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Anno Xli n. 64 - Gennaio-Giugno 1984

trirnestrale - sped. in abb. postale gr. IV/70

queste Istituzioni Osservatorio di primavera Giuseppe Berta Il sindacato come impresa Sergio Lariccia Gli accordi di Villa Madama sui rapporti fra Stato e Chiesa: Concordato storico o routine politica? Maria Teresa Salvemini Una novità nella gestione della politica monetaria: il finanziamento anticipato del Tesoro di S.R. Spunti e appunti: democrazia deregolata Luigi Giampaolino Quale Amministrazione per «depenalizzare»? Mario Caciagli Sistemi elettorali e consolidamento della democrazia: le esperienze tedesca e italiana a confronto

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MAGGIOLI EDITORE

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queste Istituzioni Osservatorio di primavera Giuseppe Berta Il sindacato come impresa Sergio Lariccia Gli accordi di Villa Madama sui rapporti fra Stato e Chiesa: concordato storico o routine politica? Maria Teresa Salvemini Una novitĂ nella gestione della politica monetaria: il finanziamento anticipato del Tesoro S.R. Spunti ed appunti: democrazia deregolata Luigi Giampaolino Quale amministrazione per "depenalizzare"? Mario Caciagli Sistemi elettorali e consolidamento della democrazia: le esperienze tedesca e italiana a confronto

MAGGKJLI EDFVORE

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Comincia, con la pubblicazione dei fascicoli del 1984, una fase nuova della nostra rivista. Le novità sono molteplici. La prima è che «Queste Istituzioni» viene pubblicata ora per i tzpi dell'Editore Maggio/i, che ne cura anche la distribuzione. La scelta di un editore di professione consentirà alla nostra impresa culturale di essere unp0' più impresa, cioè più strutturata, e un p0' meno «piccola», in termini di pubblico raggiungibile: -mantenendo peraltro ferma la liiea culturale di sempre. La seconda è che la periodicità diviene trimestrale e con ciò si raddoppia la presenta durante l'anno. Rispettando la formula editoriale dei fascicoli monografici separati che escono però tutti insieme a formare un numero (d'ora in poi saranno tre i fascicoli per ogni numero) abbiamo ritenuto che questa maggiore presenta ci imponesse un legame più stretto con la cronaca delle istituzioni. Il che ci consente di riprendere un vecchio proposito: quello che nel numero 'ero del 1973 era dichiarato da/la sottotestata della rivista «cronache del sistema politico». Che ci interessi oggi in particolare quella specficarione diremmo proprio di no. An<i, o/tre e più del sistema politico ci interessano gli altri sistemi istittqionali: quello amministrativo innanzitutto. Ma il co/legamento con l'attualità si ci interessa. Così, a/meno due vo/te a/l'anno, uno dei tre fascico/i che compongono un numero sarà misce/laneo e non monografico. Gli articoli saranno più brevi. Pensiamo di fare unfascico/o di commenti come lo potrebbe fare un giornalismo che usasse cu/ture e discipline specia/istiche. Forse questo giornalismo non c'è. E noi non siamo giornalisti. Ma il tentativo /ofacciamo. ,Quanto ai contenuti seguiremo in primo luogo gli sviluppi di problemi e vicende che sono stati trattati sulle pagine di «,Qùeste Istituzioni». Intitoliamo questo fascicolo -«Osservatorio», che non è certo un titolo orzginale, e per datarlo usiamo il rferimento stagionale. Per cominciare, lo conceda il lettore, un «osservatorio di primavera» è gradevole e magari un p0' accattivante. -

queste istituzioni 198411 ° e 2 ° trimestre

Direttore: SERGIO RisTucclA - Redattore capo: VINCENZO SPAZIANTE. Direzione e Redazione:

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Stampa: Litografia Titanedi - Dogana R.S.M.

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Il 'sindacato come impresa di Gùiseppe Berta

Gli eventi legati alle vicende recentissime del movimento sindacale e alla dinamica della contrattazione collettiva in Italia stanno mettendo a ben dura prova le capacità di analisi degli studiosi di relazioni industriali, per non parlare poi delle loro capacità di ipotizzare degli scenari di previsione. Del grande edificio di carta alimentato da quell'accordo del 22 gennaio 1983 al quale tanti commentatori avevano frettolosamente attribuito una portata storica - c'era stato addirittura chi aveva fatto del «lodo Scotti» l'atto più importante nello sviluppo del sistema contrattuale dal dopoguerra in avanti - sembra a tutt'oggi che possa restare in piedi ben poco. I complessi schemi interpretativi coniati da sociologi e giuslavoristi per porre in rilievo l'accostamento progressivo tra l'esperienza italiana e le realtà sindacali europee paiono in difficoltà a reggere l'offensiva dei rifiuti della CGIL a sottoscrivere i termini del nuovo patto inflazionistico che avrebbe voluto siglare il governo Craxi e i colpi recati dal movimento «autoconvocato» dei quadri sindacali di base. Tutto questo nel momento in cui, all'interno delle organizzazioni sindacali, avevano di fatto acquisito diritto di cittadinanza espressioni come «neocorporativismo» e «scambio politico», che qualche anno fa co-

noscevano una diffusione circoscritta ai convegni di scienze politiche e sociali. Ora molti si chiedono come sia potuto avvenire questo rovesciamento apparentemente subitaneo. Il rischio più evidente e immediato - e che pare tutt'altro che esorcizzato, almeno a Stare alle prime reazioni - è che osservatori e studiosi si limitino a prendere posizione per le parti in causa, lasciando che venga meno così una funzione di riflessione critica, non condizionata dagli avvenimenti politici quotidiani, della quale si dovrebbe avvertire invece la necessità ora come mai. Per questo, un esame differenziato dei singoli fattori il cui precipitato costituisce di fatto la crisi presente del movimento sindacale mi sembrerebbe ancora il modo migliore, quello in grado di consentire il maggiore distacco analitico, per avviare un tentativo d'interpretazione non strettamente condizionato dal susseguirsi degli episodi. Credo vi sia un consenso pressoché generalizzato sulla constatazione che l'attuale è una fase di crisi del sindacato in 9uanto organizzazione. E divenuta opinione corrente che la recessione economica e la rapida diffusione delle nuove tecnologie abbiano fortemente contratto le basi sociali della struttura sindacale in tutto l'Occidente


industriale, con il risultato di enfatizzare la crisi di orientamento e le alternative strategiche che si pongono ora agli organismi per la tutela del lavoro dipendente e alle loro leaderships. Un'altra convinzione ormai altrettanto radicata è che le trasformazioni del sistema economico e sociale impongono la necessità di una radicale revisione dei modelli organizzativi del movimento sindacale, in modo che esso possa rappresentare più effettivamente gli interessi di aree rilevanti dell'universo del lavoro dipendente o collegarsi a settori lavorativi e a identità professionali di nuova definizione. E a questo punto però che sorgono i veri problemi: il campo delle opzioni organizzative possibili è spesso rappresentato come virtualmente illimitato e tuttavia (anzi, proprio per questa ragione) esso è lasciato del tutto indeterminato. Per quanto riguarda il caso italiano, un dato comune è possibile rintracciare in tutti i commenti recenti sulla crisi dell'organizzazione sindacale: le organizzazioni di lavoratori hanno scontato e tuttora sconterebbero ciò che si può chiamare un vero e proprio deficit di democrazia, che ha prodotto effetti paralizzanti sulla struttura sindacale. Mancando di sciogliere il nodo su quale modello di democrazia interna fosse da adottare, il sindacato italiano ha congelato una struttura federativa originariamente sorta con una funzione di ponte verso un futuro organicamente unitario. Di qui, il blocco di un corretto processo di rappresentanza e decisionale, surrogato da un'elefantiasi burocratica capace di risolversi unicamente in una moltiplicazione delle sedi mediatorie o, per converso, delle istanze di voto. Anche nelle formulazioni più sommarie riprese continuamente dalla stessa stampa quo4

tidiana, è chiaro che ci troviamo di fronte a una generalizzazione dei risultati di ricerca a cui erano giunti, già qualche anno fa, alcuni dei più seri tentativi di indagine sulla nuova scena delle relazioni industriali degli anni Settanta. Ma va notato altresì che la discussione su questi ultimi dieci-quindici anni non è stata finora adeguatamente collegata a quella sugli eventuali scenari neocorporativi, sui quali pure ci si è a lungo soffermati negli studi e nelle valutazioni di questi primi anni Ottanta. Così, mentre ci si è ampiamente interrogati sulla congruità o meno del sistema politico italiano e dello schieramento sindacale rispetto a un'ipotesi neocorporativa, poco, tutto sommato, si è riflettuto su quale sia o debba essere il modello organizzativo interno di un sindacato che si muove in uno scenario di contrattazione concertata e di scambio politico. Già all'indomani del «lodo Scotti», ad esempio, si era potuto notare che il sindacato non disponeva di poteri di sanzione verso quei suoi segmenti di organizzazione che non si fossero attenuti alla logica della concertazione. Ora, è evidente che la situazione di stallo tra le confederazioni è derivata anche, oltre che dalla mancata chiarezza circa il funzionamento dei vincoli federativi e unitari, dal non aver mai posto apertamente il nodo del modello di democrazia e di decision-marking al quale tutte e tre le organizzazioni si sarebbero necessariamente dovute riferire. D'altronde la struttura organizzativa che si era espansa (e poi dilatata oltre misura) sulla scia del boom sindacale del decennio Settanta non è stata mai pensata - ed è tempo che lo si dichiari con franchezza - per nessun tipo specifico di politica istituzionale delle confederazioni. E vero: la crescita burocratica del sindacato è


avvenuta all'unisono con la scoperta di quest'ultimo di essere (e di voler fungere a tutti gli effetti da) soggetto politico generale. E altrettanto vero, come è stato opportunamente scritto, che la funzione del sindacalista si è sempre di più identificata con quella di chi porta le istanze del lavoro organizzato sul mercato politico. Ma si ammetterà che corre una bella differenza tra questa vocazione - che è mediatoria in un senso profondamente connaturale ad alcuni caratteri peculiari del sistema politico nazionale - e il preciso rispetto delle regole del gioco dello scambio che sta alla base di una piena operatività del modello neocorporativo. In effetti, si direbbe piuttosto che la catena burocratica - così come si è codificata nella proliferazione delle figure sindacali - allunghi e rallenti, più che faciliti, il processo decisionale che deve sottostare allo scambio politico. Ancora, un repentino passaggio all'esaltazione dei meccanismi di delega ai vertici e ai gruppi dirigenti potrà forse contribuire a mortificare il senso di identità dei ruoli intermedi e forse generare forme di reazione. Comunque, se una volta tanto si scegliesse di anteporre alla lettura dei nuovi classici del neocorporativismo la lettura dei primi, grandi classici di questa stagione corporativa (ma attenzione: si tratta di un corporativismo democratico) che fu contemporanea al costituirsi di una teoria delle relazioni industriali, ci si potrebbe forse accorgere che il sindacalista - che vuole portare la sua organizzazione, come scrivevano i Webb alla fine dell'Ottocento, a divenire parte integrale della struttura dello Stato moderno - ha più tratti in conune con il manager che con il political boss o o il mediatore. Il «sindacato come im-

presa» (e il sindacalista come manager) rimane, mi sembra, una soluzione complessivamente percorribile e consentanea al perseguimento di una cornice di concertazione, non fosse altro perché presuppone un forte incremento dei livelli di efficienza gestionale dell'organizzazione. Una soluzione che, si obietter, appare estranea all'esperienza italiana; almeno dai tempi lontani in cui Fausto Pagliari e Rinaldo Rigola pensavano che fosse possibile formare, entro la CGdL, un «sindacato dei sindacalisti», capace di allocare, secondo un principio di concorrenzialità remunerativa, gli organizzatori operai tra le varie categorie professionali. Ma nel momento in cui si propone l'adozione dello scambio politico come metodo, sarebbe quanto meno indispensabile fare i conti con la riforma organizzativa del sindacato (e con le tradizioni associative storiche presenti nel caso italiano). Il movimento degli «autoconvocati», comunque si giudichino i suoi obiettivi, mi pare si possa classificare tra le reazioni -. legittime - a una situazione in cui i quadri sindacali di base (e anche qui non importa il giudizio che si dà sulla «cultura» che essi esprimono) non si riconoscono nella leadership, nell'articolazione gestionale e amministrativa del sindacato, non le comprendono più. Del resto, qual è il grado di controllo, il livello di conoscenza delle politiche antinflazionistiche in un quadro sindacale di fabbrica? E, soprattutto, quali sono gli strumenti di informazione e di formazione che gli d.il sindacato? Dinanzi a una situazione di totale sottrazione di competenze, la sua reazione naturale sarà di mettere in discussione il sistema di decisione che prevede solo una funzione di ratifica a posteriori degli ac5


cordi conclusi. E, a fronte dei restringimento del numero dei decisori, sarà indotto a rimettere in discussione il gonfiamento dell'apparato burocratico, con funzioni, capacità e poteri sempre meno determinanti. In questo senso - e se non si accredita la tesi di Carniti che il movimento degli «autoconvocati» sia stato solo il prodotto della mobilitazione dei PCI, che sinceramente pare avvalorare un'immagine da Italia anni Cinquanta altamente improbabile - l'ondata di protesta che ha fatto seguito al decreto Craxi può obiettivamente essere ricompresa tra i segni di dissenso più manifesti verso il sindacato-istituzione e soggetto politico complessivo. A patto, naturalmente, che non si veda tutto questo come la pura e semplice sconfessione di ogni ipotesi e di ogni linea che non sia quella del «sindacato-movimento», con uno stravolgimento politico che farebbe presagire nuovi - e forse irrecuperabili errori. (Ma l'accorto realismo di Lama, ben espresso dal suo misurato discorso alla manifestazione romana dei 24 marzo, dovrebbe intendersi come un atto deciso a scongiurare tale rischio). Certo, chi pensa che l'agitazione contro il decreto abbia significato un rilancio dell'ideologia del sindacato «di classe», caro alla tradizione della CGIL, e che basti una consultazione di massa in alcune grandi fabbriche per farlo rivivere, commette un grave peccato contro la realtà. Il principio classista dell'organizzazione - con il suo riferimento ai valori universalistici incarnati dagli operai dell'industria, la classe «generale» - non può oggi essere seriamente argomentato in nessun modo, dal momento che è integralmente consegnato alla storia passata del movimento operaio italiano, ed esclude ogni reale tentativo di ride6

finizione dei rapporti con le aree in evoluzione più dinamica dei lavoro dipendente. Riaffidarsi all'ideologia del sindacato «di classe» vorrebbe dire, né più né meno, autoestromettersi da tutti i processi di cambiamento al cui controllo è affidato, forse già nel medio periodo, il destino del sindacato. Ma, sul versante dei modelli organizzativi, anche la modernità cislina rivela tutte le sue precarietà. Sia ben chiaro, infatti, che riscoprire che il sindacato è «dei soci», che il processo decisionale democratico si esplica sostanzialmente nel conferimento della delega alla leadership da parte degli iscritti, vuoi dire anch'esso far ripiombare la riflessione al suo punto storico d'origine. Il sindacato associativo è, a sua volta, un altro pezzo di storia passata, un altro frammento dell'Italia del dopoguerra. Ripresentare oggi tale modello sarebbe come voler dire che gran parte della «modernità» della quale la CISL si fa portavoce si riduce soltanto a immagine di facciata, priva di gambe proprie sulle quali marciare. Vorrebbe dire tornare ai primi anni Cinquanta, quando Mario Romani teorizzava l'interiorizzazione della cultura angioamericana del management da parte dei sindacato industriale, mentre le effettive basi di massa dell'organizzazione erano rappresentate dalle falangi dell'impiego pubblico in espansione. Si aprirebbe così un nuovo, totale divario che finirebbe col togliere ogni credibilità alla leadership di Carniti e brucerebbe la scommessa - e anche l'ambiguità sulla quale si è finora retta la sua strategia. Non ha senso sostenere - come si è fatto, e a ragion veduta, sull'organo della confederazione, «il Progetto» che le nuove tecnologie devono essere integralmente rese materia di con-


trattazione, e poi confinare il rapporto organizzativo al legame con gli iscritti. Con quale metodo, attraverso quali vie il sindacato potrà stabilire un flusso continuo di comunicazioni con quelle componenti della forza-lavoro che possono rivelarsi una risorsa indispensabile a tale scopo? Le grandi imprese registrano già ora una obiettiva difficoltà a delineare nuove strategie di promozione professionale e di formazione interna per i loro tecnici-quadri che tendono a intrattenere con esse un rapporto di tipo quasi consulenziale, estraneo ormai ai vecchi meccanismi di incentivazione basati sullo sviluppo della lealtà aziendale. Alle imprese, questi nuovi strati di lavoratori domandano l'attivazione di nuovi e continui circuiti di professionalizzazione, un interscambio con i centri di ricerca, che accentuano il carattere di sistema aperto delle organizzazioni aziendali. L'impresa viene sempre più assunta come un sistema flessibile di governo degli scambi e delle transazioni che continuamente si producono all'interno e all'esterno di essa, e il sindacato

non può fare a meno di rimodellarsi sulla medesima logica, se vuole rimanere attivo come soggetto dinamico• nei processi innovativi. In sintesi, potremmo dire che all'organizzazione sindacale tocca di ridefinirsi sulla base di una riprogettazione completa dei processi decisionali, sia quelli interni, pertinenti alla sua natura istituzionale, sia a quelli esterni, relativi alla sua interazione con il sistema delle imprese e con il sistema dell'amministrazione. Si tratta di una riconversione difficile, che ha probabilmente costi elevatissimi e non riguarda certo solo il sindacato italiano, e per la quale le organizzazioni dei lavoratori dovranno mobilitare tutta l'intelligenza generale e le risorse culturali che hanno a disposizione e a cui possono fare appello. Ma, credo, se ciò avverrà, si costituirà un terreno di confronto e di sollecitazione sommamente impegnativo per gli studiosi e gli analisti delle relazioni industriali, se sapranno offrire l'apporto critico che dovrebbe essere lo specifico della loro professionalità.


Gli accordi di Villa Madama sui rapporti fra Stato e Chiesa: concordato storico o routine politica? di Sergio Lariccia

L'opinione prevalente è che, con la firma del nuovo accordo tra Italia e Santa sede del febbraio 1984, sia giunta a conclusione la lunga e complessa vicenda storica della riforma riguardante la disciplina dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica; si precisa che tale vicenda non è ancora definitivamente conclusa, giacché, prima della ratifica del concordato da parte del parlamento, occorre che sia chiaramente definita la classificazionè degli enti e dei beni ecclesiastici (un'apposita commissione è incaricata di fissare i nuovi criteri fondamentali per i provvedimenti legislativi su quella che negli ultimi anni è stata la più discussa tra le materie concordatarie oggetto di revisione), ma si osserva che, considerando le larghe maggioranze con le quali il senato prima e poi la camera dei deputati hanno espresso il loro voto favorevole, possano ritenersi ormai superate le difficoltà che per lungo tempo hanno ostacolato la conclusione della trattativa: tanto più che, come ha osservato il presidente del cnsiglio Craxi, in sede di ratifica non sarà presentata al parlamento l'intera normativa ma saranno esposti soltanto i principi ispiratori. Il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica in Italia e delle tendenze che caratterizzano la più recente politica 8

ecclesiastica nel nostro paese sembra però più complesso di quanto sia dato desumere da taluni commenti dedicati all'esame di tale questione.

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NEGOZIATI PER LA RIFORMA

Dopo le discussioni all'assemblea costituente sùll'art. 7 della Costituzione, che aveva richiamato i patti lateranensi nella carta costituzionale (i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica - stabilisce tale norma - «sono regolati dai Patti Lateranensi»), dopo le iniziative culturali degli anni Cinquanta (di particolare importanza il convegno organizzato a Roma nell'aprile 1957 dagli «Amici del Mondo») e dopo i mutamenti civili e religiosi che nel decennio successivo avevano caratterizzato le trasformazioni della società italiana, il problema politico della riforma della legislazione ecclesiastica si pone soprattutto quando, nel febbraio 1965, il divieto prefettizio di rappresentare in Roma «Il Vicario» di Rolf Hochhuth induce l'opinione pubblica ed una parte della classe politica a prendere coscienza dell'urgenza di affrontare il tema del concordato e delle relazioni tra Stato e Chiesa cattolica: il dibattito alla camera (ottobre 1965) sulle mozioni relative alla revisione del concordato si


conclude con l'approvazione di una mozione nella quale si rileva «l'opportunittì di riconsiderare talune clausole del Concordato in rappòrto all'evoluzione dei tempi ed allo sviluppo della vita democratica» e si invita il governo a prospettare alla Santa sede tale opportunità. La commissione di studio presieduta da Guido Gonella svolge il suo lavoro nei primi mesi del 1969 e lo conclude nel luglio dello stesso anno con una relazione e la proposta di un testo revisionato. Occorre però attendere il 1976 perché il parlamento possa esaminare la cosiddetta prima bozza. Il 3 novembre 1976, dopo un dibattito che per cinque giorni impegna la camera, viene approvata una risoluzione con la quale il governo italiano viene invitato a proseguire la trattativa con la Santa sede «sulla base delle posir<ioni e degli orientamenti emersi nel dibattito alla Camera al fine di garantire una puntuale rispondenra del testo alle eszgenr<e di armoniaione costituzionale e allo sviluppo della vita democratica, mantenendo nel corso della trattativa gli opportuni contatti con i gruppi parlamentari e rferendo al Parlamento prima della stipulazione del protocollo di revisione». Le espressioni contenute nella risoluzione sono importanti, perché da esse si desume l'impegno per il governo non di presentare un testo revisionato, bensi di «riferire» al parlamento prima della stipulazione dell'accordo. Dopo il 1976 si susseguono i tentativi di redigere un testo capace di raccogliere il consenso delle forze politiche e di individuare soluzioni soddisfacenti, soprattutto con riferimento ai temi sui quali le polemiche, le critiche e le perplessità sono sempre state più vivaci, che sono quelli degli enti ecclesiastici, dell'istruzione e del matrimonio. Il testo del giugno 1977 (cosiddetta seconda bozza) viene giudicato dai gruppi parlamentari

così poco rispondente ai principi indicati dal parlamento nel dibattito dell'anno precedente che il governo presieduto da Andreotti non ritiene opportuno presentano in parlamento; viene invece presentata al senato nella primavera del 1978 la cosiddetta terza bozza, con riferimento alla quale, dopo un dibattito svoltosi il 6 e 7 dicembre 1978, viene approvata una risoluzione con la quale si invita il governo ad avviare la fase conclusiva con la Santa sede, tenendo però «nel massimo conto» le osservazioni, i rilievi e le richieste formulate nel corso del dibattito. La quarta bozza (giugno 1979) non viene presentata al parlamento ma solo illustrata ai capigruppo; anche la quinta bozza (presentata dalla delegazione Gonella al presidente Cossiga nell'aprile 1980 e al presidente Fonlani nel maggio 1981) non viene trasmessa alle camere e lo stesso avviene per la cosiddetta bozza quinta-bis (predisposta, durante i due governi Spadolini, da un gruppo di esperti presieduto da Gaianiello) e per la sesta bozza (predisposta nell'aprile 1983 dalle delegazioni italiana e vaticana e presentata al presidente del consiglio Fanfani). 1110 dicembre 1983 Craxi è ricevuto in Vaticano dal papa e si diffonde la notizia che è imminente la conclusione della trattativa per la revisione dei patti del 1929. In un'intervista rilasciata al settimanale «Il Mondo» (9 gennaio 1984), alla domanda se non sarebbe più opportuna la soluzione dell'abrogazione del concordato, Craxi risponde: «Si è per lunghi anni negoziato per una revisione del Concordato. Giunti vicini a un possibile atto conclusivo, non mi sembrerebbe né saggio né logico cambiare strada». Non poche perpiessità suscita la notizia che, mentre il parlamento e l'opinione pubblica italiana ignorano il 9


testo della bozza della quale i giornali annunciano l'imminente approvazione, l'esame del testo è invece svolto dalla conferenza episcopale italiana. Alcuni parlamentari sollecitano il governo a sottoporre il progetto all'esame del parlamento e, per superare maggiori difficoltà (ma la maggioranza delle forze politiche non sembra propensa ad attribuire eccessiva importanza al problema), viene adottata una soluzione di compromesso: discutere in parlamento non il testo dell'accordo, bensi quello di una scheletrica e generica nota informativa di quattro pagine che riassumono «i precedenti», dichiarano <costruttiva e soddisfacente» l'ultima bozza (si ignora se questa sia la sesta o la settima), esprimono l'impegno di Craxi di riprendere e condurre «personalmente» la fase finale del negoziato ed enunciano alcuni principi cui il documento si ispirerà. Dall'esposizione in parlamento del presidente del consiglio si apprende che il nuovo concordato consisterà in una «cornice generale» di principi, con «opportuni rinvii ad ulteriori intese tra le competenti autorità dello Stato e della Chiesa cattolica» e che, ad avviso del presidente del consiglio, la «minore rzgidità» della nuova impostazione rappresenterà «l'inir<io di una fase di nuovi accordi Stato-Chiesa che risolvano l'antico ruolo di definizione teorica dei confini nella più ampia dimensione della libertà relziosa, trasformando i cosiddetti patti di unione in nuovi patti di libertà e di cooperazione». Il dibattito alle camere, svoltosi nei giorni 25-27 gennaio 1984, rivela il disagio di molti parlamentari, chiamati a svolgere le funzioni di indirizzo e di controllo politico che la costituzione attribuisce al parlamento senza potere conoscere il testo oggetto di valutazione, e si conclude con ordine del giorno 10

nel quale vengono approvati «gli intendimenti» espressi nelle dichiarazioni del presidente del consiglio circa il modo di proseguire il negoziato: al governo viene dato mandato di procedere nel negoziato e nelle trattative e di portarli a termine tenendo conto delle osservazioni e indicazioni emerse nel dibattito. Nei giorni successivi il presidente del consiglio riprende le trattative con la segreteria di stato, defmisce un progetto di accordo che sottopone al consiglio dei ministri il 17 febbraio 1984: il giorno successivo, a Villa Madama, Craxi e Casaroli firmano un accordo di modificazioni del concordato lateranense, un protocollo addizionale e un atto di nomina della commissione paritetica italovaticana per la riforma della legislazione concordataria in tema di enti e beni ecclesiastici, di interventi finanziari e di controlli dello Stato italiano sui patrimoni ecclesiastici. Come era già avvenuto nel 1929, il parlamento non ha avuto la possibilità di svolgere una previa valutazione del progetto di concordato destinato a disciplinare le relazioni tra Stato e Chiesa cattolica: il suo intervento ha dovuto, e dovrà, limitarsi ad una generica riflessione sulla materia concordataria. Questa prassi appare discutibile perché i rapporti tra Stato e confessioni religiose riguardano così da vicino gli interessi del cittadino, protagonista dell'esperienza giuridica nei regimi democratici, da non potere essere disciplinati in convenzioni di diritto internazionale, né mediante la procedura che caratterizza la ratifica di tali convenzioni; ed invece il recente dibattito in parlamento, come si è detto, si è svolto solo su generici ed evanescenti principi generali che delineano la cornice del sistema dei rapporti Stato-Chiesa, e lo stesso quasi


certamente avverrà in occasione del dibattito che seguirà la comunicazione dei principi sui quali ha convenuto di basarsi la commissione paritetica per la riforma della legislazione sugli enti e beni ecclesiastici. Chi consideri obiettivamente la procedura adottata nel corso del negoziato per la stipulazione dell'accordo di revisione, può difficilmente condividere la tesi secondo la quale, nella fase conclusiva del negoziato, si sarebbe consolidata la prassi della parlamentarizja ione della trattativa. Ed infatti, se una tendenza ad accentuare il ruolo del parlamento nel procedimento di revisione ha caratterizzato in passato la vicenda della riforma concordataria (soprattutto Andreotti nel 1971 aveva sottolineato l'anomalia della procedura rispetto a quella usuale di stipulazione dei trattati, rilevando che, nel caso del concordato, si tratta di norme che incidono nella stessa coscienza dei cittadini italiani), la decisione di Craxi di stipulare l'accordo prima che sia Stata disciplinata la materia dei beni ed enti ecclesiastici e di verificare il consenso del parlamento non su un testo preliminarmente fatto conoscere all'opinione pubblica ed al parlamento ma sui principi generali che delineano la cornice del sistema dei rapporti Stato-Chiesa induce a ritenere che l'intento di favorire il segreto ed il riserbo sui contenuti dell'accordo abbia fatto propendere per una prassi di presidenr<ia1ija<ione della trattativa, incompatibile con le regole costituzionali che presiedono al corretto rapporto tra esecutivo e legislativo. Nell'interpretazione delle norme giuridiche è il testo delle disposizioni che assume rilievo e non i principi ed i criteri ai quali si ritiene siano ispirate le disposizioni stesse: come ha osservato

l'on. Guerzoni alla camera, «la funzione di indirizzo e di controllo politico non si esercita su dei principi ma sugli atti di Governo, e quando questi atti si concretizzano in fatto o proposta a contenuto legislativo l'oggetto della funzione non riguarda linee o princìpi, ma formulazioni normative: testi o articoli di legge e semmai, dopo, i principi desumibili dagli enunciati normativix'.

LIMITI E NOVITÀ DELL'ACCORDO DI REVISIONE

Se ci si propone di esprimere una sintetica valutazione del nuovo accordo è possibile individuare alcuni punti più significativi. I rappresentanti dello Stato e della Chiesa cattolica non hanno condiviso la tesi di chi da anni sostiene l'esigenza del superamento del regime concordatario, ritenendo che quest'ultimo provochi un danno sia agli interessi della Chiesa (la quale non dovrebbe affidare la soluzione dei propri problemi all'ausilio del braccio secolare ma alla coscienza dei cattolici) sia a quelli dello Stato (il potere politico, rimanendo in vigore il concordato, è indotto a contare sull'appoggio della Chiesa, alterando il ritmo naturale della dinamica sociale). Il nuovo documento costituisce però una tappa verso il superamento del regime concordatano, nella prospettiva di una transizione a sistemi di relazioni tra società civile e società religiosa diversi dai tradizionali patti concordatari. E stato riformato il concordato ma non il trattato lateranense, mentre in quest'ultimo sono contenute disposizioni per le quali, nel periodo che ha preceduto la forma dell'accordo di revisione, sono sorte molte difficoltà di inter11


pretazione: ricordo in particolare l'art. 11 del trattato, che prevede l'esenzione degli enti centrali della Chiesa cattolica da ogni <(ingerenza» da parte dello Stato italiano, a proposito del quale è stato discusso il problema della posizione giuridica dello IOR nel diritto italiano. E stata sottolineata la configurazione dell'accordo di revisione come un patto «di libertà e di cooperazione», ma tali garanzie sono già contenute nella costituzione repubblicana e a tal fine il concordato (vecchio o nuovo) è del tutto superfluo. Il testo del nuovo concordato, all'atto della firma, è stato criticato in una dichiarazione della conferenza episcopale italiana, nella quale sono posti in rilievo gli «obiettivi limiti» dell'accordo e l'impegno della comunità cattolica a collaborare con la società civile anche in campi non toccati dalla normativa concordataria (promozione della vita e della famiglia, lotta contro le nuove emarginazioni, ecc.). L'art. I dell'accordo impegna la Repubblica italiana e la Santa sede (<alla rec:proca collaborazione per la prornoione dell'uomo e per il bene del Paese». E importante ed opportuno che la Repubblica e le confessioni religiose operino in uno spirito di reciproca concordia nella prospettiva di promuovere e soddisfare le esigenze dell'uomo e gli interessi della società; ma il principio di separazione fra la sfera religiosa e la sfera civile, contemplato nell'art. 7, lo comma, della costituzione, nella costituzione conciliare « Gaudium et Spes» ed ora nell'art. I dell'accordo di revisione, comporta il superamento della losica confessionale, sul cui fondamento in passato si è preteso talora di vincolare lo Stato al rispetto di un'etica religiosa. Una eventuale divergenza nelle valutazioni concernenti i valori etico-filosofici e quelli 12

etico-politico-sociali, ipotesi di divergenza che corrisponde alla natura pluralistica della società e dell'ordinamento italiani, potrà in futuro interpretarsi come un caso di violazione della norma concordataria? L'art. 13 prospetta la realtà di una «Chiesa nazionale italiana», rinviando a «nuovi accordi» tra lo Stato e la conferenza episcopale «ulteriori materie per le quali si manifesti l'eszgenra di collaborazione»; tali materie sono state elencate da Crixi: festività religiose con validità civile, titoli accademici ecclesiastici, assistenza spirituale nell'esercito, nelle carceri, negli ospedali, beni culturali di proprietà ecclesiastica, organizzazione dell'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche. Per la disciplina di queste materie spetterà al parlamento esercitare le funzioni che la costituzione gli attribuisce. La complessa materia degli enti e beni ecclesiastici, compreso il regime fiscale e quello degli impegni finanziari dello Stato, è affidata al lavoro di una commissione paritetica e dunque non è possibile esprimere in proposito alcuna valutazione, né poteva esprimerla il parlamento nel dibattito che ha preceduto la firma dell'accordo. Non è previsto nel concordato del 1984 il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, ma tale principio era decaduto in Italia sin dal 1948, con l'entrata in vigore di un testo costituzionale nel quale sono previsti i principi dell'indipendenza degli ordini civile e religioso (art. 7, 1° comma). In proposito è inoltre da considerare che, nei riguardi delle istituzioni ecclesjastiche e in materia di scuola, sono confermati gli obblighi finanziari dello Stato che, negli anni successivi al 1929, trovavano giustificazione nel principio della religione cattolica come religione dello


Stato italiano. In tema di insegnamento della religione cattolica viene affermato il principio fondamentale della libertà e volontarietà dei comportamenti individuali, con la tutela della piena libertà dei cittadini nell'esercizio del diritto di scegliere se avvalersi o meno dell'istruzione religiosa nelle scuole statali; ma in questa materia, nella quale non è stata accolta la proposta di prevedere un insegnamento della religione fuori dell'orario scolastico a spese della Chiesa ed è stato ribadito l'impegno dello Stato di assicurare l'insegnamento della religione cattolica nel quadro delle finalità del sistema scolastico italiano, i problemi più delicati devono ancora essere affrontati e risolti: programmi di insegnamento, modalità di organizzazione, criteri di scelta dei libri di testo, profili di qualificazione professionale per gli insegnanti. Ed è noto che, a tale proposito, si susseguono le proposte tendenti ad introdurre discipline obbligatorie riguardanti l'insegnamento di «conoscenza dei fatti relzgiosi» e di «cultura relzgiosa» nei vari ordini scolastici e che sempre più frequenti sono i giudizi amministrativi nei quali si contesta la configurazione del ritiro del nulla-osta ecclesiastico agli insegnanti di religione come atto insindacabile e dell'atto dell'autorità scolastica italiana come atto dovuto. L'eliminazione di ogni ingerenza statale nelle nomine dei parroci e dei vescovi per il legislatore italiano costituivano un obbligo costituzionale sin dall'entrata in vigore della costituzione, •che impegna le autorità dello Stato alla neutralità in materia religiosa e garantisce la piena libertà delle autorità confessionali nelle nomine a tutti gli uffici ecclesiastici. Il procedimento con il quale le corti d'appelh italiane dichiarano efficaci le

sentenze ecclesiastiche matrimoniali è stato discliplinato come il procedimento di deliberazione delle sentenze straniere previste dalla legge italiana (con alcune eccezioni, come quella che prevede il divieto del riesame nel merito della decisione ecclesiastica), ma gli equivoci, le incertezze e le contraddizioni sono in questa materia assai numerosi. Si è spesso sottolineata la novità del dissolvimento di ogni riserva di giurisdizione ecclesiastica e ci si è contemporaneamente richiamati al contenuto della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982, che aveva invece dichiarato infondata la questione di costituzionalità relativa alla riserva di giurisdizione riconosciuta ai giudici ecclesiastici in materia di matrimonio «concordatario»; si precisa, nel n. 4 del protocollo addizionale, l'esigenza di «tener conto della specficità dell'ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine»: ma questa ovvia indicazione è tuttavia ditale genericità da consentire, nella delicata materia matrimoniale, un ambito di interpretazioni talmente ampio da rendere al momento imprevedibile la disciplina che, nella concretezza dell'esperienza giuridica, riguarderà il tema del matrimonio. Secondo l'esplicita dichiarazione contenuta nell'art. 13 dell'accordo, le disposizioni in esso previste «costituiscono modifica<ioni del Concordato Lateranense accettate dalle due parti»: la precisazione è da valutare in rapporto al problema della copertura costiturionale degli accordi sui rapporti tra Stato e Chiesa cattolica e che, ai sensi del'art. 7, 2° comma della costituzione, non riguarda tutte le convenzioni tra l'Italia e la Santa sede, bensì i soli patti lateranensi. Ove dunque si dovesse ritenere che le innovazioni apportate al testo del concordato late13


ranense siano di tale portata da impedire di considerare l'accordo del 18 febbraio 1984 come una mera modificazione dei patti lateranensi, dovrebbe concludersi che tali accordi costituiscono un nuovo concordato o una convenzione di natura e contenuto sostanzialmente diversi rispetto al concordato precedente; in ambedue le ipotesi si avrebbe l'ulteriore conseguenza che la garanzia costituzionale prevista nel 1948 con riferimento al testo del 1929 non potrebbe riguardare il testo del 1984. Il parlamento potrebbe cioè modificare, con procedura legislativa ordinaria, quest'ultimo testo, anche senza il consenso della Santa sede, e non potrebbe considerarsi violata la norma contenuta nell'art. 7, 20 comma, della costituzione.

UN CONCORDATO AD USO POLITICO?

Le questioni che il nuovo concordato pone sono certamente di notevole rilievo: tuttavia forse nessuna delle più importanti questioni che riguardano oggi il problema religioso in Italia ha trovato soluzione con la stipulazione del nuovo accordo. Come si è osservato in queste rapide notazioni, la libertà della confessione cattolica nel nostro paese trova ampio riconoscimento nella costituzione italiana, per le garanzie della Chiesa nella vita sociale occorrono normali leggi di intesa con le autorità della Repubblica italiana, gli ambiti riguardo ai quali la comunità cattolica è impegnata a collaborare con la società civile sono molto più numerosi rispetto a quelli disciplinati nel nuovo concordato, tutta la materia dei beni ed enti ecclesiastici non è stata ancora definita e regolamentata, tutti i più importanti problemi relativi 14

all'insegnamento della religione, con la sola significativa eccezione del principio di facoltatività di tale insegnamento, e alla libertà della scuola verranno risolti solo in futuro, per la materia matrimoniale tutti i più rilevanti principi erano stati definiti dalla corte costituzionale con le sentenze nn. 16 e 18 del 1982 e l'invito a tener conto della «specficitiì dell'ordinamento canonico,> difficilmente potrà contribuire a rendere più chiare le soluzioni che troveranno attuazione nell'esperienza concreta. Ed allora, se la maggior parte dei problemi non hanno trovato soluzione con la stipulazione dell'accordo di revisione, se l'aspetto più significativo e positivo di tale accordo è quello di avere formalmente sanzionato l'abrogazione delle dispozioni illiberali e anacronistiche contenute nei patti del 1929 e sostanzialmente cadute con l'evoluzione della società democratica e della comunità ecclesiale e con le modificazioni intervenute negli ordinamenti dello Stato e della Chiesa cattolica, se la collaborazione Chiesa-Stato al servizio della promozione umana non è affidata alle formali dichiarazioni contenute negli accordi di vertice, bensj all'impegno e alla responsabilità di individui e gruppi che agiscono nella globalità dell'esperienza sociale, con tutta la ricchezza della dinamica rappresentata da fatti, istituzioni, ideologie, v'è da chiedersi se il recente accordo tra Stato e Chiesa, più che un avvenimento di eccezionale valore storico, non rappresenti piuttosto un'occasione abilmente utilizzata per il conseguimento di contingenti utilità politiche; uno dei tanti compromessi, concordatari o di altro tipo, pattuiti con l'intento di controllare il processo di crescita della società e di sottrarre il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa ai


mutamenti della volontà, popolare: un intento destinato però all'insuccesso, perché il problema delle relazioni tra società civile e società religiosa da molto tempo ormai è un problema di com-

petenza della vita individuale e sociale, anziché una questione che possa trovare un'idonea regolamentazione nella stipulazione di patti tra Stato-ente e Chiesaistituzione.

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Una novità nella gestione della politica monetaria: il finanziamento anticipato del Tesoro di Maria Teresa Salvemini

1. Le prospettive di lenta discesa dei tassi di interesse, con cui si è aperto il 1984, apparivano legate essenzialmente al processo di riduzione dell'inflazione in atto, e perciò tali da toccare soltanto i tassi di interesse nominali. Una più consistente discesa, che portasse anche ad una riduzione dei tassi reali, appariva, all'inizio dell'anno, ancora incerta. Le previsioni di finanza pubblica per il 1984 erano infatti ancora molto provvisorie, perché in gran parte legate a misure di politica di bilancio, o ad accordi sulla politica dei redditi, ancora da definire. Appariva chiaro, pertanto, che al mantenimento di tassi di rendimento elevati in termini reali la Banca d'Italia continuava ad affidare sia l'obiettivo di contenere la dinamica della domanda di credito, sia quello di esercitare una pressione sul Governo, sul Parlamento e sulle forze sociali, perché assumessero comportamenti coerenti con gli obiettivi dichiarati. Una significativa riduzione del tasso di sconto, capace di accelerare il movimento al ribasso dei tassi bancari e dei rendimenti offerti dal Tesoro, richiedeva insomma che si rafforzassero le aspettative di riduzione dell'inflazione. La chiusura dei conti pubblici per il 1983 non aveva portato novità di rilievo rispetto alle attese. La finanza pubblica 16

è rimasta caratterizzata da questi fatti. La crescita delle entrate tributarie, seppure particolarmente forte, non è sufficiente a fronteggiare la crescita delle uscite. Il tasso di crescita della spesa, pur meno alto che nel 1982, si colloca comunque sempre molto al di sopra del tasso di inflazione, segnando un ulteriore allargamento della quota pubblica nell'economia (e non è solo la spesa per interessi il fattore determinante di tale dinamica, anche perché questa spesa è stata, nel 1983, un po' più bassa grazie allo spostamento da BOT a CCT che è avvenuto nella struttura del debito, il che ha consentito di spostare in avanti, sull'esercizio successivo, parte degli interessi). La crescita del debito continua a superare di molto la crescita del reddito nazionale, sicché il rapporto tra i due (comprendendo nel debito pubblico anche i debiti del Tesoro verso la Banca d'Italia) si colloca intorno al 78%. Il mercato dei titoli pubblici non sembra però molto influenzato da questi elementi, che in altri momenti provocano incertezze e nervosismo. Proseguiva, anzi, nella ripartizione complessiva del debito pubblico, la tendenza, già avviata da tempo, verso uno spostamento dai portafogli delle aziende di credito ai portafogli degli altri operatori.


Operazioni del Tesoro. 1983

Incassi Pagamenti di cui interessi

miliardi

tasso di varzarzone

160.911 233.701

+ 22,1 + 24,4

42.083

+ 27,4

* Incassi e pagamenti sono al netto delle partite meramente contabili 2. La decisione del decreto legge sulla scala mobile che il Governo ha preso dopo la non unanime conclusione del negoziato sul costo del lavoro è apparsa come il presupposto necessario perché Tesoro e Banca d'Italia potessero dare segnali più decisi in materia di riduzione dei tassi di interesse. La riduzione di un punto del tasso di sconto, attesa da qualche tempo anche in relazione ai livelli raggiunti dai tassi sul mercato, ha costituito conferma e rafforzamento del movimento di discesa già avviato. Essa è stata seguita dal consistente rialzo dei prezzi base dei BOT a sei e dodici mesi, il che sembra determinare una prima riduzione dei tassi reali. Il ritocco della prima cedola dei CCT (- 0,25%) e la riduzione degli importi addizionali garantiti ai CCT di varia scadenza rispetto al tasso di riferimento (cioè quello dei BOT a sei mesi) hanno conferito completezza alla manovra. L'interrogativo che è sorto all'indomani di queste decisioni riguardava la possibilità di proiettare ancora in avanti la tendenza alla riduzione dei rendimenti. Tre elementi facevano propendere per una risposta positiva: il livello ancora sufficientemente elevato dei tassi reali in relazione all'inflazione corrente; le attese per un ulteriore rallentamento dell'inflazione; il fatto che con le offerte di

titoli appena annunciate, che presentavano rendimenti più bassi di quelli raggiunti dal mercato, il Tesoro sembrava incoraggiare le aspettative di rialzo dei corsi dei titoli. Nel mercato, le aspettative di discesa dei rendimenti sono state, infatti, all'inizio di febbraio, tanto forti e generalizzate da determinare alcuni fenomeni particolarmente interessanti. Il primo è che la domanda di titoli delle imprese non finanziarie è Stata alimentata non solo da riduzioni dei depositi, ma anche da utilizzi di credito bancario: in condizioni di maggiore concorrenza dopo l'abolizione del massimale (dei limiti quantitativi, cioè, al credito erogabile dalle banche), anche i tassi attivi si sono portati, per alcuni prenditori, al di sotto dei rendimenti dei CCT, il che ha favorito questa condotta. Il secondo è che aziende di credito di minori dimensioni hanno acquistato titoli utilizzando anche i propri conti interbancari attivi; ne è derivata una modifica nella distribuzione della liquidità bancaria, e l'emergere di tensioni legate a difficoltà di articolazione della liquidità stessa. Ancor più interessante è il fatto che nel suo insieme il sistema ha espresso un volume di domanda addizionale di titoli superiore alla liquidità di cui disponeva. Ed è questo il fatto nuovo da segnalare: si e così venuto a realizzare un finanziamento antic:pato del Tesoro. Nel passato, ed in particolare prima del cosiddetto (<divorzio» tra Tesoro e Banca d'Italia, la spesa del Tesoro, strutturalmente in disavanzo, si alimentava utilizzando il credito della Banca Centrale; veniva così creata la liquidità che poi veniva assorbita attraverso le vendite di titoli sul mercato. Nel primo trimestre dell'84, invece, il procedimento è stato inverso: 17


il mercato si è procurato presso la Banca Centrale la liquidità necessaria all'acquisto di titoli del Tesoro, prima ancora che il Tesoro spendesse. Si tratta di un sistema più vicino a quello degli altri paesi, e che va valutato positivamente dal punto di vista dell'evoluzione verso mercati più efficienti anche in Italia. La Banca d'Italia ha chiaramente mostrato di favorire questo finanziamento anticipato del Tesoro, attraverso facilitazioni all'indebitamento del sistema bancario verso la Banca d'Italia. La riduzione del tasso di sconto ha avuto infatti un significato assai più che meramente indicativo, poiché ha toccato appunto il costo del rifinanziamento; la modifica introdotta nel sistema delle penalizzazioni per ricorsi reiterati all'anticipazione è apparsa orientata anch'essa a non scoraggiare chi intenda operare attivamente in questa chiusura anticipata del circuito di liquidità del Tesoro. 3. Alcune delle preoccupazioni emerse in relazione al funzionamento del nuovo sistema di finanziamento del Tesoro si sono rivelate fondate. Nella situazione di forte dipendenza del sistema bancario dalla Banca , d'Italia, determinata dagli spostamenti nei portafogli privati da depositi a titoli, dal finanziamento anticipato del Tesoro da parte delle tesorerie bancarie e dal soddisfacimento integrale, per molti inatteso, della domanda di CCT all'inizio del mese, il mercato ha avvertito una prolungata carenza di liquidità e si è chiesto se ad essa non fosse da attribuire un significato di mutamento, in senso restrittivo, della politica monetaria. I segnali provenienti dal Tesoro - Buoni biennali al 14%, BOT invariati, ma dopo il ritocco di metà mese, riduzione della prima cedola dei CCT - non 18

sembravano, è vero, convalidare questi timori. In realtà, pur nell'incertezza degli indicatori economici di fondo - dollaro e tassi americani, prezzi interni e internazionali, ritmo e caratteristiche della ripresa congiunturale - non esistevano elementi che facessero pensare al ritorno a orientamenti più restrittivi di politica monetaria. Un'interpretazione possibile della condotta della Banca Centrale sembra allora questa: il raggiungimento degli obiettivi di politica monetaria si avvale ormai, venuto meno il massimale, soprattutto di un controllo fermo e giornaliero della liquidità bancaria. Questo pone in difficoltà le aziende di credito - strette fra tassi interbancari in ascesa e tassi attivi in flessione - e ne limita le possibilità di crescita; ma è proprio a questa situazione tendenzialmente restrittiva che è affidata dalle autorità monetarie la possibilità di realizzare, senza correre eccessivi pericoli, la stessa manovra di discesa dei rendimenti. In questo quadro, un ruolo decisivo è affidato proprio alla possibilità di realizzare sul mercato il finanziamento anticipato del Tesoro. Un rafforzamento di questa linea emerge nell'accordo sperimentale, appena annunciato, fra la Banca d'Italia e le maggiori banche, che impegna queste ultime a domandare BOT in asta per una quantità che ecceda almeno del 50% il proprio fabbisogno. Con questa iniziativa le banche, e domani anche gli altri intermediari, hanno la possibilità di dar vita ad un effettivo mercato secondario dei BOT. Finora ciò è stato reso impossibile dall'ammontare della intermediazione operata dalla Banca d'Italia, a prezzi regolati su quelli del mercato primario, e dall'eccessivo sviluppo delle operazioni temporanee di impiego con la stessa Banca centrale. Si tratta dunque di un


passo assai importante verso la creazione di un effettivo mercato dei titoli. L'esperienza di un sistema fortemente indebitato verso la Banca d'Italia, e perciò dipendente assai più strettamente dai flussi di liquidità provenienti dal Tesoro, riporta alla luce l'importanza di un portafoglio di titoli a breve, ovvero mette in evidenza una prima conseguenza della politica di allungamento della vita del debito: la minor liquidità di un portafoglio di CCT. Nei giorni di stretta della liquidità, né l'alto grado di negoziabilità dei CCT, connesso allo spessore raggiunto da questo mercato, né la clausola di rendimento variabile, hanno completamente protetto gli operatori dal rischio di perdite in conto capitale. Per i BOT, data la presenza ravvicinata di un'importante contropartita (il Tesoro, che ogni mese rinnova tra il 10 e il 20% dello stock) la «liquidabilita senza perdite» appare una garanzia assai più certa. Qualora poi la Banca Centrale dovesse intervenire sul mercato come acquirente a titolo definitivo, i titoli più brevi sarebbero senz'altro preferiti. 4. In conclusione, nel primo trimestre del 1984 appare portata a compimento l'operazione ((divorzio» tra Tesoro e Banca Centrale. Tale operazione, iniziata nel 1981, attiene essenzialmente ai modi con sui si attua la politica monetaria, e non ai contenuti, più o meno restrittivi, di tale politica. Tuttavia è indubbio che essa ha consentito alla Banca Centrale, nel triennio 1981-1983, una autonomia assai maggiore di ciuella

di cui godeva in precedenza quando l'offerta di moneta era fortemente e direttamente condizionata dal fabbisogno del Tesoro. Tuttavia, nella misura in cui è possibile segnalare alcuni «eccessi di manovra» in senso restrittivo, questi sono stati certamente dovuti alla difficoltà di gestire il nuovo sistema, basato essenzialmente sulla possibilità di collocare sul mercato, al momento dell'emissione, tutti i titoli necessari al finanziamento del Tesoro (dedotta la quota di finanziamento monetario che la Banca intendeva liberamente assicurare). Di fronte alla perdurante attitudine del mercato ad impiegare la liquidità tra un'asta e l'altra, il timore di un eccessivo finanziamento monetario ha portato, in alcuni momenti, ad una rincorsa in salita tra i tassi offerti dal Tesoro e quelli offerti dalla Banca Centrale.. Con il finanziamento anticipato del Tesoro da parte del mercato, questo rischio di «eccesso di restrizione» dovrebbe venir meno, anche perché tale finanziarnento anticipato è assai più facile a realizzarsi con tassi stabili, o in discesa, che con tassi in salita. Nello stesso tempo, l'indebitamento in essere del sistema creditizio verso la Banca Centrale assicura a questa delle leve di controllo assai più efficaci che nel passato e consente, mi sembra, che una manovra quantitativamente meno intensa possa raggiungere gli stessi obiettivi desiderati. Obiettivi che non possono che essere, in questo momento, ancora restrittivi, in termini di dimensione del credito all'economia.

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Spunti e appunti

Democrazia deregolata di S. R.

D Ha ragione Baget Boo quando dice che stiamo vivendo nel nostro paese una «fase costituente obiettiva», che avrebbe per tema fondamentale la ridefinizione delle regole del funzionamento delle istituzioni? (G. Baget Bozo, La grande crisi della «mediazione», in «La Repubblica», 20 aprile 1984). Ne dubito. E vero, per un verso, che guardando le cose nella prospettiva della competizione politica fra i partiti, le novità nel cosiddetto «quadro politico» sono molte e i concreti fattori di movimento sono maggiori che in altri momenti dell'ultimo quarantennio; ma, per altro verso, le possibilità che da ciò nascano delle nuove regole di funzionamento delle istituzioni sono poche. Almeno nelfuturo prossimo. La ragione è che proprio per lo scongelamento dei rapporti di forza fra i partiti risulta molto difficile la convergenza degli interessi nella definizione delle nuove regole. Ne è un segno molto evidente lo stato del dibattito sui problemi istituzionali quale si svolge fra gli uomini di partito. Se si volesse usare un parametro morale e ricorrere all'invettiva moralistica si potrebbe parlare di impudica incoerenza. Un'incoerenza che rzguarda un po' tutti i soggetti della scena politica. Continuo è infatti l'ondeggiamento circa il rilievo dato o da dare alle questioni istituzionali, continua è l'incertezza sui principi. Ho l'impressione che la questione istituzionale sia tornata ad essere un insieme di argomenti: per loro natura intercambiabili 20

secondo le occorrenze della polemica o secondo le convenienze di parte, vere o presunte che siano. Naturalmente indignarsi o anche solo meravzgliarsi di tutto ciò è sbagliato. In verità si tratta di un episodio della vecchia storia dei rapporti fra politica e istituzioni. Ilfatto è che se c'è incertezza, se c'è ondeggiamento circa le questioni del funzionamento delle istituzioni essi dipendono solo in parte dal gioco dell'ipocrisia e della disinvoltura, che pure c'è e talora in misura intollerabile. Dipendono dai modi indeterminati con cui cambiano i rapporti di forza fra i partiti. Dipendono per esempio dal fatto che, pur cambiando umori e preferenze dell'elettorato, il sistema di rappresentanza non ha valorizzato népoteva valorizzare questi cambiamenti. Da oltre dieci anni l'entità del voto fluttuante è in Italia pari a quello degli altri paesi occidentali, ma gli effetti che pur ci sono non riescono a produrre trasformazioni szgnificative soprattutto in termini di maggiore efficacia della direzione politica. Cose note che anche su queste pagine sono state analizzate e dibattute. Avviene così che da dieci anni, cioè dai primi segni di un declino DC, c'è nell'aria la possibilità di un nuovo «quadro politico». Ma il polline sembra sterile o non trova fiori da fruttficare, e rimanendo per l'aria si trasforma in smog. Chissà per quanto. Ettore Rotelli nel saggio Elementi di geometria politica italiana 1982 (in Riforme istituzionali e Sistema politico,


Ed. Lavoro, Roma 1983), ha descritto con penna chiara e ironica le ragioni per cui il superamento del nostro sistema bloccato può essere un processo di lunghissima durata. Si immagini che dovrebbe essere risolto o attraverso drastiche decisioni dell'elettorato (da cui derivi magari la scomparsa di qualche partito o venga conclusa la storica competirione fra comunisti e socialisti o accadano altre cose di questo tipo che sono ben più che voto fluttuante) ovvero attraverso un accordo, appunto, per la riforma del sistema di rappresentanr<a. Un accordo che per qualcuno potrebbe essere suicida e che perciò non sembra alle porte (a questo proposito Mario Caciagli su questo stesso numero è però più ottimista). Ci sarebbe l'altra via: quella dell'iniziativa politica che sappia forzare le situarioni e spingerle a traguardi precisi. Ma la sconfitta tragica di Moro ha pesato e pesa sulla classe politica. In conclusione, la ragione di partito torna a regnare senza concedersi divagazioni. Se, dunque, Baget Bojo vede in atto un processo verso nuove regole di funzionamento delle istituzioni non credo che potremo vederle operare presto. Perché è difficile per i partiti fare i propri calcoli di convenienza. Per ora c'è qualche fattore nuovo di deregolamentaione. La nuova fase calda dei rapporti fra Partito comunista e Partito socialista sta diventando causa di un uso delle regole ancor più occasionale del solito: per esempio, nei rapporti fra Governo e. Parlamento. Insomma è vero che il sistema politico a egemonia democristiana ha operato sulla base di un metodo di mediazione che aveva bisogno, come nota Baget, di un contesto istituzionale lasso e deregolamentato, ma il declino democristiano (in ogni caso bene ammortirjato dal sistema di rappresentanza nel 1983 e poi firmato nelle europee del 1984) non sigrnfica per ora maggiore facilità nell'identificare e stabilire nuove regole. D I partiti hanno subito nel corso degli anni

Settanta un forte processo di delegittimaione. I comportamenti collettivi dell'ultimo decennio hanno avuto nei partiti un oggetto specifico di critica. All'insegna di quello che si può dire un nuovo bisogno di politica. In un certo senso la socialirr<a<ione alla politica che i partiti di massa avevano assunto come proprio compito storico nel dopoguerra raggiungeva il suo apogeo proprio attraverso la rivolta verso la politica come gestione esclusiva dei partiti. Senonché la fiammata ideologica di quei comportamenii collettivi ha fatto si che il primato della politica trovasse una nuova edirione demagogica e devastante. La metafora del «ritiro della delega» ha perso la sua verità nella vampata nichilista del rifiuto delle regole e delle istituzioni. I valori della politica come coscienza difini collettivi si convertivano in disvalori. Rimane però vero che la politica, intesa appunto come arione dettata dalla coscienza difini collettivi, in nessun modo è competenza esclusiva dei partiti. I quali, da una parte, sono nel circolo vh?ioso del «processo di autofertilijaione» della propria organijaione (Giuseppe Guarino ne descrive con efficacia la dinamica: Superdimensionamento della classe politica e disfunzioni del sistema in «Quaderni Costituzionali», dicembre 1983) e perciò stanno sempre sulla china che porta alle corporazioni chiuse. Dall'altra, hanno un grande bisogno di occupare le istituzioni, ma poi non ce la fanno a gestirle. E chiaro allora che il rapporto fra società e istitzqioni va riportato a nuovo, va depurato dalle sedimentaioni e incrostaioni abusive della politica di partito. Gli «utenti» delle istituzioni e gli «addetti» a/lavoro delle istituzioni (e qui non mi riferisco solo alle macro-istituZioni politiche ma al complesso dell'amministra<ione pubblica) devono sapere come ritrovare direttamente il senso politico dell'azione collettiva che è affidata agli organi collettivi della società, cioè appunto alle 21


istituzioni. Gli «addetti» devono essere consa- czparvi 'come tali', il rapporto tra esiti della pevoli degli obiettivi delle istituZioni in cué parteczpaione e risorse ad essa destinate deve operano, gli «utenti» devono essere attreati essere avvertito come un rapporto favorevole. per controllare che gli obiettivi siano raggiun- Come è ben noto, le condiZoni in cui quel ti. Ci vorranno nuove idee e progetti seri, ma rapporto è favorevole non ricorrono tanto la democraZia è certo matura per un aggior- facilmente. La parteczpaione costa, e costa namento approfondito della filosofia politica tanto di più a chi ha meno risorse in generale. che ha dominato nell'ultimo quarantennio atE gli esiti della parteczpaione sono spesso traverso l'egemonia del sistema dei partiti. deludenti. Sia perché la posta in gioco è spesso poco elevata (altrove, genitori poco soddisfatti EI C'è più d'un punto da chiarire prima di di un insegnante possono rapidamente indurne intraprendere una progettazione democratica l'allontanamento: è possibile e si vuole arrivache sia paradzgma critico dei tentativi di re a questo nel nostro Paese?). E poi perché riforma istituZionale governati dai partiti. la logica binaria del sistema democratico mal Uno è quello della mitologica «partecipazione si adatta a tenere conto di eszgene particolapolitica». E una mitologia da abbandonare. ri: vi saranno sempre minoranZe, anche Perché ciò sia necessario, a parte ogni altra notevoli, insoddisfatte. Inevitabilmente (o consideraZione teorica, Io ha spiegato con buon no?) la logica politico-partitica e/o l'assenteisenso Michele Salvati (Il «dilemma di In- smo verranno a dominare le istanZe rappregrao» in «Sisfo», n. 1, 1984). Egli dice: sentative, così frustrando lo scopo vero della «Affinché la 'partecipazione politica' sia uno parteczpaione di base». strumento per adattare la macchina ammini- Abbandonare la «parteczjiaione politica» strativa pubblica alle eszgene dei fruitori di non szgnfica però rinuncia ad un «rinnovo un servilio (e comunque dei cittadini coinvolti delle deleghe» e ad un «controllo sull'uso delle nell'ambito considerato) costoro devono essere deleghe» (tanto per rimanere, mi si perdoni indotti a partec:parvi come tali ancor prima per questa volta, a metafore spiccie). Come di sentire l'atto di partecipazione come e- ritirare, rinnovare e controllare le deleghe è spressione di un orientamento politico -partiti- anzi uno dei temi principali, oggi, del pensieco. Ed affinché possano essere indotti a parte- ro e dell'aZione politica in democraZia.

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Quale amministrazione per <depenalizzare»? di Luigi Giampaolino

Il supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale del 23 gennaio 1984 ha pubblicato la circolare della Presidenza del Consiglio sulle sanzioni amministrative. Il fatto è inconsueto e va segnalato. Ma non tanto per l'imprevisto rilancio dell'uso della circolare come strumento di indirizzo e coordinamento quanto perché esso costituisce l'ultimo capitolo di uno degli avvenimenti legislativi più interessanti degli ultimi anni: la cosiddetta depenalizzazione dettata dalla legge 24 novembre 1981 n. 689 contenente «modifiche al sistema penale» ed in particolare norme in tema di sanzioni amministrative. Ad esse è dedicato il capo I della legge che si presenta come un complesso normativo di buona fattura tecnica con il quale, per la prima volta nel nostro ordinamento, viene data una disciplina generale e completa delle «sanzioni amministrative». Ne sono configurati gli elementi fondamentali e di esse è regolato anche il procedimento di applicazione e le modalità di tutela contro le stesse. Va detto subito che la configurazione delle «sanzioni amministrative», quale risulta dalla normativa dell'81, è essenzialmente penalistica. La disciplina prevista è tutta modellata, infatti, sulla figura del reato. Sono previsti i peculiari

principi di diritto penale della legalità, del divieto di analogia e di quello dell'irretroattività; per la stessa capacità di intendere e di volere sono richiamati i «criteri indicati nel codice penale» e ugualmente si deve dire a proposito dell'elemento soggettivo per il quale è riportata la norma di cui all'art. 42 del codice penale. Di ispirazione penalistica sono, poi, le discipline riguardanti il concorso di più persone nella violazione amministrativa, per le quali è prevista la solidarietà; la intrasmissibilità agli eredi dell'obbligazione del pagamento della somma di danaro in cui la sanzione consiste; il cumulo giuridico tra le varie sanzioni; i criteri per l'applicazione delle sanzioni rifacentesi espressamente all'art. 133 del codice penale. Insomma, si tratta una disciplina che viene a configurare il potere della pubblica amministrazione di irrogare sanzioni come potere punitivo i cui caratteri sono legislativamente ripetuti e fissati per legge ed alle cui esigenze di legalità e garanzia si pone particolare attenzione. Eppure, da una legge che aveva, essenzialmente, nella sua prima parte, un intento di depenalizzazione e che, per la prima volta nel nostro ordinamento, fissava principi generali in tema di sanzioni amministrative, ci si attendeva una 23


ben diversa disciplina e, a monte, una ben diversa scelta di politica legislativa. Volendosi, infatti, operare una reale «depenalizzazione», una sottrazione, vale a dire, di talune fattispecie sanzionatorie dall'area del diritto penale ed il loro inserimento (o, meglio, come appresso si vedrà, reinserimento) nell'area del diritto amministrativo, occorreva abbandonare il campo del diritto punitivo della pubblica amministrazione e riportarsi in quello a questa più proprio, vale a dire in quello del potere amministrativo, e di quella peculiare manifestazione di tale potere che è l'autotutela. Sin dall'inizio del secolo (ma le indagini storiche in proposito autorevolmente condotte arrivano sino all'epoca dei Comuni), è stato individuato, in capo alle pubbliche amministrazioni, non solo un potere amministrativo di autotutela nell'esercizio del quale esse comminano talune sanzioni volte all'indiretta realizzazione dei pubblici interessi dei quali esse sono titolari, ma anche un potere punitivo, un potere, cioè, di irrogare pene o - come si usa dire - «situazioni afflittive» volte a reprimere talune condotte o a prevenire taluni pregiudizi. E mentre dell'anzidetto potere (amministrativo) di autotutela non si è mai dubitato, per il potere punitivo della Pubblica Amministrazione non sono mancati dubbi e preoccupazioni; talora si è addirittura giunti a negarlo, in quanto pericoloso per la tutela dei diritti del cittadino. E per questi motivi che, sempre all'inizio del secolo, anche a seguito dell'autorevole intervento di A. Rocco, quasi tutti gli illeciti amministrativi, denominati anche contravvenzioni e sino ad allora parte del diritto amministrativo (il diritto amministrativo penale, come lo chiamò L. Raggi in una celebre prolusione), furono trasferiti nel diritto 24

penale del quale divennero una parte, il diritto penale amministrativo (Libro III del codice penale, «delle contravvenzioni in particolare»). Tuttavia, la presenza di un diritto amministrativo sanzionatorio ma non penale non fu dimenticata del tutto nel nostro ordinamento e dalla nostra dottrina. E si deve allo Zanobini l'opera più lucida e completa in materia (Le sanzioni amministrative, 1924) nella quale si dimostra come le sanzioni amministrative sono del tutto distinte, ed anche intimamente diverse, da quelle penali. Esse, affermò Zanobini, sono espressione di un potere amministrativo-esecutivo della pubblica amministrazione, manifestazione di un diritto soggettivo di cui la pubblica amministrazione dispone per la realizzazione di quegli interessi di cui è titolare. Orbene, allorché in questi ultimi anni si è inteso dare attuazione ad una politica di «depenalizzazione», la strada da seguire era inversa a quella che era stata intrapresa e percorsa negli anni Venti e Trenta. Occorreva, cioè, riportare nell'ambito della struttura dei poteri della pubblica amministrazione le «sanzioni amministrative», configurarle realmente come espressioni, seppure indirette, della potestà di amministrazione. Non già, quindi, principio di legalità discendente dall'art. 25 della Costituzione con i connessi corollari dei divieti dell'irretroattività e dell'analogia, ma riserva di legge ex art. 23 della Costituzione, e, soprattutto, riferimento ai principi di buon andamento e d'imparzialità, di cui all'art. 97. Non già, poi, capacità di intendere e di volere intesa in senso naturalistico ed alla stregua del diritto penale, ma capacità giuridica e di agire quali previste per assumere obbligazioni e con gli adattamenti derivanti


dai rapporti di diritto pubblico. Lo stesso elemento soggettivo si sarebbe dovuto descrivere diversamente essendo sufficiente nell'illecito propriamente amministrativo• la semplice volontarietà della condotta. Del tutto diversa, infine, da quella prevista nella legge n. 689 del 1982 avrebbe dovuto essere la disciplina del caso di concorso di persone nell'illecito, della trasmissibilità o meno dell'obbligazione, del concorso di più illeciti. Ma nulla di tutto questo è stato fatto. Come s'inserisce su questo orientamento la circolare della Presidenza del Consiglio del dicembre scorso? La circolare ha fissato «i criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative» nonché taluni ((canoni modali» di previsione dell'illecito amministrativo. Si tratta certamente di un provvedimento di buona fattura e costituisce un'iniziativa non usuale nella nostra esperienza amministrativa. Essa è indirizzata a tutti gli uffici legislativi dei Ministeri con l'intenzione di coadiuvare le scelte che essi devono compiere nell'importante attività., loro commessa, di predisposizione di provvedimenti normativi. I criteri che, tuttavia, la circolare suggerisce (criterio della proporzione, criterio della sussidiarietì) presuppongono la scelta e le qualificazioni penalistiche delle quali innanzi si è detto. Non poteva essere altrimenti, dal momento che si tratta di un provvedimento applicativo della legge. C'è però da dire che proprio l'inaspettato intervento di indirizzo e di coordinamento della Presidenza non può avere altro effetto che di confermare e rafforzare i criteri penalistici della legge 689. Il sistema rimane quello che innanzi si è

delineato: la sottrazione di taluni tipi di illeciti al giudice penale e la loro attribuzione all'autoritì amministrativa; la configurazione di tali illeciti come illeciti essenzialmente penali; la tutela dei soggetti lesi da tali provvedimenti sanzionatori davanti al giudice ordinario. Dunque siamo di fronte a un sistema di sanzioni penali irrogate da pubbliche amministrazione nei confronti delle quali è dato ricorrere al giudice civile. Il sistema, di conseguenza, esalta il potere punitivo della pubblica amministrazione e non giì, come al contrario era auspicabile, il suo potere amministrativo sanzionatorio fondato sull'autotutela, che è un potere di realizzazione indiretta dei pubblici interessi ai quali essa è deputata. Con la legge 24 novembre 1981 n. 689, pertanto, non si è operata, nel hostro ordinamento, una vera «depenalizzazione», un trasferimento cioè di taluni illeciti dal campo della tutela penale a quello della tutela amministrativa, ma, piuttosto, si è creduto di trovare un rimedio per l'organizzazione giudiziaria: si è alleggerito il carico del giudice penale, garantendo la tutela giurisdizionale attraverso il giudice civile. In conclusione un quesito: dov'era la pubblica amministrazione nell'iter formativo di questo complesso di norme? Si può ben dire che, al pari di altre vicende istituzionali, la vicenda qui richiamata manifesta, entro i suoi limiti, un'assenza della pubblica amministrazione e, per essa, del potere esecutivo nella predisposizione e nell'attuazione di una strategia per la tutela di quei pubblici interessi che proprio alla sua titolaritì sono affidati.


Sistemi elettorali e consolidamento della democrazia: le esperienze tedesca e italiana a confronto di Mario Caciagli

Un osservatore italiano tende in genere a dare un giudizio positivo del sistema politico tedesco. Dirò di più: negli ultimi anni il sistema tedesco è stato molto apprezzato e molto invidiato dai politologi italiani e ancor più da molti uomini politici, che vi vedono pregi e qualità che mancherebbero al nostro. Alcuni di questi ammiratori italiani pensano che il sistema elettorale, in particolare la sperr/elaiisel, la clausola di sbarramento, abbia svolto un ruolo determinante e lo propongono anche da noi. Ma in che misura i caratteri positivi del sistema tedesco dipendono dal sistema elettorale? Per trovare una risposta sensata a quest'interrogativo conviene partire da una ricognizione dei principali aspetti del sistema elettorale tedesco.

UNA PROPORZIONALE SPERSONALIZZATA

La scelta dell'attuale sistema elettorale è segnata, in Germania, da un'esperienza drammatica: la difficile esistenza e la tragica fine della Repubblica di Weimar. Durante l'esilio, ci furono intellettuali e politici propensi ad attribuire al sistema elettorale proporzionale la maggiore responsabilità della crisi e del crollo della democrazia parlamentare. Il sistema elettorale di Weimar era 26

infatti ispirato ad una amplissima proporzionalità, proprio per volontà dei partiti, in primo luogo il socialdemocratico, che volevano applicato il principio della rappresentatività di tutte le opinioni esistenti nella società. Il sistema era stato addirittura inserito nella Costituzione e prescritto non solo per il Reichstag, ma perfino per le assemblee regionali. La conseguenza fu che nel Reichstag furono sempre rappresentati molti partiti di modeste dimensioni che dettero vita a coalizioni deboli e di breve durata. Ma le cause della crisi di Weimar sono molto complesse, ed il sistema elettorale non fu certo fra le prime. Nel 1941, in uno studio divenuto famoso per chi si occupa di questi problemi, un politologo emigrato negli Stati Uniti, che era stato vicino al partito cattolico del Zentrtim e collaboratore del cancelliere Brùnig, accusò invece il sistema proporzionale di essere stato l'origine di tutti i mali della Repubblica (Hermes, Democracji or Anarchy?, University of Notre Dame Press, South Bend 1941). Ricordo la tesi radicale di Hermes perché essa esercitò notevole influenza sugli ambienti dai quali sarebbe uscito il nuovo partito della CDU, destinato chiaramente ad avere un ruolo decisivo nella Germania del dopoguerra.


Anche intellettuali e politici socialdemocratici, in particolare quelli che avevano trascorso l'esilio in Gran Bretagna, erano decisamente orientati verso un sistema elettorale maggioritario. Le cose andarono però diversamente. I padri fondatori della Repubblica scelsero infatti, alla fine, un sistema proporzionale. Non dimenticarono comunque la lezione di Weimar: evitarono perciò di inserirlo nella Costituzione e, soprattutto, vi applicarono correttivi che impedissero l'eccessiva frammentazione del sistema partitico. Al fine di garantire la stabilità dei governi, recepirono nella stessa Costituzione procedure come il voto di sfiducia costruttivo e l'elezione del Cancelliere da parte del Bundestag. Negli anni immediatamente successivi alla sconfitta, non ci fu alcun dibattito nella Germania occupata e divisa. Si vennero costituendo però situazioni di fatto, create dalle stesse potenze occupanti. Gli alleati, infatti, quando autorizzarono le prime elezioni municipali e regionali, fecero adottare quasi dovunque sistemi proporzionali. Non solo, ma distribuendo in abbondanza licenze per la ricostituzione dei partiti, posero le premesse per l'affermarsi del multipartitismo. La decisione sul sistema elettorale per il primo Bundestag spettò naturalmente ai partiti tedeschi, che la presero sulla base dei rapporti di forza in quel momento consolidati e quindi sulla base dei rispettivi, specifici interessi politici. Soltanto la CDU, nata dall'incontro di esponenti del mondo cattolico, del liberalismo protestante e dei vecchi partiti conservatori, restò fedele al sistema maggioritario. Lo fece in coerenza con le posizioni teoriche dei suoi esperti e in vista di finalità dichiarate, quali la formazione di maggioranze stabili e

omogenee e la garanzia di un rapporto diretto fra elettori ed eletti. Ma lo fece anche per una propria preoccupazione politica, quella di poter più facilmente aggregare intorno alle personalità dei candidati un elettorato che prevedeva molto disomogeneo. Esattamente opposte erano le esigenze della SPD, che doveva si contrapporsi allo schieramento di centro-destra, ma voleva al tempo stesso distinguersi nettamente dai comunisti. Un sistema maggioritario avrebbe posto la SPD di fronte al difficilissimo problema dei rapporti con la FDP. Le idee dei profughi di Londra (fra i quali 011enhauer) furono messe da parte: l'incertezza che ancora rimase spinse la SPD a sostenere la non costituzionalizzazione del sistema elettorale. La SPD trovò facilmente alleati convinti nella sua battaglia per la proporzionale nei partiti minori, dal liberale al comunista, al rinato Zentrum, tutti giustamente preoccupati per la loro sopravvivenza. La Commissione per la legge elettorale del Parlamentarischer Rat(l'organo che funzionò da Costituente) approvò quindi una soluzione di compromesso, nata dall'accordo fra la SPD e i partiti minori, contro la netta opposizione della CDU. Nessuno dei partiti si battè però per la proporzionale esasperata della Costituzione di Weimar, ma si elaborò un sistema che contenesse elementi sia della proporzionale che del maggioritario, un sistema che impedisse la moltiplicazione dei partiti, ma al tempo stesso salvaguardasse le minoranze. Il sistema elettorale del Bundestag venne definitivamente fissato dalla legge del 1956 che apportò alcune modifiche alle precedenti del 1949 (quando furono fatte le scelte di fondo) e del 1953. 27


Il sistema tedesco è una combinazione fra la' proporzionale con il voto di lista per partito e il sistema maggioritario con il voto al singolo candidato in collegi uninominali. Lo spirito del sistema è quello di recuperare il principio decisionista del maggioritario, ma garantendo la logica rappresentativa della proporzionale. Una metà dei deputati (il 60% nella legge del ' 1949) vengono eletti direttamente in collegi uninominali a maggioranza relativa. L'altra metà (solo il 40% nel 1949) vengono eletti in liste regionali di partito bloccate (Landeslisten): ai fini della distribuzione dei mandati ai singoli partiti vengono conteggiati i voti dell'elezione di lista a livello nazionale (fino al 1956 a livello regionale). Il numero dei seggi spettanti ad ogni partito viene stabilito con criterio proporzionale (sia pure con l'applicazione della regola d'Hondt). Nel caso che un partito abbia conquistato nei collegi uninominali più seggi di quelli assegnati dalla distribuzione percentuale, può mantenerli nel Bundestag (si chiamano Uberhangsmandate). Ogni elettore ha due voti a disposizione. Il primo voto è per il candidato (di partito) del collegio uninominale; il secondo voto è per la lista regionale (di partito). Sono i secondi voti che, computati a livello nazionale e poi nuovamente divisi a livello regionale, decidono quanti deputati spettano ad ogni partito in Parlamento. Il sistema tedesco assicura nei fatti una forte proporzionalità: la quota dei seggi è molto vicina al valore percentuale della quota dei voti. E risultato cioè un sistema accentuatamente proporzionale, e ciò contrariamente a quanto talvolta si sostenga nella stessa letteratura internazionale. 28

Ci sono naturalmente dei correttivi alla proporzionale, quali la regola d'Hondt e gli Oberhangsmandate, già ricordati, ma soprattutto la Sperrklausel, la clausola di sbarramento, la quale esige che un partito ottenga almeno il 5% dei voti a livello nazionale o almeno 3 seggi nei collegi uninominali per poter partecipare alla distribuzione dei mandati parlamentari. La clausola venne resa più rigida proprio nella legge del 1956, mentre nel 1953 era ancora sufficiente un solo mandato uninominale e nel 1949 il 5% era sufficiente a livello regionale.

DUE SISTEMI POLITICI A CONFRONTO

Passando ora a parlare dei sistemi politici, quello tedesco può essere fissato nei punti seguenti. 1. Un sistema multzpartitico con un numero di partiti che si è però andato riducendo e che può far parlare di pluralismo limitato. Dopo le prime elezioni del 1949 i partiti rappresentati al Bundestag erano 10, e il loro ampio spettro ripeteva le divisioni di Weimar. Ma nel 1953 il numero dei partiti scese a 6 e si profilò già la tendenza che avrebbe portato alla drastica riduzione a 3, quei 3 . partiti (CDU/CSU, SDP e FDP) che dal 1961 al 1983 hanno formato il sistema tedesco. Solo nel 1983 un quarto partito, i Verdi, è riuscito ad entrare nel Bundestag. Si può ritenere che la clausola del 5% decisamente inasprita nel 1953 e nel 1956 - abbia influito sulla scomparsa di alcuni partiti minori, appunto di quelli che non riuscirono a superarla nel 1953. E che la stessa clausola, insieme al sistema d'Hondt, abbia scoraggiato la presentazione di nuove formazioni. Ma è anche vero che quello del 1953 è


stato definito (<il miracolo tedesco». A questo miracolo della semplificazione del sistema partitico contribuirono sicuramente altri fattori, oltre ad una più selettiva normativa elettorale. Fra questi fattori politici, e non tecnici, basterà ricordare: la definitiva affermazione della CDU/CSU come grande partito moderato e conservatore, capace di aggregare quasi tutto l'elettorato di centrodestra; il peso raggiunto da una personalità come quella del primo cancelliere, Konrad Adenauer; i successi della ricostruzione e l'avvio del miracolo economico; le scelte ormai definite in campo internazionale con la collocazione del nuovo Stato nel fronte europeo e occidentale. Quelle tedesche del 1953 furono veramente elezioni «critiche», nel senso che gettarono le basi della fisionomia e della dinamica del sistema tedesco per i decenni successivi. Ma il sistema elettorale fu soltanto una delle variabili influenti. Una notevole stabilità dei governi. Dal 1949 al 1983 si sono avuti nella Repubblica federale 14 governi; la loro durata media è stata di 2 anni e 10 mesi. La possibilità di formare governi stabili e duraturi è dipesa forse dal sistema elettorale, ma anche da meccanismi istituzionali quali il voto di sfiducia costruttivo e il potere di investitura che deriva al cancelliere dal fatto di essere eletto dal Bundestag. Questi stessi meccanismi favoriscono un forte indirizzo programmatico dei governi e la capacità politica di attuarlo, anche se si tratta pur sempre di governi di coalizione dove sono possibili conflitti interni e fratture. Conflitti interni hanno portato al mutamento delle coalizioni nel corso della legislatura nel 1966 (costituzione della Grosse Koalition fra CDU/CSU e SPD) e nel 1982

(rovesciamento delle alleanze e costituzione del governo CDU/CSU-FDP al posto del governo SPD-FDP). Un'autonomia delle istituzioni dai partiti di grado soddisfacente, pur ricordando che anche la Repubblica federale è una democrazia dei partiti. Può darsi che a ciò contribuisca un poco il sistema elettorale, perché i1 primo voto va a delle personalità che possono difendere una loro autonomia rispetto agli apparati e l'elettore percepisce questo ruolo almeno per alcuni candidati. Ma resta indiscusso anche nella Repubblica federale il monopolio dei partiti nella scelta dei candidati, una scelta che si esercita di solito a livello locale. Il potere di scelta dell'elettorato sulle future coalizioni e sul colore dei governi è stato garantito anche dal sistema elettorale. L'elettore tedesco sa, con sufficiente sicurezza, quale tipo di governo contribuirà a far nascere con il suo voto. Lo stesso elettore è in grado di decidere sull'alternativa dei governi, com'è avvenuto nella svolta del 1969 e nella conferma del 1983. Il meccanismo dell'alternanZa appare un altro dei pregi del sistema tedesco. Forse è superfluo dire, a questo punto, che al consolidamento della Repubblica federale tedesca hanno contribuito fattori di tipo diverso e di carattere generale, quali la eccezionale crescita economica e il diffuso benessere, la concordia sulla collocazione internazionale, la struttura federale, l'identificazibne dei cittadini in alcune grandi personalità politiche. Il consenso al sistema democratico è andato costantemente crescendo. Il modo del suo funzionamento, i cui elementi essenziali ho provato ad elencare, costituisce una delle cause principali ed al tempo stesso la prova 29


migliore della solidità della democrazia nella Repubblica federale. A questo buon funzionamento ha contribuito anche il sistema elettorale, ma certamente perché si è trovato dentro ad una combinazione favorevole di fattori. Il suo ruolo non può essere sottovalutato, ma nemmeno può essere eccessivamente esaltato. Il quadro italiano è molto più complesso. Ciononostante è possibile riprendere, almento parzialmente, l'elenco degli elementi caratterizzanti sopra proposto con riferimento al caso tedesco. E però importante sottolineare che questi stessi elementi assumono nel caso italiano un segno negativo, almeno agli occhi dei critici italiani più severi, ma anche a quelli degli stranieri, com'è accaduto di nuovo recentemente (si veda il saggio di Seton Watson Italj', in V. Bogdanor D. Butler eds., Democracji and Elections, Cambridge University Press, 1983, pp. 110-121). 1. Un sistema mzdt:partitico che si è mantenuto, anzi si è accentuato fino ad un pluralismo esasperato. E aumentato il numero dei partiti rappresentati alla Camera dei deputati: il minimo fu toccato nel 1953 (soltanto 9 partiti), il massimo è stato raggiunto, a parte il 1946, proprio nel 1983 (i partiti alla Camera sono ora 13). Proprio nell'ultimo decennio sono arrivati in parlamento nuovi partiti di estrema sinistra e vecchi e nuovi partiti regionali. E fuori di dubbio che questo fenomeno è reso possibile dalla grande proporzionalità del mecanismo elettorale. Bisogna però sottolineare che i partiti che sono presenti ininterrottamente dal 1948 e che hanno contato sia per «potenziale di coalizione» sia per «potenziale di ricatto» (secondo la terminologia 30

di Sartori, Parties and Partji iystems, Cambridge University Press, 1976) sonò «soltanto» 7: i 4 partiti di centro (Democrazia cristiana e i tre laici minori, il repubblicano, il socialdemocratico e il liberale), i 2 di sinistra (il socialista e il comunista) e uno di destra (il neofasciSta Movimento sociale). Una forte instabilità dei governi, dovuta ai continui dissensi fra i partiti delle coalizioni, o fra le correnti di uno stesso partito (in primo luogo della DC). Dall'avvento della Repubblica (1 96) al 1983 si sono susseguiti in Italia 42 governi. La durata media di un governo è stata di 10 mesi. Questo fenomeno certamente negativo (al quale si somma quello della lunghezza delle crisi di governo: fino a quàttro mesi!) non può essere che in parte attribuito al sistema elettorale. Fra le cause di ordine istituzionale la prima è il grande potere concesso alle assemblee. Ma le crisi di goYerno hanno ormai tutte origine extraparlamentare. Esse vengono decise dai partiti. Questi ultimi si sono sempre riservati ampia libertà di azione e tutti i tentativi di stabilire alleanze durature (ad esempio, «patti di legislatura») sono andati falliti. Tutti i governi italiani sono stati naturalmente governi di coalir<ione. Nel 1948 la DC conseguì la maggioranza assoluta dei seggi, ma De Gasperi preferì anche allora una maggioranza organica con i partiti laici minori. La prima alleanza fu il «centrismo» (1948-1958), vennero poi il «centro-sinistra» (19621972), l'<unità nazionale» (1 976-1979), il «pentapartito» (1979 in poi), intercalate da anni di confusione e di incertezza. Asse di tutte le coalizioni è stata ininterrottamente la DC, anche se dal 1981 ha ceduto qualche vòlta la carica di Presidente del Consiglio dei ministri. Cinque


dei partiti «storici» hanno avuto l'occasione di entrare nel governo, due ne sono stati finora sempre esclusi (PCI e MSI) anche se hanno per brevi periodi sostenuto dall'esterno alcuni governi. Un grande potere degli apparati di partito sulle istituzioni, ciò che viene chiamato, con l'implicazione di un giudizio negativo, partitocrazia. Governi, assemblee elettive a tutti i livelli, enti pubblici vengono controllati dai partiti. Sono i partiti che scelgono i candidati alle cariche pubbliche. Nel caso in cui un potere è stato concesso all'elettore (il voto di preferenza) l'uso che ne è stato fatto ha dato pessimi risultati. L'inesistente potere di scelta dell'elettorato sulla formazione dei governi. L'elettore italiano non sa chi può essere il futuro capo del governo. E non sa nemmeno con chi si alleerà il partito al quale è andato il suo voto. L'impossibilite di un'alternativa fra una coalizione progressista e una moderata toglie un altro potere di decisione all'elettore italiano. Finora tutti i governi della Repubblica hanno dovuto comprendere la DC ed escludere il PCI. Questa regola non scritta del sistema italiano («conventio ad excludendum») sta forse per cadere. In ogni modo, la mancanza di alternativa è dipesa molto più da essa che dalla proporzionalità del sistema elettorale. Il voto dipreferena è divenuto terreno di scontro fra i candidati e le correnti che li sostengono. Le correnti, molto forti e numerose nella DC ma che hanno dilaniato anche gli altri partiti (con la sola eccezione del PCI), erano all'origine prevalentemente «ideologiche», ma sono poi divenute tutte di «interesse». Sono cioè in realtà «gruppi di potere» e hanno trasformato il voto di preferenza in oggetto di scambio clientelare fra

elettore e candidato. Le quote di voti di preferenza sono molto più alte nell'Italia meridionale, perché in quelle regioni prevale la cultura politica del clientelismo. Tutti questi elementi hanno inciso sull'efficienza del sistema politico italiano. In fasi cruciali si è temuto che la crisi di efficienza potesse provocare una radicale crisi di legittimità. Dal alcuni anni a questa parte è stato messo sotto accusa proprio il sistema elettorale e il suo eccesso di proporzionalità. Però il sistema elettorale non può essere giudicato come il solo responsabile dei problemi di funzionamento della democrazia italiana. Ad esempio, per quanto riguarda alcuni degli aspetti sopra elencati, il meccanismo dell'alternanza non si è realizzato perché al Partito comunista - che poteva essere l'asse di una coalizione progressista - è stato fino ad oggi interdetto, per ragioni ideologiche e di politica internazionale, di entrare a far parte del governo (ho già ricordato questa «conventio ad excludendum»). Ad esempio, la grande instabilità dei governi è dipesa non soltanto dai troppi partiti delle coalizioni, ma anche dalle divisioni e dai conflitti fra le correnti e i gruppi di potere del partito maggiore, il democristiano. E si possono, d'altra parte, sottolineare alcune funzioni positive, ai fini del rafforzamento di una democrazia giovane e fragile, che il sistema elettorale ha svolto, nei primi decenni della Repubblica italiana. Un sistema maggioritario avrebbe perpetuato lo scontro frontale fra lo schieramento conservatore e quello di sinistra, aggravando le divisioni e le tensioni del paese che nel 1947-48 erano divenute molto forti. Il sistema pro31


porzionale, invece, ha consentito la lenta evoluzione dello stesso Partito comunista che ha abbandonato le stalinismo e il settarismo del dopoguerra. Ha consentito al Partito socialista di conquistarsi uno spazio autonomo sempre più grande fra il centro e la sinistra. Ha consentito la sopravvivenza di alcuni piccoli partiti storici, come il Partito repubblicano, che hanno svolto un importante ruolo di cerniera fra gli schieramenti. La presenza di molti partiti in parlamento ha prodotto un continuo bar&aining che, se ha assunto molti aspetti deleteri del compromesso, ha fatto sopravvivere la democrazia italiana in periodi molto difficili grazie ad equilibri latenti più solidi dei rapporti puramente formali. Il sistema proporzionale, inoltre, ha raggiunto il suo scopo principale: garantire rappresentanza alle molte espressioni politiche di una società disomogenea e frammentata come era quella italiana del dopoguerra, e quindi fare restare fedeli e di integrare nella democrazia larghi settori della popolazi9ne.

I

PROGETTI DI RIFORMA ELETTORALE IN ITALIA

Da alcuni anni il sistema elettorale italiano è sottoposto a severe critiche e viene solitamente inserito nella lista delle riforme istituzionali che dovrebbero migliorare la qualità della democrazia. Ma se oggi è possibile mettere in discussione il sistema elettorale e pensare seriamente a modifiche, ciò può avvenire, a mio avviso, proprio perché i cleavages e le tensioni più gravi della società italiana sono state superate nel recente passato. Proprio perchè c'è ormai un consenso generale verso il sistema democrati32

co, perché sono diminuite le distanze ideologiche fra i cittadini e tra le classi sociali, perché sono diminuite le distanze fra gli stessi partiti, si può porre oggi in Italia, senza provocare traumi, la questione di dare maggiore dinamica e maggiore efficienza alle istituzioni con delle correzioni al sistema elettorale, s'intende verso una minore proporzionalità. Nel 1953 un tentativo in questa direzione (l'unico in quarant'anni) non ebbe successo. Trent'anni dopo tutte le forze politiche sono disposte a prendere in considerazione progetti di riforma elettorale. Nel parlamento eletto nel 1983 si è costituita una commissione di deputati e di senatori per affrontare il tema delle riforme istituzionali, fra le quali quella del Sistema elettorale. E naturale che ogni partito penserà ai propri interessi, ma il fatto che ci sia un certo accordo sulle intenzioni è già molto significatiYo. E fortemente cresciuta negli ultimi anni in Italia la domanda di maggioranze solide ed omogenee, di governi stabili e dotati di capacità decisionali. E (quasi) completamente legittimata la prospettiva dell'alternanza: cioè l'ingresso del PCI al governo e la collocazione della DC all'òpposizione. L'obiettivo dell'efficienza è divenuto primario proprio perché si vuole che possa funzionare meglio una democrazia finalmente accettata da tutti e consolidata come regime. Ciononostante, l'efficienza, nella cultura politica italiana, tanto delle élites quanto delle masse, dovrà essere sempre combinata con la parteci paione. Per questa ragione il sistema proporzionale resterà ancora solidamente radicato nel sistema italiano e sarà possibile portare ad esso solo alcune modifiche non essenziali.


Anche nella Repubblica fedérale tedesca, dove i problemi dell'efficienza e della stabilità dei governi sembrano essere risolti, il valore della partecipazione è molto forte e sembra assicurare lunga sopravvivenza al sistema elettorale proporzionale. Soltanto verso la metà degli anni Sessanta i propositi di modifica del sistema elettorale divennero attuali e vennero dibattuti fra le forze politiche. Era l'epoca della Grosse Koalition e la CDU/CSU cercò di far accettare al suo partner (la SPD) il suo antico obiettivo del sistema maggioritario, e ciò al fine di eliminare il terzo partito, divenuto elemento di disturbo, la FDP. Ma quelle intenzioni non ebbero alcuna conseguenza e, dopo il buon funzionamento del meccanismo dell'alternanza nel 1969 e nel 1982 grazie proprio alla posizione e alle scelte della FDP, non mi pare che qualcuno discuta ancora in Germania del sistema elettorale. Quindi le stesse proposte di riforma sono state formulate, in ambedue i sistemi, secondo le intenzioni e secondo le ralazioni dei partiti fra di loro. Si ripete oggi ciò che era già avvenuto nella scelta iniziale del sistema elettorale, al

momento della rifondazione dell'uno e dell'altro sistema politico. E dunque vero che sono gli attori politici e gli equilibri delle loro forze che determinano il tipo di sistema elettorale. E sono le tradizioni, cioè la cultura politica e l'esperienza storica, che indirizzano e condizionano le scelte fondamentali. E inevitabile che sia così: i casi dell'Italia e della Germania federale confermano un fenomeno generale. Ed è giusto che sia così, perché il sistema elettorale non è una variabile indipendente rispetto alle tante altre variabili che possono influire sulla solidità di una democrazia. Il sistema elettorale interagisce con il mutamento economico e sociale, con il funzionamento delle istituzioni, con il sistema dei partiti, con gli atteggiamenti delle élites e dei cittadini. E soltanto nel quadro di questa interazione che si può tentare di interpretare i meriti e i demeriti di un sistema elettorale, ma sempre caso per caso e a seconda del momento storico. E senza dimenticare che questa interpretazione è difficile e complessa: come dimostrano le polemiche che continuamente rinascono.

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