Anno XIV - n. 69 - Trimestrale (aprile-giugno) - sped. in abb. postale gr. IVI 70
queste ìstìtuzìonì La politica al plurale Mappe del potere economico Marco Borsa, Giuseppe Berta, Peter Rodgers, Maria Teresa Sa/vemini
La strana storia della Strategic Defense Initiative LordZuckerman
Territorio abusato e poteri sfuggenti Alberto Lacava, Ken Young, Andrea Piraino
Alla ricerca di una politica dell' energia Vincenzo Spaziante, Alberto Rocce/la
Televisione e pubblici poteri Un dibattito in redazione
Primavera 1986
queste ìstituziwii Primavera 1986- Anno XIV, n.69 (aprile-giugno)
Direttore: SERGIO RISTUCCIA Redattore capo: VINCENZO SPAZIANTE. -
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Direttore responsabile: GIOvAr-Jr'lI BECI-IELLONI. Questo numero è stato chiuso per la tipografia il 3 giugno 1986. Fotocomposizione e Stampa: Arti Grafiche Danesi srI - Roma
n. 69- Primavera 1986 Indice 3
La politica al plurale
9
Mappe del potere economico Verso il capitalismo di massa?
io
Marco Borsa
E che facciamo se il capitale non è piÚ soltanto grande industria? 18
Giuseppe Berta
Governo tory e Banca d'Inghilterra; una convivenza difficile 24
Peter Rodgers
Monete europee: il riallineamento di marzo 39 43
Maria Teresa Salvemini
La strana storia della Strategic Defense Initiative Le meraviglie delle guerre stellari
44
LordZuckerman
71
Territorio abusato e poteri sfuggenti Pianificazione territoriale e autonomie locali dopo la legge Galasso
72
Alberto Lacava
Ascesa, declino e scomparsa del Greater London Council 80
Ken Young
Per una critica dell'ente intermedio 91
Andrea Piraino
99
Alla ricerca di una politica dell'energia Chernobyl e dintorni
99
Vincenzo Spaziante
Gli incentivi finanziari per l'energia: la scommessa è ancora valida? 103
Alberto Rocce/la
Televisione e pubblici poteri 123
Un dibattito in redazione
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La situazione che s 'usa ormai identificare evocando gli anni Settanta (inflazione più ristagno, aumento deipoteri sociali diffusi che ampliano il numero dei poteri di veto nel sistema politico decisionale etc., etc.) ha sortito due atteggiamenti. Quello della scoperta o riscoperta della societì complessa, quello della scoperta o riscoperta della politica carzsmatica e decisionista. Il primo ha costituito la via d'uscita dai furori ideologici della sinistra (o da quel tanto d'egemonia che ha goduto una certa sinistra nuova difoza radical), l'altro ha costituito la reazione di gran parte dell'elettorato e la via seguita dalle classi dirigenti moderate o neomode rate per governare la crisi e ricercare le vie di più favorevoli equilibri economici. Al dunque, pare oggi alle persone ragionevoli che la politica debba essere intesa alplurale. Le questioni sono tante e fra loro diverse; le scelte da fare sono tante e diverse. La politica è fatta di tante politiche: tanti gli interessi e tanti i valori in gioco. In alcuni momenti vanno sì prese alcune grandi decisioni, ma esse non debbono trasformarsi in scelte permanenti, in nuovifurori ideologici. Il neo-liberismo dell'ultimo lustro comincia, per esempio, a fare i conti con se stesso. '1/ thatcherismo pareva il vessi/lo vincente di un mondo stanco di ideologie ma poi si è rivelato a sua volta un 'ideologia estremista. Nemico dei dogmi della sinistra, è apparso a sua volta un dogma incapace di tenere conto della complessitè dei problemi che si intrecciano alla vita delle vecchie societù europee ''(così annotava di recente Cavallari). Epoi non ci sono problemi che, affrontati e risolti in un certo modo, non creino altri problemi. La catena delle questioni da governare tende sempre adallungarsi. Insomma, non esiste la questione da risolvere che poi, una volta risolta, per trascinamento risolva ogni altra. Prendiamo, dunque, la strada della complessitè e, quindi, della constatazione che tante, veramente tante, sono le questionipolitiche sul tappeto. Intanto una prima domanda.' quand'è che una questione è politica? Diciamo che lo è quando entra nell'Agenda della comunitè nazionale e/o internazionale. Per entrarci i/procedimento può essere deipiù diversi e può cambiare volta a volta ma deve in qualche modo imboccare i/passaggio che porta alle grandi istituzioni che decidono e devono operare come volano: l'istituzione-Parlamento e l'istituzioneGoverno. Quel che è avvenuto negli ultimi quindicivent'anni è il notevole aumento dei soggetti che operano per mettere questioni nell'Agenda, tanto per continuare nella metafora. Si sono articolati i bisogni, sono aumentate le questioni, sono aumentati i soggetti di iniziativa politica. Ancora: fra i "bisogni sociali" s'è radicata l'esigenza che ci fosse maggior controllo sociale sulle decisioni politiche e sulla loro attuazione. Sicché spesso sorgono iniziative che tentano di porre in Agenda non tanto e non solo questioni del tatto nuove ed inedite ma quelle che sorgono in conseguenza di decisioni odazionipoliriche ed economiche (l'ampio ventaglio delle iniziative ecologiste può esemplifi care quest'evoluzione delle cose).
Abbiamo così visto sorgere nei contesto di sistemi politici diversi, purché ovviamente sistemi démocratici, i movimenti su singole questioni (i singie issue movements). Sono noti quelli sorti intorno alle varie questioni dei diritti civili, ma il modello dell'associazione politica ad hoc che nasce (e muore) intorno ad un problema è risultato diffusivo, capace di molteplici usi. Abbiamo visto ipartitipolitici organizzarsi, più o meno evidentemente, per problemi e trovare collegamenti fra loro non tanto in termini di generali strategie e schieramenti ma proprio in relazione a determinate questioni. E, d'altra parte, i partiti di massa, pur quando sembravano capaci di rappresentare un po' tutti i ceti, le categorie e le classi e per questo erano chiamati appunto 'pigliatutto", in realtè da tempo non riuscivano più no.n si vuoi dire a fare la cosiddetta ''sintesi'' (impresa titanica e forse completamente inutile), ma neppure a fare pi modestamente da filtro. A meno che filtro non significhi tener ferme le decisioni che non si sanno prendere o prenderle un po' a caso, magariper il combinarsi di spinte emulative. Nei discorsi della domenica (che fortunatamente sono in ribasso malgrado le stampelle che i Telegiornali offrono agli oratori per tenersi in piedi) si è ripetuto molto spesso che la nostra democrazia è "pluralista". L'espressione non è di grande significato, diciamo anzi che rischia di non averne più alcuno. Serve semplicemente a constatare che la nostra democrazia ha componenti diverse di originipoco omogenee, che deve operare necessariamente sulla base della tolleranza e del compromesso e che di questo compromesso - ecco ilpunto cruciale - il regime spartitorio delle cariche fra ipartitipolitici è l'espressione massima sia pure in ragione di una consecutio logica che non è stata mai ben spiegata (ma vivaddio converrebbe che lo fosse con più piglio in mezzo a tanti falsi moralismi e ipocrite pruderies). Ma se volessimo riutilizzare ora il termine pluralismo, magari solo per in: tenderci, dovremmo dire che ilpluralismo è delle questioni, molto più che degli orientamenti e delle tradizioni ideologiche. E dovremmo sottolineare la conseguenza che ilpluralismo (e l'affollamento) delle questioni ha bisogno di sue proprie regole. Da trovare o ritrovare. L 'attualitè politica suggerisce a questo proposito qualcosa di nuovo ed utile? Prendiamo laprop osta di Pietro Ingrao di un "governo costituente". Ali 7 Congresso del PCI, dell'aprile scorso a Firenze, egli ha detto: "E parlo naturalmente non di un governo che fa lui la Costituzione, ma che crea le condizionipolitiche e pratiche di una riforma. (...) Quali programmipotrebbero realizzare i governi di programma senza avere le strutture, ipoteri, la forza di schieramento necessariper avviare una svolta? Non so proprio vedere come sia possibile intervenire nelle gigantesche ristrutturazioni in corso su scala mondiale, con un governo poggiato su strutture ministeriali vecchie, con un Parlamento bloccato e soffocato da un inutile, sistematico doppio lavoro, con una pubblica amministrazione arcaica, con una rete di autonomie locali ridotte a canali di erogazione di flussi centrali di spesa, con un sistema di relazioni industriali tutto da riedificare?". 5
Perchè questa citazione? Che sia possibile e credibile la formazione di un governo di durata prestabilita con i compiti indicati da Ingrao non sapremmo dire. Nè, certo, l'elenco dei mali della macchina-Stato è altro che rzj'etitivo, giustamente ripetitivo. L 'interessante della proposta è in ciò che essa implicitamente presuppone. la centralitd delle funzioni dell'istituzione- Governo nell 'aggiornamento delle regole per selezionare, affrontare e risolvere le questioni. Non da oggi Ingrao sostiene la necessitè di un Esecutivo più efficiente e forte. Ma qui, con la proposta della formula di un "governo costituente", egli, che è stato sicuramente uno dei sostenitori autorevoli della centralitè del Parlamento, passa a soste nere e a promuovere la centralitè del Governo. Che è un 'indicazione utile riguardo alle regole per muoversi nelpluralismo delle questioni. "E' difficile negare un rischio", dice Ciriaco De Mita nella sua relazione introduttiva all 7 Congresso della DC, in maggio a Roma: che prenda corpo "una sorta di democrazia sempre più contrattata, quasi priva di regole condivise per la composizione degli interessi singoli con l'interesse generale". La politica, dice più avanti De Mita, "deve assicurare l'ordine nella convivenza e promuovere lo sviluppo individuale e collettivo". Ma per questo ci vuole "una nuova razionalitè istituzionale", cioè una razionalitè "non limitata adastrattiparametri di efficienza ma anche riferita ai valori condivisi dalla gente, in modo da coniugare l'efficacia operativa con la parteczp azione attiva dei cittadini che di quei valori sono portatori". Una prima impressione. a De Mita non piaceranno molto iparametri di efficienza che siano astratti ma l'astratta e letteraria composizione degli opposti continua a piacere. Poi se nepente unpo 'perchè egli sa che le formule letterarie non bastano più, da tanto tempo. Ed ecco allora la mortificazione delle pretese annunciate attraverso una opportuna dichiarazione di umiltd: "su tutto questo nessuno ha giè soluzionipronte, nè esistono modelliprecostituiti. . . . è necessaria una ricerca nuova... In questa ricerca ogni partito è, in un certo senso, solo e tutti siamo idea/mente alpunto di partenza di un nuovo difficile percorso". Superando qui una seconda impressione, quella de/giè visto e sentito (l'area culturale da cui De Mita proviene si è sempre nutrita di questo tipo diproblematismo e di coloriture epocali), e sgombrato il campo dalle figurazioni retoriche, la dichiarazione dipovertù teorica-pratica della politica è vera. Che ilpatrimonio di idee deipartiti si impoverisca continuamente lo si coglie a vi sta d'occhio. Di cosa è fatto, per esempio, l'approdo faticato del PCI all'idea del programma (il "governo di programma") come elemento politico da preferire al semplice schieramento? E che cos 'è quella "cultura di governo" di cui la DC continua a vantarsi se oggi sembra tanto ragionevole dichiarare che siamo a zero quanto a capacitì di risolvere iproblemi? In ogni caso la citata dichiarazione dipovertì va presa sul serio. E' assai utile. Sono lontani i tempi in cui siparlava, seriamente, di intellettuali organici ai partiti. Tempi lontani e, almeno per questo aspetto, da non rimpiangere. Eppure il problema di quale sapere e di quali discipline del sapere abbia bisogno la politica èpiù presente che mai. E se in generale, data l'ampiezza della scacchiera su cui si 6
gioca la politica, sembra ovvio rispondere che i saperi richiesti sono tanti e volta a volta diversi, sorge l'obbligo di qualche più preciso orientamento. Ebbene, è allora il caso di ribadire la necessitè, oggi, di una cultura della valutazione. Qui basta rzbrendere alcuni spunti di ben scarsa oriinalitè. Primo: ripartire da capo come è stato suggerito non si può senza valutare bene quel che è stato fatto fino adora, in un campo e nell'altro dell'azione pubblica. Secondo: ottenere dei risultati in tempo (per esempio, una legge che poi a sua volta sia attuata con tempestivitè) non è solo questione di procedure istituzionali. Dipende anche da una valutazione degli interessi coinvolti, di come essi si muoveranno nei vari momenti, durante I 'iter decisionale, di come percepiranno questioni e soluzioni e così via. Alla vuotaggine delle lamentele sulla ''volontè politica'' che spesso manca dovrebbe essere sostituita una più lucida valutazione dei pro e dei contra secondo le prospettive dei diversi interessi in gioco e delle loro capacitè d'influenza. Terzo. il successo di una determinata politica dipende anche dalla capacitè diprevedere le dzffico/tè dell'attuazione, le conseguenze implicite che ne deriveranno (le nuove questioni), entro quale momento e a quali condizioni essa va modificata o cessata e così via. Si potrebbe continuare. Quel che vogliamo dire è che la politica a/plurale vuole molte più capacitè di valutazione che non il semplice e tradizionale "aver naso" cui un ministro tempo addietro diceva di affidarsi così come, a dire il vero, un po' tutti si affidano. Se la politica, come pensiamo, non è una quintessenza indecifrabile che alla fine si riduce alla questione ben nota, e - ammettiamo/o pure - in qualche misura rispettabile, del chi comanda o del chi distribuisce (anche a prescindere dal che cosa si comanda e dal che cosa si distribuisce), ma è anche capacitè reale di risolvere questioni per consentire il miglior possibile andamento della societè, essa allora è anche composizione (difficile) disaperi. Non c'è dubbio che il quotidiano sottoponga la politica, soprattutto le istituzioni di governo, adun notevole sovraccarico. Ilperchè del sovraccarico è stato spiegato, qualche anno addietro, quando dei buoni scienziati sociali hanno studiato come sorgono le domande sociali. Ma il sovraccarico non sempre è dovuto alla pretesa espansiva, egemonica ed imperialista - tanto per usare qualche vecchio aggettivo colorito - della politica (quante volte si è parlato del perverso "Big Government"?). No ilsovraccarico deriva molto spesso, o i/più delle volte, dalla quantitè di questioni irrisolte e trascinate di giorno in giorno. Irrisolte perchè l'attivitè delle istituzioni di governo è sempre più destinata, in una societè complessa (giè: vogliamo ricordarcene?), una attivitè di semplice rimessa quando non riesca a qualificarsi seriamente, a mettere ordine fra le questioni, a selezionarle, a risolverle con migliore possibile conoscenza di causa, aprevederle eprevenirle. Rieccoi dunque al nodo fondamentale del rapp orto fra politica e cultura, frapolitica e ricerca. Dobbiamo allora auspicare che si faccia largo agli scienziati politici e in generale agli studiosi di scienze sociali applicate? Non è questo il punto. Con le crescenti frustrazioni che incombono su alcune scienze sociali, ivi compresa l'economia, 7
questa non sarebbe una grande trovata. Tuttavia, la questione è grossa ed il discorso è serio. Anzi è, forse, la questione principale della riorganizzazione delle istituzioni di governo. Una modesta proposta va comunque rzjìetuta: quella di utilizzare in politica la cultura della valutazione e gli strumenti di analisi, ex ante e expost, delle politiche pubbliche. Che è qualcosa dipiù e di diverso (si vorrebbe dire: qualcosa di più complesso e sofisticato) del generico "far programmi" a cui si continua a pensare come strumento di razionalitd politica. Eper analisi delle politiche pubbliche intendiamo soprattutto quella centrata sugli obiettivi, sull'attuazione e sugli effetti dei provvedimenti legislativi e, più in generale, degli interventi delle autoritè amministrative. C 'è ancora un gran lavoro da compiere solo che sipensi alla pratica corrente di confezionare norme di legge: pratica che combina per lo più il desiderabile proposto dagli interessati (anche quando si tratti di interessi nobili', cioè senza aspetti più o meno venali) e calcola pochissimo effetti, conseguenze e costi. Ma sard anche utile l'apporto degli studiosipiù competenti a indagare l'arena degli interessi e i meccanismi di formazione dell'Agenda. Perchè è anche di questa ricognizione, come abbiamo detto, che ha bisogno una valutazione difattibiitd delle singole politiche. Torniamo, per concludere, al nostro lavoro. È chiaro a questo punto che quanti facciano documentazione critica e informazione riflessiva intorno all'attivitì di "queste istituzioni" e aiproblemi che esse debbono affrontare hanno da scrivere dei componimenti che non sono proprio dei compitini. L 'orientamento metodologico innanzitutto non può differire molto da quello che s 'è innanzi detto per i policy-makers e per i soggetti d'iniziativa politica. Analisi ex ante ed expost delle politiche pubbliche, valutazione degli interessi in gioco, degli obiettivi di raggiungere, degli effetti e così via. Un bell'intreccio di competenze diverse e di lavoro multidisciplinare. Eper giunta cercando di scrivere, come s'è detto la volta precede nte, con ''felice esattezza' 'per lettori che siano e vogliano essere interlocutori e magari fattivi interlocutori. Forse è meglio non insistere troppo su questipropositi. Essi possono risultare vere e proprie pretese insensate. A dir la veritd, se sipensa che il mercato editoriale dei periodici sta rifiorendo (così sembra avvicinandosi alle edicole) attraverso il gran numero di belle riviste d'intrattenimento che, per offrire pubblicitd, cercano di segmentare il grande pubblico delle vecchie e nuove classi medie prendendolo per il verso delle specializzazioni, degli hobbies e della riproposizione in car;.1patinata di temi di varia e superficiale umanitd, beh! cercare di affacciarsi sul mercato editoriale con ipropositi che abbiamo enunciato sembra, edè, un azzardo bello e buono. Ma ognuno ha il diritto di qualche azzardo.' quello, per esempio, di avere la testa dura.
queste, istituAgni primavera 1986
Mappe del potere economico
Giuseppe Turani pubblicando un libretto ricco di grafici e tabelle assai leggibili (1985-1995. Il secondo miracolo economico italiano - Istruzioni per l'uso, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1986) iipreoccupa di segnalare ai distratti che è cominciato i/secondo miracolo: ''Diecianni in cui mietere qua/che successo e in cui crescere, sotto il riparo di una tranquilla provinciale, ma benvenuta stabilitd" (economica). Stabiitì che deriverebbe da/fatto che, secondo accreditate previsioni, la congiuntura potrebbe mantenersiper anni moderatamente buona. Il che sta a significare che, al di /ì del recente miglioramento della si:tuazione macroeconomica soprattutto, o almeno, per quanto riguarda il rientro dell'inflazione, si fanno evidenti importanti mutamenti strutturali (fenomeno della Borsa a parte) e nuove mappe de/potere economico. È cominciata al riguardo l'opera d'indagine alla quale anche la nostra rivista è interessata a dare qualche contributo. Per ora non è facile tirare conclusioni ed infatti non intendiamo tirarne. Piuttosto conviene per ora qualche particolare segnalazione. Per esempio, il particolare ri lievo che in questi anni sta avendo il rapporto istituzionale fra governi e banche centrali. Il caso inglese a cui dedichiamo un artico/o è interessante perchè sta a ricordare che non sempre la difficile convivenza fra governi e banche centrali si verifica quando a/governo siano partiti di sinistra, come talora si tende a ritenere. Le stesse divergenze fra la FED e l'Amministrazione Reagan, che ci sono state in piii d'una occasione nel corso degli ultimi anni, stanno a segna/are, al di là degli episodi contingenti, il rilievo della questione dell'autonomia de//e banche centrali nel governo concreto de/l'economia e nell 'assetto stesso deipoter costituzionali.
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Verso il capitalismo di massa? di Marco Borsa
Credo che se si facesse un referendum per stabilire chi in Italia ha il maggior potere economico pochi avrebbero dubbi nel rispondere che è la Fiat e, più in generale, il gruppo Agnelli. Dopo la ristrutturazione del 1980 la Fiat ha conosciuto effettivamente una espansione senza precedenti sia nella direzione di diversificarsi dall' automobile (chimica e armi nella SNIA, elettronica e telecomunicazione con la Telettra, biomedica, Sorin, elettrodomestici, partecipazione nella Zanussi), sia consentendo alla famiglia Agnelli di ricostituire un importante impero finanziario e commerciale, parzialmente liquidato durante la crisi degli anni Sessanta. Hanno ricomprato la Rinascente, hanno acquistato la Toro al posto della SAI, hanno costituito la Gemma che probabilmente è oggi la finanziaria italiana più liquida (500 miliardi da investire), sono entrati massicciamente nell'editoria, hanno acquistato qualche piccola banca e sono entrati in grande stile attraverso le finanziarie tradizionali del gruppo nel nuovo campo dei fondi comuni di investimento. Il nuovo dinamismo della casa tormese li ha portati anche all'estero da cui progressivamente si erano ritirati negli anni duri della crisi dell'auto. Ingresso nella Westland per l'elicotteristica, accordo con la Ford per gli autocarri, ac10
cordo con la Matra per la componentistica auto.
GRUPPO AGNELLI: UNA VITTORIA DI PIRRO
L'indubbio successo del gruppo tormese non è il frutto del caso. E non è neppure un miracolo. E, se mai, la conseguenza logica di una strategia corretta su tre piani fondamentali: la decisione che risale all'inizio degli anni Settanta di mettersi alla guida della media imprenditoria italiana privata (presidenza Agnelli alla Confindustria) mortificata dal tentativo perseguito con tenacia dal mondo politico romano di espandere clamorosamente il settore pubblico dell'economia più facilmente controllabile dai partiti; la decisione dell'in, cioè della famiglia Agnelli, di non indebitarsi a metà degli anni Settanta pur di conservare il proprio impero; la decisione, sofferta e tardiva, del 1980, di affrontare di petto la ristrutturazione dell'auto, il fulcro delle attività del gruppo. Questa strategia ha prodotto tre risultati essenziali: ha fornito gli alleati contro il sindacato e i politici al momento della ristrutturazione nonché i soci per allargare la propria sfera di influenza (i Ferrero nella Toro piuttosto che Arvedi
nella Rizzoli o i soci della Rinascente); ha consentito agli Agnelli di mantenersi finanziariamente solidi e liquidi nonostante le pesanti perdite degli anni Settanta; ha collocato la Fiat alla testa dell'industria italiana nel momento della svolta. Gli Agnelli dunque hanno vinto. E si può anche aggiungere che, tutto sommato, hanno meritato di vincere. Eppure sotto certi aspetti la loro è una vittoria di Pirro. Nel senso che se si concluderà il processo al cui avvio hanno sicuramente contribuito con la loro leadership, il potere di comando della Fiat e degli Agnelli nell'economia italiana tenderà a ridursi e non ad ampliarsi. Una prima conferma clamorosa è già avvenuta con la vicenda Montedison che si è affrancata dalla tutela di Gemma allo scopo di assicurarsi un futuro di sviluppo autonomo. La vicenda Montedison-Bi-Invest non è altro che il tentativo del management Montedison di costruirsi una proprietà più vicina ai destini dell'azienda, meno distratta (come la Fiat) da altri e più ampi interessi. Il fatto che l'emancipazione sia stata traumatica anzichè consensuale (come invocava la Fiat) è solo la conseguenza logica di quanto dicevamo: l'indipendenza è vera indipendenza solo se è guadagnata contro qualcuno. Del resto non era stata proprio la Fiat a battersi per la privatizzazione di Montedison? A battersi per un mercato finanziario meglio articolato? Per una gestione più rigorosa e professionale della grande impresa? Tutto questo ha portato alla scelta di libertà della Montedison, resa possibile oltre tutto da un
mercato finanziario effervescente dove trovare i capitali necessari all'operazione. Ma già prima della Montedison questa scelta di indipendenza dagli Agnelli l'aveva fatta il gruppo De Benedetti tanto che per anni una pubblicistica un p0' folkloristica e superficiale vedeva il mercato italiano come il luogo di scontro fra Agnelli e De Benedetti. Ora al quadro bisogna aggiungere i Ferruzzi, i Benetton, i Marzotto, i Berlusconi, i Lucchini. In quasi 20 anni, del Consiglio di amministrazione della Bastogi del 1969, santuario del potere economicofinanziario italiano degli anni Sessanta, sono rimasti solo Agnelli, Pirelli e Orlando. Spariti i Volpi, i Cmi, i Marinotti, i Bruno e tanti altri bei nomi dell' imprenditoria italiana del dopoguerra, oggi il potere economico sembra articolarsi su nuovi centri anche geografici (il Veneto dei Marzotto, o la Romagna dei Ferruzzi, dove c'è stato il più rapido sviluppo industriale degli ultimi 20 anni). C'è stato dunque solo un ricambio imprenditoriale complice la crisi degli anni Settanta, dalla grande inflazione alla stretta del credito, dalla lotta al sindacato a quella contro gli enti pubblici? Direi di no. O meglio non solo questo, e forse non tanto questo. La vera novità di questi ultimi due-tre anni è stata l'emergere di un mercato finanziario di massa con la partecipazione del pubbliCO al capitale delle imprese via i fondi comuni di investimento il cui lancio in Italia è avvenuto quasi 25 anni dopo i primi progetti. 11
Viene facile ora parlare di capitalismo di massa, di scoperta del rischio da parte dei risparmiatori, di famiglia S.p.A. e altra paccottiglia sociologica. Il Capitalismo di massa, per usare una espressione di Bernard Cornfeld, il più grande venditore di fondi comuni del secolo, è solo il risultato. Ma quale è la causa? E cosa significa questo processo? Dove porterà?
Questo sistema banca-impresa fu così riformato e razionalizzato toccando il suo punto più alto di efficienza e di efficacia con la creazione dell'IR! e la riforma bancaria degli anni Trenta. Due furono i punti chiave di questo riordino: la nazionalizzazione delle banche assegnando a ciascuna compiti rigidi e ben definiti e il ricorso alla piccola borghesia i cui risparmi erano stati rivalutati dalla deflazione del 1927 per piazzare le prime obbligazioni garantite dallo Stato. Il pubblico faceva così inRIPERCORRENDO LA STORIA DELL'INDUSTRIA ITALIANA gresso per la prima volta nell'agone finanziario vero e proprio. Credo che occorra a questo punto una Questo sistema ha retto sostanzialmenbreve riflessione storica. L'Italia indu- te per 40 anni. Lo Stato è tornato ad striale è nata circa un secolo fa dalla emettere obbligazioni negli anni Cinconcentrazione finanziaria. Furono ca- quanta e Sessanta, le banche hanno pitali tedeschi a promuovere le grandi svolto egregiamente il loro ruolo, le banche che, funzionando da merchant grandi imprese di prima della guerra banks, Promossero i grandi investi- sono tornate a svilupparsi nel dopomenti nelle ferrovie, nell'elettricità, guerra sotto il controllo più o meno denella chimica, nell'industria manifat- gli stessi nomi di 50 anni fa. turiera in generale. Naturalmente al- Tuttavia un fatto nuovo era intervenula concentrazione finanziaria corrispose to, destinato a sconvolgere l'intero la concentrazione industriale. Poche quadro. Lo sviluppo prepotente nel dograndi imprese in mano a poche grandi poguerra di una forte industria che nafamiglie e a poche grandi istituzioni fi- sceva dal basso, fuori dagli incentivi nanziarie. statali, fuori dal controllo delle grandi Alla prova della prima grande crisi, famiglie, anzi contro lo Stato (a cui tuttavia, quella degli anni Venti il si- non pagava né tasse né contributi). stema non resse. Le grandi imprese ten- Un'industria forte ma non una indutarono di dare la scalata alle grandi stria grande. Anzi quando cercava di banche per assicurarsi in via definitiva i diventare grande saltava sulla mina mezzi finanziari necessari alla propria della debolezza manageriale e della sopravvivenza e al proprio sviluppo e fragilità finanziaria finendo o in mano viceversa le grandi banche tentarono di allo Stato o in mano ai gruppi inultinaconquistare il dominio definitivo delle zionali (il caso più eclatante è quello grandi imprese per garantire gli ingenti degli elettrodomestici dove gli italiani crediti che avevano concesso. come Zanussi e Borghi guadagnarono 12
in 20 anni la leadership del mercato mondiale dal punto di vista produttivo e commerciale per poi finire a carte quarantotto). Restando di medie dimensioni e sostanzialmente fuori dal mercato finanziario non disturbava il sistema, quel sistema pensato a costruire negli anni Trenta. Tuttavia è stata sempre una industria ricca. Cioè ha fatto accumulare ricchezze immense, ha diffuso una grande capacità di risparmio nel paese distribuendo salari e altri compensi. E da questa fonte che proviene la ricchezza degli italiani oggi ancora prevalentemente investita in titoli di Stato (150 mila miliardi almeno in mano ai privati). Una ricchezza di cui i sindacati non si accorsero al punto da lanciare una grande battaglia sulla scala mobile senza rendersi conto che un punto pesante di contingenza valeva ormai meno di un punto in più di interessi sullo stock di titoli posseduto dalle famiglie italiane. L'Italia finanziaria bocciò così nella sorpresa quasi generale il ripristino della vecchia contingenza. IL CETO MEDIO FINANZIARIO
Questo nuovo ceto medio finanziario di massa è da anni alla ricerca di impieghi che lo mettano al riparo dall'inflazione, dalla rapina delle classi dirigenti, dalle incognite del futuro. Hanno prima investito nelle banche popolari, poi si sono riversati sui cosiddetti titoli atipici e in particolare sul fondo immobiliare Europrogramme convinti davvero che il mattone difendesse dall'infla-
zione. Alla fine sono stati canalizzati verso la Borsa e soprattutto verso i fondi comuni di investimento. Per la prima volta, però, nei fondi dispongono di un potere contrattuale: i loro risparmi sono gestiti in grandi quantità, professionalmente, con lo scopo dichiarato di rendere. E soprattutto di questi capitali l'estab/ishment industriale e finanziario ha disperato bisogno. Sia per rimborsare i vecchi debiti contratti con le banche. Sia soprattutto per tener testa alla concorrenza internazionale aumentando la dimensione delle imprese e la presenza sui mercati internazionali. Questo processo fu favorito dalla Fiat che piazzò per prima in Borsa un aumento di capitale di quasi mille miliardi (il più grosso della sua storia, dopo l'ingresso della Libia che riciclò circa 400 milioni di petrodollari nella casa torinese) nell'autunno del 1984 dando il segnale di avvio dell'attuale rialzo azionario. Ma non può limitarsi alla Fiat. È tutto il sistema imprenditoriale italiano che deve crescere di dimensioni, deve investire di più all'estero, deve darsi una struttura e una articolazione meno asfittica se vuole competere con gli altri sistemi imprenditoriali. Se riprendiamo il filo della nostra storia economica potremmo dire che cosi come dalla concentrazione finanziaria si è passati alla concentrazione industriale nella prima fase del nostro sviluppo, nel secondo dopoguerra si è passati dalla diffusione industriale alla diffusione finanziaria, che serve ora ad alimentare una nuova fase di concentrazione industriale. 13
Profondamente diversa però da quella precedente perché non è più basata sulla concentrazione finanziaria. E questo implica un trasferimento di potere di grande importanza dalle ristrette oligarchie bancarie e finanziarie al pubblico degli investitori, al mercato finanziario. L'uscita dei libici dalla Fiat comporta un disinvestimento di 3.000 miliardi. Non c'è famiglia Agnelli che tenga di fronte ad una cifra simile. Solo il pubblico nazionale e internazionale degli investitori, organizzati nei fondi comuni o nei fondi pensione, può rilevare quel pacco. Ma a costoro bisogna dare qualcosa in cambio: un mercato finanziario meglio controllato (la Consob), bilanci più trasparenti (diffusione della certificazione), utili provenienti da una buona gestione, garanzia che i gruppi di controllo sapranno anteporre gli interessi della società a cui partecipano anche gli altri ai propri interessi personali, un' organizzazione managerialmente efficiente che non sia l'esclusiva emanazione delle famiglie dei principali proprietari. Carlo De Benedetti, che è stato sicuramente il primo ad intuire l'importanza e la portata di questi cambiamenti, ha fatto di un rapporto stretto con il mercato la sua bandiera. Privo di grandi capitali ma dotato di talento imprenditoriale ha venduto con successo per oltre dieci anni sul mercato la sua capacità di gestire, di far soldi e farli guadagnare a chi avrebbe investito con lui. Tanto che oggi ha quòtato in Borsa una società come la Cofide che porta addirittura il suo nome (Compagnia Finanziaria De Benedetti). 14
LE RESISTENZE DELL'ESTABLISHMENT
Il processo tuttavia è ben lungi dall'essersi concluso. E solo agli inizi. E nòn è nemmeno un mutamento così lineare e razionale come sembrerebbe quando lo si descrive. La resistenza dell'establishment industriale e finanziario ad abbandonare la vecchia cultura degli anni Trenta è ancora molto forte. La tentazione di considerare la Borsa e i fondi come l'ennesima moda che travolge i risparmiatori ma di cui si può pensare di fare a meno appena il vento cambia, si intravede spesso. Il desiderio di controllare il processo pilotandolo dove vuole il "padrone" è forte. Il mondo politico guarda con diffidenza il mercato e considera ancora come unici seri interlocutori la Fiat, le grandi banche e le partecipazioni statali. Quando Cuccia è andato al Parlamento ad illustrare il suo progetto di privatizzazione di Mediobanca le reazioni e i commenti erano improntati alla fondamentale incomprensione di quanto sta avvenendo. Chi avversava il progetto perchè voleva mantenere l'influenza dell'ne su Mediobanca non si rendeva conto che, il cambiamento avrebbe presto investito anche l'mi e non solo Mediobanca mentre, chi al contrario appoggiava il progetto in nome dei fondamentali equilibri del capitalismo privato dimenticava che, il mercato questi equilibri li aveva già scardinati rendendo un qualsiasi grande fondo comune di investimento più importante di Mediobanca sotto il profilo delle partecipazioni di portafoglio. Siamo solo agli inizi. Sotto certi aspetti
il nostro mercato finanziario è ancora molto primitivo. Appena la Borsa sale ci sono commentatori improvvisati che si lanciano in audaci quanto futili proposte come quella di quotare sul mercato tutto. Anche l'ENEL il cui compito istituzionale è quello di sacrificare i profitti a vantaggio degli utenti favorendo per questa via lo sviluppo. E si è mai visto un ente che va in Borsa con lo scopo dichiarato di non fare utili da distribuire? Poi ci sono i trombettieri dei vari gruppi che sollecitano le quotazioni di società controllate: una misura molto pericolosa per il mercato che ha bisogno di buon materiale su cui investire. In Borsa debbono entrare società il più possibile autonome, che, se anche fanno parte di grandi gruppi, non siano condizionabili strategicamente da forze esterne all'azienda in cui i risparmiatori investono. E invece finora di facce veramente nuove se ne vedono poche. Per fare un paragone storico tra il 1910 e il 1913 sono entrate in Borsa più di cento società nuove, più di quante ne siano entrate negli ultimi dieci anni.
UNA PARTITA ANCORA AGLI INIZI
Dunque è qui, sul mercato finanziario, che si gioca la vera partita. Se la televisione commerciale di Berlusconi resta fuori dalla Borsa rischia di strozzare il proprio sviluppo per mancanza di capitali. La Zucchi ha potuto acquisire una parte della Bassetti e una quota nella Marzotto grazie al fatto che si è appog-
giata al mercato. La stessa Marzotto è diventata il primo gruppo laniero europeo grazie anche alle risorse finanziarie fornite dal mercato. Naturalmente la Borsa non è il toccasana per nessuno. E solo un passaggio importante, a volte obbligato, in vista di una crescita equilibrata, di una corretta ripartizione dei rischi, un impulso a darsi una organizzazione e una struttura che non siano quelle del capitalista-fondatore, della società famigliare. Sarà un processo lungo e niente affatto indolore. I grandi gruppi stanno già cercando di condizionano e di volgerlo a loro esclusivo vantaggio in due modi: inserendosi nei fondi comuni di investimento in modo da avere una certa presa sui capitali raccolti dal mercato, e sviluppando una vasta e ramificata attività finanziaria in proprio. Uno dei fenomeni più recenti e per certi versi più inquietanti è la nascita di una grande quantità di finanziarie "captive" cioè interne ai gruppi: la Cofide di De Benedetti, la Caboto alla Pirelli, la ff11 e la sAEs nell'In, la Meta nella Montedison e via di questo passo. Che i grandi gruppi abbiano una importante componente finanziaria è logico e naturale. Che si mettano invece a fare il lavoro di intermediazione finanziaria per chi fa gli industriali è sempre un pericolo. Perchè non è il loro mestiere. Del resto questa concentrazione di potere in poche mani è ancora molto forte. I primi dieci gruppi italiani radunano sempre più dell'80% di tutto il listino di Borsa. Su 130 mila miliardi di capitalizzazione la quantità di titoli realmente disponibile per gli scambi si 15
è ormai ridotta al lumicino (si calcola sia meno di 20 mila miliardi). Concentrazione dell'offerta dunque contro, invece, una domanda diffusa, più congeniale al mercato finanziario di massa che abbiamo descritto. Di qui la paura diffusa in molti ambienti ormai che tutto il processo di cambiamento degli ultimi tre anni si risolva nell'ennesimo colossale crack finanziario come quello che travolse Ca!vi e la Borsa nel 198 lo quello che travolse Sindona e la Borsa nel 1974. E comprensibile. Come abbiamo detto, se è vero che i mutamenti in atto sono strutturali, hanno ragioni e radici storiche e potrebbero portare lontano, è anche vero che non è affatto detto che il processo non si interrompa bruscamente con un collasso. La lotta è appena agli inizi. Da una parte ci sono milioni di investitori organizzati nei fondi o che partecipano alle gestioni patrimoniali in rappresentanza di milioni di italiani da cui sale una domanda crescente di buona gestione finanziaria e di un mercato efficiente. Questa spinta è condivisa da buona parte del mondo industriale che ha bisogno di capitali e credibilità per aumentare le dimensioni e internazionalizzarsi, da una parte del sistema bancario più o meno per le stesse ragioni degli industriali più la necessità di una specifica opera di ammodernamento dell'intermediazione bancaria. Dall'altra ci sono gli interessi costituiti di un vecchio establishment abituato a non condividere il potere finanziario con nessuno che ha radici sia nell'industria che nelle banche. C'è una mancanza di 16
cultura finanziaria ancora diffusa in larghi settori imprenditoriali diffidenti o indifferenti rispetto agli sviluppi che abbiamo descritto. In mezzo c'è il mondo politico che per ora non ha ancora fatto la sua scelta perchè come sempre è indietro di un ciclo. Sta ora assorbendo gli effetti della ristrutturazione industriale, un fenomeno ormai esaurito, un ciclo finito, premessa indispensabile della nuova fase ma anche processo ormai concluso. Difficile dire come finirà anche se personalmente ho la sensazione che le forze che spingono per una trasformazione radicale del mercato parallelamente ad una redistribuzione di ruoli e poteri siano destinate a prevalere salvo gravi complicazioni internazionali. In fondo il processo italiano non è che un logico allineamento a quanto è già avvenuto e sta ancora avvenendo sui mercati più evoluti, non è certo l'anticipazione di modelli nuovi e rivoluzionari. Da un punto di vista internazionale si potrebbe partire dalla riflessione che in fondo la crisi del 1929, agitata da molti come il grande spauracchio nei periodi di finanza euforica, non fu la fine di un'epoca. Fu se mai l'inizio della nuova era dominata dalla finanza di massa, già così importante 57 anni fa da pro vocare la prima recessione mondiale della storia con un crollo di Borsa. La Borsa è diventata, come agente storico, qualcosa di paragonabile alle invasioni barbariche o alla scoperta dell'America o alle grandi guerre che sconvolgevano gli equilibri mondiali. Già nel 1929 emerse la caratteristica interdipendenza della finanza mondiale
che oggi domina i mercati, promuove il trasferimento di capitali su scala pianetana con una efficienza mai conosciuta in passato, coinvolge popoli di ogni paese nelle attività del mercato finanziario, e rappresenta anche una costante minaccia alla stabilità. L'evoluzione del mercato finanziario mondiale ci ha condizionato pesantemente soprattutto negli ultimi 20-30 anni. La grande inflazione con la relativa instabilità dei cambi fu il portato di quella che definirei la via "texana" allo sviluppo (fu infatti un presidente texano, LyndonJhonson a decidere di finanziare contemporaneamente la guerra nel Vietnam e la great society stampando dollari, fu un ministro del tesoro texano John Connally a decretare la prima svalutazione del dollaro, furono infine i texani come i fratelli Hunt o il più recente T. Boone Pickens a trarre i maggiori profitti specuiativi dalla politica governativa di abbandono del dollaro). Quando poi il Presidente della Riserva Federale, Paul Volker nel novembre 1980 appena eletto Reagan, dichiarò, ad un convegno ufficiale "gentiemen, the party Lt over"signori, la festa è finita, alludendo alla politica inflazionistica e permissiva) la festa non finì solo per gli speculatori texani. Fu la fine tra gli altri di Roberto Calvi e della sua gestione dell'Ambrosiano. E con lui di tutti coloro che di inflazione e di spe-
culazioni campavano. Anche la ristrutturazione Fiat è frutto di quel clima e non avviene a caso proprio nello stesso periodo in cui gli americani voltano pagina. Oggi di nuovo la scena internazionale è mutata. Dalla lotta all'inflazione siamo passati bruscamente a fare i conti con la deflazione portata dal calo inarrestabile dei prezzi delle materie prime che minaccia la solvibilità dei grandi paesi debitori e delle banche creditrici. Oggi, più ancora che nel 1929, la sorte del risparmiatore italiano, dell'operaio brasiliano, dell'imprenditore sudcoreano, del gruppo multinazionale americano o giapponese, è legata alle scelte e agli avvenimenti in campo mondiale. Se l'occidente industriale saprà, come sperano gli americani, riprendere il cammino dello sviluppo generando le risorse necessarie a pagare un po' di debiti migliorando i tenore di vita dei popoli e aumentando il volume del commercio mondiale le attività finanziarie ne trarranno dovunque un enorme giovamento come dimostrano i rialzi di tutte le principali borse del mondo. Ma se i valori oggi indicati dalle Borse non verranno sorretti e confermati da una adeguata produzione di ricchezza la carta con cui sono stati fatti gli investimenti azionari tornerà ad essere solo carta. Da noi come a Wall Street o a Londra.
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E che facciamo se il capitale non è più soltanto grande industria? di Giuseppe Berta
Una delle spiegazioni pit ricorrenti della disastrosa performance dei comunisti francesi alle elezioni di marzo consiste nel far dipendere il destino del movimento comunista dal declino del lavoro industriale. La situazione francese sembra proiettare in qualche modo la sua ombra lunga anche sullo scenario italiano, sebbene nessun commentatore si voglia avventurare in un parallelo arrischiato fra l'inglorioso tramonto del PCF e l'attuale fase di difficoltà e di travaglio del PCI: troppe e troppo importanti paiono le differenze che giocano a favore del partito italiano perché si for mulino ipotesi catastrofiche sul suo futuro a breve termine. NQn di meno, il dubbio rimane e sembra difficile da dissipare del tutto, al punto che si affaccia tra le file stesse dei dirigenti del PCI. Lo scarto fra la cultura (soprattutto la cultura economicosociale, com'è ovvio) dei comunisti italiani e il mutamento - nel senso dei comportamenti nuovi, delle mentalità e dei valori in formazione - della società italiana appare rilevante in una misura quale prima forse non si era verificato, nello storia di un partito attento come pochi altri a gettare ponti e a stabilire momenti di contatto con la realtà esterna. Il suo radicamento sociale, per di più, appare oggi come un ele18
mento di penalizzazione, piuttosto che come un vantaggio e una risorsa su cui contare: se una cosa è emersa chiara dall'infausta vicenda del referendum sulla scala mobile del 1985 è che il PCI non ha tratto benefici dall'essersi presentato come il depositano naturale, quasi come il monopolista, della rappresentanza del lavoro dipendente. Lo stretto ancoraggio (spinto fino alle soglie dell'assimilazione) agli interessi sociali finisce così col risultare un vincolo gravoso e non una fonte di legittimazione. Per una formazione politica che ha derivato sempre degli utili sensibili dallo sviluppo della propria capacità di dialogo e di interazione con altre forze, questo non è certo un limite da poco, dal quale deve evidentemente cercare di emanciparsi al più presto. Sarebbe ingeneroso non registrare, a questo punto, gli sforzi in tale direzione che sta compiendo la sua leadership, o almeno una parte di essa; ma sarebbe errato non segnalarne, nel medesimo tempo, la sostanziale inefficacia. Vorrei cercare di cogliere qualcuna delle ragioni che ostano al successo ditali tentativi, soffermandomi sui limiti di approccio che essi a prima vista rivelano. A questo scopo mi servirò a titolo di esempio, invece che di un documento ufficiale del partito (che in genere è
la risultante di una catena complessa di mediazioni) di un articolo pubblicato di recente dal settimanale del partito: un articolo di Piero Fassino sulla condizione attuale della Fiat (Agnelli a gonfie vele. E la Fiat?), apparso su "Rinascita" del 5 aprile 1986. Il motivo di questa scelta è duplice: da un lato essa è suggerita dal tema dell'articolo, che offre un'analisi del sistema d'impresa, in una delle sue configurazioni di punta, interrogandosi sulla qualità delle sue prestazioni in un momento in cui l'industria gode nuovamente di una vastissima base di consenso. Dall'altro, è indotta dall'autorevolezza dell'autore di questo intervento: Piero Fassino non è solo il segretario della Federazione comunista torinese e, a trentasei anni, il più giovane componente della direzione del PCI, ma è un dirigente di quelli che fanno opinione, che vengono regolarmente interpellati da coloro che vogliono tastare il polso dell'organizzazione comunista, che sono un'incarnazione abbastanza fedele delle anime del partito, in questo caso di quella del Nord industriale. Fassino è già passato attraverso prove difficili (quando ha assunto la responsabilità del partito a Torino si era nel vivo del terremoto politico, causato dallo scandalo delle tangenti) e ha affermato uno stile di direzione fondato su un'autorevolezza che non rifugge dai toni duri e dagli accenti poco sfumati. Soprattutto, dal punto di vista che qui interessa, è uno dei pochi esponenti della direzione comunista che ha un'attenzione reale, non soltanto ideologica, per i problemi dell'industria, per le trasfor-
mazioni effettive dell'impresa e del lavoro industriale. Formatosi in un ambiente come quello torinese, ai cui caratteri aderisce profondamente, Fassino è convinto che la storia del movimento operaio sia fittamente intrecciata a quella dell'industrialismo e della cultura industriale, con cui la cultura della sinistra deve interloquire positivamente. Ma è altrettanto convinto che la Torino odierna non sia più il sistema sociale coeso che la memoria comunista associa all'immagine della città di Gramsci e di Gobetti, non sia cioè l'universo contrassegnato da una "composizione demografica razionale", riflesso della dominanza del sistema di fabbrica. Così Fassino dedica tutta la seconda parte del suo articolo, riprendendo letteralmente in vari punti la relazione tenuta al congresso della sua Federazione, ad argomentare perché stia giungendo rapidamente a consunzione quello che chiama "il modello sociale industriale classico". Riassume poi in forma sintetica ma corretta, usando un linguaggio appropriato e sorvegliato, i mutamenti che negli ultimi anni hanno inciso sulla struttura industriale e sul suo sistema sociale, indicando come l'entità della ristrutturazione abbia alterato perfino la nozione di" lavoro". È palese 1' invito alle organizzazioni del movimento operaio a "deoperaizzarsi", che discende dalla constatazione che ben poco senso resta ormai alla distinzione fra lavoro diretto e indiretto, produttivo e improduttivo. Scrive che il ciclo produttivo di un'auto ha inizio "quando un progettista ne inventa la forma" e 19
"termina quando un addetto degli uffici commerciali redige una relazione sull'andamento di quella vettura sul mercato". Tutte osservazioni molto sensate, come si vede, e che potrebbero essere largamente sottoscritte, tanto più che sono dette in modo abbastanza sobrio, per quanto didascalico, ove si eccettui la stonatura di una chiusa retorica sul compito storico del movimento operaio "di realizzare la propria egemonia culturale e politica in una fase di grandi trasformazioni produttive e sociali" (una frase paradossale per giunta, dal momento che se il "lavoro" cambia di significato ciò non può essere senza conseguenze su una formazione che continua a chiamarsi "movimento operaio"). Quella che invece stupisce davvero è la parte precedente del discorso di Fassino, che è l'estrinsecazione di tutta una rete vischiosa di vincoli ideologici tale da precludere un'analisi, o una semplice presa d'atto coerente, dei cambiamenti economici. A insospettire è già l'asserzione posta in apertura dell'articolo, secondo cui "la Fiat torna ad essere uno dei crocevia attraverso cui passa la complessa trasformazione in atto nel nostro paese". Vi si percepisce un'indubbia sensazione di sollievo, come se ci si ritrovasse su un terreno proprio, che si conosce e su cui ci si muove con sicurezza; un po' come se si dicesse: "torniamo sulla sponda solida dell'economico, ai problemi della struttura della società, quella che in fondo determina i rapporti sociali e i rapporti politici". Come non accorgersi della contraddizione 20
che vi è con l'asserzione di poco successiva, circa la necessità di superare il "modello sociale industriale"? Ma non è stato forse proprio questo "modello" ideologico a sancire l'egemonia della fabbrica e della produzione materiale sulla società? Conviene però andare avanti, senza arrestarsi di fronte al riaffiorare di vecchie inclinazioni o dinanzi all'uso di categorie del gergo politico e sindacale degli anni Cinquanta (come l'abitudine di riferirsi alla Fiat con un formulano del tipo "la più grande azienda capitalistica italiana"). Fassino, se certo non nega la portata della ristrutturazione or ganizzativa attuata dalla Fiat, non condivide il diffuso ottimismo che in Italia si nutre sulle prospettive future. Intanto perché, dice, i grandi utili di bilancio che dichiara sono in gran parte frutto di operazioni finanziarie, mentre l'utile industriale è spesso marginale o non c'è. Ma poi perché, a lettura ultimata dei bilanci, non si coglie l'esistenza di un "disegno" (credo voglia dire: di una strategia d'espansione industriale rivolta ai mercati internazionali). Fassino non pensa affatto di essere troppo pessimista quando concede che la Fiat ha dimostrato molta dinamicità, senza dare prova tuttavia di capacità strategica. Al suo posto vi è un comportamento tutto proteso a "cogliere delle opportunità", puntando sulla redditività finanziaria a breve, sui settori ad alto contenuto tecnologico dei quali si prevede una crescita intensa e, fondamentalmente, sulla possibilità di collocarsi al centro dei processi di riorganizzazione finanziaria che stanno nidefi-
nendo la mappa del potere economico del paese. Un osservatore un po' meno pessimista di Fassino sarebbe portato a concludere che il concatenarsi di queste direttrici d'iniziativa dia luogo a ciò che non si può denominare altrimenti che una "strategia". E, anzi, una strategia forte. Tutto ciò non sarà un progetto o il "disegno" che (piuttosto oscuramente) chiama in causa Fassino, ma certo è una linea di condotta rapportata alle condizioni generali entro le quali operano ora le imprese, che sono condizioni di incertezza, di turbòlenza, di elevata variabilità, quindi tali da non predisporre precisamente all'adozione di srategie di ampio respiro. Ma ammettiamo pure che vi sia un'inevitabile componente strumentale nella critica di Fassino, tesa a far risaltare uno spazio e un ruolo virtuali per la politica economica e l'intervento pubblico in linea con quanto ha sempre rivendicato il PCI. Un articolo di un settimanale di partito, a pochi giorni dalla scadenza congressuale, non può rinunciare a certe sottolineature, o anche a certe forzature. Ben altro gli si deve rimproverare: per esempio, l'assenza di qualsiasi curiosità intellettuale verso quello che dovrebbe essere il suo soggetto, il mutare del rapporto tra impresa e sistema economico o, se si preferisce, per rimanere dentro il modulo della tradizione, il mutamento di pelle del capitalismo. Curiosità intellettuale che al contrario è avvertibile quando Fassino giunge a parlare di come cambiano il lavoro e la "fabbrica": allora sì che notiamo i segni di un interesse non superficiale,
non di facciata, pronto a trarre sollecitazioni da una realtà che tutto sommato gli è prossima e congeniale, sebbene non possa controllarla. Là dove invece il capitalismo non è più industriale, dove non si sente più lo stridere delle lamiere, non arrivano le braccia automatiche del robot e anche il computer sembra meno decisivo, ecco allora che si manifesta un atteggiamento di diffidenza, di prevenzione. La macchina capitalistica perde tutte le sue attrattive tecnologiche per farsi colossale inganno fondato sulla moltiplicazione della massa cartacea dei titoli azionari. Il giudizio, un giudizio drasticamente negativo, precede e sopravanza largamente ogni intento di conoscenza, che si blocca sulla soglia della Borsa. Il capitalismo che interessa al PCI, se non altro alla parte del PCI che Fassino rappresenta, è inequivocabilmente industriale e manchesteriaro, fedele al grande archetipo, di possanza faustiana, che ne ha offerto il Primo Libro del Capitale. Ha per fine la produzione, non la ricchezza, ed è pervaso da un demone attivistico che lo costringe a un operare incessante. Dal matrimonio con la tecnologia è uscita esaltata la sua vocazione razionalistica e progettuale, con il risultato di convertirlo in una grande macchina impersonale ed efficiente governata dal calcolo di schiere di ingegneri. Nell'immaginario alimentato dalla militanza comunista è diventato una sorta di avversario/partner ideale, la cui purezza può essere moltiplicata attraverso un processo innovativo continuo destinato a consolidarne l'identità tecnologica emendan21
dolo dalle tare di una matrice sociale non propriamente cristallina. Una descrizione caricaturale ed estrema? Senza dubbio, ma che viene spontanea quando ci si avvede dell'indifferenza per i "giochi dello scambio" di cui Fernand Braudel ha tessuto qualche anno fa un elogio insuperato. La sfera della circolazione, della finanza, di un'attività imprenditiva che non passa necessariamente attraverso la produzione di beni è, chissà perché, ripudiata nella rappresentazione che Fassino (e con lui tutto un segmento dell'universo comunista) ci dà del processo economico. Scopriamo così che esiste un capitalismo nobile, a fianco di un capitalismo, sovente più esteso del primo, che non solo non è affatto nobile come quello dell'industria, ma ha una nascita così dubbia e volgare dal generare perplessità sulla sua natura esatta. E non conta che la sua storia coincida con buona parte di quella del capitalismo "storico" (per usare un modo espressivo di Immanuel Wallerstein), dal momento che la sua vicenda non può essere scandita sulla dialettica fra rappòrti di produzione e forze produttive. In questo modo, non esce per nulla smentito il' 'modello sociale industriale", del quale si è teorizzata l'obsolescenza. Certo l'ambito del lavoro produttivo è stato dilatato ben al di là dei confini dell'area operaia, ma senza che ciò abbia comportato l'abbandono della sequenza logica, dell'ordine gerarchico dei fattori, che dovrebbero rendere ragione del mutamento sociale. L'impresa industriale, amputata dei terminali che la collegano alla finanza, 22
rimane dopo tutto al centro del quadro sociale, pur non occupando più uno spazio sociale vasto come in precedenza, quando disponeva di un insediamento corposo. L'industria continua ad essere un settore simbolico, metaforico, sovraccaricato di significati. Questo tipo di analisi, a mio avviso, non è in grado di far compiere al PCI grandi passi verso quella cultura di governo che tanti considerano una condizione obbligata perché esca dalla crisi in cui versa. Non basta forse nemmeno ad assicurare una presa maggiore sugli strati impiegatizi e tecnici che Fassino vorrebbe guadagnare al movimento operaio: non è incorporandoli nell'esercito del lavoro produttivo, estendendo anche a loro una tradizione politica, che si può ottenere il loro consenso attivo. In fondo, un discorso come quello di Fassino si adatta bene solo a chi conosce l'uso, anche rituale, di un linguaggio, ne rispetta le gerarchie e le regole. Dice poco a chi ne è sempre stato estraneo. Il percorso che conduce dal lavoro alla tecnologia, all'organizzazione, all'impresa e infine al sistema economico appartiene comunque alla ratio classica del lavoro industriale: è improbabile che suoni convincente, alla stessa stregua, a figure professionali che hanno avuto una genesi esterna al mondo della fabbrica e non riconoscono neppure la loro prossimità ad esso. Non si può escludere che otterrebbe un successo migliore un messaggio politico capace di dare un orientamento sui problemi dell'economia e del sistema delle imprese senza dover risalire ogni volta la serie infinita degli anelli che
connettono il reparto di produzione al top management. Per un partito politico mi parrebbe più congruente, in luogo di un discorso dai molti echi sindacali come quello di Fassino (che a tratti parla come il segretario dei metalmeccanici, e non di un partito che ha governato nell'ultimo decennio Torino e il Piemonte), un tentativo di dialogare con settori impiegatizi e tecnici trattandoli come spezzoni di "ceto medio'' e non soio come un'articolazione del sistema d'impresa. Ecco perché un abbozzo d'analisi in positivo della società e dell'economia anche dal punto di vista dei flussi finanziari (magari in relazione alla notevole capacità di risparmio delle famiglie), delle tendenze del
mercato mobiliare, delle accresciute opportunità di investimento, non dovrebbe essere rinviato. Senza queste premesse, che richiedono la creazione di punti d'osservazione (anche assolutamente informali) di un pezzo di società da sempre lontana dal PCI, la stessa discussione sulla necessità di approntare un "grande programma riformatore" - sul quale i comunisti dovrebbero scommettere la loro identità rinnovata di partito di sinistra, come vorrebbe Michele Salvati, in una delle molte esortazioni che compongono le Lettere da vicino, raccolte da Laùra Balbo e Vittorio Foa (Einaudi, Torino 1986) - è condannata ad essere vana.
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Governo tory e Banca d'Inghilterra: una convivenza difficile di Peter Rodgers City Editor "The Guardian"
Negli ultimi cinque anni i rapporti fra le principali istituzioni del sistema monetario e bancario britannico si sono drasticamente deteriorati. L'ultimo e più importante episodio è dell'autunno 1984: il fallimento e il salvataggio della banca, di medie dimensioni, Johnson Matthey Bankers. Esso ha causato una frattura fra la banca d'Inghilterra e il Tesoro, ha messo in imbarazzo il governo nei confronti del Parlamento e ha spinto l'opposi:ione a chiedere le dimissioni del Governatore della Banca d'Inghilterra Mr Robin LeighPemberton. Le onde sollevate dall'episodio non si sono ancora del tutto calmate. Eppure esso non è stato uno dei casi maggiori di crisi avvenuti in quel periodo nei mercati finanziari quale, per esempio, il fallimento della Continental Illinois avvenuto negli Stati Uniti poco prima, nello stesso 1984. Il salvataggio ha coinvolto la Banca d'Inghilterra solo nel suo ruolo ufficiale di supervisore del sistema bancario, non come operatore di politica monetaria. Eppure la diffidenza che si è insinuata fra la Banca e il resto dell'amministrazione economica britannica può ancora avere importanti effetti. 24
LA LADY DI FERRO E LA VECCHIA LADY DI THREADNEEDLE STREET
La Banca d'Inghilterra aveva già compromesso la sua reputazione agli occhi del governo, da una parte, mostrandosi in disaccordo su problemi di politica economica e, dall'altra, per l'inefficiente gestione dei controlli monetari, almeno secondo il punto di vista del Primo Ministro. Ben presto, fin dall'inizio della sua amministrazione, la Signora Thatcher si è convinta che la "slealtà" verso la sua politica e l'inefficienza all'interno della Banca rappresentassero dei seri problemi. L'indebolita reputazione della O/d Lady of Threadneedle Street, come viene chiamata la Banca d'Inghilterra, costituisce di per sé un importante avvenimento economico. Né il corso delle cose può essere invertito da un cambio di governo, poiché l'opposizione laburista ha promesso che provvederebbe subito a sostituire l'attuale Governatore il quale, malgrado i problemi con l'attuale dirigenza politica, è ancora considerato come un uomo della Signora Thatcher (egli è stato comunque anche presiden-
te di una banca commerciale). Del resto, l'incarico di Governatore è sempre conferito, in pratica, direttamente dal Primo Ministro in carica. Per capire la situazione attuale è importante comprendere il ruolo centrale che la Banca ha avuto nell'attuazione della politica monetaria e la sua passata indipendenza dal governo. Dal 1946 la Banca è stata nazionalizzata, ma essa riuscì a mantenere molta dell'indipendenza di pensiero e di azione che aveva in precedenza come banca privata. In passato ci sono stati seri scontri, per esempio con il governo laburista negli anni Sessanta, ma nell'insieme il rapporto con il governo è stato come quello di un subalterno che non ha paura di parlare chiaro. Il precedente Governatore, Mr Gordon Richardson (ora Lord), fu nominato da un governo conservatore togliendolo dal suo lavoro di merchant banker nella City di Londra. Sebbene non avesse legami politici con i laburisti egli, uomo severo deciso a dire francamente come la pensa, lavorò con successo con l'amministrazione laburista che succedette al governo che l'aveva nominato. Durante i suoi primi cinque anni di incarico, vide il governo laburista costretto a sottoscrivere prestiti dal Fondo Monetario Internazionale, nel corso della crisi monetaria del 1976. Egli strinse un forte rapporto personale con il Cancelliere Denis Healey, e gradualmente lo convinse ad accettare la politica monetaria come un importante strumento per controllare l'economia. Il cambiamento di politica risultò molto influen. zato da Richardson e dai suoi funziona-
ri, come pure dal Treasuiy che stava prestando una sempre più seria attenzione agli aspetti monetari dell'economia. Dopo la vittoria della Signora Thatcher nel 1979 entro il Gabinetto cominciò la sua ascesa una fazione fortemente monetarista. Ma nelle fasi iniziali furono commessi molti errori. Le promesse fatte durante la campagna elettorale di aumentare i salari di una larga fascia del settore pubblico, furono mantenute e l'inflazione salì di colpo. Successivamente, dopo che furono aboliti i controlli dei cambi e il governo annunciò la sua Strategia Finanziaria a Medio Termine (Medium Term Financial Strategy: MTFS), fondata su un sistema di obiettivi monetari mobili, l'offerta di moneta uscì fuori controllo. Un precedente sistema di controllo del credito, chiamato corset (il busto), rimase temporaneamente in vigore. Questo limitò la crescita del credito bancario attraverso il diretto controllo delle clearing banks (le banche associate alla stanza di compensazione). Una volta abolito questo tipo di controllo il governo, per motivi di coerenza alla propria dottrina economica, evitò tutti i controlli diretti sul credito e fece esclusivamente affidamento sulla politica monetaria, assumendo i tassi di interesse a suo principale strumento. Senza il controllo dei cambi, le banche avevano trovato molti modi di aggirare il corset, durante lo sfortunato periodo precedente la sua abolizione, col risultato di un'inaspettata esplosione del credito nei primi mesi del governo conservatore. 25
Quando finalmente il corset fu abolito, questa crescita rifluì nel credito bancario ordinario non più limitato e fece registrare una fortissima crescita dell'offerta di moneta che raggiunse il 5 % nel mese di luglio, contro il 9% preventivato dal governo per l'intero anno. L'imbarazzo del governo nel vedere le aberrazioni insite nel suo principale strumento di politica monetaria, in un momento di alti tassi di interesse e di inflazione, portò ad una seria incrinatura dei rapporti fra il Governatore e la Signora Thatcher, che incolpò la Banca per la cattiva gestione monetaria. Ella ritenne Richardson un arrogante, giudizio che egli per la verità non fece niente per evitare poiché di quando in quando non mancò di rivolgerle severi moniti.
LA BANCA E LA POLITICA GOVERNATIVA
Gli alti tassi di interesse, 'necessari a limitare la crescita monetaria, improvvisamente sfuggita al controllo, ebbero un effetto disastroso sui cambi e condussero la sterlina ad oltre, 2,40 dollari con conseguente serio danno alle esportazioni dell'industria britannica. Questa avrebbe poi scontato a lungo gli effetti postumi della supervalutazione. Il governo incolpò della straordinaria crescita della sterlina il famoso "fattore petrolio", cioè il petrolio del Mare del Nord, mentre altri dissero che ciò era dovuto all'eccessiva fiducia della Si26
gnora Thatcher nel mercato. Nessuna delle spiegazioni era corretta: furono gli alti tassi di interesse la causa delle dannosa "forza" della sterlina, e ciò era dovuto semplicemente alla politica governativa. Il target ufficiale del governo nei primi giorni del MTFS, era la misura monetaria conosciuta come Ster/ing M3. Questo aggregato comprende le monete del pubblico, i depositi bancari e altre voci del passivo bancario. La vertiginosa crescita di questa misura monetaria stava ad indicare che i tassi di interesse sarebbero dovuti salire ancora per limitarne la crescita. Ma il mondo reale dell'industria mandava segnali del tutto differenti: il gigante chimico 1Cl, per esempio, subì perdite, nell'autunno del 1980, a causa dell'alto tasso di cambio. Il governo cercò allora dei modi per ridurre l'enfasi su M3 al fine di giustificare una riduzione dei tassi d'interesse. La politica monetaria non era, in effetti, tanto negligente come suggeriva l'entità di M3. Anzi, la Banca centrale giunse presto ad affermare che tale politica era ben lontana dall'essere troppo stretta e più tardi fu provato che aveva ragione. Tutto ciò condusse a un gran numero di studi su una misura monetaria più limitata ed esatta: la cosiddetta base monetaria, che è principalmente formata dalle banconote e dalle monete metalliche in circolazione. Un movimento verso il controllo della base monetaria, mentre probabilmente giustificava a breve termine un più basso tasso di interesse, implicava direttamente una completa abdicazione del governo
al controllo sui tassi d'interesse che quindi sarebbero stati lasciati liberi di oscillare secondo le condizioni del mercato. Alla fine nessuno poteva promettere con sicurezza al Primo Ministro, che il controllo della base monetaria avrebbe ridotto i tassi d'interesse. Richardson disse al Primo Ministro che ella avrebbe incontrato grosse difficoltà a gestire l'economia senza alcun .controllo diretto sui tassi d'interesse e l'idea fu abbandonata. Il conseguente compromesso, introdotto per soddisfare i potenti sostenitori del controllo della base monetaria all'interno del Gabinetto, rimane fino ad oggi la fonte di molti problemi tecnici e della notevole tensione fra Tesoro è Banca. Questo compromesso è consistito nell'abolizione, nell'agosto 1981, del tasso d'interesse ufficiale annunciato dal governo chiamato Minimum Lending Rate: MLR - e la sua sostituzione con un nuovo sistema di controllo monetario ad opera della Banca d'Inghilterra. Il nuovo sistema fu progettato per introdurre una misura dell'influenza del mercato monetario sull'assetto dei tassi d'interesse ma anche per tenere segreto quanto più possibile il punto di vista del governo, cosa che spiega perché decadde 1' MLR. In sostanza, i tassi d'interesse avrebbero dovuto essere fissati dai mercati monetari sulla base della domanda e dell'offerta di fondi. La Banca d'Inghilterra avrebbe mantenuto i tassi all'interno di una fascia decisa da lei stessa e dal governo, ma non resa pubblica. La Banca avrebbe compiuto le proprie operazioni sui mercati monetari, attraverso quegli intermediari della
City noti come discount houses per influenzare i tassi ogni volta che fosse stato necessario. Questo sistema piuttosto semplice fu presto minacciato da un altro aspetto della politica del governo. La Ster/ing M3, cioè l'indicatore monetario a cui il governo aveva pubblicamente dato grande importanza, stava ancora crescendo troppo in fretta. C'è una tecnica per limitare questa crescita che consiste nel sostituire ai depositi a breve termine presso il sistema bancario che sono parte di M3 - gli investimenti a lungo temine che non lo sono. Per essere precisi, il governo vende titoli di Stato al settore non bancario che per il pagamento ritira depositi dal sistema bancario così riducendo la crescita di M3. Per evitare aumenti nei tassi d'interesse dovuti a mancanza di fondi nel sistema, la Banca d'Inghilterra è poi obbligata a comprare titoli a breve termine sul mercato aperto, aumentando così la liquidità. Ma questa seconda operazione non ha alcun effetto su M3. Con questo trucco, di qualità piuttosto dubbia, tecnicamente chiamato "overfunding", il governo è andato restringendo la crescita monetaria per parecchi anni. Gli effetti del nuovo sistema di controlli monetari furono devastanti, sebbene non sia facile spiegamne qui i dettagli altamente tecnici. In sintesi si può dire che trasformando la Banca centrale in un compratore su larga scala di effetti cambiari, lo scambio sul discount market non è stato più bilaterale: la Banca in pratica è stata sempre un compratore. D'altra parte, non appena i suoi tas27
si di contrattazione furono noti, diventò impossibile nascondere il preciso livello dei tassi di interesse stabiliti dalla Banca, che si supponeva dovessero rimanere entro una fascia segreta. E così si capì subito che, come sempre, era il governo a stabilire direttamente i tassi di interesse, sebbene abbia poi continuato a fjngere di non farlo fino a tempi non mlto lontani. Peggio ancora, il portafoglio effetti della Banca centrale crebbe fino a 15 milioni di sterline, ed essendo questi a breve termine, ogni settimana era una enorme quantità di denaro a dover circolare. Le distorsioni causate da questa montagna di titoli hanno dato grandi opportunità agli operatori in arbitraggi che prendono a prestito su titoli e depositano in banca per un profitto immediato. Parte dei rapidi aumenti della circolazione monetaria è quasi certamente connessa in questi anni a operazioni di arbitraggio. Lo stesso vale per la volatilità della sterlina, perché è attraverso il mercato monetario che ha una grande quantità di denaro viene presa in prestito a basso prezzo per poi speculare. Questi problemi di controllo monetario sono estremamente difficili da risolvere senza causare drammatici effetti sul volume dell'offerta di moneta e la Banca d'Inghilterra sta ancora sperimentando alcuni strumenti per diminuirne l'impatto. Dal punto di vista della politica monetaria, comunque, il peso della confusione in cui si è venuto a trovare il sistema tecnico di controllo monetario, sta nel fatto che esso avvolge nella nebbia la politica ufficiale del governo e rende molto difficile inter28
pretare la situazione monetaria. Questo è in effetti quanto dissero al governo oltre cinque anni fa quegli "scetti-. ci" della Banca d'Inghilterra, che avevano seri dubbi sulla validità dell'idea di fare affidamento su una sola misura monetaria. Alla fine la Banca è riuscita a persuadere il governo a considerare gli indicatori monetari - M3, M2, PSL2 (che aggiunge ai valori già compresi in M3 gli strumenti del mercato monetario, ad esempio i BOT e varie forme di risparmio liquido) e MO come un insieme. Poiché i tentativi di controllare una sola misura tendono naturalmente a modificarne la natura, è l'intero apparato delle statistiche a dover essere tenuto in conto per valutare se la moneta è scarsa o no. In privato il Cancelliere, Mr Nigel Lawson, e il suo predecessore, Sir Geoffrey Howe, cominciarono ad accettare questo criterio già quattro anni fa. Ed in verità per tutto il periodo ci sono stati cambiamenti sottili ma importanti, al punto che il tasso di cambio ha finito per assumere, almeno per il momento, la funzione principale di indicatore per la politica monetaria. È durante questo periodo, siamo nel luglio del 1983, che il Primo Ministro si è rifiutato di confermare Richardson nella carica di Governatore, sebbene questo volesse rimanere, e ha dato l'incarico a Mr Robin Leigh-Pemberton che, a differenza di Richardson, era noto per essere un attivista conservatore. Tuttavia, un governatore conservatore non è bastato per proteggere la Banca dalla rabbia del governo e di gran parte dei parlamentari conservatori. E alla
Camera dei Comuni, comunque, che la Banca ha riscosso qualche simpatia in materia di politica monetaria, in particolare presso lo speciale Treasury and Civil Service Committee che indaga regolarmente sui suoi affari. Questo è anzi il motivo per cui la Banca ha preso le distanze dalla politica monetaria governativa ed ha contribuito ad eliminare l'idea del controllo della base monetaria, successi che hanno avuto consensi perfino fra i membri conservatori del Comitato. Su un terreno più fragile la Banca si è trovata invece per quanto riguarda la difesa del sistema di controlli monetari che ha contribuito a rendere oscuro quel che stava veramente accadendo. Si è venuti a capo di questo problema solo nell'inverno '85. La Banca, facendo affidamento su un vasto arco di statistiche per interpretare la situazione monetaria, giunse alla conclusione, nell'autunno del 1984, che la politica monetaria era stata troppo poco incisiva, malgrado la crescita apparentemente lenta di M3, intorno a cui il governo stava ancora concentrando i suoi sforzi. La Banca era altrettanto preoccupata allora di un'esplosione dei prezzi interni, di un boom della borsa e di una rapida caduta della sterlina. Il governo non diede ascolto agli avvertimenti. Poiché lo sviluppo economico era in pericolo e poiché i tassi ipotecari erano alti, cosa che faceva innalzare il tasso d'inflazione, il Cancelliere Lawson, seguendo le direttive del Primo Ministro, trascorse lo scorcio dell'autunno 1984 a manipolare i tassi di interesse verso il basso. Il che fu abbastanza semplice da fare a
causa del fallimento del progetto di mettere in funzione un sistema di tassi d'interesse basato sul mercato. In quel momento, quando le cose andavano male, il governo non fu in grado di incolpare la Banca, eccetto che per l'inefficiente sistema di controllo monetario che stava oscurando i dati. Nel gennaio 1985, dopo che i tassi d'interesse erano scesi al di sotto del 10%, al tempo di rumori selvaggi sul prezzo del petrolio, la sterlina ebbe un crollo rispetto al dollaro e a molte monete europee. Benché si sia detto che ciò doveva comunque accadere a causa della rapida crescita monetaria, la causa immediata fu una famosa quanto incompetente conferenza stampa del portavoce del Primo Ministro che fece pensare, proprio mentre le forze del mercato si stavano organizzando per ''scioperare'', che il Primo Ministro sarebbe stato felice c' vedere scendere la sterlina, anche al di sotto del dollaro. I tassi d'interesse furono debitamente innalzati al 4% per fermare la discesa della sterlina e il Cancelliere, che era passato per un dissennato, decise ditenerli a quel livello fino all'estate per ristabilire la sua reputazione monetarista ed evitare una ricaduta. La Banca in privato fu compiaciuta dell'umiliazione di un po/itical master che aveva procurato ai suoi funzionari un periodo così difficile. In effetti, Mr Lawson fu convertito improvvisamente anche ad un'altra politica che la Banca stava sostenendo da anni, e che egli aveva ripetutamente attaccato in pubblico. La politica, cioè, dell'intervento diretto sui mercati valutari. Alla Banca 29
d'Inghilterra era stato fino ad allora vietato di muoversi su larga scala. Ma ad un incontro dei Ministri economici a Washington, durante la più forte pressione monetaria dell'inverno 1985, Mr Lawson rivelò di aver cambiato posizione. Egli difese l'attacco collettivo delle banche centrali europee al dollaro, cosa che immediatamente precedette, e forse aiutò, l'iniziale declino della moneta americana in primavera e in estate. Questa seconda vittoria ha anche fatto ottenere alla Banca d'Inghilterra elogi un po' a malincuore in Parlamento, dove c'erano state critiche sul fronte conservatore alla precedente opposizione del governo a interventi diretti sui cambi.
BANCA CENTRALE, GOVERNO E PARLAMENTO: RIASSUMENDO SULLA POLITICA MONETARIA
Normalmente, il ruolo del Parlamento è piuttosto debole nei rapporti con i dipartimenti altamente tecnici quali la Banca e il Tesoro. La Commissione Tesoro e Amministrazione statale spesso deve lottare con i dati che gli vengono presentati, anche se ha il potere di chiamare il Governatore e il Cancelliere come testimoni. La Commissione è stata anche indebolita, su questioni controverse, dal fatto di essere composta da membri di partiti opposti, anche se occasionalmente ha fatto dure critiche al governo, come quando ha condannato la politica che ha condotto agli alti 30
tassi di cambio della sterlina nel 1980/8 1. Ugualmente la Commissione è stata quasi unanime nel criticare il governo per essersi strettamente concentrato su M3 come misura monetaria. Questa pressione proveniente da una commissione tecnica della Camera dei Comuni ha probabilmente avuto qualche effetto sul cambiamento della politica governativa nei confronti della linea della Banca d'Inghilterra secondo la quale, nel determinare le condizioni monetarie, deve essere tenuta in conto una grande varietà di indicatori, ivi incluso il tasso di cambio. A giudicare dalle azioni del governo, nell'estate 1985 è stata preminente l'attenzione rivolta ai tassi di cambio. A causa degli effetti sull'inflazione degli alti tassi ipotecari, il governo ha cer cato di condurre di nuovo i tassi d'interesse verso il basso, senza causare una nuova crisi valutaria. Il Cancelliere sembra aver ter:uto che se il mercato si fosse convinto che egli aveva abbandonato le restrizioni monetarie imposte precedentemente al tempo della crisi monetaria, la crisi si potesse ripetere. Ogni movimento verso il basso nei tassi d'interesse, è stato quindi, nell'estate scorsa, una semplice risposta al rafforzamento della sterlina sui cambi esteri. Tale movimento è stato aiutato dalla caduta del dollaro, mentre invece il rapporto di cambio con il marco tedesco è stato più difficile, dato che questo ha un maggiore effetto sulle prospettive dell'esportazione industriale. È difficile da prevedere quanto a lungo il tasso di cambio verrà tenuto come
obiettivo strategico. Nel giungo 1985 il Cancelliere lasciò perplessi gli operatori con un discorso che sottolineava l'importanza di una misura monetaria stretta come MO. Poiché il controllo della base monetaria rimase fuori dall'ordine del giorno, la spiegazione del fatto deve essere che, dal momento che MO stava crescendo più lentamente di altri indicatori, poteva essere usato per giustificare un più rapido ribasso nei tassi d'interesse. Questo non altera il principale risultato della disputa avvenuta nei precedenti cinque anni fra il governo e la Banca: quest'ultima ha debellato la credenza che la politica economica possa essere governata dal movimento di una o due statistiche monetarie. Ma questo è il genere di successo che fa infuriare gli avversari, nel senso che, nel governo, la linea monetarista più dura ha continuato a ritenere i criteri della Banca come un sabotaggio degli originari obiettivi politici del governo.
IL BANKING ACT DEL 1979 E LA "CRISI DEL DEBITO"
È su questo sfondo che la Banca e il suo Governatore nominato dai conservatori hanno dovuto affrontare la collera del Cancelliere, del Primo Ministro e, in Parlamento, dell'opposizione per il modo con cui hanno gestito l'affare Johnson Matthey. Prima di entrare nell'argomento dev'essere però chiarito, innanzitutto, il ruolo della Banca d'Inghilterra nella vigilanza del sistema bancario. Al pari delle sue respon-
sabilità monetarie, che sono un insieme di operazioni tecniche e d'influenza e consulenza sui problemi di politica economica, la Banca ha per legge un certo numero di responsabilità specifiche. Una di queste è la supervisione del sistema bancario, secondo quanto stabilito dal Banking Act del 1979. La legge fu un risultato diretto della crisi di alcune frangie del settore bancario nel 1974, quando la recessione causata dall'aumento dei prezzi del petrolio portò ad un ribollire dell'inflazione che già era stata prodotta dalla rapida espansione del credito durante il governo conservatore di Mr Edward Heath. Il mercato finanziario precipitò e molte banche dovettero essere salvate da quello che cominciò ad essere noto come il "salvagente" della Banca d'Inghilterra, anche se la maggior parte dei fondi fu fornita da altre banche private. La crisi del mercato finanziario dimostrò come fosse quasi inesistente la supervisione delle banche, e gli studi che seguirono portarono alla nuova legge che diede alla Banca d'Inghilterra più forti poteri di supervisione. Per supervisionare le 400 banche di Londra fu costituito un dipartimento con uno staif di circa 100 membri. All'inizio, esso funzionò bene e con molta credibilità. Ma la prima grande sfida fu quella di fronteggiare la crisi del debito estero del 1982. In realtà, la competenza relativa a questo credito non appartiene allo staif del supervision department, ma ai più importanti dirigenti della banca, incluso certamente il capo del Dipartimento della supervisione, i quali furono tutti coin31
volti direttamente nei negoziati internazionali che condussero alla nascita dei trattati multinazionali per il rinnovo dei debiti sostenuti dal M. La Banca d'Inghilterra, allora ancora sotto la guida dell'esperto Richardson che godeva di grande prestigio a livello internazionale, e la Federal Reserve americana, ebbero il ruolo principale nel persuadere le banche private a collaborare nei negoziati per il rinnovo dei debiti messicani e successivamente brasiliani. La Banca d'Inghilterra aveva fatto molta esperienza ditali trattative grazie al suo ruolo nell'affare degli ostaggi iraniani, dove essa agì da mediatore fra il governo USA e i mu//ahs nei negoziati per i fondi iraniani congelati. Queste particolari capacità furono provate al massimo nel problema dei debiti argentini. La Banca era convinta che malgrado la guerra delle Falklands - la quale aveva comunque contribuito a rendere più acuta la "crisi del debito" - le banche inglesi si sarebbero dovute unire per il rinnovo del prestito all'Argentina, di cui erano la maggior parte. Esse dovevano anche contribuire a finanziare un nuovo pacchetto. La Banca riteneva che un rinnovo del prestito sarebbe stato impossibile senza la partecipazione britannica e che senza tale rinnovo sarebbe stata messa in pericolo la salvezza del sistema finanziario. Dopo tutto la Lloyds Bank aveva la maggior parte dei suoi affari in Argentina e la Mid/and era ancora più esposta con la sua sussidiana californiana Crocker. Questi argomenti erano molto impopolari presso la Signora Thatcher, ma 32
sotto l'influenza combinata della Banca e del FMI, ella accettò. Il suo consigliere economico personale, il professor Sir Alan Walters, andava sostenendo una linea più dura consistente nel rifiuto di fare concessioni ad alcun debitore. La Signora Thatcher non perdonò la Banca per averla costretta in una posizione politicamente difficile e riuscì a convogliare la pubblica riprovazione verso la Banca e verso le banche private, dicendo che era stata una loro autonoma decisione. (Ma, di fatto, la Banca aveva preso la precauzione di procurarsi un'approvazione scritta del Primo Ministro). Dal punto di vista della gestione del sistema finanziario internazionale, Richardson e la Banca si erano comportati splendidamente, sebbene ciò non avesse migliorato i rapporti tra Banca e governo. Mr Leigh-Pemberton, quando arrivò, apparve un povero sostituto. Specialmente perché uno dei suoi primi commenti - poco prima che riemergessero i problemi del debito brasiliano e argentino -, fu che la "crisi del debito" era terminata, "seppur sia mai esistita
L'AFFAREJOHNSON MArFHEYBANKERS
Ma davanti al nuovo Governatore sta una grave crisi interna. E il collasso dellaJohnson Matthey Bankers e il suo immediato salvataggio, avvenuto il primo ottobre 1984, ad opera della Banca d 'Inghilterra.
È stato questo episodio a minare la nuova autorità che la Banca aveva conquistato grazie ai suoi successi sui tassi d'interesse, sul recupero della sterlina e sulla questione del debito estero. LaJohnson Matthey Bankers, una sussidiana del gruppo per la lavorazione di metalli preziosi Johnson Matthey PLC, aveva assommato prestiti per un totale di due miliardi di sterline. Il grosso di questo ammontare era connesso con la sua attività di grande commerciante di lingotti d'oro. Ma circa 500 milioni di sterline erano sotto forma di prestiti commerciali, di cui una gran parte concessa agli Indiani della comunità Sindhi residenti in Inghilterra. Circa 120 milioni di sterline erano legate a rapporti commerciali con la Nigeria, che di nuovo coinvolgevano largamente gli Indiani. Nell'estate del 1984, la Banca centrale aveva avuto qualche sospetto a proposito della Johnson Matthey Bankers, ma niente di più. Fu soltanto in agosto e settembre che il Dipartimento di supervisione ebbe finalmente le informazioni che voleva. Queste rivelarono una situazione disperata. Furono chiamati i contabili ed essi subito conclusero che, invece del piccolo profitto dichiarato, IaJMB aveva perso circa 250 milioni di sterline nel 1984. La maggiore colpa di ciò fu data ad un esiguo gruppo di grandi clienti cui era stato concesso di eccedere il livello di credito considerato normalmente come limite per qualsiasi cliente (circa il 15 % del capitale). La Banca d'Inghilterra era stata all'oscuro di ciò anche perché erano stati nascosti ai. suoi supervisori i rapporti intercor-
renti fra vari grandi clienti. Alla fine un cliente provò di aver avuto in prestito l'equivalente di tre quarti del capitale della JMB. Molti altri piccoli prestiti si mostrarono inadeguatamente garantiti e non p?u recuperabili. La principale causa di questo fallimento è l'incompetenza nella gestione della JMB, anche se rimane comunque un forte sospetto di corruzione. I dettagli sono estremamente complicati. Ma tre sono gli aspetti principali dell' ''affare''. Per prima cosa, la JMB doveva essere salvata? Anche se inizialmente la Banca fu molto criticata in privato dal Cancelliere per aver salvato laJMB e averle impedito di fallire insieme con i suoi associati, alcuni fatti che sono emersi successivamente hanno cambiato il clima delle opinioni. La Midland Bank ha avuto a subire grosse perdite nella sua sussidiaria in California, perdite che stavano cominciando ad emergere proprio in quel periodo, ed era perfettamente possibile che ciò avrebbe potuto produrre anche in Inghilterra una crisi come quella della Continental I1/inois, portando ad un immediato intervento a favore della Midland. Questa era l'opinione della Banca d'Inghilterra ìn quel periodo. Inoltre, il mattino del salvataggio le banche inglesi percepirono i primi segni della difficoltà di ottenere depositi in Oriente. Il maggior ti-. more era che la posizione di Londra sul mercato dei lingotti d'oro e la salute di alcune banche private potessero essere minacciate dal fallimento di una delle quattro grandi società che commercIano in lingotti d'oro con pesanti effetti 33
nel mercato aureo internazionale. Il Cancelliere ha dunque criticato il salvataggio solo in privato, mentre in pubblico si è lamentato sulle modalità del salvataggio, che è un problema diverso. La Banca fece una serie di errori grossolani non informando, per esempio, il Cancelliere che, dopo aver acquistato la Johnson Matthey per una sterlina, aveva poi anticipato alla banca 100 milioni di sterline. La cosa fu saputa solo dopo e non prima la relazione del Cancelliere ai Comuni causandogli, quindi, un grande imbarazzo e una serie di attacchi sia dell'opposizione che dai suoi stessi alleati. In secondo luogo la Banca centrale ha in qualche modo offeso le banche private della City di Londra - da sempre considerate come sue "parrocchie" e sottomesse più per comando che in for za della legge - chiedendo loro di contribuire al salvataggio accollandosi alcune delle perdite della JMB (in proporzioni uguali al costo sopportato dalla Banca d'Inghilterra). La Banca è stata criticata dal Cancelliere e da molti membri del Parlamento per aver messo a rischio, nel soccorso della JMB, il danaro pubblico in un momento in cui il governo stava cercando di eliminare gli aiuti statali alle società industriali in difficoltà. In verità la decisione di chiedere denaro alla City era una risposta alla pressione governativa di minimizzare l'impiego di fondi pubblici. Ma l'espediente è riuscito a scontentare, nello stesso tempo, amici e nemici della Banca. Il terzo aspetto controverso dell'affare riguarda l'incapacità del Dipartimento 34
di supervisione della Banca nello scoprire ciò che stava accadendo allaJMB. Ci fu indubbiamente un controllo inadeguato e negligente, come ha riferito alla Camera dei Comuni il Cancelliere e come la stessa Banca ha ammesso. Fu così nominata in seguito una commissione, presieduta dallo stesso LeighPemberton, per studiare il modo per migliorare la vigilanza bancaria. La relazione finale ha raccomandato una più vigile presenza degli auditors bancari che attualmente sono impediti per legge di scavalcare i clienti per informare la Banca di eventuali problemi. La Banca d'Inghilterra ha promosso una causa per circa 250 milioni di sterline ai danni degli auditors della JMB, Arthur Young McClelland Moores. Una nuova legge conterrà molte misure dettagliate per rafforzare la legge bancaria, inclusa l'abolizione del sistema a doppio ordine in cui le banche sono ufficialmente distinte da altri prenditori, su licenza, di depositi. Se ci sono state molte critiche per il negligente controllo, c'è stato un vero e proprio tumulto, nel Gabinetto e in Parlamento, per i sospetti di frode e correzione allajMB. Se è probabilmente colpevole di negligenza, la Banca d'Inghilterra è stata però ingiustamente accusata di aver favorito corruzione e frode. Il livello cui è salita la tensione è indicato, infine, dal fatto che sono state richieste le dimissioni di Mr Leigh-Pemberton. A parte il fatto che l'argomento sia utile all'opposizione e imbarazzante per il governo, è difficile ritenere corretto addossare sulla Banca centrale tutta la responsabilità delle mancate indagini
sulla frode e sulla corruzione, quando essa è chiamata a controllare 400 banche. A meno che non le siano dati i poteri per eseguire ispezioni bancarie molto minuziose. Il che richiederebbe, però, centinaia di persone in più e forse, a parere sia del governo che di Mr Leigh-Pemberton, il sistema non funzionerebbe lo stesso. Gli Stati Uniti hanno eserciti di ispettori bancari e ciononostante questi hanno scoperto solo tardi la crisi della Continental I1/inois. Certamente, però, il fatto che i clienti hanno frodato IaJMB, che hanno usato il denaro della JMB per frodare altri (compreso il governo nigeriano) e che ci possono essere state gravi forme di corruzione all'interno dellaJMB, ha indebolito comunque la posizione e l'immagine della Banca d'Inghilterra. Essa stava presiedendo ad un pozzo d'incompetenza resa peggiore dalla frode.
BANCA CENTRALE E BORSA: UNA FONTE DI RISCHI
L'elemento finale da considerare nel rapporto fra la Banca, il Governo e il Parlamento è l'importante ruolo che ha avuto la Banca d'Inghilterra nella deregulation del mercato azionario di Londra e in particolare della Borsa valori. Nel 1983 la Banca d'Inghilterra divenne assai preoccupata per i mercati britannici perché temeva fossero minacciati dalla rapida diffusione del commercio di titoli internazionali. È stato questo il principale movente che ha spinto all'abolizione di alcune regole restrittive della Borsa valori e che ha
prodotto una vera e propria rivoluzione nella City: abolizione della precedente distinzione fra jobbers, cioè speculatori professionisti, che fanno il mercato e brokers, cioè agenti di cambio, e un arrivo di banchieri britannici e stranieri che sono andati acquistando ditte operanti in borsa. Ma i maggiori cambiamenti si realizzeranno nel prossimo autunno. Poiché la Banca è considerata la promotrice di tali cambiamenti, le è stata anche data la responsabilità di assicurare la protezione di chi investe sul mercato, dal momento che stanno per essere abolite le misure tradizionali di salvaguardia, come appunto la distinzione fra operatore di borsa e agente di cambio. Ci dovrà essere un nuovo Securities andlnvestments Board per controllare il mercato dei titoli e un altro parallelo per controllare le assicurazioni. Questi organismi non sono controllati dalla Banca, ma il nuovo sistema di controllo è stato da essa influenzato. Sfortunatamente i progressi nell'applicazione del nuovo sistema sono lenti e molti sono i dubbi sulle sue possibilità di successo. Il fiasco della JMB ha ulteriormente indebolito la fiducia in qualsiasi istituzione di controllo dei mercati finanziari. Lo scompiglio provocato nel mercato potrà produrre dal prossimo autunno in poi nuovi fallimenti e nuovi scandali, che sono caratteristici dei periodi di rapido cambiamento; e la Banca d'Inghilterra alla fine ne potrà essere incolpata. Ma questa per il momento è solo un'ipotesi. Il rischio per la Banca d'Inghilterra è che, dopo aver ristabilito la 35
propria autorità nella politica monetaria e in quella del cambio estero, e aver influenzato il Gabinetto e il Primo Ministro al punto da indurli ad abbandonare alcune dannose politiche, essa vedrà seriamente minata tale ritrovata autorità qualora ci fossero altri scandali nella City. La sua influenza sulla stessa politica monetaria britannica tornerebbe quindi ad indebolirsi. Un tale risultato danneggerebbe la capacità della Banca d'Inghilterra di sostenere una politica pragmatica contro i dogmi politici: che essi derivino dalla Signora Thatcher o da una futura amministrazione laburista. Una banca centrale senza alcuna indipendenza non è utile a nessuno, perché diventerebbe un semplice dipartimento governativo. Questo è il rischio, d'importanza politica nazionale, che corre la Banca d'Inghilterra nel fronteggiare i problemi interni alla City di Londra.
RECENTI SVILUPPI E PROSPETTIVE
Fin qui la situazione quale poteva essere descritta alla fine dell'estate 1985. Quali mutamenti sono intervenuti da allora alla primavera '86? Sul piano della politica monetaria c'è da dire innanzitutto che il problema della liquidità e i problemi tecnici dei mercati monetari sono divenuti così acuti da convincere il Governo a porre fine alla politica di overfunding che significa emettere più titoli di Stato di quanto sia necessario per finanziare il fabbisogno dello Stato. Con l'effetto di 36
ridurre la crescita dell'aggregato monetario ampio, cioè M3. Il risultato che è seguito alla fine dell'oveifnding è che l'aggregato M3 si è comportato in modo estremamente erratico e non è stato preso sul serio da nessuno nei mesi recenti, sebbene la Banca d'Inghilterra abbia enfatizzato il fatto che le distorsioni alla fìe sarebbero scomparse. Comunque, la liquidità è diminuita e i problemi tecnici di gestione dei mercati sono divenuti molto meno rilevanti. La gestione dei mercati monetari e valutari da parte della Banca e del Tesoro è anch'essa migliorata sensibilmente nei mesi recenti. Un importante risultato delle lezioni imparate dai gravi errori di questi ultimi anni. Il Tesoro, mentre si è prevalentemente concentrato sul tasso di cambio come punto di orientamento per fissare i tassi di interesse, ha operato in collaborazione con la Banca per evitare che sorgesse del panico in relazione ai tassi d'interesse che si sono visti negli anni recenti quando la sterlina si indebolisce. Il maggior miglioramento c'è stato in relazione ai prezzi del petrolio. Tesoro e Banca presero il partito che i mercati valutari esteri stessero esagerando l'importanza del petrolio nell'economia britannica. Dopo ciò che apparve inizialmente come una seria corsa sulla sterlina in ragione delle cadute del prezzo del petrolio, le autorità per la prima volta tennero i nervi ben saldi e mentre i tassi di interesse andavano crescendo resistettero alla pressione del mercato per un ulteriore aumento sostanziale.
Durante questo processo i mercati cam- tà di far fronte ad una crisi del petrolio biarono completamente il loro atteg- e della sterlina. Ma il fatto che i migliogiamento circa gli effetti delle cadute ramenti della gestione siano avvenuti del prezzo del petrolio, le quali ora so- in successione fa supporre che tanto la no considerate come moderatamente Banca quanto il Tesoro hanno imparabenefiche per l'economia britannica. to molte cose dal loro precedente disaCome risultato, le cadute hanno avuto stroso record. molto minore effetto sulla sterlina di quanto era stato previsto da quasi tutti, Johnson Matthey Bankers rimane un fatta esclusione del Tesoro, il quale caso difficile, malgrado la tempesta poconseguentemente ha consentito una litica si sia calmata. Le autorità giudigraduale discesa dei tassi di interesse ziarie non hanno finora arrestato nessunon appena essi sono diminuiti negli no,ma non c'è dubbio che la reputazioStati Uniti e nel Giappone. Tuttavia il ne della City di Londra continua a sofGoverno rimane ancora assai nervoso a frire per questo affare, almeno nel proposito del petrolio ed altri problemi mondo politico. La Banca d'Inghilterra e appare rimanere indietro ad altri nel- ha fatto soltanto dei limitati progressi la misura della diminuzione dei tassi. nel curare la ferita aperta con il Tesoro L'offerta di moneta è stata quasi igno- annunciando la vendita del settore JMB rata dai mercati, soprattutto perchè si che commercia in lingotti d'oro e disa che il Governo si sta concentrando chiarando che il costo netto del salvasul tasso di cambio. Dati molto cattivi taggio, dopo la vendita del resto della sulla liquidità nel marzo scorso sono JMB, sarà meno di 50 milioni di sterlistati seguiti da una caduta dei tassi di ne. interesse. Il Cancelliere rimane legato Effetti dell'affare JMB e degli scandali ad una misura monetaria stretta come sul mercato delle assicurazioni Lloyd's MO considerandoloun buon indicato- continuano a riverberarsi nel processo re guida a dispetto delle molte critiche legislativo, la deregulation della borsa che vengono dalla City e ci sono segni in ottobre è stata accompagnata da un che più in là, entro l'anno, potranno nuovo disegno di legge d'iniziativa riemergere preoccupazioni circa 1' anda- parlamentare sulla supervisione di mento degli indicatori monetari. I ti- quella che può essere chiamata l'indumori di inflazione sembrano comunstria dei servizi finanziari. Il Governo que somrrersi nel generale ottimismo intendeva fare un organismo puramenriguardo l'effetto sul livello generale te privato e volontario. Sia il Governo dei prezzi dei più bassi prezzi del pe- che i membri dell'opposizione sono trolio e dei più bassi tassi di interesse. poi andati unendo le forze per riscriveSembra improbabile che la migliore re il progetto. Il Securities and Invegestione del mercato conseguente alla stments Board può ben emergere dal riduzione della liquidità abbia diretta- dibattito parlamentare come un commente portato a una migliorata capaci- piuto organismo regolamentare con 37
poteri sanzionatori. Questo cambiamento sarà la più importante eredità di ciò che il Parlamento chiaramente con-
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sidera come il fallimento della Banca d'Inghilterra come poliziotto della City.
Monete europee: il riallineamento di marzo di Maria Teresa Salvemini
Alla fine di novembre 1985 una situazione di liquidità piuttosto stretta caratterizzava i mercati monetari: ampi riversamenti fiscali e un precario funzionamento delle stanze di compensazione a causa degli scioperi del personale della Banca d'Italia, stavano ampliando la domanda di liquidità degli operatori. Su questa situazione s'innestava bruscamente - esattamente il 25 novembre - una speculazione sulla lira. La pressione sulla nostra valuta era misurabile dal rialzo dei tassi sull' eurolira a un mese, che passavano dal 14.50 al 20% in sole due settimane; questi indicavano infatti l'interesse degli operatori a prendere a prestito lire da cedere sul mercato a prezzi più elevati di quelli a cui si riteneva di poterle comprare un mese dopo, a svalutazione avvenuta. Questa pressioneera giunta in parte inattesa, perché vi era stata solo cinque mesi prima una svalutazione; a differenza degli anni precedenti, il marco e l'Ecu nel 1985, si erano rivalutati più del differenziale d'inflazione con la Germania e con la media CEE, e si aveva pertanto un deprezzamento reale della lira nei loro confronti pari al 3,5% e al 5,5%, rispettivamente. (Nel caso del dollaro, però dove il differenziale d'inflazione si aggiunge all'apprezzamento del cambio nominale, la rivolutazione reale della lira risulta di circail 19%, segnalando così la perdita di competitività delle esportazioni, m anche il forte vantaggio dal lato delle importazioni). In dicembre era inoltre già in atto, e se ne prevedeva la prosecuzione, un miglioramento della bilancia dei pagamenti correnti. Questa, dopo un primo trimestre in pesante deficit (4.686 miliardi contro 3.649 dello stesso periodo dell'anno scorso) nel secondo e nel terzo aveva avuto un andamento complessivo migliore (+350 contro -600 miliardi); e per l'intero anno già si rettificava di tre-quattro mila miliardi in meno la previsione di disavanzo di 12.000 ufficialmente fatta in ottobre. La spinta alla rivalutazione del marco era la causa delle difficoltà incontrate non solo dalla lira, ma anche dal franco belga e dal franco francese. Per questo si può affermare che le tensioni nello SME hanno origine, a partire da novembre, nella risposta negativa data dalla Germania alle pressioni internazionali perché adottasse politiche più espansive: le autorità tedesche si sono infatti dichiarate pronte ad un riallineamento delle parità, ma non a rivedere la propria linea di gestione della domanda interna. La posizione della Germania ha reso evidenti le potenzialità restrittive di una manovra limitata ai cambi e ha confermato la necessità di completare l'accordo del Plaza del22 settembre sul dollaro con più espliciti obiettivi di crescita economica. L'eventualità di un riallineamento appariva dunque, in dicembre, dipendente in larga misura dalla volontà dei paesi europei a valuta debole di contrastare, con aumenti dei tassi interni, la spinta al rialzo del marco. Per quanto concerneva la lira, era evidente che una prolungata fase di instabilità del mercato dei cambi l'avrebbe costretta su una linea di difesa nuovamente affidata all'indebitamento a breve delle banche sull'estero. 39
1118 gennaio, in effetti, vengono prese dalle autorità monetarie varie misure a difesa della lira e
tra queste il rialzo di quasi un punto dei tassi d'interesse del debito pubblico. Il mercato non ritiene tale rialzo la misura più importante: non è di per sé tale, infatti, da migliorare una necessa-' ria tendenza al ribasso e da risollevare perciò la domanda di titoli pubblici. Questa sembra invece legata, in questa fase, principalmente all'efficacia delle misure amministrative poste a difesa del cambio, per l'effetto che queste possono avere sulla liquidità del mercato e sulle aspettative d'inflazione. Si tratta della reintroduzione del massimale alla crescita degli interessi bancari e di obblighi di finanziamento in valuta delle esportazioni. Si valuta positivamente, tuttavia, l'insieme dei provvedimenti, sia dal punto di vista delle aspettative di svalutazione, che vengono bloccate, sia dal punto di vista del più facile collocamento di titoli pubblici: una politica di difesa ferma del cambio appariva necessaria, dopo che la svalutazione di luglio aveva riaperto spazi di incertezza sugli obiettivi delle autorità monetarie, indebolendo così la domanda dei titoli. Un elemento di ottimismo già in gennaio veniva, peraltro, dalle previsioni d'inflazione, assai più ottimistiche che nel 1985: l'oCSE, indicava, sull' "Economic Outlook" di dicembre, in due punti e mezzo, dal 9.25 al 6.75%, la riduzione del tasso di crescita dei prezzi al consumo in Italia. Secondo altri, una più veloce discesa nel primo semestre avrebbe potuto portare verso il 6% il livello medio. Appariva immediatamente rilevante, per la realizzazione di questo più ottimistico obiettivo, che le imprese trasferissero sui prezzi interni, piuttosto che sui margini di profitto, la discesa dei prezzi all'importazione; benché alcuni elementi potessero fa propendere per una previsione in questo senso (ad esempio, una domanda di consumi ancora contenuta) il mercato monetario ancora non se la sentiva di volgere all'ottimismo. Tra l'altro, risentiva fortemente degli spostamenti di portafoglio verso le azioni, sottolineato dall'andamento della raccolta dei fondi comuni d'investimento in gennaio, e dall'impetuosa ripresa del rialzo dei corsi azionari. Uno spostamento, questo, che alimentava una domanda già carica, come del resto nelle altre Borse mondiali, di motivazioni finanziarie: le lotte per il controllo delle società, le nuove maggioranze, l'interesse delle aziende a condizioni favorevoli di collocamento dei propri aumenti di capitale, un processo di lungo periodo di ricomposizione dei portafogli che risentiva del clima generale più favorevole all'impresa. Nel mercato azionario, peraltro, non era chiaro quale sarebbe stato l'impatto immediato dei provvedimenti di difesa del cambio. (Si sarebbe visto, nelle settimane successive, che dopo un breve assestamento, la salita dei corsi delle azioni sarebbe continuata). La necessità, per il Tesoro in gennaio, di porre fine alla fase di attesa del mercato dei titoli pubblici, era collegata anche alla scarsa disponibilità esistente, a inizio d'annò, sul conto corrente di te: soreria. Pur in assenza di dati certi (a causa degli scioperi della Banca d'Italia) si situava in 6-7 mila miliardi questo margine; la cifra risultava in gran parte dal fatto che in dicembre il Tesoro aveva potuto collocare titoli in misura superiore al fabbisogno, mentre assai scarso era l'effetto del passaggio al nuovo esercizio: il tetto previsto dalla norma del 14% si alzava, infatti, di soli 2.600 miliardi, per effetto dell'incremento di spesa del bilancio ''iniziale'' '86 (383.000 miliardi prima dell'approvazione definitiva della Legge Finanziaria, contro i 365.000 di fine '85). Nel 1985 il tetto si era alzato di 6.900 miliardi e nel gennaio 1984 di 4.500 miliardi. Un utilizzo rilevante del margine del conto corrente già a inizio d'anno riproponeva il problema dei vantaggi e degli svantaggi dei diversi profili temporali che il prelievo dal conto corrente può avere in corso d'anno. Questo profilo è stato molto diverso, di volta in volta, negli anni passati: dall'esperienza fatta emerge che il maggiore inconveniente di un uso anticipato è quello di toglie40
re al Tesoro una importante rete di sicurezza: quando non esiste rischio di illiquidità è più facile sondare l'effettivo prezzo di domanda del mercato, anche correndo il rischio di qualche insuccesso all'asta. Ma quando il margine è esiguo, e il rischio di sconfinamento massiccio, nel mercato si sviluppano rapidamente aspettative di rialzo dei tassi, che di norma rendono necessaria una manovra di correzione più costosa. A fronte di ciò sta il vantaggio del minor costo che il finanziamento sul conto corrente ha per il Tesoro: solo l'i %, che consiglia un uso per quanto possibile anticipato. Dal punto di vista della Banca Centrale, peraltro, si pone il problema del controllo sulla base monetaria, che fa preferire un uso più diluito e limitato. L'atteggiamento di attesa e di incertezza del mercato si prolungava ancora in febbraio. Questo è
comprensibile, si diceva, perché una politica severa ha portato ad un rialzo di tre punti dei tassi interbancari, perché le attese di svalutazione non sono ancora del tutto abbattute, perché i turbamenti, non solo tecnici, causati dagli scioperi della Banca d'Italia non si sono esauriti, perché la conclusione del dibattito sulla Legge Finanziaria non ha mostrato alcun indirizzo di risanamento del bilancio. Inoltre, si osservava come le crisi di liquidità rendessero ogni volta più drammatica la sproporzione fra lo spessore del mercato e la dimensione dei rinnovi dello stock di titoli del debito pubblico e dei fabbisogni aggiuntivi; un valore stimabile, per il 1986, in oltre 300.000 miliardi. Ma era già evidente, in febbraio, che lo shock che l'economia italiana stava ricevendo sul lato dei costi di produzione dal ribasso del dollaro e del costo del petrolio (nonché di molte altre materie prime) era tale che era difficile non ne derivassero, a breve scadenza, modifiche nella politica monetaria e in quella di bilancio. Nella prospettiva di una riduzione del differenziale di inflazione con gli altri paesi e di un avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, perdevano ulteriormente consistenza le attese di svalutazione. Questo fatto già spingeva al ribasso i tassi dell'eurolira; non era difficile attendersi che anche i tassi interni potessero a breve scadenza muoversi nella stessa direzione. La riduzione del tasso di sconto, dal 15 al 14%, il 21 marzo, sorprendeva tuttavia il mercato perla
sua entità e per l'anticipazione rispetto alle tendenze. L'interpretazione di questo fatto, data subito da alcuni osservatori, e poi confermata da una successiva vivace polemica tra il ministro del Tesoro e il sistema bancario, era che la manovra del tasso di sconto avesse come obiettivo quello di assicurare che la discesa dei tassi sui depositi bancari avvenisse, da quel momento in poi, in linea con quella sui titoli pubblici, che il Tesoro si apprestava a varare. Il ''Bollettino economico" della Banca d'Italia in ottobre aveva riconosciuto il valore strategico di questo differenziale, dopo che l'esperienza dei mesi precedenti aveva confermato la forte elasticità della domanda di titoli al variare del suo livello. Una più attiva politica d'intervento sui tassi bancari sembrava anche giustificata dall'opportunità di ridurre le pressioni provenienti dal mondo politico per soluzioni amministrative alla questione del debito pubblico. La decisione del 21 marzo confermava così l'intenzione della Banca centrale di ampliare il ventaglio degli strumenti operativi - usando ora il tasso di sconto come fattore di riduzione del tasso sui depositi, in gennaio il massimale come fattore di limitazione degli impieghi bancari - dopo un triennio nel quale si era fatto affidamento prevalentemente sul controllo quantitativo della liquidità bancaria. Tuttavia, la non pronta risposta del sistema bancario segnalava, nei giorni seguenti, che malgrado il tasso di sconto sia uno strumento con una forte evidenza d'immagine per il pubblico, e nonostante la presenza del massimale, riesce sempre difficile per le banche rinunciare ad una concorrenza per la raccolta. 41
Il riallineamento SME di fine marzo rappresentava una conclusione per questa fase di inquietudine del mercato: in realtà, già da qualche settimana, le conferme della discesa dell'inflazione e del miglioramento dei conti con l'estero avevano ricreato un clima diottimismo, nel quale aveva potuto avviarsi una politica del Tesoro di riduzione dei rendimenti; la limitata svalutazione della lira (3% sul marco) addirittura non era stata anticipata da movimenti di capitale; nei giorni successivi non è stata confermata dal mercato, tanto da costringere la Banca d'Italia ad intervenire in difesa del marco. La discesa dei tassi nominali si presentava dunque come una possibilità assai vicina; essa di ricollegava anche all'opportunità di riportare i rendimenti reali ex ante (cioè i rendimenti ottenuti deducendo l'inflazione attesa per il 1986) su livelli più vicini a quelli degli altri paesi industrializzati; a fine febbraio i nostri tassi si trovavano infatti oltre un punto al di sopra di quelli degli altri paesi (7,1% contro il 5,7% degli Stati Uniti, il 5,8% della Germania, il 5,3% del Giappone, il 5,4% della Gran Bretagna), e vicini solo a quelli francesi, resi elevati, a quel momento, dalle aspettative di svalutazione del franco. Era quindi evidente che vi era una possibilità di discesa più veloce per i tassi italiani che per quelli esteri: anche questo spiega il più disteso comportamento dei mercati monetari. Nelle settimane seguenti il comportamento del Tesoro avrebbe più che confermato questa aspettativa. Superato l'ostacolo del riallineamento SME, ci si chiede quanto potrà durare il nuovo accordo e se si ripresenteranno, a scadenza più o meno breve, motivi di tensione tali da rendere nuovamente instabile la tendenza dei tassi d'interesse. L'impressione è che un lungo periodo di stabilità sia questa volta meno probabile, perchè i fattori esterni di turbolenza - il disavanzo americano, la debolezza del dollaro, il surplus commerciale giapponese, il debito dei paesi in via di sviluppo non hanno esaL ito i loro effetti. Movimenti di capitale che vadano di preferenza verso la valuta forte del sistema possono così, in qualsiasi momento, costringere a nuovi allineamenti, preceduti da fasi di stretta guardia monetaria delle parità. La conseguenza sarà una corrente alternata di afflussi e deflussi di liquidità (come già visto in questi mesi), con balzi sensibili dei tassi d'interesse. Un più elastico approccio al problema, e cioè l'ipotesi di più frequenti aggiustamenti, rischia di apparire come una rinuncia alla disciplina che l'accordo SME dovrebbe indurre nella gestione della domanda interna dei singoli paesi. Uno scenario monetario diverso da quello sopra delineato è pertanto possibile solo se si adotta con decisione una linea di difesa alternativa, basata sul coordinamento effetti delle politiche economiche. Tale linea consentirebbe di attribuire a cambi più flessibili il compito di indicatori di convergenza, in altre parole, di punto di riferimento per misurare la dimensione e il segno delle correzioni da apportare alle politiche nazionali; ad essa potrebbe collegarsi la proposta di un programma di liberalizzazione valutaria.
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queste istituzioni primavera 1986
La strana storia della Strategic Defense Initiative
Forse aveva ragione Richard Nixon a ricordare che "se la storia serve da guida, valutare un summit secondo lo spirito che esso crea porta ad evidenziare fallimenti più che successi" (Summitry, in "Foreign Affairs", fall 1985). Dopo l'incontro Reagan-Gorbaciov, così come in altre occasioni, lo spirito di Ginevra è durato poco, solo "un breve miglioramento d'atmosfera", come dice ancora l'exPresidente. Il fatto è che questa volta, a differenza di altre, "gran parte del mondo identifica negli Stati Uniti, non nell'Unione Sovietica, il principale ostacolo al disarmo nucleare" (così osserva Tom JVicker sul "New York Times ": America's Dark New Identity, I. H. T., 7giugno). Soprattutto in ragione della determinazione di Reagan a portare avanti ilprogetto di' 'iniziativa di difesa strategica" a cui dedicato il saggio di LordZuckerman, per tanti anni ascoltato consigliere scientifico diprimiministrie di ministri della difesa de/Regno Unito. Contro l'iniziativa - che qualcuno definisce una "rapina" adopera di un complesso "militare-burocratico-industriale-accademico" molto potente (E. P. Thompson: Look Who's Really Behind Star Wars, in "The Nation", 1 marzo 1986). Egli ha ricordato, fra l'altro, ai sostenitori dei trasferimenti tecnologici che deriverebbero dall'iniziativa, che "le maggiori invenzioni degli ultimi dieci anni sono venute dall'economia civile e sono state sfruttate da quella militare". Una lucida critica degli assunti tecnologici dell'sDI i quella ,di DavidLorge Parnas, noto professore di "cumpeter science" che nel dimettersi dalprogetto ha scritto Otto brevi relazioni sui limiti attuali della ingegneria de/software e quindi sull'impossibilitì che essa possa essere i/fondamento, come invece si presume, del/'SDI. Tali relazioni, ricordate anche da Lord Zuckerman, sono state pubblicate in Italia sulla "Lettera sull'informazione Tecnologica e Organizzativa", Milano, settembre 1985.
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Le meraviglie delle guerre stellari di LordZuckerman
Il summit di Ginevra è arrivato e passato lasciando Gorbaciov convinto che il programma di Iniziativa di Difesa Strategica (SDI in inglese) sia un impedimento rilevante ad ogni significativo accordo di controllo sulle armi nucleari per la semplice ragione che esso finirà inevitabilmente col trasferire nello spazio la corsa agli armamenti. Il Presidente Reagan, dall'altra pàrte, continua a mostrarsi affascinato da ciò che egli chiama il "suo sogno", il sogno di uno scudo di sistemi di difesa nello spazio che libererebbe l'umanità dalla "prigione del terrore reciproco". Da qui la prima differenza tra i due schieramenti: ciò che per l'Unione Sovietica rimane una scelta tra sopravvivenza e suicidio comune, è invece per Reagan un meraviglioso sogno. Da quale parte sta la ragione? Ci sarà qualcosa di nuovo al prossimo summit? Se mai qualcuno, diverso dal Presidente americano, avesse invitato degli scienziati a tentare di rendere "le armi nucleari impotenti e obsolete", la proposta avrebbe probabilmente suscitato non maggiore attenzione che se fosse stato chiesto di quadrare il cerchio o di risolvere il problema del moto perpetuo. Ma Reagan era il Presidente e spiegò il suo scenario di un futuro in cui la bomba nucleare non avrebbe più proiettato a lungo la propria ombra, in 44
modo così lineare da farlo apparire come facile e aportata di mano. Come avrebbe potuto un messaggio del genere lasciare indifferenti? Inoltre esso implicava la promessa di vaste risorse destinate alla Ricerca e Sviluppo: una visione quindi non soltanto di pace, ma anche di lavoro, di prosperità; di esaltante impegno. A coloro che sostennero come l'idea fosse strategicamente ingenua, il Presidente concesse che ci sarebbero voluti "anni, probabilmente decenni di sforzi" perchè il sogno divenisse realtà, e che nel frattempo, i sistemi difensivi, "se accoppiati a quelli offensivi", avrebbero anche potuto apparire "come un incoraggiamento ad una politica aggressiva". Tuttavia, per quanto fantastica, la sfida era stata presa sul serio, persino dal Segretario alla Difesa del Presidente, il quale, e ciò era stato oggetto di numerosi commenti, si era addirittura dimostrato ''scettico" nei confronti dell'intero progetto fino al momento in cui esso fu comunicato all'opinione pubblica mondiale. Il risultato è che nell'arco di tre anni, l'sDI è divenuta una delle sigle maggiormente conosciute nel mondo. Ha stimolato un dibattito globale. Invece di ridurre le tensioni tra Est ed Ovest e "introdurre una maggiore stabilità nei calcoli strategici di entrambe le parti'', le ha accresciute. Addirittura ha anche
generato divergenze all'interno della stessa alleanza occidentale. Infine, cosa più importante, ha diviso la comunità scientifica americana alla quale la sfida era particolarmente indirizzata. E l'ha divisa in ordine sia alle implicazioni tecnologiche che alle prospettive strategiche, aprendo un dibattito che ha coinvolto politici, vertici militari e comuni cittadini. E naturalmente, il confronto ha prodotto una gran quantità di opinioni e pubblicazioni. Fra questi i tre libri usciti nel 1985, a cui si fa riferimento in questo articolo: William J. Broad, Star IVarriors: A Penetrating Look Into the Lives of the Young Scientists Behind Our Space Age U'eaponry, Simon and Schuster, pp. 245; Robert Jastrow, How to Make Nuclear W/eapons Obsolete, Little, Brown, pp. 175; Congress of the United States, Bal/istic Missile Defense Techno/ogies, Office of Technology Assessment, pp. 325.
I PRECEDENTI: IL SISThMA "SENTINEL" In un certo senso il dibattito è una nedizione delle controversie che culminarono nel Trattato ABM del 1972, quando le due parti riconobbero implicitamente che andava al di là del loro potere convenzionalmente definito progettare delle difese significative contro i missili balistici intercontinentali (ICBM5).
Le due superpotenze si erano mosse alla stessa maniera, quando hanno dispiegato analoga varietà di difesa antiarea. C'erano "radar di rilevamento"
che sondavano l'orizzonte per l'individuazione delle testate in arrivo, "radar di inseguimento", collegati tramite computers a missili nucleari antimissile, la cui esplosione fuori dall'atmosfera avrebbe emesso raggi X ai quali le testate di attacco sarebbero risultate vulnerabili a grandi distanze, infine c'erano radar terminali e missili terminali anti-missile destinati a quelle testate che non fossero state distrutte precedentemente. Verso la fine degli anni Sessanta industria missilistica ed uso intensivo delle nuove tecnologie da computer erano sviluppate ad un punto tale da giustificare il dispiegamento. O almeno così sembrava. Nel frattempo erano sorti dei dubbi. Poteva realmente funzionare un sistema ABM? Esso avrebbe dovuto far fronte non solo alle testate, ma anche ad una varietà di' 'richiami" e altri congegni che i missili avrebbero lanciato per confondere i radar. Le testate potevano infatti esplodere fuori dall'atmosfera, creando un black out elettromagnetico, che avrebbe reso quasi impossibile il compito dei radar. Gli stessi grandi radar erano chiaramente vulnerabili ad un attacco diretto. Inoltre l'intensità di un eventuale attacco poteva essere così forte da schiacciare qualunque sistema di difesa. Ogni missile balistico poteva portare non una, ma più testate che, come era chiaramente riconosciuto fin dalla prima metà degli anni Sessanta, potevano essere rese manovrabili in modo indipendente l'una dall'altra. Ciò che ora chiamiamo sistema MIRVed. A tutto ciò va aggiunto un problema politico di non poco conto: 45
la gente non vuole i missili di difesa installati nei propri cortili, infine, né gli Stati Uniti né la Russia potrebbero permettersi di dispiegare più di un limitato numero di sistemi difensivi. L'ipotesi che la creazione di tali sistemi implicasse i' "obbligo" di usarli, prima o poi, costituì un inquietante interrogativo a cui se ne aggiunse ben presto un altro: chi o cosa era da difendere? Nonostante ogni dubbio, nel 1967 gli Stati Uniti cominciarono a dispiegare un sistema ABM di tipo "leggero", chiamato in codice Sentinel, per difendersi da un possibile attacco della Cina. La Russia aveva cominciato pochi anni prima ad usarne uno simile, per la presunta difesa di Mosca, dai momento che, come commentò Krusciov, se gli esperti balistici sapevano come "colpire una mosca nel cielo", potevano di certo colpire le testate in arrivo. Era in fondo ragionevole tentare di difendere la capitale. Ma il Presidente Johnson non ne era così sicuro. Nel 1967 egli pose la sola domanda che meritava una risposta: avrebbe realmente funzionato un sistema ABM? La risposta degli esperti fu "no". Nessun sistema ABM poteva ridurre in maniera significativa la vulnerabilità degli Stati Uniti. Nessun Presidente poteva dare inizio o assecondare un conflitto nucleare senza rendersi conto che le conseguenze sarebbero state di estrema imprevedibilità: il rischio, una volta adottata la scelta di un uso concreto delle armi nucleari, sarebbe stata la totale distruzione del suo paese. Nel 1967 il Presidente J ohnson e Robert McNamara, suo Se-
rre
gretario alla Difesa, tentarono in ogni modo a Glassboro nel New Jersey, di persuadere Kossighin, successore di Krusciov, ad accettare questi concetti. Gradualmente, il dirigente sovietico e il Politburo riuscirono a vedere la luce: i discutibili sistemi ABM avevano il solo effetto di destabilizzare lo stato della deterrenza nucleare. Il risultato di tutto ciò fu il Trattato ABM del 1972, un Trattato che limitava lo spiegamento di questi sistemi difensivi solo a due luoghi, più tardi diminuiti ad uno solo, in ciascun paese. Il Trattato non fermò lo sviluppo della competizione nel campo della ricerca sui radars, i computers e i missili di difesa dispiegati in questi due luoghi, ma proibì specificatamente io sviluppo di qualsiasi estensione a basi spaziali del sistema ABM. Politicamente la stabilità divenne la questione più importante.
I VERI INIZI DELL'SDI
E quello tuttavia fu il momento - e non la primavera del 1983, quando parlò il Presidente Reagan - in cui prese l'avvio il progetto di Iniziativa di Difesa (SDI). Infatti, scienziati ed ingegneri americani e sovietici che stavano lavorando sui laser e sui fasci della particella, nel quadro dei piani di difesa, non cessarono affatto le loro ricerche sperimentali quando nel 1972 il Trattato fu firmato. Allo stesso modo si comportarono gli ingegneri e gli scienziati di ambedue i paesi che stavano cercando di migliorare la potenza dei radars e dei computers
consentiti, nonché le dimensioni, la potenza e la velocità dei rispettivi missili di difesa. I vertici militari di entrambe le parti, che erano stati ugualmente dubbiosi circa la validità del Trattato ABM, furono prontissimi ad incoraggiare i rispettivi laboratori a continuare, preoccupandosi, poco delle conseguenze politiche dello sviluppo dei sistemi studiati. Molti degli scienziati e degli ingegneri non avevano, peraltro, alcun bisogno di un forte stimolo. Dopotutto, si trattava del solo mezzo per poter mantenere il lavoro. Un importante personaggio che non aveva bisogno di incoraggiamenti era Edward Teller, il famoso fisico e teorico nucleare rifugiato, che durante la guerra aveva lavorato sulla bomba nucleare con Hans Bethe. Teller è considerato da alcuni come un fisico insigne, da altri solo come un fisico famigerato. Durante gli anni di McCarthy aveva giocato un ruolo critico nella caduta di Robert Oppenheimer, il direttore scientifico di Los Alamos in tempo di guerra; se per gelosia o frustrazione o se perché egli si considerava come una specie di superpatriota (plus royal que le roi) è difficile da dire. Qualunque fossero le sue motivazioni, Teller perse la stima di molti dei suoi colleghi scienziati, dai qùali venne rapidamente isolato. Per un altro verso egli era fortemente appoggiato dai membri dell' establishment della Difesa, particolarmente dell'Air Force, i quali erano convinti assertori di un dispositivo nucleare più potente della bomba atomica: la bomba ad idrogeno
della seconda generazione, che avrebbe, rappresentato un ulteriore contributo all'arsenale nucleare americano. Essi lo hanno anche appoggiato nella campagna per costruire un secondo laboratorio nucleare a Livermore, come distaccamento dell'Università di California. Teller li aveva persuasi che il Centro di ricerca di Los Alamos era troppo liberai. In passato egli si oppose con veemenza al Trattato del Partial Test Ban del 1963, soprattutto perché veniva ad interferire con gli esperimenti delle nuove testate. Egli affermava anche che l'Unione Sovietica sarebbe stata spinta a violano e che comunque non vi era alcuna ragione per supporre che la pioggia radioattiva dovuta agli esperimenti nucleari nell' atmosfera fosse pericolosa: essa potrebbe anche far bene. Egli divenne il portavoce scientifico d'elezione della destra oltranzista, dell'hard-line nght, un termine che gli europei hanno coniato per indicare quegli americani che sono radicalmente contrari a qualunque forma di controllo sugli armamenti assumendo acriticamente che l'aumento del potere distruttivo avrebbe significato una maggiore forza militare e politica, e che, a qualsiasi rischio, vogliono una dura e costante opposizione ai russi e al comunismo tutte le volte e dovunque sia possibile. Teller protestò fortemente anche contro il Trattato ABM e contro il SALT I e il. Il laboratorio di Livermore, sua creatura, stava per produrre il dispositivo nucleare della terza generazione che avrebbe trasformato l'intero scenario strategico internazionale. Secondo 47
quanto sostiene William Broad, l'autore di Star W/arriors, il libro sugli ordigni nucleari della terza generazione, di cui Teller aveva parlato al Presidente, fu lo strumento per inculcare in Reagan la visione di un futuro in cui le armi nucleari tradizionali sarebbero diventate impotenti e obsolete.
A LIVERMORE E ALTROVE
Teller si cela così in quasi ogni pagina del libro di Broad che concentrò la sua attenzione su un piccolo ma selezionato gruppo di persone impiegate a Livermore, il cui personale complessivo oggi ammonta, così come ci viene detto, a circa 8.000 unità e costa al Governo federale più di 800 milioni di dollari all'anno. Sebbene la struttura di Livermore sia impegnata in molti altri programmi, la sua funzione primaria è legata al progetto delle testate nucleari, un campo nel quale rivaleggia fieramente, e presumibilmente con successo, con il più vecchio laboratorio di Los Alamos. Un brillante opuscolo, che fu pubblicato per celebrare il venticinquennale della stazione, affermò che Livermore era responsabile di almeno nove decimi delle testate strategiche dell'arsenale nucleare americano. Come era stato riferito a W. Broad da un membro del gruppo speciale con il quale aveva passato una settimana a Livermore, i progettisti di testate ad armi strategiche erano liberi di seguire le proprie idee, dal momento che il numero dei progetti possibili "... è limitato solo dalla propria creatività". Dal 48
giovane interlocutore Broad cercò allora di sapere chi fossero i responsabili delle scoperte nucleari della terza generazione. Il loro leader, nonché principale discepolo di Teller, è Lowell Wood. Per una settimana Broad fu in sua compagnia, seguendo giorno e notte lui e la sua équipe di collaboratori, che era siglata come Gruppo O a Livermore e che era formata da non più di una dozzina di giovani scienziati, la cui età media era inferiore ai trent'anni. Insieme con loro c'erano molti lavoratori part-time, alcuni dei quali non erano più che giovani laureati. Molti di essi avevano iniziato come ricercatori della Fondazione Hertz, a cui appartenevano, come dirigenti, sia Teller che Wood, e per la quale quest'ultimo lavorava come uomo del reclutamento. Con incerte prospettive d'impiego per i nuovi adepti e con grossa competitività nel lavoro, egli fu capace di selezionare da tutte le università degli Stati Uniti giovani scienziati e ingegneri nei quali intravedeva notevoli capacità professionali sviluppate ed esercitate in varie direzioni", generalmente in matematica e fisica. A quanto pare uomini con interessi generali, ma senza alcuna specialità tecnica non erano graditi. I candidati scelti furono invitati a lavorare a Livermore per un'estate in un programma interno, con l'impegno di venire trattenuti se avessero superato le prove. La maggior parte del gruppo era, come lo stesso Wood, composto da scapoli. Pochi avevano immaginato prima di allora di divenire "costruttori di bombe". Del resto o sarebbero diven-
o
tati tali oppure, come uno del gruppo confessò a Broad, avrebbero finito col "lavorare in una qualunque azienda di barbabietole". Un'ulteriore attrazione era che Livermore disponeva della migliore attrezzatura con la quale lavorare e contemporaneamente garantiva l'accesso agli esperimenti sotterranei nel Nevada, la cui responsabilità era condivisa con i laboratori di Los Alamos, e allo stabilimento di ricerche nucleari Sandia ad Albuquerque. Gli young men di Lowell Wood collaboravano in spirito di concorrenza reciproca e celebravano i loro traguardi con tarties nei quali non facevano altro che mangiare e bere grandi quantità di gelato e Coca-Cola. William Broad ha riferito che non vi era alcuna donna intorno, e che il Gruppo O non era del tutto ben visto dalla direzione di Livermore, un membro della quale disse allo stesso Broad che il gruppo era costituito da "bravi giovani, che non avevano alcun altro interesse e che non erano ancora socialmente inseriti''. Ammettendo che la settimana passata con loro fosse rappresentativa, Broad ne trae l'impressione che essi parlassero solo fra loro e che quando non discutevano di lavoro si scambiassero superficiali opinioni di politica. Dalle conversazioni che Broad riferisce, si ricava che l'unico problema al mondo, per il Gruppo O, sia la competizione per il potere tra gli Stati uniti e la Russia. Di questo problema la parte che li riguardava direttamente era appunto la costruzione di uno scudo per neutralizzare le testate sovietiche. Uno del gruppo disse a William Broad che, appena lo
scudo fosse stato realizzato, gli Stati Uniti avrebbero lasciato, tecnologicamente parlando, l'Unione Sovietica ''nella polvere'' e che il successo "avrebbe provato al mondo a cosa può arrivare la democrazia". Un altro disse a Broad che, se i russi fossero stati i "proprietari dell'intero pianeta'', essi non avrebbero permesso alla tecnologia di evolversi. Per quanto ne sapesse questo giovane, "... la sola ragione per cui la loro tecnologia progredisce è che non possono fare diversamente". Egli chiaramente era all'oscuro del fatto che negli anni Trenta i russi avevano colpito l'Occidente con la rivelazione di una visione totalmente utilitaria della scienza e del suo completo asservimento alla tecnologia. Come ha affermato nel 1931 B. Hessen, la concezione sovietica è che la scienza non può progredire in una società che limita i progressi tecnologici, ovvero che "la scienza si sviluppa attraverso la produzione sicché le forme sociali che rendono subalterne le forze produttive limitano allo stesso modo lo sviluppo della scienza". Immagino che questa frase sarebbe piaciuta a Lowell Wood e al suo gruppo. Essi sono persone che agiscono, non sono né filosofi né politici. Il loro lavoro, così come quello dei loro colleghi dell'Unione Sovietica, consiste nel servirsi della conoscenza scientifica per operare.
L'AVvENTo DEL LASER
Molto prima che qualcuno di questi giovani fosse nato, e prima anche 49
dell'era dei missili balistici intercontinentali, alcuni fisici avevano costruito macchine, per esempio ciclotroni e sincrotroni, in cui le particelle subatomiche che compongono l'atomo sono accelerate in potentissimi fasci di energia. Questi "fasci di particella" potevano, se diretti nello spazio, o almeno così fu ipotizzato più tardi, intercettare e distruggere testate nucleari. Solo dopo, neI 1960, venne il laser. La luce ordinaria, come quella emessa da un filamento caldo di una lampadina, consiste in una emissione incoerente di onde elettromagnetiche a larga banda (da quelle dell'infrarosso, le più lunghe, a quelle dell'ultravioletto, le più corte). Il laser invece concentra tutta l'energia di una banda molto stretta dello spettro èlettromagnetico in un raggio di luce coerente. La sua scoperta fu applicata da scienziati di tutto il mondo per una miriade di scopi diversi, dagli strumenti che possono essere usati per operazioni alla retina dell'occhio fino a sistemi di puntamento per armi. Non deve sorprendere se gli scienziati militari videro nel laser un dispositivo che, se provvisto di sufficiente energia, poteva operare a grande distanza; un genere di applicazione che la generazione più anziana avrebbe definito come "raggio della morte". Generali a riposo iniziarono a parlare di fasci di particelle come se le particelle si potessero passare da una mano, all'altra, mentre i giornali non tardarono a descrivere una nuova generazione di armi strabilianti. Il principale risultato del Gruppo O e 5• 0
in particolare di Peter Hagelstein (che William Broad indica ai suoi lettori come la mente più brillante del team di Lowell Wood, oltre che come un ingegnere giovane e inquieto appassionato di musica classica e letteratura francese) fu l'invenzione del lancio nucleare di laser a raggi X. Altri ricercatori, incluso un anziano scienziato di Livermore, si erano applicati intorno a questo problema, ma invano. I raggi X appartengono agli estremi confini delle onde dello spettro elettromagnetico (la cui lunghezza d'onde è circa un migliaio di volte più piccola della luce visibile). Un fascio coerente di raggi X, se provvisto di sufficiente energia, potrebbe viaggiare fuori dell'atmosfera alla velocità della luce per migliaia di chilometri, scaricando la sua energia sulla ''prima frazione di millimetro del rivestimento di alluminio di un missile nel suo cammino". Questo sottile strato esploderebbe provocando un'onda d'urto sul missile così potente da distruggerlo. Questo è il concetto che era alla base delle convinzioni di Teller, nel credere che un sistema spaziale ABM fosse possibile. Un raggio X sufficientemente potente o altri laser o fasci di particella, viaggiando alla velocità della luce, che significa 186.300 miglia al secondo, poteva, se ben indirizzato, distruggere una testata la cui velocità massima era invece inferiore a dici miglia al secondo. Affinché un laser a raggi X possa funzionare come un'arma ABM, sarebbe comunque necessario usare come sorgente o "pompa" di energia un attrezzo nucleare, cioè una bomba atomica
di rilevante potenza (almeno cento kilotoni o più). Per altri versi, almeno in teoria, il laser a raggi X non è il solo laser che potrebbe essere utilizzato. Lo Alamos, insieme ad altri laboratori, sta lavorando su un laser chimico, la cui lunghezza d'onda sarebbe molto maggiore di quella dei raggi X e dovrebbe essere ugualmente efficace (ma fondendo il bersaglio, non facendolo esplodere), senza avere lo svantaggio del laser a raggi X che richiede una temperatura altissima associata all'esplosione di una bomba atomica. Poiché i raggi X sono assorbiti anche da un sottile strato dell'atmosfera, un ulteriore svantaggio del lancio nucleare del laser a raggi X è che, in pratica, questo dispositivo funzionerebbe solo se lanciato nello spazio o "sparato" da un satellite, cioè una stazione spaziale da guerra, la quale sarebbe realmente necessaria per le armi a fasci di particelle subatomiche. Una stazione spaziale del genere a raggi X sarebbe naturalmente un dispositivo ad un soio colpo, dal momento che essa verrebbe interamente distrutta in una infinitesima frazione di secondo dopo l'esplosione atomica che genera i raggi X diretti e amplificati da una serie di barre metalliche laser costruite intorno al dispositivo. Soddisfatte certe condizioni, le barre potrebbero in teoria essere indipendentemente puntate, proprio in quel milionesimo di secondo, contro un certo numero di rampe missilistiche nemiche nel momento in cui escono dai silos. Solo le basi terrestri militari venivano
considerate nei sistemi ABM compresi nell'accordo del 1972. Non esisteva né si prevedeva a quel tempo alcuna possibilità di colpire i missili balistici durante la fase di lancio. Infatti, segnali-esca ed altre contromisure simili escludevano un efficace intercettamento nello spazio, sicché le testate potevano diventare vulnerabili solo quando rientravano nell' atmosfera per raggiungere i bersagli a cui erano state indirizzate. Il sistema del 1983, se così può essere chiamato l'SDI, differisce completamente da quello del passato, perchè è basato sul principio dell'uso dello spazio. La teoria è che armi a raggi X o razzi potrebbero essere lanciate da satelliti artificiali contro i missili nemici nei pochi minuti compresi tra la fase di lancio e la divisione in testate multiple, il tutto a migliaia di chilometri dagli obiettivi contro i quali sono state programmate. Lo stesso vale per il cannone elettromagnetico, un altro dispositivo sul quale si sta lavorando, che usa intensi campi magnetici per creare una forza necessaria a sparare piccoli proiettili ad altissima velocità. Anche se fosse possibile rendere operativi i laser, i fasci di particelle o i cannoni elettromagnetici durante la fase iniziale del volo di un missile, il sistema difensivo dovrebbe includere un numero sufficiente di satelliti artificiali di sorveglianza, per assicurarsi che mentre essi orbitano intorno al globo ve ne sia sempre almeno uno che scruti i campi missilistici sovietici. Diversamente la curvatura della terra renderebbe impossibile a un satellite di vedere i missili avversari prima che le testate siano 51
entrate abbondantemente nello spazio. Una volta lanciati nello spazio, i dispoLe armi sulle "battie stations" ruotanti sitivi laser a raggi X sarebbero automaintorno alla terra dovrebbero essere in ticamente indirizzati sui boosters, precondizioni di mirare e colpire con un sumibilmente non protetti, che, appesemplice comando automatico. na entrati nell'atmosfera, sarebbero Ma qui sorge il problema maggiore. centrati da un fascio laser a raggi X geTeller, che fino ad ora abbiamo indica- nerato dall'esplosione di una bomba all'idrogeno. I laser chimici potrebbero to come l'ispiratore dell'intera operazione, è convinto che stazioni militari in teoria raggiungere i loro obiettivi per permanenti nello spazio sarebbero mezzo di un sistema di specchi ripiegatroppo vulnerabili ad attacchi nemici ti orbitanti intorno alla terra e pronti per essere prese in considerazione. An- ad aprirsi su comando di un computer che se, come Lowell Wood suggerÏ a per trasformarsi in superfice perfettaWilliam Broad, le stazioni fossero piaz- mente riflettente di adeguate dimenzate in orbita geosincronica a piÚ di sioni. Gli specchi cambierebbero il loro ventimila miglia sopra la terra, esse po- orientamento, frazione di secondo dotrebbero essere teoricamente "ingan- po frazione di secondo, in modo da nate" da richiami-esca, sulla terra o puntare i raggi su di essi inviati direttanello spazio, emessi da trasmettitori mente verso gli obiettivi o rifletterli a appositamente studiati per inviare falsi loro volta verso altri specchi, che fungesegnali capaci di confondere il sistema rebbero da mirino finale. ai sensori ABM. Infine, esse potrebbero In ogni caso vi dovrebbe essere una rete essere distrutte da una sorta di mine di computers capace di coordinare tutti spaziali, piccoli satelliti predisposti per i satelliti di sorveglianza, i sistemi di seguire le stazioni militari e sempre in puntamento, le armi a raggi e a fasci in condizioni di poter esplodere al mo- un unico sistema in grado di fronteggiare non uno o pochi missili, ma, se lo mento opportuno. I sistemi di attacco fondati su basi spa- scudo spaziale fosse veramente inespuziali hanno anche un altro grosso han- gnabile, centinaia e perfino migliaia di dicap: Le sorgenti di energia delle quali missili. queste ultime necessitano sarebbero molto pesanti e ingombranti. Il punto Tutto questo significa che, se mai lo di vista di Teller è che il laser a raggi X, scudo entrasse in azione, il cielo divenla sua arma favorita, potrebbe essere al- terebbe un inferno in pochi minuti e, loggiato in sommergibili e lanciato nel- in caso di falla nel sistema, quell'inferlo spazio da missili balistici che rispon- no scoppierebbe sulla terra in meno di derebbero automaticamente dietro co- un'ora. In piÚ va considerato che, nel mando dei satelliti di sorveglianza che caso in cui l'intero sistema dovesse iniavessero scorto gli SS 18 sovietici o altri ziare a reagire automaticamente alla missili uscire dai silos o venire su dalle notizia di un attacco, in un modo o rampe di lancio. nell'altro, e nessuno ha detto come, 52
dovrebbe esserci il tempo e il modo per un inserimento umano nella catena dei processi interagenti. A favore dei dubbiosi, i favorevoli all'SDI concordano sul fatto che la sorte del genere umano non è cosa da dover essere semplicemente affidata ad un computer. Teller, Lowell Wood e i loro giovani seguaci assieme ai colleghi di Los Alamos ed ai sostenitori su cui contano all'interno del Pentagono e del Dipartimento per l'Energia, credono che tutto questo possa essere realizzato, o almeno, che valga la pena di spendere decine di miliardi di dollari per vedere se è possibile. Passò poco tempo, tuttavia, prima che divenisse chiaro che diversi membri del Congresso avevano dubbi e che le visioni dei guerrieri stellari non fossero condivise da un rilevante numero di scienziati che operano nel medesino campo, sia all'interno che al di fuori dei laboratori governativi. Lowell Wood sostiene che tutta l'opposizione proviene da una ben ristretta cerchia di scienziati. A un piccolo congresso internazionale, non menzionato da William Broad nel suo affascinante libro, Wood disse alla platea che il numero degli scienziati scettici poteva essere contato sulle dita di una sola mano. Sfortunatamente, specificò, sulle dita di una mano "storpia", il che non fu gradito dai presenti e ridusse la forza dei suoi argomenti.
UN MISSIONARIO DELL'SDI
In realtà la situzione è l'opposto di quel che Lowell Wood ritiene. Secondo
John Bardeen, due volte vincitore del premio Nobel per la Fisica, sono pochi gli scienziati, sia all'interno che all'esterno dell'amministrazione, realmente convinti che il sogno del Presidente Reagan possa essere realizzato in un prevedibile futuro. Bardeen, per inciso, era membro del U'/hite House Science Council all'epoca del discorso di Reagan sull'SDI, discorso del quale sia il Consiglio sia il suo Presidente George Keyworth rimasero all'oscuro fino a cinque giorni prima. Teller non condivide troppo le valutazioni di Lowell Wood sul numero degli scienziati dubbiosi. Egli disse a W. Broad che "buona parte del mondo scientifico americano, forse la maggioranza", è contraria all'SDI. Infatti solo uno sparuto gruppo di scienziati indipendenti era venuto a offrire con entusiasmo il proprio aiuto a Livermore e a Los Alamos. Fra questi, uno dei più solleciti fu Robert Jastrow, famoso divulgatore scientifico e professore di earth sciences al Dartmouth College. La sua ferma fede nel progetto SDI emerge nel suo libro How to Make Nuclear W/eapons Obsolete. Il piccolo volume di Jastrow comincia con un certo numero di asserzioni completamente inattaccabili. La difesa, egli dice, è sempre una buona cosa; un sistema fondato sulla dissuasione nucleare reciproca è inumano dal momento che implica una volontà latente di distruggere popolazioni; se una delle parti acquisisce un'efficace difesa contro i missili balistici, potrebbe attaccare l'altra impunemente; se ambedue 53
avessero una difesa, le armi nucleari diventerebbero inutili, perfino un'imperfetta difesa americana che mantenesse intatte alcune delle proprie armi nucleari di rappresaglia, precluderebbe la possibilità di un primo attacco vincente della Russia. Perché mai quest'ultima dovrebbe rischiare di trovarsi in una condizione del genere, sapendo che la considerevole flotta di sommergibili degli Stati Uniti resterebbe estranea all'attacco, è una domanda a cui J astrow non da alcuna risposta. Del resto, come l'ex Presidente Nixon ha recentemente ricordato, i leaders sovietici non sono né folli nè sciocchi. J astrow dà poi un resoconto delle basi terrestri missilistiche sovietiche costruite negli anni successivi alla firma dei trattati dando per implicito che ciò sia contrario a quanto i trattati consentivano. PerJastrow, l'Unioné Sovietica ha solo un fine davanti a sé: la distruzione in un primo attacco degli impianti terrestri dell'arsenale nucleare americano. L'eco che Jastrow fa del tradizionale punto di vista ufficiale del Pentagono, contrasta ancora una volta con la posizione di Nixon, che in un recente articolo su "Foreign Affairs" osserva come i russi, qualsiasi ''superiorità'' essi abbiano, l'hanno ottenuta "nei missili strategici su basi a terra non tanto per quello che hanno fatto in violazione degli accordi sul controllo delle armi, quanto a causa di ciò che noi non abbiamo fatto entro gli stessi limiti permessi da quegli accordi". Jastrow valuta alcuni elementi dell'arsenale americano, aviotrasportato e su 54
sommergibili, incluso il missile Tndent, in termini che ne sminuiscono la portata. Egli parla in modo misterioso del lavoro che si sta facendo per rendere possibile l'individuazione di sommergibili a grande profondità. Si tratta di una possibilità che è stata continuamente discussa e studiata nel corso degli anni, ma senza alcun risultato rilevante che venga a intaccare la convinzione secondo la quale i sottomarini nucleari sono, e continueranno ad essere, effettivamente invulnerabili. Il quadro riportato daJastrow sembra implicare che l'America sia fortemente esposta ad un attacco del più potente arsenale russo. La sola speranza reale, quindi, sarebbe "un sistema di difesa che protegga realménte il popolo americano". Nonostante quanto sostenuto da buona parte della comunità scientifica, Jastrow ricorda come ciò sia già tecnicamente a portata di mano. La nuova arma segreta è il raggio laser di grande potenza. E' con questa introduzione che Jastrow ci riporta al progetto SDI.
Risulta che il nostro autore sia stato così profondamente colpito dal discorso del Presidente del marzo 1983 da esprimere immediatamente e pubblicamente la propria approvazione scientifica. Egli se ne convinse ulteriormente in seguito ad una conversazione avuta con G. Keyworth, fino a poco tempo fa consigliere scientifico di Reagan, il quale, secondo quanto riportato da W. Broad, sarebbe stato raccomandato al Presidente per questo incarico proprio da Teller. Oltre che essere un cx membro dello staff di Los Alamos, al di fuo-
ri del quale era precedentemente poco conosciuto, egli è in verità un amico di Teller. Sarebbe stato perciò sorprendente se non fosse stato anche un ardente crociato della difesa nello spazio. Una buona parte del materiale necessario alla stesura del libro è stata fornita a J astrow da Gregory Cahavan di Los Alamos, da Lowell Wood di Livermore, dal generaleJames A. Abrahamson, capo della sezione SDI del Pentagono, nonché da un ristretto numero di ufficiali che l'autore peraltro nomina. Il libro non contiene analisi originali, il che non è forse sorprendente, dal momento che Jastrow non sembrerebbe aver partecipato ad alcuna ricerca su armi nucleari o laser, radars o computers. Egli è semplicemente un missionario del sistema SDI. Ciò che al lettore viene offerto è una visione altamente ottimistica dell' ipotetico sistema spaziale di difesa, di cui peraltro sono già state pubblicate innumerevoli descrizioni. Può il "genio creatore", si chiede Jastrow, trovare un mezzo che possa proteggere il popoio americano? Certo che può. L'invenzione è già lì. "Si chiama laser". E il modo in cui Jastrow lo descrive lo trasforma in mezzo risolutore di tutti i problemi, quasi come se fosse un gioco da ragazzi assembiare insieme e coordinare l'intero sistema difensivo. Gli Stati Uniti potrebbero così disporre di un sistema Markl già fin dai primi anni Novanta, il tutto con un costo di sessanta miliardi di dollari. E questo il finanziamento necessario per costruire un centinaio di satelliti, ciascuno dei quali provvisto di 150 razzi intercetta-
tori, 4 satelliti di pronto avvistamento in orbite geostazionarie, satelliti a quota più bassa per la sorveglianza, acquisizione, pedinamento e difesa terminale, nonché la necessaria, ma al momento non ancora disponibile, rete di computers e una grande quantità di altri accessori. Ogni cosa può essere "facilmente" raggiunta. Termini come "facile" e "non troppo difficile" caratterizzano il roseo quadro dipinto da Jastrow. Il suo ottimismo è giustificato solo dalle sue semplificazioni sorprendenti. La guerra nello spazio, ovvero l'intercettazione di testate nucleari con laser o con fasci di particelle o con raffiche provenienti da cannoni elettromagnetici, è per il nostro autore come una battaglia per bambini. Se il satellite destinato alla guida dall'operazione perde il contatto con satelliti su cui sono montati gli ordigni, questi possono funzionare autonomamente, "come un mitragliere tagliato fuori dalla propria unità". Sarebbe tuttavia preferibile, continua J astrow, che essi rimanessero sotto il controllo di un satellite master che, come un generale alla guida di una battaglia terrestre, può dirigere l'intera operazione, muovendo le forze disponibili secondo la necessità del momento. La funzione di controllo sarebbe perciò esercitata da un satellite master e non - ciò dovrebbe essere notato - dal Presidente degli Stati Uniti in consultazione con i capi dei governi della NATO. Sarebbe dunque un satellite a decidere in quei tre o cinque minuti successivi alla fase di lancio dei missili nemici, i cui obiettivi non sarebbero i 55
soldati del fronte nemico ma le città indifese con milioni di abitanti in pericolo di morte istantanea. Sembra il copione di un film. Personalmente ritengo che, se il libro diJastrow fosse offerto in lettura ai capi dei governi alleati della NATO, quel piccolo sostegno politico finora ottenuto dal sogno di Reagan sparirebbe nell'arco di una notte. J astrow sembra rendersi conto pienamente del fatto che un cospicuo numero di scienziati americani altamente qualificati, considera l'intera idea come un nonsense tecnico e strategico. Ciononostante, l'unico elemento di critica sul quale egli si concentra riguarda innanzitutto un'erronea primitiva stima, contenuta in un rapporto di scienziati oppositori dell'SDI, relativa al numero di satelliti di sorveglianza che dovrebbero orbitare intorno alla terra per tenere costantemente sotto Osservazione i campi missilistici sovietici. Secondariamente egli controbatte le valutazioni sul notevole peso del satellite necessario all'uso di armi a fasci di particelle. MaJastrow non individuò da solo gli errori. Egli stesso dice di esserne venuto a conoscenza solo quando se ne fece qualche rumore fra gli "specialisti in materia''. Infatti, gli stessi autori del rapporto in questione, tra cui figurano alcuni scienziati illustri come Hans Bethe, Richard Garwin, Victor Weisskopf, Kurt Gottfried e Henry Kendall richiamarono l'attenzione dell'opinione pubblica sui due errori appena cinque settimane dopo che il loro rapporto fu pubblicato. E furono i primi a farlo. Essi si sono dichiarati anche piuttosto sicuri del fatto che le loro pubblica56
zioni non contenessero altri errori di calcolo, sottolineando nello stesso tempo che le stime sul numero dei satelliti di sorveglianza e laser richiesti da un efficiente sistema di difesa dipendono da un numero di ipotesi in continua variazione. Del resto, Richard Garwin ha pubblicato successivamente ciò che sembra essere il più completo e incontestato insieme di stime sulla base di molteplici differenti assunzioni. Ad ogni buon conto così ha giudicato le stime di Garwin lo stesso presidente dell'importante panel del Pentagon 's Fletcherstudy team, Edward T. Gerry. Panel che fu costituito dall'amministrazione nel 1983 per valutare se la ricerca del sistema di difesa spaziale fosse tecnicamente giustificabile. In realtà, i due errori di calcolo non intaccarono alcun giudizio sostanziale circa la fattibilità della difesa spaziale, come emerse chiaramente da un vigoroso e lungo scambio di lettere pubblicate su Commentay nel marzo 1985. J astrow, che prese parte a questo scambio di lettere, si accanì ancora contro quegli errori in un articolo pubblicato nell'estate successiva, nel quale ribadì ancora una volta che il punto di vista dei suoi critici sull'efficacia delle contromisure sovietiche, non dovesse essere "accettato". Con ciò credo che egli intendesse dire che esso va del tutto ignorato. (Deve essere notato che il libro di Jastrow è apparso un anno dopo le correzioni fatte da Garwin nella sua testimonianza al Senate Armed Services Committee, e che di tale testimonianza Jastrow non ha fatto alcuna menzione). Solo chi non è in condizio-
ne di seguire le sfumature tecniche del dibattito potrebbe essere perdonato nel caso ritenesse che l'apparente ossessione diJastrow per quegli errori di calcolo, già da tempo corretti, rifletta soltanto la volontà di screditare coloro che lo criticavano. Altro bersaglio delle critiche diJastrow è Ashton Carter, autore del primo rapporto sull'SDI preparato per. il Congresso dall' Office of Techno/ogy Assessmeni'. Egli ha tuttavia tenuto a sottolineare come Jastrow non avesse mai fornito una sua personale analisi del problema. Che rischierebbe del resto d'essere sfortunata se includesse alcune osservazioni prive di senso come quella che si trova a pagina 95 del suo libro, secondo la quale molecola di ossigeno consiste sempre di due molecole di ossisgeno unite insieme. In verità, la precisione dello stile diJastrow, come appare dal complesso del libro, risulta comparativamente scarsa rispetto all'esattezza scientifica delle parti in cui attacca i suoi critici e nelle quali egli si rifa ampiamente ai documenti fornitigli dai componenti del progetto SDI a Los Alamos e a Livermore. Insomma, mentre la voce - come fu per Giacobbe - è ovviamente quella di Jastrow, le sue pagine spesso parlano come se le mani di più di un Esaù ne avessero guidato la penna. Il rapporto di Carter dell'aprile 1984 considerava i contenuti tecnici esaminati dal gruppo di studio Fletcher, e relativi ad un possibile modo per attaccare i missili balistici nemici durante la loro breve fase di lancio. Nella preparazione del rapporto egli fu aiutato da
tutta l'organizzazione ufficiale direttamente interessata, inclusi i laboratori di Los Alamos e Livermore e la CIA. Ma egli elaborò da solo le conclusioni. La più importante delle quali è questa: 'La prospettiva che le emergenti tecnologie delle 'guerre stellari', se sviluppate ulteriormente, forniscano un sistema di difesa perfetto o quasi perfetto... è così remota da non valere come fondamento di pubbliche attese o della politica nazionale di difesa nel campo dei missili balistici''. Non deve perciò sorprendere che egli fu immediatamente attaccato dai fautori dell'SDI di Los Alamos, di Livermore e del Dipartimento della Difesa (per non parlare diJastrow).
I LAVORI DELL'OFFICE OF TECHNOLOGY ASSESSMENT
Gli studi di Carter erano stati commissionati dalla OTA dietro richiesta dell'House Armed Serzìices Committee e del Senate Foreign Re/ations Committee. In considerazione del dibattito che il suo rapporto suscitò, l'OTA intraprese quindi uno studio più approfondito avvalendosi di un comitato consultivo che includeva tra i suoi 21 membri Michael May, condirettore di Livermore; Robert Clem, direttore del dipartimento di scienze dei sistemi al Sandia National Laboratories, nonché esperti rappresentanti delle industrie che lavorano per la Difesa. Assieme ad essi vi erano anche il generale David Jones, ex presidente del Joint Chiefs ofStaff Robert McNamara, ex segretario alla 57
Difesa, Gerard Smith, principale negoziatore dei trattati del 1972 dell'ABM e del SALT, il generale maggiore John Toomay, che aveva lavorato nel gruppo di studio Fletcher, Richard Garwin, Sidney Dreil e Ashton Carter, tre che avevano espresso non poche riserve tecniche al progetto SDI. Sarebbe stato difficile concepire un altro gruppo così autorevolmente assortito. Per quanto io possa giudicare, il nuovo ed ampio rapporto OTA, Ballistic Missile Defense Tecnologies, e il rapporto di sintesi che lo accompagna, tocca ogni aspetto del progetto SDI che è stato pubblicamente dibattuto, esaminando di volta in volta le tesi opposte sui punti in discussione. Gli autori e il comitato consultivo riconoscono che "... l'Unione Sovietica sta sviluppando massicciamente le avanzate tecnologie che sono potenzialmente applicabili al Ballistic Missile Defense". Ma allo stesso tempo, e contrariamente a quanto sostenuto da alcuni fautori del progetto SDI, forse per incoraggiare l'appoggio pubblico, il rapporto dell'OTA non ritiene che l'Unione Sovietica possa avere alcun vantaggio sugli Stati Uniti "in alcuna delle venti tecnologie di base che vantano il più grande potenziale per un significativo miglioramento delle capacità militari nei prossimi dieci/venti anni''. Il rapporto dell'OTA riesamina i requisiti che un sistema effettivo BMD dovrebbe avere per far fronte alle ovvie contromisure sovietiche. Il lettore viene avvertito che è essenziale considerare molto più che la semplice fattibilità 58
delle moltissime applicazioni in esso riportate. Ciò che importa è la praticabilità operativa, ovvero se le componenti tecniche sviluppate possano essere combinate in un "integrato e attendibile sistema che operi effettivamente a mantenere la sua efficienza nel tempo non appena appaiano le nuove contromisure". Il rapporto arriva alla medesima conclusione che Ashton Carter formulò nella sua prima ricerca: "... la garanzia di sopravvivenza della popolazione degli Stati Uniti appare impossibile da raggiungere se i sovietici sono determinati a negarcela". I resoconti della stampa indicano che la reazione del Pentagono alla nuova valutazione dell'OTA sia stata meno ostile rispetto a quella manifestata verso Ashton Carter, e che le autorità della difesa concordano sul fatto che durante gli anni necessari alla predisposizione di una efficace strategia di difesa, potrebbero nascere nuovi rischi di conflitto nucleare. D'altra parte, va citata l'opinione del responsabile del progetto SDI a Washington secondo il quale anche una difesa parziale accrescerebbe le incertezze dell'Unione Sovietica, quando mai stesse per pensare a un primo attacco, e garantirebbe comunque un primo effetto deterrente. Nonostante l'amministrazione e molti leaders congressuali, assieme a molti commentatori della stampa, abbiano accettato il rapporto dell'OTA come rassegna nonpartisan, alcuni critici duri a morire lo hanno condannato. Ciò che trovo sorprendente è che a questi ultimi si sia accodato anche Frederick Seitz, presidente del Defense
Science Board del Pentagono. Seitz e praticabilità tecnologica del progetto J astrow hanno recentemente proclama- SDI è divenuto troppo importante per il to ad un meeting della conservatrice mondo intero, per soffermarsi a discuHeritage Foundation che tutti i mem- tere di accuse di pregiudizialità da bri del comitato dell'OTA, eccetto lo qualsiasi parte esse vengano, piuttosto stesso Seitz ed il suo staff, erano pre- che di rigorose analisi. giudizialmente critici ab inizio verso il progetto SDI. Seitz si mostrò anche infastidito del fatto che il comitato con- UNA POLEMICA CONTRARIA sultivo non abbia votato il rapporto. ALLA DEONTOLOGIA SCIENTIFICA Ma una votazione, si può supporre, avrebbe costituito niente altro che una Se uno dovesse immaginare che il soperdita di tempo, dal momento che gno del Presidente si trasformi un giorl'esito sarebbe stato sicuramente con- no in realtà, allora vari problemi polititrario al progetto SDI, considerata l'af- ci e strategici che portano lontano dofermazione pregiudiziale dello stesso vranno essere dibattuti, e dibattuti sul Seitz sulla presunta opposizione della piano internazionale, in un mondo nel quale il Trattato ABM del 1972 sarebbe maggioranza del comitato al progetto. divenuto lettera morta, e che nel fratHigh tempo sarebbe stato fuori d'ogni dubIl Generale Daniel Graham della bio trasformato da importanti eventi Frontier si allontanò dal comitato conpolitici. sultivo dell'OTA perché previde di trovarsi in disaccordo con le conclusioni Ma ciò potrebbe avvenire alcune decadi che il comitato era sul punto di rag- avanti a noi. Invece i giudizi scientifici devono venire per primi. Ed essi sono giungere. Egli, almeno, sembra devoto al proget- materia completamente diversa. Ora, a to SDI indipendentemente dalle valuta- prescindere dalle visioni politiche che zioni scientifiche circa la praticabilità egli, Seitz, possa oggi sostenere (egli è ricordato per aver dichiarato che gli tecnica del programma. Ma è una cosa completamente diversa Stati Uniti dovrebbero essere in grado quando uno studioso celebre come di compiere un primo attacco contro Seitz (che sostituì proprio il Generale l'Unione Sovietica) si dovrebbe aspetGrahm all'interno del comitato) rinne- tare da lui che dimostrasse la propria tesi davanti a quelli, fra i suoi pari ga il rapporto per le ragioni indicate. scientifici, che hanno raggiunto valutaQueste ragioni si assommano ad un ottuso rifiuto di ciò che è stato detto dai zioni sui fatti - alcune delle quali nel critici del progetto SDI circa la capacità campo della scienza di base - che sono delle mine spaziali nemiche di distrug- contrarie alle sue. gere le stazioni spaziali, e dei lanci di- J astrow dice seccamente che dovrebbe versivi di confondere i sensori spaziali e essere dato maggior peso alle opinioni così via. Sicuramente, il problema della dei professiona/s che lavorano a tempo 59
pieno nella "defence science community" piuttosto che a quelle dei loro oppositori, sia pure illustri e quali che siano le loro precedenti esperienze di scienza della difesa. Lowell Wood è, come prevedibile, pienamente d'accordo. Egli sostiene che Hans Bethe, Richard Garwin e altri che hanno osato criticare il progetto SDI "hanno tutti dato un contributo uniformemente modesto nel dibattito tecnico svoltosi nelle sedi riservate definite dalle regole del Governo" ed è a causa dei loro insuccessi nel conclave di tali dibattiti che essi tendono a riportare le proprie opinioni ad un pubblico "privo della capacità di far quelle critiche che sa fare di chi conosce meglio le cose". Questa sprezzante chiusa di Lowell Wood nei confronti degli oppositori del progetto SDI è in armonia perfetta con la sua affermazione secondo la quale le riserve sul progetto SDI in termini tecnologici provengano da uno sparuto gruppo di fisici che potrebbero essere contati sulle dita di una sola mano. In nessun circolo dove prevalgono le regole del confronto scientifico è immaginabile un uguale disprezzo nei confronti di posizioni contrarie alle proprie. Sfortunatamente, i non addetti ai lavori che scrivono in favore dell'SDI e che si azzardano a fare considerazioni sugli aspetti scientifici dei quali hanno poca o nessuna conoscenza, tendono a fare il massimo uso di ogni possibile giustificazione scientifica, come per esempio quelle di Lowell Wood, in modo da dar forza ai punti di vista più congeniali agli interessi che essi rappresentano, siano essi politici o 60
finanziari. È assai deplorevole perciò che molti dei più influenti e ardenti fautori dell'SDI siano politici o ufficiali, come Richard Perle, i quali hanno scarsa considerazione critica delle enormi difficoltà che il programma comporta sul piano della Ricerca e Sviluppo. E sicuramente assurdo che questioni come queste, che avrebbero bisogno di essere considerate innanzitutto sotto il profilo della validità scientifica e tecnologica e che sono molto importanti per il futuro della vita sulla terra vengano dibattute da persone prive di background scientifico o di esperienza nell'amministrazione dei progetti di R&S, o di ambedue. La praticabilità tecnica del sistema di basi spaziali ABM non è una questione che potrà essere risolta attraverso un'alzata di mano o una litigata nella quale magari lo schieramento favorevole al progetto SDI sostenga che i critici del medesino sono troppo deboli nei confronti del comunismo.
QuEsrn TECNICI SENZA RISPOSTA
La risoluzione della controversia tecnica dipenderà dalla chiara formulazione di alcune poche questioni e, oltre a ciò, da quelli che sono competenti ad esprimere un giudizio che fornisca le più sagge risposte che possano essere date all'amministrazione, al Congresso e alla popolazione del mondo. Per esempio, una fondamentale premessa, una volta ammesso che possa essere escogitato un sistema ABM con basi spaziali, è che le armi a raggi possano essere pun-
tate dallo spazio ad un missile balistico prima che questo si liberi del suo carico di testate e di strumenti di penetrazione, che cioè essi possano essere puntati su un singolo obiettivo e non aver da inseguire decine e decine di obiettivi sparati. Se, come Garwin ed altri hanno sostenuto e come i russi sostengono, la separazione delle testate può esser fatta accadere entro, diciamo, i primi cento chilometri dell'atmosfera, allora i laser a raggi X e i raggi di particelle sparati da satelliti sarebbero relativamente inutili perchè essi perdono la loro efficacia quando entrano, proveniendo dallo spazio, negli strati superiori della atmosfera. La prima questione è stabilire se un razzo balistico può essere alimentato e programmato in modo tale da gettare fuori le proprie testate prima di raggiungere quell'altezza. Il recente rapporto OTA, come pure quello di Ashton Center, ha risposto affermativamente. Alla stessa conclusione era pervenuto il gruppo di studio Fletcher, il quale aggiungeva che i sovietici lo avrebbero potuto fare, dato il tempo necessario. Se questa è l'opinione di coloro che sono maggiormente in grado di giudicare e l'URSS raggiungesse ulteriori contromisure nel prossimo decennio (ammesso che ciò non sia già avvenuto) l'intero problema del sistema difensivo spaziale cambia completamente. Una parte critica dell'idea SDI evaporerebbe in una notte. Prendiamo un'altra questione: il grande numero di bersagli che un sistema di difesa spaziale dovrebbe fronteggiare quasi simultaneamente.
Un sistema di navicelle difensive, conosciute come Aegis, che fu concepito per affrontare duecento missili cruise in arrivo e per colpirne almeno sedici nello stesso tempo, non si è dimostrato ancora capace di fronteggiarne due o tre. Le industrie e gli ingegneri che stanno lavorando da anni sul sistema di difesa aereo o navale, non hanno forse reso pubbliche le loro previsioni circa il tipo di scontro che si presume essere possibile nella concezione SDI: la distruzione cioè di un numero compreso tra i dieci ed i venti missili balistici ogni secondo su una salva di oltre mille missili? In cima a tutti questi problemi tecnici, risalta il quesito sulla reale possibilità di progettare l'architettura di collegamento tra i computers necessari perchè il sistema BMD funzioni integralmente. Anche questo problema è esaminato su varie pubblicazioni, e con conclusioni generalmente pessimistiche. David Parnas, un consulente dell' Office for Naval Reiearch nonché illustre professore di computer science, ha spiegato analiticamente le ragioni per cui si dimise dal gruppo di lavoro che, nel quadro del progetto SDI stava lavorando sui problemi informatici del sistema spaziale ABM. Queste ragioni costituiscono una formidabile lettura, giungendo come esse fanno alla conclusione che il lavoro di progettazione della necessaria rete di computers è impossibile. Nella lettera di dimissioni che conteneva in dettaglio le sue tesi Parnas scrisse che egli era consapevole che ci saranno altri esperti di software che lo avrebbero contraddetto: "per essi il progetto of61
fre una fonte di finanziamento, finanziamento che arricchirà qualcuno personalmente... Durante le prime riunioni del nostro comitato potei vedere come le cifre in dollari stessero abbagliando chiunque fosse coinvolto. Quasi tutti quelli che conosco all'interno del complesso militare industriale vedono nell'SDI un 'vaso d'oro' che aspetta solo di essere svuotato". L'opinione di Parnas è pienamente condivisa da alcuni specialisti di computers che hanno recentemente fondato un'organizzazione chiamata Computer Professionalsfor SocialResponsability. Gli esperti inglesi di computer hanno espresso anche loro grande scetticismo su ciò che era stato proposto e più recentemente Herbert Lin del MIT ha concluso un'articolo sull'intero problema affermando che "di nessuna tecnologia di ingegneria di software si può anticipare che sia in grado di supportare il fine di una difesa onnicomprensiva contro i missili balistici''. Tutto ciò concorda con le conclusioni della recente pubblicazione dell'OTA. Il fatto che Solomon Buchsbaum dei Bell Laboratories e Danny Cohen dell' University of Southern California abbiano pubblicamente espresso opinioni più ottimistiche, non alleggerisce le critiche nei confronti del progetto. Inoltre, è difficile immaginare le reazioni politiche che sorgerebbero, qualora l'opinione pubblica si rendesse conto di aver affidato il proprio destino a una rete di computers non esente da errori di programmazione. Dubito che il progetto SDI possa mai sormontare 62
questo ostacolo. Sarebbe peggio che avere basi anti-missilistiche nucleari nel proprio cortile. Il rapporto dell'OTA indubbiamente ha rafforzato le opinioni relative alle carenze strategiche dell'idea SDI che erano state fermamente espresse da James Schiesinger, Brown e Robert McNamara, cioè da tre ex segretari alla Difesa, dal Generale Brent Scowcroft, incaricato per primo dal Presidente della preparazione di un importante rapporto sulle forze strategiche degli Stati Uniti, da Gerard Smith, da almeno cinque ex dirigenti dell'ufficio direttivo di ricerca e ingegneria militare (i quali avevano tutti fatto l'amara esperienza di quanto sia facile perdere centinaia e migliaia di milioni di dollari nell'inseguimento di una tecnologia errata) e infine da un cospicuo numero di personaggi famosi per aver ricoperto incarichi pubblici nel campo della sicurezza nazionale. Ci sono stati alcuni membri del Congresso che hanno trovato strano che il governo canadese non volesse prendere parte al programma SDI, dato che qualunque ipotetico sistema difensivo spaziale per gli Stati Uniti avrebbe automaticamente fornito uno scudo anche per il territorio canadese. In considerazione dell'insieme di queste riserve, non c'è da meravigliarsi se il Congresso abbia alla fine ridotto il budget del progetto SDI per il prossimo anno fiscale. Di conseguenza ci è stato detto che il programma di R&S per l'sDI si concentrerà nel prossimo anno principalmente su sustemi terrestri. Dall'altra parte, non ci si dovrebbe aspettare che il rallentamento del pro-
gramma metta fine al lavoro fatto a Livermore sulle esplosioni nucleari generate da laser a raggi X o a Los Alamos sui laser alimentati da fasci di elettroni. Come ho detto prima entrambi i laboratori avevano intrapreso i rispettivi progetti molto tempo prima che il Presidente desse l'annuncio dell'SDI nel marzo 1983, e lo fecero senza essere minimamente turbati dal pensiero che il trattato ABM del 1972 aveva sbarrato lo sviluppo dei sistemi di difesa spaziale, né dal timore che ancor prima di rendere operativo ogni altro nuovo sistema, avrebbe certamente costituito una violazione esperta del trattato. Non c'è inoltre ragione per supporre che gli uomini che stanno lavorando su un super computer e sul software per un sistema di difesa dello spazio siano portati a fermare il proprio lavoro solo perché altri autorevoli esperti di computers hanno dichiarato che non sarà mai possibile progettare una rete efficiente capace di trasformare le separate componenti di una BMD con basi spaziali in un sistema perfettamente funzionante. Il tono della sfida presidenziale agli scienziati americani potrebbe anche essere interpretata retrospettivamente come una dichiarazione al mondo che l'attività di ricerca sui fasci di particelle e sui laser ad altissima potenza era già in stato avanzato. Sarebbe ugualmente ragionevole e prudente supporre che la ricerca e il mondo di sviluppo sui laser e sui fasci di particelle che si sta conducendo in Russia, non sia stato rallentato dall'annuncio del programma di SDI.
E STATO VIOLATO IL TRAUATO ABM DEL 1972? Una conseguenza delle critiche mosse al programma SDI è stata la riduzione del suo bilancio. Un'altra conseguenza è che molte delle spiegazioni che sono state date dall'amministrazione per sostenere l'esigenza che il programma continui, differiscono dall'originale punto di vista del Presidente e soprattutto dalla sua opinione secondo la quale la difesa contro i missili balistici costituisce una più alta categoria di moralità che non quella di mantenere la sicurezza attraverso la minaccia di un reciproco annientamento. Una ulteriore giustificazione continua ad essere sentita: che i russi stanno 1avorando su progetti che corrispondono a diversi elementi del programma SDI e che per molti versi sono davanti agli Stati uniti. Ci è anche stato detto che alcune azioni russe avrebbero già infranto i termini del trattato ABM del 1972. Specifiche violazioni sono state descritte in dettagliate pubblicazioni. I russi denunciano a loro volta azioni americane che secondo il loro punto di vista rappresentano violazioni del Trattato. Essi si sono persino offerti di sospendere le ricerche su un progetto tanto discusso, e altamente vulnerabile, un vasto sistema radar di' 'phases-array", che stavano costruendo a Krasnoyarsk, se gli Stati Uniti avessero abbandonato il loro programma di rimodernizzazione dei più complessi sistemi radar, compresa la ricostruzione delle stazioni di Fylingdales nel Regno Unito e di Thule in Groenlandia. I loro portavoce afferma63
no che questi piani di rimodernizzazione, e particolarmente i lavori di Fylingdales, sono molto meno incerti di ciò che la Russia stava facendo a Krasnoyarsk. Un'altra accusa dell'amministrazione è che l'Unione Sovietica, ha fatto "un ben maggiore investimento di impianti spaziali di capitali e di personale" nel campo delle tecnologie BMD rispetto agli Stati Uniti. Questa stravagante affermazione è stata presa da un documento della CIA sugli sforzi sovietici, che fu presentato all'Armed Services Committee del Senato il 26 giugno 1985. In verità, lo stesso documento esprime qualche dubbio circa l'applicabilità di una rete del tipo sistema di Krasnoyarsk, visto questo come la violazione principale del Trattato del 1972, per un ampio dispiegamento di ABM. Garwin in occasione di un'audizione al gruppo di studio congressuale, il 10 ottobre 1985, ha anche sottolineato che la parte più interessante del grande programma sovietico sulla difesa strategica è destinato all'ammodernamento del suo sistema di difesa aereo. Ma qualunque sia la verità circa Krasnoyarsk, esso può difficilmente rappresentare una giustificazione per interpretare deliberatamente il Trattato del 1972 in modo così estensivo da permettere poi ai russi di affermare che gli americani si propongono di contravvenire al Trattato in modo molto più specifico, col fine cioè di conseguire il "vantaggio" di essere in grado di lanciare un primo attacco alla Russia senza 64
timore di una rappresaglia significativa. Fu quindi sventurato che immediatamente prima del summit di Ginevra, Robert McFarlane, allora capo delNational Security Counci/, dichiarasse che nessun aspetto dello sviluppo delle componenti spaziali del piano BMD fosse proibito dal Trattato del 1972. Secondo McFarlane ciò che era stato sperimentato e sviluppato implicava semplicemente un passaggio dalle tecnologie utilizzabili agli inizi degli anni Settanta a quelle che possono essere impiegate oggi. Questa dichiarazione potrebbe essere presa nel senso che riflette il duro fatto che i maggiori interessi costituiti sono ora coinvolti nel programma SDI: non soltanto gli uomini nei laboratori che cominciarono il programma e le autorità del Dipartimento della Difesa che li incoraggiarono, ma anche gli industriali che vedono nell'SDI un filone d'oro che essi non possono ignorare. Sfortunatamente una dichiarazione come quella di McFarlane sta anche a significare una chiara e premeditata violazione del Trattato. Anche se Gerard Smith ha sottolineato che ciò che McFarlane voleva intendere non era una violazione, bensì semplicemente una nuova interpretazione (a new version) del Trattato. Era perciò da aspettarsi. Che la dichiarazione venisse fatta pubblicamente prima che il Presidente incontrasse Gorbaciov.
deterioramento nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica come effetto del piano di SDI non produrrebQuel che rimane assai deplorevole è be una nuova protesta antinucleare o che gli innumerevoli o contrastanti pa- addirittura una protesta antiamericana reri riguardo all'SDI abbiano creato fra in Europa. America e alleati europei uno stato Le preoccupazioni generate dall'invito d'animo che può essere descritto come degli Stati Uniti agli europei ad impeschizofrenico. Tutti riconoscono che la gnarsi nel piano di SDI è già un chiaro coerenza della NATO è un principio di segnale dell'agitazione e della differenvitale importanza tale da rendere ne- za conseguente all'iniziativa del Presicessario per gli Stati Uniti, come chia- dente. Alcuni governi membri della ve di volta dell'alleanza, di sostenerlo NATO si sono rifiutati, perchè non apnell'azione politica fin quando è possi- prezzano l'intero progetto sul piano bile. Ma allo stesso tempo c'è un consi- politico e strategico. Il governo britanderevole scetticismo in Europa circa al- nico ha accettato di partecipare anche cune di queste politiche, e particolar- nella consapevolezza che se avesse rifiumente riguardo alle politiche nucleari tato di fornire un formale aiuto al piadegli USA, compreso il piano di SDI è no di SDI, i talent scouts della difesa già un chiaro segnale dell'agitazione e americana avrebbero attirato gli speciadella differenza conseguente all'inizia- listi europei di migliore capacità per tiva del Presidente. Alcuni governi farli lavorare negli Stati Uniti. C'è però membri della NATO si sono rifiutati, da dire che poiché il Trattato ABM del perché non apprezzano l'intero proget- 1972 vieta agli Stati Uniti di dividere to sul piano politico e strategico. Il go- con altri qualsiasi tecnologia relativa ai verno britannico ha accettato di parte- sistemi di difesa nel campo dei missili cipare anche nella consapevolezza che strategici balistici, la cooperazione aiuse avesse rifiutato di fornire un formale terà assai poco le economie e i sistemi aiuto al piano di SDI che è largamente difensivi dei paesi europei che collaboconsiderato come una minaccia al Trat- rano formalmente alla Ricerca e Sviluptato ABM del 1972 e come uno stimolo po per l'SDI. A parte il fatto che .que.i alla corsa nucleare. Il dibattito sullo contratti di ricerca e sviluppo che posspiegamento di Cruise e di Pershing 11 sono essere acquisiti in una costosa conin territorio europeo suscitò un consi- correnza con le società americane verderevole trauma politico di cui l'eco rebbero a dare impiego a scienziati e non è ancora scomparsa. Sarebbe quin- ingegneri europei in quel che potrebbe di un grande errore di valutazione poli- risultare non più che un esercizio di tica sottovalutare il fatto che gran parte spartizione. degli europei temono ogni passo che Gli europei che si preoccupano di quepossa condurre alla costruzione di altri ste cose stimano che anche se gli arsearmamenti nucleari, o credere che il nali nucleari di entrambe le parti fosseI RAPPORTI SCHIZOFRENICI FRA AMERICA E EUROPA
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ro dimezzati (come è stato appena proposto sia dall'uRSs che dagli USA), rimarrebbe comunque una tale potenza di struttura, quali siano le riduzioni, sufficiente a distruggere non solo l'Europa, ma anche gli USA e la Russia occidentale. Il concetto della superiorità nucleare è diventato senza senso. Esso appartiene, secondo il linguaggio di Lord Carrington, attuale Segretario Generale della NATO, a un mondo irreale di "calcoli nucleari". E gli europei non ritengono che i loro paesi possono essere difesi da un sistema spaziale BMD, più di quanto immaginino che l'uRss rischierebbe mai un primo attacco contro l'Europa e contro gli Stati Uniti. Molti sospettano che il quadro di un diffuso sistema spaziale difensivo sia stato costruito per confondere gli ingenui facendo supporre che un sistema spaziale BMD possa operare in una sequenza che è proporzionalmente misurata ai missili o alle testate nemiche, distruggendole man mano che esse attraversano i vari stadi. Più grande è il numero degli stati difensivi ideati, più missili sono distrutti e quasi tutti, almeno in teoria e sulla carta, sarebbero eliminati. Ma, come già detto, è il primo stadio difensivo che è decisivo e proprio quello viene considerato come impraticabile da scienziati indipendenti. Ci sono anche molti militari europei che, convinti della necessità di una reale sicurezza militare, auspicano che il piano SDI sia realizzato con l'Europa. Essi poi ben sanno che se è ancora appena concepibile che i russi possano un giorno attaccare lungo la cortina di ferro, il loro proposito sarebbe quello di 66
occupare territori, ma non territori radioattivi ormai devastati dalle armi nucleari.
QUALCHE CAMBIAMENTO NELLE GUERRE STELLARI DI REAGAN?
Reagan e Gorbaciov ora sembrano essere fermi sulle loro rispettive posizioni. Più volte i russi hanno dichiarato che se gli Stati Uniti continueranno nella ricerca di un sistema difensivo spaziale, essi darebbero corso ad adeguate contromisure, comprese ulteriori installazioni di basi offensive. Sicuramente tutto ciò non è propaganda. Nella lettera di Weinberger al Presidente di cui trapelarono notizie prima del convegno di Ginevra, il Segretario alla Difesa avvertiva che "anche una probabile difesa territoriale (da parte dei russi) ci imporrebbe di aumentare il numero delle nostre forze offensive, nonché la loro capacità di penetrare nelle difese sovietiche per assicurare che i nostri piani operativi possano essere eseguiti". Questo è esattamente ciò che anche i russi dichiarano di fare se gli Stati Uniti continuano a cercare tramite il piano SDI di sviluppare una "difesa territoriale". E, come Nixon avvertiva in un suo recente articolo su "Foreign Affairs", sarebbe facile per i sovietici triplicare in poco tempo il numero delle testate trasportate da giganteschi 55 18, una semplice moltiplicazione che in teoria potrebbe far crescere la minaccia che i silos missilistici americani, in caso di primo attacco sovietico, vengano colpiti
da 9.000 testate MIRVed anziché 3.000. Richard Nixon e Henry Kissinger hanno dato il loro appoggio al progetto SDI perchè lo considerano un mezzo capace di indurre i russi a ritornare a Ginevra e un elemento di baratto per i negoziati sul controllo delle armi. Una opinione, questa, discutibile sotto diversi punti di vista. Se uno considerasse l'SDI come elemento di baratto dovrebbe anche accettare l'idea che gli Stati Uniti avranno da guadagnare soltanto se lo buttano via. In ogni caso, se il progetto SDI continua, i russi risponderanno. Anche se l'SDI riuscisse a confondere i suoi critici e ad avere successo nel senso che i diversi componenti fossero integrati in modo da costituire un sistema realmente funzionante, gli Stati Uniti e l'Occidente potrebbero ancora perdere, non solo perchè i russi avrebbero preso misure contro le basi spaziali BMD, ma anche perchè esistono altri metodi oltre i missili terrestri intercontinentali, per esempio i missili a lungo raggio che volano a bassa quota, attraverso i quali gli Stati Uniti potrebbero essere minacciati dall'attacco nucleare. Il Presidente Reagan parla ancora come se non fosse cambiato nulla del suo sogno originale, ma qualcosa è cambiato. Egli stesso ha cambiato quando ha dichiarato, dopo il summit di Ginevra, che gli Stati Uniti stanno lavorando su un sistema difensivo spaziale "non nucleare". Questa dichiarazione, se realizzata, sarebbe la fine dei dispositivi nucleari per originare nello spazio i laser a raggi X, cioè di quel che è il nocciolo dello scenario di difesa spaziale descrittogli da Edward Teller.
Paul Robinson, il principale associate dire ctor dei programmi di sicurezza nazionale a los Alamos, ha recentemente detto che i laser a raggi X potrebbero avere un funzionamento imprevedibile e coinvolgere inavvertitamente in una esplosione gli altri componenti spaziali dell'SDI, mentre un collega, Steven Rockwood, direttore del Centro ricerche sull'SDi di Los Alamos, si chiede se un dispositivo del genere in orbita, contenente una bomba nucleare così potente, possa considerarsi politicamente accettabile. Ma sarebbe il caso di chiedersi: un efficace laser a raggi X è mai esistito o potrebbe comunque essere realizzato? Quali che siano i motivi che hanno indotto il Presidente ad insistere nelle scorse settimane sul fatto che la sua proposta di SDI si limita all'uso di un BMD non nucleare, sta di fatto che queste sue dichiarazioni hanno coinciso con un crescente volume di commenti informati, senza dubbio casualmente, basati su recenti pubblicazioni diffuse da Livermore, sul fatto che il clamore intorno al laser a raggi X di tipo nucleare è non solo prematuro, ma fondato anche su una lettura inattendibile di dati scaturiti dai tests poco indicativi. In aggiunta a ciò, alcuni direttori delle ricerche sul progetto SDI a Livermore hanno pubblicamente espresso forti timori per il modo in cui i parziali successi del loro lavoro sono stati deliberatamente esagerati dai vertici del Pentagono. George Miller, capo dei programmi di difesa presso il laboratorio di Livermore, ha detto che l'opinione pubblica "... mostra di sottovalutare 67
quanto sia difficile questo lavoro", mentre un suo collega, Cornelius F. Coll. III; direttore dello studio sui sistemi di "guerre stellari" a Livermore, ha dichiarato che "... le dichiarazioni azzardate degli ufficiali del Pentagono hanno messo in pericolo il programma... questo lavoro è già sufficientemente difficile, senza doversi difendere dalle esagerazioni". È stato anche riportato che una recente iniziativa mirata ad impressionare un gruppo scelto di leaders d'opinione circa l'efficacia del canone a guida elettromagnetica, si sia risolta in un bidone o in un gioco. La dimostrazione pretendeva di far vedere come un modellino di missile sovietico SS 18 potesse essere distrutto dal cannone. Di fatto, il Generale Abrahamson, come ha riportato il "New York T[imes", ha poi rivelato che il bersaglio non era stato raggiunto da un qualche cannone elettromagnetico, ma da un proiettile a grande velocità sparato da una pistola ad aria compressa (come dire che la dimostrazione si servì di un'arma la cui data di nascita risale ai primi dell' Ottocento). Sicuramente il Presidente deve ora valutare, probabilmente anche con l'aiuto di ciò che gli ha detto Gorbaciov, gli argomenti contro il progetto SDI. Sicuramente egli si rende conto come la corsa agli armamenti nucleari sia differente radicalmente da quella limitata alle armi convenzionali, come uno scenario in cui Stati Uniti, Unione Sovietica ed Europa siano esposti ad un conflitto nucleare è totale follia, ed infine consapevole che un conflitto del genere non risolverebbe nulla. In quarant'an68
ni dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, il crescente numero di testate nucleari e di sistemi di lancio, per non parlare di tutte le presunte misure difensive, non hanno fornito alle parti in campo alcuna sicurezza: né agli Stati Uniti, né alla Russia, né all'Europa. L'effetto concreto è stato anzi quello di ridurre la sicurezza per tutti. Spesso, nel corso del dibattito sull'SDI si sente pronunciare la familiare parola leaky ("chi perde"). Ora, se una difesa perfetta contro i missili balistici risultasse impossibile, varrebbe ancora la pena riconoscersi "perdenti". Questa è una di quelle parole usate per illanguidire i sensi al punto che non ci rendiamo conto di una terribile realtà: che una frazione di testate potrebbe essere sufficiente a causare quelli che una volta venivano eufemisticamente chiamati ''inaccettabili danni". Continuiamo a parlare di numeri di testate e megatoni come se fossero carri armati o aerei da bombardamento. Il fatto assurdo, spesso siamo incapaci di capire, è che se avvenisse un'esplosione su New York o su Washington, Londra o Mosca, un megatone equivarrebbe istantaneamente a un milione di morti (che importa se la cifra esatta sarebbe 100.000 o 200.000 di più o dimeno?). Il Presidente può dichiarare che il suo sogno di SDI significa una maggior pròtezione della gente e non dei silos contenenti missili e testate di risposta. Ma, nonostante lo ripeta molte volte, il fatto è che ove mai accadesse 1' "impensabile", un futuro Presidente americano mai probabilmente saprebbe come il suo nemico si è comportato. Egli po-
trebbe ben essere scomparso nell'Armageddon nucleare. Se il programma di SDI si esaurisse nel proteggere le basi missilistiche degli Stati Uniti, nessun presidente potrebbe essere sicuro che, in caso di esplosione nucleare, i russi necessariamente concentrino i propri colpi solo sui campi missilistici americani e non anche sui centri abitati, tanto più che i russi potrebbero sperare che gli Stati Uniti siano costretti a risparmiare le loro città. Pensare ad un "punto di difesa", o SDI-Il, come qualcuno ora lo chiama, ci riporterebbe indietro al punto di partenza, cioè allo stesso dibattito che rivelò la futilità delle difese missilistiche e che terminò con il Trattato ABM del 1972.
STARE AI TRATFATI
Aderire alla più stretta interpretazione di quel Trattato è divenuto per noi tutti di vitale interesse, e non all'interpretazione cosiddetta liberale del modo in cui i suoi termini furono redatti, per quanto essa sia argomentata in punto di diritto, né ad alcuna "nuova versione" come ha affermato Gerard Smith, ma al Trattato nel significato con cui fu negoziato dalle due parti. Se ulteriori test dimostrativi di nuove componenti BMD d'ambo le parti creassero una rottura unilaterale, l'effetto sarebbe un passo, e neppure piccolo, verso la revoca dei pochi altri trattati che sono stati faticosamente negoziati per cercare di bloccare l'espansione delle armi nucleari. Un conflitto in cui fossero usate le armi
nucleari non aiuterebbe a risolvere alcune delle dispute politiche che oggi dividono le due superpotenze. Certamente renderebbe impossibile per entrambe le parti contribuire a risolvere le numerose controversie territoriali e razziali, nonché i problemi di sviluppo sociale ed economico che oggi tormentano le nazioni del mondo e alla cui soluzione entrambi hanno un interesse comune. I leaders dei due paesi dovrebbero ricordare a se stessi le differenze strutturali e cruciali tra il BMD degli anni Sessanta e ciò che si sta discutendo ora. Vent'anni fa, efficaci difese contro gli attacchi missilistici sono state impiantate da entrambe le parti in base a esigenze operative compiutamente formulate che si pensò, erroneamente, potessero poi essere tecnicamente soddisfatte. Oggi il progetto SDI si ispira a un'altra filosofia: quella che privilegia l'aspetto tecnologico a discapito di ogni altro, un programma quindi a "guida tecnologica", fondato sulla convinzione che molte delle meraviglie offerte dalla tecnologia possono essere coordinate per creare un efficace sistema di difesa. Nessuno, neanche il Presidente, pensa che queste meraviglie possano accadere prima della fine del secolo, ammesso che ciò si dimostri mai possibile. Ma il Presidente è anche consapevole che nel frattempo potrebbe esserci un conflitto militare. I due leaders quindi continueranno forse a ricordarsi a vicenda che se si inceppasse il meccanismo del deterrente nucleare, la conseguenza potrebbe essere una catastrofe senza precedenti nella storia della guerra, una catastrofe 69
nei cui confronti il peggior disastro naturale che la storia abbia mai raccontato apparirebbe una semplice raffica di vento. Consentiamoci quindi di sperare che, quando Reagan e Gorbaciov si
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incontreranno, anche se non entreranno nel merito degli aspetti tecnici, le loro visioni del pericolo a cui essi devono far fronte li scuota pi첫 di quanto sia accaduto a Ginevra.
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primavera 1986
Territorio abusato e poteri sfuggenii
Ripensare l'urbanistica. così intitolavamo nel 1982 (20 semestre) un fascicolo della rivista, il n. 53. Riprendiamo ora il discorso. I ripensamenti da allora ci sono stati, almeno nella cerchia degli addetti ai lavori e bisognerd farne adeguata rassegna. Ma non sembra tuttavia che la cultura urbanistica abbia rij,reso un profilo più alto. Del resto è difficile immaginare un contesto più sconsolante. La vicenda del condono ediizio, cominciata quattro anni fa e ancora lontana dall'essere conclusa, è stata la più severa e impietosa cartina di tornasole per verificare lo stato della politica del territorio nel nostro paese. Un territorio fra ipiù abusati con cui ipoteri di governo ai vari livelli non sembrano quasipiù confrontarsi, a parte poche e meritorie eccezioni. Dall'esperienza di altri paesi viene intanto segnalato il nodo intricato delle relazioni fra politiche del temtorio e delle infrastrutture e sistemi istituzionali di governo (l'ampiezza delle loro competenze, il tipo di organizzazione e gestione, ecc.). L'articolo di Ken Young illustra in qual modo si sia concluso il cosiddetto governo delle aree metropolitane nel Regno Unito che per qualche tempo era apparso come una soluzione istituzionale esemplare. Aiprofili istituzionali del giusto livello di governo del territorio sono dedicati con prospettive diverse e con orientamenti diversi i contributi diAlberto Lacava e Andrea Piraino. Ma il discorso dovrd continuare. Le politiche del territorio saranno dunque un tema ricorrente della rivista. Esse costituiscono un complesso di problemi intorno al quale le indicazioni metodologiche che sono state suggerite nell'editoriale devono essere applicate e verificate.
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Pianificazione territoriale e autonomie locali dopo, la legge Galasso di Alberto Lacava
La legge 8 agosto 1985, n. 431, più comunemente nota come legge Galasso, rendendo obbligatoria la pianificazione territoriale e/o paesistica a un livello territoriale intermedio tra il comune e la regione ripropone, ma in termini imprevisti, il tema dell'ente intermedio in materia di pianificazione urbanistica. In termini imprevisti, in quanto la legge rilancia la pianificazione a livello intermedio, ma senza porsi il problema di un'istituzione operante a tale livello affida ogni competenza in merito alla regione e allo Stato. Con la legge Galasso, quindi, lo Stato rientra nella pianificazione del territorio dalla finestra, cioè attraverso lo strumento della pianificazione paesistica, che in base al DPR 616 del 1977 costituiva materia ritenuta di competenza dello Stato e come tale non trasferita, ma solo delegata alle regioni' forse anche nella presunzione, basata sull'esperienza 2 , che i piani paesistici fossero uno strumento destinato a scomparire per effetto di una organica pianificazione territoriale ad opera delle regioni. PAESAGGIO E TERRITORIO: DOV'È LA DIFFERENZA?
Cosa sia il piano paesistico nella mente 72
del legislatore che ha elaborato la 431 non è ancora chiaro. Negli ultimi decenni la definizione di paesaggio e di piano paesistico, anche se nel nostro paese non è stata oggetto di una elaborazione culturale particolarmente vivace, si è comunque orientata, sulla base anche della letteratura e dell'esperienza internazionale, verso un'interpretazione nella quale la pianificazione del paesaggio non si distingue sostanzialmente della pianificazione del territorio3 . Questa interpretazione sembra confermata anche dalla circolare 31 agosto 1985 emanata dal Ministero dei beni ambientali e culturali in applicazione della legge n. 431, circolare nella quale si afferma che il contenuto dei piani paesistici è quello previsto dalla legge del 1939 e successivo regolamento di attuazione 4 ; tale contenuto ha il tipico carattere di uno zoning con specificazioni che lo renderebbero addirittura più simile ad un piano particolareggiato, o meglio ad un piano di recupero, che a un piano regolatore generale5 . Cosa che non porrebbe problemi se si trattasse di applicare lo strumento del piano paesistico a piccole porzioni di territorio, ma che richiede un rilevante sforzo di interpretazione nel momento in cui, data l'estensione dei vincoli ap-
plicati ai sensi della 431, i piani paesistici interesseranno in ciascuna regione almeno un terzo dell'intero territorio regionale. La sostanziale corrispondenza tra pianificazione paesistica e pianificazione territoriale è d'altra parte, non a caso, confermata dal fatto che la 431 consente alle regioni di scegliere tra la redazione di piani paesistici e quella di "piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali". Se una regione non provvede ad approvare entro il 31 dicembre 1986 i piani paesistici o urbanistico- territoriali delle diverse zone vincolate, lo Stato si può sostituire alla regione. Dice infatti sempre la 431, che in questi casi il "Ministro dei beni culturali e ambientali esercita i poteri di cui agli articoli 4 e 82 del DPR 24luglio1977 n. 616". Non vi è dubbio, quindi, che con la legge 431 il tema dell'urbanistica di livello intermedio ritorna di attualità ed in modo certamente imprevisto fino a pochi mesi or sono. Nessun ente subregionale è chiamato a fare piani intermedi tra la regione e il Comune, ma sono la regione e lo Stato a farsene carico. Come si colloca questa scelta rispetto alle linee di evoluzione finora perseguite dalle regioni per la pianificazione territoriale a livello intermedio?
REGIONI E PIANIIICAZIONE
In materia di pianificazione territoriale a livello intermedio le regioni si sono mosse in maniera molto differenziata. Alcune, come il Friuli-Venezia Giulia,
la Lombardia, l'Umbria, il Piemonte, l'Emilia Romagna, hanno approvato leggi organiche sulla materia già da oltre 10 anni6 . Altre Regioni (ad es. Lazio, Sardegna, Molise) non hanno ancora emanato alcun provvedimento di legge. Altre regioni, infine, hanno emanato o proposto molto recentemente leggi sulla materia. Tra queste la Liguria, il Veneto, la Basilicata e l'Abruzzo. Queste ultime quattro regioni hanno fornito quattro risposte diverse al problema dell'ente intermedio: - la Liguria non riconosce nessun compito quindi nessun soggetto urbanistico a livello intermedio; - il Veneto8 considera il livello intermedio come una specificazione e integrazione del livello regionale e quindi compito del soggetto Regione; - la Basilicata9 assume come ente intermedio la comunità montana e il consorzio di Comuni non montani e prevede per tale livello uno strumento urbanistico con caratteristiche analoghe a quelle dell'attuale PRG di livello comunale, lasciando al livello comunale competenze di tipo attuativo; - l'Abruzzo'° assume come ente intermedio la provincia, cui attribuisce competenze in materia urbanistica certamente più incisive di quelle tradizionali dei piani territoriali di coordinamento, così come concepiti dalla legge urbanistica del 1942. È necessario comunque ricordare che nessuna regione, (ad eccezione della Lombardia, del Friuli-Venezia Giulia e dell'Umbria) ha un piano territoriale e/o urbanistico regionale approvato e 73
che i piani territoriali di livello intermedio approvati in tutta Italia superano di poco la decina. E in questa situazione di fatto che la legge Galasso chiede alle regioni di elaborare e approvare entro il 1986 alcune centinaia di piani". Le diverse risposte delle regioni al tema dell'ente intermedio per la pianificazione urbanistica hanno le loro origini nelle grandi differenziazioni che esistono nel territorio nazionale per quanto riguarda il livello dello sviluppo economico, la concentrazione degli insediamenti urbani e produttivi e la densità territoriale delle istituzioni competenti per la gestione del territorio. Queste differenziazioni esistono non soltanto tra le cosiddette aree metropolitane e il restante territorio nazionale, ma anche tra le diverse aree metropolitane, perché l'esigenza di un governo coordinato del territorio è più viva non solo dove gli insediamenti sono più fitti e quindi il numero dei comuni più elevato, ma anche laddove i bisogni sociali di base sono già soddisfatti.
UN ENTE INTERMEDIO "UGUALE PER TUÌTI"?
Per quanto riguarda le differenziazioni su grande scala, vale la pena ricordare, a titolo di esempio, come le interc iegioni dell'Umbria, Molise, Abruzzo e Basilicata messe insieme, con un territorio di oltre 33.600 Kmq che si sviluppa da nord-ovest a sud-est per una lunghezza di 600 Km, pari alla metà dell'intero territorio nazionale, hanno 74
una popolazione analoga a quella del solo Comune di Roma. È chiaro quindi che il problema dell'ente intermedio non può essere affrontato in modo analogo a Roma e nelle regioni sopra indicate. Altrettante differenze riguardano le grandi aree metropolitane tra loro, ad esempio Roma, Milano e Napoli. Se ci si riferisce al nucleo centrale, cioè alla città capoluogo, Roma presenta 2.840.000 abitanti, Milano 1.605.000 e Napoli 1.212.000, masu un territorio che a Milano è il 12% e a Napoli l'8% di quello di Roma. Se si confrontano le tre province, fatta Roma pari a 100 come popolazione e superficie, Milano presenta valori pari a 109 per la popolazione ma solo a 51 per la superficie, e Napoli 80 per la popolazione e 22 per la superficie. Anche se togliamo dalla provincia di Roma la parte che si estende nelle aree interne del Lazio fino ai confini dell'Abruzzo e assumiamo quindi come delimitazione la vera e propria area metropolitana romana' 2 , i dati cambiano poco; rispetto a questa area, infatti, la provincia di Milano presenta valori pari a 120 per la popolazione e 60 per la superficie, la provincia di Napoli 89 per la popolazione e 25 per la superficie. Le tre province, inoltre, differiscono tra loro in misura sostanziale anche per quanto riguarda il modo di affrontare i problemi della pianificazione territoriale. L'area di Roma si caratterizza per il fatto che soltanto ora l'area metropolitana incomincia a presentarsi come'un territorio nel quale le differenziazioni nei processi di trasformazione territoriale non sono più tanto tra il Comune
di Roma nel suo insieme e i Comuni limitrofi, ma tra singole parti del Comune di Roma insieme a singoli Comuni limitrofi e altre parti del Comune di Roma insieme ad altri Comuni limitrofi. Solo ora comincia a porsi con evidenza l'esigenza di una gestione territoriale coordinata dell'area metropolitana. Il caso di Napoli ha altre peculiarità. La provincia di Napoli non solo comprende una popolazione pari a circa 1/5 dell'intera popolazione del Mezzogiorno con una densità insediativa media di oltre 2.500 ab/Kmq che non ha riscontri in Italia, e presenta un indice di affollamento (in termini di abitanti per stanze) superiore del 2 5 % a quello medio nazionale, ma ha un tasso di crescita demografica di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra provincia o regione italiana. Per effetto di questo tasso si può prevedere tra il 1981 e il 2001 un incremento di popolazione dell'ordine di 270.000 abitanti, incremento che determinerà, insieme all'incremento del numero delle famiglie e al fabbisogno arretrato, una domanda di nuove stanze dell'ordine di grandezza di 600/800.000 fino al 2001. Questo drammatico bisogno di case e di servizi elementari connessi ha affossato, anziché sollecitare, qualsiasi concreta iniziativa per un governo coordinato del territorio della provincia-area metropolitana. L'area metropolitana di Milano è l'unica ad essersi posta in un ottica di pianificazione territoriale prima attraverso uno specifico progetto ("il passante ferroviario") e poi attraverso il piano territoriale regionale. L'esperienza di
Milano insegna che, prima di fare un piano, è necessario definire delle opzioni di sviluppo. Il piano territoriale regionale, infatti, ha dei contenuti di pianificazione in quanto nasce sulla base di una idea guida fondamentale, quella del passante ferroviario, che tende ad aprire l'area metropolitana nel contesto regionale. Il problema della gestione urbanistica dell'area milanese, dopo la lunga alterna vicenda del PIM (Piano intercomuna/e milanese), viene inoltre collocato all'interno di una ipotesi complessiva di rinnovamento della strumentazione operativa della regione, basata su nuovi strumenti, ma per ora non su nuove istituzioni, bensì su aggregazioni di istituzioni esistenti. Per quanto riguarda gli strumenti, infatti, si definiscono i progetti d'area e i piani territoriali d'area la cui attuazione viene demandata alla strumentazione vigente, ma la cui elaborazione dovrà vedere coinvolti i comuni e le associazioni di comuni, province, comunità montane, società concessionarie di opere eprivati, per quanto riguarda le istituzioni, si afferma che in futuro "il problema potrà essere risolto soltanto attraverso l'individuazione di un soggetto sovraordinato rispetto ai Comuni e dotato di sufficiente autorevolezza politica''. In altri termini il problema viene per ora rimosso e la sua soluzione rinviata a tempo indeterminato.
A CIASCUNO IL SUO PIANO?
In questo contesto, di nuovi strumenti di pianificazione territoriale a livello 75
intermedio richiesti dalla legge Galasso, di scelte già operate da alcune regioni sulla materia, e di un insediamento umano e di una gestione urbanistica fortemente differenziati tra le regioni e all'interno di ciascuna Regione, va riesaminato il problema dell'ente intermedio e della pianificazione urbanistica ordinaria a questo livello. Va subito detto in proposito che la nuova provincia, così come viene definita nelle ultime proposte di riforma delle autonomie locali, per molte regioni centro-meridionali risulta del tutto inutile per quanto riguarda la'pianificazione urbanistica. Infatti è evidente che nel caso di province che interessano territori enormi a bassa densità insediativa come le Province di L'Aquila, Campobasso, Potenza (quella di L'Aquila ha oltre 500.000 di superficie con una popolazione di 290.000 abitanti) fare riferimento ad uno strumento urbanistico che interessa enormi ambiti territoriali con problematiche tra loro notevolmente diverse e senza sostanziali interdipendenze, non significa fornire un elemento utile alla pianificazione urbanistica comunale. Nel caso di regioni poi aventi solo due province (Umbria, Mouse, Basilicata) non si capisce quale differenza di contenuti possa esserci tra il piano provinciale e il piano regionale. È per questo che si è andata gradualmente facendo strada l'ipotesi di una distinzione tra livello di competenza e livello di piano; non più quindi "una istituzione, un piano", ma una istituzione che gestisce una pluralità di piani nel proprio territorio, ad esempio, una 76
provincia che non definisce un piano urbanistico provinciale, ma più piani urbanistici sub-provinciali. Questa recente linea di tendenza interrompe una tradizione per la quale sembrava assodato il criterio che ad ogni ambito territoriale fosse associato un piano e un soggetto istituzionale specificatamente competente. Al dibattito sull'ente intermedio e la politica urbanistica, vi è stata nei tempi recenti scarsa partecipazione da parte degli urbanisti, motivata dalla consapevolezza che il problema di uno strumento urbanistico intermedio è strettamente legato alle scelte in materia di strumento urbanistico comunale e quindi alla necessità di affrontare tutto insieme il problema della strumentazione urbanistica, rimettendo in discussione l'intera legge del 1942. Cosa che molti ritengono per ora immatura.
TEMPI DI LEGGE E TEMPI DI RIFLESSIONE
La nuova legge Galasso, che introduce la pianificazione intermedia attribuendola a soggetti di livello istituzionale sovraordinato, cade come un sasso nello stagno nella situazione di letargo della cultura urbanistica, che non è stata in grado di formulare una'risposta complessiva di gestione del territorio ai vari livelli, una risposta tale da modificare sostanzialmente il significato e le funzioni degli strumenti urbanistici per adeguarli ad una realtà che oggi assomiglia molto poco a quella del 1942. Negli ultimi tempi, in attesa di risol-
vere complessivamente il problema dell'ente intermedio e della sua funzione urbanistica, tenuto conto delle diverse caratteristiche del territorio italiano, era emersa l'ipotesi di una soluzione differenziata dal punto di vista delle priorità. Mentre, infatti, si riteneva che la maggior parte del territorio nazionale potesse ancora aspettare per una definizione di un ente intermedio competente in materia urbanistica senza peraltro escludere che ulteriori riflessioni potessero riportare nel gioco il tema "comprensorio" quale espressione degli enti locali - sembrava urgente attivare soggetti e strumenti della pianificazione territoriale a livello intermedio soltanto per le grandi aree metropolitane, dove i problemi da risolvere interessano direttamente non solo il grande comune centrale, ma anche la sua area principale di gravitazione. Dopo la legge Galasso il discorso della priorità per le aree metropolitane non ha più ragione di essere, perché il problema dell'ente intermedio diventa di attualità per la maggior parte dei territori regionali. In attesa di una legge nazionale per la riforma degli enti locali, si presenta infatti alle regioni il compito di individuare subito dei soggetti in grado di contribuire attivamente alla formazione dei piani paesistici, e in una logica coerente con la strumentazione urbanistica attuale. Non è pensabile, infatti, che la regione (e ancora meno lo Stato), nella elaborazione di piani riguardanti ciasuno un
certo numero di comuni, abbiano a che fare direttamente con i singoli comuni e che, quindi, ogni regione apra un dibattito contemporaneo con centinaia di interlocutori locali (i comuni). Laddove già esistono istituzioni di livello territoriale intermedio aventi competenza in materia urbanistica (province delegate alla gestione urbanistica, comunità montane, vecchi comprensori sopravvissuti) è alle delimitazioni spaziali di tali istituzioni che dovrebbero il più possibile fare riferimento i piani paesistici, in modo che le istituzioni stesse. possano costituire la controparte della regione o dello Stato. Laddove, invece, questo non è possibile, i soggetti locali per la pianificazione paesistica, allo stato attuale, non possono che essere creati attraverso soluzioni consortili tra le istituzioni interessate al piano paesistico, con competenze delimitate nei riguardi dei piani stessi, lasciando alle istituzioni attualmente competenti in materia la gestione ordinaria del territorio. E evidente che questa ipotesi non consente il rispetto dei tempi previsti dalla 431 (piani paesistici approvati dalle regioni entro il 31 dicembre 1986 e quindi, tenuto conto dell'iter di approvazione, piani paesistici elaborati entro il giugno-luglio 1986); ma è evidente che qualunque ragionevole ritardo, se determinato dalla esigenza di creare strutture in grado di contribuire alla (e soprattutto di gestire la) tutela del paesaggio, risulterà alla lunga più vantaggioso di una pedissequa applicazione dei tempi previsti dalla legge.
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• L'articolo 82 del DPR n. 616 del 24-7-1977 indica in generale che sono delegate alle Regioni le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Sta. to per la protezione delle bellezze naturali per quanto attiene alla loro individuazione, alla loro tutela e alle relative sanzioni''. Recentemente sono però emersi dubbi anche sul fatto che la materia dei piani paesistici sia stata delegata e non trasferita. Si osserva in merito che il DPR n. 8 del 151-1972 all'ultimo comma dell'art. I dice esplicitamente: 'Il trasferimento predetto riguarda altresì la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistci di cui all'art. 5 della legge 29-6-1939 n. 149". Il fatto che la legge Galasso assuma implicitamente come delegata una competenza considerata trasferita nel DPR del '72 e non precisata nel DPR 616 non sembra sufficiente ad avvalorare la tesi del
al pubblico, dai quali si gode lo spettacolo di quelle bellezze. Le incertezze in merito al contenuto dei piani paesistici sono peraltro espresse esplicitamente nella circolare 31 agosto 1985 n. 8 "Applicazione della legge 8 agosto 1985 n. 431 (Tutela de//e zone di particolare interesse ambientale)''. La circolare infatti si chiude dicendo ''Le
istruzioni che precedono vogliono rispondere solo ad una prima istanza di chiarificazione per la sollecita applicazione delle norme nella suddetta legge contenute. Resta inteso che solo l'esperienza, che verrà acquisita proprio in sede di prima applicazione, unita alla riflessione che questo Ministero auspica, sia in sede locale, sia in sede nazionale, potrà consentire di disporre, nel prossimo futuro, di più utili elementi di interpretazione e di indirizzo'',
trasferimento e quindi i poteri sostitutivi dello Stato. 2 Come è noto, fino ad ora i piani paesistici approvati in attuazione della legge 29-6-1939 n. 1437 sono dell'ordine di grandezza di una decina. È bene ricordare in proposito il ritardo che ancora esisteva nel 1972, quando la Corte costituzionale (con la sentenza 141 del 24 luglio) riteneva che: ''l'urbanistica come materia è una attività che riguarda la regolamentazione e lo sviluppo delle costruzioni nei centri abitati.., perciò... si può considerare autorizzata la separazione dell'urbanistica in senso proprio.., dai problemi che si riferiscono alla conservazione ed alla valonzzazione delle bellezze naturali d'insieme.., le bellezze naturali e ambientali, benché a rigore facciano parte della categoria dei beni culturali sul piano della protezione, devono considerarsi separate dai beni protetti dalla disciplina dell'urbanistica''.
La legge 29-6-1939 n. 1497 introduce all'art. 5 il piano territoriale paesistico, ma rinvia per i suoi contenuti ad un successivo regolamento; tale regolamento è stato adottato con RD 3-6-1940 n. 1357 dove all'art, 23 si specifica che i piani territoriali paesistici hanno il fine di stabilire: le zone di rispetto; il rapporto tra aree libere e aree fabbricabili in ciascuna
6 Friuli-Venezia Giulia, legge n, 23 del 1968; Lombardia, legge n. 51 del 1975; Umbria, legge n. 40 del 1975; Piemonte, legge n. 56 del 1979; Emilia Romagna, legge n. 47 del 1978. Regione Ligunia, legge n. 39 del 22-8-1984 (''Disciplina dei piani territoriali di coordinamento''). La Regione Liguria si attribuisce genericamente la competenza per la formazione di piani territoriali di coordinamento estesi all'intero territorio regionale o a determinate parti di esso organicamente definite. 8 Regione Veneto, legge 27-6-1985 n. 61 (''Norme per l'assetto del territorio"). La Regione Veneto riconosce due livelli di pianificazione urbanistica. Il primo livello, regionale, comprende: - il piano territoriale regionale di coordinamento, i progetti di settore e i piani di area di livello regionale, estesi anche solo a parte del territorio della Regione; - il piano territoriale provinciale, relativo al territorio di ogni provincia o a parte di esso e i progetti di settore di livello provinciale relativi a materie di competenza della provincia. Il secondo livello, comunale o intercomunale, comprende: - il piano regolatore generale del Comune o del consor-
delle diverse zone delle località; le norme per i diversi tipi di costruzione;
zio dei comuni; - i piani urbanistici delle ''entità territoriali interme-
la distribuzione e il vario allineamento di fabbricati; le istruzioni per la scelta e la varia distribuzione della flora. Per quanto riguarda l'oggetto della tutela, valgono le indicazioni contenute nell'ari. I della legge 29-6-1939 n. 1497 che considera di notevole interesse pubblico: - le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellez-
die"; - a livello comunale, i piani attuativi comunali.
za naturale odi singolarità geologica;
munità montane, i comuni e i loro consorzi. Gli strumenti della pianificazione del territorio sono: - a livello regionale, il piano territoriale regionale; - a livello comprensoriale, i piani urbanistici delle ''enti-
- le ville, i giardini e i parchi che non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose di interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza; - i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; - le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista odi belvedere, accessibili
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' Regione Basilicata, proposta di legge regionale del gennaio 1984, su uso e tutela del suolo. La proposta di legge della Regione Basilicata individua come soggetti di pianificazione del territorio la regione, le co-
tà territoriali intermedie''. - a livello comunale, i piani attuativi comunali. Quali entità territoriali intermedie sono riconosciute le comunità montane, nelle aree delimitate come montane, e
nel restante territorio i consorzi dei comuni non moniani. Il piano urbanistico delle entittĂ territoriali intermedie, denominato 'piano urbanistico comprensoriale'', ha un contenuto sostanzialmente non diverso da quello attuale dei piani regolatori generali, salvo per la durata, quinquennale, delle destinazioni di uso zonali. Il piano urbanistico comprensoriale si attua attraverso i piani particolareggiati di iniziativa comprensoriale, i piani di inquadramento attuativo comunale, i piani particolareggiati di cui alla legge del 1942, i piani per l'edilizia economica popolare, i piani di recupero, le lottizzazioni convenzionate di iniziativa privata e i piani degli insediamenti produttivi.
lo Regione Abruzzo, legge 12-4-1983 n. 18 ("Norme per la conservazione, tutela e trasformazione del territorio della Regione Abruzzo"). Tale legge prevede: - a livello regionale un quadro di riferimento regionale, inteso come la proiezione territoriale del programma di sviluppo regionale e con il compito di individuare gli ambiti anche sub-provinciali in riferimento ai quali devono essere redatti i piani territoriali; - i piani territoriali a livello di ciascuna provincia o degli eventuali ambiti sub-provinciali;
- i piani regolatori generali a livello di singolo comune. La Regione Abruzzo, quindi, individua due livelli di pianificazione territoriale: il piano territoriale, riguardante ciascuna provincia o parte della stessa, che viene predisposto dal consiglio provinciale ed approvato dal consiglio regionale e i piani regolatori generali dei comuni che vengono approvati dai consigli provinciali.
11 Il numero dei piani paesistici o territoriali da elaborare dipenderĂ sia dalla dimensione del territorio nazionale interessato (ancora non nota) sia dai criteri che le varie Regioni adotteranno per la delimitazione dei piani. Valutando che la metĂ del territorio nazionale debba essere oggetto dei piani e che, in media, saranno delimitati 3-4 piani per provincia, il numero dei piani da approvare sarĂ dell'ordine di 250-300.
12 Si fa riferimento in particolare alla delimitazione definita nello studio di fattibilitĂ del Sistema Direzionale Orientale, che comprende 42 comuni, una popolazione di 3.351.000 abitanti e una superficie di 4.610 Kmq.
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Ascesa, declino e scomparsa del Greater London Council di Ken Young del Po/icy Studies Institute
1131 marzo 1986, con l'abolizione del GLC (Greater London Council - lette-
ralmente: Consiglio della Londra più grande, Ndt) e dei sei analoghi consigli di contea (MCC: Metropolitan County Councils) è terminato uno storico esperimento nel governo della città. Da quella data la responsabilità del governo di Londra, esempio quasi unico tra le capitali del mondo, non spetta più a un singolo organismo amministrativo, ma è divisa tra 33 autorità locali. Per giustificare questo smembramento, che è stato quasi unanimemente condannato, sono stati addotti molti motivi. I critici dell'abolizione sottolineano il recente passato del GLC e dei MCC come organizzatori dell'opposizione al Governo della signora Thatcher, opposizione combinata con la sperimentazione, su larga scala, di programmi socialisti radical e di partecipazione. Il governo, da parte sua, rileva gli scarsi risultati del governo cittadino e sostiene che le istituzioni molto estese territorialmente, in precario equilibrio tra autorità locali e governo nazionale, si sono dimostrate ingombranti, inutili e costose. Questo articolo esamina innanzitutto come ha avuto origine questo esperimento metropolitano e perché è stato interrotto così bruscamente. 80
E prosegue per argomentare che, in Gran Bretagna, il governo metropolitano è stato concepito con troppa poca considerazione delle realtà politiche e pratiche e così ha mancato di realizzare le condizioni necessarie per la sua sopravvivenza.
L'ESPERIMENTO METROPOLITANO IN GRAN BRETAGNA
Il Greater London Council, prototipo britannico dell'autorità metropolitana, entrò in vigore con la legge sul governo di Londra del 1963, che eliminò circa 100 autorità locali nell'area edificata della "Grande" Londra, comprendente quasi Otto milioni dipersone. Furono sostituite da 32 nuovi consigli di circoscrizione (Borough Councils) con poteri locali, ciascuno con una popolazione tra i 170.000 e i 300.000 abitanti. L'antica City di Londra continuò a governare sull'area, un miglio quadrato (pari a Km 2,5885, Ndt), del quartiere centrale degli affari. Al di sopra di questi 33 organismi locali un tipo completamente nuovo di autorità locale, il Greater London Council. Con un bilancio superiore a quello di molti piccoli stati, il GLC doveva assu-
mersi la responsabilità della pianifica- tane, annullando l'operato di due prezione territoriale, delle grandi arterie cedenti governi conservatori. stradali e dell'eliminazione dei rifiuti, Perché l'esperimento metropolitano gestire i servizi antincendio (e, inizial- britannico ha avuto vita così breve? mente, quelli di pronto soccorso) ed esercitare alcuni limitati poteri nel settore delle abitazioni. Inoltre, tramite CENT'ANNI DI PREPARAZIONE una speciale autorità preposta all'istruzione nell'area centrale della città Per rispondere a questa domanda è necessario risalire alle esperienze che han(ILEA: InnerLondon Education Authorl'ty) doveva provvedere alla pubblica no preceduto l'istituzione del Greater istruzione in quest'area, che corrispon- London Council, esaminando la storia de approssimativamente a quella svi- del dibattito sul governo metropolitaluppatasi alla fine del secolo scorso, no nei circa cento anni di gestazione. comprendente circa tre milioni di per- Intorno alla metà del Diciannovesimo secolo, Londra era molto meno estesa sone. Il nuovo sistema amministrativo esiste- di oggi e tuttavia era abitata da cinque va soltanto da pochi anni quando la milioni di persone, con un'alta densità Royal Commission on Local Gover - abitativa e condizioni di affollamento ment in England, prendendo in consi- spesso antigieniche. Il governo locale derazione molto superficialmente il era nelle mani di più di 300 organismi, suo funzionamento, raccomandò basati sulle vecchie parrocchie (the vel'estensione del modello del GLC ad al- stries), con una pletora di commissioni cune altre vaste aree metropolitane: le speciali e consigli locali. Pochi giudicaMidlands occidentali, il Merseyside e la vano soddisfacente questa situazione, Grande Manchester. Questa proposta ma le opinioni politiche erano nettafu accolta nella legge sul governo locale mente divise tra coloro che raccomandel 1972 e fu estesa, con alcune impor- davano la creazione di potenti organitanti modifiche, non solo alle tre aree smi per il governo dell'intera metropoli metropolitane indicate dalla Commis- e coloro che, invece, chiedevano la riorsione, ma anche al Tyneside e allo ganizzazione del governo di Londra inYorkshire meridionale e occidentale. torno ad alcune ''cities" separate, più Di conseguenza, nel 1974, compiuta o meno dieci. Il potere politico reale questa seconda tappa, il cuore indu- toccò al secondo gruppo, che comprenstriale della Gran Bretagna con le più deva sia la City ofLondon Corporation, importanti conurbazioni fu posto sotto straordinariamente influente (che sail controllo di vaste e potenti metropo- rebbe stata la più danneggiata da quallitan councils. Appena nove anni do- siasi altra istituzione di estesa compepo, il Governo della signora Thatcher tenza territoriale), sia i numerosi memha reso note le sue proposte di abolizio- bri delle assemblee parrocchiali, localne di tutte e sette le autorità metropoli- mente importanti. Gli amministratori 81
londinesi consideravano con invidia le grandi città provinciali, che disponevano di tutti i poteri di governo locale e che, cosa forse più importante, concedevano ai rispettivi consigli tutte le prerogative municipali: le cariche di sindaco e di consigliere comunale, nonché le toghe e gli altri simboli di potere. Nel 1885 il Parlamento tentò di conciliare le esigenze complessive di Londra con il campanilismo delle forze politiche, ma, con la creazione di un Metropo/itan Board of W7orks, responsabile di tutta l'area e con membri tratti dalla City di Londra e dalle parrocchie, scontentò entrambe le parti. Così, invece, il dibattito su come governare Londra venne ad intensificarsi. I membri delle assemblee parrocchiali, pur controllando le attività del Board of W/orks, chiedevano anche il riconoscimento dei simboli di potere e continuavano la loro campagna per la creazione di una federazione di circoscrizioni londinesi. I riformatori, da parte loro, denigravano il campanilismo e la presunzione della piccola borghesia parrocchiale e intensificavano la propaganda a favore di un forte governo locale, eletto dal popolo, per quella che veniva ora comunemente chiamata "la metropoli". Enfatizzando le potenzialità ditale organismo quale agente di ridistribuzione, i riformatori riuscivano ad attrarre dalla loro parte le posizioni radicali e, alla fine, a polarizzate la questione amministrativa su criteri di classe e di partito. Dal 1880 il Partito Liberale, strettamente legato al radicalismo metropolitano, si impegnò per la creazione di un consiglio per la città di 82
Londra, eletto direttamente. Mentre il Partito Conservatore, a sua volta strettamente alleato degli interessi fondiari e commerciali londinesi, rimaneva deciso ad opporvisi. Comunque, ed è uno dei molti paradossi della storia londinese, doveva essere proprio un governo conservatore a creare nel 1888 questo organismo: il London County Council. Sottili considerazioni politiche e la necessità di tenere in vita la fragile coalizione di Conservatori e Liberali Unionisti (che si erano staccati dal loro partito sulla questione dell'autonomia irlandese) indussero il Governo di Lord Salisbury a istituire un Consiglio di contea per Londra, con gli stessi criteri stabiliti altrove e ad abbandonare i progetti volti ad equilibrare questo nuovo organismo con la creazione di potenti circoscrizioni locali. Ma, a meno di tre anni dalla sua costituzione, contro il nuovo LCC insorse l'opinione dei conservatori. Il fatto è che i liberali radicali, molti dei quali avevano preso attivamente parte alla campagna per il governo di Londra, egemonizzavano il nuovo Consiglio, sfmttandone il potenziale politico e cominciando a costruire una forza politica popolare nella capitale che minacciava le prospettive elettorali a lungo termine dei conservatori. Di conseguenza i conservatori oltranzisti, compreso il Primo Ministro, Lord Salisbury, proposero l'effettiva o totale abolizione del LCC e il trasferimento dei suoi poteri a forti circoscrizioni locali. Risultò però impossibile, in particolare di fronte al deciso parere contrario della burocrazia
statale, mettere d'accordo il gabinetto su un piano così vasto, che pur aveva incontrato il favore degli interessi locali londinesi. Si arrivò invece a un compromesso: il LCC rimase in vigore e conservò virtualmente tutti i suoi poteri, mentre furono costituiti 28 nuovi consigli di circoscrizione metropolitani con una vasta gamma di cariche municipali, ma con un potere reale molto scarso. Lo storico compromesso superò bene la prova del tempo. E durato infatti fino al 1963. Tuttavia, a differenza del sistema amministrativo che era stato creato dalle leggi del 1888 e del 1899 e che aveva assolto i compiti prefissati e risolto le annose dispute sulla struttura istituzionale, il LCC non riuscì bene a far fronte alla nuova realtà sociale ed economica. Durante la seconda metà del secolo Diciannovesimo, la popolazione di Londra ebbe un rapido incremento, dovuto sia alla crescita naturale che a un alto tasso di immigrazione nella capitale. Molti dovettero alloggiare nella periferia suburbana che conobbe un rapido sviluppo. Nello stesso tempo la popolazione di Londra tendeva ad allontanarsi dal centro, alla ricerca di alloggi migliori nelle zone periferiche. Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, alle trattative residenziali delle aree esterne ai confini del LCC si aggiunse la crescita dell'occupazione, quando la Londra periferica diventò il trampolino di lancio della modernizzazione e dei cambiamenti nell'economia britannica. D'altra parte i confini del LCC, che erano un'eredità del Metropo/itan Board of W/orks, erano stati fissati nel
1885, alla vigilia del maggior periodo di espansione londinese. È soprattutto dopo il Censimento del 1901 che divengono evidenti le disparità fra la Londra ufficiale e la Grande Londra, in cui la gente viveva e lavorava. Ma i politici non furono molto propensi ad ammetterne lc implicazioni. Soltanto i liberali londinesi, dal 1907 liberi da responsabilità di governo e perciò anche dalle costrizioni della prassi politica, presero atto delle novità della situazione. Confortati dalle teorie di H.G. WelIs sul processo di "delocalizzazione" tecnologicamente programmato, i liberali fecero una campagna a favore di una nuova "megamunicipalità" - un Consiglio della Grande Londra - per amministrare le esigenze di quella che veniva descritta come una nuova vasta regione metropolitana. Questo programma politico era impopolare, perché non solo evocava gli antichi conflitti tra i sostenitori del potere centrale e quelli del potere locale, che erano stati attenuati dalle norme del 1899, ma finiva anzi per alimentarli con l'energica e preoccupata opposizione dei residenti nella periferia londinese. Specialmente negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, quando la politica di coalizione costrinse i conservatori ad appoggiare il programma liberale di integrazione metropolitana, si accusò il LCC di essere impegnato in un piano di imperialismo territoriale. Fu perciò con riluttanza che nel 1921 il governo cedette alle pressioni londinesi e istituì una commissione per studiare le prospettive di un Consiglio della Grande Londra. 83
L'opposizione suburbana fu così forte che la relazione della commissione, non fornendo alcun appoggio al progetto, sembrò aver seppellito per sempre la questione. Comunque, nel .periodo tra le due gerre, due fattori dovevano assumere importanza crescente. Il primo fu il note. vole sviluppo della regione londinese con i connessi problemi di sovrappopolamento, di sovraccarico dei sistemi di trasporto e di violazione della campagna circostante. I governi nazionali non potevano disinteressarsi completamente di simili problemi che avevano implicazioni per altre regioni, per la dislocazione della popolazione e dell'industria (già di per sé un problema strategico in un periodo di tensione internazionale) nonché per le condizioni generali dell'economia nazionale. Un'autorità responsabile dell'intera area, che dirigesse e controllasse l'uso del territorio e gli investimenti nei trasporti, avrebbe potuto garantire gli interessi nazionali nella regione londinese; eppure, malgrado ciò, una simile istituzione continuava ad apparire politicamente irrealizzabile. Comunque un secondo fattore finì per rendere politicamente necessario un governo metropolitano. Il grande esodo da Londra verso i suburbi aveva interessato innanzitutto i lavoratori dipendenti, la classe degli impiegati a medio reddito che, in seguito al declino del Partito Liberale, costituiva il nerbo dell'elettorato conservatore. Alla diminuzione della popolazione di Londra seguì una progressiva flessione dei voti conservatori e un contemporaneo rafforzamento del so84
stegno ai laburisti da parte del proletariato urbano. In contrasto con la storica opposizione del partito a un governo troppo esteso della città e ad ogni violazione dei confini suburbani, gli strateghi del Partito Conservatore, dopo le vittorie laburiste nel LCC del 1934 e del 1937, si resero conto che l'unica speranza di riconquistare il controllo della capitale era nell'accorpamento dei suburbi conservatori con il centro della città.
DAGLI ANNI CINQUANTA AD OGGI
Ma prima che potessero essere elaborati dei piani precisi scoppiò la guerra e, dalla fine del conflitto fino al 1951, i conservatori non formarono altri governi di pace. Dal 1954 i ministri conservatori introdussero una serie di parziali riforme per rafforzare il governo locale, mentre all'interno dell'apparato del partito venivano studiati progetti più radicali per l'abolizione del LCC. Nel 1957 il governo rese noto che il problema della Grande Londra sarebbe stato rimesso a una Commissione. Alla fine le forze politiche e amministrative furono d'accordo con la relazione della Commissione che era nettamente a favore dell'istituzione di un GreaterLondon Counci/. I funzionari pubblici dei diversi ministeri reclamavano un mutamento radicale, tale da consentire la pianificazione razionale della regione, e chiedevano che il governo, memore della posta politica in gioco, agisse con determinazione.
Ancora una volta, comunque, il sistema di governo che venne fuori dalle accese lotte politiche degli anni 1960-63 deluse le aspettative sia dei politici che degli amministratori. Il governo dovette far fronte alle forti pressioni dei suoi stessi sostenitori che volevano escludere dal nuovo sistema amministrativo alcune delle aree più esterne; le più ricche e le più saldamente conservatrici. Risultato: la linea di confine della Grande Londra fu definita molto più rigidamente di quanto fosse mai stato previsto. Il nuovo Greater London Council si rivelò politicamente instabile e, invece di essere una roccaforte conservatrice, alle prime elezioni del 1964, fu conquistato dal Partito Laburista. Né si realizzarono poi le speranze degli autori del progetto. Il prezzo pagato per ottenere il sostegno dei sobborghi al progetto di legge sul nuovo assetto del governo di Londra fu l'indebolimento dei poteri del London County Council e il riconoscimento delle proposte nuove circoscrizioni di Londra (London Boroughs) come "fondamentali unità di governo". Il risultato fu che il GLC ebbe molto meno potere di quanto avessero previsto i funzionari statali e, invece di affrontare con decisione i problemi di Londra, si disperse in lunghe ed estenuanti lotte con i Boroughs. Il GLC, considerato dal nuovo governo laburista come un valido strumento per risolvere il problema delle abitazioni a Londra, ottenne ben pochi risultati, dovette cedere di fronte alle posizioni strettamente difensive dei sobborghi e subì l'umiliazione di un successivo, ulteriore trasferimento agli
stessi Boroughs dei suoi poteri e del suo patrimonio abitativo. Il maggior fallimento fu proprio nel settore in cui le aspettative erano state maggiori: l'adeguamento dell'insufficiente rete stradale londinese al livello di autostrade urbane. All'inizio entrambi i partiti si erano impegnati in un elaborato sistema di autostrade orbitali e radiali, abbastanza simile ai progetti formulati durante la guerra, ma nessuno dei due poteva permettersi, se l'altro si opponeva, di identificarsi con il programma, costoso e distruttivo, e quando il Partito Laburista londinese dovette cedere alle pressioni anti-autostrade, i conservatori presero subito le distanze da queste proposte. Soltanto ora che il GLC passa alla storia, il governo centrale sta riprendendo i progetti, a lungo fermi, di miglioramento della rete stradale. Malgrado la sua inefficienza, il GLC si fatto molti nemici: per i politici dei sobborghi fu sempre una potenziale minaccia all' inviolabilità del loro territorio sicché già nel 1973 i pareri si erano significativamente spostati in favore dell'abolizione. Nel 1975 molti laburisti cominciarono ad esprimere la loro delusione per l'operato del GLC e nel 1977 un ex-laburista guidò un gruppo abbastanza numeroso di candidati alle elezioni nel GLC su un programma abolizionista. Un esame del futuro ruolo del GLC, condotto all'interno del Partito Conservatore in risposta a varie pressioni politiche, si pronunciò a favore di un ruolo ancora più importante per il Consiglio, ma subì la derisione sia delle circoscrizioni laburiste che di 85
quelle conservatrici. Evidentemente l'abolizione era solo una questione di tempo. Comunque non bisogna meravigliarsi che il GLC sia rimasto in funzione durante il Primo Governo della signora Thatcher negli anni 1979-1983: il fatto è che i conservatori hanno diretto il GLC dal 1977 al 1981 e sarebbe stato scorretto abolirlo in quel momento, anche se la storica mancanza di influenza dei conservatori del LCC e del GLC era tale da non escludere un simile provvedimento. L'abolizione doveva attendere non solo un'amministrazione laburista al County Hall, ma anche condizioni parlamentari adatte e un chiaro mandato elettorale. Quest'ultimo soprattutto era importante, a causa della concreta possibilità che la Camera dei Lords tentasse di fare l'ostruzionismo al governo. L'opposizione, in rea!tà, era prevista e avrebbe potuto verosimilmente far cadere un progetto di legge di abolizione. Ma se l'abolizione avesse avuto una parte rilevante nella piattaforma elettorale del governo, i Lords non avrebbero spinto la loro opposizione fino a questo punto. Questa valutazione si è rivelata esatta, anche se i Lords hanno approvato molti emendamenti al progetto di legge. Alla Camera dei Comuni il governo ha avuto invece vita facile malgrado l'imbarazzante ribellione di alcuni parlamentari di secondo piano. L'opposizione laburista in Parlamento è stata solo rituale e non ha fatto alcun serio tentativo di ottenere costruttivi emendamenti. In realtà, la propaganda laburista fu fatta fuori del Parlamento in una 86
campagna pubblicitaria, costosa e coronata da parziali successi, destinata ad organizzare un'opposizione di massa contro il governo. Malgrado gli evidenti timori di molti ministri, il governo è stato inflessibile, prevedendo a ragione che con l'approvazione del progetto di legge l'opposizione sarebbe venuta meno. I politici laburisti in privato hanno ammesso, fin dall'inizio, la sconfitta e subito le circoscrizioni bndinesi, come i distretti metropolitani nelle province, si sono preparate ad assumere i poteri del GLC e dei MCC (Metropolitan County Councils), o individualmente o per mezzo di accordi congiunti. Così è finito l'esperimento britannico di un'autorità metropolitana di governo. LE QUA1TRO CAUSE DEL FALLIMENTO METROPOLITANO
Malgrado l'accesa campagna che seguì l'annuncio dei progetti governativi di abolizione, il GLC e i MCC contavano in realtà ben pochi sostenitori. Lo stile e il modo di far politica in Gran Bretagna sono radicalmente cambiati a partire dalla fine del 1970 e le istituzioni concepite in un periodo di politica interventistica avevano bisogno, per sopravvivere, di nuove e diverse giustificazioni. Il governo ha sostenuto che il GLC e i MCC erano istituzioni prive di funzioni reali, poiché in linea di principio i kiro poteri potevano essere esercitati, individualmente o collettivamente, dalle autorità locali e che il tanto vantato ruolo di autorità "strategica" era
stato un' invenzione dei consigli metropolitani per trovarsi qualcosa da fare. In questa argomentazione c'è qualche fondamento, ma l'insuccesso delle autorità metropolitane è ancora più grave e profondo e può essere attribuito a quattro cause. La prima è il problema della stessa area metropolitana. Considerando innanzitutto le contee metropolitane, non è mai stato sufficientemente chiaro se in Inghilterra esistono sei piuttosto che tre o dieci o trenta aree "metropolitane". La Royal Commission on Local Governmeni' aveva individuato soltanto tre aree in base alla loro estensione, complessità e interdipendenza; il governo laburista ne aggiunse altre due; il governo conservatore, che poi applicò la legislazione, ignorò una di quelle indicate dai laburisti e ne aggiunse due, compreso lo Yorkshire occidentale, dove si era già dimostrato che un'autorità metropolitana sarebbe stata inadatta. Quali che siano, comunque, le aree con status metropolitano, resta imprecisato dove finisce l'area metropolitana e dove comincia l'Inghilterra nonmetropolitana. La Royal Commission aveva tracciato dei confini piuttosto ampi, per poter includere le aree che si fossero, in futuro, estese perifericamente. In seguito, il governo laburista, per ragioni elettorali, individuò confini più precisi che furono ulteriormente ridotti dai conservatori, preoccupati molto di più di salvaguardare l'integrità delle contee (conservatrici) circostanti che di assicurarsi il controllo politico della stessa area metropolitana. Erano,
infatti, molto più interessati alla sopravvivenza di queste contee nonmetropolitane che a quella delle Autorità metropolitane. Durante le successive fasi legislative, in seguito a varie pressioni politiche, le aree metropolitane furono ulteriormente ridotte e furono offerte significative scappatoie a quelle località che non volevano essere sottoposte all'autorità di un'istituzione imposta dall'alto. Non diversamente è avvenuto a Londra. L'area presa in esame dalla Commissione per Londra era di una certa ampiezza, in considerazione dell'ininterrotto sviluppo urbano, che era assunto dalla stessa Commissione come il criterio giusto per individuare la Londra metropolitana. Ma, di nuovo, le proposte del governo ridussero quest'area e le successive accanite campagne parlamentari assicurarono l'esclusione di altre zone. Con il risultato che il GLC non si trovò in grado di esercitare la sua autorità neppure sulla sua stessa area già edificata. Ma il GLC fu condizionato da un inconveniente molto maggiore, poiché il continuo sviluppo era in ben scarso rapporto con la realtà della vita metropolitana. La cintura verde da cui Londra era circondata e in cui, nel dopoguerra, fu generalmente proibito lo sviluppo, aveva determinato un'artificiale interruzione nella continuità della città. Negli anni Cinquanta e Sessanta i veri confini di Londra si trovavano molto oltre la cintura verde, nelle piccole città e nei villaggi abitati dai commuters, sui quali Londra continuava ad esercitare un forte potere di attrazione. Perciò la maggior parte de87
gli importanti problemi di pianificazione che dovettero essere affrontati nella regione londinese, impose al GLC, con l'incoraggiamento del governo, la necessità di collaborare con le confinanti autorità locali, in una situazione molto simile a quella verificatasi prima della guerra, sebbene su scala diversa. Ma mentre era possibile proporre per la Grande Londra un'autorità sul modello del GLC, pochi continuano a sostenere la necessità di un'autorità ancora più estesa per governare la vasta area dell'Inghilterra sud-orientale. Una volta di più la Londra ufficiale e la Londra reale non coincidevano. Ed è difficile immaginare come potrebbe essere altrimenti. La politica metropolitana è stata ulteriormente complicata dal problema della distribuzione dei poteri. E siamo qui alla seconda causa del fallimento. Il sistema amministrativo in vigore nel Diciannovesimo secolo durò a lungo, suscitando pochi contrasti tra il London County Council e i consigli locali sulla distribuzione dei poteri, ma la creazione del GLC associò a Londra molte aree suburbane, vaste e combattive, che per molti anni avevano cercato di strappare il potere ai rispettivi consigli di contea. Con il miglioramento della loro condizione e il rafforzamento dei loro poteri, prezzo inevitabile del loro consenso al loro inserimento entro i confini di Londra, i consigli di contea accrebbero naturalmente anche le loro ambizioni. tnnanzitutto presero sul serio l'idea che essi fossero 1' "unità fondamentale di governo locale" e quindi, cercarono, 88
coerentemente, di ridurre i poteri del Fin dall'inizio questo fu accusato di arroganza e in verità l'atteggiamento iniziale dei politici del GLC rispecchiava le presunzioni di incontestato predominio che risalivano all'epoca del LCC e che si dimostrarono presto infondate, specialmente riguardo alle circoscrizioni periferiche. Il problema era complicato anche dall'interferenza dei governi nazionali: Londra è infatti la capitale e anche il centro della più ricca regione britannica e perciò i governi non riescono a disinteressarsi degli affari londinesi. Quando il GLC non riuscì a imporre alle circoscrizioni la propria volontà nel settore della politica delle abitazioni, i ministri furono costretti ad intervenire e costituirono una consulta di cui facevano parte uomini politici e funzionari del governo centrale, del GLC e delle circoscrizioni. Quando, dopo molti anni, fu pronto il Progetto per lo sviluppo della Grande Londra, opera del GLC, un'apposita Commissione d'inchiesta governativa lo riscrisse e il governo centrale lo modificò ulteriormente, al momento in cui fu sottoposto alla sua approvazione. I conflitti e i sospetti tra il GLC e le circoscrizioni ritardarono considerevolmente il risanamento della trascuata zona dei docks: in risposta il governo centrale scavalcò entrambi i livelli di governo locale, trasferendo il controllo della zona a un ente pubblico designato a livello centrale. Sebbene l'interesse del governo centrale sia stato molto maggiore per Londra e per la zona sud-orientale, i ministri si sono trovati nella necessità di interveniGLC.
re direttamente anche nell'area metro- affermazione del governo che il GLC e i politana del Merseyside. I gravi disordi- MCC avevano inventato il concetto di ni nell'area di Toxteth in Liverpool, nel strategia per attribuirsi un ruolo, esso 1981, portarono alla nomina tempora- sta nel fatto che tale concetto lo si ritronea a "Ministro per il Merseyside" del va nella formulazione, specialmente da Segretario all'Ambiente, nonché alla parte del GLC, del concetto di pianificostituzione di un gruppo di esperti, cazione sociale come compito precipuo formato da funzionari statali che svol- dell'autorità metropolitana. La pianifisero un'importante opera di mediazio- cazione sociale veniva considerata come ne negli accesi conflitti tra l'autorità un attacco preordinato alla disuguametropolitana del Merseyside e la City glianza, attraverso gli interventi stratedi Liverpool. Questi conflitti tra gover- gici di un'autorità la cui ragion d'essere ni, nelle aree metropolitane provincia- consisteva nella ridistribuzione delle rili, discendevano direttamente dalle di- sorse nell'interesse delle aree più povespute sulla distribuzione dei poteri. A re e dei gruppi sociali deprivati. Da differenza di Londra, dove non c'era questo punto di vista il termine "straun unico centro da cui si fosse irradiato tegia" non aveva nessun preciso riferilo sviluppo urbano, le aree metropoli- mento spaziale e ciò fu fatale alla stessa tane provinciali erano concentrate per pretesa strategia. Non c'era nessuna ralo più intorno a un unico grande nu- gione precisa per cui un'autorità mecleo urbano: Liverpool, Manchester, tropolitana dovesse occuparsi della ridiBirmingham, che avevano antiche e stribuzione delle risorse, poiché questa gloriose tradizioni e prima della loro non avrebbe potuto essere compiuta inclusione nelle nuove amministrazioni sulla giusta scala. A rigor di logica una tale politica avrebbe dovuto essere estemetropolitane si trovavano nella condizione di autorità "a tuiti gli effetti". sa all'intero paese. Con ciò implicando Esse trattavano direttamente col gover- o una sostanziale delega ai nuovi governo centrale senza intermediari. La re- ni regionali o la fiducia nella volontà trocessione allo status di semplici di- del governo centrale di affrontare il stretti metropolitani diede origine a problema della disuguaglianza. Del recontinui conflitti. Infatti le richieste sto, ci sono buone ragioni per rimandapiù insistenti di abolizione delle contee re le questioni di equità ai livelli più almetropolitane vennero 'proprio dai di- ti di governo, proprio perché una postretti metropolitani e non provenirono litica del genere venga applicata sull'area più vasta possibile. affatto dal solo Partito Conservatore. C'è da dire che, in realtà, un'autorità metropolitana che si finanzia con l'imLa terza causa del fallimento dell'esperimento metropolitano britannico fu il posizione fiscale, si trova, in un certo maldestro tentativo di usare i poteri senso, a compiere automaticamente metropolitani allo scopo di ridistribuire un'opera di ridistribuzione: infatti le le risorse. Se c'è del vero nella sarcastica aree più ricche contribuiscono in pro89
porzione alle loro finanze e se i poteri di cui è dotata consentono alla suddetta autorità di affrontare i problemi che separano le aree più ricche da quelle più povere, per esempio il restauro delle abitazioni degradate, allora le spese saranno maggiori nelle zone più povere e le conseguenze della ridistribuzione risulteranno ancora maggiori. Questa ridistribuzione "sommersa" funzionava bene con il LCC e, nel 1890, fu proprio la consapevolezza che l'abolizione del LCC avrebbe accentuato le disuguaglianze tra aree ricche e povere di Londra a indurre il Governo di Lord Salisbury a optare per un decentramento amministrativo solo simbolico. Ma con il GLC questa ridistribuzione automatica non si veniva più a realizzare facilmente, poiché il compito di equilibrare spese e imposizione fiscale era stato spostato alle circoscrizioni. Di qui la necessità di un impulso più esplicito, e quindi politicamente più pericoloso, verso politiche ridistributive d' intervento che servirono solo ad allontanare ulteriormente il GLC dal governo centrale, dalle circoscrizioni, suoi partners teorici nel governo di Londra, e dalla comunità degli affari su cui venne a ricadere il peso maggiore della tassazione locale. Ultima causa del fallimento dell'esperimento metropolitano è stata l'instabilità dei governi metropolitani britannici dovuta in buona parte alla riluttanza dei partiti politici ad accettare l'esistenza di governi sub-nazionali, così estesi e apparentemente importanti, potenziali rivali del governo nazio90
nale. Questo è, in particolare, il caso di Londra, dove il partito che controlla la capitale, potendo accedere direttamente ai mezzi di comunicazione nazionali, si procura un considerevole credito politico. Dal 1938 al 1964 il Partito Conservatore si basò sulla convinzione che, per affrontare questo problema, fosse necessario definire bene i confini di Londra in modo che al loro interno il controllo rimanesse saldamente in mani conservatrici. Inaspettatamente ciò si dimostrò difficile e l'esistenza di un GLC laburista si rivelò soprattutto a partire dal 1981, di gran lunga più dannosa politicamente per i conservatori di quanto lo sia mai stato, in mani laburiste, il più piccolo LCC. I conservatori che, bisogna ricordano, sono stati gli artefici di tutti i significativi mutamenti istituzionali a Londra - nel 1888, nel 1899, nel 1963 e ora nel 1985 - hanno dunque mutato atteggiamento nel 1983. Per assicurarsi che nessuno possa pretendere il controllo politico totale di Londra, lo hanno ripartito tra le autorità locali esistenti. Questo nuovo atteggiamento minimalista rispecchia anche un nuovo realismo negli affari metropolitani. Sono ormai lontani i giorni degli appelli retorici all'autogoverno metropolitano. I governi nazionali sono troppo coinvolti negli affari londinesi per non voler controllare direttamente e in prima persona tutte le decisioni chiave. In un certo senso, quindi, l'esperimento metropolitano britannico sta entrando in una nuova fase, in cui il ruolo dell'autorità metropolitana sarà svolto dallo stesso Ministro.
Per una critica dell'ente intermedio di Andrea Piraino
"Dalla sperimentazione comprensoria- dimento. Come dimostra anche questa le all'ente intermedio": questo il tema ricerca del FORMEZ. Nella ricostruziodi una ricerca FORMEZ di qualche tem- ne che ivi si opera dei vari approcci po addietro', intorno alla quale s'è all'esperienza comprensoriale, si trasvolto un vivace dibattito in occasione scura ogni riferimento al principio dedella presentazione promossa dall'As- mocratico. In tal modo si viene a discosemblea Regionale Siciliana. Sul tema noscere che il passaggio di questa idea conviene riprendere qui il filo di un ra- del comprensorio dalla marginalità delgionamento che si ricolleghi diretta- la scienza urbanistica e di quella economente alla tematica generale della con- mica alla centralità della giurisprudenza è stato guidato dalla convinzione vivenza di base. La prima cosa da sottolineare è che, no- che questa fosse la struttura portante di nostante sia diffusa la consapevolezza una nuova democrazia di base. che il problema degli enti locali non è Ora, sempre per fermarci a questo parriducibile ad una semplice questione di ticolare aspetto, si può ritenere benissifunzionalità amministrativa 2 la ricerca mo che in una prospettiva di avanzache li riguarda non fa registrare ancora mento della democrazia l'esperienza una reale inversione di tendenza. Sia comprensoriale non abbia fatto reginelle indagini di carattere generale sia strare alcun apprezzabile risultato, ma in quelle che si occupano di aspetti par- il dato che questo fosse il reale intenditicolari, l'approccio al problema degli mento che stava alla base della sperienti locali continua ad essere quello mentazione dei comprensori non può proprio del vecchio sapere amministra- essere ignorato 3 . E ciò non tanto perché tivo. Al più, in conseguenza del preva- così non si ricostruirebbe correttamente lere degli indirizzi funzionalistici su la vicenda o si perderebbe l'occasione quelli strutturalistici, ci si preoccupa di di cogliere il valore della democrazia in valutarne l'efficienza in funzione del un ambito nel quale la sua luce sembra sistema complessivo in cui si trovano farsi più debole quanto, piuttosto, perinseriti. Ma del fatto che la questione ché in questo modo si resterebbe privi del governo locale è innanzi tutto la della «chiave di lettura" capace di guiquestione di una democrazia che vuole darci nell'interpretazione della crisi che diventare finalmente compiuta, non si coinvolge e quasi attanaglia la gente e va al di là di un semplice cenno di rito. le istituzioni di base che ne regolano la Non si constata nessun vero approfon- vita quotidiana. ,
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È una crisi che, essendo appunto crisi della democrazia e più precisamente delle sue forme statualista e socialista, non può essere compresa ed avviata a soluzione - questa è la mia tesi - se non accedendo ad una forma di organizzazione della stessa (democrazia) adeguata all'emergente bisogno di comunita che nell'epoca presente la gente manifesta4 . Stabilito, allora, che il parametro della nostra valutazione non può essere altro che quello della democraticità (comunitaria) della convivenza, è facile rilevare che la tesi avanzata con il titolo stesso della ricerca del FORMEZ dalla quale si sono prese le mosse, e cioè che dalla sperimentazione comprensoriale si debba passare alla creazione di un ente intermedio, si presta ad una duplice critica: la prima, riguardante la convinzione che l'organizzazione della Comunità di base debba assumere la forma dell'ente; la seconda, inerente all'indicazione che questo nuovo soggetto debba essere intermedio tra la regione ed i comuni
LA VECCHIA PROVINCIA E LE VECCHIE GERARCHIE
Cominciando da quest'ultimo aspetto e trascurando di analizzare il significato di limitazione dell'autonomia che avrebbe una legge nazionale e regionale che dettasse minutamente i compiti e le funzioni del nuovo ente 6 , l'osservazione che immediatamente si deve fare è che la creazione di un ente sovracomunale ma di livello sub-regionale 92
finisce con l'essere nient'altro che la riproposizione della vecchia provincia. Cosa che ad esempio in Sicilia, in una regione in cui lo Statuto all'an. 15 detta che "le circoscrizioni provinciali e gli organi e gli enti pubblici che ne derivano sono soppressi", suona come un incomprensibile passo indietro verso un'organizzazione che storicamente si è caratterizzata per costituire lo strumento di mortificazione dell'autonomia comunitaria 7 . Ora, qui non si tratta di ripetere acriticamente conclusioni analitiche raggiunte in riferimento ad ordinamenti pur sempre particolari ma non c'è dubbio che un siffatto soggetto mediano non aiuta per nulla il potenziamento delle capacità "politiche" delle popolazioni locali ed, invece, ser ve ad espropriare le comunità di base del loro diritto-dovere di autogovernarsi. In altre parole, se si dovesse arrivare alla istituzione di un ente intermedio, il risultato che si otterrebbe non sarebbe altro che quello di accentuare la posizione gerarchicamente subordinata dei comuni e, nella misura nella quale questi si caratterizzano per costituire le organizzazioni a più stretto contatto con la gente, degli stessi cittadini. Per averne una conferma basta riflettere sulla seguente circostanza. L'ente intermedio viene considerato il pilastro fondamentale di una nuova forma di autonomia che non si manifesta più attraverso la gestione diretta di poteri di amministrazione e di governo - almeno riguardo ai servizi c.d. personali 8 ma si articola in una duplice presenza nel procedimento programmatorio: da
un lato, nel partecipare con proposte e pareri alla formazione dei programmi regionali; dall'altro lato, nel determinare una programmazione specificativa ed attuativa di questi piani a contenuto generale9 . Ebbene,a quest'ambito della programmazione, che ormai nell'attuale fase di sviluppo della società costituisce il modulo sostitutivo del meccanismo di scambio "politico" proprio di una logica negoziale da "mercato privato", i comuni, che sempre secondo questa prospettiva dovrebbe pur rimanere l'altro asse dell'autonomia, non solo non hanno accesso (e quindi sono privati di ogni reale possibilità di incidere sulle decisioni che valgono) ma vengono costretti ad un ruolo di gestione esecutiva del piano: tale da subordinarne l'autonomia e la libertà al potere di direzione dell'ente intermedio. In sostanza, invece di superare l'attuale condizione di divisione e di gerarchizzazione verso la costruzione di un ordinamento autenticamente comunitario, una nuova forma di divisione viene aggiunta tra momento della decisione programmatica attribuita all'ente intermedio e momento della gestione esecutiva lasciata ai comuni. Ed aumenta di conseguenza la gerarchizzazione dei rapporti tra gli organi della convivenza di base e tra questi ultimi e la gente che sempre più si vedrà restringere i propri spazi di libertà. Ma è pensabile che quest'esito possa essere evitato attraverso la elezione diretta, invece che indiretta ad opera dei consigli dei comuni che ricadono nella sua circoscrizione, dell'organo fondamentale dell'ente intermedio. L' espe-
rienza di questi ultimi anni, infatti, con la crisi irreversibile della rappresentanza politica' 0 , ha definitivamente spazzato via la credenza che perché un ordinamen'to della convivenza umana possa dirsi democratico sia sufficiente che gli organi decisionali in cui esso si articola abbia una investitura direttamente popolare. Come credo si debba ormai riconoscere da tutti, per realizzare un ordinamento veramente democratico e paritario ci vuole ben altro: in una battuta, che i governanti siano realmente controllati dai governati.".
LA TRAPPOLA DELLA PERSONA GIURIDICA PUBBLICA
Ma qui siamo al problema dell'organizzazione interna all'ente intermedio, che costituisce l'altro dei punti cui volevo accennare. Conviene affrontarlo cercando di vedere che cosa significa configurare come ente l'auspicata struttura sostitutiva dei comprensori. A tal proposito, non credo di sbagliare quando affermo che con quest'ultimo termine si intende fare riferimento ad una organizzazione soggettivata; vale a dire: ad una organizzazione che assuma la configurazione della persona giuridica pubblica' 2 . Ora, se questo è vero, bisogna ricordarsi che'la personalità è un meccanismo giuridico, inventato dall'ideologia statualista, al fine di concedere ai membri del gruppo, cui tale personalità pubblica viene riconosciuta 1' esenzione dall' osservanza delle norme del diritto comune 13 . Il che significa che essa costituisce una forma di 93
organizzazione dei rapporti umani in cui le azioni che si esplicano in un determinato ambito non vengono imputate ai loro autori ma ad un centro' 4 astratto che per essere tale non ne deve rispondere alla Comunità. Così che ogni siffatta organizzazione finisce con l'essere, prima, il modo di sollevare chi ne è preposto alla guida dal dovere di rispondere a chi ve lo ha eletto o nominato e, poi, il mezzo per costituirlo in soggetto "autonomo" che detiene il Potere15 il quale poi presuppone ed impone sempre un tipo di relazioni caratterizzato dalla differenziazione dei ruoli di denominazione e di subordinazione e quindi da rapporti giuridici di gerarchia che mortificano il soggetto che si trova in posizione più debole 16 Il movimento riformista degli anni Settanta questo lo aveva ben chiaro. Ed ecco perché superando la provincia chiedeva di sperimentare un tipo di organizzazione comprensoriale la cui caratteristica di fondo fosse proprio quella di non costituire un nuovo soggetto ed anzi di rimettere in discussione tutta la strutturazione soggettiva ricevuta dal vecchio testo unico del 1934 1 . Soltanto, però, che non ci si rese conto che per far questo non bastava l'elezione diretta dell'organo centrale del comprensorio ma bisognava articolare in maniera nuova e diversa i rapporti dell'intera organizzazione della convivenza di base. Sostanzialmente abbandonando la strutturazione dicotomica in livelli diversi di governo ed adottandone un'univoca modalità di articolazione incentrata sul controllo del comitato comprensoriale da parte dei consi;
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gli comunali e dei consigli circoscrizionali' 8 Naturalmente qui non è possibile approfondire né questi aspetti inerenti al modo comunitario di organizzare la convivenza di base né quei problemi che riguardano la funzionalità sociale dei servizi e la distribuzione tecnica delle competenze tra i vari uffici della Comunità di base. L'unica cosa che si può fare è quella di sottolineare che quest'ethos comunitario - che è la sola forza che può guidare il processo di rinnovamento delle istituzioni locali e la via migliore per realizzare gli obiettivi di democraticità e di efficienza dell'organizzazione di base della nostra convivenza - non è né qualcosa di diverso da ciò che sta alla base dell'esperienza comùnale e che è stato mortificato, almeno fino a questo momento, dal prevalere della "logica" statualista' 9 , né qualcosa di completamente nuovo rispetto alla strada che già da tempo hanno cominciato a percorrere alcune regioni e segnatamente la regione Sicilia (la quale, però, in questi ultimi anni, sembra averne perso la consapevolezza) e la regione Umbria: la prima, configurando il "libero consorzio" come sviluppo dell'esperienza comunale; la seconda, prevedendo il "comprensorio" come nuova dimensione comunale 20 Anche qui, evidentemente, sarebbe necessario un lungo discorso per spiegare questo collegamento tra prospettiva comunitaria e dimensione comunale. In questa sede, però, basta ricordare che esso nasce dal fatto che proprio nella dimensione comunale si realizza .
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quella forma di controllo popolare sul processo di formazione delle decisioni e sulla loro concreta gestione che - come si accennava prima - costituisce uno degli obiettivi caratterizzanti la prospettiva comunitaria.
AL DI LÀ DEL LEGALISMO STATALISTA
Ed allora qualche conclusione. D'accordo nel considerare l'esperienza comprensoriale, con la sua molteplicità di linee di attuazione, come una vicenda già conclusa. Ma attenzione a non cadere nell'errore di ritenere che la prospettiva da perseguire sia quella di creare una "nuova provincia", perché questo -- come si è cercato di spiegare succintamente nelle pagine che precedono - non farebbe che accentuare i caratteri soggettivistici e gerarchici dell'attuale organizzazione mentre, per rinnovare le istituzioni di base della nostra convivenza, bisogna proprio all'incontrano trasformare il rapporto tra popoio ed istituzioni in una organizzazione obbiettiva e paritania 21 . Con una ulteriore avvertenza. Che, per realizzare quest'ultimo obiettivo, la cosa più urgente da fare non è quella di tentare l'approvazione di una incerta legge di riforma22 ma quella di intervenire direttamente sull' organizzazio-
ne degli enti locali per modificarne dall'interno gli apparati, le procedure, i meccanismi attraverso i quali passano le azioni o le attività. Cosa che è possibile, però, soltanto se si abbandona il vecchio legalismo statualista (che collega deterministicamente la possibilità di riformare l'organizzazione con il verificarsi di un intervento in via normativa) e si accede ad una diversa prospettiva che, valorando ad es. le indicazioni che si possono trarre dalla pub/ic po/icy ana/ysis 23 , "apra" alla considerazione diretta dei comportamenti, delle energie, delle azioni concrete. La cultura giuridica - oggi quasi totalmente assorbita da questa logica legalistica ma in passato fortemente impegnata a ricostruire l'esperienza giurisprudenziale a partire dalla lotta per la liberazione della comunità24 - saprà farlo? Avrà il coraggio di abbandonare il tranquillo ancoramento, peraltro molto spesso inconsapevole, ai concetti generalizzanti (ma forse bisognerebbe dire: generici) della tradizione neoidealistica italiana e di correre il rischio di indicare una strada che porta direttamente "al cuore dell'azione" 25 ? Certamente non è scontato. Ma se vi riuscisse non c'è dubbio che avrebbe dato un contributo determinante a quel reale rinnovamento delle comunità di base che costituisce ormai una esigenza non più dilazionabile.
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FORMEZ, Dalla sperimentazione comprensoria/e all'ente intermedio. Napoli 1983, voli. i-il. ' in questo senso, v. GIoRGIo BERTI Autonomia e trasformazioni giuridiche in "Dem. e dir." 1976, p. 823 55.; FRANCESCO D'ONOFRIO, Per un nuovo ordinamento de/governo locale ora in Id., Governo locale e democrazia comunitaria, Roma 1977, p. 265 ss.; ADREAORSI BArFAGU. NI, Tre progetti di ri/orma delle autonomie: osservazioni preliminariin ''Dem. e dir.", 1978, spec. p. 371; FRANCO Ptzzzrn, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano 1979, p. 4 SS. ANDREA PUBUSA, Sovranitìpopo/are e autonomie locali ne/l'ordinamento costituzionale italiano, Milano 1983, p. 90 Ss.; GIAN CANDIDO DE MARTIN, L'amministrazione/oca/e ne/sistema delle aulonomie, Milano 1984, p. 3 Ss.; FRANCO BASSANINI, La repubblica delle autonomie: rilancio e declino in "Dem. e dir.", 1985, n. 1, p. 7ss. Sulla problematica relativa ai comprensori, cfr., fra i molti, UMBERTO POTOTSCHNIG, Comuni, comprensorie altre/orme associative fra gli enti locali in 'Riv. trim. sc . amm.", 1972, p. 15 SS.; Id., il comprensorio e il riassetto genera/e de/l'amministrazione loca/e in "Le regioni'', 1977, p. 426 Ss.; FABIO ALBERTO ROVERSI MONACO, Brevi note su nuovi livelli e strumenti di amministrazione locale in ''Riv. trim. dir. pubbl.", 1973, p. 1397 55.; FRANCESCO TRIMARCI, Il comprensorio tra programmazione e riassetto dei poteri locali, ivi, p. 1.404 Ss.; CMR-ISTITUTO DI STUDI SULLE REGIONI, I comprensori nella legislazione regionale, Roma 1974; AUGUSTO BARBERA, L'organizzazione comprenSoriale: tendenze delle legislazioni regionali e prospettive per una disciplina nazionale di principio, in ISAS, Lo sviluppo socio -economico in Sicilia, Palermo 1975, p. 3 sa.; CARLO DESIDERI, Ilcomprensorio nella prima legislatura regionale in "Dem. e dir.", 1975, p. 835 55.; GUIDO CORSO, La distribuzione delle/unzioni tra i livelli di governo loca/e in ''Cron. parlam. sicil.'', 1976, n. 11-12, p. 5 Ss.; CMu,o GESSA, L 'ipotesi giuridica dei comprensori: fondamento, organizzazione e limiti in "Stato e Regione", 1976, n. 3, p. 33 Ss.; ALARICO CARRASSI, I/ondamentipo/iticidell'ii,otesi "comprensorio" in ''Dem. e dir.", 1976, p. 829 Ss.; SALVATORE D'ALBERGO, Lo strumento comprensorio, ivi, p. 848 Ss.; MARTINO COLUCCI e FRANCESCO Cmo RAMPULLA, Comprensorie deleghe, ivi, p. 878 Ss.; FRANCESCO D'oNoFRIO, Provincia e comprensori ora in Id., Governo locale e democrazia comunitaria, cit., p. 63 ss.; FORMEZ, L'organizzazione comprensoria/e, Napoli 1977; FRANCESCO FORTE (a cura di), Dalla regione al comprensorio. Problemi dipianificazione urbanistica, Milano 1978; LUIGI BERLINGUER, Dal comprensorio all'Ente intermedio: associazione dei comuni e bacini di utenza in "Il comune dem.'', 1978, n. 7, p. 6 SS.; FRANCESCO TERESI, Il comprensorio tra partecipazione e tecnocrazia in GIUSEPPE CAMPIONE, Pianificazione e gestione de/territorio in Sicilia, Messina 1978, p. 97 ss.; Id., La legislazione regionale sui comprensori: aspetti generali e imp/icazioniai/ins della revisione de/sistema deipoteri lo-
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ca/i in ISAS, L'ente intermedio. Organizzazione, ruolo, funzioni, Palermo 1981, p. 43 Ss.; ALFONSO DI GIOVINE, Ri/orma del governo locale e ruolo dell'ente intermedio: aspetti problematici in AA.VV., L'ente intermedio, esperienze straniere e prospettive di ri/orma in Italia, Milano 1981; p. 187 55.; LivIo PALADIN, Jlprob/emo delle "nuove pro'vinie" in "Le regioni", 1984, p. 65 Ss.; ROBERTO MAR. RAMA, 1/ governo dell'area metropolitana di Napoli (profili giuridico-istituzionali), Napoli 1984, p. 19 Ss.; PAOLO URBANI, Verso il governo delle aree metropo/itane? in "Dem.edir.", 1985,n. 1,p.83ss. Dopo che negli anni tra il 1940 ed il 1950 la proposta comunitaria di Adriano Olivetti (del quale v. almeno, L 'ordi ne po/itico de//e comunitì, I ed., Ivrea 1945) cadde nella più assoluta indifferenza della cultura dominante, oggi la tesi che il bisogno che caratterizza la nostra epoca sia un bisogno di Comunità è sostenuta da autori che provengono dalle più diverse formazioni culturali. Cfr., ad es., MAX DELESPESSE, Questa comunità che si chiama Chiesa, (trad. it.), Milano 1969; ROBI RONZA, La comunione come proposta politica, Varese 1971; AGNES HELI.ER , Per una teoria ma,xista del va/ore, (trad. it.) Roma 1974; RAYMOND PI,Ar'4'r, Ideologia e comunitd, (trad. it.) Roma 1977; KMu, Orro APEL, Comunita e comunicazione, Torino 1977;JACQUES CAMArrE, Verso la comunità umana, Milano 1978; GIUSEPPE BARBACCIA-FRÀNCESCO CONIGLIARO, La comunità politica, Palermo - Sao Paulo 197 9;JEAN VANIER, La comunitì luogo del perdono e della festa, (trad. it.) Milano 1980; GIAMPAOLO CATEW-PAOLO GUIDICINI, Introduzione in AA.VV., Qua/e comunità dopo la modernizzazione, Milano 1981; ULDERICO BERNARDJ, Comunità come bisogno, Milano, 1981. Nell'ambiguo clima di superficiale "ritorno al diritto", ma di sotterraneo ''prevalere dell'autoritarismo statualiSta'' in cui ci si trova a dibattere, non è inutile sottolineare - come già faceva molti anni fa CMUO LAVAGNA, Consi derazioni sui caratteri degli ordinamenti democratici in "Riv. Irim. dir. pubbl.", 1956, p. 383 - che il concetto di democrazia, ''per essere basato sulla necessità di un ordinamento e su alcuni caratteri essenziali di quest'ultimo, è essenzialmente giuridico". Soltanto, però, che questi caratteri ordinamentali non sono/orma/i (come anche ritiene, ad es., UMBERTO CERRONI, Le regole costituzionali della democrazia politica in "Dem. e dir.", 1978, p. 62 ss.) ma moda/i, nel senso che essi non si identificano con una qualificazione giuridica che si pone, per così dire, dall'esterno ma corrispondono ad una giuridicità che nasce dall'interno della comunità. 6 Circa questo problema del modello di legislazione da adottare in ordine alla regolamentazione degli enti locali, v., però, le puntuali osServazioni di FRANCESCO D'oNOrinO, Le comunità montane ne/processo di riassetto dei poteri locali in "Riv. trim. dir. pubbl.'', 1976, p. 1584 55.; ANDREA ORSI BArrAGIJNI, Tre progetti di ri/orma delle autonomie: osservazioni preliminari, cil., p. 371 55. e, da ultimo, ricordando il contenuto dell'ordine del
giorno approvato dal Senato della Repubblica in data 9 maggio 1984, MARIO DOGLIANI, Ipoteri locali tra riforma e riordino in ''Dem.edir., 1985,n. 1,p.95.
Per una critica dei cosiddetti 'livelli di governo sub-regionale' nell'iotesi di riordinamento degli enti locali in Sicilia in "AmmiSul punto sia consentito rinviare a! mio
nistrare'', 1978, p. 489 Ss. ° Su questo, come si sa, è d'accordo anche i! "gruppo di Pavia'' che - pur sostenendo che l'ente intermedio non debba essere preposto a soli compiti di programmazione esclude, comunque, che ad esso possa essere attribuita la gestione di interventi in quei settori che ineriscono al cd. primo livello (v., ancora di recente, UMBERTO POTOTSCHNIG,
La riforma delle autonomie locali nelprogetto go-
vernativo in ''Le regioni", 1983, 141).
crazia rappresentativa? in LUIGI FERRAJOLI e DANILO Zoto, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Milano 1978, p. 25 ss. e PIERO VIOLANTE, Lo spazio della rappresentanza, Palermo-Sao Paulo 1981. Indispensabile è inoltre vedere il n. 7 (1978) della rivista ''Pouvoirs" da! titolo
Le régime rep résentatif est-il démocratique? Naturalmente qui il discorso dovrebbe essere oltremodo analitico perché non si prospetta la tradizionale sostituzione di quella rappresentativa con una forma di democrazia diretta-assembleare che prima di essere utopica è contraddittoria con le sue stesse premesse. In questa sede, però, ci si deve accontentare soltanto di una indicazione di senso complessivo che si può rendere dicendo che la struttura di una democrazia rinnovata deve articolarsi in modo tale che gli eletti negli organi di governo siano permanentemente obbligati a rispondere, delle scelte fatte e delle decisioni assunte, alla gente comune.
' Mentre per la tesi che nega l'attribuzione di ogni funzione amministrativa alla provincia o ente intermedio, che dir si voglia, v., per tutti, FRANCO PlzzErn, Stato delle autonomie e amministrazione integrata in ''Le regioni", 1981, pp. 369-370, per la suddetta articolazione della funzione di programmazione, v. (in "Le regioni", 1983, p. 681 ss), tra i documenti più significativi e recenti, il Rapporto preliminare della COMMISSIONE DI STUDIO per il problema della riforma istituzionale istituita dalla Giunta regionale Sarda
ministrazione in PAOLO BARILE-ENZO CHELI-STEFANO GIIA5SI (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo italiano, Bologna 1982, p. 296 Ss.; Id., Profilo di
dove, al secondo punto, si può leggere quanto segue: "Le funzioni in materia di programmazione dovranno essere esercitate sia nella fase ascendente che nella fase discenden-
storia costituzionale italiana. Lo stato liberale. Il regime fascista, Cagliari 1983; GIANFRANCO D'AIISSIO, Igiuri:rtie la organizzazione amministrativa in "Queste istituzioni",
te. È, infatti, questo il livello nel quale le istanze provenienti dalle minori comunità locali debbano essere recepite, coordinate e portate come proposte delle comunità territoriali per la formazione dei piani e dei programmi di ambito regionale. Per la fase discedente è il livello intermedio che dovrà predisporre, nel rispetto delle scelte programmatiche regionali a maglie larghe, i programmi socioeconomici e territoriali, nei quali verranno specificate le scelte in tema di sviluppo, verrà organizzato lo svolgimento delle funzioni proprie di tale livello e che costituiranno il quadro di riferimento delle attività svolte dai Comuni e dagli organismi operanti a livello intercomunale'' (loc. cit.,
1983, n. 63, p. Sss.
12 Cosa che, peraltro, rientra perfettamente nella consolidata tradizione statalista di concepire l'amministrazione come soggetto pubblico. Su questa ottica, come anche sulla sua persistenza nella cultura più recente cd aperta, cfr. UMBERTO ALLEGRETrI,
Corte costituzionale e pubblica am-
13 Cfr., in questo senso Tuwo ASCARELLI, Personalitìgiu-
ridica e problemi delle societì in "Riv. delle società'', 1957, p. 921 55. (rist. con modifiche in Id., Problemi giuridici, Milano 1959, 1, p. 233 ss); PIETRO RESCIGNO, Immunitepnvilegioin " Riv. dir. civ.", 1961,1, p. 442; PIETRo
Il superamento della personalità giuridica delle societa di capitali nella ''common law" e nella 'civil law'', VERRUCOLI,
Milano 1964, pp. 33, 54, 66 FRANCESCO GALGANO, Strut-
tura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica in "Riv. dii. civ.", 1965, p. 568 Ss.; FLORIANO
p. 685).
D'ALESSANDRO, Persone giuridiche ed analisi del linguaggio in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, Milano 1969, I,
10 Che non è solo crisi della teoria della rappresentanza -
p. 241 ss.
come crede HEINZ EULAU, Changing Views ofRepresentation in HEIT'4z EULAVJOHN C. WAHJKE (eds), The Politics
of Representation. Continuities in Theoiy and Research, Beverly Hills 1978, p. 32 - ma anche crisi delle istituzioni
14 Per la concezione della persona giuridica come centro
di imputazione, v., per tutti, HANS KEI.SEN, La dottrina pura del diritto, (trad. it.) Torino 1966, p. 192 ss.
rappresentative. Lo riconoscono finanche autori come NOR-
Quali alternative alla democrazia rappresentativa? in Id., Quale socialismo?, Torino 1976, p. 42 ss., e DOMENICO FISICHELLA, Sul concetto di rappresentanza politica in Id. (a cura di), La rappresentanza politica, Milano BERTO BOBBIO,
1983, p. 5, il quale ultimo così scrive: ''La crisi teorica è proiezione della crisi istituzionale. In una prospettiva di respiro, tale rilievo appare difficilmente confutabile". Per il tradizionale punto di vista critico sulla rappresentanza, v., invece, per tutti, LUIGI FERRAJOU,
Esiste una demo-
15 Evidentemente è impossibile in questa sede affrontare il ponderoso e complesso problema del potere: se esso costituisca una ''forza" (GIovAr'mil MIELE, Potere, diritto soggettivo e interesse in "Riv. dir. comm.", 1944, I, p. 114 ss.) e una "energia" (FEUCIANO BENVENUTI, L'ordinamento repubblicano, V ed. aggiornata, Venezia 1975, p. 200) giuridica e se ad esso debba, invece, negarsi ogni qualifica
Le situazioni soggettive e l'oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano di giuridicità (SEBASTIANO CASSARINO,
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1956, p. 224) per considerarlo una modalità puramente materiale con la quale, in opposizione alle capacità ed ai bisogni di altri soggetti individuali e sociali, un soggetto riesce a far prevalere i suoi propri interessi. L'unica cosa che, invece, si può fare è quella di sottolineare come anche questa dimensione potestativa sia legata alla formula organizzatoria che si indica con il termine ''soggetto'' e che consiste nella strutturazione accentrata e gerarchica dei rapporti giuridici.
BONOMI, Il Redcliffe.Maud report e la riforma dei poteri locali in Inghilterra in "Riv. trim. dir. pubb.'', 1974, p. 1481 ss. Id., L'evoluzione politico-legislativa della nfor' ma del governo locale in Gran Bretagna: dal Redcliffe' Maudreport alLocal Government act 1972 ed alla n:rtru,turazione del ''NationalHealthService", ivi, 1975, p. 729 ss, per la Francia, PIERRE FERRARI, La fusione dei comuni in Francia in "Problemi di Amministrazione pubblica, 1976, n. 1, p. 65 Ss.; per il Belgio, GEORGES LATOUR, L'esperien-
za belga difusione di Comuni, ivi, n. 3, p. 91. 16 Cfr. Nicos POULANTZAS, (trad. it.)Toma 1971, 126.
Potere politico e classi sociali,
17 Per cogliere questa direttrice del movimento riformato-
re, v. GIORGIO BERTI, Crisi e trasformazione dell'amministrazione locale in "Riv. trim. dir. pubbl.'', 1973, p. 681 SS.; MASSIMO SEVERO Gitir'i, Enti territoriali e programmazione, ivi, p. 193 ss.; SABENO CASSESE, Tendenze deipoteri locali in Italia, ivi, p. 283 ss. ANDREA ORSI BArI'AGLINI, Stato liberale e 'sistema delle autonomie" in ''Demedir.", 1976,p.769ss. 18 A parte il disegno di architettura politica, la stessa valutazione si può trovare in UMBERTO ALLEGRETI'I, Riforma delle autonome locali e nuova amministrazione in "Le regioni'', 1983, p. 680, il quale scrive che il nuovo impianto delle autonomie locali deve sostituire ''all'idea che i vari livelli organizzativi, conrepiti come soggetti, hanno ciascuno le "sue" funzioni, quella che essi compartecipano con
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riferimento, com'è facile intuire, è al noto indirizzo
elaborato da FELICIANO BENVENUTI, del quale, in particolare, v.: Appunti di diritto amministrativo, V ed., Padova 1959, p. 59 Ss.; Per un diritto amministrativo paritario in
Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova 1975, p. 807 ss.; L'amministrazione oggettivata un nuovo modello in "Riv. trim. sc . dell'amm.", 1978, n. 1, p. 6ss.; Ancora
per un 'amministrazione obiettiva in Studi ec. giur. della fac. di Giurisprudenza aniv. di Cagliari, vo!. XLIX, t. 3, sez, IV (Ricerche di diritto regionale e locale), Milano 1980, p. 207 Ss.
22 A tal proposito, v. pure quanto si accennava, supra, nel testo corrispondente alla nota 6. 23 Per questa prospettiva analitica v. quanto scrivono SERGio RISTUCCIA, Perché un programma di stadi sulle politiche in "Taccuino del Centro Studi della Fondazione
propri ''ruoli' 'a funzioni che, essendo del popolo, sono ripartite organizzativamente sui diversi livelli territoriali e comunitari che del popolo costituiscono la concreta artico-
lisi dell'efficacia delle politiche pubbliche: problemi di
lazione" -
teoriaedi metodo in "Riv. trim. sc . dell'amm,", 1982, n.
Adriano Olivetti'', 311981, p. 3ss. e BRUNO DENm, L'ana-
3-4, p. 3ss. 19 Per la descrizione di questa vicenda, v. - oltre all'or mai classica opera di GIORGIO BERn, Caratteri dell'amministrazione comunale e provinciale, Padova 1969 ANDREA P1RAINO, Controllo ed enti locali. Critica del modulostatual-sociale, (ed. provv.) Palermo 1983, spec. p. 13
24 L'espressione, com'è evidente, vuole parafrasare la celebre opera di RUDOLF VON JHERLNG, La lotta per il diritto, iii ed, della trad, it., Bari 1960.
Ss'
25 Così come insegnava GWSEPPE CAPOGRASSI, 20 Da notare che anche in molti paesi europei la risposta alla crisi degli enti locali è stata individuata nell'esiinsione della dimensione comunale. Cfr.: per l'inghilterra, CARLO
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Analisi
dell'esperienza comune, 1930 e Studi sull'esperienza giuridica (1932) ora entrambi in Id., Opere, Milano, voI. 11, risp.,p.3ss.e2liss.
QmQ MEM primavera 1986
Alla ricerca di una politica dell'energia
Chernobyl e dintorni
"Fino a pochi giorni fa sono stato un sostenitore convinto de//a scelta nucleare. Oggi non più". Se l'incidente della centrale di Chernoby/ ha portato da un giorno a/l'altro al/a conversione anche "sostenitori convinti" de/l'energia nucleare, come Mario Pirani - la citazione in apertura è l'attacco de/suo fondo su "Repubblica" de//'8 maggio scorso -, quale sia stato l'effetto sugli antinucl'eari convinti non è difficile immaginarlo. Lo stesso va/e per gli incerti e gli indifferenti (fino a ieri non erano pochi) che un 'idea adesso se la saranno sicuramente fatta, una posizione non mancheranno diprender/a: superfluo dire qua/e. In effetti, anche a non leggere i giornali e a tenere spenta la televisione, basta entrare in un supermercato, prendere un taxi, accompagnareifig/i a scuola, fare una' fi/a in un ufficio posta/e per capire qua/e sonoro smacco sia stato, per tutta la comunitd nucleare (in tutte le sue componenti; scientifica, tecnica, industria/e e polirica: a Est come a Ovest), l'incidente di Chernoby/. Ci vuole un bel coraggio per andare, oggi, a raccontare alla gente che Chernoby/ è un picco/o paese che ha avuto la ma/a sorte di trovarsi nell'Unione Sovietica anziché negli Stati Uniti (o in Italia); che lo sviluppo tecnologico e industria/e sovietico non ha niente a che vedere con quel/o occidentale; che le degenerazioni burocratiche e oligarchiche de/socialismo rea/e, quel/e, poi, distano anni luce dai contropoteri che vivificano le nostre societdplura/istiche e democratiche. Con che faccia andarglia dire che la centrale di Chernobyl era vecchia, sporca e insicura (eforse anche insopportabilmente maleodorante), mentre le nostre sono belle, lucide e affidabili? O che l'URSS non può contare su una solida istituzione d'emergenza come èper noi il Ministro Zamberletti? Anche se fossero inattaccabii, ma è dubbio che siano appena un po' serie, a proporre considerazioni de/genere c'è il rischio d'essere meritatamente raggiunti da un cespo vagante di lattuga: esclusa dalla dieta antiradioattiva impostaci da/Ministro Degan e ipso facto inserita nell'elenco delle armi dia/ettiche improprie del/a contestazione, antinucleare ofiloorto/ana che sia. Quanto poi al referendum sull'energia nucleare che da più parti viene invocato, e da qualcuno tempestivamente proposto, è chiaro che a farlo oggi si va sul sicuro: 99
nessun picchetto, anche sapendo/o non truccato, accetterebbe mai di raccogliere scommesse sull'esito di un referendum de/genere. Non c 'è insomma messaggio nucleare rassicurante che possa trovare oggi ascolto presso l'opinione pubblica: meno centrali nucleari uguale meno luce, caldo, conforts, benessere, sviluppo. Come potrebbe far presa l'evoluzione di un possibile futuro di stenti e miserie quando i/presente è giè così attualmente e terribilmente drammatico? Sempre su "Repubblica", qualche giorno prima Vittorio Zucconi, a proposito dell'incidente di Chernobyl, rzjortava una vecchia battuta del sovietologo Adam U/am: "Gli avversari dell'URSS hanno un grande alleato, l'URSS stessa. Basta aspettare e, puntualmente, Mosca offre loro munizioni per spararle addosso". E aggiungeva.' "Quarant'anni di 'Voice of America' non valgono propagandisticamente una foglia di quel/a insalata radioattiva che l'URSS di Gorbaciov sta servendo ne/piatto dell'Europa". Considerazioni l'una e l'altra ineccepibii. Ma le stesse cose sipossono dire anche dei sostenitori della scelta nucleare.' i migliori argomenti alla propaganda antinuc/eare li fornisce, involontariamente ma puntualmente, lo stesso sviluppo nucleare, quale che sia i/parallelo geografico ove si realizza, Reagan stesso deve essersene reso conto quando, dopo aver fatto un uso largo e chiassoso dell'incidente di Chernobyl in funzione antisovietica, ha puntualmente ritenuto di dover ammorbidire i toni della polemica, nel timore di nuocere agli interessi della lobby nucleare: americana sì, ma con una coda di paglia sovranazionale. Parecchi anni fa, all'epoca di un altro incidente nucleare che fu capace di scuotere / 'opinione pubblica mondiale (eravamo nel 1979 e la centrale era quella di Three Miles Island, in Pennsylvania), I" 'Economist" uscì con un editoriale, dal titolo di forte effetto (Viviamo tutti ad Harrisburg), che ammoniva: "quello che è accaduto ad Harrzsburg toccherè concretamente anche tutti gli altri uomini e dovrebbe toccare, su/piano morale, il modo in cui i tecnici affrontano le complesse equazioni che il passaggio a una societè nucleare necessariamente comporta". Nemmeno allora mancò, come non manca oggi, qualche tentativo tanto becero quanto vano di distinguo, del tipo: "Le nostre centrali utilizzano tecnologie diverse"; oppure, "appartengono a una generazione successiva"; o ancora, e più. apoditticamente, "certe cose a noi non possono capitare". Ma neppure allora mancò qualcuno capace di dar prova di grande equilibrio e onestè: è vero - disse per ésempio un vicedirettore della Sùreté Nucléaire francese in una intervista a "L 'Express" -, "la sequenza precisa degli eventi che ha déterminato l'incidente di Harrisburg non si può verificare nelle nostre centrali. Ma che altre sequenze conducano a risultati identici, ebbene sì, questo può accadere", Se preferisco ricordare i commenti di allora piuttosto che quel/i di oggi èper una ragione molto semplice, ma a mio avviso difondamentale importanza. La ragione è che ciò che si disse allora, dopo l'incidente di Harrisburg, non è poi così diverso da quel che si dice oggi, dopo Chernobyl. Anzi, ritornano proprio gli stessi, maledettamente inquietanti, interrogativi. E con ogni probabiitè, quando saranno noti i risultati del lavoro della commissione d'inchiesta sui fatti di Cher100
nobyl che il Presidente Gorbaciov non mancherè di costituire ritroveremo le stesse angoscianti conclusioni a cui qualche anno fa è pervenuta, per l'incidente di Harrisburg, la commissione speciale d'inchiesta nominata dal Presidente Carter: che l'organismo di controllo nucleare "è ritenuto inidoneo ad assolvere il mandato di garantire un livello accettabile di sicurezza nelle centrali'', oppure che ''nella centrale nessuno era realmente preparato ad affrontare un incidente nucleare". Viene allora da chiedersi cosa abbia potuto determinare solo in questi giorni tante conversioni di ''sostenitori convinti" della scelta nucleare e comunque su quali basi abbiano poggiato per tutti questi anni tali convinzioni. Sul fatto forse, che a Che rnobyl si sono realmente prodotti quegli effetti estremi che ad Harrisburg furono soltanto sfiorati? Andare a un passo dalla catastrofe edevitarla per pura combinazione è dunque così diverso dal trovarsi a fare i conti con la catastrofe? Non bastavano forse le conclusioni della commissione presidenziale d'inchiesta su Harrisburg per porsi quelle domande sui limiti di convenienza (in senso totale) del nucleare che solo oggi molti si pongono? Intendiamoci: ritengo che queste domande siano dipersé, più ancora che legittime, doverose. È che aporsele ora, sotto lo shock di Chernobyl, suonano come un artificio retorico per motivare un no - "convinto" anche questo? - alla scelta nucleare. Sul quale, peraltro, non troverei niente da eccepire, se non questo: che di fatto portano ad eludere - come lo eluderebbe l'annunciato referendum - il grosso e tuttora irrisolto problema del rapporto tra sviluppo tecnologico e società. Vengo così al secondo ordine di riflessioni. Non molti anni fa, il Centro Studi della Fondazione Adriano Olivetti promosse un ampio programma di ricerche sui problemi della politica energetica. Il primo rapporto pubblicato nell'ambito di questo programma (Questione nucleare e politica legislativa, 1980) affrontava la questione dello sviluppo nucleare in un 'ottica che tendeva aporre in primo piano un insieme di problemi considerati di importanza decisiva per la societd: "come governare una tecnologia mantenendone l'mpiego nell'ambito di un consapevole controllo sociale,' la difficoltè di calcolo, previsione e simulazione degli effetti delle grandi innovazioni tecnologiche sul piano della psicologia e del comportamento sociale; la questione delle scelte che impegnano in prospettiva e definitivamente le generazioni future; la difficile comunicazione tra la cultura tecnica e la cultura politica e istituzionale; l'esigenza di un approccio metodologico unitario aiproblemi della sicurezza". Con questi problemi la comunitè nucleare è stata sempre restia a cimentarsi; quando pure l'ha fatto, ne ha colto solo gli aspetti di natura strettamente tecnica. "L 'ambiente nucleare - si osservava nell'introduzione al Rapporto della Fondazione Olivetti - èpiù volte caduto, e continua pervicacemente a cadere, in quest 'errore di valutazione: segno di un limite culturale, per molti aspetti inevitabile, di una certa mentalitì specialistica poco incline a considerare come un problema reale quello delle implicazioni di carattere non tecnico che l'applicazione delle tecnologie nucleari' necessariamente comporta. La sconfitta di Chernobyl è sì, per la comunitd nucleare, prima di tutto una sconfitta cocente proprio su quel terreno della sicurezza tecnica che ha mostrato esserle ,
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tuttora l'unico cultura/mente congeniale. E non solo per quel che è accaduto a Chernobyl. L impreparazione tecnica'• a convivere col nucleare, proprio e altrui: il carattere improvvisato è occasionale del/e iniziative dei poteri pubblici; le carenze dei sistemi di rilevazione e controllo sono apparse a tutti un dato "tecnico" non meno inquietante in Italia che nell'Unione Sovietica; e in Italia, in ogni caso, non meno disastroso degli standards correnti di impreparazione tecnica in materia di tutela della salute e dell'ambiente dagli inquinamenti di tipo convenzionale. Ma la sconfitta di Chernobyl è anche la sconfitta di quanti, dentro e fuori la comunitè nucleare, si ostinano a considerare la questione della sicurezza delle centrali nei suoi termini esclusivamente tecnici. Dove l'avventura nucleare rivela oggi i segni di maggior logoramento è forse proprio qui, in questo suo svolgersi normalmente in una dimensione di assoluta estraneitè e chiusura rispetto alla societd, salvo poi coinvolgerla talvolta pesantemente, rovesciando su di essa i rovinosi risultati deipropri im mancabili errori. Non è facile immaginare quali potranno essere, nel medio-lungo periodo, le prospettive dello sviluppo nucleare. Quel che è certo è che nessuna prospettiva responsabile potrè ormai più eludere l'esigenza di dare spazio a forme appropriate dipartecip azione e controllo sociale sull'uso delle tecnologie nucleari, da intendere come momento necessario e funzionale di qualificazione del sistema di controlli tecnici. Non sarè affatto semplice passare dall'enunciazione delproblema all'individuazione in concreto di tecniche e modalitù di controllo sociale che diano, insieme, la massima garanzia di partecipazione e di efficienza. Proprio per questo è un impegno culturale e civile che va messo in agenda tra le primissime cose da fare. Vincenzo Spaziante
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Gli incentivi finanziari per l'energia: la scommessa è ancora valida? di Alberto Rocce/la
La crisi petrolifera del 1973 ha indotto profonde trasformazioni nella disciplina giuridica dell'energia. L'improvviso e fortissimo aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi, il conseguente aggravio per la bilancia dei pagamenti, l'opportunità di ridurre in assoluto i consumi energetici per il riequilibrio della bilancia stessa, la perdita di competitività del sistema industriale per il maggior costo dell'energia consumata rispetto ai paesi concorrenti dotati di maggiori risorse petrolifere e meno dipendenti dalla loro importazione, il rischio della troppo forte dipendenza dal petrolio e l'opportunità di differenziare l'uso delle risorse energetiche hanno presto mostrato l'insufficienza dei mezzi previsti dalla legislazione in vigore per governare efficacemente i problemi della nuova situazione. È cominciata cosl una nuova fase della produzione legislativa in materia di energia, caratterizzata dal ricorso a forme molto più articolate di disciplina delle attività private e di azione dei pubblici poteri e quindi anche da nuove forme di incentivazione finanziaria. In una sintetica rassegna della legislazione statale degli anni Settanta in tema di energia bisogrierà ricordare la nuova disciplina della localizzazione degli impianti elettrici termici 1 , nucleari e a turbogas 2 la nuova disciplina degli impianti di cogenerazione di elettricità e vapore3 le norme per il contenimento dei consumi energetici per usi termici4 le disposizioni per l'eserqzio degli impianti di riscaldamento 5 In questa legislazione si ritrova la disciplina di speciali procedimenti amministrativi volti a sottrarre l'uso del territorio per impianti elettrici ai normali procedimenti di pianificazione urbanistica; si ritrova inoltre la disciplina auto,
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ritatativa dell'attività di soggetti privati, con l'attribuzione di facoltà e l'imposizione di obblighi, ma senza ancora alcuna manovra sulla spesa pubblica a sostegno di attività economiche private per il conseguimento di obiettivi ritenuti rilevanti e di pubblico interesse per la politica dell'energia. Nel settore dell'energia il ricorso all'incentivazione finanziaria come strumento di azione amministrativa ha avuto diffusione solo in tempi recenti. L' incentivazione finanziaria caratterizza invece due leggi di quel periodo per il bacino carbonifero del Sulcis in Sardegna 6 . Si deve però osservare che si tratta dileggi di carattere singolare che riguardano un'unica zona mineraria di tutto il territorio della Repubblica; alla loro origine inoltre sta non soltanto l'interesse allo sfruttamento del carbone come risorsa energetica, quanto piuttosto l'interesse alla tutela dell'occupazione7 . I finanziamenti disposti da tali leggi, infine, hanno istituito un rapporto diretto dello Stato prima con I'EGAM e poi con gli enti energetici nazionali (L'ENEL innanzi tutto, ma anche l'ENI e l'ENEA), con esclusione di qualsiasi ruolo della Regione Sardegna. Solo nella seconda metà del decorso decennio il ricorso generalizzato all' incentivazione finanziaria in relazione ai problemi energetici è stato previsto dalla legge 12 agosto 1977, n. 675, recante "Provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la riconversione e lo sviluppo del settore''. La legge 675 in particolare ha affidato al ciii il compito di determinare gli indirizzi della politica industriale i quali dovevano essere diretti, fra l'altro, anche ''ad attuare una politica organica di approvvigionamento e di razionale utilizza103
zione di materie prime minerarie ed energetiche'' e ''ad indirizzare le scelte degli imprenditori verso sistemi e settori produttivi a basso tasso di consumo energetico'' (art. 2, primo comma). Gli indirizzi di politica industriale determinati dal cipi costituiscono poi il quadro di riferimento (ulteriormente specificato da vari altri tipi di atti di programmazione) per la concessione di agevolazioni finanziarie, definite datl'art. 4 della stessa legge, alle imprese che realizzino progetti di ristrutturazione e di riconversione. Nella legge 675 si ritrova dunque un nesso preciso tra i problemi energetici e l'uso degli incentivi finanziari. Tale flesso è stato immediatamente colto dal piano energetico nazionale del 19778, anche se in modo riduttivo; il PEN ha infatti menzionato la legge 675 unicamente in riferimento alle iniziative di ricerca e di sviluppo e di integrazione di forme di impiego dell'energia solare, a favore delle quali - si legge nel Piano, al par. 1.3. - "dovranno essere utilizzati tutti i possibili strumenti di incentivazione pubblica ed in particolare gli articoli 3, 10 e 11 della legge 12 agosto 1977, n. 675".
Bisogna in ogni caso osservare, con più diretto riferimento al tema degli interventi delle regioni in materia di energia, che la legge 675 era fondata soltanto su atti dell'amministrazione statale (cipi, Ministero del lavoro, Ministero dell'industria), con esclusione di qualsiasi competenza delle regioni. Inoltre gli indirizzi di politica industriale dovevano perseguire numerose altre finalità in aggiunta a quelle energetiche dianzi ricordate, in quanto la legge voleva costituire uno strumento globale di governo delle trasformazioni del settore industriale, non certo uno strumento specifico e settoriale di governo dei problemi energetici. In quel periodo l'incentivazione finanziaria come strumento diretto di azione pubblica per il risparmio energetico compare solo nella legge 29 febbraio 1980, n. 57, la quale ha disposto, limitatamente all'esercizio finanziario 19809 l'erogazione da parte del Ministero della marina mercantile di un contributo straordinario ,
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sulle spese di gestione delle navi adibite alla pesca professionale marittima, condizionandolo al limite massimo di 340 ore ovvero 22 giorni mensili di attività di pesca al fine di realizzare il necessario riposo biologico delle risorse ittiche, di ridurre il consumo di carburante e contribuire al risparmio delle risorse energetiche. Si tratta, come risulta evidente, di un intervento avulso da un quadro organico di incentivi finanziari nel settore energetico, limitato quanto al tempo a un solo anno e quanto al campo d'applicazione a un solo tipo di attività comportante consumi energetici. La finalità del risparmio energetico inoltre è solo una - e forse neanche la più sincera e significativa - delle giustificazioni dell'intervento, che appare piuttosto come una sorta di cassa integrazione, ovviamente del tutto particolare, per lo specifico settore della pesca marittima, cui è stata aggiunta in modo posticcio anche la motivazione del risparmio energetico. L'incentivazione finanziaria veniva infine prospettata, con modalità particolari, anche dalle direttive alle Regioni a statuto ordinario per l'esercizio delle funzioni delegate in materia di distribuzione di carburanti; nelle direttive era infatti prevista l'istituzione di un fondo, alimentato dalle imprese petrolifere, per la corresponsione di indennità ai soggetti ai quali vengano revocate le concessioni per impianti di distribuzione automatica di carburanti' ° . Le imprese petrolifere tuttavia non si sono accordate per la spontanea costituzione del fondo, né ha avuto seguito l'impegno previsto dalle direttive a carico del Ministro dell'industria di predisporre un disegno di legge per l'istituzione del fondo medesimo. Bisogna piuttosto rammentare, sempre con riferimento all'ultimo decennio, che la legislazione regionale ha fatto ricorso all'incentivazione finanziaria nel settore dell'energia. La seconda legislatura regionale è stata infatti contrassegnata da alcune iniziative legislative regionali volte ad affrontare l'emergenza energetica", prevalentemente appunto mediante lo strumento delle sovvenzioni. Nella consapevolezza dell'incerto fondamento costituzionale della propria azione in materia
(l'energia non è compresa dall'art. 117 della Costituzione nell'elenco di materie di competenza regionale, né esisteva ancora una legge statale che desse altrimenti fondamento e legittimazione all'intervento regionale), le regioni hanno rinunziato a strumenti autoritativi di controllo e di direzione delle attività private e hanno puntato invece essenzialmente sulla incentivazione del ricorso a fonti di energia alternative in agricoltura e nell'edilizia, sia mediante la riduzione dell'onerosità della concessione edilizia sia mediante l'erogazione di contributi a carico del bilancio regionale. Il governo, del resto, in sede di controllo delle leggi regionali, pur ribadendo la competenza statale in materia di energia, non si opponeva agli incentivi finanziari regionali a sostegno delle iniziative dei privati per il ricorso a fonti di energia alternativa a quella elettrica.
GLI SVILUPPI PILTJ RECENTI
Nel decennio in corso, gli strumenti di incentivazione finanziaria nel settore energetico si sono arricchiti con il ''Fondo speciale per la ricerca applicata" e il ''Fondo speciale rotativo per l'innovazione tecnologica" (legge 17 febbraio 1982, n. 46), rispettivamente di competenza del Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica e del Ministro dell'industria. Questi incentivi, benché non esplicitamente e direttamente rivolti ad obiettivi energetici, possono tuttavia consentire alle imprese industriali ammesse a beneficiarne di sviluppare e rinnovare i propri impianti conseguendo anche significativi risultati sul piano energetico, sia per il recupero di calore di processo che per i risparmi di energia ottenibili mediante la sostituzione di macchinari obsoleti con moderni macchinari a basso consumo energetico. In secondo luogo bisogna menzionare la legge 6 ottobre 1982, n. 752, recante ''Norme per l'attuazione della politica mineraria''' 2 che, facendo seguito a una specifica indicazione del piano energetico nazionale' 3 , ha inteso svilup-
pare una politica organica di approvvigionamento e di razionale utilizzazione delle materie prime minerarie. A tal fine la legge ha previsto (art. 12) l'erogazione di finanziamenti a tasso agevolato ai titolari di concessioni di coltivazione mineraria per programmi di investimenti relativi alla coltivazione, preparazione e valorizzazione delle sostanze minerali. L'introduzione di uno strumento di incentivazione finanziaria nel settore minerario non è tuttavia significativa per il ruolo delle regioni in campo energetico. Da un lato infatti la legge 752 ha espressamente escluso dal proprio campo di applicazione le più importanti risorse energetiche, e cioè gli idrocarburi liquidi e gassosi. D'altro lato la legge si è attenuta al riparto delle funzioni operato dal DPR 24 luglio 1977, n. 616, che non prevede un intervento delle regioni in materia mineraria. La legge pertanto ha affidato le nuove funzioni da essa istituite, ivi comprese quelle relative all' incentivazione finanziaria, ad organi dello Stato (CIPE e Ministero dell'industria). Il ruolo delle regioni è invece del tutto marginale: le regioni a statuto speciale, competenti in materia mineraria, sono chiamate a esprimere un'intesa col Ministro dell'industria per la concessione di contributi in conto interessi per interventi che ricadono nei loro territori (art. 15, quinto comma). Tutte le regioni, sia ordinarie che speciali, esprimon6 inoltre un parere sull'eventuale mantenimento in fase produttiva per non oltre cinque anni di miniere la cui coltivazione dia luogo a perdite di gestione ripianabili a carico dello Stato (art. 15, secondo comma). Si può poi ricordare anche l'istituzione del ''Fondo investimenti e occupazione'' (Flo)' 4 che non è un vero e proprio strumento di incentivazione di attività di privati, ma una nuova forma di finanziamento di opere di competenza di pubbliche amministrazioni. Il FIO inoltre non è diretto in modo principale ed esclusivo a fronteggiare i problemi energetici. Ai fini dell'ammissione dei progetti al finanziamento sulle disponibilità del FIO è stata tuttavia prevista la valutazione di elementi tali da attribuire rilievo anche al profilo energetico", cosicché il FIO in taluni casi è stato '
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utilizzato per il finanziamento di opere di specifico interesse energetico 16 Un vero e proprio sistema di incentivazione finanziaria direttamente rivolto a fini energetici è stato istituito solo con la legge 29 maggio 1982, n. 308', le cui finalità sono indicate all'an. i con la formula secondo cui la legge ''favorisce e incentiva, anche in armonia con la politica energetica della Comunità economica europea, il contenimento dei consumi di energia e l'utilizzazione delle fonti di energia rinnovabili anche attraverso il coordinamento tra le fasi di ricerca applicata, di sviluppo dimostrativo e di produzione industriale". La legge 308 ha quindi posto una serie di disposizioni volte al conseguimento delle finalità indicate dall'art. 1, dando largo rilievo all'incentivazione finanziaria (cui è dedicato l'intero capo Il) e definendo il ruolo dello Stato e delle Regioni a statuto ordinario nella politica degli incentivi nel settore energetico. Pur senza dimenticare gli interventi disposti da altre leggi e già ricordati, sembra dunque corretto affermare che la politica dell'incentivazione finanziaria per l'energia risulta oggi fondata essenzialmente (anche se appunto non esclusivamente) sulla legge 308, la quale costituisce altresì la fonte di legittimazione degli interventi delle regioni. Senza dubbio la legge 308 è rilevante non solo sotto il profilo giuridico-istituzionale, ma altresì sotto l'aspetto economico per la quantità di risorse destinate all'incentivazione. La legge ha infatti autorizzato nel triennio 1981-1983 una spesa di 1.588 miliardi, che è stata ritenuta suscettibile di indurre investimenti per un volume complessivo attorno ai 5.300 miliardi di lire 18 .
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È tuttavia opponuno sottolineare la limitata incidenza della spesa per l'incentivazione finanziaria disposta dalla legge 308 sul complesso della spesa pubblica per l'energia. Basterà a questo fine ricordare l'importo dei conferimenti statali: ai fondi di dotazione degli enti energetici nazionali: all'ENEA per il quinquennio 1980-1984 è stato attribuito un contributo di 2.890 miliardi 19 , mentre all'ENEL nel periodo 1980-1985 sono stati attribuiti 8.630 106
miliardi20 . Per quanto concerne l'EN!, infine, non è possibile quantificare in modo preciso l'apporto del finanziamento statale per l'energia, in quanto l'ente opera anche in altri settori ed i conferimenti statali al fondo di dotazione non risultano specificamente destinati alle spese per le attività energetiche. Non c'è dubbio tuttavia che i conferirnenti statali al fondo di dotazione dell'EN!, ammontanti complessivamente a 3.086 miliardi nel periodo 198219852!, abbiano giovato comunque, almeno indirettamente, anche al settore energetico, consentendo all'ente di riequilibrare il proprio bilancio complessivo e di liberare per il settore energetico risorse proprie. Gli apporti ai fondi di dotazione sopra menzionati certo costituiscono grandezze non omogenee e quindi non sono immediatamente comparabili né fra di loro né con quelli della legge 308, dato il diverso arco temporale di riferimento e il diverso valore della moneta in ciascuno degli anni cui i conferimenti si riferiscono. Sembra tuttavia difficile poter vincere la prima impressione che la spesa per l'incentivazione finanziaria, benché non irrilevante in cifra assoluta, costituisca una parte assai marginale della spesa statale per l'energia, la cui quota più consistente passa invece attraverso gli enti energetici nazionali, sfuggendo quindi del tutto a qualsiasi intervento o coinvolgimento delle Regioni. Si deve inoltre aggiungere che la spesa statale per l'energia non è limitata ai conferimenti, ai fondi di dotazione degli enti energetici, ma si estende anche alle spese per la metanizzazione del Mezzogiorno 22 , ai rimborsi all'ENEL, per il maggior onere termico non soddisfatto dalla Cassa conguaglio per il settore elettrico 23 , ai rimborsi all'ENI per la costituzione e la gestione di una scorta strategica di petrolio greggio e di prodotti petroliferi 24 , ai rimborsi all'EN! per l'acquisto del metano algerino 2 '. Né infine possono dimenticarsi le dimensioni degli investimenti effettuati dall'ENEL oltre che con il fondo di dotazione anche con mezzi da esso autonomamente reperiti. Già il PEN del 1981 sottolineava che gli investimenti dell'EL coprivano il 13,5% di tutti gli inve-
stimenti industriali del paese e il 50% degli investimenti degli enti pubblici e delle società a partecipazione statale. Più di recente la Relazione previsionale e programmatica per il 1986 ha stimato in 5.762 miliardi la spesa dell'ENEL per investimenti nell'anno 1985 e ha addebitato esclusivamente a cause indipendenti dalla volontà dell'ENEL il mancato raggiungimento della previsione, contenuta nella Relazione precedente, di un volume di investimenti pari a 6.855 miliardi26 Queste considerazioni non possono che ridurre ulteriormente il peso relativo delle misure di incentivazione finanziaria disposte dalla legge 308 nel sistema della spesa del settore pubblico per l'energia. L' incentivazione finanziaria per il risparmio energetico e per lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili si segnala dunque per i suoi caratteri di novità nella legislazione sull'energia; sembra tuttavia difficile sostenere che essa abbia assunto un ruolo centrale per il governo dell'energia. .
LA LEGGE 308
La legge 308 ha adottato una soluzione articolata in ordine al ruolo delle regioni nella politica di incentivazione finanziaria del risparmio energetico da essa disciplinata. La legge innanzitutto ha escluso una competenza propria delle regioni e ha quindi organizzato il sistema dell'incentivazione in una cornice di carattere complessivamente centralistico. La legge ha infatti disciplinato direttamente le iniziative ammissibili a finanziamento pubblico, ha determinato il tipo di finanziamento (in conto capitale o in conto interessi), ne ha stabilito la misura (in percentuale fissa o massima sulla spesa e in taluni casi con un limite di importo), ha affidato al CIPE il compito di emanare una serie di direttive per l'attuazione della legge e di determinare il riparto dei fondi disponibili. Questa cornice centralistica lascia tuttavia spazio al proprio interno per soluzioni differenziate: l'erogazione di alcuni tipi di incentivi è sta-
ta infatti riservata alla competenza degli organi dello Stato, mentre per altri tipi di incentivi la 308 ha disposto una delega di funzioni amministrative alle regioni, alle quali spetta determinare, nell'ambito delle direttive del CIPE, le modalità di presentazione delle domande ed i criteri di priorità per la concessione dei contributi, definiti in base alla quantità di energia primaria risparmiata per unità di capitale investito nell' intervento. Seguendo lo schema generale dell'art. 7 del DPR n. 61611977, la legge ha poi accompagnato alla delega di funzioni amministrative anche l'attribuzione (art. 15, primo comma) di una potestà legislativa di attuazione ai sensi dell'art. 117, ultimo comma della Costituzione 2 Approfondendo l'esame della 308, risultano riservati all'amministrazione statale cinque diversi tipi di incentivi finanziari e precisamente: contributi a fondo perduto per studi di fartibilità tecnico-economica o per progetti esecutivi di impianti civili, industriali o misti di produzione, recupero, trasporto e distribuzione del calore derivante dalla cogenerazione o dall'utilizzo di energie rinnovabili (art. 10, primo comma); contributi in conto capitale per la costruzione o lo sviluppo degli impianti i cui studi di fattibilità sono ammissibili a contribuzione (art. 10, terzo comma); contributi in conto capitale per impianti dimostrativi per l'utilizzazione delle fonti energetiche alternative, anche nel settore agricolo, ovvero per prototipi di prodotti o dispositivi a basso consumo energetico specifico ovvero ancora per prodotti in grado di utilizzare convenientemente fonti energetiche rinnovabili o riduttive dei consumi di elettricità (art. 11); contributi in conto capitale alle aziende municipalizzate dei comuni con popolazione superiore ai 300.000 abitanti per l'acquisto di veicoli ad uso urbano con trazione elettrica a batteria o con trazione mista elettrica e tradizionale (art. 13); contributi in conto capitale per la riattivazione, la costruzione e il potenziamento di impianti idroelettrici che utilizzino concessioni di .
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piccole derivazioni di acque pubbliche (art. 14).
Sono invece delegate alle regioni le funzioni relative ai tre tipi di rimanenti di incentivi e cioè: contributi in conto capitale a sostegno dell'utilizzo delle fonti rinnovabili nell 'edilizia (art. 6); contributi per il contenimento dei consumi energetici nei settori agricolo e industriale (art. 8);
incentivi (sotto forma di contributi sia in conto capitale che nel pagamento degli interessi sui mutui) alla produzione di energia termica, elettrica e meccanica da fonti rinnovabili nel settore agricolo (art. 12). Dal punto di vista strettamente finanziario sembra indubbio che alle regioni sia rimessa la parte più significativa e consistente dell'attuazione della politica di incentivazione finanziaria del risparmio energetico. All'amministrazione statale risulta infatti affidata la gestione di circa i / 3 dello stanziamento complessivo disposto dalla legge 308, ed esattamente di 554 miliardi, mentre alle regioni risulta affidata la gestione dei restanti 2/3, e cioè dii .034 miliardi28 L'individuazione di un criterio per la delega alle regioni risulta però tutt'altro che facile. Il contenimento dei consumi energetici e lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili nel settore agricolo possono collegarsi alla competenza regionale in materia di agricoltura; ma il contenimento dei consumi in edilizia e nel settore industriale non si collega né a competenze costituzionalmente di spettanza regionale né a un preciso disegno di sviluppo del ruolo delle regioni. Appare poi criticabile la riserva allo Stato delle funzioni relative ai contributi per la riattivazione e per la costruzione di impianti idroelettrici che utilizzino concessioni di piccole derivazioni di acque pubbliche. Sarebbe infatti sembrato logico delegare l'erogazione di tali contributi alle regioni in modo da consentire loro un esercizio organico 29 delle funzioni relative alle piccole derivazioni di acque pubbliche, spettanti alle regioni a titolo di delega già in base all'art. 13, secondo comma, lett. d), del DPR 15 gen.
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naio 1972, n. 8. Né poteva opporsi a questa soluzione la riserva a favore dell'ENEL delle attività di produzione di energia elettrica: la stessa legge 308 ha infatti elevato fino a 3.000 kw il limite di potenza degli impianti non soggetti a riserva, facendolo così cincidere con il limite che vale a discriminare le piccole dalle grandi derivazioni di acque pubbliche°. Si può quindi ritenere che la delega disposta dalla legge 308, in mancanza di un chiaro disegno ordinatore, non abbia avuto altre motivazioni se non quelle generiche di rendere le regioni partecipi della nuova azione intrapresa dallo Stato, di dare una risposta politica alle regioni in relazione alle iniziative che esse già in precedenza avevano assunto e al contempo di definire in modo preciso per il futuro i limiti dei loro interventi. A favore della delega avrà forse militato infine anche la considerazione che le regioni hanno dimensioni territoriali adeguate per lo svolgimento delle funzioni di incentivazione disciplinate dalla legge e che la delega comporta lo sgravio degli organi dell'amministrazione statale dai compiti di amministrazione puntuale. Il ruolo delle regioni nella politica di incentivazione finanziaria nel settore energetico risulta a questo punto sufficientemente delineato: si tratta di un ruolo di tipo prettamente amministrativo e certo non politico. I fini delle azioni di incentivazione finanziaria sono infatti stabiliti dalla legge dello Stato, che determina anche i mezzi e le modalità per il loro conseguimento o ne affida la determinazione al CIPE. La potestà legislativa riconosciuta alle regioni è una semplice potestà di attuazione, vincolata non solo alla legge ma altresì al rispettcì delle direttive impartite dal CIPE. Coerentemente con la natura delegata delle funzioni attribuite alle regioni, al finanziamento delle funzioni stesse si provvede con uno speciale stanziamento statale, in modo distinto dalla provvista dei mezzi per l'esercizio delle funzioni regionali proprie; infine le somme attribuite alle regioni, nel caso in cui non siano impegnate nell'esercizio successivo a quello di competenza, riaffluiscono al bilancio dello Stato, mediante iscrizione in apposito capitolo dello sta-
to di previsione del Ministero dell'industria sotto il titolo "Fondo nazionale per il risparmio e le energie rinnovabili' ''. La legge 308 ha in definitiva escluso un ruolo di vera autonomia normativa e finanziaria delle regioni nel settore dell'energia. Le regioni sono chiamate soltanto a gestire la messa in atto degli strumenti di incentivazione determinati dalla legge statale"; esse infine possono concorrere insieme ai comuni e alle imprese nell' assegnazione dei contributi di competenza del Ministero dell'industria per gli impianti di produzione combinata di energia e di calore, assumendo in tal modo il ruolo non di soggetti di pubblica amministrazione, bensì di operatori le cui iniziative possono essere ammesse a beneficiare del finanziamento pubblico.
pianti pilota che possano configurarsi o assimilarsi a fonte rinnovabile di energia 36 . Similmente la Lombardia ha previsto per il progetto integrato nel territorio sud-orientale della Regione la realizzazione di impianti di depurazione delle deiezioni animali integrati con strutture per la produzione e l'utilizzazione dei biogas37 Questo tipo di disposizioni non crea insormontabili problemi sistematici: gli interventi disciplinati dalle leggi regionali rimangono sempre nella sfera di competenza per materia delle regioni e la valutazione degli interessi energetici rimane una modalità di esercizio di funzioni regionali, senza arrivare a determinare un vero e proprio mutamento di materia, con corrispondente sottrazione degli interventi alla competenza regionale 38 È tuttavia difficile immaginare che in questo modo le regioni possano assumere un ruolo realmente significativo, dato che l'interesse energetico rimane un interesse secondario e non quello primario ed esclusivo come negli interventi disciplinati dalla legge 308. Neanche sembra possibile ipotizzare uno sviluppo del ruolo delle regioni mediante incentivi posti al di fuori della cornice istituita dalla 308. A tal fine dovrebbe riconoscersi alle regioni un'autonomia in tema di energia più ampia di quella fissata dalla 308, con una ricostruzione dei poteri regionali che, per quanto argomentata, sembra scontrarsi con lo spirito e con la lettera della stessa legge. Non sembra poi possibile superare l'ostacolo del difetto di competenza per materia affermando una generale capacità di spesa delle regioni, anche al di fuori delle materie su cui si esercita la loro potestà legislativa. Questa tesi, pur affacciata in dottrina 40 , è stata sempre smentita dalla giurisprudenza della Corte costituzionale 4 ' e mai confortata da una espressa disposizione di legge statale, cosicché spese regionali fuori materie di competenza sono possibili solo in quanto di fatto il Governo non si opponga alle leggi regionali che di volta in volta le prevedano. Ma, pur superata ogni obiezione sulla legittimità di interventi regionali per il risparmio .
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QUALE RUOLO PER LE REGIONI?
Nella produzione legislativa regionale successiva alla legge 308 si possono in.dividuare alcune leggi che, proseguendo un indirizzo già riscontrato nella legislazione del periodo precedente 33 , hanno introdotto la valutazione del parametro energetico ai fini dell'esercizio di funzioni amministrative rientranti nelle materie di competenza delle regioni 34 È possibile poi rilevare anche uno sviluppo di questo indirizzo. In altre leggi regionali infatti il riferimento al contenimento dei consumi energetici e alla promozione delle fonti di energia rinnovabili non è più limitato alla semplice priorità per la concessione di benefici, ma diventa criterio obiettivo e inderogabile per lo svolgimento delle attività disciplinate dalle leggi stesse, in consonanza con quanto previsto in almeno un caso anche dalla legislazione statale". La Regione Lazio, ad esempio, ha stabilito in modo perentorio che gli impianti centralizzati di depurazione dei reflui agricoli "debbono essere basati su processi tecnologici che prevedano il recupero e la valorizzazione dei sottoprodotti trattati, anche sotto l'aspetto energetico'' e ha previsto finanziamenti particolari per im.
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energetico distinti da quelli della legge 308, si osserva che il quadro generale della finanza regionale non esalta certo la capacità di 4pesa delle Regioni, che presumibilmente non potranno destinare all'incentivazione finanziaria nel settore energetico quote del loro bilancio tali da consentire un'azione particolarmente incisiva. Non si può dimenticare infine che la 308 ha dato una disciplina tendenzialmente esaustiva dell'incentivazione finanziaria nel settore energetico, togliendo così spazio alle regioni per iniziative autonome, che di fatto sono risultate finora del tutto marginali e trascurabili 42 .
Il ruolo delle regioni nell'incentivazione finanziria nel settore energetico rimane dunque legato essenzialmente all'attuazione della legge 308 e si svolge entro margini angusti di autonomia legislativa. È pur vero che il governo in taluni casi ha approfittato della cedevolezza propria del controllo sulle leggi regionali per dar corso ad alcune modificazioni della normativa statale che lo hanno trovato politicamente consenziente. Ma, per contro, sono numerosi i casi in cui il governo si è puntigliosamente opposto a tentativi delle regioni di introdurre, sfruttando la potestà legislastiva di attuazione loro riconosciuta, lievi modifiche e variazioni alla disciplina dell'incentivazione finanziaria stabilita dalla 308.
Pur senza un'analisi sistematica e completa dei rinvii si osserva che il governo ha rilevato il contrasto con la legge 308 o con le direttive del ciPE (e ha quindi disposto il rinvio delle leggi regionali) per una serie di casi quali: la mancata previsione della concessione di contributi per l'installazione di generatori di calore ad alto rendimento negli edifici di nuova costruzione; la sottoposizione degli impianti di riscaldamento anche degli edifici pubblici (e non solo di quelli privati) a condizione di potenza termica superiore a 100.000 k/cal al fine della concessione dei contributi per l'installazione di sistemi di controllo integrato; l'erogazione in tre rate (invece che in due) dei contributi in conto capitale per il conteni110
mento dei consumi e l'utilizzo delle fonti rinnovabili in edilizia43 la concessione di contributi nel settore agricolo e industriale per il risparmio anche di combustibili fossili, invece che soltanto di idrocarburi e di energia elettrica 44 la concessione di contributi in conto interessi per mutui anche quindicennali, invece che soltanto ventennali, con riferimento all'incentivazione della produzione di energia da fonti rinnovabili nel settore agricolo 45 La posizione di principio del governo è chiaramente enunciata nel provvedimento di rinvio di una legge regionale (dell'Abruzzo) che prevedeva la predisposizione di un piano energetico e le relative attività tese allo sviluppo del sistema energetico regionale, nonché la promozione di fonti energetiche alternative e rinnovabili. Tali interventi, secondo la motivazione del rinvio, "superano la competenza regionale e invadono i settori riservati allo Stato, essendo la competenza regionale in materia di risorse energetiche limitata alla predisposizione della normativa di attuazione ai sensi dell'ultimo comma dell'an. 117 della Costituzione, così come precisa anche l'art. 15, primo comma, della legge n. 308 del 1982 che legittima l'attribuzione della funzione legislativa stessa' '. L'orientamento così espresso dal governo non lascia dunque molto spazio per iniziative regionali in tema di incentivazione finanziaria nel settore energetico che fuoriescano dai limiti segnati dalla legge 308. Residua certo alle regioni la valutazione degli interessi energetici come interessi secondari nell'ambito delle materie di loro competenza. Non è tuttavia plausibile che per questa strada le regioni possano assumere un ruolo di governo dell'energia e neanche dell'incentivazione finanziaria nel settore energetico; le regioni potranno soltanto assecondare e integrare la politica statale, con un ruolo ausiliario di quello fondamentale loro riconosciuto dalla legge ;
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308.
METANIZZAZIONE E POTERI LOCALI
Illimitato ruolo delle regioni nell'incentivazio-
ne finanziaria nel settore energetico trova un riscontro anche nella recente legislazione sulla diffusione della rete dei metanodotti. Ci si allontana così dal tema dell'incentivazione finanziaria: la metanizzazione infatti non comporta erogazioni pecuniarie a privati, ma soltanto la realizzazione di opere di pubblico interesse a cura esclusivamente di amministrazioni pubbliche. Non si ha quindi in realtà incentivazione finanziaria, ma solo disciplina delle forme di provvista alle amministrazioni pubbliche dei mezzi finanziari per la realizzazione delle opere. Il confronto tuttavia condurrà, pur fra tante differenze, a un risultato che presenta qualche analogia con quello già acquisito per l'incentivazione finanziaria al risparmio energetico e allo sviluppo delle fonti rinnovabili. In ordine alla diffusione dei metanodotti si ricorderà che la programmazione energetica nazionale, nel quadro generale di una politica volta alla differenziazione dell'uso delle risorse energetiche e all'ampliamento del ventaglio dei fornitori cui il paese si rivolge, ha avviato un piano per la metanizzazione del Mezzogiorno47 Il fondamento normativo del piano è costituito dall'an. 11 della legge 28 novembre 1980, n. 78448 il quale ha demandato al CIPE l'approvazione della prima fase e poi del programma generale di metanizzazione del Mezzogiorno e ha disciplinato le forme del finanziamento pubblico per la realizzazione, trasformazione e ampliamento delle reti di distribuzione urbana del metano. La legge 784 ha autorizzato, a carico del bilancio dello Stato, la spesa complessiva di 605 miliardi per la concessione da parte del Ministro del tesoro di contributi ai comuni e ai loro consorzi per la realizzazione delle reti di distribuzione urbana del metano, nonché per la concessione all'ENi di contributi in conto capitale per la realizzazione di adduttori secondari aventi caratteristiche di infrastrutture pubbliche e che rivestono particolare imponanza ai fini dell'attuazione del programma generale della metanizzazione del Mezzogiorno. Ad un'analisi più dettagliata il sistema di fi.
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nanziamento dei comuni e dei loro consorzi risulta articolato su quattro modalità diverse e concorrenti. In primo luogo viene fatto affidamento sui contributi del Fondo europeo di sviluppo regionale; ai comuni può poi essere concesso un contributo in conto capitale, con un minimo del dieci per cento e fino a un massimo del trenta per cento della spesa preventivata; in terzo luogo può essere concesso un contributo sugli interessi per l'assunzione di mutui ventennali al tasso del tre per cento, per un ulteriore ammontare dal dieci al trenta per cento della spesa; per la parte residua di spesa, ove essa non possa essere coperta con provvidenze disposte da altre leggi statali o regionali o con interventi comunitari, è prevista la concessione di mutui da parte della Cassa Depositi e Prestiti secondo modalità determinate dal CIPE. Tutte le provvidenze finanziarie previste dalla legge sono concesse con decreto del Ministro del tesoro, previa istruttoria tecnica della Cassa per il Mezzogiorno, e nessuna funzione è specificamente affidata alle regioni interessate. L'unica, modestissima, forma di loro coinvolgimento nel programma di metanizzazione è costituita dai pareri del comitato dei rappresentanti delle regioni meridionali sulla prima fase e sul programma generale di metanizzazione, nonché sulla determinazione dei criteri e delle modalità per la concessione ai Comuni dei contributi sugli interessi dei mutui 49 Il programma di metanizzazione risulta dunque fondato sul rapporto diretto tra organi dell'amministrazione centrale dello Stato (CIPE, Ministro dell'industria, Ministro del tesoro), suoi apparati serventi (Cassa per il Mezzogiorno, Cassa Depositi e Prestiti) e comuni e loro consorzi, con esclusione di un ruolo significativo delle Regioni. Al riguardo può prospettarsi una lesione dell'autonomia regionale. Se è vero infatti che l'art. 88, n. 4, del DPR n. 616/1977 riserva allo Stato le funzioni amministrative concernenti le opere relative al trasporto, anche a mezzo di condotta, di risorse energetiche, ci si può tuttavia chiedere se le reti di distribuzione urbana del metano possano propriamente rientrare nella suddetta categoria di opere o se esse non .
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rientrino piuttosto nella categoria delle ''opere pubbliche di qualsiasi natura che si eseguono nel territorio di una Regione'', e non siano quindi di competenza regionale. Inoltre, solo sulla base di questa ricostruzione è possibile riconoscere la legittimità costituzionale di quelle leggi regionali che, ancor prima della legge 784/1980, hanno disposto la realizzazione di metanodotti a cura della regione o mediante l'erogazione di contributi agli enti locali' 0 In ogni caso le regioni avrebbero potuto essere coinvolte nei circuiti istituzionali per la metanizzazione del Mezzogiorno quanto meno a titolo di delega di funzioni. La loro esclusione appare invece dovuta al fatto che la metanizzazione del Mezzogiorno è stata attratta nella competenza statale in quanto ritenuta di interesse nazionale e quindi fatta oggetto di una programmazione statale con conseguente degradazione delle potestà regionali 51 La compressione del ruolo delle regioni risulta dunque ancora maggiore che nel caso dell'incentivazione finanziaria per il risparmio energetico e lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili, cui le regioni sono state chiamate a partecipare attraverso la delega di funzioni disposta dalla legge 30811982. È tuttavia interessante notare che la legge 784/1980 non ha impedito alle regioni l'assunzione di un ruolo sussidiario e integrativo di quello dello Stato per la diffusione dei metanodotti, mediante nuove leggi di finanziamento a favore degli enti locali per la realizzazione di questo tipo di opere 52 Lo Stato dunque si è riservato il ruolo principale di governo della metanizzazione, lasciando tuttavia alle regioni la facoltà di concorrere in posizione ausiliaria alla diffusione dei metanodotti non ricompresi nel programma di interesse statale. .
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UNA SCOMMESSA PERDUTA?
Dopo aver sin qui esaminato la legislazione statale, occorre adesso volgere l'attenzione alle leggi e ai regolamenti regionali di attuazione della legge 30811982, dei quali è stata già fatta 112
un'ampia rassegna 53 i cui risultati devono intendersi qui integralmente accolti. Gli atti normativi regionali risultano abbastanza simili tra loro, com'è naturale tenendo conto che la potestà legislativa regionale è soltanto di attuazione - e quindi limitata quanto alla sua intensità - e che le regioni si sono coordinate attraverso un gruppo interregionale di lavoro. Le leggi regionali hanno per lo più riprodotto, per la parte di competenza regionale, il contenuto della legge 308 e delle direttive del CIPE, ma hanno anche tentato di introdurre alcuni correttivi alle disposizioni della legge statale. Per quanto concerne l'incentivazione al risparmio e alle fonti rinnovabili nell'edilizia si registra il tentativo di superare il vincolo (posto dall'art. 6, terzo comma, della legge 308) del limite massimo di importo di 15 milioni per ciascun contributo in conto capitale. In effetti questo limite di importo appare pensato per favorire una miriade di interventi di limitata portata, mentre è del tutto incongruo per incentivare consistenti risparmi energetici mediante interventi coordinati su grandi immobili. La legge in tal modo sembra avere come suoi ideali destinatari i privati proprietari di piccole unità abitative indipendenti, mentre esclude di fatto i grandi proprietari, ivi comprese le amministrazioni pubbliche per i loro immobili di edilizia residenziale e per quelli destinati a scuole o altri servizi pubblici. È questo un primo serio motivo di critica nei confronti dell'art. 6 della 308. Pur senza mettere in discussione che dopo la crisi del 1973 il risparmio energetico abbia assunto il carattere di un interesse pubblico meritevole di essere perseguito anche con l'erogazione di pubblico denaro, bisogna però osservare che il risparmio stesso comporta al contempo un consistente beneficio per il soggetto che lo realizza. La legge statale avrebbe potuto quindi destinare esclusivamente al settore pubblico i fondi disponibili all'incentivazione del risparmio energetico in edilizia, oppure avrebbe potuto stabilire, direttamente o indirettamente, una priorità delle amministrazioni pubbliche nell'ammissione all' incentivazione.
La legge invece non ha distinto tra categorie diverse di destinatari dei contributi' 4 , ma solo tra tipi diversi di operazioni ammissibili a contribuzione e ha ammesso agli incentivi persino spese di un tipo che alcuni privati dovrebbero comunque sostenere (quelle per l'installazione dei generatori di calore negli edifici di nuova costruzione). Inoltre il limite di importo dei contributi, fissato in 15 milioni, di fatto esclude le amministrazioni pubbliche, per i cui interventi il contributo risulta scarsamente significativo e quindi privo della sua forza incentivante, così agevolando per contro i privati. Se poi si tiene conto che, come più oltre si vedrà dall'analisi di un caso, i risparmi energetici ottenibili in edilizia mediante i contributi pubblici sono molto limitati in cifra assoluta, si può avanzare l'interpretazione che l'incentivazione al risparmio energetico in edilizia abbia piuttosto, in base alla disciplina datane dall'art. 6 della 308, i caratteri dell'incentivazione indiretta alle imprese operanti nel settore. I contributi pubblici formalmente sono diretti a favorire il risparmio energetico e hanno come loro destinatari i privati che realizzano gli interventi, ma sostanzialmente essi si rivolgono, allargandone il mercato, alle imprese produttrici degli impianti e delle opere ammesse a contribuzione. Per la verità le direttive di attuazione hanno cercato di correggere il tiro della legge 308. La deliberazione del CIPE 8 giugno 1983 ha infatti raccomandato alle regioni di considerare prioritari gli interventi volti a favorire il contenimento dei consumi energetici negli edifici pubblici (oltre che in quelli residenziali e sportivi) e soprattutto ha allargato molto la possibilità di ricorso ai contributi stabilendo che "ai fini degli interventi di incentivazione di cui all'art. 6 della legge 30811982, il termine 'intervento' deve intendersi riferito ai singoli ptovvedimenti così come indicato nella tabella A allegata alla legge e non al complesso degli interventi eseguibili su di un edificio. In particolare il 20% del risparmio di energia, citato nell'an. 6, deve intendersi riferito al contributo fornito ai consumi dall'elemento costruttivo sul quale si interviene prima dell'intervento stesso''.
La stessa deliberazione ha inoltre tentato di restringere la nozione di intervento ammissibile a contributo al fine di consentire la fruizione multipla di più contributi, ciascuno dell'importo massimo di 15 milioni, per interventi che altrimenti dovrebbero considerarsi unitari. A tal fine la deliberazione ha stabilito che ''nel caso di interventi a favore di cooperative e/o altre forme consortili o condominiali, il limite di 15 milioni deve essere inteso come contributo massimo per ogni singolo intervento e per ogni socio, avuto riguardo al risparmio energetico complessivo ed alla validità degli interventi opponunamente coordinati tra loro". Alcune regioni poi hanno cercato, sviluppando la formula adottata dal CIPE, di attenuare ulteriormente il vincolo posto dal limite dei 15 milioni, nel tentativo di dare effettivamente seguito all'indicazione di priorità per gli interventi negli edifici pubblici con una conseguente e adeguata disciplina dell'incentivazione finanziaria. Esemplare al riguardo è la disposizione della Regione Campania, la quale ha stabilito che "nel caso di interventi relativi ad edifici o complessi edilizi abitativi, a edifici scolastici e a strutture sanitarie, i limiti appresso indicati per i contributi si intendono come finanziamento massimo rispettivamente per ogni alloggio, sezione scolastica, o per ogni sezione di degenza, specialità o unità arnbulatoriale, avuto riguardo al risparmio energetico complessivo'". Lo stesso obiettivo di spezzare la nozione giuridica di intervento per consentire il cumulo dei contributi è stato perseguito da altre regioni mettendo gli interventi in relazione alle singole unità funzionali degli edifici o a moduli convenzionali variamente dimensionati' 6 Nella normazione regionale di attuazione degli articoli 6 e 7 della legge 308 è poi degno di menzione l'orientamento a coordinare i contributi di competenza regionale con le facilitazioni concesse dall'Er.L per l'installazione di scaldaacqua solari. Si segnala da ultimo che alcune regioni hanno irrigidito la manovra incentivante, stabilendo in modo fisso (il 30%) la misura del contributo; altre regioni hanno invece riprodotto la for.
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mula della legge 308 che prevede il 30% come massimo, così riservandosi la possibilità di attribuire rilievo alla misura del risparmio energetico non solo ai fini della priorità nell'ammissione agli incentivi (come espressamente previsto dall'art. 7, secondo comma), ma altresì ai fini della loro commisurazione' 7 .
Per quanto concerne i contributi per il contenimento dei consumi energetici nei settori agricolo e industriale (artt. 8 e 9), l'aspetto più significativo della normativa regionale di attuazione consiste nella loro estensione anche al settore artigianale. In effetti questo tipo di contributi può costituire uno strumento non solo per l'incentivazione del risparmio energetico ma altresì per il governo dell'artigianato, che rientra fra le materie di competenza regionale. La mancata previsione del settore artigiano nella legge 308 è dunque veramente inspiegabile e ingiustificata, come implicitamente ha riconosciuto lo stesso governo che in sede di controllo non si è opposto alle leggi regionali. Ma ciò che più interessa sottolineare in relazione a questo tipo di incentivi è che la 308 ha consentito alle regioni, attraverso la delega a loro favore, di intervenire nella materia dell'industria, che non rientra fra quelle loro devolute dalla Costituzione. È vero che la competenza regionale è soltanto delegata, ma nella legge statale e poi nelle di,rettive approvate dal CIPE non vi sono limiti stringenti all'azione amministrativa delle regioni, ma solo quello che le operazioni da incentivare conseguano per gli impianti una economia non infCriore al 15% dei consumi iniziali di idrocarburi e di energia elettrica. Le regioni possono per tale via assumere un ruolo, sia pure sul piano amministrativo, significativo non solo ai fini del risparmio energetico, ma altresì ai fini della promozione dello sviluppo industriale. È infatti rovesciabile l'affermazione già fatta a proposito degli incentivi disposti dalla legge 675/1977 e dalla legge 4611982 dei quali si è detto che, benché primariamente indirizzati a finalità diverse quali la riconversione, la ristrutturazione e l'ammo114
dernamento tecnologico, sono suscettibili anche di consentire il conseguimento di importanti risultati energetici. Non sembra azzardato infatti affermare che gli interventi che consentano il risparmio energetico nelle imprese industriali hanno sempre e comunque il carattere di interventi di ammodernamento del ciclo produttivo e delle tecnologie in esso impiegate. nell'industria, cioè, il risparmio energetico non è tanto un'operazione a se stante, quanto piuttosto il risultato di interventi che riguardano direttamente l'aggiornamento delle strutture e dei mezzi tecnici impiegati nell'attività produttiva. Ogni intervento di incentivazione del risparmio energetico nell'industria è dunque anche e primariamente un intervento per l'ammodernamento, il sostegno e lo sviluppo del sistema produttivo. Per quanto concerne infine gli incentivi alla produzione di energia da fonti rinnovabili nel settore agricolo, vale la pena di mettere l'accento, più che sulla legislazione regionale, direttamente sull'art. 12 della legge 308 che ha avuto un orientamento di particolare favore 58 prevedendo la contribuzione (parte in conto capitale, parte in conto interessi) sull'intera spesa. Per questo tipo di contributi lo stanziamento complessivo è tuttavia determinato in soli 160 miliardi, cosicché la loro rilevanza pratica risulta attenuata rispetto ai contributi in edilizia, cui sono destinati 590 miliardi, e a quelli dell'art. 8 per il contenimento dei consumi nei settori agricolo e industriale, cui sono destinati 300 miliardi.
UN' ESPERIENZA APPLICATIVA: IL CASO DELLA LOMBARDIA
Alle valutazioni sin qui espresse è interessante aggiungere qualche informazione su un'esperienza regionale di attuazione della legge 308. A tre anni di distanza dall'emanazione della legge il Ministro dell'industria non ha ancora adempiuto l'obbligo previsto dall'art. 24 di ri-
ferire annualmente al Parlamento sullo stato di attuazione della stessa legge; alcune regioni hanno però adempiuto il corrispondente obbligo di riferire al Ministro sull'attuazione degli interventi di loro competenza. Tra queste Regioni è la Lombardia che nella relazione relativa al 1984 ha indicato anche i dati complessivi riferiti all'intera attuazione della legge fino al 31 maggio 1985'. Si tratta, è vero, di dati relativi ad una sola regione; ma si tratta anche di una regione significativa sia per i consumi energetici in edilizia, sia per i consumi nell'industria, sia infine per lo sviluppo delle attività agricole: da qui l'interesse per le notizie contenute nella relazione. Le domande di finanziamento pervenute risultano 6.500 circa (di cui 2.995 già approvate) per i contributi in edilizia, 1.286 (di cui 1.145 approvate) per i contributi per il contenimento dei consumi nell'industria, 130 circa (di cui 15 approvate) per i medesimi contributi in agricoltura e 251 (di cui 234 approvate) per gli incentivi all'utilizzo delle fonti rinnovabili in agricoltura. L'ammontare complessivo dei contributi concessi risulta pari a 14.710 milioni per incentivi in edilizia (per un investimento di 48.818 milioni), a 57.351 milioni per incentivi al rispar mio energetico non è tanto un'operazione a se 232.873 milioni), a 59 milioni per incentivi al risparmio in agricoltura (per un investimento di 239 milioni), a 13.866 milioni per incentivi per lo sviluppo delle fonti rinnovabili di ener gia in agricoltura (per un investimento di 25.715 milioni). I risparmi annui ottenibili attraverso gli interventi finanziati sono valutati in 12.023 tep per gli incentivi in edilizia, in 506.866 tep per gli incentivi al risparmio nell'industria e in 13.301 tep per gli incentivi alle fonti rinnovabili in agricoltura. I tempi medi di ritorno degli investimenti sono stimati in un anno per quelli nell'industria, in 4 per quelli relativi alle fonti rinnovabili di energia in agricoltura e in 9.anni per quelli in edilizia. In definitiva i contributi in edilizia messi in raffronto ai contributi all'industria comporta-
no un carico di lavoro amministrativo cinque volte maggiore, risultano di un importo medio dieci volte inferiore (5 milioni contro 50), consentono alle regioni di spendere una somma pari a 114, fanno risparmiare una quantità di energia venticinque volte inferiore (2,3%), comportano investimenti pari a 115, con tempi di ritorno degli investimenti stessi in rapporto dii a9. Gli incentivi alle fonti rinnovabili di energia in agricoltura, infine, messi in raffronto ai contributi in edilizia comportano un carico di lavoro amministrativo 30 volte inferiore, risultano di un importo medio dieci volte maggiore, determinano una spesa regionale ed un risparmio energetico quasi pari, con un investimento complessivo ridotto alla metà ed il cui tempo di ritorno è meno della metà. Sostanzialmente trascurabile, da ultimo, risulta l'incentivazione al risparmio energetico in agricoltura, che la legge 308 accomuna all'industria, ma che evidentemente non si presta a grandi operazioni. Scontata una doverosa cautela nei confronti di dati che si riferiscono a una sola regione e che almeno in parte comportano stime e previsioni che necessitano in futuro di controlli e riscontri, non si può fare a meno di sottolineare la significatività dei dati medesimi. Le previsioni della Lombardia sono infatti di ottenere attraverso i contributi nel settore industriale il 9 5 % del risparmio energetico complessivo ottenibile con l'applicazione della legge 308. I contributi in edilizia, cui pure la legge destina una quantità di risorse quasi doppia rispetto a quella per i contributi all'industria, comportano invece un grande carico di lavoro che impedisce una loro sollecita erogazione e consentono un risparmio energetico al confronto irrisorio. I contributi in edilizia, dunque, dato l'ampio numero di beneficiari, possono valere - fatti salvi i casi, peraltro limitati, di subdelega 60 a radicare la regione nella società, creare nuove occasioni di rapporti tra l'istituzione regionale e i singoli cittadini, a infittire la rete delle relazioni che lega gli amministratori regionali alla popolazione. I risultati energetici conseguibili 115
sono invece così trascurabili da non giustificare da soli la quantità di risorse stanziate dalla 308. I contributi all'industria, per contro, producono risultati energetici di grandissimo interesse e al contempo consentono alle Regioni di intervenire in una materia per altri versi loro estranea, incidendo oltre che sul risparmio energetico anche sullo stesso assetto dell'apparato industriale; i contributi infatti attivano un consistente volume di investimenti, con il conseguente sostegno all'occupaziòne e al sistema economico nel suo complesso e producono immediati e consistenti vantaggi alle imprese beneficiarie.
UN'MAKEUP" PIÙ LEGGERO
Il testo unificato del disegno e delle proposte di legge n. 2118, 1412 e 2065 di modifica e integrazioni della legge 29 maggio 1982, n. 308, approvato il 24 luglio 1985 dalla Commissione industria della Camera dei deputati in sede legislativa e attualmente all'esame del Senato, non contiene novità veramente rilevanti per la disciplina dell' incentivazione finanziaria nel settore energetico, ma soltanto precisazioni e aggiustamenti marginali. In particolare l'art. 3 consente alle regioni di destinare al finanziamento di studi di fattibilità e diagnosi energetiche una quota non superiore al 10% della somma loro assegnata per i contributi per il contenimento dei consumi nei settori agricolo e industriale. L'art. 7 prevede un coordinamento temporale tra il procedimento regionale di concessione di piccola derivazione di acque pubbliche ed il procedimento statale di erogazione del contributo previsto dall'art. 14 della 308, così confermando la competenza statale e la scissione tra i due procedimenti. L'art. 8 infine prevede contributi sul canone di leasing di impianti e macchinari in alternativa ai contributi previsti in edilizia e nei settori agricolo e industriale e disciplina le modalità di erogazione dei contributi e delle relative anticipazioni. 116
In effetti il disegno di legge si caratterizza essenzialmente per il rifinanziamento della legge 308 per il triennio 198519876l piuttosto che per una revisione delle disposizioni sull'erogazione degli incentivi. Il rifinanziamento peraltro è limitato a 285 miliardi complessivi nel triennio, con una contrazione dunque dell'82% rispetto al finanziamento originario della 308. Le nuove risorse inoltre non saranno tutte disponibili per nuove operazioni, ma dovranno almeno parzialmente coprire le annualità in scadenza dei contributi in conto interessi per operazioni ammesse a incentivazione in anni precedenti. Per quanto riguarda specificamente le regioni, la disponibilità per i contributi a sostegno delle fonti rinnovabili nell'edilizia scende dai 590 miliardi del precedente triennio a 54 miliardi (-90%); la disponibilità per i contributi per il contenimento dei consumi energetici nei settori agricolo e industriale scende da 300 a 85 miliardi (-71%). Sembra chiaro dunque che i nuovi stanziamenti segnano l'inizio della fine, piuttosto che lo sviluppo della incentivazione finanziaria nel settore energetico. Si può inoltre osservare che in tal modo viene anche meno l'importanza di quella sorta di statuto privilegiato del ricorso al credito da parte degli enti locali per opere per il contenimento dei consumi energetici, che è stato istituito da alcune disposizioni (contenute nella recente legislazione in tema di finanza locale) volte a collegare le facilitazioni creditizie alla concessione degli incentivi previsti dalla legge 30862. Se infatti si riduce la possibilità di accesso a tali incentivi, cade contemporaneamente la rilevanza delle agevolazioni creditizie connesse alle operazioni incentivate. La massiccia riduzione della spesa per gli incentivi appare dovuta essenzialmente a ragioni di contenimento della spesa statale. Eppure non mancherebbe lo spazio per una valutazione critica dell'esperienza di attuazione della 308 e per un conseguente tentativo di riqualificazione (e non puramente e semplicemente di riduzione) della spesa per l'incentivazione. Se i dati della Regione Lombardia prima ricor.. -
dati dovessero trovare conferma nell'esperienza delle altre regioni e se vi fosse un'indagine sui risultati ancora ottenibili in futuro attraverso 1' incentivazione del risparmio nell'industria, sarebbe infatti possibile e anzi doverosa una revisione sostanziale della disciplina dell'incentivazione, anche al fine di evitare l'erogazione di pubblico denaro per operazioni che i privati
Legge 18dicembre 1973, n. 880. 2 Legge 2 agosto 1975, n. 393, capo I ecapoll 3 Legge2agostol975,n.393,art. 11. 'I Legge 30 aprile 1976, n. 373; DPR 28 giugno 1977, n 1052, su cui v. D. DEPIâ‚Ź'ns, La disc:lina legislativa del ri-
scaldamento degli edifici alla luce degli indirizzi di contenimento dei consumi del nuovo Piano energetico nazionale, in F. VAssAaI - G. VISENT1NE (a cura di), Legislazione economica (Settembre 1980-Dicembre 1981), Rassegne eproblemi, V, Milano 1983, p. 202 Ss. Per l'inverno 1979-80 v. il decreto legge 14 settembre 1979, n. 438, seguito dal decreto legge 12 novembre 1979, n. 574, dal decreto legge 11 gennaio 1980, n. 5 e dal decreto legge 17 marzo 1980, n. 68, quest'ultimo convertito, con modificazioni, nella legge 16maggio 1980, n. 178. Per l'inverno 1980-81 v. il decreto legge 31 gennaio 1981, n. 12, convertito nella legge I aprile 1981, n. 105. Per l'inverno 1981-82v. la legge 22dicembre 1981, n. 775. Per l'inverno 1982-83 v. il decreto legge 21 ottobre 1982, n. 770, convertito nella legge 20 dicembre 1982, n. 924. Da ultimo v. la legge 18novembre 1983, n. 645 6 Decreto legge 22 aprile 1976, n. 127, convertito con modificazioni nella legge 10 maggio 1976, n. 320; decreto legge 10 dicembre 1976, n. 832, convertito con modificazioni nella legge 10 maggio 1976, n. 320; decreto legge 10 dicembre 1976, n. 832, convertito con modificazioni nella legge 8 febbraio 1977, n. 18; da ultimo v. la legge 27 giugno 1985, n. 351. Si segnala al riguardo che giĂ in precedenza era stato consentito all'ENEL di impiegare il carbone del bacino carbonifero del Sulcis nelle centrali termoelettriche ubicate nella zona di detto bacino, proprio al fine di assicurare uno sbocco a quel prodotto (legge 2agosto 1975, n. 393, art. 9, terzo comma). 8 Deliberazione del CIPE 23dicembre 1977, in ''Rassegna giuridica Enel", 1978, 135 ss.
realizzerebbero comunque, indipendentemente dalle sovvenzioni 1'3 . Ma non sembra che la valutazione dell'esperienza sia stata fatta e una revisione sostanziale, come si è visto, manca del tutto: il disegno di legge sembra dunque proprio un'occasione mancata.
Non risulta essere stato convertito in legge il decreto legge 7 marzo 1981, n. 57, che aveva disposto la proroga delle provvidenze disposte dalla legge n. 5711980. IO DPCM 8 luglio 1978, punto 4, modificato con DPCM 31 dicembre 1982. La razionalizzazione della rete di distribuzione di carburanti aveva costituito oggetto di specifiche prescrizioni del piano energetico nazionale: si veda il pun102.4. della deliberazione del CIPE 23dicembre 1977. 11 Su tali iniziative v. A. ROCCELLA, Le iniziative legislative regionali in campo energetico. Appunti per una rassegna, in 'Notiz. giur. reg.", 1981, p. 116; G. CAIA, Riflessioni sulla tendenza regionale all allargamento delle competenze in campo energetico, ibidem, p. 337 ss.
12 Poi modificata dalla legge 15 giugno 1984, n. 246. 13 Si veda il punto 4 della deliberazione del CIPE 4 dicembre 1981. 14 Legge 26aprile 1982, n. 181, artt. 3 e 4; legge 26aprile 1983, n. 130, art. 21; decreto legge 12agosto 1983, n. 371, convertito con modificazioni nella legge Il ottobre 1983, n. 546; legge 27dicembre 1983, n. 730, art. 37. 15 Si vedano i parametri di valutazione dei progetti stabiliti con la deliberazione del CIPE 19 maggio 1983. Si veda poi la deliberazione del CIPE 29 marzo 1984, con cui sono state approvate le direttive per il FIO ai sensi dell'art. 37 della legge n. 7301 1983: tra gli elementi dei progetti da valutare nell'istruttoria tecnica da parte del ''Nucleo divalutazione'' costituito presso il Ministero del bilancio figura (punto 5, lett. d), il ''contributo alla realizzazione degli obiettivi del programma di Governo e del piano a medio termine, quali in particolare l'incremento dell'occupazione e del reddito, lo sviluppo del Mezzogiorno e l'equilibrio della bilancia dei pagamenti''.
16 Con deliberazione del CIPE 22dicembre 1983 sono stati ammessi a finanziamento sulle disponibilitĂ del FIO per il 1983 i seguenti progetti di specifico interesse energetico (si indicano anche le amministrazioni proponenti e il fi-
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nanziamento approvato): 1) Centraline idroelettriche S. Lucia al Vomano (Regione Abruzzo; 10.980 milioni); 2) Metanizzazione comunità collinare e valli del Torre (Regione Friuli-Venezia Giulia; 20.330 milioni); 3) Sistemazione idraulica ed energia fiume Potenza (Regione Marche; 53.780 milioni). 17 Sulla legge n. 308 del 1982, con particolare riferimento al ruolo da essa assegnato alle Regioni, v. G. CAIA, Verso
un nuovo ruolo de/le aulonomie territoriali nella gestione integrata de//energia, in 'Le Regioni'', 1982, p. 825 Ss.; M - CAMMEW, Contenimenio dei consumi energetici e svi luppo delle fonti rinnovabili di energia nella legge 29 maggio 1982, n. 308: i/ruolo de//e Regioni, ivi, 1983, p. 607 SS.; D. DE PEiRIS, La legge 29 maggio 1987, n. 308, sul contenimento dei consumi e lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia, in "Rassegna giuridica Enel'', 1983, p. 401 Ss.; G. CAIA, Stato e autonomie locali nella gestione dell energia, Milano, 1984; V. SPAZIANTE, Energie rinnovabili e vecchi problemi: il prezzo del decentramento, in ''Queste istituzioni'', n. 62, p. 11 ss. 18 V. in tal senso F.A. ROVERSI-MONACO, Commento al/art. 1, nel Commentario alla legge 79 maggio 1982, n.
308 a cura dello stesso F.A. ROVERSI-MONACO cdi G. in ''Nuove leggi civili commentate", 1983, p. 160. 19 Legge 18marzo1982, n. 85. 20 Tale importo è ottenuto sommando i conferimenti (e le quote annuali dei conferimenti pluriennali riferite al periodo considerato) disposti dai seguenti provvedimenti: legge
23 Decreto legge 12 marzo 1982, n. 69, convertito nella legge 12 maggio 1982, n. 231, art. 2, che ha disposto a tal fine una spesa di 2.100 miliardi per gli oneri sopportati dall'Enel fino al 31 dicembre 1981. 24 La legge 10febbraio 1981, n. 22 ha autorizzato a tal fine la spesa di 300 miliardi nel biennio 1981-1982. 25 La legge 2 maggio 1983, n. 151 ha stanziato a tal fine la spesa di 540 miliardi nel triennio 1983-1985. 26 La Relazione è pubblicata in "Mondo economico", n. 41 del 14ottobre 1985, p. 43ss.; le notizie riportate nel testo si leggono a p. 72. 27 Lo schema generale della legge 30811982 non è però completamente estensibile anche alle Regioni a statuto speciale. Alcune di esse infatti sono titolari in base ai rispettivi statuti di specifiche competenze in materia di energia; la legge 21 aprile 1983, n. 127 ha inoltre espressamente disposto la salvaguardia delle competenze delle province autonome di Trento e di Bolzano in materia di contenimento dei consumi energetici e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia. Nel prosieguo tuttavia si eviterà di appesantirc l'analisi con le particolarità delle Regioni ad autonomia differenziata, limitando i riferimenti al solo regime delle Regioni di diritto comune. 28 Le proporzioni degli interventi statali e regionali sono poi leggermente mutate con i nuovi stanziamenti per alcune delle finalità di cui alla legge 308/ 1982 disposti dalla legge 9 marzo 1985, n. 110, recante ''Utilizzazione delle disponibilità residue sul Fondo investimenti e occupazione
15 giugno 1981, n. 309 (3.000 miliardi); decreto legge 30 ottobre 1981, n. 609, convertito nella legge 26 dicembre 1981, n. 777 (3.300 miliardi); legge 7 agosto 1982, n. 526, artt. 51, n. 2 e 54 (1.000 miliardi); legge 26aprile 1983, n. 130, art. 14 (850 miliardi); legge 9 marzo 1985, n. 110,
(FIO) nell'ambito del Fondo occorrente per far fronte ad oneri dipendenti da provvedimenti legislativi in corso per l'anno 1984".
art. 1, lett. d) (450 miliardi).
La nuova legge ha stanziato per l'anno 1984 40 miliardi
21 La legge 7agosto 1982, n. 526 ha conferito al fondo di dotazione dell'ENi (art. 57, secondo comma) la somma di 250 miliardi di lire, vincolandola alla ricapitalizzazione delle società del gruppo operanti nel settore della chimica. Successivamente la legge 26aprile 1983, n. 130 ha conferito al fondo di dotazione dell'ente (art. 16, terzo comma) la somma di 950 miliardi ''da destinare alla ricapitalizzazione delle società del gruppo operanti nei settori chimico, minerario, energetico e tessile''. Per il 1984 la legge 27 febbraio 1984, n. 22 ha disposto il conferimento al fondo di dotazione dell'ente dell'ulteriore somma di 1.071 miliardi. Da ultimo la legge 22 dicembre 1984, n. 887 ha attribuito allENi per l'anno finanziario 1985 la somma di 815 miliardi ''da destinare particolarmente alla ricapiralizzazione
per incentivi di competenza dello Stato (e precisamente 10 miliardi per contributi per progetti dimostrativi e 30 miliardi per contributi per la riattivazione e la costruzione di impianti idroelettrici) e solo 10 miliardi per interventi di competenza regionale (per incentivi alla produzione di energia da fonti rinnovabili nel settore agricolo). Le diverse proporzioni degli stanziamenti aggiuntivi disposti dalla legge 11011985 non incidono tuttavia in modo significativo, dato il loro importo complessivamente molto limitato in raffronto a quello disposto dalla legge 30811982, sul ruolo rispettivo dello Stato e della Regione nella gestione degli incentivi finanziari nel settore energetico. 29 Secondo il criterio stabilito dall'art. 1, primo comma, lett. c), della legge 22 luglio 1975, n. 382, ai fini della de-
e al risanamento finanziario delle società del gruppo operanti nell 'industria chimica, minerometallurgica, vetraria, meccanotessile e tessile'' (art. 14, sedicesimo comma).
lega legislativa per il completamento dell'ordinamento regionale.
22 A tal fine la legge 28 novembre 1980, n. 784 ha dispo-
30 Legge 24gennaio 1977, n. 7.
sto la spesa di 605 miliardi; la legge 14 maggio 1981, n. 219 ha poi disposto l'ulteriore spesa di 100 miliardi.
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31 Leggen. 308/ 1982, art. 26.
32 I limiti dell'autonomia regionale sono correttamente messi in luce da V. SPAZL&NTE, Le energie rinnovabili tra
Sto/o e Regioni come uscire dal 'buco nero''?, in Queste istituzioni'', n. 65. 3, p. 23 ss., il quale arriva a chiedersi se, per il particolare tipo di attuazione che si richiedeva alle Regioni, il ricorso allo strumento legislativo non potesse risultare eccessivo''. 33 Cfr. M. CAMMELLI, Competenze e ruolo delle Regioni in campo energetico: profili istituzionali, in 'Notiz. giur. reg.", 1983, p. 224-225. 34 La Regione Campania, ad esempio, ha inserito tra i criteri di priorità per la concessione di contributi ad un tipo particolare di cooperative edilizie (quelle costituite tra gli appartenenti alle forze dell'ordine) il ricorso nei relativi programmi a fonti energetiche alternative a quelle tradizionali per la produzione di acqua calda sanitaria (legge regionale 27febbraio 1984, n. 7). Parimenti la Lombardia, nel definire i criteri per la selezione delle cooperative per la realizzazione dei programmi del quadriennio 1982/ 1985 di edilizia residenziale agevolta, ha fatto riferimento, tra l'altro, al contenimento dei consumi eriergetici (legge regionale 27 dicembre 1983, n. 104, art. 5, primo comma, n. 9). La Regione Lazio, nell'incentivare la realizzazione degli impianti di smalcimento dei rifiuti solidi, ha incluso tra i criteri per la scelta del sistema di trattamento e per la progettazione degli impianti il recupero di combustibile ricavato dai rifiuti da destinare ad utilizzazioni energetiche (legge regionale 19 novembre 1983, n. 71, art. 2). 35 V. l'art. 2, secondo comma, della legge 24 dicembre 1979, n. 650, secondo cui la Regione autorizza l'attuazione dei programmi presentati dai titolari degli scarichi di insediamenti produttivi integrandoli con eventuali prescrizioni, con particolare riguardo (fra l'altro) al risparmio energetico. 36 Legge regionale Lazio 20 giugno 1984, n. 30, artt. 5 e 8. 37 Legge regionale Lombardia 27 luglio 1981, n. 40, art, 2, secondo comma, lettera e), nel nuovo testo introdotto dall'art. 1 della legge regionale 10settembre 1984, n. 48. 38 Nello stesso senso v, M. CAMMELLI, Contenimento dei consumi energetici e sviluppo delle fonti rinnovabili di energia nella legge 29 maggio 1987, n, 308: il ruolo delle Regioni, cit., p. 612, 39 Questa resi, prospettata già prima della legge 30811982, tende a considerare l'energetica non come una materia, ma come un profilo o un modo di essere di mate-
rie regionali: v. G. CAIA, Riflessioni sulla tendenza regionale all'allargamento delle competenze in campo energetico, cit., p. 347.
4 ev. OpIDA, Leggi dispesa e bilancio nelle Regioni: espe,'ienze e prospettive, in AA .VV., L'accelerazione delle pro-
cedure amministrative, "Quaderni regionali Formez", n, 14, Napoli, 1977; C. MIGNONE, Sulla competenza delle Regioni in materia di assistenza scolastica in "Giurisprudenza Costituzionale", 1974, p, 3599 ss.; G. MOR, Profili dell'amministrazione regionale, Milano 1974, p, 91-92; F. PJZZETrI, Leggi di spesa e autonomia legislativa delle Regioni, in "Giurisprudenza costituzionale", 1973, p, 366
ss.; A. BAIrBERA, I contributi della Toscana a favore dipsccoli e medi esercenti il commercio al dettaglio. Verso un superamento della 'separazione" delle competenze?, in "Le Regioni", 1973, p, 735 ss.; S. BARTOLE. Brevi note su: limiti dell'autonomia delle Regioni, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1965, p, 267 ss, 41 Corte costituzionale, sentenze i -i, 56/ 1964, 2711965, 39/1973, 250/1974,94/1977. 42 La Regione Abruzzo ha concesso contributi a fondo perduto per specifiche iniziative volte alla promozione del risparmio energetico e della razionale utilizzazione dell'energia a favore dell'Università degli studi dell'Aquila, nonché della Camera di commercio e dell'ULSS di Pescara (legge regionale 23febbraio 1984, n. 23), La Regione Friuli-Venezia Giulia ha disposto la concessione a favore del Consorzio per la gestione del Laboratorio di biologia marina di Trieste di contributi finalizzati, tra l'altro, ad attività di studio, ricerca e sperimentazione nell'impiego di acque marine e salmastre a fini energetici (legge regionale 14 dicembre 1984, n. 51). La Regione Veneto, fino all'approvazione di un apposito ''Progetto energia", ha disposto peri! 1984 l'attuazione di singole iniziative nel settore delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico con forni rinnovabili, stanziando a tal fine la somma di 700 milioni (legge regionale 6marzo 1984, n. 9, art, 32). 43 Si veda il rinvio del disegno di legge della Regione Abruzzo in "Bollettino di legislazione e documentazione regionale", 1984, 1, p, 58; per il motivo di rinvio sub b) v. anche il rinvio del disegno di legge della Regione Campania, ibidem, 4, p. 101. 44 V. il rinvio del disegno di legge della Regione Campania citato alla nota precedente. 45 V. il rinvio di un disegno di legge della Regione Tosca-' na, ibidem, p, 206, 46 V. il rinvio del disegno di legge della Regione Abruzzo citato alla nota 43. Nello stesso senso v, anche il rinvio di un disegno di legge della Regione Emilia-Romagna, ibidem, 2 p, 108, in cui, sulla base dell'affermazione di principio riportata nel testo, il Governo ha sostenuto anche che l'attività di ricerca non rientra in ogni caso nei compiti propri della Regione e che il finanziamento degli studi in materia energetica è riservato allo Stato secondo quanto dispone l'art, 10 della legge 30811982. 47 V. il punto 2,6. del piano energetico nazionale approvato con deliberazione del CIPE 23 dicembre 1977; v. poi
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il nuovo piano energetico approvato con deliberazione del CIPE4 dicembre 1981. 48 Poi modificato dall'art. I 1-ter del decreto legge 22 dicembre, n. 786, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 51 e dall'ari. 28 della legge 7agosto 1982, n. 526. 49 1i programma generale di metanizzazione del Mezzogiorno, approvato con deliberazione del CIPE 25 ottobre 1984 ha poi stabilito che le Regioni, nell'ambito delle proprie competenze in materia di assetto del territorio, promuovano la individuazione e la costituzione di bacini di utenza dei metanodotti a gestione unitaria; il programma ha inoltre previsto che le domande dei Comuni o loro Consorzi per la costituzione dei bacini di utenza siano inoltrate al Ministero dell'industria per il tramite delle Regioni interessate. Queste nuove funzioni non valgono tuttavia a modificare il quadro generale esposto nel testo. 50 Legge regionale Abruzzo 16giugno 1980, n. 55; legge regionale Piemonte 24aprile 1979, n. 20. 51 Su questa tecnica di compressione dell'autonomia regionale, largamente adoperata in passato, v. per tutti F.
I rapporti fra Stato e Regioni, in Stato, Regioni ed enti locali ne//a programmazione economica, Milano, 1973, p. 74ss.; V. BACHELET, Interventi economici e programmazione nelle Regioni a statuto speciale, in Interventi setioriali e programmazione regionale nelle Regioniastatuto speciale, Milano 1973, p. 22ss. TRIMARCHI BANFI,
52 Si può menzionare al riguardo l'istituzione da parte della Regione Emilia-Romagna di un fondo per il finanziamento di progetti di Comuni e loro Consorzi per la realizzazione di reti di distribuzione del gas metano ad uso civile e produttivo localizzati in aree montane (legge regionale 3 novembre 1984, n. 46, art. 6; legge regionale 2 maggio 1985, n. 17, art. 22). La Regione Lazio ha disposto un contributo a favore della SNAM sugli oneri di realizzazione delle infrastrutture per il trasporto e la distribuzione di metano nel territorio dell'Alto Lazio (legge regionale 30aprile 1983, n. 30, modificata dalla legge regionale di pari data n. 31). Anche la Provincia autonoma di Trento ha disposto l'erogazione di contributi per l'estensione della rete dei metanodotti a favore della SNAM (legge provinciale 6 maggio 1980, n. 11; legge provinciale 23 febbraio 198 1, n. 2, sii. 78; legge provinciale 16agosto 1983, n. 26, art. 1), nonché a favore dei Comuni, dei loro Consorzi e delle aziende e società a prevalente capitale pubblico (legge provinciale 17 marzo 1983, n. 8). Da ultimo v. la legge regionale Lazio 22 maggio 1985, n. 77 e la legge regionale Piemonte 23aprile 1985, n. 44.
53 S. LLPPARII'JI, L'attuazione della legge 29 maggio 1982, n. 308 nelle Regionia statuto ordinario, in "Regione e governo locale", 1985, 1, p. 53 Ss. Per alcune valutazioni sull'attuazione della legge 308/ 1982 da parte delle Regioni v. anche V. SPAZIANTE, Le energie rinnovabii tra Stato e
Regioni: come uscire dal ''buco nero"?, cit.
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54 Per una tale distinzione (con norme di favore per gli enti pubblici) v. invece gli artt. 3-bis e 3-quinquies della legge provinciale Trento 29 maggio 1980, n. 14, introdotti dall'art. I della legge provinciale IS novembre 1983, n. 40.
55 Legge regionale Campania 8 marzo 1985, n. 19, ari. 2, quarto comma. 56 Mq 750 secondo il punto 5.1. della deliberazione del Consiglio regionale della Liguria n. li dcl 25 gennaio 1984; mc 3.000 secondo la deliberazione del Consiglio regionale della Lombardia 17 novembre 1983, n. 111/ 1397 (punto A 2) e secondo la deliberazione del Consiglio regionale del Lazio 26 marzo 1985, n. 1200 (art. 4, terzo comma). 57 Si veda in tal senso l'art. 6 della legge regionale Basilicata 18 agosto 1984, n. 28, la quale tuttavia non ha specificato alcun criterio per l'eventuale riduzione dei contributi a una percentuale inferiore a quella del 30%. 58 L'atteggiamento di favore per l'agricoltura era già evidente nel precedente art. 6, terzo comma, n. 5, che prevede la possibilità di elevare fino all'80% il contributo in conto capitale per l'utilizzo degli impianti fotovoltaici e, o altra fonte rinnovabile per edifici rurali non elettrificati, abitati stabilmente dal conduttore del relativo fondo.
59 Per alcuni dati, relativi tuttavia soltanto al primo ripar to di contributi nel settore industriale, v. anche M. Pn,
L'attuazione della L. 30811982 nell'industria in Lombardia, in "Economia delle fonti di energia", n. 25, p. 201 ss. 60 Subdeleghe agli enti locali sono state previste solo dalla legge regionale Toscana n. 1911984 e dalla legge regionale Lazion. 1611985. 61 Per l'anno 1984 il rifinanziamento della legge 30811982 è stato assicurato, come si è visto, dalla I. 9 marzo 1985, n. 110. 62 Si segnala innanzitutto che le opere relative alla produzione, trasporto ed erogazione di energia sono state inserite nell'elenco tassativo delle opere per le quali nell'anno 1983 i Comuni e le Province erano autorizzati a deliberare l'assunzione di mutui presso istituti di credito diversi dalla Cassa depositi e prestiti (decreto legge 28 febbraio 1983, n. 55, convertito con modificazioni nella legge 26 aprile 1983, n. 131, art. 10, primocomma, lett. g). In seguito la Cassa depositi e prestiti è stata autorizzata a destinare ai Comuni, Province e loro Consorzi l'importo di 550 miliardi nel 1984 e di 600 miliardi nel 1985 al finanziamento di quattro categorie di opere, tra cui quelle per la metanizzazione e gli impianti di produzione combinata di energia e di calore ammessi a fruire dei contributi previsti dalla legge 30811982 (legge 27 dicembre 1983, n. 730, art. 13, quarto comma).
Lo Stato infine ha assicurato nella misura del cento per cento il proprio concorso sull'onere di ammortamento dei mutui contratti dagli enti locali con istituti diversi dalla Cassa
energia e di calore (legge 22 dicembre 1984; o. 887, ari. 6, quindicesimo comma). 63 Si vedano al riguardo le osservazioni di G. GI0RGErn.
depositi e prestiti per le opere relative alla produzione, trasporto ed erogazione di energia elettrica e per quelle ammesse a fruire dei contributi previsti dall'art. 10 della legge
de//indagine Feder/ombarda-Iefr,
30811982 per gli impianti di produzione combinata di
fontidienergia'',n.20,p. 125 Ss.
Investimenti "energy saving•• ne//industria: i risultati
in Economia delle
121
queste Mituzioni primavera 1986
Televisione e pubblici poteri Un dibattito in redazione
llprecedente numero di' 'Queste Istituzioni'' ha ospitato, sotto il titolo Televisione, nuove tecnologie e pubblici poteri, due saggi di R. Barberio e di N. Cascino, rispettivariente centrati sugli sviluppi complessivi della televisione in Europa e sugli aspetti istituzionali dei sistemi radiotelevùivi nazionali dell'intero bacino continentale. Su di essi la rivista ha organizzato agli inizi di aprile, presso l'Emeroteca della Fondazione Adriano Olivetti, il primo di una serie di "dibattiti in redazione", con cui ha voluto inaugurare una prassi redazionale che vuole essere un 'occasione di confronto sui temi cruciali che caratterizzano la vita e l'evoluzione delle istituzioni ed il loro rapporto con la societè. All'iniziativa hanno partecipato, oltre agli autori dei due saggi, studiosi, addetti ai lavori, specialisti, uomini d'azienda: Franco Cappuccini, Enzo Castelli, Giovanni Cesareo, Enzo Cheli, Gianni Gottardo, Massimo Fichera, Enzo Forcella, Ciampiero Gamaleri, Felice Lioy, Carlo Macchitella, Marco Mele, Giuseppe Richeri, Carlo Sartori, Francesco Siliato, Sebastiano Sortino. Il dibattito, moderato da Sergio Ristuccia, non si è certo fermato a riconsiderare come la televisione, risultato ultimo di quel lungo processo che, partito con Gutemberg e passato attraverso Lumière e Marconi, abbia modificato il modo di vivere e i rapporti sociali. Ha cercato piuttosto di aggiornare lo stato delle conoscenze e dell' "arte" evidenziando gli elementi che caratterizzano, in questa seconda metd della decade, l'inarrestabile moto propulsivo dello scenario televisivo ormai in cammino verso la societd del Duemila. Al di Id delle enunciazioni diprincipio, si tratta di un processo ancora contraddittono che, pur lasciando intravedere precise direttrici di sviluppo, pone sui tappeto una tale quantitd diproblemi ed interrogativi, che è pari alla mutabiitd dell'azione delle variabili in gioco: tecnologica, normativo-istituzionale, produttiva e di consumo, i cui effetti risultano a tutt'oggi di difficile quantificazione. È all'interno di questo ampio perimetro che il "dibattito in redazione" si è sviluppato, avendo come riferimento da un lato la situazione italiana e dall'altro il contesto innanzitutto europeo, quindi internazionale nel suo complesso, il tutto attraverso una griglia di argomenti le cui maglie sono legate da temi-chiave quali 123
la televisione via etere, il cavo, i satelliti, lapubblicitd, l'audience, la ricerca, l'interdipendenza con altri media, il rapporto tra vecchi e nuovi media. È il caso quindi di rendere conto dei temi sui quali il "dibattito in redazione" si è soffermato. Televisione, via etere. È ormai definitivamente concluso il ciclo che vedeva le réti
televisive fondate esclusivamente sulla tradizionale diffusione terrestre etere. Iniziato con l'attivazione di sistemi nazionali monocanale, attraverso tre decenni esso è passato alla creazione di più reti, infine alla nascita di servizi, come quel/o antimeridiano, destinato alla copertura di fasce orarie tradizionalmente considerate come non televisive. La moltiplicazione dei canali ha esasperato ancor di più la limitatezza delle frequenze destinate a/l'uso televisivo e l'insufficienza ditale modalitd di diffusione a soddisfare le nuove esigenze della domanda e dell'offerta nell 'intero settore. All'etere si è perciò affiancato il cavo come nuovo mezzo di distribuzione tecno/ogicamente candidato non gid ad una sostituzione tout-court della trasmissione via etere, bensì ad applicazioni complementari e di uso specialistico. Il "matrimonio'' tra cavo e satellite ha impresso un 'ulteriore accelerazione a tale processo. Televisione via cavo. Completamente assente ne/panorama italiano ha iniziato ad
affermarsi definitivamente in quasi tutta l'Europa a partire dall'inizio della decade. In a/cunipaesi, quali Germania, Francia e Gran Bretagna, le scelte dei rispettivi governi hanno consentito di armonizzare l'espansione de/le reti cavo e dell'industria di settore con le spinte di nuovo sviluppo economico derivate dall'azione propulsiva del/'e/ettronica e del/e sue applicazioni industriali. Paradossalmente /'Ita/ia si trova ad essere il paese europeo a "più alto tasso televisivo", ma solo ne/ campo della tradizionale, quanto tecnologicamente arretrata, diffusione via etere. In tutto il resto d'Europa operano ormai da anni societd di gestione di sistemi cavo che in alcuni casi vantano milioni di abbonati. Satelliti. Tra essi vanno distinti que/li di diffusione da que/li di distribuzione.
Ambedue sono destinati a servire bacini d'utenza sovranaziona/i, ma secondo diverse moda/itè. Iprimi diffonderanno direttamente ilproprio segnale da/satel/ite alle antenne di ricezione individua/i o condominiali (satelliti a diffusione diretta) e saranno utilizzati, anche se non esclusivamente, dal/e societd nazionali di servizio pubblico, mentre i secondi vengono captati dalle stazioni terresiri che gestiscono isistemi cavo e che ne distribuiscono iprogrammi esclusivamente aipropriabbonati. In Europa operano ormai da anni satel/iti di distribuzione, mentre l'attivazione deiprimiservizia diffusione diretta èprevista entro 10/1987. L 'Italia vanta, attraverso la RAI, un 'attiva presenza in questo settore. L 'azienda pubb/ica, che giè ritrasmette in altri tre paesi i programmi de//a prima Rete attraverso satelliti di distribuzione, è impegnata attua/mente in un progetto consortile denominato O/ympus, che trasmetterd su parte de/continente, e sta giè lavorando fattivamente alla progettazione de//'uso televisivo del satellite Sarà', tutto italia124
no, la cui definizione è però condizionata dai ritardi decisionali del Ministero delle Poste. Pubblicità. L 'Europa ha scoperto la pubblicitì come risorsa privilegiata difinanziamento dello sviluppo televisivo. La ' ricetta"italiana sembra per ciò aver dato i suoi frutti , quantomeno all'estero. Al contrario però di quanto accade nel nostro paese in tutta Europa la sollecitazione di un imponente flusso di pubblicitd mespressa è andata di pari passo con le volontì politiche, aziendali, industriali edassociative di garantire alla crescita pubblicitaria un preciso quadro normativo in grado di difendere l'intero settore, proteggere il consumatore, cautelare gli altri media, particolarmente quelli a mezzo stampa. In campo pubblicitario la grande sfida è al momento rappresentata dalla necessitì di uniformare le normative nazionali in un unico quadro comunitario. A fronte di un contesto europeo così articolato, flessibile e proiettato verso nuovi scenari, il ''dibattito in redazione'' ha registrato le problematiche che investono oggi il sistema televisivo italiano nel suo complesso, non privo di enormi potenzialitd, ma su cuipesano le incertezze derivate dall'assoluta e perdurante mancanza di regolamentazione. È degli ultimi giorni di aprile la manifesta volontd del governo di procedere all'elaborazione, questa volta sotto forma di disegno di legge stralcio, di un riferimento normativo che sciolga i nodi più importanti oggi sul tappeto: regolazione de/flusso pubblicitario, interconnessione tra le reti, misure antitrust, concessione alle televisioni private della trasmissione in diretta, di particolare rilievo politico nel campo deiprogrammi mnformativi (telegiornali). È difficile immaginare che tutto ciò venga affrontato e risolto nel giro di poche settimane, ma è altresì impensabile che si ripropongano gli stessi ritardi che hanno determinato l'attuale vuoto normativo. Nei prossimi mesi il Parlamento sarì chiamato a pronunciarsi in materia. In prossimitcì di tale scadenza ''Queste Istituzioni'' vuole promuovere nuove occasioni di confronto e di stimolo che contribuiscano a sollecitare il dibattito pubblico in direzione di una adeguata definizione del sistema televisivo itWiano e di una sua coerente collocazione nello scenario europeo.
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