Anno XIV
-
n. 71
-
Trimestrale (ottobre-dicembre)
-
sped. in abb. postale gr. IV/70
qUe: te ìstìtuzìonì ~
--
Un'etica per la politica o anche una politica per l'etica?
America, i dilemmi della democrazia imperiale Sergio Fabbrini, Mario Pianta
Quando il Parlamento indaga Francesco Sicloti, Gianfranco Piazzesi
Fra deregolazioni e privatizzazioni Renato Finocchi, George Yarro w
Gli organismi di cultura hanno bisogno dei media? Giovanni Ce/si Interventi di: Giovanni Bechelloni, Tullio De Mauro,
Gianni Faustini, Sergio Lepri, Paolo Leon, Fabio Scandone, Federico, Spantigati
Inverno
1986-1987
queste istituzioni Inverno 1986-87 - Anno XIV, n. 71 (ottobre-dicembre 1986)
Direttore:
SERGIO
RIsTuCCIA - Redattore capo:
Responsabile organizzazione e relazioni: Direzione e Redazione:
VINCENZO SPAZIANTE
GIORGIO PAGANO
GRUPPO DI STUDIO SOCIETÀ E ISTITUZIONI -
Corso Trieste, 62 - 00198 Roma - Tel. 84.49.608. Abbonamento ordinario annuale L. 50.000; studenti annuale L. 25.000 da 'versare sul c.c. postale n. 57129009 intestato a GRUPPO DI STUDIO SOCIETÀ E ISTITUZIONI, Casella postale 6199 00100 Roma Prati. Ogni numero L. 16.000. Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972).
Direttore Responsabile:
GIOVANNI BECHELLONI:
Questo numero è stato chiuso per la tipografia ii 10 maggio 1987. Stampa: Arti Grafiche Pedanesi - Roma - Tel. 22.09.71. Asociao all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
n. 71 - Inverno 1986-87 Indice
3
Un'etica per la politica o anche una politica per l'etica?
9
America, i dilemmi della democrazia imperiale
11
Effetto Reagan: la Casa Bianca da istituzione plebiscitaria a istituzione retorica?
•
.
Sergio Fabbrini
L'economia delle guerre stellari. 38
I molti costi, i •pochi benefici (e i sicuri beneficiari)
Mario Pianta -
Quando il Parlamento indaga
57. 59
Mafia e Parlamento. Francesco Sidoti
78
Sul terrorismo andrà meglio? Gian/ranco Piazzesi
81
Fra deregolazioni e privatizzazioni Esperienze di
«
deregulation ».
1. li nuovo ruolo delle Corti in USA 2. Il dibattito sulle politiche di deregolamentazione
83 99
Renato Finocchi
110
,
La' privatizzazione in teoria e in pratica (I) George Yarrow
129
Gli organismi di cultura hanno bisogno . dei media? Due velocità.
131
Informazione scientifica e cronaca di attualità
Giovanni Celsi Interventi di: Giovanni Bechelloni, Tullio De Mauro,
Gianni Faustini, Sergio Lepri, Paolo Leon, Fabio Scandone, Federico Spantigati
Un'etica per la politica o anche una politica per l'etica?
Ritorna il tema dei rapporti fra politica ed etica. Il dubbio, a questo riguardo, è se si debba parlare in termini interrogativi o se invece si possa parlare assertivamente. Scegliamo la seconda ipotesi. Fondando l'affermazione su alcuni elementi di giudizio che trarremo da una ricognizione di avvenimenti o di segni. C'è però, preliminare, un'obiezione che potrebbe risultare decisiva per mandare avanti il discorso. E' stato detto: « Non esiste più morale in O ccidente ». E non perché manchino codici di comportamento. Questi, anzi, « si moltiplicano ogni giorno, e vengono osservati anche senza sanzioni. Solamente non ci si sente più obbligati in 'coscienza a farlo (GIANNI BAGET Bozzo, Prima del Bene e del Male, Rizzoli 1987). L'intuizione potrebbe essere considerata folgorante. Vero è che il fatto (la morale non esiste più) non appare di per sé nuovissimo ma, nei tempi ul timi, esso sembra aver trovato decisivo consolidamento come portato della tecnologia. In fatti, si sostiene ancora, la nostra è una società « molto coscienziosa » in quanto « la tecnologia richiede esattezza e meticolosità, quindi abitua a un forte controllo dei propri atti.' il che è in sostanza forse un surrogato di quello che si chiamava coscìenza ». Difficile è confutare le intuizioni soprattutto quando sembrano fondate su un'osservazione comune e diretta delle cose, nella quale ci troviamo in qualche modo. Eppure, se delle obbligazioni più o meno accettate si comincia a chiedere il. senso, ovvero se, come spesso capita, ci si interroga sulla loro stessa sufficienza, 'allora può succedere che il surrogato appaia come tale. Domande di tal genere riguardo alle « obbligazioni » cui pure siamo abituati riportano a qualche interrogazione più in pro fondità. Non diciamo che riportano a una domanda di verità. Né in questo domandare vogliamo cogliere, retoricamente, più che tanto. Diciamo semplicemente che non sempre o non ne-' cessariamente viène applicata fino in fondo la prima delle convenzioni sociali vigenti nel mondo contemporaneo secondo quanto lo stesso Autore ci ricorda: quella in base alla quàle è 'impedito a chi opera(o semplicemente a. chi vive) di considerare il fine della sua azione. Può accadere, e fortunamente accade, che questa convenzione venga alle volte infranta o almeno tenuta in sospeso. Forse ciò sta in' qualche misura accadendo ora. Ed è per questo che possiamo proseguire nel nostro discorso. 3
L'etica negli affari, Ethics in Business. Ecco un gran parlare di un problema di morale che poco tempo addietro, in mezzo a sfrenati quanto inaspettati e generici idoleggiamenti di un mercato come strumento .passpartout, sarebbe apparso a dir poco stonato. Oggi un titolista, un po' spremuto, di settimanale fa riferimento a questo gran parlare con un tiriamoci su di morale! (vedi il titolo dell'intervista di « Panorama » a Guido Carli, 3 maggio 1987). « The Wall Street Journal » ci ricorda che l'etica negli affari oggi appare assai declinante. Lo dimostrano i casi di incriminazione di personaggi di gran successo nell'area borsistica di New York come Ivan Boesky, David Levine, Martin Siegel. Ma ci avverte anche che il Business Ethics è oggi divenuto un'industria in naturale sviluppo. « Ci sono attualmente più di 30 libri sull'argomento, due riviste scientifiche e una mezza dozzina di centri di ricerca accademici. E' stata costituita una Society for Business Ethics e molteplici convegni sull'etica sono organizzati ogni anno. Recentemente, John Shad, ex-chairman della Securities and Exchange Commission si è impegnato a procurare 30 milioni di dollari per istituire un programma per insegnare agli studenti della Harvad Busi•ness School che l'etica paga » (DAVID VOGEL, Ethics Classes take on Business in U.S. Colleges, « The Wall Street Jour* nal », 28 aprile 1987). Una certa attenzione al problema dei rapporti fra etica e attività economica è, del resto, presente anche nel mondo economico italiano. Nei primi mesi del 1986 l'Unione Industriali di Torino ha promosso un convegno di rilievo sul tema. Ed ora c'è polemica sui « corsari della finanza ». Che dire di tutto ciò? Il sospetto che non di etica si tratti ma di più modeste regole del gioco, cioè della deontologia professionale necessaria perché il gioco vada avanti, è un sos petto verosimile. Sicché l'etica in affari di cui si discorre usurperebbe il nome di etica. Il sospetto è verosimile ma non del tutto giusto. Da una parte, perché il gioco, anche quello finanziario, è un gioco di massa e dunque va a toccare diverse corde profonde dell'uomo comune. Dall'altra perché è un gioco che, senza regole serie, è assai pericoloso per tutti. Anche, e soprattutto, fuori dallo spazio economico occidentale. In questi. anni molta euforia s'è diffusa nel mondo occidentale, e da nòi in particolare, riguardo al buon andamento delle cose economiche. Ma con accresciuta indifferenza alla condizione di quelli che pudicamente vengono qualificati come i « meno fortunati ». Ora, una riflessione etica che si muove dallo stesso mondo degli affari potrà anche sembrare un modo per mettere le mani avanti. Ma, sotto questa riflessione « etica » ci sono cose serie: per questo è meglio tenerne conto, valorizzarla, raccoglierla. E' bello e in qualche modo è facile trattare del « buon governo » della 4
tecnologia. Con saggezza apparente si può dire che il problema non è' nelle tecnologie ma nell'uso che se ne fa, che big techno1ogis comportano frequentemente big risks ma che fondamentalmente esse, le grandi tecnologie, devono essere considerate per la loro appropriatezza. Insomma, secondo gli ottimisti del progresso tecnologico i veri problemi sono nel contesto: le spinte politiche per successi di facciata, quelle economiche per profitti comunque ottenuti, le insufficienze decisionali degli apparati pubblici. E via dicendo. Però bisogna dite la verità: lo sviluppo tecnologico va per conto suo, è fuori portata e fuori controllo. Cresce, a parte i vincoli delle risorse economiche, secondo una logica propria, inevitabilniente specifica e, nella sua specificità, imprevedibile. Può accadere che esso abbia lucrato in passato di un pregiudizio favorevole, derivante dalla fiducia nel progresso, ovvero della diffusa convinzione che esso fosse neutrale. Ma è anche accaduto che il pregiudizio favorevole si sta ribaltando in una sostanziale.ostilità. In nome della natura violata. Osti' lità minore in passato, oggi molto diffusa. E la ragione c'è: il prezzo dello sviluppo tecnologico in termini di « qualità della vita » è ormai ei'idente. Ma se lo sviluppo tecnologico si pone oltre la soglia di un ragionevole controllo, date le sue specificità e date le stesse articolazioni centrifughe della società complessa, allora c'è il rischio di parlare a vuoto. Di fare letteratura (cattiva) e insieme di ampliare il solco fra le « due culture », la scientifica-tecnica e l'umanistica-morale, o meglio fra le tante culture che entrano in gioco. A semplice esercitazione retorica si riducono in effétti affermazioni come quella posta a premessa dell'ultima Istruzione sul « rispetto della vita umaiza nascente e la dignità della procreazione », firmata dal Card. Ratzinger, secondo la quale la ricerca scientifica di base e quella applicata, essendo espressione significativa della « signoria dell'uomo nel creato », costituiscono « preziose risorse dell'uomo quando si pongano al suo servizio e ne 'omuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti, (ma) non possono da sole indicare il senso dell'esistenza e del progresso umano ». Sembra tutto chiaro eppure tutto finisce per essere senso comune un po' velleitario. Chi sa dire cosa sia e come si realizzi lo sviluppo integrale, il beneficio di tutti e come scienza e tecnica possano porsi al « servizio » di questi fini? Forse bisogna riconoscere che scienza e tecnologie hanno usufruito. di uno statuto di neutralità morale che si è trasformato in delega in bianco. In una sorta di « scienza per la scienza ». Si può ritenere che la delega in bianco non possa 'essere rinnovata ancora tacitamente. Ma certo ciò non significa immaginare che si possanò applicare alla scienza decaloghi semplificati. 5
C'è qui una questione etica; ed è questione fondamentale. Ma i termini della medesima non sono semplici, com'è tutto sommato nel caso dell'etica in affari (o in politica: la « questione morale » come pomposamente richiamata, a fasi alterne, da taluni nostri politici). Ove si tratta, in de/initivà, di aggiornare alla luce delle• tecniche dell'insider trading o. dell'innovazione finanziaria i prece(ti derivanti dal settimo comandamento: non rubare. Ethics in Science and technology è forse cosa assai diversa, più impegnativa concettualmente che Ethics in Business. Ed al momento è forse difficile che sia un'industria in espansione fra le classi di insegnamento nei college USA, anche se l'ultimo volume dell'annuale Bibliography of Bioethics registra oltre 1800 titoli. Nel 1986 Laterza ha ripubblicato nella collana « Universale » Un etica per la politica di BERTRAND RUSSELL. A parte il valore della sistemazione teorica che il filosofo vi compie per affermare un'etica in grado di valorizzare la cooperazione sociale attraverso la priorità dei desideri individuali che. siano compatibili fra loro, il libro scritto nell'immediato dopoguerra, muoveva dalla condizione post-atomica del mondo. Il tema è quello della sopravvivenza, dei grandi conflitti fra nazioni e schieramenti di nazione come si venivano definendo allora nel pieno della guerra fredda. Come dunque evitare che questa diventasse calda e arrivasse alla fine a spazzare via po. poli e nazioni. « Nella storia umana siamo arrivati ad un punto in cui per la prima volta la pura e semplice sopravvivenza della razza umaa dipende dalla misura in cui gli uomini sapranno imparare ad ispirarsi ad una prospettiva morale ». Sicuramente la gran parte dell'umanità e i suoi governanti hanno ben tenuto a mente in questi quarant'anni il rischiò incalzante di catastrofi. Ne è nata l'abitudine alla deterrenza fra le potenze. Ad un costo ben preciso: arsenali sempre più zeppi di armi so/isticate di ànnientamento totale. Sarebbe invece estremamente azzardato sostenere che gli uomini abbiano imparato ad ispirarsi ad una prospettiva morale. Anzi, appare oggi improba bile che tale prospettiva morale possa essere conseguita, come pure auspicava Russeil, « solo grazie alla diffusione dello spirito scientifico »: cioè attraverso l< atteggiamento di chi. giudica in base all'evidenza e, in assenza di questa, sospende il proprio giudizio ». Il malessere profondo dello spirito scientifico come spirito contrapposto al fanatismo o al fatalismo non è minore di altri malesseri sociali. Esso stesso è all'origine di desideri con fliggenti più che di desideri armoniosi o com possibili. Del resto, se allora la catastrofe nucleare era quella temuta come effetto dell'atomo militare - laddove un'aspettativa progressista circondava il nascente « atomo per la pace » -. molto se non tutto sembra oggi cambiare. Chi a/fiderebbe oggi una chance alla tecnologia scientifica come elemento costruttivo di un'ipotesi sociale
e.
armoniosa? Al più ad essa ci si a/fida come scelta obbligata, come strumento necessario per lo sviluppo economico. Dunque riproporre un'etica per la politica agli esordi dell'era atomica significava riproporre la questione etica fondamentale: quella della sopravvivenza. Ciò voleva dire avere un tema unificante o meglio assorbente di ogni altro. L'etica per la politica è in questo caso l'etica per i rapporti fra i popoli o più precisamente fra i governi. Poi il gioco strategico fra le grandi potenze, impostato sull'equilibrio del terrore, ha supplito provvisoriamente alla mancanza di quest'etica per la politica in era atomica. Russeil concludeva allora il suo lavoro dicendosi sicuro che data la consapevolezza del rischio atomico questo sarebbe avvenuto: coloro che hanno il compito di pilotare il mondo fuori dai suoi problemi attuali avranno bisogno - e di fatto avranno - coraggio, speranza e amore. Non molti in quarant'anni i riscontri per questo ottimismo. Eppure, almeno nel mondo occidentale, la cloro formizzazione della deterrenza e del benessere economico ha ridato alle cose apparenza di normalità. In un contesto che mette in qualche modo in parentesi la questione etica fondamentale si realizza un'altra vicenda fatta di onde ricorrenti d'indif ferenza morale o di ripresa anche vivace di sensibilità etica. Giustamente FRED HIRSCH si chiedeva dieci anni fa, nel lavoro I limiti sociali dello sviluppo, se non fosse possibile parìare di un -ritorno della morale dato il grande interesse suscitato dai contributi di filosofia pubblica nella cultura americana. Ed in realtà il decennio del Sessantotto può anche essere letto in questa chiave. Anche quando il ritorno della morale finì per bruciarsi nel delirio delle ideologie. Al fondo, come commenta SALVATORE VECA in Questioni di giustizia (Pratiche Editrice, 1985) il problema era « quello di identificare un criterio alla luce - del quale giustificare (o meno) l'assetto fondamentale delle istituzioni di una società ». L'onda di quel ritorno alla morale è passata. Contro il bisogno di giusti/iazione ha recuperato l'etica del mercato come etica pigliatutto. Essa nep pur s'è posto il problema di far accettare, cioè giusti/icare, le istituzioni ma di animarle con la vitalità di un gran gioco di competizioni diffuse. L'impressione, oggi, è che anche quest'onda declini e si vada frangendo. Segni e fatti già innanzi rilevati stanno a dimostrarlo. A questo punto, se siamo tuttora dinnanzi ad un ritorno alla morale, di che cosa si tratta? Si tratta, ci sembra, di una particolare sensibilità a tante questioni etiche. -
Dunque un'etica al plurale? Entro certi limiti sì. Non a caso i cultori del ragionamento morale si ri/anno, e non possono non rifarsi sempre più, alla società complessa. i'
L'etica al plurale non è però fatta di questioni minori. Al contrario è fatta di tante questioni inedite e di sconvolgenti risonanze. E a chi fanno capo? Chi esse chiamano in causa? L'uomo comune, certo. Ma soprattutto donne e uomini nelle professioni e nelle istituzioni. La complessità delle questioni e la complessità della vita sociale sons una cosa. La perdita di visione d'insieme per cogliere ciò che è più importante, la .perdita delle connessioni fra l'uno o l'altro aspetto della vita sono altra cosa. Dice giustamente uno studioso di bioetica: d'accordo a « non riproporr'e alcun nuovo disegno di unità del sapere » ma d'accordo anche a « non accettare la disgregazione istituzionalizzata dell'essere umano nelle frammentarie opzioni di cento' discipline diverse ». Sperando almeno « di trovare un codice minimo il cui rispetto comporti una più dignitosa qualità della vita in ogni circostanza e la sopravvivenza della biosfera nel suo insieme » (ERNESTO MASCITELLI su « Alfabeta », aprile 1987). Siamo sicuri che a questo fine non ci siano responsabilità e responsabilità precise della politica? Che cioè oltre ad un'etica per la pblitica ci voglia 'una politica per l'etica intendendo per politica un'attività fatta di capacità di mettersi all'erta e di sollecitare nella società la ricerca di convenzioni etiche e di nuovi codici morali magari minimi? Lungo questa strada la formula dell'État anilnateur che molto piace attualmente agli scrittori di « Esprit » (v. il fascicolo La passion des idées agosto-settembre 1986) può apparire un'idea felice. Si pensa a uno stato più abile a cogliere interrogativi e a mobilitarsi intorno allo spirito pubblico e alle responsabilità comuni. Uno stato in cui si muo vano uomini politici non ingessati nella gestione delle risorse elettorali e più attenti al ruolo morale e simbolico del far politica. Sono spunti importanti, da riprendere. Ruolo morale e simbolico significa ruolo forte di proposta di valori. Ma senza retorica e senza spettacoli narcisisti. Diceva C.E. Gadda: « il narcisisla, nella sua corsa verso l'addobbo etico, vers l'éclat exterieur des idées morales, non bada al contenuto di codeste idee: purché le siano idee da poterne sloggiare a pompa civica, lui le infila tutte, le une e le altre, e anche le reciprocamente contraddittorie » (Eros e Priapo. Da Furore a Cenere, Garzanti 1967, pag. 181). Di questo addobbo etico oggi, è ovvio, nessuno ha bisogno.
R.
queste istituzioni Invernò 1986-87
America, i dilemmi della. democrazia imperiale
Sull'organizzazione e sul funzionamento del sistema politico americano l'informazione quotidiana, sovrabbondante di immagini, non sembra un buon veicolo di comprensione. Come operi e soprattutto come si sia trasformato in questi ultimi decenni il sistema di governo degli Stati Uniti non è molto chiaro, in Europa, anche all'opinione pubblica colta. Spesso si va dalle reminiscenze delle classiche interpretazioni ottocentesche di Alexis de Tocqueville alle semplificazioni sull'< ingenuità » politica del colosso UsA suggerite da una rapida lettura delle cronache. Questa rivista ha sempre ritenuto importante dedicare particolare attenzione alle istituzioni e alle vicende della politica americana. Il contributo di Fab-, brini qui pubblicato serve a ricostruire le trasformazioni più recenti di quel nucleo strategico del sistema di governo, molto chiacchierato ma poco conosciuto, che è la Presidenza. L'ennesima crisi di questa istituzione, ci riferiamo al caso c.d. Irangate tuttora in pieno svolgimento, va a conferma della diagnosi presentata nelle pagine che seguono. L'articolo di Pianta a.ggiorna gli elementi di giudizio sulle « guerre stellari » e s'integra con il saggio sulla Strategic Defense Initiative di Lord Zuckermann già apparso sul n. 68.
Effetto Reagan: la Gas a Bianca da istituzione plebiscitaria a istituzione retorica? di Sergio Fabbrini
La Presidenza degli Stati Uniti d'America costituisce, all'interno dei sistemi politici occidentali, un'istituzione che non ha equivalenti per il numero di risorse decisionali di cui dispone e per il grado di influenza che essa può esercitare nei confronti delle vicende politiche nazionali ed internazionali'. Per queste ragioni non stupisce che, intorno alla sua natura, si siano svolti negli ultimi tre decenni significativi di.battiti teorici e altrettanto rilevanti indagini empiriche, che hanno visto però come protagonisti quasi esclusivamente studiosi e osservatori statunitensi. Lo scopo di queste riflessioni è duplice: in primo luogo, e principalmente, esse vogliono individuare i tratti « esterni » ed « interni » di quell'istituzione, cioè i processi che hanno condotto alla sua contemporanea configurazione, e quindi le sue caratteristiche specifiche. In secondo luogo, esse vogliono avanzare alcune considerazioni in merito alle caratteristiche che il processo politico è venuto ad assumere in quel paese in virtù, o a causa, del particolare ruolo che l'istituto presidenziale ha esercitato nelle condizioni contemporanee.
E' bene esplicare il progetto di ricerca che sembra il più appropriato per conseguire i risultati desiderati. Per quanto riguarda il primo obiettivo, l'indagine va collocata a tre livelli analitici diversi. Il primo concerne i processi sociali, economici e culturali, il cui svolgimento, in particolare nell'ultimo mezzo secolo, ha rappresentato una fonte costante di pressione nei confronti della Presidenza, e nel senso di una sua trasformazione in direzione plebiscitaria. Il secondo livello è relativo, invede, ai processi più esplicitamente politici ed istituzionali che nel loro corso hanno direttamente contribuito, a partire dal secondo dopoguerra ed in particolare negli ultimi quindici anni, ad uno sviluppo dell'istituto presidenziale nella direzione sopra ricordata. Infine, il terzo livello riguarda in specifico i processi di tipo organizzativo che si sono realizzati con sorprendente continuità per tutto il secondo dopoguerra, e il cui esito è rappresentato da un rafforzamento dell'Esecutivo, e al suo interno a sua volta della White House, nei confronti sia del Congresso che della Corte Costituzionale. Per quanto riguarda il secondo ob11
biettivo di queste riflessioni è sufficiente qui sottolineare la necessità di collocare l'indagine sia sul piano degli effetii che la trasformazione in senso plebiscitario della Presidenza ha prodotto nei confronti del funzionamento dell'attività governativa che su quello più generalmente attinente alle modalità della partecipazione politica da parte dei principali gruppi e attori del paese. Ora, l'esito combinato di questa doppia indagine dovrà mettere in luce l'esistenza di una particolare configurazione istituzionale della Presidenza statunitense contemporanea, configurazione che consente legittimamente di definire quest'istituto (per le sue caratteristiche, le sue funzioni e i suoi compòrtamenti) come una rethorical Presidency2 . Le due presidenze Reagan costituiscono, in questo contesto, un completamento ed un consolidamento dell'insieme di processi che, a partire dalla prima amministrazione di F.D. Roosevelt nel 1932, hanno connotato la vicenda della moderna Presidenza. Di più, con Reagan, quei processi hanno ricevuto una declinazione consapevolmente ed efficacemente plebiscitaria, una declinazione finalizzata a fornire alla Presidenza lo status di predominante centro decisionale del sistema istituzionale, e quindi ad enfatizzare il rapporto diretto tra il Presidente e la gente (« the presideni and the peo pie ») in quanto unica relazione capace di fornire un'identità collettiva al paese. Come si vedrà, e come abbiamo mostrato più ampiamente in al12
tra sede', il progetto neo-conservatore dell'attuale amministrazione ha conseguito risultati importanti, anche se esso ha dovuto nondimeno registrare forti e costanti limitazioni sul piano dell'azione istituzionale.
DA WILs0N AL NEW DEAL: VERSO L'ISTITUZIONE PLEBISCITARIA
Nel 1884 il 'giovane scienziato p0litico Woodrow Wilson, destinato poi a divenire uno dei più influenti Presidenti degli Stati Uniti, scrisse un libro meritatamente importante, e non a caso intitolato Con gressionai Government: A Study in American Politics4 . In questo studio, in. coerenza con la tradizione politica che aveva caratterizzato l'intera esperienza statunitense sin dal dibattito tra i padri fondatori alla Convenzione di Filadelfia nel 1776, veniva sottolineata l'assoluta centralità nell'azione governativa del Congresso, a cui venivano affidati compiti non solo di rappresentanza politica ma anche di definizione degli orientamenti di poiicy. Alla Presidenza erano affidate funzioni letteralmente esecutive, e la sua dipendena dall 'organismo legislativo veniva ulteriormente sottolineata dalla particolare procedura adottata per la nomina del Presidente, una procedura largamente controllata sia dalle macchine organizzative dei partiti che, e soprattutto, dai loro caucus parlamentari. Le grandi trasformazioni economi-
che indotte dalla crisi degli anni Ottanta del secolo scorso, la formazione di concentrazioni produttive e finanziarie (le grandi corporations) in g-ado di imporre nuove regole di funzionamento del mercato, la nascita di grandi organizzazioni di interesse capaci di controllare in modo quasi-monopolistico una o più risorse di fondamentale importanza per il funzionamento del sistema economico, il mutamento delle tecniche produttive e la nascita e il successivo sviluppo di una produzione standardizzata e massificata, questi ed altri processi sembrano sollecitare e richiedere un diverso e più attivo ruolo, verso la società civile, delle istituzioni pubbliche, ed in particolare di quelle governative. In questo nuovo contesto storico, l'azione del Congresso finisce per risultare eccessivamente frammentaria e - in termini di policy - non adeguatamente efficace, e ciò probabilmente per il sistema di vincoli generato dalla rappresentanza pluralistica degli interessi che esso rifletteva. Sarà lo stesso Wilson, ventiquattr'anni dopo, a ricostruire e quindi a criticare i limiti del governo parlamentare da lui in precedenza elogiato (con lo scopo, allora, di ulteriormente rafforzarlo e razionalizzarlo), in una serie di lectures quindi pubblicate con il titolo: Constitutional Goverment in the Uniteci States6 Ciò che è di interesse per noi sottolineare è che nel « secondo » Wilson emerge una forte consapevolezza sistemica circa le interazioni tra .
sfera politica e mutamenti sociali'. Lo studioso e statista statunitense, preoccupato di individuare un effettivo strumento di governo, finisce per affermare con vigore la neces sità di una riforma costituzionale che fornisca l'Esecutivo di una reale indipendenza dal legislativo, una indipendenza che, d'altronde, non poteva essere rivendicata dalla Presidenza fino a quando la sua esclusiva fonte di legittimazione era la Carta costituzionale, e dal Presidente fino a quando la sua esclusiva base elettorale era costituita dal Congresso. Non casualmente, la forza politica che in quel periodo con più determinazione rivendicava un ruolo attivo del governo, cioè i progressisti, sarà anche quella che cercherà di introdurre alcune significative riforme elettorali, tese a costituire un canale elettorale di scelta del candidato presidenziale distinto da quello relativo alle elezioni per il Congresso. Si trattava di un sistema di open primaries che, anche se non ebbe successo (fu attuato solo in alcuni stati e solo per un periodo limitato di tempo)', ebbe tuttavia il merito di sollevare una questione costituzionale di prima grandezza: e cioè che l'autonomizzazione dell 'Esecutivo avrebbe potuto realizzarsi solo individuando una diversa fonte di sostegno (rispetto a quella tradizionale) dell'azione presidenziale. La rivoluzione roosveltiana. L'esperienza della Prima guerra mondiale e poi quella della travolgente crisi 13
del 1929 potranno in termini improrogabili l'urgenza di una trasformazione del sistema istituzionale, nel senso di una centralizzazione dell'attività governativa all'interno della Presidenza. Non fu un processo lineare e privo di contraddizioni. Le prime due amministrazioni di F. D. Roosevelt furono costantemente connotate, almeno fino ad un anno prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, da un conflitto istituzionale con il Congresso e - in particolare - la Corte Suprema, conflitto che aveva come esplicita posta in gioco la definizione delle possibilità e delle responsabilità del Presidente". Ma, nonostante questo conflitto, si arrivò ad una trasformazione radicale del sistema politico, ai punto che gli storici hanno potuto legittimamente parlare di una « Roosevelt Revolution ». Le caratteristiche di questa rivoluzione si potrebbero così sintetizzare'": (a) sul piano costituzionale, fu riconosciuto un sostanziale ampliamento degli ambiti di competenza del governo nazionale, e ciò a spese dell'autorità dei singoli governi Statali e, più in generale, del sistema federale così come era stato realizzato per tutto il secolo scorso; (b) sul piano istituzionale, il Congresso rinunciò a molte delle sue tradizionali prerogative, autorizzando l'Esecutivo ad intraprendere un numero considerevole di iniziative, e ciò suila base di una dotazione di fondi e di autorità di cui quest'ultimo non aveva mai potuto usufruire nel passato; (c) sul piano politico, il tra14
sferimento del baricentro governativo all'interno dell'Esecutivo implicò sia un ridimensionamento dei partiti politici nell 'arena pubblica che un analogo spostamento dell'ambito d'azione ritenuto come privilegiato, da parte dei principali gruppi d'interesse, dal Congresso alla Presidenza; (d) sui piano organizzativo, il nuovo ruolo presidenziale tichiese una radicale riorganizzazione della sua struttura interna, e ciò per far fronte a nuove e più complesse funzioni e per orientare un processo di policy-making che in misura crescente (e su alcuni ambiti, come la politica economica, di grande rilevanza) si andava svolgendo al suo interno. E' bene avere sempre presente questi quattro aspetti della rivoluzione rooseveltiana, poiché essi costituiscono, per così dire, le fondamenta su cui si è sviluppata nel Secondo dopoguerra la moderna Presidenza", cioè un organismo istituzionale abilitato ad esercitare ruoli e comportamenti affatto estranei sia in relazione alla tradizione politica statunitense che all'esperienza costituzionale di quel paese tra la sua fondazione come stato indipendente e gli anni Trenta di questo secolo. Ma è bene anche ricordare che questa trasformazione del sistema politico e istituzionale fu fortemente soliecitata da un mutamento nelle caràtteristiche di funzionamento del sistema sociale, e segnatamente dal passaggio ad una forma di capitalismo organizzato contraddistinto dall'esistenza di grandi gruppi d'inte-
resse collocati in posizione monopolistica e oligopolistica nei rispettivi mercati (ciò che alcuni studiosi' 2 hanno definito come passaggio ad un sistema di intermediazione degli interessi di tipo neo pluralista, appunto in contrasto con 1 quello pluralista tipico di epoche o di ambiti concorrenziali). Ora, sotto la pressione di due tendenze per molti versi opposte (la prima, di tipo sistematico, tesa a rivendicare un ruolo più. attivo dell'Esecutivo, mentre la seconda, di tipo istituzionale, sovente inerzialmente favorevole ad una sua limitazione), prende corpo una specifica modalità di azione presidenziale finalizzata ad individuare una nuova fonte di legittimità del Presidente, sulla base della quale poi ricomporre su un diverso piano politico quella duplice pressione. Questa modalità è consistita nella costituzione di un rapporto diretto tra il Presidente e i cittadini, rapporto che è stato ovviamente favorito dalla nascita e quindi dallo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione. Per vincere le resistenze del Congresso ad una particolare proposta di policy avanzata dall 'Amministrazione, per convincere parlamentari riluttanti ad accettare gli orientamenti dell'Esecutivo, per neutralizzare le resistenze di vested interests o di corpi professionali particolarmente influenti, e soprattutto per neutralizzare vincoli istituzionali costituzionalmente legittimati, F.D. Roosevelt, e dopo dj lui tutti gli altri « moderni » presidenti (anche se non bisogna di-
menticare la campagna pionieristica di Wilson, alfa fine della Prima guerra mondiale, per fare approvare le sue proposte sulla costituzione della rinnovata Società delle Nazioni), scelgono consapevolmente di ricorrere « ai sentimenti e alla volontà » dei cittadini, di fare appello all'opinione pubblica affinché con i suoi strumenti (lettere e telefonate ai vari rappresentanti, campagne di stampa, azioni di pressione organizzate.) faccia sentire « the true voice of the Nation » a Washington, D.C. Da Roosevelt a Reagan. In momenti di crisi e di sommovimento sociale la Presidenza appare come l'unico istituto capace di generare un senso di unità nazionale nel paese, e il Presidente l'unico leader politico obiettivamente in grado di candidarsi al ruolo di rappresentante di quell'unità. E' dunque attraverso la retorica che i moderni presidenti sono riusciti a tràsferire nella Presidenza ciò che F.D. Roosevelt chiamò la « moral leadership » del paese, e quindi a fare di quella leadership uno strumento formidabile dell'azione politica e istituzionale. E' stato fatto notare' , correttamente, che siffatta trasformazione ha solo apparentemente risolto la contraddizione insita sin dalle origini nella figura presidenziale, una figura che fa cioè del Presidente contemporaneamente un capo di governo (quindi, un uomo di parte) e un capo di Stato (quindi, un uomo al di sopra delle parti). La leadership morale rivendicata alla Presidenza costituì l'op-
zione che tutti i presidenti hanno utilizzato, da F.D. Roosevelt fino a Reagan, per allargare con costanza l'ambito di discrezionalità delle loro scelte e dei loro comportamenti. Nondimeno, si trattava e si tratta di un'opzione il cui esercizio è tutt'altro che impermeabile all'azione di possibili effetti inattesi (« unintencled e//ects »), effetti che sono destinati ad intervenire proprio nei presupposti di legittimazione di quella leadership. In altri termini, una simile leadership richiede un alto grado di visibilità dell'azione presidenziale, un suo dinamismo costante per produrre per formances adeguate alle aspettative crescenti che i cittadini sono Stati abituati a nutrire verso di essa. Di più, come è testimoniato dall'esperienza del Watergate, quella leadership può finire per risultare prigioniera delle sue stesse prerogative, precludendosi la possibilità di ricorrere - all'occorrenza - ad una legittimazione di tipo esclusivamente politico: le regole del gioco, anche quelle poco lecite, che valgono per, o comunque sono tollerate quando si tratta di, politici di parte, cessano di avere qualsivoglia giustificazione quando è in gioco l'azione del Presidente. Ciò che è importante ora sottolineare è che questa evoluzione verso una Presidenza centralizzatrice e plebiscitaria è stata dovuta per larga parte a cause di tipo interno, cioè essa ha le sue origini nella trasformazione della società e della politica americane. Il ruolo preminente che il paese verrà ad esercitare sul 16
piano dei rapporti internazionali con la Seconda guerra mondiale finirà per esaltare e consolidare una struttura di rapporti istituzionali, che tuttavia era stata già precedentemente modificata a prescindere dai nuovi eventi realizzatisi nello scenario mondiale. Intorno a questa problematica si è sviluppato come noto, sull'onda dell'intervento militare del paese in Vietnam e quindi del suo epilogo fallimentare, un ampio e risentito dibattito tra studiosi e protagonisti di quella vicenda. Appare comunque ragionevole affermare, proprio sulla base degli esiti di quel dibattito, che la imperial Presidency' 4 si costituì certamente nel contesto della verticale divisione geo-politica del mondo emersa dalla Seconda guerra mondiale e dal lungo periodo successivo della guerra fredda, ma anche che tale sviluppo si era reso possibile perché erano state di già approntate le fondamenta istituzionali di un diverso ruolo presidenziale. Ovviamente, l'individuazione precisa delle origini e quindi dei fattori che hanno concorso all'introduzione di una particolare innovazione politica e istituziohale, è stata e continua ad essere finalizzata, in alcuni autori" presenti in quel dibattito, all'obiettivo di prefigurare i percorsi possibili di una strategia riformista tesa « ad innovare l'innovazione ». Comunque, per tutto il lungo periodo post-bellico, i fattori interni e internazionali si sono associati nell'azione di promozione di una Presidenza intesa come l'unico organismo ca-
pace di garantire e rafforzare le con- conservatori, mentre la promozione dizioni della vita democratica, den- e la relativa giustificazione teorica tro e fuori il paese. Lo sviluppo del- del governo presidenziale sono state, l'industrializzazione e i suoi attuali per quasi mezzo secolo, di forte imsbocchi post-industriali, con la bal- pronta liberai. canizzazione degli interessi e la segmentazione delle figure lavorative e professionali da essi indotti, han- LE ELEZIONI DEL 1984: no finito per accentuare ulteriorLA PRESIDENZA EMARGINA mente il bisogno dei cittadini & I PARTITI? organismo capaci di produrre una Quasi con stupore, alcuni osservavisibile e diretta identità politica tori, in particolare europei, rilevarocollettiva. Allo stesso modo, lo sta- no all'indomani delle elezioni preto di conflitto permanente tra le sidenziali del 1984 il prodursi di due superpotenze rivali, con fatica un fenomeno apparentemente paratrattenuto nell'ambito di crisi re- dossale. L'affermazione quasi plebigionali, e soprattutto il grado elevascitaria, sia pure in presenza di una tissimo di pericolosità degli strumenpartecipazione al voto di appena il ti bellici a loro disposizione, hanno 53 % degli elettori, del Presidente spinto a loro volta sia verso un raf- e dell'Amministrazione in carica forzamento del ruolo presidenziale (« incumbent ») si era realizzata (l'unico. leader legittimato a rappre- contestualmente ad un ridimensiosentare il paese) che verso un conso- namento (nelle elezioni per i seggi lidamento del rapporto diretto tra senatoriali in palio) oppure ad uno il Presidente e i cittadini (rapporto scarso e non rilevante successo (nelche ha però registrato frequenti in- le elezioni per i seggi della Camera) crinature). Nell'esperienza delle due del partito del Presidente, cioè il amministrazioni Reagan viene a ma- Partito repubblicano. I democratici, turazione quest'insieme di processi, pur perdendo 13 seggi alla Camera, e sarà merito di 'quel Presidente e del si erano dimostrati in grado di consuo staff conservatore aver saputo solidare i risultati ragguardevoli otdeclinare quei processi nel senso di tenuti nelle elezioni del 1982, conun rafforzamento senza precedenti servando dunque una larga maggiodella ieadership presidenziale (la cui ranza (254 seggi contro 181 repubautorevolezza e la cui popolarità poblicani) in quell 'assemblea; così, trebbero probabilmente competere guadagnando due seggi al Senato, con quella « leggendaria » di F.D. si dimostrarono capaci di minacciare Roosevelt' 6 ). E' altresì singolare che seriamente la leadership repubblicadi una simile evoluzione istituzio- na di quest'ultimo (che poteva usunale siano venuti a beneficiare, in fruire di soli tre seggi di differenquesto decennio, gruppi e leaders za: 53 contro 47 democratici). Quei
17
risultati confermavano, in realtà, una tendenza presente già da tempo nel paese, e nota come fenomeno del ticket-splitting 17 In altri termini, gli elettori mostravano di adottare un diverso sistema delle preferenze nel caso delle elezioni preidenziali e in quello dell'elezione del proprio rappresentante alla Camera. Il processo elettorale, per essere compreso, richiede una sua destrutturazione, poiché la proprietà politica della relazione tra candidato ed elettore varia sensibilmente in funzione dell'ufficio pubblico per il conseguimento del quale quella relazione si era costituita. Ora, nelle elezioni congressuali, l'lettore generalmente agisce sulla base di considerazioni e criteri sovente di natura particolaristica, e che rinviano ad un giudizio sulla collocazione istituzionale del candidato (e quindi al numero di risorse che essa lo mette in grado di utilizzare), oppure sulla sua abilità nel favorire, una volta eletto o confermato, gli interessi sezionali in cui quell'elettore è inserito; a contrario, nelle elezioni presidenziali, l'elettore è generalmente più sensibile a considerazioni di tipo generale, e che rinviano ad un giudizio sullo stato del paese, sulla salute dell'economia, sul prestigio internazionale acquisito, etc. Questi due diversi sistemi di preferenze hanno finito così per enfatizzare, nel primo caso, l'esperienza istituzionale del candidato a prescindere dalla sua collocazione, partitica, e quindi generalmente a premiare il candidato incumbent rispetto al '
18
suo rivale; e, nel secondo caso, l'autorevolezza personale, o meglio la capacità di leadership, del candidafo presidenziale, e quindi la sua credibilità nel promettere la realizzazione di una forte Presidenza (« strong Presidency »)''. Un partito del Presidente? E' dunque significativo che neppure i conservatori dell 'Amministrazione Reagan siano stati in grado di rovesciare un trend ormai consolidato della politica americana: se è indubbio che essi hanno beneficiato di un processo storico di capitalizzazione delle risorse di leadership all'interno della Presidenza, è altrettanto mequivocabile che ciò sia avvenuto in presenza di un ridimensionamento che sembra quasi inarrestabile dei partiti politici. Si cercherà di mostrare in seguito come tra i due fenomeni esista una forte relazione di influenza reciproca. Qui sarà sufficiente ricordare che, contrariamente all'esperienza delle prime presidenze moderne, l'affermazione della leadership presidenziale negli ultimi quindici anni non è stata in grado di produrre nuove e stabili lealtà intorno al partito del Presidente. Tra l'esperienza del New Deal e quella del nuovo conservatorismo reaganiano si chiude un ciclo della politica americana, e se ne apre un altro carico di grandi incertezze. Le vittorie elettorali di F.D. Roosevelt erano state in grado di generare una contestuale affermazione del Partito democratico, intorno al cui programma e personale politico venne impe-
tuosamente a costituirsi una nuova coalizione dominante, la cui solidità e il cui progressivo allargamento consentirono a quel partito di mantenere il controllo dell'agenda politica nazionale per quasi quattro decenni. Con riferimento alle vicende degli anni Trenta, gli studiosi hanno potuto legittimamente parlare di elezioni di ri-allineamento', cioè di elezioni che avevano non solo messo in luce l'esistenza di una crisi nel blocco sociale e politico che aveva precedentemente dominato la politica nazionale, ma anche dato vita ad un nuovo blocco identificato partiticamente che si era sostituito a quello precedente. La stabilità della coalizione democratica fu tutt'altro che minacciata dalle due presidenze « repubblicane » di Eisenhower, un Presidente notoriamente preoccupato di presentarsi all'opinione pubblica come uomo non di partito. Negli anni Sessanta, con le prospettive integrazionistiche delineate nella New Frontier di J.F. Kennedy e quindi con i programmi - non privi di contraddizioni - della Great Society di Johnson, la coalizione democratica raggiungerà il suo grado più alto di forza elettorale (dopo le elezioni del 1964, in. entrambe le camere, si costituì una maggioranza democratica di tali proporzioni che, ad ogni seggio repubblicano, ne corrispondevano più di due democratici) e di dominanza politica. E' opportuno, come hanno ricordato alcuni autori 20 , non enfatizzare eccessivamente il ruolo del Partito
democratico, sia pure nel contesto di un periodo storico, come quello appena ricordato, particolarmente felice sul piano dei risultati di partito. Si tratta di una cautela, in questo caso, quanto mai necessaria proprio se si considera la vicenda storica dei partiti politici statunitensi, tradizionalmente impossibilitati ad esercitare il ruAo, peculiare del partito politico, di unificare in una prospettiva generale e centralizzata la miriade di domande politiche di parte. Le ragioni di questa impossibilità sono note. Basti pensare alla cultura politica del paese, così intrisa, sin dalle origini del nuovo Stato, di diffidenza e • sospetto verso le organizzazioni politiche •di parte, verso la partisanship, e quindi - successi-. vamente - verso gli apparati e le macchine partitiche. Questi sentimenti saranno alle origini dei periodici moviménti di protesta contro, e di riforma dei, partiti, che continuano a caratterizzare la vicenda di quel paese. Oppure, si pensi alle dimensioni geografiche del paese, alle sue sensibili e mai superate divisioni regionali ed etniche, alla mobilità della popolazione e, soprattutto, al continuo afflusso di nuovi gruppi sociali, preoccupati di produrre più immediatamente protettive solidarietà interne di tipo etnico, e non identità politiche generali. Ancora, e probabilmente in modo determinante, la vicenda dei partiti è stata influenzata dall'organizzazione istituzionale del paese e dalle caratteristiche del suo processo poli.. tico-elettorale. Un'organizzazione sta19
tale di tipo federale complessa e decentrata, tradizionalmente informata al criterio di produrre limitazioni all'esercizio del potere, piuttosto che un'esaltazione dello stesso, non poteva certamente sollecitare la nascita e lo sviluppo di organizzazioni partitiche nazionali e centralizzate. La evoluzione organizzativa dei partiti si è pertanto adeguata alle caratteristiche istituzionali dell'organizzazione statale, per il controllo e il governo della quale i partiti si sono storicamente costituiti. Tutto ciò contribuisce a spiegare perché i due principali partiti statunitensi, con l'eccezione significativa dei periodi di crisi e di social turmoil, abbiano manifestato storicamente una debole coerenza ideologica. I programmi di partito, pur all'interno di una condivisa ispirazione di fondo, sono stati sovente l'esito di una defatigante opera di mediazione (« brokerage ») tra le domande contradditorie e conflittuali avanzate dai vari segmenti delle distinte coalizioni. Sono note le difficoltà che i presidenti hanno' generalmente incontrato, dalla fine del sistema tradizionale del secolo scorso, nell'usare il proprio partito per produrre un consenso stabile ed affidabile, intorno agli orientamenti programmatici da essi propugnati, tra i membri del Congresso eletti tramite il loro stesso partito.
Il modello elettorale a «due canali »: le nuove regole del gioco. Non va altresì dimenticato che le stesse caratteristiche del processo elettora-
le che emerge dal 'declino della fase « Con gress-centered » della politica nazionale (quella in cui, de /acto il Presidente veniva nominato dal caucus parlamentare del proprio partito) ha tutt'altro che favorito la funzione 'di raccordo tra la Presidenza e il Congresso che i partiti avrebbero potuto esercitare. Quel processo, infatti, ha finito per delineare due canali elettorali distinti e, non infrequentemente, contrapposti, e caraterizzati da due diverse constituencies (cioè bàsi elettorali) di riferi mento2 '. Contrariamente ai sistemi parlamentari su base partitica, in cui la base elettorale del capo di governo è la stessa degli altri deputati del suo partito che lo hanno eletto a quell'incarico, nel sistema statunitense il Presidente e il singolo con gressman dello stesso partito rispondono a due constituencies separate: il primo ad una di tipo nazionale, il secondo ad una di distretto. Ciò produce non solo quel doppio sistema di criteri e preferenze prima ricordato, ma anche una singolare situazione di indipendenza politica reciproca. Non stupisce di conseguenza che tra il Presidente e il singolo parlamentare dello stesso partito si creino situazioni ripetute di conflitto: il taglio di una spesa del bilancio federale da parte del Presidente, motivato - ad esempio dalla necessità da parte di quest'ultimo di mantenere fede ad un precedente impegno elettorale a favore di una riduzione del deficit nazionale, può avere effetti penalizzanti su gruppi o aree del paese che un
20 /
con gressman dello stesso partito del Presidente rappresenta istituzionalmente. Quella scelta presidenziale, giustificabile sulla base dell'elettorato nazionale del Presidente, diventa tutt'altro che giustificabile solo se si consideri l'interesse del deputato in questione a farsi ri-eleggere dal proprio particolare elettorato. Nondimeno, l'esperienza del Partito demòcratico tra il 1932 e il 1968, pur all'interno delle aporie e disarmonie appena ricordate, appare complessivamente positiva sul piano del rendimento di partito: settori maggioritari dei partito hanno saputo dffrire un sostegno affidabile al Presidente, nelle situazioni in cui si veniva a prefigurare un confronto strategico tra quest'ultimo e il partito di opposizione (si pensi, ad esempio, all'approvazione della legislazione sociale della Great Society). Tuttavia, queste situazioni si resero possibili perché altri fattori erano entrati in opera, oltre al mero controllo dei due rami del Congresso da parte del partito del Presidente. Un senso di emergenza o di urgenza nazionale si era infatti, in quei momenti, manifestato; così, l'affermazione del candidato presidenziale aveva avuto caratteristiche largamente maggioritarie (si era avuta, ad esempio, una « landslide election »); il turn-over nei seggi congressuali si era rivelato molto alto, finendo per intaccare precedenti situazioni di seniority, fonte tradizionale di resistenza alle proposte innovatrici del neo-eletto Presidente; e, soprattutto, durante la campagna
elettorale il candidato presidenziale era riuscito convincentemente a giocare la carta della sua leadership autorevole22 Dunque, nel periodo che stiamo considerando, le varie parti che costituivano il partito (il party in the government, le party organizations, e il party in the electorate) furono ricondotte ad un'unità, sia pure provvisoria (basti pensare ai contrasti che si scatenarono tra le fila democratiche in merito all'approvazione della Civil Rights Legislation), proprio grazie all'esercizio di una leadership presidenziale forte ed ispirata. I quattro mutamenti introdotti dalla rivoluzione rooseveltiana, più sopra ricordati, furono consolidati, con gradi diversi di convinzione, dai presidenti democratici che lo seguirono, e dalla doppia presidenza a-partisan di Eisenhower. Tuttavia, quando la realizzazione di quelle innovazioni finiva per determinare conflitti e contrasti politici e istituzionali, allora la risorsa che si mostrava in grado di bloccare in qualche modo lo stallo che si era creato era la capacità di leadership del Presidente. Ora, questo precario e poco soddisfacente equilibrio viene messo sensibilmente in discussione nel 1968, sulla base di motivazioni che tuttavia attengono la capacità rappresentativa del partito, piuttosto che la efficacia della sua azione istituzionale. Fu alla Con vention democratica che si tenne proprio in quell'anno a Chicago che i movimenti della new politics portarono ad un grado .
21
di visibilità nazionale il conflitto con la macchina di partito, gelosa delle e chiusa nelle proprie prerogative. La posta in gioco di quel conflitto, che ebbe peraltro uno svolgimento drammatico, concerneva la natura delle procedure elettorali da utilizzare per individuare e scegliere il candidato presidenziale del partito. Fino ad allora la scelta' del candidato era avvenuta all'interno di Convenzioni costituite per larghissima parte da delegati eletti sulla base di procedure interne al partito. In questo modo, costoro risultavano essere, generalmente, dei party regulars, cioè membri di partito oppure individui con un qualche legame con la sua macchina organizzativa, quindi fedeli ai capi-partito locali e statali (i bosses), i quali ultimi erano i veri protagonisti della Convenzione e del suo esito. Infatti, nel 1968, appena 17 Stati avevano adottato la procedura delle primarie aperte (le open primaries) per scegliere il candidato e quindi i delegati ad esso favorevole per la Convenzione, mentre la maggioranza degli Stati aveva continuato a scegliere il candidato e i delegati all'interno del caucus del partito. Il risultato fu una Convenzione còntrollata dalla macchina del partito, che non a caso nominò come proprio candidato presidenziale un politico vicino all'apparato, cioè H. Humphrey, sconfessando E. Mc Carty che aveva vinto la maggioranza delle primarie aperte, e che era appunto molto vicino alle posizioni della new politics. 22
Per La Convenzione di Chicago. l'impatto psicologico che il conflitto al suo interno manifestatosi ebbe sull'opinione pubblica interna ed esterna al partito, questa costituisce un momento di importanza storica per la comprensione delle più recenti vicende dei partiti politici statunitensi. Un movimento di riforma del sistema elettorale , prese corpo all'interno 'del partito e condusse, anche perché sorretto da un simpatetico e diffuso sentimento di opinione, ad un rinnovamento sostanziale delle procedure elettorali relative alla selezione dei candidati presidenziali 2". Questo sentimento di riforma coinvolse ben presto anche il Partito repubblicano, comunque costretto ad adeguarvisi per via della formalizzazione legislativa che molte delle proposte democratiche ricevettero negli Stati da essi controllati. Sarà qui sufficiente ricordare tre delle più importanti innovazioni elettorali emerse dall'azione riformatrice di quel periodo: (i) per incrementare la partecipazione elettorale 'degli elettori e dei simpatizzanti democratici fu generalizzata la pratica di ricorrere alle primarie aperte per la scelta del candidato: in proposito basti pensare che nel 1980 furono ben 35 gli Stati che tennero delle primarie aperte, e i delegati eletti sulla base di questa procedura rappresentarono quasi il 72 per cento dei voti della Convenzione di quell'anno; (ii) per ridurre 1' influenza dell'apparato sulle scelte del partito fu stabilito che la sua rappresentanza alla Convenzione do-
veva essere sensibilmente contenu ta: tale percentuale, tra il 1972 e il 1984, fu tuttavia costantemente aumentata, passando da 1/10 dei delegati ad 1/7; (iii) per garantire una più aperta diarettica politica alla Convenzione, venne abolito il principio della unity rule (noto anche come sistema del winner-takeall), sulla base del quale il candidato che vinceva una primaria diventava beneficiano della totalità dei delegati di quella circoscrizione: tale proporzionalismo fu comunque successivamente attutito, e nel 1984 alcuni Stati adottarono il sistema del winner-take-more, che assegnava un premio di delegati al candidato vincente' 4 Lo 'scopo di tali riforme elettorali era stato indubbiamente quello di democratizzare il processo di selezione dei candidati, rendendo il partito più ricettivo verso le trasformazioni sociali e culturali del paese, e quindi stimolandolo ad alzare il suo grado di rappresentatività. Tale scopo fu parzialmente ottenuto, ma il suo conseguimento ha finito per produrre come effetto inatteso un processo elettorale per molti versi imprevedibile. In altri termini, esso ha acquisito via via le caratteristiche di un processo centrato sul candidato (« candidate-oriented »), a danno dell'immagine più generale del partito e dei suoi programmi. Il processo elettorale e quello politico sono venuti così a personalizzarsi fortemente, ed un ulteriore impulso in questa direzione è stato offerto da un uso sem.
pre più diffuso dei. mass-media (e della televisione in particolare) nella competizione tra i vari candidati. E' naturale che in questo contesto vengano esaltate risorse elettorali (quali: l'immagine, lo stile, la capacità retorica) che erano marginali nel precedente sistema di elezione, e che per la loro natura rendono assai basso il grado di predictability circa le future per/ormances governative de] candidato. Ma il movimento di riforma non si limitò a mutare le regole del gioco elettorale all'interno dei prtiti. Infatti, tra il 1971 e il 1976, fu approvato e quindi successivamente emendato un Federal Election Campaign Act, il cui scopo era quello di regolamentare le norme che presiedevano all'organizzazione finanziaria delle campagne elettorali 25 . Due sono state le principali innovazioni prodotte: (1) furono introdotti dei tetti' finanziari per quanto riguarda i possibili contributi individuali o di gruppo d'interesse ad un candidato per sostenere la sua campagna elettorale (1.000 dollari nel primo caso e 5.000 dollari nel secondo caso): in tal modo si voleva neutralizzare la forza di pressione che potenti lobbies avrebbero potuto esercitare in virtù di un loro potere economico-finanziario; (2) fu stabilito che i finanziamenti federali per le campagne elettorali dovevano essere devoluti direttamente ai singoli candidati, e non più ai dirigenti del partito: in tal modo si voleva ridurre il peso delle macchine partitiche che, in virtù delle risorse fi23
nanziarie da esse controllate, avrebbero potuto influenzare il processo di selezione dei candidati. Va da sé che entrambe queste innovazioni andavano ad intaccare pratiche e privilegi notoriamente esistenti all'interno dei due partiti nazionali. Comunque, anche in questo caso, l'esito del movimento di riforma si concretizzò in un rafforzamento di una tendenza di già presente, quella cioè alla personalizzazione del processo politico. Così, i candidati eletti sia agli incarichi congressuali che a quello presidenziale debbono il loro successo in misura crescente alla loro azione personale, e al ristretto gruppo di persone (ld staff) che quella hanno contribuito a sostenere e orientare. Ecco perché, in particolare per quanto riguarda la Presidenza, il candidato eletto avverte una scarsa necessità di ricorrere al partito per sostenere la propria azione, preferendo. invece fare affidamento sulle risorse peculiari del rapporto diretto con gli elettori, e che hanno contribuito alla sua affermazione.
IDENTIKIT DELLA «PRESIDENZA RETORICA»
Il declino dei partiti politici. E' quest'insieme di processi che è necessario considerare se si vuole comprendere sia là dinamica storica che le ragioni istituzionali e politiche che hanno condotto a quella particolare declinazione dell'istituto presidenziale nota come Presidenza re24
torica. Ognuno di quei processi, considerati singolarmente, ha influenzato quell'evolizione, ma è stata la loro interazione reciproca che ha reso quell'evoluzione in qualche modo necessaria. Tuttavia, di essi, merita tenere presente uno in particolare, proprio perché il suo svolgimento ha avuto un effetto più direttamente influente sull 'evoluzione che stiamo analizzando. Si tratta del processo che ha portato alla crisi, e quindi al declino, dei partiti politici e delle loro funzioni all'interno dello scenario politico statunitense. E' una opinione assai diffusa tra gli studiosi 2 ° quella che connette la trasformazione in senso plebiscitario della Presidenza con la difficoltà dei partiti politici sia di aggregare le domande particolari in un programma generale che di controllare la selezione della classe politica di governo. Una siffatta constatazione è bene sia assunta indipendentemente da qualsivoglia giudizio di merito sui partiti e sulla legittimità, o meno, del ruolo che ad essi è stato proprio. L'esperienza delle due amministrazioni Reagan costituisce, da questo punto di vista, un'occasione formidabile per comprendere i possibili esiti di un processo politico in condizioni di bassa partyness (partiticità) dello stesso. A condizione però di assumerla nel suo doppio versante: da un lato, come un'esperienza che prosegue una vicenda iniziata con F.D. Roosevelt e, dall'altro lato, come un'esperienza che rispetto a quella vicenda costituisceun salto di qualità, proprio
perché essa si è attuata e si sta attuando in condizioni istituzionali di declino dei partiti che le altre presidenze non avevano dovuto fronteggiare secondo queste proporzioni. Appare congruo affermare che le presidenze degli anni Settanta (quella abortita di Nixon, e quelle di Ford e di Carter) costituiscono una sorta di esperienza di transizione tra una fase e l'altra della vicenda della Presidenza retorica. Il declino dei partiti politici realizzatosi negli ultimi due decenni ha contribuito ulteriormente a trasferire verso l'Esecutivo molte delle prerogative governative tradizionalmente detenute dal Congresso. Anche in questo caso è bene interpretare questo processo nella sua contradditorietà, e non nella sua linearità, come taluni ritengono sia possibile. Se non altro perché, come è stato fatto notare 27 , un rafforzamento di un organismo di governo non implica necessariamente un indebolimento dell'organismo rivale: l'indagine dovrebbe dunque svolgersi lungo il complesso sistema delle policy-areas per individuare di volta in volta la preminenza dell'uno o dell'altro dei due organismi nell'azione di governo. Nondimeno, è altrettanto indubbio che il centro di gravità di quell'azione, intesa nella sua fisionomia generale, si è trasferito nell'Esecutivo (e ciò a par. tire dalla prima Presidenza moderna), mentre il Congresso ha finito per auto-confinarsi (come sembra confermare l'esperienza di questo
decennio) ad un'azione di resistenza istituzionale.
Il nuovo ruolo dello stafi presidenziale. Se si tiene presente il quadro relativo al governo degli Stati Uniti (fig. 1), il processo sopra indicato può essere così descritto: in primo luogo, la nascita della moderna Presidenza ha portato ad un rafforzamento del ramo esecutivo (« Excutive Branch »), che ha cominciato ad assumere funzioni di governo, e in particolare di promozione di policy, che in precedenza spettavano al Congresso. Si faccia attenzione: si parla, in questo caso, di Esecutivo, cioè della struttura tradizionale della Presidenza, costituita dal Presidente, da un limitato numero di collaboratori di quest'ultimo (nel 1937 il numero non superava le 157 persone), dal Vice-presidente, e poi - in particolare dalla struttura dei Departments (cioè i ministeri), e dalle poche agenzie federali costituite. Con F.D. Roosevelt, e poi anche con Truman, la Presidenza continua a conservare alcune caratteristiche del, diciamo così, « consiglio di gabinetto », cioè una struttura di decisione formalizzata secondo linee istituzionali. In secondo luogo quel processo ha condotto, con lo sviluppo post-bellico della moderna Presidenza, ad un progressivo trasferimento dell'iniziativa governativa dall'Esecutivo, inteso come sopra, all'Executive 0/fice del Presidente e addirittura, a partire dalle presidenze di Eisenhower, al White House 0ff ice, cioè 25
FIGURA i
Il governo degli Stoti Uniti (1째 luglio 1982)
-
-
THE CENSTITUT!EN
I
LEG!SLOT!AE OROOCH
EPECUT!0i
ohiocot o? Oho Copitol
JUDIC!PL U0011CH
Counoil
Obito Houee EFIH0o
ivi ted St000e 6000nto Eordon
OfFito o? Nonog,oent ond todge!
Genero! A000unti og SfItte
lotiono! Seotrity Coonoi!
Gooernoent Printing OTTico
E?ftoe o? Pelioy Deoe!op.ent
THE SUPPERE
if Teohvology Om000t
o. (nronoenttl
tI
Unitod Stotee Court of Oppee!, mi lcd Sto!.. lietrio! Courtn Unitod Stotei Covi o? Cli.,
Soienoeond
Toohoolo5y Polity
Unitod S000eo Covo o?
Of?ioe oF Odoinintrotion
end Potont Oppoo!n Uviiod S000oo Covi o? Intor-
Trote Popre,entooioe
votivo! Prode
Coflgree. i.no! tudget 01lit.
Copyright Poyohty
COUPT
SI THE GATtO S100ES
Etol ty
RUi
01lit. o? the United Stotei
Iibro-y ol Congr,o. 0?fi
j
tROOCh
THE PRES!DENT (ocootio. Offioe o? Oh. Peoidont
THE COOGPESS Sono!e Hooeo
Territorio! Courtt
Tribuno!
lnited Stoico Covo o? Militory Opp,,!t tniied Stoici To. Covo
-
Odoini,!ro!ioy 01110,
o? the
Uoited S000,t Covi
THE VICE PPES!OETIT
Fodero! Joditiol
Con!er
_____ OEPOPTOEUT CEH000C(
OEPOPTMEOT EI 0GR!CUITIR(
I
m~
E(poyTtEyT 01 HSUS!UE ORO tROTTI
DEiiiEPTENT
EEP000MOVT SI (PORGe
EEPAPTUENT EI
OP
10800
T
2
EEPORIHENT EI !PoNSPEPToT!Oj
EEP0PTMEOT SI (OICAT!ETI
OEPO?THEOT EI DEF(HSE
EI
_______
OEP0RT. EI H(OtTl( ORO HU000 SETtICi
OEPOUTOEUT Il THE TPEOS1TO
E(POTTHOTIT EI T0005PERTOT!OO
____
INOEPEIISEHT (STR!1!SH000TS Olio 600ERHUETT CETPOROT!0OS
mn
Pon.,0 Conti Co..ie, un
OCTISH
10v. Credi! Odoiniotrotion
Entero000e Coo.oroe Co..ieo
Od.iniotrotioc Confero000 tI the tS
Fedorol Coo.oniootion, Ct..io, ioo
Mori! Sto!... Proteotiov Roerd
Peate Corpo
Poeri000 Oott!e Honu.ento
Fodero! Eopooit I 000r000e Corporooitv
Noiiono I Ror0000tioe ood Sp000
Ponvoy!000iO Oo,nte Dooelopo,o!
OPTO! aohion, Oegi000! Ct..ieo ion Ooerd
Io
Centrol Cioi
!nier000itno I Rroodtotting nOci ligente Ogenoy
Coo.ioeion on Cioi
i
tatione! Copito! Plovnieg
Fodero! (..rgev.y MonOg,.OniC
Hoiiono! Credit
Federol P,d'ooti000nd Conti
li etion
S.roioe
Cn..odi ty Future, Trodiog
Fedoro! O,,eroe Syote.,
Co..io, ioo Cov,u.er Produoi io?oty Co..ioe bn
Ooord
01
Gooernor, ol the
(noiron.evoo! Protottion Ogenty 1
Federo!
(guai E.ployoont Opporiuvity
Genero! S,roioes Od.inistrution
Trodo Co..i,e io.
I000r-000rioo Foundouion
Co..i,o 00 ioni ol the
IS
Inlernotiono! Co..uni000ion Ogeoty
-
Fontn i S Rio-noi nt tUo Ce0000, Stutioticel Abutruct 01 the United Stoteo1
mio.
Od.ini,trotion
buone! loundation on the Orto ovd Oh. Hutoni
Federol Poritito Coo.ioe bn
Pighto
Co.oi,, io. oH Fine Orto
O oporo-lopori
ty
Pen,ion Penolit Euorovty Corporo!iov 10,00! 0000 C0000OoOv
Co..ioO ioo
090.0? Fodero! Ho.. 1000 toni toord Foderai lobor Pelotiono Oothopi
O,ronootioo 000rd
Corporotzov
Od.ini,trotion
Fodero! (!.00ion Coo.ios io.
Co..issiov
ti.,
I100iono! tobor he!otione toord
Poi Irood 000iro.,nt 000rd Scovi tior ond toohongo Co..i.o 10v Seloo!ioo loroito Sy000. 5.0!! Otoi0000 Od.ivio tro!iov
ittiono! Vadittion Oourd
T ovv0000e io! !On Atttori
000iono! 500.00, Foond.Oion
i 5 Or.o Contro! ond D000r.a,00t
buono!
Tronoportotion SoFeOy 000rd
blot!eor Regu!000ry Co..io,ioo
i
O !ntor000i000! Seoe!tp.oni Cooperotion Ogonoy
Eooupaoiono! Solety .nd H.oith 000ieo Co..io, ion O?Iite ol Pernoon,! 0000V,.ent
Oy
Ogenty
O iO i O i
intorvoti000 I TIcino !oord Posiol Seroito
1982-1983, (503 째 ed.) Wohington D . C. 1982, p. 242.
brodo Co..io,ion
all'organismo dei più stretti collaboratori del Presidente Tale trasferimento di iniziativa e di influenza realizzatosi all'interno dell'Esecutivo costituisce probabilmente l'aspetto, e l'esito, anatomico più direttamente significativo della contemporanea Presidenza retorica. Lo spostamento ha sollecitato una costante opera di riorganizzazione e razionalizzazione di entrambi quegli organismi, oltre che di impetuoso incremento quantitativo dei loro membri, proprio per attrezzarli a gestire il crescente numero di compiti di governo che la Presidenza si era assunta, o ad essa erano stati affidati da altri istituti. Così l'Executive 0ff ice del Presidente (fig. 2) si è venuto a modulare secondo le caratteristiche del Gabinetto dei ministri, sovrapponendosi a quello istituzionale, ed espropriandone in molti casi le prerogative e le competenze. «Ma lo stesso sviluppo della Presidenza retorica, nelle condizioni di una crescente inaffidabilità (dal punto di vista del Presidente) del partito politico, ha spinto verso un'ulteriore centralizzazione dell'iniziativa governativa nelle mani del Presidente e di un gruppo di suoi diretti collaboratori. Il White House 0/rice (fig. è venuto così ad ampliarsi e ad articolarsi, acquisendo la fisionomia di un vero governo nel governo. I membri di questo organismo sono scelti, almeno per quanto riguarda gli incarichi più rilevanti, sulla base di una loro lealtà dimostrata nei confronti del Presidente, personalmente, più che verso la
sua Amministrazione, al punto che tale caratteristica spesso ha consentito che il Presidente obliterasse la loro carenza di competenza specifica per l'incarico assegnato 29 Se si considera la Tavola i ci si può rendere conto con precisione come questo organismo può assolvere funzioni di governo, proprio perché è strutturato come un gruppo di partito, al punto che alcuni autori hanno potuto parlare, in proposito, del vero « partito del Presidente ». Anche in questo caso tali processi vanno assunti non linearmente. Infatti, l'ampliamento e il rafforzamento dell'ufficio della Casa Bianca non si sono tradotti in una secca operazione di espropriazione di competenze nei confronti sia dell'ufficio Esecutivo che degli stessi ministeri. Alcuni membri dell'uno e dell'altro hanno continuato a conservare ampi margini di discrezionalità decisionale e di influenza politica. E' nondimeno significativo che ciò sia avvenuto quando questi responsabili politici sono stati in grado di garantirsi un rapporto di comunicazione diretta con il Presidente, evitando lo schermo di protezione rappresentato dai suoi rivali all'interno dell'ufficio della Casa Bianca. Non vi è dubbio, pertanto, che i membri di questo ufficio possono usufruire di una collocazione strategica all'interno del decision-making della Presidenza (e quindi sono obiettivamente favoriti nella competizione di influenza rispetto ad altri responsabili dell'Amministrazione); ma è altrettanto noto che molti di costoro .
27
00 FIGURA 2 - L'Executive Office del Presidente: caratteristiche organizzative (1980)
The White Hoose Office (1939)
The President
Office af Ilanaeoent and Budget (1921)
OfFice oF Science and Technology Pohcy (1959)
.
I
'
Dooesbc Staff (1970)
Council on [nvironoental Quahty (1969)
I
I
I
OFfuce oF Adoinistrateon
I
I
I
Security Ceuncil (1947)
Councjl on Wage and Price Stabihty (1974)
Counci I of Econoaic Adv i sers â&#x20AC;˘ (1946)
Office oH the Special Representative For Trade Hngotiations (1974)
Li Fonte: H. HECIC e L.N. SAIAMON (a curo di), The Illusion oF Prsidentia1 Governoent, Westvieo Press, Boolder (Col.) 1981, p. 313. 8.8. - le dote indicano Ianno di costitocione dei vari oFFices.
FIGURA 3 - Il White House Off'ice: caratteristiche organizzative (1980)
PRESIDEN!
toointant
Secretary to the
Ooeotic tffairsand
Ass:sta:t
e::ent
National Secerity Affsirs
Senior Adoisor
Congressionat lioison
Adinistration
-
Consseer APfsirs
Assistant to the President
Hispanic Affairs
Eess Secretary
C ounselor
CiviIAig
[ .n
tnylateon
Appointents Secretary
Personnel Office
Fonte
(thnic Affairs
Nanageent
Chief Speechuriter
Staff Secretary
Presa!entaal Ne5 sage o
Pablic Retationo
Visitors Office
First Iadys Staff
Chief Usher
N. SEdO e L.M. SALAIION (a cara di), The Illosion.... op. cit., p. III.
NJ
I
TAV.1
Il White House 09 ice: specificazione delle competenze (1983) Counsellor to the President Chie/ oj Stafi and Assistant to the President Deputy Chie/ o/ Stafi and Assistant to the President Assistani to the President and Press Secretary Assistant to the President for National Securiti' Affairs Assistant to the President and Deputy to the Chie/ of Stafi Assistant to the President br Legislative Afjairs Counsel to the President Assistant to the President jor Cabinet Affairs Assistant io the President /or Communications Assistant to the President for Policy Development Assistant to the President br Presidential Person nel Assistant to the President a,id Director o! Special Support Services Deputy Counsellor lo the President Assistant to the President and Deputy to the Deputy Chief of Siafi Assistant to the President /or Management and Administration and Director o/ the 09 ice o/ Administration Assistant lo the President br Political Affairs Assistant to the President br Intergovernmental Affairs Assislani io the Presideni br Public Liaison Deputy Assistant io the President /or Political Aflairs Deputy Assistant io the Presideni and .Director of Speechwriting Deputy Assistant to the President and Director of Public Aftairs Assistant Counsellor io the Presia'ent Deputy Assistani to the President /or Presidential Personnel 30
Deputy Counsel to the President Deputy Assistant io the President for National Security Affairs Deputy Assistant to the President br Intergovernmental Aft airs Deputy Assistant io the President for Legislative Affairs (House) Deputy Assistani to the President for Policy Development and Director of the 09 ice o/ Policy Development Deputy Assistani to the President Deputy Assistant io the President and Deputy Press Secretary to the President Deputy Assistant to the President and Direcior of Media Relations and Planning Deputy Assistant io the Presideni jor Legislative Affairs (Senate) Deputy Assisiani to the President for National Security Affairs Deputy Assistant to the President for Puhlic Liaison Deputy Press Secretary to the President Special Assistani to the President /or National Security Affairs Special Assisiant to the President and Deputy Direcior o/ Public Affairs Special Assistant to the President br National Security Affairs Special Assistant to the President br Communications Special Assistant to the President for Public Liaison Special Assistant io the President and Executive Secretary o! the Cabinet Council on Management and Administration Special Assistant to the President for Policy Development Special Assistant to the Presideni for Policy Development Special Assisiant io the President for Public Liaison Special Assistant io the Presideni for Policy ,Development
Special Assistant io the President and Special Assistant to the Chief 0/ Staff Associate Counsel to the President Special Assistant to the President /or Private Sector Initiatives Special Assistant io the President for Legislative Affairs Special Assistant io the Presideni and Chie/ Speechwriter Special Assistant to the President /or Legislative Aftairs Personal Photographer to the President Special Assistant to the President Special Assistani to the President /or National Security Aftairs
Special Assistant to the President /or Intergovernmental Aftairs Associate Counsel to the President Special Assistant to the President br Policy Development Special Assistant to the President for Intergovernmental Aftairs Special Assistant to the President /or Public Liaison Senior Associate Counsel to the President Associate Counsel to the President Special Assistant io the President for Legislative Affairs
Fonte: U.S. Government Manual, 1983 - 1984, Government Printing Office, Washington, DC., 1984; pagg. 81-83.
dai partiti politici alloro sorgere 30 I Pcs, contrariamente alla precedente tradizione dei gruppi d'interesse e delle lobbies, hanno •in misura crescente privilegiato nella loro azione di pressione e di influenza la Presidenza e le sue articolazioDal sistema dei partiti ai « sin,gle-is- ni amministrative, e non più apsue groups ». I vuoti lasciati dai punto il Congresso. Ciò ha contripartiti sono stati infatti riempiti buito a sua volta ad un'espansione dalla proliferazione, in particolare dello staff presidenziale e ad una negli ultimi 15 anni, di una miriade trasformazione del ruolo del Presidi organizzazioni particolaristiche, dente. Le ragioni sono palesi. Una spesso motivate dalla difesa e pro- volta ricondotta alla Presidenza molmozione di singole tematiche (i co- ta dell'attività di governo, è evidensiddetti single-issue groups). Queste te che lo staif del Presidente deve organizzazioni, ufficialmente defini- non solo intervenire nelle proposte te come Political Action Committees politiche e legislative avanzate dai (PAcs), hanno stimolato un significa- gruppi, oppure mediare tra di loro, tivo mutamento del processo politi- o ancora tratteggiare disegni di legco. La loro presenza e diffusione è gi, ma quello stafi è anche preoccustata considerata alla stregua di una pato di utilizzare questa attività per sorta di rivoluzione organizzativa, consolidare la coalizione elettorale comparabile a quella rappresentata del Presidente, per diffondere un'imsono estranei rispetto al processo di governo, essendo invece dotati di responsabilità derivate più specificamente dalla necessità di estendere i legami e l'appeal politici del Presidente.
.
31
magine positiva di quest'ultimo, e esendo formalmente parte di un'alquindi favorire la sua leadership na- tra agenzia lavorano in quell'ufficio zionale. a tempo pieno, si può giungere ad Questo staff ha dunque acquisito una conclusione davvero interessanuna dimensione quantitativa assai te (Tav. 2). Altrettanto palese è la vasta, e crescente per tutto il dopo- ragione del mutamento del ruolo guerra. Se si considera, come fanno presidenziale prodotto dall 'azione alcuni autori, il numero degli indidei PACs. In un sistema politico vidui realmente impiegati dall'uffi- frammentato, in cui i partiti riescocio della Casa Bianca, comprenden- no a produrre o nulle o scarse idendo anche coloro ivi trasferiti da al- tità collettive, e in cui la.Presidenza tre agenzie oppure coloro che pur è venuta ad assumere un ruolo di TAV. 2
L'espansione dello staff del White House OfJice
Anno
Presidente
1937 Franklin D. Roosevelt 1947 Harry S. Truman 1957 Dwight D. Eisenhower 1967 Lyndon B. Johnson 1972 Richard M. Nixon 1975 Gerald R. Ford 1980 Jimmy Carter 1984 Ronald Reagan
Addetti a tempo pieno 45 190 364 251 550 533 488 575*
Addetti temporaneamente assegnati alla Casa Bianca da altre agenzie governative 112 27 59 246 34 27 75 17
(30 giugno) (30 giugno) (30 giugno) (30 giugno) (30 giugno) (30 giugno) (30 giugno) (30 giugno)
Totale 157 217 423 497 584 560 563 592
Fonte: T.E. CRONIN, The Swelling 0/ the Presidency: Can Anyone Reverse the Tide?, in P. WOLL (a cura di), American Government: Readings and Cases (8 ed.), Littie Brown, Boston, 1984, pag. 347.
Due offices, i'Oftices o/ Admznjstraijon e l'Oflice o/ Policy Development, che erano in precedenza nel White House Oflice, sono diventati ora formalmente parte dell'Executive OfJzce del Presidente. Ma ciò può confondere. I membri dei due oftices continuano in realtà a lavorare per l'ufficio presidenziale, e per questo motivo - sono qui inclusi. Il Vice-Presidente utilizza inoltre altri 22 membri dello staif della White House e il National Security Council utilizza un numero di membri che va dai 75 ai 100; ma costoro non sono inclusi nelle 575 persone che costituiscono lo staif del White House Oflice (specificazione di T. Lowi, The Personal President, etc., op. cit., pag. 5). 32
primo piano, è evidente che la figura del Presidente, se basata su un'autorevole leadership, diventa l'unica in grado di garantire il senso di unità della comunità politica. E ciò produce un diverso ruolo e diversi comportamenti da parte del Presidente.
EFFETTI E CONSEGUENZE DI UNA PRESIDENZA RETORICA
Vale la pena, ora, di puntualizzare con precisione l'ordine di problemi, e le considerazioni relative, che abbiamo più volte toccato nelle pagine precedenti, proprio in relazione agli effetti prodotti da tale evoluzione dell'istituto presidenziale sia per quanto riguarda l'attività di governo che il concreto svolgimento del processo politico-elettorale. Per quanto riguarda il primo versante, quello attinente - cioè - ai rapporti tra Esecutivo e legislativo, vi è un opinione assai diffusa tra gli studiosi e gli osserva tori che quella evoluzione ha comportato, e può ulteriormente comportare, 'seri rischi di instabilità istituzionale' 2 . Le riforme elettorali introdotte negli anni Sessanta hanno finito per ostacolare la costituzione di uno stabile equilibrio istituzionale tra i due organismi del governo del paese. L'assenza di una stabile mediazione di partito tra il Presidente e i deputati e senatori che pur si richiamano al suo stesso campo politico, rappresenta un vincolo permanente rispetto alla formazione di maggioranze programmatiche chiare e
coese. 'Così, le varie proposte politiche e legislative della Presidenza possono sollecitare, di volta in volta, alleanze e coalizioni congressuali diverse. Di converso, proposte legislative avanzate dal partito parlamentare che si richiama formalmente al Presidente hanno incontrato, non di rado, obiezioni ed opposizioni da parte della Presidenza. Per questo, si è parlato di « disarmonie istituzionali », oppure di un sistema istituzionale costantemente minacciato dallo stalemate, cioè da uno stallo nei rapporti di influenza reciproca tra i vari organismi 33 . La vicenda degli anni Settanta è in questo senso esemplare: tra l'impeachment di Nixon nel 1974 e la paralisi decisionale dell'ultimo biennio di Carter si distende una vicenda contrappuntata da oscillazioni e da diffidenze reciproche nei rapporti tra Presidenza e 'Congresso. La forte leadership reaganiana riuscirà nel decennio successivo a spostare i termini dello stallo, ma non a risolvere le cause che lo generano: in fasi cruciali, come nel biennio 19811982, oppure in relazione a grandi temi popolari, come - per ultimo - la riforma fiscale, la Presidenza si è dimostrata in grado di ricomporre intorno ai suoi orientamenti e disegni consistenti maggioranze parlamentari, composte di membri di entrambi i partiti; tuttavia, questa stessa Presidenza ha dovuto fronteggiare in molti ambiti di policy una resistenza da parte del Congresso alle sue proposte, e talora una vera offensiva di quest'ui33
timo (si pensi - da ultimo - alla questione sudafricana) contro le sue scelte. Se è dunque ragionevole tratteggiare analiticamente l'istituto presidenziale come un'istituzione plebiscitaria, appare tutt'altro che ragionevole considerare l'intero sistema politico statunitense come plebicitario. La relazione diretta tra il leader e i cittadini non costituisce l'unico principio informatore della politica statunitense né, tantomeno, il processo politico si svolge sulla base di esclusive motivazioni subrazionali. E' piuttosto una data struttura istituzionale e una modalità particolarmente frammentata di funzionamento del sistema politico che hanno elevato la relazione tra il Presidente e la gente sul piano di un legame plebiscitario (ammesso che il primo si mostri in grado di stimolarlo e consolidarlo). Di nuovo, è più proficuo analiticamente considerare le contraddizioni, e non le linearità, dei processi che si studiano. Per quanto riguarda il secondo versante, quello attinente allo svolgimento del processo politico, vi è altrettanto un'opinione diffusa che il problema cruciale della politica statunitense contemporanea è rappresentato dal destino dei partiti politici 4 . Probabilmente non era stato previsto dai riformatori degli anni Settanta l'effetto che le loro proposte di democratizzazione delle procedure elettorali erano destinate a generare nella relazione tra partiti e sistema politico. Di fatto la realizzazione di quelle proposte ha finito 34
per determinare dei vuoti nel sistema politico, poi colmati da organismi la cui azione non ha certamente elevato il grado di democrazia di quel sistema. In altri termini, l'esperienza riformatrice di quel decennio ha messo in luce i limiti di una azione di innovazione istituzionale che non è stata capace di valutare gli effetti ultimi delle sue proposte, o meglio che non è riuscita a tenere efficacemente sotto il proprio controllo analitico la complessità sistemica entro la quale quelle proposté sarebbero andate a realizzarsi. Nessuna proposta di riforma del sistema elettorale è priva di conseguenze sia sul piano del sistema politico che su quello del concreto svolgimento del rapporto tra gli attori politici, e tra di essi e i cittadini. La democratizzazione degli anni Settanta ha finito per esautorare sensibilmente il ruolo e le funzioni dei partiti politici, senza però che venisse preveduta una modalità capace di generare alternative aggregazioni politiche più democraticamente rappresentative in grado di sostituire quest'ultimi. La Presidenza retorica si è imposta in questo contesto, e i suoi sviluppi futuri dipenderanno per larga parte dalle risposte che il pensiero politico e la azione concreta sapranno offrire ai dilemmi della vicenda dei partiti'. E' possibile dire, a distanza di un secolo dalla pubblicazione del libro di Wilson, che il governo statunitense diventerà inevitabilmente un « truly Presidential Government» nel prossimo futuro?
Note Il testo classico è in proposito E.S. CORWIN, The President. OfJice and Po-
wers, New York University Press, New York 1957. Si veda anche: C. ROSSITER, The American Presidency, Harcourt, Brace and World, New. York 1956 e R.E. NEUSTADT, Presidential Power. The Po-
litics of Leadership /rom FDR io Carter, John Wiley and Sons, New York 1980 (1' ed. 1960). 2 J CEASER G.E. THUROW, J. THULIS e J. BESSETTE, The Rise o/ the Rethorical Presidency, in « Presidential Studies Quarterly », 11, n. 2, 1981. FABBRINI, Neoconservatorismo e po-
litica americana. Attori e processi politici in una società in trasformazione, Il Mulino, Bologna 1986. Ripubblicato nel 1973 da Peter Smith, Gloucester, Mass. R. Pious, The American Presidency,
Basic Books, New York 1979; W.N. CHAMBER, Political Parties in a New Nation, Oxford University Press, New York 1963. Ma anche il classico J.L. BRYCE, The American Commonwealth, Macmillan, New York 1888. Dalla Columbia University Press, New York 1908. Un'ottima discussione è in J. TuLIs, The Two Constitutional Presidencies, in M. NELSON (a cura di), The Presidency and the Political System, C.Q. Press, Washington, D.C. 1984. Ma anche C. W0LFE, Woodrow Wilson: Interpreting the Constitution, in « Review of Politics », 41, n. 1, 1979. J.W. DAVIES, Presideniial Primaries: Road io the White House, Greenwood
Press, Westport, Conn. 1980. J MACGREGOR BURNS, Roosevelt: The Lion and the Fox, Harcourt Brace, New York 1956. Lowi, The Personal President. Po-
wer lnvested Promise Unfulfilled, Cornell University Press, Ithaca 1985. Sul-
l'esperienza rooseveltiana si veda anche M. EINAUDI, The Roosevelt Revolution,
Harcourt, Brace and World, New York 1959. " N.W. POLSBY, The Modern Presidency, Random House, New York 1983. 2 T. Lowi, The End o/ Liberalism:
Ideology, Policy and the Crisis of Public Authority, Norton, New York 1979 (1" ed. 1969); G. MCCONNELL, Private Power and American Democracy ; A. Knopf, New York 1969; H.S. KARIEL, The Decline o/ American Pluralism, Stanford University Press, Stanford 1961. G.C. EDWARDS III, The Public Pre-
sidency. The Pursuit of Popular Support, St. Martin's Press, New York 1983. Ma si veda anche S. KERNELL, The Presidency and the People, in M. NELSON (a cura di), The Presidency and the Political System, op. cit. A. SCHLESINGER Jr., La presidenza imperiale, Edizioni di Comunità, Milano 1980 (ed. orig. 1973). 15 T. Lowi, The Personal President. Etc., op. cit., cap. 7; J. .MACGREGOR BURNS,
The Power to Lead: The Crisis of the American Presidency, Simon and Schuster, New York 1984. Con un taglio più generale, si veda D. YERGIN, Shattered
Peace: the Origins o/the Cold War and the National Security State, Houghton Mifflin, Boston 1977. ' L. MORROW, Yankee Doodie Magic, in « Time », n. 27, 7 luglio 1986. W. DE VRIES e L. TERRANE0 Jr., The
Ticket Splitters: A New Force in American Politics, Eerdmens, Gran Rapid, Michigan 1972. "M.P. FI0RINA, The Presidency and the Contemporary Electoral System e M. NELSON, Evaluating the Presidency, entrambi in M. NELSON (a cura di), The
Presidency and the Political System, op. cit. 19 W.N. CHAMBERS e W.D. BURNHAM (a cura di), The American Party System, 35
(2' ed), Oxford University Press, New York 1975. W.D. BURNHAM, Critical
Elections and the Mainspring o/ Amencan Politics, Norton, New York 1970. 20 W.D. BURNHAM, The Eclipse o/ the Democratic Party, in « Democracy », 2, n. 3, 1982. Ma anche, Id., The Current Cnisis in American Politics, Oxford University Press, New York 1982. 21 W. CROTTY e J.S. JACKSON III, Presidential Pnimaries and Nominations, C. Q. Press, Washington D.C. 1985; B. HINCKLEY, Congressional Elections, C.Q.
Press, Washington D.C. 1981. 22 R.H. DAVIDSON, The Presidency and the Con,gress, in M. NELSON (a cura di),
The Presidency and the Political System, op. sit. 23
W. CROTTY, Party Re/orm, Longman, New York 1983; j.i: LENGLE e B.E. SHAFER (a cura di), P•residential Politics: Readings on Nomination, St. Martin's Press, New York 1983; R. GOLDWIN (a cura di), Political Parties in the Eighties, American Enterprise Institute, Washington, D.C. 1980 (in specifico, il saggio di D.M. FRASER, Democratizing the Democratic Party); B.E. SHAFER, Quite Revo-
lution. The Struggie /or the Democratic Pariy and the Shaping o! Posi-Re form Politics, Russeil Sage Foundation, New York 1975. 24
1 dati e le precisazioni relative ai punti (i), (ii) e (iii) sono tratti da W. CROTTY e J.S. JACKS0N III, Presidential Primaries etc., op. cit., cap. 3. M.J. MALBIN (a cura di) Money and
Politics in the United States. Financing Elections in the 1980s, Chatham House, Chatham, N.J. 1984; Id. (a cura di), Parties, Interest Groups and Campaign Finance Laws, American Enterprise Institute, Washington, D.C. 1980. 20
J.S. YOUNG (a cura di), Problems and Prospects o[ Presidential Leadership in the 1980s, University Press of America, Lanham, Md. 1982 (in particolare il saggio 36
di N. POLSBY, Re/orm o! the Party Sy-
stem and the Conduct o/the Presidency). 27 R.H. DAVIDSON, The Presidency and Congress, op. cit. 24
Il volume che afferma con più vigore questa tesi è quello di T. Lowi, The Personal President. Etc., op. cit.,. capp. i e 6; quelli che ne precisano il contesto sono: P. WOLL (a cura di), American Government: Readings and Cases, (8' ed.), Littie Brown, Boston 1984 e R. TATALOVICH e B.W. DAYNES, Presidential Power in the United States, Brooks/Cole, Monterey, Cal. 1984. Essenziale è comunque la lettura di P.E. ARNOLD, Making
the Managerial Presidency. Comprehensive Reorganization Planning 1905-1980, Princeton University Press, Princeton, N. J. 1986. 2r Anche se non va dimenticato che il breve periodo di tempo che corre tra la vittoria elettorale di novembre e la presentazione dell'Amministrazione al Congresso e al paese nel tradizionale discorso dell'Unione di febbraio può rendere assai precipitoso il processo di agglomerazione di un gruppo vasto ed omogeneo intorno al Presidente. Difficoltà che potrebbero accentuarsi nel caso di presidenti esterni all'Establishment. Sul punto si veda P.J. QUJRK, Presidential Competence, in M. NELSON (a cura di), The Presidency and the Political System, op. cit. Più dubbioso, se non apertamente critico, delle possibilità presidenziali di controllare il governo è H. HECLO, A Go-
vernment 0/ Strangers: Executive Politics in Washington, Brookings, Washington 1977; ma anche H. HECLO e L.M. SALAMON (a cura di), The Illusion 0/ Presidential Government, Westview Press, Boulder, Col. 1981. 30 L.J. SABATO, PAC Power, Norton, New York 1984. 31 M.J. KUMAR e M.B. GROSSMAN, The Presidency and Interest Groups, in M. NEIsoN (a cura di), The Pnesidency and' the Political System, op. cit.
32
G. PASQUINO, Leadership e istituzioni politiche, in R. TIERSKY (a cura di), Gli Stati Uniti tra primato e incertezza, Il Mulino, Bologna 1983. S.P. HUNTINGTON, American Politics: The Promise 0/ Disharmony, Harvard University Presss, Cambridge, Mass. 1982. W.D. BURNHAM, The Dynamics o! American Politics, Basic Books, New York 1984; M.P. WATTEMBERG, The Decline
0/ American Political Parties, Harward University Press, Cambridge, Mass. 1984;
ma anche S. B0sCAINI, L'evoluzione del
potere presidenziale nel primo mandato di Ronald Reagan, in ÂŤ Queste Istituzioni Âť, XII, n. 65, 1984. J.W. CEASER, Rei orming the Rei A Critical Analysis o/ the Presidential Selection Process, Ballinger, Cambridge, Mass. 1982.
37
L'economia delle guerre stellari I molti costi, i pochi benefici e i sicuri beneficiari di Mario Pianta
« Non credo che Star Wars sia fattibile e non credo che nessuno la prenda sul serio. E' solo un modo per mandare in fallimento i russi. Ma anche noi andremo in fallimento » Isaac Asimov (cit. in THOMPSON 1985, p. 136).
Il programma di ricerca per la Strategic De/ense Initiative (SDI) degli Stati Uniti è un tema centrale dell'attuale politica americana, sia sul piano interno --- militare, economimo e tecnologico - sia su quello internazionale, nei rapporti Est-Ovest e con gli alleati europei. Nel vertice tra il Presidente Usa Ronald Reagan e il leader sovietico Mikhail Gorbaciov, l'ottobre scorso a Reykjavik, il dissenso sul programma di « guerre stellari » ha .impedito un accordo senza precedenti per la riduzione delle armi nucleari. Da allora, il dibattito negli Stati Uniti si è fatto più intenso: alle critiche di chi considera SDI un pericoloso balzo in avanti della corsa al riarmo, e, per di più, nello spazio, con gli Usa alla ricerca di una capacità di «primo colpo » nucleare contro l'Unione Sovietica, si è aggiunto il dissenso di chi, pur non contrario a ricerche su sistemi di difesa strategica, è disposto a farne oggetto dei negoziati con l'Urss.
38
Il presidente Reagan non ha attenuato la sua intransigenza nel rifiutare ogni limitazione allo sviluppo e alla sperimentazione dei sistemi di « guerre stellari », ma nel nuovo Congresso, uscito dalle elezioni di metà termine del 4 novembre scorso, e perfino all'interno dell'Amministrazione, si va diffondendo un atteggiamento più pragmatico. Il successo dei democratici, che hanno conquistato il controllo del Senato e aumentato la loro maggioranza alla Camera dei Rappresentanti renderà più arduo il cammino legislativo dei finanziamenti per SDI e più probabile un ridimensionamento del programma L'entità e gli effetti delle risorse destinate' a SDI si presentano come temi particolarmente importanti nel dibattito americano e proprio il giudizio sull'« economia » di SDI potrebbe essere decisivo per le sorti del programma. Costi e conseguenze economiche e tecnologiche delle « guerre stellari » per gli Stati Uniti e per l'Europa sono il tema di quest'analisi; le considerazioni strategiche e militari sulla fattibilità, natura ed effetti di SDi non sono invece esaminate'.
QUANTO COSTA LO SCUDO SPAZIALE « La Strategic Defense Initiative, al suo meglio non può produrre un sistema d'armi installato per più di 10 anni e per meno di forse 3 mila miliardi di dollari » Tom Wicker, columnist del « New York Times » (17 novembre 1986).
Gli obiettivi. SDI è il più grande programma di ricerca mai intrapreso da un governo occidentale; fa parte dell'attività del Ministero della difesa americano ed è amministrato dall'SDI Or,ganization (SDI0). Lanciato dal Presidente Reagan nel suo discorso del 23 marzo 1983, ha l'obiettivo di sviluppare una nuova generazione di armi ad alta tecnologia da installare sulla terra e nello spazio per difendere gli Stati Uniti dagli attacchi dei missili balistici sovietici. Entro il 1994 i risultati delle ricerche dovrebbero porre il governo degli Stati Uniti nelle condizioni di prendere una decisione suil'installazione delle nuove armi. L'obiettivo iniziale del programma - uno « scudo spaziale » a prova di missile capace di proteggere tutto il territorio degli USA - è stato messo seriamente in dubbio da fonti ufficiali americane. Il rapporto preparato nel settembre 1985 dall'Office o! Technology Assessment del Congresso Usa ha concluso che « una difesa strategica che possa assicurare la sopravvivenza di tutte o quasi le città Usa di fronte a un'offensiva sovietica in grande scala non sembra realizzabile » (cit. in KIsTIAKOWSKY 1986, p. 10). Per di più, il rapporto prospeti-a il rischio che « io sviluppo di una difesa contro
i missili nucleari basata nello spazio possa rendere più probabile un conflitto tra Usa e Urss a causa dei dubbi sulla fattibilità di un ombrello nucleare impenetrabile » (cit. in DE IMONTBRIAL 1986, p. 50). L'obiettivo di SDI è stato di fatto ridimensionato alla difesa di poche aree, in particolare le installazioni militari e le basi dei missili balistici intercontinentali Usa, con un ruolo di « rafforzamento » della deterrenza nucleare, anziché sostituirla radicalmente con un equilibrio basato sulla difesa strategica. Mentre gli obiettivi di SDI venivano ridotti, i finanziamenti hanno avuto una progressione rapidissima, dal miliardo di dollari nel biiancb federale degli Stati Uniti del 1984 per programmi di difesa antimissile già esistenti, a 1,6 miliardi nell'anno fiscale 1985, a 3 miliardi neil'86 e 3,5 nelI'87. Gli stanziamenti richiesti dall'Amministrazione erano ancora superiori e per l'anno finanziario 1987 sono arrivati a 5,4 miliardi di dollari. La Tabella 1 mostra le richieste di stanziamenti per SDI dal 1985 al 1988, distinte secondo le cinque categorie di spesa: sorveglianza, individuazione e attacco (SATKA); armi a energia diretta; armi a energia cinetica; concetti di sistema e gestione della battaglia; capacità di sopravvivere e tecnologie di supporto. Secondo un rapporto del Congresso Usa, questo rallentamento delle spese effettuate « non è dovuto prevalentemente ai tagli di bilancio del Congresso, come sostengono i fun39
TABELLA i. FINANZIAMENTI PER LA STRATEGIC DEFENSE INITIATIVE
Milioni di dollari Usa
Anni finanziari
1985
SDI
1986
1987
1988
Organization
Sorveglianza, acquisizione individuazione e valutazione dell'attacco (Satka)
545.950
856.956
1,262.413
1,558.279
Armi a energia diretta
377.559
844.401
1,614.955
1,582.037
Armi a energia cinetica
255.950
595.802
991.214
1,217.226
Concetti di sistema e gestione della battaglia
100.280
227.339
462.206
563.998
CapacitĂ di sopravvivenza, letalitĂ e tecnologie s di supporto
108.400
221.602
454.367
523.654
9.120
13.122
17.411
18.118
1,397.299
2,759.222
4,802.566
5,463.312
Direzione e gestione di Srn. TOTALE
Department of Energy Anni finanziari Programmi legati alla difesa strategica
Da: 40
WALLER ET AL.
1986, p. 15
1985
1986
1987
224
288
603
zionari di SDI0. Decisioni di ridimensionare certi impegni di ricerca sembrano dovute in ugual misura alla loro mancanza di promesse tecnologiche » (WALLER ET AL. 1986, p. 2). Il rapporto aggiunge che nonostante le dimensioni delle richieste di finanziamenti, « lo SDI0 deve ancora produrre un insieme definito di architetture di sistema che possano, essere sperimentate su un insieme realistico di scenari di minaccia » (ibid.) e conclude che « il Congresso dovrebbe mantenere un certo grado di scetticismo verso le pretese di eccezionali avanzamenti nella ricerca per SDI » (ibid. p. 3).
Le difficoltà di attuazione del programma. Uno dei problemi maggiori incontrati nello sviluppo dell'« architettura » del sistema è quello del software necessario per trasmettere e analizzare le informazioni sul lancio e le traiettorie dei missili sovietici (e delle possibili contromisure, i « decoys »), derivandone le istruzioni per le armi americane incaricate di fermare l'attacco. La prima denuncia dell'irrealizzabilità del sof tware delle « guerre stellari » è venuta nel giugno 1985 con le dimissioni di David L. Parnas, uno dei maggiori esperti americani d'informatica militare, dal Comitato dell'SDI Orga.nization « Informatica a sostegno della gestione della battaglia ». In otto brevi saggi, Parnas ha documentato « le fondamentali differenze tecnologiche tra ingegneria di software e altri campi d'ingegneria e perché il software è inaf-
fida'bile; le proprietà del software proposto per SDI che lo rendono irreàlizzabile; perché le tecniche comunemente usate per costruire software militare sono inadeguate a questo compito » e perché non c'è da aspettarsi nemmeno in futurò sviluppi che rendano possibile e affidabile io sviluppo di un software per SDI (PARNAS 1985, p. 432). Dopo oltre un anno di ulteriori ricerche, un comitato di esperti di informatica ha concluso che « sarebbe impossibile costruire una difesa centralizzata. e coordinata in cui grandi quantità di informazioni siano passate da una stazione di battaglia all'altra. Ha raccomandato lo sviluppo di un sistema più semplice, capace di restare nei limiti del software disponibile» (BOFFEY '86, p. 14). Nonostante queste crescenti difficoltà, SDI continua a seguire il programma iniziale, che prevedeva nel periodo 1984-1990 una spesa di 33 miliardi di. dollari e nel decennio 1984-1994 una spesa complessiva di 90 miliardi di dollari (PIKE 1985a, p. 4). Nei progetti di ricerca militare l'esperienza ha mostrato che i tempi e i costi di realizzazione sono spesso sottostimati; uno studio di John Pike, Vicepresidente per il settore spaziale della Federation of American Scientists, ha mostrato che « se SDI incontra solo gli eccessi di costo e i ritardi normali rispetto alle scadenze, la fase iniziale di sviluppo del programma potrebbe risultare in uno sforzo di 13 anni e 125 milioni di do'l41
lati » (ibid. p. 4). Dato che le tecnologie che SDI deve sviluppare sono particolarmente incerte e avanzate, l'esperienza degli eccessi di costo e i ritardi di tempo in programmi simili di ricerca militare americana fa pensare che « potrebbe diventare un programma di 20 anni e 225 miliardi di dollari », che nel 1990 assorbirà un quarto di tutti i fondi per R&S del Ministero della difesa Usa (ibid. p. 4, 12). Fino agli anni Novanta SDI è « solo » un programma di ricerca. Le stime sui costi di realizzazione sono assai imprecise e divergenti, ma comunque di dimensioni enormi. Il direttore dell'SDI Organization, genelale James Abrahamson, ha stimato, davanti all'Appropriations Committee del Senato Usa il 15 maggio 1984, che un sistema completo di difesa strategica può costare tra i 400 e gli 800 miliardi di dollari (cit. in DEGRA S S E-DAGGET 1984, p. 17). La rivista specializzata « Aviation Week and Space Technology» ha stimato la cifra in « mille miliardi di dollari, con l'intero sistema operativo per il 2000 » (« Aviation Week and Space Technology », 2 aprile 1984). Sulla base di altre ananalisi « il costo totale potrebbe essere ovunque tra 500 e 2.000 miliardi di dollari, con altre spese necessarie per la manutenzione e l'ammodernamento » (KAPLAN 1986). Questi costi e incertezze hanno sollevato opposizioni anche all'interno del Partito repubblicano americano. Il senatore Barry Goldwater ha sostenuto che « questo è probabilmen42
te il più grande progetto che que sto paese è mai stato chiamato a finanziare. Non si sa quanto costerà, non se ne ha nemmeno un'idea. Secondo me siamo di fronte a una minaccia assai più distruttiva di qualunque cosa i russi ci possano tirare con i missili: il deficit » (Us SENATE COMMITTE ON FOREIGN RELATIONS, 6 marzo 1984). Una parte importante dei costi di un sistema di « guerre stellari » è legata al problema - ovvio - di lanciare nello spazio tutte le apparecchiature necessarie. Il rapporto del Congresso su SDI ha osservato che « attualmente sollevare una libbra di materiale in orbita costa da 1.500 a 3.000 dollari... Gli studi dell'architettura della fase 1 di SDI prevedono di lanciare nello spazio da 20 a 200 milioni di libbre di materiale di SDI. Questo significherebbe da 600 a 5.000 voli dello Shuttie, i cui costi di lancio potrebbero andare da 30 a 600 miliardi di dollari a prezzi attuali » (WALLER ET AL. 1986, p. 56). E l'intera flotta degli Shuttle americani è bloccata per due anni dopo l'esplosione del Challenger », nel gennaio 1986 a Cape Canaveral. STAR WARs ATTO PRIMO: LA CORSA Al CONTRATTI Le industrie militari americane « guardano a SDI come a una polizza di assicurazione che manterrà la loro prosperità per il prossimo decennio » Sen. William Proxmire (cit. in SANGER 1985).
I magnifici sei. I fondi finora spesi
per SDI sono stati distribuiti in contratti con imprese, laboratori e università. La Tabella 2 mostra le venti società che hanno ottenuto i maggiori contratti per SDI nel periodo 1983-1986, per un valore di 4,4 miliardi di dollari, pari a tre quarti delle spese totali. Il Lawrence Livermore Nationai Laboratories, Generai Motors, Lockheed, TRW, McDonneli-Dougias e Boeing sono le prime sei della classifica, tutte società che sono già fornitori di primaria importanza per il Ministero della difesa americano. Tra loro, hanno ottenuto finora metà dei contratti per le « guerre stellari ». I livelli di concentrazione delle spese per SDI erano ancora superiori nei primi anni del programma. I contratti per SDI nel 1983-1984, pari a 1,7 miliardi di dollari erano stati distribuiti a 70 imprese, ma i primi dieci fornitori avevano ottenuto nel complesso l'87% del valore dei contratti, pari a 1,4 miliardi di dollari. I primi quattro, Boeing, Lockheed, McDonnell - Dougias e LTV, avevano ottenuto da soli quasi due terzi di tutti i finanziamenti. Per di piÙ, Otto dei primi dieci fornitori di armi spaziali erano tra i primi venti fornitori privati del Pentagono nell'anno finanziario 1983 I leader emergenti in SDI sono imprese già estesamente impegnate nella produzione militare: « nel 1983, la percentuale dei contratti del Pentagoio nelle vendite totali andava dal 21% della TRW al 76% della McDonnei - Dougias » (HARTUNGNIMROODY 1985, p. 200).
I contratti di Star Wars sono pure fortemente concentrati geograficamente: « oltre il 90% dei primi contratti per le armi spaziali negli anni fiscali 1983 e 84 è andato a quattro stati: California (45%), Washington (22%), Texas (13%) e Alabama (10%). Questi stati sono roccaforti tradizionali dell'industria militare» (HARTUNG ET AL. 1984, p. 29). I contratti maggiori per sviluppare difese contro i missili nucleari sono andati alle stesse imprese che producono le nuovi armi nucleari americane: il missile Mx (Rockweil, TRW, Avco, Martin Marietta), il bombardiere B-1 (Rockweii, Avco, Boeing, LTV), il missile Pershing (Martin Marietta), il missile Trident (Lockheed) e il missile cruise (Boeing, Litton) (HARTUNG ET AL. 1984, p. 24). Questo «doppio ruolo » delle im•prese può risultare problematico: « questi fornitori, incaricati di progettare una difesa antimissile, favoriranno inevitabilmente tecnologie in cui hanno già investito milioni di dollari. Per di più, fornitori con un interesse consolidato nel progetto difficilmente raccomanderanno di abbandonare aspetti potenzialmente profittevoli del piano, anche se i loro stessi scienziati trovano che queste tecnologie hanno scarse possibilità di successo » (SANGER 1985). Non c'è da sorprendersi quindi se alcuni dei progetti di SDI presentati da queste imprese non sono affatto stati pensati cx novo nel quadro del nuovo modello strategico, 43
TABELLA 2. LE 20 SOCIETA' CON I MAGGIORI CONTRATTI PER LA STRATEGIC DEFENSE INITIATIVE
CONTRATTI 1983 - 1986 milioni di dollari USA
SOCIETA'
Lawrence Livermore National Laboratory
725
Generai Motors
579
Lockheed
521
TRW
354
McDonnell Douglas
350
Boeing
346
Los Alamos National Laboratory
196
Rockwell International
188
Teledyne
180
EG&G
140
Gencorp
135
Textron
93
Sandia National Laboratorjes
91
LTV
â&#x20AC;˘
90
Flow Generai
89
Raytheon
72
Science Applications
69
Honeywell
69
Nichois Research
63
MIT Lincoln Laboratory
63
TOTALE
Fonte: Federation o! American Scientists. Da: NIMROODY 1980, p. 53 44
4,413
l'SDI Organization ha istituito una sezione separata, l'Innovative Science and Technology (IsT) con finanziamenti pari al 5% del totale di SDI. IST ha distribuito 28 milioni di dollari a università nel 1985 e nell'86 gli stanziamenti sono saliti a 100 milioni di dollari; 62 milioni di dollari sono stati assegnati a sei consorzi di ricerca, che comprendono 29 università in 16 stati. Con finanziamenti di questa entità, l'SDI Organization è riuscita a suscitare interesse per le « guerre stellari » e nell'autunno 1985 aveva già ricevuto 2.600 domande da università e singoli ricercatori. Per molti di questi SDI rappresenta una delle poche fonti di finanziamento disponibili e rafforza l'orientamento miliGuerre stellari e università. Se le tare della ricerca nelle università agrandi imprese del « complesso mi- mericane, che nel 1985 ricevevano litare-industriale » americano sono i già il 16% dei loro finanziamenti maggiori beneficiari dei finanziamen- dal Ministero della difesa, contro il ti per le « guerre stellari », una fet- 10% del 1980, con punte dell'82% ta consistente è stata destinata alle nell 'ingegneria astronautica, elettriuniversità americane. Al Massachu- ca (56%), aeronautica (54%), della setts Institute o/ Technology sono metallurgia e dei metalli (48%) stati assegnati nel 1985 contratti per (« CEP Newsletter », gennaio 1986, SDI per 60 milioni di dollari (com- p. 2). presi i suoi laboratori fuori dal cam- Con i fondi per SDI, nuove restripus). Seguono le Università del Te- zioni entreranno nelle università. xas (5,6 milioni), Georgia Tech Re- Nonostante le assicurazioni delsearch Company (affiliata all'Univer- l'SDIo, è possibile che una parte delsità della Georgia, con 4,5 milioni la ricerca sia sottoposta a segreto di dollari), la John Hopkins Uni- militare e che « nulla osta di sicuversity (2,9 milioni), Stan/ord Re- rezza » siano richiesti per docenti e search Institute (2,6 milioni), Utah studenti impegnati nelle ricerche State University (2,4 milioni) («CEP (KIsTIAK0wsKY 1986, p. 11). NoNewsletter», gennaio 1986). nostante la créscente dipendenza dai Per stimolare la ricerca per SDI nel- finanziamenti militari, l'insieme del le università e in piccoli laboratori, mondo scientifico americano è rimama come ha documentato John Pike, sono stati semplicemente tirati fuori dai cassetti, dopo che erano stati bocciati in passato: « molti dei progetti in SDI non sono nuove armi, ma in realtà sono stati sviluppati per molti anni, anche se per applicazioni diverse dalla difesa missilistica. Tuttavia, questi sistemi erano di gran lunga troppo avanzati per queste altre applicazioni e non ottennero approvazione per l'installazione. In un certo senso, SDI è diventata un orfanotrofio tecnologico. Incorporando questi progetti in Star Wars, con le sue formidabili necessità operative, questi sistemi hanno ottenuto un nuovo spazio di vita » ( PIKE 1985b, p. 12).
45
sto fortemente critico del programma di « guerre stellari ». Uno studio effettuato dalla Corneli University su 451 fisici, ingegneri, chimici e matematici della National Academy 9f Sciences ha mostrato che l'80% degli scienziati è contrario a SDI e solo il 10% sostiene il programma attuale di ricerca (KAPLAN 1986, p. 12).
GLI EFFETTI ECONOMICI DELLO SCUDO SPAZIALE « Installare Star Wars ci costringerebbe a sottrarre enormi quantità di denaro dalla difesa convenzionale e dai programmi interni per un periodo di anni che si estende ben oltre la fine del secolo)> Roberi il4cNamara (cit. in SILK 1986).
In termini economici, SDI rappresenta un aumento della spesa militare in settori ad alta intensità di ricerca e di capitale. Poiché buona parte dei finanziamenti per SDI sono destinati a imprese che sono fornitori tradizionali del Ministero della difesa, gli effetti qualitativi della spesa per SDI non si presentano diversi dal resto della spesa militare, sia in termini di esiti tecnologici che di effetti sulla domanda e l'occupazione. L'avvio delle grandi spese per SDI riproduce, dal lato della domanda, gli effetti di espansione tipici delle politiche di « keynesismo militare che hanno caratterizzato a più riprese l'economia degli Stati Uniti. In una situazione di deficit record del bilancio federale e di forte impopolarità di ogni aumento del prelievo 46
fiscale, la crescita delle spese per SDI finisce per essere finanziata con riduzioni di altre spese pubbliche, sia di tipo sociale, sia di altri programmi militari. La forte intensità di capitale e di ricerca della spesa per SDI risulta in scarsi effetti sull'occupazione. Un'analisi che ha utilizzato il modello del Ministeio della difesa per stimare l'occupazione generata dalla spesa militare nei diversi settori dell'economia ha mostrato che nel 1984 SDI può aver portato alla creazione di 28 mila posti di lavoro e che i 5,4 miliardi di dollari richiesti nel 1987 per SDI avrebbero prodotto 110 mila posti di lavoro. Si tratta di risultati piuttosto limitati, a fronte di un forte impegno non solo di spesa pubblica, ma anche d'investimento privato. Robert Reich, del Massachusetts Institute o! Technology, ha valutato che SDI controllerà « circa il 20% del capitale disponibile per finanziare l'alta tecnologia americana nei prossimi quattro anni. Il problema è che mai prima d'ora abbiamo affidato tanta parte dello sviluppo tecnologico al Pentagono in così breve tempo. Una manciata di funzionari del Pentagono si spartisce le risorse scientifiche, scegliendo i vincitori e i perdenti della corsa tecnologica, seguendo i consigli dei grandi fornitori militari » (cit., in « CEP Newsletter », gennaio 1986, p. 6). Anche il « capitale umano » destinato alla ricerca per SDI è rilevante: circa il 4% di tutti i nuovi ingegneri sfornati dalle università a-
mericanetra il 1984 e il 1987, potrebbe essere impegnato dalle « guerre stellari », aumentando ancora la già elevata quota di un terzo degli ingegneri americani che lavorano per il Ministero della difesa (DEGRAsSE-DAGGET 1984, p. 3). Le risorse assorbite dalla ricerca per le « guerre stellari » sono considerevoli sotto ogni punto di vista; l'effetto di « spiazzamento » è destinato a farsi sentire sul « mercato » dei ricercatori qualificati e dei capitali per l'alta tecnologia, due campi dove le risorse sono limitate e per nulla sottoutilizzate. Risorse umane e finanziamenti si combinano nell'impegno di ricerca e sviluppo (R&S). Uno studio del Council on Economic Priorities (CEP) ha documentato che « tra il 1984 e il 1989 SDI crescerà dal 3,7 al 15,7% del bilancio totale per ricerca, sviluppo, sperimentazione e valutazione (RDT&E) del Ministero della difesa. In questo periodo, il 44% dei nuovi finanziamenti per RDT&E saranno per la difesa strategica. Nel 1984, il finanziamento di SDI rappresentava l'l% di tutte le spese di R&S del paese. Nell'86 supererà il 3%, anche assumendo una continua rapida crescita della R&S totale. Più importante, SDI consumerà il 28,5% dell'aumento previsto nella R&S di quell'anno» (DEGRASSE-DAGGET 1984, p. 1-2). Va ricordato che la R&S militare degli Stati Uniti rappresenta un terzo delle spese totali di R&S, di gran lunga la quota più elevata tra i paesi industriali avanzati. Nel 1981 gli
Usa hanno destinato alla R&S militare una somma pari alle spese combinate di Gran Bretagna, Francia, Germania Federale, Italia e Giappone, 24,7 miliardi di dollari a prezzi 1980, secondo i dati del SIPRI (1985, p. 291). In percentuale del Prodotto nazionale lordo, la spesa per R&S non militare degli Usa, pari all'1,65% nel 1981, è inferiore a quella di Germania Federale (2,15%) e del Giappone (1,9%). Il rallentamento negli Usa della R&S civile rispetto agli altri paesi occidentali è stato assdciato da molte analisi al declino della produttività americana che, dopo due decenni di crescita più lenta che in Europa e in Giappone, nel 1985 ha cessato di crescere (PIANTA 1986). Un rapporto del Congresso Usa ha notato che già prima della presidenza Reagan « i bilanci di ricerca e sviluppo civili di Giappone, Gran Bretagna, Francia e Germania sono passati nel periodo 1964-79 dal 10% delle spese di R&S civile degli Stati Uniti al 121% dell'impegno Usa» (cit. in TIRMAN 1984, p. 21); con l'arrivo dell'attuale amministrazione la politica innovativa degli Stati Uniti si è concentrata ancora di più in campo militare e dal 1980 aiI'84 la spesa di R&S militare finanziata dal governo è più che raddoppiata ed è pari ora al 70% di tutte le spese di R&S federali (ibid.). Guardando oltre agli effetti economici immediati, la scelta di concentrare le risorse innovative americane nel programma di « guerre stellan » può rallentare ulteriormente 47
la corsa all'innovazione degli Stati Uniti rispetto agli altri paesi occidentali e al Giappone in particolare. Una questione che solleva il tema degli esiti tecnologici di SDI e delle possibili applicazioni civili della ricerca per le « guerre stellari ». LA PROMESSA MANCATA DELLE NUOVE TECNOLOGIE « Sui è un disastro non solo per la sicurezza e la democrazia, ma anche 'per la scienza » RiCHARD GARWIN, IBM fellow (1986).
Quali sono i risultati tecnologici di un così grande sforzo di ricerca militare? Da un lato i sostenitori delle « guerre stellari » promettono grandi innovazioni nelle nuove tecnologie - elettronica, laser, particelle - della ricerca per SDI, e assicurano un effetto di avanzamento generale dell'economia. Dall 'altro lato, per SDI valgono le stesse obiezioni avanzate dai maggiori esperti americani all'uso della spesa militare come politica tecnologica. In uno studio per l'American Enterprise Institute, Richard Nelson ha osservato che i programmi per lo spazio e la difesa « di certo non ci forniscono un modello per politiche future a sostegno delle industrie ad alta tecnologia » (NELSON 1984, p. 72). Gli stessi industriali dell'elettronica non hanno nascosto le loro riserve: secondo l'American Electronic Association, « non possiamo liquidare una quota sproporzionata delle nostre capacità e risorse tecnologiche in applicazioni militari e 48
restare ancora davanti al Giappone nei mercati commerciali » (cit. in MELMAN 1986, p. 65). Un altro fattore che riduce le possibilità di ricadute, in SDI, come per l'insieme della ricerca militare Usa è il forte orientamento applicativo. 'Come ha sottolineato un portavoce del. gruppo di uomini d'affari « Business executives /or national security », nel 1986 dei 32 miliardi di dollari spesi per R&S dal Ministero della difesa, « solo 861 milioni, il 2% del totale, sarà speso per la ricerca di base, che si può pensare faccia avanzare le tecnologie commerciali» (MCKENNA 1986). Le possibilità di ricadute civili dalla ricerca per SDI sono messe in dubbio- anche dalla crescente divergenza tra i 'criteri che guidano lo sviluppo delle tecnologie militari e di quelle civili. 'Come ha efficacemente documentato John Pike, « i benefici economici specifici che sono stati reclamati per SDI sono grandemente esagerati. Per cominciare, SDI sottolinea lo sviluppo di parametri di prestazione che hanno 'rilevanza limitata per il mondo civile. I calcolatori di Star Wars devono essere capaci di sopravvivere agli effetti di esplosioni nucleari e così SDI finanzia ricerca su semiconduttori all'arseniuro di gallio resistenti alle radiazioni. Ma 'banche e agenzie di assicurazioni non hanno bisogno di calcolatori che continuano a funzionare durante la Terza guerra mondiale. Sistemi a energia diretta possono pure avere usi industriali e medici. Ma i militari hanno bisogno
di armi con una potenza di uscita di molti milioni di Watt che operino per pochi minuti, mentre le attrezzature civili devono funzionare per mesi o anni a una potenza di pochi Watt. Laser e raggi X possono essere usati nella ricerca medica o per la produzione di chip per calcolatori, ma SDI funziona con laser generati da esplosioni nucleari e nessuna fabbrica o ospedale può detonare bombe atomiche. nei sotterranei con regolarità » (PIKE, 1985b, p. 10)..
ferta americana agli alleati in questo modo: « abbiamo visto una notevole esperienza scientifica e tecnica tra i nostri alleati nelle loro comunità scientifiche e industriali. Alcuni contributi degli alleati potrebbero ridurre sia i tempi che i costi del programma di ricerca per SDI. Oltre agli importanti contributi tecnici che i nostri alleati possono dare, crediamo che il loro coinvolgimento porterà certamente a una comprensione più profonda del programma e delle basi tecniche della difesa, oltre alle sue basi militari. Questa comprensione sarà un fonQUALE RUOLO PER L'EUROPA? damento vitale per una futura decisione di procedere allo sviluppo » « Non ci sarebbe alcun vantaggio nel creare una (ABRAHAMSON 1985, p. 14). nuova "linea Maginot" del ventunesirno secolo, che potrebbe essere aggirata da misure reLa ricerca del consenso politico delativamente semplici e meno costose... Gli alleagli alleati europei alla nuova strateti devono chiedersi se gli enormi linanziamenti da destinare a questi sistemi possano essere imgia americana di « guerre stellari » piegati meglio in altre forme di deterrenza » sembra un fattore determinante nelSir Geoftrey Howe, Ministro degli esteri britannico (cit. in De MONTBRIAL 1986, p. 510). l'offerta di partecipare al suo sviluppo, ma il ruolo riservato all'EuGli aspetti economici del program- ropa sembra alquanto restrittivo: ma SDI e l'entità dell'impegno delle secondo lo stesso Abrahamson deve imprese europee nelle ricerche per essere « coerente con le nostre preSDI sono stati al centro del dibattiscrizioni tecniche, leggi, regolamento sulla partecipazione europea alle tazioni e obblighi internazionali « guerre stellari » americane. E' sta- (ABRAHAMSON 1985, p. 15). to il Ministro della difesa Usa Ca- Tra le leggi americane ci sono quelspar Weinberger a rivolgere, nel le che hanno imposto severe restrimarzo 1985, l'invito ai paesi euro- zioni ai flussi di tecnologia, e che pei della Nato, oltre a Israele, Giaphanno già provocato seri conflitti alpone, Corea del Sud e Australia, di l'interno dell'alleanza, come nel capartecipare alle ricerche per le guerso delle forniture per il gasdotto sire stellari. beriano. Il problema dell'accesso e Il direttore dell'SDI Organization, dell'utilizzo delle tecnologie svilupgenerale James Abrahamson, ha pate dalla ricerca per SDI Si è così spiegato nel dicembre 1985 in una presentato fin dall'inizio come un testimonianza per il Congresso, l'of- punto chiave, della partecipazione 49
vantaggio economico significativo, stimolando un massiccio sviluppo americano di nuove tecnologie che con le nostre politiche attuali sui trasferimenti di tecnologia limiterebbe lo sfruttamento commerciale di tecnologia sviluppata negli Usa e perfino di quella sviluppata in Europa in contratti per SDI » (ibid. p. 2). La conclusione è che « per come è attualmente strutturata, SDI pone una seria sfida sia alla coesione dell'alleanza, sia ad una maggiore cooperazione europea » (ibid. p. .3). Le richieste politiche dei governi euLe per plessità dell'Europa politica. ropei nelle discussioni con gli Stati In queste condizioni, la risposta ini- Uniti sulla partecipazione a SDI hanziale trovata dall'offerta Usa in Eu- no insistito sul rispetto del Trattato ropa è stata assai tiepida. In una ABM, che limita le difese anti-mistestimonianza in Congresso, Samuel sue, il bisogno di preservare l'unità Welis, direttore associato del Woo- della Nato e un quadro Est-Ovest drow Wilson International Center di « sicurezza comune ». Le richiein Washington, ha notato che «la ste economiche hanno sottolineato la grande maggioranza dei leader poli- necessità di accordi equi, liberi flustici, funzionari dei governi, analisti si di tecnologia alle imprese eurostrategici e specialisti scientifici han- pee e l'opportunità di ottenere una no . riserve significative sul modo in fetta significativa dei contratti (Lucui SD1 è stata introdotta, sul suo CAS 1986). Non diversamente daimpatto sulla stabilità dell'equilibrio gli Stati Uniti, nel dibattito eurostrategico e sulle sue implicazioni peo sono apparsi i « profeti » di un per altre questioni economiche e di grande futuro tecnologico per l'Eusicurezza » (WELLS 1985, p. 1). ropa all'insegna delle «guerre stelDopo aver ricordato, tra le riserve lari », sulla scia americana e i crieuropee, la totale assenza di consul- tici che suggerivano altre strade per tazione, l'impatto di SDI sulla de- il progresso dell'Europa. Tra questi terrenza, (nel cui nome i governi eu- merita attenzione l'editoriale del ropei avevano iniziato l'installazione « Financial Times » sulla partecipadei missili Cruise e Pershing), i co- zione britannica a SDI: « una quosti e le conseguenze di SDI, Welis ta troppo alta della ricerca e svilupha osservato che « gli europei sono po britannica è già destinata al setpreoccupati che SDI dia agli Usa un tore militare e non è per nulla chia-
europea, con gli Stati Uniti decisi a dettare le loro condizioni. Abrahamson, ha ricordato che questioni come i diritti di proprietà, accesso alle informazioni collegate a SDI, sicurezza industriale e competizione con le imprese Usa devono essere esaminate, sottolineando che una preoccupazione di fondo degli Usa nei negoziati con i governi e le imprese europee è fissare procedure che siano « coerenti con le leggi Usa, con gli interessi di sicurezza nel proteggere la tecnologia strategica » (ibid. p. 16).
50
ro che la Gran Bretagna nel suo insieme avrà benefici se ancora più delle sue limitate risorse tecnologiche sono deviate in questa direzione, anche se a spese dei contribuenti americani » (« Financial Times » 13 dicembre 1985). La partecipazione europea in SDI è stata proposta a due livelli. Ai governi è stato proposto di firmare un accordo che esprime sostegno politico all'iniziativa americana e stabilisce il quadro per la partecipazione delle imprese nazionali. Alle imprese europee è stato rivolto l'invito di partecipare, dove esistano le competenze tecnologiche, alle gare d'appalto per i contratti assegnati dallo SDI0, indipendentemente dalle posizioni dei governi nazionali. Tra i governi, ha iniziato la Gran Bretagna, alla fine dell'85, a firmare un « memorandum d'intesa » col governo americano; è seguita, nella primavera dell'86, la Germania Federale, poi nel settembre 1986 il Giappone e l'Italia. Tutti gli accordi sono segreti e non offrono garanzie su un livello minimo di contratti per le imprese nazionali. Quanto al controllo dei risultati delle ricerche, secondo l« Economist », nel caso dell'accordo tedesco, « il linguaggio sui diritti della Germania di fare uso commerciale della tecnologia sviluppata in cooperazione con gli americani si dice sia vago » (« Economist» 29 marzo 1986). I risultati economici per i paesi che hanno sottoscritto gli accordi non sembrano tuttavia promettenti. Le imprese :b ritanniche , a cui l'SDI Or-
ganization aveva promesso « centinaia di milioni di dollari » hanno ottenuto finora solo contratti per 2 milioni di dollari nell'85 e si valuta ne ricevano 5 milioni nell'86 (« Washington Post» 20 febbraio 1986, « Financial Times » 3 marzo 1986). Altri paesi europei, come l'Olanda, la Danimarca e la Norvegia, oltre al Canada e all'Australia, tutti, tranne quest'ultimo, paesi con governi conservatori, hanno mantenuto la loro opposizione alla politica (e all'economia) delle « guerre stellari ». La Francia, che era stata ai tempi del governo socialista il maggior critico di SDI e aveva lanciato il programma « Eureka » come alternativa europea per la ricerca sulle nuove tecnologie, nella primavera dell'86 ha eletto un governo di centro-destra che è meno ostile alla strategia americana. Lo stesso governo socialista peraltro non aveva espresso obiezioni alla partecipazione di imprese francesi a progetti di SDI. Lo scetticismo crescente dell'imprenditoria europea. Da parte delle imprese europee, all'indomani della proposta americana, la partecipazione in SDI era stata considerata seriamente; una volta che informazioni più dettagliate sono emerse sulle condizioni poste dagli Stati Uniti, sulla natura tecnologica dei progetti e sulle dimensioni degli affari possibili, l'interesse si è sostanzialmente ridotto. In Germania Federale, secondo l'« Economist », « gli ardori tra gli industriali tede51
schi per gli affari SDI si sono un p0' raffreddati ed è cresciuto lo scetticismo sull'ammontare degli ordini che gli Stati Uniti effettueranno ad imprese europee e sull'entità delle ricadute che ci potranno essere per le industrie civili » (« Economist » 29 marzo 1986). In Francia, Thierry de Montbrial, direttore dell'Istituto francese di relazioni internazionali, ha sostenuto che « è dubbio che nelle circostanze attuali l'Europa possa ottenere una quota significativa dei contratti di SDI » (DE MONTBRIAL 1986, p. 512). Lo scetticismo di molte imprese europee è stato espresso dal responsabile del Dipartimento ricerca della Siemens tedesca: « Siemens e altre imprese non sono impazzite per i contratti SDI. L'industria tedesca non sta ad aspettare per incantesimo un salto tecnologico dai progetti militari spaziali. Un'impresa come la Siemens è impegnata in grandi progetti per R&S civile in campi come l'ottica, la fusione, sistemi di trasporto a sospensione magnetica, e le comunicazioni » (cit. in LuCAS 1985, p. 57). Quest'atteggiamento non sembra condiviso dalla Fiat italiana, che, secondo il « Financial Times », si aspetta che la ricerca per SDI « produrrà benefici tecnologici nelle sue altre attività » (« Financial Times », 17 febbraio 1986). La società torinese ha fatto la scelta di sviluppare le proprie produzioni militari, avendo in mente il grande mercato délle forniture per il Ministero della difesa Usa; in questa luce andreb52
be vista anche la partecipazione con I 'United Technologies Corporation (UTc) americana al recente acquisto della Westland britannica: « la Fiat è convinta che il legame con l'UTc le offrirà pure accesso ai progetti della Strategic Defense Initiative americana » (ibid.). Considerazioni su vantaggi e svantaggi di SDI a parte, per le imprese europee la possibilità materiale di ottenere contratti per le « guerre stellari ». delle dimensioni di cui ha parlato l'SDI Organization è stata messa in dubbio da uno studio di John Pike. Della trentina di miliardi di dollari del bilancio di SDI fino al 1990, gli europei si potevano aspettare di ricevere 3 miliardi di dollari di contratti, ma « il trattato ABM impedirà la partecipazione europea in circa metà del programma SDI » per il divieto esistente di trasferire tecnologia antibalistica tra paesi. Poi « le limitate capacità delle imprese europee nelle tecnologie specializzate di SDI rendono un altro terzo del programma fuori dalla loro portata. Oltre 4 miliardi andranno a ricerche con'potenziali applicazioni commerciali e gli Stati Uniti difficilmente finanzieranno la concorrenza europea a imprese americane. Un altro miliardo di dollari è destinato a lavori.., che per loro natura devono essere effettuati negli Usa da imprese americane. Le imprese europee potranno concorrereper il restante miliardo di dollari, ma in concorrenza con le imprese Usa difficilmente otterranno la
maggior parte di questi contratti (PIKE 1985•b, p. 3-4). I contratti riservati a imprese non americane sono finora di soli 30 milioni di dollari e anche assumendo che gli europei ottengano un terzo dei contratti a cui possono partecipare, riceveranno soltanto un decimo dei finanziamenti di cui si è parlato e non più dell'i % del bilancio totale di SDI da qui al 1990 (ibid.). Per di più, dal discorso di Reagan che ha aperto il programma di « guerre stellari » nel marzo 1983, fino alla fine del 1985, «oltre 1.000 contratti sono stati firmati, del valore di oltre 3 miliardi di dollari. L'unico caso di partecipazione nonamericana è un piccolo contratto secondario che Plessey in Gran Bretagna ha firmato con Boeing » (ibid.). Le dimensioni e i possibili risultati della partecipazione europea alle ricerche per SDI non sembrano quindi giustificare sul terreno economico una scelta, quella di sostenere o no il programma di «guerre stellari » americano, che rimane essenzialmente di tipo politico.
UN NUOVO «AMERICAN DREAM » TECNOLOGICO E MILITARE? Il complesso miiitar-burocratico-industriale-accademico è immensamente potente. Ma non è tutta l'America, né tutte le industrie e le accademie d'America. Non è inevitabile che vinca »
Edward P. Thompson (1985, p. 137).
Alla fine di quest'analisi, l'« economia delle guerre stellari » non si preannuncia come una «nuova fron-
tiera » della crescita degli Stati Uniti, né come una soluzione ai gravi problemi dell 'economia americana: la perdita di competitività, il ristagno della produttività, i deficit record della bilancia commerciale e del bilancio federale, un debito con l'estero senza precedenti. Non è sul piano interno, tuttavia, che una « razionalità » della strategia di « guerre stellari » degli Stati Uniti può essere individuata. E' piuttosto sul piano internazionale che SDI acquista una sua logica, col recupero di supremazia militare nei confronti dell'Unione Sovietica e di supremazia tecnologica nei confrànti degli alleati occidentali. Questo tentativo di rinnovare la leadership tecnologica americana, dopo due decenni di declino relativo nei confronti di Europa e Giappone, non passa attraverso lo sviluppo di una nuova generazione di tecnologie e una nuova « onda lunga » di crescita di produzione e consumi; passa piuttosto attraverso una ridefinizione delle regole e del terreno della competizione tra i paesi più avanzati, alla frontiera della tecnologia 3 Al posto della competitività e della innovazione in campo commerciale, la strategia di « guerre stellari » pone al centro dei rapporti internazionali la potenza politica e militare; i principi dell'efficienza economica sono perduti nello spreco di una enorme spesa militare; l'utilità dello sviluppo tecnologico è abbandonata nella ricerca di armi fantascientifiche da «guerre stellari ». Con SDI gli Stati Uniti hanno scelto di con.
53
centrare la propria strategia proprio in quelle aree delle tecnologie militari in cui hanno già un notevole vantaggio sugli altri paesi e che permettono agli Usa di esercitare più direttamente le prerogative politiche che vengono col ruolo di superpotenza. Ma una superpotenza che lo è solo sul piano militare e non più su quello economico, non può pensare di mantenere l'egemonia in un sistema internazionale segnato dalla crescente forza economica e autonomia politica di Europa e Giappone. L'« economia delle guerre stellari » appare come strategia di corto respiro per restituire agli Stati Uniti un ruolo di leaclership all'interno dell'occidente. E' una strategia che impone costi pesanti e resta assai controversa all'interno degli Stati Uniti: il dibattito su SDI si è fatto più intenso e le critiche si sono fat-
te strada tra la maggioranza del Congresso e perfino, in alcuni settori deli 'Amministrazione, oltre che nel mondo industriale e universitario americano. Sul piano internazionale tuttavia la strategia delle « guerre stellari » ha già segnato alcuni successi; le pressioni politiche e tecnologiche potrebbero davvero spingere i maggiori concorrenti degli Usa a seguire la strada americana di una economia militare sempre più lontana dalla produzione per il mercato e di una tecnologia sempre più impegnata a sviluppare mezzi di distribuzione. Su questa strada la supremazia degli Stati Uniti all'interno dell'occidente non potrebbe che essere confermata e rafforzata. Ma non è difficile immaginare - e augurarsi altre strade per il futuro dell'economia europea.
Note
diverse aree delle nuove tecnologie, comune a praticamente tutti i paesi dell'Europa occidentale. E' solo il caso di ricordare come dall'iniziale « contrapposizione » di « Eureka », presentato come l'alternativa europea a SDI, governi e imprese europee siano passate ora- a considerarlo come un programma supplementare e non alternativo alle ricerche per le « guerre stellari » (si veda PIANTA, in corso di pubblicazione). L'erosione della supremazia tecnologi Ca degli Stati Uniti è documentata, insieme alle strategie sviluppate in questo campo, in PIANTA (in corso di pubblicazione).
Sulle questioni strategiche, militari e di fattibilità tecnologica si veda UNI0N or CONCERNED ScIENTIsTs 1984; « Issues in Science and Technology» 1984, 1; THOMPSON
1985,
OFFIcE OF TECHNO-
1985; «Daedalus» 1985, 1-2; « Journal of International Af fairs» 1985, 39; PARNAS 1985; WALLER ET AL. 1986; IDa SA REGO-TONELLO 1986. 2 Non sono qui esaminate la natura e le caratteristiche di « Eureka », il progetto lanciato nel marzo 1985 dal Presidente francese Franois Mitterrand e diventato ora un programma di ricerca in LOGY ASSESSMENT
54
Bibliogra fia ABRAHAMSON J. 1985: Tre Strategic Defense Initiative, statement be/ore the Subcommittee on Economic stabilization o/ the House o! Representatives, Washington D.C. 10 dicembre 1985. BOFFEY • PH. 1986: Obstacles /orce narrower /ocus on « Star Wars ». « The New York Times », 19 ottobre 1986. BROWN H. 1986: Is SDI technically feasible?, « America and the world 1985 », « Foreigri Affairs », 64, 3. CEP NEWSLETTER 1986: Pentagon invades academia, Council on Economic Priorities, n. 1, gennaio 1986. «Deadalus» 1985, Journal of the American academy of arts and sciences: Weapons in space, n. 1-2. DE MONTBRIAL T. 1986: The European dimension, « America and the world 1985 », « Foreign Affairs », 64, 3. DE SA REGO C. e F. TONELLO, 1986: La guerre des e.toiles, La decouverte, Parigi.
« Issues in Science and Technology », 1984, 1, 1. « Journal of International Affairs », 1985:
Technology in space, 39. KAPLAN F. 1986: 4 of 5 top US scien-
tists oppose « star wars », poli finds, «The Boston Globe », 31 ottobre 1986. KISTIAKOWSKY V. 1986: ShouÌd univer,
sity researchers accept SDI junding?, «Technology Review », 1, gennaio 1986. • La Pensée », 1986: Terre des hommes ou guerre des etoiles, 250, marzo-aprile 1986. LUCAS M. 1985: SDI, military keynesianism and Western Europe, Paper for the URPE conference, New York, dicembre 1985. LUCAS M. 1986: SDI and Europe, World Policv Journal », 1, primavera 1986. MCKENNA R. 1986: Technoiogy and /reedom, Paper for the conference of « Business executives for national security », 29 gennaio 1986.
DEGRASSE R. e S. DAGGET, 1984:
MELMAN S. 1986: Swords mio ploughshares, «Technology Review », 1, gennaio 1986.
Priorities, New York.
NIMROODY R. 1986: The irillion dollar brain dram, « Science digest », agosto 1986.
An economic analysis 0/ the president's Strategic Defense Initiative: cosi and cost exchange ratios, Council on Economic
DELMAS PH. 1985: Perception de l'IDS par les entreprises americaines, « Dossier notes et documents », GRIP, Bruxelles. « European Nuclear Disarmament journal », 1986: Star W'ars, 1. GARWIN R. 1986: W/hat's wrong, « Science digest », agosto 1986.
OFFICE OF TECHNOLOGY ASSESSMENT, 198: The Ssrategic De/ense Initiative, U.S. Congress OTA, Washington D.C. PARNAS D. 1985: So/tware aspect o/ strategic de/ense systems, « American Scientist », 73, settembre-ottobre 1985. Trad. ital. in Lito, Lettera sull'innovazione tecnologica e organizzativa, 2, 1985.
HARTUNG W. ET AL. 1984: The Strategic De/ense Initiative: costs, contractors and consequences, Council on Economic
PIANTA M. 1986: La droga tecnologica per l'economia militare Usa, « Politica ed
Priorities, New York.
Economia », 8, 1986.
HARTUNG W. e R. NIMROODY, 1985: Cutting up the Star Wars pie, «The Nation », 14 settembre 1985.
PIANTA M. (in corso di pubblicazione):
Usa, il declino di un impero tecnologico, Ediesse, Roma.
55
PIKE J. 1985a: The Strategic Del ense Initiative: areas 0/ concern, Federation of American Scientists, Washington D.C. PIKE J. 1985b: Barriers to European par-
ticipation in the Strategic De/ense Initiative, Statement to the Subcommittee on
zation o/ high technology,
Ballinger,
Cambridge. UNI0N OF CONCERNED SCIENTISTS, 1984: The /allacy o/ Star Wars, Vintage Books New York.
Economic stabilization of the US House of Representatives, 10 dicembre 1985.
U.S. SENATE COMMITTE ON FOREIGN RELATIONS 1984: Hearings on SDI, 6 marzo 1984.
SANGER D. 1985: Pentagon and critics dispute role o/ space arms designers,
WALLER ET AL. 1986: SDI: progress and challenges, Staif report submitted to
«The New York Times », 5 novembre
senator Williarn Proxmire, senator .j. Bennet Johnston and senator Lawton Chiles, US Senate, 17 marzo 1986.
1985.
SILK L. 1986: A price tag on «Star Wars », « The New York Times », 17 ottobre 1986. SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) 1985: World Armament and disarmament, SIPRI Yearbook 1985, Tavior .and Francis, London. THOMPSON E.P. (editor) 1985: Wars, Penguin, Harmondsworth.
Star
TIRMAN J. (editor) 1984: The militari-
56
Technology trans/er between US, its Nato allies and Japan as il relates to the present Strategic De/ense Initiative, Testimony before a joint hearWELLS. S. 1985:
ing of the House Committee on Foreign Affairs, US House of Representatives, 10 dicembre 1985. WICKER T. 1986: The march o/ /olly «The New York Times », 17 ottobre 1986.
queste istituzi.uni Inverno 1986-87
Quando il Parlamento indaga
Il Parlamento giudice o poliziotto non gode, giustamente, di buona fama. L'epoca dei facili insabbiam enti sembra sia passata ma questo non basta a rendere credibile e soddisfacente l'opera delle commissioni parlamentari d'inchiesta. Basta allora con questo strumento d'indagine e di giustizia? E' abbastanza difficile rispondere seccamente sì. L'ibridazione fra funzioni di giustizia e funzioni di accertamento dei fatti a fini di responsabilità politica costituisce il punto dolente e il nodo da sciogliere. Mà, quando fosse esclusa ogni forma di giustizia riservata, il Parlamento che indaga su fenomeni anche criminosi è un'istituzione da mantenere. Perché questo potere forte d'inchiesta è quasi connaturale alle origini stesse, al nucleo fondamentale di legittimazione dell'istituto parlamentare. Dunque, poteri d'indagine forti, capacità di azionare responsabilità politiche ma anche potere di mettere in moio tutti i necessai procedimenti giudiziari. Purché questi si concludano nelle sedi giuste e fuori da procedimenti privilegiati. Su questo terreno, dovrebbe essere inutile ricordano, la riforma istituzionale trova un banco di prova deciìivo.
57
Mafia e Parlamento di Francesco Sidoti
Da quando il Chiej Justice Coke, nel corso del conflitto tra i Comuni e gli Stuart, elaborò la teoria del Parlamento come « Grand Inquest o! the Nation »', le investigations parlamentari sono diventate un pilastro del funzionamento della democrazia moderna. Gli autori classici della cultura liberale da William Pitt a Max Weber hanno eretto un monumento in lode dell'istituto. Non è a tutti noto che uno degli elogi più solenni dell'attività di inchiesta del Parlamento si trova nientemeno che nel Capitale di Marx2 . L'introduzione a quella che fu chiamata « la Bibbia della classe operaia » contiene un riconoscimento altisonante alla competenza e all'imparzialità con cui furono redatte le inchieste sullo sfruttamento nelle fabbriche, che costituirono una gran parte del materiale documentario utilizzato da Marx'. Le commissioni di inchiesta parlamentare delle quali ci occuperemo, sono quelle riguardanti la mafia, il caso Sindona e la Loggia P2. Si tratta di commissioni in cui gli interessi politici in gioco sono stati enormi. In proposito, relazioni di maggioranza e relazioni di minoranza sono contrapposte le une alle altre su temi di notevole rilievo e inquie -
tante gravità. I rispettivi relatori esprimono argomentazioni differentemente documentate per arrivare a conclusioni differenziate: si potrebbe presumere che la pista di indagine sia stata scelta pregiudizialmente di volta in volta, e quindi i fatti convenienti siano prescelti per confermare la validità dell'ipotesi iniziale. Se è questa la strategia di ricerca prevalente, i problemi metodologici connessi, relativi alla affidabilità dei risultati, sono ben noti a chiunque abbia pratica di ricerca scientifica: è facile trovare conferme per quasi ogni sorta di ipotesi, anche le più sballate. Sul problema del contenuto di verità delle relazioni prese in considerazione, ci limiteremo ad alcune osservazioni nel paragrafo finale; lo scopo centrale di queste pagine è invece relativo a un aspetto problematico minore: l'esercizio di un poteregiudiziario da parte di chi è per definizione un giudice partigiano.
RESPONSABILITÀ POLITICA E RESPONSABILITÀ GIURIDICA
Può essere giudicato. politicamente responsabile anche chi secondo la autorità giudiziazia non ha commes59
so alcun reato. Responsabilità politica e responsabilità giuridica sono cose assai diverse, sotto numerosi profili: per gli intenti e per le modalità. di accertamento, per le sedi di dibattimento e per la tipologia delle sanzioni. Dal punto di vista della logica istituzionale noi abbiamo di fronte due mondi contrapposti: da un lato strutture altamente formalizzate, previste per i 'accertamento di una responsabilità di carattere giuridico, dall'altro una caotica sovrapposizione di interessi e di valori che giudicano o assolvono nelle sedi più disparate, dagli organi di partito ai mezzi di comunicazione di massa. Le sedi istituzionalmente previste per la distinzione• tra responsabilità politiche e responsabilità giuridiche sono proprio le più screditate: meritano invero ben poca credibilità lo speciale tribunale previsto per i reati commssj dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni, e tantomeno il malefico istituto dell'autorizzazione a procedere. Le Commissioni d'inchiesta parlamentare sono invece un istituto da prendere in più seria considerazione. L'inchiesta parlamentare è regolata dalla Costituzione, art. 82, in maniera che è rilevante dal nostro punto di vista sotto due profili. A termini di Costituzione, la Commissione d'inchiesta 1) deve essere « formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi », e 2) « procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria ». 60
Per quanto riguarda il primo punto, la norma dispone di contemperare sia il criterio della rappresentanza sia il criterio della pro porzionalità; in un Parlamento policentrico ed eterogeneo come il nostro, la norma in questione ha permesso ad una pluralità di forze di acquisire elementi conoscitivi altrimenti impossibili e nei fatti ha impedito la possibilità di pervenire a conclusioni addomesticate e univoche 4 . Per quanto riguarda il secondo punto, nella prassi il termine « autorità giudiziaria » è stato inteso in maniera assai estesa, poiché si è fatto uso di metodi e strumenti tipici sia delle normali audizioni parlamentari, sia del giudice penale, sia di quello civile, sia infine di quello popolare, inteso nel senso più generico del termine (la vox populi).
Una sentenza controversa. Infatti, nella importante sentenza n. 231, del 1975, la Corte Costituzionale, esprimendosi a proposito di un conflitto tra Commissione antimafla e Tribunali di Torino e di Milano, ha precisato che le commissioni di inchiesta « restano libere di presciegliere modi d'azione diversi, più duttili ed esenti da formalismi giuridici»; in particolare, possono essere richieste relazioni a pubbliche autorità « con riferimento a determinate situazioni e circostanze ambientali, tra cui bene possono trovar posto anche stati d'animo e convincimenti diffusi, registrati per quel che sono, indipendentemente dalla loro fonda tezza ».
Con tali affermazioni, la 'Corte non faceva che sancire una prassi già ampiamente sperimentata dalle commissioni. Precedentemente, infatti, la Commissione antimafia, in un comunicato per la stampa diramato il 24 gennaio 1975 aveva sottolineato che la propria attività « non è rivolta all'accertamento di specifiche responsabilità individuali per la commissione di singoli reati, ma alla ricostruzione dei lineamenti e delle cause del fenomeno mafioso, al fine di proposta alle Camere di concrete misure per reprimerlo ». Nel suo comunicato stampa la Commissione sottolineava inoltre che una parte della propria attività era consistita nella raccolta di « una serie di appunti informali redatti sulla scorta di notizie il più delle volte desunte solo dalla voce pubblica o da esposti anonimi. Esse se possono fornire lo spunto per ulteriori indagini istruttorie della Commissione, non possono essere in alcun modo pubblicizzate in un dibattimento giudiziario come documenti scaturiti da obiettivi accertamenti della Commissione stessa ». Nella sentenza la Corte costituzionale badava a sottolineare fortemen te la diversità tra i fini che sono propri delle commissioni d'inchiesta e i fini che caratterizzano le istruttorie delle autorità giudiziarie. Poiché era ben chiaro che la Costituzione negli artt. 25 e 102 proclama una riserva in favore dell'autorità giudiziaria come unico giudice delle responsabilità civili e penali, la Corte ricordava la linea di confi-
ne oltrepassando la quale sarebbero indebitamente invase le sfere di attribuzione del potere giudiziario. Nell'esprimersi a proposito della linea di confine, la Corte mostrava di avere perfetta consapevolezza dell'esistenza di un territorio delimitato da 'figure giuridiche e atti giurisdizionali, ma non dimostrava di avere cognizione altrettanto perfetta del territorio immediatamente circostante, che è designato come un hic sunt leones incerto e minaccioso. Infatti, la Corte nella citata sentenza proclamava che l'attività di inchiesta « muove da cause politiche ed ha finalità del pari politiche »; inoltre sottolineava: « come sono diversi i fini così difi eriscono o possono differire i mezzi di cui si valgono le Commissioni parlamentari d'inchiesta, rispetto a quelli tipici dell'autorità giudiziaria »; e infine, come abbiamo visto, sosteneva che le 'Commissioni d'inchiesta sono libere di scegliere modalità « esenti da formalismi giuridici », e possono dare spazio a « stati d'animo » e a convincimenti diffusi « registrati per quel che sono, indipendentemente dalla loro fondatezza ». La sentenza della Corte era inevitabilmente destinata a suscitare perplessità e interrogativi assai pertinenti, che riportavano in primo piano il problema della distinzione tra responsabilità politiche e responsabilità penali. La distinzione, elementare dal punto di vista della logica istituzionale può risultare ciononostante spesso incerta sul 'piano pratico. Rilievo a cui non sfuggono 61
le stesse sentenze costituzionali, che notoriamente sono a volte purtroppo espressioni di esigenze contingenti o di un compromesso tra maggioranza e minoranze, al quale, se necessario, vengono sacrificati rigore argomentativo e coerenza logica, «presentandosi sovente come pure e semplici rivelazioni, di verità o manifestando spiccati ssimi caratteri pretori ». Sul punto in questione, relativo all'« esenzione di formalismi giuridici », fu osservato: « Quale utilità può avere un'inchiesta che si conclude con la presentazione di una relazione fondata (anche se solo in parte, ma non sarà la parte meno importante) su dati costituiti da delazioni anonime, da informazioni confidenziali e da notizie raccolte dalla pubblica opinione, e di cui, per di più, la Commissione non ha accertato la corrispondenza al vero? Questo dimostra come la ribadita diversità tra i fini delle Commissioni e 'quelli dell'autorità giudiziaria costituisce, oltre certi limiti, solo un sofisma: che i •fini siano diversi è infatti cosa lapalissiana, ma nessuna diversità di fini può cancellare il fatto che obiettivo fondamentale anche delle Commissioni è l'accertamento veritiero dei dati di fatto. Perché mai il rigore che deve presiedere all'acquisizione degli elementi su cui sarà fondata una decisione giudiziaria non deve essere applicato, almeno tendenzialmente, nella raccolta dei dati su cui potranno essere fondate decisioni politiche, anche rilevantissime? » 3 . 62
Le argomentazioni della Corte e quelle dei suoi critici si intrecciano intorno a un problema di fondo: c'è una vasta tipologia di responsabilità che di fatto o di diritto sfuggono a sanzioni giudiziarie. Ciò è risultato evidente in vari casi, a voite di rilievo macroscopico. Il caso dello IOR. Il crack dei Banco Ambrosiano è stato per la comunità bancaria internazionale il maggiore dissesto finanziario del dopoguerra', anche se alla collettività è costato molto meno di tanti altri dissesti industriali degli stessi anni. I commissari liquidatori hanno scritto nella loro relazione che l'Istituto per le Opere di Religione (bR) « risultava debitore 'per esposizione propria o di sue patrocinate per complessivi 1.287 milioni di dollari »". Alcune operazioni sembravano essere state svolte dallo bR come « socio di fatto » del Banco Ambrosiano. Nel luglio 1982 la Procura della Repubblica di Milano emise tre comunicazioni giudiziarie nei confronti di tre dirigenti dello bR; l'attività istruttoria era suscettibile di dar luogo alle imputazioni di concorso in violazioni valutarie, concorso in malversazione, concorso in truffa. Le comunicazioni giudiziarie furono respinte per via diplomatica, sostenendo la inammissibilità della ingerenza 'giudiziaria dello Stato italiano: lo bR è . uno degli enti centrali della Chiesa, e secondo l'art. 11 del Trattato lateranense del 1929 « gli enti centrali della Chiesa sono esenti da ogni in-
gerenza da parte dello Stato italiano ». Lo bR è una istituzione ecclesiastica che fa parte dell'ordinamento canonico, quindi soggetta alla legge ecclesiastica e al giudice canonico, sottratta alla giurisdizione dello Stato italiano e assoggettata alla giurisdizione dello Stato della Città del Vaticano. Fu ben presto chiaro che l'unica via per arrivare a una composizione della vicenda non era quella giudiziaria, ma quella politico-diplomatica: la costituzione di una Commissione paritetica italo-vaticana incaricata di accertare la « verità ». L'« afjaire » P2 riaccende la polemica. Il problema relativo alla distinzione tra responsabilità politiche e responsabilità giuridiche è puntualmente ricorrente nei casi più intricati. Ad esempio, ancora, la requisitoria del pm di Roma in merito alla Loggia P2 giunge a conclusioni molto diverse da quelle espresse sia nella relazione di maggioranza sia in quelle di minoranza della Commissione d'inchiesta. Quella lunga requisitoria concluse che non doveva essere considerato reato l'iscrizione alla P2, richiamandosi agli ordinari criteri giuridici che regolano il concorso nel reato. In particolare: il reato di associazione per delinquere è configurato nell' art. 416 del Codice penale in modo da richiedere la prova del pactum sceleris, cioè il previo accordo tra i partecipanti allo scopo di commettere più delitti; senza la dimostrazione della consapevole parteci-
pazione ad uno specifico progetto eversivo o ad una specifica attività delittuosa, non •può essere giudicata giustificata l'incriminazione degli aderenti alla P2. Il punto di vista dei membri della Commissione parlamentare di indagine fu assai polemico nei confronti della requisitoria romana. Il repubblicano Olcese deplorò il « pochissimo zelo » dei magistrati di Roma, che avrebbero « fatto di tutto per non indagare su nulla ». Eppure, se poi andiamo a leggere gli atti relativi della relazione di maggioranza, notiamo che la Loggia P2 viene descritta in termini non immediatamente rilevanti da un punto di vista penalistico: « complessa struttura dedita ad un'attività di indebita, se non illecita, pressione ed ingerenza sui più delicati ed importanti settori... ramiflcata azione perturbatrice dell'ordinato svolgimento delle istituzioni.., il fine ultimo della organizzazione risiedeva nel condizionamento politico del sistema... una associazione che aveva il fine evidente di interagire nella vita del paese in modo surrettizio ». Anche quando la relazione Anselmi si sofferma sugli aspetti più inquietanti, è costretta a distinguere nettamente responsabilità di carattere politico e responsabilità di carattere penale. Per quanto riguarda ad esempio la strage dell'Italicus, la relazione di maggioranza afferma che la Loggia P2 è « gravemente coinvolta nella strage dell'Italicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile, in 63
termini (non giuridici ma) storicopolitici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale ». Tutte le osservazioni precedenti convergono nel confermare che per quanto riguarda specifiche responsabilità di carattere penale esiste soltanto una autorità legittimamente delegata a processare e a condannare: l'autòrità giudiziaria. Ciò non toglie che esistano responsabilità di altro tipo, rilevanti da un punto di vista politico e non da un punto di vista processuale-penalistico. L'analisi dell'attività della Commissione d'inchiesta sulla P2 e del dibattito parlamentare che ne è seguito serve a chiarire alcune conseguenze della distinzione tra i due livelli di responsabilità.
LA COMMISSIONE D'INCHIESTA SULLA LOGGIA P2 E IL DIBATTITO IN PARLAMENTO
Riportiamo l'art. i della legge 23 settembre 1981, n. 527 (Istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2): « E' istituita una commissione parlamentare d'inchiesta per accertare l'origine, la natura, 1' organizzazione e la consistenza dell'associazione massonica denominata Loggia P2, le finalità perseguite, le attività svolte, i mezzi impiegati per lo svolgimento di dette attività e per la penetrazione negli apparati pubblici e in quelli di interesse pubblico, gli eventuali collegamenti interni ed internazionali, le influen64
ze tentate o esercitate sullo svolgimento di funzioni pubbliche, di interesse pubblico e di attività comunque rilevanti per l'interesse della collettività, nonché le eventuali deviazioni dall'esercizio delle competenze istituzionali di organi dello Stato, di enti pubblici e di enti sottoposti al controllo dello Stato ». Le critiche alla relazione Anselmi. Le conclusioni svolte nella relazione finale dell'on. Anselmi furono sottoscritte dalla più larga maggioranza mai registrata nei lavori di una commissiore d'inchiesta: democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani, indipendenti di sinistra, pduppini. Ci furono tuttavia opinioni dissenzienti, espresse in varie altre relazioni di minoranza. Prenderemo in considerazione le opinioni dissenzienti su tre argomenti: l'attendibilità delle liste e la responsabilità degli iscritti, l'interpretazione complessiva, l'atteggiamento del Partito comunista. Il tema della attendibilità delle liste, e della relativa responsabilità degli iscritti, fu sollevato soprattutto dal socialdemocratico Ghinami, in una relazione ricca di riferimenti giurisprudenziali e dottrinali (in particolare, la critica popperiana delle teoriche cospirative). La relazione di maggioranza sostiene perentoriamente l'autenticità e l'attendibilità delle liste degli iscritti. Inoltre, tutti gli iscritti sarebbero consapevoli o dei fini ultimi o dei fini immediati della P2, quindi sarebbero tutti responsabili. L'on. Ghinami cita 1)
la sentenza del Consiglio superiore della magistratura in cui alcuni magistrati vengono scagionati dall'accusa di aver fatto parte della P2, nonostante i loro nomi fossero stati ritrovati negli elenchi; 2) la sentenza del Giudice istruttòre di Roma che esclude l'attendibilità integrale delle liste; 3) la requisitoria del Procuratore della Repubblica di Roma, secondo il quale sarebbe « condotta di malafede il credere alla veridicità delle liste degli iscritti »; 4) la relazione conclusiva del Comitato amministrativo di inchiesta sulla Loggia P2, composto dai proff. A. Sandulli, V. Crisafulli, L. Levi Sandri, nella quale sono particolarmente rilevanti i seguenti punti: a) la Loggia P2 non tenne mai riunioni; b) non aveva una sede; c) i soci non si conoscevano fra loro; d) gli elenchi degli iscritti sono attendibili soltanto in parte; e) « è da escludere che tutti gli appartenenti alla P2 fossero consapevoli, o addirittura partecipi, delle diverse e singolari attività svolte individualmente, o in collaborazione o con questo o con quell'individuo o gruppo (associato o non associato), dal Gelli »'. Per quanto riguarda l'interpretazione complessiva, l'argomentazione della re1zione di maggioranza è così riassumibile: la Loggia P2 « non è attribuibile a nessun partito in quanto tale », e non è « la filiazione del sistema dei partiti ». Proprio gli assunti di base della relazione di maggioranza furono vivacemente contestati. Nella relazione di mino-
ranza dei liberali, il senatore A. Bastianini scrisse: « La P2 cresce cli potere negli anni in cui si sviluppa la solidarietà nazionale, con l'intesa tra i maggiori partiti. Molti passaggi della relazione Anselmi portano a giudicare la P2 come un elemento di inquinamento in una fase positiva di trasformazione dei rapporti politici. Il giudizio sembra dover essere rovesciato: proprio l'affermarsi in quegli anni di una democrazia consociativa, lo sbiadire del confronto tra la maggioranza e l'opposizione, il restringersi degli spazi che il nuovo assetto politico lasciava alle diverse componenti della società ha creato le condizioni per il radicarsi della nuova P2... E' negli anni della solidarietà nazionale che gli uomini della P2 penetrano nei centri vitali del controllo del paese e che si espande il disegno di controllo complessivo. ( ... ) La P2 non è quindi un germe estraneo che corrode una società sana, ma sembra piuttosto la conseguenza di una democrazia malata, nel suo modo di funzionare prima ancora che nelle sue componenti »'. Un punto importante della relazione Anselmi è la descrizione della struttura della P2 come una dessidra, ovvero una sorta di doppia piramide: una piramide il cui vertice era costituito da Gelli, e sopra di essa un'altra piramide « che, rovesciata, vede il suo vertice inferiore appunto nella figura di Gelli. Questi è il punto di collegamento tra la piramide superiore, nella qua65
le vengono identificate le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano pratica attuazione e attraverso le quali viene orientata, dando ad essa un colore determinato, la neutralità dello strumento ». Ma a questo punto la relazione Anselmi si ferma, lasciando un interrogativo enorme ed oscuro, perché « quali forze si agitino nella struttura superiore questo non ci è dato conoscere sia pure in termini sommari, al di là della identificazione del rapporto che lega Gelli ai Servizi segreti ». La relazione quindi si chiude con un invito allusivo (e di notevole gravità) a una « interpretazione non ristretta ad angusti orizzonti domestici ». Dopo aver accumulato una massa notevole di informazioni e dopo aver svolto un lavoro istruttorio per. molti versi rilevante, la relazione di maggioranza approdava insomma ad un quadro d'insieme preoccupante, sì, ma dal quale possono essere tratte conclusioni disparate e contraddittorie: smisurate, come abbiamo visto, o riduttive, come vedremo subito. Nel dibattito parlamentare del gennaio 1986 sulle conclusioni della Commissione d'inchiesta sulla Loggia P2, la stessa Anselmi, dinanzi ai neanche venti i:arlamentari presenti, dopo avere ricordato che il Gelli era stato indicato di t'olta in volta come filofascista o filocomunista o filodemocristi ano, affermava infine: « Non è logico chiedersi se chi sta un po' con tutti in fondo non sta con nessuno? Chi sta dentro tante parti in realtà sta al di fuori di 66
tutte ed a nessuna di esse è intrinseco? »''. La natura politica della P2 nella relazione Teodori. A confronto con la relazione Anselmi, la relazione di minoranza firmata dal radicale Teodori è ben diversa, sia per l'interpretazione complessiva, sia per l'attenzione rivolta ai comportamenti del Partito comunista, sia perché mirata a mettere in luce specifiche responsabilità individuali. Sotto quest'ultimo profilo, il bersaglio principale della relazione Teodori è l'on. Andreotti, che nella relazione Anselmi non viene mai nominato e invece domina a tutto campo nella relazione Teodori. Ma il punto non è tutto sommato unico e specifico della relazione Teodori, perché su tale aspetto sono intervenuti in tanti, ad esempio l'on. Pisanò (la cui relazione di minoranza è molto documentata), in più occasioni l'on. ,Formica (che ha cominciato il suo intervento nel dibattito parlamentare sulle conclusioni della Commissione affermando: « col trascorrere del tempo più mi convinco che non ho da mutare pensiero »), il giudice Viola (nella requisitoria a conclusione dell'indagine sull'assassinio dell'avvocato Ambrosoli), il sociologo Nando Dalla Chiesa (nella sua ricostruzione delle vicende che hanno portato alla morte del padre), il giudice Aldo Cuva (che avrebbe voluto contestare i reati di interesse privato in atti d'ufficio nella nomina del generale Giudice, e che profetizzava:
« se il Parlamento confermerà l'archiviazione, compirà un atto risibile e ingiusto »), il giornalista Sergio Turone (che in una trasmissione televisiva fu gratificato dell'appellativo « carogna » dall'on. Andreotti per i giudizi invero non encomiastici espressi dal Turone in sue precedenti pubblicazioni). La polemica con Andreotti non è dunque un punto unico e specifico della relazione Teodori. L'aspetto specifico e incisivo della relaziòne Teodori sta soprattutto nella scelta degli « angusti orizzonti domestici » come terreno d'indagine .e di spiegazione, avanzando una interpretazione sotto questo profilo radicalmente alternativa rispetto a quella proposta nella relazione Anselmi: « La mia lettura della P2 si è contrapposta a quella della maggior parte dei parlamentari delle altre forze politiche. Per tutti loro la P2 è stata qualcosa di estraneo al sistema dei partiti; per me ogni singolo fatto sta a dimostrare che pduisti e politici hanno lavorato strettamente intrecciati per gestire illegalmente il potere... Per loro comunisti e democristiani sarebbero stati le vittime della P2; per me sono stati, insieme con altri settori altri partiti, i complici » 2 . Inoltre, la relazione Teodori mette in luce altri silenzi o risposte elusive della relazione di maggioranza: vari interventi indebiti per tentare il salvataggio di Sindona, finanziamenti ai partiti, alleanze sotterranee tra gruppi editoriali, esistenza di altre piste massoniche, comporta1
menti censurabili della Banca d'Italia e delle autorità bancarie del Vaticano. Sulla base di. tali rilievi, i radicali rifiutarono nettamente le conclusioni della relazione finale di maggioranza, che senza peli sulla lingua venne definita « un'operazione truffaldina... La Anselmi è l'ultima patrona della P2... E' una relazione P2, non sulla P2... ». E il Pci? L'opposizione latitante. Nei confronti del Partito comunista la relazione Teodori muove rilievi notevoli, e confortati da una documentazione che dobbiamo ritenere pregevole fino a quando qualcuno non avrà dimostrato il contra13 rio . Gia nella relazione di minoranza della Commissione d'inchiesta sul caso Sindona, l'on. Teodori aveva sottolineato un atteggiamento comunista « silenzioso o quasi » dal 1972 al 1976 sulle vicende sindoniane: una opposizione che «non vede o non vuol vedere, e comunque tace e non prende iniziative »14 Ivlentre, in contrasto, settimanali, quotidiani e libri affrontavano le vicende in questione offrendo tanti spunti sui quali si sarebbero potute intraprendere varie iniziative politiche. Secondo Teodori, il Partito comunista non avrebbe utilizzato quasi per niente i molti strumenti di intervento e di controllo di cui dispone l'opposizione (interrogazioni, dibattiti, mozioni, indagini conoscitive, commissioni. d'inchiesta, denuncia sulla stampa di partito). Anche per quanto riguarda la Loggia P2, Teodori svolge un'argomenta67
zione simile: la Loggia P2 è stata oggetto di servizi giornalistici su periodici di larga diffusione dalla prima metà degli anni Settanta; dal 1976 c'è una « alluvione di articoli », con titoli come I cento massoni di Montecitorio e C'è la P2 dietro la strategia della tensione. Sottolinea Teodori: « in occasione di vicende gravi e drammatiche come i tentativi golpisti, la strage dell'halicus e l'omicidio Occorsio, le informazioni erano a disposizione di chiunque avesse voluto intervenire efficacemente. Ma le forze politiche preferirono tacere facendo finta di non sapere e non vedere! »'. Teodori riporta le dichiarazioni di ignoranza rese alla Commissione di inchiesta dai segretari dei vari partiti in merito alla loro conoscenza del fenomeno P2 anteriormente allo scoppio dello scandalo. Quando all'on. Berlinguer, interrogato dalla Commissione, 24 gennaio 1984, viene chiesto di precisare quando fosse venuto a conoscenza dei fatti riguardanti la P2, egli afferma: « Devo dire che ne sono venuto a conoscenza dai giornali nel momento in cui si è cominciato a parlare degli elenchi consegnati dai magistrati all'on. Forlani, allora Presidente del Consiglio. Credo che fossimo nella primavera-estate del 1981 »". Altre osservazioni di rilievo sono svolte da Teodori in merito al Banco Ambrosiano, che viene definito «un vero e proprio strumento di finanziamento a poteri occulti e palesi » da uno dei commissari comunisti nella Commissione d'inchiesta 68
sul caso Sindona" e che viene definito « lo sportello bancario della P2 » dall'on. Teodori. Tra il 1979 e il 1982, un ingente finanziamento (circa 35 miliardi in varie rate, tra prestiti al Partito e prestiti al quotidiano « Paese sera. », che era all'epoca in forte passivo), viene erogato dal Banco Ambrosiano al Pci. Nel periodo considerato, è compreso l'arresto e la carcerazione di Calvi che, osserva Teodori, « in quei frangenti era disponibile a qualsiasi cosa pur di salvarsi.., i finanziamenti al Pci si riaprono e si gonfiano in coincidenza con il periodo più critico... Il Pci, nel periodo più critico di Calvi (1981-1982), approfitta della situazione per soddisfare le sue èsigenze finanziarie! »''.
POLITICA E VERITA'
Nella sua celeberrima conferenza su La politica come professione, Max Weber incominciava annotando che noi parliamo di politica in tanti sensi, e diciamo che fa politica « anche la moglie furba che cerca abilmente di menare il proprio marito per il naso ». Il termine politica è invero polisemico e polivalente già nelle comunicazioni del linguaggio ordinario, e trasporta tutta la sua ambiguità anche nell'uso in relazione a temi istituzionali. Ma, fuori di ògni ambiguità, chiunque non sia un ingenuo ha un'idea di come e quanto ci si sporcano le mani a fare quella politica qui presa in considerazione.
Nelle pagine corrusche di Deutschland und die Deuischen, scriveva Thomas Mann: « La politica è stata definita l'arte del possibile, ed in realtà è una sfera affine all'arte... Essa racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediency e concessioni alla materia, molti elementi troppo umani e contaminati di volgarità, tanto che forse non è mai esistito un uomo politico il. quale, dopo aver raggiunto grandi fini, non abbia dovuto domandarsi poi se gli restasse il diritto di noverarsi ancora tra le persone rispettabili ». Ma, continua T. Mann, « la politica non rimane circoscritta al male. Essa non potrà spogliarsi mai del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare totalmente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura, riducendosi alla mera ed immortale volgarità, alla menzogna, all'assassinio, all'inganno ed alla violenza, senza con ciò degenerare in una realtà di demoniaca corruzione, senza deformarsi a nemica dell'umanità, senza ridurre la sua forza creativa già spesso accomodante ad una sterilità indegna e criminosa ». Quanto c'è di « accomodante », di « forza creativa », di « sterilità indegna e criminosa » nelle vicende di cui. ci siamo i n tere ssan do? Il filo che tiene unite queste pagine è la distinzione tra responsabilità giuridica e responsabilità politica. Abbiamo visto che mentre è abbastanza chiara la definizione di una responsabilità giuridica, è invece incerta la definizione di che cosa
si intende per responsabilità politica. Anche la citata sentenza della 'Corte ostituzionale diventa capziosà e criticabile proprio nel momento in cùi tenta di marcare la linea di confine. E proprio su quella linea di confine si dibattono e si concludono tutte le vicende relative al caso Sindona e alla Loggia P2. Dopo aver fatto l'elogio dell'istituto della Commissione d'inchiesta parlamentare, baderemo bene ad allontanare l'eventuale sospetto di una esaltazione acritica o ingenua: le commissioni d'inchiesta sono organi politici nel senso pieno del termine: una riflessione sociologica in proposito deve prendere in considerazione una storia di interessi e vicende a volte non propriamente nobili e commendevoli. La difficile storia dell'« Antimafia ». Tormentati in particolare sono stati molti episodi relativi al funzionamento della Commissione antimafia. Già definita « squalificata alquanto » addirittura per sentenza di Tribunale", la Commissione antimafia soffrì tensioni furibonde perfino per la nomina dei componenti. Narrano le cronache che un commissario si presentò dichiarando arcigno: « Sono qui per difendere l'onore mio e dei miei amici »; riferiscono gli atti che ci furono dimissioni dei membri della Commissione motivate dichiarando che era applicabile il disposto dell'art. 61 del Codice di procedura penale nei confronti di due altri membri della Commissione, peraltro ascoltati come testimo69
ni durante precedenti indagini della stessa Commissione". Pròprio chi era stato per un lungo periodo Presidente della Commissione d'inchiesta parlamentare sul fenomeno della mafia (e non era un siciliano, vivaddio) fu implicato in una vicenda di illeciti valutari che per, alcuni risvolti risultò assai poco edificante, e per altri « fece ridere a crepapeile tutta l'Italia ». L'inchiesta parlamentare sulla mafia si conclude nel febbraio 1976. Ma soltanto dopo l'uccisione de]l'onorevole Piersanti Mattarella, nel 1980, il Parlamento discusse le conclusioni della Commissione, presentate quattro anni prima. La nuova Commissione parlamentare sui fenomeno della mafia, costituitasi nei febbraio 1983, in ottemperanza al dettato della legge istitutiva n. 646 del 13 settembre 1982, 'denominata « La Torre-Rognoni », presentò alacremente alle Camere la sua prima relazione. Osservò un competente commentatore del fenomeno mafioso: « non è costoso riunire tante persone per tanto tempo allo scopo di cavarne una relazione che sembra la tesi compilativa di uno studente di medio profitto? »'. A Montecitorio il dibattito sulle conclusioni presentate al Parlamento dalla Commissione antimafia cominciò un anno dopo « nella quasi totale assenza dei rappresentanti del pentapartito ». Il 12 marzo 1986 non ce n'era in aula neanche uno, e il capogruppo comunista Napolitano chiese la sospensione della seduta, così carte70
sianamente motivata: « Non c'è una rappresentanza che possa considerarsi minimamente decente dei gruppi di maggioranza Il caso relativo alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2, di cui soprattutto 'ci si è qui occupati, non sfugge ai « tempi lunghi », ai « circoli viziosi », alle « disfunzioni », etc. della democrazia. Nella seduta finale di discussione alla Camera della relazione della Commissione bicamerale furono notate sparute presenze di parlamentari. I commenti perplessi o ironici si sprecarono: « a una vicenda che aveva fatto cadere governi, emozionato l'opinione pubblica, provocato proclami, prodotto sconquassi, allertato mezzo mondo, suscitato timori per i destini patrii, è stata riservata una conclusione parlamentare oltremodo sciatta, tanto da apparire una rimozione » (così « Il Manifesto » dei 7 marzo 1986; l'autore concludeva esprimendo viva comprensione è solidarietà all 'on. Pietro Longo, quasi. unico capro espiatorio della questione morale). Per introdurre le considerazioni finali, ricordiamo e brevemente riassumiamo un'altra cronaca parlamentare. Il 6 ottobre 1984 si stavano discutendo alla Camera (con due anni di ritardo: si prega di tenere in considerazione) le conclusioni della Commissione d'inchiesta parlamentare sul caso Sindona. A sorpresa, i radicali presentarono una mozione in 'cui si chiedeva al governo di « assumere immediatamente le indispensabili decisioni in ordine alla re-
sponsabilità e direzione del ministero degli Esteri, attualmente detenuto dall'onorevole Giulio Andreotti ». E infine, il caso Sindona. Votata a scrutinio segreto la mozione fu respinta; ma almeno cinquanta parlamentari della maggioranza avevano votato a favore: se i deputati comunisti non avessero deciso di astenersi, la mozione sarebbe stata approvata, e il Ministro costretto alle dimissioni. Particolare curioso: la astensione comunista si verificava nel bel mezzo di una campagna martellante del Pci sui temi della questione morale e delle connivenze democristiane con la mafia. Una ana usi di contenuto (frequenza degli items mafiologici, analisi degli asserti valutativi, calcolo centimetrocolonna) tra « L'Unità » e altri quotidiani, di partito e indipendenti, pubblicati nei giorni precedenti il 6 ottobre, mostra differenze abissali 24 . Pochi minuti prima che i radicali presentassero la loro mozione, il comunista Petruccioli aveva aspramente fustigato il regime democristiano, i suoi misfatti e le sue vergogne. Sul caso Sindona, diversamente da quanto avvenuto nel caso della Loggia P2, il Pci aveva presentato una relazione di minoranza (a firma D'Alema, Minervini, Cafiero) molto critica che denunciava « una preoccupante, e diffusa omerta nei ranghi più alti della vita pubblica e giustamente si chiedeva: « come è pensabile combattere la mafia quando, anche per difendersi, alte
autorità statali accettano codici mafiosi? Come lamentare l'omertà di tanti modesti testimoni nei processi di mafia, quando alti dignitari dello Stato e uomini politici hanno avuto davanti alla Commissione (ma anche davanti al magistrato) un comportamento omertoso? »25; e infine affermava: « noi confidiamo che I' opera modesta, ma onesta che abbiamo compiuto possa invece dare fiducia e speranza a questi cittadini»! Appena divamparono le polemiche sull'astensione comunista, che aveva salvato il Ministro dalle dimissioni obbligate, furono proposte argomentazioni che richiedevano per la determinazione di una responsabilità politica prove acquisite con lo stesso rigore necessario alle indagini di tipo giuridico. Il capogruppo comunista alla Camera fece osservare che « gli indizi non possono essere trasformati in prove così gravi da indurre ad una virata di 180 gradi». Un'argomentazione simile fu sollevata dal segretario democristiano, il quale osservò sdegnato che ci si trovava di fronte ad una « campagna denigratoria non basata su alcun elemento di prova ». La stampa non pregiudizialmente ostile al Pci censurò aspramente l'astensione comunista alla Camera; Rossi. Di vergogna, così titolava la sua cronaca « l'Espresso» del 14 ottobre 1984. Il dibattito parlamentare sul caso Sindona non era tuttavia concluso, e si spostò dopo un mese dalla Camera al Senato. Il Pci nel frattem71
po aveva formalmente sconfessata la posizione assunta alla Camera, e gridava ai quattro venti che al Senato i democristiani sarebbero stati messi con le spalle al muro. Furono presentate tre mozioni, tra le quali una comunista, che chiedevano le dimissioni del Ministro, ma che erano formalmente interpretabili o come mozioni di sfiducià o come mozioni di censura. La mozione di censura avrebbe portato ad un voto segreto, la mozione di sfiducia avrebbe portato ad un voto palese. La differente denominazione avrebbe portato ad un differente trattamento procedurale e, presumibilmente, ad un diverso esito. Il Presidente del Senato, Cossiga, decise di considerare d'ufficio le tre mozioni come mozioni di sfiducia, quindi destinate ad essere votate per appello nominale e palese. La scelta di questo sistema di voto pregiudicava, presumibilmente, l'esito delle votazioni: era difficile che si ripetesse in un voto palese quella defezione di deputati della maggioranza che si era verificata alla Camera grazie alla procedura del voto segreto. Le proteste dei comunisti contro la decisione del Presidente del Senato furono veementi e in un contesto di esecrazioni e rampogne fu scritto su « l'Unità »: « questa pagina parlamentare resterà negli annali come un esempio da manuale di come l'opportunità politica abbia prevaricato sulla verità, sulla Jimpidezza morale e istituzionale... ». In una accurata ricostruzione della vicenda 26 , è stato tuttavia osservato che se il Pci 72
avesse vdluto far considerare la propria mozione come mozione di censura, quindi votata a scrutinio segreto, avrebbe potuto percorrere le opportune modalità istituzionali e formali, e « avrebbe fatto crollare di un attimo il disegno maggioritario di evitare lo scrutinio segreto ». Secondo la citata ricostruzione, « nonostante le apparenze » si era verificata « una concordanza di volontà, suggerita da convenienze politiche di vario genere, presumibilmente differenti a seconda dei vari gruppi interessati ». I partiti di maggioranza erano contrari ad un voto segreto che molto probabilmente avrebbe destabilizzato la compagine governativa, e la decisione del Presidente del Senato era stata « tale da non scontentare troppo i presentatori delle mozioni nel mentre accontentava la maggioranza governativa ». In un clima di particolare tensione ed impegno si arrivò al dibttito in aula. Non si trovarono in difficoltà i parlamentari allenati a contorsionismi dialettici pluriennali: questi non fecero una piega e votarono disciplinatamente secondo gli ordini di scuderia. Per altri si rivelò alquanto impervia la cruna dell'ago della questione morale. Il repubblicano Giovanni Ferrara svolse un intervento molto critico nei confronti di Andreotti, invitato a «trarre da solo le conseguenze di questo dibattito ». L'intervento fu applaudito anche dal senatore Spadolini; ma i repubblicani non votarono le dimissioni del Ministro. Anche il liberale Malagodi svolse un intervento mol-
to critico; ma i liberali non votarono le dimissioni del Ministro. Gli indipendenti di sinistra La Valle, Ulianich, Ossicini, si astennero sulla mozione del Pci, perché non ritennero sufficienti gli elementi raccolti a carico di Andreotti. Il voto duplice di Bobbio, ovvero un dilemma istituzionale. Assolutamente peculiare fu la scelta del senatore a vita Norberto Bobbio, che votò a favore sia della mozione di maggioranza, sia della mozione comunista. I colleghi che gli erano vicini, quando lo udirono dire « sì per la seconda volta, si affrettarono a gridargli «Guarda che ti sei sbagliato In effetti, c'era di che rimanere perplessi. Fu osservato: sarà pure il venerato maestro di due generazioni di studiosi, ma questo è il passo falso di un principiante; lapalissianamente: che cosa accadrebbe se tutti si comportassero allo stesso modo, votando contemporaneamente sia per la maggioranza sia per l'opposizionè? Ordini del giorno e mozioni contrastanti sarebbero approvati e respinti, con tutte le conseguenze paradossali che ne deriverebbero. Era evidente tuttavia che una tale logica paradossale non poteva applicarsi al caso in questione. Infatti, al momento del voto, il dibattito sul caso Andreotti-Sindona appariva inchiodato su un esito scontato: pur tra vari distinguo la mozione di maggioranza sarebbe stata approvata. Nessuno avrebbe votato come Bobbio. Ognuno si sarebbe schierato
pro o contro, e alcuni, tra i repubblicani, tra i comunisti, tra i socialisti avrebbero accusato difficoltà a riconoscersi in una delle due mozioni contrapposte. Votando in quel modo, Bobbio non poteva presumere di cambiare i grandi numeri: aveva voluto dare corpo ad un problema. Un problema che nei suoi contenuti è uguale a quello qui affrontato: la linea di demarcazione tra responsabilità personale e Liudizio politico. Bobbio dichiarò in un'intervista di essere stato influenzato da due imperativi contrastanti: il primo, la fedeltà ad una disciplina di maggioranza; i:l secondo, la propria convinzione personale. Saranno in molti a convenire che principii siffatti dovrebbero avere più largo seguito di quanto in genere si suole. Bobbio ritenne di non dover scegliere tra uno dei due imperativi, ed ebbe la onestà di ammettere pubblicamente il proprio dilemma, scegliendo l'opportunità istituzionale che aveva a disposizione. Con una importante distinzione. Da un punto di vista formale, il voto favorevole nei confronti di due mozioni equivale ad una astensione. Ma Bobbio non preferì la scelta dell'astensione, che sarebbe apparsa come una resa di fronte all'alternativa tra i due principi; preferì invece il doppio voto favorevole, che ha un significato ben diverso e che apre la via ad altre considerazioni, di ambito non formale ma sostanziale. E' evidente che nell'opinione di Bobboi il giudizio sul caso Sindona non era arrivato ad una conclusione de73
finitiva, ma ad una mezza conclusione. Bobbio riteneva che dal dibattito erano emersi elementi tali da rivolgere ad Andreotti « un invito ad assumersi coscientemente tutte le sue responsabilità ». Ma il dibattito e la documentazione non erano stati tali da mettere in evidenza « al di fuori di ogni ragionevole dubbio» quelle responsabilità personali che avrebbero dovuto essere dimostrate con il rigore di un'inchiesta di tipo giudiziario. Peraltro, fuori dagli « angusti orizzonti domestici », era evidente che se Andreotti aveva sbagliato, aveva sbagliato insieme a personalità eminenti sia del Vaticano sia degli Stati Uniti. Il dibattito induceva a propendere per la tesi che insisteva sulle responsabilità, ma fino a un punto che includeva la compatibilità con la mozione della maggioranza, che era non semplicemente assolutoria, ma chiudeva un supplemento d'inchiesta per arrivare a una maggiore chiarezza su aspetti ritenuti ancora incerti. A tutti sarà capitato talvolta di fare da spettatore in una lite, e di sentirsi in animo di dare ragione ad entrambi i contendenti, ma per motivi diversi. Sembra essere questa la situazione in cui. si è ritrovata una parte non piccola della stessa maggioranza di governo e della stessa opposizione di sinistra. Perché tra le forze di maggioranza che avevano votato a favore di Andreotti, c'era chi precedentemente aveva coltivato una diversa opinione, e tra le forze della minoranza comunista che aveva votato contro 74
Andreotti, c'era chi precedentemente aveva ritenuto di dover risparmiare il dirigente democristiano. Nei confronti di un sistema che pone quotidianamente gli interrogativi più inquietanti sui rapporti tra politica e morale, c'è chi possiede risposte univoche e definitive. C'è chi, invece, crede di Vivere in un mondo complicato, in cui è difficile accertare e controllare i fatti, discernere nettamente il vero dal falso, il possibile dal desiderabile. Quando i non professionisti della politica si avventurano in questo mare aperto, è augurabile che lo facciano come Bobbio ha fatto (indipendentemente dal caso in questione): da uomini non navigati, in cui si possano rispecchiare i problemi del paese, ad un più elevato livello di dilemma intellettuale e morale. In un sistema istituzionale bloccato come quello italiano, il ruolo del Senato è per troppi versi ripetitivo rispetto al lavoro svolto dalla Camera. Di fatto, si è smarrita quella che era l'antica ragion d'essere del Senato nelle dottrine costituzionali che motivavano l'esistenza dell 'istituzione: un correttivo rispetto all'allargamento del suffragio. Come altre personalità eminenti (ad esempio il Presidente della Corte costituzionale), il Senatore a vita è espressione di una investitura di terza istanza rispetto alla pura conta numerica dei voti di preferenza. Uomini liberi da vincoli di partito dovrebbero giocare un ruolo più significativo, ed avere un peso mag-
giore nei processi decisionali. Una società moderna è democratica non soltanto perché vige la regola della
maggioranza, ma anche perché è articolata in una pluralità di poteri indipendenti.
Note
The British Standard o/ Living 1790-
Non per sfoggio di erudizione, ma perché è un aspetto problematico rilevante dal nostro punto di vista, ricordiamo che Sir Edward Coke difese anche il principio secondo il quale la common law regola e controlla gli atti del Parlamento. Il principio è ribadito nel Bonham's Case, in cui tra l'altro si afferma: « i censori non possono essere al tempo stesso giudici, procuratori e parti... quia aliquis
non debet esse judex in propria causa, imo iniquum est aliquem suae rei esse judicem ». 2
Più ampie informazioni sull'argomento
cfr. F. SmoTI, Parlamento e governo in Marx, in corso di pubblicazione in un volume collettaneo degli Editori Riuniti, celebrativo del centenario della morte di Marx. Sul tipo di utilizzazione che Marx fece dei lavori delle commissioni d'inchiesta del suo tempo, ci sono state molte polemiche. Osservava T.S. Ashton: « una generazione che ebbe l'iniziativa e la diligenza di raccogliere i fatti, l'onestà di rivelarli e l'energia di accingersi al compito della riforma è stata segnata a dito come l'autrice non dei Libri Blu, ma dei mali. in essi denunciati » (cfr. F.A. HAYEK [a cura di], Il capitalismo e gli storici, Sansoni, Firenze 1967, p. 47). E' una avvertenza che deve essere tenuta a mente anche per quanto riguarda i fatti qui presi in considerazione. Sulla interpretazione dei risultati delle commissioni d'inchiesta studiate da Marx, gli specialisti si sono scontrati più volte, e non sono ancora giunti a conclusioni unanimemente condivise; cfr. E.J. HOBSBAWN,
1850, in «The Ecoriomic History Review », 1957; e E.J. HOBSBAWN, R.M. HARTWELL, The Standard o/ Living Dur-
ing the Industrial Revolution: A Discussion, in «The Economic History Review », 1963. Cfr. le perspicaci osservazioni di A. MANZELLA, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 136-137. Cfr. S. R000TÀ, La svolta "politica" della Corte costituzionale, in « Politica del diritto », 1970, pp. 41-42; e ID.,
L'opinione dissenziente dei giudici costituzionali, in « Politica del diritto », 1979, pp. 637-639. M. D0GLIANI, Commissione antimafia
e segreto "funzionale". I documenti li leggeranno solo gli storici, in « Giurisprudenza costituzionale », 1975, p. 3224.
Cfr. The Global Implications o! Banco Ambrosiano, in « International Currency Review », 1982, n. 4. Cfr. S. RisTucclA, Perché va cambia-
ta la condizione giuridica dello IOR nei rapporti finanziari internazionali, in « Queste Istituzioni », n. 52, 1982. Ho citato la relazione conclusiva del Comitato amministrativo d'inchiesta sulla Loggia P2 più estesamente di quanto ha fatto l'on. Ghinami a p. 7 della sua Relazione (Doc. XXIII, n. 2-biss/4). Il testo completo della Relazione conclusiva del Comitato amministrativo d'inchiesta si ritrova (insieme a vari altri testi significativi) in appendice a L. BARBIERA, G. CONTENUTO, P. Giocou NAccI,
Le associazioni segrete. Libertà associativa e diritti dell'associato tra Legge Rocco (1925) e legge sulla P2 (1982), Jove75
ne, Napoli 1984.
Còmmissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia massonica P2, relazione di minoranza del senatore A. BASTIANINI, Roma 1984, p. 13. L'equivoco era già in qualche misura contenuto nella relazione Anselmi, dove si osservava: « Di fronte a un personaggio come Gelli, ogni ipotesi è in astratto formulabile e nessuna conclusione può palesemente dichiararsi assurda La Relazione Teodori è stata pupbblicata in volume; cfr. M. TEODORI, P2: la controstoria, Sugarco, Milano 1986, pp. 7-8. Temi limitrofi sono inoltre trattati in M. TE0D0RI, Arcana dominationis e arcana seditionis, Interventi parlamentari nella IX Legislatura (1983-1984), Abete grafica, Roma s.d. 13 Ho cercato (anche rivolgendomi a studiosi comunisti e allo stesso autore) inutilmente repliche o recensioni in cui la relazione Teodori fosse contestata nei suoi aspetti più documentati. Eppure, nel momento in cui scrivo queste pagine, il volume di Teodori è stato pubblicato da alcuni mesi, è giunto alla seconda edizione, è stato recensito in maniera elogiativa sui maggiori organi di informazione. Le argomentazioni dell'on. Andreotti sono state esposte a più riprese, in particolare nell'audizione presso la Commissione d'inchiesta sulla Loggia P2, e in interviste e in articoli. Stranamente, invece, non si trovano repliche di autori comunisti; né contro le argomentazioni di Teodori a proposito della Loggia P2, né contro le argomentazioni di Teodori a proposito del caso Sindona (anche quella Relazione di minoranza è stata pubblicata in volume: M. TEOD0RI, La Banda Sindona, Gammalibri, Milano 1982). Passare sotto silenzio critiche di tale gravità è assai criticabile per molte e ovvie ragioni. M. TEODORI, La banda Sindona, op. cit., p. 18. M. TE0D0RI, P2: la controstoria, op. cit., p. 31. 76
Mi dispiacerebbe di dare eventualmente l'impressione che il volume di Teodori sia specializzato in chiave anticomunista. Basta sfogliare il libro per accorgersi che evidentemente così non è. Ad esempio, quando cita queste affermazioni per così dire sorprendenti dell'on. Berlinguer, è lo stesso Teodori ad impegnarsi nel tentativo di trovare una giustificazione (cfr. P2: la controstoria, op. cit., p. 50). La critica di. Teodori al Pci è soprattutto critica di una certa maniera di intendere il ruolo dell'opposizione e critica complessiva della strategia dell'unità nazionale. Inoltre, l'analisi è rivolta altrettanto impietosamente anche nei confronti della Dc, del Psi, etc. Che poi ad un osservatore possano risultare particolarmente rivelatrici le pagine dedicate al Pci, ciò non è colpa di Teodori, ma delle circostanze: in un sistema politico democratico, esistono responsabilità della minoranza, separate e distinte, ma non meno importanti. Se non ci fosse opposizione, che democrazia sarebbe? G. D'ALEMA, La P2 e le connessioni
economiche, finanziarie e politiche internazionali, in AA.VV, La resistibile ascesa della P2, De Donato, Bari 1983, p. 115. 13 M. TE000RI, P2: la controstoria, op. cit., p. 167. " Sentenza del Tribunale di Torino, TI Sezione penale, del 20 dicembre 1975, riportata itt appendice alla seconda edizione di M. PANTALEONE, Mafia e politica, Einaudi, Torino 1981, p. 274. 20 Cfr. SENATO, IV legislatura, Doc. XX[II, n. 2. Cfr. A. NOCILLA, [1 difficile avvio del
funzionamento della Commissione anti mafia nella VI legislatura, in « Diritto e società », 1973. 22 Cfr. A. BERTUZZI, Scusate signori del palazzo, Rizzoli, Milano 1980, p. 85, dove sono commentati vari aspetti della vicenda in questione. 23 C. STAJANO, Un anno denso di avvenimenti, in Stato e mafia oggi, Materiali
e atti del Centro di studi e di iniziative per 1a riforma dello Stato, Roma 1985, p. 107.
F. SID0TI, L'onstà in prima pagina, ricerca non pubblicata, 1986; per quanto rigurda le tecniche di accertamento citate nel testo, cfr. I. DE SOLA Pooi. (ed.), Trends in Conteni Analysis, University of Illinoiss Press, Urbana 1959, F. RosiTi, L'analisi del contenuto come interpretazione, ERI, Torino 1970, G. STATERA, Società e comunicazioni di massa, Palermo 1972. 25 Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, relazione di minoranza
dei deputati G. D'ALEMA, G. MINERVINI, L. CAFIERO, VIII legislatura, pp. 215217 (è il caso di ricordare che l'on. D'Alema espresse un giudizio molto critico nei confronti della posizione assunta dal suo Partito alla Camera). " C. CHIMENTI, Senato: mozioni di siiducia individuali, in « Queste Istituzioni », n. 67, gennaio;marzo 1985, pp. 311319. C. Ci-iirviENrri, op. cit., p. 317. Nella ricostruzione di queste vicende mi sono state di grande aiuto alcune interviste e conversazioni con i protagonisti; ringrazio in particolare il senatore Norberto Bobbio, che mi ha risposto per iscritto
77
Sul terrorismo andrà meglio? di Gian/ranco Piazzesi
In ogni democrazia la Commissione parlamentare di inchiesta assolve a due funzioni di fondamentale importanza. Dinanzi a un af faire, a un « caso », uno scandalo, la Commissione può approfondire certi fatti che non hanno rilevanza penale e che perciò non rientrano nelle competenze. della magistratura ordinaria, ma che possono essere di grande rilevanza sotto il profilo morale e politico. E se le indagini sono condotte con coraggio e le inchieste fatte con cura, le Commissioni offrono alla pubblica opinione la prova tangibile che la classe politica,, invece di essere una nomenklatura occupata soltanto a occultare le sue colpe e a nascondere ,i suoi segreti, è capace di interrogare e giudicare se stessa. Nella democrazia italiana finora queste due funzioni sono state svolte soltanto a metà. Non si può certo negare ai deputati e ai senatori che hanno indagato sulla mafia, Sindona e la P2 ottime intenzioni, buona volontà e qualche apprezzabile risultato; ma sono apparsi evidenti difetti di impostazione e incertezze di comportamento. Chi scrive ha seguito soprttuto i lavori della Coiimissione P2 e ha avuto modo di ,apprezzard l'impegno e l'onestà del Presidente Tina Anselmi. Ma fran78
camente i quaranta inquisitori, rappresentanti di nove partiti, non lo hanno mai convinto. Una Commissione di inchiesta, per essere realmente efficace, dovrebbe essere composta da pochi personaggi che godano della fiducia del Parlamento senza averé una precisa collocazione politica; senza essere costretti a difendere le tesi del partito di appartenenza o peggio ancora tutelarne gli interessi. Sei sette inquisitori, ciascuno con una particolare sfera di competenza, dovrebbero sottoporre i testimoni a interrogatori marte!lanti; quaranta finiscono per ostacolarsi a vicenda. Dinanzi a domande più varie e spesso contraddittorie, l'inquisito ha modo di rifiatare, di superare i momenti di sbandamento, di sfuggire alle contestazioni più imbarazzanti. La rigida ripartizione degli inquisitori secondo criteri partitici ha inoltre autorizzato sospetti di contrattazioni sottobanco, di una conventio ad excludendum tra coloro che volevano nascondere una certa verità e coloro che avevano interesse a nasconderne un'altra. Insomma accordi di questo tipo: « se io non approfondisco questo episodio, tu in cambio che cosa sei disposto ad occultare... ». Queste considerazioni mi sono tornate alla mente quando la Camera
dei deputati ha deciso di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta « sui risultati della lotta al terrorismo e sulle cause che hanno impedito la individuazione dei responsabili delle stragi ». La proposta era stata presentata da Renato Zangheri capo del Gruppo comunista alla Camera, nel novembre del 1983, e i famigliari delle vittime morte nell'eccidio di Bologna l'avevano appoggiata « con forza ». L'approvazione è stata in forse per tre anni e l'accordo è stato raggiunto solo quando i comunisti hanno rinunciato ai primi paragrafi. Secondo i democristiani « nel testo originale delle proposte erano già segnate, se non colpe e responsabilità, certamente presunzioni di colpevolezza in una ben precisa direzione ». Il lungo iter iniziale, il compromesso conclusivo, e soprattutto lo scarso successo di tante altre indagini parlamentari rendono inevitabile una domanda: « Sapremo qualche cosa di più sulle stragi, che sono gli unici fatti gravi di terrorismo finora impuniti? O tutto si concluderà con un documento generico, e con un dibattito parlamentare dinanzi a una aula vuota? ». Per la prima volta la nuova Commissione d'inchiesta sarà composta soltanto da deputati. Tutte le tendenze politiche saranno ugualmente rappresentate, ma senza l'aggiunta di altrettanti senatori gli interrogatori saranno più agili e i lavori procederanno più spediti. I senatori aspetteranno la prossima occasione per dare un saggio delle loro capacità inquisitorie. L'innovazione è
positiva, ma è la sola da approvare senza riserve. Questa volta l'inchiesta parlamentare si sovrappone ai procedimenti giudiziari ancora in corso. Le indagini della magistratura sono finalizzate alla ricerca dei responsabili, mentre una Commissione parlamentare, come è stato osservato, è più portata a conclusioni di carattere generale. Ma se non vengono scoperti i responsabili, come si possono individuare i mandanti? E se i mandanti non sono inchiodati con prove inconfutabili, come si può scoprire il disegno politico che stareb•be alla base di vent'anni di terrorismo? Per di più, i partiti che si accingono a nominare i futuri commissari mostrano di avere, almeno per il momento, idee ben diverse in proposito. I comunisti,, che hanno • promosso l'iniziativa, appaiono fin da ora convinti che, dalla bomba di piazza Fontana al tritolo della stazione di Bologna, tutto va attribuito alle deviazioni dei servizi segreti. Gli altri si mostrano più prudenti. Per il radicale Teodori la magis tratura bolognese, nella sentenza istruttoria sull'ultima strage, non essendo riuscita a individuare niente di concreto ha fatto « una specie di grande affresco del terrorismo e del complotto di Stato degli ultimi venti anni » e ha prospettato una « grande associazione a delinquere nella quale, col calcolatore, sono stati messi un p0' tutti ». Teodori teme che la futura Commissione parlamentare sia sospinta ad aggiungere «polverone a polverone ». Non si 79
può proprio dire che i futuri commissari si muoveranno con unità di intenti e di propositi. Come si vede, i motivi di perplessità sono di molto superiori a quelli di soddisfazione. Ma, come ha detto il comunista Violante, con un'onestà intellettuale di cui gli diamo atto, « il cercare di lavorare al massimo per raggiungere la verità è già di per sé un lavoro importante e utile per prevenire altri fatti tragici per il •Paese ». Dunque, inchiesta sia, seppure con scarse speranze. Ci venga tuttavia consentito di avanzare un'altra proposta, senz'altro più modesta, ma fòrse di una certa utilità. Perché i poteri nazionali e quelli locali non hanno mai pensato di commissionare a qualche giovane storico, coadiuvato da una équipe di ricercatori, un'indagine seria e approfondita su qualcuno dei tanti misteri nazionali, a cominciare da piazza Fontana?
EI
Uno storico non ha i poteri inquisitori dei magistrati e dei parlamentari, ma almeno su un episodio avvenuto venti anni fa, tutti i personaggi legati a quei tragici eventi sono stati interrogati più volte. La documentazione processuale è sterminata. Uno studioso, non ancora contaminato dagli interessi di partito, potrebbe anche leggersela tutta, e magari analizzarla con una certa cura. Chissà, potrebbe anche trovarvi qualcosa che gli altri non hanno saputo o voluto vedere. I poteri locali e nazionali, in nome della cultura e persino dell'effimero, sono ormai abituati a distribuire centinaia di miliardi a enti lirici, teatri stabili, produzioni cinematografiche, mostre d'arte e circhi equestri. Spesso, gli stessi mecenati sono i primi a pentirsene. Gli aiuti, d'altronde modesti, a qualche storico di buona volontà forse non sarebbero soldi buttati.
queste istituzionio Inverno 1986-87
Fra deregolazioni e privatizzazioni
Meno regole o nuove regole? Settore pubblico ridimensionato attraverso un largo abbandono di ampie sue parti al privato e/o riorganizzazione del settore pubblico attraverso un uso maggiore di forme gestionali private e la cooperazione di soggetti imprenditoriali privati? Dopo un periodo di ampi esperimenti sia di deregolazione sia di privatizzazione cominciano a farsi bilanci critici di notevole portata e rilievo. Mettere insieme deregolazioni e privatizzazioni può essere, anzi è, causa di fraintendimenti soprattutto al momento delle valutazioni. Tuttavia l'uno e l'altro fenomeno si inquadrano in un contesto. di orientamenti politici omogenei ispirati alla diffusività delle regole di mercato. E le interrelazioni sono perciò assai numerose e profonde. Crediamo assai importante aprire un discorso su linee di politica pubblica che hanno posto sul tappeto, da una parte, la riconsiderazione delle funzioni stesse delle norme e del diritto nella società contemporanea e, dall'altra; la gestione di una vasta parte dell'economia mista di tipo europeo. E ci sèmbra che l'approccio comparativo sia, su questi problemi, pressocché indispensabile. Per questo af frontiamo il vasto ventaglio di temi facendo rassegna di. casi di altri paesi. Fra l'altro; il dossier che segue serve anche ad integrare, in qualche modo, quello precedente dedicato alle istituzioni e alla politica UsA.
81
Esperienze di « deregulation » di Renato Finocchi 1. Il nuovo ruolo delle Corti in USA
Quello della deregulation è un tema ormai ampiamente studiato anche in Europa, dove stanno iniziando processi applicativi, dopo i risultati raggiunti in USA in alcuni settori di attività economiche'. Il ritorno alle regole imposte dal mercato, in campi finora oggetto di regolazioni pubblicistiche, è stato preceduto, negli Stati Uniti, sia da studi di carattere economico onde valutare le reazioni dei mercati al venir meno delle regulations, che da approfondimento delle dinamiche del funzionamento delle amministrazioni pubbliche competenti ad emanare le norme 2 . Infatti, a partire dagli anni Sessanta il Congresso ha approvato sempre più spesso leggi contenenti ampie deleghe in ordine alla cura del « public interest »: sono state quindi le singole agenzie federali a riempire di contenuto tale formula, predisponendo standards di comportamento per le imprese, dazi, prezzi, regolando l'accesso al mercato di nuove imprese ecc. Da tempo giuristi e studiosi di government nord-americani hanno posto in luce gli inconvenienti del si-
stema e, segnatamente, il progressivo venir meno del carattere di valu tazioni tecniche delle decisioni delle agencies, da adottarsi per salvaguardare il corretto funzionamento del mercato secondo l'idea originaria risalente al New Deal, ed 'il proliferare di comportamenti protezionistici verso i soggetti economicamente più rilevanti e spesso frutto di collusioni tra questi e gli organi di vertice delle agencies
LA SVOLTA REAGANIANA
L'orientamento decisamente a favore della deregulation intrapreso dali 'Amministrazione Reagan ha innescato importanti processi di riforma, che hanno prodotto il ridimensionamento e l'abolizione di alcuni uffici pubblici e un aumento dei poteri di controllo e di indirizzo dell'Esecuti-, vo sull'apparato amministrativo. Questa tendenza si è esplicitata principalmente nella politica delle nomine di spettanza del Presidente dei dirigenti delle agencies di persone omologhe agli indirizzi neo-liberisti e nella emanazione del] 'executive 83
order n. 12291 dél 1981. Il provvedimento attribuiva all'O /1 ice for Management and Budget (0MB) cioè all'ufficio governativo che sovrintende al bilancio federale il controllo preventivo, mediante analisi costi-benefici, delle più importanti tra le nuove regulations, dettando anche direttive tese a limitare la loro emanazione 4 Al punto 2 dell'executive order si afferma, ad esempio, che la regolamentazione dei prezzi e dei livelli di produzione dovrebbe in futuro essere evitata, e che l'accesso di nuove imprese sul mercato dovrebbe essere regolata solo a fini di tutela della salute o della sicurezza o quando lo richieda un governo efficiente delle risorse pubbliche: lo stess6 articolo esprime la ,guicteline per cui le nuove norme dovrebbero presupporre l'esistenza di « prove » fornite dalle amministrazioni che, i 'benefici per gli utenti siano superiori ai costi e trova un completamento significativo nel punto 4 dedicato alle normative di prevenzione dei .rischi per la salute e la sicurezza, da adottare solo quapdo i rischi siano « real and significant » più che « hypothetical or remote ». La Presidential Task Force on Re,gulation Relief, costituita presso la Casa Bianca nel 1981 e diretta dal Vice-presidente Bush, annunciava che alla fine del 1983 la nuova Amministrazione aveva modificato o eliminato settantasei regulations introdotte sotto precedenti gestioni. .
84
LA FUNZIONE DELLE CORTI OGGI: IL DIFFICILE RIDISEGNO DELLE COMPETENZE
Se quelli fin qui brevemente rias'sunti sono stati gli aspetti più noti e discussi del procedere nel senso della deregulation, alcuni recenti casi di riesame giurisdizionale di questi atti evidenziano nuovi indirizzi in grado di rimettere in discussione il modello elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina amministrativa statunitense relativo ad un tema « classico » come quello del controllo delle Corti sui comportamenti delle amministrazioni. Da Carter a Reagan. Alcune premesse si rendono necessarie per poter poi analizzare tali nuovi orientamenti. La prima è che alcuni rilevanti tentativi di selezionare ed abrogare parte delle normative che regolano attività economiche si ebbero già durante l'Amministrazione Carter durante la seconda metà del decennio scorso. Il miglior rapporto tra Esecutivo e Legislativo, anch'esso all'epoca a maggioranze democratiche, contribuì a far sì che fosse proprio il Congresso ad adottare leggi (statutes) che si ponevano nella prospettiva inversa a quella fino ad allora perseguita. Emblematico di quel periodo fu l'Airline Deregulation Act del 1978 che, preceduto da una dettagliata indagine del mercato del trasporto aereo nel comitato presieduto al Senato da Edward Kennedy, orientò le policies di graduale pas-
saggio ad un sistema di libero mer- erano stati all'origine dei precedencato, delegandone la attuazione al- ti, e di segno opposto, interventi regolatori. la agenzia federale preposta al settore - Civil Aereonautics Board Nell'ultimo biennio questo elemen(CAB) - fino allo scioglimento delto di contraddizione è emerso in allo stesso organismo previsto ed av- cuni « leading cases » innanzi alle venuto neI 1984. Corti, dando luogo a decisioni che, In questa come in altre ipotesi, secondo alcuni, fanno presagire moquindi, erano gli statutes approvati difiche anche rilevanti ai principi dal legislatore a scegliere indirizzi che disciplinano il controllo giurimeno vincolistici, ed a delegarne sdizionale dell'amministrazione 7 l'attuazione: era pertanto la teoria Nel 1982 la District Court di Wa della delegazione dei poteri, collau- shington affermava 'che nessuna Cordata da quasi un secolo di prassi giu- te fino ad allora aveva espressamenrisprudenziale ed all'origine della ri- te cons'iderato quale dovesse essere flessione sull'administrative law in lo « standard» alla stregua del quaUsa a soccorrere le Corti nelle loro le valutare la legittimità degli atti decisioni, unitamente agli strumenti di deregulation che ridefinivano radi tutela elaborati soprattutto du- dicalmente le policies delle agenzie rante gli anni Settanta e compresi senza l'emanazione di espresse legnell'« interest representation mo- gi di delega in tal senso da parte del ». Con tale formula si è definito del Congresso. 1 'ampiamento, legittimato dalla giurisprudenza, della partecipazione al Legittimità in deregulation: l'« hard procedimento e della tutela accor- look ». Era pertanto necessario ridata a soggetti portatori di interessi elaborare i criteri ed i limiti del concoinvolti nelle normative provenien- trollo ed i poteri coercitivi nei conti dalle gencies 6 . Ma la forte spinta fronti dell 'Amministrazione quanderegolatrice impressa all 'apparato do questa avesse agito illegittimaamministrativo dalla presidenza mente. Successivamente alla emanaReagan tendeva ad investire diret- zione dell 'Administrative Procedutamente 'le singole lagencies, che, re. Ad, avvenuta nel 1946, la giuspesso dirette da funzionari di nuo- risprudenza ha costruito i propri pova nomina, adottavano policies ad teri di controllo intorno alla teoria esse conformi, revocando precedenti che va sotto il nome di «hard look» normative, rifiutandosi di adottarne richiedendo alle agenzie di motivadi nuove (inaction) ecc. re adeguatamente, sia negli atti del Le nuove policies sono state quindi procedimento che nella decisione fiintraprese in assenza di atti legisla- nale, le scelte normative operate. tivi che le legittimassero specifi- Se la sentenza che instaurava tale camente, ma al contrario, sotto la orientamento, che risolveva il caso vigenza di quegli stessi statutes che Chenery-Corp del 1947, richiedeva .
85
soltanto una sufficiente « explanation » delle scelte operate, l'hard look si è sviluppato stabilendo che le agencies indicassero le premesse e gli obiettivi che intendono raggiungere, i fatti materiali che li giustificano e che devono trovare riscontri nel « record » (ossia nel complesso degli atti del procedimento), la valutazione delle alternative possibili alla decisione adottata e le ragioni della loro esclusioneR. Non a caso ciò segue alla introduzione dell'APA. e cioè alla legge che regolamentando i procedimenti intendeva contrastare l'indirizzo dominante durante il periodo più significativo del New Deal (fine anni Trenta) che aveva sancito l'espansione e la legittimazione dello Stato amministrativo ed una « forte recessione del sindacato giudiziale »
zio del secolo, un diritto speciale a difesa dei privati dalle incursioni delle nascenti agenzie federali nei territori delle private pro perties e liberties'°. In un saggio anonimo, ma comunemente attribuito al giudice A. Scalia, candidato alla Corte Suprema, si è sostenuta l'esistenza di una presunzione nel sistema costituzionale americano a favore della autonomia privata: in un contesto siffatto agli indirizzi di deregulation, in quanto finalizzati ad ampliare la sfera di libertà dei privati, avrebbero dovuto corrispondere un maggiore ambito di discrezionalità nell'adottarli e quindi, in virtù della presunzione suddetta, un margine ristretto per il controllo giurisdizionale E' evidente in questo modo di procedere l'identificazione tra poteri di regulation e restrizioni delle liberPrivato e no: due interpretazioni tà civili ed economiche ed il non della deregulation. Nel vagliare la considerare le finalità di protezione legittimità degli atti di deregulation e di riequilibrio sociale che hanno la giurisprudenza ha dovuto stabi- originato gran parte degli intervenlire se il criterio-guida contenuto ti regolatori. nell'APA e concretamente elaborato A questa si sono sommate tesi più dalla prassi giudiziale che si è riasformaliste e connesse alle tecniche sunta dovesse valere anche in que- guiridiche, come quella che ha proste nuove circostanze. Una parte posto di assimilare la deregulation della dottrina, ideologicamente pii alla « inaction » cioè alla inerzia vicina all'attuale Presidente, auspi- delle agenzie pur se delegate ad acava un atteggiamento « deferente » gire dal Congresso: in questi casi, delle Corti. Il primo argomento a richiamandosi alla dottrina della sesostegno di questa tesi discende dal- parazione dei poteri, le Corti si sola concezione liberista, ricorrente no astenute da emanare orders sunella storia dei rapporti tra indi- scettibili di sosti.tuirsi alla discrevidui e Stato in America che iden- zionalità amministrativa. itficò nell'administrative law, all'mi- Di segno opposto erano le preoc-
Il
cupazioni di chi intravedeva negli interventi deregolatori .i « pericolosi segnali » di una disapplicazione delle volontà del Congresso. L'assetto dei rapporti tra legislativo ed Amministrazione, che ha trovato il suo caposaldo nella teoria della delegazione dei poteri, viene posto in discussione quando gli atti di deregulation non siano l'attuazione di leggi chiaramente a ciò finalizzate ma invece si propongano di curare quello stesso « public interest » la cui ottimizzazione era stata in precedenza perseguita con tecniche interventiste.
raggiungere regolando i comportamenti dei soggetti presenti nel mercato ora siano perseguibili in modo esattamente opposto?
UNA CONTRADDIZIONE ESEMPLARE: IL CASO DELLA MOTOR VEHICLES As SOCIATION
Le molteplici questioni inerenti il controllo giurisdizionale di atti di deregulation sono giunte, dopo il vaglio delle Corti federali e statali, per la prima volta all'esame della Suprema Corte nel 1983 con il discusso caso Motor Vehicles ManiL'ambiguità del «dual record facturers Association of United StaL'esistenza di un «dual record » os- tes V. State Farm Mutual Automosia di acquisizioni procedimentali bile Insurance Company. che dapprima avevano giustificato Nel 1977 il dipartimento dei trala necessità di emettere regulations sporti, agendo nell'ambito delle ate delle risultanze del diverso pro- tribuzioni delegategli dal Congresso cedimento con il quale si vuole o- con il National Tra ftic and Motor ra procedere alla loro abrogazione Vehicle Sa! ety Act e finalizzate ad dovrebbe, secondo alcuni, condur- accrescere la sicurezza della circolare ad un esame più incisivo e pe- zione stradale, emanava un proprio netrante delle Corti circa la fedeltà provvedimento nel quale, tra l'aldel nuovo orientamento agli inten- tro, si stabiliva che entro il trienti ispiratori della legge di delega nio a partire dal settembre del votata dal Congresso. L'obiezione, 1981 le case costruttrici di autoche non è stata accolta dalla Supre- mobili avrebbero dovuto dotare ma Corte nella decisione del « lea- le nuove autovetture di « Passive ding case » in materia, ha il meri- Restraints », ossia di dispositivi di to di evidenziare l'aspetto più deli- sicurezza per i passeggeri inamovicato sotto il profilo costituzionale, bili ed automaticamente funzionandella legittimità delle nuove politi- ti. A sostegno delle nuove misure che delle agenzie federali: infatti, il dipartimento dei trasporti adduin quali casi sarà possibile per una ceva dati comprovanti lo scarso uamministrazione sostenere che que- so da parte dell'utenza delle norgli stessi fini che, talvolta solo po- mali cinture di sicurezza e stimava chi anni addietro, riteneva di dover che esse avrebbero potuto limitare i 87
circa 12.000 incidenti mortali ogni anno in tutto il paese. Non appena insediatasi l'Amministrazione Reagan, in attuazione delle nuove policies di liberalizzazione del mercato, il dipartimento interessato annunciava l'abrogazione della normativa che introduceva gli obblighi suddetti per i costruttori di auto. Questi avevano esercitato forti pressioni per giungere a riconsiderare la materia, in un periodo in cui la crisi dell'auto era al suo apice, preoccupati dai maggiori costi che i nuovi dispositivi di sicurezza avrebbero comportato oltre che da timori di ripercussioni negative sulla immagine del prodotto. Come si vede il caso è significativo anche sotto il profilo della qualità degli interessi coinvolti e confliggenti tra loro: da un lato quelli della sicurezza dell'utenza e della circolazione, dall'altra quelli delle imprese costruttrici di auto. Si faceva anche notare. dai fautòri della deregulation che ogni utente doveva rimanere libero di valutare i rischi che correva, considerando il mezzo di cui disponeva, l'uso quotidiano o saltuario che ne faceva ecc. e di predisporre il sistema di sicurezza più adatto: così a chi usa l'auto un giorno alla settimana non era necessario imporre gli stessi oneri di chi se ne avvale come strumento quotidiano di lavoro. La sommatoria dei singoli comportamenti degli utenti avrebbe prodotto migliori risultati dal punto di vista dell'analisi costi-benefici. La Court del distretto di Columbia 88
Washington accoglieva l'azione intentata contro la deregulation dalle associazioni delle compagnie di assicurazione, interessate alla possibile diminuzione dei sinistri stradali, e dichiarava la illegittimità dell'azione deregolatoria. La Corte Suprema, cioè il massimo organo giurisdizionale, confermava il giudizio di primo grado, con una decisione destinata ad avere vaste ripercussioni non solo sui poteri di controllo delle Corti in presenza dei nuovi orientamenti delle amministrazioni e quindi sul grado di autonomia e flessibilità del loro funzionamento ma anche, più in generale; sull'equilibrio dei tre poteri tradizionali`. La Corte Suprema affermava anzitutto che il principio che limita la discrezionalità delle amministrazioni contenuto nell'APA, quando queste emanino normali atti di regolazione mediante la procedura di « informai rulemaking », regoli anche, nello stesso modo, i casi di loro revoca o rescissione''. Venivano pertanto respinte radicalmente le teorie che propendevano per la deferenza delle •Corti, e confermato Io standard precedente. I suoi contenuti, ribaditi nella sentenza, sono che deve considerarsi « arbitrary and Capricious » quella normativa che: a) si basi su fattori da ritenersi irrilevanti alla stregua delle finalità indicate dal Congresso nella legge di delega, ovvero b) ometta di valutare aspetti salienti della materia, ovvero c) contraddica nella motivazione acquisizioni probatorie del pro-
cedimento, ovvero d) sia « irragionevole» in quanto logicamente non coerente né con le prove assunte né con valutazioni tecniche (expertise) rimesse all'amministrazione. La Corte Suprema considerava gli atti di deregulation come sintomatici di un mutamento rilevante (reversai) degli strumenti con cui l'ente pubblico intende ottimizzare gli interessi ai quali sovrintende: esempi simili si sono avuti anche in passato, quando l'esigenza di aggiornare la legislazione e correggerne le inefficienze aveva originato regulations che si discostavano dalle precedenti quanto alle tecniche di regolazione del mercato prescelte. La novità dei casi che qui si esaminano è invece costituita dalla radicalità del mutamento degli strumenti ritenuti idonei in alcuni settori al perseguimento di fini di pubblica utilità, ora riconosciuti in una più libera espressione delle forze di mercato. Corollario di questa novità è l'esistenza, nel giudizio, di quel « dual record» di cui si diceva. E' questo un primo motivo, per le Corti, per ricercare gli intenti perseguiti dal Congresso, interpretando attentamente gli statutes, fonti dei poteri amministrativi, onde orientarsi nel giudicare la loro espIicitazione in comportamenti apparentemente contraddittori tra loro. La necessità di stabilire quali esattamente fossero gli scopi del legislatore è il prerequisito indispensabile all'analisi che dovrà verificare quale delle due policies, quella in-
terventista o la deregulation, risulti più funzionale al raggiungimento degli obiettivi indicati. Se nell'ultimo ventennio, all'espansione della presenza. dei pubblici poteri la giurisprudenza contrapponeva un allargamento del diritto di partecipazione al procedimento ai soggetti toccati dalle norme provenienti dalle amministrazioni ed accresceva le garanzie procedimentali onde rendere effettiva tale partecipazione, il riesame giurisdizionale della deregulation fa riemergere il momento interpretativo della volontà del Congresso e l'identificazione dei poteri delegati come aspetti di primo piano del controllo giurisdizionale Il modello di administrative law consolidatosi nel primo trentennio del secolo, in coerenza ai principi dello Stato liberale, configurava le agenzie allora esistenti come mere cinghie di trasmissione delle direttive del legislatore e la funzione preminente delle Corti era di salvaguardare i diritti civili dei privati (/reedom of contracts, private pro perties, rights ecc.) da possibili abusi dei poteri pubblici. Completava questo modello la « nondelegation doctrine », ossia la teoria per cui il potere di legiferare che la 'Costituzione demandava al 'Congresso non potesse esseré delegato se non entro limiti ristretti e ben definiti. Fu in applicazione di questo principio che la Corte Suprema invalidò gli atti legsilativi più significativi del primo periodo della presi-
denza Roosevelt ritenendo non sufficientemente predeterminati i limiti alla discrezionalità del Presidente nell'ambito dei poteri a lui delegati dal National Recovery Aci (1933). E' in questo modello, modificato alla fine degli anni Trenta dal prevalere anche in sede giurisdizionale degli orientamenti rooseveltiani e ne] quale la discrezionalità delle amministrazioni nell'emanare normative generali era ammessa in ambiti molto ristretti, che l'attenzione delle Corti era principalmente rivolta ad interpretare la legislazione che quegli ambiti aveva l'obbligo di definire. Dopo mezzo secolo, la crescente dilatazione dei poteri discrezionali, di cui l'adozione di atti di deregulation in assenza di specifiche leggi di delega è forse una delle massime espressioni, rende necessaria una rivalutazione di quel metodo di verifica giurisdizionale avente il suo criterio base in un rigoroso riscontro dei poteri delegati. Questa sembra essere una delle vie scelte per limitare il fenomeno delle « agencies out o/ control ».
cuni dispositivi offerti dalla più recente tecnologia (es. airbags), all'assenza di prove negli atti del procedimento di alcune delle affermazioni del dipartimento, alla contraddittorietà con le precedenti politiche, tutte, ed in modo documentato, tendenti ad introdurre gradualmente i nuovi dispositivi automaticamente funzionanti, nonché al modo «arbitrary and capricious » con cui erano state respinte le alternative considerate. In un recente studio apparso sulla « Harvard Law Review », prendendosi in esame l'evoluzione storica applicativa della dottrina dell'hard look, si è rilevato come essa contenga al suo interno il passaggio da un controllo giurisdizionale incentrato sulla verifica della legittimità delle procedure adottate dalle amministrazioni ad un altro in cui la giurisprudenza valuta i risultati sostanziali delle scelte operate dalla discrezionalità amministrativa. Il metodo dell'hard look ha permesso alle Corti di ricostruire come l'amministrazione ha svolto il processo decisionale: se •siano stati adeguaDalla verifica delle procedure alla tamente considerati gli interessi valutazione dei risultati. Ma il ca- coinvolti e gli elementi di fatto esiso State Farm ha riproposto anche stenti, se i soggetti portatori di tali per altri profili della motivazione interessi abbiano avuto la possibilidella Corte Suprema l'importanza tà di esprimere le loro deduzioni, se di chiarire la finalità che il Congres- le diverse alternative siano state vaso intende perseguire con la delega. lutate ecc. Nel caso di specie l'atto di deregu- La verifica giurisdizionale aveva lation del dipartimento dei traspor- quindi il fine precipuo di verificare ti è stato considerato arbitrario sot- la « rational basis » del provvedito diversi aspetti, che andavano dal mento e la completezza del procenon aver preso in considerazione al- dimento, arrestandosi al di qua del 90
Act, il cui fine prioritario è quello di accrescere la sicurezza della circolazione stradale, non poteva essere considerata « ragionevole » la rescissione di un regolamento che si riprometteva proprio quella finalità imponendo l'utilizzazione dei dispositivi tecnologicamente avanzati e sufficientemente collaudati quanto alla loro efficienza. In sostanza si intende dire che, in presenza di questi elementi di fatto e del dettato di legge che si è citato, la Corte Suprema non ha lasciato alcuno spazio per una integrazione della moIL « SUBSTANTIVE HARD-LOOK» tivazione e per una rinnovata « adeVERSO UN RAFFORZAMENTO guate consideration » degli interesDELLE CORTI? si coinvolti che possano in futuro Ora, si è rilevato come dagli inizi permettere al dipartimento dei tradi questo decennio le Corti tendano sporti di giungere nuovamente alla a valutare più incisivamente le nor- determinazione di deregolare la mamative delegate alle amministrazio- teria nei termini della rescissione dini, introducendo il criterio della chiarata illegittima. La sua invali« ragionevolezza » [ lett. reasonebi- dità non discenderebbe quindi dalness] quale test per la loro legitti- le insufficienze del procedimento ma mità. dal modo «arbitrary and capricious» E' interessante notare come i primi con il quale sono state respinte le casi di riesame giurisdizionale di at- ipotesi di interventi a garanzia di ti di deregulation abbiano incentivato una maggior sicurezza. In ciò conquesto potenziamento del ruolo del- siste la novità del « substantive le Corti. in via generale si può af- hard-look » rispetto al precedente, fermare che il giudizio sulla ragio- ed ancora oggi spesso utilizzato, nevolezza dipenda dal collegamento « quasi-procedural hard-look »: quetra gli elementi oggettivi e di fatto sto garantisce il rispetto delle regoacquisiti durante il procedimento ed le procedimentali lasciando maggioi propositi che il legislatore aveva re spazio alla discrezionalità, con il indicato nello statute come quelli da primo invece viene direttamente vaperseguire con le norme delegate. lutato il risultato della scelta discreApplicando il principio alla questio- zionale alla stregua degli obiettivi ne trattata nel caso State Farm si che il Congresso si era proposto. ricava che, in presenza del National Anche qui l'esistenza di un « dual Traffic and Motor Vehicle Safety record » nei procedimenti che sfomerito del risultato concretamente raggiunto. Prova di ciò si ricava dai poteri spettanti alle Corti nei casi in cui giudichino illegittima una regulation: esse possono rinviarla all'amministrazione che la ha adottata, che a sua volta potrà anche confermare la decisione, integrandone la motivazione o aspetti considerati insufficienti del procedimento, dispondendo ad esempio nuove bearings, acquisendo dati ecc.
91
ciano in atti di deregulation vale a spiegare lo sviluppo del nuovo metodo di controllo giurisdizionale di questi atti, specie dopo l'executive order n. 12291, che richiede la effettuazione di analisi costi-benefici alle agenzie che intendano emanare nuove normative. Per i soggetti che subiscono i riflessi negativi del ritorno al mercato sarebbe spesso difficoltoso produrre controprove di tali rilevazioni statistiche, sia per carenza di mezzi sufficienti sia perché i benefici non sono generalmente suscettibili di esatta quantificazione così come avviene per i costi. Ma in caso di deregulation un'agenzia che giustifichi Il nuovo orientamento con una analisi costi-benefici dovrà giustificare il discostarsi dal suo stesso, ed in precedenza considerato favorevole, calcolo dei benefici. In molte occasioni le amministrazioni hanno mancato di offrire elementi convincenti circa la vantaggiosità delle nuove analisi, e la declaratoria della illegittimità che ne è conseguita dagli organi giurisdizionali investiva quindi su un piano sostanzialmente di merito il provvedimento impedendone la riadozione. Il caso State Farm assume particolare valore emblematico in quanto una Corte Suprema unanime nella sua decisione ha accolto la tendenza ad un più rigoroso controllo delle Corti. Questa si era espressa nelle sentenze della Corte del distretto di Columbia, territorialmente competente a giudicare l'azione delle agenzie federali aventi sede nella capi-
tale Washington. Tra gli altri quest'organo ha aniiullato la revoca di regulations in svariati settori, da quelle contenenti restrizioni al lavoro a domicilio in attuazione del Fair Labor Standards Act (1938), a quelle che imponevano ad imprese operanti in alcuni settori (es. alcuni comparti di quello alimentare, costruttori di pneumatici per auto, ecc.) di offrire informazioni ai consumatori sui contenuti e le caratteristiche dei prodotti, a quelle protettive dei non fumatori, ed ha invece ritenuto ragionevoli » le deregulations concernenti le telecomunicazioni, i trasporti ecc.' 6 .
Entra in scena il sindacato. Se il linguaggio usato dai giudici è ancora quello del precedente, e meno incisivo, metodo di verifica dell'azione amministrativa, esso maschera spesso un giudizio più penetrante. Un esempio, scelto tra i casi richiamati, può chiarificare questo aspetto. Nel caso Industrial Ladies Garnment W/orkers Union V. Donovan era in questione la legittimità della revoca da parte del Secretary o/ Labor di alcune limitazioni alla occupazione di lavoratori a domicilio. La Corte Federale del distretto di Columbia annullava la revoca ritenendo che il dicastero non avesse accordato « sufficient.e considerazione » alle difficoltà che il proliferare del lavoro a domicilio avrebbe creato nell'attuazione della legislazione vigente sui minimi salariali e favorendo una ingiusta competizione a danno sia de-
gli imprenditori che dei lavoratori non coinvolti nel fenomeno. Ma dalla lettura della motivazione risulta evidente che la convinzione della Corte coincideva con quella dell'organizzazione sindacale che aveva intentato il giudizio in merito agli ostacoli che la deregulation avrebbe comportato per le leggi di garanzia salariale. Ciò è confermato dal successivo annullamento giurisdizionale del nuovo provvedimento che il Secretary o! Labor adottò in via di urgenza con cui rinnovava la deregulation, che la Corte motivò ri teriendolo inconciliablie con il ,quadro legislativo e con le dinamiche del mercato del lavoro. L'« inaclion » delle Corti: deferenza o debolezza? Il riesame della deregulation presenta un ulteriore aspetto innovativo quanto alle conseguenze per le amministrazioni della declaratoria di illegittimità di un loro atto normativo. Si è già fatto cenno alla moderazione delle Corti nel giudicare forme di « inaction », ossia di inerzia o rifiuto di emanare norme delegate: in azioni giudiziali intraprese dai soggetti indicati come i beneficiari ditali norme, le Corti si sono limitate a richiedere che le motivazioni addotte dalle amministrazioni avessero un minimo fondamento logico (minimum rationality), astenendosi, in caso di loro insufficenza, dall'ordinare comportamenti attivi. Gli orders indirizzati alle agenzie con i quali le giurisdizioni richiedono un maggiore approfondimento, una
riconsiderazione della materia, non sono accompagnati da imperativi ad agire o da particolari obblighi procedimentali che non siano, talvolta, quelli di permettere ai soggetti coinvolti di partecipare a questa ulteriore fase. Le ragioni di un atteggiamento così deferente si ritrovano nel richiamo al principio della separazione dei poteri e, soprattutto, nella inadeguatezza strutturale degli organi giudiziari: l'ampiò contenuto delle deleghe votate dal legislatore, la complessa ricerca di dati e la specifica conoscenza delle tendenze in atto nel mercato, cioè gli elementi che più hanno storicamente caratterizzato lo stato amministrativo in Usa, alimentano' la convinzione, fatta propria dalle Corti, della loro inadeguatezza ad assumere decisioni complesse la cui competenza è rimessa ad organi creati ad hoc. Si rinviene in questa argomentazione la concezione « new dealista » delle agenzie viste come organi tecnici (experts) e sùffragata dalle difficoltà, verificatesi nella prassi, per i giudici nell'orientarsi nei voluminosi record delle istruttorie amministrative ed in materie in cui predominano le acquisizioni tecnicoscientifiche Le Corti hanno mantenuto questo orientamento quando oggetto di giudizio erano atti di regulation: si è già detto che, pur integrando il procedimento o la motivazione, le amministrazioni possono giungere alle stesse determinazioni che non avevano superato un primo riesame del93
le Corti. Se questa è la regola, con il « procedural hard-look » l'emergere di un controllo giudiziale che si appunta non soio su carenze procedimentali ma che investe i risultati dell'attività amministrativa rende insufficiente il solo rimedio del rinvio della regulation invalidato all'ente che l'ha emanata. Significativi in tal senso sono i casi nei quali le Corti si sono viste costrette a rinviare più volte alle amministrazioni normative che esse avevano nella sostanza reiterato, pur integrandone i presupposti o le motivazioni. In mancanza di una pronuncia specifica della Corte Suprema, quando il giudizio negativo investa la sostanza della regulation le Corti hanno cercato di condizionare indirettamente la successiva attività delle agenzie sottolineando gli aspetti e le finalità che essa avrebbe dovuto soddisfare. L'esperienza registratasi quando oggetto del giudizio sono rescissioni o revoche di precedenti atti di regolazione evidenzia conseguenze più incisive sia per l'amministrazione che per i privati che abbiano intentato l'azione. Una decisione di illegittimità di una deregulation comporta infatti di per sè il ritorno in vigore della normativa rescissa o revocata in base a quei principi generali che anche nei nostro ordinamento fanno « rivivere » norme abrogate da successive disposizioni di cui venga dichiarata la incostituzionalità. Pertanto non è necessaria, ai fini della concreta tutela dei beneficiari 94
che abbiano agito contro la deregulation, l'emanazione di ordini che rischiano di sovrapporsi alle funzioni demandate dalle agenzie, e la sentenza ha effetti immediati per le parti. L'amministrazione potrà adottare un nuovo atto di deregulation solo dopo aver espletato un altro procedimento e tenendo in conto il precedente giudizio negativo. La deregulation ha quindi l'effetto di accelerare alcune tendenze presenvi nell'administrative law, con conseguenze di rilievo anche per l'assetto reciproco dei tre poteri tradizionali.
IL DECLINO DELLO « STATO AMMINISTRATIVO» E LA MAPPA DEI NUOVI POTERI
In un saggio che riassumeva gli aspetti salienti del modello partecipatorio di administrative law sviluppatosi durante gli anni Settanta, R. Stewart affermava che « sempre più la sua funzione non è la protezione dell'autonomia privata e delle libertà dei singoli, ma è quella di regolare un surrogato del « political process (ossia del procedimento di approvazione delle leggi da parte del Congresso) ». Si intendeva così sottolineare come il sistema, sia per le ampie deroghe approvate dal legislatore che per diffuso criticismo verso amministrazioni pubbliche spesso pesantemente condizionate da interessi risalenti ai soggetti dominanti sul mercato, avesse reagito ricreando nel procedimento amministrativo
strumenti di tutela propri del political process: gli obblighi di hearings, di cross-examination, l'allargamento dello standing, contribuivano a fissare il nucleo del riesame giurisdizionale sul rispetto delle garanzie di partecipazione. Quegli stssi interessi contrapposti che si erano espressi tramite i deputati e senatori durante l'approvazione dello statute delegante si rinvenivano nei gruppi ed associazioni partecipanti al procedimento amministrativo. L'attività delle amministrazioni ed i criteri di legittimazione fissati dalle Corti erano maggiormente rivolti a rinvenire il punto di equilibrio fra gli interessi contrapposti che agli intendimenti del Congresso. Il dover scegliere tra due orientamenti opposti in attuazione della medesima legge di delega ha invece rivalutato la verifica della conformità della azione amministrativa alla volontà del legislatore tra i principi guida del riesame giurisdizionale. L'ampiezza delle deleghe, che talvolta raggiunge l'indeterminatezza e che è stata all'origine della progressiva autonomizzazione dell'apparato amministrativo, costituisce ancora un nodo problematico del sistema nord-americano: esso rende difficoltoso il riesame, come comprovato dai giudizi sulle attività della Federai Communjcatjon Commission e della Interstate Commerce Conirnission, che possono avvalersi di un giudizio estremamente « deferente»
delle Corti anche nelle loro recenti attività di deregulation. Lo sviluppo di un « substantive hard look » e la preoccupazione di verificare la fedeltà al Congresso nella valutazione dei dati acquisiFi nel procedimento e delle alternative possibili alla deregulation, gli effetti immediati per le parti delle sentenze, sono tutti elementi che concorrono ad accrescere l'incidenza delle Corri sull'apparato amministrativo. La valorizzazione del loro ruolo, se letta nel contesto di altri recenti eventi quali l'emanazione dell'executive-order presidenziale n. 12291 e la sentenza della Suprema Corte nel caso Naturalization and Immigration Service V. Chada, con la quale è stata dichiarata la incostituzionalità del « ie,gislative veto », aiuta a delineare le soluzioni, ancora in fieri, con le quali si intende restringere la discrezionalità dell'amministrazione ad esercitare un maggior controllo su di essa. Alla fine degli anni Settanta infatti era univoca negli schieramenti politici e nell'opinione pubblica la convinzione che il grande aumento delle regulations federali e statali legate allo sviluppo dello stato sociale (quindi dagli anni Sessanta in poi), nonché i contenuti delle deleghe, avessero reso le varie agenzie depositarie di poteri eccessivi ed incontrollabili. Il loro carattere di enti non elettivi, essendo composti e diretti da funzionari, il progressivo venir meno del carattere meramente « tecnico » di scelte che appari-
vano invece sempre più sostanzialmente legislative, la scoperta di abusi e di collusioni con gli interessi dei « regolati » accentuavano la polemica antiburocratica e la crisi di legittimazione delle amministrazioni in una società civile particolarmente sensibile a questi temi, quale è quella americana, ed originarono varie proposte di riforma. Così si auspicò da taluni l'utilizzo di diversi e più selettivi criteri per il reclutamento del personale in modo da migliorare la qualità dell'attività amministrativa, procedure più rigorose che la regolassero, l'aumento dei poteri di controllo del Presidente, ovvero del Congresso o delle Corti. Se l'executive order n. 12291 ha agito nel senso della centralizzazione e del coordinamento dell'attività propositiva di nuovi interventi regolatori collocando tali potestà in
capo ad un ufficio strettamente legato alla Presidenza ed all'Esecutivo, la declaratoria di illegittimità del « legislative veto » priva il Congresso del suo principale strumento di verifica dell'azione amministrativa. Il quadro delle tendenze che se ne ricava è quello di un restringimento sia quantitativo che qualitativo dello stato amministrativo: il suo agire dovrà essere vagliato quanto agli aspetti di economicità delle gestioni dal massimo organo di programmazione della spesa federale, tramite analisi costi-benefici, mentre è il potere giudiziario, in ciò riscoprendo uno dei caratteri originari dell'administrative law, a verificarne la conformità ai propositi del legislatore secondo criteri che hanno l'effetto di ampliare la sfera del controllo giurisdizionale suil« administrative process ».
Note
compiti di coordinamento di tutta l'attività di regulation. Ad una di queste Alla deregulation si fa, ad esempio, due autorità potranno appellarsi le aspesso riferimento nel piano decennale genzie nel caso l'OMB non approvi loper l'occupazione presentato nella sua ulro progetti di nuove regulations. In getima versione nell'ottobre 1985 dal Minerale, sull'azione di accentramento nel nistro del lavoro contenente misure di controllo sulle agencies intrapresa dalriforma, nel senso della liberalizzazione, l'amministrazione Reagan vedi S. T0Ldel mercato del lavoro. Per una riflesCHIN, Dismantling America. The Rush t'o sione su alcune proposte concernenti la Deregulate, New York 1983. situazione italiana nei settori del crediL'estensione del potere di delega del to, fisco, mercato del lavoro e commerCongresso all'amministrazione e le regocio estero vedi il volume a cura di S. le del controllo giurisdizionale su queCAISSESE, E. GERELLI, Deregulation, la sta rappresentano il nucleo centrale deldeve golamentazione amministrativa e legislativa che contiene gli Atti del con- le questioni intorno alle quali prende avvio lo studio dell'administrative law agli vegno di Pavia del 12-13 ottobre 1984. inizi del secolo; cfr. l'introduzione di R. Una interessante e dettagliata ricostruRABIN al volume da lui curato, Perspeczione della vicenda istituzionale che ha tives on the Administrative Process, Boportato alla deve gulation del trasporto aeston-Toronto 1979. reo si ritrova in S. BREYER, Regulation 8 Cfr. R. STEWART, The Rei ormation o! and its Re/orm, Cambridge (Mass.) 1982. American Administrative Law, in «HarPiù in generale vedi A. KAHN, The Ecoward Law Review », 1975, p. 1971, e C. nomics 0/ Regulation: Principles and Institutions, New York 1970; G. STIGLER, DIVER, Policy making Paradigms in Administrative Law, in « Harvard Law ReThe Theory o/ Economic Regulation, view », 1981, p. 393. « Bell Journal of Economics and Mana'gement Science », 2, 1971; R. POSNER, Così M. GARLAND, Deregulation and Theories o/ Economics Regulation, «Beh Judicial Review, in « Harvard Law Review », 1985, p. 507, e H. EDWARDS, Journal of Economics and Management Science », 5, 1974. Judicial Review of Deregulation, in « Northern Kentuky Law Review », La vicenda è descritta in tutti i manua1984, p. 229; J.O. REILLY, Judicial Reli di diritto amministrativo oltre che in view o/ Agency Deregulation: Alternatistudi su singole agenzie; cfr. tra gli altri, L. jAFFE, Judicial Control o/ Admini- ves and Problems o! the Court, in « Vanstrative Action, Boston 1965; S. BREYER, derbilt Law Review », 1984, p. 509. R. STEWART, Administrative Law and Hard look è, letteralmente, lo « sguarRegulatory Policy, Boston 1979; per al- do profondo» che le a,gencies devono ricuni saggi sulle attività di singole agen- volgere all'oggetto delle loro regulations cies cfr. il libro di J.Q. WILSON, The Poe di cui devono dar conto nelle, « explalitics ci Regulation; in particolare sui rapnations» dei provvedimenti. porti tra soggetti « regolati » e amminiCosì M. D'ALBERTI in Valori costistrazioni cfr. P. QuIRK, Industry Influen- tuzionali e amministrazioni pubbliche: ce in Federal Regulatory Agencies, Prin- /rammenti per una lettura storica del diceton 1981. ritto americano, in A. PlzzoRusso, V. Organi direttamente sovraordinati alVARANO, L'influenza dei valori costitul'OME sono il Presidente e la Presidenzionali sui sistemi giuridici contemporatial Task Force on Regulatory Relief, nei, Milano 1985. presieduta dal vice Presidente Bush, con Una ricostruzione storica delle procedu97
re amministrative si ritrova in R. VERThe Emerging Concept of Admini• strative Procedure, in « Columbia Law Review », 1978, p. 259. Sull'APA vedi J. FREEDMAN, Crisis and Legitimacy: The Administrative Process and American Government, Cambridge University Press, New York 1978. La genesi dell'administrative law in Usa è ricostruita da M. DIMOCK in Law and Dynamic Administration, New York 1980. Il saggio, Active Judges and Passive Resiraints, è stato pubblicato dalla rivista « Regulation », 1982, p. 10. 2 Cfr. The Supreme Court 1983, 2856. Come noto le a,gencies hanno poteri di « rulemaking » e di « adjudication », cioè di emanare atti amministrativi contenenti norme generali e atti aventi effetti individuali che risolvono singole controversie secondo procedure simili a quelle giurisdizionali. L'APA disciplina il «formai » e l'« informai » rulemaking: in questo le a,gencies godono di maggiore autonomia in quanto soggette a minori vincoli procedimentali. Cfr. L. JAFFE, N. NATHANSON, Administrative Law, Boston 1976. Nel motivare la decisione in State Farm, NUIL,
98
la Corte Suprema, ribaltando l'impostazione dottrinaria che auspicava un giudizio « deferente », sosteneva che se esisteva « una presunzione alla quale il giudice avrebbe dovuto attenersi essa non era contraria alla safety reguialion ma bensì a cambiamenti nell'attuale politica non giustificati dagli atti del procedimento ». Viene così posto l'accento sui doveri del dipartimento dei trasporti nel perseguire i ini indicati dal legislatore nel Nationai Tra ffic and Motor Vehicie Safety Act. '' Le Corti costruiscono l'interest representation modei servendosi di diversi meccnismi: applicando il principio costituzionale « due process o! iaw » ai procedimenti amministrativi si garantisce la protezione a nuove classi di interessi (es. benelciari delle agenzie di sociai wel/are) in precedenza considerati meri « priviieges »; ampliando il concetto di legittimazione processuale (standing) e l'ambito dei soggetti aventi poteri di iniziativa del procedimento ecc. Vedi R. STEWART, op. cit.. Cfr. M. GARLAND, op. cit. 16 J singoli casi. sono citati da M. GARLAND, op. cit. Cfr. S. BREYER, op. cit.
2. 11 dibattito sulle politiche di deregolamentazione
PAUL J. QUIRK, MARTHA DERTHICK
The Politics o/ Deregulation The Brookings Institution, Washington 1985
di riforma contenute nella relazione finale della Commissione per la delegificazione costituita presso la • Presidenza del Consigli&.
SABINO CASSESE, EMILIO GERELLI
(a cura di) Deregulation. La deregolamentazione amministrauva e legislativa Franco Angeli, Milano 1985
La pressoché contemporanea pubblicazione di due libri che si occupano di deregiulation - riferentisi agli Usa e al nostro paese - è l'occasione per riflettere su un fenomeno che, pur nei diversi contesti sociali e istituzionali considerati, esprime l'elemento forse più peculiare delle tendenze attuali degli stati amministrativi. La deregolamentazione ha infatti dietro di sé il denominatore comune costituito dall'eccesso e dalla continua crescita di norme prodotte dai parlamenti e dalle amministrazioni dall'inizio del secolo per giungere all'inflazione normativa degli anni Sessanta e Settanta'. I due libri contribuiscono a delineare quali percorsi istituzionali ha seguito la riforma in Usa e quali sono le varianti con le quali anche il nostro sistema amministrativo si accinge ad affrontare temi analoghi. Il testo curato da Cassese e Gerelli contiene infatti gli Atti del Convegno organizzato dal dipartimento di economia dell'Università di Pavia nel mese di ottobre 1984 ed approfondisce le modalità dell'intervento pubblico in alcuni settori oggetto di studio e di concrete proposte
L'esperienza americana. Potendo contare su una ricca e var jegata serie di' esperienze di deregulation maturate in settori cruciali dell'economia, il fine dei due studiosi della Brookings Institution è da un lato quello di esaminare il « political and administrative process » che ha condotto alla deregolamentazione e dall'altro di. verificare le capacità del sistema nel suo complesso di perseguire interessi generali - es. consumatori -' di predisporre correttivi dell'adesione pubblica in presenza delle nuove tecnologie offerte dal mercato - es. telecomunicazioni ecc La conclusione cui giungono è che il « new american political system )>, contrariamente al criticismo che lo descrive nella maggioranza dei casi preda di interessi particolari, ha dimostrato, approntando interventi di deregulation, una insospettata vitalità e capacità di esprimere « buon governo ». Si sottolinea, a conforto di ciò, che i tre casi di deregulation principalmente analizzati nel libro il trasporto aereo, su strada, le telecomunicazioni - oltre ad essere settori chiave dell'economia presentavano organizzazioni operanti al loro interno tra le più potenti nel contesto sociale e certamente in grado di influenzare gruppi di deputati e senatori come gli amministratori 99
delle « regulatory agencies », e di praticare la ben nota teoria della cattura dell'interesse della collettività da parte dei soggetti regolati. La ATT, detentrice del monopolio regolato dalla telefonia, era fino al 1983 la più grande corporation del mondo; i « Teamsters », cioè il sindacato degli autotrasportatori è tra i più rilevanti in Usa contando su 1.900.000 aderenti e, insieme alla confederazione degli impren-, ditori del settore, che conta più di 16.000 aziende, uno dei più classici esempi di convergenza degli interessi di « labor and management» ad evitare la competizione ed i bruschi mutamenti che essa impone all'organizzazione del lavoro, ai salari ed alle strategie aziendali. La stessa problematica, anche se con minor concentrazione e numero di aderenti, si ritrova nel mercato regolato del trasporto aereo. Ebbene, ci dicono Quirk e Derthick, proprio in ambiti nei quali si rinvengono un'alta concentrazione di interessi particolari, il sistema di government, costituito secondo la tradizione anglosassone dal legislativo, dall'apparato amministrativo e dalle corti, è riuscito a 'tutelare l'utenza, come dimostrato dal clamoroso riallineamento dei prezzi nel trasporto aereo, pressoché dimezzati, e da consistenti risparmi in altri settori. Rilevandosi come tutti i gruppi « regolati » organizzarono lobbies e pressioni contrarie alla deregulation, la critica viene rivolta a quelle teorie che, specie durante gli anni Settanta, hanno privile. giato l'analisi economica nello spiegare il « political process » ed a quelle di tipo liberista e neo-conservatore nella analisi dei comportamenti. della burocrazia 5 .
100
Le prime fanno risalire l'attuale fase di contrazione degli interventi normativi, così come quella precedente di loro espansione, ad esigenze imposte dal diverso ciclo economico e principalmente dall'avvento di nuove tecnologie; le seconde, tra le quali si citano quelle elaborate da J.Q. Wilson, spiegano le «regulatory policies » come il prodotto di un sistema politico in cui prevalgono sia elementi di localismo, che ne inficiano la capacità di perseguire interessi generali, sia gli aspetti .di estrema diffusione delle sue forme istituzionali, che rendono l'azione non sufficientemente coordinata e penetrante: il comportamento delle amministrazioni sarebbe quindi caratterizzato o dalla negoziazione continua con i vari ' gruppi di interessi ovvero da regolamentazioni, come quelle a difesa dell'ambiente, definite di « populistic appeal », ad uso del grande pubblico ma irrazionali quanto alla allocazione delle risorse che determinano6 . Ma al di là di estreme e fuorvianti generalizzazioni, cui pure, come si dirà brevemente, non sembra neppur esso andare esente, il libro in questione offre una ricognizione, utile anche sotto il profilo comparatistico, dei processi istituzionali che hanno condotto alla liberalizzazione nei mercati esaminati. Un primo elemento da valutare è costituito dalla pluralità delle istituzioni e delle procedure in grado di innescare processi di deregulation offerte dalla forma di governo consolidatasi in Usa. Il Congresso può approvare atti legislativi che abrogano precedenti interventi regolatori, che revocano deleghe alle agenzie relative alla regolazione di prezzi, accesso al mercato ecc., ovvero che ri-
orientano le stesse deleghe facendo coincidere l'interesse pubblico con la deregulation; o infine, più radicalmente, deter. minano l'abolizione degli stessi enti regolatori. Esempi si ritrovano sia nel trasporto aereo che in quello merci su strada: l'Airline Deregulation Aci del 1978 confermava ed ampliava le tendenze deregolatrici intraprese dall'agenzia preposta al settore (Civic Aeronautics Board), dettando le direttive di transizione all'attuale sistema di competizione che ha comportato l'abolizione della CAB nel 1984v. Meno radicale era il Motor Carrier Act deI 1980, che ridefiniva peraltro totalmente il regime di entrata di nuovi operatori sul mercato, non richiedendo più che essi provassero l'inadeguatezza dei servizi autorizzati quale condizione per la concessione di nuove licenze ma garantendo una presunzione a favore dell'accoglimento della domanda di nuove autorizzazioni. Veniva posto a carico dell'Interstate Commerce Commission l'onere di provare l'eventuale danno per l'assetto del mercato a causa dell'incremento della competizione, si abolivano i controlli sui prezzi e si restringeva, fino a renderla pressoché inoperante, l'area di « antitrusi immunity » concessa ai prezzi stabiliti da accordi tra le imprese. I casi presi in considerazione confermano anche le notevoli potenzialità delle strutture organizzative del Congresso nel compiere investigazioni sulle dinamiche interne dei mercati attraverso lo strumento delle hearings: esse adempiono alla duplice funzione di acquisire dati e informazioni, ma soprattutto sono un veicolo di sensibilizzazione del pubblico dei consumatori e degli organi di informazione. Stephen Breyer, il professore harvardiand che coordinò le
hearings del Comitato presieduto da Edward Kennedy presso il Senato nel 1975, che affrontarono il tema della deregulation del trasporto aereo, ha riconosciuto grande importanza ai metodi di organizzazione e conclusione delle inchieste. Nel caso di specie, resero la riforma della CAR una « major issue », politicamente spendibile dai leaders politici, con la quale dovettero pubblicamente confrontarsi le imprese del settore fino ad allora abituate a negoziazioni spesso compiacenti con la CAB Il ruolo delle « independent agencies ». Uguale rilievo nel concreto svolgersi del processo di deregolazione hanno svolto le « independent agencies ». Giovandosi di una posizione di relativa autonomia istituzionale e soprattutto delle ampie deleghe loro spesso conferite dal Congresso, hanno avviato politiche di deregulation, talvolta riprese e ratificate in leggi approvate successivamente. E' questo il caso della CAB e della FTc (FederaI Tracie Commission) prima dell'avvento dei rispettivi Acts concernenti i trasporti. Le modalità con cui si giunge a deregolare il monopolio delle telecomunicazioni della ATT ci dà prova di quanto dicevamo circa la pluralità dei vettori di nuove policies nel sistema nordamericano. Qui la deregulation venne attuata interamente tramite l'agenzia che governa il settore (Federal Communication Commission) e le Certi, mentre il Congresso si limitò ad interventi indiretti. La Fcc iniziò alla fine degli anni Sessanta ad abrogare restrizioni alla competizione stabilendo, ad esempio, che gli utenti potessero servirsi di terminali telefonici non forniti 101
dal Beh-System e, nel 1976, la competente Corte Federale respinse i ricorsi della ATT. Nello stesso anno questa tentò la via legislativa per reinstaurare il monopolio, facendosi promotrice, attraverso deputati ad essa affini, di una proposta di legge che per le sue caratteristiche fortemente protezionistiche venne convenzionalmente denominata il « Beh-bui ». Ma l'inerzia del Congresso nell'approvare una tale misura contribuì ad un'altra azione di grande rilievo verso la liberalizzazione che si ebbe nel 1978 con la decisione di una Corte di appello federale, confermata dalla Corte Suprema, nella quale si ritenne illegittimo il divieto, statuito questa volta dalla Fcc, di autorizzare un sistema di servizi telefonici per chiamate «long distance» offerto da un nuovo gruppo imprenditoriale 9 . Queste sentenze determinarono, in.f atti, l'avvento della competizione nel comparto dei servizi telefonici interurbani e intercontinentali. L'ultimo e decisivo passo che completò il processo di deregulation si ebbe nel 1983 a seguito di un procedimento di antitrust iniziato dal Dipartimento della giustizia contro la ATT. Con il progredire delle policies di liberalizzazione si evidenziava sempre più il problema, anche politicamente, più spinoso, e cioè quello della struttura organizzativa e dell'assetto societario della ATT. Comportandosi ancora da « monopolista », essa aveva affrontato la competizione stabilendo prezzi « predatori », imponendo clausole contrattuali di esclusiva nei servizi offerti ecc. Dopo una ordinanza istruttoria della Corte investita del caso, che faceva presagire una decisione finale sfavorevole e uno smantellamento « verticale » del suo intero assetto; la 102
ATT si risolse ad un accordo transattivo con il dipartimento federale che statuiva definitivamente la sua uscita dalle consociate operanti nei mercati locali, il suo permanere nell'ormai competitivo mercato « long-distance », e l'accesso al mercato della trasmissione dati e dei computer che le era precluso dal precedente sistema di regolazione1 . Nel ricostruire le reazioni delle varie istituzioni alle istanze di deregulation il libro attribuisce grande importanza: a) alle notevoli capacità di intervento dimostrate dal movimento del « consumerism »; b) al ruolo propulsivo svolto dalle ricerche condotte da esperti, specie economisti. Si nota come solo in quegli ambiti in' cui le indicazioni della ricerca accademica erano pressoché unanimi, il Congresso si risolse ad approvare leggi di deregulation; c) all'influenza di singoli leaders politici quali i presidenti Ford e Carter, prima ancora di Reagan, nonché dei « chairmen » di alcuni comitati del Congresso. Così viene ricordato l'attivismo e l'organizzazione comune che si dettero gruppi di ispirazione radicale nel movimento dei consumatori, quali, ad esempio, quelli facenti capo a R. Nader ed altri di orientamento conservatore al fine di influenzare i loro eletti al Congresso'': in proposito viene giustamente rilevato come l'argomento della « deregulation» ha avuto successo quando è stato sostenuto, sia dentro che fuori dalle istituzioni, da bipartisan coahitions. Ciò è potuto avvenire solo quando le tesi degli oppositori del « big Government », tradizionalmente sostenute dai conservatori, si sposavano con quelle democratiche di avversione per il « bigbusiness ». La deregolamentazione ha avuto successo nel-
l'eliminare le protezioni ad alcuni mercati, nel decurtare i bilanci e il personale di alcuni enti pubblici che li controllano, ma ciò non si è realizzato per le « social regulations » nonostante le intenzioni e le ideologie reaganiane. Se abolire la CAR significava favorire i consumatori e restringere le burocrazie, abrogare alcuni degli standards del Clean Air Act voleva dire alleviare i costi per le imprese a danno della protezione ambientale' 2 La distinzione va rilevata perché anche « l'amministrazione più conservatrice degli ultimi 50 anni », secondo le indagini più recenti, non è riuscita a deregolare i programmi fondamentali di assistenza sociale, di protezione ambientale ecc. Nel tirare le conclusioni sopra brevemente riassunte gli autori riconoscono che gli elementi positivi che il sistema nel suo complesso ha espresso nel derogare i trasporti non si rinvengono in altri casi di « economic regulation »: così fu per il Natural Gas Act del 1978 dove agli originari intenti deregolatori si sostituì un regime compromissorio teso a proteggere i produttori, per i sussidi conferiti nell'amministrazione dei prezzi''. .
Usa: un bilancio di/I icile. Se questi stessi esempi convalidano alcune delle tesi che il libro sottopone a critica, non sembra che la deregulation di alcuni settori dell'economia sia sufficiente a provare un mutamento radicale e generalizzato dei comportamenti delle amministrazioni. Ai due studiosi della Brookings Institution che, forse troppo ottimisticamente, attribuiscono alle « politics o/ ideas » l'azione riformatrice di alcune agenzie e del Congresso, può obiettarsi che, ad esempio, il mercato del trasporto aereo era conside-
rato da tempo altamente competitivo, che le azioni, spesso al di là del lecito, della CAB nel regolarlo costituivano un ostacolo oggettivo al suo sviluppo, e che tutte le indagini sullo sviluppo delle telecomunicazioni ne testimoniano l'intensa innovazione tecnologica verificatasi negli ultimi 10-15 anni ed il conseguente incremento dell'offerta di prodotti a minor costo da parte di nuovi operatori' 4 Se quindi la parte migliore del libro è costituita dalla ricostruzione di quale fu il reciproco interagire delle istituzioni burocratiche, politiche e giudiziarie nell'avviare le trasformazioni descritte, meno convincente è la sua conclusione, che sembra voler essere generalizzante, quando nel capitolo finale si afferma « We conclude, then, that these cases of competitive deregulation exempli/y the « new american political system » working well » e che « the major virtue o/ the current American political system... probably lies in the resources and rewards it o//ers /0v overcoming particularism ». Senza per questo voler sottovalutare i progressi e gli stimoli alla ricerca di nuove soluzioni che, anche al di fuori degli Usa, alcune prassi di deregolamentazione hanno comportato, conclusioni quali quelle riportate sembrano fuorvianti. Il « political system » non è riducibile alla « regulatory re/orm » che, come sosteneva di recente un noto economista, «like death and tax is always with us », a voler significare la permanenza di problemi quali l'irresponsabilità politica di amministrazioni cui sono spesso delegati compiti sostanzialmente legislativi (< administrative legislalion »), l'inadeguatezza delle procedure giurisdizionali con le quali si è inteso supplire a tale carenza di .
-
103
legittimazione, le difficoltà di coordinare l'azione di poteri pubblici frarnmentati in decine di agenzie federali e statali'. Quanto alle influenze di forti concentrazioni di interessi particolari, comunità locali, ecc., basti dire che neppure una Amministrazione con vasto seguito elettorale ed una spiccata professione al decisionismo ed alla centralizzazione è riuscita, ad esempio nelle politiche di bilancio, ad imporre gli indirizzi selettivi che si era ripromessa. Il giudizio incondizionatamente positivo che Quirk e Derthick danno circa l'esistenza di una pluralità di istituzioni e di tecniche procedimentali (CongressoAmministrazioni-Corti-Antitrust) che possono implementare nuove policies non è unaninìemente condiviso. Il completamento della deregulation delle telecomunicazioni attraverso un procedimento giurisdizionale è un esempio di queste critiche. Il bilancio del primo anno del nuovo regime fa segnare un aumento dei prezzi dei servizi locali, nessun beneficio per i consumatori nei servizi long-distance, l'impossibilità per le imprese che operano a livello locale di competere nel mercato long-distance, l'impossibilità per la ATT di competere liberamente in altri settori e tecnologie avanzate che le sono ancora preclusi dalla transazione « governata » dalla Corte Federale. Ui-i recente studio sul tema, di Paul McAvoy'T, giunge ad auspicare una legge del Congresso che riequilibri tali andamenti. La circostanza per cui attraverso un accordo di tipo privatistico tra ATT e Dipartimento della giustizia si sia giunti a definire l'assetto dell'intero mercato delle telecomunicazioni, senza che nessuno dei gruppi interessati 104
(partiti, consumatori, esperti) avesse la possibilità di esprimersi, rappresenta per questo autore la causa principale delle notevoli difficoltà che la riforma incontra in - questo settore. E in. Italia? Se dalle luci ed ombre di una esperienza comunque; maturata da almeno un decennio, come quella nordamericana, ci rivolgiamo verso quella italiana non si possono non notare radicali differenze dei contesti istituzionali ed economici ma anche, come nota Sabino Cassese nelle conclusioni del Convegno di Pavia, del fenomeno, ancora largamente da studiare quanto alle regole che lo determinano, dell'eccesso di regolazione di attività private e di una irrazionale distribuzione delle funzioni amministrazioni riferentisi a tali norme. Regola aurea, la cautela. Gli interventi del Convegno suggeriscono quindi un approccio non radicale a favore della deregulation. Il fine è quello di «sfuggi-re agli opposti preconcetti » e di fornire un'analisi concreta di specifiche problematiche italiane. Così l'ampia relazione introduttiva di - Rolando Valiani, dopo aver riassunto l'esperienza Usa, mette in risalto le differenze costituite dalle dimensioni grandemente minori dei nostri mercati, non in grado, in alcuni settori, di sopportare un'alta competizione (es. trasporto aereo), dalla larga presenza dell'impresa pubblica proprio in ambiti come le telecomunicazioni, dove la travolgente innovazione tecnologica di questi anni potrebbe giustificare, in teoria, il passaggio dai monopoli regolati della Sip, Italcable, Telespazio e ASST alla competizione di mercato. Sono ovvie le resi-
stenze sia di tipo burocratico che derivanti dai legami, certamente non esemplari, instauratisi in Italia tra imprese pubbliche e sistema dei partiti. Altro caso citato come emblematico di rottura tecnologica delle condizioni naturali di monopolio è quello della RAI, di cui la stessa Corte Costituzionale, con le decisioni nn. 202 del 1976 e 148 del 1981, ha preso atto riservando, nei fatti, al monopolio pubblico le trasmissioni « in diretta » e permettendo alle reti private di mandare in onda programmi registrati su tutto il territorio nazionale. E' questo un esempio in cui la non-regolazione statale e l'assenza di norme antitrusi hanno creato al tempo stesso effetti positivi quanto all'accesso dei privati al mercato e perversi quanto al risultato finale di tale accesso costituito dalla concentrazione dei networks nazionali in un unico gruppo imprenditoriale. Il suggerimento di Valiani è di approfondire il dibattito sulle prospettive di deregulation nelle telecomunicazioni, ipotizzando un possibile avvento del mercato nell'offerta di servizi avanzati (es. trasmissione e distribuzione dati attraverso videoterminali, posta elettronica, trasferimenti elettronici di fondi bancari ecc.), non senza chiarire la regolazione dei rapporti tra gli enti pubblici interessati in presenza di nuove tecnologie che ne pongono in discussione i rispettivi ambiti di intervento: le divergenze tra STET, Sip e RAI circa la gestione del futuro sistema di trasmissione in fibra ottica, della TV via-cavo e della recezione dei segnali via satellite ne sono un esempio. Il saggio di Gianfranco Mossetto approfondisce vincoli e scompensi originati dal
sistema di controllo dei prezzi consolidatosi in periodi, come gli anni Settanta, di alta inflazione. Dopo aver stimato l'arco dei beni sottoposti, in varie forme, all'attenzione dell'amministrazione pubblica viene criticata sia l'organizzazione che le procedure di determinazione di prezzi e tariffe pubblich&'. Si sottolinea così come nel funzionamento dei Comitati provinciali prezzi sia riscontrabile il classico fenomeno di condizionamento esercitato dai « regolati » sui « regolatori », mentre l'organismo centrale (CIP) ha spesso favorito gruppi oligopolisti (es. zuccherieri) e protetto settori a scarso mercato internazionale (es. cementiero). Aspre critiche sono anche rivolte alle determinazioni delle tariffe di alcuni monopoli regolati, come quello della Sip, unico acquirente, sugli aumenti anomali proposti dai suoi fornitori. Nel complesso si riscontra un servizio per l'utenza qualitativamente inferiore ad altri paesi europei e agli Stati Uniti e tariffe più care. Proposte di de-regolazione accompagnate da altre di ri-regolazione si ritrovano anche nella relazione di Mario Monti dedicata al sistema creditizio.
Per una riforma delle « regulations » attuai:. La filosofia di fondo degli interventi dovrebbe tendere ad allentare i vincoli amministrativi sulle aziende di credito ed a perfezionare i meccanismi di controllo indiretti. Coerenti con questa impostazione sono il mantenimento del « divorzio » tra Tesoro e Banca d'Italia, l'aumento della quota di riserva obbligatoria e la contemporanea attribuzione al Tesoro del potere di modificare, su proposta della Banca d'Italia, i coeffi105
cienti di riserva fino ad un massimo di 5 punti, la riduzione dei vincoli di portafoglio dal CICR 1 ". La ri-regolamentazione dovrebbe confrontarsi con i vincoli, ritenuti eccessivi, rappresentati dai controlli sull'entrata di nuove imprese sui mercato e con l'ampia fiscalità occulta che grava il sistema bancario. Questa viene fatta risalire ad una riserva obbligatoria che, per l'effetto congiunto del coefficiente e della scorta tra la sua remunerazione ed i tassi di mercato risulta più penalizzante se confrontata con quanto avviene in altri paesi industriali. Quanto ai vincoli all'entrata, Monti, come anche Francesco Zaccaria nel suo intervento sullo stesso tema, propongono un loro allentamento compensato da un sistema di assicurazione sui depositi che ne accresca la tutela, sul modello di quanto avviene negli Stati Uniti con la Federai Deposit Insurance Corporation. Può quindi dirsi, riassuntivamente, che nelle relazioni degli economisti partecipanti al Convegno il termine « dere,guiation » venga associato principalmente, come nella realtà nordmericana, all'eliminazione di vincoli alle attività economiche. Se da queste si passa agli interventi di studiosi della Pubblica Amministrazione come Cassese, Giuliano Amato, Tremonti, si nota come quella prospettiva debba essere congiunta, e probabilmente preceduta, da un'opera di delegificazione e razionalizzazione delle normative vigenti. Senza questa opera, che potremmo dire propedeutica, il nostro sistema Parlamento-Governo non sembra avere la flessibilità necessaria ad avviare riforme che, come l'attuale processo di deregulation, rendono l'apparato amministrativo più 106
sensibile alle modificazioni del mercato, delle tecnologie ecc. Laddove l'ordinamento costituzionale vigente negli Usa, pur non attribuendo un potere regolamentare autonomo all'Esecutivo, ha sviluppato la ben nota « delegation doctrine », alla base delle amplissime deleghe del Iegislativo o indipendenti dell'Esecutivo, e si avvale di tale assetto per deregolamentare, da noi il « primato della legge» impedisce un analogo funzionamento. La tradizione di una legislazione primaria dettagliata e non per principi, dovuta a varie ragioni di ordine storico-politico, tra le quali le garanzie richieste da un'opposizione parlamentare verso la quale è invalsa la conventio ad excludendum dell'Esecutivo fino alla fine degli anni Settanta, rende manifesta la maggiore rigidità del sistema quando si tratti di abrogare, razionalizzare, semplificare la legislazione 20 . A tal fine è quasi sempre necessario un intervento del Parlamento, anche quando la materia non lo renderebbe indispensabile, per non alterare la gerarchia tra le fonti normative. Gli spunti offerti dal Convegno di Pavia sono stati esplicitati, di recente, nella relazione finale della Commissione Cassese. Le leve della semplificazione normativa vengono individuate in un allegato schema di disegno di legge nel quale si propone: a) di fissare alcuni principi di base relativi alla delegificazione, alla semplificazione delle norme e alla loro attuabilità; b) avviare la delegificazione e semplificazione regolamentare in alcuni settori; c) prevedere il « consolidamento » in testi unici della normativa dei settori indicati 2 . Allo scopo di assicurare continuità all'azione di razionalizzazione si prevede la costituzione, presso la Pre-
sidenza del Consiglio, di un Ufficio centrale per il coordinamento della legislazione «per assicurare che, una volta avvenuti la delegificazione, la razionalizzazione e il consolidamento legislativi, il flusso di nuove norme vada a far corpo unitario, in modo omogeneo, con i testi esistenti ». Si intende, così avviare un complesso di attività che, con l'impiego della delegazione ordinaria e senza alterare il sistema costituzionale delle fonti, raggiunga gli obiettivi di riordinare vasti settori della legislazione, riqualifichi i rapporti tra legge ed atto regolamentare e favorisca una maggiore flessibilità dell'azione amministrativa. Qualche proposta. Un esempio di cosa in concreto ciò significhi emerge dalla relazione di Tremonti che, vertendo sulla deregulation del fisco, coincide con le proposte nello stesso settore avanzate dalla Commissione Cassese. Il /isco dovrebbe essere uno di quei « comparti » di materie oggetto della delega al Governo ad emanare atti con forza di legge che, accanto a criteri generali che ne orientino l'azione, ne prevede di specifici per settore. In base ai primi dovrebbe addivenirsi all'abrogazione delle norme che: a) rendono i provvedimenti amministrativi eccessivamente complessi per l'obbligatorio concorso di pluralità di uffici e/o organi; b) disciplinano attività interne del la Pubblica Amministrazione o comunque modalità dell'azione amministrativa non suscettibili di incidere sulle posizioni giuridiche di terzi; c) hanno carattere tecnico; d) riproducono disposizioni contenute io fonti comunitarie direttamente applicabili 22 .
Nel caso del fisco, i criteri specifici della successiva razionalizzazione dovrebbero comportare una codificazione per principi e non più analitica ed enumerativa come quella seguita alla riforma del 1971'73, che tenga conto del passaggio, avvenuto nell'ultimo decennio, ad un sistema con alta pressione fiscale, della complessità e varietà dei tributi nonché del suo inserirsi in un ordinamento civilistico che ammette la più ampia libertà contrattuale per i privati (es. contratti innominati). Quest'ultimo aspetto, la contrattazione per il raggiungimento di risultati rilevanti sul piano fiscale, si ritiene vanifichi il tentativo di « inseguire » tutte le fattispecie possibili e aggravi la inefficienza del fisco. Seguono poi misure concrete al fine di snellire e semplificare i rapporti con i contribuenti quali la « compensazione orizzontale » in sede di dichiarazione tra crediti e debiti relativi ad imposte diverse per eliminare i ritardi e gli abusi nei rimborsi, stabilire limiti di economicità di vrsamenti e rimborsi, introdurre l'automazione nei rimborsi ILOR, eliminare l'obbligo di spedizione del modulo 101 acquisendo i dati ivi contenuti tramite i sostituti d'imposta, concentrare in un solo ufficio le competenze relative a trasferimenti di immobili, ora suddivise in tre uffici. Emerge così con sufficiente chiarezza la forma che gli interventi di deregulation dovrebbero, auspicabilmente, assumere nel nostro paese. Negli Stati Uniti, date le potenzialità espresse da alcuni mercati, l'ampia discrezionalità conferita ad enti regolatori, la pluralità dei soggetti (es. Corti) e delle procedure (es. antitrust) disponibili hanno significato meno « lac107
ci e lacciuoli » alle attività imprenditoriali. Altrove, come nel Regno Unito, si è avuta la privatizzazione di monopoli costituiti da imprese pubbliche. Da noi sembrano identificabili tre direttrici verso le quali avviare un complesso organico di riforme della regolamentazione. La prima è la liberalizzazione, mediante l'abrogazione di vincoli ad attività economiche (es. mercato del lavoro, commercio estero). La seconda è la razionalizzazione della normativa esistente delle procedure re-
Note Cfr. S. CASSESE, La modernizzazione delle leggi, in « Quaderni della Giustizia » n. 44. 2 Sull'attività della Commissione Cassese vedi L. ScoTTI, I più recenti indirizzi operativi per razionalizzare la legislazione: realtà e prospettive, in « Le Regioni i>, 1985, p. 296. Il volume The New American Political System, a cura di ANTHONY KING, Washington 1978, contiene vari interventi che in particolare rilevano criticamente la eccessiva fra.mmentuzione e l'assenza di condotte coerenti espresse dalle istituzioni politiche, dai ipartiti e dalle Corti nella seconda metà degli anni Settanta in Usa. Nel libro che si commenta gli autori esprimono, al contrario, un giudizio positivo sulla « diffusione » e sul decentramento del sistema, e ricavano .tale giudizio dall'attuazione di politiche di dere.gulation. La letteratura sull'argomento da parte di p0litical scientists e giuristi è vastissima: gli scritti più noti sono raccolti in R. RABIN, Perspective on the Administraiive Process, Boston-Toronto 1979. Vedi W. NISKANEN, Bureaucracy and Representative Government, Chicago 1971; P. McAvoy, The Regulated Industries and the economy, New York 1979; M. FIORINA, Congress: Keystone o/the Washington Establishment, New Haven 1977. 108
lative ai rapporti tra Stato e cittadino, non come imprenditore, ma come contribuente, utente della strada, contraente dei pubblici poteri ecc. Una terza è infine quella delle riforme amministrative che le altre due direttrici comportano e che vanno dal concepire strutture e personale qualificati nella g-stione dei nuovi poteri regolamentari conferiti all'Amministrazione alle capacità di rilevare l'innovazione tecnologica e di migliorare la qualità della redazione delle norme.
° Vedi J.Q. W1Ls0N, The Poliiics of Regulation, in T. McKIE, Social Responsability and the Business Predica,nent, Washington e, dello stesso autore, The Rise o/ the Bureaucratic State, in o The Public Interest i>, n. 41, 1975. Vedi i capitoli dedicati alla deregulation del trasporto aereo in S. BREYER, Regulation and its Re/orm, Cambridge 1982. Le più complete analisi economiche dell'attuazione dell'Airline Deregulation Act 5j ritrovano in J. 'MEYER, C. OSTER, Airline Deregulation: the Early Experience, Boston 1981 e E. BAILEY, D. GRAHAM, Deregulating Airlines, Cambridge 1985. ° Cfr. S. BREYER, o/. cit. Il gruppo Mci è attualmente il più importante competitore della ATT sul mercato « longdistance », cioè dei servizi telefonici interstatali e in tercontinen tali. '° Il cosiddetto Beh-System, prima della « divestiture i> prevedeva un assetto societario con la ATT in posizione dominante che operava a livello locale con 22 società controllate. Alla Air era riservato il servizio long-distance e il controllo sulle società Western Electric, Beh Laboratories e American BelI, rispettivamente addette alla produzione di terminali, ricerca e marketing. Uno dei rischi maggiori che la An intendeva assolutamente evitare e che la spinse alla transazione della vertenza con il Governo era una divisione « verticale » disposta del
giudice che non soio tagliasse il cordone om-
Mossetto 'distingue i prezzi « sorvegliabili »,
belicale con le compagnie locali ma influisse sul
« sorvegliati » e « amministrati » e, servendosi
suo controllo delle società addette alla ricerca
di dati ISTAT, stima la loro dimensione comples-
e alla produziofle dei terminali. Cfr. S. SIMON,
siva nel 37% dalla spesa per consumi.
,4/ter Divestiture, New York 1985.
Cfr. S. CASSESE-E. GERELLI.
Cfr. P. QWRK-M. DERTI-IICK, p. 40.
21i
Per « economic » regulations si intendono quelle riguardanti il controllo dei prezzi, dell'ac2
cesso al mercato, dei salari ecc.; «
social » re-
gulations sono le norme a prbtezione dell'amhiente, della sicurezza, della salute, dell'informazione (lei consumatori e della sicurezza dei prodotti ».
Su questo punto vedi, di recente, A. Pizzo-
itusso, De/e gificazione e sistema della fonte, in « Foro it. », 1986, . V, p. 233
Ss.;
S. CASSESE,
La modernizzazione delle leggi, cit. ed il testo della Relazione finale della Sottocommissione per la delegificazione presieduta da S. Cassese in « Foro it. », 1986, V, p. 113.
I diflerenti risultati ottenuti nei due settori
' Abbinati alla delegificazione ed al riconosci-
dall'Amministrazione Reagan sono descritti in G.
mento di un potere regolamentare i testi unici
Eans-M. Pix, Reliel of Rejbrm: Reagan's Regulatory Dilemma, Washington 1984.
avrebbero « la triplice funzione di delegificare
Cfr. P. QUIRKM. .DERTHICK,
op.
Cii.,
ip.
207 Ss. '4
Per il settore del trasporto aereo vedi nota
7. Per quello delle telecomunicazioni vedi G. BROCK,
The Tel ecomunications Industry, Camb-
bridge 1984 ed il volume a cura di M.
SH00-
Disconnecting BelI: The Impact of ATT Divestiture, Washington 1984. SHON,
In generale vedi la nuova edizione di S. BREYER-R. STEWART,
Administrative Law and
Regulatory Policy, Boston-Toronti 1985. IS
La vicenda è narrata, con stile giornalistico
una parte delle norme, ordinare quelle rimaste a livello primario ed eliminare le eventuali antinomie, risolvendone i contrasti », cfr. Relazione Sottocommissione cit., 4. 22
Idem, art. i dello schema di disegno alle-
gato. 23
Idem, art. 6.
24
Nota giustamente Giuliano Amato come u-
no dei pericoli da cui occorrerà guardarsi nell'intraprendere questo indirizzo è « il rischio di andare esattamente a collocarci nella maxi-regolazione ad opera dell'Esecutivo, che è il bersaglio della deregulation americana » e pertanto
ma efficace, dal dimissionario direttore dell'Of -
« dobbiamo essere in grado di assicurare un tem-
fice of Management and Budget •per i primi cin-
po parlamentare di controllo sulle attività che
que anni della Amministrazione Reagan: vedi D.
vengono svolte nell'ambito dell'Esecutivo in con-
STOCKMAN,
The Triumph of Politics: Why the Reagan Revolution Failed, New York 1986. Am-
formità a regolazioni amministrative. Quindi va
pi stralci del libro sono stati pubbicati nei nu-
sto obiettivo, perché altrimenti per disboscare
riorganizzato il Parlamento in funzione di que-
meri di « 'Newsweek » del 21 e 28 aprile 1986.
il Parlamento potremmo costituire una gigante-
I?
Losing by Judicial. Policy Making: the Firsi Year o/ the
sca selva meno visibile, con tutte le collusioni
AlT Divestiture, in « Yale journal on Regulation », n. 2, 1985.
ratori interessati e l'Amministrazione ». Ch. G.
Vedi P. McAvoy-K. ROBINSOt-4,
che ne possono derivare nei rapporti tra opeAMATO in S. CASSESE-E. GERELLI, cit., p. 168.
109
La privatizzazione in teoria e in pratica (1) di George Yarrow
Nella teoria economica, non mancano i casi di autori che si esprimono in senso favorevole alla privatizzazione. Due secoli fa Adam Smith (1776) sosteneva che «In ogni grande monarchia europea la vendita delle terre della corona darebbe un cospicuo gettito monetario che, se destinato al pagamento dei debiti pubblici, libererebbe da ipoteca una entrata molto maggiore di quella che tali terre abbiano mai cònsentito alla corona... Se le terre della corona diventassero proprietà privata, nel giro di pochi anni esse sarebbero migliorate e ben coltivate» . Oggi la politica di privatizzazione è di nuovo popolare: vasti programmi sono in corso non solo in economie mature come quella inglese, ma anche in paesi in via di sviluppo, da Formosa al Messico, e sono imminenti in paesi tanto diversi quanto la Francia e il Giappone. Lo scopo di questo mio lavoro è quello di dimostra.re quali siano i principi base che dovrebbero guidare la nostra riflessione sul fenomeno della privatizzazione e di proporre una valutazione del programma attuato finora in Gran Bretagna. Sebbene si affermi che un buon numero di risultati positivi sia riconducibile al fenomeno della privatizzazione in atto, il mi6 tema verterà sul fatto che molti degli obiettivi cui quest'ultima tende sono meglio raggiunti 110
mediante altre politiche e che in ultima analisi la privatizzazione deve essere giudicata per il suo contributo all'efficienza economica. Tale efficienza ha due componenti: la realizzazione, al minimo costo, dei livelli di produzione prefissati, e il giusto equilibrio complessivo della produzione. Per valutare gli effetti della privatizzazione rispetto a questi criteri è necessario: primo, confrontare i sistemi di incentivazione nell'industria pubblica e privata; secondo, valutare le implicazioni di tali incentivi sull'andamento economico. Sosterrò che esistono, prima facie, argomenti, suffragati dall'evidenza, tendenti a dimostrare che, ove ciascuno sia giudicato in relazione al conseguimento dei rispettivi obiettivi, il controllo privato dei managers è più efficace di quello pubblico. Tale conclusione non implica, comunque, una generale presunzione in favore della privatizzazione. Una conseguenza probabile, sebbene non inevitabile, della privatizzazione, potrà essere l'attribuzione di un maggior peso, da parte dei managers, agli obiettivi di profitto. Se ciò comporti o meno un incremento nell'efficienza economica, dipende in parte dal grado di imperfezione esistente nei meccanismi di mercato. Ed in effetti va riconosciuto che in molti casi è stata la diagnosi ditali imperfezioni (in industrie che rientrano ad esem-
pio fra quelle che presentano i caratteri del monopolio naturale)a spingere gli economisti ad auspicare, a suo tempo, forme di nazionalizzazione. Da ciò deriva che un giudizio sulla privatizzazione deve tener conto sia delle strutture del mercato in esame, sia delle norme sulla concorrenza e la regolamentazione contemporaneamente applicate. Per questi motivi, nel valutare il programma di privatizzazione in Gran Bretagna, ho raggruppato gli esempi in base alla struttura di mercato ed ho messo in luce particolare quali siano i sistemi di regolamentazione predisposti per quelle industrie per le quali la concorrenza tenda ad essere debole. Ne concludo che la situazione della concorrenza e la politica di regolamentazione sono più importanti, ai fini del rendimento economico, del regime di proprietà in sé. ,Ai fini del mio lavoro, assumo, come definizione di «privatizzazione», il trasferimento dal settore pubblico a quello privato dei diritti ai profitti residui derivanti dalla gestione di un'impresa, insieme agli eventuali cambiamenti nella politica di regolamentazione. La frequente identificazione della politica di privatizzazione con le vendite di attività è fuorviante per due distinti motivi. Primo, queste non ricorrono necessariamente, come nel caso di concessioni accordate per l'utilizzo di beni pubblici (ad es. le banchine dei porti) o in quello di monopoli legali mantenuti.dalle pubbliche autorità (ad es. le trasmissioni televisive). Secondo, come sottolineato prima, anche nel caso in cui tali vendite abbiano luogo, l'efficacia della politica di privatizzazione può derivare in gran parte dalle decisioni relative alla regolamentazione (ad es., la creazione dell'OFrEi. 2 per regolamentare il settore delle telecomunicazioni in Gran Bretagna).
IL PROGRAMIVIA DI PRIVATIZZAZIONE NEL REGNO UNITO
In Gran Bretagna, l'emergere della privatizzazione come un aspetto importante della politica economica risale al ritorno di un governo conservatore nel 1979. Sebbene il programma elettorale del 1979 di questo partito facesse pochi accenni alla privatizzazione, sia la priorità attribuita al trasferimento di beni produttivi al settore privato, sia la portata delle operazioni in quella direzione si accentuarono con rapidità negli anni immediatamente successivi, così che, giunti alle elezioni del 1983, le iniziative di privatizzazione erano divenute oggetto di intenso dibattito politico. Gli elementi più evidenti del programma di privatizzazione sono stati le vendite dell'esistente edilizia residenziale pubblica, la pratica di affidare a privati, mediante contratti («contracting out») 3, la gestione di servizi, e le vendite, totali o parziali, di imprese pubbliche. Nei primi anni era il primo elemento, attuato a livello di enti locali, ad essere predominante. Tra il 1979 e il 1983 furono vendute quasi 600.000 unità abitative, più che nell'intero periodo compreso tra il 1945 e il 1979, e le entrate salirono da circa 300 milioni di sterline l'anno nel 1979, a quasi 2.000 milioni di sterline nel 1982. Le concessioni ai privati - la sostituzione della produzione privata a quella pubblica nel fornire beni e servizi finanziati dallo Stato - hanno richiesto tempi di realizzazione più lunghi. Esse sono caratterizzate da norme contrattuali più complesse di quelle riguardanti le vendite edilizie e richiedono il continuo coinvolgimento delle autorità pubbliche nell'applicazione e rinnovo del contratto. Ciononostante, ai primi mesi del 1984, oltre cinquanta autorità locali avevano cia111
scuna privatizzato almeno un servizio valendosi di questo metodo. I servizi in genere maggiormente «ceduti» sono stati le varie forme di pulizia (strade, uffici, scuole, ospedali, ecc.) e nettezza urbana, ma altri hanno incluso anche disinfestazione, approvvigionamenti, servizi architettonici, giardinaggio, aree di parcheggio, lavanderie e lavori di restauro edilizio. Fino al 1984, la vendita delle imprese pubbliche era, per molti aspetti, la meno importante fra le componenti del programma di privatizzazione. Comunque la situazione cambiò con la vendita di poco più del 50% della British Telecom nel novembre 1984, ed in base alle proiezioni più recenti sembra che le vendite di attività raggiungeranno una media di qùasi L. 4.0ò0 milioni di sterline l'anno durante i prossimi tre anni. Il fatto che le vendite delle imprese sono in gran parte responsabilità del governo centrale ha anch'esso contribuito a porle al centro delle controversie politiche sulla privatizzazione.
attenuare i problemi di determinazione dei salari del settore pubblico; ridurre l'intervento governativo nei processi decisionali dell'impresa; accrescere il numero di titolari di beni economici; incoraggiare l'acquisto di azioni da parte dei dipendenti delle imprese; redistribuire il reddito e la ricchezza. L'ultimo di questi obiettivi è stato solo implicito ma ha avuto un'influenza cruciale su numerose decisioni politiche fondamentali. Nel valutare la privatizzazione alla luce di questi obiettivi, le ultime parti del lavoro tratteranno soprattutto l'aspetto relativo alle vendite di imprese a privati del programma britannico, sebbene parte delle discussioni teoriche riguardi direttamente anche gli altri due aspetti (in particolare quello degli appalti di servizi in concessione). Questa mia scelta deriva sia da limitazioni di spazio, sia dalla maggiore disponibilità di dati in questo settore. Ciò non deve essere interpretato nel senso che altri aspetti del programma inglese sono considerati meno importanti.
OBmrrwl DELLA PR1VATIZZAZIONE
Il programma del Regno Unito non ha mai tracciato un quadro completo degli obiettivi, classificandoli secondo un ordine di priorità nei tempi di attuazione o di importanza. In verità è prevedibile che gli obiettivi possano differire secondo i ministri e variare con il tempo. Il seguente elenco, comunque, riassume quelli che sembra siano stati i principali obiettivi: migliorare la produttività aumentando la concorrenza e permettendo alle aziende di attingere al mercato dei capitali; ridurre il fabbisogno finanziario del settore pubblico; 112
Principali caratteristiche de/programma di vendite di attività del governo centrale del Regno Unito. La Tabella 1 mostra le principali vendite di attività realizzate fino ad oggi. Si può notare come i proventi delle vendite di attività siano stati, fino al 1984, un elemento relativamente poco significativo nelle finanze del governo: le cifre dell'ultima colonna dovrebbero essere viste nel contesto di una spesa governativa di 700 miliardi di sterline nel periodo compreso fra il 1979 e il 1984 incluso, e di un disavanzo finanziario del settore pubblico ammontante in media a quasi 10 miliardi di sterline l'anno nello stesso periodo. I proventi presentano un netto incremento nella seconda metà del
1984 (sebbene gli incassi effettivi si siano accresciuti in modo più uniforme in seguito allo scaglionamento delle scadenze per il paga-
mento delle azioni BT) e si prevede che rimangano ad un livello alquanto elevato almeno fino alle prossime elezioni generali.
Tabella i - I/programma di privatizzazione nel Regno Unito (principali vendite di attività nel periodo 1979-1984)
Società
Industria
British Petroleum
Petrolio
British Aerospace
Aerospaziale
British Sugar Corp. Cable & Wireless
Zuccherificio Telecomunicaz
Amersham National Freigh Co. Britoil
Radio chimici Trasp. su strada Petrolio
Ass. British Ports
Porti marittimi
International Aeradio British Rail Hotels Wytch Farm Enterprise Oil Sealink Jaguar British Telecom 2 3 Altre
Aviazione Comunicazioni Alberghi Petrolio Petrolio Traghetti Automobili Telecomunicazioni
Data di vendita
Ricavo netto milioni di sterline
ott. 79 giu. 81 set. 83 feb. 81 mag. 85 lug. 81 ott. 81 dic. 83 dic. 85 feb. 82 feb. 82 nov. 82 ago. 85 feb. 83 apr. 84 mar. 83
276 8 543 43 346 44 182 263 600 64 5 627 425 46 51 60
mar. 83 mag. 84 giu. 84 lug. 84 lug. 84 nov. 84
51 82 380 66 297 3.600 716
La voce «Altre» comprende le seguenti vendite: 25% della 1CL (1979) e della Fairey (1980): 50% della Ferranti (1980); 75% della INì»sos (1984), sussidiarie della British Steel - British Shipbuilders e del National Coal Board e altre parti del British Technology Group. 2 Il governo mantiene ancora una partecipazione del 31,7% nella British Petroleum e del 49,8% nella British Telecom (BT). Soltanto la privatizzazione della BT è stata accompagnata da una specifica azione regolatrice, mediante la creazione dellOFFEL.
113
La liquidazione delle restanti partecipazioni nella Britoil, British Aerospace e Cable and Wireless ha fornito un gettito di oltre 1.300 milioni di sterline nel 1985 ed il totale sarebbe stato sensibilmente più elevato se la prevista vendita della British Airways non fosse stata riardata dalla vertenza giudiziaria relativa al caso Laker Airways. I piani per la vendita della British Airports Authority e per la molto più grande British Gas Corporation (BGc) sono in fase bene avanzata e, insieme alle vendite di attività della British Airways e a possibili ulteriori vendite di azioni della BP, comporteranno probabilmente, nei prossimi uno o due anni,
nuove emissioni per ammontati superiori a quelli realizzati nel 1984. Altre vendite in programma riguardano l'interessante caso della Trust Savings Bank (di cui non è tecnicamente proprietario lo Stato e i cui proventi andranno alla società privata di recente costituita), la Royal Ordnance Factories, la Unipart (parte della BL) e la Rolls Royce. La Tabella 2 sembra indicare che vi è margine per ulteriori, sostanziali, vendite di attività nel lungo periodo. In particolare, un candidato naturale alla privatizzazione sarebbe la Electricity Supply Industry (la maggiore delle industrie nazionalizzate).
Tabella 2 - Giro d'affari delle imprese che nell'autunno del 1985 facevano parte del settore pubblico (cifre relative al 1984, in milioni di sterlinej Electricity Board British Gas Corp * National Coil Board BL (vehicles) British Steel Post Office British Rail ** British Airways *
10.621 6.392 4.669 3.402 3.358 2.884 2.832 2.514
RolIs Royce British Shipbuilders National Bus Co. * London Regional Transport British.Nuclear Fuels British Airports Authority * Civil Aviation Authority Scottish Transport Group
1.409 965 754 578 460 316 228 154
* Piani di privatizzazione in fase avanzata ** Giro d'affari relativo all'anno 1983. Una seconda caratteristica del programma britannico che risulta dalla tabella i è che fino al 1984 il trasferimento di proprietà è stato limitato alle imprese che, in molte loro attività, si trovavano già a fronteggiare una forte concorrenza da parte di aziende del settore privato. Ancora una volta, il caso della BT si discosta nettamente dagli altri, facendo nascere per la prima volta problemi circa il sistema per regolare un'azienda privatizzata 114
che riveste una posizione dominante in molti settori del mercato in cui opera (rete di telecomunicazioni, commutatori e vendite attrezzature). Analogamente, mentre non sono completamente assenti carenze nei' meccanismi di 'mercato nei casi precedenti, nel caso della Telecom le dimensioni del problema sono di ordine diverso. La consapevolezza di ciò ha portato alla creazione della OFmi., un ente di regokmentazione dotato di
poteri destinati a limitare il comportamento monopolistico esercitato dall'azienda dominante. La privatizzazione dell'azienda del gas e, se avrà luogo, di quella dell'elettricità, solleva problemi di monopolio naturale di tipo simile, ma in genere più difficili. Quindi comporterà presumibilmente anch'essa la creazione di un nuovo ente regolatore.
PRIVATIZZAZIONE E INCENTIVI
In questa sezione descriverò dapprima le differenze tra i sistemi di controllo di aziende private e pubbliche che sono invece simili per altri aspetti; esaminerò poi alcune delle conseguenze derivanti dall'applicazione di tali sistemi. Mentre ci si può aspettare che la privatizzazione induca i managers a dare maggior rilievo agli obiettivi di profitto, i cambiamenti che questa comporta sono molto più complessi di una semplice sostituzione degli obiettivi di «interesse pubblico» con quello della massimizzazione del profitto. Il risultato immediato della privatizzazione è di sostituire, nella gestione aziendale, la supervisione ed il controllo dell'azionista a quelli del governo. In regime di proprietà privata, l'amministrazione è direttamente responsabile verso gli azionisti, per quanto il suo agire possa essere limitato da un ente regolatore. In regime di proprietà pubblica, l'amministrazione è sottoposta alla supervisione del governo che, a sua volta, può essere inteso come un rappresentante del corpo elettorale.
Regime diproprietprivata. Per prima cosa consideriamo i fattori che influenzano gli incentivi manageriali nelle aziende gestite da privati. Sebbene nella realtà gli azionisti non
saranno unanimi nella scelta delle priorità da accordare alle diverse politiche aziendali (EKERN e WILSON, 1974), procederò ipotizzando che essi desiderino che l'azienda massimizzi il profitto. Gli incentivi manageriali dipenderanno allora da: grado di separazione fra proprietà e controllo, accesso degli azionisti alle informazioni relative all'andamento dell'impresa, efficacia dei meccanismi regolanti il passaggio dal pubblico al privato e vincoli legali, come la responsabilità limitata. Il caso più semplice si ha quando vi sia un solo manager/azionista (definito da ALcFUAN e DMsFrz, 1972, del1'azienda classica»). In tale caso, il proprietario/manager è fortemente incentivato a migliorare l'efficienza interna dell'azienda ed in tal modo aumentare i suoi profitti. Inoltre, la commercialità dei diritti di proprietà implica che il manager/azionista, vendendo le azioni, potrà realizzare immediatamente i profitti attesi derivanti dalle attività correnti. Tuttavia, in genere, è più frequente la separazione fra proprietà e controllo. I titolari (gli azionisti) hanno allora bisogno di fornire incentivi agli agenti (i managers) per assicurarsi che questi ultimi agiscano effettivamente nel loro interesse. A questo punto si pongono due problemi fondamentali. Primo, l'attività di supervisione esercitata da un proprietario conferisce agli altri vantaggi esterni, e vi è quindi una tendenza verso livelli sub ottimali di supervisione. Secondo, un tale sistema dà luogo ad una informazione asimmetrica i managers, di norma, sono più al corrente della situazione aziendale rispetto ai titolari. Pertanto, anche se gli azionisti potessero formulare ed imporre schemi di incentivazione tendenti alla massimizzazione dei profitti, è improbabile che questi ricompensino un manager in misura interamente corrispon115
dente ai benefici derivanti dagli sforzi supplementari da questo sostenuti: poiché il profitto dipende da fattori di rischio che sfuggono al controllo manageriale, si determinano pressioni tendenti a realizzare una ripartizione dei rischi mediante un parziale sganciamento della retribuzione dai profitti (SHAVELL, 1979).
Il primo dei problemi di cui sopra può essere superato se esiste un meccanismo di mercato per il controllo delle società abbastanza efficiente. Acquistando azioni sul mercato un individuo o una società possono rapidamente aumentare la loro partecipazione azionaria ed in tal modo togliere il controllo della società scalata all'amministrazione in carica. Questa possibilità può dar luogo a forti effetti di incentivazione. Se i risultati di una particolare amministrazione sono insoddisfacenti, il prezzo delle azioni dell'azienda cadrà ed aumenteranno i vantaggi provenienti da una manovra tendente all'acquisizione della maggioranza al fine di introdurre un nùovo gruppo dirigente. Pertanto, la minaccia di sostituzione serve da fattore disciplinare per le amministrazioni in carica. Sfortunatamente, ci sono validi mtivi per credere che i meccanismi di mercato per il controllo delle società presentano numerose gravi imperfezioni. Per esempio, GROSSMAN e HART (1980) hanno mostrato come la commerciabilità dei diritti di proprietà, di per sè, non corregge l'insufficiente funzionamento del mercato derivante da una dispersa par tecipazione azionaria. In sintesi, un piccolo azionista può trascurare le conseguenze che una sua decisione di vendere o di conservare le proprie azioni può avere sui risultati di un tentativo di acquisizione e se prevede che il tentativo riesca preferirà trattenere, così da partecipare agli aumenti di profitto provenienti dal cambiamento nel controllo della 116
società. Ma se un numero sufficiente di azionistisi comporta così, di fatto la manovra failirà. Esistono diversi modi per attenuare questo effetto, ivi compresa l'acquisizione obbligatoria dei diritti prevista dalla legislazione societaria (YARROW, 1985), ma essi tendono a richiedere una regolamentazione costosa e, cosa ancor più importante, studi empirici sulle manovre di acquisto di società sembrano rivelare che i meccanismi di mercato agiscono in modo tutt'altro che perfetto per quel che riguarda il controllo aziendale (SINGH, 1975). Aziende molto grandi sembrano essere meno vulnerabili a manovre non volute, rispetto ad imprese più piccole: un fatto di importanza significativa quando si valutano gli effetti della privatizzazione di imprese erogatrici di servizi pubblici. Risulta inoltre che la minaccia di una manovra di acquisizione non voluta non possa essere messa direttamente in relazione con gli utili realizzati da un determinato vertice aziendale.
Regime di proprietà pubblica. Per quanto concerne le aziende a proprietà pubblica, il compito della supervisione della gestione aziendale è affidato al governo. Non esistendo azioni commerciali, non vi è alcun mercato che eserciti il controllo aziendale. Comunque, ciò non implica necessariamente che i fattori di efficienza saranno più deboli rispetto all'impresa privata. WILUAMs0N (1975) ha mostrato come sistemi gerarchici possano, in opportune circostanze, assicurare una supervisione più efficace di quella operata dal mercato dei capitali. Infatti, il governo potrà ricorrere a incentivi fmanziari correlati ai profitti e/o licenziamenti se il rendimento è scarso. La supervisione a livello governativo ha due vantaggi potenziali sull'alternativa rappre-
sentata dal mercato; non incontra i problemi di interesse comune connessi al fenomeno dell'azionariato diffuso e può rilevare immediatamente la non coincidenza dei vantaggi per i privati con quelli per la società nei mercati dei beni e dei fattori di produzione. In altri termini il regime di proprietà pubblica fornisce un mezzo per correggere le madeguatezze (inefficienze) sui mercati dei beni, dei fattori di produzione e quelle relative al controllo societario. Di solito questi sono gli argomenti base invocati in favore della proprietà pubblica. Ad esempio, l'accanito perseguimento del profitto da parte di imprese operanti in regime di monopolio naturale può comportare una varietà di pratiche contrarie alla concorrenza contrastanti con gli interessi della collettività. La difficoltà di ideare ed imporre facili mezzi atti a rilevare comportamenti che ostacolano la concorrenza può rendere preferibile la nazionalizzazione alla regolamentazione delle imprese private. Oppure, le imperfezioni del mercato per il controllo societario di aziende private potrebbero comportare inefficienze nei costi, come effetto del perseguimento di obiettivi diversi da quelli del profitto. È questo il caso dello «sleepy monopoly». In ultimo, l'opzione in favore dell'impresa pubblica può facilitare la raccolta di informazioni e ridurre le asimmetrie di informazione fra i vertici aziendali e quanti sono preposti alla supervisione di questi ultimi. La spiegazione dei risultati deludenti delle imprese a regime pubblico deve quindi essere ricercata altrove. Se i governi sono i guardiani dell'interesse pubblico, la domanda da
porsi è: «Quis custodiet ipsos custodes?» 4; naturalmente la risposta è: il corpo elettorale. Ma il «mercato» per il controllo politico è molto imperfetto e gli incentivi per realizzare un'effiace supervisione delle imprese
pubbliche possono, di conseguenza, essere piuttosto deboli. Così, la mancanza, da par te dei votanti, di conoscenze specifiche sull'andamento attuale e potenziale delle industrie nazionalizzate, insieme all'impossibilità di votare separatamente su. tale questione, fa sì che il controllo sulle performance delle imprese pubbliche abbia sovente scarso peso sulle prospettive politiche; ciò avviene probabilmente perché queste hanno un impatto facilmente riconoscibile sul patrimonio di determinati gruppi di interesse esercitando pressiòni per utilizzare le imprese pubbliche allo scopo di trasferire il reddito a gruppi favoriti, spesso a scapito dell'efficienza.
Valutazione. Le argomentazioni fin qui presentate implicano che i vantaggi relativi della supervisione privata o pubblica dipendono dal grado di correlazione inversa esistente fra inefficienze del mercato e mancanza di incentivi (dipendente dalla natura dei sistemi politici) in ministeri o enti. Se ciò è vero, non ci si può attendere che un regime di proprietà sia superiore all'altro in tutte le industrie e in tutti i paesi; tuttavia, si potrebbe sostenere che un esame dei rendimenti comparati sembrerebbe indicare che le carenze della supervisione del settore pubblico sono così serie e così diffuse da giustificare una generale presunzione in favore della proprietà privata. In una sua recente analisi della letteratura non teorica su questo problema, MuiwALw (1982) conclude che non sembra sussistere alcun elemento per affermare che l'efficienza manageriale sia più bassa nelle aziende pubbliche. La mia personale opinione, risultante dall'esame di casi analizzati, è leggermente diversa. Ritengo infatti che la supervisione esercitata dai privati è più efficace nei casi in 117
0
cui l'azienda in questione si trovi di fronte ad una forte concorrenza, ed altre imperfezioni del mercato riguardanti il prodotto ed i fattori produttivi siano relativamente poco importanti. Essa si basa sul dato empirico, frequentemente rilevato, per cui in tali casi le imprese private tendono ad operare a costi inferiori. Questa opinione, se implica che le carenze della supervisione pubblica sono, in prima approssimazione, significative, non è però sufficiente a legittimare, in ogni circostanza, una presunzione in favore della proprietà privata. I risultati di una indagine comparata in casi in cui le inefficienze nei mercati dei prodotti e dei fattori siano sostanziali sono molto meno chiari. Addirittura, in esempi come le forniture elettriche, essi tendono a conclusioni opposte, cioè sembrano evidenziare un migliore rendimento delle aziende pubbliche. Ne concludo che una valutazione globale sulla politica di privatizzazione deve necessariamente considerare fattori come il grado di concorrenza esistente nei mercati oggetto d'indagine e l'efficacia delle politiche regolatrici nel sopperire alle carenze del mercato, incluse quelle originate dal potere di monopolio.
PRIVATIZZAZIONE E CONCORRENZA
Gli schemi di incentivazione dei managers aziendali dipendono da numerosi fattori dei quali il regime di proprietà dell'impresa non è che uno. In questa sezione analizzo l'impatto della concorrenza nel mercato del prodotto sugli incentivi e valuto quelle vendite di attività, effettuate nel Regno Unito, i cui mercati possono essere considerati concorrenziali o «ragionevolmente» concorrenziali. La vendita di un'impresa pubblica ha, di per 118
sè, scarsi effetti immediati sulla struttura del mercato. La privatizzazione attraverso il «franchising» 5 o la concessione di beni o servizi, comunque, è differente sotto questo aspetto perché, ove comporti asta concorrenziale per il contratto, ha l'effetto di eliminare una barriera cruciale all'entrata. Analizzerò pertanto il ruolo del «franchising» più avanti. Mercati e informazione. Allorché cercano di allestire strutture di incentivazione alla gestione, sia gli azionisti sia i governi incontrano problemi derivanti dalla mancanza d'informazione. Entrambi non sono in grado di osservare direttamente l'apporto manageriale o le vere possibilità dell'azienda. Le indagini sul rendimento di aziende concorrenti entro lo stesso mercato o di aziende che operino in mercati simili forniscono, comunque, informazioni utili per l'elaborazione di programmi di incentivazione più efficienti (HOLMSTROM, 1982).
Ad esempio, consideriamo il problema di interpretare una statistica sull'andamento della società, come quella della redditività. Ogni anno, essa dipenderà dai livelli e dalla qualità degli apporti manageriali e da una serie di altri fattori che sfuggono al controllo gestionale. L'impossibilità di distinguere tra effetti ascrivibili agli amministratori e fattori esterni impedisce di ricompensare correttamente i primi. Supponiamo, comunque, di poter osservare la medesima statistica nel caso di aziende simili, nel senso che, a parità di apporti manageriali, gli indicatori di andamento sono correlati. Ad esempio, la redditività di imprese operanti sullo stesso mercato tende sempre a, cambiare nello stesso senso ove vi sia una brusca variazione di origine esogena della domanda. In tal caso, l'andamento di aziende «simili» è rivelatore
dei fattori esterni che influenzano l'andamento dell'impresa e, indirettamente, del contributo fornito dagli amministratori in carica. Ne segue che, collegando i compensi alle misure osservabili della prestazione relativa, i responsabili della supervisione potranno introdurre incentivi manageriali più efficaci. Va segnalato, tuttavia, che, la concorrenza tra le aziende non comporta necessariamente la possibilità di disporre di valide segnalazioni addizionali. Perturbamenti di ampia portata economica conducono a correlazioni fra l'andamento di differenti industrie. Analogamente, i risultati di monopoli localizzati in determinate aree regionali indipendenti, che producono le stesse merci, possono fornire valide informazioni sull'andamento delle varie gestioni (SHLEIFER, 1985). Comunque, ci si può attendere che la qualità dei segnali renderà ad essere migliore nei casi in cui molte aziende siano in diretta concorrenza. Concorrenza edincentivi. La concorrenza fra aziende, oltre a fornire informazioni ai responsabili della supervisione, serve anche a ridurre le difficoltà incontrate dalle aziende nel predisporre schemi di incentivazione. Ciò deriva dal fatto che la concorrenza stessa può essere vista come una forma di incentivo (HAYEK, 1945; HART, 1983). Date le probabili carenze nei meccanismi di controllo sia del settore pubblico sia di quello privato, questa proprietà d'incentivazione del mercato è della più grande importanza per l'efficienza economica. L'andamento di una data azienda dipende sia dalla gestione attuata dai managers di aziende rivali, sia da quella posta in essere dai propri managers. Pertanto, gli schemi di incentivazione collegati al profitto collegheranno automaticamente i compensi alla ge-
stione dei managers, tenendo però conto anche di quella dei concorrenti sul mercato. La concorrenza può condurre a incentivi alquanto efficaci perfino nel caso in cui i compensi non siano basati essenzialmente sul profitto. Le funzioni manageriali classiche includeranno di solito un certo numero di variabili che riflettono un particolare andamento gestionale relativamente ad altri agenti economici. Tali variabili comprendono la quota di mercato, il potere ed il prestigio delle imprese stesse. Ne deriva che, se un gruppo gestionale si impegna poco nella concorrenza per ridurre i costi, la sua quota di mercato, di potere e di prestigio (e di conseguenza l'efficacia manageriale) probabilmente ne soffrirebbe. Naturalmente, nel caso di aziende private, gli azionisti si trovano anche di fronte al problema di limitare l'appropriazione dei profitti da parte della gestione, ma ciò è pur sempre un compito meno difficile dell'esercizio di una supervisione minuziosa su tutte le decisioni e, sotto un profilo più ampio, è più una questione di distribuzione del reddito che di efficienza economica. «Franchising» e «contracting out». Ho tentato di mostrare il motivo per cui è presumibile che il grado di concorrenza esistente sul mercato dei prodotti influisca fortemente sulle strutture di incentivazione manageriali, e quindi sull'efficienza del sistema. È pertanto probabile che l'efficacia delle vendite di imprese sia dipendente dal grado di concorrenza, sebbene le vendite stesse possano non avere grande impatto su quest'ultimo. Di contro, ove la privatizzazione sia stata realizzata permettendo alle aziende di competere per il diritto di servire un mercato o fornire una merce già serviti/forniti da un organismo del settore pubblico protetto, la concorrenza viene aumentata immediatamente. 119
Il «franchising» ed il «contracting» sono attraenti opzioni nella scelta delle politiche da seguire proprio perché posseggono questa proprietà. Inoltre essi consentono di conciliare la concorrenza e la singola produzione aziendale: può infatti essere chiesto alle aziende di fare offerte per il diritto in esclusiva di fornitura di un dato bene economico e, per impedire che i prezzi vengano fissati in regime di monopolio, tale diritto può essere concesso all'azienda che offre le forniture al prezzo più basso (DEMSETZ, 1968). Il «franchising» offre quindi una possibile soluzione al problema del monopolio naturale. Occorre comunque sottolineare che la sostituzione di un'azienda pubblica con una privata non è l'aspetto più importante della politica di privatizzazione. Per esempio, dopo aver ricevuto un numero di offerte fra loro in concorrenza, un'autorità locale potrebbe decidere di fornire un servizio in modo più efficiente rispetto a concessionari privati esterni. Tuttavia, l'esistenza di un processo di gara d'appalto avrà fornito all'autorità informazioni circa i possibili costi di fornitura e creato incentiviper razionalizzare la struttura dei costi da parte degli addetti al settore pubblico. Il «fTnhiSi?Z,» e il «contracting out» sembrano essere efficaci soprattutto quando i problemi della specificazione e del rinnovo contrattuale sono piuttosto semplici. Sfortunatamente, per molti motivi, queste condizioni non verranno sempre soddisfatte (WILLLAMSON, 1976). Anzitutto, le merci e i servizi da fornire possono essere insieme con caratteristiche diverse. Nell'effettuare 1' aggiudicazione fra offerte rivali, le autorità possono sostituire le proprie preferenze a quelle degli utiizzatori finali (come è avvenuto per la concessione di alcune reti televisive negli USA). Inoltre, cosa ancora più importante, 120
la supervisione ed il rispetto dei termini del contratto possono risultare difficili. In secondo luogo, l'esistenza di «costi sommersi» 6 può dare ad una data azienda un vantaggio decisivo per la competizione per un contratto, tagliando fuori altre aziende e lasciando quella in causa in una situazione di monopolio incontestato. Alternativamente, ove un'impresa non riesca a recuperare i costi in caso di mancata aggiudicazione dell'appalto nel periodo successivo, si potrebbe giungere ad una situazione di sottoinvestimento. In terzo luogo, incertezze di mercato e tecnologiche possono far sì che contratti incompleti, consentendo adattamenti in relazione all'emergere di nuove circostanze, siano più efficaci di quelli completi. I primi, tuttavia, richiedono spesso una supervisione molto estesa e la loro amministrazione diviene allora semplicemente una particolare forma di regolamentazione. Pertanto, eccezion fatta per i casi semplici, il «franchising» non può essere considerato come un sostituto della regolamentazione ed il suo ruolo potenziale in industrie come quella delle telecomunicazioni, delle forniture di gas ed elettriche è alquanto limitato. 'D'altro lato, molte merci e servizi forniti attualmente dal settore pubblico soddisfano in effetti condizioni quali la semplicità, bassi costi sommersi e livelli relativamente bassi d'incertezza sul mercato. In presenza di tali condizioni, il «franchising» e il «contracting out» sono da ritenere scelte promettenti.
VALUTAZIONE
Sebbene le argomentazioni di cui sopra mostrino come la concorrenza possa avere effetti fortemente benefici, i risultati effettivi possono, tuttavia, essere insoddisfacenti per la
presenza di una o più fonti di insufficienze del meccanismo di mercato. Pertanto, nell'esaminare qui di seguito la politica di.privatizzazione nel Regno Unito, ho suddiviso i casi in base a un giudizio soggettivo sulla probabile importanza di tali carenze.
Casi in cui non si riscontrano signzjicative insufficienze nei meccanismi di mercato. Nel caso in cui la privatizzazione riguardi un'impresa che si trova già ad operare in mercati competitivi e non siano presenti significative insufficienze del mercato, una valutazione dell'andamento è, in via di principio, relativamente semplice.' I cambiamenti nell'efficienza interna di un'azienda sono i maggiori fattori di interesse e possono essere valutati esaminando gli indicatori dell'andamento finanziario, come le misure della redditività. Esempi inglesi in questa categoria comprendono la Cable and Wireless, Amersham, National Freight, Associated British Ports, International Aeradio, British Rails Hotels, Wytch Farm, Sealink eJaguar. Fra queste, solo la Amersham fornisce un esempio di una singola, completa vendita dell'intera partecipazione statale in un'impresa precedentemente indipendente, attuata mediante la creazione di una società quotata. La Jaguar (anch'essa un caso di vendita totale) era in precedenza parte della BL; la National Freight è stata venduta ad un sindacato di managers ed impiegati; la British Rail Hotels e Sealink erano parte della British Rail; il caso della Wytch Farm ha comportato la vendita della partecipazione al 50% della British Gas Corporation nel settore dell'estrazione del petrolio (essendo l'altro 50% detenuto dalla BP); e sia l'Associated British Ports sia la Cable and Wireless sono state vendute gradualmente, un metodo che tende ad
essere prescelto per le imprese di più vaste dimensioni, ritenendosi presumibilmente che una forte emissione di azioni potesse abbassarne il prezzo di mercato. Oltre alla difficoltà di elaborare plausibili alternative ipotetiche alla realtà degli eventi (cioè ipotesi sull'andamento dell'azienda nel caso che la privatizzazione non avesse avuto luogo), si incontrano tre difficoltà immediate nel cercare di valutare gli effetti della privatizzazione sul rendimento fmanziario di queste imprese. Anzitutto, è trascorso poco tempo dalla vendita di attività. Secondo, alcune delle imprese erano o parte di aziende più vaste in regime di proprietà pubblica e/o erano assorbire, al momento della vendita, in più grandi socità private, talché è difficile o addirittura impossibile evidenziare l'andamento per i periodi pre e post privatizzazione. In terzo luogo, a volte nel periodo precedente la privatizzazione si è ricorsi al «lavaggio» delle cifre, a ricostituzioni di capitali e pratiche simile, il che riduce la validità di un confronto delle statistiche del rendimento nei periodi pre e post vendita. Quei ste difficoltà dovrebbero essere tenute presenti nell'interpretare i dati della Tabella 3, che mostra il giro d'affari e la redditività delle cinque aziende per cui sono disponibili più facilmente i dati. Notiamo, per esempio, che, per l'Amersham, terminando l'esercizio finanziario in marzo, le cifre per il 1982 si riferiscono in gran parte ad un periodo in cui l'azienda faceva ancora parte del settore pubblico. Così il più vistoso aumento nel rapporto profitti/vendite di questa azienda si ha alla vigilia della privatizzazione.
121
Tabella 3 - Giro d'affari (GA) in termini reati (in milioni di sterline a prezzi 1980) e margine di profitto (PM) (%: 1981-85) 1981 Amersham
GA GA Ass. British Ports GA MP Cable and WirelessGA MP Jaguar GA MP National Freight GA MP .
43.3 9.5 114.7 -8.0 262.8 21.8 174.4 -16.2 391.4 2.3
1982
1983
1984
1985
51.5 14.1 125.3 3.6 289.5 25.4 251.5 3.1 379.7 2.1
61.4 15.0 121.5 9.4 317.3 38.9 371.8 10.6 388.1 2.3
65.7 15.6 103.4 -4.6 487.6 292 475.3 14.4 421.4 4.1
76.5 15.8 94.0 4.2 609.6 28.4 567.0 15.7 474.6 4.2
(I)
Le linee verticali sono tracciate in corrispondenza delle vendite iniziali delle azioni. I dati di profitto sono al lordo delle imposte (eccetto per il National Freight per il quale sono stati impiegati utili commerciali). > Tutti i dati relativi ai periodi contabili terminano negli anni solari indicati nella tabella 4. (4) Dati del 1985 per A»p, Jaguar e NE, ottenuti raddoppiando le cifre del primo semestre dell'esercizio finanziario. (2)
Lo stesso può dirsi per l'Associated British Ports e per laJaguar, sebbene il principale fattore, nel secondo caso, sia stato il deprezzamento della sterlina nei confronti del dollaro USA, essendo il Nord America il principale mercato di tale industria. Ai fini di un confronto, la Tabella 4 presenta analoghe statistiche per alcune aziende comprese nella definizione di «ragionevolmente competitive» rimaste nel settore pubblico e mostra inoltre il profitto pre-imposta di tutte le aziende commerciali e industriali (escludendo le compagnie della North Sea Oil) come percentuale del GPD 7 . La prima serie di dati mostra che sono stati realizzati miglioramenti, senza che avvenissero variazioni nel regime di proprietà, molto significativi per quel che riguarda il rendimento finanziario, mentre la seconda indica che, indipendentemente dalla privatizzazione, ci si sarebbe potuti attendere comunque qualche miglioramento nel rendimento, come risul122
tato della graduale espansione dell' attività economica dal 1981. Considerando le industrie nazionalizzate inglesi più in generale, si nota, in media, una tendenza verso un migliore rendimento finanziario durante gli ultimi tre o quattro anni. Questo fenomeno può spiegarsi, in certa misura, con la parziale ripresa economica, i più elevati prezzi delle industrie operanti in regime di monopolio (ad esempio quelle del gas e dell'elettricità) e con i menzionati aggiustamenti contabili, fatti in previsione di ulteriori vendite future (ad Cs. nel caso della British Airways). I migliòramenti non spiegabili con questi fattori sono stati interpretati in uno dei due seguenti modi: o possono a buon diritto essere ascritti alla privatizzazione dal momento che, senza la spiIta della vendita imminente, non sarebbero stati ottenuti; o, al contrario, essi indicano ciò che. si può ottenere con un semplice irrigidimento delle, costrizioni finanziarie poste dal gover'-
no alle proprie imprese, il che dimostrereb- ria per realizzare un miglior andamento delbe come la privatizzazione non sia necessa- l'azienda. Tabella 4 - Giro d'affari in termini reali (GA) (in milioni di sterline a prezzi 1980) e margine di profitto (PM) (%: 1981-84 1981
BL British Steel British Airways Rolis Royce National Bus Tutte le società indust. e comm. *
GA PM GA PM GA PM GA PM GA PM PM
1982
1983
1984
2,640 —23.1 1,842 —3.3 1,290 1.2 543 4.2
2,528 —4.1 2,834 —9.2 1,884 0.4 1,229 —6.1 547 5.9
2,692 —7.1 2,542 —12.6 1,965 8.2 1,047 —8.6 559 6.8
2,550 —8.6 2,502 —5.1 1,885 —11.7 1056 —4.5 565 6.1
7.4
8.0
8.8
10.4
2,564
0.1
Profitti pre-imposta come % del GDP, ad esclusione di quelli della North Sea Oil
-Io ritengo che entrambe le interretazioni siano un po' eccessive. Miglioramenti sostanziali del rendimento da parte di aziende non monopolistiche a proprietà pubblica si potevano raggiungere - e lo furono - semplicemente grazie ad una redistribuzione delle priorità del governo. Sono, comunque, scettico sui fatto che la pressione possa essere mantenuta a lungo e credo che l'obiettivo della privatizzazione abbia fornito al governo, nel breve periodo, maggiori incentivi per realizzare una supervisione più efficace. Ulteriori elementi per valutare gli effeti della privatizzazione possono trarsi dai movimenti nel prezzo delle azioni successivamente alla data di vendita (vedi Tabella 5), sebbene al riguardo sorgano di nuovo problemi interpretativi. Infatti, se gli operatori sul mercato prevedono in pieno i successivi cambiamenti, tutti i benefici della privatizzazione
saranno già riflessi nel prezzo d.i apertura. C'è anche chi sostiene che, essendosi assegnata agli investitori istituazionali una frazione delle azioni inferiore a quella necessaria a mantenere l'indice di mercato, i successivi acquisti da parte di questi ultimi (motivati dal desiderio di mantenere l'indice di mercato ed effettuati gradualmente per impedire un forte aumento delle quotazioni in un mercato ristretto) avrebbero provocato un graduale movimento ai rialzo dei prezzi. Ritengo tuttavia, nonostante le considerazioni di cui sopra, che i movimenti relativi del prezzo delle azioni forniscano pur sempre informazioni valide sulla privatizzazione. L'effetto di apprendimento è di un certo interesse: il fatto che i mercati sono ora più ottimisti sulle prospettive di profitto è una prova concreta in favore di questa parte del programma di privatizzazione. Anche l'argomentazione che 123
fa riferimento all'indice di mercato non è del
tutto convincente. Dato un periodo di entrate superiori alla norma, qualsiasi investitore istituzionale avrebbe fatto meglio acquistando più azioni ad una data anteriore. Tabella 5 - Variazioni di prezzo del/e azioni dalla data di emissione al 28 giugno 1985 in % rispetto ai va/ori medi dei settori di appartenenza Amersham Ass. British Ports Cable and W"ireless Jaguar
—16,5
(chimici)
+37,6
(industriali)
+ 112,4 + 13,0
(elettrici) (motori)
1/prezzo iniziale è i/prezzo di equilibrio raggiunto nel giorno di apertura delle negoziazioni. 1/confronto è fatto con gli indici del «Financial Times».
Nella Tabella 5 non figura la National Freight Corporation in quanto non è quotata in borsa. Gli azionisti possono acquistare azioni dalla società e venderle alla medesima ad un prezzo fissato dai contabili ad intervalli periodici, una procedura stabilita per tutelare l'interesse di controllo dei managers e di altri impiegati delle società. All'inizio del 1985, l'azione del valore nominale di una sterlina era aumentata fino a raggiungere 8,60 sterline, e nella primavera dello stesso anno vi è stata una ulteriore revisione verso l'alto (12,40 sterline). Pertanto il miglioramento più sensazionale ha riguardato la società le cui azioni erano le più gravate da restrizioni sulla trasferibilità, il che può indicare quanta efficacia possano avere gli schemi di partecipazione agli utili. Va anche ricordato che la National Freight ha reso molto poco al Tesoro nel senso di utile finanziario diretto (vedi Tabella 1). In quei 24
sto caso il governo era preparato a rinunziare ai proventi delle vendite per ristrutturare la società in modo da consentire al manager/lavoratore la rilevazione dell'impresa (un disavanzo negli schemi pensionistici fu colmato e vennero offerti crediti non vincolati a interesse contenuto per favorire gli acquisti azionari), e la decisione sembra aver dato buoni risultati sotto forma di accresciuta efficienza. In termini di rendimento finanziario, pertanto, i casi di successo di questa parte del programma di privatizzazione sembrano essere stati la National Freight Corporation e la Cable and Wireless, che hanno entrambe riportato sostanziali miglioramenti rispetto ai classici indicatori di riferimento. Per la Jaguar, i primi segni sono stati buoni, ma non si può dare un giudizio definitivo fino a quando non si saprà con più chiarezza come l'azienda abbia operato in un periodo di debolezza del dollaro USA. Negli altri due casi (della Amersham e della Associated British Ports) è più difficile dimostrare che la privatizzazione ha avuto effetti significativi sull'efficienza interna e per ora è bene limitarci ad un giudizio neutrale. Considerati nel complesso, questi primi risultati del programma britannico non inficiano la presunzione secondo cui, data una concorrenza ragionevole ed in assenza di sene carenze del mercato, sia in genere da preferirsi il regime di proprietà privata a quello di proprietà pubblica. Industrie controllate più diffusamente. Sia in regime pubblico che privato, industrie come quelle petrolifera, aerospaziale e del trasporto aereo sono di solito soggette ad un alto grado di intervento governativo, per cui non si può discutere il trasferimento di proprietà trascurando altri aspetti di politica industria-
le, ed anzi questi ultimi influiranno in modo determinante sull' andamento dell' industria in questione. Vendite di imprese riconducibili a questa categoria comprendono la Britoil, la Enterprise Oil e la British Aerospace. È opportuno esaminare in questa sede anche i progétti di privatizzazione della British Airways e della British Airport Authority, sebbene quest'ultima presenti alcune caratteristiche del monopolio naturale. Le argomentazioni in favore del regime di proprietà pubblica in queste industrie sono basate sul fatto che esso migliora l'efficacia della politica industriale. Per fare un esempio: il governo può tentare di realizzare dall'industria petrlifera off-shore il massimo gettito fiscale compatibile con il mantenimento di incentivi alla produzione e allo sfruttamento. In questo compito, il regime pubblico può essere di aiuto impedendo la collusione fra i produttori di petrolio. Analogamente, in campo aerospaziale il regime pubblico potrebbe essere considerato il mezzo più efficace per mantenere un'industria nazionale che soddisfi i requisiti di sicurezza, per ottenere l'informazione necessaria ad evitare pretese eccessive nei contratti per la difesa e per controllare le vendite di armi all'estero. Il problema principale è pertanto quello di chiarire se, pur disponendo di un facile accesso all'informazione, l'operato dei sorveguanti degli enti pubblici sia stato, e continuerà ad essere, tanto carente da indurre a ritenere che il passaggio ad un controllo esercitato dal mercato dei capitali produca vantaggi superiori alle possibili perdite derivanti dalla minore disponibilità di strumenti di politica industriale. Per svariati motivi, è difficile valutare il rendimento post-privatizzazione delle aziende
comprese in questa categoria. Primo, date le significative insufficienze del mercato, il rendimento finanziario non dovrebbe essere l'unico criterio di valutazione. Una maggiore enfasi sugli obiettivi di profitto può condurre ad uno sfruttamento più intenso del potere di mercato (nel caso dell'industria petrolifera ed aerospaziale) o ad un deterioramento dei livelli di sicurezza (linee aeree). La dimensione e la rilevanza di tali effetti devono pertanto essere considerate (parallela. mente ad eventuali miglioramenti dell'efficienza sotto il profilo dei costi) prima di formulare un giudizio conclusivo. In secondo luogo, le vendite fino ad ora avvenute sono poche e sono concentrate nell'industria petrolifera. In terzo luogo, l'Enterprise Oil è stata costituita utilizzando gli interessi petroliferi off-shore della BGc e pertanto non esisteva come entità indipendente prima della privatizzazione, mentre quasi il 50% delle azioni della Bp era in mani private prima dell'emissione azionaria del 1979. Così, perfino restringendo il campo di indagine al solo rendimento finanziario, le deduzioni che se ne possono trarre sono estremamente limitate. Le statistiche mostrate nelle Tabelle 6 e 7 non fanno pensare immediatamente a vistosi successi. Ma bisogna tener presente che i dati dell'industria petrolifera risentono pesantemente dell' eventuale andamento sfavorevole (nell'ottica di detta industria, beninteso) nel prezzo del petrolio; per di più è probabile che l'indice FT dei titoli petroliferi, che viene usato come parametro di riferimento dei prezzi delle azioni, non corregga con una ponderazione sufficiente questo fattore esterno nei casi della Britoil e della Entrerprise perché copre anche operazioni petroichimiche che risentono meno dei movimenti dei prezzi petroliferi. 125
Tabella 6 - Giro d'affari in termini reali (GA) (in milioni di sterline a prezzi 1980) e margine di profitto (PM) (%: 1981-84 1981
GA PM GA PM GA PM
BP
Britoil British Aerospace
23,000 9.4 744 52.5 1,485 4.2
1982 24,127 7.9 895 47.2 1,690 4.1
1983
1984
25,477 8.0 985 46.8 1,810
28,436 9.1 1,191 44.4
3.6
4.9
1,850
* Per l'elaborazione e presentazione delle cifre vale quanto detto a proposito della Tabella 4.
Tabella 7 - Variazioni di prezzo delle azioni dalla data di emissione al 28 giugno 1985 in % rispetto ai valori medi dei settori di appartenenza Aumento di prezzo (%) BP Britoil Enterprise Oil British Aerospace
rispetto a
(petrolio) 8,6 (petrolio) —30,9 —16,2(petrolio) -
—10,7
(industriali)
I dati più interessanti sono quelli che riguardano la British Aerospace. Nessun miglioramento significativo nel rendimento è visibile rispetto ai parametri della redditività di società industriali e commerciali globalmente considerate (vedi Tabella 4) o dell'andamento del prezzo delle azioni di società comprese nell'indice FT dei titoli industriali. Dato che gli eventuali miglioramenti dell'efficienza interna dovrebbero presumibilmente rispecchiarsi nel rendimento finanziario, i risultati offrono poco sostegno alla tesi secondo cui la privatizzazione ha dato un forte contributo agli obiettivi di politica microe126
conomica. È difficile rinunciare alla tentazione di concludere che le vendite delle imprese in questione siano state in gran parte motivate dalla loro rilevanza ai fini del perseguimento di obiettivi concernenti l'indebitamento del settore publico. Guardando al futuro, non sembra che vi siano buone prospettive di miglioramenti nella formulazione delle politiche di privatizzazione. -In Gran Bretagna, la regolamentazione delle linee aeree continuerà in aree di primaria importanza quali l'assegnazione dei percorsi, gli accordi internazionali sulle tariffe e i controlli di sicurezza e vi è il pericolo che la tentazione di ottenere più alti ricavi dalle vendite da parte di un'industria che goda di una posizione di mercato di maggior monopolio possa rallentare quel processo di deregolamentazione dei percorsi europei che è appena iniziato. Mentre si può sostenere che le operazioni della British Airways offrono un più ampio margine di miglioramento dell'efficienza interna rispetto, ad esempio, alla Bn tish Aerospace, non è affatto evidente che detto miglioramento non possa raggiungersi in un contesto di proprietà pubblica, come dimostrano i recenti miglioramenti nell'andamento finanziario (vedi Tabella 4).
Analogamente, c'è da dubitare dei vantaggi di una privatizzazione della British Airports Authority. Le attuali proposte prevedono una regolamentazione che impedisca lo sfruttamento del potere di mercato ed inoltre l'attività della società sarà fortemente influenzata dalle decisioni relative all'espansione e alla localizzazione delle strutture aeroportuali. La privatizzazione non permette di sfuggire ad un diffuso intervento governativo ed è perciò probabile che l'efficacia della regolamentazione rappresenti un fattore molto più significativo del regime di proprietà nel determinare l'andamento dell'impresa. Ancora una volta, sembra che la gestione sarà dominata dal desiderio di capitalizzare rendite future, connesse a vantaggi di localizzazione (Heatrow) e a concessioni di carattere fiscale (negozi in franchigia doganale), piuttosto che da considerazioni sulla efficacia economica. «Franchising» e «contracting out» Per il momento non è dato rilevare, nel Regno Unito, prove che dimostrino sistematicamente variazioni nell'efficienza economica derivanti dalla privatizzazione, realizzata mediante
l'una o l'altra di queste due formule. Come già notato in precedenza, queste formulesono state scelte soprattutto a livello di autorità locali ed i vari indicatori dell'andamento delle società non sono ancora stati centralizzati e confrontati. La letteratura economica che analizza più in generale i risultati conseguiti dalle imprese pubbliche rispetto a quelle private fornisce argomenti per sostenere che il ricorso a formule di «franchising» tende a migliorare l'efficienza dell'impresa nei casi in cui i problemi di definizione, di supervisione edi rinnovo dei contratti siano relativamente semplici. La raccolta dei rifiuti costituisce un buon esempio di questo tipo di servizio. Le ricerche empiriche su questa attività tendono a confermare che nel caso di gestione privata i costi unitari tendono ad essere inferiori (con un margine che giunge a volte fino al 30-40%) a quelli del settore pubblico (che di solito non devono affrontare 'una gara competitiva). Purché vi siano le giuste condizioni preliminari, questo metodo per attuare la privatizzazione sembra pertanto offrire effettivamente ampie possibilità per migliorare l'efficienza. (continua)
127
queste istituzioni Inverno 1986-87
Gli organismi di cultura hanno bisogno dei media? Come far conoscere al « grande pubblico » i risultati del pròprio lavoro? E' un problenia che non riguarda solò le aziende produttrici di « beni » commerciali, ma tocca anche i centri culturali, soprattutto quelli che svolgono attività di studio e di ricerca. Questo dossier è dedicato proprio al tema dei rapporti tra centri di ricerca e mezzi di informazione di massa. Raccoglie, infatti, alcune riflessioni nate nel corso di un incontro, svoltosi alla fine del 1986 presso la londazione 4driano Olivetti, tra rappresentanti di centri di ricerca e operatori dei mass media. Si intende così continuare ad approfondire lo studio dei rapporti tra sistema informativo, sistema politico, sistema culturale e società. L'incontro ricordato si proponeva l'obiettivo - per quanto remoto - di razionalizzare e ottimizzare le modalità di interazione tra le istituzioni della ricerca scientifica e gli apparati dei media. Ma alla fine più che formule risolutive - che del resto nessuno si aspettava in quella sede - la discussione ha partorito interrogativi: la questione è dunque aperta. In realtà, ci si chiede, è veramente utile e opportuno per i centri culturali « sfondare » suì mass media? E' veramente necessario ottenere l'attenzione dei media per raggiungere il « grande pubblico »? O non è, forse, meglio individuare e determinare nuovi circuiti di informazione più mirati e personalizzati? Ha senso, insomma, ricercare la massima divulgazione, in termini quantitativi, proprio in un periodo in cui sembra prevalere una tendenza all'a individualismo di massa » e si afferma un processo di « de-massificazione » che riguarda anche i media? Probabilmente la risposta - o le risposte - a questi interrogativi va cercata insieme alla soluzione di un altro « dilemma »: la definizione del nuovo ruolo che i centri di promozione culturale possono e devono svolgere sia all'interno della società sia nei rapporti con i mezzi d'informazione. 129
Due velocità. Informazione scientifica e cronaca di attualità di Giovanni Celsi
I rapporti tra centri di ricerca e mezzi di comunicazione di massa sembrano essere caratterizzati in Italia da due aspetti contraddittori. Da una parte, si lamenta la carenza nella stampa e nei mass media in genere di analisi e interpretazioni capaci non solo di inserire i fatti e gli eventi in un contesto più generale, ma, soprattutto, di fornire gli strumenti e i dati per una più consapevole valutazione delle « controversie » che essi comportano o evidenziano. Dall'altra, esiste un patrimonio di conoscenze, di studi, di analisi prodotto dai numerosi centri di ricerca impegnati nei vari settori della vita sociale, culturale ed economica, che resta in una zona d'ombra e del quale sono a conoscenza solo pochi esperti e addetti ai lavori. Insomma, come alcune ricerche sulla comunicazione politica hanno evidenziato, le interazioni tra sistema informativo e istituzioni scientifiche e para-scientifiche, sembrano improntate prevalentemente ad un clima caratterizzato da casualità, indifferenza e, a volte, perfino scetticismo ostile. I nuovi scenari dell'informazione. Il processo di trasformazione che ha interessato l'Italia negli ultimi trenta-quaranta
anni non poteva non riguardare il sistema informativo nel suo complesso: più che coinvolto, molto spesso, tale sistema è risultato protagonista, amplificatore e promotore dei cambiamenti stessi. Al pari dell'intero sistema sociale, anche il. sottosistema costituito dai mass-media è stato caratterizzato da un graduale ma rapido processo di complessi.ficazione, in corrispondenza con le trasformazioni nel costume, nella cultura, nei modelli di comportamento, nel gusto e nelle aspirazioni degli italiani. Anche in Italia, come negli altri paesi dell'area euro-americana, si è assistito - tra l'altro - ad una tendenza alla « complementarietà » dei vari mezzi di informazione in funzione del processo di « tematizzazione' », tale da determinare costruzioni della realtà che - senza entrare nel merito - risultano fortemente integrate ed unitarie: dalle notizie dei telegiornali fino ai servizi di attualità dei settimanali e mensili si produce una selezione e gerarchizzazione delle notizie di grado sempre maggiore. In alcune recenti ricerche sono state individuate due modalità prevalenti nella trattazione delle notizie e dei temi che darebbero luogo ad un « giornalismo di 131
•
cronaca », maggiormente dipendente dall'evento e dalle sue conseguenze, e ad un « giornalismo di attualità », più determinato da fattori soggettivi ed intenzionali. La controversia sul nucleare può essere presa come un caso esemplare per l'uno e per l'altro tipo di giornalismo. Il disastro di Chernobyl ha imposto all'opinione pubblica in tutta la sua drammaticità la problematica nucleare. Ma il tema è stato trattato quasi esclusivamente attraverso il « giornalismo di cronaca », a ridosso dell'evento e delle sue conseguenze: il grado di attenzione dei mass-media, infatti, è andato diminuendo di pari passo al ridursi della drammaticità dell'evento stesso e al dissolversi della cosiddetta « nube radioattiva ». Lo stesso tema è stato riproposto all'attenzione pubblica dai mass-media dopo qualche tempo, ma questa volta prevalentemente attraverso le modalità del « giornalismo di attualità »: le dichiarazioni di un noto esponente di un partito di governo, subito riportate da stampa, radio e televisione, hanno messo in evidenza le valenze « politiche » della controversia, in maniera relativamente indipendente da un fatto specifico. La rilevanza data al .tema deriva soprattutto da fattori soggettivi, di interpretazione e valutazione di quelle dichiarazioni e delle loro conseguenze. La controversia sul nucleare ha, così, messo in evidenza alcune caratteristiche del sistema informativo in generale e di quello italiano in particolare. Da una parte, ha portato più d'una conferma in ordine ai meccanismi che regolano la .« notiziabilità» degli eventi. Infatti, durante la prima fase - quella di Chernobyl 132
le modalità di esposizione e presentazione della controversia hanno evidenziato le regole che potremmo definire « classiche » del processo di trasformazione dei fatti in notizie: quelle basate sulla drammaticità dell'evento, sulla sua eccezionalità, sulla sua negatività, sulla sua vicinanza geografica o delle sue conseguenze etc. Ma, d'altra parte, già in questa fase si poteva notare un aspetto caratteristico del giornalismo italiano: l'eccesso di « parallelismo politico », che attribuisce un ruolo preminente al sistema politico. Infatti, la decisione dei partiti di rimandare di qualche mese la discussione sulla questione nucleare ha contribuito in modo determinante a distogliere l'attenzione dei mass media verso il tema. Il quale, invece, 'è tornato in tutta la sua attualità nella seconda fase quando, appunto, le dichiarazioni di alcuni noti uomini politici lo hanno intenzionalmente imposto alla discussione pubblica.
Il ruolo possibile dei centri di ricerca. Nella competizione per il controllo del processo di « tematizzazione » il sistema politico, dunque, sembra avere la meglio sul sistema informativo. In ogni caso, sia gli apparati politici sia quelli dei media svolgono un ruolo centrale e restano i soggetti privilegiati in questo processo. Poche altre agenzie, nel sistema italiano, sono in grado di imporre temi alla discussione pubblica. A differenza di quel che avviene in altri paesi, neanche l'insieme delle istituzioni della ricerca scientifica riesce a competere efficacemente con gli apparati dei media e quelli politici. Anche durante la controversia nucleare, le istituzioni della ricerca scientifica non
sono state soggetto di tematizzazione, ma sono state utilizzate come /onti, peraltro in modo non sempre adeguato e chiaro, tanto da far nascere più d'un dubbio: sull'attendibilità delle fonti stesse, ma anche sulla capacità degli informatori di professione di u tilizzarle con discernimento. In ogni caso, le istituzioni della ricerca hanno svolto un ruolo relativamente marginale e non sono state in grado di imporre il tema al di là degli interessi dei gruppi professionali e politici. Eppure, in teoria, le istituzioni della ricerca scientifica dovrebbero possedere tutti i requisiti di autorevolezza e competenza per determinare l'inserimento di temi importanti nell'« agenda politica » e contribuire in modo rilevante alla sua formazione. Se ciò in Italia non avviene, è solo per « colpa » dei meccanismi che regolano i mass media e i loro rapporti con il sistema politico? Si direbbe di no, anche se in gran parte l'attuale situazione ne è una conseguenza. In verità, anche i centri di ricerca, accademici e no, hanno le loro « colpe ». Probabilmente, ciò di cui più difetta l'insieme delle istituzioni della ricerca scientifica è la conoscenza, e quindi la capacità di utilizzazione, dei meccanismi che regolano il sistema dei mass media e l'accesso ai canali di comunicazione. I centri di ricerca non sembrano disporre né dei criteri argomentativi - in queto caso al pari dei mass media - né in questo caso a differenza del sistema politico-partitico - degli strumenti adeguati e dell'influenza necessaria per iscri-
vere un tema nell'« agenda politica » della collettività nazionale. Carenza di conoscenze e difficoltà di accesso ai media sono anche il retaggio di un atteggiamento ' di diffidente superiorità nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa che ha a lungo caratterizzato l'ambiente accademico e scientifico in Italia' (al pari di un atteggiamento di diffidente scetticismo nei confronti delle istituzioni accademico-scientifiche che ha a lungo caratterizzato i professionisti dell'informazione). Si è venuta così a determinare una situazione caratterizzata, da una parte, dalla scarsa attenzione della stampa e dei mass media in genere - i quali nell'attuale tendenza alla spettacolarizzazione dell'informazione sembrano essere poco attratti dallo stile di tutt'altro segno che contraddistingue la ricerca scientifica; dall'altra, dall'incapacità dei centri di ricerca di adeguarsi ai tempi e alle modalitì del sistema delle comunicazioni di massa. La questione, in ogni caso, non si risolve, cercando di spettacolarizzare - la ricerca scientifica - cosa del resto ardua, nonstante alcune originali iniziative - o irnprimendo all'attività dei centri una velocità tale da tener dietro ai ritmi frenetici della cronaca giornalistica. Né tempestando gli apparati dei media di comunicati stampa, o organizzando convegni, conferenze e dibattiti a ripetizione. Occorre, piuttosto, uno sforzo comune per realizzare una fattiva collaborazione tra centri di ricerca e apparati dei media che sia utile - oltre che reciprocamente - anche alla collettività nazionale.
1.33
scomparse e, comunque, non hanno più la stessa funzione; i centri di ricerca si sono 'moltiplicati e diversificati, molti di essi non sono più espressione di tensioni Giovanni Bechelloni conoscitive abbinate a quelle etico-politiche; l'Università si è aperta ai nuovi saIl tema dei rapporti tra centri di ricerca peri ed è diventata sede di un'attività di e stampa di attualità può essere meglio ricerca molto varia; le fonti ufficiali e i circoscritto se lo guardmo in una prodocumenti della Pubblica amministraziospettiva diacronica a partire dagli anni ne sono oggi più ricchi e consentireba cavallo tra i 'Cinquanta e i Sessanta: bero, se usati con sapienza, un giornaligli anni della gestazione del centro-sinismo informato; la stampa di attualità costra 'quando si costituirono i primi centri pre una gamma ben più vasta di temi di ricerca economico-sociale - regionali e nazionali - che univano alle motiva- e ospita interventi di studiosi, esperti e politici, anche su questioni tecniche un zioni conoscitive anche forti motivazioni tempo riservate esclusivamente agli adetico-politiche. Fra la stagione delle riviste politico-culturali' - da « Tempi mo- detti ai lavori. derni » a « Nord e Sud », da « Il Muli-. Oggi il tema non può più essere visto no » a «'Comunità», da « Passato e pre- solo in termini di rapporto tra società sente » a « Basilicata » - che coagula- civile e società politica. E tuttavia sarebbe riduttivo vederlo nei termini del derono le energie intellettuali liberatesi dai vincoli partitici e impossibilitate a trova- siderio dei centri di ricerca di ricevere dalla stampa di attualità una copertura re spazi in un mondo universitario anpiù sistematica e maggiormente attenta cora chiuso ai nuovi saperi o in un monai problemi di merito che non a quelli do giornalistico ancora fortemente supiù facilmente notiziabili secondo i dibalterno ai centri di potere politico ed scutibili, e ci si augura transeunti, criteri economico. della spettacolarizzazione. Le fonti ufficiali e i documenti della Pubblica amministraziòne erano allora pochi Chi guardi superficialmente 'alla nostra stampa, rispetto a quella americana o di e poveri di dati attendibili; i dibattiti tra i partiti erano altamente ideologizzati. altri paesi europei, potrà essere perfino stupito dalla copertura che ricevono i Centri di ricerca e 'riviste supplirono a convegni di studio », financo eccessiun'importante funzione: divennero fonti va. Osservando meglio, tuttavia, ci si ace canali di conoscenza sulla nuova socorge facilmente che non poche iniziacietà che andava emergendo e luogo di tive, apparentemente di studio e di riformazione di una piccola ma autorevole cerca, sono in realtà giocate in tutt'altra opinione pubblica. Il tema dei rapporti chiave servendo, perlopiù, per illumitra centri di ricerca e stampa di attualità nare di attenzione temi e personaggi che si declinava come un aspetto del rapporto tra società civile e società politica. hanno un'indubbia, e spesso strumentale, Da allora le cose sono cambiate non finalità politica. Accade così che la copoco. Le riviste di quel tipo sono quasi pertura informativa sia sistematica per
Il centro di ricerca. Un alleato prezioso del giornalista
134
quei centri di ricerca o per quelle iniziative che adottano le moderne tecniche di pubbliche relazioni per accendere l'attenzione dei mass media o si giovano della presenza e delle dichiarazioni di questo o quel « personaggio » politico in cerca di notorietà o già al centro di polemiche. Insomma accade per i centri di ricerca e i convegni quello che accade per le mostre e, le sponsorizzazioni e per molti altri temi di natura culturale: la moneta cattiva scaccia spesso la buona e si entra in un circolo vizioso che equipara i centri di ricerca e i loro prodotti a qualsiasi altro tipo di soggetto collettivo o di prodotto. Mi pare, allora, che il tema debba essere guardato da un altro punto di vista: quello dell'esistenza e della crescita di una opinione pubblica robusta e ben informata. Da questo punto di vista la stampa di attualità - che è uscita, per quanto riguarda il comparto dei quotidiani, dalla zona delle basse tirature, dei bilanci in rosso e dei bassi indici di lettura dovrebbe avere un interesse suo proprio a stabilire coi centri di ricerca un rapporto diverso da quello attuale. In altri termini, i centri di ricerca - e soprattutto quelli tra essi, come la Fondazione Adriano Olivetti, che hanno l'ambizione di coniugare, in un prodotto leggibile anche dai non esperti, le motivazioni conoscitive con quelle etico-politiche - dovrebbero essere gli al'eati più preziosi del giornalista che voglia essere autorevole e della stampa di attualità che voglia essere indipendente. Da questo punto di vista non si può non constatare uno spreco di risorse e di opportunità. Vi è una ricchezza di dati e di interpretazioni, che il giornalista non
è attrezzato per leggere, capire e tradurre in prodotto informativo. Le macchine redazionali, per gravi responsabilità degli edi,!ori, non sono ancora organizzate in modo da poter sfruttare la straordinaria ricchezza delle fonti, nazionali e internazionali, su una vasta gamma di temi e argomenti. Probabilmente sono maturi i tempi per proporre alla stampa di attualità in Italia un salto di qualità nel modo di organizzare il proprio rapporto con le fonti delle notizie. Per realizzare tale salto di qualità sono necessari investimenti selettivi e ben mirati in formazione e in organizzazione: investimenti sia dei singoli giornalisti sia delle macchine editoriali. Solo così si potrà realizzare quel circuito virtuoso e autorevole che colleghi centri di ricerca e giornali per produrre una informazione che sappia creare lo sfondo interpretativo adeguato alle dichiarazioni e alle prese di posizione dei politici o dei leaders.
Ma ai giornalisti tocca il «mea culpa» Tullio De Mauro Per molto tempo, in Italia, elementi di critica dell'informazione sono venuti dall'esterno o dai margini della professione. Certo, dall'interno sono venute indicazioni importanti >per un giornalismo critico, trasparente, responsabile: ricordo il manuale di Michele Rago, il dizionario di Mario Lenzi, le note e i suggerimenti di Sergio Lepri e collaboratori. Ma una 135
analisi della sistematica disattenzione per tali indicazioni nella pratica dominante del nostro giornalismo scritto e parlato è stata costruita un po' alla volta solo con l'apporto di persone estranee alla professione: come Mario Isnenghi, Marino Livolsi, Umberto Eco, Maurizio Dardano. Che il linguaggio dovesse essere trasparente e i riferimenti precisi e controllati, e che così non fosse nella pratica corrente; che le virgolette dovessero racchiudere l'esatto 'testo di frasi realmente dette e non fumetti di fantasia; che la espressione di opinioni dell'articolista o di personalità andassero precedute dalla esposizione dei fatti in discussione: queste e altrettante cose sono state dette e ridette, suscitando sdegno o irrisione o sussiegosi silenzi tra i membri del nostro giornalismo. Uno di costoro, passato poi a fare il deputato, Gian Luigi Melega, irritato da alcuni rilievi mossigli, sosteneva una dozzina d'anni fa che un giornalismo preciso, controllato, trasparente sarebbe stato noioso. Perché, con il recente avallo di uno scrittore piacevole e arguto come Nello Ajello, i nostri tetri giornalisti si sono allevati nella convinzione che il giornalismo come lo fanno loro, reticente, impreciso, fumettaro, sarebbe divertente. Tuttavia, da qualche anno, questa convinzione vacilla. E si vengono moltiplicando i casi di giornalisti pentiti, da Zatterin a 'Pansa, che divulgano senza pudore quei bassi livelli dell'informazione giornalistica italiana che inutilmente erano stati denunziati dall'esterno. Nell'incontro della Fondazione Adriano Olivetti le denunzie del direttore di un mensile specifico e autorevole come « Prima » 136
hanno superato per durezza le precedenti denunzie. Si potrebbe e vorrebbe sperare che l'evidenza dei fatti stia portando a riflettere almeno alcuni giornalisti. Mi riferisco in primo luogo all'impressionante staticità degli indici di vendita. A metà anni Cinquanta, le prime indagini di Luzzato Fegiz e della Doxa e quelle di Ignazio Weiss rivelarono che in Italia si vendeva mediamente una copia di quotidiano al giorno per ogni undici, dodici abitanti. Da allora nel paese tutto è cambiato, e profondamente: sono cresciuti gli indici di produttività, di reddito collettivo e individuale; è più che raddoppiata la scolarità media pro capite; sono più che raddoppiati gli indici di lettura di libri non scolastici. La società italiana si è venuta costruendo come una delle più avanzate società cosiddette dell'informazione, che fondano il loro reddito sulla manipolazione di informazione. Una cosa non è mutata: il vergognoso indice di vendita dei quotidiani, che continua ad aggirarsi intorno allo stesso rapporto di una copia ogni dieci, undici abitanti, contro indici della CEE di una copia ogni tre, due abitanti. Ho parlato di indice vergognoso. Qual. che giornalista comincia a chiedersi di chi è la vergogna. Della gente che rifiuta questi giornali o di chi questi giornali fa? Al terzo dei convegni sulla divulgazione e l'informazione promosso dalla benemerita rivista « Selezione del Reader's Digest » Sergio Lepri ha portato dati interessanti da cui risulta che in generale quotidiani, radio e telegiornali utilizzano da meno di un quinto a meno di un quindicesimo il flusso quotidiano di notizie fornite dall'ANsA. E i meccanismi
di controllo delle informazioni possibili attraverso l'archivio automatizzato dell'ANsA stessa sono sfruttati da enti pubblici, da grandi imprese e soltanto per meno d'un ventesimo dal complesso delle nostre testate giornalistiche e radiotelevisive I nostri giornali sono poveri di contenuto informativo e i contenuti dati sono privi di supporto di controllo. A ciò si cerca di sopperire con la sovrabbondanza dei commenti, con le interviste, con le notizie personalizzate e gasate. Ma la gente si annoia. Forse per la prima volta nel paese si sta aprendo uno spazio per un giornalismo di informazione preciso, trasparente, controllato. Molte occasioni sono state perdute, in anni recenti. Un passo importante potrebbe essere lo sviluppo d'un lavoro sistematico di analisi critica dell'informazione corrente. Le forze intellettuali per un'analisi del genere forse non mancano, ma è difficile che esse riescano a coagularsi entrando in rotta di collisione con la potente e multiforme corporazione dei giornalisti e con gli svariati e ancor più potenti interessi di cui essa si è messa e sta al servizio.
Dopo l'autocritica, anche la mediazione Gianni Faustini Quando si affranta il tema dell'informazione scientifica bisogna distinguere fra un'informazione come servizio che metta il cittadino lettore in condizione 'di giu-
dicare alcune scelte di fondo, nell'interesse generale; un'informazione bidirezionale fra organi e centri di ricerca e stampa, tesa anche a superare persistenti fenomeni di incomunicabilità; un'attività divulgativa, diretta ad aumentare le conoscenze. Pur condividendo motivi di una serrata autocritica, richiamo alcuni dati che indicano come il sistema si stia muovendo: il fenomeno Piero Angela, con la serie di imitatori ad alto livello; l'evoluzione dei settimanali che dedicano larghi spazi a scienza, cultura e società; la pubblicazione da parte dei quotidiani di. dossier o pagine scientifiche. Per compiere un ulteriore salto di qualità necessitano tuttavia più affinati strumenti di formazione culturale e professionale del giornalista, di aggiornamento del giornalista specializzato. A questo scopo non è pensabile che sia la sola categoria dei giornalisti chiamata a produrre un così rilevante sforzo. Deve essere la Università ad affiancare le organizzazioni giornalistiche, ma possono essere anche motivazioni etico-politiche (e questo potrebbe valere da subito per seminari, corsi di aggiornamento). Una certa incomunicabilità tra centri di ricerca e mondo dell'informazione va addebitata alla carenza di strumenti di mediazione. Non è pensabile che grossi centri non dedichino parte degli investimenti e delle risorse umane ad un ufficio stampa, ad un servizio di relazioni esterne. Su questa strada del resto già si muovono il CENSIS, l'IsTAT, alcune grosse case editrici specializzate. La mediazione non è negativa'o positiva, è una strada obbligata. Nel bene e nel male l'innovazione scien137
tifica e tecnologica deve porre contestualmente anche il problema di un'informazione ampia e corretta sugli sviluppi delle loro applicazioni, per consentire alla opinione pubblica una partecipazione ragionata alle decisioni. Se questo non avviene, non serve ta,nto demonizzare da un lato i giornalisti e dell'altro accusare i centri di ricerca di insensibilità alla mediazione, di arroccamento nella torre d'avorio. Serve individuare assieme forme di rapporti bidirezionali. Oltre tutto la domanda di scienza e di cultura da parte dei lettori appare in crescita, come documentano i successi di ta• lune iniziative di programmi televisivi ed editoriali. Ogni forma di comunicazione passa tuttavia attraverso strumenti differenziati. Giocoforza i centri di ricerca dovranno rassegnarsi a fare i conti con la tendenza della stampa a spettacolizzare e a personalizzare. Faccio l'esempio di Cari Schmitt. Se ne è parlato sulla stampa in forma divulgativa solo perché una citazione dello studioso • tedesco - che era nell'agenda degli studi specialistici già ai tempi del fascismo tornava utile durante il dibattito e la polemica sul decisionismo di Craxi. Se questa era l'occasione, non c'è dubbio che gli articoli che ne sono seguiti hanno consentito comunque di valorizzare l'opera degli storici del diritto che si erano dedicati a Schmitt, da Delio Cantimori a Pierangelo Schiera. Potrei fare un altro esempio. Io lavoro ad un Istituto di cultura, l'Istituio trentino di cultura. Orbene, se l'ITc organizza un seminario di studi, con qualificatissima partecipazione, sùlla visione della •
138
spiritualità medievale in Italia e in Germania, durante la seconda metà dell'Ottocento, o si individua una chiave di divulgazione del tema o si ottiene un silenzio appena cortese da parte degli organi di informazione. Dico, cioè, che i centri di ricerca debbono entrare nell'ordine di idee di sfruttare modalità e tecniche della comunicazione per poter trovare ascolto. Questo non toglie evidentemente che ai giornalisti spetti 'dedicare maggiore attenzione a quello che si usa dire « giornalismo di precisione », ad un giornalismo più affinato, più specializzato, più rispettoso, in poche parole, della, complessità della ricerca e dell'impegno dei centri di alta ricerca.
E il 1etore? Un grande assente Sergio Lepri
Anche in questo seminario corriamo il rischio di parlare soltanto di due dei tre' protagonisti del processo dell'informazione: dell'emissione del messaggio ossia, nel nostro caso, delle istituzioni della ricerca scientifica e del loro possesso di un patrimonio di studi e di analisi che resta a conoscenza solo di pochi esperti; e del mediatore del messaggio ossia della stampa, che racconta i fatti, ma non fornisce spesso gli elementi per una loro più consapevole valutazione. Perché dirnenticarci ancora una volta del fruitore del messaggio ossia del lettore o, meglio, del cittadino-lettore, senza il quale il mes-
saggio 'è un messaggio non fruito cioè tin messaggio inesistente?. L'èsclusione del lettore, cioè del cittadino, da protagonista del processo dell'informazione è in realtà la causa di molti guai del giornalismo italiano, fra cui quelli di cui si occupa questo seminario: il lettore viene ignorato come istituzionale destinatario del messaggio informativo oppure è visto come un lettore-tipo, come lo stereotipo di un lettore inesistente nella realtà. Per sapere chi è e che cosa vuole il lettore - non inteso come mezzo ma come fine del messaggio,, cioè come lettorepersona - si deve ricorrere, in mancanza di adeguate analisi da parte di giornali, giornalisti, organi di categoria, alle indagini dei sociologi. Un'indagine del CENSIS condotta nel 1983 sui bisogni informativi degli italiani mette al primo posto , la salute, la scuola, la cultura, la formazione; il 91 per cento contro il 49 per cento della politica. Questi risultati investono il ruolo che gli strumenti della comunicazione possono esercitare sulle tematiche degli interventi sociali e ribaltano la tesi tradizionale secondo cui informazione 'è soltanto la novità, la devianza, l'infrazione della norma. Informazione, invece, è anche la continuità; e giornalismo è anche un flusso di informazioni concrete, precise, utilizzabili quotidianamente in ragione delle esigenze vitali degli individui. L'esclusione del lettore da protagonista del processo dell'informazione è anche la conseguenza fatale di un'editoria giornalistica che in Italia ha sempre stentato a presentarsi come un'industria e-
guale alle altre, consapevole delle leggi del mercato e indirizzata quindi a interpretare le esigenze del cliente per offrire ad esso un prodotto idoneo a soddisfarne gusti e interessi. Agli inizi degli anni Ottanta la stampa quotidiana si è accorta finalmente che, per risolvere le proprie difficoltà economiche e per riacquistare autonomia, doveva cominciare a occuparsi del proprio pubblico, cercando di comprenderne le esigenze e adattando ad esse i contenuti, l'impostazione redazionale, la veste grafica; accettando cioè, al posto di una logica politica, una logica di mercato, orientata non ad ottenere profitti ideologici, ma ad accrescere il mercato della lettura e le entrate pubblicitarie. I media sono rimasti tuttavia sempre dentro al giuoco del potere; e - cosa ancora più grave - ci sono, rimasti i giornalisti, convinii così di essere essi 'stessi un potere. E molti giornalisti continuano perciò a sentirsi non testimoni ma protagonisti, non osservatori ma facitori di realtà; e le notizie, invece di essere un veicolo di apprendimento e di arricchimento culturale, diventano , una merce che, giocando sulle passioni, le curiosità e le emozioni, concorre alla formazione di un immaginario collettivo, che si sovrappone alla realtà, apparendo più vero della verità. Non dobbiamo meravigliarci, allora, se le istituzioni della ricerca scientifica sono utilizzate soltanto come fonti e non come soggetto di tematizzazione. L'esempio di Chernobyl, fatto dall'amico Gelsi, è indicativo: se ne parla finché l'evento è drammatico, eccezionale, negativo; poi silenzio; e poi se ne riparla 139
ancora, ma solo come spunto di polemica politica. L'aumento delle informazioni disponibili non ci dà, dunque, nessuna garanzia sull'aumento dell'informazione effettiva. Da un lato troviamo un'offerta di informazione che rimane in gran parte mutilizzata; dall'altra una domanda di informazione che rimane in gran parte insoddisfatta. Il rischio forte è che questa così chiamata « società dell'informazione » diventi una società, della disinformazione e dell'ignoranza. E allora? Questo seminario non deve soltanto verificare una diagnosi, ma azzardare qualche terapia. Terapie non ne vedo; al massimo, qualche suggerimento: - che il sistema delle istituzioni - e quindi anche di quelle della ricerca scientifica - percepisca i veri bisogni dei cittadini e consideri la stampa come canale informativo e non come uno strumento di supporto; - che le notizie cerchino i giornalisti, se i giornalisti non cercano le notizie; - che l'informazione tenga conto del pubblico al quale si dirige (il suo grado di istruzione, il suo livello informativo) e delle caratteristiche del mezzo tecnico usato come medium. Non esiste un unico codice di trattamento concettuale e linguistico dell'informazione; esistono codici diversi, secondo le diverse tecniche di mediazione. A noi giornalisti il solito consiglio: che il giornalismo sia inteso non come un potere, ma come un servizio, da rendere, con umiltà, al cittadino.
1. 40
«Scoop», specchio di tante brame Paolo Leon
Il tema del rapporto tra centri di ricerca e stampa d'attualità va visto anche all'inverso: ovvero come si rapportano i centri di ricerca ai grandi mass-media. I comportamenti sono diversificati, ma si possono raggruppare in due schemi: il centro di ricerca che sfrutta i massmedia per creare o potenziare la propria immagine. La ricerca, in questo caso, ha come obiettivo quello di colpire la fantasia dell'utente finale dei mass-media, non di interpretare - il più fedelmente possibile - un fenomeno. Poiché la domanda di « scoop » dei massmedia è alta e crescente - quanto meno nell'attuale situazione della cultura dominante - l'intreccio tra domanda e offerta di ricerca per « scoop » crea un vero e proprio mercato. Che si tratti di ricerca in senso proprio è dubbio: soprattutto perché gran parte dei risultati non sono - alla Popper - falsificabili. Allo stesso tempo, i mass-media impara no a trattare la ricerca più come un bene di consumo che di investimento, confermando a se stessi la validità della strategia di « scoop »; il centro di ricerca che rifugge dai mass-media, perché ne teme le semplificazioni e le strumentalizzazioni esagerate, o l'influenza sulle proprie strategie di ricerca. Talvolta questo timore , rende il centro di ricerca poco legato alla realtà, e l'indipendenza dai mass-media può ge- nerare dipendenza da enti o istituzioni pubbliche, che finanziano la ricerca o per
obbligo istituzionale o per vicinanza ideologica-politica. Poiché la committenza dei centri di ricerca, al di fuori dei mass-media, è peraltro la più varia, i possibili danni del rifiuto dei mass-media sono.in genere minori dei vantaggi. La maggioranza dei centri di ricerca (econòmici, sociali, giuridici, storici, ecc.) è più orientata al secondo che al primo comportamento » il che genera una chiusura reciproca tra il mondo della ricerca e quello dei mass-media. Si crea, così, un problema serio soprattutto per i mass-media, che in queste circostanze pensano di poter offrire ai ricercatori in cambio delle loro individuali conoscenze l'immagine che sono capaci di fornire. Questo ulteriore comportamento, che tende a scardinare il rapporto tra ricercatore e centro di ricerca, finisce per allontanare ancora i due mondi. Il problema non si risolve con reciproche denunce, ma con l'individuazione di una deontologia: questa si è formata (sia pure molto imperfettamente) nei rapporti tra mass-media e politica, pubblicità » industria, non c'è nel rapporto con la ricerca. Il caso classico è quello dei giornali e della TV che non prevedono ricerca (se non nell'ambito dello « scoop ») né formazione, come parte ordinaria dei propri budgets. E' vero che la ricerca, con la sua intrinseca tensione verso un risultato scientifico, consente meno di altre attività la manipolazione della notizia. In campo economico, benché i mass-media abbiano migliorato in misura davvero gigantesca la propria informazione, e si sia formato un corpo di redattori competenti a livello europeo, è evidente la rincorsa verso legittimità da demi-monde
e il non cale della ricerca davvero originale o fondativa. Tutta la stampa econo mica ha sposato il liberismo dei monetaristi, durante gli ultimi 5-10 anni, ma non ha mai spiegato cosa siano le « aspettative razionali » o il « teorema' di Ricardo » nella finanza pubblica. Nel campo recente delle « scalate », il giornalismo italiano è caduto nelle trappole tese da Felix Krull, dimenticando i paradossi di questo scabroso concetto: quale è quello » tanto per fare un esempio, delle scalate per acquisire aziende in perdita, così da ridurre l'imposta dovuta sugli utili dell'azienda che compra. Alla lunga, penso che una deontologia possa formarsi, ma sta anche ai centri di ricerca contribuire a ciò, evitando superficiali corteggiamenti ai mass-media.
Per favore non sparate sulla cronaca Fabio .Scandone
La prossima frontiera del quotidiano in forma di settimanale scongiurerà la crisi dell'« uomo tipografico »? Quest'interrogativo, che riconduce in parte all'acuto editoriale d'apertura di. Sergio Ristuccia sul numero autunno-inverno 1986 di « Queste Istituzioni », è solo apparentemente lontano dal tema del difficile rapporto tra centri di ricerca e stampa d'attualità. Richiamandosi ad un recente saggio di Neil Postman sul primato del medium televisivo e sui suoi effetti corrosivi sul pubblico dei lettori, Ristuccia 1.41
delinea lucidajnente i percorsi della marginalità crescente dei media a stampa, parlando a ragione del « cammino stretto dell'uomo tipografico »: e tanto maggiore appare il rilievo di questa osservazione, se si considera che alla attuale marginalità della « galassia Gutemberg» sembra far riscontro una seconda zona d'ombra, parimenti decisiva, anche se meno esibita nelle analisi sui media: quella che oppone centri di ricerca e sistema dell'informazione in un clima di mutua diffidenza. Si tratta di umn'area cruciale che, sebbene tra le meno frequentate in sede di ricerche empiriche e dibattito teorico, rischia di tradursi in forme di « disinformazione latente »: ovvero in termini di imprecisione, scarsa conoscenza delle fonti e sostanziale assenza di chiarezza informativa per il lettore. Tutto ciò in conseguenza di un utilizzo appena saltuario da parte degli operatori dei media del rilevante insieme di conoscenze e di dati forniti da centri di ricerca, pubblici e privati, enti e fondazioni. Quest'aspetto, sicuramente centrale, non appare però in grado di esaurire il complesso ventaglio di fattori che concorrono a determinare la marginalità dei centri di ricerca nella costruzione dell'agenda-setting quotidiana di notizie. Ciò che infatti colpisce l'osservatore esterno alla professione giornalistica, così come dello stesso operatore dei media e del ricercatore universitario, non è tanto l'assenza in assoluto dei centri di ricerca nei circuiti della notiziabilità, quanto invece una loro presenza limitata allo stadio temporaneo dell'eventum in chiave di cronaca: ad avere accesso all'informazione sembra destinato in altri termini il 142
dato sensazionale, quello che trasforma il fatto in « fatto-notizia » che fa «scoop», a discapito della ricerca dei rapporti di causa ed effetto tra gli eventi. Di qui, forse, la percezione che stampa e centri di ricerca si muovano a due differenti velocità: eppure questo quadro, che delinea un bilancio poco generoso verso la professionalità giornalistica in Italia, dovrebbe imporre qualche riflessione, anche al di là del legittimo auspicio di un giornalismo di precisione o di qualità, e di una necessaria riformulazione sia della formazione professionale del giornalista, sia degli accessi alla professione, proposto dalla più avanzata ricerca scientifica universitaria sui media. In particolare, non dovrebbe sfuggire ai più sensibili esperti sull'organizzazione del lavoro giornalistico un duplice fondamentale versante di condizioni oggettive: anzitutto, il quotidiano rappresenta un prodotto di mercato, e che in termini di costi-benefici-introiti pubblicitari il rapporto tirature-vendite risulta primario vincolando in termini di concorrenzialità, e dunque di velocità, il giornalista alla ricerca della notizia secondo direttive che travalicano le macroregole implicite della professione. In secondo luogo, l'esiguità di tempi a disposizione del cronista nel giornale quotidiano è spesso appena sufficiente ad una verifica delle fonti, ancorando dunque le cosiddette routines redazionali a velocità elevatissime. A quale livello, allora, e soprattutto per quali figure professionali si può ancora legittimamente parlare di una ideologia della notizia, e non invece di una necessità primaria? D'altro canto, esercitare una critica sul modello di giornalismo italiano, come a ragione i mass-rnediologi fan-
no, auspicando una diversa formazione professionale degli addetti, significa proporre un obiettivo rilevante e per il quale occorre il massimo impegno, ma che configurerà in ognuno - un idealtipo destinato a confrontarsi con il nodo irriducibile della rilevanza informativa e della concorrenza. E non si tratta qui di una difesa strenua dello status quo della professione giornalistica dal punto di vista di un addetto al lavori (con buona pace del suo consistente background universitario proprio in campo di ricerche sui media), ma di uno sforzo di consapevolezza: nel sottrarre alle lusinghe di un raffinato paradigma esclusivamente teorico anche l'occasione propizia di un dibattito scaturito dal seminario della Fondazione Adriano Olivetti sui rapporti tra centri di ricerca e sistema dell'informazione, col rischio di sancire in prima persona quella distanza tra giornalisti, massmediologi ed operatori culturali che l'incontro promosso dalla Fondazione avrebbe voluto attenuare. Sotto il profilo della cronaca in seno ai giornali quotidiani, pur con tutte le carenze qualitative evidenziate dal giornalismo medio italiano, sembra quindi che le velocità siano necessarianiente destinate a rimanere due. 'Senza contare che il dato della distanza comunicativa tra stili di discorso scientifico e linguaggi della divulgazione, opera come potente vettore di divaricazione, moltiplicando ulteriormente le differenze fino alla rotta di collisione. Al fatidico « che f are» a fronte di una situazione prossima allo stallo possono tuttavia intervenire alcune osservazioni. La prima in forma di domanda: perché la cronaca? Da parte dei centri di ricerca l'obiettio della
semplice copertura stampa di manifestazioni e convegni pubblici equivarrebbe solo ad una reduclio ad unuin delle due velocità. Uniformandosj su un modello di cronaca dominata dal duplice eccesso di protagonismo e di parallelismo politico, l'eventuale maggiore presenza nominale dei centri di ricerca non apparirebbe in grado di evitare la loro sostanziale marginalità nei processi costitutivi del far notizia; la segmentazione per target di fasce di pubblico e consumi nell'area dei media a stampa consente invece di individuare nel giornalismo di inchiesta un diverso interlocutore, capace di assicurare spazi e modalità di accesso all'informazione assai più qualificati dell'ambito improprio e al tempo stesso generico della cronaca dell' eventum. Sono allora gli inserti e le pagine speciali, ormai diffusi nella maggioranza dei quotidiani a stampa in Italia, a configurare un orizzonte aperto a nuove modalità di discorso informativo. Dunque, la progressiva settimanalizzazione dei quotidiani appare pii funzionale all'ipotesi di una reale trasformazione dei
centri di ricerca da /onte secondaria a soggetti attivi dell'informazione, nella necessaria integrazione sia delle specificità del discorso scientifico, sia degli stili comunicativi aperti al pubblico dei lettori e svincolati dai linguaggi d'ambiente. E proprio a questa esigenza di una corretta divulgazione scientifica si connette, d'altra parte, la scomrtiessa di un giornalismo di precisione non necessariamente delegato in Italia all'area dei periodici: r-iscontrando anzi nella formula settimanale assunta da alcuni settori dei quotidiani una velocità più a misura' dei centri di ricerca, in grado di rilanciarne la 143
centralità in termini di conoscenze e di dati indispensabili per una corretta informazione d'opinione. Che è poi anche il primo passo, forse un po' meno teorico, verso quel giornalismo di qualità necessario a riscattare « l'uomo tipografiCO » dalle angustie di una informazione a pioggia e dalla perdita di significato della scrittura. A cominciare, perché no, proprio da quella giornalistica.
Chi ha paura delle pubbliche relazioni? Federico Spantigati
Delle notazioni contenute nella relazione introduttiva, sottolineo non tanto quella che la tendenza alla spettacolarizzazione sui, mass media trova scarsa • rispondenza negli ambienti della ricerca (da una parte anche la ricerca talvolta cerca lo show) dall'altra lo spettacolo non è informazione, in terzo luogo su ciò poco si può influire in tempi brevi), quanto la notazione che gli ambienti della ricerca sono incapaci di adeguarsi alle esigenze dei mass media. Ad esempio: sui moduli del « 60% » distribuiti dall'Università La Sapienza per le richieste di finanziamento di ricerche c'è scritto quanto si chiede per ciclostilare le relazioni, non è previsto che si chieda una parte dello stanziamento per l'attjvità di comunicazione dei risultati della ricerca. A mio giudizio, dovrebbe accadere l'opposto: che l'Università non approva richieste di finanziamento se es: 144
se non includono un congruo progetto di spesa (30% del totale, suggerirei) per l'attività di comunicazione Con questo esempio prendo posizione sull'argomento che discutiamo e affermo che il problema non sono i giornalisti, né gli editori, né i direttori dei giornali: il problema è chi fa ricerca, che non si rende conto (è magari un ottimo specialista del suo campo, ma è un cittadino che vive fuori del tempo, o vorrebbe vivere prima del 1960) che, se fa ricerca, deve pagare un tecnico di relazioni pubbliche per fare comunicazione per la ricerca. E deve pagano bene, perché il mercato è, oggi, concorrenziale. Questo suggerimento vale, oltre che per rispondere alla domanda « come si fa a far uscire sui massa media risultati e problemi della ricerca? » anche per rispondere all'altra domanda, più impegnativa: « come può la ricerca influire sulle decisioni? ». A proposito di questa seconda domanda è da notare che per influire sulle decisioni non sempre è necessario, e talvolta non è opportuno, far apparire il dibattito sui mass media. Anche qui, è da sprovveduti ritenere valida l'equazione « pressione dei massa media - decisione ». Il tecnico di relazioni pubbliche ha l'esperienza professionale per valutare quando, volendo ottenere una decisione, è tecnicamente opportuno servirsi come strumento dei mass media e quando no. E' stato detto prima: « le notizie vanno in cerca di giornalisti ». E' perfettamente vero, c'è da aggiungere che non sanno andarci da sole, occorre qualcuno (non ricercatore, ma tecnico della comunicazione) che le accompagni nella ricerca dei giornalisti.
E' stato detto da Bechellorii: « più uno vale, meno lo citano ». La qualità del messaggio (quel quid, che fa sì che il messaggio venga citàto) infatti non è intrinseca, ma relazionale; è qualità di interesse del messaggio per chi lo riceve. Per cui la frase di Bechelloni va completata: « più uno vale, meno lo capiscono, quindi meno lo citano ». Più uno vale, più ha bisogno (anche se è docente universitario di comunicazione) di un tecnico professionista di relazioni pubbliche. E' stato detto: « molte ricerche si fanno per relazioni pubbliche ». E' un fatto, e mi sembra confermi il mio ragionamento: o si usano le relazioni pubbliche per fare ricerca (farla conoscere, farla influire sulle decisioni), oppure sono le relazioni pubbliche che su bordinano a sè la ricerca. Una ricerca che si disinteressa della comunicazione di sè non è possibile. Simpatizzo con il progetto « informazione critica sullo stato dell'informazione »
che ha esposto De Mauro, ma penso che sia meno costoso (non tanto in termini di denaro, quanto in termini di tempo) e più efficace un progetto in positivo: far lavorare i tecnici di relazioni pubbliche sulla comunicazione della ricerca. In conclusione, sono d'accordo con Ca. ravita e Faustini che si può far credito ai giornalisti, puntare sulla loro professionalità specifica, mirare ad avere giornalisti un minimo specializzati. E' nell'interesse sia di chi fa ricerca, o di alcuni che fanno ricerca, sia dei giornalisti, o di una parte di essi. Ma il- tramite per questa operazione non può essere altri che chi conosce da una parte le strutture dei mass media, dall'altra le soggettività diverse e specifiche dei giornalisti, ed è quindi in grado di evitare quanto lamentavano Bechelloni, De Mauro, Leon. Non il giornalista o l'editore è la chiave del problema, ma il tecnico di relazioni pubbliche.
145
J
Librerie presso le quali è in vendita la rivista
Ancona
Lucca
Ravenna
Libreria Fagnani Ideale
Centro di Documentazione
Cooperativa Libraria Rinascita
S. Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno)
Massa
Cervia (Ravenna)
Libreria Vortus
Edicola del Corso
Libreria Multieditoriale Avellino
Libreria Petrozziello Bari
Libreria di Cultura Popolare Libreria Laterza e Laviosa Bergamo
Libreria Rinascita Bologna
Libreria Feltrinelli Catania
Libreria La Cultura Libreria ESSEGICI Chieti
Libreria De Luca Cuneo
Libreria Moderna Firenze
Libreria Alfani Libreria Athcna Feltrinelli Libreria Feltrinelli Libreria Marzocco Libreria Rinascita
Milano
Urbino
CELUC Cooperativa Libraria Popolare Libreria Feltrinelli Europa Libreria •Feltrinelli Manzoni
Libraria La Goliardica
Napoli
Libreria Editrice Universitas Libreria A. Guida. Libreria M. Guida Libreria Marotta Libreria Int.le Treves Padova
Libreria Feltrinelli Palermo
Roma
Libreria Feltrinelli (V. Babuino) Libreria Feltrinelli (ViE. Orlando) Libreria GE.PA . 82 Libreria Mondoperaio Libreria Paesi Nuovi Libreria Rinascita Sassari
Libreria PirolaMaggioli Libreria Universitaria Venditti Avola (Siracusa)
Libreria Edit. Urso
Libreria Dante Libreria Feltrinelli Libreria Flaccovio
Torino
Parma
Trapani
Libreria Feltrinelli
Libreria De Gregorio
Campus Libri Libreria Feltrinelli
Pavia
Conegliano (Treviso)
Libreria L'Incontro
Cartolibreria Canova
Urbino (Pesaro)
Trieste
Libreria « La Goliardica »
Libreria Tergeste
Genova
Pisa
Udine
Libreria Athena
Libreria Feltrinelli
Cartolibreria •Universitas
Lecce
Pistoia
Venezia-Mestre
Libreria Milclla
Libreria Univers. Turelli
Libreria Don Chisciotte
Piombino (Livorno)
Pordenone
Verona
Libreria La Bancarella
Libreria Minerva
Libreria Rinascita
146
L. 16.000 (***)
Corso Trieste, â&#x20AC;˘62 - 00198 Roma