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Aer,, Xli e. 65 - luglio-setterebre 1984

trimestrale - sped. in abb. postale gr. IV/70

queste Istituzioni Lo stato dell'Unione negli anni di Reagan Sergio Ristuccia Introduzione

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Stefania Boscaini L'evoluzione del potere presidenziale nel primo mandato di Ronald Reagan Con questo fascicoloe con quello che segue, dedicato ai programmi spaziali, riprendiamo il discorso sulle istituzioni americane che in varie, ma forse ormai lontane, occasioni è stato fatto con questa rivista. Sono tanti gli aggiornamenti da fare e gli appunti di questo corsivo servono ad una rapida panoramica che integra l'analisi compiuta da Stefania Boscaini nell'articolo pubblicato nelle pagine che seguono. L'opinione diffusa che la presidenza di Ronald Reagan costituisca una svolta nella recente storia americana è stata vagliata e discussa sotto due profili: di breve e di lungo periodo. Nel breve periodo, cioè guardando alle vicende che hanno immediatamente preceduto l'avvento di Reagan, il suo successo è apparso una risposta agli eventi di un decennio e più, caratterizzato da una serie di sconfitte o «immolazioni» presidenziali ad opera dell'opinione pubblica. Dalla decisione di Johnson di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali del 1968, preso nella trappola del Vietnam, all'insuccesso di Carter nel 1980 è stato un seguito di presidenti che escono dalla scena per un rifiuto secco dell'opinione pubblica o quantomeno per un forte sconcerto popolare (e delle costituencies che contano) nei loro confronti: in ragione di gravi

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MAGGIOLI EDITORE


colpe (il culmine è raggiunto da Nixon con lo saindalo Watergate) o anche soltanto per evidenti difetti. Sheldon Wolin iniziava un bilancio critico, pieno di suggestioni, della presidenza Carter (Fhe State of Union, «The New York Review ofBooks», 1978, n. 8) citando Shakespeare del Giulio Cesare (1, 3): «Quando tutti questi portenti accadono insieme gli uomini non dicano "eccone le ragioni, si tratta di cose affatto naturali ' poiché, come io credo, si tratta di cose gravi di conseguenze per i luoghi verso cui si indirizzano». In qualche modo la nazione americana (o meglio: quella parte della popolazione che, registratasi nelle liste elettorali, è andata a votare) sembrò scegliere Reagan perché alla ricerca di un presidente, cioè di un leader o magari di un padre o di un grande sciamano. Contro Carter, il presidente sconfitto alla fine del suo primo mandato, pesarono tante cose: dalla sconfitta di Teheran alle antipatie di molti gruppi sociali tradizio-

naln2ente favorevoli ai democratici (gruppi che videro in lui, con progressivo distacco, una prassi politica da conservatore del Sud), alla sua mancanza di charme. Ma soprattutto pesò la mancanza di risultati: grave per un presidente che aveva creduto di applicare alla presidenza uno stile e un ruolo manageriali (prendendo troppo sul serio l'idea che l'attivismo manageriale fosse un valore popolare e la rforma dell'Amministrazione, per la quale fu varato un President's Reorganization Project, fosse una questione di tutti e non soprattutto della classe dirigente). E fra i risultati mancanti o fra quelli decisamente cattivi c'era una stagflation che s'era impadronita dell'economia americana senza che questa riuscisse a giocare tutti i vantaggi di essere economia dominante (sul significato di questi vantaggi rinvierei al mio articolo Verifiche del sistema americano: supremazia mondiale e potere interno pubblicato nel f4scicolo n. 8, 1976).

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Certo, anche Carter aveva vinto contro un presidente in carica, Gerald Ford, e forse soltanto perché, già allora, la nazione era in cerca di un presidente e intanto, non sapendo che altro fare, metteva alla porta il presidente che non aveva convinto. Ma nel '76 Carter come in tutti i casi in cui si vota per mettere fuori qualcuno piuttosto che a favore di qualcuno, era un presidente dichiaratamente assunto in prova. Il margine del suo successo fu assai modesto. La chiave di lettura qui suggerita potrebbe tuttavia concedere troppo agli aspetti minori della «svolta» storica reaganiana. Essa cede all'interpretazione della presidenza in termini di decisività dell'immagine, di importanza del transfert cittadini-presidente per via delle doti di «grande comunicatore» e così via. Il fatto è che la presidenza Reagan ha rilievo storico da quando ottiene successi. E li ottiene in un modo soprattutto: ripristinando la capacità di cogliere, e in un certo senso di ottimizzare, i vantaggi che gli Stati Uniti traggonq dall'essere economia dominante. (Il che non significa affatto, come altra volta chiarito, avere successi in politica estera: sul piano delle specifiche iniziative politiche il bilancio reaganiano non sembra particolarmente felice).

do della politica americana governata dalla preferenza per l'<interesse privato» come opposta alla preferenza per l'azione pubblica», secondo una terminologia che egli riprende da Albert O. Hirschmann. Tale periodo inizierebbe con l'ultima fase della presidenza Nixon e comprenderebbe sia la presidenza Ford che quella Carter. Insomma Reagan avrebbe raccolto nel modo pii'i efficace l'orientamento che i suoi predecessori, pur essendone partecipi, non avevano saputo valorizzare. In questo senso, il primo mandato di Reagan rappresenterebbe un momento assai interessante nella storia americana: «egli ha modificato la direzione della vita americana, lanciato una controrivoluzione contro il New Deal, articolato nuovi fini nazionali, e restaurato la fiducia nelle capacità di operare del sistema politico». (Per questo Schlesinger ritiene che Reagan meglio avrebbe fatto a non ricandidarsi per non mettere a repentaglio il successo del primo mandato). Per intendere il profilo più sostanziale e le ragioni del successo della presidenza Reagan alla fine del primo quadriennio non basta tuttavia inquadrarla in una fase storica piì ampia, in accordo con l'andamento ciclico della politica americana che lo storico della «presidenza imperiale» ha teorizzato. Anzi se il ciclo storicofossefondato semplicemente o prevalentemente sui meccanismi della riproREAGAN E IL RIALLINEAMENTO DEGLI duzione generazionale dei valori eticoELETTORI politici della leadership nazionale, come Schiesinger suggerisce, non riterrei In una prospettiva pii'i lunga una prima quest'ordine di idee molto distante ipotesi interpretativa da considerare e dall'altro, innanzi accennato, che e atquella di A rthur Schiesinger jr. (vedi il tento soltanto agli aspetti pii'i esteriori dibattito The Election and After in della leadership (pii'i esteriori ma non « The New York Review of Books», 14 meno importanti se è vero che la politica agosto 1984). Egli ritiene che la presiden- non è il regno della razionalità). za di Reagan sia il culmine di un perno- Un secondo ragionamento interpretati95/3


vo volge invece a cogliere le radici sociali della presidenza Reagan e i legami fra certe trasformazioni della società americana e l'assestamento che hanno subìto gli schieramenti politici. Dunque, quanto alle radici sociali il fenomeno piii sottolineato è quello della crescita progressiva della classe media, soprattutto intesa in termini di fascia di reddito e quindi di consumi individuali. Proprio la politica delle presidenze democratiche ha ingrossato questa classe media, che poi negli anni della crisi economica è andata maturando un atteggiamento difensivo e conservatore (o, per tenere conto delle sfumature delle parole, conservative). In parte collegato a questo fenomeno, in parte promosso dalla complessa dinamica economica del continente nordamericano c'è poi il dislocamento nel Sun Belt di un nuovo baricentro economico. In questo slancio del South e del West si sarebbero rotti gli equilibri politici di un tempo che, per esempio, consentivano al partito democratico di collegare su scala nazionale le costituencies «liberali», «progressiste» ed «etniche» del Nord con quelle «conservatrici» del Sud. Il Sun Belt sarebbe ormai definitivamente repubblicano con effetti, crescendo la sua popolazione anche per via di immigrazione interna, sullo stesso sistema elettorale. (C'è chi ipotizza la possibilità per i repubblicani di avere la maggioranza nel collegio elettorale presidenziale pur con la maggioranza relativa del voto popolare, mentre per i democratici una sicura vittoria nel collegio elettorale vorrebbe la maggioranza assoluta del voto popolare). Nel discutere di queste trasformazioni avvenute negli allineamenti elettorali i politologi si sono spesso orientati a trarne un elemento in pii'i per la tesi del declino del ruolo dei partiti. Altri, ed autorevoli 4/96

come James L. Sundquist (Whither The American Party System? Revisited in «Political Science Quarterly», inverno 1983-84), traggono dall'evoluzione del voto durante gli ultimi anni la convinzione che sia invece in ripresa lo schema di distinzione fra i partiti che fu tipico del New Deal: cioè la distinzione basata sugli orientamenti e sull'ideologia in materia economica. Nel New Deal i democratici furono bravi a coltivare ed utilizzare il voto del Sud populistaconservatore, ma l'innovazione principale che avrebbero introdotto nella dialettica fra i partiti è la centralità della politica economica e sociale. Cio non significa affatto che i democratici possano facilmente trovare motivi di successo prossimo venturo, ma certo - a parte gli scenari un po' catastrofici per l'economia americana a cui indulgono i «liberals» o «neo-liberals» - qualche quesito sorge dalle stesse caratteristiche di successi economici pit'i recenti. Nel dibattito, già citato, svoltosi sulla «New York Review of Books» Walter Dean Buriham ricorda che sì gli Stati Uniti si stanno dimostrando assai bravi nel creare posti di lavoro, «ma una gran parte di questi sembrano essere del tipo che rimpiazza un job da 23,5 dollari ad ora con un job da 6,5 dollari ad ora in qualche altra linea di lavoro». Che significherà in futuro, in termini sociali e politici, questa massa di nuovi occupati a reddito (relativamente) basso? Il quesito mi pare sia legittimamente da porre ai previsori. LA REAZIONE NEO-CONSERVATRiCE

C'è una fiorente e ricca letteratura americana sui presidenti e sui «presidential game». Si tratta di un gioco certamente complesso e affascinante. Tanto piì che


la progressiva affermazione dei mass media ha portato ad insistere sui misteri e sulle magie delle tecniche della manipolazione e a sopravalutare il peso che nelle lunghe campagne presidenziali ha l'abilità di costruire l'ximmagine» del Presidente. Credo che abbia però ragione Arthur Schlesinger jr. quando, nella prefaiione all'edizione italiana di Presidenza imperiale (pubblicata per iniziativa della Fondazione Adriano Olivetti dalle Edizioni di Comunità, Milano 1980), così ha scritto a proposito degli sforzi dell'amministrazione Carter di «ricostruire l'immagine» del Presidente: «La premessa fondamentale era che gli americani fossero un branco di stupidi. I metodi pubblicitari sono senza dubbio efficaci quando si tratta di vendere cereali per la prima colazione o lassativi. Ma la pubblicita funziona solo quando le scelte sono futili. Sono poche le persone che danno una grande importanza alla scelta da fare tra i cereali per la prima colazione o tra i lassativi. Non si possono impacchettare e vendere con la stessa disinvoltura anche i presidenti; ed era improbabile che tutta la magia di Madison Avenue potesse convincere gli elettori che il presidente era diverso da ciò che era. Il successo di un presidente deriva non dalla sua immagine, ma dai risultati che ha raggiunto». Ed infatti, seppure l'avvento di Reagan sia stato salutato e commentato come il successo di un uomo di spettacolo e di immagine e anche se poi egli si sia confermato un maestro nei rapporti con ilpubblico malgrado gaffes ricorrenti e impressionanti, mi pare che da tempo si sia cessato di insistere su questi aspetti del successo di Reagan. Quel che interessa sono le radici di questa presidenza nella soci età americana. Per questo si parla di rea-

ganismo. Su questo punto segnalo l'ampio articolo di Sergio Fabbrini sul «Mulino» (luglioagosto 1984) Il reaganismo tra governo e regime. Egli sostiene che il reaganismo ha una sua sostanziale novità nell'essere «una forma ideologica propria» che ha «rapporti di continuità e di diversità con la precedente tradizione conservatrice». LTalej'orma ideologica «ha i suoi tratti distintivi: a) nel fatto di essere riuscita a combinare filoni culturali diversi efino ad allora inconciliabili; b) nel fatto di essere riuscita a collegare quella combinazione con nuovi strumenti di organizzazione della mobilitazione politica». I filoni culturali messi insieme dall'ideologia neo-conservatrice espressa da Reagan sono, secondo Fabbrini, quattro: le teoriche sull'affaticamento della democrazia per eccesso di domanda sociale proprie della «overload theory» diffusa dalla Commissione Trilaterale (a cui Carterfu molto vicino), il liberismo nelle sue varie accentuazioni (dal monetarismo, alla teoria dell'offerta, alla teoria della deregulation), il tradizionalismo sociale, l'anticomunismo militante. Nel paese in cui, secondo molti sociologi, le ideologie erano morte, rinasce dunque l'ideologia efa da bussola alla Amministrazione e dà ad essa compattezza e respiro strategico. E sulla base di questa ricostruita ideologia lo schieramento neoconservatore promuove nuove forme organizzative quali i Political Action Committees che si muovono, fuori dei partiti, per specifici progetti, secondo la logica della issue politics, cioe dell'azione politica per singole questioni. In sostanza, il neo-conservatorismo al quale Reagan dà voce ed efficace rappresentanza si appropria di strumenti tipici delle diverse forme della militanza civile, per non dire della stessa militanza piìi spic97/5


catamente di sinistra. In questo senso, esso è unfenorneno maturo di reazione politica, se al di fuori della polemologia politica diamo al termine il significato proprio di un contrapporsi nella misura più ampia possibile agli orientamenti e ai modi di essere della società americana quale si è sviluppata sulla base dei principi della democrazia progressista, del Great Society liberalism, indulgente e permissivo verso i movimenti radicali. Dico un fenomeno maturo di reazione in quanto con Reagan lo schieramento repubblicano sembra dotarsi di un ampio strumentario di azione politica e non e più soltanto l'espressione di una maggioranza silenziosa. In realtà, che ci fosse nel paese una nuova e solida maggioranza repubblicana era stato dimostrato dall'allora giovane politologo Kevin Phillips prima della vittoria di Nixon nel 1968 (il suo libro The Emerging Republican Majority sarà pubblicato nel 1969). Maggioranza a forte caratterizzazione populista secondo l'accezione americana, cioè con forti componenti di piccoli imprenditori ma anche di classe operaia e soprattutto di classe media, quella in particolare del Sun Belt già in pieno sviluppo. In questa classe media molti sono i nuovi repubblicani in odio all'establishment liberale del Nord-Est che si era venuto identificando soprattutto con i democratici. E certo a questa anima populista lo stile reaganiano sarà più congeniale di quello di Nixon (scandalo Watergate a parte) data quella «vena bertoldesca» che caratterizza il personaggio Ronald Reagan come ebbe a dire il Presidente Spadolini dopo averlo incontrato per la prima volta nel Summit di Ottawa del luglio 1981. Dunque, si può parlare di un 'onda lunga conservative che si riconosce nel partito repubblicano. Il che spiega due fatti inte6/98

ressanti di questi ultimi anni. Il primo è la rinascita dell'immagine di Nixon che, a dieci anni dalle dimissioni a cui fu costretto dopo lo scandalo del Watergate, è riemerso sulla scena americana come rispettata figura di statista (In 10 years, Nixon the Pariah has become Nixon the Statesman: così ha intitolato il «New York Times» del 6 settembre). Il secondo è la notevole perdita di credibilità della stampa americana. Dopo le glorie del Watergate e del giornalismo investigativo ci sono stati molti errori (ben ricostruiti da Gianni Riotta su «Problemi dell'Informazione», numero di luglio. settembre 1984: La stampa americana e la fine del mito), con questo risultato finale: «la stampa sempre piu piegata nella sua corsa al successo, economico e di status, il pubblico che la considera sempre di piu un commercial senza alcuna funzione critica e la legione dei nemici dell'opinione pubblica, dal cerchio dei consiglieri di Reagan alle grandi corporations come la Mobil, intenta afar leva su ogni errore». Tuttavia un 'onda lunga repubblicana fortemente ideologizzata fa prevedere contraccolpi. Anche Phillips (mi riferisco sempre al dibattito della «New York Review ofBooks») condivide l'opinione che gli anni di Reagan possano suscitare una nuova militanza politica contraria ad un clima così accentuatamente di destra. Egli avverte però che per essere efficace questa militanza dovrà portare a votare la popolazione non registrata, quella che non ha mai ritenuto utile andare a votare (per esempio la popolazione nera e quella ispano-americana). Tutto ciò sempre che la politica economica dell'A m m inistrazione Reagan non abbia un successo duraturo e invece finisca per accentuare ulteriormente legià forti diseguaglianze della società americana.


S'l'Ai't UNI1'I iAISI I)LBII'ORI

A proposito della durata del successo della politica economica dell'Amministrazione Reagan nessuno fa previsioni precise, anche se vengono talora accennati scenari catastrofici. Finora, la prefessione degli economisti ha per lo più pronosticato insuccessi, ma i fatti hanno smentito molte previsioni. Irving Kristol, noto scrittore neo-conservatore, ha potuto scrivere sul « Wall Street Journal» (17 luglio 1984) che «la maggior parte degli economisti ignora la realtà». Dunque c 'è molta prudenza in giro. Il punto è come gli Stati Uniti continueranno a gestire i vantaggi della economia dominante. Finora l'Amministrazione Reagan è stata spregiudicata e piena d'inventiva nella gestione di questi vantaggi: che sostanzialmente si incentrano nel fatto di battere la moneta mondiale forte, la moneta che ha corso ovunque e in qualsiasi transazione piccola o grande. Il rialzo delle quotazioni del dollaro costituisce una vicenda che è divenuta assai popolare anche nel grande pubblico. Questa non è la sede per rincorrere cifre e stime congiunturali né per entrare nella discussione sull'economia americana. E utile però riprendere in ordine sparso alcuni spunti recenti che contribuiscono a ti-atteggiare il profilo della politica presidenziale. Dunque, da anni il dollaro è sempre pii forte. Con il dollaro forte sono natural. mente aumentate, e di molto, le importazioni americane. A scapito dell'industria nazionale? Non sembra: c'è stata un'alta utilizzazione della capacità produttiva interna. Segno che la domanda è molto aumentata. L 'impulso piii robusto alla domanda è venuto in realtà dal disavanzo pubblico (calcolato in oltre 180 miliardi di dollari per il 1984), di cui le ridu-

zioni d'imposta e la spesa militare sembrano le componenti piì attive. L'offerta di lavoro, come s'è accennato, è caratterizzata da nuova occupazione a redditi piiì bassi dell'occupazione che nel frattempo è stata ridotta in molti settori. C'è stata fra il 1983 e il 1984 una vera ondata di fusioni e acquisizioni di aziende. Secondo i dati di Citibank («Sound of Economy», maggio 1984) ci sono state nel 1983 circa 2500 operazioni difusione o acquisizione di aziende, il maggior numero dal 1974. Segno di riorganizzazione e di effervescenza proprie della ripresa nonché delle opportunità offerte dall'andamento della borsa. Ma il fatto nuovo dell'economia americana è che con la deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati finanziari internazionali e con gli alti tassi di interesse affluiscono sempre maggiori capitali esteri negli Stati Uniti. Se ne serve il Tesoro per finanziare, oltre che I 'economia, anche il proprio fabbisogno. Ilfavo. re che l'Amministrazione dimostra per questo accrescersi dell 'indebitamento verso l'estero viene considerato da molti, negli ambienti finanziari internazionali, come altamente rischioso (e quasi irresponsabile) per la stabilità stessa dei rapporti finanziari internazionali. Con un movimento giornaliero sul mercato USA dei cambi esteri chegià nell'aprile 1983 aveva raggiunto i 33,5 miliardi di dollari al giorno (nel 1977 era solo di 5 miliardi di dollari al giorno) si ritiene estremamente squilibrante la massiccia accumulazione di capitali a breve, per lo piì sotto forma di depositi bancari di non residenti, afronte di un'uscita di capitali per lo pii a lungo termine destinati a investimenti diretti. Ma il Tesoro americano, che attualmente è su1 punto di lanciare titoli federali destinati direttamente a stranieri, non pare molto -. 99/7


preoccupato dal fatto che gli Stati Uniti, per la prima volta dal 1917, possano diventare entro breve tempo debitori netti verso il resto del mondo. E la ragione è che gli Stati Uniti non prendono a prestito la valuta di un altro paese ma la propria. Come dice un economista di Citibank (in «Sound ofEconomy», settembre 1984) «gli Stati Uniti saranno debitore netto ma in dollari, cioè una valuta che, ovviamente, possono tassare o possono stampare, se necessario, per ripagare il debito. In questo caso gli USA divengono debitore netto nei confronti di creditori che semplicemente non sono residenti nel paese. Ma è proprio lo stesso prendere a prestito da un cittadino che vive in Colorado o da un cittadino tedesco che vive a Francoforte, se si prendono a prestito dollari nell'uno e nell'altro caso». Ecco dunque cosa significa essere economia dominante. Sulla chiara consapevolezza dei vantaggi di questa economia gioca l'A mminist razione Reagan forse sul filo di un eccesso di spregiudicatezza. Come ha commentato Raymond Aron in uno dei saggi pubblicati postumi: «ciò che mi pare essenziale è che gli Stati Uniti gestiscono la loro moneta transnazionale come se essa fosse strettamente nazionale» (Les dernières années du siècle, Julliard, Parigi 1984, pag. 44). Doio

LA RIELEZIONE

Il 6 novembre un voto «a valanga» ha confermato alla Presidenza Ronald Rea-

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gan. Secondo sondaggi e cronache elettorali, naturalmente di prima approssimazione, importante sarebbe stato il voto giovanile. Una delle ragioni sembra essere questa: che la politica del Presidente sta limitando le dzfficoltt di un loro inserimento nel mercato del lavoro. I posti di nuova creazione sono si a minor retribuzione di quelli eliminati, ma pur sempre sono posti disponibili anche per le nuove leve. Il successo del partito repubblicano non è stato pari a quello del Presidente e perciò è mancato uno degli obiettivi di Reagan: avere in Congresso una propria maggioranza. Il ricambio dello stesso personale democratico secondo la discrirninante della politica economica ('e l'ipotesi segnalata innanzi da Sundquist) fa anzi pensare ad una possibile conflittualità accreiizga fra Presidenza e Congresso. Dunqie, l'elettorato approva la politica di Reagan ma sostiene nel potere locale (cui i Rappresentanti sono molto legati) una diversa rappresentanza politica. La distribuzione del potere fra partiti di governo e partiti di opposizione, lungo la linea centro-periferica è un fenomeno classico nelle democrazie contemporanee. Sul piano istituzionale, il rapporto di forze fra Presidenza e Congresso offrirà la prova di cosa significano certi cambiamenti segnalati nell'articolo di S. Boscaini: primo fra tutti l'abolizione del «veto legislativo». S.R.


L'evoluzione del potere presidenziale nel primo mandato di Ronald Reagan di Stefania Boscaini

È opinione abbastanza corrente 1 che la crisi istituzionale attraversata dal sistema politico americano dopo il Watergate e la guerra del Vietnam si sarebbe risolta in un nuovo assestamento dell'equilibrio costituzionale fra i poteri dello Stato a favore del legislativo, che nel corso di questo secolo avrebbe conosciuto un graduale ma costante declino. Nixon indubbiamente mirava a un nuovo equilibrio dei poteri costituzionali e utilizzando strumenti e congegni istituzionali di cui già si erano serviti, sia pure in modo assai più sporadico. e occasionale, i suoi predecessori, non fece che accentuare il trend verso la «presidenza imperiale» delineata da Schiesinger 2 . Furono però la sistematica violazione delle prerogative congressuali, l'attacco contro tutti. i centri di potere e la violazione della rule of law attuata con la creazione di una sorta di polizia segreta, a innescare la reazione del Congresso, che cercò di riaffermare il proprio ruolo di coequal branch attraverso l'approvazione di una serie di misure legislative, che dclimitassero in vari campi l'ampliamento dei poteri presidenziali. Va peraltro rilevato che su questo problema la stessa letteratura nordamericana vede coesistere ricostruzioni anche abbastanza divergenti del fenomeno, che possono comunque raggrupparsi in due filoni principali, il primo di essi sostiene che nella sostanza nulla

effettivamente mutato e che anzi le riforme degli anni Settanta introdotte nel processo di nomina del Presidente, oltreché nell'organizzazione del legislativo, hanno prodotto l'opposto effetto di rafforzare la tendenza verso una democrazia plebiscitaria, già latente nel sistema e prospettata da alcuni studiosi liberaI, che negli anni Sessanta pensavano certo più ad uno stile presidenziale alla Kennedy che non alla Nixon. All'altro filone appartiene invece chi, dopo il declino, individua una «resurrezione» del Congresso, tornato attore politico e sociale centrale del sistema politico statunitense. Indubbiamente ad una lettura della realtà attuale, che l'avvento di Ronald Reagan alla presidenza sembra rendere ancora più complessa, non può più bastare la schematica chiave di interpretazione del pendolarismo, certo radicato nella vita istituzionale americana, ma insufficiente per scrutare le complesse pieghe dei rapporti Presidente-Congresso; e neppure, forse, può offrire una soluzione il voler risolvere tutto in un'interpretazione «catastrofista» 3 che, nell'indubbia moltiplicazione dei centri di potere, che rende sempre più complesso il decision-rnaking, tende a vedere una vera crisi di leadership e la possibile ingovernabilità del sistema. Senza dubbio, nell'esame della realtà istituzionale e delle possibili disfunzioni del sistema occorre tener conto che attori della cri101/9


si sono anche e, forse, soprattutto i partiti, pur considerando che la diffusa consapevolezza della loro crisi, posto che di crisi si possa effettivamente parlare, ingioba anche una prospettiva offuscata dal rimpianto per un'età d'oro del sistema partitico, che in realtà forse non è mai esistita. IL PROBLEMA STORICO DEL PRESIDENZIALISMO USA

A questo punto occorre partire dalla caratteristica che connota la forma di governo americana, la rigida separazione dei poteri, la quale esige tuttavia, perché la macchina di governo possa effettivamente funzionare, una cooperazione fra i due poli del sistema, quindi «un governo di istituzioni separate che si dividono i poteri». L'evoluzione del sistema, che non ha conosciuto sostanziali riforme del testo costituzionale, si è snodata attraverso progressivi aggiustamenti fra le forze politiche e le componenti istituzionali, che hanno consentito di superare, sul piano della collaborazione dialettica, quella naturale inclinazione allo stallo che un'interpretazione esasperata del criterio della separazione dei poteri avrebbe potuto determinare, assicurando al sistema il necessario dinamismo. Già nei primi anni della Repubblica, del resto, vi era addirittura chi puntava ad un'evoluzione in senso parlamentare del regime, proposta questa periodicamente riavanzata insieme ad altre ipotesi di riforma costituzionale, ma senza mai riuscire ad aggregare un consenso sufficiente per il timore che ne uscisse privilegiato l'uno o l'altro organo di governo. Due secoli di pratica costituzionale non sembra siano stati tuttavia 10/102

sufficienti a produrre un assestamento stabile del sistema in un senso piuttosto che in un altro, tanto che politologi e giuristi ancora dibattono quale sia l'istituzione veramente centrale del processo di governo; di qui la tendenza ad attestarsi su interpretazioni basate sulle periodiche oscillazioni del potere da un ramo all'altro. E tuttavia possibile individuare un trend di sviluppo istituzionale nel processo di progressivo accrescimento del potere presidenziale, fenomeno che diviene vistoso a partire dagli inizi di questo secolo ma che affonda le radici in epoca precedente. Già verso la metà del secolo scorso, infatti, la sostituzione della convenzione di partito al congressional caucus e l'allargamento del suffragio segnano la fine del predominio del Congresso nell'elezione del Presidente, la cui carica è l'unica ad avere una constituency a base nazionale. Con la trasformazione della presidenza «da istituzione del Congresso a istituzione del popolo» nasce la mistica presidenziale che vede nel Presidente il vero interprete dell'interesse nazionale. Nella costruzione della leadership presidenziale gioca poi un ruolo molto più incisivo che in altri sistemi politici la personalità, lo «stile» del Presidente, ed è abbastanza comune nella dottrina nordamericana la distinzione fra presidenti «forti» e presidenti «deboli», dotati i primi di un alto concetto della carica ricoperta e del ruolo che deve giocare nel sistema e portati per questo ad un attivismo che, proprio per il carattere spesso convenzionale e non formalizzato della, vita istituzionale di quel paese, accresce progressivamente il peso della presidenza sia dal punto di vista simbolico che sostanziale. Nel secolo XIX, co-


munque, la dottrina non individua che sporadiche, seppur significative, figure di presidenti «forti», come Jackson, Lincoln e Polk, che pongono con la loro azione le premesse per il futuro ampliamento. Ma il processo politico dominato dal legislativo. Specialmente nei trent'anni successivi alla guerra civile, il fulcro politico del sistema risiede nel Congresso, che addirittura attiva la procedura di impeachment contro il successore di Lincoln, Andrew Jackson, che riesce a scampare per un solo voto, al Senato; ed è sempre il Congresso a farsi promotore delle politiche della ricostruzione postbellica, secondo la formula in base alla quale «il Congresso legifera e il Presidente esegue e amministra». E questo anche il periodo di più forte coesione partitica, specialmente all'interno della Camera dei rappresentanti, il cui Speaker assomma anche la funzione di leader politico, mentre il Senato, che è ancora ad elezione di secondo grado ad opera delle assemblee statali, inizia una fase di graduale declino. Questa situazione sfocerà, verso i primi del novecento, nell'elezione diretta dei senatori, con un progressivo aumento del prestigio politico di questa assemblea, mentre, più o meno nello stesso periodo, alla Camera dei rappresentanti, la «rivolta» contro lo speaker Cannon inneschera un processo di dispersione del potere politico, mai sostanzialmente invertito fino ai nostri giorni. Proprio con l'avvento del nuovo secolo muta lo scenario istituzionale: le esigenze del corporate business spingono verso un'espansione all'estero dell'economia americana e verso una maggiore direzione dei processi economici. Il nuovo ruolo mondiale degli Stati Uniti

esige una leadership più compatta, che non può essere quella offerta dal Congresso, che la crescente dispersione e frammentazione del potere rende sempre più attento agli interessi organizzati e alle spinte settoriali. Emerge la relativa debolezza del sistema dei partiti, le cui linee di mobilitazione dell'elettorato sono più etnico-religiose che ideologiche, ed è proprio questa mancanza di collante ideologico a indebolire la coesione partitica e ad alimentare il carattere temporaneo o casuale delle coalizioni di governo, frammentando l'indirizzo congressuale, spesso risultato di un defatigante bargaining. La vera guida del paese viene accentrata così nelle mani del Presidente, in capo al quale il Congresso, ogniqualvolta si tratterà di elaborare broad policies, sempre più allocherà potere e responsabilità. D'altronde il ritmo accelerato dei processi elettorali, l'impermeabilità fra carriere ministeriali e parlamentari, l'affermarsi di un ceto politico profes sionale, legano a filo doppio i parlamentari alle loro constituencies, da cui dipende la possibile rielezione, sempre meno condizionata dagli apparati di partito. Nascondersi dietro le prerogative presidenziali offre così ai legislatori un comodo alibi per sottrarsi al tiro incrociato degli interessi costituiti e delle lobbies e declinare le responsabilità più onerose. A partire dalla presidenza di Theodor Roosvelt (1901), alla Casa Bianca si avvicendano presidenti «forti», come Woodrow Wilson, con un periodo di intervallo negli anni Venti, quando il ritorno della carica ai repubblicani fa parzialmente riaffiorare la filosofia whig del predominio del Congresso. Ma il vero spartiacque della concezione moderna del potere presidenziale è rappresentato dalla vittoria 103/11


di F.D. Roosvelt. Il modello di leadership presidenziale che si afferma a partire dagli anni Trenta con la progressiva appropriazione, da parte del Presidente, di funzioni già congressuali, costituisce la risposta istituzionale alle difficoltà di funzionamento della macchina di governo americana, incentrata sull'operatività del tandem Presidente-Congresso, e attenua la conflittualità insita nel «governo diviso». Ma ogniqualvolta dalle urne non esce un risultato netto e la vittoria presidenziale è di stretta misura (come più di recente è stato in parte per Kennedy e in modo più vistoso per Carter) il modulo presidenziale funziona con maggiore difficoltà, né riesce ad affermarsi un modello alternativo di leadership del Congresso. All'interno del Congresso, infatti, il problema dell'integrazione politica si propone a ben tre livelli: in ogni commissione ed eventuali sottocomitati, nelle singole Camere e fra i due rami del legislativo, rispetto ai quali anche la mancanza di un filtro governativo a livello parlamentare non fa che accentuare la possibilità di divaricazioni nelle posizioni dei collegi minori rispetto al plenum e fra le due Camere, specie nel caso di «Congresso diviso» cioè con i due rami dominati da partiti diversi. Oltretutto, in quel sistema sembra anche attenuarsi l'importanza dei congegni bicamerali, come dimostra lo scarso ruolo esercitato di recente da due commissioni bicamerali (il Joint Committee on Atomic Energy, ora abolito, e il Joint Economic Con'imittee, privo però di competenza legislativa) mentre il carattere pattizio delle procedure all'interno delle Conference Coinrnittees 5 spiega il ricorso più frequente a questo tipo di strumenti, come la recente esperienza del proces12/ 104

so di bilancio dimostra. Paradossalmente l'endemica incapacità del Congresso di elaborare un indirizzo politico non settoriale è stata aggravata proprio dalle riforme in senso democratico degli anni Settanta che, indebolendo il seniority system e scalzando, almeno in parte, la posizione dei potenti presidenti di commissione, ha ulteriormente frantumato i veri punti di riferimento politico all'interno del legislativo e aumentato le occasioni di ostruzionismo e di stallo. Nel secondo dopoguerra, anche sulla scia degli avvenimenti internazionali, il concetto di presidente «forte» sembra sia stato oramai assimilato dall'opinione pubblica, dai mass media, dal ceto politico e parlamentare, oltreché dalla dottrina. Nei testi istituzionali si usano frasi di estremo valore simbolico per descrivere il Presidente, che viene di volta in volta indicato come «il grande motore della democrazia», «l'unica autentica voce del popolo americano», «lo strumento centrale della democrazia», «l'ideatore-capo della politica pubblica» e «l'architetto della politica estera» 6 E infatti, quando Eisenhower nel primo anno di carica ometterà di presentare al Congresso un programma legislativo, deluderà le aspettative non solo del pubblico ma degli stessi parlamentari. 11 culto della presidenza, cui si accompagna anche la crescita dell'apparato burocratico e istituzionale della Casa Bianca, in parallelo con la crescita delle responsabilità presidenziali, di per se noh è tale da assicurare il successo dell'indirizzo presidenziale. La debolezza dei partitiparlamentari, il limitato potere dei leaders di partito e l'assenza di vera disciplina di partito nel voto fanno sì che nei confronti del Congresso il vero potere presidenziale


sia il «potere di persuasionex., secondo la nota formula di Neudstad . Più che di poteri di tipo formalizzato, il Presidente americano preferisce in genere avvalersi di più efficaci strumenti informali. Cosi, a partire dalla presidenza Eisenhower viene istituito presso la Casa Bianca uno staff speciale per i rapporti col Congresso (che sotto Reagan ha raggiunto la consistenza di circa 600 persone), incaricato di mantenere i contatti con gli uffici del legislativo e di spingere per l'approvazione del programma presidenziale, anche se una legge del 1913 vieta che si parli apertamente di lobbying presidenziale, come avviene invece costantemente sugli orgalli di stampa. In realtà, proprio la mancanza del «Governo in Parlamento» richiede una moltiplicazione dei contatti informali e uno dei presidenti più abili nel trattare col Congresso e guadagnarsene l'appoggio, almeno nei primi tempi, è Johnson, che capitalizza la sua precedente esperienza di popolarissimo leader congressuale. il successo presidenziale dipende in misura crescente anche dalla popolarità dell'uomo. Il ruolo dominante dei mass media e della televisione in particolare, il più alto livello di istruzione, la diversificazione dei canali di informazione politica hanno eroso il ruolo dei partiti di intermediazione sociale e di integrazione politica presso l'opinione pubblica e disancorato sempre più la contesa elettorale da precisi contenuti ideologici. In un paese che ha un elettorato potenziale di circa 150 milioni di persone, questo spiega sia il fenomeno della sempre più scarsa affluenza alle urne, sia le forti dislocazioni da un partito all'altro, poiché difficilmente il partito vincitore è poi in grado di dare soddisfazione a tutte le molteplici e

spesso contrastanti istanze che hanno pesato sul risultato elettorale, colla conseguenza di perdere comunque terreno a favore del partito di opposizione. L'elezione presidenziale, poi, viene assumendo l'aspetto di una contesa fra i due candidati, sempre meno dipendenti dagli apparati di partito sia nell'ottenere la nornination sia nell'organizzazione della macchina elettorale: e questo accentua il carattere carismatico della carica. L'uso sempre più frequente del mezzo televisivo, oltreché della stampa, fa da cassa di risonanza alla popolarità presidenziale, scavalcando partiti e personale politico, scoraggiati dal contrastare un Presidente che goda di un forte appoggio popolare. Il carattere tendenzialmente plebiscitario che vanno assumendo le cariche politiche, e quella presidenziale in particolare, finisce però spesso per ritorcersi contro i suoi titolari e da molti viene additato a debolezza del sistema. Quasi tutti i presidenti sono, presto o tardi, costretti a sperimentare la frustrazione della situazione simultanea di potere e impotenza della loro posizione, che risuona nell'avvertimento di Truman al Presidente entrante Eisenhower circa la difficoltà di applicare alla Casa Bianca il suo «senso militare del comando». Del resto negli Stati Uniti la stessa pubblica amministrazione difficilmente potrebbe essere assimilata agli schemi di organizzazione gerarchica degli Stati a regime amministrativo, risultando piuttosto un aggregato composito di centri su cui viene ad esercitarsi, secondo il diverso stile di leadership dei vari presidenti, il bargaining caro al sistema. Furono anche queste considerazioni a innescare il tentativo di Nixon di istituire una «presidenza amministrativa» che fosse effettivamente dotata de105/13


gli strumenti per «persuadere» non so- coarrengement hanno provocato delle lo il Congresso, ma anche gli uffici am- scelte nella distribuzione del potere poministrativi e le agencies a seguire fedel- litico - con l'incremento delle procemente le sue direttive e a trasformare dure, anche formalizzate, di consulta«l'ombra della politica nella sostanza zione fra esecutivo e legislativo e con del programma» 8, anche se poi questi l'assegnazione di più chiare responsabiintendimenti per una più forte direzio- lità per settori specifici, per evitare il ne della macchina di governo traligna- più possibile il ripetersi di situazioni di rono e naufragarono poi nel disastro conflittualità o di stallo. Nel campo fiscale, secondo alcuni commentatori, del Watergate. D'altronde neanche il Congresso aveva data l'impossibilità di proseguire la poi avuto un ruolo così passivo e reces- prassi del rifiuto di erogare fondi già sivo quale gran parte della dottrina, al- stanziati dal Congresso (inzpoundment), meno fino agli anni Sessanta, aveva vo- l'ultima parola sarebbe stata assegnata luto ricostruire. Anche durante i «cen- al legislativo, mentre nel campo dei poto giorni» di F.D. Roosvelt il rubber- teri di guerra rimane inalterato il potestamp Congress aveva creatoqualche in- re di iniziativa presidenziale, anche se è tralcio all'azione presidenziale ed eser- prevista la possibilità di un'inversione citato comunque la funzione di emen- di rotta con l'apposizione del veto condamento, anche se il fulcro dell'inizia- gressuale. In effetti, poi, tutta questa tiva legislativa si era spostato verso complessa materia è stata sconvolta l'esecutivo, mentre la vera opposizione dalla recente decisione della Corte Sualle politiche del New Deal proveniva prema che ha dichiarato incostituziopiù che altro dalla Corte Suprema, al- nale il veto legislativo (che proprio la meno fino a quando il Presidente non legislazione post-Watergate aveva inriuscì a sostituire alcuni fra i membri crementato notevolemente), anche se più conservatori. Neanche in seguito per il momento nemmeno la dottrina mancarono periodi di riflusso del ruo- americana appare consapevole di tutte lo presidenziale e comunque il Con- le possibili implicazioni che l'imporgresso riuscì a dotarsi progressivamen- tantissima sentenza avrà per il bilanciate di strumenti assai penetranti con cui mento dei poteri fra Presidente e Coninfluire sull'esecutivo, quali il legislati- gresso. ve oversight e poi il legislative veto ope- Il periodo di «resurrezione» congresrante addirittura nel corso del procedi- suale non sembra aver peraltro sostanmento amministrativo, realizzando - zialmente potenziato la capacità di income è stato osservato - «un massimo tegrazione politica del Congresso, che, di confusione delle funzioni connesse per i suoi già citati problemi strutturaalla realizzazione dell'indirizzo politi- li, mal si presta ad esercitare la funzioco» 9 che rende molto ardua la valuta- ne di leader non solo per il settore della zione del peso specifico delle due istitu- sicurezza nazionale e della politica zioni nell'ambito del sistema. Indub- estera, ma anche nel campo della politibiamente lo shock del Watergate e del- ca interna, in cui di fatto l'azione di la guerra del Vietnam hanno prodotto coordinamento rimane affidata all'eseuna modifica del balance ofpower, ma cutivo. Quali siano poi le possibilità efpiù che tradursi in un nuovo tandem fettive di realizzazione della leadership 14/106


presidenziale nel settore della politica interna è forse il più problematico fra i quesiti posti dal sistema. Già negli anni Sessanta Wildavsky, sulla base di un'analisi del successo incontrato dal programma presidenziale presso il Congresso, aveva tratto la conclusione delle «due Presidenze» 10, una per la politica interna e una per gli affari esteri, con possibilità di successo e impatto ben diversi sul legislativo. Mentre il modello di leadership presidenziale sarebbe senz'altro dominante negli affari esteri e nel settore connesso della difesa, specialmente nei momenti di maggior pericolo per la sicurezza nazionale, come nel caso di una guerra, sia essa effettivamente combattuta sul campo o solo a livello ideologico, l'iniziativa presidenziale incontrerebbe assai maggiori intralci negli affari interni. In questo settore, in particolare, trovano più favorevole accoglienza in Congresso politiche di distribuzione dei benefici su base allargata, che non politiche redistributive o addirittura restrittive. E questo uno dei motivi che rende di estremo interesse l'analisi dei primi tre anni dell'esperienza presidenziale di Reagan, che, perlomeno all'inizio, sembra ribaltare l'impostazione tradizionale di un Presidente più forte in politica estera che in economia. Al contrario è proprio sulla politica economica che Reagan consegue notevoli risultati proprio lanciando politiche di restrizione dei benefici sociali e delle spese federali, mentre, almeno nel primo anno e mezzo, anche per motivi interni all'Amministrazione, offre una gestione assai meno incisiva dei problemi internazionali. Ma già nel secondo anno sembra ripetersi lo scenario di un Presidente in crescente difficoltà sui temi interni che cerca di sfruttare l'arena

internazionale per riguadagnare prestigio e popolarità, restituendo dinamismo alla politica estera, che viene però lanciata in iniziative dagli esiti assai incerti come nel Libano e nel Centro America. Sul piano interno la gestione del consenso sui temi economici si fa sempre più difficile; nonostante anche qui non manchino brusche inversioni di rotta rispetto alla ricetta iniziale della supply.side economics e vari ballons d'essai vengano lanciati, come quello del new federalism di nixoniana memoria, o dell'emendamento costituzionale per un balanced budget che possa gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica di fronte all'enorme deficit di bilancio, la presa delle politiche presidenziali sul Congresso e sul paese sembra comunque diminuire, rendendo più incerti i termini della prossima elezione presidenziale, cui Reagan piuttosto tardivamente dichiara la propria intenzione di partecipare. Il carattere così variegato, anche dal punto di vista dei profili istituzionali, della presidenza di Reagan sul piano interno ed estero, giustifica una trattazione ed un'analisi separata dei due settori, anche per valutare quanto il nuovo scenario sia mutato rispetto ai figurini presenti nel dibattito sulle istituzioni politiche americane e consente di motivare meglio un giudizio sul rafforzamento o meno di una leadership partita sull'onda di un successo elettorale di particolare rilievo.

LA PRESIDENZA INTERNA DI REAGAN

Le elezioni del novembre 1980 segnano una travolgente vittoria per il Partito repubblicano che, per la prima volta dai tempi di Hoover, conquista con107/15


temporaneamente la presidenza e la maggioranza al Senato. Secondo molti commentatori politici si tratta di una svolta che ha il senso di un ripudio: se non di un partito - i democratici hanno comunque conservato la maggioranza alla Camera dei rappresentanti -, certo di un uomo, la cui presidenza è stata segnata dalle difficoltà nella lotta, alla crisi economica e specialmente dalla perdita di prestigio all'estero per gli Stati Uniti derivante dalla crisi degli ostaggi in Iran. Lo sgretolarsi delle tradizionali maggioranze democratiche, che viene anche addebitato alle forti dislocazioni del voto operaio (i bluecollar workers, generalmente di fedeltà democratiche), sembra far presagire un vero realignment nelle forze politiche ed il consolidamento di un trend iniziato già nel 1978, quando i democratici avevano cominciato a perdere terreno. Come sottolinea nella sua classica analisi delle elezioni presidenziali Theodor White, quando nel 1980 sono andati a votare, gli americani «erano ormai convinti che il costo dell'eguaglianza avesse infranto la promessa di nuove opportunità economiche e di lavoro. Questi due concetti si sono scontrati per tutta la campagna elettorale: alla fine è prevalso il primo» 11 Reagan arriva dunque alla Casa Bianca con un mandato preciso: risanare l'economia, ridurre le spese federali e il ruolo dello Stato nella vita dei cittadini (meno governo, deregulation, mercato libero). La valanga elettorale ha anche travolto il tradizionale scenario istituzionale del «Governo diviso», cui si è sostituito quello del «Congresso diviso»; situazione questa che se può facilitare il compito del neo-presidente di dare attuazione al suo programma, prospetta l'eventualità di forti divarica.

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zioni politiche fra i due rami del Congresso e quindi l'eventualità di uno stallo non tanto tra esecutivo e legislativo ma all'interno dello stesso legislativo. In realtà, almeno nei primi mesi, i democratici non sembrano inclini a creare eccessive difficoltà in Congresso, anche per evitare che venga poi ritorta contro il partito democratico l'accusa di essere stato, con il suo atteggiamento ostruzionistico, la causa di un eventuale fallimento del programma presidenziale; ed e proprio con i assenso dei democratici che Reagan si appresta a. smantellare le fòndamenta di quel Welfare State che tante presidenze democratiche avevano contribuito a costruire. Reagan non ha intenzione di ripetere gli errori di Carter che, bombardando il Congresso con una valanga di proposte legislative, aveva anche per questo sperperato i benefici della tradizionale «luna di miele», ma d'altro canto ha anche urgenza di far approvare al più presto il suo programma economico, in modo che già nelle elezioni del novembre 1982 il partito e il suo Presidente possano vantare risultati concreti. Lo strumentario istituzionale a disposizione del Presidente americano non include i congegni formali di cui dispone il premier di un governo parlamentare e la stessa evoluzione del ruolo dei Presidente come legislatore è il risultato della progressiva e costante erosione di funzioni congressuali, ma anche frutto di un ampliamento dei suoi poteri informali. Per comprendere quale sia l'impatto effettivo dell'esecutivo americano sul Congresso occorre prima delineare, sia pure per sommi capi, l'evoluzione dello schema di riparto dei ruoli nel policy.rnaking. All'origine esso prevedeva il potere legislativo al


Congresso e un coinvolgimento del Presidente nel procedimento legislativo attraverso il potere di veto, però superabile con procedure aggravate. Già nel secolo XIX questo schema originario vede ulteriormente rincarato il predominio congressuale, nonostante l'episodico avvento di presidenti «forti», che preannunciano l'ulteriore modifica dello schema a favore dell'esecutivo, a partire dalle presidenze di Theodor Roosvelt e di Woodrow Wilson, che accrescono progressivamente il ruolo del Presidente e utilizzano il veicolo del messaggio sullo stato dell'Unione e delle raccomandazioni al Congresso per rendere noto il proprio programma. Tuttavia soio con F.D. Roosvelt si ha il ricorso da parte del Presidente a veri e propri poteri organizzatori nei confronti del Parlamento, incluso quello di influire sull'agenda legislativa e sul calendario delle commissioni e dell'aula per la realizzazione delprogramma; trasformazione istituzionale che, innescata dalla gravità della crisi economica attraversata dal paese, è favorita anche dalla consonanza politica fra esecutivo e legislativo. Roosvelt registra poi la mancanza di coordinamento delle iniziative legislative dell'esecutivo e, attraverso una delega organizzatoria, ottiene dal Congresso nel 1939 che il Bureau of the Budget, che era alle dipendenze del dicastero del Tesoro sin dalla sua creazione nel 1921, passi alle dirette dipendenze della Casa Bianca, per esercitare la funzione di filtro e di dearing legislativo e fiscale della politica complessiva dell'amministrazione, oltre a continuare a svolgere i compiti tradizionali di redazione del bilancio e di controllo sulla sua attuazione. Se è sempre Roosvelt a conferire rego-

larità agli incontri con i leaders del Congresso e fare apertamente del lobbying, il primo Presidente a presentare un vero programma legislativo annuale è Truman, che cerca di coordinare l'Economic Rcport, che l'Empio yment Act del 1946 affidava al Presidente, con i tradizionali messaggi sul bilancio e sullo stato dell'Unione. L'attivismo presidenziale che prosegue, sia pure con stili diversi, sotto i suoi successori, fa lievitare le responsabilità dell'esecutivo e rifluire il ruolo congressuale a semplice delay and amendment, anche se non tutta la dottrina concorda su un'interpretazione così riduttiva del contributo del ramo legislativo. Fatto sta che almeno in sette settori fondamentali (bilancio, economia, sicurezza nazionale, occupazione, ambiente, edilizia e urbanistica) 12 il Congresso, che non sembra in condizione di elaborare un organico indirizzo politico, delega al Presidente la responsabilità di sviluppare una strategia complessiva e coordinata. Ma quando dal piano delle responsabilità si passa al piano dei poteri, si constata che esiste un elemento di alea per l'attuazione dell'indirizzo presidenziale, costituito dalla mancanza di congegni formali che assicurino la presenza del Governo in Parlamento. Le stesse iniziative legislative del Presidente devono ottenere la sponsorship di un parlamentare e fra i mezzi di pressione sembrano avere maggiore efficacia quelli di natura informale (buone relazioni con i parlamentari, lobbying e bargaining); lo stesso potere costituzionale di veto ha tanta più efficacia quanto più viene utilizzato con parsimonia, come eventuale spada di Damode, mentre il suo uso frequente viene bollato come indice di debolezza più che di forza del Presidente. La governa109/17


bilità del sistema viene quindi assicurata solo se tra i due rami si instaura uno spirito di collaborazione; facilita comunque lo svolgimento «normale» della vita costituzionale il carattere di omogeneità ideologica degli schieramenti politici 13 e la possibilità che l'iniziativa presidenziale provochi uno split nel partito di opposizione. Quando Reagan arriva alla Casa Bianca, l'imressione, diffusa anche sulla stampa, e che si stia creando una nuova coalizione di governo, in grado di ripetere le fortune delle coalizioni conservatrici che avevano visto i democratici del Sud schierati a fianco dei repubblicani. All'interno del Partito democratico, infatti, si è enucleata un'ala consistente di elementi di tendenze più conservatrici che si sono raccolti nel Conservative Democratic Forum che, specialmente alla Camera dei rappresentanti, può assicurare al Presidente Reagan il consenso necessario per governare, mentre. sulla compattezza dello schieramento repubblicano non sembra possibile avanzare dubbi, almeno per il momento. La ricetta economica della nuova amministrazione è particolarmente complessa: per ridurre le spese federali e l'intervento del gàverno nel mercato occorre apportare tutta una serie di modifiche e alterazioni a programmi federali, regolati e previsti da leggi vigenti. Tradurre questo programma in una serie di proposte legislative implica l'esigenza di perc'orrere l'accidentato cammino del normale procedimento legislativo, col rischio che i tempi di approvazione si allunghino e si vanifichi il margine di vantaggio di cui gode il Presidente appena eletto. Anche su consiglio del direttore dell'Office ofManagement and Budget, David Stockman, Reagan sceglie di uti18/110

lizzare la legge di bilancio per cercare di tagliare i ,programmi federali in corso e poiche, quan o entra in carica, l'anno fiscale 1981 è già per metà trascorso, concentra gli sforzi della sua amministrazione sul bilancio per l'anno fiscale 1982 (che per legge comincia il 10 ottobre del 1981). Secondo il Budget and Accounting Act del 1921 spetta al Presidente presentare annualmente un programma di bilancio che però raramente passava indenne, almeno fino alla riforma del processo di bilancio nel 1984, attraverso la fase di approvazione parlamentare, quando si scatenavano le spinte centrifughe dei parochial interests, senza che il Congresso riuscisse non solo a elaborare una politica fiscale coerente ma addirittura arrivasse a conoscere le cifre totali delle varie poste. Naturalmente se Presidente e maggioranza congressuale erano dello stesso partito, il Congresso mostrava ben maggiore acquiescenza verso le politiche fiscali e di bilancio dell'esecutivo; nel caso opposto, l'esecutivo cercava spesso di correggere la rotta fiscale dell'amministrazione attraverso l'impoundment di fondi già stanziati dal Congresso, una pratica questa che sotto Nixon raggiunse livelli tali da rompere gli equilibri esecutivo-Congresso e contribuì ad accelerare l'approvazione del Budget and Irnpoundinent Control Act del 1974. Con questo atto legislativo 14 viene attuata una riforma radicale, dal punto di vista procedurale ed organizzativo, del processo di bilancio sul versante del Congresso, che viene ora messo nelle condizioni di conoscere e controllare gli aggregati fondamentali della legislazione di spesa e di entrata e, quindi, anche di elaborare con l'ausilio del nuovo Congressional Budget Office un vero


progetto di bilancio in alternativa a quello presidenziale, che viene ora esaminato nella sua globalità e non isolatamente nelle singole parti. Vengono istituite, in entrambi i rami, due Commissioni bilancio, che dovranno costituire la «coscienza fiscale» del Congresso (e così sarà senz'altro nei primi anni della riforma) ed il cui compito è di indirizzare il Congresso nella fissazione di tetti globali per le spese, le entrate e l'indebitamento, che costituiscano dei parametri vincolanti di riferimento per la legislazione di merito. Viene anche fissato un preciso calendario legislativo: spostata la data di inizio dell'anno fiscale al 10 ottobre dell'anno precedente a quello di riferimento, dopo che il Presidente ha presentato il progetto di bilancio, entrambi i rami devono approvare, entro il 15 maggio, una prima concurrent resolution, non vincolante, che fissa degli obiettivi (targets) per le poste di bilancio in considerazione sia della legislazione in vigore che delle proposte provenienti dall'esecutivo e dalle commissioni di merito; ad essa fa seguito una seconda resolution, questa volta vincolante, da approvare entro il 15 settembre, che fissa veri e propri tetti (ceilings) definitivi. Nel caso in cui i tetti della seconda risoluzione non corrispondano agli obiettivi fissati nella prima, perché le commissioni di merito se ne siano discostate nell'approvazione delle varie leggi di spesa, la legge prevede una procedura di reconciliation, che deve appunto servire a far concordare gli obiettivi con i tetti di spesa, modificando gli uni o gli altri o entrambi. In realtà, però, la camicia di Nesso che dovrebbe impedire al Congresso di proseguire nell'endemica frammentazione delle politiche di spesa, che si di-

ce aver più spesso prodotto un «risultato» che una «politica» fiscale, presenta molte maglie larghe; infatti, ai poteri sostanzialmente limitati delle due Commissioni bilancio, le cui raccomandazioni possono sempre essere reversed on the floor, mentre nel progetto di riforma erano previste maggioranze qualificate in aula, fa riscontro la possibilità che, anche dopo la seconda risoluzione, vincolante, altre ne vengano approvate che modifichino i tetti fissati; unapratica, questa, che se fosse attuata abitualmente consentirebbe al Congresso di «mantenere anche nel nuovo sistema l'irresponsabilità che aveva nel vecchio» Nei primi anni di operatività della riforma, il Congresso gioca in effetti un ruolo più incisivo nel disegnare la politica economica e di bilancio e le maggioranze democratiche sottolineano la ritrovata autonomia rispetto al Presidente repubblicano Ford, di cui contrastano spesso l'indirizzo in campo fiscale. Quando però a Ford succede Carter, si realizza una maggiore armonia di vedute con l'azione dell'esecutivo. Già nel 1978 tuttavia il processo parlamentare di bilancio mostra segni di difficoltà, tanto che l'autorevole Presidente della Commissione bilancio del Senato, il democratico Muskie, segnala il pericolo che riaffiorino sia la vecchia free-spending mentality, sia una crescente resistenza verso il processo di bilancio da parte di commissioni e membri del Senato; tanto è vero che, quando si fa pressante il problema di ridurre le spese federali per riportare in pareggio il bilancio per l'anno fiscale 1981, viene scardinata la sequenza procedurale prevista dalla legge di riforma, e già nella prima risoluzione di bilancio vengono inclusi reconciliation orders per le 111/19


commissioni permanenti, perché apportino tagli per 6,4 miliardi di dollari ai programmi di spesa; e nonostante sembri comunque sfumata la possibilità di riportare il bilancio in pareggio, la manovra viene definita «come il primo passo significativo intrapreso dal Congresso in modo coerente per riportare a maggiore controllo gli elementi incontrollabili del bilancio» 16 Reagan decide di utilizzare il marchingegno procedurale escoitato da Car ter,, ma in mo o benpiu rivoluzionario, specialmente per l'ammontare dei tagli alle spese federali che vengono richiesti. Ancora una volta tutto il calendario procedurale viene sconvolto e la prima risoluzione di bilancio viene approvata congiuntamente a delle reconcjiiation instructions indirizzate alle Commissioni di merito, perché apportino i tagli ai programmi federali. Al Senato, che adotta le ottimistiche previsioni della Casa Bianca, tutto avviene abbastanza de piano, mentre alla Camera dei rappresentanti si levano le prime voci di protesta contro l'uso distorto della procedura di reconciiiation che per come è impostata - fa prevalere «la politica sul processo» e costringe il Congresso a modificare la legislazione vigente per conformarla alla politica corrente di bilancio, come avverte l'esperto del Congressionai Reference Service, Allen Schick. Sia pure con lievi differenze, il piano di Reagan finisce col passare anche alla Camera dei rappresentanti, dove la defezione di ben 63 democratici consente l'approvazione di una risoluzione di bilancio che è addirittura bipartisan, essendo appoggiata oltreché dal repubblicano Latta anche dal democratico Gramm. Dopo una conference committee, i due rami si accordano per una ri20/112

duzione vertiginosa delle spese federali di circa 36 miliardi di dollari, mentre il deficit di bilancio viene fissato a 37 miliardi di dollari. Molte le critiche che si levano contro questa «rivoluzione» 17 nel processo di bilancio, di cui si mette in dubbio la legittimità e in particolare si sottolinea come - specialmente alla Camera l'imposizione di limitazioni al dibattito nella discussione dei reconciliation orders, in relazione già alla prima risoluzione, irrigidisca la flessibilità del processo di bilancio e indebolisca il sistema delle Commissioni, espropriate della loro competenza ad elaborare le olitiche settoriali di spesa, mentre enatizza il ruolo dell'aula e della maggioranza, anche se forse questo non è sufficiente per rievocare il fantasma della presidenza imperiale, dal momento che, almeno in materia di bilancio, non è affatto generalmente accettato che il Congresso post-Watergate modifichi sempre in parte, o alteri, il bilancio presidenziale. Sembra comunque che si sia formata una variante del party government 'modei con un Presidente repubblicano, un Senato repubblicano e una maggioranza conservatrice alla Camera; ed infatti critiche vengono rivolte alla leadership democratica e allo speaker dei rappresentanti Tip O'Neill, accusato di assecondare troppo le politiche reaganiane e di non contrastare lo sfaldamento dello schieramento democratico. D'altronde, la maggiore apertura dei processi politici, voluta proprio come iniezione di democrazia dopo lo shock del Watergate, ha accentuato il populismo della classe politica americana, sempre più incline a seguire le indicazioni che salgono dal paese e quindi a cavalcare la tigre del favore popolare, salvo poi operare bru-

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sche inversioni di rotta quando il vento sembri spirare in un'altra direzione. Comunque, alla metà del 1981 l'astro di Reagan appare ancora fulgido e il Presidente, seppure con maggior fatica, ottiene il completamento del suo programma economico. In misura lievemente ridotta rispetto alla iniziale richiesta presidenziale del 30%, il Congresso approva anche una riduzione record delle imposte nella misura del 25%, da diluirsi in tre anni. In realtà però il valore della vittoria di Reagan è più che altro simbolico: infatti, non solo la prima risoluzione di bilancio non ha valore di legge e non viene inviata al Presidente (fondamentalmente - come si dice - <(il Congresso parla a se stesso»), ma le vere difficoltà cominciano a sorgere quando le singole Commissioni devono decidere dove effettuare i tagli e come tradurre in effettive leggi di spesa (i 13 appropri ation bilis) le scelte economiche approvate solo pochi mesi prima. La luna di miele col Congresso sembra oramai esaurita: cominciano a trapelare i primi dati reali sul deficit federale, che fanno slittare a tempi indefiniti la promessa elettorale di Reagan di riportare il bilancio in pareggio entro il 1984, mentre anche l'economia non sembra reagire bene alla politica economica del Presidente. L'immagine della nuova Amministra• zione esce offuscata anche da un infortunio giornalistico del direttore dell'Office ofManagement and Budget, (creato nel '70 da Nixon) Stockman, che in una intervista alla rivista «Atlantic Monthly» si fa scappare l'afferma• zione che in sostanza la supply-side economics altro non è che una copertura ideologica per propinare al paese la vecchia filosofia repubblicana di diminuire le tasse ai ricchi e alle grosse so-

cietà. Lo scandalo è grosso e lo stesso Stockman rischia di perdere il posto. Per di più, mentre prosegue la discussione sul bilancio, trapela sui giornali che esistono discordanze sospette nelle cifre fornite dagli elaboratori dei due rami del Congresso e fra queste e i dati forniti dal calcolatore dell'Office ofManagement and Budget. Oramai si è frantumato il consenso fiscale dei primi mesi e Reagan, che per la sua abilità nel far presa sull'opinione pubblica attraverso i frequenti messaggi televisivi si era guadagnato l'appellativo di great communicator, dimostra di non saper più padroneggiare con altrettanta efficacia il processo legislativo, quando viene a scontrarsi con un Congresso oramai recalcitrante. Lungi dall'aderire alle richieste presidenziali di ulteriori riduzioni alle spese federali, il Congresso non vara in tempo che uno solo dei 13 appropriation bilis necessari per assicurare l'autorizzazione di spesa al Governo, cioè gli stanziamenti per il legislativo. Dallo stallo che si crea fra Congresso ed esecutivo esce sfocata anche l'immagine del Congresso, che dimostra di non riuscire a padroneggiare le pur complesse procedure previste dal Budget Act del 1974. Viene approvata una prima continuing resolution per consentire l'ulteriore erogazione • di fondi all'Amministrazione - in sostanza l'esercizio provvisorio - ma quando alla sua scadenza, a novembre, il Presidente rinnova la richiesta che nella nuova continuing resolution, che il mancato completamento del processo di bilancio rende necessaria, siano effettuati nuovi tagli alle spese, il Congresso si rifiuta e il conflitto esplode, con l'apposizione del veto presidenziale proprio a questa seconda continuing 113/21


resolution congressuale. Il governo federale rimane così privo della autorizzazione di spesa e per un giorno gli uffici federali chiudono e tutta Washington si blocca. Il braccio di ferro si conclude ancora una volta con una vittoria del Presidente e l'approvazione di una terza continuing resolution che riporta la situazione alla normalità; infine, dopo aver abbandonato ogni pretesa di completare le procedure e scrivere una seconda risoluzione di bilancio realistica, il Congresso si limita ad approvare una legge di spesa omnibus che, in sostanziale accoglimento delle richieste dell'esecutivo, prevede altri tagli per 4 miliardi di dollari, anche se ormai è diffusa la consapevolezza che la legge si basa su dati ampiamente imprecisi che non rispecchiano in alcun modo la situazione reale del bilancio federale. 11 blitz di Reagan ha comunque irritato la suscettibilità del Congresso, in cui anche l'avvicinarsi della scadenza elettorale del novembre '82 contribuisce a far rinserrare gli schieramenti nei ranghi tradizionali, rendendo molto più difficile riesumare la coalizione dell'anno precedente. Reagan dal canto suo cerca a questo punto di scaricare su1 Congresso la responsabilità dell'incombente deficit e si irrigidisce sulle sue posizioni di intervento economico, nonostante le pressioni che anche molti repubblicani cominciano ad esercitare sulla presidenza perché si arrivi ad un compromesso sul nuovo bilancio. Al repubblicani in particolare scotta l'accusa di «spesa selvaggia» lanciata loro dai democratici sull'onda del deficit federale e che invece è sempre stata il tradizionale cavallo di battaglia del Great Old Party nei confronti delle Amministrazioni democratiche. Sotto lo spettro di un aggravamento della si22/114

tuazione economica e sociale e del profilarsi di un deficit che sfiora ora i cento miliardi di dollari, gli attacchi all'Amministrazione si moltiplicano. Alla Camera in un primo momento vengono presentate e bocciate ben Otto diverse proposte alternative di bilancio, di provenienza sia democratica che repubblicana; alla fine il timore di essere additati dal Presidente come la causa dell'eventuale anarchia legislativa spinge i Rappresentanti a mettersi tardivamente d'accordo su una prima ipotesi di risoluzione di bilancio. Al Senato già nel mese di maggio 1982 era stata faticosamente raggiunta un'intesa sul proseguimento della politica di tagli alle spese federali, mentre il bilancio del Pentagono non viene di molto scalfito. 11 problema del deficit spinge l'Amministrazione, con una brusca inversione di rotta che fa infuriare i supply-siders più ortodossi, a presentare e a far approvare degli aumenti fiscali e ad appoggiare la proposta di un emendamento costituzionale per un balanced budget. La crisi economica e le ricette per uscirne divengono il tema dominante della campagna elettorale dell'autunno '82, che assume il significato di un vero test della popolarità di Reagan; ma la risposta che esce dalle urne presenta margini di ambiguità. Se i democratici aumentano infatti la loro rappresentanza alla Camera e tolgono molti governatori ai repubblicani, questi riescono a conservare la maggioranza al Senato. Per Reagan quindi si fa più difficile governare «mantenendo la rotta», come aveva assicurato in campagna elettorale. Occorre al contrario che il Presidente mostri dosi ben maggiori di flessibilità nel trattare con un Congresso in cui l'opposizione democratica è


più compatta e battagliera. E infatti quando si riunisce la lame-duck session del 97° Congresso I 8 per approvare una continuing resolution che assicuri i fondi al Governo (poiché anche nel 1982 il Congresso non ha approvato in tempo, per le frizioni col Presidente, i 13 appropriation bilis) i democratici moltiplicano gli sforzi, anche se senza successo, per far passare anche interventi legislativi a favore dell'occupazione. A differenza di quanto di norma avviene, il secondo anno della presidenza Reagan vede una flessione nell'appoggio garantito dal Congresso alle politiche presidenziali e lo sfaldamento di quella coalizione di repubblicani e democratici conservatori che nel corso del 1981 aveva votato abbastanza compatta. Nel tradizionale messaggio sullo stato dell'Unione per il 1983 Reagan appare cosÌ spostarsi maggiormente verso il centro e cercare di sollecitare una cooperazione bipartitica, tanto più necessaria per affrontare un deficit che veleggia verso l'incredibile cifra di 200 miliardi di dollari, anche se l'economia mostra evidenti segni di ripresa e l'inflazione appare sotto controllo. In realtà, differenze profonde dividono lo schieramento politico, sempre meno incline ad assecondare la politica di aumenti per il bilancio del Pentagono, ritenuta una delle cause principali dell'enorme deficit. Su alcuni temi scottanti, l'appello alla cooperazione bipartitica pero funziona, grazie anche alla tattica di Reagan di nominare una Commissione presidenziale bipartitica, incaricata di studiare e proporre soluzioni per salvare dall'imminente naufragio il sistema di sicurezza sociale. Quando un problema si fa troppo delicato, il mezzo migliore per affrontarlo

diviene la nomina di una Commissione bipartitica di studio: così alla Commissione Greenspan per la sicurezza sociale, le cui conclusioni vengono tradotte in misure legislative dal Congresso, seguono altre due Commissioni, la Commissione Scowcroft, incaricata di trovare un accordo sul problema del missue MX e la Commissione Kissinger per l'esame della politica statunitense verso il Centro America. Il sistema che emerge, il «governo per Commissioni», viene salutato da alcuni commentatori come un mezzo per restituire dinamismo all'azione politica, ma viene aspramente criticato da altri. La ricerca di soluzioni pratiche a singoli problemi non è sufficiente a costruire il consenso, che rimane compito essenziale dei partiti politici; il centrismo ad hoc, che l'istituzione di queste Commissioni mira a favorire, altro non appare che un espediente per improvvisare un <(centro politico», che sembra mancare alla politica americana, in cui vanno accentuandosi le oscillazioni da un estremo all'altro, con un partito repubblicano sempre più nell'orbita della destra reaganiana e un partito democratico in cui anche la scomparsa di personalità come Henry Jackson ha offuscato l'eredità del «liberai internationaiism». Quanto il sistema delle Commissioni presidenziali costituisca strumento inadatto ad affrontare in particolare i delicati problemi della politica estera, emerge ben presto quando cominciano a trapelare sulla stampa le difficoltà della Commissione Kissinger ad accordarsi su un documento unitario, anche se poi questo accordo viene sia pur faticosamente raggiunto. Reagan riesce anche, nell'estate del 1983, a scampare le conseguenze di quello che già veniva chiamato il Deba115/23


uno scandalo che sembrava profilarsi in relazione all'acquisizione preventiva, da parte di un suo collaboratore, dei dati che Carter avrebbe utilizzato in un «faccia a faccia» televisivo con il suo antagonista, in un momento determinante della campagna elettorale. Sui temi economici, poi, si accentua la divaricazione politica fra i due partiti e solo dopo mesi di defatiganti trattative i due rami del Congresso si accordano sulle cifre della prima risoluzione dei bilancio per il 1984, frenando questa volta l'aumento dei fondi per il Pentagono rispetto alle richieste presidenziali, in un contesto in cui, all'interno della stessa Amministrazione, crescono le polemiche sugli strumenti per ridurre il preoccupante deficit: questa volta ad attizzare il fuoco, nell'ottobre del 1983, è il direttore del Council of Econornic Advisers, Feldstein. In realtà la scena politica americana è stata dominata tutto quest'anno dalle elezioni presidenziali, con il consueto effetto paralizzante sul sistema politico, impegnato perennemente in una contesa elettorale che assorbe attenzione ed energia. Nessuno dei due partiti sembra così intenzionato ad assumersi la responsabilità di decisioni drastiche che, riducendo il deficit, rendano meno effimero il risultato della ripresa economica. Reagan, che da un lato ha ridotto gli incontri con la stampa (ed è noto l'accumularsi delle sue gaffes nelle interviste e nelle conferenze stampa, che i suoi collaboratori cercano di ridurre nel numero e addomesticare) e dall'altro tarda a sciogliere il rebus della sua eventuale ricandidatura, è comunque contrario sia ad impopolari aumenti delle tasse sia a tagliare i fondi del Pentagono, come anche molti esponenti repubblicani gli chiedono. D'altegate,

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tra parte i democratici intendono fare proprio dei temi economici e sociali l'argomento dominante della loro campagna elettorale.

LA PRESIDENZA ESTERA

La concentrazione dell'attenzione politica della nuova Amministrazione sui temi di politica interna e di bilancio appanna, almeno in un primo tempo, l'immagine dell'azione presidenziale in politica estera. Nonostante Reagan abbia fatto della critica alla gestione della politica estera da parte dell'Amministrazione Carter uno dei punti qualificanti della sua campagna presidenziale e abbia promesso di «ristabilire il predominio della politica estera americana organizzandola in maniera più coerente» 14, il settore della direzione degli affari esteri sembra scontare, in misura maggiore di quello della politica interna, la difficoltà di coordinamento fra i due livelli del governo presidenziale 20: il gabinetto e lo staff della Casa Bianca. Anche Reagan, come altri Presidenti appena insediati in carica, aveva affermato di voler realizzare un «vero governo di gabinetto»; ma già nella scelta dei Segretari di Stato, da sottoporre al vaglio del Senato, prevalgono più che motivi di consonanza politica col Presidente i tradizionali criteri di rappresentanza dei maggiori interessi settoriali (professionali, socio-economici o geografici). Questo alimenta l'endemico «dipartimentalismo» all'interno del gabinetto, in cui i Ministri si fanno portatori di visioni strettamente settoriali. Secondo E. Richardson, che per quattro volte ha ricoperto la carica di Segretario di Stato in quattro diverse Amministrazioni, «i membri del gabi-


netto, proprio per la natura delle loro responsabilità istituzionali, finiscono necessariamente a fare gli avvocati dei programmi dei propri dipartimenti» 21 Questa situazione trasforma il gabinetto da strumento di discussione, elaborazione e integrazione di linee politiche a luogo ove il Presidente ancora un volta, come in Congresso, esercita il consueto ruolo di mediazione. La strada da percorrere per rafforzare il governo presidenziale, il cui dimensionamento effettivo non è previsto da alcun istitutional arrangeinent, può consistere o nell'espansione e nell'ascesa dello staff della Casa Bianca, che è scelto proprio per la fedeltà personale verso il Presidente, o nel rafforzamento del gabinetto. Tra le due opzioni, perlomeno a partire dal New Deal, è sempre stata preferita la prima; in questo modo, anche attraverso l'uso delle deleghe organizzative concesse dal Congresso, lo staff presidenziale, che all'epoca dell'insediamento di F.D. Roosvelt contava solo pochi elementi, si è vertiginosamente espanso e articolato in una dozzina di uffici e comitati, fra cui giocano un ruolo principale il già citato Office of Management and Budget, il Council ofEconomic Advisers (creato nel '46), il National Security Council (istituito l'anno successivo) e il Domestic Council, che però ha conosciuto assai alterne vicende. Ovviamente questo processo di istituzionalizzazione della presidenza ha impedito al Gabinetto di avere «una parte di rilievo nel governo della nazione, tranne che per mezzo dei ruoli amministrativi dei capi dei dipartimenti, per i quali esistono delle disposizioni costituzionali». Anchè Reagan ripete così la scelta abbastanza consueta di appoggiarsi prefe-

ribilmente allo staff della Casa Bianca, su cui domina la troika dei consiglieri presidenziali Baker, Meese e Deaver, che fanno da filtro al Presidente, il cui stile piuttosto distaccato e decentrato di leadership solleva non poche critiche. Reagan infatti, che pure tiene riunioni abbastanza frequenti del gabinetto, per ottenere un coordinamento della linea politica fa più che altro appello a un cosiddetto spirito di squadra, cui dovrebbe ispirarsi il team presidenziale. Questo però non impedisce che emergano, sin dalle prime battute, vistose differenziazioni fra il Segretario di Stato Haig che, appartenendo alla scuola «atiantista», ritiene che gli Stati Uniti debbano agire il più possibile di concerto con gli alleati europei, il Segretario alla Difesa Weinberger, esponente dell'ala più oltranzista che preme per un defense build-up e per un approccio più duro con i sovietici, e il consigliere per la sicurezza nazionale Allen. Fra il modello di direzione della politica estera che enfatizza il ruolo del Presidente affiancato dal consigliere per la sicurezza, e il Secretarial model che come già con Dean Acheson sotto Truman e Foster Dulles sotto Eisenhower - accentra la gestione degli affari esteri nelle mani del Segretario di Stato, Reagan non sembra compiere una scelta precisa. In un primo tempo sembra quasi privilegiare Allen, suscitando ricorrenti proteste e offerte di dimissioni da parte del vulcanico Haig, cui peraltro riconferma il ruolo di primo consigliere per gli affari esteri. Questi, convinto com'è che la politica estera debba avere l'imprimatur di chi ha superato il confirmation process senatoriale, tende sempre più a giocare un ruolo-chiave. Così, come self-proclaimed vicar della 117/25


politica estera statunitense, protesta con Reagan per il conferimento al Vice Presidente Bush dell'incarico di gestire le situazioni di crisi, ed in modo assai poco ortodosso è lui e non Bush a dichiarare alla stampa, subito dopo il fallito attentato a Reagan, di «avere il controllo della Casa Bianca», mentre non perde occasione per cercare di declassare il ruolo di Allen. Il mancato esercizio da parte di Reagan di un controllo e un coordinamento sul team che dovrebbe elaborare la politica estera americana rende contraddittoria e oscillante l'azione dell'Amministrazione, che si spacca all'interno su alcune questioni di fondo; e neanche la sostituzione di Allen con il californiano Clark a capo del National Security Council, che sembra rilanciare il ruolo di questo organismo, serve ad eliminare le frizioni interne, che continuano, alimentate dalle divergenze in materia di politica mediorientale, relazioni con lo Stato di Israele, appoggio all'Inghilterra nella guerra delle Falkland e sanzioni economiche alle compagnie europee che partecipano alla costruzione del gasdotto siberiano. Nel luglio del 1982 Reagan, cogliendo al volo l'occasione di un'ennesima offerta di dimissioni da parte di Haig, che aveva visto progressivamente diminuire la propria influenza, lo sostituisce con George Schultz. La nomina promette di restituire maggiore coerenza all'azione dell'Amministrazione, tanto più necessaria in un momento in cui si aggravano le tensioni internazionali e cresce in Congresso un atteggiamento di maggiore durezza. A questo punto, estendendo l'indagine ai rapporti con il legislativo, appare utile tracciare una sommaria ricostruzione del processo di politica estera 22, 26/118

in cui la previsione, non priva di ambiguit, di poteri concorrenti tra Presidente e Congresso avrebbe - secondo alcuni commentatori che non concordano del tutto con la tesi della «presidenza imperiale» sostenuta da Schlesinger impedito al Presidente di stabilizzare la sua influenza politica in quel settore. Indubbiamente però il nuovo ruolo mondiale giocato dagli Stati Uniti ha accentuato la dislocazione del potere estero nelle mani del Presidente, cui la Costituzione aveva assegnato un ruolo potenzialmente dominante, specialmente nel settore dei poteri di guerra, pur con la previsione di poteri consistenti per il legislativo e in particolare per il Senato, il cui advice and consent è necessario alla ratifica dei trattati. I clamorosi episodi di rifiuto del Congresso di allinearsi alle iniziative presidenziali (è rimasta storica la mancata approvazione del Trattato di Versailles sotto Wilson, più recente è il ritiro da parte di Carter del Trattato SALT Il per l'opposizione incontrata in Congresso) hanno spinto i Presidenti a ricorrere, sotto la.copertura della teoria degli implied powers, alla stipulazione di accordi esecutivi, che sono divenuti lo strumento prevalente di regolazione dei rpporti esteri della Naione, con iiodi!icazioni anche del riparto costituzionale dei poteri fra le due Camere e l'accresciuta possibilità per la Camera dei rappresentanti di giocare un ruolo più attivo in quel settore. All'ulteriore allargamento delle funzioni presidenziali ha contribuito in. particolare lo scenario della guerra fredda, che ha fatto progressivamente sfumare a favore dell'esecutivo l'originaria distinzione fra il potere di dichiarare la guerra (offensiva) spettante al Congresso e il potere di guerra (difensiva), spettante al


Presidente in caso di attacco, in qualità di capo delle forze armate. L'escalation dei poteri presidenziali, avallata dalle maggioranze bipartitiche del dopoguerra, che consente a Truman di perseguire la «strategia del contenimento» fino in Corea e a Kennedy e Johnson di impegnare la Nazione in Vietnam, con quest'ultima vicenda subisce una brusca battuta d'arresto, quando proprio la gestione della politica estera da parte di Nixon rende palese che qualcosa si è inceppato nel meccanismo di accountability del potere. La controffensiva congressuale porta all'approvazione di una serie di misure legislative, di cui la principale è il War Powers Act del 1973, attraverso le quali il Congresso cerca di riappropriarsi o di estendere le proprie prerogative in questo settore. Tuttavia l'intrecciarsi dei problemi interni con quelli internazionali, e in particolare la natura frazionata del potere all'interno del legislativo, limita, nella portata e nell'oggetto, gli interventi del Congresso, che non riesce ad elaborare una vera linea di politica estera rendendo più illusoria che reale la tanto conclamata «rinascita» congressuale. Infatti non manca chi sottolinea come, anche dopo l'approvazione del War Powers Act, rimane illimitato - e forse non potrebbe essere altrimenti - il potere del Presidente di agire in situazioni di emergenza, siano queste «reali, immaginarie o manovrate» 23 . Ford infatti reagisce immediatamente alla cattura di un mercantile statunitense al largo della Corea del Nord e anche Carter gestisce i problemi della sicurezza nazionale, spostando forze nell'Oceano Indiano, decidendo sanzioni contro l'Iran e organizzando il tentativo (fallito) di salvare gli ostaggi detenuti a Teheran, senza significative

interferenze da parte del Congresso. Con risultati abbastanza sorprendenti rispetto alla presidenza «forte», che sembrava facile prevedere in base alla land-slide election del novembre '80, i rapporti fra esecutivo e legislativo in materia di politica estera conoscono subito un'accentuata conflittualità. In conseguenza anche della scarsa attenzione dedicata ai problemi esteri (Reagan eviterà per parecchi mesi, sino al luglio '81, di pronunciare un discorso incentrato sulla politica estera), atteggiamento cui certo ,non sono estranee le già cennate dispute all'interno dell'Amministrazione, il Congresso incrementa il proprio ruolo di contropotere, cercando di controllare e condizionare le scelte di indirizzo presidenziale, cui crea subito seri intralci. Così l'opposizione alla politica di aiuti militari al Salvador fa affermare ad Haig già nel maggio '81 che «la responsabilità costituzionale del Presidente per gli affari esteri deve essere riaffermata» 24, e questo proprio quando in politica interna l'azione di Reagan miete considerevoli successi; d'altronde lo spauracchio di un altro Vietnam rende il Congresso molto cauto nell'avallare un coinvolgimento americano in Centro America, ove Reagan vuole apparire duro, rispetto al temuto espansionismo sovietico. L'azione dell'Amministrazione non trova l'appoggio compatto neanche degli esponenti del suo stesso partito, in cui emerge un'ala più o!tranzista e conservatrice che fa capo al senatore Jessie He!ms, che si unisce anche alle critiche alla «debole» risposta americana alla proclamazione della legge marziale in Polonia alla fine del 1981. La stessa vendita di aerei all'Arabia Saudita, nel corso dello stesso anno, 119/27


che una serie di emendamenti legislativi approvati dal Congresso nel periodo 74-76 (gli emendamenti Nelson-Bingham al Foreign Assistance Act nel '74 e poi all'Arms Export Control Act nel '76) richiede siano notificati in anticipo al Congresso (che ha trenta giorni di tempo per negare la propria autorizzazione), innesca un dibattito a livello nazionale, forse sproporzionato all'importanza dell'affare, che però passa in Congresso specialmente grazie all'intenso lobbying esercitato sui parlamentari dallo staff della Casa Bianca e dallo stesso Presidente. D'altronde è da molti contestata l'opportunità di interferenze congressuali in questo settore della politica estera, in cui spesso «il merito di una vendita e le sue conseguenze di lungo periodo sulla politica estera restano ignoti, poiché i parlamentari sono spinti a prender posizione sulla base di considerazioni di politica interna» con la spiacevole conseguenza di poter deteriorare anche i rapporti con lo Stato che acquista le armi, come avvenne ad esempio nel 1975 per la vendita di missili mobili HAWK alla Giordania, che il Congresso finì per approvare dopo aver però apposto una serie di restrizioni umilianti circa il loro uso. L'aggravarsi della situazione politica nel Salvador spinge Reagan ad accentuare gli sforzi per evitare la caduta del regime in mani comuniste e a presentare al Congresso, nella primavera '82, una nuova richiesta di fondi per aiuti militari d'emergenza. Dopo un acceso dibattito gli aiuti sono autorizzati dal Congresso che però esige, con pignoleria contabile, che l'Amministrazione esibisca certificazioni periodiche scritte che dimostrino gli sforzi per far sì che in quel paese siano più rispettati i 28/ 120

diritti umani e avviate profonde riforme economiche e sociali, per poi, nell'agosto dell'anno successivo quando il problema dei finanziamenti si ripresenterà puntualmente - mettere in dubbio l'attendibilità delle dichiarazioni governative. Nel corso del 1982 Reagan concentra gli sforzi su due settori: il controllo degli armamenti, per cui, abbandonato l'obiettivo più radicale di «opzione zero» lanciato in precedenza, avvia nel maggio le trattative START (Strategic arms reduction talks), e la situazione in Medio Oriente che si è aggravata dopo l'invasionè israeliana del Libano nel luglio '82. Quando Reagan avanza la proposta di inviare un primo contingente a Beirut per consentire il ritiro dei combattenti palestinesi dalla città, molte voci si levano subito in Congresso per invocare l'applicazione del War Powers Act, nonostante il Presidente assicuri «che non c'è nessuna intenzione o previsione che le forze armate degli Stati Uniti vengano coinvolte in ostilità, eccetto forse in conseguenza di atti isolati di violenza» 25; della Risoluzione sui poteri di guerra si continuerà comunque a parlare anche in seguito, quando, anche per il fallimento del piano di pace elaborato per il Medio Oriente da Reagan, i marines e tutta la forza multinazionale di pace, che si è nel frattempo costituita, cominceranno a incontrare le prime serie difficoltà. I risultati delle elezioni parziali del. novembre '82 inducono Reagan a moderare il corso della sua azione politica, ma la presenza alla Camera dei rappresentanti di una maggioranza democratica più forte non agevola certo l'azione presidenziale. E infatti sarà proprio la Camera a respingere, in un primo momento, la richiesta di stanziamenti


per il missile MX, che passerà solo in seguito, dopo la nomina di una Commissione presidenziale bipartitica, la già citata Commissione Scowcroft, per lo studio del problema e anche in cambio di un ammorbidimento della posizione americana ai negoziati START. L'accresciuto coinvolgimento americano in Centro America e in particolare gli aiuti militari alla guerriglia contro il regime sandinista in Nicaragua innestano una battaglia politica con il Congresso, che accusa il Governo di aver violato una disposizione legislativa votata nel 1982 (BolandAmendement) che vieta all'Amministrazione azioni segrete per rovesciare governi stranieri, p0nendola nella difficile posizione di dover rivelare informazioni segrete per respingere le accuse oppure di mantenere il silenzio col rischio di vedersi imporre dal Congresso ulteriori restrizioni Per evitare una situazione di stallo, Reagan fa della politica nei confronti del Centro America il tema di un discorso al Congresso, convocato appositamente in seduta comune, e riesumando l'appello di prammatica alla necessità di un consenso bipartitico sottolinea che ricadrebbe anche su1 Congresso la responsabilita di una vittoria comunista in quell'area, qualora mancasse di sostenere la politica di aiuti decisa dal Governo. Ma l'appello non viene accolto: il Congresso si divide secondo linee di partito e la Camera approva la richiesta di tagliare i fondi alle attività segrete della CIA in Nicaragua, mentre anche gli aiuti al Salvador vengono ridotti. In quell'occasione l'ex consigliere di Carter Brzezinski lancia un avvertimento circa il pericolo di rimanere «coinvolti quanto basta per non riuscire e ugualmente essere responsabili del

fallimento» 26 L'avvertimento sembra attagliarsi anche alla situazione che si è venuta a creare in Libano, in cui il crescente coinvolgimento militare americano fa riaffiorare ancora una volta il problema della applicabilità della Risoluzione sui poteri di guerra, riaprendo la consueta polemica col legislativo su chi abbia il vero controllo della politica estera. La Risoluzione contiene due clausole: la prima prevede che il Presidente informi entro 48 ore il Congresso nel caso di invio all'estero di forze americane, equipaggiate per il combattimento, non impegnate in normali esercitazioni; la seconda clausola prevede ugualmente la notifica al Congresso, ma se le truppe sono state inviate nell'ambito di una situazione che faccia prevedere «un imminente coinvolgimento in ostilità» il Congresso dispone di 60 giorni (prorogabili a 90) per ordinare l'eventuale ritiro delle truppe. Secondo molti parlamentari, la legge sarebbe divenuta applicabile verso la fine del settembre 1983, dopo una recrudescenza dei combattimenti e la morte di alcuni marines. D'altronde la situazione dei rapporti fra esecutivo e legislativo è stata complicata ulteriormente dalla sentenza della Corte Suprema del 23 giugno 1983, che ha dichiarato l'incostituzionalità del veto legislativo 27, esercitato sia nella forma di risoluzione semplice (monocamerale) che concurrent (bicamerale), poiché, costituendo comunque esercizio di potere legislativo, vulnera il principio bicamerale nel primo caso e comunque - in entrambi - non viene sottoposto al Presidente, che non può così esercitare il diritto di veto. Sin dalla sua adozione la prima volta nel 1932 il veto legislativo, che costitui121/29


sce lo strumento più penetrante di intervento del Congresso all'interno del procedimento legislativo, col risultato - se attivato - di poter addirittura bloccare concrete azioni amministrative, sollevò forti dubbi di costituzionalità, per la violazione del principio della separazione dei poteri in particolare, e incontrò l'opposizione di molti Presidenti, fra cui Truman, Eisenhower e Carter, che però non riuscirono ad impedire che il Congresso vi ricorresse in modo sempre più generalizzato e diffuso, specialmente a partire dagli anni Settanta. Il veto legislativo era stato inserito per la prima volta nella concessione al Presidente repubblicano Hoover un'ampia delega organizzatoria da parte del Congresso, controllato dai democratici, come clausola con cui il Congresso si riconosceva un potere di revisione insuperabile dal Presidente; successivamente finì per divenire una clausola standard, ogniqualvolta il Congresso si trovasse costretto a delegare nuovi poteri all'esecutivo e spesso proprio la sua adozione consentì di superare una impasse, quando la distribuzione di potere politico fra esecutivo e legislativo presentava delle difficoltà. Dal punto di vista procedurale, più frequente è stata l'adozione del veto monocamerale (in sostanza meno gravoso per l'esecutivo data la difficoltà di raggiungere una sintonia fra i due rami del Congresso), ma non sono mancati casi di veto bicamerale e anche, a partire dal 1944, casi di veto azionabile ia una singola Commissione parlamentare. Il carattere estremamente vario di questo congegno legislativo rende molto incerta, allo stato attuale, la• situazione dei rapporti di potere fra i due rami, sia perché la sentenza non sembra aver preso in considerazione tutte le possi30/122

bili varianti procedurali del veto, sia anche perché proprio il timore di una possibile dichiarazione di incostituzionalità aveva indotto i legislatori a prevedere la possibilità di elisione (severability) della clausola sul veto dal resto della legge in cui era incorporata, per evitare appunto la caducazione di tutto il testo. Ma sulla delicata questione le opinioni sono ancora discordi. Mentre il Congresso si appresta così, attraverso una serie di hearings e l'istituzione di gruppi di studio, a prendere in esame tutte le implicazioni della sentenza che dovrebbe riguardare oltre 200 leggi e ad elaborare possibili alternative procedurali, i tempi ben più pressanti della politica impongono comunque una presa di posizione sulla questione della permanenza del contingente dei marines in Libano. L'incostituzionalità del veto legislativo inserito nella Risoluzione sui poteri di guerra, che già la dottrina aveva segnalato, sembrerebbe far cadere il potere del Congresso di ordinare il ritiro delle truppe, tanto è vero che lo stesso leader democratico Byrd, per richiedere appunto il ritiro dei marines, utilizza lo strumento della risoluzione congiunta (che viene sottoposta al Presidente) e non quello, previsto dalla legge sui poteri di guerra, della risoluzione concorrente, che aggira ed evita appunto la presentazione al Presidente. Tuttavia, alla fine si preferisce arrivare, più che ad un confronto procedurale i cui termini non sono ancora abbastanza chiari, ad una soluzione di compromesso: alla fine di settembre 1983 il Congresso approva così una risoluzione in cui si stabilisce che la Risoluzione sui poteri di guerra è effettivamente entrata in vigore, mentre il Presidente, da parte sua, dissente sulla esistenza in Li-


bano di «ostilità», affermazione questa che verrà tragicamente smentita soio quattro settimane più tardi dal massacro di oltre 200 marines a Beirut. Il Congresso, che aveva autorizzato di stretta misura la permanenza in Libano del contingente americano per altri 18 mesi, spostando così la soluzione della questione ben oltre la scadenza elettorale del 1984, assume un atteggiamento sempre più critico verso la politica mediorientale di Reagan e verso il suo modo di direzione della politica estera, che sconta ancora un nuovo avvicendamento al vertice, con il trasferimento di Clark al dicastero dell'interno, dopo le dimissioni del Segretario di Stato Watt da quella posizione per contrasti con i movimenti a tutela dell'ambiente, e la nomina a capo del National Security Council di Mc Farlane, che di Clark era stato il vice e che Reagan aveva anche mandato come suo inviato speciale in Medioriente. La sostituzione di Clark dovrebbe contribuire ad attenuare la linea dura dell'Amministrazione su alcune questioni, come la politica verso il Centro America, mentre si accentua il dinamismo della politica estera americana, testimoniato sia dal riavvicinamento con Israele, sia dalla ripresa di un dialogo più serrato con la Cina popolare. Anche questo settore appare ovviamente dominato dalle preoccupazioni per l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali, cui certo non è estraneo quel tanto di sensazionalismo che si avverte nelle prese di posizione di Reagan nei confronti dell'Unione Sovietica, con cui, dopo la tragica vicenda dell'abbattimento dell'aereo sudcoreano, le relazioni si raffreddano, portando ad uno stallo i negoziati sugli armamenti nucleari, anche se poi, tra la fine del 1983

e l'inizio del 1984 Reagan spenderà qualche parola meno dura nei confronti dei sovietici. La vera mina vagante della politica estera di Reagan sembrerebbe comunque rappresentata dalla sua ostinazione a voler mantenere il contingente americano a Beirut, anche contro la montante opposizione non solo dei democratici ma di stessi esponenti della sua amministrazione e del suo partito. LA PRESIDENZA PROSSIMA FUTURA

Sciolto con un certo ritardo 28 l'interrogativo sulla ricandidatura di Reagan, gli Stati Uniti si accingono a intraprendere il lungo e spettacolare processo per scegliere chi sarà alla guida del paese nei prossimi quattro anni. Al momento è difficile dire se le elezioni presidenziali del 1984 riprodurranno lo scenario di una contesa più che tra i due partiti, tra i due candidati (è noto che sia Carter che Reagan, ma il primo ancor più del secondo, avevano vinto certo più grazie alla propria personale organizzazione elettorale che non al sostegno del partito, che infatti, nel caso di Carter, aveva anche visto ridotto il tradizionale effetto coat-tail della vittoria prsidenziale). Di possibili modifiche 29 al processo di elezione presidenziale si parla ormai apertamente negli Stati Uniti, nel senso sia di ritoccare la recente legge sul finanziamento delle campagne elettorali, che condiziona il contributo statale alla previa esistenza di donazioni di piccolo ammontare a favore del candidato, consegnando così la politica nelle mani dei singie-issue groups e dei political action co,nmittees, e facendo proliferare le candidature indipendenti, sia 123/31


anche di ridurre la durata della campagna elettorale e di liberalizzare almeno parzialmente, con la concessione di spazi liberi, l'accesso dei candidati al mezzo televisivo, che secondo T. White «oramai è il processo politico». Sul tema assai delicato del collegio elettorale, le proposte hanno variato dal proportional plan, avanzato senza successo negli anni Cinquanta dal repubblicano Cabot Lodge, a quella più recente mirante all'elezione popolare diretta che ha incontrato negli anni Sessanta il favore di organismi quali l'American Bar Association e l'AFL-CIO, e poi riproposta nel 1969 e nel 1977, dopo la vittoria di Carter, sotto forma di emendamento costituzionale, che richiedeva che Presidente e vice-Presidente fossero eletti almeno per il 40% dal voto popolare, con eventuale possibile ballottaggio fra i due candidati che avessero riportato il maggior numero di voti; ma la proposta non superò lo scoglio del Congresso, forse anche per timore che indebolisse il sistema bipartitico favorendo l'avvento di formazioni politiche di minoranza, ma con forte potere condizionante sui due partiti maggiori. Le proposte più organiche di riforma, in genere, hanno però riguardato la carica di Presidente e la durata del mandato presidenziale, ritenuto troppo breve per portare avanti un programma significativo. Così anche per questo si è spesso proposto di portare a sei anni il mandato presidenziale, mentre, sul versante opposto, nel 1966 il Presidente Johnson aveva ripreso la proposta di allungare a quattro anni la durata in carica dei rappresentanti facendone coincidere l'elezione con quella del Presidente; ma anche di questo non si fece nulla. La debolezza governativa, che è insita nel sistema della divisione 32/124

dei poteri, ha fatto frequentemente avanzare la proposta di una modifica del regime in senso parlamentare (acceso sostenitore ne fu alla fine dell'ottocento lo stesso Woodrow Wilson), come mezzo per istituzionalizzare e razionalizzare una forma di indispensabile cooperazione fra esecutivo e legislativo; ma anche in questo caso è finito sempre col prevalere il timore di alterare il delicato meccanismo di checks and balances, senza ottenere significativi miglioramenti sulla strada della costruzione di più solide e stabili coalizioni governative, di cui certo i regimi parlamentari non offrono troppi esempi. Così la possibilità di introdurre la votazione di fiducia, magari seguita dal possibile scioglimento delle Camere da parte del Presidente, proposta che negli anni Settanta aveva incontrato un certo favore, dato che una delle cause del protrarsi di situazioni di stallo va proprio individuata nell'impossibilità per esecutivo e legislativo di influire reciprocamente sulla durata in carica, fu scartata per tema di indebolire ultra vires presidenza, senza che ne uscisse rafforzato il Congresso. La difficoltà del sistema a far giocare il meccanismo della responsabilità politica, che lo scandalo del Watergate aveva evidenziato, aveva portato alla presentanzione di emendamenti costituzionali per allargare la sfera di applicabilità della procedura di inzpeachnzent, ma la soluzione della vicenda con le dimissioni di Nixon tolse interesse anche a queste proposte, che rimasero lettera morta. L'impossibilità di superare con emendamenti costituzionali la storica separazione fra esecutivo e legislativo è stata spesso all'origine di proposte di meno ampio raggio, che in qualche modo miravano a istituzionalizzare le


occasioni di consultazione e cooperazione. Così fin dal 1865 fu proposto di istituire un question time, ma quando l'idea anche in seguito (1940) fu ripresa si scontrò con l'opposizione dei parlamentari ad ammettere i membri dell'Amministrazione a partecipare ai dibattiti parlamentari. Sull'altro versante va registrata anche la tendenza opposta a «portare il Congresso nel Governo», tendenza di cui negli anni Quaranta si era fatto promotore in particolare il costituzionalista Edward S. Corwin, che aveva ipotizzato la creazione di un Consiglio legislativo congiunto, cui partecipassero i membri più influenti delle due Camere che, nell'espletare la funzione tradizionale del gabinetto, non avessero responsabilità amministrative - per non infrangere il divieto costituzionale - ma fungessero da gruppo di consiglieri del Presidente e nello stesso tempo, per la loro qualità di membri del Congresso, potessero assicurargli il sostegno necessario all'approvazione del programma; ma anche questa proposta, pure in una versione ridotta, cadde per la preferenza accordata comunque alle pratiche di tipo informale nei rapporti fra i due organi. L'attuale panorama istituzionale, anche alla luce dell'esperienza presidenziale di Reagan, non sembra del tutto convalidare la tesi, avanzata subito dopo il Watergate e le dimissioni di Nixon, di una nuova oscillazione del pendolo del potere verso il Congresso, che gioca certo un ruolo molto più significativo che nel decennio precedente, ma non tanto da convalidare la previsione di alcuni politologi che avevano visto nelle riforme degli anni Settanta l'avvento di un sistema politico sostanzialmente nuovo. Quello che è certo è che l'accresciuta importanza del Congresso

e della stampa ha aumentato l'incidenza delle funzioni di check, controlling e investigation nell'economia del sistema. D'altro canto occorre osservare che per, certi aspetti della sua presidenza, specialmente nei primi mesi, Reagan ha smentito chi, dal ritorno della carica ai repubblicani, aveva ipotizzato, sulla scorta di un'identificazione abbastanza frequente nella dottrina nordamericana fra conservatorismo ideologico e contrazione del ruolo dell'esecutivo, un riflusso presidenziale, almeno in politica interna, confondendo anche le aspettative tradizionali che collegano i Presidenti «attivi» all'attuazione di politiche di espansione economica, e non restrittive come quelle perseguite dal Presidente Reagan. Al contempo neanche l'indubbio carattere di «leadership popolare» dell'attuale Presidente è stato sufficiente a mantenere il consenso, dopo i primi indubbi successi iniziali. Sia sul piano interno che sul piano internazionale sono aumentate le difficoltà per l'integrazione di una linea politica che il perdurare di una tendenza all'instabilità elettorale e il possibile aumento del voto di protesta verso il partito comunque al potere, che le elezioni intermedie del 1982 hanno evidenziato, certo non contribuisce a sanare. D'altronde che siano proprio i partiti i veri malati del sistema è opinione ormai largamente condivisa dalla letturatura istituzionale, non solo di quel paese. Ed è interessante sottolineare come le soluzioni di democrazia plebiscitaria, alle quali sembrano talvolta guardare con favore, per i supposti maggiori margini di democrazia, coloro che dei regimi parlamentari lamentano l'occupazione dello Stato da parte dei partiti, non sono viste come uno sbocco istituzionale 125/33


accettabile neanche nella lettura statunitense prevalente. Quello che invece quella dottrina sembra chiedere, con sostanziale unanimitĂ di accenti, certo oltre a una leadership presidenziale

il

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competente e accettabile, è proprio una riespansione del ruolo dei partiti politici, come collante indispensabile fra Governo e opinione pubblica, fra potere e responsabilità .


NOTE Omettendo i richiami alla sterminata letteratura esistente sulle istituzioni americane, si vedano in particolare da ultimo per le valutazioni del sistema politico E.S. GREISNISISRG, The American politica1 system. A radical approach, 3 a ed. Boston - Toronto, 1983 e S.P. HUNTINGTON, Amencan polisics: the promise of disharmony, Cambridge, Mass., London, 1981. In particolare sul ruolo del Congresso nel sistema, si veda J. L. SUN DouiST, The decline and resurgen. ce of Congress, Washington, D.C., 1981; sul Presidente e sulla presidenza americana, fra gli altri si veda R. WArSON, N.C. TI-loMAs, The politics of the Presidency, New York ecc., 1983. Sugli effetti del Watergate sulle istituzioni americane esiste il dibattito American politica1 institutzons after Watergate — a discussion, in aI'olitical science quarterly», 1974-75, p. 713 ss., mentre un'approfondita analisi delle disfunzioni del sistema dei partiti è contenuta in T. 13oNOMI ed., The American Constitutional system under weak and strong parties, New York, 1981. I più recenti sviluppi del sistema dei partiti sono esaminati da G. PASQUINO, Leadership ed istituzioni politiche, in R. TIISRsKY ed., Gli Stati Uniti fra primato e incertezza, Bologna, 1983. Gli aspetti di cronaca sono stati tratti in prevalenza dallo spoglio delle riviste «Time, e «Newsweek,'. 2 A. ScILIssINGoR Jr., The imperia1 prestdency, Boston, 1973 (Milano, 1980, ed. italiana). M. FEDISLIS, La deriva del potere, Bari, 1981 e P.P. D'AITORRE ed., La goverriabilità degli Stati Uniti, Milano, 1983. E.S. GRISISNisISRG, op. cit., p. 254. Di carattere pattizio delle conference committees parla in particolare L. Ei.IA, Forma di governo e procedimento legislativo negli Stati Uniti d'America, Milano, 1961, p. 123 Ss. 6 Queste e varie altre classiche definizioni della cosiddetta textbook presidency si ritrovano in J.L. SuNoouusr, op. cit., p. 34. Questa ricostruzione del potere presidenziale è contenuta nella famosa opera di RE. NISUDSTADT, Presidentuslpower, New York, 1960. 8 La citazione di C. ROSSITLR, tratta dal suo libro The American Presi4ency, 1956, p. 42 si ritrova in R.P. NATI-lAN, The plot that failed: Nixon and the Administrative Presidency, New York ecc. 1975, p. 8. L. EI.uA, op. cit., p. 30. IO A. WILDAVSKY, The two Presidencies, in A. WILDAVSKY ed., Persj.aective on the Preszdency, Boston. Il T.H. WHIT1S, America in search of itsef the making of the presi4ent, New York 1982, p. 419. 2 J.L. SUNDQUIST, op. cit., P. 147. 13 L. ELlA, op. cit., p. 40 Ss. 4 Sul tema della riforma del processo di bilancio, ai veda M. MliscHlNo,Le procedure del bilancio federale negli-Stati Uniti, Roma, 1981, e anche il capitolo che vi dedica J.L. SuNooulsT, op. cit. 15 J.L. SuN000lsi, op. cit., p. 220. 6 Così si espresse il Senatore Ernest F. Holling, Presiden-

te della Commissione bilancio del Senato, riportato da J.L.SuN000usr, op. cit., p. 230. 7 Una prima valutazione degli aspetti anche procedurali dell'azione del neo-Presidente si ritrova in L.T. LELOUP, Afier the blitz: Reagan and the U.S. Congressional Budget Process, in ,,Legislative Studies Quarterly', 1982, n. 3, pp. 341-358. i8 Dopo la proclamazione dei risultati elettorali, ma prima delle convocazioni delle due Camere nella nuova composizione, è ancora possibile riunire in una sessione speciale il vecchio Congresso, in una Sessione in cui spesso trovano ancor più favorevole ascolto spinte e interessi settoriali. 9 La citazione è tratta (numero speciale) da A. KNIC;FIT, Ronald Reagan's watershed vear, in '.Foreign Affairs., (America and the World), 1982, pp. 511-540, e ancora una valutazione dell'azione di politica estera di Reagan si ritrova in S. Rosl5NlELo, Testing dx hard line, in «Foreign Affairsa, cit., pp. 489-510. 20 Sull'evoluzione del governo presidenziale si veda H. MISRRY, Five-branch government, Urbana, Iii., 1980, in particolare pp. 89-115. 21 Citato in R.B. PORTER, Presidential decision.making. The Economic Policy Board, Cambridge, 1980, p. 18. 22 Per una ricostruzione del potere estero si veda fra gli altri L.W. K0ISNIG, Historical perspective: the swings and Raoundabouts of Presidential Power, in T.M. FRANCK, ed. The Tethered Presidency. Congressional restraints 00 Executive power, New York & London, 1981, pp. 38-63 e per gli aspetti più recenti L. VIALLE, Le Congrès, le Prészdent et la politique étrangère,.in «Revue Internationale de droit compar.', 1979, pp. 603-613; parla della necessiti di un rafforzamento del ruolo presidenziale J.G. TowISR, Congress versus the President: the formulation and implementation of American Foreign Policy, in «Foreign Affairs.', 1982, n. 2,

pp. 229-246. 23 E.S. GRISIlNBERG, op. cit., 24 «Time», 25 maggio 1981.

p. 252.

25 26

«Time.', 6 settembre 1982. «Time.', 8 agosto 1983. 27 Sul veto legislativo si veda in particolare il capitolo che vi dedica SI slDQUtSI, op. cit. p. 334 e-segg. -° Il ritardo nell'annuncio utticiale della candidatura è probabilmente da attribuirsi anche all'intento di sfruttare il più a lungo possibile il trattamento favorevole da parte dei mass media che assicurano una copertura giornalistica diversa e più ampia fin tanto che non appare certa la riproposizione, dopo di che il codice professionale prevede un'attenzione più ripartita tra i candidati, tanto è vero che per dare l'annuncio televisivo Reagan ha dovuto comprare un apposito spazio. 29 I dati relativi alle varie proposte di riforma sono stati tratti soprattutto da SuNooulsT, op. cit. e da R. WATSON, N.C. TFIOMAS, op. cit.

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