempre la corte ai potenti, e se i. magistrati avessero .cominciato prima ad intervenire e lo facessero più spesso, se non i mediocri, almeno i disonesti sparirebbero. dalle' scene locali e 'nazionali. E via,di questo passo. Molto realisticamente.: ci teniamo la classe politica che ci meritiamo. Le modifiche dei sistemi elettorali non ci aiuterebbero molto. Ma forse è colpa mia, se non riesco a vedere l'utilità di certi rimedi. Tirato in ballo per commentare modifiche istituzionali, devo confessare ancora una volta di credere molto poco agli effetti' dell'ingegneria costituzionale, ma sì invece alla volontà politica di tutti. Ma qui siamo già su quel terreno dei valori (che sono stato costretto a ricordare), sul quale com'è noto non valgono compromessi C'è .però un ultimo appunto che vorrei fare aBettinelli.'Tutto il suo discorso ruota,, credo di averlo dimostrato, intorno ad una critic,a del sistema dei partiti responsabile di favorire i mediocri e gli opportunisti, ai quali andrebbero , contrapposti i competenti e gli onesti. Con questo approccio ci si avvia su un terreno .scivoloso e' improduttivo: si rischia di far rientrare dalla finestra quel moralismo alla Ernesto 'Rossi che avevamo primà cacciato dalla porta. .
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Riforma istituzionale e partiti di Roberto Ruffulli E' difficile negare il nesso, stabilito da Bettinelli, fra disfuzioni delle istituzioni pub. buche e distorsioni nella vita dei partiti. In effetti, risulta ormai sempre più evidente come il « blocco » delle istituzioni di governo e di controllo politico, e del loro «potere selettivo » in ordine alle domande sociali, abbia l'effetto anche di ridurre la capacità dei partiti di « incanalare » le istanze politiche dei cittadini, e di individuare una « sintesi » degli interessi individuali e collet- tivi: con il risultato di potenziare forme vecchie e nuove di « clientelismo » e di « cor-. rentismo », e una crescente « ingovernabilità » negli stessi partiti. Da parte di •Bettinelli, però, si tende a trascurare un po' troppo Panalisi delle cause delle difficoltà strutturali della nostra democrazia dei partiti. Ciò viene in parte almeno a togliere forza alla via d'uscita da lui individuata per la sclerosi delle istituzioni e dei partiti. Anche se poi resta valida la scelta di fondo, sulla quale egli insiste: e cioè la necessità del collegamento fra riforma dei partiti e riforma delle istituzioni. La realtà è che occorre fare i conti con i limiti incontrati, fin dagli inizi, nella democrazia postfascista dalla competizione fra i partiti per la guida della politica nazionale. Ha continuato ad incidere un mancato pieno « accordo sui fondamenti » della convivenza democratica, si è fatta sentire la presenza dei partiti di ispirazione marxista, leninista e stalinista, impegnati nella ricerca di egemonie di classe irreversibili: il che ha contribuito anche ad una inamovibilità dal governo del partito di maggioranza relativa e dei suoi alleati, con la riduzione dei controlli e
dei contrappesi all'emergere nei medesimi, in certe fasi, di una ricerca del potere fine a se stesso. A ben guardare, la stessa Costituzione repubblicana ha finito per registrare in proposito una specie di « stallo » fra il modello del « partito guida », nell'ambito di una « democrazia giacobina », ed il modello del « partito mediatore », nell'ambito di una « democrazia garantista ». Lo dimostra fra l'altro la genericità deli'art. 49 in ordine al ruolo dei partiti, ed il mancato inserimento del principio della democrazia interna dei medesimi. Di qui l'imporsi della necessità di collegare le riforme istituzionali non solo a riforme della vita interna dei partiti, ma anche a riforme che perfezionino una competizione fra i partiti, sulla base di una comune adesione alle regole della democrazia dell'alternanza. Ciò richiede che l'intervento riformatore venga ad incidere su tutti i termini del rapporto tra partito, istituzioni e società, consolidando la specificità dei ruoli e le autonomie relative di ognuno di essi. Diventa così indispensabile articolare ulteriormente la visione, forse un po' troppo « radicale », di Bettinelli, affrontando non solo le contraddizioni delle istituzioni e dei partiti, ma anche le contraddizioni delle formazioni della società, a livello di chiusure corporative ed oligarchiche. D'altra parte, l'intervento sopra delineato può essere adesso facilitato dall'affermarsi di una crescente consapevolezza comune nei partiti al governo ed all'opposizione, circa la necessità di un'adeguata razionalizzazione del loro rapporto con le istituzioni pubbliche
37 e con le articolazioni della società. Gioca p0. sitivamente la presa di coscienza nella sinistra marxista dell'esigenza di un Esecutivo in grado di decidere, con il contrappeso in ogni caso di un Legislativo in grado di controllare il primo. Lo stesso vale per la presa di coscienza nelle forze di governo dei limiti di una distribuzione a pioggia di risorse, in vista del consenso dei portatori degli interessi particolari. Si tratta così di accentuare la consapevolezza che l'aggravarsi delle contraddizioni dello stato del benessere e di una democrazia bloccata rende impraticabile sia il mantenimento dello status quo, sia interventi settoriali, volti a precostituire posizioni di favore per un singolo partito. In tale contesto le tre forme di attacco della riforma istituzionale, indicate da Bettinelli, mantengono una loro validità, ma richiedono anche una serie di integrazioni. In particolare, l'incompatibilità fra mandato parlamentare e carica di governo, deve essere unita ad un potenziamento della posizione del Presidente del Consiglio dei Ministri. A tal fine può essere messa in cantiere una revisione della Costituzione, che porti l'attribuzione a lui solo, od a lui parte, della fiducia parlamentare. L'obiettivo da perse. guire con tale innovazione, e con altri interventi, specie in tema di delegificazione, è la consacrazione di una maggiore autonomia dell'istituzione governo rispetto ai partiti, a livello di gestione degli affari pubblici: ferma restando la funzione dei partiti per la determinazione della politica nazionale, e ferma restando anche la logica della collegialitè del governo, alla luce della realtà delle coalizioni. L'elezione diretta dei sindaci deve a sua volta essere accompagnata dalla determinazione di una effettiva capacità impositiva degli en ti locali, che consenta una reale responsabilizzazione degli stessi per la spesa. Si tratta
qui di mettere in moto meccanismi di potenziamento delle autonomie territoriali e delle autonomie funzionali dei gruppi sociali. Occorre in sostanza ridurre la possibilità di presa, 'rispetto alle autonomie, degli apparati partitici, mirando contemporaneamente ad accrescere comportamenti razionali nel rapporto fini e mezzi, con il blocco dell'assalto alla finanza pubblica e con l'introduzione di forme di concorrenza fra pubblico e privato 'nel soddisfacimento di bisogni primari e secondari. Infine, alla ristrutturazione del sistema elettorale per la Camera nella linea di quello proprio del Senato, che sanzioni un rapporto reale fra elettore e candidati e riduca l'incidenza delle macchine dei partiti, deve tener dietro una sempre maggiore possibilità per l'elettorato di scegliere la maggioranza governativa. Indubbiamente è da scartare in proposito ogni drastico superamento del sistema proporzionale, attraverso clausole di sbarramento e premi di maggioranza, tali da imporre, come d'autorità, una riduzione del nostro pluralismo politico. Appare però indispensabile l'avvio di un sistema di « convenzioni » di patti di legislatura fra le forze più affini sul piano programmatico, oppure l'introduzione di forme di apparentamento, magari inizialmente solp per la redistribuzione. dei resti, che mettano in grado appunto l'elettorato di fare la sua scelta fra maggioranze alternative. E' questa la via per affrontare correttamente la crisi,, non solo di funzionamento, ma anche di legittimazione della nostra democrazia, riportando nelle mani del popolo sovrano la scelta di « uomini e programmi » governativi. Su tale base diventa possibile realizzare poi nuovi equilibri fra decisionismo e garantismo, nell'ambito di una democrazia pluralista che tragga alimento dal riconoscimento dei compiti propri e della capacità di azione, sia pur adeguatamente coordinata, di partiti, istituzioni e formazioni sociali.
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Ma basteranno riforme omeopatiche? di Paolo Armaroli
Ernesto Bettinelli imposta correttamente il problema relativo alla riforma delle 'istituzioni. E' vero, oggi i partiti hanno in proposito idee più chiare di una volta. Innanzitutto, non negano più l'esistenza di una questione istituzionale. E poi, chi più chi meno, cominciano ad avanzare le loro brave proposte. I programmi elettorali stanno del resto a dimostrano. E' inutile qui dar conto esattamente delle ricette avanzate da que sto o quel partito. L'importante è constatare, come fa Bettinelli, che adesso un po' tutte le formazioni politiche convengono sulla necessità di restituire la politica ai cittadini. E dunque a che giova chiedere la luna, quando mettendoci sul terreno del « realismo» e del « possibile » abbiamo la opportunità di cogliere qualche buon frutto? In apparenza, il discorso, di Bettinelli non fa una grinza. Tuttavia si può dire che'egli guarda solo a una faccia della medaglia. Di qui la: sua fiducia sui buoni propositi dei partiti. 'Sia chiaro: la loro buona fede non può essere messa in dubbio. Si può dubitare 'invece che essi' riescano, davvero a tra durre in pratica le loro buone intenzioni. E questo perché ogni medaglia ha un suo rovescio. Finalmente Camera e Senato hanno dato vita alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Certo, è un buon segno. Però i due rami del Parlamento han no approvato' un documento che demanda alla predetta commissione l'esame di una quantità enorme di 'questioni, e il rischioè che la montagna partorisca il classico topelino.....,
'Pensate, si va dalla struttura e funzionalità del Parlamento alla struttura costituzionale e politica del Governo, dalla elezione e durata del mandato del Presidente della 'Re pubblica ai, problemi dell'amministrazione, dall'ordinamento della giustizia alle autonomie locali, dagli istituti, di democrazia diretta al Cnel, e così via. Ora la Commissione bicamerale non durerà da qui all'eternità. E' mai possibile che in un ristretto arco di tempo compia il miracolo di dare soluzioni soddisfacenti a un numero così grande di problemi? Non basta. L'elenco delle questioni demandate all'esame della Commissiòne bicamér'ale è sterminato, al punto che sembra quasi l'indice-sommario di un manuale di istituzioni di diritto pubblico. Ma il documento parla:. mentare non compie alcuna scelta 'precisa. E tutto questo ha la sua brava spiegazione. La verità è che'i sei partiti che hanno sottoscnitto il 'documento parlamentare, un' arco politico che va dal PLI al PCI, pur cominciando ad avere ciascuno una propria strategia istituzionale non sono caratterizzati 'da una apprezzabile' unità d'intenti. Non è difficile,' del resto, provare l'assunto. PSI •e PRI insistono particolarmente : sulla necessità di 'conferire al Governo maggiori poteri decisionali. Ed. è logico che sia così. Craxi è stato il primo a parlare di « grande rif orma » e Spadolini ha formato il suo : secondo ministero all'insegna' del « decalogo istituzionale ». La DC, a sua volta, ,chiede di compensare maggiori, poteri pei il Governo.. con'. una fitta rete di conttolli.: Ma;: cTh
39 premesso e dopo aver sottolineato che i cittadini devono essere messi in grado di scegliersi un governo e una politica, si divide poi in almeno tre scuole di pensiero. C'è chi sostiene che la riforma delle istituzioni deve cominciare da una rifondazione dei partiti, che o saranno capaci di rinnovarsi o accelereranno la crisi dell'intero sistema :P0 litico-costituzionale. C'è invece chi punta tutte le carte su una modifica in senso maggioritario del sistema elettorale, e questo perché solo una semplificazione dello schieramento politico può contribuire alla stabilità. E infìne c'è chi non dice di no a una riforma delle istituzioni, ma solo perché spera così di riavviare un dialogo con il PCI sulla testa di tutti gli altri: a cominciare dal PSI, considerato un alleato troppo scomodo. E veniamo adesso agli altri partiti che hanno sottoscritto il documento parlamentare. A. dirla schietta, liberali e socialdemocratici danno la netta impressione di fare buon viso a cattivo gioco. Certo, non mancano di fantasia progettuale. Ma, tutto sommato, non sembrano entusiasti. E hanno,. intendiamoci, le loro buone ragioni. Essi temono infatti di dover fare le spese in prima persona di quella parola magica che è la « governabilità ».. Non si parla forse sempre più spesso di clausole di sbarramento e di sistemi elettorali maggioritari? Bene, se queste proposte dovessero passare, le prospettive per questi partiti non sarebbero certamente rosee. Infine, i comunisti. Visto e considerato che ormai tutti parlano di riforme istituzionali, non , possono dire apertamente di no. Però, in definitiva, si dimostrano conservatori ad oltranza. Come Bertoldo, vanno alla ricerca dell'albero a cui impiccarsi e, sarà un caso, non lo trovano mai. Questa riforma .presen. ta questo rischio, quest'altra riforma quest'altro, e via, bocciando di questo passo.. Perché? 'Per. il 'buon motivo. 'che in ., tutti
questi anni'hanno esercitato un potere effettivo, sia pure il più delle volte di veto. E a questo potere non intendono rinunciare senza serie contropartite. Oggi un cambiamento delle regole del gioco rafforzerebbe innegabilmente l'istituzione Governo. E che ne avrebbero in cambio i comunisti? E' difficile dirlo. Ecco perché essi non trovano di meglio, per ridurre i riformisti a più miti consigli, che agitare lo spauracchio del monocameralismo. Insomma la classe politica nel suo complesso - spiace 'dirlo - dà l'impressione di non saper guardare. più' in là del proprio naso. La domanda che l'assilla è la seguente: chi sarà a trarre profitto da un mutamento delle regole del gioco? La domanda 5 intendiamoci, è perfettamente legittima. Essa rischia però di ibernare all'infinito un sistema politico che sembra ridotto agli sgoccioli. Ben altra, invece, sarebbe la domanda. che dovrebbe porsi. Ed è questa: è possibile'una riforma delle istituzioni' tale da consentire a tutti gli attori politici un qualche vantaggio nell'immediato o in prospettiva?' Ma su questo aspetto della questione tornerò in sede di conclusioni. Bettinelli 'sostiene che non è consigliabile mettersi sulla strada di un mutamento della forma di governo parlamentare e di un abbandono della' proporzionale. E questo perché l'una e l'altra ricetta 'sono estranee alla logica del possibile. No alle scommesse totali, dunque. Sì al gradualismo, ovverosia alle riforme omeopatiche. Di qui le sue tre proposte, tutte volte., a incidere sugli assetti interni dei 'partiti, sulla ricostituzione nel lbro' ambito di centri di decisione effettivi, in mancanza dei quali - secondo .Bettinelli'.sarà sempre più difficile raddrizzare la barca della nostra democrazia. La prima proposta è quella di stabilire, imitando l'esempio francese, l'incompatibilità tra' l'incarico: di ministro 'e di sQttosegretario
40 (ma non, ecco la novità, di Presidente del Consiglio) e mandato parlamentare. Lo scopo è duplice: da una parte si conferirebbe maggiore autorevolezza e omogeneità alle compagini ministeriali, dall'altra si renderebbero più difficili i classici assalti alla diligenza governativa, e dunque il sistema sarebbe caratterizzato da una maggiore « governabilità ». La seconda proposta è quella dell'elezione diretta del sindaco da parte del corpo elettorale con un sistema a doppio turno. Anche in questo caso i fini che si intendono conseguire sono evidenti. Da una parte un'elezione a doppio grado non comporterebbe necessariamente una gara tra i soli candidati dei due più forti partiti. I partiti cosiddetti minori, infatti, avrebbero le loro chances. Dall'altra un'elezione diretta del sindaco in un ambito territoriale ristretto abituerebbe i cittadini al gusto di scegliersi loro stessi men and measures. E in un secondo momento, dopo un certo periodo di sperimentazione, si potrebbe pensare di trasferire questo meccanismo su scala nazionale: con l'elezione diretta del Presidente del Consiglio o del Presidente della Repubblica. Infine la terza proposta di Bettinelli è quella di combinare, sull'esempio della Repubblica federale tedesca, la proporzionale con il sistema del collegio uninominale. Lo scopo è quello di conferire una maggiore univocità di immagine e di messaggio alle formazioni politiche in lizza. Da una parte si ridur•rebbe la piaga rappresentata dalla caccia alle preferenze, che è un fenomeno certamente indecoroso ma che non si può curare conferendo senz'altro ai partiti il sostanziale potere di nomina dei rappresentanti. E dall'altra sarebbe possibile la presenza in Parlamento di personalità particolarmente qualificate, che oggi come oggi hanno ben scarse possibilità di essere elette. Non c'è dubbiò che tutte queste proposte
sono degne della pii attenta considerazione. Tradotte in pratica, con ogni probabilità raggiungerebbero gli obiettivi prefissi. Il loro limite è uno solo, cioè quello di essere delle riforme omeopatiche. Il presupposto è che questo sistema politico, così com'è, possa durare praticamente all'infinito e che basti qualche piccolo ritocco per farlo funzionare al meglio. 'Mi rendo conto che le riforme suggerite da Bettinelli avrebbero alle lunghe degli effetti indotti di non poco conto. Ma mi domando se non sia troppo tardi per intraprendere la strada di una microingegneria istituzionale. Alle lunghe, diceva Keynes, siamo tutti morti. E allora serve davvero l'omeopatia o non occorre invece una cura radicale come sarebbe quella di un cambiamento della forma di governo parlamentare o di una sua drastica razionalizzazione secondo le indicazioni del Gruppo di (Milano? Personalmente, ho qualche perplessità sulla ricetta del Gruppo che fa capo a Gianfranco Miglio. Primo, perché il progetto è fin troppo « organico ». Secondo, perché non condivido l'eccessiva sfiducia nei confronti di una classe politica che almeno a parole dimostra di volersi rinnovare. Ma la proposta lanciata da uno studioso come Serio Galeotti di un'elezione popolare diretta del 'Presidente del Consiglio va presa, a mio avviso, in attenta considerazione. E dico subito perché. Finora il nostro sistema politico ha funzionato - rubo l'immagine a Giovanni Sartori - come un tnciclo. E cioè con tre ruote rappresentate da una destra, un centro e una sinistra. Il centro, con gli anni, si è dilatato. In compenso, però, è diventato sempre più litigioso. Con tutte le conseguenze ben note: governi precari, lunghi tempi di crisi e così via. Ora, destra e sinistra si stanno sempre più integrando nel sistema. E siccome il triciclo si muove sempre più lentamente, è legittimo domandarsi se non convenga per caso infor-
41 care la bicicletta: con un centro-destra e un centro-sinistra contrapposti e alternativi al governo. Tanto pi첫 che i due maggiori partiti, la DC e il PCI, sono giganti malati sia in termini elettorali che politici. E dunque sarebbe minore il rischio di una loro egemonia nell'ambito delle contrapposte coalizioni. Il pericolo esterno sarebbe il miglior cemento di ogni compagine ministeriale. E quegli stabiizzatori automatici, invano suggeriti all'Assemblea costituente da Costantino Mor-
tati e riproposti adesso da Galeotti, farebbero il resto. Numeri alla mano, si tratta di una prospettiva meno irrealistica di quanto si creda. Con la bicicletta tutti i partiti avrebbero forse da guadagnare qualcosa, come del resto la recente storia costituzionale francese ha dimostrato a sufficienza. Mentre, oggi come oggi, sempre pi첫 incombe il serio pericolo di una sconfitta senza appello del nostro sistema politico.
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Sistema politiào-sociale e ordinamento istituzionale di Piero Aimo
Numerosi ed importanti sono gli spunti che offre al dibattito l'interessante relazione di Bettinelli sulla riforma delle istituzioni e del sistema politico-partitico; osservazioni metodologiche e suggestioni progettuali che meriterebbero di essere approfondite e discusse più ampiamente di quanto è possibile fare in questa sede. Seguendo da vicino l'esposizione concettuale fatta da Bettinelli, mi limiterò ad un sommario commento soffermandomi, in particolare, sui contenuti della relazione che giudico più opinabili e che penso di non poter condividere appieno. Infatti, pur aderendo, in linea di massima, alle osservazioni del relatore, ritengo utile proprio ai fini di un proficuo dibattito sul tema in questione - evidenziare gli elementi di dissenso e di critica. Debbo subito sottolineare, tuttavia, che condivido l'esigenza di sottrarre il dibattito sulla « Grande Riforma » - che sembra ormai giunto, con la creazione di una Commissione parlamentare bicamerale, ad una svolta decisiva - alla mera dissertazione accademica, che spesso lo accompagna, per collocarlo su un piano di più accentuato realismo e di maggior empirismo. A questo proposito Bettinelli esprime l'opportunità di tener conto, in primo luogo, dell'ambiente socio-culturale in cui il dibattito stesso si svolge e, più concretamente, dei destinatari delle eventuali riforme costituzionali, vale a dire dei cittadini; ormai insofferenti nei confronti della « democrazia dei partiti ». Sono però convinto che occorra iniettare nel corso del dibattito un'ulteriore dose di realismo attra-
verso quello che potrei definire il «coefficiente di praticabilità politica » delle proposte di riforma. In altri termini, tutti i progetti di macro o microingegneria costituzionale, al di là del loro valore declamatorio, hanno possibilità di essere resi operativi, ed in tal senso andrebbero valutati, solo se non confliggono con gli interessi, nobili e meno nobili, e con le strategie, palesi ed occulte, dei partiti. Non è difficile esemplificare questo concetto: è cosa nota, ad esempio, che l'ipotesi dell'introduzione nel nostro ordinamento, ad imitazione del modello tedesco, dello sbarramento del 5% dei voti per accedere al Parlamento - che Bettinelli mostra, a ragione, di non apprezzare - è sempre stata. osteggiata dai raggruppamenti politici minori che temono, non senza fondamento (e nonostante il fatto che alcuni di loro abbiano, nelle ultime elezioni, superata la soglia critica), di essere spazzati via dal quadro politico e di dover procedere ad accordi forzati con altri movimenti ideologicamente affini e pure essi di ridotto peso elettorale. Ma, per restare nell'arco delle proposte di Bettinelli, siamo sicuri che la ristrutturazione degli organi comunali secondo il principio presidenzialistico riesca a trovare i necessari consensi, sul piano legislativo, oltre a quelli delle forze politiche (o di settori di esse) che se ne sono fatte - e non da oggi - paladine? Lascio per un momento questo aspetto, su cui tornerò più avanti, e passo a quello che ritengo essere il punto centrale e decisivo dell'intera relazione, vale a dire l'individuazione di due paradigmi me-
43 todologici che, a parere di Bettinelli, dovrebbero ispirare un'eventuale riforma del sistema politico-costituzionale: da un lato, la constatazione della reciproca connessione fra crisi (« sclerosi ») della forma-partito; dall'all'altro - come logica deduzione dal primo assunto -, la necessità di sbloccare il sistema agendo, in modo prioritario, sull'assetto dei partiti, mediante oculati interventi sulla strumentazione istituzionale. Devo dire che proprio, l'affermazione dello stretto ed inestricabile nesso che esiste fra sistema politico-sociale e' ordinamento istituzionale, delle interazioni che caratterizzano i rapporti fra i due « universi », suggerisce l'opportunità di agire contemporaneamente e simultaneamente, per così dire, su entrambi i fronti. In proposito credo che si debbano evitare (come suggeriva anche A; Di Gio-
vine in L'ingegneria costituzionale fra crisi delle istituzioni e strategie politiche, in AA. VV., Crisi politica e ri/orma delle istituzioni, Torino 1981, p. 20) due atteggiamenti estremi: l'illusione (una sorta di « pancostituzionalismo ») di superare la crisi del sistema unicameitte con aggiustamenti - parziali o profondi che siano - di congegni costituzionali, prescindendo così dalle cause profonde e strutturali della crisi stessa (la riforma delle istituzioni come « riforma delle riforme », come « Grande Riforma » appunto); ma anche la diffidenza verso l'efficacia di una revisione degli apparati pubblici, la quale viene alimentata dalla convinzione che solo intervenendo sugli assetti della società civile e politica sia possibile bloccare il processo di degenerazione che investe il nostro paese. Bettinelli, pur prendendo le distanze da queste due alternative estreme, mostra tuttavia una certa preferenza per una politica istituzionale che, al riparo dai rischi di « scommesse totali », agisca in primo luogo neI contesto dell'attività e dell'organizzazione dei partiti. Sono convinto che tale procedura non dia sufficienti garanzie, ai fini
di 'un risanamento della' situazione,' se non viene accompagnata' da una 'vasta e radicale ricomposizione dei meccanismi istituzionali, concepiti in un'epoca in cui la « democrazia dei partiti », pur manifestando già alcuni segni premonitori della futura involuzione, era ancora allo « stato nascente ». Un'ultima osservazione in margine a questo aspetto: la critica alla degenerazione partitocratica' della nostra vita pubblica, condivisa ormai da tutti - tanto da costituire un luogo comune del linguaggio quotidiano -, non deve sfociare però in una mitizzazione della società civile: partiti « corrotti » contro cittadini « onesti »; tendenze corporative, clientelari, spartitorie si registrano' pure al suo interno ed essa non offre spesso un'immagine più nitida e trasparente di quella che diffondono i partiti. Ma veniamo ora alle tre idee-forza che, secondo Bettinelli, dovrebbero condurre ad un salutare rinnovamento della nostra democrazia. In ordine alla prima (l'incompatibilità fra incarichi governativi e mandato parlainen,tare) vorrei solo esprimere qualche dubbio sull'efficacia del meccanismo proposto: costituirebbe davvero un deterrente nei confronti della logica di partito, che intacca la solidarietà interna fra i componenti del gogerno, la minaccia di escludere i Ministri dalla possibilità di continuare ad esercitare il mandato parlamentare? La gravità della pena comminata potrebbe indurre, al contrario, a perpetuare delle « connivenze forzatè » senza alcun giovamento per ùn effettivo coòrdinamento delle funzioni dell'esecutivò e' per 'un miglioramento dei rapporti fra i titolari dei diversi dicasteri. E' ovvio che queste non sono che supposizioni: è sempre difficile e rischioso valutare in anticipo gli effetti, i costi e gli esiti di una qualsiasi riforma istituzionale. Per quanto concerne il secondo suggeritnento, quello tendente all'introduzione della forma presidenziale nell'ordinamento delle au-
44 tonomie locali, pur apprezzando i correttivi che Bettinelli intende apportare alla tradizionale istanza conservatrice di matrice democristiana, non posso non avanzare dei rilievi. In linea di principio, non sono certo insuperabili alcune obiezioni che potrebbero essere mosse a tale proposta: l'alternanza, a. livello locale, è già stata sperimentata in Italia, soprattutto a partire dal 1975, senza che ciò abbia mutato sensibilmente il quadro etico-politico; è assai arduo procedere ad una netta separazione tra funzioni di « governo », affidate al sindaco e alla giunta, e funzioni di controllo della spesa e dei bilanci, esercitate dal consiglio; è probabile che si giunga ad una conflittualità permanente fra sindaco (e giunta) ad investitura « carismatica » e consiglio comunale. Tuttavia ritengo che un nuovo modello di vita politico-amministrativa a livello decentrato, in grado di estendere benefici effetti anche su scala nazionale, possa svilupparsi solo nell'ambito di una diversa impostazione globale dei rapporti centro-periferia. Prendendo spunto dal noto lavoro di S. Tarrow (Tra centro e periferia. Il ruolo degli amministratori locali in Italia e in Francia,. Bologna 1979), ci si può legittimamente porre una domanda: è praticabile, in Italia, una trasformazione della figura del sindaco da « imprenditore politico », che utilizza nell'acquisizione delle risorse l'intermediazione partitica (in assenza di una forte e compatta amministrazione statale periferica) in « attivista amministrativo », esemplato . sul modello francese, che agisce al di sopra degli interessi e dei condizionamenti di partito? E' questo un tema di grande rilievo, e tuttora
aperto alla discussione, sul quale non ci si può trattenere, ma che consentirebbe, se fosse preso in debita considerazione, di valutare il contenuto della proposta di Bettinelli, in un quadro interpretativo più esteso, in un'ottica meno settoriale. Qualche perpiessità suscita, infine, la terza idea propugnata da Bettinelli: quella riguardante la modifica del sistema elettorale per la Camera dei deputati, utilizzando, con adeguate correzioni, il modello « spurio » attualmente vigente per il Senato. La commistione fra principio maggioritario e principio proporzionalistico non mi pare abbia dato risultati particolarmente positivi e non mi sembra del tutto consona ad una ripresa di efficienza e correttezza del sistema rappresentativo. Condivido invece, senza riserve, l'opportunità di una revisione della stessa struttura bicamerale, attraverso un'effettiva regionalizzazione del Senato (da intendersi però nel senso di un reale collegamento con gli enti regionali, di una loro diretta partecipazione alla scelta dei senatori, e non come semplice criterio di delimitazice di cir coscrizioni elettorali). Vorrei infine sotto! ineare l'esigenza, avanzata di recente anche da una parte non sospetta (Augusto Barbera, Oltre il bicameralismo, in « Democrazia e Diritto », 1981, 3, pp. 43 ss.), di ripensare, senza nostalgie equivoche ma anche senza preconcetti, al tema della rappresentanza degli interessi, nell'ambito di un superamento della attuale crisi della democrazia dei partiti e, in generale, dei meccanismi, ormai obsoleti, della rappresentanza politica.
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Una riforma soffice soffice? di Fulco Lanchester
In questi ultimi anni si è allargato ed approfondito il dibattito sulla crisi del partito politico che non risponderebbe più in modo soddisfacente alle sue classiche funzioni di aggregazione degli interessi, di reclutamento del personale politico, di socializzazione politica. La discussione italiana più recente ha collegato la crisi dello Stato democratico con quella dell'architrave che lo ha sostenutò sin dall'immediatà secondo dopoguerra: il partito politico di massa'. I fenomeni di oligarchizzazione e particolarizzazione delle risposte alla domanda politica si sono sposati con i fenomeni degenerativi che un sistema « bloccato » come quello italiano non poteva non evidenziare elevati all'ennesima potenza. Per uscire da una simile situazione si è pensato di incidere sulle istituzioni, dagli enti locali ai supremi organi costituzionali. L'ambito partitico è rimasto un po' in ombra sia per la ritrosia di regolare una zona così delicata, sia perché per molti democratizzare il partito politico è fatica inane 2 . In parecchie delle posizioni recentemente assunte c'è quindi una singolare insensibilità verso il nodo essenziale del dibattito : legare l'ambito infrapartitico a quello istituzionale più generale. A mio avviso c'è invece da riscontrare in modo pieno e conseguente anche nel nostro paese la realtà dello Stato dei partiti ed ammettere che molti dei mali, che possono essere riscontrati, derivano anche dalla sua parziale affermazione all'interno dell'ordinamento. Premesso ciò, l'argomento base dal punto di vista flnalistico non mi sembra tanto quello della « restituzione della politica ai cittadini » (che
può far pensare ad una riappropriazione su basi meramente individualistiche), quanto quello dell'estensione della democrazia a tutti i livelli e del suo coordinamento con la necessaria capacità di decisione ed efficienza delle istituzioni 3 . In definitiva ha ragione Duverger quando sostiene che la crisi dei partiti, è un sintomo della crisi dello Stato contemporaneo e non della loro funzione 4. I modelli di soluzione non possono essere quindi recuperati con la destrutturazione delle formazioni partitiche o con la supplenza di altri organismi, sebbene con la penetrazione dei meccanismi e delle garanzie democratiche al loro interno, riconducendo gli stessi ai loro fini di trasmissione della domanda generale. D'altro canto l'aspirazione alla trasparenza non deve 'far dimenticare che non tutto può essere regolato, ma che anzi è opportuno lasciare un « gioco » sufficiente a questi strumenti di collegamento tra società civile ed istituzioni. Si rischierebbe altrimenti di soffocare la spontaneità della società civile ingabbiandola totalmente in regole,. che si rivelerebbero facilmente vuote forme. Detto questo, è però opportuno sottolineare subito che il mestiere di riformatore del sistema (macro o micro che sia) è ingrato e che, se proprio si vuole esercitarlo, bisogna sottostare ad alcune regole. Innanzitutto chi propone le riforme deve dichiarare esplicitamente i suoi valori, analizzare correttamente la realtà circostantè, indicare i punti considerati disfunzionali e gli obettivi, proporre mezzi adeguati alla bisogna tenendo conto che,
46 quando si modifica qualcosa, il meccanismo delle retroazioni è molto complesso 5 Tutto ciò mi sembra sia stato fatto da Ernesto Bettinelli solo parzialmente. Il suo intervento si divide infatti in due parti: nella prima effettua una succinta analisi della situazione italiana; nella seconda espone la sua cura « omeopatica ». La mia impressione è che egli sia partito da una impostazione « laterale », chiedendòsi da ùn làto còme smuovere in modo anche• minimale il sistema, dall'altro come avere « udienza » da parte dei partiti politici maggiori. Si è quindi chiuso nel suo studio e, sfogliando i progetti di riforma dei maggiori partiti, ha selezionato alcune innovazioni che non avrebbero sollevato eccessiva resistenza da parte delle forze politiche più impàrtanti, perché ognuna di esse veniva almeno formalmente - accontentata su uno specifico punto. Un simile sincretismo non può essere oggetto di discussione coerente, se non come sintomo di buona volontà orientata pragmaticamente. Anche se ritengo debba essere considerata positiva l'affermazione di Bettinelli che è necessario colpire le degenerazioni dello Stato dei partiti e non lo Stato dei partiti tout court, mi sembra che egli non inquadri quest'affermazione in un idoneo contesto concettuale e non si ponga in modo coerente il problema di come modificare l'esistente. L'insufficienza del piano analitico si evidenzia a mio avviso - in modo singolare nella parte. propositiva, che esaminerò brevemente. Le proposte riguardano innanzitutto piani molto diversi. La prima si preoccupa di introdurre l'incompatibilità tra càrica parlamentare e di governo. Si accoglie così una richiesta che ha come referente empirico il caso francese della Quinta Repubblica e come scopo l'aumento della stabilità governativa attraverso l'incremento del costo personale che una crisi comporterebbe per il personale .
di governo e di converso la diminuzione dell'interesse per i parlamentari di spartirsi le spoglie ministeriali6 . Una simile innovazione temo, però, non risolverebbe nulla e contraddirrebbe di converso i canoni tradizionali della forma di governo parlamentare. Come è noto l'incompatibilità vige nei sistemi presidenziali o in quelli semipresidenziali forti (Francia), dove il Presidente funziona da catalizzatore dell'Esecutivo. Non vale a questo proposito .richiamare la proposta Galeotti (o le suggestioni di Federico Mancini) 7 perché esse si basano su un Capo dell'Esecutivo (Presidente o Primo (Ministro) dotato di legittimità « diretta » e poteri incisivi; né può essere ricordato il caso olandese, perché in quel Paese la democrazia consociativa per definizione si fonda su élites stabili e coese che hanno una forte presa sui rispettivi gruppi parlamentari 8 . In Italia ciò probabilmente non avverrebbe, con in più la rescissione di meccanismi di compensazione parlamentare. In secondo luogo Ernesto Bettinelli propone di far eleggere direttamente dal corpo elettorale il sindaco nei comuni. Si deve ritenere che questo « placebo », che Bettinelli chiama «presidenziale », cerchi di vendere a basso costo l'idea del patto di legislatura ancorà di recente proposta a livello nazionale e nel quadro di una più ampia serie di misure atte a stabilizzare l'esecutivo. Introdurre. una simile innovazione a livello locale prospetterebbe, in sostanza, l'alternativa di uomini e programmi agli elettori. L'idea è in sé non disprezzabile, -ma essa può dare frutti solo se la contesa è razionalizzata e quindi per forza di cose diretta dal centro. Pur esistendo possibilità di eventuale auto nomia, mi sembra che si evidenzi palpabile una contraddizione tra le finalità ufficialmente auspicate da Bettinelli e i possibili risultati. La proposta infatti può inserirsi nel quadro di una strategia bipolarizzante (con possibile rafforzamento di una terza forza), ma non chiarisce che il poteré dei partiti
47 non verrebbe sostanzialmente leso, mentre bisognerebbe profondamente innovare la « forma di governo » comunale ed i rapporti giunta-consiglio. Infine, anche la terza proposta pare sostanzialmente inutile, al di là delle pretese affermazioni di novità. Si tratta in sostanza di una ennesima variazione del sistema, Geverhahn (utilizzato ad esempio in Germania federale o per il Senato italiano) da applicarsi per la Camera dei deputati in ambito tregionale9 . Le variazioni proposte nulla spostano nel livello di proiettività del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, mentre introducono la lista bloccata '(ipotizzata a suo tempo dal PSI) e puntano - secondo Bettinelli - verso un tendenziale bicame-
Per la letteratura in argomento v. G.
PASQUINO,
Partiti, societa civile, istituzioni e caso italiano, in « Stato e mercato », 1983, agosto, pp. 169 ss. Vedi W. RÒHRICH, Sociologia politica, Bologna 1980, .pp. 54 SS. Vedi N. Bosaro, Quale socialismo? Discussione di un'alternativa, Torino 1967, pp. 98 ss. Vedi M. DUvERGER, Partito politico, in « Enciclopedia del Novecento ». Per una teorizzazione metodologica v. G. PASQuINo, Degenerazioni dei partiti e ri/orme istituzionali, Bari 1982, pp. 173 ss, anche se la sua aspirazione di traSformarSi in riformatore sistemico super partes si scontra con i limiti della « politica » dell'argomento. o Sulle istituzioni della Quinta Repubblica v. J..L.. QUERMONNE, Le gouvernement sous la Ve République, Paris 1980 e i Saggi di M. DIJVERGER e J. MASSOT su « Quaderni costituzionali », 1983, n. 2. Vedi S. GALEOTTI, Alla ricerca della governabilità, Milano 1983, pp. 321 ss. e le proposte del 2
ralismo (e così abbiamo accontentato anche il PCI). Dal che si deduce che il compromesso (o, forse, il realismo) istituzionale consiste nel non cambiare niente prendendo qui e là per. non' scontentare nessuno accontentando tutti. Devo quindi confessare la mia viva perplessità per simili proposte che non fanno che fotografare l'esistente e non si pongono il problema. impellente dell'i.ntroduzioné di regole democratiche all'interno dei. partiti; - che nop risolvono in nessun modo i malanni .delle . istituzioni di governo. Eppure la prece dente. e . « radicale » produzione di Ernesto Bettinelli pareva tanto più graffiante ed incisiva. Si direbbe che ora abbia paura.di proporre o, non, abbia. fiducia .di farlo.
Gruppo di Milano, Verso la nuova Costituzione, Milano 1983 (con il parere di F. Mancini di cui si v. anche' l'intervento alla 'Conferenza di 'Rimini del 1982). Sulle origini dell'incompatibilità v. R. REDSLOB, Die Staatstheorien der franz5sischen Nationalversammlung von 1789, Léipiig 1912, pp. 221 ss. e. K. v. BEYME, Die parlamentarischen ..Regie. rungssysteme in Europa, Mùnchen 1970, pp. 571572 8 L'incompatibilità tra mandato patlamentare e cariche di Governo venne introdotta in Olanda nel 1938 dall'art. 106 della Costituzione. Una delle giustificazioni per l'adozione nei piccoli Paesi di una simile misura sta nel pericolo 'che l'ampliarsi mi. merico dell'Esecutivo riduca eccessivamente l'organico parlamentare. Sul concetto di «democrazia consociati.va » v. H. DAALDER, The Consociational De.. mocracy Theme, in « World Politics », 1974, higlio. Per una mappa dell'applicazione di questo e degli altri metodi rimando al mio Sistemi elettorali e forma di governo, Bologna 1981, pp. 107 Ss.
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Rappresentare e decentrare per decidere di' Gian franco Pasquino
L'analisi di Ernesto Bettinelli, ampia, ben documentata, articolata nelle sue proposte, mi pare largamente condivisibile. Essa appare nel momento più opportuno, quando dal dibattito accademico sembra che, con la creazione della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, si passerà al primo stadio di un processo finalmente operativo. Ciò detto, però, credo sia giusto sottolineare che sussistono nel dibattito accademico e fra le forze politiche posizioni e opzioni che non sono ancora bene decantate e adeguatamente esplorate. E, allora, prima di passare ad 'alcune riserve su quanto scrive Bettinelli, vorrei segnalare quegli aspetti che debbono essere sollevati con maggiore chiarezza. 1. La posizione centrale dalla quale parte Bettinelli, quella della degenerazione dei partiti nell'esplicazione delle loro funzioni classiche, mi pare non solo corretta, ma indispensabile all'impostazione di soluzioni effi caci. Altri autori, però, hanno fatto della critica ai partiti e alla partitocrazia il fulcro delle loro proposte in chiave ben diversa da quella di Bettinelli'. Occorre essere consapevoli che la critica ai partiti può condurre, da un lato, nella direzione indicata da Bettinelli, vale a dire verso soluzioni e proposte intese a liberare la società civile e a dare agli elettori risorse efficaci per contrastare i partiti e per riacquisire spazi di autonomia, di intervento e di controllo; dall'altro, nella direzione di un rafforzamento, non delle istituzioni, ma in particolare del governo e quindi della partitocrazia. Questa è la strada seguita dal « Gruppo di Milano », che pren-
dendo le mosse da un'analisi che depreca la « carenza di potere decisionale » come causa cruciale dei malanni del sistema politico italiano, approda al rafforzamento 'del potere esecutivo, quasi senza soluzione di continuità, inevitabilmente 2 Ambedue le analisi condividono la diagnosi, ma le loro soluzioni non potrebbero essere più divergenti: meno potere ai partiti / più potere alla società civile la prima, meno potere ai partiti / più potere al governo la seconda (ma i partiti non perderebbero davvero il potere). Non c'è, dubbio che questa bipartizione analitica riflette interessi e produce proposte tion facilmente conciliabili. Ma questo è 'il nodo davvero gordiano. Bettinelli non commette l'ingenuità di credere che una sociétà' complessa possa autogovernarsi; mentre ' il « Gruppo di Milano » sembra davvero convinto che un governo di legislatura possa non solo durare, ma governare, vale a. dire introdurre cambiamenti e guidare trasformazioni. Il fatto è che, pur apprezzando in misura diversa entrambe le preoccupazioni, le soluzioni proposte mi sembrano da un lato insufficienti, dall'altro impraticabii, e cercherò di spiegare il perché. Prima di 'giungere a questo, però, è necessario rettere'ancora su elementi in parte diagnostici, in parte «prognostici ». Il problema con il quale bisogna confrontarsi consiste nell'individuare il punto sul quale fare leva per ritoccare il sistema (o per trasformarlo profondamente) senza metterne in discussione le caratteristiche democratiche, assecondando alcune tendenze e contrastan. '
49 done altre. Ma divergenze analitiche sopravvengono non appena si intenda definire e isolare con chiarezza quali siano le tendenze di fondo. Stiamo assistendo ad una diversificazione feconda della società o ad una sua frammentazione? Si tratta di spinte corporative oppure di nuove positive forme di associazionismo? Sono i partiti che tengono insieme il sistema politico oppure costituiscono l'ostacolo più possente ad una ristrutturazione moderna e positiva? La proposta di Bettinelli per la creazione di collegi uninominali (e la sua preferenza espressa altrove per un ricorso incisivo al referendum abrogativo e anche a forme di iniziativa popolare) riflette sia un giudizio negativo sulle propensioni dei partiti ad autoriformarsi sia una valutazione positiva dell'elettorato, delle sue capacità di informarsi, organizzarsi e mobilitarsi. Concordo sulle premesse e sui giudizi; sono meno fiducioso sugli esiti che conseguirebbero da quella specifica riforma elettorale. Anzitutto, è indispensabile un accurato ritaglio delle circoscrizioni tale da renderle più equilibrate e da creare situazioni di incertezza e quindi di reale, rinnovata e rinnovabile competitività. Però ; passare a circoscrizioni ùninominali potrebbe essere un'eccessiva semplificazione tale da non favorire l'emergere di personalità indipendenti che in pochissimi casi e da consegnare invece l'elettorato sostanzialmente nelle mani dei partiti costretti tutti (forse tranne il PCI e la DC) a coalizzarsi in maniera talvolta alquanto trasformistica. Sempre rimanendo sul versante della società civile, il passaggio a circoscrizioni uninominali ridurrebbe consistentemente le possibilità di rappresentanza sociale, se siamo d'accordo sulI'iøotesi o sulla diagnosi di una società complessa che non deve essere compressa, ma lasciata libera di articolarsi anche in forme politico.partitiche. Allora, probabilmerite. per quanto attiene al sistema elettorale in senso lato, e fermo restando
che si può e si deve pensare a formule elettorali diverse 3 per consultazioni diverse (comunali, regionali, politiche, europee), soluzioni esperibili potrebbero ruotare intorno alla soddisfazione di esigenze plurime. Circoscrizioni equilibrate che eleggano ciascuno da un minimo di 3-4 ad un massimo di 10 rappresentanti, senza recupero dei resti e con una piccola soglia di esclusione (3% forse), per una Camera bassa che abbia non più di 400 componenti, per un mandato che non vada oltre i quattro anni e, forse, con rigo. rose clausole di ineleggibilità, rieleggibilità e incompatibilità. In qualche modo, infatti, è necessario por mano al problema della circolazione della classe politica, che costituisce, naturalmente, anche un modo per aprire alla società civile (su questa tematica vale, peraltro, riflettere ancora, specialmente per quel che concerne i meccanismi da utilizzare). 2. Chi critica i partiti per le loro carenze decisionali, per la loro incapacità di produrre governi stabili e efficaci, solo in parte può proporre soluzioni tecniche simili a quelle analizzate e indicate da Bettinelli. Non si tratta di restituire il potere alla società civile, quanto di restituirlo o, forse, di crearlo per le istituzioni di governo e, in particolare, per il governo. Ma, a questo punto, appaiono alcuni inconvenienti o alcune deviazioni analitiche e alcune proposte politiche in parte poco produttive, in parte pericolose. Restituire il potere estorto dai partiti alle istituzioni significa riuscire a diffondere questo potere fra più istituzioni o concentrano in una di esse4 . Questa contrapposizione potrebbe anche non essere nettissima se l'istituzione alla quale il potere viene per così dire « restituito » fosse il Parlamento, o meglio le assemblee elettive. Anche se un conto sono la rappresentanza degli interessi e la garanzia delle minoranze, un conto ben diverso sono la decisionalità e il governo del-
50 le maggioranze. E non solo non è detto che le prime debbano prevalere, ma è noto che le assemblee elettive non possono governare, non hanno modo di rispondere al bisogno di guida e di indirizzo tranne che in pochi casi eccezionali (non come governi d'eccezione, ma in governi direttoriali forse o nelle cosidette democrazie consociative, ma anche questo è dubbio, oppure su materie specifiche come nel caso del Senato statunitense e della politica estera, ma la situazione potrebbe essere in corso di mutamento). Da più parti, invece, in base a quella che considero una scorretta analisi del caso italiano, si suggerisce di concentrare potere nell'Esecutivo: di qui le proposte di governi di legislatura, rafforzamento del Primo ministro, riduzione dei filtri e superamento dei controlli. Queste proposte non sono chiare; comunque esse condividono tutte l'opinione (che non è niente di più) che le cause del malgoverno si trovino fondamentalmente nel Parlamento e nelle non meglio identificate lobbies (che in esso si anniderebbero) e non nei governi, nell'eterogeneità delle maggioranze, nella loro aspra competizione interna, nelle loro carenze progettuali (ché quando progetti ci sono stati, essi sono anche stati attuati), nella loro penetrabilità proprio da quelle lobbies e nella loro incompetenza professionale. Un Esecutivo forte, come quello garantito dal sistema presidenziale statunitense, nulla può fare se affidato a personalità incompetenti come Carter e a staif senza esperienza come la coidetta « mafia georgiana ». E, tuttavia, in qualche modo è necessario rafforzare anche l'Esecutivo. Non è poi così paradossale che il rafforzamento dell'Esecutivo passi anche e inevitabilmente attraverso il rafforzamento delle assemblee elettive, della nubblica amministrazione e degli enti locali e non attraverso un loro det,otenziamento e un loro svuotamento. Anche in questo caso, come in quello delle proposte di riforme elettorali, bisogna
non solo sapere resistere ai terribili semplificatori, ma andare dentro le istituzioni a trovare la complessità e a discernere fra le tendenze e le dinamiche 5 La forza di un'assemblea elettiva dipende dalle capacità e delle competenze, dal prestigio e dal supporto tecnico di cui godono i suoi componenti. Un'assemblea di pochi rappresentanti, donne e uomini di provata esperienza e professionalità, coadiuvati da esperti assistenti legislativi non soltanto può migliorare la qualità delle leggi, ma finisce per incutere sufficiente timore nel governo e nei suoi esponenti da obbligarli, attraverso la legge delle reazioni previste, a presentare decreti, disegni, pròvvedimenti pensati, ben formulati, indirizzati alla soluzione di problemi e non al vantaggio di clientele. La funzione di rappresentanza politica potrebbe così esplicarsi non soltanto sul versante della società (dal lato degli inputs, tutt'altro che trascurabile), ma anche sul versante delle istituzioni (dal lato degli outputs). Va da sé che un'assemblea siffata costituirebbe anche un possente deterrente, una considere vole costrizione, un forte incentivo al miglioramento della pubblica amministrazione, ad una sua reale riforma. Un governo per essere davvero forte deve sapere sviluppare un apparato amministrativo adeguato, efficiente, moderno. La Francia della V Repubblica (e persino quella della IV Repubblica) è e rimane un esempio da imitare grazie alla sua struttura burocraticoamministrativa, il vero collante del sistema, lo strumento delle riforme, il contrappeso, ma anche il supporto dei governi (che abbiano un programma e un progetto). E, in. vece, in troppi progetti di rafforzamento dell'Esecutivo sembra cogliersi l'idea che la pubblica amministrazione sia un ostacolo da saltare, un ingombro da togliere di mezzo, che sia possibile farne a meno grazie al potere accumulato da un governo di legislatura e .
51 alla legittimità derivante da un'eventuale elezione diretta del Primo ministro. Ancora: si crede che, essendo la riforma delle Regioni in parte naufragata, in parte arenata, in parte degenerata, il rafforzamento dell'Esecutivo debba significare la sottrazione di potere alle Regioni. Neppure quest'opinione è suffragata dai fatti; come, probabilmente, dimostrano gli Stati federali, il processo da intraprendere è quello dell'estensione e del rafforzamento delle autonomie locali. Fra l'altro, è a questo livello che si può esprimere meglio buona parte della società civile attiva e mobilitata, che può trovare canali più immediati di accesso e di influenza politica8 . In qualche modo la proposta di Bettinelli, di presidenzialismo nell'organizzazione comunale, se interpretata in senso lato, può essere ricondotta da un lato alle esigenze di rafforzamento delle autonomie locali, dall'altro a quelle della personalizzazione della politica, della maggiore responsabilizzazione delle autorità di governo, di un migliore raccordo fra elettori ed eletti. 3. Fortunatamente (per i cittadini e per gli stessi studiosi, che non si vedranno privati della possibilità di intervenire e di reintervenire, di correre alla riforma delle riforme), le riforme istituzionali, al pari di quelle sociali ed economiche, sono ricche di effetti imprevisti, di conseguenze non• volute, di esiti non anticipati 7 . Ma non è lecito manomettere le costituzioni senza conoscenze di causa e senza criteri ispiratori precisamente delineati. Concordo sostanzialmente con le idee-base che Bettinelli utilizza come standards per la proposizione e la valutazione delle riforme istituzionali. Mi sembra, però, che in parte vada perduto o trascurato il
problema relativo all'organizzazione diffusa degli interessi e alla rappresentanza politica (richiamato solo incidentalmente in conclusione). Sia pure per sommi capi, invece, è opportuno rilevare che esistono strumenti e propo-
ste delle quali sj dovrà pure discutere. Anzitutto, è opportuno che Carte dei diritti, come quelle presentate dai comunisti dell'Emilia-Romagna8 , vengano prese in seria consi derazione perché esse possono fornire interessanti modalità di impostazione della tematica dell'organizzazione degli interessi diffusi. In secondo luogo, non pare né opportuno né produttivo lasciare fuori da una riorganizzazione della rappresentanza politica quegli attori fondamentali che sono i partiti politici e i sindacati. Per i primi, ma non c'è bisogno di ricordarlo a Bettinelli, bisogna ripensare alle modalità di finanziamento e di espressione politico-elettorale (che richiama le problematiche della disciplina dei mezzi di comunicazione di massa). Per i secondi appare assolutamente cruciale riflettere seriamente sugli assetti neo-corporativi, tutt'altro che da scartare aprioristicamente, anche se neppure da accettare senza un'approfondita ricognizione delle loro varietà, dei loro inconvenienti, ma anche dei loro contributi positivi che sembrano essere, in ultima istanza, di molto superiori agli aspetti negativi. Manca, forse, all'importante contributo metodologico-propositivo di Bettinelli una « coda ». Qualsiasi riforma istituzionale di un qualche rilievo non deve essere il prodotto esclusivo di maggioranze, per quanto ampie esse possano risultare. L'assetto istituzionale di un sistema politico deve essere oggetto di un dibattito più vasto e più diffuso di quello che potrà avere luogo nelle sedi parlamentari. E, infine, la sua approvazione, o addirittura, la scelta fra opzioni diverse, opportunamente selezionate, combinate, impacchettate, dovrebbe essere sottoposta a referendum popolare9 . Questo è un passo ineludibile. Vale forse ancora la pena suggerire che bisognerà tenere distinte le proposte che attengono al vertice del sistema politico da quelle che riguardano le articolazioni periferiche del potere. A queste bisognerà lasciare
52 non solo autonomia di organizzazione, ma anche la libertà di sottoporre quanto deliberato al loro corpo elettorale, creando così, sperabilmente, reali snodi e effettive diffe-
renziazioni, nella ricchezza di esperienze e nel pluralismo che, probabilmente, caratterizzerà le proposte avanzate e le innovazioni attuate.
La posizione classica è rappresentata da G. MARANINI, Storia del potere in Italia, Firenze 1983 (non casualmente ristampata ad un quindicennio dalla sua prima edizione in un clima considerato più ricettivo). 2 GRUPPO di MILANO, Verso una nuova costituzione, 'Milano 1983. Alcune riflessioni utili si trovano in A. LIJPHART,
sione e governo della complessità, in G. PASQUINO (a cura di), Le società complesse, Bologna 1983,
Sul grado di proporzionalità di alcune formule elettorali, in « Rivista Italiana di Scienza Politica », agosto 1983, •pp. 295-305, Ho affrontato, in senso lato, questa tematica in
Partiti, società civile, istituzioni e il caso italiano, in « Stato e mercato », agosto 1983, pp. 169-205. Spero di avere saputo fare questo nel nilo Espio-
pp. 237-273. Su questi aspetti si veda l'Archivio ISAP di Milano dedicato alla Regionalizzazione, Nuova serie 1, Milano 1983. Vale la pena suggerire a tutti gli improvvisati ingegneri costituzionali la lettura delle analisi di MAX WEBER, Parlamento e governo e altri scritti politici, Torino 1982, per la modernità della prospettiva e per la maestria della trattazione. 6
8
Per una carta dei diritti e della partecipazione,
Roma 1982. ' Su questo punto concordo con GIANFRANCO MiGLIO, Una repubblica migliore per gli italiani, Milano 1983, p. 117.
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Premi di rappresentatività e tripolarismo di Mario Galizia
E evidente che, nel momento in cui si incasellano le singole misure proposte da Ernesto Bettinelli nel quadro generale, vengono a reagire gli umori e gli orientamenti pro. pri di ogni singolo studioso il che, non ostante l'eleganza e la precisione della relazione Bettinelli, rende complicato trovare punti possibili di incontro. Rispetto alla prima misura patrocinata da Bettinelli - l'incompatibilità tra l'incarico di ministro o sottosegretario e mandato parlamentare - mi pare opportuno ricordare che la questione, vista da Bettinelli in semplice chiave di ingegneria costituzionale, ha un suo definito quadro storico che ci mostra come la presenza dei ministri in Parlamento è venuta a caratterizzarsi fino dalle origini, e per ben fondati motivi, come un elemento essenziale della forma di governo parlamentare. Ma lasciando da parte il problema della compatibilità di una simile misura con un « vero » regime parlamentare (un regime che ha una sua puntuale logica interna di struttura) è da dire, sul piano pratico, che l'istituto ha dato risultati molto divergenti nel variare delle situazioni sociali e politiche. In questa prospettiva pratica la misura presenta aspetti interessanti nel quadro del sistema politico della Quinta Repubblica francese proprio in relazione alla caratterizzazione concreta di quella forma di governo, ma vedrei la stessa non solo di scarsa utilità ma controproducente nell'attuale condizione del. la forma di governo italiano. Non avrebbe la forza da sola per opporsi al dinamismo impazzito e lacerato della società civile e del
sistema partitico e finirebbe col dare ulteriori esche a nuove pressioni dientelari e ai diffusi giuochi e sotto-giuochi di potere, sempre pronti ad allargare la loro influenza non appena si allarghi l'area dei poteri di vertice. Se il Presidente del Consiglio non è già sufficientemente forte a livello istituzionale (come accade in Francia) un simile - in sé - pseudorafforzamento, oltre ad aprire altri varchi alla frammentazione delle spinte esterne, potrebbe alimentare maggiori ipotesi di contrasto del governo con le dinamiche di partito e gli umori contingenti assembleari, senza riuscire a dare effettivi modi al Premier di superare adeguatamente né le ulteriori spinte dall'esterno, né le ulteriori ragioni di conflitto. Il sistema va avanti in Italia ormai con una sua ambigua proiezione, entro cui tende a dissolversi, ma entro cui parimenti riesce a trovare, sia pure in maniera rozza e confusa, possibili assestamenti. O si rompe alla base, con interventi di robusta incidenza, un simile processo o non resta che affidarsi alla sua informe tessitura, come è venuta strutturandosi, confidando nelle reazioni della società civile, che in qualche maniera riescono a prodursi. Bettinelli stesso ci ha mostrato nel suo recente volume che questi difetti hanno origini lontane, che sono molto estesi e profondi: di qui la necessità di riferirsi sempre ad orizzonti non settoriali. E' in questa angolazione che nascono in me forti perpiessità anche in ordine alla forma « presidenziale » nell'organizzazione comunale prospettata cia Bettinelli per le località con popolazione superiore ai diecimila
54 abitanti; come misura opportuna anche se isolatamente presa. Sindaci forti con un governo centrale debole, sperando che diano fiato anche a questo. E' vero: una rinnovata situazione di efficienza locale connessa all'innesto di una tale misura potrebbe produrre riflessi positivi anche sul centro « de. generato »; ma solo però a lungo termine. Immediatamente aumenterebbe tensioni e prassi di necessitati compromessi, e indebolirebbe così ancor più il governo centrale. Aggiungo che non trovo convincente - messi da un lato i comuni piccolissimi - l'idea di mettere insieme, in un unico « modello », comuni piccoli, medi e grandi, ripetendo la rigida e meccanica impostazione monoforme attuale. Fino dall'Ottocento, i ragionamenti dei più attenti pensatori liberali fautori delle autonomie sono stati portati a distinguere la dimensione dei vari enti locali considerati e in buona parte a confermare il vantaggio del collaborare, del cogestire nel governo dei medi, piccoli, nonché piccolissimi comuni. Per questi, una volta rafforzato il governo al centro (è il primo indilazionabile problema da affrontare), vedrei, diversamente da Beninelli, proprio un nuovo fervore infra-partitico e con tendenza quindi a superare la riidezza degli schieramenti attuali a sfondo ideologico entro un recuperato spazio autonomo del governare locale. Gran parte del sottobosco attuale in sede locale nasce nelle direzioni nazionali dei partiti, o comunque si lega alle anomalie delle politiche nazionali. Restano, come si è detto, dati i loro peculiari più complessi aspetti, i « grandi » comuni; solo rispetto a questi, una volta rafforzato e stabilizzato il governo centrale, l'elezione diretta del Sindaco, con la possibilità accordata al Sindaco di comporre la Giunta al di fuori del Consiglio, secondo lo schema avanzato da Bettinelli, potrebbe avere influssi positivi. In quanto all'ultima misura proposta da Bettinelli, la sua angolazione, in parte « medi-
ta », di collegare il collegio uninominale con una dimensione proporzionalistica, è senz'altro interessante ma la stessa dovrebbe venire a collocarsi, per avere una reale incidenza, nel quadro di una rimodellazione più approfondita del sistema elettorale. Personalmente sarei orientato verso l'introduzione di un premio in seggi (che, per giovare alla governabilità e all'equilibrio del sistema dovrebbe avere un'adeguata - abbastanza forte - consistenza) alle tre liste più rappresentative che realizzino, da sole o attraverso previ collegamenti, il 20% dei voti complessivi. Un simile sistema, pur correggendo le più gravi distorsioni della proporzionale, avrebbe il vantaggio di mantenerne alcuni elementi ispiratori. Certo, dalla previsione di un simile premio di rappresentatività deriverebbe un'indubbia sottorappresentazione dei gruppi più piccoli con proprie caratterizzazioni diverse » rispetto alle tre liste più rappresentative; ma gli stessi non verrebbero comunque esclusi del tutto dalla ripartizione dei seggi, come avviene invece con l'introduzione di una clausola di sbarramento. E' da aggiungere che fenomeni di premio di fatto alle due liste più forti si verificano in parte già oggi in Italia, e in maggior misura in Inghilterra: perciò in questa maniera si viene a potenziare e ampliare una tendenza già esistente e rispondente alla ratio della rappresentanza politica, rapportandola all'esigenza di dare reale efficienza al sistema. Un simile premio alle tre liste (sole o apparentate) più rappresentative favorirebbe inoltre quell 'aggregazione delle forze intermedie che corri sponde allo sviluppo politico dei paesi industrializzati, nei quali il « terzo partito », invece di coincidere con il tradizionale centropalude proprio dei regimi assembleari a vocazione corporativa (e in questo schema si inseriscono, rispetto all'Italia del dopoguerra, sia il centrosinistra, sia il moroteismo, sia il compromesso storico), tende ormai sempre
55 più - proprio per essere il « partito » meno legato a fenomeni di ristagno corporativo a caratterizzarsi come un centro attivatore e critico, l'ago della bilancia in senso effettivamente rivolto verso le esigenze future della società. Basti pensare all'esperienza inglese e tedesca; ed analoghe sollecitazioni stanno emergendo con evidenza nella stessa Francia. L'attuale conformazione sociale dei paesi industrializzati rende invero ormai sempre più improponibile lo schema dell'alternativa come svolta di verità totalizzante, ereditata del resto dalle tradizioni rivoluzionarie a sfondo giacobino; e completamente estranea alla nozione di opposizione come sviluppatasi nel regime parlamentare inglese e secondo i principi liberali. A sua volta, lo schema di tipo bipartitico, facente leva su due gruppi contrapposti nel programma ma sociologicamente affini, risulta legato ad un corpo elettorale altamente omogeneo, quale quello inglese della fine dell'Ottocento. Lo stesso potrà forse in futuro ripresentarsi come utile anche nella dimensione delle società europee contemporanee, che probabilmente sotto l'impulso del progresso tecnico verranno a risultare più omogenee di oggi. Ma non pare rispondere alla conformazione attuale, in cui la trasformazione in tal senso è ancora in corso, e ci presenta una realtà complessa e variegata, che sembra pertanto collocarsi meglio in una dimensione pluralistica e allargata dei processi costituzionali e politici. Il « terzo partito » - o terza coalizione organica - favorendo un giuoco politico a tre direzioni variabili, consentendo aggregazioni ora verso un polo ora verso un altro, facilita un dinamismo del sistema politico più articolato e più capace di aderire agli stimoli di una società civile in continuo movimento. Ma perché si creino le possibilità in tal senso, occorre che la terza forza propulsiva sia adeguatamente forte. E' un'angolazione del resto che già emerge negli scritti dei pensatori liberalsocia-
listi degli anni Trenta. Un premio alle tre liste (singole o apparentate) più rappresentative darebbe nella situazione italiana un indubbio contributo in questa prospettiva; obbligando ad una maggiore responsabilità i grandi schieramenti di massa, democristiano e comunista, e stimolando, nel contempo, una aggregazione non solo elettorale tra quelle forze intermedie che, con varia modulazione e diversa intensità, riprendono nei fatti gli schemi di « Giustizia e Libertà ». Ma, soprattutto, lo stesso gioverebbe ad avvalorare il modello funzionale della forma di governo come disegnata dal costituente, e secondo il quale, tutelate le minoranze (ma come tali e non come pseudomaggioranze parallele), il formarsi di una maggioranza stabile « di governo » deve essere assicurato fino dalla fase elettorale. Inoltre, quel punto nodale del sistema legato alla connessione tra crisi di governo e scioglimento, che si è venuto progressivamente sempre più a vanificare nella prassi, riacquisterebbe una necessaria maggiore capacità di incentivazione e di freno. La previsione di un simile premio di rappre. sentatività (nel cui quadro potrebbe coordinarsi la misura di tipo elettorale progettata da Bettinelli), collegata con misure meno forti jarallele, su cui vi è un largo consenso, anche perché si muovono nello spirito della Costituzione, quali la riforma della Presidenza del Consiglio, la riduzione del numefo dei parlamentari, la parziale differenziazione dei compiti delle due Camere, la maggiore tutela delle iniziative del governo nei nuovi regolamenti parlamentari, può essere sufficiente, a mio avviso, a sbloccare la situazione italiana senza ricorrere a quelle innovazioni più drastiche (elezione popolare del Presidente della Repubblica, elezione polare del Primo Ministro) che verrebbero a modificare, per di più con esiti imprevedibili, le linee portanti del vigente ordinamento; innovazioni contro cui Bettinelli prende
56 con motivate argomentazioni posizione critica, anche perché estranee alla logica del possibile, e tutto sommato, almeno per il momento, da considerare fuorvianti. Può obiettarsi che queste mie notazioni sono condizionate dalla implicita premessa che il Partito socialista, entro la direttrice in cui, in parte, si è già collocato, faccia una sua scelta precisa: di essere cioè in un certo senso l'architrave di questa «terza forza », necessariamente allargata fino al Partito liberale rinnovato dal fervore di Zanone. Ne deriverebbe che, accantonata la prospettiva cli un'alternativa di sinistra sorretta dalla guida programmatica ed egemonica del Partito comunista, anche l'ipotesi indicata di una coalizione di questa « terza forza » col Partito comunista non potrebbe prescindere dal deciso ancorarsi dello stesso su posizioni riformiste; ed egualmente anche la Democrazia cristiana verrebbe ad essere sollecitata, per coalizzarsi con questo raggruppamento (rafforzato e quasi istituzionalmente aggregato in relazione al previsto premio elettorale di rappresentatività), verso posizioni più riso-
lutamente « liberalsocialiste ». Del resto, un orientamento in questo senso sembra già progressivamente emergere nella conformazione che va assumendo il paese reale. Mi rendo conto delle difficoltà ideologiche e tattiche cui va incontro un simile discorso, ma una grossa iniziativa di riforme istituzionali come quella in corso non può prescindere da un progetto politico che la sorregga. Ed è tempo di rompere con quella vocazione perenne all'ambiguità tanto presente nella vita politica italiana. Un altro schema forte entro cui potrebbe evidentemente inserirsi la misura di tipo elettorale progettata da Ernesto Bettinelli è quella connessa ad una eventuale riforma elettorale modellata sul sistema vigente nella Germania Federale, ma occorre tener presente che, adottando lo stesso, avremo pur sempre, anche se in un quadro complessivo migliore, un terzo polo articolato in più partiti nòn obbligati preventivamente a coalizzarsi; di qui la prevedibile permanenza del centropalude eternamente fluido e quindi sollecitato alla trattativa continua.
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Una forma' partito da rianimare di Orazio M. Petracca
In generale, in una democrazia, scegliere un sistema' elettorale appropriato significa trovare un punto 'di compatibilità' tra l'esigenza di reckitare democraticamente' i] personale di govèrno e l'esigènza di metterlo in condizioni di governare effettivamente. Dove il primo termine comprende anche la possibilità di controllare il personale di governo, per poterlo eventualmente rimuovere dal suo incarico E il secondo termine significa essenzialmente dargli la possibilità di badare' più all'interesse generale che ai singoli interessi particolari cui pure è inevitabilmente legato. (a meno che, come oggi sembra di moda in Italia, non si voglia ridurre la questione della governabilità ad un puro e semplice problema di stabilità del governo, a sua volta inteso soltanto come ùn problema di durata). In una democrazia dei partiti, però, nessun sistema elettorale di nessun tipo può funzionare efficacemente se i partiti non sono in grado di fare da raccordo tra queste due. esigenze: che non sono necessariamente incompatibili e neppure contraddittorie, ma spesso tuttavia risultano in contrasto l'una con l'altra. E quello che oggi succede, in pratica, è che il relais costituito daI sistema dei partiti è andato in corto circuito. 'Non solo in Italia, tanto è vero che un po' ,dovunque tutte le democrazie industriali denunciano una crisi di governabilità. Ma in Italia più che altrove, dato che quella italiana è più di ogni altra una democrazia dei partiti. Se così stanno le cose, va da sé che forse
'conviene affrontare la questione a partire dal versante del sistema elettorale, ma certo bisogna imp'òstarla .badando soprattutto a quello che una riforma elettorale può significare in termini di ripercussioni sul sistéma dei partiti (a meno di non preoccuparsi prevalentementè, o esclusivamente,' di intervenire su un dato punto di quello che è in atto' il qùadro dei rapporti di forza: vizio originario della campagna 'lanciata a suo tempo da certi ambienti socialisti) Bisògna allora cominciare col chiedersi cosa ne è rimasto di quello che era una volta il partito di' massa. Il partito come strumento ma insieme, in se stesso, anche prefigurazione di una democrazia attivamente - effettivamente - partecipata da grandi masse •di uomini, appunto per questo veramente cittadini. Certo, in tutto l'arco della sua storia, tolto (forse) 'qualche momento di intensa mobilitazione civile, il partito 'di massa non ha mai corrisposto fedelmente, al suo figurino ideale: come succede del resto per qualsiasi istituzione politica e sociale. In questo senso si può dire che è sempre stato in crisi.' Ma c'è crisi e crisi: ovviamente.. Una cosa era il partito'burocratico descritto fin troppo crudamente già dalla sociologia degli'inizi dèl secolo. Un'altra cosa il partito di apparato, con più disciplina e meno libertà interne, rispetto al modello precedente, col quale pure viene spesso confuso. E una cosa ancora diversa è infine, da almeno una ventina d'anni, il partito professionale-elettorale, come lo definiscono gli studi più recenti per dire che
58 è un partito povero di militanti - in proporzione al numero degli elettori, ma anche in assoluto - e ricco semmai di competenza e professionalità (nelle tecniche del potere) piuttosto che di linfa popolare. E in effetti: chi c'è oggi nei partiti? Chi vive attivamente la loro vita, frequenta le loro sedi, partecipa alle loro riunioni, assiste ai loro convegni? Chi si muove intorno ai dirigenti di partito, li elegge, li controlla ne loro operato? Chi si batte per un partito? Chi si dà da fare per procurargli un voto o un iscritto? Chi si preoccupa di stare « in contratto » con un partito? Basta a rispondere il senso comune. E basta tirare la somma di tutte le risposte per rendersi contro che l'intero universo sociale del sistema partitocratico si riduce in realtà a due sole categorie di persone, se vogliamo (impropriamente) due ceti. Da una parte tutti coloro che non fanno altro che politica, e perciò - di regola traggono dalla politica i loro mezzi di sostentamento, nonché le risorse per retribuire i loro collaboratori (anch'essi, più o meno, professionisti della politica). Dall'altra parte tutti coloro che dipendono in qualche modo - 'ma sempre abbastanza direttamente - da chi amministra o comunqùe controlla l'uso discrezionale delle risorse pubbliche (compresé licenze, concessioni, permessi, applti, ecc.). Coloro che hanno bisogno di uia protezione politica per assicurarsi da vivere. Ma anche coloro che mirano piuttosto ad assicurarsi una protezione per poterne ricavare benefici e vantaggi, se non necessariamente illeciti, comunque diciamo differenziali. E anche coloro, inline, che sono invece costretti a sopportare un protettorato per potere svolgere la loro attività. Naturalmente, un'analisi puntuale - questo qui è solo uno schema - esigerebbe di distinguere partito da partito, situazione da situazione, caso da caso. Tanto per fare un esempio, l'assemblea di una sezione comùni-
sta affollata di operai attenti e preoccupati non è la stessa cosa di una svogliata riunione di « comparucci », come li chiamava Ignazio Silone. Tutte le pur necessarie analisi e distinzioni non servirebbero tuttavia che a individuare delle eccezioni, a stabilire dei punti di resistenza, per così dire, forse anche a cogliere segni o tentativi di contromarcia. 'Ma l'indicazione della tendenza non verrebbe comunque a cambiare. E allora, se questa è oggi la sociologia della partecipazione di partito, non possono bastare delle riforme - come quelle proposte qui da Bettinelli - dirette a « incidere sugli assetti interni dei partiti, sulla ricostituzione nel loro ambito di centri decisionali effettivi (e, quindi, selettivi) ». Certo, queste riforme potrebbero - anzi, nella logica cui si ispirano, dovrebbero - retroagire sui partiti anche nel senso di renderli più praticabili, e di conseguenza più praticati, come canali di partecipazione politica. Ma il punto è proprio questo. Dopo tutte le esperienze, cioè le delusioni di questi ultimi venti anni, dopo tutto ciò che su questo tema ha detto invano una sterminata letteratura sociologica e politologica, oggi è ancora. il caso di provarsi a rianimare il partito, come strumento di partecipazione politica, senza pensare di dovere per questo, a questo scopo, rompere lo stampo stesso di quella che è attualmente la « forma partito »? In altri termini, quella con la quale ci troviamo a fare i conti, nella situazione attuale, è solo una crisi politica del partito di massa o non è piuttosto la crisi storica della stessa forma partito? Il partito, nel senso moderno del termine, viene alla ribalta, sulla scena delle istituzioni politiche, in quanto organismo che esprime interessi di parte elaborandoli in inteiesse generale. E' per questo - per il fatto di incarnare una' formula politica di interesse generale - che il partito si distingue dalle antiche « fazioni », prende il loro posto
59 . nella lotta per il potere e (dà tutti i punti di vista) rappresenta un progresso rispetto ad esse che erano soltanto delle « parti ». Come è per questo, al tempo stesso, che il partito si legittima all'esercizio diretto del potere, a differenza di tutti gli altri gruppi di interesse, per definizione o per natura « particolari » (almeno rispetto al sistema politico). Ebbene, oggi la crisi del partito, come istituzione, consiste proprio nel fatto che esso sta perdendo queste che erano le sue caratteristiche di originalità e specificità in quanto sta diventando sempre meno capace di esprimere e governare domande di interesse generale. E' vero che il concetto di interesse generale ed altri concetti consimili - con quello di bene comune, per esempio - sono privi di un referente preciso, univoco, e perciò difficilmente suscettibili di verifica (se non, a certe condizioni, ex-post). Ma è possibile distinguere almeno gli interessi di lungo termine dagli interessi più immediati: e quello che oggi sta succedendo è che i partiti sono spinti ad appiattirsi sulla gestione degli interessi più immediati, perdendo con ciò stesso quella capacità di guardare un po' più lontano che è in effetti la capacità di governare. Molteplici tendenze, di diversa natura, convergono a quest'effetto nella stessa direzione. Il « tramonto delle ideologie », che per quanto come concetto sia, troppo abusato (e spesso strumentalizzato a fini di potere tecnocratico), resta tuttavia pur sempre un fatto comprovato dall'analisi storica ed empirica. La destrutturazione del vecchio ordine di classe, per cui - ad esempio - c'è adesso una miriade di ruoli e soggetti sociali al posto di quella che era una volta la figura del lavoratore dipendente, ormai priva di un suo nucleo unitario. La lacerazione irrimediabile di tutto un tessuto tradizionale di identità
e solidarietà collettive, senza che abbiano preso consistenza, finora, nuovi aggregati comunitari. Il moltiplicarsi delle occasioni e delle forme d'intreccio tra Stato ed economia, politica ed affari, pubblico e privato: con la conseguenza - tra l'altro - che l'area del « voto di scambio », anziché ridursi con lo sviluppo economico, si è invece venuta allargando a macchia d'olio. La scomposizione e riorganizzazione dei grandi interessi economico-sociali in categorie sempre più « particolari », per non dire senz'altro corporative. La stessa caduta della partecipazione politica di base, e l'impossibilità di riportana - comunque si comporti la classe politica - ai livelli che sono tipici ed esclusivi di certi tumultuosi passaggi da un equilibrio sociale all'altro. E' la somma di tutto ciò (e di molti altri addendi ancora) che fa la crisi del partito di massa. E in questo senso si può dire senz'altro che la crisi del partito di massa e il suo ridursi a organizzazione professionale per la conquista e l'esercizio del potere rientrano nella logica complessiva di quello che è stato lo sviluppo dei sistemi pluralistici. All'interno di questi sistemi, tuttavia, nuovi bisogni, nuove domande, nuovi interessi di carattere generale sono pur venuti emergendo, tanto che costituiscono la base materiale di tutta una serie di movimenti e momenti di lotta sociale che stentaflo però a trovare appropriate espressioni politiche: e infatti, a ben vedere, il problema dei partiti, sul piano politico, consiste appunto nel fatto che non riescono né ad assorbire né ad esprimere queste nuove spinte. C'è perciò da chiedersi se non sia piuttosto da dire che la crisi istituzionale del partito, come forma di aggregazione politica, rientra bensì nella logica dei sistemi pluralistici ma dipende direttamente - specificamente - dal cumulo delle varie e diverse funzioni di cui i partiti si sono venuti (legittimamente) appropriando nel corso della loro storia.
60 Si tratterebbe allora di sciogliere l'intreccio tra queste varie e diverse funzioni dei partiti, e bisognerebbe farlo anzitutto laddove esso si forma e produce senz'altro effetti perversi, cioè appunto al livello del sistema elettorale. Si tratterebbe cioè di arrivare a concludere che da questo ormai dipende il destino della « forma partito»: da una netta distinzione, se non addirittura separazione, già a livello del sistema elettorale, tra il ruolo dei partiti rispetto alla gestione del potere esecutivo e il loro ruolo di controllo
politico sul modo, in cui il potere viene gestito. Non ho nessuna pretesa di dare qui una risposta conclusiva su una quèstione che a me stesso, come credo a qualsiasi coscienza democratica di 'antico stampo, suona assai inquietante. Penso tuttavia che, se non sarannoi partiti a fare la loro scelta, sarà la forza stessa delle cose a imporgliela. Ed allora la democrazia italiana correrà molti rischi: che si potrebbero evitare, che bisogna evitare.
Mantenere il voto di preferenza di Pasquale Scaramozzino
Intervengo su un punto soltanto a proposito del voto di preferenza che Bettinelli vorrebbe abolire, ciò giustificando anche con la affermazione che « settori sempre più vasti di opinione pubblica denunciano come un veicolo di corruzione o, quanto. meno, di degenerazione delle competizioni elettorali ». Io sarei piuttosto perplesso e dico perché.' Come è noto, il voto di preferenza è caratteristica propria del sistema proporzionale, consente ai cittadini elettori che ne fanno uso di concorrere a determinare concretamente, più che con il solo voto di lista, mediante la scelta individuale di alcuni piuttosto che di altri candidati, la politica del Paese, e gli elettori ne hanno sempre fatto uso. L'uso del voto di preferenza infatti ha una storia che risale al primo dopoguerra quando è stato attivato per la prima volta, in occasione dell'introduzione, nel 1919, dello scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale. E' stato ripetuto nelle elezioni del 1921 ed è stato mantenuto, sia pure con le limitazioni imposte dalla legge Acerbo, nelle elezioni del 1924. Nel secondo dopoguerra è stato ripristinato in occasione delle elezioni per l'Assemblea Cosfhuente ed è stato poi consacrato nell'ordinamento elettorale che tuttora ci regge. Gli elettori sono affezionati al voto di preferenza, come è dimostrato dal buon grado di utilizzazione che risulta in tutte le elezioni del dopoguerra', con variazioni da un minimo del 27,2% (1979) ad un massimo del 32,5% (1948). L'alto tasso di preferenza che si riscontra
nelle varie' tòrnate elettorali non è certo quello delle elezioni del '1919 e del 1921, quando il tasSo è stato pari, rispettivamente, a' 56,5 e a' 70,6 vòti 'di preferenza espressi per 100' voti esprimibili; ma c'è da' tener pre'sente che in quelle elezioni il diritto' di voto 'eri limitato al seso maschile (mentre 'dal 1946 tale diritto è esteso ahche "al' sesso femminile). Gli elettori sono così abituati a usare, sia pure parcamente, la preferenza che anche nelle recenti elezioni del giugno 1983 oltre il 40% di coloro che hanno espresso voti validi di lista hanno' pure usato una o più preferenze individuali 2 in una misura che si può calcolare pari a circa il 27%. Ciò è tanto più significativo se si pone mente al fatto che nelle stesse elezioni è diminuita l'afluenza alle urne ed è aumentato il numero dei voti non validi. In conclusione, l'uso della preferenza risulta così connaturato al diritto di voto che una sua abolizione potrebbe apparire agli occhi degli elettori, anche se non intenzionalmente, come un tentativo di ridurne drasticamente la capacità di influire sul corso della vita politica, con l'effetto paradossale di aumentare da un lato la disaffezione alla vita politica e l'astensionismo e, dall'altro, quello di ridare ai partiti quel potere illimitato che da più parti viene loro contestato; ottenendo in altre parole proprio quello che nemmeno Bettinelli vorrebbe con le sue proposte di modifica del sistema elettorale. Con il che non si vuole certo negare che rimanga aperto, come rimane aperto, il proble,
62 ma di una razionalizzazione dell'uso del voto di preferenza (ad esempio non si capisce perché in alcuni collegi se ne possano usare no a 3 e in altri fino a 4) e anche quello di una sua limitazione financo ad una sola. Come pure rimane aperto il discorso sul conclamato abuso del voto di preferenza e sugli inevitabili aspetti clientelari del fenomeno. Ma questo è un discorso che non investe solo l'uso della preferenza ma anche quello dello stesso voto di lista. Senza dimenticare che il discorso sulla corruzione della vita politica è vecchio se già Pareto, nel 1894, (in epoca di sistema uninominale) poteva affermare che « in tutti i paesi i politicanti sono una triste genia, ma peggiori che in Italia non è facile trovarne ».
Per finire, si può anche cambiare sistema elettorale ma non sono convinto che l'abolizione del voto di preferenza sia il rimedio migliore ai mali politici attuali.
Tassi di preferenza nelle elezioni politiche del dopoguerra (voti di preferenza espressi per 100 esprimibili) 1946 31,9 1968 30,3 1948 32,5 1972 31,6 1953 30,7 1976 27,5 1958 29,8 1979 27,2 1963 29,3 1983 27,0 2
Si tratta di una stima camipionaria tratta da ino studio congiunto (e tuttora in corso) dell'Istituto di Statistica dell'Università di Pavia e dell'Istituto Doxa.
Il
CENTRO STUDI DELLA FONDAZIONE ADRIANO OLIVETTI
Ernesto Bettinelli
All'origine della democrazia dei partiti .. La formazione del nuovo ordinamento elettorale nel periodo costituente (1944.1948)
Il libro è pubblicato dalle
Edizioni di Comunità Via Manzoni, 12 - .20121 Milano
CENTRO STUDI DELLA FONDAZIONE ADRIANO OÙVETTI•
Il voto di chi non vota. L'astensionismo elettorale in Italia •e in Europa
a cura di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzinò
Il libro è pubblicato dalle
Edizioni di Comunità Via Manzoni, 12 20121 Milano