Queste istituzioni 75 76

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Anno XVI - o. 75-76 - Trimestrale (aprile-settembre) - Sped. in abb. postale gr.

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queste istituzioni Se cammina 1'« istituzione Governo »

Fisionomie dell'Amministrazione Pubblica Bruno Dente, Stefano Bir,ga, Bruno Graziadio, Barbara S. Romzeck, Melvin J. Dubnick

Città e territorio: ma intanto come governare? Roberto Mostacci, Nicolò Sa varese, Giancarlo Storto, Edoardo Salzano, Marcello Fabbri

Cronache di finanza pubblica James A. Howarci, Paolo Baile, Lawrence J. Haas

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n. 75-76 1988


questeIstftuzìONi Anno

XVI, n. 75-76 (aprile-settembre 1988).

Direttore: SERGIO RISTUCCIA. Vice Direttore: VINCENZO SPAZIANTE Redazione: GIovANNI CELSI, DANIELA FELISINI, MARIA RITA FERRAUTO, ELISA LAMANDA, MARCO LEDDA, MARTA TERESA LENER, CRISTIANO A. RISTUCCIA, STEFANO SEPE. kesponsabile organizzazione e relazioni: GIoRGIo PAGANO. Segretaria di redazione: DANIELA MONTRONE. Direzione e Redazione: GRUPPO DI STUDIO SOCIETÀ E ISTITUZIONI. Corso Trieste, 62 00198 Roma - Tel. 84.49.608. Abbonamento ordinario annuale L. 50.000; studenti annuale L. 25.000 da versare sul cc: postale o. 24619009 intestato a QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE s.r.l., Corso Trieste, 62 - 00198 Roma. Ogni nu.jiiero L. 16.000. Periodico iscritto al registro della stampa del Tribtinale di Roma al n.

14.847 (12 dicembre 1972).

Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI. Questo numero

è stato chiuso per la tipografia il 4 novembre 1988.

Stampa: Arti Grafiche Pedanesi - Roma - Tel.

22.09.71.

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana.


n. 75-76 1988

Indice

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Se cammina i "c istituzione Governo »

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Fisionomie dell'Amministrazione Pubblica

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La cultura amministrativa italiana negli ultimi 40 anni Bruno Dente

Decisioni, Pubblica Amministrazione, Intelligenza Artificiale

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Ste/ano Birga, Bruno Graziadio -

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Amministrare la tecnologia spaziale Le responsabilità nella tragedia del Challenger Barbara S. Romzeck, Melvin J. Dubnick

Città e • territorio: ma intanto come 71 73

governare? Quale rinnovo per le città Roberto Mostacci, Nicolò Savarese

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Riflessioni sull'edilizia condonata Giancarlo Storto

L'urbanistica della qualità 103

Attività commerciali e rinnovo urbano Edoardo Salzano

Perché un nuovo Progetto 108

Architetture per la seconda « rivoluzione urbana » Marcello Fabbri


117

Cronache di finanza pubblica Sono attendibili le proiezioni economiche ufficiali?

119

Il caso degli Stati Uniti attraverso il confronto fra le previsioni del Cbo e dell'Omb

James A. Howard

Storie di un assistenzialismo di lusso 134

Le sovvenzioni allo spettacolo dalla ÂŤlegge - madre Âť alla finanziaria '88

Paolo Ba/ile

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La cultura del deficit Lawrence J. Haas


Se cammina 1'« istituzione Governo»

Come si pone, oggi, il problema dell'amministrazione pubblica nella vicenda istituzionale complessiva? Prima - di tentare una risposta è d'obbligo un'avvertenza per questa rivista consueta: parlare al singolare di pubblica amministrazione è sicuramente un errore, un eccesso di semplificazione, sia sul piano analitico sia- sul piano prescrittivo. Nella società contemporanea percorsa da fenomeni di maggior complessità, per lo più né organica né riducibile a sistema, la presenza di funzioni e apparati pubblici è diffusa e più o meno pervasiva, an che in modo strisciante. Analizzare questa presenza con categorie concettuali troppo generali non ne agevola la comprensione. Né serve, per un miglior ordinamento, che si impongano a tale varie gata presenza norme, strùtture, comportamenti unifòrmi al di là di alcune regole fondamentali: quella, per esempio, della trasparenza o quella dell'imparzialità. Tuttavia, senza voler trasgredire a questa avvertenza, una visione d'insieme è necessaria per un ragionamento che tenti di rispondere alla domanda posta innanzi. Siamo, in realtà, ad un passaggio istituzionale importante che riguarda pre valenternente .l< istituzione Governo ». Da una parte, è stata approvata la legge sul Governo e sulla Presidenza del Consiglio dei Ministri (la legge n. 400 del 23 agosto 1988); dall'altra, attraverso l'introduzione del voto palese ci si avvia ad una ride/inizione del ruolo del Governo in Parlamento attraverso un rapporto più diretto e organico con la maggioranza. Occorre dire, naturalmente, che ci si avvia, dato che anche quando le leggi sono importanti e lungamente attese, ciò non basta a dar loro attuazione rapida, sicura, senza problemi e senza incidenti. Con questi primi atti di riforma o riaggiustamento istituzionale, prende corpo quella fisionomia del Governo che in Costituzione non è una fisionomia debole, come invece per alcuni decenni è apparso -nella prassi del sistema costituzionale e politico. In qualche modo la lunga « deriva », come è stato detto, dell'istituzione Governo che -prende il via dalla stessa logica costituzionale tocca un primo approdo interessante dopo le esperienze degli Anni Ottanta. Cos'è o cosa sta -per essere, ora, il Governo? E' l'organo costituzionale cui spetta un ruolo pro gettuale più forte, attraverso le sue articolazioni interne (Presidente, Consiglio di Gabinetto, attrezzatura funzionale della Pre. sidenza) e attraverso un metodo di lavoro più marcatamente pro grammatico. 3


D'altra parte, il suo statuto in Parlamento dovrebbe restituirgli l'ossatura del principale organo politico del sistema. Nei confronti dell'Amministrazione ciò significa che dovrebbero tornare ad essere chiari i punti di riferimento sia come direttrici di marcia sia come capacità di coordinamento e di risoluzione di conflitti inter-ministeriali. In questo senso, dovrebbe anche rafforzarsi la capacità di dialogo ma anche di indirizzo nei confronti delle Regioni e degli enti locali. Insomma, è implicita 'nel nuovo ordinamento del Governo una 'maggiore influenza complessiva sul sistema amministrativo. Ma secondo le modalità giuste dell'organo politico. Riandiamo allora alla, fisionomia che la Costituzione dà alla pubblica amministrazione. Si tratta di un complesso di caratteristiche peculiari, tali cioè da tenete ben distinta l'area dell'amministrazione dall'area del governo, ovvero l'area dell'amministrare da quella del governare. La Costituzione è stata, sobria a pro posito dell'amministrazione e forse, come molti hanno rilevato, poco innovativa. Ma essa 'contiene la quintessenza delle caratteristiche proprie della moderna burocrazia, quali per esempio sono state rilevate dall'analisi classica fatta da Max Weber agli inizi del secolo (un'analisi - si sa - piena di umori diversi, d'amore e d'odio, e anche di contraddizioni, di cui bisognerebbe parlare a lungo fuori da riferimenti meramente consuetudinari). Leggiamo la Costituzione. Articolo 97, 1° comma: « I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione ». 2° comma: « Agli impieghi degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzio ni e le responsabilità dei funzionari ». 3 ° comma: « Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso ». E' ancora, art. 98, 1° comma: « I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione E' in breve la tavola dei principi del Civil Service. Con, in più, quel rif erimento al buon andamento che apre spiragli, o più che spiragli, verso i problemi che usiamo chiamare dell'efficacia ed efficienza. Dovremmo poi richiamare, a completare il quadro, l'ari'. 28 della Costitu zione secondo il quale i funzionari e i dipendenti dello Stato « sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti ». Ma qui tocchiamo il capitolo delle inadempienze 'o dei cattivi adempimenti; capitolo che riguarda - ovviamente - anche tutte le regole che abbiamo appena richiamato. Ripercorrere la storia della realizzazione del dettato costituzionale nel « diritto vivente » e nella prassi legislativa ed amministrativa non è qui possibile. Ma considerarne alcuni esiti è qui necessario. Primo, il Governo non avendo raggiunto mai sicuramente la soglia dell'eifettiva direzione politica si è perduto spesso nella prassi àmministrativa ordinaria, appropriandosi così - più del dovuto - dell'amministrazione, 4


Secondo, il Parlamento che doveva fissare le regole dell'« imparzialità » e sovrintendere all'effettività del principio secondo cui i pubblici funzionari « sono al servizio esclusivo della Nazione » si è trasformato in un produttore di norme minute sull'amministrazione e sul pubblico impiego attraverso un'interpretazione del l comma dell'art. 97 come stretta riserva di legge. Il Parlamento insomma si è spesso ridotto (ed in questa direzione è stato spesso « usato » - se così si può dire - dai gruppi di interesse interni alla pubblica amministrazione) come una sorta di super-consi.glio di amministrazione delle diverse pubbliche amministrazioni, ovviamente deresponsabilizzato e deresponsabilizzate. Bene, di fronte a queste due vicende istituzionali emerge l'esigenza di re stituire all'Amministrazione la fisionomia propria, cioè l'autonomia piena, in termini di operatività e di responsabilità, che ad essa spetta. E' questo il passo che deve seguire alla avviata ricostituzione del Governo come motore politico del sistema istituzionale. Più in dettaglio cosa significa realizzare questa esigenza? Credo che tre siano le fondamentali specificazioni: un nuovo statuto della dirigenza pubblica, e statale in particolare; un sistema nuovo e aggiornato di formazione per i diversi operatori delle pubbliche amministrazioni; una definitiva uscita del pubblico impiego dal circolo vizioso dell'attuale sistema normativo. Non sono cose da poco, né sono obiettivi da raggiungere isolatamente. Nuovo statuto della dirigenza. La realtà dell'Amministrazione non ha consentito che la figura dei dirigenti •di vertice emergesse con il necessario spicco. Anzi, la relativa minor politicizzazione della dirigenza statale è stata pagata con il maggior peso dato a criteri di carriera automatici e con la diminuzione del ruolo gestionale dei dirigenti generali, anche contro le stesse indicazioni che l'ordinamento dà, già oggi, a questo riguardo. Ruolo più definito, sfera autonoma di poteri che rompa il cordone ombelicale con il responsabile politico, qual è il Ministro nell'amministrazione statale. Ciò significa restituire il « primato della politica » al suo ambito proprio, cioè quello della determinazione degli obiettivi, dell'elaborazione dei programmi e soprattutto della sorveglianza sull'attività amministrativa affinché i risultati siano conse.guiti. Ciò vuoi dire che l'organo politico chiamerà a rispondere la dirigenza della qualità dei risultati o della mancanza di risultati. Così liberandosi del sovraccarico dell'amministrazione ordinaria e day to day che rischia di sopra flario. Certamente stiamo parlando di rapporti delicati e diflicili, che da una parte e dall'altra possono innestare comportamenti debordanti. Ma il passaggio / dell'autonomia è necessario. . Così va anche ipotizzato per la dirigenza un maggiore e reale potere di spesa. Questione altrettanto delicata in quanto concerne sia la gestione dei bi5


lancio (e di questa comporta un notevole cambiamento: per esempio, in ordine alla tipologia dei capitoli e alle regole degli storni) sia il sistema dei controlli (e anche di questo comporta una pro/onda riforma). Una maggiore responsabilità della dirigenza nella gestione finanziaria è anche il modo per dare realistici strumenti a una politica di contenimento e di riqualificazione della spesa pubblica. In questa direzione spingono le esperienze di molti altri paesi industrializzati. Una formazione da ripensare profondamente. Non c'è molto da dire sulla importanza della formazione del personale addetto alla Pubblica Amministrazione e dei quadri in particolare. E bisogna riconoscere che del tema si parla spesso. A questo proposito un'affermazione va fatta. la formazione va ricondotta alle singole amministrazioni. Come problema, s'intende, non come strutture di organizzazione dei corsi. Di fronte alle abitudini delle amministrazioni tradizionali che non facevano formazione credendo piuttosto alla scuola della prassi, della trasmissione di regole, conoscenze e trucchi del mestiere sul posto di lavoro secondo un ancestrale learning by doing, le iniziative organizzate di formazione come la Scuola Superiore hanno avuto notevoli meriti. Ma è ora di ripensare alla logica, molto spesso estraniante, delle esperienze fatte integrando con metodo nuovo il sapere delle singole amministrazioni con il sapere dell'innovazione da esse - spesso e notevolmente - lontano. Certo, il problema della formazione si presenta ai più diversi livelli. Si va da' quello dell'alfabetizzazione alle nuove strumentazioni d'ufficio e alla nuova organizzazione d'ufficio legata alle tecnologie dell'informazione a quello di un serio rilancio del reclutamento di qualità e della formazione d'élite. Non basterà ridisegnare sulla « Gazzetta Ufficiale » la nuova dirigenza per averla a disposizione. Occorre selezionarla e formarla. Il rifiuto delle vie elitarie di formazione, forse caratteristica dell'epoca in cui prese avvio la esperienza della Scuola Superiore, oggi va riconsiderato a fondo. Il pubblico impiego fuori del circolo vizioso. E' vero, come è stato ricordato da M.S. Giannini, che « la materia dell'impiego pubblico è ovunque particolarmente tormentata ». Ed è vero che cinque anni, nel nostro contesto istituzionale, possono essere ancòra pochi per dare. un giudizio definitivo sulla legge-quadro del pubblico impieo dal 1983. Malgrado ogni prudenza è tuttavia assai difficile esprimere soddisfazione sui suoi effetti. Se il suo vero obiettivo era quello della piena legittimazione della contrattazione col- lettiva questo è stato conseguito. Ma formalmente. Mentre contemporaneamente sono state attivaté dinamiche sociali entro la Pubblica Amministrazione che hanno abbastanza delegittimato i sindacati storici, quelli con/ederali, e sollecitato il 'sorgere o il ricrearsi di sindacalismo spontaneo e auto-


nomo. Inoltre, per quanto ingegnose siano state le soluzioni istituzionali e procedurali per mescolare contrattazione collettiva e diritto pubblico, l'arti! icio è spesso rimasto tale: con lungaggini procedurali, esiti sulla finanza pubblica non previsti o comunque non ben calcolabili in antipico, con incremento del contenzioso e quindi con un• crescente peso della giurisdizione amministrativa sui modi quotidiani di operare della pubblica amministra- • zione. Se il contratto collettivo diviene in qualche modo fonte normativa nell'ambito' dell'organizzazione pubblica una delle conseguenze è che i sindacati hanno bisogno di un'adeguata attrezzatura professionale, che oggi manca, per svolgere un ruolo « codecisionale » che poi non sembra del tutto pro ponibile né accettabile. Se dunque, da una parte, la « legislazione di sostegno », come è quella vigente per il pubblico impiego, non può essere respinta dai sindacati, essi tuttavia si trovano nella necessità di non raccoglierne tutta la portata in termini di coinvolgimento e di assunzione di responsabilità. Con la conseguenza che, specularmente, sul fronte della c.d. « parte pubblica » - frutto artificioso di una convenzione normativa - non si vede sorgere quell'x organo dello Stato munitissimo » che, secondo Giannini, doveva essere la Funzione Pubblica. Il meccanismo della contrattazione collettiva nel pubblico impiego non solo è complicato (questo è l'aspetto di minor conto) ma è anche guarnito, con genitamente, di molte riserve jzentali. E' ciò malgrado, si debbono rilevare aspetti positivi come il forte, dichiarato interesse di tutti, per primi dei sindacati, per la produttività dell'Ammini strazione. Ma si rimane in una situazione che innesca vari circoli viziosi. Si deve, allora, immaginare che andremo verso una ridefinizione legislativa ulteriore dell'impiego pubblico che lo trasformi in impiego nella Pubblica Amministrazione secondo le regole del diritto comune privato? Può darsi che questa sia l'ulteriore spiaggia a cui approdare. Una nutrita scuola di pensiero torna a suggerire, con forza, questa soluzione. Se così fosse, converrà prepararsi per tempo considerando a fondo tutti i problemi di una svolta legislativa e organizzativa così importante e i suoi possibili effetti. Comunque, un punto è certo e va ricordato: se nella prospettiva del mercato unico europeo di cui poi occorrerà far cenno rientra, e non può non rientrare, la libera circolazione delle persone anche nelle pubbliche amministrazioni dei paesi europei, perlomeno in quelle erogatrici di servizi, la questione è già inevitabilmente sul tavolo. La ricognizione appena fatta dà la misura di quanta strada sia da fare. Il problema è quello di invertire la rotta, dal degrado amministrativo ad una ragionevole soglia di efficacia-efficienza per tutte le Amministrazioni. Dunque, neppure all'orizzonte più lontano dovrebbero apparire i problemi di una Amministrazione troppo forte, cioè quella che ha sempre fatto na-


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scere la preoccupazione che occorresse un controllo politico e sociale adeguato. Eppure il tema non va trascurato. Da una parte, perché è sempre in agguato nell'inconscio collettivo lo spirito anti-istituzionalista che nello scorso decennio dette spallate formidabili anche alle strutture delle pubbliche amministrazioni senza alcuna chiarezza di linee ricostruttive. Dall'altra parte, perché nel comportamento della burocrazia c'è sempre una tendenza alla chiusura in sé stessa che - rinascendo in un contesto di ripresa - potrebbe ripresentare problemi di corretti rapporti fra istituzioni o provocare invasioni di campo di segno corporativo. Del resto ben vale porsi il tema per un'altra ragione: esso riporta all'altra questione, a monte, della dimensione del settore pubblico. Una nuova amministrazione efficace ed efficiente, responsabile della propria autonomia, non la si avrà senza un dimensionamento del settore pubblico, senza un ripen - . samento delle ragioni della sua presenza che è cresciuta negli anni, senza una messa a punto delle funzioni pubbliche. « Stato moderno, Stato modesto », così Michel Crozier intitolava l'anno scorso un libro su questi problemi (già ne abbiamo parlato nel n. 72173). Fuori degli ideologismi del liberismo estremista neo-conservatore, visti negli anni scorsi in molti paesi occidentali, e fuori dalla pretesa illusoria dell'Etat minima!, crediamo che pur partendo da storie politiche e amministrative assai diverse, quali la francese e l'italiana (lì uno Stato con forti ambizioni di guida della società che hanno radici in una storia nazionale di secoli, qui uno Stato nazionale di più recente formazione e quindi con basi molto più fragili, e mai pienamente consolidate), ci si può ritrovare a chiedere - come in un precedente editoriale abbiamo già notato - quale sia la dimensione giusta dei compiti assegnati alla Pubblica Amministrazione. Vale per tutti i paesi, infatti, l'uniformità delle domande sociali che dal secondo dopoguerra ad oggi sono sorte nel mondo occidentale ed hanno spinto gli apparati pubblici a crescere e ad assumere sempre nuove funzioni. Solo nella prospettiva di unò Stato modesto, cioè che sa limitarsi, e modesto perché moderno il compito di dare nuovo volto alle pubbliche amministrazioni è realistico e, all'un tempo, trova consenso sociale. E' classica la distinzione tra l'attività amministrativa che è esercizio di funzioni pubbliche e si realizza attraverso provvedimenti formali e quella che eroga pubblici servizi. In Francia, tuttavia è avvenuto - prendendo spunto da Crozier facciamo ancora riferimento al caso francese - che la nozione di servizio pubblico è stata la « pietra angolare del diritto amministrativo » (G. Jèze) ed è servita ad estenderne sensibilmente il campo d'applicazione. Ciò ha significato che l'amministrazione ha inteso essere sostanzialmente identwa a sé stessa nelle sue diverse attività. Come ricordava recentemente un altro studioso francese, a monte c'è un'idea di servizio pubblico secondo la quale « certe attività sociali devono sfuggire, in ragione della natura degli


interessi che mettono in gioco, all'applicazione della logica di mercato ed essere gestiti secondo criteri di gestione specifici: dando a tutti la possibilità di accedere a certi beni, i servizi pubblici sono apparsi come strumenti di libertà, d'eguaglianza e di solidarietà indispensabili all'equilibrio sociale » (Jacques Chevallier). Attraverso questa strada l'amministrazione come erogatrice di servizi è stata riportata alla logica dell'amministrazione come esercizio di pubbliche funzioni. Esercizio che si realizza innanzitutto attraverso il provvedimento, l'atto amministrativo. E' il buon provvedimento quello cke conta, il buon provvedimento secondo le regole di diritto e sulla base del corretto riconojcimento di diritti e. doveri dei cittadini. Il resto conta meno. Il fattore tempo, per esempio, sta su un secondo piano. In tale contesto l'attività produttiva di servizi non può essere considerata, per esempio, attraverso la categoria economica della produzione in regime di monopolio e del relativo regime di prezzi. Si tratta di interesse pubblico tutelato e gestito attraverso gli strumenti del potere pubblico. Intervengono tutt'al più i criteri della fiscalità o para-/iscalità. A pensarci bene, l'avvenuta profonda messa in questione dell'idea di servizio pubblica e del suo sistema di erogazione è un fenomeno che qualche tempo addietro sarebbe stata impensabile per la cultura politica e la dottrina pubblicistica di un paese, come la Francia, di cui l'Amministrazione è sempre stata l'ossatura e con rendimenti assolutamente superiori a quelli da noi conosciuti. In Italia, per la verità, la dottrina non ha mai enfatizzato il servizio pubblico come chiave di volta del diritto amministrativo; anzi ha sempre tenuto alla distinzione fra amministrazione come esercizio di funzioni pubbliche e amministrazione come erogazione di servizi. E tuttavia ogni ragionamento sui servizi pubblici è stato per lungo tempo sottratto alla logica della ragione economica, sia macro che micro. E continua in gran parte a esservi sottratto magari utilizzando i sopravvenuti criteri sociali del « wel/are state » intesi nell'accezione più vulgata. E' lungo il percorso di questa riconsiderazione dei servizi pubblici, attualmente in corso nella gran parte dei Paesi occidentali, che emergono aree specifiche d'incontro fra cultura dell'Amministrazione pubblica e cultura d' impresa. Sono suflicienti tre spunti: la riorganizzazione delle economie pubbliche locali; la messa a punto dell'amministrazione per negoziato avendo per riferimento la responsabilità dei risultati; l'applicazione dell'amministrazione, soprattutto nell'area dei servizi, dell'analisi dei costi delle transazioni. Sulle economie pubbliche locali è da tempo in corso negli Stati Uniti un ripensamento della loro organizzazione. Recentemente l'Advisory Commission on Intergovernmental Relations ha fatto proprio un interessante criterio metodologico: quello di distinguere il provvedere ai servizi pubblici e pro9


durre i medesimi (provision e production). Intendendosi con il primo concetto la funzione, propria dell'ente locale, di decidere quali servizi, con quali standards, su quale territorio, con quale finanziamento (prezzo, tassa, contributo, ecc.), con quali costi e spese. Con l'altro concetto intendendosi la funzione di produzione del servizio in senso strettò. Questo tipo di ragionamento che risponde in particolare alle esigenze di un frammentato sistema di autorità locali qual'è quello nord-americano, ha il merito - per tutti - di riproporre con chiarezza i due fondamentali aspetti del problema, in ogni caso riconsegnando la funzione di produzione a una corretta logica economica. E' da supporre che una riorganizzaziòne delle pubbliche amministrazioni porti a dare peso crescente alla determinazione degli obiettivi e alla valutazione dei risultati. Se ne parla molto. Sembra un'idea acquisita. Benché sia imr portante questa linea di marcia, essa tuttavia contiene rischi di semplifica. zione: per esempio, può ricondurre all'idea che l'unità di comando e soprat. tutto il comando siano in sé la chiave di volta. Può anche darsi: soprattutto quando si considerino le cose partendo dalle realtà in cui maggiore è l'indeterminazione dei poteri. Ma il problema del come si raggiungano i risaltati pone oggi in evidenza quanto siano importanti l'arte e la scienza del ne goziato. L'una e l'altro rimangono, tutto sommato, una rarità pur in mezzo, paradossalmente, ad una realtà di continue negoziazioni che si traducono nel gran chiacchiericcio di incontri, comitati, commissioni. Dunque occorrerà pensare, sul piano della formazione della dirigenza e su quello degli strumenti organizzativi, ad un ben più munito amministrare per negoziato. Questione che tocca il mondo delle imprese non solo per essere talvolta parte del negoziato ma perché esso ha eguale problema nel proprio ambito operativo. Il terzo spunto riguarda l'applicabilità alla pubblica amministrazione fornitrice di servizi di alcuni nuovi orientamenti dell'economia aziendale. Ci rif eriamo a quel filone di ricerca, sostanzialmente multidisciplinare ma che muove dall'economia dell'impresa, che da anni si è esercitata, assai utilmente, nell'analizzare i costi. delle transazioni che si realizzano non solo sul mercato ma nell'organizzazione interna di ogni complesso produttivo. Ne sono stati tratti modelli operativi interessanti che spesso hanno guidato i processi della ristrutturazione delle imprese. Siamo convinti che valga la pena applicare questi nuovi strumenti analitici anche alle pubbliche amministrazioni. Al di là della logica dell'elenco, sia pure un elenco selezionato di problemi rilevanti e di suggerimenti più o meno convincenti, quale può essere l'indicazione strategica per la pubblica amministrazione? .10


Ebbene, essa c'è nelle cose e stiamo rischiando tutti di sprecarla nelle frasi fatte e nella retorica « usa e getta » dei mass media. Ci riferiamo all'ap puntamento del mercato unico europeo. Che questo appuntamento riguardi anche, e per molti aspetti soprattutto, le pubbliche amministrazioni non dovrebbe essere affermazione su cui soffer marsi a lungo. Eppure alcune cose vanno dette, o ripetute, con chiarezza. Il punto di partenza è una realtà dei tutto schizoide: l'Italia è un paese a forte vocazione europea, l'Italia è il paese che ha l'indice più basso di adeguamento alle regole comunitarie. Dunque, all'avanguardia sul piano della partecipazione alla formazione della volontà politica della Comunità; alla retroguardia sul piano delle strutture e dei processi che, nell'ambito nazionale, dovrebbero assicurare la traduzione in norme, e comportamenti interni delle norme comunitarie. E' recalcitrante il legislatore, per riprendere il titolo di un bel 'libro di Alberto Predieri sull'argomento, è recalcitrante l'amministrazione. La Corte Costituzionale, con l'orientamento assunto nell'84-85 con varie sentenze sulla diretta applicazione dell'ordinamento comunitario, ha tolto' alcune' paratie difensive. Ma la storia continua e se ne dovrebbe fare una ricognizione in profondità per cogliere meglio le ragioni dell'inerzia ma anche il gioco dei gruppi di interesse. Questo comunque è il punto di partenza. E' avvenuto che la questione del mercato integrato europeo sia stata am piamente annunciata nel nostro paese. Ma si ha l'impressione che, come molto spesso accade, l'annuncio sia tutto, bruci tutto. Dopo l'annuncio, l'accantonamento, come se il problema sia stato veramente studiato, gestito e risolto. Per stare alle cronache dei giornali, sembra - come è stato giustamente notato - che delle misure dell'Attò unico i soli ad occuparsi siano la Banca d'Italia e i banchieri. Mentre invece, a causa dell'Atto unico e del suo perfezionamento e realizzazione, si può ben dire, che possono entrare in crisi l'ordinamento e il modo di funzionare delle pubbliche amministraziòni. Il rischio di un'alta penalizzazione della nostra economia e della nostra società qualora non si affrontino con ampio respiro e buona iena i molteplici problemi, generali e specifici, della riorganizzazione amministrativa dello Stato e del settore pubblico, è un rischio già pronto a tramutarsi in realtà.

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queste istituzioni Fisiònomie dell'Amministrazione Pubblica

Il lucido profilo storico della cultura amministrativa scritto da Bruno Dente trova su queste pagine il contesto o, diciamo così, la sponda più in consonanza. Nelle conclusioni l'A. segnala due cose 'assai importanti. La prima: che la rottura avvenuta nella logica del dominio giuridico al momento dell'introduzione del concetto di programmazione ha finito per essere, in fondo, soltanto apparente o comunque senza grandi e/f etti per mancanza di .strumenti concettuali diversi da quelli offerti dal diritto amministrativo. La seconda è che burocrati e addetti ai lavori sembrano condividere, oggi, le idee di cambiamento veicolate dai mass media ma, ancora, senza avere rife rimenti concettuali utili per' operare in modo diverso. Il cammino da compiere è lungo assai. Ma questa volta occorre che la ricostruzione teorica deve muovere su una linea ben più profondamente innovativa, ben più determinata non tanto ad aggiornare frettolosamente il diritto quanto a creare le nuove armi del mestiere: nuova economia pubblica, nuova teoria organizzativa dell'Amministrazione, nuova ragioneria pubblica e così via tenendo sempre bene insieme esperienza diretta delle amministrazioni e sforzo teorico. In questa prospettiva di lavoro - che vedrà la rivista ancora più impegnata nel futuro - l'articolo di Birga e Graziadio offre il contributo di chi parte dal punto di vista dell'innovazione tecnologica più avanzata ma conosce la realtà dell'amministrare. L'analisi del disastro' Challenger può invece essere letto utilmente sotto il profilo del complesso rapporto « politica-amministrazione » e per comprendere il gioco' delle diverse responsabilità. Sul caso del Challenger la rivista « Sapere » (giugno 1988) ha pubblicato Cronaca dell'inchiesta Challenger del premio 'Nobel 1965, il fisico Richard Feynman. Sul tema del potere amministrativo e dei programmi spaziali si rinvia all'articolo di Walter A. Macdougall pubblicato sul fascicolo 65.2 di « Queste Istituzioni », 1984. 13

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La cultura amministrativa italiana negli ultimi 40 anni di Bruno Dente

«A study of the history of opinion is a necessary preliminary to the emancipation of the mmd. I do not know which makes a •man more conservative - to know nothing but the present, or nothing but the past ». J. M. Keynes

Il successo di cui sembrano godere negli anni più recenti le variabili « culturali » nell'ambito della scienza politica, è senza dubbio un fenomeno molto interessante, in qualche modo simile alla ripresa di interesse nei confronti della storia e dello Stato. Questo « ritorno » è ben documentato (basta pensare ai più recenti lavori di Wildavsky sul deficit di bilancio, a quelli di Terry Clark sul rapporto tra « etica irlandese» e clientelismo, ma anche, in un campo del tutto differente alla crescente attenzione nei confronti del simbolismo nelle• organizzazioni) ed occorre, sja pure brevemente, dar conto delle sue più probabili motivazioni, se non altro per evitare equivoci nell'interpretazione di quanto cercherò di dire nelle pagine seguenti. Ad un primo livello l'origine della rinascita dell'attenzione alle dimensioni culturali può essere trovata nella crescente insoddisfazione nei confronti degli studi di carattere struttu-

rale diffusi nel corso degli anni '70 soprattutto nel settore della politica comparata. L'impossibilità di dar conto di vistose differenze di comportamento nel funzionamento dei sistemi politici, a dispetto di sostanziàli omogeneità sul versante economico e sociale (o, viceversa, di comportamenti politici omogenei in presenza di strutture economico/ sociali molto divaricate) ha portato alcuni studiosi a chiedersi se le spiegazioni non andavano piuttosto cercate nelle differenti tradizioni nazionali, nelle ideologie dominanti, in definitiva nelle differenti culture nazionali. Il rischio che corrono sempre questo tipo di argomenti è ovviamente quello di rivestire un carattere residuale, ad hoc se non addirittura circolare, per giungere alla conclusione che le politiche pubbliche, le istituzioni o gli attori sociali in Italia sono così perché sono italiani. Tanto più che la diffidenza di 'altri studiosi è alimentata dal sostanziale scetticismo sulla possibilità di ridurre la complessità 15


ideologica e sociale ad un solo concetto di « cultura ».

rare. In questo modo si è posto l'accento sia sui valori che essi condividono, sia sui limiti cognitivi alla loro azione: in entrambi i casi su variabili latii LA «CULTURA AMMINISTRATIVA» sensu. culturali. In definitiva buona parUN CONCETTO AMBIGUO te delle critiche rivolte non solo da parIn questo senso si può forse suggerire te di scienziati sociali di impostazione che alcune spiegazioni• culturali attualtradizionale a certi modelli 'di analisi di mente in voga costituiscono più che almatrice economica sono riassumibi.lj nel tro un tentativo di salvare in qualche fatto che le funzioni di utilità attribuimodo un approccio di comparative p0- te ai diversi attori sono semplicistiche in litics di stampo sistemico dall'estrema quanto non includono elementi di natu difficoltà che esso spesso incontra a trora culturale ed ideologica. Implicito è il vare verifiche empiriche significative giudizio secondo il quale i comportamenquando cerca di introdurre argomenti ti empiricamente riscontrabili all'interno causali o esplicativi. In realtà quello che delle politiche pubbliche non sono spie. occorre chiedersi è se tale difficoltà non gabili unicamente a partire da una anaè piuttosto determinata dalla natura dellisi costi/benefici e che, se non è corl'unità di analisi impiegata (la Francia, retto inferire meccanicamente i comporl'Italia, ecc, identificate come altrettanti tamenti dei soggetti dai soli atteggiasistemi politici) piuttosto che dall'insufmenti, non è nemmeno ipotizzabile che i ficienza delle variabili indipendenti utiprimi siano influenzati unicamente da ulizzate nel modello. Solo nell'ultimo cana perfetta percezione di un proprio sel/so, infatti, l'aggiunta della variabile « culinterest materiale ('dalla massimizzazjone tura » potrebbe fare una cospicua . diffe- dei consensi elettorali a quella dei bilanrenza. ci affidati alla propria unità organizzaSotto il primo punto di vista, pertanto, tiva). la rinascita delle variabili culturali non E' sotto questo secondo profilo, quindi, è da considerare con estremo favore, so- che l'attenzione alle « variabili culturaprattutto se esse non sono adeguatamen- li », se così le possiamo chiamare, apte specificate. pare di notevole interesse, anche se 'ciò Vi è tuttavia un secondo livello di ananon significa certaménte che tutti i pro. usi rilevante ai fini della nostra discus- biemi siano risolti. sione. Il crescente corpus delle ricerche In particolare una complicazione non inche, in vario modo si ispirano ai presupdifferente deriva dal' fatto di avere a che posti dell'analisi delle, politiche pubbli- fare con attori collettivi, come il Parlache, infatti, mettendo l'enfasi sul commento o l'amministrazione. In un approc. portamento degli attori che intervengocio tradizionale la questione sostanzialno nella fase di policy making e/o in mente non si poneva: la cultura di una quella di policy implementation, ha at- istituzione si poteva misurare, a partire tratto l'attenzione sui fini e gli obietti- da una qualche survey ben fatta, accervi di tali attori e sui constraints all'in- tando gli atteggiamenti dei suoi mem terno dei quali essi si trovano ad ope- bn. La cultura amministrativa, secondo 16


questo approccio, era sinonimo della cultura dei burocrati. All'interno di un approccio di policy invece - dato che gli attori si caratterizzano sostanzialmente a partire dal fatto che agiscono, e cioè che intervengono con propri obiettivi, e propria cultura, all'interno del network decisionale o attuativo - i problemi si complicano. in primo luogo vi è chi dubita che le organizzazioni e in generali gli attori collettivi possano essere considerati dei veri e propri attori, mentre lo sarebbero solo i singoli individui che intervengono effettivamente nei processi. Per quanto non sia questa la sede per una discussione di questo problema, la sfida lanciata dall'individualismo metodologico non può essere ignorata o considerata del tutto irrilevante. In secondo luogo, e in maniera correlata, anche ammettendo che le organizzazioni possano essere considerate attori a tutti gli effetti, come bisogna valutare le eventuali differenze culturali al loro interno? Oppure bisogna arrivare a dire che uno degli elementi fondamentali a partire dal quale è possibile identificare un attore collettivo come tale è proprio la condivisione di una serie di idee, valori, e certamente obiettivi? In ogni caso che posto attribuire alle variabili culturali nel modello di analisi? Esse andranno considerate preferibilmente dei vincoli all'agire degli attori, che pertanto ne spiegano almeno in parte il comportamento, oppure come elementi del loro sistema cognitivo, che vanno pertanto a comporre la loro funzione di utilità? La consapevolezza di queste problematiche teoriche e metodologiche appare necessaria se si vuole affrontare un proble-

ma alquanto ambiguo come è appunto quello della « cultura amministrativa » e delle sue trasformazioni. Il che non significa, ovviamente, risolvere tutti i problemi, ma solo cercare di definire in modo il più preciso possibile l'ambito di validità delle affermazioni che verranno fatte nelle pagine che seguono. Tanto più che l'approccio prescelto sarà volutamente parziale. All'interno di questo saggio, infatti, cercheremo di affrontare la seguente questione: assumendo che esista una specifica politica relativamente alla amministrazione pubblica, in sé distinta dalle diverse politiche in cui le differenti amministrazioni sono coinvolte, in che modo sono cambiate hegli ultimi 40 anni le idee condivise dagli attori che in essa sono intervenuti, relativamente al suo oggetto, e cioè l'amministrazione stessa. In altre parole ci chiederemo se è cambiata la nozione di amministrazione pubblica o quanto meno quella certa idea di che cosa essa dovrebbe essere tra le élites politiche, amministrative, culturali ed accademiche. Sottostante a questa domanda di ricerca è, ovviamente, l'ipotesi che un simile cambiamento avrebbe dovuto verificarsi, se non altro perché i mutamenti dell'amministrazione stessa (dal punto di vista delle sue dimensioni, della sua complessità organizzativa, delle risorse che essa assorbe, eccetera) sono stati enormi. Il nostro percorso di ricerca, cioè, cerca di ricostruire le trasformazioni dell'ideologia dell'amministrazione.

LA POLITICA DI RIFORMA AMMINISTRATIVA ED I SUOI ATTORI

La « questione amministrativa », e cioè il problema di determinare le dimensioni 17


e le caratteristiche ottimali degli apparati dello Stato, attraversa, sia pure con le caratteristiche che vedremo, l'intera storia nazionale. Il più delle volte tale attenzione si concreta in una insoddisfazione generalizzata su quasi tutti gli aspetti presi in considerazione, il che a sua volta si esprime attraverso l'affermazione della necessità di una profonda riorma. Sotto questo profilo l'Italia non costituisce un'eccezione nel panorama dei paesi ad essa comparabili nei quali la diffidenza e la critica nei confronti, degli apparati amministrativi non è meno diffusa. Se una specificità italiana è possibile trovare essa riguarda l'ampiezza del dibattito politico/culturale sui caratteri di tale opera riformatrice: almeno a partire dalla /rattura tra dirigenza politica e dirigenza amministrativa verificatasi con l'avvento al potere del fascismo (Cassese '83), l'interesse nei confronti dell'amministrazione e della sua riforma non supera mai una cerchia abbastanza ristretta di addetti ai lavori. Al di là del giudizio negativo largamente accettato da tutti, la disinformazione nei confronti della pubblica ammi nistrazione è generale - come testimoniato tra l'altro dallo scarsissimo spazio dedicato dai media al problema ed all'incredibile superficialità delle analisi giornalistiche - ed è probabilmente un effetto del perverso « primato della politica », cui corrispondeva il nenniano «po litique d'abord », che caratterizza a tutti i livelli il nostro paese. Da questo punto di vista la differenza con paesi vicini come la Francia è abbastanza evidente. Tra l'altro questo disinteresse viene sovente rivendicato, sulla base del giudizio che, dopo tutto, l'amministrazione non è tanto importante, anche da parte di politici e studiosi impegnati in settori con18

tigui: basta pensare all'implicito contenuto normativo ed ideologico che traspare dalla distinzione tra « rami alti » (Governo, Parlamento) e « rami bassi » (amministrazione, governo locale) della questione istituzionale. Vi è in fondo ai grandi protagonisti del dibattito politico la convinzione che l'amministrazione, come la fureria, seguirà senza eccessivi problemi. Tuttavia, malgrado questa notevole «separatezza » ed apparente subalternità una politica della riforma amministrativa » esiste da sempre ed ha ricevuto consacrazione ufficiale a partire dagli anni '50, attraverso la nomina di un ministro senza portafoglio e di un apposito organo (.il Ministero della Riforma Burocratica oggi Dipartimento della Funzione Pubblica - appunto). Ed a rendere ancora più coesa ed identificabile tale politica concorre un fatto di grandissima importanza, vale a dire la comunanza di matrice culturale di tutti coloro che concorrono alla definizione delle. diverse possibili opzioni aperte di fronte al processo di riforma. A scorrere anche solo superficialmente la amplissima bibliografia della principale storia dell'amministrazione pubblica italiana (Calandra 1978), ad esempio, ci si avvede che la stragrande maggioranza degli interventi nel dibattito sono opera di giuristi, ed in specie di cultori del diritto pubblico. Essi sono stati largamente presenti nelle élites politiche (solo per citare due esempi, il fondatore del diritto amministrativo moderno in Italia, Vittorio Emanuele Orlando è stato anche il capo del governo durante la prima guerra mondiale, e uno dei principali studiosi del dopoguerra, Massimo Severo Giannini, già capo di gabinetto del Ministro per la Co-


stituente è stato a sua volta Ministro pr la Funzione Pubblica quasi quarant'anni dopo), ed hanno sempre avuto un totale monopolio ai vertici dell'amministrazione stessa, nei tribunali amministrativi (come giudici e come avvocati) e nelle Università. Si tratta, per di più, di un gruppo che presenta una notevole compattezza ed un certo grado di mobilità interna. Se è del tutto normale il cumulo tra posizione universitaria e professione forense, non bisogna nemmeno dimenticare che molti alti magistrati o funzionari hanno rivestito insegnamenti universitari e che nelle innumerevoli commissioni di studio nominate nel corso della storia unitaria, i rappresentanti delle diverse categorie si sono costantemente trovati fianco a fianco. Ed ancora: funzionari, magistrati, avvocati e professori sono strettamente integrati, tra loro e con le élites politiche, attraverso le nomine ministeriali (come capi di gabinetto,, responsabili di uffici legislativi, eccetera), i meccanismi di provvista degli organi costituzionali (la Corte Costituzionale ed tI Consiglio Superiore della Magistratura) o amministrativi (il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, e giù giù sino ai Comitati Regionali di controllo). E' questo un fenomeno più volte messo in luce - anche se come vedremo non sempre ne sono state tratte le conseguenze corrette - e che distingue la situazione italiana da quella dei paesi anglosassoni. Ma si tratta di un fenomeno che tende anche a riprodursi, come dimostra la veloce omologazione degli altri attori che intervengono nel dibatitto e che, se giuristi non sono, tendono però a comportarsi ed a ragionare come giuristi (il sin-

dacalismo, nel pubblico impiego è l'esempio più Ovvio). Vi è cioè l'egemonia dei giuristi che significa anzitutto egemonia di un linguaggio, quello giuridico appunto, come l'unico adeguato a parlare dell'amministrazione. E si tratta di un linguaggio altamente tecnico e specialistico il cui possesso costituisce la condizione essenziale per potere essere considerati parte della policy community della riforma amministrativa. Ma vi è, in definitiva, anche qualcosa di più. Il diritto amministrativo costituisce davvero la cultura amministrativa italiana. In termini più precisi si può affermare che i suoi principi base sono l'ideologia della riforma amministrativa, e che la storia dell'uno è anche la storia dell'altra. Ricostruire l'evoluzione del diritto amministrativo nel dopoguerra significa dunque tentare una prima risposta alla domanda relativa alle trasformazioni della cultura amministrativa nel nostro paese. A conferma di quanto abbiamo qui affermato può essere ricordata la sostanziale assenza di altre tradizioni scientifiche dal dibattito. Per un lunghissimo periodo, ad esempio, gli economisti o comunque la grandissima parte di essi, si sono occupati solo della produzione di beni o servizi destinati alla• vendita da parte delle pubbliche amministrazioni (Parisi Acquaviva 1985). Successivamente il loro interesse è stato attratto quasi esclusivamente dagli effetti della spesa pubblica, sia come aggregato sia all'interno delle differenti politiche di intervento. In ogni caso i meccanismi istituzionali e procedurali, e spesso anche regolatori, delle politiche, economiche sono 19


stati considerati poco rilevanti o comunque inconoscibili attraverso gli strumenti della scienza economica. Il che non significa, come vedremo, che concetti di derivazione economica, sia pure in senso molto ampio, non si siano fatti strada all'interno della cultura dei giuristi, ed anche all'interno del diritto amministrativo, e tuttavia ciò conferma, anziché smentire l'estraneità degli economisti al dibattito sulla amministrazione italiana e la sua riforma. Non estranei, invece, ma sconfitti sono stati i cultori di scienze sociali che pure hanno cercato di occuparsi di amministrazione come dapprima hanno fatto statistici e sociologi e più di recente scienziati dell'amministrazione e della politica: In parte per le loro stesse debolezze concettuali, in parte per motivi di organizzazione accademica, in parte per l'oggettiva difficoltà a superare la dimensione giuridica in una amministrazione così fortemente normativizzata, le discipline anzidette hanno svolto un ruolo estremamente marginale nel dibattito, spesso aggravatò dall'oggettiva subalternità alle concettualizzazioni giuridiche. Si tratta di un processo di lunga durata - che data almeno dalla fine del secolo scorso quando si verificò la sconfitta della Scienza dell'Amministrazione (Mozzarelli/Nespor 1981) - e che tuttavia acquista particolare rilevanza nel secondo dopoguerra anche a causa dello sviluppo che, in altri settori, hanno conosciuto le scienze sociali nel nostro paese.

LE PREMESSE STORICHE

Se dunque vi è più di un motivo nel considerare il diritto amministrativo come 20

la cultura dominante degli attori dei processi di riforma amministrativa, è da una sia pur sommaria considerazione dei suoi elementi genetici che conviene partire. Sul tema del carattere ampiamente giuridicizzato delle organizzazioni e delle procedure amministrative nel nostro paese è stato scritto e detto molto, anche ad opera degli scienziati sociali che riconoscono questo carattere come tipico dei paesi dell'Europa continentale che hanno subito l'influenza napoleonica. E tuttavia così facendo si è forse ignorato uno degli elementi chiave per interpretare la cultura amministrativa del nostro paese. In sintesi si può affermare che ciò che caratterizza la situazione italiana è il fatto che su un impianto organizzativo di derivazione francese (basta pensare alla presenza dei Prefetti e dell'amministrazione periferica dello Stato), si è innestato, ad opera di una evoluzione dottrinale e giurisprudenziale prima ancora che legislativa ben successiva all'Unità, un diritto amministrativo di schietta ispirazione germanica. Quali ne siano le principali caratteristiche è noto: «adozione del lessico pandettistico e del metodo sistematico-esegetico, giuridicizazzione descrittiva del sistema dei poteri pubblici con la esclusione di ogni considerazione e valutazione economica, statistica e sociologica » (Rebuffa 1985). Le conseguenze sono la costruzione del diritto pubblico, ad imitazione del diritto privato, ma in modo del tutto distinto da esso, come sistema geometrico di concetti il cui contenuto è costituito dal complesso delle manifestazioni di volontà della persona Stato. Il principale problema di ricerca che si pone di fronte agli studiosi (ma anche il principale elemento di trasformazione del


sistema) è dato dalla delinitazione dinamica del potere della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini, e cioè il tema della giustizia amministrativa. Non si tratta in realtà di un processo del tutto nuovo: già in precedenza ed in riferimento all'opera di G. D. Romagnosi, è stato rilevato come « il contenzioso amministrativo assume... una rilevanza decisiva e fondamentale nel processo genetico del diritto amministrativo, si da confondersi con esso - quasi senza residui - nella sua fase nascente » (Aimo 1985). Lo sviluppo del diritto amministrativo dopo la sua definitiva istituzionalizzazione ad opera di Orlando alla fine dell'800, quindi, non fa che approfondire, ed in qualche modo giustificare teoricamente, un processo che viene da bn tano. E questo aspetto, quello della necessaria .giustiziabilità dell'azione amministrativa costituisce la pietra angolare sulla base della quale viene costruito il sistema del diritto amministrativo: ad esso vanno infatti ricondotti i significati ideologici e culturali prima ancora che normativi, di concetti come atto amministrativo, competenza, procedura ed in definitiva anche di organizzazione pubblica. Come ho cercato di mostrare in altra sede a proposito delle relazioni tra centro e periferia (Dente 1985), del resto limitandomi a riprendere quanto affermato dalla migliore dottrina giuridica, quella più consapevole delle implicazioni metagiuridiche delle proprie concettualizzazioni (Cassese 1.971; Berti 1979), una parte notevole delle ambiguità che caratterizzano il funzionamento della pubblica amministrazione deriva appunto dall'esigenza di assicurare in ogni momento una possibilità di impugnazione giurisdizionale al cittadino,

senza al tempo stesso negare il carattere pubblico », e pertanto sovraordinato ed in qualche modo asimmetrico, del rapporto che così si stabilisce. Non appare quindi casuale che il sistema della giustizia amministrativa segua uno sviluppo non completamente comparabile con quello degli altri paesi europei, malgrado le simiglianze istituzionali (ad esempio la presenza di un Consiglio di Stato copiato sul modello francese), anche a causa di quella peculiare invenzione che è il concetto di interesse legittimo, distinto dal diritto soggettivo, e che si ritrova solo in Italia ed in Belgio, appunto. Questa centralità della giustizia, come già detto, illumina di sé l'intera evoluzione della amministrazione e della sua cultura. In fondo possiamo affermare che si tratta di una cultura profondamente weberiana senza 'saperlo, che mette al centro dell'intera ricostruzione la nozione di legittimità intesa come legalità procedurale, la distribuzione dei compiti stabilita per legge (il principio di competenza), la gerarchia amministrativa (basata sul presupposto che la competenza legale del funzionario di livello superiore include quella dell'inferiore, e che non è giustificata' sulla base dell'unità di comando, come nell'esercito, bensì sulla esigenza di assicurare il massimo possibile di uniformità interpretativa) e la pervasività del controllo preventivo di legittimità. Si tratta di una serie di valori profondamente iscritti nella cultura giuri'dica dell'epoca che non a caso reagirà male alla nascita di fenomeni difficilmente inquadrabili in questa concettualizzazione, come ad esempio lo sviluppo dei primi sindacati amministrativi (cui dedicarono interventi impegnati grandi nomi del dir.itto amministrativo, come Santi Romano, 21

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Orlando e Ranelletti), dei primi servizi pubblici, eccetera. E' dentro questo quadro interpretativo, e solo al suo interno, che si comprendono alcuni conflitti tipici delle burocrazie weberiane classiche, come ad esempio quello tra politica ed amministrazione. In realtà la questione viene da lontano ed ha una portata ben più generale: si tratta di definire la posizione della amministrazione nei confronti della società, non solo nei confronti della politica, e tanto meno solo nei confronti dei partiti di governo. Lo Statuto degli impiegati civili dello Stato del 1908, ad esempio, mostra mi pare con una certa chiarezza questa contraddizione: nato per iniziativa di Giolitti, il leader politco che più di ogni altro ha cercato di governare attraverso la burocrazia, esso apparentemente aumenta le garanzie dei funzionari nei confronti della politica, ed in qualche m'odo risponde alle domande espresse dei funzionari (Guarnieri 1988), ma in realtà ha l'effetto, consciamente perseguito, di attirare la burocrazia nell'orbita della maggioranza parlamentare, di depotenziare i sindacati amministrativi (che infatti condurranno una lotta perdente contro il progetto, chiamato « legge capestro ») e di sconfiggere l'influenza sulla burocrazia del socialismo turatiano (Melis 1980; Gassese 1983). Esso costituisce sì una incarnazione dei principi guida della ideologia amministrativa di derivazione giuridica, e proprio per questo viene accettato senza resistenza e addirittura rivendicato da tutti gli attori principali che la stessa cultura condividono, ma questo non significa affatto che il potere della politica sull'amministrazione sia diminuito, anzi per più di un aspetto si può affermare che è aumentato, riducendo quest'ultima a 22

quel ruolo di « fedele esecutore » che il modello culturale dominante, anche tra i funzionari, le assegna. -

DALLA COSTITUENTE AL CENTRO-SINISTRA

La cultura giuridica sopra descritta, e che attraversa con assoluta continuità l'intera storia unitaria ivi compresi gli anni del fascismo, viene integralmente recepita dalla Costituzione. La lettura dei verbali e dei documenti predisposti dalla Commissione Forti, e cioè la « Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato » istituita presso il Ministero per la Costituente (D'Alessio 1979), che tanta influenza avrà sulla redazione della carta costituzionale, conferma questo giudizio nei due sensi possibili. Anzitutto le caratteristiche personali dei commissari confermano una volta di più che il dibattito sull'organizzazione e le regole di funzionamento degli apparati è in Italia considerato, un problema dei giuristi, senza distinguere tra alti funzionari, magistrati e professori universitari. All'interno di questo gruppo vi sono tensioni e conflitti (tra «teorici» e « pratici », tra vecchie e nuove generazioni), ma il substrato di fondo è comune a tutti. In secondo luogo, e soprattutto, è la sostanza delle posizioni espresse che conferma il giudizio. La assoluta dominanza del discorso relativo alla dialettica tra autorità dello Stato e libertà degli individui, e quindi alla necessità di porre limiti anche giurisdizionali - alla prima, emerge con grande chiarezza in ogni momento del dibattito, persino quando si tratta di porre i principi in materia di organizzazione della pubblica amministrazione. I


vincoli alla creazione di nuovi ministeri, ad esempio, sono motivati con un'equazione tra la creazione di nuove strutture, l'attivazione di nuovi poteri autoritativi, e quindi un ulteriore aumento della compressione della libertà dei cittadini. L'idea che lo sviluppo delle strutture organizzative dello Stato sia una conseguenza dell'aumentare delle funzioni svolte nell'interesse della generalità della cittadinanza, o comunque di rilevanti segmeti di essa, è pressocché del tutto estranea. all'immagine prevalente nel ceto dei giuristi. Solo in apparenza questa parzialità di interesse è ascrivibile ad una reazione al fatto che l'haha usciva da un ventennio di dittatura: in realtà la cultura giuridica aveva conosciute una totale continuità e, per così dire, continuava a fare ciò che aveva sempre fatto e che sapeva fare meglio. Il testo della Costituzione rispecchia fedelmente questa ideologia (che viene pertanto consacrata nella carta fondamentale rinforzando la dominanza della cultura tradiizonale), nel fissare i principi chiave dell'azione amministrativa (l'imparzialità ed il buon andamento), nel sottoporre a riserva di legge il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri ed in definitiva anche degli uffici nonché le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità propriè dei funzionari. Inoltre la Costituzione tende a disegnare una figura di funzionario dotata di un certo margine di indipendenza, in quanto simile ad un.magistrato: la collocazione « al servizio esclusivo della Nazione », la previsione generalizzata del concorso pubblico come modalità di accesso e la già ricordata riserva di competenza, sono tutti elementi di un identikit fortemente influenzato dall'ideologia dominante.

Né un'analisi del dibattito politico altera il quadro sopra schematizzato, per la semplice ragione che esso è pressoché assente. Destra e sinistra hanno ben altri terreni su cui confrontarsi ed agli apparati non dedicano alcuna attenzione. Insomma le posizioni espresse e le soluzioni adottate in sede costituente per quanto ci interessa qui sono monopolistiche in primo luogo per mancanza di alternative. Se questa è la situazione nei « fervidi anni » della ricostruzione, non stupisce la totale assenza di novità anche nell'epoca immediatamente successiva, che si prolunga sino al primo governo di centro-sinistra. Gli anni dal 1948 al 1962 vedono infatti una continuità assoluta di uomini, di impostazione culturale e di istituti giuridici. Non va dimenticato infatti che anche le più significative innovazioni che in altri settori sono state introdotte dalla Costituzione vedono la luce con molto ritardo: la Corte Costituzionale viene creata nel 1956, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958, le Regioni ed il refe rendum abrogativo addirittura nel 1970, non senza un certo grado di depotenziamento del loro significato (basta pensare alla legge Scelba del 1953 sugli organi delle Regioni). Per quanto riguarda le materie che più direttamente ci interessano le novità non sono certo di rilievo: il Testo Unico del 1957 riproduce gli Qrientamenti dominanti in materia di diritti e doveri dei funzionari, il decentramento burocratico dei primi anni '50 si colloca tutto all'interno di un dibattito ormai antico, e per il resto c'è poco o niente. Quanto alla continuità dottrinale ben pochi dubbi si possono avere sulla sua sussistenza: « negli anni '50 vengono scritti

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circa 15 volumi relativi all'atto amministrativo, inteso come momento nel quale si regola il rapporto tra autorità e libertà» (Cassese 1982). Quanto infine 'alla continuità degli uomini all'interno, delle élites amministrative e professionali essa, nel periodo considerato, ma anche successivamente, viene assicurata dai meccanismi di carriera che privilegiano l'anzianità e dalla mancanza assoluta di ricambio in sede di epurazione postbellica. Il risultato è che nel 1961 (Demarchi 1965) la totalità degli alti gradi burocratici aveva percorso buona parte della sua carriera durante il periodo fascista, ed ancora nel 1970 il 95% dei dirigenti intervistati da Putnam era stato assunto prima del 1943 (Putnam 1973). La socializzazione dei funzionari, pertanto, si era svolta tutta all'interno della ideologia dominante. In realtà nell'economia del nostro discorso questa continuità tra fascismo e postfascismo non assume un grande significato: anzitutto perché ad essa fa da pendani la continuità tra prefascismo e fascismo, ed in secondo luogo perché, come abbiamo implicitamente rilevato, anche durante quel periodo la questione del rapporto tra autorità pubblica e libertà individuale (che poco o nulla ha a che fare con il problema della libertà politica) resta la preoccupazione dominante della cultura amministrativa. La controprova di quanto affermato è costituita dalla vicenda della amministrazione locale che prosegue la sua strada sulla base del Testo Unico del 1934 (tra l'altro ancor oggi in vigore), risolvendo elegantemente la questione del carattere antidemocratico del regime politico richiamando in vigore le norme del 1915 sugli organi elettivi di Comuni e Provincie. 24

LE «DURE LEZIONI DELLA REALTÀ » E LE TENDENZE REVISIONISTICHE

Naturalmente, si tratta di un'ideologia inadeguata, in termini descrittivi prima ancora che normativi. La pubblica amministrazione italiana non è oggi, non era all'inizio degli anni '60, e probabilmente non era mai stata una perfetta burocrazia weberiana. Almeno sotto due profili la cultura del diritto amministrativo come ideologia dell'amministrazione non riesce a dare conto della realtà. In primo luogo è ormai sin dall'inizio del secolo che la gran parte delle politiche messe in opera dalle pubbliche amministrazioni non ha più un carattere essenzialmente regolativo. Lo Stato interviene essenzialmente attraverso la distribuzione di risorse e pertanto la dialettica autorità/libertà, che trova nella giustiziabilità il suo snodo essenziale, è spesso assente,. almeno nei termini consueti prediletti dalla dottrina. In secondo luogo il momento paradigmatico della discussione sulla organizzazione, e cioè l'amministrazione dello Stato che si organizza nei ministeri, ha perso ormai da tempo la centralità che il dibattito tradizionale continua ad attribuirle. La fuga dall'amministrazione », che è innanzitutto fuga dalla legge di contabilità e dai controlli che essa implica, è in atto ormai da tempo e ne costituiscono la prova la crescita delle « amministrazioni parallele» (gli enti pubblici, le partecipazioni statali, le agenzie atipiche come la Cassa del Mezzogiorno, eccetera) (Cassese 1974) e l'aumento delle funzioni delle amministrazioni locali (anche questo un fenomeno che viene da lontano). L'amministrazione è cresciuta (tra il 1881


e il 1961, a fronte di un aumento della popolazione del 74%, i dipendenti statali sono aumentati del 1267%; tra il 1938 e il 1958 i soli impiegati civili dello Stato sono aumentati del 138%), le funzioni che svolge non sono più di carattere regolativo, i moduli organizzativi si sono differenziati, le caratteristiche personali e professionali si sono diversificate almeno in parte (in definitiva soio il 40% dei fun zionari della carriera direttiva hanno una laurea in materie giuridiche). E' in questo quadro di mutamento che va collocata la successiva evoluzione della cultura amministrativa. La reazione da parte delle élites amministrative a questo stato di cose è differenziata. In primo luogo vi è chi fa finta di niente. Chi prosegue cioè sulla strada consueta, sapendo che in ogni caso la posizione monopolistica goduta sia nella fase di elaborazione della normativa, sia in quella della sua attuazione in via amministrativa o in via giudiziale consente di razionare le novità, di socializzare i potenziali antagonisti, di omologare i comportamenti. I principi organizzativi della amministrazione centrale dello Stato vengono così estesi, attraverso l'opera della dottrina e della giurisprudenza, agli altri enti pubblici; lo stesso vale per i meccanismi procedurali e per la disciplina dell'impiego pubblico. Non bisogna ritenere che questo settore della cultura amministrativa sia composto unicamente da reazionari chiusi ad ogni innovazione, tutt'altro. Essi al contrario spesso invocano necessarie riforme, che peraltro si caratterizzano per essere tutte nel solco della tradizione precedente: aumento delle garanzie dei cittadini nei confronti dello Stato (ad esempio attraverso la più volte

proposta legge generale sul procedimento amministrativo), miglioramento della tutela prestata dai tribunali amministrativi attraverso una garanzia di imparzialità, eccetera. Un secondo gruppo di studiosi si rende conto, talvolta in maniera confusa, talaltra con maggiore consapevolezza, della sfida che sta di fronte alla cultura giuridica, delle trasformazioni dello Stato (da « monoclasse » a « pluriclasse » per riprendere la terminologia di M.S. Giannini) che richiedono un rinnovamento degli strumenti di analisi, un'attenzione a tematiche differenti da quelle tradizionali. Gli anni '50 e '60 vedono affacciar si sulla scena studiosi che cercano di innovare attraverso la proposizione di nuovi concetti giuridici come ad esempio quelli di « funzione amministrativa (Benvenuti 1952), « coordinamento » (Bachelet 1957), « servizio pubblico » (Pototschnig 1964); per altri l'innovazione passa attraverso Io studio di temi e pro blemi scarsamente indagati nel solco della tradizione che vedeva nell'atto amministrativo e nella giustizia il luogo « alto » della riflessione dottrinale. Abbiamo così monografie su argomenti come « i beni pùbblici » (Cassese 1969), la pubblica amministrazione come organizzazione (Berti 1968), la burocrazia (Pastori 1967) che tendono a presentare una scienza giuridica diversa da quella del passato e meno ossessionata dalle tematiche connesse al rapporto autorità/libertà. Tuttavia tra questi tentativi dottrinali e il rovesciamento di una cultura tradizionale e consolidata la strada da compiere è ancora lunga, tanto più che nel frattempo sono i fattori esogeni ad intervenire con anche maggiore efficacia.

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STATO, ECONOMIA, PROGRAMMAZIONE E DECISIONI RAZIONALI

Ed 'in effetti la trasformazione avviene con la nascita dei governi di centro-sinistra 'e con l'irruzione sul mercato intellettuale di un termine nuovo per definire l'attività di governare che, nel clima un po' sonnacchioso dell'epoca, ha l'effetto di una bomba: 'la programmazione. E' difficile oggi rendersi conto dell'impatto che ebbe l'affermazione dell'esigenza di un governo globale dell'economia in una cultura come quella italiana che sembrava impregnata di liberismo e di fierezza per il « boom » economico degli anni '50 considerato, a torto o a ragione, di tipo sostanzialmente manchesteriano. Le battaglie che sul termine e sulle sue qualificazioni (programmazione vincolante o indicativa?) si combatterono furono violente e probabilmente lasciarono più di una traccia sulle traduzioni in pratica del concetto. Si trattò peraltro di uno shock limitato sia nello spazio che nel tempo. Nello, spazio, perché la situazione di non-sviluppo di vaste aree del paese e la tradizionale dipendenza delle relative economie dagli interventi pubblici, rendevano la vigenza dei principi liberisti « classici » ristretta al nord industrializzato ed a quella parte, probabilmente minoritaria, della classe politica che ne rispecchiava fedelmente gli interessi. Nel tempo perché, da un lato, le argomentazioni economiche alla base delle opposizioni erano largamente frutto di arretratezza culturale e pertanto destinate a venire superate, e, dall'altro, perché l'incarnazione concreta di quelle scelte, passati i primi entusiasmi, si rivelò ben presto tranquillizzante (la 26

programmazione « digerita » per dirla con Amato 1972) e comunque non tale da alterare radicalmente nel breve periodo le pratiche consolidate. Dove però la programmazione, il dibattito che la accompagnò e le esperienze che la realizzarono, acquistò un valore essenziale, giungendo a segnare un vero e proprio spartiacque fu proprio sul problema che in questa sede ci interessa: la cultura (giuridica) della amministrazione. La rottura è innanzitutto modifica radicale del programma di ricerca: porre 1' accento sulla necessità (e sugli strumenti) di un governo « forte » della società nelle sue varie sfaccettature è ovviamente in alternativa stridente rispetto alla storia di una disciplina che è cresciuta e si è sviluppata sul tentativo di porre dei limiti, di condizionare, in definitiva di indebolire il comando dello Stato sull'individuo. E il fatto che ciò avvenga sul terreno dei rapporti economici costituisce un aspetto di anche maggiore significatività dato che è proprio su questo terreno che i giuristi liberali fondatori del diritto amministrativo contemporaneo hanno affilato i denti. E del resto ciò viene in qualche modo dimostrato dal fatto che non solo l'attenzione ai limiti del potere amministrativo non scompare, ma anzi acquista un nuovo spazio attraverso la considerazione degli interessi diffusi, degli interessi deboli, eccetera. E' invece sul governo, e non più sulla tutela, degli interessi « forti » che si appunta l'interesse e l'elaborazione del «nuovo diritto pubblico» che in quegli anni si afferma. La rottura peraltro si concretizza anche in altro modo. Il diritto, ed il diritto pubblico soprattutto (anche se un feno-


meno analogo si verifica anche in altri settori, come il diritto del lavoro), si confronta con la politica ed è dall'affermazione della necessità di una politica del diritto che si verificano trasformazioni di rilievo nell'organizzazione accademica attraverso la formazione di un nuovo gruppo culturalmente egemone. Il ceto dei giuspubblicisti, comunque cono sce in quegli anni una notevole espansione, che ha varie cause tra cui l'aumento delle posizioni universitarie, e tende anche a segmentarsi: l'aspetto più vistoso è costituito dal fatto che la maggioranza dei nuovi giuristi rompe con la tradizione nel senso che trova collocazione su un mercato che non è più quello della libera professione privata, ma quello della consulenza sistematica alle pubbliche amministrazioni (non senza effetti, peraltro da non sopravalutare, sulla politicizzazione della categoria). Lo spazio qui non ci consente di diffonderci ad illustrare le trasformazioni del diritto pubblico italiano intorno agli anni '70 né di giustificare compiutamente la diagnosi secondo la quale tale mutamento è da far risalire in buona parte alle trasformazioni dell'organizzazione amministrativa che nel tentativo di introdurre la programmazione economica hanno avuto il loro principale simbolo. Bisogna invece cercare di affrontare direttamente l'argomento che ci interessa, vale a dire identificare l'ideologia dell'amministrazione prevalente in questi anni. Il presupposto è che la comunità dei giuspubblicisti resta il principale attore delle politiche di riforma amministrativa, che essa resta un gruppo sostanzialmente mobile e coeso che occupa tutte le posizioni (in Parlamento, nelle università, negli apparati ed in de-

finitiva anche negli organi di controllo) rilevanti ai fini della definizione dei contenuti della politica, ma che in questi anni la sua ideologia tende a mutare progressivamente e in modo talora contraddittorio - verso un modello di amministrazione sostanzialmente nuovo rispetto al passato (prossimo). Con un certo grado di imprecisione si può dire che la trasformazione principale è costituita dal fatto che mentre nel periodo precedente la definizione condivisa di amministrazione era intrinsecamente giuridica (in quanto aveva a che fare con rapporti giuridici, ed in specie con il rapporto tra soggetto privato e potere pubblico), nel periodo successivo la nozione tende ad essere derivata dall'esterno, ed in particolare da una lettura semplificata, e semplicistica, del paradigma dell'attore razionale e dell'economia. Il punto di partenza è costituito proprio dall'idea che la programmazione economica,, ed in specie la programmazione onnicomprensiva del primo piano Pieraccini, chiedesse, ed in definitiva si identificasse con una nozione di coordinamento, di unificazione del comando, con la estensione di raccordi organizzativi e procedimentali. A tale idea corrisponde l'uso e l'abuso del termine piano o programma in tutta la legislazione dei tardi anni '60 e di tutti gli anni '70. Dalla legge sulla programmazione ospedaliera del 1968, a quella istitutiva delle comunità montane del 1971, a quella dello stesso anno relativo agli asili nido, alla legge del 1973 sulla localizzazione delle centrali elettriche, a quella del 1976 sulla lotta agli inquinamenti idrici, sino a giungere ai più illustri esempi della legge di riconversione industriale del 1977 27


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e di riforma sanitaria del 1978, tutto il decennio è per così dire cosparso di piani e programmi da predisporre, adottare, attuare. E correlativamente la « adozione del metodo della programmazione » diventa una parola chiave, per non dire un luogo comune, del dibattito sulla riforma degli apparati. Dietro questa proliferazione e questa unanimità sta un giudizio larghissimamente condiviso, e cioè che le vere difficoltà della programmazione derivano (o sono derivate, o deriveranno) dal carattere frammentato delle organizzazioni pubbliche, che avrebbe impedito l'elaborazione di un quadro coerente di obiettivi e priorità, prima ancora che una attuazione fedele delle politiche poste in essere in sede programmatoria. L'unificazione (in via organizzativa attraverso la creazione di nuovi uffici o di nuovi organi collegiaji, in via procedimentale attraverso la prefigurazione di sequenze necessarie di interventi) diventa il presupposto per la elaborazione e l'attuazione delle politiche di piano. Da questo punto di vista anche l'abbandono della pianificazione onnicomprensiva, maturato all'interno della scienza economica attraverso la predisposizione di programmazioni per obiettivi o per progetti (Pennisi/Peterlini 1987) non altererà il programma scientifico dei giuristi. Malgrado il fatto che alcuni economisti affermino che « una concezione del potere pubblico come un blocco monolitico, indivisibile nello spazio e nelle funzioni, come un sovrano assoluto che solo il suffragio universale preserverebbe dall'abuso, tende a respingere i principi ed i canoni di governo dell'economia... (i quali) si inquadrano assai più naturalmente in una visione articolata del potere... che 28

affida la salvaguardia dei valori della democrazia non solo al pluralismo dei contendenti nelle competizioni elettorali, ma anche alla pluralità delle funzioni e delle istituzioni di governo » (F. e T. Padoa Schioppa 1984), il problema dominante per la cultura giuridica dell'amministrazione resterà quello di assicurare organicità, unitarietà, globalità e coerenza al sistema amministrativo. Le matrici teoriche di questa dottrina, che almeno in parte rovescia l'impostazione tradizionale, sono diverse. In primo luogo, probabilmente, a far accettare una impostazione tendenzialmente olistica del potere amministrativo contribuisce il fatto che essa evoca tendenze da sempre presenti nel diritto e nella all,gemeine Staatslehre, e cioè una certa nostalgia per l'ancien régime, che si incarna in una visione sostanzialmente organicista dello Stato, una visione che considera il conflitto e le contraddizioni come una patologia. Una verifica empirica che metta a confronto la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici elaborata da Santi Romano (e che rappresen. ta forse il momento più alto di una elaborazione dottrinale che possiamo chiamare democratica), con l'opera di Tocqueville o con i Federalist Papers, non potrebbe che confermare il carattere mevitabilmente molto più stato-centrico del diritto pubblico italiano. In secordo luogo, però, a definire questa tendenza verso l'unificazione formale e sostanziale del comando contribuiscono anche elementi molto più moderni, il che spiega il carattere « riformista » e progressista delle relative proposte. In sostanza si tratta di una accettazione meccanicista del paradigma dell'attore razionale derivato dalla scienza economica e


almeno in parte da una certa teoria dell'organizzazione. Si prenda ad esempio la seguente citazione di un illustre giurista « nell'ambito di una qualsiasi impresa una direzione collegiale non omogenea è causa di inefficienza... Una direzione collegiale non omogenea porta alla distruzione dell'impresa... Se la regolamentazione di dettaglio di un elemento essenziale è sbagliata, ne viene compromesso il funzionamento dell'intera organizzazione » (Guarino 1976), in cui unità di comando e coerenza della regolazione vengono poste come regole assolute per 1' efficienza ed addirittura la 'sopravvivenza delle organizzazioni. Sarebbe fin troppo facile rilevare che erano molti anni ormai ' che gli scienziati sociali - da Simon a Lindblom - avevano messo in luce i limiti di una versione astratta del modello razional sinottico; ma non è questa la sede per ,documentare i ritardi della cultura economica (su cui cfr. Romani 1985 e la replica di Salvati 1985) e di quella organizzativa a rendersi conto delle conseguenze di tali revisioni. Resta il fatto che il diritto pubblico italiano (con le qualificazioni di cui diremo nel prossimo paragrafo) sposa tale impostazione. L'esempio più evidente di questa, convergenza di impstazione tra giuristi ed -economisti è probabilmente rappresentato dal dibattito sulla necessaria riforma delle procedure di bilancio, che trova sbocco nella legge 468 del 1978 con la sua enfasi sia sulla necessità di proiezione pluriennale, sia sulla necessità di accentrare le decisioni micro come unica modalità per il raggiungimento delle finalità macroeconomiche. Il giudizio secondo 'il quale si è trattato del « più serio (e forse solo) esperimento di pro. grammazione sinora compiuto» (Spaven-

ta 1981) è largamente condiviso; del resto le attese erano alte (Ruffolo 1973) e le delusioni per un uso « distorto »' saranno notevoli. Ad esempio la mancata adozione del bilancio pluriennale programmatico viene considerata estremamente grave in quanto «ha determinato un capovolgimento della logica che dovrebbe ispirare il processo decisionale. Infatti. le' scelte andrebbero costruite partendo dai dati di sintesi per poi disaggregare i medesimi sino agli stanziamenti del bi. lancio annuale: è in questo senso che i risultati differenziali e le 'grandezze pluriennali presentano un carattere preliminare che garantisce la tenuta del 4isegno complessivo e pone al riparo l'elaborazione del medesimo dalle istanze seItoriali e contingenti » (Brancasi 1984, enfasi aggiunta). Ma l'accettazione teorica del modello sinottico, con il suo carattere essenzialmente deduttivo e con la mancata previsione di momenti negoziali e discrezionali, peryade tutta la dottrina del tempo e trova più di una incarnazione, come del resto abbiamo già rilevato, nella legislazione dell'epoca (alla cui redazione, è bene ricordarlo, partecipa la cultura giuridico-amministrativa soprattutto per quanto riguarda le impostazioni di. fondo e la predisposizione degli strumenti tecnici di intervento) Meno evidenti sono le conseguenze di questo revirement dottrinale su1 problema dell'amministrazione. Schematicamente si assiste ad un rovesciamento di posizioni: se -nella dominazione del diritto amministrativo « classico » l'esigenza di assicurare imparzialità all'azione amministrativa aveva generato le garanzie di autonomia organizzativa della burocrazia (che doveva venir sottoposta solo alla leg29


ge, a simiglianza della magistratura), ora invece ci si pone con forza il problema del controllo politico, come modo di assicurare l'efficacia del comando unitario. Viene avanzata la possibilità di nomina politica dei vertici amministrativi, e comunque si afferma che occorre superare la « separatezza » della amministrazione. Si prenda ad esempio la seguente citazione (Ruffolo 1973): « La difesa dai rischi di sopraffazione burocratica o tecnocratica non sta nella frammentazione degli strumenti, ma nella definizione di obiettivi e nella conseguente predisposizione di programmi sufficientemente netti ed articolati, perché possano essere imposti a chi li dovrà eseguire e perché consentano di misurare resistenze e deviazioni ». Nel clima culturale dell'epoca questa esigenza si attua anche attraverso proposte di accorpamento di apparati (la riforma dei ministeri), di centralizzazione della contrattazione collettiva (la legge quadro), di riforma « globale » dell'amministrazione (il « rapporto Giannini »). Il rischio un po' sempre presente . era quello di considerare l'apparato pubblico « come una macchina i cui difetti non derivavano dagli intrecci che lo legavano alla società civile » (Amato 1972). Ma il problema di fondo è che i riformisti non avevano a disposizione modelli organizzativi e strumenti di intervento, realmente alternativi a quelli tradizionali. L'ipotesi di fondo può essere formulata nel modo seguente: proprio perché le e sigenze di ri/orma non nascevano dall'in. temo del diritto amministrativo, ma da urìa lettura di domande esterne (economiche e, come vedremo tra breve, politiche), il nuovo non sostituisce l'antico, ma vi si aggiunge e vi si sovrappone. L'intelaiatura essenziale del diritto am30

ministrativo, creata dalla tradizione precedente, resta pressocchè immutata: resta l'atto come base del discorso, resta l'organo come punto di imputazione della volontà, resta la competenza come definizione formale delle funzioni assegnate, eccetera. Il nuovo viene inserito ed aggiunto: si discute della collocazione degli atti di programmazione nel sistema delle fonti, si creano nuove strutture organizzative, qualificate come organi, per lo svolgimento di nuove funzioni (coordinamento, indirizzo, ecc.), soprattutto si utilizza estensivamente la procedimentalizzazione dell'attività, e cioè, al fine di contemperare le differenti esigenze di cui sono portatori i diversi soggetti pubblici e privati, si tende a predeterminare autoritativamente le sequenze di atti che vanno a comporre il prodotto finale (Nigro 1984). Su quest'ultimo aspetto si appunteranno numerose critiche anche a causa della complessità che tale modo di procedere evidenzia: gli 84 adempimen ti necessari per rendere operativa la legge sulla riconversione industriale saranno oggetto di scherno (Compagna Marchini 1981) e comunque il qualificativo più usato quando si parla di procedura è «farraginosa ». Tuttavia queste critiche non colgono la sostanza della questione: e cioè che, senza uscire dalla logica dell'amministrazione come « affare dei .giuristi », il numero degli strumenti attraverso i quali assicurare il comando politico, il coordinamento, la programmazione e la coerenza dell'azione è drasticamente limitato. La cultura giuridica fa quello che sa fare, e cerca anche di fare un po' di più, ma il difetto, come si suol dire, è nel manico: nella indisponibilità cioè sul mercato intellettuale di alternative adeguate alle trasformazioni che


hanno subito i problemi. Ma su questo torneremo in sede di conclusione.

AMMINISTRAZIONE, PARTECIPAZIONE, DEMOCRAZIA

Il quadro sinora tratteggiato non sarebbe tuttavia completo se omettessimo di menzionare una ulteriore tendenza che si è storicamente stratificata sopra, o forse sarebbe meglio dire in mezzo, alle due precedenti. Si vuole alludere alla ideologia della partecipazione democratica che da pura e semplice richiesta di allargamento del suffragio si è progressivamente estesa alla rivendicazione di maggiori spazi per l'autogoverno locale, di un coinvolgimento degli organi elettivi nell'attività amministrativa, di un potenziamento degli strumenti di controllo sui pericoli tecnocratici, di un'affermazione di un primato della politica a tutti i livelli del sistema politico/amministrativo. Quali siano le principali matrici culturali di tale impostazione è noto: l'affermazione della necessaria pienezza della sovranità popolare, propria del pensiero democratico e di sinistra e, al tempo stesso, la diffidenza nei confronti della concentrazione di potere costituita dallo Sta. to che accomuna - almeno nel caso italiano - il pensiero cattolico e quello socialista. Altrettanto noto è che, soprattutto nel corso degli anni '70, questa ideologia influenza fortemente il movimento rinnovatore a livello di politica istituzionale. Contemporaneamente alle tendenze economico/razionali tratteggiate nel paragrafo precedente, e talora in un non completamente percepito conflitto con esso,

si afferma all'interno della cultura giuridica dell'amministrazione una tendenza alla democratizzazione dell'amministrazione che si traduce nell'introduzione generalizzata di meccanismi di partecipazione, più o meno legati ad esperienze di decentramento. Le proposte di riforma che sostanziano questo aspetto sono note e sono già in parte state richiamate: dai consigli di quartiere alla partecipazione scolastica, dall'istituzione del difensore civico alla centralità delle assemblee elettive. Su questi aspetti del dibattito di riforma amministrativa nel nostro paese sono stati versati letteralmente fiumi di inchiostro (talvolta ignorando come il caso italiano non fosse affatto tanto speciale), e pertanto basta un richiamo. Vanno invece menzionati molto brevemente alcuni aspetti rilevanti ai fini del nostro discorso in quanto forniscono nuovi tasselli al ptzzle o nuove conferme alla diagnosi sin qui formulata. In primo luogo va rilevato come sia a livello dei valori, sia a livello delle soluzioni empiricamente adottate, la affermazione della partecipazione sia spesso correlata all'esigenza di provvedere una migliore tutela agli interessi diffusi (ambiente, ecc.) o « deboli ». Ed in effetti uno dei settori nei quali il dibattito riformatore è stato più ricco - dalla redazione degli Statuti regionali sino alle recenti esperienze delle « carte dei diritti » - è stato proprio quello dell'estensione della tutela preventiva e successiva, amministrativa e giurisdizionale anche al di fuori delle ipotesi previste dalla tradizione del diritto pubblico. L'osservazione che si può fare a questo proposito, e che è in grado di spiegare almeno in parte la vera e propria passione con la quale la cultura giuridica propo31


neva radicali innovazioni in questo settore (basta pensare alla questione della legge generale sul procedimento amministrativo che è sull'agenda da moltissimo tempo), malgrado la tiepidezza con la quale l"élite politica ha sino ad ora accolto queste impostazioni, è che in questo caso essa si muoveva sul proprio terreno originale e ritrovava, per così dire, le proprie « radici » più profonde. Che poi tali tentativi fossero adeguati rispetto alle caratteristiche del sistema amministrativo, e/o alle domand,e provenienti dalla società civile e dalla classe politica, in questo caso non appariva di soverchia importanza, agli occhi di giuristi che potevano, finalmente, fare il proprio mestiere senza compromessi disciplinari. In secondo luogosi può osservare che la traduzione in concreto delle istanze di partecipazione e decentramento, spesso filtrate attraverso una visione distorta del primato della politica », ha talvolta portato a conseguenze deteriori di lottizzazione e clientelismo. Quanto meno tale è la critica che è stata spesso mossa ad alcune esperienze in questo senso (basta pensare alla polemica sulla politicizzazione della sanità successivamente alla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale). Sia la diagnosi corretta o meno, resta il fatto che oggi il pendolo riformatore sembra allontanarsi, anche a sinistra, dalla affermazione del primato, per proporre tutto al contrario l'attribuzione di responsabilità proprie alla amministrazione. Torneremo ancora brevemente su questo punto in 'sede di conclusione, ma questo è il luogo appropriato per notare come le proposte di « primato » avessero quanto meno il vantaggio (inconsapevole) di sottolineare come, nella amministrazione contemporanea sia la linea di' demarcazione 32

tra politica ed amministrazione ad essere estremamente difficile da tracciare. La rivendicazione di autonomia delle sue sfere, al contrario, omette una considerazione della difficoltà, con ciò dimostrando come, nei periodi di crisi, la cultura riformista tenda a ricadere sulle concettualizzazioni tradizionali, per mancanza di diversi e più appropriati strumenti di analisi. Infine, ed in maniera correlata con quanto appena detto, occorre notare come anche nel caso della tendenza alla democratizzazione vale quanto osservavamo in chiusura del paragrafo precedente. E cioè che proprio perché le esigenze di riforma non nascevano dall'interno del diritto amministrativo, il nuovo non sostituisce l' antico, ma vi si sovrappone. E così la dottrina si mette a creare nuovi organi (gli organi di partecipazione), nuovi atti (gli atti di partecipazione) e soprattutto nuovi procedimenti. E' dentro le forme tradizionali del diritto amministrativo che le nuove proposte trovano attuazione, e non sono tanto gravi i casi di aperta contraddizione (ad esempio il principio del segreto amministrativo) quanto quelli di incongruenza tra il significato che si vorrebbe attribuire e le forme che vengono utilizzate (ad esempio l'uso dello strumento del « parere » come modo di trasmissione della domanda politica). Gli esempi che si potrebbero fare sono numerosi e riguardano questioni apparentemente elementari: ad esempio la difficoltà per la' tradizione amministrativa di concettualizzare una cosa così semplicc come una riunione informale. L'unico esempio che faremo è stato scelto perché coniuga le due tendenze riformistiche che abbiamo menzionato, vale a dire l'ideologia della jrogrammazione e quella del-


la partecipazione e del decentramento. Il riferimento è all'art. 11 del DPR 616/ 1977 che, per il modo in cui è stato elaborato la commissione Giannini), può credo a ragione essere considerato un documento rappresentativo del riformismo istituzionale di quegli anni. Orbene, tale testo legislativo recita:

quella di chiedersi se queste previsioni normative sono effettivamente strumenti adeguati a perseguire i valori più volte affermati. Ma è giunto il momento di tirare le fila del nostro discorso.

Lo Stato determina gli obiettivi della programmazione economica nazionale con il concorso delle regioni. Le regioni determinano i programmi regionali di sviluppo, in armonia con gli obiettivi della programmazione economica nazionale e con il concorso degli enti locali territoriali... Nei programmi regionali di sviluppo gli interventi di competenza regionale sono coordinati con quello dello Stato e con quelli di cornpetenza degli enti locali territoriali. La programmazione costituisce riferimento per il coordinamento della finanza pubblica.

LA CULTURA AMMINISTRATIVA

A parte il caso dell'ultimo comma, che sembra talmente generico da costituire poco più che un desiderio, per il resto non è chi non veda come tutte le affer mazioni di programmazione, decentra. mento e partecipazione si traducano nella messa a punto di un procedimento che dovrebbe assicurare la consultazione dei diversi interessati Quanto l'accordo dei diversi soggetti sia poi necessario è ovviamente alquanto dubbio, anche per 1' oggettiva difficoltà di assicurare l'unanimità dei partecipanti. Ma ancor più rilevante è la considerazione che è la complessità di processi di questo tipo ad essere enorme, cosicché ipotizzare meccanismi di mediazione unicamente basati sul consenso appare alquanto illusorio. La questione non sembra tanto quella di giudicare se ed in che misura il testo proposto, considerato uno dei frutti più compiuti della cultura riformista, avrebbe potuto essere più preciso, quanto piuttosto

AD UNA SVOLTA?

Riassumendo quanto siamo venuti sin qui dicendo, possiamo affermare che, se per ideologia dell'amministrazione intendiamò quella «certa idea» di che cosa sono e che cosa dovrebbero essere gli apparati dello Stato, essa ha effettivamente subìto delle trasformazioni di rilievo nel corso degli ultimi 40 anni. In particolare il carattere di forte omogeneità e coerenza che essa presentava ancora all'inizio degli anni '60, e che I' aveva caratterizzata almeno dalla fine del XIX secolo, si è perduto nel periodo successivo attraverso la giustapposizione di due differenti tradizioni, quella economico/razionale e quella politico/partecipativa in potenziale contraddizione tra loro e con la cultura del diritto amministrativo classico. Tuttavia, se le idee cambiano, gli attori della politica di riforma amministrativa restano sostanzialmente gli stessi: la po lzcy communily che si occupa a tutti i livelli della sempre riaffermata riforma, è ancora oggi formata dagli specialisti del diritto pubblico. Oggi essa è un po' più articolata che per il passato, anche per chè è più ampia, ed accetta un'impostazione più sincretistica. Probabilmente il ritmo di penetrazione delle nuove idee è stato differente nei vari segmenti della community: più rapido tra i professo33


ri/consulenti e tra i funzionari/politici, più lento tra i magistrati, i funzionari amministrativi e i professori/avvocati. Ma l'unità di fondo non viene messa in discussione dato che essa si basa, come in tutte le policy communities, sul riconoscimento reciproco della legittimazione a parlare di riforma. Una legittimazione basata su1 principio che tutti i partecipanti hanno interessi in gioco, certo, ma soprattutto che essi condividono una conoscenza del problema che manca ad al-

tri. I giuristi come conoscitori dell'amministrazione è una formula interessante per quello che non dice, piùche per quello che dice. Se sotto il secondo profilo, infatti tende ad identificare la conoscenza con una capacità di generalizzazione empirica, in realtà così facendo si afferma implicitamente che ad assicurare la compattezza alla comunità stessa non è più la comunanza degli strumenti analitici utilizzati, come era in passato. Vi è dunque una perdita di unità, un aumento dell'incoerenza e della confusione nell'ideologia amministrativa italiana contemporanea, e tuttavia si tratta di un fenomeno in parte occultato ed in parte oggettivamente determinato dalla ben più vistosa perdita di unità dello stesso oggetto di analisi, e cioè la pubblica amministrazione. Il fatto che, di fronte alla estrema complessità dello stato contemporaneo, e delle insoddisfazioni nei suoi confronti, periodicamente tenda a riemergere - tra i non addetti ai lavori non meno che tra gli specialisti - la tentazione di operare larghe generalizzazioni e forti semplificazioni, non deve ingannare: è la pretesa ad avere una « dottrina » unitaria della pubblica amministrazione ad essere velleitaria e ascientifica, non la sua assenza. 34

Anzi, la peculiarità italiana, o quanto meno uno dei limiti più vistosi del dibattito, non consiste tanto nel fatto che l'ideologia è troppo differenziata ed incoerente, ma tutto al contrario che gli aittori sono troppo omogenei. Il fenomeno interessante da indagare è come mai gli scienziati economici e sociali siano così poco rappresentati nella policy community, e come mai le idee da essi proposte siano talora filtrate in maniera caricaturale. Si tratta di limiti organizzativi (ad esempio di organizzazione accademica)? Oppure è possibile che la maggiore rigidità degli strumenti analitici propria di discipline che, a differenza del diritto, si pongono il problema della verifica empirica delle proprie proposizioni, abbii reso più arduo il raggiungimento di quel grado di conoscenza del fenomeno amministrativo che, come abbiamo visto, legittima l'appartenenza alla community? Oppure è proprio mancanza di interesse alle tematiche considerate, come probabilmente è il caso per quanto riguarda gli economisti? O ancora sono i problemi di ricerca che si pongono gli scienziati sociali ad essere poco interessanti, almeno dal punto di vista della riforma amministrativa? O infine vi è tra di essi una incapacità e/o scarsa volontà di avventurarsi sui terreno prescrittivo, considerato a torto o a ragione come particolarmente infido? Probabilmente la risposta sta in una combinazione di tutti questi fattori, cui si aggiunge la considerazione che - almeno per quanto ri guarda sociologi e scienziati della politica - essi hanno condiviso alcune delle chiavi di lettura impiegate ed in particolare gli orientamenti razional/sinottici da un lato e quelli politico/partecipativi dall'altro.


Concludendo la nostra analisi, possiamo quindi affermare che l'ideologia amministrativa è mutata, che tale mutamento è stato in parte determinato dalle trasformazioni dell'amministrazione, ma in parte deriva dall'immissione per giustapposizione di altre tradizioni analitiche, e che il limite più vistoso è costituito dal carattere ancora troppo ristretto dal punto di vista culturale del dibattito. Il problema, all'ofdine del giorno anche a scopi conoscitivi, oltre che prescrittivi è allora quello di provvedere ad un suo arricchimento. Ciò può avvenire se gli scienziati economici e sociali riusciranno ad elaborare strumenti analitici adeguati (come in parte 'sta avvenendo attraverso gli studi di public choice e di policy analysis). 'Ciò comporta la capacità di superare alcuni limiti interni alla tradizione delle scienze sociali applicate a questo settore di ricerca. Per concludere, quindi, vorrei'ricordarne almeno due: la distinzione politica/amministrazione e la, questione della cultura dei burocrati. Sul primo punto l'aspetto interessante, già in precedenza segnalato, è la riemergenza della proposta di distinguere nettamente le competenze dei funzionari di carriera da quelle degli organi politici. Che tale impostazione nasca da una delusione nei confronti delle traduzioni in pratica dell'orientamento politico/partecipativo in questa sede non conta.. Ciò che conta, invece, è che la distinzione politica/amministrazione viene spesso compiuta a partire da una qualche distinzione tra fini e mezzi, tra obiettivi e strumenti. Io credo che uno dei settori nei quali gli scienziati sociali possono arricchire il dibattito corrente è proprio attraverso la critica di tale impostazione, dal punto di vista teo-

rico in primo luogo, ed attraverso la verifica di come ciò non accada empiricamente (Pennisi/Peterlini, Compagna Marchini). Certo, perché l'affermazione della necessaria interconnessione e sovrapposizione di ruoli tra politici e burocrati in sistemi amministrativi complessi possa pe. netrare l'ideologia amministrativa italiana, occorrerebbe in primo luogo che gli scienziati sociali stessi ne fossero convinti... Un ragionamento analogo vale per quanto riguarda un altro tema. E cioè che rap. porto c'è tra la cultura amministrativa così come l'abbiamo definita nelle pagine precedenti, e l'ideologia del funzionario, o, se si preferisce, gli atteggiamenti dei burocrati? Come è noto le ricerche empiriche su quest'ultimo tema in Italia non sono molto numerose (Cappelletti 1968, Demarchi 1969, Ferraresi 1969, Putnam 1973), e sono abbastanza datate. Più di recente abbiamo dei lavori più limitati nel campione, che prendono in considerazione soprattutto le burocrazie periferiche (Spalla 1983, Fargion, 1988) o prendono in considerazione solo alcuni aspetti per così dire interni alla amministrazione (Censis 1987). Il fatto è, per parlare francamente, che non si capisce bene quale sia la coerenza interna dell'oggetto della analisi, quale sia il grado di distintività rispetto 'all'esterno e, soprattutto, quali siano le conclusioni che sarebbe possibile tirare dalle ricerche. In primo luogo, infatti, non si capisce che cosa abbiano in comune un primario ospedaliero, l'ingegnere capo di un Comune, un giudice e il responsabile dell'ufficio del catasto, perché dovrebbero avere qualche cosa in comune e perché questo minimo comun denominatore, implicitamente, sia rappresentato dal responsabile dell'ufficio del catasto. In secondo luogo, poi, non si ca35


pisce perché mai i dipendenti pubblici, o anche soio i dirigenti della P.A., in un mondo ormai largamente basato suil'informazione prodotta dai media, dovrebbero pensarla in modo diverso da tutti gli altri (e infatti l'indagine Censis conferma che le opinioni diffuse tra i dirigenti burocratici relativamente alla riforma della amministrazione non si discostano più di tanto da quelle correnti nella policy community). In terzo luogo, ed infine, non si capisce assolutamente perché mai le opinioni dei funzionari dovrebbero avere effetto sulle politiche pubbliche (o se si preferisce, sui rendimento istituzionale) in modo omogeneo (solo per fare l'esempio più ovvio, un fortissimo attaccamento all'interpretazione letterale della legge può avere un significato garantista e progressista all'interno di una amministrazione « d'ordine », e al contrario essere conservatore e inefficiente in un ente di intervento). Un ultimo esempio: all'inizio degli anni '70 studiai, attraverso la ricostruzione del dibattito apparso sulla stampa sindacale, l'ideologia della DIRSTAT, il sindacato dei dirigenti statali, traendone alcune considerazioni (Dente 1975). Oggi un tentativo di replicare l'analisi, per verificare i mutamenti intervenuti, si è scon-

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trato con il seguente problema: a metà degli anni '80 la DIRSTAT è stata dominata da un gruppo dirigente che era chiaramente legato, ideologicarnente se non organizzativamente, al Movimento Sociale Italiano. Pertanto sulla stampa sindacale apparivano proclami un po' deliranti nei quali si accusava l'imperialismo russo/americano di cospirare ai danni dei dirigenti statali. Forse che queste idee sono rappresentative di quello che crede la generalità dei dirigenti statali? Io non credo proprio, ma retrospetivamente mi chiedo se le conclusioni che traevo dal mio lavoro del 1975, certo più plausibili, non erano in definitiva altrettanto arbitrarie di quelle che avrei potuto trarre dalla analisi sugli anni •più recenti. E cioè. l'indagine sulla cultura, gli atteggiamenti le idee è possibile ed utile solo s si riferisce ad un soggetto ben identificabile, e che viene colto attraverso il fatto che agisce, in maniera unitaria, all'interno di una politica. Non si tratta di dedurre gli atteggiamenti dai comportamenti, ma al contrario di riferire gli atteggiamenti ai comportamenti, di precisare quali sono i limiti cognitivi ed il sistema di valori entro il quale i comportamenti si svolgono. La discussione è quindi sul concetto di attore, ed è la sua cultura che è importante accertare.


Autori citati

AIMO P., 1985, L'Italia Napoleonica: l'amministrazione come amministrazione dello Stato Introduzione, in IsAP, L'amministrazione nella sto,'ia moderna, Archivio NS 3, Milano, Giuftè, pp. 540-573.

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Decisioni, Pubblica Amministrazione, Intelligenza Artificiale di Stefano Birga e Bruno Graziadio

Quando si .afronta per la prima volta un problemi e si tenta di delinearne una soluzione occorre rispondere, nell'ordine, alle seguenti domande: - che cosa fare? e - come farlo? Nel caso dell'assistenza alle decisioni, la prima domanda ne genera subito un'altra: occorre realizzare un sistema che emuli e al tempo stesso simuli il comportamento e le azioni del « decisore », oppure un insieme di strumenti che lo aiutino a prendere le decisioni che gli competono? La risposta implica considerazioni di ordine tecnicoscientifico, psicologico-operativo e « politico ». Alcuni problemi aperti. Dal punto di vista tecnico, lo stato dell'arte non è ancora di livello ta]e da consentire la piena e completa simulazione di un « decisore » soprattutto in un campo di tale rilevanza e complessità quale è la Pubblica Amministrazione. La nozione di «decisione » ha un'ampia gamma di significati: in termini minimali anche una macchina, che è in grado di assumere comportamenti diversi a fronte delle diverse situazioni per le quali è stata programmata, in qualche modo «prende delle decisioni »; è evidente però che nell'accezione più completa del termine la decisione coinvolge i meccanismi più complessi della mente, anzi è uno dei pro-

cessi che sfrutta massicciamente sia le caratteristiche dell 'erhisf ero sinistro, che quelle dell'emisfero destro, gestendo una miscela ben assortita di capacità inferenziali, ragionamenti in situazioni di incertezza e incompletezza, intuizione, fantasia e creatività. Quindi se è vero che alcune discipline (la cosiddetta « Intelligenza Artificiale » per esempio), hanno raggiunto dei risultati notevoli nello studio e nell'emulazione di certi meccanismi di ragionamento anche sofisticati, per quanto riguarda i processi decisionali esistono enormi lacune proprio al livello della conoscenza di base. Possono dunque esistere degli ambiti in cui i processi decisionali risultano abbastanza semplici da poter essere riprodotti da una macchina, ma questo non è sicuramente vero per quanto riguarda problemi di complessità comparabile a quelli che si riscontrano nella gestione della cosa pubblica, che per sua natura comporta l'esame e la valutazione degli elenìenti più disparati (da quelli sociali, a quelli economici, e così via). D':ra parte la formazione manageriale degli alti livelli della Pubblica Amministrazione è stata sviluppata, in maniera prevalente, verso l'uso degli strumenti forniti dalla cultura umanistica e da quella scientifica, viceversa finora non si è sentita l'esigenza di indirizzare tale formazione verso l'uso di strumenti tec39


nologici; di conseguenza attualmente non si può raggiungere la migliore sinergia tra le capacità degli strumenti realizzabili e le qualità intellettuali e professionali del « decisore» pubblico. Inoltre dal punto di vista, che abbiamo definito «p0litico », il problema è il seguente: a seconda dell'ambito in cui è collocato il processo decisionale, esiste la possibilità o meno di verificare a posteriori l'ottimalità o almeno la bontà delle scelte compiute, ad esempio nel caso di un incidente aereo si può stabilire con un certo margine di certezza se può essere attribuito ad un errore del pilota, ma nel caso di una scelta politica economica neanche se va a buon fine può essere giudicata oggettivamente ottimale, per il semplice fatto che i margini di incertezza sui rapporti causa/effetto che esistevano prima della decisione continuano a sussistere di fatto anche dopo, e per il fatto ancora più importante che la positività o meno dei risultati continua a rimanere opinabile. In queste condizioni intervengono i criteri fondati sulle scale di valori: ma in contesti di questo tipo che funzioni si possono attribuire ad un decisore meccanico? Anche ammesso che fosse tecnicamente fattibile, lo si dovrebbe fornire di tutti i possibili sistemi di valori per avere la possibilità di vagliare tutti i possibili scenari determinati da tutte le possibili scelte; è evidente che i sistemi di valori sono praticamente infiniti, quindi questa soluzione non è praticabile, anche perché un sistema di emulazione/simulazione del decisore » pubblico potrebbe risultare non compatibile con la libertà e la indipendenza che molti tipi di scelte richiedono. Da questi elementi si trae la con : clusione che l'unica via percorribile è quella di realizzare un ambiente integrato di 40

strumenti finalizzati al processo decisionale. La linea da seguire per raggiungere questo obiettivo è molto più simile a quella che ha portato alla « scrivania elettronica » che a quella che ha prodotto la « fabbrica automatica ». In altre parole non si tratta di automatizzate un intero processo (come, ad esempio, la costruzione di un motore di automobile nella « fabbrica automatica ») ma di emulare le diverse specializzazioni (statistica, marke ting, legale ecc.) che costituiscono il nìicrocosmo che ruota intorno al « decísore » secondo la stessa filosofia che, nella « scrivania elettronica », porta ad emulare gli strumenti (penna, agenda, schedario, ecc.) a disposizione dell'impiegato. Non deve quindi essere seguita la stessa strategia che ha portato al « robot-operaio », e che realizzerebbe il « robot-decisore », ma si deve tendere a rendere disponibili simultaneamente tanti « colletti bianchi » che interagiscono tra di loro come avviene nella reastà (anzi migliorando il livello di interazione) e ottimizzando le capacità di ciascuno. La linea di sviluppò deve essere, di conseguenza, .quella di ripercorrere dal basso verso l'alto la gerarchia organizzativa costruendo strumenti di ausilio o sostitutivi nello svolgimento dei compiti delle varie figure professionali sfruttando le conoscenze tipiche di ciascuna figura. Questa proposta di sviluppo nasce dalla constatazione che fino ad oggi sono stati creati molti strumenti potenzialmente utili al processo decisionale (DBMs, sistemi di grafica, pacchetti matematici e statistici, sistemi esperti), ma da una parte essi non sono stati orientati specificatamente al processo decisionale, ne tantomeno ad un particolare processo decisionale, e d'altra parte essi non vengono raggruppati in un unico ambiente


elaborativo in modo da renderne possi- fornisce il sistema esperto di interrogabile l'uso unificato e la cooperazione tra zione della banca dati (il quale è in grado i vari processi elaborativi. di decidere il livello di sintesi dei dati più Lo strumento proposto dovrebbe configuadeguato al problema), e deve poter sfrutrarsi dunque come un sistema di agenti tare il sistema esperto grafico per il diintelligenti funzionalmente indipendenti splay dei risultati, questo a sua volta deve ma cooperanti; quindi si tiene conto delle saper decidere quale tipo di grafico procaratteristiche delle « intelligent a,gent ar- spettare, a fronte delle caratteristiche dei chitectures », ma alla luce della vecchia dati, e così via. In un altro contesto ,se idea degli « actor systems ». In termini il decisore vuol sapere dal sistema esperto responsabile marketing » i motivi della di componenti si deve pesupporre l'esistenza di moduli autoconsistenti dal punto diminuzione delle vendite di un prodotfunzionale, con possibilità di attivazione to, questo deve essere in grado di capire quali variabili di mercato possono essere diretta sia da parte dell'utente (ad esempio con la selezione via mouse di una coinvolte, richiedere l'andamento di tali variabili al sistema esperto « venditore », specifica icona), .sia da parte di altri agenche interroga opportunamente la banca ti a fronte di una specifica esigenza funzionale o conoscitva che non può essere dati, i risultati passati al responsabile marespletata dal componente che detiene il keting devono essere valutati sulla base controllo. Tali agenti possono essere, pen- di meccanismi di reasoning e della espesati come tanti « sistemi esperti », esten- rienza specifica sulle possibili risposte del dendo la nozione di espertise a qualunque mercato. Sistemi di questo tipo, in concapacità di fornire competenze e/o di creto, non possono che essere dipendenti dal dominio applicativo, anche se esistono svolgere mansioni in un qualche domialcune funzionalità generali ed una fisionio, purché in possesso delle seguenti canomia ed una architettura comune, ma ratteristiche: capacità di spedire e ricevere messaggi dagli altri agenti per mezzo per questo motivo l'ottica di sviluppo che di un protocollo unificato di comunica- appare più prudente sembra quella di ripercorrere la struttura organizzativa prozione; possesso di uno specifico bagaglio di conoscenze in termini di « know that » pria del dominio applicativo in esame: e/o «know how »; conoscenza delle pro- ripercorrere dal ,basso perché ovviamente prie potenzialità e dei propri limiti e delle il livello di complessità funzionale dovrebbe crescere man mano che si salgono potenzialità e dei limiti degli altri agenti; capacità di richiedere prestazioni agli al- i gradini della gerarchia, e senza dimentitri agenti nei momenti e nelle modalità op- care la creazione dell'architettura inteportuni; conoscenza degli scopi generali e grata e l'inserimento graduale degli strucontestuali dell'utente; capacità di intera- menti che vengono via via realizzati. gire con l'utente in maniera ottimale, gradevole e facile. Ad esempio in una architettura del genere se l'utente richiede LE ESIGENZE DEL DECISORE l'aiuto del sistema esperto statistico per avere la previsione di una certa variabile, La strategia di automazione delineata prequesto deve poter utilizzare i dati che gli cedentemente non fornisce delle indicazio41


ni generali, poiché evidentemente i «microcosmi » che suggerisce di costruire non possono che essere dipendenti dal dominio di applicazione. Per cercare le funzionalità generali di uno strumento di assistenza alle decisioni, si devono trovare le esigenze tipiche del decisore. Un'esigenza primaria è quella di ottenere e poter valutare informazioni, vale a dire, avere risposta a richieste del tipo « quali... », « quanto... ». Il processo di avanzata ter ziarizzazione mostra ogni giorno di più 1' importanza crescente del ruolo dell'informazione nei processi decisionali; in particolare nella Pubblica Amministrazione il numero di dati e di variabili di cui si deve tener conto è tale da non poter essere memorizzato da un essere umano, è quindi indispensabile sfruttare una- delle caratteristiche tipiche del computer che è quella di poter memorizzare grandi masse di dati. Nel caso del decisore, e quindi degli strumenti in esame, tre elementi appaiono essenziali soprattutto per le informazioni di tipo quantitativo: la necessità di ottenere dati di sinte-si; in particolare occorrerebbe avere a disposizione una visione telescopica dei dati, in modo da poter partire dai dati di sintesi, e poter poi soffermarsi sui dati più analitici, nel momento in cui sia necessario; l'utilità di disporre di dati storici; la possibilità di « vedere » e di ag. gregare i dati sotto i più svariati punti di vista. Oltre ai dati quantitativi, e più in generale, oltre alle informazioni che oggi il decisore trae dai tradizionali archivi (tipicamente cartacei), esistono altri tipi di informazioni importanti ai fini del processo decisionale. Un tipo molto impor42

tante è l'informazione bibliografica (in senso lato), che ha due scopi: uno strumentale, per poter arrivare agli elementi di dettaglio dei relativi testi, soprattutto di natura « istituzionale » (cioè quelli che stabiliscono la semantica delle informazioni su base puramente convenzionale); l'altro scopo è legato proprio alla informazione bibliografica, ed è quella di giustificare la decisione, nei confronti del mondo esterno, sulla base di fatti istituzionali accettati da tutti (riduttivamente si potrebbe dire che lo scopo è quello di poter citare gli opportuni codici di riferimento di testi, per fornire un avallo ai propri comportamenti decisionali). Un altro tipo di informazione, che è probabilmente indispensabile solo in determinati contesti decisionaji (tra i quali non c'è forse la Pubblica Amministrazione), è- costituito dalle immagini; questo tipo di informazione presuppone già certi tipi di suppdrti tecnologici e probabilmente solo con l'estendersi delle nuove tecnologie (video dischi) mostrerà una sua specifica funzione di supporto al di fuori dei contesti in cui costituisce l'informazione di base. Tutti i tipi di informazioni precedentemente citati costituiscono delle conoscenze piuttosto particolari, ma 0vviamente il tipo di « informazione » essenziale per le decisioni sono le leggi generali, i fatti specifici, le delnizioni, tipici di un dominio: insomma il complesso di conoscenze che costituisce il patrimonio culturale del contesto in cui si devono prendere le decisioni. Il possesso di tale patrimonio è uno dei motivi principali per cui una persona è incaricata dalla comunità di prendere delle decisioni, però è evidente che nessuno può avere una conoscenza totale in ambiti complessi (co-


me è ad esempio quello del governo della cosa pubblica), per cui una esigenza del decisore è anche quella di ottenere delle risposte che colmino le proprie lacune conoscitive. Un'altra esigenza generale è quella di ottenere e poter valutare ipotesi, vale a dire avere risposta a richieste del tipo « che cosa.., se... ». E' evidente che nel prendere una decisione occorre porsi il problema di quali sono gli effetti di questa al di fuori di quelli voluti. Occorre quindi creare degli scenari, che evidenzino la situazione di partenza e le possibili situazioni finali, comprendendo, per quanto è possibile, tutti gli elementi che in modo più o meno diretto possono essere coinvolti dalla decisione. Approssimativamente le esigenze sono di due tipi. Da una parte la disponibilità degli strumenti matematici (la statistica e tutte le sue derivazioni) che sono stati sviluppati proprio per poter fornire delle previsioni o cimunque delle analisi dei dati che permettono di capire come può evolvere una situazione a fronte del mutare di certe variabili. Gli strumenti matematici sono anche molto sofisticati ma hanno il difetto di operare solo su dati quantitativi e di essere utilizzabili solo a fronte di una precisa formalizzazione dei fenomeni i'n esame; di conseguenza l'altro tipo di esigenza è quello di avere la disponibilità di strumenti di indagine che siano in grado di sfruttare i nessi causali tipici o plausibili in certe situazioni (ad es. « se aumenta il consumo di corrente allora c'è un aumento della produzione industriale. Infine l'ultima esigenza, è quella di ottenere spiegazioni, pareri e consigli, vale a dire, avere risposta a richieste del tipo « perchè... » (sul passato), « come... » (sul futuro). Il pro-

cesso di decisione richiede infatti la individuazione di nessi causali o interdipendenze non evidenti, e naturalmente può essere coadiuvato dai suggerimenti che una macchina potrebbe fornire, così come è nella realtà coadiuvato dagli esperti umani, che hanno conseguito un alto livello di specializzazione in determinati campi. Da un punto di vista concettuale le iisposte ad esigenze di questo tipo sono fortemente connesse a quelle del tipo precedente (se sono in grado di fornire una previsione, sono anche in grado, a postenon, di fornire una spiegazione su quanto è avvenuto e, avendo a disposizione dei criteri di valutazione, sono anche in grado di fornire delle indicazioni sui « mig'liori » comportamenti); nella realtà vanno tenuti presente tutti i problemi esposti nel primo paragrafo, per cui è difficile fornire maggiori dettagli sulle esigenze di questo tipo senza. entrare nel merito di specifici domini.

L'ACCESSO ALLE INFORMAZIONI

Per quanto riguarda il problema di accedere a grandi masse di inf ormazioni, la tecnologia attuale dei DBMS (Data Base Management Systems) offre la possibilità di soddisfare molti dei requisiti precedentemente individuati; in particolari i DBMS relazionali permettono la ricerca dei dati secondo vari « puhti di entrata » e permettono le totalizzazioni strutturate dei dati (e quindi diversi livelli di aggregazione). Tali potenzialità sono però disponibili utilizzando linguaggi complessi e vanno quindi integrate con meccanismi più sofisticati quali possono essere quelli 43


forniti dall'Intelligenza Artificiale (lA). Per quanto riguarda l'interazione è importante riuscire ad adeguarne le caratteriche alla tipologia delle informazioni contenute nella banca dati (ad esempio dati territoriali devono poter essere accessibili per mezzo di selezioni e visualizzazioni su carte tematiche). Un passo successivo è la possibilità di avere conoscenze generali riguardanti il dominio, cioè informazioni sui dati, sul loro significato e sulla loro struttura; tale esigenza può parzialmente essere soddisfatta dai KBMS (Knowledge Base Management Systems), cioè dai sistemi in grado di gestire le conoscenze; questi sistemi costituiscono però una tecnologia piuttosto recente che ancora non ha risolto in maniera soddisfacente alcuni grossi problemi soprattutto per quanto riguarda l'acquisizione delle conoscenze di domini ampli e complessi. Infine specialmente nell'ambito della Pubblica Amministrazione, dove le conoscenze sono soprattutto di tipo «istituzionale» (nel senso precedentemente chiarito), è probabilmente indispensabile avere una banca dati di riferimenti « bibliografici », cioè nel senso di avere una serie di testi su supporti multimediali (carta stampata, microflches, video dischi, compact disc, etc.) e nell'elaboratore la possibilità di accedere ad essi specificando semplicemente le proprie esigenze in termini conoscitivi. Sistemi esperti per la valutazione dei dati. Anche l'attività di valutazione delle informazioni può avere delle risposte ancorché parziali dalle tecnologie attuali. Un primo livello che già permette la valutazione dei dati è la loro visualizzazione grafica; ma soprattutto nel caso di 44

sequenze di dati omogenei può essere utile l'analisi di tali sequenze, sia nei termini classici dell'analisi matematica (andamento delle funzioni, massimi, minimi, flessi, etc.), sia in termini qualitativi (confronti tra andamenti: la variabile x, cresce « più rapidamente » di y, x « è sempre un po' superiore a» y, etc.); particolare interesse in questo contesto può essere l'ottica, in fase di sviluppo nell'lA, che consente un approccio in qualche modo «naif », cioè prendendo in esame le valutazioni qualitative e intuitive e non soltanto l'utilizzo di strumenti matematici quantitativi. Altro elemento importante, in questo tipo di problematica, può essere la capacità di riconoscere e trattare dati « rumorosi » (cioè erronei, mancanti o inconsueti) apparentemente contraddittori. L'incertezza e l'incòmpletezza dell'informazione comporta l'analisi di molte ipotesi, scartando quelle manifestamente erronee e conservando tutte le altre al fine di fornire uno scenario di interpretazioni completo, salvaguardando quindi il punto di vista dell'utente. Un compito che potrebbe essere svolto da un sistema automatico è l'omogeneizzazione delle informazioni disponibili, nel caso in cui queste costituiscarlo espressione (quantitativa e non) di uno stesso fenomeno; il caso più ovvio è la unificazione delle unità di misura delle grandezze in esame, ma la situazione può richiedere strumenti più sofisticati, ad esempio per l'omogeneizzazione di fattori monetari, per l'individuazione di deflatori, o caso ancor più complesso per l'emogeneizzazione di elementi dipendenti da (attori legislativi. Questo compito è utile per la valutazidne dei dati, ma è indispensabile per la corretta utilizzazione degli strumenti di previsione.


Strumenti per le previsioni. La simulazione di situazioni non attuali (future ma talvolta anche passate) può essere assistita da strumenti automatici. Gli strumenti matematici e tecriologici per la simulazione e previsione sono molteplici. L'obiettivo principale è quello di prevedere il corso del futuro sulla base del presente e del passato. Tale tipo di attività comporta il ragionamento sul tempo e sui dati temporalizzati (serie storiche). Il sistema predittore deve essere capace di riferirsi a eventi e fenomeni ordinati nel tempo. Si rendono dunque necessari modelli adeguati circa le modalità con le quali diverse azioni possono cambiare lo stato di un sistema al variare del tempo. I problemi chiave sono la predizione in condizione di informazione incompleta, la predizione con possibilità di diversi possibili futuri e la sensibilità delle predizioni stesse nei confronti delle variazioni sui dati. Per questa particolare funzione, il sistema dovrà essere in grado di operare simulazioni (mediante l'attivazione di modelli e l'utilizzo di sistemi di equazioni) e darne una visualizzazione efficiente ed incisiva, utilizzando sia pacchetti di grafica che. animazioni. Qualora insorga l'esigenza di un ausilio nella valutazione delle previsioni fornite, analogamente al punto precedente, si potranno utilizzare sistemi esperti per operare valutazioni qualitative. Un'altra esigenza da soddisfare investe la pianificazione, ovvero la costruzione di programmi di azioni finalizzate al raggiungimento di un obiettivo, con vincoli e priorità, e tenendo conto anche dei risultati previsivi.. Solo a questo punto il decisore è in grado di effettuare la scelta soggettivamente più corretta, in termini di un piano d'a-

zione che può essere anche totalmente diverso da quelli di partenza; almeno nel senso che il decisore una volta resosi conto degli effetti diretti e collaterali delle possibili scelte, e dell'andamento delle variabili fenomenologiche nei vari scenari, può decidere una nuova sintesi delle possibili azioni, sulla base delle proprie convinzioni, dei propri desideri e aspirazioni, e dei fattori che preferisce prendere in considerazione o ignorare. L'attuazione delle decisioni prese può poi essere seguita tramite la sihiulazione con lo strumento automatico, ed eventualmente modificata se il corso reale degli avvenimenti non rispecchia le previsioni fatte. La, risoluzione dei problemi. Sulla tematica della individuazione dei motivi che hanno portato ad una certa situazione e della. individuazione delle modalità ottimali per raggiungere uno scopo, la tecnologia attuale, per i motivi esposti precedentemente, non offre delle risposte adeguate. Il campo dei sistemi esperti può certamente fornire un aiuto in questo contesto, ma rimane molta strada da fare sia al livello di sofisticazione della tecnologia, sia ancor più a livello di ricerca di base. La qualità dell'interazione rappresenta un punto centrale in sistemi di questo tipo. In particolare, questa deve rispondere alla duplice esigenza del decisore di poter delegare ad altri la consultazione del sistema., o di utilizzarlo in prima persona, sia per farne un utilizzo proprio, sia per verificare e controllare la genesi delle risposte. L'interazione dovrà pertanto essere facile, gradevole e rapida. Requisiti dellinterazione.

L'interazione 45


con un sistema automatico deve permettere all'utente di prescindere, per quanto possibile, dalle « esigenze » della macchina, ovvero dai vincoli di cui il programmatore deve tener conto nell'inserimento dei dati o nel mettere in grado il sistema di effettuare le operazioni volute dall'utente. In sistemi complessi come quelli dei quali stiamo trattando, risulta molto utile la coesistenza dei due tipi di interazione system driven e user driven. Nell'interazione system driven è il sistema a proporre opzioni all'utente riguardo alle possibili scelte di volta in volta operabili. Questo tipo di interazione risulta molto utile nell'esplorazione delle capacità e potenzialità del sistema. Un efficace sistema di interazione sistem driven è quello che utilizza finestre e menù. NelPinterazione user driven è invece l'utente a guidare la sessione. Questo tipo di in•terazione può essere personalizzata in funzione del particolare utente, delle sue particolari esigenze del suo grado di confidenza coì la macchina e il sistema. Questo tipo di interazione può essere realizzata tramite l'utilizzo del linguaggio naturale, e le sue specializzazioni in gerghi e idioletti (cioè il gergo di una persona specifica). In entrambi i tipi di interazione risulta inoltre molto efficace l'utilizzo di sistemi iconici di rappresentazione. Nella comunicazione umana gioca un ruolo fondamentale il contesto della comunicazione inteso sia come contesto fisico, che come contesto linguistico. Al contesto infatti è legata la possibilità di riferirsi a qualcosa (chiamiamo riferimento anaforico il riferimento ad un elemento : del contesto linguistico, mentre chiamiamo ostensione il riferimento ad un ele46

mento del contesto fisico). La possibilità di riprodurre questa capacità in un sistema automatico fa sì che la comunicazione risulti più naturale e potente, oltre che più efficace. Per quanto riguarda il riferimento ostensivo, esso trova un efficace realizzazione nell'uso del mouse, che permette di puntare direttamente all'oggetto (voce di meriù, icona, parola, regione di schermo ... ) che si vuole designare.

I limiti del Linguaggio Naturale. L'uso del linguaggio naturale ha un notevole inconveniente, la necessità di « digitare l'insieme di caratteri che costituiscono una frase. Questo inconveniente è tale da rendere in genere l'interazione in linguaggio naturale inadeguata per l'uso di un elaboratore (probabilmente tale situazione sarà modificata dall'avvento della comunicazione via voce). Nel caso dei sistemi di assistenza alle decisioni, ci sono però serie giustificazioni all'uso di questo tipo di interazione, in particolare il fatto che permette di perrc un problema al livello di astrazione più naturale per l'utente. Attualmente i sistemi per l'interazione con un elaboratore presuppongono la presenza nella macchina di un insieme predefinito di modalità di comunicazione, dotate di una semantica precodificata, e ciò vale sia nel caso in• cui l'utente possa scegliere tra varie alternative operative proposte dalla macchina, sia nel caso in cui l'utente possa proporre al sistema uno dei comandi accettabili dalla macchina. E' chiaro che in questo modo il livello di astrazione a cui si svolge la comunicazione è quello imposto dalla macchina, che può essere alto quanto si vuole, ma in ogni caso non può crescere se non riprogrammando la macchina. L'uso del un-


guaggio naturale si presta ad essere associato a meccanismi che permettono con facilità di cambiare il livello di astrazione della comunicazione, e ciò perchè tali meccanismi possono essere proprio quelli usati dall'uomo (ad esempio la presenza nella.macchina di un « dizionario », può dare la possibilità, al limite all'utente stesso, di definire delle parole nuove a partire da altre parole già note). Altre caratteristiche positive del linguaggio naturale possono essere le seguenti: Il linguaggio naturale non cambia, da un punto di vista sintattico, al variare del dominio e delle funzioni; permette una grande sinteticità espressiva; implica una conoscenza minima del sistema elaborativo; infine è flessibile, non richiede addestramento e non si dimentica. Il « menù » L'uso dei « menù » è particolarmente indicato quando la scelta dell'utente non implica una grande quantità di punti di biforcazione, nel qual caso infatti il procedimento può risultare tedioso, specialmente quando lo stesso tipo di percorso debba essere ripetuto più volte. Come già accennato, invece, questo tipo di interazione risulta utile quando l'utente non sia molto cosciente delle potenzialità del sistema e l'occorrenza delle opzioni appropriate a ciascun passo della sessione può realizzare integralmente la funzione di guidare l'utente all'interno del sistema. I menù possono essere utilizzati sia a priori, cioè per dare i'opportunità di selezionare il tipo di funzione che il sistema esegua, sia anche nel corso dell'esecuzione della funzione per offrire la scelta tra varie alternative che di volta in volta si possono presentare pop-up menu). Le icone (rapprésentazioni

grafiche di oggetti e concetti) rappresentano un'utile integrazione nei vari tipi di interazione con il sistema. La loro utilità deriva dal fatto che esse sono concise (« un'immagine vale più di mille parole! »), incisive e di facile memorizzazione. Si può inoltre fornire all'utente la possibilità di creare delle icone proprie, arrivando così alla personalizzazione dell'interfaccia integrando le funzioni già fornite eventualmente con il linguaggio naturale. Anche l'animazione, più che un metodo di interazione, può rappresentare una efficace comunicazione da parte del sistema all'utente. Con l'animazione infatti si possono ottenere gli indubbi vantaggi di una rappresentazione grafica non solo per la rappresentazione di concetti statici ma anche la rappresentazione di « processi », quindi in particolare, di simulazioni, previsioni, proiezioni, in cui non si voglia necessariamente soffermare l'attenzione so lo sui risultati, quanto invèce anche sui procedimenti che sono all'origine dei dati stessi. Nella comunicazione tra persone, una parte fondamentale è assegnata alla ricerca dei punti di contatto tra gli interlocutori, nel senso che da una parte si verifica la congruenza delle conoscenze dell'uno con quelle dell'altro, e, dall'altra si instaurano, consensualmente, delle convergenze convenzionali (temporanee), sui punti di disaccordo ò di difformità. Tale attività è svolta tramite il dialogo, cioè quel meccanismo per cui sia l'utente che il sistema reagiscono l'uno ai messaggi dell'altro e viceversa, creando una catena di azioni e reazioni. In generale il dialogo deve essere gestito da un sistema automatico almeno in maniera rudimentale, sia nel Ca47


so di interazione guidata dal sistema, sia nel caso di interazione guidata dall'utente, per mettere in grado il sistema di fornire i comportamenti e/o le funzionalità elencati nel seguito. Altrettanto rilevante è il problema della cooperazione tra l'utente e il sistema. Un elemento essenziale della cooperazione è l'individuazione del « vero » obiettivo dell'utente: spesso il significato proprio di una richiesta (soprattutto in linguaggio naturale, ma anche in altri sistemi semiotici) non coincide con il « vero » obiettivo dell'emettitore del messaggio. Spesso infatti il «vero» obiettivo è deducibile solo in funzione del contesto specifico dell'emissione. Un altro elemento di cooperazione è l'individuazione delle presupposizioni: se l'utente nel formulare una richiesta parte da presupposti errati, il sistema deve fornire l'indicazione di tale errore piuttosto che - una risposta puramente negativa (se ad esempio l'utente chiede in linguaggio naturale « quanti studenti dei corsi di informatica che sono stati tenuti nel 1987 si sono laureati », il sistema non deve rispondere «nessuno », se nel 1987 non sono stati tenuti dei corsi di informatica - corrective indirect response). Spesso è utile fornire altre informazioni oltre a quelle presenti esplicitamente nella richiesta; se l'utente chiede una informazione relativamente ad una lista di individui, la risposta deve fornire l'associazione tra l'individuo e la proprietà relativa, ovvero tutte le informazioni necessarie a rendere quanto più comprensibile la risposta. Indipendentemente dalle modalità di interazione, esiste sempre la possibilità che l'utente non specifichi compiutamente il proprio obiettivo o che le specificazioni 48

proposte, .a causa delle caratteristiche della macchina, possano produrre risposte per qualche motivo incomprensibili (ad esempio anche una risposta troppo ricca può essere incomprensibile); in questi casi il sistema deve essere in grado di « predire » le caratteristiche delle proprie risposte che devono essere analizzate onde evitare tali inconvenienti, infatti in questo modo il sistema è in grado di modificare la richiesta originale, inserendo le informazioni che un uomo considererebbe ovvie, riordinando le informazioni disponibili secondo i criteri adeguati alle caratteristiche del dominio ed eliminando le specificazioni che per il sistema potrebbero risultare fuorvianti. Un ulteriore elemento di cooperazione è la capacità di individuare e di gestire richieste non pertinenti con il dominio: il sistema deve essere in grado di riconoscere in qualche modo i propri limiti. A fronte pertanto di richieste che non ricadano sotto le sue competenze, esso dovrà manifestare un comportamento « intelligente »: o rispondere per quanto è possibile, fornendo adeguate note di chiarimento sui limiti della risposta oppure rinunciare a priori al tentativo stesso, dando le relative comunicazioni all'utente, piuttosto che fornire risposte inappropriate pur di fare qualcosa. Soprattutto quando l'interazione si svolge in linguaggio naturale, ad una stessa richiesta possono corrispondere più interpretazioni (ambiguità o polisemia), corrispondenti a diversi obiettivi dell'utente. Quindi il sistema deve essere in grado, se necessario, di esprimere in maniera non ambigua quale obiettivo ha attribuito all'utente (cosa il sistema ha capito della richiesta). In altre parole l'utente deve


sempre aver chiaro che cosa il sistema stia facendo per lui. La capacità di fornire spiegazioni su come è pervenuto ad una risposta è una funzione fondamentale in qualsiasi sistema che implichi dei ragionamenti. Le spiegazioni del processo di ragionamento sono infatti spesso più illuminanti dei risultati stessi. Inoltre, i risultati, se non fondati su una solida spiegazione, possono risultare del tutto inutili o, al limite, poco credibili. Infine, il sistema deve essere in grado di rendere noto all'utente ciò che «sa », cioè quali dati e/o conoscenze ha a disposizione, ciò che sa fare, cioè quali operazioni logiche, matematiche, di output, etc, è in grado di eseguire, come l'utente deve operare per poter sfruttare le potenzialità informative e operative del sistema.

QUALCHE PROPOSTA.

Per concludere, cerchiamo di delineare una possibile strategia di sviluppo dell'area dell'assistenza dell'elaboratore al processo decisionale nell'ambito della Pubblica Amministrazione. Per quanto riguarda le esigenze, a livello concreto si può operare considerando le caratteristiche specifiche del contesto in cui si vuole collocare lo strumento elaborativo, in termini delle esigenze già evidenziate in quel contesto, e di quelle che, seppur non totalmente evidenti, possano essere soddisfatte secondo l'esperienza degli esperti del settore informatico. Occorre infatti tener conto che spesso solo l'inserimento e l'uso di uno strumento evidenzia tutta la gamma di esigenze che devono essere simultaneamente soddisfatte, siano esse

preesistenti o causate delle modifiche organizzative indotte dallo strumento stesso. Inoltre dovrebbe essere valutato il rapporto costi/benefici che l'utilizzo del sistema comporta. In termini funzionali occorre sicuramente partire dai problemi e dagli strumenti per l'accesso alle informazioni, fornendo poi una soluzione tecnologica al problema della formulazione delle ipotesi, fino allo strumento in grado di risolvere i problemi in maniera più o meno automatica. Occorre sottolineare che molte delle funzioni citate possono essere svolte dagli strumenti tecnologici già presenti sul mercato, ma quello che manca, e che costitusice il cuore della presente proposta, è l'integrazione di tali strumenti in un unico ambente finalizzato all'assistenza alle decisioni. Tale lacuna non costituisce solo un problema pratico per la difficoltà di accesso ai vari strumenti, ma è soprattutto una barriera alla possibilità che tali strumenti comunichino tra di loro; si è detto infatti che lo strumento di assistenza alle decisioni deve costituire l'emulazione del microcosmo di figure professionali che tradizionalmente assistono il decisore, e quindi è indispensabile che queste siano in grado di scambiarsi informazioni e prestazioni così come dovrebbe avvenire nella realtà. Infine un elemento essenziale: la tipologia e la qualità dell'interazione tra l'uomo e lo strumento automatico. Si tratta di un punto centrale in sistemi di questo tipo, poiché è necessario soddisfare la duplice esigenza del decisore di utilizzare lo strumento in prima persona, sia di delegarne ad altri l'uso, ma sempre con la possibilità di verificare e controllare la genesi della risposta. Non si può far dipendere le proprie decisioni da uno strumento sen49


za che sia possibile controllare in qualsiasi momento che la qualità delle sue risposte sia tale da giustificare la nostra fiducia in esso, soprattutto se le prestazioni che ci fornisce sono di natura così complessa quale può essere la realizzazione di uno scenario a fronte di certe ipotesi di partenza. Per quanto riguarda la tipologia di interazione occorre notare che il meccanismo mentale della creazione e valutazione di ipotesi e scenari alternativi è generalmente di tipo tentativo, nel senso che la valutazione di una ipotesi contribuisce a generare la successiva, per cui è indispensabile che l'utente possa avere un alto livello di interattività con il sistema. L'interazione deve essere facile, gradevole e rapida, non deve essere orientata alle « esigenze » della macchina ma a quelle dell'uomo, deve saper indicare all'utente le informazioni disponibili e le operazioni che è in grado di svolgere e i modi in cui l'utente deve operare per poterne sfruttare appieno le potenzialità. In particolare è da prendere in conside. razione l'opportunità di usare il linguaggio naturale per interagire con la macchina, perché è la modalità di interazione, che, seppur noiosa, risulta adeguata, qualunque sia i'l livello di astrazione cui ci si voglia attestare nel comunicare il proprio obiettivo alla macchina. Infine nel contesto in esame è indispensabile che la macchina sia in grado di fornire una spiegazione di come è pervenuta ad una risposta, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti tecnologici che maggiormente assomigliano ai meccanismi inferenziali umani. La realizzazione di uno strumento, quale è quello delineato precedentemente, è chiaramente molto complessa e il suo costo deve probabilmente essere misu50

rato con la decina di anni persona come unità di misura). Il primo elemento da evidenziare è la necessità di competenze estremamente eterogenee: oltre alle com•petenze informatiche, con particolare riferimeno a quelle di Intelligenza Artificiale, necessarie per l'attività di progettazione e realizzazione del software, non si può rinunciare alle indicazioni degli esperti di ergonomia, per la individuazione della migliore interazione uomo/ macchina, né a quelle degli psicologi per la conoscenza dei processi decisionali e mentali in genere; occorre poi disporre delle varie competenze specialistiche che devono essere selezionate ed utilizzate una volta deciso il contesto di applicazione; queste ultime sono suddivisibili in competenze tecniche, proprie di coloro che sono in grado di padroneggiare discipline metodologiche e tecniche, utilizzabili in vari campi (la statistica, l'archivistica, l'analisi matematica, la ricerca operativa, la teoria dei sistemi, ...), e competenze settoriali, proprie invece di coloro che sono in possesso di conoscenze ed esperienze in campi specifici (l'economia, le scienze politiche, la sociologia, la medicina,.., con i vari livelli di ulteriore specializzazione, l'econometria, la contabilità di Stato, le leggi, il marketing). Oltre alle competenze citate, non si può dimenticare l'esigenza di quella nuova figura professionale che va sotto il nome di « ingegnere della conoscenza »; questa costituisce il collante indispensabile tra i progettisti (informatici e TA) e gli esperti di settore, perché, oltre a permettere di formalizzare la conoscenza degli esperti al fine di inserirla nella macchina, consenta anche un certo livello di omogeneizzazione dei linguaggi e quindi della


comunicazione tra le varie competenze. Le precedenti elencazioni abbracciano pra. ticamente lo scibile umano, ed anche se di volta in volta solo una parte delle competenze citate possono risultare indispensabili, è evidente l'ampiezza dello spettro di conoscenza necessaria alla realizzazione della proposta in esame; inoltre l'esigenza di integrazione degli strumenti da mettere a disposizione rende necessario un alto livello di cooperazione tra i vari esperti. Di conseguenza la struttura organizzativa indispensabile è quella del team interdisciplinare; in particolare occorre un team modulare, cioè una struttura flessibile in grado di inserire con successo le varie competenze, nel momento in cui queste sono necessarie, in dipendenza delle varie fasi di lavorazione; quindi accanto ad un nucleo permanen te, probabilmente costituito dagli esperti informatici, dagli esperti TA e dagli ingegneri della conoscenza, di volta in volta saranno aggregati i vari esperti settoriali. Infine gli strumenti tecnologici: l'area degli elaboratori è una di quelle maggiormente in evoluzione, sia per quanto ri-

guarda l'hardware, che per quanto riguar-, da il sofiware; scelte sbagliate negli strumenti da utilizzare possono pregiud'icare irrimediabilmente la qualità dellà realizzazione. In parficolare risultano strategiche le scelte: sull'hardware da rilasciare all'utente finale (soprattutto per quanto riguarda le potenzialità grafiche, d'i calcolo, e di memoria, e i protocolli di comunicazione), sugli strumenti sof tware per la creazione del prodotto (linguaggi di programmazione innanzitutto, « shell » e ambienti per l'ingegneria della conoscenza, DBÌVS), sugli strumenti software da inserire nel prodotto (DBMS, pacchetti grafic'i e statistici, « window system », spreadsheet, funzioni di editzn,g), sugli ambienti hardware di sviluppo (Lisp machines, reti locali, schede dedicate). In particolare occorre tener conto che in questi ambiti non esistono delle scelti universalmente valide, ma - che innanzitutto è necessario stabilire i criteri di fondo (portabilità, generalità, economicità), per poi poter effettuare le scelte ottimali che possano soddisfarli.

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Amministrare la tecnologia spaziale Le responsabilità nella tragedia del Challenger di Barbara S. Romzek e Melvin J. Dubnick

ancor più la NASA dai sistemi di responL'indagine svolta dalla Commissione Rogers sulle cause del disastro della navet- sabilità professionale utilizzati nel corso ta spaziale Challenger ha avuto un cam- degli anni Sessanta. Tali riforme hanno po troppo limitato. Accanto all'esame del- altrettanta possibilità di esacerbare i problemi della NASA di quanta ne hanno le cause tecniche e manageriali, è necesdi migliorarne la performance. saria, infatti, anche un'analisi dei fattoIl 28 gennaio 1986 la navetta spaziale ri istituzionali che hanno concorso, alla Challenger esplose in volo ed i sette tragedia. In base alla prospettiva istitumembri dell'equipaggio persero la vita. zionale, nel presente studio vogliamo soI particolari del tragico evento sono noti stenere che l'incidente è derivato in parte dai tentativi della NASA' di rispondere a tutti e non occorre rievocarli in questa sede. Tuttavia si va diffondendo sempre alle diverse aspettative provenienti dal più l'opinione che le spiegazioni ufficiali sistema politico americano. Nel soddisfare alle aspettative che ci sono 'fornite dalla Commissione presidenziale nei loro confronti, gli enti pubblici sono preposta all'indagine sulle cause dell'ininvestiti di solito di 9uattro tipi di re- cidente della navetta spaziale Challenger sponsabilità (legale, politica, burocratica (la Còmmissione Rogers) non abbiano totalmente chiarito i motivi 'del disastro. e professionale). Tuttavia la presenza di Nel presente studio si propone una spiesistemi a responsabilità multipla non è gazione alternativa che pone l'accento sopriva di costi. La nostra ricostruzione prattutto sui fattori istituzionali che hanmostra come gran parte dei problemi tecnici e manageriali della NASA sia deri- no concorso a determinare l'incidente della riavetta spaziale. vata dai tentativi di rispondere a legittime richieste istituzionali. In particolare sosteniamo che il perseguimento dei fini QUALCHE PREMESSA Dl METODO inerenti alla responsabilità politica e burocratica fecero sì che perdessero rilievo quelle caratteristiclie per le quali la NASA Nel corso delle discussioni pubbliche sul disastro del Challenger sono emerse due si era prima contraddistinta e cioè gli tendenze parallele. Anzitutto il desiderio elevati standard professionali e la precisa attribuzione delle responsabilità. Inol- di individuare i problemi técnici che hanno contribuito direttamente all'esplosiotre le riforme dell'ente, in corso di attuazione o in esame, tendono ad allontanare ne del razzo ausiliario della navetta, quin-, 52


di, quello di individuare errori umani e di gestione che possano aver indotto i funzionari della NASA (National Aeronautics and Space Administration) a trascurare o ignorare questi problemi tecnici. Le conclusioni cui pervenne la Commissione Rogers, pubblicate il 9 giugno 1986, erano appunto incentrate su tali problemi tecnici e manageriali. Riguardo al primo punto, il verdetto della Commissione è espresso in termini inequivocabili: « La Commissione concorda nel ritenere.., che

la perdita della navetta spaziale Challenger è stata causata da un difetto nel giunto fra i segmenti inferiori del motore a razzo di destra. In particolare, il difetto è da attribuire alla distruzione delle guarnizioni apposte per impedire la fuoriuscita di vapori bollenti attraverso il giunto durante la combustione del propellente del motore a razzo. Dalle prove raccolte... risulta che nessun altro elemento del sistema della navetta spaziale ha contribuito all'incidente ».

La Commissione si espresse in modo altrettanto esplicito sul secondo punto, osservando che i problemi manageriali della NASA erano stati una causa concornitante dell'incidente: « La decisione di lanciare il Challenger era viziata. I responsabili di tale decisione ignoravano i recenti problemi in merito al funzionamento dei giunti periferici e la raccomandazione scritta del contractor nella quale si sconsigliava il lancio a temperature inferiori ai 53 gradi Fahrenheit e ignoravano altresì il fatto che gli ingegneri della Morton Thiokol continuavano ad essere contrari al lancio anche dopo che il management aveva ribaltato la suo posizione... Se i responsabili delle decisioni finali avessero conosciuto interamente i fatti, è molto improbabile che avrebbero deciso di lanciare la navetta il 28 gennaio 1986 »2

Il rapporto della Commissione si è distinto per la sicurezza con la quale era-

no espresse queste particolari conclusioni. Di maggiore interesse è, tuttavia, il cammino investigativo non percorso, cioè quello che induce a domandarsi se i problemi della NASA e del programma relativo alla navetta spaziale fossero di ordine istituzionale oltre che tecnico o manageriale. La prospettiva istituzionale è nota agli studenti di teoria dell'organizzazione che, sulla base degli insegnamenti di Talcott Parsons e Janes D. Thompsori, distinguono tre livelli di responsabilità e controllo organizzativi: tecnico, manageriale e istitazionale'. A livello tecnico, le organizzazioni pongono 1' accento sui risultati effettivi di precise funzioni specializzate. A livello manageriale, un'organizzazione agisce da mediatore fra le sue com.ponenti tecniche e fra i suoi funzionari tenici, da un lato, ed i clienti e fornitori che gravitano nell'ambiente funzionale dell'organizzazione, dall'altro. A livello istituzionale, l'organizzazione risponde all'esigenza di essere parte « del più ampio sistema sociale che è la fonte del significato, della legittimazione o del sostegno a livello più elevato che rende possibile realizzare i suoi obiettivi »1 Applicando questa impostazione allo studio di fallimenti di particolari programmi o progetti, come ad esempio quello del Challenger, si può sostenere che problemi di fondamentale importanza possono emergere a ciascun livello ed anche a tutti e tre i livelli. Pertanto un esame di detti eventi sarebbe incompleto se si trascurasse l'esame delle possibili conseguenze dell'attività a ciascun livello. Il fatto che la NA5A ed altri enti pubblici debbano costantemente lottare con le forze istituzionali che li circondano (cioè, il « più ampio sistema sociale » di cui fanno parte) merita attenzione perché i tentativi degli enti di reagire a tali forze possono influenzare i risultati dell'azione degli enti stessi. Allorché si indaga sti un caso, il ruolo dei fattori istituzionali può venire ignorato per parecchie ragioni: l'esame di tali fattori può sollevare interrogativi su argomenti troppo importanti e troppo pericolosi per l'organizzazione e per i suoi sostenitori; non è 'molto probabile che una commissione composta da individui le-

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gati all'impresa sotto inchiesta e al sistema po]itico in, generale° schiuda il vaso di Pandora dci fattori istituzionali; l'esame di questi fattori può inoltre essere trascurato qualora a chi si occupi del caso manchi l'impostazione concettuale atta a facilitare tali considerazioni. Ipotizzando che sia vero il secondo caso, offriamo qui di seguito un quadro di riferimento utile per mettere a fuoco i fattori istituzionali che possono aver contribuito al disastro del Callenger.

Una prospettiva d'analisi ilnpost ala sulla « responsabilità ». Pur essendo considerata spesso come un'organizzazione pubblica unica nel suo genere 7 la NAsA presenta caratteristiche istituzionali simili, sotto molti importanti aspetti, a quelle di altri enti del settore pubblico. Essa si trova pertanto a dover soddisfare la gamma di aspettative legittime e a volte conflittuali derivanti dal sistema politico democratico di cui è parte (il suo contesto istituzionale). Nelle pagine che seguono illustreremo schernaticamenie il concetto di responsabilità pubblica per esaminare come la NASA abbia reagito alle pressrni istituzionali e quali siano state le conseguenze della sua condotta. ,

de provenienti da particolari istituzioni o grup:pi nell'ambiente di lavoro dell'ente pubblico. In senso più ampio, invece, per responsabilità della 'pubblica amministrazione si intendono i mezzi con i quali gli enti pubblici e i loro dipendenti rispondono alle diverse aspettative sia interne, sia esterne all 'organizzazione". In 'questa seconda accezione, il concetto di responsabilità pubblica assume diverse forme. In questa sede verranno esaminati quattro sistemi alternativi di responsabilità pubblica, ciascu no basato sui diverso rapporto in cui si trovano fra di loro due fattori fondamentali: il primo relativo alla presenza di un organismo specif ico, interno o esterno all'ente, cui spetti il potere di definire e controllare le aspettative; il secondo relativo al grado di controllo di cui tale organismo risponde nel definire le aspettative di quell'ente. Per quanto riguarda il primo caso, la gestione delle aspettative che l'ente deve soddisfare attraverso sistemi di responsabilità richiede la presenza di una qualche forma di controllo autorevole. Le fonti di controllo interno si basano sull'autorità dipendente da rapporti gerarchici formali o da relazioni sociali informali all'interno dell'ente. Lo stesso avviene per le for.me di controllo esterne, in quanto la loro autoità può derivare o da accordi formalizzati da leggi o contratti oppure da forme di esercizio informale del .potere da parte di gruppi di interesse esterni all'ente.

Il concetto di responsabilità è un concetto fondamentale ma non messo pienamente a fuoco nell'amministrazione pubblica americana. Gli studenti e quanti operano nel settore usano liberamente il termine nel senso di « dover rispondere delle proprie azioni o comportamento ». Amministratori cd enti sono responsabili nel senso che debbono rispondere delle loro azioni. 1.1 termine non va, di solito, oltre questo concetto base ..Lamaggior parte della discussione nella letteratura in tmateria si preoccupa di individuare quale sia la strategia « migliore » 'per ottenere che i soggetti rispondano delle loro azioni ed il dibattito Friedrich-Finer negli anni Quaranta rappresenta l'esempio più citato sull'argomento.

Un secondo elemento di qualsiasi sistema di responsabilità è dato dal' grado di controllo sulle scelte e le operazioni dell'ente. Un elevato grado di controllo significa che colui che lo esercita può determinare sia la portata, sia l'incidenza delle azioni che un ente pubblico o i suoi membri possono intraprendere. Un basso grado di contr6llo, (per contro, lascia un ampio margine di discrezionalità ai responsabili della gestione dell'ente.

Tuttavia, se consiUerata in una diversa prospettiva, la responsabilità svolge, nel funzionamento dell'amministrazione pubblica, un ruolo più importante di quanto risulti dal concetto di «dover rispondere del proprio operato ». Nella forma più semplice, rispondere del proprio operato significa fornire risposte limitate, dirette e, nella maggior parte dei casi, formali, a doman-

I sistemi impostati sulla responsabilità burocratica sono molto usati per gestire le aspettative degli enti .pubblici°'. In base a questo approccio, le aspettative degli amministratori pubblici sono gestite dando soprattutto rilievo alle priorità di coloro che si trovano all'apice della gerarchia burocratica. Nello stesso tempo molte attività dell'ente sono oggetto di un'intensa su-

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pervisioié. Il funzionamento di tale sistema si basa su due semplici elementi: un rapporto organizzato e legittimo fra superiore e subordinato nel quale la necessità di eseguire gli « ordini» non sia messa in dubbio ed una stretta supervisione o un sistema alterr,ativo di procedure operative standard oppure di norme e regolamenti chiaramente d efi niti>. La responsabilità legale 12 è simile a quella burocratica in quanto comporta la frequente applicazione di forme di controllo su un'ampia gamma di attività della pubblica amministrazione; tuttavia essa differisce dalla responsabilità burocratica in quanto è basata su un rapporto fra un organo di controllo esterno all'ente e ai membri dell'organizzazione. Tale organo esterno è formato da un individuo o da un gruppo legalmente autorizzato ad imporre sanzioni o a far rispettare obblighi contrattuali. Di solito da questi organi esterni provengono le leggi e gli altri arti normativi che l'amministratore pubblico è tenuto a rispettare. Cioè, l'organo esterno è il legislatore e l'amministratore pubblico è 1'

esecutore. Il rapporto di responsabilità legale fra chi controlla ed, il soggetto controllato differisce anche da quello intercorrente fra superyisore e subordinato nelle forme di responsabilità burocratica. Nel sistema burocratico, la relazione è gerarchica ed è basata sui poteri di cui dispongono i supervisori di punire o premiare i subordinati. Nel caso invece di responsabilità legale, si tratta di siria relazione fra due parti relativamente autonome che comporta un rapporro fiduciario formale o implicito (mandatario/agente) fra l'ente pubblico ed il suo supervisore legale' 3 . Per esempio, il Congresso emana le leggi e sorveglia che l'ente federale le attui; una corte distrettuale federale ordina ad un consiglio scolastico di abolire la segi'egazione nelle classi e vigila sull'esecuzione di detto ordine; la commissione cittadina locale affida ad una ditta privata la gestione dei servizi relativi alla nettezza urbana. In ciascun caso gli operatori sono tenuti, per legge o per contratto, ad eseguire i loro compiti e l'mposizione di tali obblighi è molto differente da quella che si riscontra in situazioni in cui viggano sistemi di responsabilità burocratica 14 -

La responsabilità professionale' 5 si incontra con maggior frequenza allorché i governi devono affrontare iproblemi di crescente complessità o difficoltà tecnica. In tali circostanze i funzionari pubblici devono contare su impiegati abili ed esperti che forniscano le giusti soluzioni. Tali impiegati si attendono di essere considerati pienamente responsabili delle loro azioni ed esigono dai dirigenti dell'ente la massima fiducia nelle loro capacità di svolgere il lavoro nel modo migliore. Qualora l'esecuzione del lavoro non corrisponda alle aspettative, è previsto che possano essere redarguiti o licenziati; in caso contrario essi contano di .poter disporre di un notevole margine di discrezionalità nell'esecuzione del lavoro. Quindi la responsabilità professionale è caratterizzata dal fatto che il controllo sulle attività dell'organizzazione è affidato a chi abbia la competenza o le speciali capacità necessarie all'esecuzione del lavoro. Il sistema di responsabilità professionale è quindi basato sul principio del rispetto della competenza all'interno dell'ente. Sebbene associazioni professionali esterne potranno influire sul processo decisionale degli esperti dell'ente (mediaote l'istruzione e gli standard professionali), la fonte di autorità è essenzialmente interna all'ente. Di solito, un'organizzazione basata sulla responsabilità professionale avrà l'aspetto di qualsiasi altro ente pubblico con un manager a capo di un gruppo di lavoratori, ma il rapporto fra di loro intercorrente è 'molto diverso. In un si stema basato sulla responsabilità burocratica il rapporto chiave sarebbe impostato sulla stretta vigilanza; per contro, nel caso della responsabilità prdfessionale, la relazione dominante è simile a quella in essere fra un profano e un esperto, in cui il manager dell'ente è il profano, mentre sono i lavoratori a prendere le decisioni importanti che richiedono la loro competenZa' ° . La responsabilità politica è fondamentale date le pressioni che il sistema democratico impone agli amministratori pubblici americani. 'Mentre la responsabilità professionale è caratterizzata dalla «deferenza », la « reattività i> (sensibilità) caratterizza i sistemi di .responsabilità politica' 7 - Il rapporto chiave su cui si basano tali sistemi è simile a quello che intercorre fra un rap-

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presentante (in questo caso, l'amministratore pubblico) e i suoi elettori (coloro nei cui confronti egli o ella sono responsabili). In un sistema di responsabilità politica, la questione principale è: « quali soggetti rappresenta l'amministratore pubblico? » I rappresentati potenziali includono il pubblico in generale, i funzionari eletti, i capi dell'ente, la clientela dell'ente, altri speciali gruppi di interesse e le generazioni futi.ire. Quale che sia la definizione di elettorato adottata, ci si attende che 1' amministratore sia sensibile alle priorità politiche e alle esigenze programmatiche di tale elettorato. I sistemi basati sulla responsabilità politica, sebbene sembrino promuovere favoritismi e persino forme di corruzione nell'amministrazione dei programmi di governo, servono anche ad attuare un governo più aperto e rappresentatjvo. La spinta verso in sistema di responsabilità politica si traduce, ad esempio, in open meetings laws, norme sulla libertà di informazione e statuti tendenti ad attuare una politica di governo. « alla luce del sole» approvati da molti governi statali e locali. Riasumendo, nel sistema burocratico, le aspettative sono gestite gerarchicamente, sulla base di un rapporto di vigilanza; il sistema di responsabilità legale gestisce con un rapporto contrattuale le aspettative cui l'ente deve rispondere; il sistema professionale fa affidamento sul rispetto della competenza; il sistema di responsabilità politica fa della sensibilità alle esigenze dell'elettorato il criterio centrale per gestire le varie aspettative. Preferenze per i siste,ni di responsabilità. Dati questi strumenti alternativi per la gestione delle aspettative, cosa determina la preferenza per un sistema di responsabilità rispetto agli altri in una data situazione? Per stabilire quanto un dato sistema di responsabilità sia adatto ad un ente si devono tenere presenti tre fattori: la natura dei compiti dell'ente (responsabilità a livello tecnico); la strategia direttiva seguita da quanti sono a capo dell'ente (responsabilità a livello dirigenziale); il contesto istituzionale nel quale si svolge l'attività dell'ente (responsabilità istituzionale) 18 . In teoria, un'organizzazione del settore pubblico dovrebbe operare secondo

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meccanismi di responsabilità che soddisfano simultaneamente tutti e tre i livelli. Nel sistema politico americano, tutti e quattro i sistemi di responsabilità sono potenzialmente in grado di gestire le aspettative a livello istituzionale'". In base alle norme istituzionali vigenti, nessun sistema di responsabilità è, di per sé, più accettabile o legittimo di un altro. In teoria ciascuno dei quattro sistemi è in grado di assicurare la responsabilità dell'ente a livello istituzionale. Pertanto in teoria un ente può gestire le proprie aspettative mediante il sistema che ritenga più adatto alla luce delle considerazioni istituzionali. La stessa flessibilità potenziale può non esistere ai livelli tecnico o manageriale, per i quali l'opportunità di scegliere un determinato sistema dipende maggiormente dai compiti specifici, dagli orientamenti strategici o dalle idiosincrasie dei singoli managers. In pratica, la maggior parte degli enti degli Stati Uniti tende ad adottare due o più sistemi contemporaneamente secondo la natura delle condizioni ambientali (istituzionali) esistenti, i loro compiti tecnici e gli orientamenti di gestione. E' tuttavia nostra opinione che le pressioni istituzionali generate dal sistema politico americano siano spesso il fattore saliente e prioritario rispetto alle considerazioni tecniche e di gestione 20 . Se così è, il compito di gestire le aspettative varia al variare delle condizioni istituzionali. Se le variazioni ambientali sono molto drastiche, possono spingere all'adozione di un diverso sistema di responsabilità, che tenti di rispecchiare tali mutate condizioni.

IL CASO DELLA NASA

La NASA fu il risultato di un'iniziativa concepita nel pieno di una crisi nazionale e sviluppatasi all'ombra protettiva di un consenso istituzionale durato, quantomeno, fino al 1970. Tale consenso era inteso soprattutto a realizzare il mandato del presidente Kennedy di fare atterrare un americano sulla Luna per la fine degli anni sessanta. Inoltre esso rafforzò la


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convinzione che il perséguimento di tale obiettivo richiedesse completa sottomissione agli esperti in grado di realizzarlo. In altre parole, si trattava di un consenso basato su un sistema di responsabilità professionale.. Nel corso del tempo divennero dominanti le pressioni perché l'ente attuasse una strategia più sensibile alle esigenze politiche. Ancor prima del felice esito della missione dell'Apollo 11, le mutate condizioni istituzionali tendevano a creare un clima organizzativo più favorevole ai sistemi di responsabilità burocratica e politica. In tali circostanze l'ente si trovò impreparato ad affrontare i problemi che finirono con il condurre al disastro del Challenger. Inoltre è possibile che le stesse reazioni istituzionali alla tragedia spingano l'ente a fare un maggiore affidamento, nella gestione delle aspettative, sui metodi di responsabilità legale e burocratica.

La pro/essionalizzazione del programma spaziale. I primi programmi della NASA presentavano tre caratteristiche fondamentali: obiettivi chiaramente definiti, metodologie ad elevata tecnologia per realizzarli e sostegno politico (e quindi anche economico) pressoché illimitato 21 . Il superamento degli impedimenti tecnici all'esplorazione dello spazio costituiva la miissione centrale dell'ente e la Nasa poteva destinare le sue spese soprattutto a progetti di ricerca e di sviluppo connessi a tale missione 22 Qùeste condizioni originarie influirono molto sullo sviluppo e sulla gestione della NASA. La struttura dell'ente ed i sistemi di assunzione rispecchiavano la volontà istituzionale di rispettare la natura tecnica dei compiti programmatici della NASA. L'organizzazione dell'ente tende.

va ad accentuare il principio della deferenza alla competenza e a rendere minimo il numero di nomine politiche al vertice della struttura amministrativa (nel caso della NASA, vi erano due cariche tradizionalmente affidate, su designazione politica, a personalità con vaste conoscenze professionali nella gestine pubblica) 23 All'origine il personale dell'ente era composto quasi interamente da individui con notevoli conoscenze specifiche, soprattutto ingegneri aeronautici. Tali circostanze consentirono alla NASA di divenire una delle organizzazioni (pubbliche e private) più innovative della recente storia americana ed un classico esempio di ente operante in base ai principi della responsabilità professionale. Il centro focale del controllo sull'attività dell'ente era interno. Il rapporto della NASA con fonti esterne (ivi inclusi il Congresso, il Presidente e il pubblico in generale) era quello di un esperto con un profano. Al suo interno, la NASA elaborò una struttura a matrice nella quale i dirigenti ed i tecnici venivano assegnati a gruppi di progettazione secondo l'utilità che le loro competenze potevano avere per un particolare progetto. Era previsto che gli esperti della NASA prendessero le decisioni in base alla loro competenza tecnica. Quindi, all'interno dell'ente il grado di controllo esercitato sul personale tecncio era relativamente basso. Tale deferenza ai tecnici della NASA era basata in gran parte sulla fiducia nelle loro capacità di giudizio oltre che nella loro competenza. I primi managers della NASA erano tecnici altamente specializzati « che conoscevano il veicolo spaziale da cima a fondo, ed erano tutti molto prudenti ». Se « dall'alto veniva un ordine di lancio, essi non lo eseguivano .

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senza aver prima controllato che tutto fosse in ordine »24 L'impostazione sul sistema della responsabilità professionale era evidente nei tre centri dipendenti dall'O!! ice 0/ Manned Space Flight (oMsF) il Marshall Space Flight Center (Alabama); il Manned Spacecra/t Center (Texas; più tardi ribattezzato Johnson Space Center) e il Kennedy Space Center (Florida). Verso l'inizio degli anni Sessanta, I'OMsF e le sue sottosezioni disponevano di un considerevole grado di autonomia. I dirigenti ai vertici della NASA, residenti a Washington, imposero di tanto in tanto delle modifiche organizzative. Ad esempio, in numerosi casi (1961, 1963, 1965) si ebbero delle riorganizzazioni intese ad indirizzare parecchie unità chiave verso nvovi programmi, con il passaggio della NASA dal progetto Mercury al progetto Apollo. Ciascuna di queste variazioni condusse ad un temporaneo accentramento dei controlli, ben presto allentato , una volta realizzate le modifiche programmatiche. Nel 1967, tuttavia, si mise in atto un importante progetto a lungo termine per ridurre l'autonomia dei centri di volo spaziale con equipaggio in seguito alle prime limitazioni di bilancio imposte all'ente ed in conseguenza dell'incendio sviluppatosi sulla piattaforma di lancio e nel quale morirono tre astronauti 25 . La politicizzazione e la burocraticizzazjone della responsabilità. Sebbene molti compiti tecnici dell'a NASA non siano mutati notevolmente negli ultimi trent'anni, le pressioni istituzionali sull'ente hanno subito notevoli variazioni. Verso la fine degli anni Sessanta la NASA vide ridursi il sostegno politico e finanziario di cui aveva in precedenza fruito. All'inizio de58

gli anni settanta si rivolse maggiormente l'attenzione sulla capacità del management di trasformare la NASA in un ente operativo, nel quadro delle pressioni intese a rendere pienamente operativo il programma shuttle 26 . Queste pressioni condussero ad una riconfigurazione dei sistemi di responsabilità usati in alcune importanti aree dell'ente. Paradossalmente fu proprio il successo dei primi programmi della NASA a generare questi cambiamenti. L'evidente vittoria della NASA nella «corsa spaziale » coincise con la fine del consenso protettivo che aveva permesso all'ente di far affidamento pressoché esclusivamente sulla responsabilità professionale nella gestione delle aspettative. L'attenzione dell'America veniva rivolta sem pre più alla guerra nel Vietnam ed ai problemi economici, ed il programma spaziale perdette la priorità. Occorreva creare nuovi consensi intorno ad un nuovo programma e verso la fine degli anni Sessanta cominciò a prendere forma l'idea di una navetta spaziale. Secondo suoi ideatori, la navetta avrebbe rappresenato « un sistema interamente nuovo di viaggio nello spazio» che avrebbe trasformato la NSA da ente impegnato nel perseguimento di c biettivi specifici ed episodici nel rispetto di determinate scadenze temporali (ad esempio, il Programma Apollo), in un ente obbligato a produrre risultati continui al pari di una impresa commerciale 27 Il desiderio di ottenere il consenso pre. sidenziale sul programma della navetta spaziale rese la NASA più attenta e sensibile ai voleri dei principali attori presenti nel sistema politico americano. Non era facile ottenere tale consenso nel con-


testo, istituzionale altamente variabile e competitivo dell'inizio degli anni settanta. james Fletcher, Amministratore della NASA dal 1971 al 1977 (poi nuovamente collocato dal Presidente Reagan alla guida dell'ente dopo la tragedia del Challenger), doveva « rendere appetibile » il programma shuttle al Congresso ed al pubblico americano oltre che alla Casa Bianca. Le maggiori opposizioni allo shuttie provennero dall'O//ice 0/ Management and Budget che era appoggiato, nel suo giudizio negativo, da una Commissione scientifica consultiva e dalla Rand Corporation2 Durante questo periodo la NASA entrò a far parte di aree di coalizione politica in cui erano presenti gruppi che essa aveva in precedenza ignorato o contrastato, oltre che i suoi tradizionali sostenitori nel governo e fra i suoi contractors. d esempio, il programma dello shuttle era stato concepito per attirare il sostegno di quanti avrebbero potuto trarre vantaggio dal fatto che la navetta poteva lanciare satelliti e condurre nello spazio esperimenti tecnologici e scientifici senza precedenti. Con il sostegno degli ambienti militari, della comunità scientifica ed in parte di quella imprenditoriale, nel 1972 la NASA riuscì ad ottenere l'approvazione del presidente Nixon al programma suddetto, nonostante l'opposizione dell'OMB. A questo punto, la responsabilità politica non era più secondaria o periferica per la NASA 21'. Essa era divenuta un elemento fondamentale nel garantirne il mantenimento quale ente vitale. Negli anni più recenti, gli sforzi della NASA per assicurarsi il sostegno del pubblico e dei politici erano evidenti nei tentativi largamente reclamizzati, di far partecipare membri del Congresso e ci.

vili estranei all'ente ai voli dello shuttle. Questa politica rientrava nella politica della NASA tendente ad alimentare o mantenere il consenso generale nei confronti della sua attività. Un'altra serie di limitazioni istituzionali, importante e connessa alla precedente, emerse nella forma di forti riduzioni nel bilancio dell'ente e, verso la fine degli anni Settanta, di accresciute pressioni per una sua privatizzazione. Dal periodo di maggiori sostegni (fine anni Sessanta) alla metà degli anni Settanta, il bilancio della NASA fu ridotto della metà (in dollari costanti). Da stime recenti risulta che la NASA ha ridotto del 40 per cento il suo personale rispetto ai tempi del programma Apollo in cui non vi erano problemi di bilancio ed inoltre che il solo personale addetto alla sicurezza e al controllo di qualità ha subito una riduzione del 71 per cento fra il 1970 ed il 1976°. Disponendo di minori risorse, l'ente fu costretto ad economizzare e, al pari della maggior parte di altri enti residenti a Washington, la NASA scoprì un nuovo interesse per l'efficienza e dimostrò una maggiore disponibilità'a valersi dello strumento burocratico per risolvere i suoi problemi finanziari. I funzionari della NASA intendevano soddisfare le nuove pressioni istituzionali riducendo i costi organizzativi che avevano caratterizzato la NASA nei vecchi tempi, allorché l'appoggio esterno e la disponibilità di risorse non costtiuivano una fonte di preoccupazione. La NAsA « fu costretta a economizzare sino al centesimo per proteggere il programma dello shuttie, accettando tecnologie a costi più bassi e facendo programmi che alla luce del suo potenziale economico sembrano essere stati eccessivamente ambiziosi ». Il 59


processo di decentramento dell'ente e le specializzazioni per /ield centers continuarono e il decentramento comportò un progressivo affidamento al sistema di responsabilità burocratica. Il passaggio al nuovo sistema permise di effettuare economie grazie ad un'attenta divisione del lavoro e alla ripartizione dell'autorità su base gerarchica. Sebbene all'interno di alcuni /ield centers permanessero sistemi di responsabilità professionale, per la NASA globalmente considerata tale sistema, che aveva caratterizzato l'ente nei suoi primi anni, era pressoché sparito. Con il decentramento della NASA Si ebbero fenomeni di isolamento e di concorrenza fra i vari /ield centers32 Il ricorso della NASA contractors rispecchiava, in certa misura, i tentativi dell'ente di gestire le mutate aspettative istituzionali. Oltre ad essere utili alla NASA sotto il profil6 tecnico -e finanziario, i contractors erano sempre stati di grande utilità politica nel guadagnare consensi ai programmi dell'ente e alle richieste di finanziamenti annuali. Nel corso degli anni Settanta il legame fra decisioni nella scelta dei contractors e sostegno politico divenne fondamentale per la NASA 3 '. Dal punto di vista burocratico, il contracting out costituiva il grado finale nella relazione del tipo superiore/subordinato intercorrente fra i dirigenti della NASA e quanti eseguivano parti specifiche del programma spaziale. Con un contratto si fissavano chiaramente le rispettive responsabilità e si conferivano, in caso di risultati insoddisfacenti, notevoli poteri ai dirigenti della NASA, consentendo loro, inoltre, di evitare i problemi ed i costi connessi al mantenimento diretto di un sistema di responsabiltà professionale. Per.

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tanto, il ricorso alla pratica del contracting out non solo accelerò il processo di burocraticizzazione della NASA, ma ridusse altresì l'affidamento al principio del rispetto della competenza caratteristico dei sistemi impostati sulla responsabilità professionale. Le nuove condizioni istituzionali spostarono il centro di gravità del controllo sulle attività della NASA e fecero altresì variare l'intensità dei controlli. Di conseguenza cambiarono i sistemi di responsabilità che regolavano le operazioni della NASA: In luogo del sistema di responsabilità professionale predominante nel periodo precedente al lancio dell'Apollo 11, la NASA ricorse ad un complicato meccanismo di sistemi di responsabilità che poneva l'accento sugli aspetti politici e burocratici. Questo era il quadro in cui venivano formulate le decisioni relative ai programma generale dei voli spaziali e alle date di specifici lanci allorché il Challenger si sollevò dalla piattaforma di lancio del Kennedy Space Center il 28 gennaio 1986.

IL CASO DEL CHALLENGER

Le prove raccolte dal rapporto della Commissione Rogers e dai mass media mostrano quali fossero le varie forme di responsabilità operanti nella NASA prima del lancio del Challenger. Il quesito fondamentale è se ed in quale misura il disastro del Challenger sia dovuto ai tentativi dei vertici della NASA di gestire le mutate aspettative istituzionali attraverso forme di . responsabilità politica e burocratica. L'enfasi posta dalla NASA su questi meccanismi di responsabilità finì forse col prevalere sul sistema di responsabili-


tà professionale che aveva caratterizzato la NASA all'inizio degli anni sessanta? I problemi che condussero al disastro del Challenger non erano forse da collegare al fatto che vi fosse un'insufficiente rispondenza fra i compiti dell'ente ed i meccanismi di responsabilità dello stesso? A nostro parere, la risposta ad entrambi i quesiti è affermàtiva. Pressioni politiche. All'indomani della tragedia del Challenger si sostenne da più parti che la NASA era stata oggetto di considerevoli pressioni politiche perché il lancio del Challenger avvenisse il 28 gennaio ed in particolare circolavano voci secondo cui tali pressioni sàrebbero provenute direttamente dalla Casa Bianca. La Commissione Rogers ha decisamente contestato la fondatezza di queste voci34 ; tuttavia pressioni simili a questa indubbiamente esistevano e provenivano da una serie di fonti esterne alla NASA, fra cui anche la Casa Bianca. A livello politico ufficiale, il presidente Reagan annunciò, nel luglio del 1982, che la priorità assoluta del programma shuttle era quella di « rendere il sistema pienamente operativo ». Dati i costi che il programma comportava, ulteriori pressioni provenivano da un Congresso sempre più sensibile ai problemi di bilancio 35 Altre pressioni sulla NASA erano dovute a ripetute voci di possibili ritardi nel programma di lancio dello shuttle da parte dei mass media. Una elevato funzionario dell'ente sostenne che la stampa, dando ampio rilievo ai numerosi rinvii del lancio l'anno precedente aveva, con le sue pressioni, « spinto » la NsA a trascurare la sicurezza del volo. « Non credo che ci indusse a fare alcunché di insensato » - egli disse - « ma è da lì che veni.

vano le pressioni, e da nessuna altra parte »°. Tali pressioni esterne si tramuta i vano facilmente in decisioni interne di realizzare un programma di lancio eccessivamente ambizioso37 . In breve, la NASA attuò tale programma per ridurre i fattori di costo e soddisfare un pubblico estremamente attento ai risultati da essa conseguiti, fra cui la Casa Bianca, il Congresso, i mass media, i « clienti » militari e civili della NASA, tutti attori importanti nella coalizione di sostegno politico all'ente. Per quanto tali pressioni potessero non riguardare in special modo il lancio del Challenger, tuttavia esse erano avvertite in tutto l'ente. La crescente enfasi posta sulla responsabilità politica era destinata a creare problemi di comportamento oltre che operativi. « Le pressioni perché la NASA rispettasse i ritmi di volo pianificati erano così intense » concludeva un rapporto congressuale « da compromettere indubbiamente l'atteggiamento con quale venivano esaminati i problemi della sicurezza ». Un funzionario della NASA notò come la tradizione organizzativa dell'agenzia cambiasse quando essa « si sentì costretta a dimostrare che le navette erano veicoli operativi in un sistema di trasporti di routine » . Parte di questo processo di « routinizzazione » fu realizzato al prezzo di semplificazioni dei rapporti in materia di sicurezza. Procedure più snelle ed una minore documentazione sostituirono le direttive precedenti secondo cui tutti i problemi di sicurezza e le possibili soluzioni dovevano essere deferiti ai più alti livelli delle gerarchie della NAsA. « La vecchia impostazione non era producente per la fase operativa del programma Shuttle »°. Così si sostenne. 61


Le stesse pressioni derivanti dalla responsabilità politica influenzarono il principale contractor del programma Shuttle della NASA, la Morton Thiokol. L'assenso della direzione della Morton Thiokol (e il silenzio dei suoi ingegneri) al lancio del Challenger dipese in parte dall'importanza che rivestiva la NASA come éliente, un cliente che per di più in quel momento stava riesaminando i suoi contratti con la ditta. La direzione della società non voleva compromettere le sue relazioni con la NASA. Di conseguenza, piuttosto che rispettare il volere dei propri esperti, la Morton Thiokol cedette alle richieste dei dirigenti della NASA che, a loro volta, erano tenuti a rispetiare un programma di lancio autoimpostosi per esigenze politiche. Pressioni burocratiche. Nelle operazioni del programma Shuttle sono evidenti i segni della preferenza della NA(SA per il sistema di responsabilità burocratica piuttosto che professionale. Verso l'inizio degli anni ottanta, i dirigenti della NASA incontravano difficoltà nel coordinamento dei loro progetti 4 . Cominciarono pertanto a fare crescente affidamento su sistemi di rendiconti gerarchici, chiara manifestazione di un sitema impostato sulla responsabilità burocratica. Ciò ebbe due conseguenze: in primo luogo fece aumentare il potenziale di comportamento « burocraticamente patologico » che il sistema di responsabilità professionale intendeva invece minimizzare 42 In secondo luogo, ridusse i canali di comunicazione orizzontale che una volta caratterizzavano la struttura centrale della NASA, meno •gerarchica e più flessibile. .

Le carenze del sistema direttivo della 62

costituiscono un tema fondamentale della Commissione Rogers. Si accusarono i supervisori di non aver trasmesso ai livelli superiori della gerarchia le raccomandazioni dei loro subordinati. Furono mosse critiche ai dirigenti per avere formulato giudizi in contrasto con quelli che sembravano logici in base ai dati disponibili. La Commissione riferì che le sue indagini avevano rivelato « un'insufficiente comunicazione che portò alla decisione di procedere al lancio del Challenger sulla base di informazioni incomplete e a volte fuorvianti, una mancanza di rispondenza fra i dati dei tecnici ed i giudizi della direzione, ed una struttura direttiva della NASA tale da consentire che i problemi interni di sicurezza del volo non pervenissero ai responsabili principali del programma Shuttle »'. Ma quello che la Commissione Rogers considerava una carenza del sistema manageriale era in effetti una caratteristica inerente al sistema di responsabilità adottato dalla NASA per soddisfare le aspettative istituzionali del periodo successivo all'Apollo 11. Nel prògramma Shuttle, la responsabilità per particolari aspetti del programma generale era affidata a controllori posti ai livelli più bassi della gerarchia di supervisione e il compito di dare il nulla osta ai responsabili del lancio era passato dai tecnici e gli esperti a questo prsonale addetto alla supervisione. Con l'aumentare delle pressioni perché si rispettassero le scadenze previste aumentò anche la riluttanza dei supervisori ad essere additati come coloro che inceppavano il regolare procedere del programma Shuttle. Non c'è quindi da sorprendersi se i dirigenti di grado meno elevato cercarono di risolvere da sé i proNASA


blemi invece di informarne i superori''. L'importanza ditale problema ai fini del disastro del Challenger emerse ripetutamente nelle testimonianze di fronte alla Commissione Rogers. I funzionari della NASA notarono come funzionari di grado elevato nella gerarchia non fossero stati informati delle riserve degli ingegneri della Rockwell circa la presenza di ghiaccio sulla piattaforma di lancio né delle perpiessità del personale della Morton Thokiol riguardo alle condizioni atmosferiche e agli O-rings (cioè i giunti)' 5 . In un altro caso, richiesto perché non avesse comunicato al dirigente di programma del National Space Transportation System i dubbi degli ingegneri della Thiokol riguardo al funzionamento delle guarnizioni degli O-rings, il dirigente del Solid Rocket Booster Pro ject (con base al Marshall Center) rispose di avere, ritenuto che si trattasse di un probienia che era stato risolto al suo uve]lo nell'organizzazione 46 . Come venne osservato da un giornalista « nessuno al Marshall Center vedeva alcun motivo di disturbare i di.rigenti ai vertici della scala di comando della NASA, come invece sarebbe stato normale fare di fronte alle segnalazioni dei nuovi eventi inquietanti ». Questo esempio di patologia burocratica derivava dall'idea, diffusa fra gli impiegati del Marshall Center, che essi dovessero ritenersi in competizione con quelli del Johnson Center e degli altri centri. « Non si lasciava che nulla (sic). trapelasse dal centro che potesse far pensare che il Marshall Center non stesse facendo il proprio dovere... »'. Gli effetti del sistema di responsabilità burocratica sono anche evidenti dalle testi monianze sulle discussioni intervenu te fra i rappresentanti della NASA e gli in-

gegneri della Morton Thiokol durante la notte precedente al lancio del Challenger. Nel corso di un incontro « ufficio. so » fra i dirigenti della Morton Thiokol e i loro ingegneri (mentre i funzionari della NASA addetti ai controlli prelancio erario « in ritiro »), un membro della direzione chiese ad uno dei suoi colleghi di « rimuovere la sua veste di ingegnere e porsi in quella di dirigente. Da quel momento in poi, la direzione procedette ad elencare i punti sui quali basare le sue decisioni. Non vi fu mai un commento in favore.., del lancio da nessun ingegnere o altra persona non appartenente al management presente nella stanza prima o dopo la riunione. Il parere degli ingegneri non fu mai richiesto né sondato e sotto questo profilo si trattò chiaramente di una decisione della direzione. Era una riunione nella quale si era già deciso di effettuare il lancio e spettava agli ingegneri della Thiokol dimostrare senza alcuna ombra di dubbio ai dirigenti della Thiokol e alla NA'SA che non era sicuro procedere al lancio. Un simile procedimento era totalmente opposto a quello che caratterizza di solito le discussioni pre-lancio o gli esami per dare il nulla osta al volo. Di solito è esattamente il contrario Un esempio che rivela in modo incontestabile il ruolo svolto dal sistema di responsabilità burocratica nella tragedia del Challenger riguarda un incidente avvenuto nel 1984. Nel febbraio di quell'anno, dopo il completamento della decima missione dello Shuttle, gli ingegneri della Morton Thiokol notarono e segtalarono l'esistenza di problemi relativi ai giunti periferici e l'Office o! the Associate Administrator br Space Flight ordinò che venisse redatto un rapporto 63


in merito prima dell'undicesimo lancio previsto per la fine di marzo. Si decise di procedere al lancio, ma non prima che J ames Abrahamson, associate administrator, e Hans Mark, deputy administrator della NASA, avessero deciso che il problema dei giunti periferici doveva essere risolto. Fu convocata per il 30 maggio una riunione per discutere il problema con i funzionari •dei differenti centri NASA. In tale riunione il problema tecnico destinato a causare la tragedia dello Shuttle sarebbe stato certamente esaminato, ma essa non ebbe mai luogo. Per quella data Abrahamson aveva lasciato l'ente per lavorare all'iniziativa per la difesa strategica promossa dal presidente Reagan, mentre il deputy administrator, Mark, cancellò la riunione per visitare Austin, nel Texas, per considerare un'offerta di assumere la carica di Chanchellor di tale Università. Il successore di Abrahamson, Jesse A. Moore, non fu mai informato del problema, e il posto di Mark restò vacante per un intero anno. Quindi il problema dei giunti periferici non fu mai comunicato agli esperti perché intervenissero. Nelle parole di Mark, si trattò di un tipico caso di « vuoto di potere »". In altri termini, si trattava ancora una volta di un caso di responsabilità burocratica applicata in circostanze inappropriate. L'era successiva al rapporto della Commissione Rogers: le nuove pressioni isti tuzionali. Dato che il Rapporto della Commissione Rogers e le relazioni di quanti erano stati incaricati di studiare le cause dell'incidente del Challenger ponevano l'accento sugli aspetti tecnici e manageriali, non c'è da sorprendersi che le richieste di variazioni nel programma 64

spaziale tendessero a perseguire due obiettivi: punire i funzionari della NASA responsabili per la tragedia ed attuare riforme che garantissero dalla possibilità che eventi simili si ripetessero in futuro. Sia nella forma, sia nel contenuto, questi tentativi condussero a maggiori pressioni istituzionali sulla NASA, pressioni tali da indurre l'ente a elaborare nuovi meccanismi di responsabilità legale e a fare maggiore affidamento su quelli di responsabilità burocratica. La ricerca di capri espiatori e di responsabilità legali per la tragedia del Challenger furono conseguenze spiacevoli, ma forse inevitabili, dell'enfasi posta dalla Commissione Rogers sui problemi tecnici e gestionali. Se un problema tecnico esisteva, perché non lo si scoprì in tempo? Se lo fu, perché non venne preso seriamente in considerazione dai responsabili? 5° Questi sono i quesiti che giustificarono gli interventi sull'organico della NASA (e della Thiokol), quali nuove nomine e •casi di dimissioni e di pensionamento anticipato. Inoltre le famiglie di quasi tutti i membri dell'equipaggio del Challenger fecero causa o accettarono una soluzione legale di compromesso con il governo ed i suoi subcontractorf". I progetti di riforma dell'ente spaziale sono proliferati. A prima vista, molti di essi sembrano segnalare un ritorno al sistema della responsabilità professionale. Talune raccomandazioni auspicano un miglioramento del ruolo di alcuni settori della NASA, cioè quelli che seguono più da vicino i rischi connessi all'esplorazione spaziale. Si propose, ad esempio, di collocare ex astronauti ai vertici della NASA 2 . A prima vista, questo sembrerebbe un tentativo di accentuare il


ruolo degli esperti e dei professi?nisti all'interno dell'ente, ma in realtà un ta le provvedimenti non garantisce un miglioramento nelle competenze tecniche e di fatto sembra più un tentativo appena velato di utilizzare vistosi simboli del programma spaziale per potenziare la ridotta credibilità dell'ente. Un'altra proposta che a prima vista sembrerebbe comportare un ritorno alla responsabilità professionale auspica l'osservanza di direttive e criteri espliciti nell'iter da seguire per giungere alle decisioni di lancio. Presumibilmente tali criteri dovrebbero essere ispirati all'esperienza tecnica degli esperti, ma potrebbero anche essere considerati come un ulteriore scostamento dal principio della deferenza al giudizio dei tecnici ed un altro passo verso forme di responsabilità legale qualora tali direttive non siano seguite scrupolosamente. La propensione per l'uso di meccanismi di responsabilità legale appare anche nell'enfasi posta, in molti pxogetti di riforma, sulla creazione di organi di vigilanza, indipendenti o esterni, dotati di potere di veto sulle decisioni dell'ente sui problemi di sicurezza. La Commissione Rogers, ad esempio, auspicò la creazione di un comitato addetto alla supervisione del Solid Rocket •Motor per esaminare il disegno del rocket e fare raccomandazioni all'Administ,-ator o alla NASA 53 Analogamente, la Commissione si espresse in favore della creazione di un Ufficio separato sulla sicurezza, affidabilità e garanzia di qualità esterno alla normale gerarchia dell'ente ed incaricato di riferire direttamente all'Amministratore della NASA. In entrambi i casi, organi esterni alla normale gerarchia dell'ente avrebbero sorvegliato decisioni chiave relati.

ve alla progettazione e al lancio dei futuri voli spaziali con equipaggio' 5 . Pur non essendo destinati ad esercitare un controllo diretto sulle operazioni giornaliere del programma della navetta spaziale della NASA, tali organi avrebbero avuto giurisdizione su un'ampia gamma di attività dell'ente. E' altresì evidente che la supervisione del Congresso sulle attività della NASA tenderà ad approfondire molto più di quanto abbia fatto •in passato i problemi tecnici e gestionali 56 . Precedentemente, il ruolo del Congresso era quello di un sostenitore piuttosto che di un supervisore. Il Congresso si preoccupava soprattutto di esaminare quali fossero le priorità generali dell'ente ed il suo potenziale come fonte di progetti comportanti favoritismi. Nel prossimo futuro, quanto meno, i membri delle commissioni congressuali interessate seguiranno più da vicino l'attività della NASA 57 Altre riforme proposte (delle quali alcune già attuate) tendono a realizzare modifiche interne alla NASA che la spingerebbero verso un diverso tipo di responsabilità. Ad esempio, fra le raccomandazioni per una riorganizzazione della struttura operativa dello Shuttle vi è quella di ridefinire le responsabilità del direttore del programma per aumentarne il ruolo decisionale. Inoltre si è proceduto alla riorganizzazione di partièolari unità della NASA per migliorare la comunicazione fra le varie parti. Sotto il profilo operativo, le riforme proposte includono l'applicazione di criteri decisionali più raffinati per quanto riguarda la manutenzione, la sicurezza di atterraggio e le procedure relative a lanci abortiti. Queste innovazioni rinforzano o legitti.

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mano l'influenza delle strutture burocratiche all'interno della NASA in quanto danno veste formale alle relazioni organizzative e alle procedure operative. Esse tendono, sia sotto il profilo formale sia sotto quello funzionale, a fare delle strutture burocratiche della NASA un sistema centralizzato cui saranno più facilmente imputabili responsabilità legali per l'azione futura dell'ente. Era inevitabile che il disastro del Challenger generasse forti pressioni istituzionali sulla NASA dalle quali derivano nuove aspettative nei confronti dell'ente. Paradossalmente, tali p1esioni comportano un aumento delle strutture burocratiche e dei meccanismi legali atti ad assicurare la responsabilità della NASA per la sicurezza degli astronauti. Con 'l'ordine, da parte del presidente Reagan, della temporanea sospensione delle operazioni commerciali, è stata eliminata un'importante fonte di pressioni e di sostegno. E' quindi prevedibile che l'ente sarà sottoposto a minori responsabilità politiche nella condotta delle sue operazioni. Nondimeno, i fattori politici non sono spariti. Attualmente la NASA manca di un chiaro senso di orientamento e si trova di fronte alla concorrenza militare e programmatica dei settori militare e commerciale. Alla fine del 1986 •Fletcher così si espresse: « ii processo decisionale è reso più complicato dal gran numero di giocatori ». Inoltre è poco probabile che le riforme che verranno introdotte in seguito alla tragedia del Challenger tengano conto dell'esigenza dell'ente di ridare priorità ai sistemi di responsabilità professionale prevalenti nel periodo felice precedente al lancio dell'Apollo 11.

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QUALCHE CONCLUSIONE

La tesi fondamentale sostenuta in questo studio è che la Commissione Rogers ha mostrato un'ottica miope nel porre l'accento esclusivamente sulle insufficienze tecnologiche o gestionali della NASA. Il problema non consisteva tanto nelle insuffiienze di questi sistemi, quanto piuttosto nella inadeguatezza dei meccanismi di responsabilità politica e burocratica che hanno caratterizzato la gestione della NASA negli anni recenti. La enfasi posta dall'ente sui meccanismi di responsabilità politica e burocratica rispondeva alle mutate aspettative istituzionali nell'ambiente della NASA, ma tali meccanismi erano inadatti ai compiti tecnici da eseguire e quindi concorsero pesantemente alla tragedia del Challenger. In termini più espliciti, se al sistema di responsabilità professionale fosse stata data almeno uguale importanza nel processo decisionale, probabilmente non si sarebbe deciso di effettuare il lancio in quella fredda mattina di gennaio; se nel decidere, la NASA si fosse basata esclusivamente su un sistema di responsabilità professionale, forse avrebbe prevalso il principio del rispetto della competenza tecnica degli ingegneri. Sui pareri, sfavorevoli al lancio, espressi da questi ultimi, non avrebbe prevalso quello, contrario, del direttore del progetto del solid rocket boostér 5 Invece, le raccomandazioni degli ingegneri della Thiokol che sconsigliavano il lancio furono ignorate dai loro superiori gerarchici. I responsabili della decisione si fidarono dei supervisori piuttosto che degli esperti. La tendenza a fare maggiore affidamento sui sistemi di responsabilità legale e bu.


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rocratica, manifestatasi successivamente dell'esplorazione spaziale, le sue chances al disastro del Challenger, migliorerà le di successo organizzativo saranno ridotchances di successo delle missioni della te. In teoria, la NASA dovrebbe ritorNASA? Se il giudizio da trarsi dal prenare a ciò che sa far meglio, valendosi sente studio sul ruolo svolto dai fattori della forma d.i responsabilità più adatta. istituzionali nell'assicurare il successo o alla sua missione organizzativa, cioè, un il fallimento dei programmi della NASA sistema di responsabilità professionale è esatto, le proposte di riforma non fa.. basato sull'esperienzaol. Tuttavia, la 'realranno che aumentare le possibilità di altà del contesto istituzionale della NASA tri fallimenti. Questa conclusione si ba- rende molto improbabile tale soluzione sa sulla tesi secondo cui l'inserimento di ideale. La NASA non gode più di un meccanismi di salvaguardia addizionali contesto istituzionale favorevole ed è inin sistemi di per sé già complessi può, vece sottoposta a crescenti pressiàni perin effetti, accrescere le possibilità di in- ché adotti meccanismi di responsabilità cidenti°°. Se la NASA verrà ancora di- politica, burocratica e legale. Questo è stratta da ciò che è meglio in grado di il dilemma cui si trova di fronte la NAfare, cioè mobilizzare le risorse degli eSA ed il problema che si pone agli amsperti per risolvere i problemi tecnici ministratori pubblici americani.

Note Gli autori (professori associati di Public Administration all'Università del Kansas), ririgraziano per gli utili commenti Dwight Kiel, John Nalbandian e Laurence O'Toole Jr.

Report 01 the Presidential Commission on the Space Shutile Challenger Accident, Washington, 6 giugno 1986, p. 40; di seguito citato come

Rogers Commission Repoyt. 2 Rogers Commission Report, p. 82. Vedasi James D. Thompson, Organizations in Action: Socjal Science Bases o/ Administratjve Theory, New York, McGraw-Hill Book Co. 1967, pp. 10-11.

Thompson, Organizations in Action, p. 11. Oltre all'astronauta Sally Ride e all'ex astronauta Nell Armstrong, facevano parte della commissione: Eugene Covert, professore del MIT e frequente consulente della NASA al quale era stato conferito, 'nel 1980, il Public Service Award; Robert W. Rumniel, ingegnere aerospaziale e consulente privato, anch'esso insignito di un Publzc Service Award della NASA; Donald Kutyna, major 'generai e direttore del pro-

gramn,a dei sistemi spaziali della U.S. Air Force ed ex dirigente del programma della navetta spaziale dei Dipartimento della difesa. °Per esempio, il presidente della Commissione Rogers era Attorney Generai' durante la presidenza di Eisenhower e Segretario di stato durante 'quella di Richard Nixon. David C. Acheson, noto avvocato di Washington, era stato precedentemente U.S. Attorney, consigliere della Atomic Energy Comrnission e Vice presidente anziano della COMSAT. Fra gli altri membri della Commissione figuravano due fisici, Richard P. Feyn.man e Albert D. Wheela'n; l'astronomo A'rthur B.C. Walker Jr.; il test pilot Charles E. Jaeger; l'ingegnere aeronautico Joseph F. Sutter 'e Robert B. Hotz, cx editor dell'Avia-

tion Week and Space Technology Magazine. Si Vedano Paul R. Schulman, Large-Scale Policy Making, New York, Elsevier 'North Holland, Inc. 1980, ipp. 22-41; James E. Webb,

Space Age Management, New York, 'McGrawHill Book Co. 1968; Leonard R. 'Sayles e Margaret K. Chandler, Managing Lar.ge Systems, New York, Harper and Row 1971 e Peter T. Drucker, Management: Tasks, Responsabilities, 67


and Practices, New York, Harper and Row 1974, cap. 47. Si veda, in materia, Herbert A. Simon, Donald W. Smithburg, e Victor A. Thompson, Public Administration, New York, Alfred A. Knopf 1950, in particolare i capitoli 24 e 25. Si veda anche Karl Joachim Friedrick, Public Policy and the Nature o/ Admintstrative Responsability, in C.J. Friedrick e Edward S. Mason, Public Policy, Cambridge, Harvard University Press, 1940, pp. 3-24; e Herman Finer, Administrative Responsability and Democratic Governnient in « Public Administration Review » vol. 1, estate 1941, pp. 335-350. Questo aspetto della responsabilità è analizzato in modo più approfondito in Barbara Romzek e Mcl Dubnick, Accountab:lity and the Management o! Expectations: The Challenger Tragedy and the Costs 0/ Democracy, studio presentato in occasione della riunione annuale dell'American Poliuical Science Association, nell'agosto 1986. 10 Si veda Max Weber, Economy and Society; An Ouiline of Jnterpretiue Sociology, a cura di Guenther Roth e Claus Wittich, Berkeley, University of California Press 1987, capitolo XI. Trad. it. Il Si veda Alvin Gouldner, Patterns 0/ Industrial Bureaucracy, New York, The Free Press 1954, pp. 159-162. 12 Sotto il profilo filosofico e ideologico, le basi del concetto di responsabilità legale sono da ricondurre al principio di «valore di legge »; si veda Friedrick A. Hayek, The Road to Serfdom, Chicago, University of Chicago Press 1944, cap. VI; si veda anche Theodore J. Lowi, The End 0/ Liberalism: The Second Republic 0/ The United States, seconda edizione, New York, W.W. Norton e Co., 1979, capitolo 11, in cui l'autore si esprinie in favore di una forma di « democrazia giuridica ». 13 Per una vasta applicazione della teoria della rappresentanza, si veda Barry M. Mitnick, The Political Economy 0/ Regulation: Creating, Designing and Removing Regulatory Forms, New York, Columbia University Press 1980. 4 Mentre la responsabilità burocratica fa affidamento su metodi disponibili ai membri dell'ente, quali severi controlli e l'applicazione di norme e regolamenti, la responsabifità legale si

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limita a fare affidamento su strumenti disponibili esternamente all'ente, quali la vigilanza, i controlli ispettivi e i controlli di gestione e altre forme di supervisione e valutazione. 1-5 Si veda Cari Joachim Friedrick, Public Policy and The Nature 0/ Administrative Responsibility. » Per un esempio di sistema impostato sulla responsabilità professionale, si veda la storia del Progetto Manhattan in Peter Wyden, Day One: Bei ore Hiroshima and A/ter, New York, Warner Books 1985. 17 Cfr. Emette S. Redford, Democracy in the Administrative State, New York, Oxford University Press 1969; si vedano anche i lavori di •Paul Appleby e Herman Finer. Si veda James Thompson, Organizations in Action. 1. 9 Si veda Robert C. Fried, Peri ormance in American Bureaucracy, Boston, Little, Brown and Co. 1976. 20 E' possibile (quantomeno in teoria) che differenti meccanismi di responsabilità operino a livelli diversi all'interno di uno stesso ente. Ad esempio, può esistere un meccanismo di responsabilità professionale al livello tecnico di un'organizzazione, mentre ci si può servire di un meccanismo di responsabilità legale per gestire 'le aspettative esterne a livello istituzionale. Cfr. Thompson, Organizations in Aclion. Per un'applicazione di questo concetto ad un settore affine, si veda Donald Klingner e John Nalbandian, Values and Coni lict in Public Personnel Administration, in «Public Administration Quarterly ». 21 Cfr. Hans Mark e Arnold Levine, The Management o/ Research Institutions: A Look at Government Laboratories, Washington, National Aeronautics and Space Administration 1984, pp. 117-118. Sul sostegno politico alla NASA in quegli anni, cfr. Don K. Price, The ScienIi/ ic Estate, Cambridge, The Bleknap Press 1965, pp. 222-223. Per quanto riguarda gli effetti del suo sostegno finanziario durante il 1966, si veda Paul R. Schulman, Large-Scale Policy Making, New York Elsevier North Holland 1980, •pp. 87-88. 22 Durante la realizzazione del programma Apollo, la NAsA spese oltre 180 per cento dei suoi fondi pet la ricerca e lo sviluppo (R&D).


Cfr. Philip N. Whittaker, 10ml Decision in flerospace, in Matthew Tuite, Roger Chiso!m e

Michael Radnor, !nlerorganizaiional Decis,on Making, Chicago, Aldine Publishing 1972, p. 272. 2.3

Per una descrizione della NAsA nei Suoi primi armi di funzionamento da parte di un insider, cfr. John D. Young, Organizing the

Naiion's Civil Space Capabiliiies: Selecied ReJleciions, in Theodorc W. Taylor, Federal Pvblzc Policy: Personal Accounis o/ Ten Senior Civil Service Execuiives, Mt. Airy, Lomond Publicarions 1984 pp. 45-80. Alcuni osservatori hanno definito quel « consenso protettivo » poco più di un vuoto politico in cui l'ente poteva definire i propri obiettivi programmatici. Si veda John Logsdon, The Decision io Go io the TMoon, citato in Lambright, Governing Science and Technology, New York, Oxford Universiry Press 1976, pp. 41-42). Henry SP. Cooper Jr., Leiter /rom the Space Center, in « The New Yorker» 10 novembre 1986, p. 93. 21

Ìvlark and Levine, The Managemeni o/ Resenrch lnsiiiuiions, pp. 60, 200-202. 20 Schulman, Larga-Scale Policy Making, pp. 6274. Cfr. anche Cooper, Leiter /rom the Space Cenier, P. 99.

Schulman, Larga-Scale Policy Making, pp. 7476; si veda anche, Mark and Levine, The Managemeni o/ Research lnsiituiions, pp. 117-118. 28 Lambright, Governing Science and Technolog)', p. 43. Si veda anche \Vayne Biddle, NASA: Whai's Needed io Pui It On lis Faet? in «Discover», voI. 8 (gennaio 1987), pp.. 36, 40. » Non è esatto ritenere che la NASA fosse un ente apolitico durante i suoi primi anni di vita. Tom Wolfe descrive un'accesa discussione fra John Glenn e l'amministratore della NASA James Webb nel corso della quale Glenrs si lamentava dei numerosi viaggi che doveva effettuare su richiesta dei membri del Congresso o della Casa Bianca. Cfr. \Volfe: The Righi Sia/I, New York, Bantam Books 1979, p. 331. Si veda anche Mark and Levine, The Managemeni o! Research fnstituiions, p. 82, per una descrizione dell'importanza di creare « nuovi affari », per l'ente. Cli aspetti politici relativi al progetto della navetra sono evidenziati dalle analisi sul ruolo svolto da Fletcher nell'aggiudicare contratti • per il progetto della navetta nel

1973; si veda William J. Broad, NASA, Chie/ M,ghi Noi 7ake Pari in Decisions on iloosler Coniracis in « The New York Times » 17 dicembre 1986, pp. 1, 14. •» W. Henry Lambright, Governing Sciance a,id Technology, pp. 21, 22; e U.S. Congress, House, Commitree on Science and Technology, Invesligaiion 0/ ihe Challenger Accideni, Rcport, 99th Congress, 2d Session (Washington: U.S. Government Printing Office, 1986), pp. 176177. ° John Noble Wilford, NASA, May Be a Vieiim o/ De/ecis in Owìi Bureaucracy in « The New York Times », 16 febbraio 1986, p. 188. :32

Cfr. Cooper, Leiter /rom The Space Cenier, in particolare alle pp. 85-96. is

Sui Sistemi di contracting della NAsA, cfr.

Mark and Levine, The Managemeni o/ Resaarch Insiiiuiions, pp. 122-123. Il ricorso della NASA a politiche di favoritismo risale ai primi anni di vita dell'ente; si veda Amitai Erzioni, The Moon Doggle, Garden City, Doubieday and Co. 1964, e Price, The Scienti/ic Esiaie, pp. 21-23. Il perdurare della presenza di considerazioni politiche nelle pratiche di contracting della NA. SA durante gli anni Sessanta è dimostrato dalle circostanze connesse con la concorrenza per l'aggiudicazione del contratto relativo al razzo ausiliario della navetta, alla fine assegnato alla ditta Thiokol nel 1973, cfr. Broad, NASA, Chie/

May Noi Take Pari in Decisions on Boosier Coniracis. Rogars Commission Repori, p. 176. Id., pp. 176, 201. Cfr. anche Cooper, Leiier from ihe Space Cenier, pp. 99-100, e U.S. Congress, House, Invesiigaiion o/ the Challenger Accideni, pp. 119-120.

» William B. Broad, NASA Aide Assails Panel Investigaiing Explosion o/ Shuiile, in « The New York Times », 16 marzo 1986, p. 23. 37 U.S. Congress, House, lnvesiigaiion o! the Challenger Accideni, p. 120. 5i U.S. Congress, House, fnvesiigaiion o/ the Challenger Accideni, p. 122. Richard P. Feynman, membro della Rogers Commission, nel giu-

dicare la politica dell'ente riguardo ai problemi di sicurezza, osservò che l'ente avrebbe potuto minimizzare i rischi connessi al lancio dello Shuttle per « rassicurare > il Congresso sulla « perfezione e sul successo dell'ente in mo69


do da garantirsi la fornitura di fondi ». Cfr. David E. Sanger, Looking Over NASA's Shou1der in « The New York T.imes », 28 settembre 1986. John Noble Wilford, Nasa Chief Vows io Fix Problems, in «The New York Times », 10 giugno 1986, p. 22. o Rogers Commission Re pori, pp. 153-154. 1 Laurie MaGinley e Bryan Burrough, Backbiting in Nasa Worsens the Darnage from Sbuitie Disaster, in « The Wall Street Journal », 2 aprile 1986, p. 1. 42 Cfr. Victor A. Thom.pson, Modern Organi. zation, seconda edizione, University of Alabama Press 1977, capitolo 8. ' Rogers Coinmission Repori, p. 82. 41 Sui fattori che rendevano difficile agli impiegati trasmettere le cattive notizie ai livelli superiori dell'organizzazione, cfr. Chris Argyris e Donald A. Schon, Organizational Leamning: A Theory o! Action Perspective, Reading, Addison-Wesley Publishing Co. 1978. 45 Rogers Comtnission Report, p. 82. ° Testimonianza di Lawrence Mulloy, Rogers Commission Report, p. 98. '7 Cooper, Letter /rom the Space Center, pp. 89, 96. Testimonianza di Roger Boisjoly, Rogers Commission Re pori, p. 93. Si veda anche la testimonianza di R.K. .Lund, id., p. 94. ") David E. Sanger, Top NASA Aides Knew o/ Shutile Flaw in '84, in «The New York Times », 21 dicembre 1986, pp. 1, 22. ° Cfr. William J. Broad, NASA had Solution io Key Flaw in Rocket When Shutile Exploded in «The New York Times », 22 settembre 1986, p. 1; e David E. Sanger, NASA Pressing Shuttle Change Amid Concemns: Fear o/ Short-Circuiting Sa/ety Search Raised in <The New York Times », 23 settembre 1986, p. 1.

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" Nel luglio 1986 la famiglia del pilota della navetta spaziale Michael Smirh, fece causa per omicidio colposo alla NASA e ad alcuni dei suoi dirigenti. Più tardi fu annunciata la conclusione di accordi con altre famiglie dell'equipaggio del Challenger. Cfr. William J. Broad, 4 Families Setile Shutile Claims in « The New York Time », 30 dicembre 1986, p. I. 52 Rogers Coinmission Repori, pp. 199-201. id., p. 198. id., p. 199. id., pp. 198.199. Alcuni membri del Congresso criticarono la Commissione per non avere appurato quali individui fossero direttamente responsabili dell'incidente. Cfr. Philip M. Boffey, Sbuttie Panel is Faulted br noi Naming Names in « The New York Times », 11 giugno 1986, p. 16. Philip M. Boffey, NASA Challenged on Modi/ication That Rockets Mei Requirements, in « The New York Times », 12 giugno 1986, p. 18. John Noble Wilford, Threat io Nation's Lead in Space is Seen in •Lack of Guiding Policy, in «The New York Times », 30 dicembre 1986, p. 18. ' Rogers Commission Report, p. 96. ° Ofr. Charles Perrow, Normal Accidents: Living With High Risk Technologies, New York, Basic Books 1984. 61 La nostra tesi secondo cui il sistema più adatto alla NA5A sarebbe quello impostato sulla responsabilità professionale, non deve essere interpretata nel senso che tale sistema sia preferibile in qualsiasi circostanza. Si vuole piuttosto indicare, in questo contesto, che il sistema di responsabilità deve essere adatto ai compiti dell'ente. ')


queste istituzioni

Città e territorio: ma intanto come governare?

Nel corso degli anni Ottanta abbiamo assistito alla ripetuta autocritica dell'urbanistica. Già ci siamo soffermati più volte si questo punto (v. il fascicolo n. 53 di « Queste Istituzioni », 2° semestre 1982 intitolato, appunto, Ripensare l'urbanistica). Bruciate le utopie, ridimensionate le pretese, riaperto magari un nuovo discorso pro gettuale (si veda su questo numero l'articolo di Marcello Fabbri), il problema torna con dura insistenza sulla realtà istituzionale del governo del territorio. Una realtà largamente immobile, almeno nel nostro paese, ma che anche quando si è mossa, come in altri paesi, rimane fra le più difficili. Basta considerare la questione relativa alle aree metropolitane dove si sono tentate le più diverse soluzioni di governo unitario per poi tornare a scoprire (contro-intuitivamente, è stato detto) i vantaggi della frammentazione delle autorità locali purché preparate e disposte a collaborare. Il dossier di questo numero fa il punto della situazione dando spazio alle principali linee di pensiero che sono in campo quando si parla di gestione del territorio e delle città. Nella logica di questo numero, riassunta nell'editoriale,, vogliamo comunque sottolineare la nostra opzione per una linfa di azione pubblica che ripensi e riutilizzi intanto, e al meglio, gii strumenti già disponibili. 71


Quale rinnovo per le città di Roberto Mosiacci e Nicolò Savarese

tri urbani potrebbe dunque apparire come Il tema del « rinnovo urbano » si è posto in Italia con termini nuovi e complessi un fenomeno analogo, con il tipico ritarsolo negli ultimissimi anni, divenendo pe- do temporale di diffusione che sembra carò in poco tempo predominante e cultu- ratterizzare i principali processi evolutivi ralmente pervasivo. Le politiche di urban nelle « province dell'impero d'occidente ». renewal - da cui viene di norma mutua- In verità i fenomeni cui assistiamo in Itato il termine «rinnovo urbano» - han- lia in quest'ultimo periodo, hanno assai no avuto una notevole continuità di obiet- poco a che vedere con la realtà nordativi e di applicazioni negli USA, lungo mericana e rientrano invece in una linea gli anni '50, '60 e anche '70'. Esse era'- di sviluppo tutta europea. no associate alla crisi di un modello inseLe spinte al decentramento che hanno cadiativo basato sullo sviluppo illimitato di ratterizzato le grandi aree urbane euromoduli residenziali estensivi o semiesten- pee negli anni '60 e '70, vanno ascritte sivi, sulla diffusione delle attività pro- ad una logica programmatoria tendente duttive e dei servizi, sullo sviluppo di a contrastare uno sviluppo economico-sograndi aree metropolitane a struttura mulciale che aveva avuto sempre il suo riferimento principale nelle grandi città storitipolare. Da questa crisi nasceva l'esigenza di sottrarre le zone centrali o periche. Basti pensare alla politica delle New centrali delle città ai fenomeni di abban- Towns in Gran Bretagna; ai programmi dono, obsolescenza, degrado fisico e so- di decongestionamento dell'area parigina; ciale, determinati da un mercato immobi. alla problematica del decentramento reliare privo di vincoli. gionale e del riequilibrio territoriale, che I programmi di rivitalizzazione urbana e ha caratterizzato, nel nostro paese, tutti di edilizia sociale, che da tutto ciò sono i piani urbanistici. Anche a rischio di scheconseguiti, possono definirsi per molti vermatizzazioni eccessive, possiamo dire che, di un successo, perlomeno in quel contenella realtà italiana ed europea a diff esto. In effetti essi hanno finito per riacrenza di quella nordamericana, le politicendere il mercato immobiliare delle aree che di intervento urbano sono sempre centrali, sospingendole verso le quotazio- state fortemente marcate da una intenni iperboliche oggi imperanti. zione e da una cultura programmatoria, al centro della quale v'era la profonda convinzione che sviluppo economico e VECCHI TERMINI E NUOVI CONTENUTI sviluppo urbano fossero tra loro intrinseLa spinta - non solo teorica o culturale camente co,nnessi e quindi legati ad un - verso il rinnovamento dei nostri cencomune destino. 73



« Che la città sia considerata un bene pubblico è importante non solo in riferimento alle economie esterne di cui le imprese possono beneficiare in presenza di uno stock consistente... di beni patrimoniali collettivi », ma anche per la disponibilità « di risorse immateriali che la programmazione, la progettazione e la gestione di quei beni non possono mancare di mobilitare »2. Questa osservazione ci fornisce una chiave per leggere le politiche di intervento edilizio ed urbanistico degli ultimi trenta anni in Italia, e per capire meglio il perché di una sfasatura costante tra il quadro legislativo-normativo e la realtà delle tendenze in atto. Così è stato al termine del primo ciclo di sviluppo dell'Italia post bellica negli anni '60, e così pure al termine di quella lunga fase di transizione che ha caratterizzato gli, anni '70. In entrambi i casi l'assetto legislativo e normativo del settore ha tentato di porre ordine o dare senso ad un quadro economico e territoriale che aveva affannosamente rincorso e cercato di controllare lungo il suo evolversi e che riusciva ad incorniciare solo nel momento in cui esso aveva trovato nuovi sentieri di sviluppo. Al di là però del principio fondamentale che fa dipendere la legittimazione della norma dal consolidarsi del consenso sociale, e che le impedisce il più delle volte di anticipare le tendenze di carattere generale, una tale sfasatura non è stata ininfluente rispetto ai percorsi intrapresi dalle forze economiche e sociali in gioco. Quanto più, infatti, il quadro programmatico e normativo ha teso a farsi rigido e deterministico, tanto più esso ha finito per accelerare processi alternativi di svilup74

po, a volte necessariamente indiretti, non sempre più equilibranti. Solo alla fine della prima metà degli anni '80 gli operatori, il legislatore, le forze politiche e gli amministratori delle grandi città hanno realizzato che una profonda mutazione si era verificata e si stava verificando al di fuori e nonostante le gabbie concettuali e normative che si erano consolidate nei quindici anni precedenti. Di questo fatto, come di fronte a un'evidenza non negabile, è stato necessario e, diremmo, inevitabile a un certo punto prendere atto; e da esso occorre partire per comprendere quali siano le prospetive, ma anche i vincoli, di una nuova fase di programmazione e di governo dello sviluppo delle città e del territorio. Ci sembra perciò opportuno ripartire dalla rilettura di quanto è avvenuto per delineare i criteri fondamentali in base ai quali rendere più razionale ed efficace un processo di rinnovo urbano che rischia di divenire casuale e di lasciare, ampi spazi ad operazioni poco controllabili e non sempre trasparenti.

GLI ANNI '60: ALLA RICERCA DI UN NUOVO « CODICE URBANISTICO»

L'onda lunga del boom economico si andava esaurendo all'inizio degli anni '60, tra il 1963 e il 1964; la grande spinta alla ricostruzione e all'industrializzazione aveva esercitato gran parte dei suoi effetti e si stava invece coagulando quell'insieme di fattori che avrebbero portato al grande sommovimento sociale che ha interessato l'Italia dal 1966 fino a tutti gli anni '70. In altre parole gli anni del boom avevano profondamente modificato gli assetti sociali, avevano creato un grande proletariato urbano industriale nelle


città del nord e avevano gettato le premesse per una formidabile spinta rivendicativa economica e sociale. Nello stesso momento, sempre all'inizio degli anni '60 veniva viceversa a maturazione la riflessione politica sullo sviluppo urbano, e venivano messi a punto gli strumenti urbanistico-legislativi idonei, rispetto a una ipotesi di crescita che non si fondava tuttavia su un ragionato quadro di previsioni per il futuro, quanto piuttosto sulla esperienza del recente passato. E' in questi anni, infatti, che vediamo formarsi i grandi piani urbanistici comunali e intercomunali delle principali città italiane (Roma, Milano, Bologna); che si sviluppa un vasto dibattito, promosso dall'Istituto Nazionale di Urbanistica, per dare alla programmazione un ruolo propulsore nello sviluppo delle città; che si definiscono le proposte (Sullo, Pieraccini, Mancini) per una nuova legge urbanistica post-fascista e che viene emanata la legge 167/62 sull'intervento pubblico in edilizia residenziale con i relativi poteri in materia di esproprio. Tutti gli anni '60 possono essere rivisti alla luce di questo tentativo di elaborare un nuovo « codice urbanistico » che consentisse di pianificare lo sviluppo economico e territoriale del Paese. Paradossalmente l'esito finale di questo tentativo - la legge 865/71 detta della « riforma della casa » - coincide con una delle crisi più profonde del settore edilizio, che finirà per riportare gli indicatori ufficiali di produzione a livelli immediatamente post-bellici. Quando infatti la nuova strumentazione si rende disponibile per le amministrazioni locali, vengono in parte o del tutto a cadere le premesse rispetto alle quali essa era stata messa a punto.

GLI ANNI '70: LA

CORSA

AL «

MATTONE»

Tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '80 il Paese viene dominato dalla lotta sociale per la redistribuzione della ricchezza (non solo materiale)' resa disponibile grazie al boom. Si assiste in questo periodo alla caduta verticale degli investimenti e all'uscita di scena delle grandi società immobiliari, che erano state il potente motore del disordinato sviluppo durante il ciclo precedente. Ma il panorama di crisi e di stagnazione che le fonti informative ufficiali fornivano era solo un aspetto della realtà. La divulgazione dei dati censuari del 1981 e la possibilità, per questa via, di stimare la consistenza dell'attività edilizia nel decennio 1971/81, mostrò che se le risorse private non erano state sufficienti a promuovere lo sviluppo, erano però bastate ad incentivare il « sottosviluppo E' quello delle seconde case e dell'abusivismo, che si afferma soprattutto nell'Italia centrale e meridionale, complicando e aggrovigliando ulteriormente i termini con cui il problema del rinnovo urbano si pone oggi. Sul versante della domanda abitativa un fatto domina, su tutti gli altri, la scena degli anni '70: il mattone interpretato come investimento rifugio e speculativo da parte delle famiglie. Il punto più grave della crisi viene probabilmente raggiunw alla metà del decennio, quando l'iriflazione a due cifre rende poco interessante qualunque tipo di investimento mobiliare. In questo clima di economia allo sbando, il mercato della casa assume i caratteri della speculazione pura. Si compra e si rivende di tutto, senza riguardo alla stato degli immobili, alla loro localizzazione urbana, ai servizi, al rendimento

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(cioè al canone di affitto); tanto la prospettiva è quella di mettere in salvo i risparmi e di rivendere appena si sia realizzato un ragionevole margine di guadagno. La « corsa al mattone » inizialmente si rivolge verso i centri e i semicentri delle grandi città, ma presto si allarga a macchia d'olio, man mano che i prezzi salgono ben al di là del tasso di inflazione, coinvolgendo le periferie, le seconde case, le coste e così via. Alla fine questa spinta costituisce un oggettivo impulso alla nuova produzione edilizia; ma è un impulso molto limitato quanto a disponibilità di risorse e a possibilità di programmare in qualche modo la produzione. La somma di cui dispone mediamente la famiglia, come investitore, è di poche decine di milioni: con essa si può accedere, a Roma, solo ad una casa abusiva nell'estrema periferia o ad una seconda casa nelle fasce più degradate del litorale tirrenico. Come era già avvenuto nella fase caratterizzata dal boom economico, anche ora le spinte provenienti dalla nuova realtà economica e sociale vengono percepite e interpretate, dalle forze politiche prima e dal legislatore poi, quando il loro effetto si va esaurendo. Tra il 1976 e il 1978 viene varato in Parlamento il nuovo assetto degli strumenti di governo delle politiche abitative e urbanistiche con la triade di leggi (Bucalossi, Piano Decennale, Equo Canone) che raccoglie e sintetizza gli orientamenti culturali e sociali emersi nel decennio precedente. Nell'equo canone viene recepita l'idea che il conflitto tra inquilini e proprietari sia analogo a quello tra operai e capitalisti, e che anche la casa debba rientrare nel « pacchetto » di rivendica76

zioni socio-economiche degli anni '70. Il piano decennale, si ispira al principio che la casa è un bene sociale, e che perciò la sua produzione debba essere a carico in prima persona dello Stato, con riguardo essenzialmente all'aspetto quantitativo di questa produzione. Nella legge Bucalossi, infine, si afferma il principio secondo il quale è lo Stato e non il mercato a determinare il valore della materia prima di qualunque iniziativa costruttiva, cioè l'area.

GLI ANNI '80: LAVANZATA DEL TERZIARIO

In realtà, in quegli stessi anni, il sistema produttivo stava gettando le basi per l'avvio di una nuova fase di crescita, attraverso il decentramento produttivo, la ristrutturazione industriale, l'innovazione tecnologica, la terziarizzazione dell'economia. Anche nel settore abitativo lo scenario che comincia ad emergere, è profondamente differente. Un primo dato viene dall'evoluzione della domanda abitativa.. Più che di una evoluzione si tratta di una brusca inversione di tendenza. La ripresa drogata del mercato ha una decisa battuta di arresto verso il 1981, e si tratta di una svolta strutturale. Il risparmio delle famiglie si riversa sul mercato mobiliare; prima sui titoli del debito pubblico, poi sugli investimenti nei fondi e nelle azioni. E' un ciclo avviato, che potrà avere, come sta avendo, i suoi alti e bassi, ma che non appare destinato a mutare nella sua tendenza di fondo. L'immobile torna ad essere un bene d'uso e non più un bene rifugio, e tutto ciò a cui era indifferente la domanda speculativa e drogata torna ad essere essenziale: condizione dell'immobile, comfort,


localizzazione, tipologia, servizi primari e soprattutto secondari; in altre parole, casa più servizi, più comunicazioni, più verde, più attrezzature per il tempo libero, più qualità ambientale e via dicendo. Resta, ed è anzi rilevante, una domanda che vede nell'immobile un investimento, ma con riguardo proprio ai parametri che precedentemente aveva trascurato, primo tra tutti il rendimento economico. Per questo secondo tipo di domanda è cambiato anche il soggetto. L'investimnto immobiliare non è più preso in considerazione dalle famiglie, che come abbiamo detto collocano altrove i propri risparmi, ma dagli investitori tradizionali (banche, imprese, società finanziarie), che tornano a vedervi interessanti prospettive di remunerazione del capitale; ma che hanno bisogno - a differenza delle famiglie - di un adeguato quadro di riferimento legislativo, quale certo non può e.ssere, ad esempio l'equo canone. Un secondo dato viene dalla svolta economicoproduttiva che si registra intorno l 1983. Le imprese hanno portato a termine un lungo processo di riorganizzazione (sia produttiva che territoriale) e di innovazione; hanno recuperato margini di profitto che hanno investito quasi interamen te per riacquistare competitività sui mercati internazionali e di qui hanno messo mano ad una profonda ristrutturazione finanziaria che ha dato i suoi frutti nell'eccezionale stagione di borsa tra il 1985 e il 1986. Non si è trattato -. se non altro è ancora presto per dirlo - dell'inizio di un nuovo boom econo mico, ma sicuramente di una fase che ha creato disponibilità di risorse economiche ed una quantità di nuovi bisogni evoluti, soprattutto nelle grandi aree metropoi tane.

NuovE ASPETTATIVE E VECCHIE TENDENZE Il quadro delle trasformazioni economiche ha naturalmente il suo corrispondente in altrettante profonde trasformazioni sociali (nei comportamenti collettivi come nei bisogni ii.ndividuali e diffusi) e territoriali. La principale è la terziarizzazione delle città. E' questo un fenomeno che ha avuto una straordinaria importanza in termini di struttura e di servizi urbani. Una città non più ritmata dal flusso regolare e prevedibile dall'abitazione alla fabbrica e viceversa, ma percorsa continuamente e in tutte le direzioni dai movimenti legati alle nuove attività terziarie, del commercio, delle comunicazioni, dei servizi e della finanza. Non solo le nuove attività non si sono insediate nei vecchi luoghi della produzione, che anzi sono stati abbandonati ma hanno occupato nuovi spazi, sottraendoli alla precedente destinazione, per lo più abitativa. Nuove dinamiche demografiche accompagnano questi mutamenti: nelle grandi aree metropolitane del nord e del centro il soggetto emergente è la famiglia mononucleare (o comunque di dimensioni estremamente ridotte rispetto al passato), ma che esprime una quantità e una qua-. lità di bisogni estremamente più vasta e diversificata. Bisogni che a loro volta non cercano soddisfazione all'interno delle mura domestiche, ma all'esterno, nei servizi secondari, nelle comunicazioni, nella vivibilità dello spazio urbano, oltreché naturalmente nella qualità intrinseca dell'abitazione. Rispetto a qualche anno fa insomma, la realtà sociale ed economica e le attese che essa sembra esprimere nel medio/lungo periodo, appaiono capovolte. Il muta77


mento è stato molto rapido, ed è stato recepito pienamente solo molto recentemente a livello di elaborazione politica, ma non ancora legislativa. Un caso esemplificativo è costituito dal dibattito in Parlamento sulle •tre leggi varate nella seconda metà degli anni '70: equo canone, legge Bucalossi e piano decennale. Inizialmente si pensava a piccoli aggiustamenti: poi si è passati a considerare modifiche più profonde. Nell'ultima fase l'orientamento che sembra prevalere (seppure con qualche resistenza di non poco conto) è quello di abbandonarne sostanzialmente l'impianto per ricostruire una normativa su basi del tutto nuove. Sarebbe riduttivo interpretare tutto questo solo in chiave di lentezza nei processi decisionali del Parlamento. In realtà, si è trattato di un aggiustamento continuo di ipotesi e proposte, modulato da una realtà in rapida trasformazione. Il principale errore del passato è stato quello di intervenire con strumenti pensati alla fine di un ciclo, già vecchi ancor prima di essere operativi. Per non ripetere l'errore non basta però astenersi dall'intervenire; l'adozione di una strategia sistematica di deregolamentazine, in questo settore, rischierebbe infatti - al di là delle apparenze - di seguire ancora una volta gli eventi, anziché precederli; anzi di istituzionalizzare in un certo senso la subordinazione delle «regole » agli «eventi ». C'è comunque più di un segnale ad indicare un orientamento politico e legislativo più flessibile, ma soprattutto più attento alla complessità dei fenomeni e degli interessi che condizionano i processi di rinnovo urbano. Molti fattori hanno concorso e concorrono a determinare questa svolta. A par78

te quelli di carattere più squisitamente culturale, ci interessa qui evidenziare due aspetti che, a nostro parere, hanno svolto un ruolo essenziale nel modificare lo scenario in cui operano gli enti locali: quello istituzionale e quello finanziario.

INDEBOLIMENTO DEI POTERI PIANIFICATORI LOCALI

Il, decentramento alle Regioni di vasti poteri legislativi in materia urbanistica (DPR 616/76) e le successive deleghe più o meno ampiamente concesse alle Amministrazioni locali, hanno finito per accelerare un processo irreversibile, derivante dall'impossibilità di conservare un controllo centralizzato e gerarchizzato sull'assetto delle città e del territorio. Fatalmente la pianificazione urbanistica (considerata il motore principale dei processi di rinnovo urbano) si è allontanata sempre più dalla sfera legislativa per avvicinarsi a quella giurisdizionale, entro la quale vengono a ritrovarsi anche i singoli interventi attuativi del piano. In questo modo viene lasciato ampio spazio alla specificità dei casi particolari, condizionandone l'evoluzione al solo rispetto di regole affatto generali o addirittura generiche (come nel caso degli standards urbanistici), per di più con enormi margini di derogabilità. Al termine di questo processo si può già intravvedere uno stato di profonda delegittimazione dei poteri piani/icatori locali, molto più profonda di - quanto non possa apparire a prima vista, perlomeno se tali poteri vengono intesi in maniera sostanzialmente gerarchica. Oggi, di fatto, i poteri pubblici e quelli privati, in campo urbanistico, sono su un piano di so-


stanziale equivalenza, essendo proporzionali per efficacia alla loro consistenza effettiva (quantità e qualità delle risorse impegnate) e alla capacità di rispondere alla domanda emergente, molto di più che non al rispetto della norma urbanistica. Possono al riguardo esprimersi giudizi molto diversi; ma essi non mutano il fatto che qualsiasi intervento teso a modificare gli assetti esistenti, non può che nascere dalla convergenza di interessi molteplici, anche se sovente conflittuali, e certamente non più da un piano elaborate al tavolo da disegno. Se mai ciò è stato.

incremento delle risorse destinate agli investimenti, si sta verificando una rapida e profonda modifica delle modalità con cui gli investimenti vengono promossi, incentivati o direttamente finanziati. La conseguenza più rilevante di tale tendenza è osservabile in una crescita notevole degli investimenti unitari e quindi in una loro maggiore concentrazione territoriale, sino a raggiungere soglie significative di efficacia, rispetto alle tradizionali forme di erogazione a pioggia. Tutto ciò tende però a sminuire ulteriormente l'importanza del quadro normativo di tipo urbanistico rispetto ai criteri e ai modi secondo cui le iniziative ven-

gono promosse e le decisioni assunte. Il secondo aspetto cui occorre accennare è quello della finanza locale, che ha subito in questi ultimi anni una notevole evoluzione. Mentre le risorse ordinarie, concesse dallo Stato, sono rimaste fortemente limitate, con maggiori controlli, semmai, nella possibilità di attingere alle fonti creditizie tradizionali (Cassa Depositi e Prestiti e altri istituti ordinari), si è verificato un sostanziale incremento delle risorse concesse per via straordinaria. Non solo dallo Stato e dalla CEE, ma anche dalle stesse Regioni. Si pensi al Fro (Fondo Investimenti e Occupazione), ai giacimenti culturali, al FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) con i programmi connessi quali i PIM (Programmi Integrati Mediterranei); si pensi all'evoluzione della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno (Programma Triennale, legge sull'occupazione giovanile); si pensi ancora ai programmi di intervento conseguenti al verificarsi di eventi catastrofici di portata non strettamente locale, e così via. Insomma, più ancora di un

POTERI REALI E CAPACITÀ VALUTATIVA

Quel che sta cambiando è il ruolo dei poteri pubblici (soprattutto di quelli locali) nella costruzione delle politiche di intervento. Sarebbe fin troppo facile verificare a posteriori la scarsa incidenza che le amministrazioni comunali stanno oggi avendo sui processi di rinnovamento urbano. Se si guarda infatti alle più significative operazioni di questo tipo (come nei casi di Milano-Bicocca, TorinoLingotto, Firenze-Novoli, Genova-S. Benigno), si vedrà come si riferiscano quasi tutte a situazioni e interventi non compresi all'interno degli assetti urbanistici programmati .e come siano piuttosto questi ad adeguarsi a quelle. Anche nelle aree che hanno beneficiato di consistenti flussi finanziari in ragione di emergenze naturali (vedi in particàlare il caso di Napoli), l'eccezionalità delle risposte ha finito per aggirare e superare qualsiasi ipotesi precostituita di piano,

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proprio attraverso forme di intervento fondate sulla convergenza di interessi pubblici e privati. Ciò che emerge - e che la cultura urbanistica « ufficiale » e « democratica » stenta a recepire pienamente - è quanto poco l'investitura pubblica o istituzionale sia di per sé sufficiente a garantire la correttezza delle scelte pianificatorie. Questo fatto dipende, in ultima analisi, dalla molteplicità e dalla complessità delle rela. zioni tra i diversi centri che operano in maniera programmata sull'economia e sul territorio. Le strategie che regolano tali politiche, anche nella sfera privata, non sono più solo finalizzate alla massimizzazione dei profitti sul breve termine. Esse si pongono obiettivi economico-territoriali più complessi e meno diretti. Di conseguenza, nella scelta delle politiche di intervento, si impone una definizione contrattata del punto di equilibrio tra convenienze pubbfiche e private, che di fatto vanifica ogni intervento pianificatorio di tipo deterministico o normativo. Se le scelte devono rispondere ai criteri della prevedibilità della domanda e della fattibilità degli interventi operativi, ciò che conta non è più l'investitura istituzionale a priori (qualunque ne sia la reale democraticità), ma l'analisi delle possibilità e delle convenienze in rapporto non solo alla domanda, ma anche all'offerta di risorse finanziarie. Il concetto nuovo e fondamentale che sta ormai pervadendo l'intero edificio normativo (se non ancora concettuale) della pianificazione è quello della valutazione, quale strumento di verifica delle scelte, in luogo dello strumento 'normativo tradizionale.

Il ricorso alla valutazione comporta un salto concettuale ed operativo notevole, perché implica una sostanziale variabilità o flessibilità nella corrispondenza tra l'intervento e la norma. Quest'ultima deve necessariamente trasformarsi in un insieme di criteri-guida, in cui l'invarianza spaziale (che è alla base dello zoning urbanistico classico) diviene del tutto relativa. Ciò che conta è il bilancio globale e finale tra vantaggi e svantaggi, che non può in nessun modo essere assicurato una volta per tutte dal rispetto di una norma spazialmente inalterabile 3 .

SAPER GESTIRE INTÉRVENTI COMPLESSI Lo studio di fattibilità per il recupero della Città antica di Bari è un caso concreto che nasce dalla coscienza di queste modificazioni in atto 4 . L'esempio di Bari non pretende certo di essere unico nel panorama nazionale di questi ultimi anni. Anzi il bagaglio di esperienze che si è andato accumulando, dalla fine degli anni '70 ad oggi, è estremamente vario, originale, talvolta innovativo; e sarebbe profondamente sbagliato cercare di ricondurlo ad un paradigma uniforme. Basti pensare non soltanto alle grandi città (come Milano, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Roma, Palermo), ma anche alla gestione urbanistica di molti centri minori o di eventi sismici eccezionali (come il Friuli, Ancona, Napoli). All'interno di questo panorama così differenziato è possibile individuare solo alcuni aspetti emergenti; non tanto rispetto alle soluzioni date, quanto piuttosto alle problematiche che essi sottendono e che, nello studio per Bari, hanno avuto una evidenza tutta particolare.


Un primo, grande gruppo di problemi è legato alla fattibilità gestionale degli interventi. Le forme e le procedure che rendono attuabile un progetto, non sono più codificabili all'interno di schemi già confezionati e garantiti. Ogni operazione richiede la messa a punto di un «progetto organizzativo e gestionale » che talvolta deve raggiungere livelli estremamente sofisticati di architettura istituzionale ed amministrativa. Non v'è solo, benché fondamentale, il problema del rapporto tra pubblico e privato; ma anche tra' diversi soggetti imprenditoriali, o tra diversi livelli di competenza amministrativa, ciascuno con proprie regole, strategie, programmi. Il punto da sottolineare è che il successo di una operazione complessa dipende dalle azioni e reazioni, spesso anche conflittuali, di soggetti su cui non è quasi mai possibile intervenire in modo autoritario. Basti pensare al problema, tutto sommato banale, degli espròpri. In rea!tà la proprietà delle aree, in passato vista come un vincolo puramente passivo all'attuazione dei piani, si presenta sempre più spesso legata al capitale industriale e finanziario e sempre meno alla repdita fondiaria o agricola. E' questo il caso, per esempio, di aree produttive obsolete, rimaste incapsulate nel tessuto urbano e la cui dismissione offre opportunità consistenti all'intervento dei grandi gruppi industriali che ne sono proprietari. In generale diviene sempre più difficile tracciare un limite netto 'tra la figura dell'imprenditore, del finanziatore, del costruttore o del gestore dell'intervento. Nuove figure di operatori immobiliari appaiono sulla scena, con grandi capacità non solo operative, ma anche finanziarie

e gestionali; e ciò coerentemente con il fatto che l'operazione immobiliare tende sempre più ad essere integrata in un insieme di funzioni e di servizi di cui essa è solo una parte e talvolta neanche la più importante.

GLI ASPETTI ECONOMICI E SOCIALI DELLA FATTIBILITÀ Il secondo gruppo di problemi è legato alla consistenza e 'alla struttura dell'o /ferta. E' il « programma funzionale » dell'intervento ad acquisire, in altri termini un'imortanza essenziale per il successo dell'operazione, in quanto legato a quell'insieme di beni e servizi che, come prima detto, vengono immessi sul mercato assieme agli immobili. Persino nel settore residenziale l'abitazione può essere commercializzata solo in rapporto ad un complesso di dotazioni che vanno dalla qualità dell'ambiente ai servizi sociali, dai parcheggi alle attrezzature complementari, e così via. Di qui l'esigenza di' « progetti integrati », concepiti cioè come sistemi polifunzionali, capaci di produrre impatti economici e sociali multipli. E' evidente perciò che la fattibilità tecnico-economica dcl programma funzionale d'intervento diviene una componente essenziale del progetto, ai fini di una iva valutazione complessiva. Uno dei problemi metodologicainente i . tecnicamente più impegnativi per la valutabilità dell'intervento è nel rapporto con il tessuto,urbano esistente, con particolare riguardo per le aree di interesse storico. Sebbene. sia questo il caso di Bari, abbia91


mo evitato sinora di identificare la tematica del «rinnovo» urbano con quella del « recupero ». Ciò per dare alle considerazioni svolte un senso più ampio che prescindesse dalla qualità e dalla natura intrinseca degli interventi. Certo, il problema del recupero ne accresce notevolmente la complessità tecnica. Non è solo una questione di restauro e rifunzionalizzazione dei manufatti edilizi; ma anche e soprattutto di riqualificazione ambientale e infrastrutturale, in un contesto del tutto estraneo agli odierni standard del servizio abitativo. L'intervento sulle aree storiche centrali pone inoltre gravi problemi in termini di gestione sociale, per la frammentazione della proprietà e per la preesistenza di rapporti complessi tra proprietà e utenza abitativa. Ecco dùnque sorgere il terzo gruppo di problematiche, legate alla /attibilità sociale dei progetti. E' ovvio infatti che la concentrazione di rilevanti investimenti in una area urbana limitata, comporta la esigenza da parte dei finanziatori, soprattutto se privati (ma non solo) di garantirsi adeguati rientri. Il più delle volte, in assenza di programmazione, ciò significherebbe espulsione della popolazione a basso reddito e riduzione dei benefici sociali dell'intervento. Non esistono ricette univoche per questo problema: le sole risposte comunque valide, ancorché non risolutive, sono quelle di ridare mobilità al mercato e di trovare compensi e bilanciamenti tra le varie componenti in gioco. Evidentemente queste sono, però, proposizioni del tutto generiche, che devono trovare soluzioni speifiche in ogni caso particolare. A Bari il problema è stato 82

affrontato senza quegli schemi preconcetti, che rischiano di cristallizzare le scelte in posizioni fortemente ideologiche e astratte. Nonostante si sia trattato di sondaggi limitati, ancora insufficienti ai fini operativi, tuttavia essi hanno fornito una immagine sorprendente circa i comportamenti della popolazione nei riguardi della mobilità, residenziale (reale 'o attesa): certamente molto meno statici e conservativi di quanto normalmente si ritenga. Si tratta allora di effettuare interventi capaci di mettere in gioco risorse abitative non limitate alla zona d'intervento, consentendo un'ampia gamma di opzioni a parità di standard e di qualità offerta. Il punto nodale per il successo di un progetto integrato finisce così per identificarsi con la flessibiliià di gestione dello stock recuperato, da parte del soggetto attuatore. A Bari, ad esempio, è stata proposta una Società Finanziaria mista, costituita da tutti i promotori dell'operazione. E' questa flessibilità (ottenuta attraverso strumenti di vario tipo, quali convenzioni, diritti di opzione, permute e solo in ultima istanza espropri) che può garantire l'adattabilità della ,programmazione finanziaria all'andamento, reale degli eventi, con ciò ponendo le premesse per il successo dell'operazione.

COSA C'È IN AGENDA

Accanto all'adozione d'i nuove regole,. criteri e procedure per effettuare le scelte programmatorie - tutte centrate, come già detto, sull'analisi di fattibilità e sulla valutazione dei progetti - si rende però necessaria la creazione di strumenti cen-


trali di indirizzo, di incentivazione e di distribuzione mirata delle risorse disponibili C'è innanzi tutto un problema, ormai generalmente ritenuto indilazionabile, di riforma legislativa in ordine all'equo canone, al regime dei suoli e all'edilizia pubblica. Si tratta di temi già all'esame del Parlamento sin dalla precedente Legislatura e che costituiscono altrettante occasioni per indirizzare la regolamentazione del settore su linee nuove. Per quanto riguarda equo canone e regime dei suoli, i nodi da sciogliere possono anche risultare complessi sotto il profilo costituzionale, legislativo e sociale, ma sono concettualmente abbastanza semplici: si tratta in fondo di restituire elasticità al mercato immobiliare. Compito del pubblico è garantire il rispetto delle regole (trasparenza dei prezzi, evitare posizioni di monopolio che danneggino il consumatore, garanzia di una effettiva pluralità dell'offerta giocando su una concorrenziale offerta pubblica) e non sostituirsi ad esse. Delle eccezioni alla legge del mercato lo Stato deve farsi carico direttamente, ma in altra sede, e non in quella dello Stato programmatore. Per quanto riguarda il Piano decennale, pur non avendo la pretesa, in queste bre-' vi note, di fornire ricette risolutive, si possono però indicare nuovi indirizzi d'azione. Superando tendenzialmente ogni distinzione. che non sia essenziale, tra residenziale e non, tra, nuovo e recupero, tra agevolata e sovvenzionata, occorre porre le basi perché il finanziamento pubblico raggiunga il massimo effetto ottimizzando l'impiego delle risorse disponibili.

Pertanto, se l'obiettivo primario non è più il raggiungimento di standard quantitativi adeguati nel settore abitativo, ma il conseguimento di una qualità urbana complessiva, allora occorrerà fare in modo che l'intervento pubblico crei le condizioni di base affinché il rinnovo e la riqualificazione delle città divenga una attività finanziariamente ed economicamente valida per tutti i soggetti che vi sono potenzialmente interessati. Due ci sembrano le condizioni essenziali perchè ciò avvenga. Innazitutto è necessario che i finanziamenti pubblici vengano prioritariamente erogati nell'ambito di progetti integrati, anche sotto il profilo funzionale. In secondo luogo occorre che gli investimenti siano concentrati in maniera strategica, di modo che possano sortire effetti significativi a livello urbano complessivo. Una volta garantite queste condizioni di base, la progettazione degli interventi specifici dovrà avvenire a livello locale e dovrà essere fondata sul consenso di tutti i soggetti implicati: amministratori, operatori e utenti. Il raccordo tra finalità generali e situazioni specifiche dovrà essere risolto attraverso strumenti per la selezione e la valutazione dei progetti; tali strumenti potranno anche essere applicati a livello regionale decentrato, una volta che si siano definiti i criteri e i modi relativi alla loro opera tività. Sorge a questo punto il problema di come possa essere perseguita una politica integrata rispetto ad un oggetto quale il «rinnovo urbano », quando le competenze di intervento sono ancora di tipo settoriale, cioè frammentate tra strutture ministeriali diverse. 83


A nostro parere, il problema non si risolve abolendo le competenze settoriali in seno all'Amministrazione centrale, ma istituendo competenze trasversali, in grado di coordinare le politiche di intervento in quelle aree specifiche, che lo sviluppo economico e sociale del Paese di volta in volta richiede.

IL MINISTERO PER LE AREE URBANE: NUOVI POTERI TRASVERSALI DI INTERVENTO

La formazione di un nuovo Ministero per le aree urbane è indubbiamente il segno di un'evoluzione in questo senso. Negli anni '70 si era ipotizzato un Ministero della casa. Non se ne è f'ìtto nulla e non se ne parla neppure più. Con il Ministero delle aree urbane si riconosce anzitutto che non esiste più un problema abitativo a se stante, ma che esiste invece il problema della città e della politica per le città, di cui quella abitativa è solo un tassello, insieme a quello delle infrastrutture urbane, dei servizi di trasporto, del recupero edilizio e urbano, dei parcheggi, etc. L'iniziativa legislativa del neonato Ministero si è finora articolata nel DDL istitutivo del nuovo dicastero, nel DDL per i parcheggi nelle grandi città, nella bozza di DDL per il riutilizzo delle aree urbane dismesse. Accanto a questi si possono individuare altri temi che emergono sistematicamente in tutti i principali interventi concreti di rinnovo urbano: il traffico; la direzionalità (e più in generale la terziarizzazione delle grandi città); la nuova domanda abitativa ed il recupero dei centri storici. 84

Il carattere trasversale e complesso di questi interventi è •bene esemplificato dai disegni di legge per i parcheggi e per le aree dismesse. Nel caso dei parcheggi si tratta di programmi triennali localizzati nelle 11 principali città e mirati a individuare gli interventi più urgenti per il decongestionamento dei centri storici, realizzare isole pedonali, razionalizzare le funzioni di accesso e di attraversamento delle aree urbane. Il piano dovrà fornire il quadro di riferimento per le iniziative da attivare e contenere gli elementi necessari per consentire una verifica della congruenza, della efficacia e della concretezza delle soluzioni proposte (localizzazioni di massima, priorità, tempi e mezzi finanziari). I p7ogrammi vengono predisposti dai Comuni e sottoposti all'approvàzione del M'mistero; ma ai Comuni viene lasciata ampia libertà sia nello scegliere il regime di attuazione degli interventi, che nello attribuire il diritto di superficie. Il contributo viene erogato dal Ministero per le aree, urbane, tenendo conto del regime giuridico prescelto, del costo e della previsione dei proventi. Lo strumento di attuazione prescelto è quello dell'accordo di programma, che sostituisce gli atti deliberativi delle amministrazioni vincolandole a tempi di realizzazione predeterminati. Analogamente, per le aree dismesse (qui i comuni interessati sono 18) le amministrazioni sottopongono al Ministero pro. getti di massima, che vengono finanziati con apposito fondo secondo lo schema dell'accordo di programma, al fine di realizzare interventi di reinserimento produttivo e terziario con tutto il necessario corredo di servizi (ivi compresi i parcheggi).


In entrambi i casi il contributo dello Stato è in conto interesse, con diverse modalità. Si pone evidentemente per questi programmi il problema del ricorso a nuovi strumenti finanziari integrativi del contributo pubblico e il problema della gestione. E' un tema vasto, che rimanda più in generale alla funzione che potranno avere i fondi di investimento immobiliare e altri strumenti di raccolta del risparmio, che potrebbero essere creati ad hoc sul modello dei fondi chiusi di investimento. Vale ricordare quali soluzioni sono state concretamente date a questi problemi nei casi specifici del Piemonte e della Lombardia. In Piemonte si è costituita una società a prevalente capitale pubblico ma con la partecipazione di banche e associazioni industriali, a cui i proprietari dei vecchi stabilimenti insediati nelle aree dismesse cedono con apposita convenzione aree ed immobili. La società concorda le nuove destinazioni con il Comune di Torino, si occupa del trasferimento di aree e immobili, della realizzazione delle infrastrutture, del controllo sul recupero, dell'assistenza tecnica e organizzativa al finanziamento. La finanziaria regionale anticipa le spese dell'intervento, in attesa che la società mista rientri dell'investimento con la cessione sul mercato di tutto o parte di quanto realizzato. Analoga l'esperienza della Lombardia, con l'interessante differenza che delle società miste (in questo caso si costituiscono società ad hoc per le singole iniziative) entrano direttamente a far parte le imprese interessate a subentrare nelle aree dismesse. \ nche rispetto alle altre grandi aree temaHche (sistemi direzionali e recupero urbano) è auspicabile e forse prevedibile la

messa a punto di specifici provvedimenti legislativi il cui schema non dovrebbe discostarsi sensibilmente da quanto già detto.

UNA RIFLESSIONE FINALE

C'è u•n giudizio largamente condiviso alla base dello scenario sin qui delineato: che - esaurita la fase dello sviluppo il problema da affrontare sia ormai quello della ristrutturazione dell'esistente. Abbiamo però qualche fondata riserva circa i significati e le implicazioni che questo giudizio potrebbe sottintendere. C'è il rischio infatti che il problema del rinnovo urbano sia visto in termini sostanzialmente statici, come esigenza di una diversa « immagine urbana » attraverso il recupero delle sue strutture fisiche e spaziali. Purtroppo, però, la crisi drammatica che le nostre città stanno vivendo a livello funzionale ed ambientale, indica l'evolversi rapidissimo di nuove dinamiche economiche, sociali e produttive, al di là di ogni stasi demografica. Le carenze infrastrutturali, la crescita esponenziale del traffico, l'inquinamento dell'ambiente urbano, la domanda insoddisfatta di informazione, la rapidità dei fenomeni di obsolescenza funzionale, sono tutti indicatori preoccupanti di una progressiva perdita di controllo nella gestione dei sistemi urbani e metropolitafi; con la nascita di tensioni ben più gravi e preoccupanti rispetto alla pressione esercitata dalla domanda abitativa insoddisfatta, poclii anni addietro. Per poter risolvere questi problemi, non in tempi storici ma reali, occorifono potenti strumenti di ingegneria istituziona85


le, sociale, organizzativa, finanziaria e nòn diamo, che dovrà essere 'affrontato il rinpiù solo tecnica. E' in questi termini, cre- novo delle città negli anni '90.

Note Il rinnovato interesse per le 'politiche urbane negli USA è testimoniato da numerose raccolte di contributi e studi, tra cui possiamo citare la Rivista « 'Urbanistica » dell'INu (cfr. in particolare: D. Cecchini, M. Marcelloni, Centro e periferia nella nuova città in USA, Urbanistica n. 80, 1985) e il Convegno del 'Dipartimento di Pianificazione Territoriale e Urbanistica dell'Università di Roma « Roma-Parigi-New York: quale urbanistica 'per le metropoli? », 1986. L'evoluzione delle politiche di rinnovo urbano in USA, negli anni '60 e '70, è analizzata nel noto saggio di J. Rothengerg, Economic Evaluation of Urban Renewall - Conceptual Foundation of Benefit - Cost Analysis (trad. it. F. Angeli, 1975). L'altro principale approccio - metodologico e politico - al problema è rinvenibile in J.W. Forrester, Urban Dynamics, Cambridge 1969. 2

Questo giudizio è contenu.to in S. Cafiero, Sviluppo industriale e questione urbana nel Mezzogiorno, Roma 1976. In maniera molto schematica,' però, si può dire che esso è alla base dei contributi e degli studi che, negli anni '70, venivano elaborati dai principali istituti di ricerca, quali la SVIMEZ ed in parte il CENSIS, nello sforzo di ridefinire una linea"non riduttiva per le politiche di intervento 'pubblico a favore dello sviluppo economico e dell'incentivazione produttiva. 86

In quegli stessi anni, però, si sviluppava un altro filone di ricerche più specialistiche, dedicato al settore abitativo, collegato anche alla nascita del CER in seno al Ministero dei 'Lavori Pubblici ('L. 457/1978). Tra gli istituti di ricerca che più 'hanno contribuito a questo filone v'è il CRESME - emblemanco •può ancora considerarsi al riguardo il saggio di G. Dandri, Il deficit abitativo in Italia, Roma 1977. E' però impossibile sintetizzare qui la produzione scientifica del periodo. Si possono solo citare per il loro sforzo di « storicizzazione » o di « sistematjzzazjone » del problema: P. 'Ramundo, Edilizia e mezzogiorno: urbanizzazione, intervento pubblico e sviluppo edilizio, Roma 1979; M. Coppo, G. Ferracuti, D. Gruttadauria, 'Enti locali e fabbisogno abitativo: dalla previsione della domanda alla programmazione dell'offerta Roma 1979; G. Ferracuti, M. Marcelloni, Mercato e programmazione, Torino 1982, Su 'questa linea si è mosso, negli 'ultimi an'ni, il CRESME (Centro Ricerche Economiche Sociologiche e di Mercato nell'Edilizia), attraverso una vasta serie di studi, ricerche e contributi vari. Basti citare, con particolare riguardo ai problemi gestionali degli interventi elaborati nei Volumi CRESME: D. Gruttadauria, M. Ricci, C. Sardoni, L'Edi-


lizia ad una svolta: linee di orientamento sulle tendenz del mercato e sul quadro istiruzionale; U. Giradi, S. Polci (a cura di), L'Ente locale imprenditore nel mercato dell'abitazione: esperienze innovative in Italia; E. Nigris (a cura di), Amminis&are il recupero, Genova. Cfr. inoltre: N. Savarese, Politiche, funzioni e

servizi per una nuova domanda di programmazione, in La Rivista Trimestrale n. 4/1985, Roma. Cfr. lo e Studio di fattibilità » per il recupero della Città Antica di Bari » svolto dal CERSET e diretto da N. Savarese con il coordinamento scientifico di R. Mostacci, per il quale si rimanda alla scheda allegata al testo.

SCHEDA

FINPUGLIA e Seione Edile dell'Associazione Industriali. Quello di Bari è un centro storico notevolmente compatto, che non ha subìto grandi operazioni traumatiche di sventramento o manomissione. La sua posizione, adiacente al quartiere. murattiano (ove

Lo studio di fattibilità per il recupero della Città antica di Bari, redatto dal CERSET di Bari, è stato promosso e finanziato da un Comitato comprendente: AGIP Petroli, C0NSC0OP, COPROLA, EDINA,

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QUARTIERE MURA111ANO

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La Città antica come punto di eccellenza delle grandi funzioni urbane e metropolitane dell'area barese. - 87


si concentrano le attività terziarie e commerciali di tutta l'area metropolitana), e la presenza all'interno di alcuni importanti contenitori storici scarsamente utilizzati ($. Scolastica, ex Istituto antirabbico, Convento di S. Francesco alla Scarpa, Città Nicolaiana, Castello Svevo, Fortino, Teatro Margherita), lasciano prevedere grandi pòtenzialità di sviluppo terziario, turistico e residenziale. Le indagini e i sondaggi svolti fanno ritenere che la parte più degradata dell'area funzioni come « parcheggio » per strati sociali in condizioni sociali estremamente precarie; mentre le fasce perimetrali già cominciano ad essere investite

da fenomeni di ristrutturazione edilizia e di rivalutazione immobiliare. La parte più settentrionale, invece è abitata prevalentemente da famiglie insediate oltre trent'anni fa e dedite ad attività tradizionali (pesca e trasporti). Il nodo da affrontare, nel caso di Bari, risiede nella capacità di gestire politiche differenziate di incentivazione al recupero e di ricambio residenziale, lasciando ampi margini all'opzionalità delle scelte ed alla flessibilità degli interventi. Ciò è possibile affidando ampi poteri operativi ad una struttura finanziaria, rappresentativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti nell'intervento.


Riflessioni sull'edilizia condonata di Giancarlo Storto,

La « legge 47 » verrà certamente ricordata per i molti primati che si è sinora assicurata. E' difficile immaginare, infatti, il ripetersi di tanta attenzione e di tante polemiche verso una legge riguardante l'edilizia, il mobilitarsi di tanta parte di popcilazione potenzialmente e concretamente coinvolta da obblighi e benefici, l'attivarsi di così vaste energie professionali. Molto probabilmente, il provvedimento del condono rimarrà noto anche per l'ingente produzione legislativa connessa, in modo serrato, al testo emanato il 28 febbraio del 1985.

UNA « STORIA INFINITA »

L'entità dei provvedimenti è tale che sono riconoscibili più fasi: dapprima sono emanati tre decreti legge, di cui due presentati nel 1982 ed uno nel 1983, senza che però si arrivi alla loro conversione; viene quindi approvata la legge 47 il cui testo subisce immediate modifiche ed integrazioni attraverso due decreti legge approvati dal Parlamento nel corso del 1985 che apportano correzioni a 25 dei 52 articoli della legge; inizia successivamente la lunga serie dei decreti non convertiti: ben nove, di contenuto assai simile, ne vengono emanati dal marzo 1986 al gennaio 1988. Il 13 marzo di quest'anno, infine, è approvata la legge 68 che converte, inserendo alcune modi-

fiche, l'ultimo decreto ma non è da esclu dere che il legislatore debba tornare ad occuparsi dell'argomento rimanendo tuttora non chiaramente definite numerose questioni che rendono la legge di incerta o difficoltosa applicazione. Oltre a quanto prodotto dall'attività legislativa parlamentare, sono ancora da segnalare quattro decreti ministeriali, la cui redazione è a carico in egual misura del Ministro delle finanze e di quello dei lavori pubblici, e sei circolari messe a punto dai ministeri delle finanze, dei beni culturali ed ambientali e dei lavori pubblici. E' da ritenere che la vicenda parlamentare legata alla legge verrà anche ricordata per aver disarticolato non soltanto i tradizionali schieramenti partitici e per averne ricornposti altri strettamente funzionali alla rappresentatività sociale che le. singole forze politiche reputavano di voler assumere, ma per aver prodotto lacerazioni anche profonde all'interno di uno stesso partito e non raramente, come conseguenza, si è assistito, su questioni che coinvolgevano interessi sostanziali, a mutamenti nelle valutazioni e negli orientamenti politici. Tutto ciò provoca ancor più sconcerto s si hanno in mente le motivazioni all'origine° della primitiva proposta legislativa: è noto, infatti, che l'idea di arrivare a quella che fu poi definita come « la vendita delle indulgenze » si fece strada all'inizio degli anni ottanta con l'obiettivo BE


pressoché esclusivo di procurare una entrata aggiuntiva a compensazione del deficit pubblico. Fu così che il primo decreto-legge del 31 luglio 1982, peraltro non convertito, introdusse, insieme allo aumento dell'imposta di fabbricazione sulla birra ed a quella erariale sul consumo delle banane, un pagamento a titolo di oblazione per modesti ampliamenti di volume o per difformità dalla concessione edilizia limitatamente ad opere che non abbiano realizzato aumenti di cubatura. Il provvedimento viene concertato dal Presidente del Consiglio con i soli Ministri delle finanze, del tesoro e della programmazione economica. Un anno dopo, l'ipotesi di introitare somme di denaro attraverso le strade del condono diventa un dato acquisito: dal piccolo abuso si arriva a considerare sanabile, a meno degli edifici ricadenti in particolari aree vincolate, la totalità del patrimonio edilizio realizzato illegalmente e le prime valutazioni che in sede governativa vengono elaborate hanno il solo fine di computare il beneficio che ne avrebbero avuto le finanze dello Stato. Il nuovo testo, anch'esso sotto forma di decreto-legge, è quindi più articolato e prevede oblazioni differenziate in funzione dell'epoca di costruzione e del tipo di abuso. Tuttavia, l'incidenza del provvedimento nella realtà sociale del paese è tale da far comprendere al Governo che la materia non può essere trattata nell'ottica assolutamente riduttiva ed impropria di un gabello inventato in modo contingente ed occasionale. Le polemiche della stampa, schierata pressoché in modo unanime, si spengono provvisoriamente solo quando la Commissione affari costtiuzionali della Camera sospende l'iter approvativo del provvedimento ritenendo che

non sussistano le condizioni di urgenza per utilizzare la via della decretazione. Nello stesso mese di ottobre, trascorsi appena venti giorni, il Governo ripropone con rara solerzia un disegno di legge che, dopo circa quattordici mesi e più di 500 sedute in cui i due rami del Parlamento dibattono la materia, entra definitivamente in vigore. Quest'ultimo testo - raccogliendo alcune delle più sostanziali correzioni proposte dal maggior partito di opposizione - risulta arricchito di, numerosi articoli tesi a rendere più incisiva l'attività di vigilanza e di repressione nei confronti del futuro abusivismo e di una parte riguardante l'accelerazione di alcune procedure relative all'iter di approvazione degli strumenti urbanistici. Nonostante la grande attenzione e l'attività parlamentare impiegata in questo periodo, l'approvazione del provvedimento non attenua le polemiche né, come si è detto, la vicenda legislativa. Avviene così che il Governo tornerà sull'argomento con un nuovo decreto a meno di due mesi dall'emanazione della legge 47.

MA ERA PROPRIO NECESSARIA?

Qualsiasi ragionamento non improvvisato che tenti di rileggere la complessità dei problemi innescati dalla legge del condono non può non misurarsi con il seguente interrogativo: se, in che termini e con quali prefissati obiettivi poteva considerarsi opportuna, o inevitabile, l'emanazione di una legge quale la 47. Occorre, preliminarmente, una considerazione. Più volte, durante il dibattito che ha accompagnato il provvedimento, si sono interscambiati tra loro i due termini: abu-


sivismo e legge di sanatoria, come a voler problemi interpretativi quanto mai diff si che hanno reso incerto il comportaimputare a quest'ultima la responsabilità di aver dato corpo ad un problema che mento di amministrazioni ed utilizzatori, spingendo questi ultimi a tentare le stramolti, per le implicazioni culturali ed opede più favorevoli nel computo dell'oblarative che sottendeva, si ostinavano a considerare ininfluente, o comunque da mar- zione. Senza contare poi il fatto che i ginalizzare, rispetto all'approfondimento diversi soggetti interessati nell'ordinaria disciplinare impegnato a valutare efficacia attività del rilascio delle concessioni edie limiti della strumentazione urbanistica lizie hanno palesato difficoltà tuttora irrisolte nel restituire coerenza e significato tradizionale. L'abusivismo è terreno fertile come po- ai contenuti dei pareti di cui ha necessità anche una concessione in sanatoria. chi per alimentare orientamenti e posizioni fortemente segnate da inutile astrattezza o, viceversa, da suggestioni poLA PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE: pulistiche. La dimensione del fenomeno era, ed è, di tali dimensioni e di tale UNA POLITICA SUPERATA? incidenza, rispetto a qualsiasi politica che Sugli aspetti legati alla fase storica entro assuma come ancora opportuno l'assogcui si colloca la legge è necessario progettamento delle trasformazioni urbanistiche ed edilizie ad un sistema di regole, porre una riflessione non affrettata: è da ritenere non più rinviabile affrontare da assumere, come punto di partenza, il il problema con un intervento legisla- fatto che, dopo più di un decennio in cui la pianificazione urbanistica ha trovato tivo. Se quindi si può concordare sulla neces- larga articolazione, sperimentazione e diffusione in buona parte del territorio nasità del provvedimento sono comunque zionale, all'inizio degli anni ottanta va da evidenziare un insieme di aspetti, alcuni connaturati alla formulazione del te- prendendo spessore, trovando consensi e complicità anche in settori tradizionalmensto approvato ed altri al particolare momento legislativo in cui ha trovato collo- te attenti alle problematiche del territorio, una sostanziale sfiducia sul ruolo pubcazione, che hanno caratterizzata in modo blico nel controllo dei processi di modinegativo la legge fino al punto che questa ficazione sia urbanistica che edilizia.. A esprime il momento più basso sinora ragquesto, infatti, viene addebitato un modo giunto dal lento evolversi della legisladi esplicarsi che ostacolerebbe il dispiego zione in materia. di energie produttive e limiterebbe, per Sui primi aspetti si è molto soffermata astratto rigorismo o per eccessive comanche la stampa ed è pertanto ampiaplessità procedurali, attività edilizie anche mente noto che l'impatto della legge, frettolosamente pensata nei suoi risvolti modeste e non significative dal punto di vista urbanistico. operativi e mal gestita nell'attuazione, abNon vi è dubbio• che la programmazione bia provocato una sorta di resa incondidel territorio si sostanzia in una pluralità zionata delle strutture tecniche del catasto e, sprattutto, degli uffici, comu- di atti e decisioni che, in quanto finaliznali; e neppure vanno sottovalutati i zati a selezionare tra le possibili strate91


gie quelle che maggiormente rispondano al perseguimento di predeterminati obiettivi, non possono non produrre anche vincoli e limitazioni alle iniziative dei privati (si tratta quindi di ben altra logica rispetto ad ostacoli e lentezze degli iter amministrativi in merito ai quali, lavorando con serietà ed evitando improvvisate o demagogiche invenzioni, è possibile fare molto). Al contrario, valutazioni nel merito delle possibili modifiche da apportare alle procedure della programmazione e più in generale alla revisione di quei delicati equilibri che occorre stabilire tra presenze istituzionali ed operatività dei processi decisionali, sono estranee a quei settori che, amplificando artatamente le incongruenze - peraltro assai numerose - della gestione amministrativa ordinaria, tendono allo smantellamento dell'attuale quadro normativo. In particolare ciò che si vuole mettere in discussione è il sistema delineato dalle tre leggi emanate sul finire dello scorso decennio - l'equo canone, il nuovo regime dei suoli, il piano decennale per l'edilizia residenziale pubblica - che, nel loro insieme, tendevano a potenziare in modo significativo la gestione attiva delle strutture pubbliche. Questa strategia di fondo si incentrava su due obiettivi principali, peraltro correlati: da un lato un maggiore controllo sulle modalità d'uso del territorio e un esercizio di compiti di indirizzo finalizzati a rendere privilegiati alcuni tipi di interventi dilizi; dall'altro l'individuazione di un sistema di condizioni che avrebbero dovuto far assumere all'impresa edilizia i connotati • di un comparto produttivo maggiormente legato alla domanda, contrastando una antica tradizione in base alla quale gli interessi e gli

intrecci tipici del settore alteravano profondamente, a proprio beneficio, le condizioni del mercato. E' questo il senso di molte tra le più importanti e qualificate innovazioni introdotte, tra le quali l'onerosità della concessione che diventa anche uno strumento con cui incentivare o meno determinate tipologie edilizie; i diversi tipi di convenzionamento - sovrabbondanti nel numero al punto di ridurne l'efficacia - che, regolamentando le modalità di intervento dell'operatore, offrono l'opportunità all'ente locale di orientare le caratteristiche delle costruzioni da realizzare ed i requisiti dell'utenza e di stabilire prezzi di vendita e canoni di locazione; la fissazione automatica dei canoni per il comparto dell'affitto, tenendo conto delle caratteristiche oggettive dell'alloggio; la possibilità, consentita dal programma pluriennale di attuazione, di selezionare, temporalmente e spazialmente, le modalità di trasformazione previste dallo strumento urbanistico; il riordino dell'intervento pubblico nell'edilizia, basato su una allocazione più attenta e meno episodica degli interventi, estesi anche al patrimonio edilizio esistente, e su agevolazioni articolate in funzione delle classi di reddito. Il pilastro di questa costruzione è comunque nella separazione del diritto. di edificare dalla proprietà del terreno, come la legge Bucalossi disponeva. Si tratta, come è stato varie volte sottolineato, non di una scelta suggerita da un astratto o velleitario rigore culturale ma del necessario presupposto per incidere concretamente sulle connessioni territorio-rendita-attività edilizia-mercato, nel merito delle quali l'ente locale, una volta stabilite le potenzialità edificatorie attraverso la formazione del piano regolatore, aveva stru-


menti per intervenire solo in modo marginale e con limitate possibilità propositive.

PER UNA MAPPA DEGLI ERRORI

Rileggere le cause di un bilancio certamente, modesto ma tale da essere reinterpretato, seppure faziosamente, per giustificare il ritorno alla piena autonomia del mercato è operazione complessa. Molteplici e iriterrelati sono stati i fattori che hanno determinato la. povertà dei risultati. Per molti aspetti essi dipendono dalla più genérale fase politica attraversata. Limitiamoci ad alcune osservazioni. Innanzitutto c'è sempre stato un forte scollamento tra le enunciazioni di principio e la normativa che ha dato loro corpo. L'episodio più macroscopico, ma non unico, si è avuto con la nota sentenza della Corte costituzionale del gennaio 1980. Si dirà, ricordando i colpi di accetta con cui i pronunciamenti della Corte hanno profondamente inciso nel processo di riforma, che le argomentazione addotte per ritenere non sancita dalla legge Bucalossi la ,iistinzione tra il diritto di proprietà e quello ad edificare sono affrettate, involute e contraddittorie quando non ispirato ad una difesa di interessi economici. E' difficile però dimenticare che, gi da allora, autorevoli commentatori della legge 10 facevano presente che « su un punto soprattutto, quello che costituisce il fondamento stesso della legge, non si è voluto arrivare ad un chiarimento, affermando in maniera esplicita la riserva pubblica del dir,itto ad edificare » e che « la mancata esplicitazione del principio costituisce un grave errore - anche po-

litico - perché le riforme non si fanno con le riserve mentali (se c'è separazione, come c'è, non si vede per quale motivo non si debba dirlo chiaramente), perché non ci può essere confusione su un principio che costituisce il presupposto del regime concessorio (senza la separazione, infatti, la concessione si ridurrebbe ad un fatto meramente nominalistico), perché infine si potrebbe rischiare di incorrere in una nuova declaratoria di incostituzionalità (la logica della sentenza n. 55, è bene ricordarlo, è stata ribadita dalla Corte in una recente pronuncia) ». E' mancata un'azione di costante verifica degli effetti delle norme emanate, alcune delle quali a carattere palesemente sperimentale. A questo riguardo la responsabilità' del vertice politico, principalmente del Ministro dei lavori pubblici, è enorme e senza particolari attenuanti. Ma è in ogni caso generalizzata la mancanza « di uno sforzo per mettere a fuoco tutti i meccanismi e le reazioni che l'insieme delle nuove leggi provocherà, di collegarli insieme per definire le prospettive reali che si aprono »2. ed i relativi conflitti C'è stata una fiducia eccessiva, tale da risultare colpevole, sulle capacità di gestire 'in modo avanzato i contenuti delle leggi da parte degli enti locali. Simili posizioni trovavano motivazione nelle esperienze che alcuni comuni avevano positivamente condotto (il principale riferimento era a Bologna ed alle esperienze di recupero edilizio) e che si riteneva possibile estendere. Eccesso di fiducia, ancora, nel ruolo delle Regioni e nella diversa qualità di governo che a93


vrebbero potuto esprimere le nuove amministrazioni com,unali formatesi dopo il 1975. In realtà la possibilità di produrre, attraverso la pratica amministrativa, una qualità di risultati tale da essere presupposto per ulteriori modifiche in senso evolutivo del quadro legislativo è stata ben lontana dal concretizzarsj. Per più motivi: la gestione ordinaria unitamente al dover rispondere a situazioni di emergenza, alcune volte enfatizzate a tal punto da apparire mere giustificazioni di una situazione di impotenza, ha di fatto assorbito le energie degli enti locali che assai raramente si sono misurati su programmi di più largo respiro ma ha anche negativamente inciso il ridotto peso esercitato dalla regione come centro di programmazione delle risorse e di indirizzo nella pianificazione territoriale. Non ultime, infine, la macchinosità e la scarsa chiarezza, di contenuti e di obiettivi, di non pochi elementi introdotti dalle leggi di riforma. La fase involutiva si avvia così proprio nel momento dell'attuazione delle riforme e, dall'insieme di queste circostanze, ciò che emerge con maggiore evidenza è l'incapacità di aggredire i nodi che il settore edilizio si trascina da sempre: il mercato degli affitti subisce anzi una progressiva riduzione e riprendono conseguenzialmente le proroghe della durata delle locazioni mentre restano lunghe e complesse le procedure che regolano la realizzazione dell'edilizia sovvenzionata ed agevolata. Iriisolti rimangono anche i meccanismi per espropriare ed urbanizzare in tempi ragionevoli le aree di espansione pubblica, mentre le modalità di rilascio, delle concessioni edilizie non sfuggono al giu94

dizio che attribuisce alle lentezze amministrative la volontà di rispondere più ad aspetti formalii che a esigenze di controllo di merito. In sostanza, è quindi messa in discussione la presenza del ruolo pubblico a cui sono attribuiti compiti articolati ed ampi senza che ad essi corrisponde celerità, efficienza, capacità di sviluppare orientamenti chiari. Assurdamente, invece di affrontare questo tipo di proble. mi, è il Governo che fa propria questa latente insofferenza approvando una serie di leggi e norme che riducono am• bito di azione e possibilità di controlli alle strutture pubbliche. E' in questo clima politico che interviene, con evidente forza dirompente, il provvedimento del condono.

IL DIFFICILE IDENTIKIT DELL'ABUSIVISMO

Ridurre il fenomeno delle costruzioni abusive quale prodotto dell'insofferenza collettiva all'ordine imposto dalle regole dei piani regolatori è limitativo. Non a caso l'abusivismo, come risultato di comportamenti sociali trasgressivi, ha costituito un terreno fertile di indagini e ragionamenti. Su questi aspetti è bene soffermarsi •ancor prima di esaminare le possibilità che la pianificazione urbanistica mantiene ancora nel controllo delle trasformazioni territoriali. Occorre innanzitutto premettere che a tutt'oggi il fenomeno è largamente inesplorato. Gli unici dati, peraltro molto incerti in quanto basati su grossolane approssimazioni, si riferiscono alla dimensione: sono stimati in circa 3 milioni gli alloggi realizzati abusivamente


- su uno stock che al 1981 risultava pare quantomeno riduttiva: nell'evolverpari a poco meno di 21,9 milioni di u- si del tessuto sociale e degli interessi nità - a cui sono da afliancare oltre 4 reali che vengono attratti, ormai da molmilioni di abusi derivati da interventi ti anni, nel mercato dell'edilizia illegale sono riconoscibili' soggetti sempre più di ristrutturazione non autorizzati o da numerosi ed eterogenei. In un noto sagampliamenti anche di ridotta dimensione. gio raccolto nel volume Lo spreco edilizio Quasi niente si conosce - a meno di parziali approfondimenti in ambiti ter- è stato messo in evidenza, con acuta lucidità, il coacervo di interessi che si soritoriali circoscritti - sui fatti motivazionali, sulle implicazioni economiche e no venuti aggregando intorno al blocco sui flussi di investimento, sul particola- edilizio3 In questa vasta « area magmatica » venre ruolo attribuibile alla proprietà tergono ricompresi non solo i risparmiatori riera, sul ciclo produttivo e l'organizzazione del lavoro. In assenza di infor- ed i proprietari di un unico appartamento, rispettivamente « truppe scelte » e mazioni attendibili ed analisi basate su documentazione certa, un' elemento di « fanterie » di un ipotetico esercito raccolto intorno all'abitazione (intesa allo convergenza si ha nella valutazione che del fenomeno identifica i caratteri ori- stesso tempo quale bene economico e ginari: l'insorgere degli insediamenti il- simbolo sociale), ma anche proprietari di grossi patrimoni immobiliari, speculatori, legali è unanimemente considerato come imprenditori, gruppi finanziari privati e un effetto delle profonde migrazioni inpubblici. Né occorre dimenticare alcuni terne avvenute negli anni cinquanta e sessanta. A Roma e nelle altre aree ur- altri elementi di estrema importanza per bane del meridione questo tipo di edi- comprendere i rapporti interni al settore edilizio: la perdita di peso dei proficazione ha maggiormente attecchito. In prietari di aree a causa della insorgenqueste città, risultando la crescita della te presenza dei maggiori gruppi indupopolazione non legata ad un progresstriali del paese; la centralità delle sosivo aumento di occupazione stabile, il cietà immobiliari o specificatamente commercato edilizio, in assenza di un sostemerciali; la saldatura-collusione con i gno pubblico alla domanda sociale di a pubblici poteri attraverso la realizzaziobitazioni, ha espresso offerte assolutamente inadeguate alle possibilità econo- ne delle opere pubbliche. tniche degli strati sociali da poco inse- Nel particolare sottomercato dell'abusivismo sono convogliate 'figure appartediati. L'abitazione abusiva, o per meglio nenti a strati sociali ancora più diverdire la costruzione diretta dell'abitazione in cui risiedere, ha costituito una al- genti. Innanzitutto quella del proprietario dell'area, che suddivide e rivende gli ternativa non raramente obbligata. appezzamenti ricavando profitti altrimenQuesta primitiva caratterizzazione costiti impossibili, trattandosi di terreni non tuisce l'aggancio per riconfermare, da edificabili; poi quella del promotore delparte di alcune forze .politiche, una dimensione ancora diffusa dell'abusivismo l'iniziativa che riesce a completare l'operazione con un risparmio non inferiore di necessità, fino al punto da consideal 40 per cento rispetto all'edilizia legararla prevalente. Tale interpretazione ap.

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le. Altrettanto interessati a questo tipo di costruzioni sono l'imprenditoria più o meno consolidata che opera in questo settore, favorita da una esposizione finanziaria pressoché inesistente e dall'utilizzazione di mano d'opera non soggetta a contribuzione, ma anche la stessa manovalanza per la quale il ricavo è assai spesso integrativo di un salario principale. In questo quadro l'amministrazione pubblica interviene dapprima acquisendo consensi in cambio di una tolleranza più che implicita e, successivamente, promettendo e parzialmente realizzando alcune opere zrra1i, in risposta ad un latente rivendicazionismo sociale potenzialmente •in grado di produrre su questi temi rapide e motivate aggregazioni.

LA RENDITA FONDIARIA COME FATTORE EVERSIVO

Il motore propulsivo di tutto il meccanismo rimane comunque la rendita fondiaria che avvia le operazioni in contrasto con le indicazioni del piano e ne assume la piena regia. E' infatti difficilmente contestabile il dato che, stante 1' attuale regime di disponibilità dei suoli, lo trurnento urbanistico assegna ai proprietari delle aree che vengono rese edificabili un benessere economico per il solo fatto di acquisire un titolo giuridico derivante, appunto, dalla possibilità di costruire: è il «tributo fondiario »' che ogni promotore di iniziative edilizie deve pagare, cedendo parte del profitto, al proprietario di un suolo. L'area edificabile viene consumata una tantum; 1' operazione si esaurisce nel realizzare abitazioni che sono possibili nel numero, nelle dimensioiij e nelle caratteristiche 96

che il piano determina per ogni singola area Chi fraziona un terreno agricolo per rivendere dei lotti a scopo edificatorio non fa altro che recuperare una componente del valore attribuita al suolo urbano. In Ogni caso, seppur tale valore non è ottenibile per ogni suolo esterno al perimetro edificabile, il prezzo di compravendita è comunque di molto superiore alla rendita ricavabile dall'uso agricolo. Questo modo di organizzarsi della proprietà. fondiaria è caratteristico in prossimità di aree dove si verifica un addensarsi di popolazione. Così è a Roma soprattutto, ma non è dissimile, pur cambiando i soggetti sociali e le reciproche interrelazioni, a quanto avviene in zone dell'Italia meridionale in cui l'utilizzo del suolo a fini residenziali avviene con forme di edilizia meno concentrata sul territorio. In effetti, anche qualora ad attivare un massiccio uso del suolo in contrapposizione alle indicazioni del piano siano singoli proprietari di aree che realizzano costruzioni rispondenti alle esigenze attuali o di prossima formazione del nucleo familiare, la logica rimane, nei tratti essenziali, la stessa: il consumo del territorio conseguente ad una utilizzazione distorta produce effetti. negativi e dilatazione dei costi sociali che rimangono oggettivi ed indipendenti dalle diverse figure economico-sociali a cui è da attribuire la responsabilità della trasgressione. Ciò che si sostanzia è il rifiuto, dettato in ogni caso da convenienze economiche, ad assoggettarsi alle regole che qualsiasi strumento di pianificazione non può non presupporre - anche se, evidentemente, dovrebbero essere ancorate a criteri di massima trasparenza e partecipazione - sostituendo ad esse com-


portamenti individualistici basati sulla presunta convinzione che ogni terreno è trasformabile secondo le proprie esigenze e che comunque l'attività edilizia risponda a necessità non condizionabili dal controllo pubblico. L'assenza ancor oggi in molti comuni dove peraltro il fenomeno dell'abusivismo è in genere tutt'altro che sconosciuto di qualsiasi piano urbanistico conferma in modo implicito l'incapacità delle amminitrazioni di prospettare fisionomie credibili per il futuro sviluppo edilizio. E' questa un'operazione che comporta inevitabilmente il dover penalizzare situazioni proprietarie i cui interessi, sono molto spesso incuneati in settori della stessa amministrazione.

LE ALTRE RAGIONI DI UNA RESA

I ragionamenti sinora riportati forniscono una risposta soltanto parziale ad un interrogativo che si impone spontaneamente: quali circostanze - legislative. amministrative, sociali - sono da tenere in conto per comprendere la resa dei pubblici poteri di fronte al dilagare delle costruzioni abusive? E su quale terreno uri fenomeno tipicamente da società non evoluta trova modi di convivere in un paese ai vertici dell'economia mondiale? La sola ricerca del consenso che struttura ed alimenta la gran parte delle energie delle amministrazioni comunali spiega molto ma non basta, da sola, a giustificare il non intervento. E' da ricordare in proposito che già dal 1967 furono previste, con la legge 765, misure repressive severe - l'arresto fino a sei mesi e l'ammenda fino a lire 2 mi-

lioni - che vennero di molto rinforzate con l'introduzione, nella legge n. 10 del 1977, dell'obbligo di demolire le opere o di acquisirle. E' difficile quindi non condividere l'ipotesi avanzata da Alberto Predieri che, tra le cause di permissività, individua anche «tabù culturali, quali la paura di distruggere ricchezza »6 Si tratterebbe di una rinuncia ad agire per non demolire beni che assumono valore, anche collettivo, in quanto prodotti di una attività dell'uomo e, per essere in particolare connessi ad una funzione primaria quale l'abitare, si caricano di ulteriori simboli. La lettura è meno astratta di quanto potrebbe ritenersi ed è avvalorata dal fatto che la demolizione di una costruzione abusiva rimane evento rarissimo, degno di essere ospitato nelle cronache dei quotidiani, ed è quasi sempre il risultato dell'ostinazione di un assessore o, più frequentemente, del clamore che la peculiarità dell'abuso suscita - per la zona in cui è realizzato o per la figura del costruttore - piuttosto che atto finale di una procedura di legge. Complementare all'ipotesi precedente è quella forma di accettazione dell'abusivismo come sottoprodotto del sel/-made che è un'ideologia bella e buona, pervasa di contenuti mistificanti. Non sono pochi, anche tra gli studiosi, coloro che, riferendosi al fenomeno, usano termini quale autocostruzione o edilizia spontanea. Su quest'ultima immagine, in particolare, si addensano altre suggestioni quale il compiacimento per i fallimenti dell'urbanistica moderna che finisce per coinvolgere l'insieme del territorio pro. grammato. Al centro delle critiche sono i piani per la edilizia economica e popolare che sono il prodotto più rappre97


sentativo della cultura architettonica del nostro paese, costituendo quasi l'unico terreno su cui essa si è potuta esprimere con grande dispiego di energie intellettuali e ricerca disciplinare. Ma questi quartieri sono spesso divenuti, per sottovalutazione sia dei problemi gestionali che delle implicazioni sociali legate alla formazione in breve tempo di rilevanti concentrazioni di popolazione, sinonimo di degrado e di emarginazione urbana e le tipologie edilizie, di conseguenza, essi vengono ad essere equiparati a luoghi di alienazione e di ostacolo alla pratica dei rapporti sociali. Con questa angolazione, gli insediamenti abusivi ricevono una sorta di legittimazione che viene nobilitata riprendendo categorie interpretative della sociologia urbana. Il riferimento è all'unità di vicinato che verrebbe a determinarsi per i rapporti di solidarietà che nascono da situazioni oggettivamente omogenee e dalla volontà di perseguire obiettivi comuni. Sono argomenti vischiosi, nei quali letture soggettive, condizionate da ancestrali visioni dell'abitare, prendono il sopravvento su analisi razionali che si confrontino con una concezione moderna dell'organizzazione del territorio. Oltretutto, tali visioni tendono a congelare astrattamente situazioni in continua evoluzione: i nuclei residenziali abusivi, una volta ultimata l'epopea della conquista all'edificazione dei terreni a questo fine non destinati, si troveranno con un debito di servizi che sarà pressoché impossibile saldare e, più in generale, in perenni condizioni di equilibrio instabile tra una realtà urbana a cui sono estranei ed una autonomia di insediamento che sarà difficile conservare nelle inevi98

tabili mutazioni che la composizione sociale degli abitanti subirà nel tempo. Vi è un'altra motivazione che spinge a tollerare il fenomeno e che riconnette l'abusivismo a comportamenti assai dif. fusi nel nostro paese fino a costituire, come avviene nei rapporti annuali del Censis, oggetto di osservazioni condot te con intelligenza ma non esenti da un compiacimento di fondo. E' il contributo che « fare abusivismo » assicura al mondo produttivo sommerso, qùel lo estraneo alle statistiche ed ai dati ufficiali, nei fatti considerato componente consolidato e strutturante dell 'economia nazionale. Nell'introduzione del libro « La metropoli spontanea. Il caso Roma » vengono analiticamente elencate le peculiarità di questo particolare comparto che, secondo gli autori, risulta caratterizzato da vari elementi: una flessibliità nell'impiego della mano d'opera capace di assorbire le fluttuazioni tipiche del ciclo produttivo legale, oltre ad appetibili occasioni di secondo lavoro; un impiego di grandi quantità di materiali per costruzione ed impianti di cantiere - con eventuale smaltimento delle scorte e degli stock residuali dell'edilizia legale; una offerta di spazi operativi al comparto della piccola impresa, assai diffusa anche in presenia di un generalizzato sviluppo tecnologico; l'apertura di un secondo mercato per attività nel campo della promozione immobiliare. Fin qui, nei suoi dati oggettivi, l'ana. usi è condivisibile. Lo diventa molto meno quando •si viene a sostenere che il settore produttivo legato all'edilizia legale e quello connesso all'edilizia abusiva sono nei fatti complementari e quindi interdipendenti. Anzi c'è chi si spin-


ge ad affermare che l'edilizia abusiva, costituendo il solo possibile sbocco ad un mondo pi-oduttivo divenuto via via sempre più esteso ed articolato, è destinata a perpetuarsi proprio in quanto sospinta da questa componente del mondo produttivo. Ne discenderebbe come altra conseguenza che anche qualora si intendesse privilegiare interventi su aree pubbliche di tipo estensivo, ad esempio prospettando tipologie edilizie limitate a pochi alloggi, non si otterrebbe in ogni caso un coinvolgimento - e quindi il ritorno alla regola - di questo tipo di imprenditoria Sono affermazioni di non poco conto ed alcuni dati possono supportare il ragionamento in modo efficace. A Roma il riferimento è ricorrente ma la dimensione del fenomeno ne giustifica ampiamente il ricorso - ben il 50 per cento circa della produzione edilizia complessiva registrata nell'ultimo periodo intercensurale è rappresentato da vani edificati in aree destinate ad altro uso dal piano regolatore, a fronte di una quota non di molto inferiore, pari a circa il 35 per cento, ubicata in aree di edilizia pubblica. Nella capitale si ha quindi un riscontro, percepibile anche in termini fisici, di un modo di espandersi delle periferie secondo due logiche antitetiche ma parallele. Il fatto che però dovrebbe maggiormente far riflettere è la marginalità attualmente ricoperta da quel tipo di operatori che, dal dopoguerra e fino ai primi anni Settanta, ha formato e condizionato quote assai, consistenti del mercato abitativo. La dimensione del lotto, l'orga nizzazione dell'impresa edile, la struttura economica, l'esposizione finanziaria, i tempi di attesa per l'immissio-

ne nel mercato avevano raggiunto forme di reciproca interdipendenza. Si è trattato di un equilibrio rimasto stabile per un consistente periodo di tempo, aggregandosi intorno alla tipologia a palazzina che ha rappresentato, in termini edilizi, il prodotto più congeniale e, conseguenzialmente, più diffuso. Questo prodotto si è progressivamente ridotto come incidenza a favore, da un lato, dell'edilizia agevolata nei piani di zona e, dall'altro, nell'edilizia abusiva. Queste, insieme al comparto del recupero in co stante sviluppo sia come entità che come qualità, hanno assorbito quasi totalmente la domanda edilizia di recente formazione. Esula da queste note indagare in modo adeguato sulle motivazioni, peraltro di difficile interpretazione, alla base di tali mutazioni: gli unici 'elementi certi sono comunque la scomparsa dei' promotori di attività edilizie, anche a causa del fenomeno inflattivo dei primi anni Ottanta che non consentiva tempi di attesa per la collocazione del bene-casa, e la riorganizzazione di una parte delle imprese edili intorno a programmi di edilizia promossi dagli enti locali su aree pubbliche in cui, ad una riduzione dei margini di profitto, hanno corrisposto facilità di collocazione degli alloggi, maggiori dimensioni dell'intervento, affrancamento dai condizionarnenti della proprietà fondiaria. Se quindi da un lato appare utile 'indagare sulle profonde mutazioni. che hanno interessato l'industria delle costruzioni per poterne riaggiornare ruolo e priorità d'intervento, dall'altro è certamente ingiustificato non estendere anche all'imprenditoria che genera l'abusivismo edilizio quelle valutazioni assai critiche che


Ben il 44,9 per cento delle domande presentate al 31 marzo 1986 - su un totale di 3.901.713 - provengono infatti dai comuni dell'Italia settentrionale mentre quelli dell'italia meridionale ed insulare contribuiscono soltanto per il 23,8 per cento. Ed ancora: a livello disaggregato risulta che le regioni presenti con una percentuale di domande, rispetto al dato complessivo, superiore al 10 per cento sono: il Lazio (14,% in cui determinante è il contributo di Roma), CHI HA CONDONATO il Veneto (11,8%), la Toscana (11,3%), «Condono conviene» è stata la formula l'Emilia Romagna (11,2%); in fondo alla graduatoria si ritrovano la Sicilia propagandistica con cui l'amministrazione capitolina ha avviato una campagna, (4,2%) e la Calabria (2,3%). Anche nel peraltro assai misurata, per convincere periodo di proroga ricompreso dal 31 i cittadini a presentare la domanda di marzo 1986 al 30 giugno 1987, per il quale le informazioni conosciute non sosanatoria. Nel depliant distribuito dal Comune si legge: « Conviene allo Sta- no definitive, vengono comunque conferto, che può disporre di nuove entrate. mate incidenze di circa il 40 per cento sia per l'Italia settentrionale che per quelConviene al Comune, che ne trae una ulteriore occasione per pianificare gli in- la centrale mentre, in valore assoluto, vieterventi futuri. Conviene al cittadino, al ne ipotizzato un numero di domande non di molto inferiore ai 7 milioni. quale è offerta un'irripetibile occasione per estinguere un reato, ottenere la con- Pur non disponendo - come si è detto cessione in sanatoria e vedere rivalutato - di indagini o anche di stime sufficientemente attendibili sull'universo delil proprio bene ». Più d'una sarebbero le considerazioni che le costruzioni abusive è comunque certo lo scritto comunale suggerisce. Nella so- che, soprattutto nel meridione, la legge stanza il messaggio tende ad evidenziare ha avuto un'applicazione soltanto paril rapporto tra sanatoria e valorizzazione ziale. A questo insùccesso, da cui discendono dell'alloggio che, unitamente all'introduconseguenze assai complesse e non di pozione nella legge di pesanti misure sanzionatorie, avrebbe dovuto assicurare una co conto dal punto di vista sia politiquantità di domande numericamente con- co che istituzionale, hanno contribuito diversi fattori da ricercare innanzitutto frontabile con gli abusi edilizi esistenti. Ciò non è stato, ed i primi dati inviati nelle difficolta interpretative ed operative delle procedure individuate dalla al Parlamento dal Ministro dei lavori legge, nel non aver introdotto a base pubblici, disegnano una mappa della didel condono un rapporto più diretto e stribuzione geografica delle richieste dif ficilmente ipotizzabile al momento in cui comprensibile tra oblazione da corrispondere e risanamento urbanistico, nello stala legge stessa è stata concepita.

del sommerso vengono formulate dai settori più responsabili del paese. Vi è anzi da sottolineare come aggravante il fatto che l'edilizia illegale produce modificazioni del territorio spesso irreversibili con conseguenti danni di ordine ambientale, di funzionalità urbana di maggiori oneri per la collettività riguardo i costi insediativi.

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to di prolungata incertezza dovuto alle continue modifiche legislative. Vi è però da segnalare, come componente non marginale, il basso livello di impegno che ha sorretto il provvedimento, sin dalla fase iniziale, da parte delle amministrazioni locali. L'avvio delle richieste di condono non è stato considerato, con rare eccezioni, come occasione per ripensare sulle cause generatrici del fenomeno e per stabilire condizioni tali che il rilascio delle concessioni in sanatoria assumesse anche il significato di una definitiva chiusura con comportamenti tolleranti, molte volte motivati dall'impossibilità di trovare elementi certi con cui discriminare il vecchio abusivismo dal nuovo, a - carattere soprattutto speculativo. La possibilità di trasmettere segnali di cambiamento era dunque fortemente connessa proprio al primo periodo di applicazione della legge e l'acquisizione delle domande poteva essere utiliz zata, attraverso una gestione non passiva e burocrtica, quanto meno per riscontrare puntualmente le modificazioni edilizie non registrate e per procedere ad un immediato aggiornamento della consistenza edilizia. Da questi elementi si sarebbe dovuto ripartire subito dopo per ridare coerenza e significato ai successivi atti di politica urbanistica e per revisionare, qualora ricorressero le condizioni, il piano regolatore.

IL CONDONO È UNA QUESTIONE DA DIMENTICARE?

Ad un impegno dei comuni generalmente scarso a livello nazionale ha corrisposto in Sicilia un'azione, portata avanti da numerose amministrazioni, di soste-

gno concreto e finanche di supporto organizzativo alle iniziative sviluppatesi nei primi mesi del 1986 contro il pagamento dell'oblazione. Si è trattato di avvenimenti quanto mai inquietanti che hanno sollevato emozione e perpiessità nell'opinione pubblica perché, differenziandosi sostanzialmente da altri movimenti popolari tesi alla conquista di spazi maggiori di rappresentatività o sorti sulla base di bisogni sociali chiaramente individuati, questa protesta trova motivazione nel rifiuto collettivo ad -iccettare regole che il legislatore ha introdotto per consentire il rientro nella legalità di un patrimonio edilizio altrimenti assoggettabile a sanzioni sia amministrative che penali. « L'impunità viene chiesta » scriveva Norberto Bobbio - «non contro il sopruso altrui ma per non subire le conseguenze della propria condotta sin dall'inizio giuridicamente illecita e in molti casi socialmente rovinosa ». La partecipazione alla manifestazione di Roma del 17 febbraio 1987 di alcune decine di migliaia di abusivi segna il culmine di uno stato di palese confusione di ruoli e di strategie. Gli abusivi sono infatti affiancati ed orientati dai sindaci, quasi a significare l'inserimento di un elemento di turbativa introdotto dalla legge nel rapporto ormai, consolidato che amministratori ed amministrati hanno stabilito nei comuni con maggiore presenza di costruzioni illegali, mentre isti tuti culturali ed associazioni ambientalistiche chiedono ai partiti politici (tra i quali è quello comunista in più profonda contraddizione anche perché, a differenza di atteggiamenti più ambigui presenti in altre forze politiche, le diverse posizioni sono esplicitate in numerosi confronti 101


pubblici) di schierarsi in maniera netta sugli avvenimenti in corso. La sanatoria, in questo contesto, perde ulteriormenté in credibilità. Ma se non può che valutarsi negativamente una legge che non produce gli effetti ipotizzati, molto più grave è la situazione che viene a determinarsi quando comportamenti eterogenei configurano condizioni per le quali occorre ripristinare certezze del diritto ed uniformità di trattamento. L'autorità politica si trova di fronte - stando lo stato di cose che i dati ministeriali hanno evidenziato

sull'attuazione della legge 47 - o alla necessità di riaprire i termini di presentazione delle domande, eventualmente of. frendo ulteriori incentivi, o ad intraprendere, caso questo del tutto improbabile, azioni repressive diffuse. La soluzione senz'altro peggiore, che accrediterebbe ancora una volta sfiducia verso lo Stato con una implicita legittimazione ad evadere le regole concordate, sarebbe quella di non affrontare questo come gli altri problemi tuttora irrisolti lasciando che la questione condono perda, prima o dopo, di attualità.

Note

la citta di

Le citazioni, tratte dall'introduzione al volume di F. BOTTINO - V. BRUNETTI, Il nuovo regime 'dei suoli, edizione delle autonomie, 1977, sono di MICHELE MARTUSCELLI che diresse la direzione generale del Coordinamento territoriale del ministero dei Lavori pubblici negli anni in cui furono varate le , leggi di riforma.

Lautocostruzione spontanea nel mezzogiorno di

2

Con rara lucidità e ricchezza di annotazioni e M. MARCELLONI analizzano le complesse vicende del setiore edilizio dal dopoguerra ad oggi in La càsa. Mercato e programmazione, Einàudi, 1982. •3 L'autore è Valentino Parlato. Lo scritto fu pubblicato una prima volta nella rivista Il Manifesto, nn. 3-4, 1970. 11 termine viene introdotto e compiutamente motivato nel volume La rendita fondiaria nelO

G. FERRACUTI

102

ALAIN LIPIETZ, Feltrinelli, 1977; che costituisce uno dei pochi aggiornamenti delle teorie sulla rendita fondiaria.

Per questi aspetti si può utilmente rimandare a e N. GINATEMPO, Franco Angeli, 1985, e, per quanto riguarda in particolare il terri tono siciliano, a Le ragioni dell'abusivismà di. G. TROMBINO, Libreria Dante, 1984. G. FERA

ha curato una voluminosa raccolta di saggi a commento di tutti gli articoli della legge 47/1985 dal titolo Abusivismo edilizio: condono e nuove sanzioni, La nuova Italia scientifica, 1985, riportando nella prefazione numerose valutazioni di estremo interesse.

6 ALBERTO PREOIERI

Il 'volume, edito dalle edizioni Dedalo (1983), è curato da A. CLEMENTI e F. PEREGO che sono anche autori del saggio citato.


L'urbanistica della qualità Attività commerciali e rinnovo urbano di Edoardo Salzano

Commercio e città sono due termini che la storia ha legato. La città nasce infatti come luogo dello scambio, e trae la ragione del suo consolidamento e sviluppo dal suo ruolo di condensatore di flussi che s'incontrano per scambiare prodotti e servizi (divenuti « mezzi ») con altri prodotti e altri servizi. Non sarebbe difficile dimostrare che là dove la città è fiorente, sono ricchi e variegati i flussi di scambio e che, viceversa, 'dòve lo scambio s'impoverisce di quantità o di qualità, là anche la città si degrada e decade. Non è da oggi, quindi, che per l'urbanistica lc attività commerciali - intese in senso largo come attività dello scan-ihio di prodotti e servizi -' sono un elemento centrale non solo nelle analisi, ma nella 'proposta operativa per lo assetto urbano. Governare (ma prima ancora comprendere) il ruolo, le tendenze, le caratteristiche quantitative e qualitative, le localizzazioni e i rapporti tra le attività dello scambio è essenziale per disegnare un assetto soddisfacente delle città. Oggi, però, il rapporto tra urbanistica e commercio è particolarmente delicato, ed è particolarmente necessario affrontarlo correttamente, a causa delle notevoli trasformazioni che sono 'intervenute - e

che stanno manifestandosi in modo sempre più evidente - nell'assetto urbano e territorale. 2. Nel corso dell'ultimo decennio si sono manifestate vistose modificazioni nell'assetto della produzione, della società e del territorio. Si è avuta una netta inversione della curva che rappresenta il rapporto tra abitanti e stanze. Si è passati da una fase dominata da una scarsità diffusa e generalizzata di stanze rispetto agli abitanti, a 'una fase in cui nelle diverse realtà italiane i fabbisogni abitativi emergenti riguardano un numero limitato di aree, non sono rilevanti in termini quantitativi anche in queste aree, e appaiono determinati più da una inadeguata corrisp.ondenza tra la qualità dell'offerta e quella della domanda. E' mutato l'assetto della produzione. Negli anni '50 si avviò in Italia quel tumultuoso e ingovernato processo di riduzione del peso delle attività agricole e di conseguente esodo dalle campagne, i cui modi (cioè l'assoluto « spontaneismo » cui fu lasciato) pesantemente aggravarono i dissesti e gli squilibri della struttura sociale e deld'.assetto territoriale del Paese. , Negli anni '70 si è avviato un processo 103


di riduzione del •peso della produzione industriale. Ogni città italiana è tesa a inventare la sua vocazione terziaria, a ricercare modi e strumenti e occasioni mediante le quali garantire la presenza di quote crescenti di attività di servizio, possibilmente « di livello superiore ». Sta mutando il modo in cui sono organizzati i flussi delle comunicazioni di persone, merci, informazioni. Il progresso tecnico, applicato alla costruzione di una organizzazione radicalmente diversa di quei flussi che, come ho accennato, sono stati storicamente determinanti per la stessa nascita della città genera tensioni nuove, e apre nuove possibilità nella distribuzione delle attività sul territorio e nella stessa sua organizzazione. Infine, è mutato il grado di consapevolezza sulla decisività dei valori espressi dall'ambiente naturale, e, più in generale, da quel grande giacimento di ricchezza costruito dall'accumulazione storica sul territorio di lavoro e di civiltà. Questi valori sono avvertiti, ormai a livello di massa, come decisivi per •più d'un aspetto. Per il rischio che minaccia la stessa sopravvivenza del genere umano a causa della dissipazione forsennata che si è compiuta, e si continua a compiere, della risorsa fondamentale della vita dell'uomo e della società. Per lo spreco di ricchezza che comporta, in termini econo mici, la distruzione di quella risorsa sia per le spese ingentissime necessarie per ricostituire il territorio e pagare i danni dei dissesti sia per i mancati guadagni derivanti dalla mancanza di una loro saggia amministrazione. Infine, per la crescente presa di coscienza del fatto che il territorio è la vivente espressione e testimonianza della storia della nostra civiltà ed è perciò componente non eh104

minabile della memoria storica della società. 3. Si rifletta su alcuni elementi che emergono dal quadro che s'è adesso delineato. Si può intanto affermare che l'età della generalizzata espansione quantitativa delle aree urbanizzate si è definitivamente conclusa. La portata di qùesta affermazione è facilmente comprensibile se si riflette sul fatto che le città hanno vissuto una fase di crescita pressoché continua e generalizzata a partire dalla prima' metà del XIX secolo. Ciò dà conto sia dello spessore del cambiamento strutturale che è intervenuto, sia dei problemi d'innovazione che esso pone. Occorre ormai misurarsi non più con il problema della crescita continua e costante di tutte le grandezze implicate nel processo di urbanizzazione, ma con il problema dello sviluppo senza crescita quantitativa. Ma all'esaurirsi delle esigenze quantitative, che erano state dominanti nei decenni trascorsi, ha corrisposto il maturare e il crescere di un'esigenza di qualità. Questa nasce da una molteplicità di moventi e interessi: da quella nuova atten-, zione nei confronti della risorsa ambientale di cui si è detto; dal fatto che i bisogni quantitativi si avviano a essere soddisfatti, e quindi si affacciano bisogni nuovi; da una sorta di soprassalto critico nei confronti della repellente immagine offerta dalle squallide periferie costruite negli anni della speculazioni ruggente. E nasce anche - vorrei che non si sottovalutasse questo aspetto - dalla circostanza che le fasce di forza lavoro a più elevata qualificazione professionale pongono la qualità ambientale come uno


dei requisiti essenziali per l'accettazione di un'offerta di lavoro.

Legge Galasso - un impulso legislativo che invece è mancato all'obiettivo delle «nuove qualità »; c'è comunque da ritenere che nei prossimi anni su entrambi i versanti si saranno compiute sperimentazioni meritevoli d'essere generalizzate.

4. Che cosa significa però, nella società di oggi, porsi l'obiettivo di una «urbanistica della qualità »? Significa certo, in primo luogo, assumere l'impegno di tutelare le qualità esisten- S. ti. Significa cioè individuare, proteggere Il punto che però vorrei sottolineare è e valorizzare (attraverso le necessarie ope- che occorre evitare di limitare - come razione di «trasformazione conservativa») spesso accade - la ricerca della qualità l'insieme del patrimonio naturale e sto- al solo aspetto fisico della realtà. La citrico esistente. Quel patrimonio che è tà e il territorio sono certo, in modo presente con i boschi e con i corsi di evidente, costituiti da elementi fisici: ciò acqua, con i paesaggi celebrati e con i quindi in cui primariamente la qualità monumenti celebri, ma che è presente urbana e territoriale si manifesta è la soprattutto in quella vera e propria tesforma fisica. Ma la qualità non è solo situra di segni - testimonianza di sa- questo. Anzi, una plurisecolare cultura pienti intrecci di storia e natura - che ha ribadito, la qualità edilizia, urbana (e sono disseminati nel nostro territorio: territoriale) risiede proprio in una stret dove in modo •più intenso e concentrato, ta connessione tra forma e sostanza, fra come nei centri storici, dove in modo apparenza e contenuto, tra contenitore e più rado e diffuso. contenuto. Un contenuto incongruo con Significa poi, in secondo luogo, propor- una determinata forma la degrada e, alla si di conferire qualità alle numerose parti luiiga, ne distrugge la qualità, in modo della città e del territorio guastate, e sostanzialmente non diverso da una despesso devastate, dalla miopia, dalla rozmolizione o una ristrutturazione « pezezza dall'incultura, e soprattutto dal sosante». vrapporsi di speculazioni piccole e granDa questo punto di vista, allora, una culdi. Non è, quello della formazione di tura che si limiti a conservare le forme nuova qualità urbana, un obiettivo fadotate di qualità è una cultura insufficile da raggiungere; comporta, tra l'altro,. ciente. E non a caso, le impostazioni. di un notevole salto qualitativo della cultu- mera conservazione fisica non hanno imra degli architetti, e una ricomposizione pedito quei pesanti stravolgimenti opedei saperi del progettista edilizio e del rati nei centri storici, dall'invaderiza delle progettista urbano. attività direzionali di prestigio, del trafE' interessante osservare che i piani refico individuale, e - soprattutto negli angolatori redatti negli ultimi anni tendoni più recenti - dalle attività legate al no, in modo ampio se non generalizzato, turismo di massa. a raggiungere entrambi gli obiettivi. Sono così arrivato alla tesi centrale de] Quello della «tutela dellè qualità esistenmio intervento. Ciò che voglio affermare ti » ha avuto - grazie alla cosiddetta è che oggi, per realizzare davvero una 105


« urbanistica della qualità », è necessario salvaguardare, ripristinare o ricostituire - nelle parti centrali della città - un intreccio di funzioni omogeneo alle forme della città storica, e costruire o ricostruire - nelle periferie devastate - forme e funzioni dotate della stessa complessità, ricchezza, varietà che caratterizzano la città storica. La città è eminentemente, quasi per definizione, una struttura complessa. Tra i modi che la civiltà capitalistico-borghese ha adottato per corrompere l'assetto urbano la schematizzazione, la segregazione funzionale e sociale, la riduzione di parti intere della città a organismi monofunzionali è stato indubbiamente uno dei più efficaci. Quando perciò si difei'ide (o si tenta di difendere) il sopravvivere della residenza ordinaria nei centri urbani, quando si impedisce (o si tenta di impedire) la progressiva invasione delle attività legate al turismo e la tendenziale trasformazione dei centri storici in luoghi esclusivamente riservati al turismo e al prestigio, non è in alcun modo una azione demagogica, non è una velleità giacobina quella che, si manifesta. E', invece, il tentativo di salvaguardare in tutte le sue componenti (quella fisica e formale, e quella funzionale e sociale) la qualità e la complessità dell'assoluto urbano. 6 Ragionare (e tentar di operare) in questi termini porta inevitabilmente in primo piano la questione delle attività commerciali. Queste sono indubbiamente necessarie per salvaguardare, e per ripristinare, la qualità urbana. In termini genenerali, per le ragioni che ho esposto all'inizio di questo intervento. In termini 106

più specifici, perché determinate attività commerciali sono da collocare tra quelle funzioni, a un tempo deboli ed essenziali: essenziali, perché contribuiscono a caratterizzare la qualità urbana e ne sono una delle componenti primarie; deboli, perché rivolte a mercati meno ricchi, o meno affollati, di quelle che volta per volta appaiono « alla moda ». Mi riferisco, evidentemente, alle attività commerciali (e di servizio) distinte da una duplice caratterizzazione: quella di essere legate a un mercato stabile, costituito prirnariamente da quanti risiedono o lavorano permanentemente nell'area considerata, e quella di essere luoghi di offerta di beni e servizi non anonimi, non fungibili, non generici (come ad esen1ipio quelli forniti dai fast food o dalle grandi catene alimentari o dalle fabbriche belghe o napoletane di blue jeans), ma in qualche modo individualizzati, specifici di quel sito, di quella tradizione, di quell'ambiente culturale e produttivo. Ciò che allora occorre (dal punto di vista dell'urbanista) è la capacità di tutelare e promuovere questo tipo di attività commerciali e di servizio con strumenti adeguati a rovesciare la scala di priorità del mercato. Ma occorre riconoscere che, ancora oggi, gli strumenti disponibili per una tutela e promozione selezionata delle destinazioni d'uso sono pressoché inesistenti. Qui il discorso si lega inevitabilmente all'angosciosa vicenda della crisi nella quale la grande maggioranza delle forze politiche (e certo in primo luogo quelle che hanno avuto responsabilità nel governo nazionale) hanno gettato l'urbanistica. Il mancato completamento del processo di riforma avviato negli anni '60, e pro-


segùito poi fino al 1979 con leggi parziali ma che meritavano d'essere gestite e sviluppate (voglio citare tra tutte la legge per l'equo canone, che avrebbe dovuto essere estesa anche alle attività commerciali e di servizio legate alla residenza) si è presto configurato come un vero' e proprio processo di controriforma. Come meravigliarsi allora se anche la riforma del regime degli immobili è rimasta lettera morta? Eppure, se non si definisce in termini legislativi chiari che cosa spetta all'autorità pubblica e che cosa spetta al proprietario, nelle decisioni e nei valori che riguardano i beni im-

mobili, è diflicile pensare che i comuni possano governare il loro territorio selezionando determinate attività e funzioni rispetto ad altre, promuovendo e tutelando quelle più utili a costruire un ambiente equilibrato e ricco e scoraggiando o impedendo le altre. E' un'antica battaglia quella che oggi bisogna riprendere. Ma per farlo, occorre in primo luogo uscire dalla mistificazione della deregulation,' e promuovere invece un modo di governare le trasformazioni urbane nel quale l'ente locale abbia pienezza di poteri, pienezza di trasparente responsabilità.

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Perchè un nuovo Progetto Architetture per la seconda

«

rivoluzione urbana » di Marcello Fabbri

Al di là delle mode intellettuali o « estetiche » è indubbio che la condizione attuale della pratica cognitiva - la si voglia o meno chiamare « postmoderna» - è defihita per una caduta delle utopie, delle ideologie della redenzione e della emancipazione - ma anche della catastrofe - e per una perdita di influenza dei « grands récits » (Lyotard) sui « saperi specifici ». Spente le illusioni sulla dominabilità del mondo, con il relativo sistema di giustificazioni globali, ogni pensiero deve cercare di fare da s: non vi è più una verità che lo possa smentire o confermare; dallo smarrimento della filosofia di fronte a strutture sempre più complesse e insensate (Heidegger), dal declino o dal fallimento delle filosofie della prassi nasce un « pensiero debole » (Vatti mo, Rovatti) che appare come una « fi losofia del mattino » (con una esplicita citazione nietzschiana da Aurora), di apertura quindi verso alternative di razionalità che non trovino più giustificazioni a priori, ma che ricerchino la propria strada all'interno dei linguaggi specifici (per ricondurli alla fine ad unità?). La tendenza a dichiarare superata la f ase della « modernità » ha avuto come corollario la sfiducia nella validità del Progetto, del Piano, finalizzati ad obiettivi prefissati sulla base di parametri e108

strinsechi al percorso da compiere: gli obiettivi, appunto, della « emancipazione » della « giustizia sociale », dello « sviluppo ». Appartiene a questo atteggiamento la diffidenza verso l'Urbanistica come favola esemplare, ricca di implicazioni etiche, a lieto fine; diffidenza verso l'ottimismo illuminista che, privilegiando la meta rispetto al percorso, si è troppo spesso perduto in una condizione di impotenza di fronte alle molteplicità di motivazioni del comportamento sociale. Purtuttavia, è intrinseco alle discipline tecniche - e nel nostro caso particolare all'Architettura e all'Urbanistica - il « progettare », cioè proporsi di cambiare, per piccole o grandi quantità, la «faccia della Terra »; altrettanto intrinseche e legittime le ipotesi sugli effetti ditali cambiamenti, motivati sempre da intenzioni e finalità. Quali sono allora le condizioni di legittimità, e con quali limiti, per la validità di una costruzione concettuale legata al futuro dell'habitat, e quindi di una ricerca predittiva, come la nostra, che non vuole essere né utopia né oroscopo? La sfiducia Caduta dell'evoluzionismo. nelle finalizzazioni estrinseche ha corrisposto alla perdita di attualità di un atteggiamento « comparativo » che negli


anni Cinquanta-Sessanta contraddistingueva le scienze urbane e che poneva come modello la città occidentale e le esperienze storiche europee e. USA, prendendo come unità di misura stadi più o meno avanzati lungo una linea di evoluzione sostanzialmente unitaria. In parallelo, nella storia e nella pratica dell'urbanistica e della pianificazione, il « Racconto» (Secchi) seguiva una sequenza dialettica che dal « peggioramento » dovuto all'avvento incontrollato dell'industrialismo (e al dominio del mercato) si evolveva verso un « miglioramento » complessivo della società, guidato dal Piano. Indici significativi erano gli standards direttamente derivati dal concetto di existenz-minimum adottato come criterio guida dal primo razionalismo del Movj mento Moderno in Architettura: di fronte alle ingiustizie sociali provocate . dall'industrialismo capitalista e dal mercato, il Piano si poneva come strumento di « riequilibrio », per eliminarè disparità strutturali e diffondere erga omnes livelli di vita distintivi di una società del benessere generalizzato: gli standards, appunto, ai fini di una efficienza che era contemporaneamente sociale e urbanoterritoriale. Sul terreno della ricerca architettonica lo atteggiamento evoluzionistico produceva utopie tecnologiche, metaprogetti e megastrutture, corrispondenti ai « metadiscorsi » esprimenti le finalizzazioni « altre », fino alla crisi segnalata per assurdo dalla fantasia ironica degli Archigram o di Superstudio. La crisi si manifesta alla svolta fra gli anni Sessanta e Settanta, quando già si erano diffuse e cominciavano ad avere i loro effetti le critiche all'illuminismo, in

particolare divulgate dalla scuola di Francoforte. Ma è soprattutto a Henri Lefebvre che noi dobbiamo il rovesciamento dello schema di ragionamento « razionalista » (intendendo con tale aggettivo sia la consecutio temporum illuminista, sia gli specifici aspetti che questa assumeva nelle teorie del Movimento Moderno in Architettura). Già dal 1965, ne .La proclamation de la Commune, mettendo in evidenza i processi rivòluzionari attraverso i quali si producevano le rotture storiche nella evoluzione della società urbana, aveva messo in guardia contro « l'attitude intellectuelle qui réduit, au nom du marxisme, la production de l'homme par lui-néme (l'appropriation par l'homme de. la nature et de sa propre nature) à la production économique ». Revocata così in dubbio la suddistanza alla produzione economica della « riproduzione» sociale, Lefbvre poteva procedere - ne La révolution urbaine - a definire l'urbano come un insieme di trasformazionisociali e culturali sostanzialmente rivoluzionarie e agenti profondamente sulle strutture dei processi economici e sulla struttura del potere (si può aggiungere che attraverso queste strade si è giunti a riscoprire, nelle scienze urbane, l'attualità di Max Weber). E' una definizione che domina tutti gli anni Settanta e che mette in crisi la macchina escogitata dall'ingegneria sociale ed economica - il Piano - in f avore dell'attenzione agli effetti dei « movimenti urbani » (Castells); con il rischio però che ad un volontarismo di natura tecnica se ne sostituisca un altro di più indefinita valorizzazione degli spontaneismi.

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«Seconda rivoluzione urbana» e « metropoli diffusa ». La crisi del Piano, alla scadenza degli anni Settanta viene aggravata fino ad oggi dalla sempre maggiore ingovernabilità dei processi urbani; ma alla constatazione di inefficacia dei meccanismi onnicomprensivi della pianificazione (peraltro di rado rigorosamente applicati) si aggiunge una altrettanto scarsa incidenza, sul livello generale del funzionamento urbano dei provvedimenti settoriali e dei progetti limitati a campi di intervento specifici. Se queste condizioni progettuali minano le possibili vie d'azione tecnico-pratica, le difficoltà concettuali rendono ancora più difficili le ipotesi. Non è possibile adottare oltre certi limiti un atteggiamento « evoluzionistico » che proietti il futuro nella estrapolazione dei processi attuali. Ti « cammino della umanità » oggi non è predeterminabile: un'evoluzione che appariva (agli spettatori-protagonisti del Progresso ottocentesco) lineare e inarrestabile, è messa in crisi dai fenomeni con i quali una seconda « rivoluzione urbana » sconvolge rapidamcii te I 'organizzazione della sopra'viveuza collettiva.. Le ipotesi non possono configurarsi come predizioni a partire dall'oggi, ma come « progetti »: occorre allora esaminare alcuni caratteri del Progetto contemporaneo e della «innovazione » che il progetto vuole perseguire. Ancora prima di affrontare questo argomento è utile accennare alla definizione di « seconda rivoluzione urbana »: adottiamo tale dizione in analogia con la definizione di « rivoluzione urbana » che Gordon Childe utilizzò per connotare il lungo processo della nascita delle città, fra il Quarto e il Terzo Millennio a.C., 110

quando nelle pianure mesopotamiche, con la complessificazione delle strutture sociali e della organizzazione economica parallele ad una produzione alimentare non più legata alla semplice sussistenza, gli insediamenti umani assunsero nuove forme, dimensioni e funzioni come luoghi del potere. Quel processo - che ha sostanzialmente connotato fino a ieri l'idea di città - subisce oggi una brusca svolta; i dubbi su una eventuale distorsione « millenaristica » del ragionamento possono essere fugati da qualche constatazione di fatto. Diversi fra loro sono i processi che si manifestano nella trasformazione attuale degli insediamenti umani, ma una tendenza comune sembra manifestarsi: « oggi l'intero pianeta sembra avviarsi a poco più di cinque millenni dall'inizio della « rivoluzione urbana » - a costituire un'unica area urbanizzata n.Ua quale la città celebra il proprio trionfo, ma vede anche approssimarsi la fine dei suoi caratteri distintivi »2 Il fenomeno conune sembra essere quello della perdita di potere dei 1uoghi urbani; sia dove la concentrzaione urbana perde peso rispetto alla diffusione regionale (aree metropolitane europee e USA), sia dove la crescita metropolitana assume le forme di gigantesche agglomerazioni periferiche in continua crescita (America Latina e Africa), sia dove ancora non si manifestano tassi di urbanizzazione eccessivi rispetto all'assetto storico, nonostante la crescita demografica (Asia sud-orientale, Cina), tuttavia i] funzionamento dei sistemi economico-produttivi e del potere trascendono ampiamente i funzionamenti del sistema urbano, per orientarsi verso dimensioni planetarie. La perdita di rilevanza della distinzione


fra città e campagna non riguarda tanto o soltanto trasformazioni nell'assetto dell'insediamento, quanto la scomparsa di una localizzazione fisica dei poteri. Ciò è tanto più notevole nei paesi a tecnologie avanzate, ai quali può essere ristretto il nostro esame: « in regioni completamente urbanizzat.e (o quasi), dove la campagna si è trasformata a immagine della città e dove l'assenza di caratteristiche urbane riguarda solo zone scarsamente popolate - foreste, deserti, montagne e via dicendo - non sussiste più la città nel senso tradizionale del termine. La città non possiede più, infatti, una specificità nei confronti del territorio circostante, delle aree rurali non urbanizzate a cui si contrapponeva; e se ancora la possiede, tende a perderla. D'altra parte le industrie e le altre attività produttive non hanno più bisogno di concentrarsi in determinati luoghi; hanno soltanto bisogno di essere collegate, ma a ciò provvedono le vie di comunicazione, e in misura crescente le reti informatiche. Anche il potere politico, purrimanendo localizzato in istituzioni che hanno sede nelle capitali e nelle altre città, pur traendo da questa localizzazione parte del suo residuo significato simbolico, non riveste più un carattere specificarnente urbano. I mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito il rapporto diretto fra la classe politica e il resto della popolazione, l'intervista televisiva ha preso il posto del comizio e dell'adunata; mentre l'informatica provvede alla raccolta e alla trasmissione dei dati necessari al funzionamento dell'apparato amministrativo. La città sta così cessando di essere il luogo del potere non già perché questo si sia trasferito altrove, ma semplicemente perché il potere

non richiede più un centro fisico in cui insediarsi e da cui espandersi ». Convergono su questa analisi le definizioni del potere come mezzo di comunicazione (Luhmann). Riteniamo - senza voler tornare al « comparativismo evoluzionistico» - che la « perdita di potere » delle/nelle città, a scala mondiale, con analoghi effetti abbia analoghe prospettive. La « seconda rivoluzione urbana» apparirebbe così contraddistinta dalla nascita di una « metropoli diffusa » la cui strut tura è caratterizzata da parametri non-fi sici: il sistema di comunicazione. Assume il più ampio significato la locuzione di città mondiale che il genio di Patrick Geddes aveva coniato dal 1915 (Cities in evolution). La città che genera se stessa indefinitamente conferma l'autonomia del processo di produzione dei rapporti sociali, sotto specie metropolitana diffusa, in un trend di «sviluppo » che non ha senso, ma che oltre determinate soglie produce un cambiamento di stato irreversibile, tale che niente può essere come prima (M. Weber). Così fu per la « rivoluzione urbana »; così per lo svilupp9 della città medioevale, fondamentale per la nascita del capitalismo moderno; così, infine, la diffusione metropolitana definisce un altrettanto irreversibile cambiamento di stato. Le vie intraprese dalla ricerca tendono allora non tanto a indovinarne le conseguenze, quanto a tracciare un percorso, interno alla logica disciplinare, attraverso il quale sia possibile definire le « mosse » della progettazione, le condizioni della sua validità, la riconduzione ad una unità « a posteriori », come eventuale constatazione di confluenze.

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Innovazione e progetto. La mancanza di un quadro di riferimento - sia esso concettuale, « strategico » e di piano, o generalmente finalistico - ha portato alla frammentazione dei « saperi », dei linguaggi, dei progetti. Ma limitando ora quanto si era accennato all'inizio alla sola pratica dell'urbano, la sostituzione del piano con gli interventi per progetti è stata del tutto caratterizzata dal prevalere delle logiche delle singole forze (dei singoli poteri, cioè e non dei singoli saperi) per• migliorare le proprie prestazioni e ampliare il raggio del proprio potere (indifferentemente attraverso il prevalere di rapporti di forza o attraverso il consenso), finalizzando a ciò l'accrescimento della propria efficienza (non, o non necessariamente, dell 'efficienza generale). L'innovazione viene proposta, ricercata e praticata all'interno di un'efficienza settoriale e particolare. Ma la validità innovativa del progetto non può sottostare ad un'altra specie di finalizzazione eterogenea alla propria logica interna; la ricerca di un linguaggio più « vero» non può sottostare ad una verità « altra ». L'inn6vazione progettuale può essere valida se costretta entro i propri confini, con una « mossa » deviante rispetto alla linearità dei meccanismi di subordinazione del progetto ad altri fini. Q:ale può essere allora la strada per avviare una ricerca sul linguaggio architettonico potenzialmente capace di « parlare la verità » futura della metropoli diffusa? Con la perdita del potere localizzato l'urbano diviene profano: deideologizzato, vede cadere da sé ogni orpello simbolico, città senza qualità. I limiti alla qualità si restringono sempre di più per il sovrapporsi delle difficoltà 112

e delle esigenze di una sopravvivenza che dai dati materiali della sopravvivenza individuale (existenz-minimum come traguardo ancora valido per tante parti della realtà metropolitana in espansione), si allarga alle nuove questioni della sopravvivenza collettiva (traffico, inquinamento, disagio sociale ed emarginazione, etc.), tutte ascrivibili alle forme di organizzazione (del potere). Pertanto appare produttiva la via di ricerca suggerita da Innocenzo Cipolletta: quella di « affrontare i temi possibili in un'ottica di contrapposizione che non voglia limitarsi a vedere come possano « risolversi» i problemi di oggi, o dove conducano le tendenze in atto, quanto ragionare su quali saranno i problemi che domani dovremo affrontare proprio perché avremo risolti quelli attuali, e quali riflessi comporteranno le soluzioni affrontate per i problemi di oggi ». Ne potrebbe conseguire una validità ancora attuale del metodo razionalista in architettura e in urbanistica, finalizzato ai termini fondamentali della sopravvivenza (Alberto Sartoris: « ... il razionalismo non ha ancora potuto svolgere l'intero suo ciclo creativo ... »), mentre in tali condizioni è legittimo il dubbio circa la forte carica simbolica di « apologia della metropoli » - presente. ad esempio nella Ville Radieuse. Ma la via per affrontare il tema delle immagini per la « seconda rivoluzione urbana » si può indirizzare su un diverso percorso. Per una « estetica metropolitana ». E' possibile impostare una ricerca su una « estetica metropolitana » a partire dall'architettura? Certamente è legittimo, ed è corretto nietodologicamente, lavorare all'interno della logica disciplinare del lin-


guaggio architettonico, nello spefico dello spazio fisico, accessibile soltanto con gli strumenti propri degli « addetti ai lavori » delle immagini spaziali; e non ricercare finalizzazioni « altre » o « metalinguaggi » (è consentito soltanto il controllo con un sistema di verifiche). Ma l'immagine dello spazio fisico è quanto rimane, nella metropoli diffusa, dello spazio urbano «, abbandonato dai poteri », e quindi depotenziato da tutti i sovraccarichi di ordine simbolico. O - il che è lo stesso - la sovrabbondanza di poteri e linguaggi sulla metropoli elide nella confusione ogni effetto simbolico, per formare soltanto un indistinto «rumore di fondo ». Non è più possibile recuperare - come proponeva R. Venturi - il casuale, l'irrilevante, il transitorio: l'età eroica delle avanguardie dada è tramontata, e le rappresentazione kitsch di poteri meno espliciti ma più diffusi (non più cattedrali ma pubblicità e mass media) sono soffocate nella quotidianità, in una notte metropolitana in cui tutti i segni sono grigi. La forma dello spazio fisico tende a rappresentare soltanto se stessa, la durezza della vita quotidiana; tolto ogni orpello, è legittimo chiedere agli architetti uno « scarto conoscitivo » per una nuova estetica diffusa, a partire dalla qualità e dalla organizzazione dell 'habitat. Il rigore della ricerca all'interno del linguaggio architettonico dovrebbe garantire anche dal pericolo di deviazioni estetizzanti: « Nella metropoli post-moderna scompare ogni. distinzione fra l'empiria della vita soggettiva e la trascendenza auratica dell'arte; vi si produce un'estetizzazione diffusa tale per cui l'esperienza artistica sortisce gli stessi effetti e agisce allo stesso titolo dell'esperienza in gene-

rale » 1; dove va sottolineata prima di tutto la caduta dell'aura: « nell'estetica metropolitana non c'è nulla che meriti di essere commemorato » Ciò non toglie che la ricerca non debba anche approfondire i modi di una stretta collaborazione e integrazione fra architettura ed arti « visive », come condizione necessaria per una « esteticizzazione senza aura » della vita quotidiana, e per la riproposizione di un ambiente in cui la configurazione estetica non sia elenco di eccezione (che è poi la strada suggerita da società in cui l'estetica era organica al quotidiano: la città medioevale, in primo luogo, o il villaggio Dogoon ... ). Architettura jor ever, allora? Depurata dai dati e dai connotati della storia? A questo punto entra in questione il sistema di verifiche che la ricerca si propone: la legittimità concettuale non deriva soltanto dall'approfondimènto nell'ambito del proprio specifico, ma da una pratica teorica che tenda a ricostruire la continuità dell'esperienza individuale e collettiva (Gadamer) 6 . Sulla base dei ragionamenti svolti finora, appare necessario verificare allora le implicazioni psicologiche delle concezioni dello spazio fisico negli ambiti della vita quotidiana: la prima di queste implicazione è la necessità « che l'enfasi della Progettazione si sposti dal progetto statico, inteso a realizzare "soluzioni ottimali", ad una progettazione flessibile, che porti cioè alla costruzione di un ambiente mutevole, in cui l'uomo possa intervenire attivamente per manipolano, alterarlo o foggiano lui stesso » (M. Bonnes). Ne consegue anche la necessità di esplorare «tecnologie devianti » (E. Vittoria), « meccanismi combinatori che ci consen113


tano di perseguire un procedimento sintetico ed inventivo ». Lo stesso Vittoria esemplifica: « progettare con l'acqua, con l'aria, con la luce », sottolineando il metodo di realizzaziòne « attraverso 1 montaggio di cose estranee alle specifiche corisuetudini tecniche, per mettere a punto esperienze percettive e visive diverse ». E se gli esempi riferiti da Vittoria ri guardano Picasso e Braque, per quanto attiene più propriamente l'architettura si possono ricordare Tatlin e i costruttivisti russi degli anni Venti: la Torre di Tatlin « intendeva esemplificare il programma produttivista-costruttivista, di considerare "materiali intellettuali" quali il colore, la luce, il punto e il piano, e "materiali fisici" quali il .rro, il vetro e il legno, come elementi equivalenti dal punto di vista tematico ». Ritorniamo quindi alla ricerca all'interno del linguaggio architettonico; ma le connotazioni di tale linguaggio si ampliano proprio in conseguenza della « qualità dello spazio• metropolitano. spazio di rela-zioiii imniteriali, di comunicazioni, rello stesso tempo che spazio fisico; ricordancL che è la ricchezza di comunicazioni il dato connotativo della realtà urbana, da sempre. Azioni non mani/este ( Vittoria). Una parte decisiva potranno svolgere, ai tini, della ricerca, le nuove tecniche di rappresentazione. Il « disegno », la prospettiva come forma simbolica, .costituiscono le matrici dell'immagine architet tonica dall'Umanesimo in poi, fino alla roltura cubista. Ma oggi le tecnologie video rendono rapidamente obsoleti i modi stessi di creare immagini. Una innovazione nelle forme architettoniche e urbane non può non essere legata ai processi di costruzione dei segni; tecnologie costruttive e modalità d'uso dei 114

materiali, in una civiltà dell'immagine sensibile con priorita alla lettura dei liiiguaggi visuali - evolveranno rapidamente in conseguenza della domanda visiva e di design. La ricerca, ha quindi come obiettivo la produzione di idee architettoniche attraverso nuove tecniche di rappresentazione (D. Del Bufalo). Il fondamento della innovazione nella rappresentazione sarà la negazione della opera architettonica come oggetto; ma, esaltando la qualità di immagine spaziale vivibile, la tecnica di rappresentazione mediante video - tenderà ad evidenziare tutti gli aspetti di fruizione. Non si possono chiudere queste riflessioni senza accennare al tema delle istitu zioni. La qualità diffusa significa scelte soggettive e non acquiescenza e accettazione dell'« altro ». Un'estetica diffusa come esperienza quotidiana è quindi inscindibile dalla qualità delle strutture sociali; non può darsi senza una crescita di poteri collettivi e soggettivi in una espansione della libertà pratica costante; né senza gli strumenti istituzionali idonei a tradurre le pulsioni individuali in arric: chimento della vita associata. Ma il problema dell'efficienza istituzionale, condizione ineludibile per ogni trasformazione, è dramma di oggi, non del Terzo Millennio. Se pensiamo che « ci saranno voluti 2030 anni per realizzare le Vilies nouvelles intc'rno a Londra o a Parigi e un quarto. di secolo per realizzare, nell'Ile de France, la Rete Espressa Regionale (Rer), progettata tiri quarto di secolo prima » e inoltre che « è più di mezzo secolo che sono state messe in cantiere le cinture


verdi di Mosca e di Londra ed è da più di mezzo secolo che continua la conquista della Randstadt sul mare... se, cioè, si riflette che l'unità di tempo, per attuare progetti vasti, tali da trasformare in profondità la vita degli abitanti delle

metropoli o di buona parte di essi, varia dai venti ai cinquant'anni, allora la nostra ricerca perde ogni connotazione millenaristica e utopica per puntare direttamente ai problemi che già oggi vanno affrontati e ri sol t i.* -

Note

arti fino a quel « sapere », che si esprime nei •mass -media, .per ricondurli sempre di nuovo a una unità: la quale, presa in questa molteplicità, di dimensioni, non avrebbe più nulla della unità del sistema filosofico dogmatico e neanche alcuno dei caratteri forti della verità metafisica; si tratterebbe piuttosto di sapere esplicitamente residuale che avrebbe molti dei caratteri della «divulgazione scientifica », G. VA1. TIMO, La filosofia del mattino, « Aut Aut », n. 201, 1984, pp. 12-13. Con l'inserimento di tale citazione concludiamo le riflessioni sulla validità concettuale di questa ricerca, avviate all'inizio.

J. BAUDRILLARD,

Lo specchio della produzione,

[trad. it. 19791: « ... ci si può domandare, contro il ipostulato. materialista secondo cui il modo di produzione e di riproduzione dei rapporti sociali è subordinato ai rapporti di produzione materiale, se non è forse la produzione dei rapporti sociali che determina il modo di riproduzione materiale (svilupo delle forze produttive e dei rapporti di produzione ... ) >'. IAA.VV., Modelli di città, a cura di P. Rossi, Torino 1987, p. 575. < lvi, 'pp. 580-581. M. FERRARIS, Paesaggio metropolitano, Milano 1982, •p. 31. 2

lvi, p. 30. usa per questo atteggiamento il termine di Verwindungen, da Heidegger, « nei confronti dci molteplici contenuti del saper contemporaneo, dalla scienza alla tecnica alle G. VATTIMO

K.

FRAMPTON,

Storia dell'architettura moder-

na, trad. it., Bologna 1986, p: 195.

AA.VV., Roma, Parigi, New York,

Roma

1986, p. 33.

* L'articolo costituisce l'introduzione al 160 Quaderno della Fondazione Adriano Olivetti, Architetture per il Terzo Millennio, Roma 1988.

115



queste istituzioni

Cronache di finanza pubblica

Se fosse vero quanto di recente ipotizzava uno studioso (Fabrizio Galimberti sul « Sole 24 Ore »), che portando il prezzo di un gallone di benzina al con trovalore di 500 lire il disavanzo del bilancio federale degli Stati Uniti sarebbe quasi annullato, si capirebbe come la cultura del deficit di cui parla l'articolo pubblicato in questo dossier sarebbe un fatto di cui essere preoccupati. Ma non ne parliamo qui per confortare l'animo trasgressivo che si annida in tutti gli attori della nostra politica di bilancio di fronte alle nuove regole di apparente rigore. Ne parliamo, ancora una volta, per misurare le distanze.. Se il discorso corretto è quello delle priorità sostanziali della politica di bilancio, cioè delle priorità da stabilire fra le politiche pubbliche e. al loro .interno, senza mitizzare i tagli fine a se stessi o l'ottica meramente finanziaria della riduzione del disavanzo, a ciò si arriva con qualche serietà solo se ci si è liberati dalle fantasie, più o meno infantili, della caccia al tesoro. Il che, ancora, sembra lontano.

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Sono attendibili le proiezioni economiche ufficiali? Il caso degli Stati Uniti attraverso il confronto fra, le previsioni del Cbo e dell'Ornb. di James A. Howard

Di solito, le differenze riscontrate fra le previsioni del governo federale e quelle di istituti privati vengono attribuite alle Anotivazioni politiche dell'Esecutivo, e si trascura di ricercarne altre possibili cause. Ad un'analisi più approfondita, tuttavia, emerge un certo numero di variabili complementari atte ad influire sulla qualità dei dati. In questo studio si esamineranno numerose importanti variabili che sono all'origine ditali differenze di previsione, collocandole nel contesto per meglio spiegare perché le previsioni differiscano e quale impatto le eventuali distorsioni possano avere nel processo decisionale dei settori pubblico e privato. Il problema di possibili distorsioni nelle previsioni governative sarà trattato in una analisi separata che avrà per oggetto le serie storiche delle previsioni. Prima di esprimere un giudizio sui dati prcvisiona!i del governo, è necessario fisarc un criterio di base al quale esami nare i risultati ottenuti. Ciò è reso dif? ficile, fra l'altro, dalla necessità di fare una cernita nella vasta mole di dati pre'isionali divulgati dai vari enti in base dell'andamento economico corrente. Variazioni improvvise dell'offerta di moneta, squilibri nella domanda e fenomeni

analoghi, fanno' variare nettamente le previsioni rispetto a quanto dichiarato in precedenza da fonti ufficiali. Per svolgere un'analisi sui dati relativi alle previsioni economiche è indispensabile individuare una base di dati forniti in modo regolare e coerente. Le previsioni ufficiali provengono sia dall'Esecutivo sia dal Congresso. L'Of/ice o/ Management and Budget (0MB) coordina il flusso di informazioni provenienti soprattutto dai ministeri del Tesoro e del Commeiio ed ha l'incarico di documentare la posiiione ufficiale dell'amministrazione. Tuttavia le singole divisioni possono curare e divulgare aggiornamenti periodici di alcune particolari variabili ectomiche mao mano che i risultati economici divengono disponibili. Il Con.gressional Budget OfJice (caO), in quanto organo ufficiale di studio del Congresso, ha il compito di formulare proiezioni indipendenti delle principali variabili economiche impiegate dalle commissioni del Congresso, soprattutto in occasione delle deliberazioni di bilancio. La presentazione del bilancio presidenziale rappresenta il riferimenLc fondamentale alla luce del quale valutare la validità relativa delle previsioni del cao 119


o dell'oMB. Il bilancio presidenziale viene presentato al Congresso nel gennaio di ciascun anno e riguarda l'esercizio finanziario che inizia il 10 ottobre successivo. Nella sintesi di bilancio, l'OME illustra quali siano le ipotesi (proiezioni) economiche su cui si basa l'elaborazione del bilancio di previsione, mentre il CBO cura un modello econometrico e formula stime indipendenti per le diverse variabili economiche. Nel caso del bilancio presidenziale, sia l'oMB che il co forniscono proiezioni per l'anno solare che inizia il primo gennaio dell'anno seguente, e per i cinque anni successivi. Quindi, sulla base dell'effettivo andamento dell'economia, entrambi gli enti aggiornano più volte nel corso dell'anno queste proiezioni di base. In questa sede esamineremo solo le previsioni economiche formulate in gennaio per l'anno solare che inizia il gennaio successivo. Il bilancio costituisce il documento fondamentale della politica economica del governo e sia l'OMB che il CBO dedicano risorse considerevoli all 'elaborazione delle previsioni ufficiali per l'anno successivo. Di conseguenza, l'unica serie di previsioni economiche coerente con le decisioni di politica di bilancio proposte è costituita dalle ipotesi/previsioni economiche prodotte da detti enti e destinate alla presentazione del bilancio. Poiché, di norma, l'insieme dei dati di previsione economica che vengono divulgati dovrebbe essere in linea con le ipotesi economiche elaborate a sostegno del bilancio, questa base di dati può essere utilmente utilizzata in sostituzione dell'universo di dati (ad es. profitti societari, disavanzo commerciale, ecc.), comunemente definiti « da120

ti di previsione economica governativa ». Considerato l'impegno analitico con il quale queste previsioni vengono elaborate in occasione della presentazione del bilancio, questo è probabilmente il momento più valido per effettuare un confronto. Nella presente analisi procederemo quindi a fornire innazitutto alcuni riferimenti storici sulle previsioni governative. Faremo poi riferimento a due precedenti ricerche sull 'accuratezza delle proiezioni dell'oMB e del cno. Infine, analizzeremo e valuteremo in modo indipendente la validità delle previsioni economiche formulate dall'Esecutivo (oBM) per il periodo l976-1985.

ALCUNI RIFERIMENTI STORICI Prima del 1976 gli enti governativi non erano tenuti ad elencare esplicitamente quali fossero le ipotesi economiche fondamentali alla base del loro bilancio previsionale. . Precedentemente a tale data, l'oMa forniva, in effetti, proiezioni sul disavanzo e, a volte, stime riguardo ad altre variabili economiche. In occasione di sedute nelle quali si discuteva il bilancio o lo stato generale dell'economia, i rappresentanti dell'amministrazione erano soliti esprimere periodicamente opinioni sull'andamento dei tassi di interesse o dell'inflazione, ma tali « previsioni » erano espresse, per lo più, nella forma di una forcella previsionale, cioè, si prevedeva, ad esempio, che l'inflazione sarebbe stata compresa fra il 2,-3,5 per cento. Di conseguenza i dati anteriori al 1976 sono considerati di scarsa utilità in quanto mancano della chiarezza e coerenza necessarie a facilitare l'analisi. Il


miglioramento delle previsioni economiche dell'esecutivo sia sotto il profilo della quantità, sia sotto quello della qualità, è coinciso con la creazione, nel 1976, del CBO (Budget Reform Act del 1974). Il CBO in effetti costituì una fonte di concorrenza per l'esecutivo nell'elaborazione di dati di previsione economica. Sembra infatti che, per proteggere i suoi investimenti nelle previsioni di bilancio ed in previsioni economiche accessorie, l'Esecutivo sia stato costretto a divulgare un maggior numero di dati e a rendere esplicite le ipotesi economiche sottostanti. Nel foimulare ufficialmente le proprie previsioni economiche, le organizzazioni governative sono sottoposte a numerosi vincoli che non devono essere trascurati allorché si procede ad un confronto fra le previsioni, in quanto possono influenzare l'ampiezza degli errori. Le ipotesi/proiezioni economiche dello 0MB si basano sulle politiche proposte nel bilancio presidenziale. Per esempio, il bilancio può auspicare un aumento di 40 miliardi di dollari nella spesa reale per la difesa e in tal modo influenzare le proiezioni sull'andamento del prodotto nazionale lordo in termini reali e sull'inflazione. In un caso del genere le previsioni dell'OMB incorporeranno le va nazioni di politica richieste nel bilancio. Il Co, invece, basando le sue previsioni economiche sull'ipotesi che le politi. che in essere rimarranno in vigore l'anno seguente, ignora le variazioni proposte nel bilancio. Il Budget Reform Act del 1974 impone al CBO di impostare le sue stime sul concetto di servizi correnti. Nelle sedute di bilancio, spesso il CB0 viene invitato a dimostrare come cambierebbero le sue previsioni se nel proprio

modello econometrico fossero incluse le variazioni di politica proposte nel bilancio presidenziale, rendendo in tal modo possibile un confronto diretto fra le previsioni dell'OMB e del CB0. Di solito, il direttore del CB0 tende a sottrarsi ad un tale invito, ma nei casi in cui è stato costretto a dare una risposta, ha lasciato intendere che le previsioni economiche del CBO cambierebbero poco o nulla. Una risposta tipica è, ad esempio quella secondo cui se una data proposta di bilancio fosse approvata, ad esempio una riduzione di 40 miliardi di dollari di programmi di politica interna, il tasso di inflazione sarebbe più basso, ma non di molto. Di conseguenza, un confronto de!le previsioni economiche in coincidenza con la presentazione del bilancio presidenziale al Congresso fornisce il punto di partenza più adatto ad un'analisi dell'accuratezza nelle previsioni. Contrariamente a quanto avviene per l'OMB e per il CB0, le proiezioni del settore privato non sono vincolate da alcuna ipotesi sottostante. Di solito, queste previsioni, basate suli'« ipotesi più probabile » riflettono l'opinione di chi le elabora riguardo all'esito delle scelte di politica che vengano proposte. Per esempio, se il bilancio presidenziale propone una certa riduzione dei programmi di spesa interni rispetto al livello corrente, le proiezioni dell'oMB ipotizzeranno che queste proposte vengano approvate dal Congresso , senza modifiche; quelle del CB0 saranno, al contrario, basate, sulla ipotesi che i programmi di spesa per gli affari interi rimangano invariati, riflettano cioè le politiche in vigore anteriormente alla presentazione del bilancio. Le previsioni non ufficiali invece possono basarsi liberamente su altri assunti: per 121


esempio, sull'ipotesi che il Presidente abbia scarse probabilità che il Congresso approvi le riduzioni proposte nel bilancio e sia viceversa più probabile che esso approvi un aumento della spesa interna. A questo punto ci si può attendere che le previsioni economiche dell'esercizio siano alquanto più ottimistiche sia di quelle del CBo sia di quelle private. Tuttavia, ciò non va inteso necessariamente come « mala fede ». L'amministrazione in carica viene eletta in base ad una serie di promesse, una delle quali è probabilmente l'impegno a migliorare la performance economica. In tale contesto le previsioni « ottimistiche » possono interpretarsi più come un'espressione di fiducia nel fatto che la nave dello stato si trovi lungo la rotta prestabilita, piuttosto che come un tentativo dell'Esecutivo di ingannare deliberatamente il pubblico e la comunità imprenditoriale. Gli economisti dell'amministrazione possono anche ritenere che le variazioni proposte nel bilancio abbiano scarse probabilità di essere accettate; tuttavia essi non hanno altra scelta se non quella di basare le loro proiezioni sull'ipotesi che tali variazioni siano approvate dal Congresso. Pertanto, le stime dell'esecutivo sono soggette a due possibili fonti di errore in più rispetto alla possibilità casuale di errore statistico: la prima dovuta ad una distorsione in senso ottimistico derivante da una fiducia eccessiva nel proprio programma economico e la seconda dovuta all'obbligo di formulare previsioni economiche che tengano conto delle variazioni di politica proposte nel bilancio, indipendentemente da qualsiasi personale riserva degli economisti dell'Esecutivo sulla possibilità che il Congresso le ap122

provi. Il CBO parrebbe essere neutrale, nel senso che non sembra esser tenuto, per motivi di appartenenza ad una data organizzazione, ad un eccessivo ottimismo o pessimismo. Esso è tuttavia soggetto all'obbligo, cioè al vincolo, di basare le proprie previsioni sull'ipotesi che le politiche economiche correnti rimangano invariate.

Il DIBATTITO SULLE PREVISIONI DELL'OMB E DEL CBO Fra i molti studi che mettono a confronto le previsioni dell'OMB, del CBO e quelle private, segnaliamo l'analisi presentata all'House Appropriations Committee dall'allora direttore del CB0, alice Rivlin, nel marzo 1982', l'analisi redatta dal Generai Accounting 0/I ice (GA0) e pubblicata nel Federal Register del 21 gennaio' 1985. Nel gennaio 1982 il direttore del Cno, Rivlin, testimoniò di fronte alla Commissione Bilancio della Camera sul tema delle tecniche di previsione economica e di come le stime del CBO si collocassero rispetto a quelle dell'OMB e a quelle private. I dati relativi alla crescita del PNL in termini reali e all'inflazione indicavano un errore assoluto di uguale ammontare (1,2 per cento) da parte di entrambi gli enti per quanto riguardava l'inflazione (1976-81); mentre le stime dell'OMB risultano meno accurate di quelle del Cno per quel che riguardava la crescita del PNL. Rivlin concluse osservando che non vi erano differenze sostanziali negli errori delle due organizzazioni. Fece notare come i modelli econometrici, basandosi, per le loro proiezioni, sul recente passato, tendano ad er-


rare nello stesso senso allorché nell'eco- scun anno per l'anno solare decorrente nomia enirge un evento imprevisto. Per dal gennaio successivo. quanto riguarda il paragone fra le previ- Dall'analisi di questi dati il GAO ha tratsioni del CBo e quelle private, fu fatto to queste conclusioni: osservare come, per mantenere la propria - non vi sono differenze significative credibilità, il CB0 cerchi di trovarsi in nell'accuratezza delle previsioni dell'OMB. una posizione più o meno centrale ridel CBO e di quelle private. Gli errori spetto al ventaglio delle previsioni primedi nelle previsioni dell'OMB e del CBO vate. I dati presentati dal CB0 alle comtendono ad essere dello stesso segno: missioni confermano tale opinione. Se- perché le « sorprese » influenzano entramcondo il contesto politico nel quale la be le previsioni nello stesso modo e rielaborazione del bilancio viene svolta, le sultano inferiori rispetto alle previsioni commissioni di bilancio possono utilizzaprivate; re, ai fini delle loro deliberazioni, le —nessuna delle fonti ha presentato co proiezioni economiche del CB0 o valersi stantemente previsioni più accurate per di altre previsioni più congeniali. Per fortutti gli indicatori; nire un esempio di questo tipo di situa- notevoli errori di previsione sono dezione, Rivlin dichiarò che « la Commis rivati dall'incapacità di prevedere eventi sione bilancio della Camera, per ragioni economici inattesi che hanno fatto errare che ritengo si possano correttamente dele previsioni nello stesso senso. finire di parte, utilizzò, per parecchi anni durante l'amministrazione Carter, previsioni economiche più ottimistiche delle UNA VALUTAZIONE FONDATA nostre. A volte essa si valse di quelle SULL'ANALISI DI REGRESSIONE dell'amministrazione, a volte optò per una media fra le- due, ma la tendenza L'evidenza fino a questo punto raccolta fu sempre verso l'ottimismo » ha segnalato differenze insignificanti fra Su richiesta del Congresso, il GA0 ha le previsioni dell'OMB, del C110 e del esaminato le differenze intercorrenti fra settore privato, sebbene fosse lecito atle previsioni economiche dell'OMB, quelle tendersi una certa distorsione ottimistica del CBO e quelle del settore privato. Il nelle stime dell'OMB data la fiducia delGo ha usato due criteri di misurazione l'Esecutivo nelle politiche da esso proper valutare l'errore nelle previsioni: 1) poste. Per valutare questi risultati, sono i errore medio » costituito dalla media stati raccolti i dati necessari per collosemplice degli errori rilevati in ciascuno care in una prospettiva storica le proiedei sei anni (1980-85) esaminati; 2) l'erzioni economiche dell'OMB e del Cuo. rore in base alla « scarto quadratico meTale valutazione tendeva soprattutto a dio » che misura l'accuratezza delle predeterminare se vi fossero diferenze stavisioni indipendentemente dal fatto che tisticamente significative nelle previsioni gli errori siano positivi o negativi. I conelaborate dall'OMB e dal Czo. fronti erano basati sulle proiezioni elaPoiché il GAO non riuscì ad individuare borate in occasione della presentazione alcuna differenza sistematica fra le predel bilancio nel gennaio/febbraio di cia123


visioni del .CBO e quelle dellOMB mediante un confronto degli errori medi di previsione e degli errori in base allo scarto quadratico medio. Questo approccio va scartato. Invece si ritiene di impiegare una versione dell'analisi di regressione che metta a confronto gli errori di previsione del CB0 con quelli del1'OMB. Le equazioni di regressione che ne risultano esprimono le previsioni di ciascuna organizzazione in termini degli errori di previsione dell'altra. A tal fine occorre usare una serie di equazioni del tipo seguente: Y (errore 0MB) = a (intercetta) + •b (errore CB0) + E dove •E è un termine che esprime un errore casuale con media 0. Se non vi sono differenze sistematiche nelle popolazioni relative alle previsioni, l'intercetta della equazione di regressione (a) dovrebbe essere uguale a 0. Questa

metodologia richiede che il termine che esprime l'inclinazione (b) sia uguale ad 1,0 cioè non sia statisticamente differente da 1,0. Di conseguenza procedendo ad una regressione degli errori dell'OMB su quelli del CBO si dovrebbero individuare eventuali differenze sistematiche fra le due serie di previsioni. La significatività delle • intercette di regressione sarà verificata utilizzando il test t unilaterale. Sulla base dei test di significatività, si può concludere che l'intercetta di regressione è uguale a O o non lo è, cioè in altre parole, che vi sono o non vi sono dif ferenze sistematiche tra le due organizzazioni nella previsione delle variabili economiche. I d.ue possibili risultati di una analisi di regres. sione sono illustrati nella Figura 1. Se si giungerà alla conclusione che l'intercetta è diversa da 0, allora, si potrà ipotizzare con un certo fondamento che vi siano differenze sistematiche statisticamente significative fra le previsidni economiche del Cso e dell'OMB. L'analisi di regressione comprenderà dati relativi alle seguenti variabili economiche: - saggio di crescita del PNL in termini reali 1976.1985);

FIGURA i Analisi di regressione degli errori di previsione

Nessuna distorsione (intercetta con l'asse Y=O)

Possibile distorsione (interàetta con 1asse Y/O)

Errori dell'OMB (Y)

Errori dell'OMB (Y)

Errori del CBO (X)

Errori del CBO (X)

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- deflatore del PNL (1976-1985); - indice dei prezzi al consumo (1977-1985); - tasso di disoccupazione (1977-1985); - saggio sui T. Bilis trimestrali (1980-85).

La tabella i mostra come sia l'OmB sia il CBO siano stati troppo ottimisti nelle loro previsioni riguardo alla crescita del PNL in termini reali e come le cifre delI'OMB siano state notevolmente superiori a quelle del Cno. L'analisi di regressione può essere utilmente impiegata per determinare se vi sia stata una sovra o sotto stima sistematica di una serie di proiezioni • rispetto all'altra. Procedendo ad una regressione degli errori di previsione dell'OMB rispetto a quelli del Cno, eventuali differenze sistematiche dovrebbero rivelarsi.

altre parole, vogliamo determinare il livello di 'sicurezza o di significatività al quale l'ipotesi nulla possa essere respinta (intercetta 0). Se ipossiamu respingere con sicurezza l'ipotesi che l'intercetta di regressione sia uguale a O avremo una base a sostegno della conclusione che le previsioni dell'OMB differiscono in modo non casuale, cioè sistematico, dalle previsioni del CBO. Per la crescita del PNL in termini reali, l'errore standard dell'intercetta è uguale a 0,382; dividendo questo .per 'l'intercetta di 0,138 si ottiene un valore t di circa 0,36, il che fornisce una base poco valida per concludere che l'intercetta non è 'uguale a 0. Anche se l'analisi dimostra che gli errori di previsione dell'OMB riguardo al PNL tendono in media ad essere superiori a quelli del CBO, in questo caso non possiamo affermare legittimamente che le previsioni differiscano in modo significativo. Procedendo ad una regressione degli errori dell'OMB rispetto a quelli del CBO 'per quanto riguarda le previsioni del deflatore del prodotto nazionale lordo si ha:

La regressione, applicata alle previsioni del tasso di crescita del prodotto nazionale lordo dà i seguenti risultati:

Y (errore 0MB) = — 0,284 + 0,879 (errore

Y (errore delI'OMB) = 0,138 + 1,046 .errore del CB0); r (indice di correlazione) =0,92, indica l'intensità del rapporto fra gli errori di previsione del CB0 e dell'OMB;

intercetta dell'errore standard di regressione: 0,225; significatività (t test) dell'intercetta: t = — 1,26 (p = 0,6).

intercetta dell'errore standard di regressione = 0,382; significatività dell'intercetta '(in base al t test unilaterale): t 0 0,36 (p = 0,17). Questa curva di regressione è significativa al livello 0,1, potendosi interpretare nel senso che vi è una forte correlazione fra gli errori previsionali dell'OMB e del CB0. Il nostro interesse principale, tuttavia' è dato da ciò che la regressione i5uò dirci circa la tendenza delle previsioni dell'OMB ad essere statisticamente differenti da 'quelle del CBO. Considerando l'intercetta di regressione, un'ipotesi può essere verificata nel modo seguente: quale è 'la probabilità di giungere alla conclusione che l'intercetta non è uguale a 0, cioè che vi è una differenza sistematica nelle previsioni allorchè in effetti l'evidenza statistica indica che questo è il caso? In

= 0,93;

Per il deflatore del PNL la curva di regressione è significativa al livello 0,01. Dalla verifica della significatività dell'intercetta lineare di —0,284 si ottiene un valore di t di —1,26, significativo al livello 0,06. In base a questi risultati, vi è un certo fondamento nel concludere che l'intercetta di regressione è diversa da zero e che le previsioni dell'OMB sul deflatore del PNL sono ottimisticamente e sistematicamente inferiori a quelle del CB0. Procedendo ad una regressione degli errori dell'OMB rispetto agli errori del •CBO per le previsioni dell'Ipc (Indice prezzi al consumo) si ha:

Y (errore 0MB) = — 0,420 + 0,934 (errore CB0); r = 0,97; intercetta dell'errore standard di regressione: 0,286; 125


Tabella I Previsioni del tasso di crescita del PNL in termini reali

ANNO

1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 MEDIA SD*

Dati effettivi (percentuale)

4.9 4.7 5.3 2.5 -0.2 1.9 -2.5 3.4 6.6 2.3 2.89 2.73

CBO

0MB

Proiezioni Errore

Proiezioni Errore

•6.3 5.8 4.5 4.2 4.0 2.9 2.5 3.9 4.7 3.7 4.25 1.17

1.4 1.1 -0.8 1.7 4.2 1.0 5.0 0.5 -1.9 1.4 1.36 2.05

4.8 5.7 5.1 4.8 3.2 2.8 4..2 5.2 4.7 4.0 4.45 0.91

-0.1 1.0 -0.2 2.3 3.4 0.9 6.7 118 -1.9 1.7 1.56 2.33

* Scarto quadratico medio (Standard Deviation). Fonti: Congressional Budget Office, An Analysis of the Presidents Bugetary Proposal, esercizi finanziari 1976-1987 (Washington, D.C. G.P.0, 1975-86); Office of Management and Budget, Special tabalises of the Budget of the U.S. Governement esercizi finanziari 1976-87 (Washington, D.C.: G.P.O., 1975-1986); Office of Management and Budget, The United States Budget in Brief, esercizi finanziari 1976-87 (Washington D.C.: G.P.0, 1975-1986).

126


Tabella 2 Previsioni de]. Deflatore del P.N.L.

ANNO

1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 MEDIA SDt

CBO

0MB

Proiezioni Errore

Proiezioni Errore

Risultati effettivi (percentuale)

-

6.4 6.7 7.3 8.8 9.1 9.6 6.4 3.8 4.1 3.3

5.8 5.5 4.8 6.8 7.8. 9.4 9.2 6.9 4.7 5.1

6.55 2.25

6.60 1.74

-0.6 -1.2 -2.5 -2.0 -1.3 -0.2 2.8 3.1 0.6 1.8 0.05 1.97

5.9 6.2 5.4 6.2 6.4 8.9 9.2 5.5 4.7 4.7

-0.5 -0.5 -1.9 -2.6 -2.7 -0.7 2.8 1.7 0.6 1.4

6.31 1.56

-0.24 1.86

* Scarto quadratico medio (Standard Deviation). Fonti; Calcoli effettuati sulla base dei dati forniti dalle fonti indicate nella Tabella 1. significatività dell'intercetta (test t) = - 1,47 (p. = 0,05). Nel caso delle previsioni riguardo all'Ipc, l'in. clinazione della linea è significativa al livello 0,01. Com'era prevedibie, questi risultati rispecchiano quelli relativi all'analisi del deflatore del GNP. L'intercetta è significativa al li. vello 0,05, il che induce a concludere che l'OMB tende sistematicamente a prevedere un Ic in. feriore di circa 0,42 punti percentuali a quello del Cao. Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, procedendo alla regressione degli errori dell'OMB rispetto a quelli del CBO si ottiene:

significati'vità (test t) dell'intercetta: t = -2,14 (.p = 0,02). L'equazione di regressione per le previsioni della disoccupazione ha un'inclinazione significativa al livello 0,01. L'intercetta (al livello 0,02) è notevolmente diversa da zero; si può pertanto concludere fondatamente che le cifre dell'OMB sulla disoccupazione sono sistematicamente inferiori di circa 0,26 punti 'percentuali a quelle delle previsioni del Cno. Dall'analisi di regressione degli errori dell'Otvis rispetto a quelli del CB0 per il saggio di rendimento dei T-bills si ha:

Y (errore 0MB) = -0,259 + 0,955 (errore CB0);

Y '(errore 0MB) = -1,519 + 0,712 (errore CB0);

r = 0,97;

r = 0,86; errore standard dell'intercetta di regressione: 0,627;

errore standard dell'intercetta di regressione: 0,120;

127


Tabella 3 Previsioni dellI.P.C.

ANNO

F

Dati effettivi (percentuale)

CBO

0MB

Proiezioni Errore

Proiezioni Errore

1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985

6.5 7.6 11.3 13.5 10.4 6.2 3.2 4.3. 3.5

6.9 4.8 6.0 7.5 9.3 9.5 7.2 4.6 5.0

0.4 -2.8 -5.3 -6.0 -1.1 3.3 4.0 0.3 1.5

6.2 5.7 6.0 6.4 8.6 8.8 5.5 5.3 4.9

-0.3 -1.9 -5.3 -7.1 -1.8 2.6 2.3 1.0 1.4

MEDIA SD*

7.39 3.64

6.76 1.84

-0.63 3.52

6.38 1.39

-1.01 3.38

* Scarto quadratico medio (Standard Deviation). Fonti: Calcoli effettuati sulla base dei dati forniti dalle fonti indicate nella Tabella 1. Tabella 4 Previsioni del tasso di disoccupazione.

ANNO

1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 MEDIA SD*

Dati reali (percentuale)

CBO

0MB

Proiezioni Errore

Proiezioni Errore

7.1 6.1 5.9 7.2 7.6 9.7 9.6 7.5 7.2

6.8 7.2 6.0 6.7 8.0 7.9 7.6 9.8 7.3

-0.3 1.1 0.1 -0.5 0.4 -1.8 -2.0 2.3 0.01

6.9 6.6 5.9 6.2 7.3 7.4 7.6 9.5 7.6

-0.2 0.5 0.0 -1.0 -0.3 -2.3 -2.0 2.0 0.4

7.54 1.33

7.48 1.07

-0.07 1.33

7.22 1.05

-0.32 1.32

* Scarto quadratico medio (Standard Deviation). Fonti: Calcoli effettuati sulla base dei dati forniti dalle fonti indicate nella Tabella 1.


sign'ificatività (test t) dell'intercetta: t = -2,27 (p = 0,02) Le cifre delle previsioni dell'OMB per i saggi dei T-bills risultano sistematicamente inferiori di circa 1,52 punti percentuali rispetto a quelle del CB0. Tuttavia, poiché il coefficiente della curva di regressione (0,712) differisce notevolmente da 1,0, non è dato trarre una conclusione valida sulla significatività dell'intercetta dell'equazione.

La Tabella 6 espone in sintesi i risultati dell'analisi di regressione. Tale analisi fornisce argomenti in favore dell'ipotesi che le previsioni economiche dell'OMB presentano una certa distorsione sistematica che le rende eccessivamente ottimistiche rispetto a quelle del CB0. Ai precedenti confronti sulla validità del,le previsioni effettuati dal CRo e dal GAO questi risultati statisticamente significa-

tivi erano sfuggiti, forse a - causa della limitatezza dei campioni esaminati e/o delle tecniche statistiche impiegate. Per la maggior parte dei risultati statistici fin qui ottenuti, sebbene già « significativi », si può avere una conferma mettendo insieme la serie delle previsioni ed esaminando quale sarebbe la probabilità di ottenere questi risultati a caso. Si considerino le cinque serie di previsioni come campioni. Dividiamo ciascuna serie di dati pr'evisionali, per esempio quelli sulla crescita del PNL, in due sottoserie, cioè le previsioni economiche del Cno e quelle dell'OMB. Se ricaviamo da ciascuna serie di previsioni esempi accoppiati - per esempio, dalla serie di previsioni economiche potremo ricavare dieci campioni ciascuno (rispettivamente) dalle sottoserie CB0 e' 0MB -

Tabella 5 Previsioni del saggio di renc[i.mento dei T-biils a tre mesi

ANNO

Dati reali (percentuale)

1980 1981 1982 1983 1984

11.6 14.1 10.7 8.6 9.6 7.5

1985

MEDIA SD*

'

10.35 2.34

CR0

0MB

Proiezioni Erro,re

Proiezioni Errore

7.6 12.6 13.7 13.2 7.4

,

8.6 10.52 2.95

-4.0

-1.5 3.0 4.6 -2.2 Li 0.17 3.30

7.6 9.0 11.0 105 7.9 7.7 8.95

1.49

-4.0 -5.1 0.3 1.9 -1.7 02 -1.4 2.72

* Scarto quadratico medio (Standard Deviation). Fonti: Calcoli effettuati sulla base dei dati forniti dalle fonti indicate nella Tabella 1. 129


Tabella 6 Comparazione degli errori nelle previsioni del CaO e 0MB

DIREZIONE DELLA DIFFERENZA DI PREVISIONE DELLOMB (Rispetto alla proiezione del CBO)

INDICATORE ECONOMICO -

SIGNIFICATIVITA STATISTICA

Ottimistica

0.17 (t0.36)

Deflaore del PNL

Ottimistica

0.06 (t=1.24)

IPC

Ottimistica

0.06 (t=1.36)

Tasso di disoccupaziQ ne

Ottimistica

0.02 (t=2.14)

Ottimistica

Nessuna conclusione

Tasso di crescita del PNL

Tasso di rendimento T-BILLS

O

-

potremo calcolare le medie di ciascuna sottoserie di previsioni all'interno di-ciascuna serie. Se le popolazioni di base sono identiche, cioè non vi è alcuna differenza nelle previsioni, quale sarà la probabilità che le medie di un tipo di previsione, ad esempio quelle dell'OMB rispecchino tutte una data serie di risultati - PNL sovrastimato, deflatore del PNL sottostimato, Ic sottostimato, disoccupazione sottostimata e tassi dei T-bills sottostimati? La probabilità di ottenere per caso questi cinque risultati in presenza di una media delle previsioni dell'OMB superiore a quella del CB0 è di circa 0,03; (0,5), ipotizzando che non vi sia differenza statistica fra le singole medie delle popolazioni. Di conseguenza, la conclusione generale secondo cui le stime dell'OMB tenderebbero ad essere 130

sistematicamente più ottimistiche di quelle del CBo sembra avere un valido fondamento. Naturalmente, il fatto che le previsioni dell'OMB differiscano in modo statisticamente sinificativo da quelle del Cno non è sufficiente per concludere clie le previsioni economiche dell'OMB siano sistematicamerite distorte in senso ottimistico. In effetti, gli stessi risultati avrebbero potuto ottenersi nel caso in cui le previsioni dell'OMB -non• fossero distorte ed invece quelle del CBO presentassero una sistematica distorsione pessimistic1. Tuttavia un esame delle cifre riportile nelle Tabelle 1-5 tende a fare escludere questa interpretazione. In ciascun caso, la previsione media del CB0 è più vicina alla media del valore éffettivo della variabile di quan-


to non lo siano i corrispondenti valori delle previsioni dell'OMB. La direzione degli errori previsionali del 030 sembra essere casuale anche in considerazione del fatto che i valori medi di tre variabili (crescita reale del PNL, Ic e disoccupazione) sono ottimistici rispetto alle medie dei valori effettivi delle variabili, mentre le medie delle rimanenti due variabili (deflatore del PNL e tassi dei T-bills) danno previsioni più pessimistiche dei dati effettivi. Le previsioni dell'OMB, d'altra parte, presentarono valori medi più ottimistici dei valori ottenuti in realtà per tutte le variabili economiche.

PROIEZIONI « DISTORTE» MA TRASPARENTI: POCHI I DANNI All'inizio di questo articolo si è cercato di trovare prove a sostegno della tesi di una possibile distorsione ottimistica nelle previsioni dell'OMB. Dopo tutto, sarebbe normale attendersi che l'OMB, in quanto parte dell'Esecutivo al pari dei ministeri del Tesoro e del Commercio, rispecchi, nelle sue previsioni, la fiducia e l'ottimismo dell'amministrazione riguardo alle politiche economiche da lei proposte. Il far parte di un gruppo di lavoro dell'amministrazione può favorire un clima in cui le proiezioni economiche che vengono elaborate tendono a rispecchiare la fiducia dell'amministrazione nelle proprie scelte. Una volta confermata l'esistenza di differenze statisticamente significative fra le previsioni economiche dell'Esecutivo e quelle del CBO, occorre chiedersi quali siano gli effetti sul mondo reale di eventuali errori sistematici nelle previsioni.

Gli effetti di stime eccessivamente ottimistiche da parte dell'OMB sono probabilmente trascurabili. Sarebbe difficile sostenere che una distorsione di 0,14 punti percentuali nelle previsioni di crescita del PNL in termini reali possa compromettere seriamente l'economia o indurre ad adottare politiche economiche errate. Oltre a questa considerazione, è da tenere presente la facoltà del Congresso di respingere le proiezioni economiche dello 0MB e di valersi invece di quelle del CBO o di qualche altra serie di dati previsionali a luipiù graditi. Nonostante le caratteristiche critiche e la sfiducia espressa nei confronti delle previsioni economiche annuali dell'OMB, paradossalmente i risultati della presente analisi sono in favore dell'ipotesi che il grado di distorsione sia probabilmente inferiore a quanto in genere si ritenga. Per motivi di credibilità, coloro che elaborano le stime dell'Esecutivo non possono discostarsi molto dalle stime private. Vi è un limite alla misura in cui le cifre possono venir distorte anche se essi ne avessero l'intenzione. L'importante al riguardo è che le ipotesi economiche sulle quali basare le scelte politiche siano dichiarate apertamente, di modo che i policy makers pubblici e privati possano individuaduare eventuali distorsioni nelle previsioni e quindi non esserne influenzati nel loro processo decisionale. I risultati ottenuti sembrano confermare la tesi secondo cui la presenza di eventuali distorsioni nelle previsioni dell'OMB, anche se rilevanti, non ha praticamente alcun effetto sull'economia o sulle decisioni di politica economica. Quando le proiezioni dell'OMB si discostano troppo da quelle ritenute più probabili, è prevedibile che sia il settore pubblico che 131


variabilità congenita presente nelle previsioni del CB0. E' molto improbabile che distorsioni relativamente piccole pur se statisticamente significative - co me quelle che risultano da questa analisi, possano sviare il processo di formazione delle decisioni economiche pubbliche e private.

quello privato "on ne tengano eccessivamente conto. Inoltre l'esistenza di piccole distorsioni nelle previsioni economiche viene messa nella giusta prospettiva allorché si osserva quanto elevato sia il grado di variabilità congenita presente di solito nelle previsioni economiche. La Tabella 7 evidenzia l'elevato grado di

Tabella 7 Variabilità prevista negli errori del CBO

INDICATORE ECONOMICO

MEDIA DELL'ERRORE DI PREVIIONE IN VALORE ASSOLUTO (Percentuale)

Tasso di crescita del PNL Deflatore del PNL

1.57

IPC

2.74

Tasso di disoccupaziQ 'ne Tasso di rendimento T—BILLS '

132

'

0.96

'

'

.

'

2.73


Note L'autore ringrazia per la collaborazione e l'incoraggiamen to ricevu ti dai 'professori Frederick A.mling e Susan Toichin della George Washington University nella redazione di questo studio. I consigli diun ÂŤ refereeÂť anonimo hanno migliorato sostanzialmente la presentazione dell'analisi statistica.

Legislativa Branch Apjriropriations br 1983: flearings Bel ore a Subcomm. of the House Commitica on Appropriations, 970 Congr.; 2 0 Sess. (marzo 1982) (Dichiarazione di Alice Rivlin•, Direttore del Congressional Budget Office), 663-731. 2

51 Fed. Reg. 2.847-2.855 (1986).

Legislative Branch Appropriations for 1983. 691-692.

133


Storie di un assistenzialismo di lusso Le sovvenzioni allo spettacolo dalla « legge-madre» alla finanziaria '88 7

di Paolo Baule

se che esse comportano abbiano, come Di fronte allo stato della finanza pubsi recita in ogni relazione ministeriale, blica, l'idea di occuparsi (e preoccuparsi) del migliaio di miliardi l'anno che "carattere di investimento '(culturale) o se invece abbiano, nella realtà, un caratandranno a beneficiare le varie attività tere prevalentemente assistenziale e per di spettacolo può suscitare, sulle prime, di più quasi « cieco », cioè scarsamente un certo divertito stupore e, perfino, qualche ironia. Ma, quando si tratta di mirato e selettivo. Il fatto relativamente nuovo è che, sopra questo « zoccolo spesa pubblica, anche « partite » relativamente modeste - ma sono tanto po- duro » 'costituito 'dalle 'sovvenzioni ordinarie e permanenti, negli anni '80 è vechi mille miliardi? - possono rivelare nuta affermandosi una legislazione di easpetti significativi e, talvolta, allarmanmergenza, costituita da « leggi-tampone» ti, se non altro per i modi, per i proo «leggi-ponte », di contenuto prevalencedimenti, per i meccanismi e per le motivazioni che stanno « a monte » di cer- temente finanziario, 'he hanno aggiunte leggi e di certe spese. Si pensi, tanto to sovvenzioni « straòrdinarie » e temporanee a quelle già previste nelle varie per andare al sodo, al ruolo (quasi sempre arrogante e troppo spesso decisivo) leggi di settore, dando luogo a quello che si potrebbe chiamare « assistenzialiche, nell'ingigantirsi della spesa pubblismo opulento» (o di lusso), poi culmica, esercitano gruppi di pressione maganato nella recente, ma già famosa « legri minuscoli, ma particolarmente abili ed ge-madre » dello spettacolo,' ossia 'nella agguerriti, non si sa se più potenti o più legge 30 aprile 1985 n. 163, gloriosaprepotenti: di fronte ad essi lo Statoistituzione sembra sempre più indifeso e mente in vigore: legge che tende a proiettare la sua ombra, proprio in seguisempre meno capace di resistere a. certi to alla recente finanziaria '88, almeno temerari (ma spesso vittoriosi) « assalti fino al 1990 compreso. L'avvento delalla diligenza ». E' noto che, nel nostro Paese, il teatro, l'assistenzialismo di lusso nello spettacoil cinema e le attività lirico-musicali di- lo si è realizzato, come si diceva, per spongono, da tempo immemorabile, di tappe successive, alle quali non si mansingole leggi di «'aiuto ». Poco importa cherà di accennare più avanti. Si tratta, stabilire se queste leggi « ordinarie » di comunque, di una sorta di «mutazione sostegno tutte rimaste in vigore e le spe- genetica » nella legislazione a favore del 134


lo spettacolo, che merita attenzione innanzitutto per l'entità dei suoi costi, che non hanno riscontro in nessun altro Pae• se del mondo e, meno che mai, nella nostra passata legislazione, ma anche per altri non meno interessanti profili, che attengono a quella che i politici chiamano, con espressione piuttosto solenne, qualificazione della spesa pubblica ».

MEGA..STANZIAMENTI DELLA « LEGGE-MADRE »

Prima di tutto il nome: quello di « legge-madre » non è uno scherzo di buontemponi, ma è l'appellativo con cui il relativo progetto fu ufficialmente presen tato, in tutta serietà, dallo stesso Ministero del turismo e dello spettacolo, con espresso riferimento ai (futuri) provvedimenti di riforma « organica » delle legislazioni di settore (musica, teatro, cinema) da sempre in preparazione, destinati a diventare altrettanto « leggi-figlie ». Questa singolare e costosissima legge ha disposto una gigantesca provvista di fondi a favore delle varie attività dello spettacolo, di durata triennale, ma rinnovabile di triennio in triennio e, quindi, protesa verso l'infinito. Vai la pena di precisare che i miliardi previsti sono stati 600 per il 1985, 700 per il 1986 e 750 per il 1987, per un totaie di 2.050 miliardi nel primo triennio di applicazione della legge 1 . Questa nuova elargizione di denaro pubblico (come dei resto quelle di precedenti leggitampone) è andata ad aggiungersi agli stanziamenti ordinari delle leggi attualmente in vigore, i cui costi continuano a gravare sul biiancio dello Stato 2 La « filosofia » di tali provvedimenti .

« straordinari » è, in sostanza, questa: visto che non si riesce a varare le riforme, ma considerato che i loro costi hanno già trovato una qualche ideale « copertura » nella previsione della spesa statale, si distribuiscano i relativi im porti sotto forma di « interventi straordinari » a favore dei settori interessati. A parte la disinvoltura del ragionamento, a parte le inevitabili sovrapposizioni e duplicazioni di spese, a parte la mancata razionalizzazione di tutto il sistema di incentivi, il punto da sottolineare è questo: i costi, pur elevati, dei progetti di riforma erano stati concepiti e preventivati come costi sostitutivi delle vecchie leggi, che sarebbero venute a cessare, mentre i costi di queste nuove « leggi-tampone » non fanno che aggiungersi a quelli delle leggi attuali, che restano in piedi e continuano implacabilmente a inghiottire risorse. Insomma, le soluzioni-ponte finiscono col costare al contribuente molto più delle riforme che non si fanno.

IL « COLPO DI MANO» IN PARLAMENTO

Quello che la lobby dello spettacolo è riuscito a mettere a segno in Parlamento si può definire, senza tema di esagerazione, un vero e proprio colpo di mano. L'iter parlamentare della legge-madre durò esattamente sei mesi: il testo, presentato dal Ministro del turismo e dello spettacolo Lelio Lagorio al Consiglio dei Ministri e da questo approvato il 4 ottobre 1984, fu trasmesso alla Camera il 30 ottobre (atto n. 2222), fu assegnato alla 2' Commissione (Interni) in sede legislativa e fu da questa approvato, seri135


za colpo ferire, il 20 dicembre. Già in questa prima fase avvenne qualcosa di insolito: si spiegò che, per agevolare 1' iter della legge (giudicata urgente), i gruppi parlamentari avevano concordato di affrettarne (e limitarne) l'esame della Camera, lasciando così al Senato il compito di àpportarvi gli opportuni emendamenti e riservandosi un'analisi più approfondita del testo in seconda lettura. La procedura seppur non nuovissima rimane singolare. Resta pur sempre il fatto che la assegnazione in sede legislativa di un disegno di legge' presuppone l'accordo 'di tutti i gruppi parlamentari, opposizioni comprese. Questo sostanziale unanimismo si spiega con il carattere « onnicomprensivo » del progetto. Esso riguardava, nello stessa tempo, teatro e musica, cinema e circhi, iniziative private ed enti pubblici, quindi anche stipendi e possibilità di nuòve assunzioni: ora, ogni partito ha le sue « zone di influenza » e le sue clientele e ciascuno di essi intravedeva, nell'eventuale approvazione della legge-madre, qualche possibilità di giovarsene per i propri fini politici e/o elettorali. E, così, norme che non sarebbero mai state approvate se esaminate singolarmente o se inserite in una legge « settoriale » che riguardasse il sòlo cinema, o il solo teatro o i soli enti lirici, « passarono » tranquillamente, senza incontrare obiezioni o resistenze, neppure da parte delle opposizioni. Successivamente, dopo le ineiitabili modifiche apportate in Senato (soprattutto dalla Commissione Pubblica Istruzione e sempre in sede deliberante), la vera e decisiva partita si giocò allorchè la leg ge, nel testo emendato dal Senato, tornò alla Camera. Ma non ci fu battaglia fra maggioranza e opposizione, sibbene 136

tra alcuni deputati coraggiosi (o troppo ingenui?), che tentavano di veder chiaro nel disegno di legge e di poterlo esaminare per davvero nel corso di una normale discussione in aula e le lobbies interessate, le quali - ben sapendo che la legge era indifendibile e che, in aula, non sarebbe «passata » mai - cercavano di trattenerla (o di rispedirla) alla Commissione Interni in sede legislativa. Facendo valere al riguardo le intese raggiunte a livello « politico ». Questi accadimenti sono testimoniati dalla formale richiesta sottoscritta da ben 74 deputati di quasi tutti i partiti - più del decimo, cioè, previsto dall'art. 72 30 comma della Costituzione - di portare in aula la discussione della legge; e dalla successiva, affannosa « caccia all'uomo » che si scatenò alla Camera, da parte dei gruppi di pressione interessati, per indurre i deputati meno decisi a ritirare la propria firma dalla « mozione » diretta a trasferire il testo in aula. Alcuni deputati si convinsero o cedettero. Il numero di 74 firmatari si assottigliò, quindi, fino ad andare sotto la quota prescritta, cosicché la controversa alternativa (esame in Commissione in sede legislativa o discussione in aula) fu rimessa di nuovo alle valutazioni dei capigruppo.

COME SPENDERE TANTI QUATTRINI La legge-madre per lo spettacolo si è rivelata tanto prodiga di danaro 'pubblico, quanto avara di indicazioni circa i modi, gli scopi e i criteri per impiegarlo. Praticamente l'unica indicazione è consistita in una ripartizione delle nuove risorse secondo certe percentuali, che è


difficile evitare di definire come cervellotiche: il 45% agli enti lirici, il 25% al cinema, il 15% al teatro di prosa ed altre percentuali minori. Come per il passato, la parte del leone viene riservata a quegli autentici pozzi senza fondo che sono i tredici enti lirici, sulle cui proverbiali follie amministrative esiste una ricca letteratura (anche giudiziaria) e sono stati versati fiumi di inchiostro (e di lacrime) da parte della Corte dei conti in relazioni al Parlamento sempre più voluminose e acco rate. Tali follie risultano, ancora una volta, « premiate » (e, dunque, incoraggiate per il futuro) dedicando loro - per i necessari « ripiani » - la fetta più consistente degli stanziamenti. Ma le osser vazioni più interessanti, almeno dal pun to di vista tecnico, riguardano le modalità di erogazione. Nessun problema, naturalmente, per gli enti lirici, ai quali si provvede mediante « trasferimenti diretti di fondi. Ma per il cinema e per il teatro il puro e semplice « trasferimento » di risorse non appare tecnicamente idoneo ad influire sulle attuali leggi di aiuto, le quali prevedono sovvenzioni commisurate prevalentemente a dati obiettivi e non dilatabili quali ad esempio - gli incassi lordi degli spettacoli. Il testo della legge, d'altra parte, non spiegava in che modo poter « veicolare » i nuovi miliardi attraverso i vecchi canali. Ecco, allora, la soluzione escogitata: aumentare i fondi già esistenti presso la Banca Nazionale del Lavoro, facenti capo alle sezioni autonome per il credito cinematografico e per il credito teatrale. Questi speciali fondi, peraltro, non sono più destinati, da qualche anno, solo ad operazioni di credito o di finanziamento, ma anche a sovven-

zioni a fondo perduto. Su questa strada, la Banca del Lavoro rischia di divenire sempre meno « banca » e sempre più il cassiere, per non dire grande elemosiniere, del Ministero dello spettacolo per le sue elargizioni a favore del cinema e teatro. E gran parte di questi fondi vengono a costituire, in sostanza, delle vere e proprie « gestioni fuori bilancio », senza tuttavia sottostare ai controlli per queste, previsti. Le relative operazioni, infatti, sol perché effettuate attraverso un tesoriere-cassiere come la Banca Nazionale del Lavoro, che non - è soggetto a controlli amministrativi da parte degli organi dello Stato, sfuggono di fatto sia all'esame della Ragioneria centrale (del Tesoro) operante presso il Ministero del turismo e dello spet tacolo, sia a quello, successivo, della Cor. te dei conti, generalmente ritenuto il più « fastidioso ». Sta di fatto che la legge-madre sta già riversando. - e sempre più riverserà sulle attività di spettacolo molto più danaro pubblico di quanto le stesse categorie interessate non riescano a spendere. E' forse la prima volta, nella storia dell'assistenzialismo statale, che viene erogata una tale massa di sovvenzioni senza nemmeno spiegare quale uso ne debba esser fatto: le singole « leggi-figlie » (ossia quelle settoriali di riforma) sono, infatti, ancora lontane e avvolte nella nebbia. Tutto ciò sta creando curiosi, singolari problemi al competente Ministero del turismo-spettacolo, il quale si è visto costretto ad- escogitare modi, canali, criteri e perfino destinatari che gli permettessero di distribuire in qualche modo, tutto quel danaro, sostituendosi - al limite - allo stesso legislatore con 137


decreti ministeriali di dubbia legittimità, come quelli cui si accennerà in seguito. Oggi, insomma, il più grosso problema del mondo dello spettacolo è dato da un'eccedenza di sovvenzioni da smaltire. Enti lirici. Se agli enti 'lirici è stata assegnata una quota così alta delle risorse per lo spettacolo (e così strepitosa in senso assoluto), ciò è dovuto alla (accettata) necessità di ripianare i debiti pregressi (e relativi interessi bancari) accumulati in anni ed anni di amministrazione disinvolta e spensierata. Al riguardo la famosa affermazione andreottiana per la quale le istituzioni liricomusicali « suonano per le banche », è assai significativa. Ma poi, ripianati i deficit del passato, si sarebbe dovuti tornare a stanziamenti « normali » (magari adeguati ai mutati valori monetari). Invece, quasi per inerzia, ma non senza malizia, le risorse impiegate per questo scopo di bonifica finanziaria a carattere straordinario hanno preso, negli anni successivi, tutti i caratteri della « normalità » e dell'ordinaria amministrazione Naturalmente si è affermata' subito in questo campo una logica ferrea dei trasferimenti: quella della spesa storica. In fatti, nella distribuzione dei fondi fra gli enti lirici si è continuato a favorire, coi ripianamento automatico di ogni deficit, quelli che più avevano speso in passato e si erano, quindi, più indebitati, penalizzando implicitamente gli enti che avevano moderato le spese. Sta di fatto che qualunque sia la cifra destinata (e versata) agli enti lirici, questi dichiarano sempre, come in un ritornello fisso, che questa « basta appena per pagare gli stipendi ». Non 'si stenta a crederlo: sono proprio gli au138

menti degli stipendi. che hanno suscitato le critiche più severe della Corte dei conti nelle sue annuali relazioni sugli enti lirici. Ma non sono soltanto gli stipendi del personale di questi enti a determinarne i perenni dissesti finanziari ma anche i compensi da favola offerti a cantanti,. registi e direttori d'orchestra, nonché le spese iperboliche per allestimenti scenici faraonici, frutto - per lo più - della megalomania di registi tanto lottizzati quanto, spesso, privi di talento. Tirando le somme di tutte queste « grandezze » si è dimostrato - conti alla mano - che ogni biglietto di ingresso all'opera lirica viene pagato per circa l'83. per cento dallo Stato (e dagli Enti locali) e solo per il 17 per cento dagli spettatori In questo immane rogo di pubbliche risorse, naturalmente, le ragioni della produzione di cultura musicale c'entrano assai poco. E' stato recentemente ricordato da Enrico Cavallotti (« Il Tempo » 10 ottobre 1988) che, a differenza di quel che fanno gli enti lirici italiani, « sono impegolati in fortissime spese non già per i costi degli spettacoli ma per l'ingente volume dei costi di gestione. Le masse artistiche e burocratiche impegnate nell'attività degli enti sono innumeri ». Egli osserva ancora: « i teatri tedeschi possono permettersi una produzione rilevantissima per due ragioni. La prima è che godono d'un repertorio. Per allestite un'opera popolare impiegano pochi giorni, giacché l'orchestra ed il coro la conoscono, i cantanti fanno parte della compagnia stabile (abituata a cantada), la messa in scena Z. la medesima che il teatro utilizza da .nni. Poche prove,


dunque, e via. Da noi invece, non esiste repertorio. Ogni titolo, ogni allestimento diventa un'impresa: una fatica sisifea. Necessitano giorni e giorni di prova, che bloccano il teatro e la sua attività. L'orchestra, il coro debbono studiare le parti, impararle, aggiustarle seppur vagamente le rimemorano nei casi più noti. La seconda ragione è che il pubblico tedesco da questi allestimenti per solito non pretende (né lo potrebbe) esiti straordinari: s'accontenta d'una dignitosa od anche bigia routine: a teatro va per godersi la musica; non già com'è da noi, per estasiarsi della sommaugola che gorgheggia a fior di milioni, del celeberrimo regista che inventa mirabolanti soluzioni sceniche a fior di milioni, della carismatica bacchetta che ogni nota diretta ci costa fior di milioni ».

TEATRO DI PROSA: UN «BOOM» SENZA SPETTATORI?

Nel teatro di prosa bisogna distinguere nettamente i teatri stabili a gestione pubblica dal teatro privato. A proposito dei primi si possono richiamare le osservazioni fatte in relazione agli enti lirici, ai quali i teatri stabili tendono sempre più ad assomigliare. Quanto al teatro privato, va fatta una ulteriore distinzione fra il teatro cosiddetto primario, cioè quello « ricco », che si svolge nei teatri maggiori delle grandi città e che, con i nuovi aumenti di sovvenzione, è diventato ricchissimo: paradossalmente questo teatro, che potrebbe camminare benissimo con le proprie gambe perché incontra un cospicuo successo di pubblico è quello che meno avrebbe bisogno del sostegno statale, an-

che se è quello ,-che, per il livello qualitativo degli spettacoli, più lo merita. L'altro teatro, invece, che comprende quello sperimentale, di « avanguardia » o di ricerca e che alcuni chiamano, in contrapposizione all'altro, teatro « povero », da quando le sovvenzioni si sono ingigantite in base alla legge-madre, è restato povero solo di spettatori ma non, certo, di danaro. Infatti lo strepitoso aumento dei fondi da assegnare ha permesso, in pratica, di allargare a tal punto i cordoni della borsa, che i teatri hanno proliferato, diventando assai più numerosi di qualche anno fa, anche per effetto delle precedenti « leggi-ponte » che si muovevano in una identica ottica assistenziale ed è aumentato, altresì, il numero degli spettacoli: basta leggere il nutriissimo elenco dei teatri in funzione in un qualsiasi quotidiano di Roma o di Milano. Non così, però, gli spettatori. Dal che si deduce che, nell'economia teatrale, il ruolo, delle sovvenzioni statali sia diventato, ormai, preminente rispetto a quello degli incassi, e quindi del pubblico pagante. Le compagnie, in altri termini, almeno quelle minori, riescono a partire già abbondantemente « coperte » dalle sovvenzioni che è dato prevedere, indipendentemente, o quasi, dagli incassi e, quindi, dalla risposta del pubblico. Effetti para dossali di una disponibilità di fondi statali che si sta rivelando eccessiva e che provoca curiosi paradossi e assurde « distorsioni » nel mercato. Abbiamo, infatti, una selva di piccoli teatri, talvolta sorti in vecchi locali di vario genere adattati a sala teatrale, i quali operano unicamente in funzione delle sovvenzioni, che ricevono in quantità tale da poter vivere, in teoria, an139


che senza• pubblico. Nei casi limite si possono avere compagnie formate da attori principianti o sprovveduti, che recitano in sale teatrali improvvisate davanti ad un pubblico inesistente, ma che, alla fine, prendono dallo Stato soldi veri, con i quali « tirano avanti » in qualche modo. Se poi qualche (malcapitato) spettatore entra, pagando anche il biglietto, ciò rappresenta un insperato, ma sempre gradito guadagno in più. L'importante è che le recite avvengano, tanto per « fare borderò », come si dice in gergo, ossia per avere la certificazione della SIÀE che la recita è avvenuta e chè, quindi, potrà essere «presentata » nella prescritta documentazione diretta ad ottenere le sovvenzioni ed i premi ministeriali.

FESTIVAL E FESTIVALINI

Altra destinazione discutibile dei nuovi fondi è quella di manifestazioni di tipo festivaliero e/o mondano, sempre più numerose, molte delle quali inutili e spesso costosissime, ma che vengono finanziate non tanto per una loro definita funzione culturalé, ma solo perché i fondi non mancano, anzi sovrabbondano e bisogna, in quakhe modo, spenderli, possibilmente prima che finisca l'anno finanziario. Rilevano, infatti, alcuni osservatori maliziosi, ma amanti delle statistiche, che proprio nel mese di dicembre si affollano particolarmente manifestazioni e convegni che « debbono» svolgersi assolutamente entro l'anno, per fruire dei fondi residui, prima che arrivi la nuova valanga di miliardi da « consumare » l'anno dopo. A parte gli innumerevoli convegni di 140

studio (alcuni dei quali vertono - peraltro - su argomenti abbondantemente sfruttati come, ad esempio, la sempiterna « crisi del cinema »), si tratta di manifestazioni nelle quali la gente dello spettacolo auto-celebra i propri fasti (reali o presunti), consegnando solennemente a se stessa premi, nastri, targhe, coppe e diplomi. Spesso la stessa possibilità di finanziare simili manifestazioni sti. mola (e talvolta scatena) la fantasia (ma anche le ambizioni e il protagonismo) dei vari Assessori alla cultura di Regioni e Comuni, che si prodigano nell'or. ganizzare tutte queste manifestazioni creando, talvolta, duplicazioni e sovrapposizioni di interventi finanziari difficilmente giustificabili, neppure sotto il profilo, sempre un po' vago, del « ritorno di immagine ». Del resto, la lista aggiornata delle manifestazioni ammesse a « fruire » di qùesti fondi, che un giornale si è divertito a pubblicare, si rivela così nutrita (e, in certi casi, sbalorditiva), da presentare anche aspètti umoristici quasi irresistibili.

I CORTOMETRAGGI: PREMIATISSIMI MA IRREPERIBILI

Chiunque sia spettatore, anche occasionale, di cinema avrà osservato che i cortometraggi costituiscono, ormai, una specie cinematografica in via di estinzione, magari da segnalare all'attenzione e alle cure del WWF: sono anni, infatti, che non se ne vedono più. Pochi sanno, però, che apposite e benevole Commissioni ministeriali continuano « regolarmente » a distribuire numerosi premi di qualità (120 l'anno per l'esattezza), che la vecchia (ma tuttora


vigente) legge 4 novembre 1965 n. 1213 sulla cinematografia mette in palio: ogni trimestre, due premi da 10 milioni, otto da 7 milioni e venti da 5 milioni e mezzo ciascuno (art. 11). Questa spesa, dovrebbe sembrare ovvio, ha un senso in quanto i cortometraggi circolino, poi effettivamente nel mercato e vengano, in qualche modo, visti da qualcuno. Ma questo, come tutti' possiamo constatare, non accade. Avviene, invece, che questi cortometraggi abbiano solo pochi minuti di vita: quando vengono proiettati nei sotterranei di via della Ferratella (sede del Ministero del turismo e dello spettacolo) al cospetto della competente Commissione e vengono da questa visionati e, poi, ammessi ai premi. Ma muoiono lì, senza più vedere la luce. I loro cadaveri, diligentemente imbobinati e inscatolati, passano pari pari nei costosi cellari climatizzati della Cineteca nazionale del Centro sperimentale di cinematografia a via Tuscolana, dove li attende il sonno eterno. Nessuno li vedrà mai proiettati nei cinematografi. La cosa più singolare è che la vigente legge 1213 sulla cinematografia (art. 13) impone agli esercenti il preciso obbligo di proiettare i cortometraggi premiati per almeno 45 giorni a trimestre, comminando 'anche adeguate sanzioni a carico dei trasgressori. Ma il nostro, si sa, è uno Stato che trova sì la forza di pagare (magari in ritardo) premi, contributi e sovvenzioni, ma non quella di imporre ai riottosi il rispetto di un obbligo di legge, anche se a quei premi funzionalmente collegato. Forse è difficile immaginare un esempio di spesa pubblica a « produttività zero » più convincente di questo.

Dopo la legge-madre, però, il Ministero si è occupato anche di questa faccenda. Per imporre, forse, il rispetto della legge violata? Neppure per sogno. Ma per triplicare, dall'oggi al domani, gli importi dei premi, che passerebbero, così, a 30 milioni, 21 milioni e 16 milioni e mezzo, senza nulla modificare, però, del meccanismo che ha cessato da un pezzo di funzionare. Con questa « soluzione », suggerita con tutta evidenza dalla sterminata disponibilità di fondi creata dalla legge-madre, i produttori di cortometraggi saranno, certamente, soddisfattissimi, ma i cortometraggi continueranno a non circolare. Come se non bastasse, questo inopinato aumento è stato « disposto» dal Ministero con un semplice decreto ministeriale, che però introduce, con tutta evidenza, una modifica dell'attuale (e vigente) legge 4 novembre 1965, n. 1213, la quale stabiliva (art. 11) i premi di qualità dell'importo sopra precisato.

UN P0' DI FOLKLORE: LE SOVVENZIONI ALLE LUCI ROSSE

A proposito di '(s)qualificazione della spesa pubblica, l'esempio più persuasivo che si possa fare riguarda le sovvenzioni statali che l'Italia, unico Paese al mondo, elargisce spensieratamente anche a quei templi dell'arte e della cultura che sono i cosiddetti cinema « a luci rosse'». 'Si tratta, in realtà, di locali sostanzialmente sottratti alla loro originaria destinazione di sale cinematografiche. Quelli che vi si proiettano, infatti, tutto sono fuorché « opere cinematografiche » nel vero senso della parola, tanto che lEI


non vengono neppure individuati con un loro titolo, ma menzionati nei giornali cori la semplice dizione di « film per adulti» né vengono considerati in alcun modo dalla critica. Questi « materiali» cinematografici sono, nella migliore delle ipotesi, dei non-film e, nella peggiore, corpi di reato ai sensi degli artt. 528 e 529 del codice penale. Ora, poiché l'orgia di pubblico danaro propiziata dalla legge:madre si sta consumando in nome della cultura e dell'arte, il pubblico sovvenzionamento dei cinema a luci rosse, le cui benemerenze artistico-culturali sono note a tutti, va guardato con particolare attenzione. Si prescinde, naturalmente, da ogni scrupolo di tipo moralistico (che potrebbe non essere da tutti condiviso), ma è difficile immaginare qualcosa di più sideralmente lontano dal concetto di « bene culturale» di un film pomo. Eppure, con il meccanismo di cui si dirà, una parte, sia pure non rilevante, delle risorse della legge-madre vanno ad allietare anche i gestori di questi « locali », che dispiace perfino chiamare cinematografi. Non che il problema non sia stato avvertito, almeno in Senato, dai nostri bravi legislatori, ma, per ovviare allo scandaloso inconveniente che si profilava e cercare di escludere da finanziamenti agevolati e « contributi» a fondo perduto i gestori delle sale a luci rosse, prima si escogitò in Senato una formulazione del tutto incongrua ed infelice che colpiva », inopinatamente, anche incolpevoli film stranieri, ma - poi - non si seppe o non si volle trovare il tempo di approfondire la questione. Alla Camera, nell'intento di « correggere » l'errore del Senato, si finì col ricorrere ad un'esclusione che in realtà non esclude-

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va nessuno, cioè ad una norma che, in pratica, ammetteva tutti i cinematografi a fruire, nel caso di lavori di ristrutturazione, ammodernamento, abbellimento, ecc. di finanziamenti agevolati o, in alternativa, di contributi a fondo perduto . (cfr. art. 14). Un'esclusione ben formulata e ben « mirata » avrebbe richiesto, infatti, un minimo di tempo e di riflessione e, quindi, un supplemento di dibattito parlamentare e, forse, un esame in aula del provvedimento tutte cose che non avrebbero consentito quell'approvazione frettolosa, arrendevole, acritica, insomma cieca che le categorie interessate reclamavano e che, immancabilmente e puntualmente, ottennero (ventiquattr'ore prima che il Senato chiudesse i battenti per le amministrative del maggio '85). Così gli Italiani si sono risvegliati, all'alba del 5 maggio 1985, involontari sovventori dei cinema a luce rossa. Se, infatti, il gestore di uno di questi cinema decide di rinnovare le imbottiture delle sue poltrone o di migliorare la resa luminosa dello schermo o di introdurre più sofisticati sistemi di sonoro, lo Stato interviene, accollandosi una parte non indifferente della spesa relativa. Non c'è male come « qualificazione della spesa pubblica », sempre per ricorrere ad un'espressione che, •in questo caso, appare, oltre che retorica, anche francamente umoristica.

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CONTROLLI « DRIBBLATI»

Tra l'altro, come già abbiamo rilevato, buona parte di questo fiume di danaro riesce ad evitare i normali controlli amministrativi: sia quello della Ragioner.ia


centrale operante presso il Ministero del turismo e dello spettacolo, sia il control• lo « esterno » di legittimità della Corte dei' conti. Riprendiamo un momento il tema. Prendiamo, ad esempio, i 500 miliardi' che, nel triennio '85-'87, sono andati a favore della cinematografia. Sempre per disposizione della legge-madre, il 60% delle somme stanziate è andato ad alimentare rispettivamente, in quote uguali del 30 per cento ciascuna, il «fondo di sostegno » e il « fondo di intervento » istituiti presso la Sezione Autonoma del Credito Cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro. Questi vengono utilizzati, su domanda degli interessati (produttori, distributori, esercenti) e su parere di un « Comitato per il credito cinematografico » nel quale le stesse categorie beneficiarie sono largamente rappresentate, sia quando si tratta di concedere crediti, sia quando si tratta di erogare « contributi » a fondo perduto. Questi ultimi risultano, naturalmente, di gran lunga, i preferiti da parte dei beneficiari, anche perché non comportano il fastidio della restituzione 4 Ma nell'uno e nell'altro caso non vi sono controlli, successivi. Avviene così 'il paradosso che alla Corte vengono inviati, per il controllo di legittimità, i mandati relativi ai contributi percentuali che spettano ai produttori di film nazionali nella misura del 13% degli incassi lordi realizzati sul mercato interno (in base all'art. 7 della legge 4 novembre 1965 n. 1213), mandati che, dopo che il film ha esaurito i primi anni di programmazione, ammontano anche a poche migliaia di lire5 , mentre le decine o centinaia di milioni erogati attraverso i « fondi » isti.

tuiti presso la Banca del Lavoro « passano » senza colpo ferire e senza che la Corte dei conti sia chiamata' a pronunciarsi, non diciamo sulla loro congruità, ma nemmeno sulla loro legittimità.

FRA LE NOVITA' DELLA LEGGE-MADRE: IL TAX-SHELTER ALL'ITALIANA La vera grossa novità di carattere propriamente normativo introdotta dalla legge-madre è costituita da una sorta di « tax-shelter » a favore delle varie atti% vità di spettacolo (art. 7). A tradurre letteralmente dall'inglese, si tratterebbe di un « riparo dalle imposte » ma, per venire al caso concreto viene concessa un'esenzione fiscale quasi strepitosa (fino al 70%) dell'IRPEF, dell'IRPEG e dell'ILoR da applicare agli utili delle imprese di spettacolo che siano reinvestiti negli stessi settori di attività (produzione di nuovi film o telefilm, ristrutturazione di sale cinematografiche o teatrali, produzione di ' spettacoli musicali, teatrali, circensi ecc.). Tax-shelter, innanzitutto, « suona bene »: sa di Economist e di Harvard, di Silicon Valley e di deregalation, tutte cose maledettamente alla moda, che hanno (fatalmente) acceso la fantasia dei suggeritori del nostro legislatore. Non per nulla l'istituto ha trovato le sue applicazioni più note, non, senza qualche inconveniente, per la verità, negli Stati Uniti e in Canada (e, in certa misura, in Germania) sempre con il fine dichiarato di favorire e stimolare il finanziamento, con risorse private, di università, istituti di ricerca, ospedali, fondazioni culturali, istituzioni di assistenza e beneficenza, ecc. In Italia viene, ora, stabili143


to a favore di tutte le attività di spettacolo, partendo ovviamente dalla assiomatica equazione « spettacolo=cultura ». A dire il vero, il tax-shelter, essendo diretto ad incoraggiare l'afflusso di capitali dai più disparati settori economici verso attività di rilevante (e prevalente) interesse sociale, consisterebbe, propriamente, nel diritto di detrarre questi particolarissimi « investimenti » dai redditi imponibili: ma tale norma, prevista nell'originario progetto ministeriale, venne poi accantonata in sede di Consiglio dei Ministri, con riserva di reintrodurla in occasione delle future « leggi-figlie ». L'esenzione resta dunque limitata, almeno per ora, ai soli reinvestimenti, cioè ai capitali provenienti dalle stesse attività di spettacolo, nonché ad eventuali « erogazioni liberali ». Non che l'idea di un tax-shelter, sia pure « all'italiana » come quello introdotto dalla legge-madre, sia da respingere a priori, ma sarebbe più accettabile se fosse prevista in sostituzione (e non in aggiunta) alle vecchie disposizioni di aiuto, le quali, invece, nei vari settori dello spettacolo, continueranno tutte ad operare indefinitamente nel tempo. Nel caso concreto, insomma, questa « evasione legale » dai tributi non rappresenta che un ulteriore e ingiustificato privilegio in favore di attività già letteralmente imbottite di pubbliche sovvenzioni. D'altra parte, questo inedito « privilegio fiscale », istituito proprio quando si sta cercando, almeno a parole, di realizzare nel nostro Paese una maggiore giustizia tributaria fra le varie categorie di contribuenti, rappresenta, in sostanza, una nota stonata. Tanto più che per le entrate tributarie vale il principio dei « vasi comunicanti », in base al quale qual144

siasi privilegio fiscale accordato ad una categoria costringe in pratica le altre, tutte le altre, a pagare di più. Un'ultima osservazione; il tax-shelter presuppone, per funzionare senza eccessivi danni per l'erario, un'amministrazione finanziaria estremamente agguerrita, capace di scoprire e fronteggiare tutti i sofisticati sistemi e gli infiniti trucchi che possono essere escogitati dagli interessati per fruire indebitamente (o oltre misura) del beneficio previsto. Si tratta di espedienti di diffiilissima individuazione, se perfino il fisco americano, con tutta la sua proverbiale efficienza, si è trovato, per questo, in grosse difficol tà. Ma cosa potrà succedere in Italia con una pubblica amministrazione come la nostra? Anche senza essere indovini o maghi della finanza, abbiamc5, da comuni mortali, abbastanza fantasia per immaginarlo.

I

PRECEDENTI LEGISLATIVI:

LE LEGGI PONTE.E LE LEGGI «DI RACCORDO»

Va detto che la legge-madre (30 aprile 1985, n. 163) non è venuta allà luce come un fatto isolato, senza un'adeguata «preparazione » e senza qualche significativo antecedente legislativo. Anzi, viste con il senno di poi, le leggi di cui si sta per parlare rappresentano una sorta di « prove generali» di quel costoso monumento all'assistenzialismo che sarebbe, poi, stata la legge-madre. Nel 1982, sotto la rassicurante etichetta di « interventi straordinari a favore delle attività dello spettacolo », il Ministero del turismo stese un progetto di legge che erogava ben 269 miliardi (ovvia-


mente aggiuntivi rispetto alle normali sovvenzioni) a favore dello spettacolo. Il progetto nacque, per la verità, come una sorta di « libro dei sogni », nel quale ogni categoria fu invitata ad iriscrivere i propri desiderata e fu spedito in Parlamento senza troppe « speranze ». Senonchè il progetto cominciò, inopinatamente, a « camminare », fino a tramutarsi, fra lo stupore e l'incredulità degli stessi interessati, nella legge n. 43 del 1982, subito battezzata « legge-ponte ». Inutile dire che il tripudio del mondo del cinema, del teatro e delle attività lirico-musicali fu immenso tanto da debordare sulle pagine dei quotidiani con commenti, dichiarazioni e interviste. La cosa si può capire: al posto delle riforme, sempre un po' misteriose, un po' fastidiose, un po' minacciose, erano in arrivo tanti miliardi per tutti (milioni per i meno fortunati). Visto il successo di pubblico e di critica, il competente Ministero, ideatore e promotore di questa prima iniziativa, non poteva resistere alla tentazione delle repliche. Di qui un nuovo progetto, fatto ad immagine e somiglianza della prima legge-ponte ». Originariamente concepito per il solo 1983, fu poi esteso al 1984 con rapido colpo di mano e conseguente emendamento .aggiuntivo e con «ovvio» raddoppio degli stanziamenti. A farla breve, anche il nuovo testo, varato quasi in extremis a Montecitorio, piombato nelle ultime ore della legislatura a Palazzo Madama, dove i senatori avranno avuto il tempo di leggere sì e no la copertina, divenne, a tempo di record, legge dello Stato (10 maggio 1983 1 n. 182). Naturalmente fu subito ribattezzata nei giornali di categoria, con sforzo di fantasia veramente modico,

legge-ponte bis ». L'esultanza (comprensibilissima) per questo nuovo, biennale flussò di miliardi finì col propiziare, a far tempo da allora, una sorta di tacita intesa, con conseguente « gioco delle parti », fra potere politico e categorie interessate, nel senso di rinviare alle calende greche le riforme (troppo difficili, troppo litigiose e fors'anche « impopolari »), mentre il mondo dello spettacolo fingeva di indignarsi per il ritardo, ben lieto però di « accontentarsi » di 260 miliardi l'anno, magari debitamente « indicizzati » per l'avvenire. D'altra parte i prcvvedimenti ponte per lo spettacolo stavano già perdendo il loro carattere « straordinario », per dive. nire periodici, ricorrenti e, quindi, più che « normali ». Anzi, prima ancora che. terminasse la biennale pioggia di danaro della seccinda legge ponte, il mondo dello spettacolo riuscì ad ottenere addirittura un terzetto di leggi, chiamate, chissà perché, « di raccordo », ancora più straordinarie ed eccezionali delle altre. Ci si riferisce alle leggi n. 311, 312 e 313, tutte promulgate il 13 luglio 1984 e pubblicate sulla stessa Gazzetta ufficiale (del 17 luglio), le quali disponevano, incredibilmente, interventi « integrativi » per un totale.di altri 465 miliardi. Se si pensa che nella seconda metà dell'anno 1984 già erano in atto le « grandi manovre » in sede politica per preparare il colpo grosso della legge madre, si ha un quadro più preciso della « frenesia legislativa o di quel periodo. Tutti questi accadimenti si prestano ad un 'osservazione di carattere generale. Sappiamo bene che esistono riforme costose e riforme che non costano nulla. E sappiamo anche della dissennata, ma invincibile predilezione della nostra clas. I 45


se politica per le riforme che costano, anzi per quelle che costano di più. Il fatto nuovo è che nel falso dilemma tra le riforme che costano e quelle che non costano si è insinuata una «terza via »: quella. dei costi (diciamo meglio: delle erogazioni in contanti) senza le ri/orme. Governo e Parlamento, insomma, tendono ormai a preferire alla vera e propria attività di legislazione la pura e semplice elargizione: al travaglio delle riforme, sempre preannunziate e sistematicamente rinviate, la facilità (e la « popolarità ») dei versamenti a pioggia, in ban.conotc.

LE « PROIEZIONI» DELLA LEGGE-MADRE

La « finanziaria » 1988 prevede inopinatamente, nonostante l'esperienza pressoché fallimentare della legge-madre del 1985 n. 163, un pingue rifinanziamento triennale del Fondo unico per lo spettacolo istituito, appunto, da quella legge: ben 897 miliardi per il 1988, 943 miliardi per il 1989 e 991 miliardi per il 1990, per un totale di 2.831 miliardi in tre anni e con un aumento, rispetto al precedente triennio, del 38%, addirittura superiore, 'e di molto, al prevedibile tasso d'inflazione. Di fronte a queste altre tre valanghe di banconote in arrivo, il Ministero erogatore sarà occupato a tempo pieno, per altri tre anni, nel distribuirle in qualche modo agli interessati e le categorie economiche dello spettacolo saranno occupate, con non minore impegno, nel « deglutirle ». Questa prosecuzione delle prodigalità statali nei riguardi dello spettacolo, prevista nello stesso testo governativo, è 146

« pàssata » alla Camera, nella seduta del 2 febbraio, per soli sei voti. Anche in questa occasione ci sono stati, evidentemente, dei /ranchi tiratori dissenzienti, i quali però, data l'assurdità di queste elargizioni, meriterebbero il (più rispettoso) appellativò di « tiratori franchi ». Comunque, per uiia volta che questi deputati, in disaccordo con la linea dell'a maggioranza, avevano visto giusto ed avevano votato, forse, «secondo coscienza'», non sono stati abbastanza numerosi per scongiurare il nuovo « misfatto» legislativo-finanziario. Questi recenti accadimenti della finanziaria '88 avranno come conseguenza di prolungare questa specifica emorragia di pubblico danaro, agravandola notevolmente, fino a tutto il. 1990'.

UN «COLPEVOLE» DI COMODO: LA TELEVISIONE DEREGOLATA

Non è detto che la progressiva, inusitata prodigalità dello Stato nel campo dello spettacolo non abbia qualche relazione con gli scossoni che lo spettacolo (ma in particolare l'esercizio cinematografico) ha registrato a seguito dell'irrompere sulla scena della emittenza televisiva privata. La cosiddetta « deregulation» (che, poi, in Italia è stata interpretata ed attuata nel senso della « sregolatezza ») ha determinato, sia pure metaforicamente, morti e feriti. Governo e Parlamento, piuttosto cbe impedire o contenere questi danni, 'hanno preferito, per non disturbare alcuni nuovi potentati economici, cercare dei rimedi « a valle » e non a monte. In altri termini si è preferito curare le ferite e, all'occorrenza, organizzare funerali di lusso, piuttosto che


impedire certe « sopraffazioni ». Di qui il fiume di miliardi erogato per lenire le « sofferenze », reali o presunte, del mondo dello spettacolo di fronte alla nuova, irresistibile invadenza televisiva. Che, insomrna, i 1.271 miliardi delle due leggi-ponte e delle tre leggi « di raccordo » del periodo 1982-84, i duemila miliardi del primo triennio della legge-madre dell'aprile 1985 e, ora, i 2.800 e più di « rifinanziamento » per il triennio 1988-90 rappresentino una sorta di «equo indennizzo » per lo spettacolo e quindi, per lo Stato, un « costo indotto» (o indiretto) della mancata regolamentazione dell'etere, ossia della politica della « antenna selvaggia » che, da noi, s'è voluta chiamare col nome accattivante e anglofono di «deregulation »? In questo caso le prodigalità delle varie leggi « di emergenza » a favore dello spettacolo e, poi, della legge-madre e dei suoi prolungamenti nel tempo non rappresenterebbe altro che il « costo », addossato, ovviamente, alla comunità nazionale, dell'ormai acclarata incapacità della classe politica di dare all'attività radio-televisiva la tanto attesa « legge di sistema »>. Che la legge-madre abbia, dunque, remote (e non sospettabili) origini e giustificazioni televisive? Ecco un tema affascinante di ricerca.

LEI FIGLIE, ADDIO

Certamente, la conseguenza più grave della legge-madre (e delle sue « proiezioni » future) nei divetsi settori dello spettacolo è che le riforme « organiche », tanto necessarie e tanto spesso invocate, si allontanino indefinitamente nel

tempo. Con tutto quel danaro pubblico a disposizione e con la prospettiva di riceverne altrettanto ogni anno e senza limiti di tempo, le varie categorie interessate non hanno più alcun motivo di sollecitarle. Chi mai, infatti, avrà tempo e voglia e, soprattutto, interesse a smuovere l'aureo status quo, a « razionalizzare» e a meglio « mirare » l'intervento statale in questo settore, cimentandosi in inedite leggi di riforma? Prendiamo ad esempio il cinema, sul quale pioverà il 25% di tutto questo danaro, in omaggio alla (cervellotica) percentiale di •riparto a suo temp fissata dalla legge-madre. Si è trattato di ben 500 miliardi nel primo triennio di applicazione, ai quali si aggiungeranno gli oltre 700 miliardi del triennio appena cominciato. E' più di quanto potrebbe « dare » al settore 'anche la più ambiziosa e costosa delle riforme legislative. E dunque la legge sul cinema non si farà. Il meccanismo « psicologico » è assai semplice da spiegare: il doppio ordine di sovvenzioni, quello « ordinario » della legge 4 novembre 1965 n. 1213 e quello « straordinario » della legge-madre, ha reso estremamente conveniente, per le categorie economiche interessate, il mantenimento della situazione attuale, caratterizzata da leggi vecchie (arrugginite ed obsolete finché si vuole, ma ormai « addomesticate » e servizievoli quanto basta) e fondi sempre nuovi (in quantità mai vista in passatò). A ben vedere, infatti, la « filosofia » della legge-madre era, ed è, quella di anticipare in contanti direttamente nelle mani delle categorie interessate il costo delle eventuali future leggi di riforma. Ma, per chi ne beneficia, è meglio rice147


vere i quattrini delle riforme piuttosto che le riforme medesime. L'ormai 'acquisito finanziamento accrescimento per altri tre anni 'del « fondo unico dello spettacolo» avvia le erogazioni della legge madre verso un oriz-

zonte lontano e suona come conferma dell'esattezza della previsione, fatta da qualcuno al momento dell'infausta approvazione della legge madre in Parlamento, che le leggi figlie non sarebbero venute mai.

Note

art. 16, il giorno successivo alla sua pubblicazione. Ed è .proprio questo impiego « alternativo» dei fondi delle varie sezioni autonome istituite .presso la B.N.L. .per le esigenze dello spettacolo che determina l'uso distorto o « improprio» delle risorse date in dotazione alla Banca, uso che - peraltro - diviene assolutamente prevalente rispetto alle normali operazioni di credito o di finanziamento. Ed è questa, forse, la ragione della perenne « necessità » di questi fondi - concepiti in origine come fondi « di rotazione » - di essere alimentati con sempre nuove risorse, cui corrispondono gli opulenti stanziamenti della legge-madre, indefiniti nel tempo. Ma questo significa anche ado.perare i fondi finalizzati al credito (ossia ad investimenti produttivi) per esborsi che sono, in realtà, semplici sovvenzioni, più o meno «a .pioggia ». Non preoccupa tanto lo snaturamento della funzione della Banca e delle sezioni autonome (semplici « agenti pagatori » del Ministero dello Spettacolo e non 'più «banchieri » che esercitano il credito), quanto la « f'uoriuscita » incontrollata di risorse statali, senza che né la Ragioneria ,centrale del Tesoro presso il 'Ministero «erogatore », né - tanto meno - la Corte dei conti possano esercitare' alcun controllo di legittimità.

L'enormità di queste cifre , risulta pii evidente se si raffrontano con quelle delle sovvenzio•ni « ordinarie » previste dalle singole leggi di settore tuttora vigenti: 60-70 miliardi, l'anno .per gli enti lirici e le istituzioni concertistiche assimilate, una trentina di miliardi per il cinema e una ventina per il teatro di prosa. Queste cif're, peraltro, erano state raggiunte, nel corso degli anni, in forza di meccanismi di « indicizzazione automatica » 'previsti nelle singole norme di aiuto: basti pensare alle sovvenzioni commisurate ad una percentuale degli incassi lordi degli spettacoli (cinematografici e teatrali), le quali, ovviamente, si sono adeguate all'aumento dei 'prezzi senza bisogno di alcun 'intervento legislativo. Prima dell'irruzione sulla scena della legislazione cosiddetta d'emergenza, o « straordinaria », l'impegno finanziario complessivo dello Stato a favore dello spettacolo superava di poco - fino al 1981 compreso i cento miliardi l'anno. 2

Si tratta, per l'esattezza, di ben undici leggi, tante quante ne sono richiamate dall'art. 15 della stessa leggemadre, dove viene precisato che le somme stanziate o da stanziare () in forza di quelle leggi «confluiscono » nel Fondo unico per lo spettacolo (istituito - appunto - dalla stessa leggemadre), unitamente ai 600 miliardi « freschi » previsti per il 1985, primo anno di applicazione della nuova legge, che ne costituiscono, da quel momento, il massimo « affluente », secondo il crescendo rossiniano di cui s'è detto. La legge 30 aprile 1985 n. 163 - detta legge-madre 'per lo spettacolo - 'è uscita sulla Gazzetta Ufficiale n. 104 del 4 maggio ed, è entrata in vigore, giusta statuizione del suo 148

L'estensore di questa nota, che è stato, per un certo tempo, magistrato della Corte dei conti addetto all'ufficio di controllo 'sugli atti del Ministero del turismo e dello spettacolo, ricorda di aver dovu'to esaminare, siglare e, 'quindi, proporre al visto di legittimità e alla conseguente registrazione 'mandati di pagamento, ad es., di 320 lire (diconsi trecentoventi lire). Si trattava di pagamenti a favore di co-autori dei film nazionali, ai quali, spetta (v. art. 7 della


legge 4 novembre 1965 n. 1213) un « contributo » pari allo 0,40% degli incassi lordi realizzati dal film, bimestralmente accertati dalla S.I.A.E.: spesso pagamenti di questo tipo davano luogo a mandati di. importo inferiore alle mille lire! Ciò che si voleva rilevare è che, mentre spese così irrisorie « passano » per tutti i controlli previsti dalla legge, le decine di miliardi erogati per « contributi » a fondo perduto attraverso la B.N.L. ne vanno, di fatto, esenti. Il carattere eccessivo e s-propositato delle somme erogate in base alla legge-madre e, d'ora in poi, delle ulteriori ed accresciu-te risorse predisposte nella legge' finanziaria 1988 per il susseguente triennio risulta tanto più evidente ove si consideri che la maggior parte di tutto que. sto denaro è destinata o a « sanare » istituzioni debitorie pregresse (come nel caso degli enti lirici), per cui, una volta raggiunto lo scopo del « ripiano » del deficit, dovrebbe - venir mene la necessità di continuare ad erogar-le mdcfinitarnente nel tempo; oppure va ad alimentare gli appositi « fondi speciali » istituiti presso la Banca Nazionale del Lavoro, i quali hanno carattere di « fondi di rotazione ,>: anche in questo caso, come è evidente, una volta « dotato» o « ridotato» il fondo secondo le -prevedibili esigenze del credito, le sommé dovrebbero, appunto, « ruotare» e, quindi, prima o poi, cominciare anche a rientrare nel fondo, rendendo superflua una aggiunta annuale di sempre nuove risorse.- Ma tali elementari considerazioni non sembra siano state tenute presenti dal Parlamento nell'esaminare il testo della legge-madre, -ma 'neppure in occasione delle -varie leggi finanziarie approvate a t.utt'oggi e, meno che mai, -nelle pur lunghe, defatiganti e verbose discussioni della finanziaria '88, conclusesi con l'inopinata « programmazione» di u-n nuovo

triennale olocausto di 2.831 miliardi. Questa specie di « cecità collettiva », colpisce, in ge-nera-le, tutti i partiti 'politici, di maggioranza e di opposizione, grandi e piccoli, compresi quelli che si auto-proclamano, a parole, « cani da guardia della spesa 'pubblica ». Nella legge finanziaria 1989 ora all'esame del Parlamento è indicata la previsione di spesa anc-he per il 1991, nella misura di ben 1.041 miliardi. Ci sarebbe da segnalare, contestualmente, un timido segno di resipiscenza, dato dall'introduzione di tre « tagli » alla spesa: 100 miliardi per il 1989, 100 per il 1990 e 257 sulla cifra prevista per il 1991. Se non ché si tratta, a quanto risulta anche da dichiarazioni -ufficiali, di « tagli » più apparenti che reali, in quanto destinati ad essere abbondantemente « compensati » da altre concessioni '(soprattutto di natura fiscale) previste in uno dei provvedimenti « collegati » alla finanziaria, che ne vanificherebbero, sotto forma di mi'ìori entrate, ogni 'pratica incidenza sul deficit dello Stato. La nostrana ipertrofia della tv via etere co stit'uisce - è bene dirlo - -un colpevole « di comodo »: tutte -le attività di spettacolo, con la sola eccezione dell'esercizio cinematografico, hanno, infatti, tratto beneficio dallo sviluppo della televisione. Si può affermare, in proposito, che l'intero -mondo dello spettacolo sia stato colpito, -negli -ultimi dieci anni, -da « improvviso benessere » pubblicitario-televisivo. Anzi -poteva (e doveva) essere -proprio -questo il momento buono, la grande occasione da sempre attesa 'per liberare il mondo dello spettacolo dalle stampelle (e dalle bardature burocratiche) dell'assistenzialismo statale, come ad es. Sta avvenendo - e con successo - nel settore della carta stampata. Ma questo sarebbe, naturalmente, tutt'altro (é complicato) discorso.


La cultura del deficit di Lawrence J. Haas

Per i responsabili .politici alla Casa Bianca, in Congresso e nel settore privato, il disavanzo di bilancio è divenuto un problema cruciale, di proporzioni forse senza precedenti. Neppure coloro che sono soliti rivangare il passato, sono in grado di rijrdare una analoga situazione. Di fronte alla previsione di un bilancio restrittivo il prossimo anno e forse anche in quelli successivi, l'Appropriations Committee della Camera ha approvato, l'il maggio scorso, un progetto di legge per l'energia e l'acqua relativo all'esercizio finanziario 1989 che non prevede stanziamenti per la costruzione di nuove dighe o l'avvio di altri progetti. Una settimana dopo, esso veniva approvato dalla Camera. Ma non sono solo i nuovi progetti a scarseggiare in questi giorni. Adesso anche mantenere invariati gli stanziamenti per i vecchi progetti è divenuto più difficile. Le basi militari, forse le più intoccabili di tutte le « vacche sacre », potrebbero costituire la voce successiva nella lista dei tagli proposti. Per la prima volta in un decennio, il Congresso potrebbe essere pronto ad accettare che una nuova commissione, composta di membri scelti dal Segretario alla Difesa, Frank C. Carlucci III, decida quali basi sacrificare. Il denaro così risparmiato sarebbe probabilmente destinato ad alimentare i «readiness accounts » del Pentagono per i 150

quali sono previste severe limitazioni fiscali. Oltre a modificare la condotta politica, il deficit cambia la vita stessa di quanti fanno o influenzano la politica a Washington. E' vero che, in un certo senso, lé culture sono definite dai problemi che devono affrontare. Così per Washington, il deficit è divenuto un problema ossessivo, di dimensioni forse senza precedenti. Esso impone limitazioni, per non dire camicie di forza, ai responsabili della gestione politica della Casa Bianca, del Congresso e del settore privato; plasma la vita quotidiana dei legislatori; orienta le strategie dei lobbisti e ne limita le aspirazioni. La cosiddetta « cultura del deficit », sviluppatasi appunto intorno a questo problema, ha un carattere preciso, inequivocabile: sperimentale, difensivo, avaro, frustrato, triste. Questioni una volta affrontate con entusiasmo sono ora evitate, rimandate a data ulteriore o passate ad altri. I sostenitori- dei programmi esistenti rinunciano a proporre nuove idee per migliorarli, nel timore che le negoziazioni possano condurre a delle riduzioni degli stanziamenti. Ci si concentra soprattutto nella difesa dello status quo. Poiché gli interessi costituiti tendono a mantenere in vita i programmi, i policy makers lesinano e risparmiano su questioni marginali, effettuando tagli ovunque ciò


sia possibile. La teoria del « sacrificio comune », che emerge ogni qual volta ci si accinga ad una seria discussione sui sistemi per ridurre il disavanzo, significa in realtà il ricorso ad un approccio più meccanico, basato su formule, come ad esempio l'applicazione di riduzioni generali, secondo una percentuale prefissata. Ai nuovi programmi, se mai vengono approvati, sono destinate somme molto modeste, a volte appena sufficienti. Le modifiche fiscali sono soio marginali. « In passato, molti problemi sono emersi all'orizzonte» dice Stuart E. Eizenstat, principale consigliere del Presidente Carter per la politica interna, citando il problema energetico come esempio « hanno seguito il loro corso e sono stati risolti. Non posso pensare ad alcun altro problema, oltre al disavanzo di bilancio, altrettanto onnipresente e che abbia influenzato altrettanto intensamente tante altre questioni ». « In conseguenza di ciò », aggiunge ancora, « Washington è divenuta una città in cui tutti pensano alla stessa cosa, non vi è spazio per essere creativi ». Wendell Belew, che in passato ha ricoperto la carica di consigliere principale della Commissione bilancio della Camera, osserva che « il periodo compreso fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta è in realtà dominato da un'unica considerazione, una sorta di triste onnipresenza che incombe su un'intera gamma di questioni. Penso che anche in passato vi siano stati periodi in cui gravi problemi tendevano a dominare la scena politica; la questione dei diritti civili costituì, ad esempi, un problema dominante a Washington, la guerra del Vietnam ne è un altro esempio. Pure, è difficile trovare un periodo in cui un unico proble-

ma abbia dominato in modo così esclusivo ». Le origini di una cultura non sono mai facili da individuare. Per la cultura del deficit ciascuno propone un differente spartiacque, un punto di svolta nel decennio passato in coincidenza del quale il disavanzo iniziò ad influenzare la condotta dei funzionari di Washington come mai in passato; a causa di esso la città assunse un aspetto inusitato e la stessa vita dei cittadini si trasformò. Quale che sia la sua origine, quello del disavanzo è ora un problema fondamentale. I legislatori che una volta si vantavano di fare approvare nuovi programmi di spesa, ora ostentano la loro abilità nel ridurre i costi. Un gruppo bipartitico della Camera guidato da Timothy J. Penny, democratico, Minn., e Thomas J. Tauke, repubblicano, Iowa, ha fatto delle riduzioni al bilancio una sorta di crociata quotidiana, attaccando i progetti di stanziamento proposti. Il Senatore Phil Gramm, repubblicano del Texas, ha seguito pressoché la stessa condotta, redigendo prima e poi utilizzando, la complessa normativa del Balanced Budget Act 1985. Mentre in passato i partiti solevano discutere la manovra del deficit spending in base ad un'ottica politica, con i repubblicani ovviamente più preoccupati dei democratici, ora i loro messaggi differiscono appena. Come è stato osservato, non si può distinguere un discorso di un democratico da quello di un repubblicano, e ciò vale anche a livello presidenziale. Tutti i candidati si esprimono, anche se solo a parole, in favore di una riduzione del disavanzo, e perfino i più liberai, quali il democratico Jesse Jackson, stanno considerando fonti di finanziamento non federali quali i fondi pensione pubblici. 151


Il mutamento è profondo. La gente viene a Washington per realizzare, creare, innovare. Come gli anni di Reagan hanno dimostrato, attualmente i liberais e i conservalives si distinguono non per il fatto di chiedersi se la spesa governativa sia uno strumento legittimo di politica, ma solo per il diverso parere circa la sua destinazione: ci si chiede se essa debba servire alla spesa civile o a quella militare. In entrambi i casi, i programmi costano e, come ha fatto notare Tauke, il Congresso dispone fondamentalmente di tre strumenti di gestione politica: spendere, concedere sgravi fiscali e regolamentare. La possibilità di utilizzare i primi due è ora drasticamente ridotta, limitando il margine di manovra dei policy makers. Contemporaneamente, sono aumentate le pressioni sui legislatori. Costoro non solo sono presenti in comitati e sottocomitati in numero pressoché invariato rispetto al periodo in cui il denaro affluiva senza problemi, ma addiirttura dispongono di un personale, « giovane e agguerrito », più numeroso che in passato. Ancora, a loro si rivolgono gruppi di interesse sempre più numerosi; il numero di gruppi con uffici a Washington continua ad aumentare con il crescere di comitati politici di azione ben provvisti di fondi. Coloro che cercano di vedere un lato positivo della faccenda, osservano come il disavanzo fornisca ai legislatori un comodo pretesto per dire di no a molte richieste. « Manca lo spirito di innovazione, l'entusiasmo di trovare una nuova, valida soluzione a un problema nazionale» osserva il senatore Brock Adams, democratico, Wash., funzionario della Camera negli anni 1965-77 « e penso che questa 152

convinzione sia condivisa da un gran numero di persone ».

FRUSTRAZIONE CRESCENTE

L'arduo processo di riduzione del disavanzo ha concentrato la politica di bilancio nelle mani di pochi. Il che ha ancor di più accentuato il senso di frustrazione fra i membri ordinari del Congresso. Sebbene la discussione del problema del bilancio occupi, complessivamente-, gran parte del tempo del Congresso, le decisioni più importanti riguardano stanziamenti generali (omnibus allocations) e provvedimenti di riduzione del disavanzo detti di «conciliazione », per i quali sono i partiti ed i capi delle varie commissioni a decidere cosa includere. A parte qualche eccezione, le commissioni responsabili sono state relegate a « secondi violini », i loro presidenti costretti a cercare di influenzare i leaders dei partiti perché includano il progetto di legge dei loro esperti nei provvedimenti omnibus di fine d'anno. Sebbene in violazione alle norme del Congresso, gli stanziatori tendono più che in passato a far politica essi stessi mediante i progetti di spesa: le innovazioni dello scorso anno per quanto riguarda l'energia ed il divieto di fumare negli aeroplani ne costituiscono validi esempi. Altri membri si sono messi al passo: la competizione per partecipare alle commissioni di bilancio, a quelle preposte a decidere su stanziamenti di fondi e all'elaborazione della normativa fiscale è aumentata di pari passo con il decrescere dell'interesse in alcuni comitati di esperti una volta di grande autorità, come quelli per l'istruzione e la manodopera della Camera:


Il senso di frustrazione dovuto alla politica di bilancio sta straripando, soprattutto in Senato, dove i lunghi dibattiti sulle risoluzioni del bilancio annuale lasciano pcco spazio alla discussione della politica da seguire. Lo scorso anno, rispondendo ad un'inchiesta del Center on Responsive Politics, quasi la metà dei membri del Congresso interpellati ha osservato come tale problema abbia indebolito l'attività politica delle loro commissioni. Due terzi dei senatori si sono espressi in tal senso. Molti membri hanno espresso l'intenzione di opporsi ai provvedimenti omnibus. I governatori, che una volta usavano i loro uffici come trampolino di lancio per il Senato, ora paiono meno entusiasti di trasferirsi a Washington. « Mi sèmbra che vi sia una certa riluttanza, da parte dei governatori, ad andare al Senato » osserva Raymond C. Sheppach, executive director della National Governors' Association - « e la ragione è in parte da attribuire al fatto che essi si chiedono: "a che pro?"... i governatori hanno contatti frequenti con Washington, passano parecchio tempo a Capitol Hill, avvertono il senso di frustrazione, ne parlano ». Il problema di ridurre il disavanzo di bilancio ha fatto di Washington una città che sta sulla difensiva, sia in Congresso che al di fuori di esso. I sostenitori di un progetto passano più tempo a proteggere quanto hanno ottenuto che a cercare di ottenere di più. Essi controllano liste di obiettivi predisposte da enti federali quali il Congressional Budget Office (CB0) e da think tanks e gruppi privati e si organizzano al fine di contrastare le proposte di riduzioni. Invece di prendere in considerazione le proposte relative a cambiamenti di politica, i membri dei

comitati con facoltà di autorizzare le spese, passano più tempo a vigilare le risoluzioni di bilancio cercando di evitare proposte di riduzioni nei programmi delle loro commissioni. Mentre i sostenitori di particolari programmi si apprestano alle battaglie sulla spesa annuale, il processo di riduzione del deficit segue due possibili vie: anzitutto vi sono approcci impostati su formule, che prevedono riduzioni generali della spesa; quale esempio può essere ricordato il Balanced Budget Act del 1985 che rende obbligatorie tali riduzioni se gli obiettivi di contenimento del deficit non vengono raggiunti. In secondo iuogo, i programmi federali, sebbene vengano raramente eliminati del tutto (con la vistosa eccezione del programma di ripartizione generale delle entrate per. $ 4,6 miliardi, abolito nel 1986), sono comunque intaccati, criticati, ridimensionati o erosi anno dopo anno. Si considerino i seguenti esempi per il periodo 1981-87, presentati dal Center on Budget and Policy Priorities: servizi per l'addestramento e f'occupazione: da $ 9,1 miliardi a $ 3,5 miliardi; il Programma di incentivazione del lavoro: da $ 365 milioni a $ 133 milioni; stanziamenti per servizi comunali: da $ 525 •milioni a $ 405 milioni; stanziamenti per lo sviluppo dei comuni: da $ 3,7 miliardi a $ 3 miliardi; alloggi per gli anziani: da $ 797 a $ 508 milioni. Anche se i programmi finiscono con l'ottenere esigui stanziamenti, il fatto di mantenerli in vita è fondamentale per i loro sostenitori, dato il clima attuale. Una volta eliminati, sarebbe pressoché impossibile riavviarli, come hanno potuto constatare i sostenitori di un ripristinato programma di ripartizione delle entrate; se 1 53


invece detti programmi rimangono in vita, vi è sempre una remota possibilità che in un futuro più prospero i fondi possano essere stanziati. « A parte i programmi relativi alla sicurezza sociale, all'assistenza sanitaria e qualche altro importante programma, il Congresso è riuscito a ridurre il disavanzo di bilancio in modo del tutto soddisfacente; ciò però è avvenuto mediante piccole economie diffuse, piuttosto che eliminando interi programmi », osserva Charles L. Schultze, presidente del, Consiglio dei Consulenti economici di Carter e direttore del Bilancio durante il mandato di Johnson.

POLITICA « FISCALIZZATA »

In tutto ciò si avverte soprattutto la mancanza di coraggiose decisioni innovative. Il paese mantiene in vita i programmi esistenti, ma poiché la quota domestica discrezionale (cioè non accantonata per scopi precisi) del bilancio tende a contrarsi in termini depurati dall'inflazio'ne, vi è appena spazio per i nuovi programmi. Di conseguenza, invece di creare, qualcosa di nuovo, si cerca di gestire ciò che si ha. « Ci si deve chiedere: "come possiamo impiegare con più efficacia i fondi a nostra disposizione?" » - osserva Ralph E. Regula, repubblicano, Ohio; membro dell'Appropriations Committee. « Penso che in questo momento siamo chiamati a fornire un governo migliore, e non necessariamente più governo ». La gestione politica, posto che vi sia una effettiva gestione, è ormai « fiscalizzata », osserva Lance Simmens, ex consulente del Senato per il bilancio e ora lobbista per 154

la us Con/erence o! Mayors. I costi, che un tempo erano solo una delle considerazioni presenti nel processo decisionale, sono divenuti il fattore di gran lunga preponderante, se non l'unico. Politiche che alcuni anni fa non godevano di molti sostegni, ad esempio la chiusura delle basi militari o la privatizzazione dei servizi gover-nativi, sono ora' incoraggiate 'in vista della riduzione dei costi che assicurano; altre, che sarebbero invece popolari, vengono accantonate perché giudicate troppo costose. « Penso vi sia una relazione diretta fra la serietà della legislazione e la misura nella quale i principali cosponsors sono disposti a rispettare le restrizioni imposte dal disavanzo » osserva Steven I. Hofman, idirettore del Republican Research Committee dellé Camera. «Quanto minore è la preoccupazione per le restrizfoni, tanto meno seri gli sforzi ». I tentativi di Reagan di privatizzare alcune funzioni federali e di vendere alcune attività, in un primo tempo derisi a Capitol Hill da tutti i membri tranne -i più conservatori, hanno ben presto cominciato ad incontrare tacita approvazione. I principali legislatori, ansiosi di raggiungere gli obiettivi fissati per la progressiva riduzione del disavanzo, accettano con favore crescente la vendita di attività ed i rimborsi anticipati ritenendoli utili strumenti a tal 'fine. In presenza di una spesa per la difesa che continua a crescere ad un tasso inferiore a quello dell'inflazione, e di enormi sistemi di armamenti preventivati nelle spese future, i membri del Congresso sembrano più che mai intenzionati non solo alla chiusura di alcune basi, ma anche a sollecitare gli alleati europei ad assumersi una quota maggiore della di-


fesa comune. Al fine di persuaderli ad aumentare la spesa per la difesa quale percentuale del prodotto nazionale, molti membri del Congresso minacciano il ritiro delle truppe americane dall'Europa occidentale. Il processo di fiscalizatian si intensifica man mano che vengono imposte ulteriori limitazioni di bilancio, di natura legale o morale. Dato che Washington è severamente limitata dalla legge di bilancio 1985 che prevede il rispetto di obiettivi annuali di contenimerito del disavanzo, e da norme che escludono la possibilità di prevedere nuove spese di bilancio a metà anno, il margine di manovra della spesa federale e delle politiche fiscali è molto limitato. La rinuncia alle limitazioni legali comporta dei costi politici. Il presidente del Ways and Means Committee della Camera e quello del Finance Committee del Senato, commissioni entrambe investite del potere di elaborare proposte di normativa fiscale, hanno svolto un ruolo fondamentale al riguardo. Di fronte alla prospettiva di cruente battaglie con quanti cercassero di gonfiare il bilancio, soprattutto nelle discussioni al Senato, dove possono essere invocate questioni di diritto, essi hanno richiesto che i progetti di legge approvati dalle rispettive commissioni siano « neutrali sotto il profilo delle entrate Tale principio, istituzionalizzato dalla diffida di Reagan di impiegare la riforma fiscale (promulgata mediante il Tax Re/orm Act del 1986) per aumentare la imposizione, permise all'allora presidente della Commissione Finanze, Bob Packwood, repubblicano, Oregon, di ottenere più facilmente l'approvazione della. propria versione della riforma fiscale da par-

te della Commissione e dell'intero Senato. Dato che si richiede a chiunque si faccia promotore di uno sgravio fiscale di spiegare in che modo proponga di compensare tale sgravio, il fervore di dette iniziative è fortemente smorzato, considerate le difficoltà di trovare contropartite politicamente accettabili. Attualmente il principio della neutralità sotto il profilo delle entrate ha forse effetti ancor più inibitori ai fini della politica fiscale. Poiché molti dei residui effetti negativi del codice fiscale sono stati eliminati con la legge del 1986, e poiché le deduzioni rimaste in vigore sono troppo popolari per soccombere sotto la spinta . di tale processo, è più che mai difficile ai legislatori eliminare alcuni degli sgravi fiscali esistenti nell'intento di aumentarne o crearne degli altri. Dal lato della spesa, la ricerca di mezzi per finanziare i nuovi programmi può risultare altrettanto stressante. Le proposte che si risolverebbero in una perdita netta per il Tesoro vengono subito respinte da molti come irrealistiche. Per fare un esempio: nel 1978 il Congresso respinse un progetto di legge per la riforma del sistema assistenziale avanzato da Carter che si riteneva avrebbe fatto aumentare di $ 17,4 miliardi i costi federali nell'esercizio finanziario 1982. Un anno dopo, il presidente propose un progetto di legge « ridimensionato » che sarebbe' costato solo $ 5,7 miliardi. Adesso, dopo nove anni fortemente dominati dall'inflazione, un progetto di legge per l'assistenza all'infanzia per $ 2,5 miliardi, presentato alla Camera e al Senato, è considerato da più parti come decisamente troppo costoso. I nuovi programmi' attuali? Sul fronte 155


interno, se approvati, essi tendono a partire soio da $ 10, 100 e forse 500 milioni se considerati effettivamente di grande necessità. Dopo l'approvazione, persino le voci più pressanti non si sottraggono ai tentativi di tagli al bilancio. L'anno scorso, non appena il Congresso autorizzò una spesa di $ 442 e $ 616 milioni per aiutare i senzatetto rispettivamente nel 1987 e nel 1988, subentrarono immediatamente considerazioni di finanza pubblica. Sebbene il livello autorizzato fu più o meno rispettato nel 1987, nel 1988 furono stanziati solo $ 361 milioni; i sostenitori del progetto sperano di ottenere stanziamenti supplementari nel corso dell'esercizio finanziario 1988. Dovendo rispettare obiettivi annuali di contenimento del disavanzo, è difficile fare approvare programmi di investimen. to. Ed anche proposte che potrebbero consentire risparmi in un secondo tempo, come ad esempio nel caso di programmi di assistenza all'infanzia, possono risultare problematiche se prevedono per il primo anno un investimento di « denaro fruttifero » ( seed money). Pur facendo molta attenzione ai costi ed ai risparmi degli anni futuri, Washington pianifica su base annuale. Una pianificazione di bilancio pluriennale, spesso invocata come un utile mezzo per rendere più agevole il funzionamento del Congresso, potrebbe schiudere nuove possibilità nella gestione politica, ove si rinunciasse al principio del rispetto degli obiettivi annuali di bilancio. Il paradosso della politica del deficit è stato evidenziato in una recente lettera del presidente del Ways and Means Committee, Dan Rostenkowski, democratico, Illinois, al presidente della Commissione Bilancio della Camera, William H. 156

Gray III, democratico. Mentre in Congresso i negoziatori si preparavano a discutere una risoluzione relativa al bilancio per l'esercizio 1989, Rostenkowski espresse la propria preoccupazione riguardo ad una disposizione nella risoluzione del Senato che richiedeva che le misure assistenziali in discussione fossero neutrali, sotto il profilo delle entrate, in ciascuno dei successivi tre anni, piutto. sto che nel triennio complessivamente considerato. Spesso considerazioni di ordine politico rendono impossibile equilibrare esatta mente in ciascun anno il flusso finanziario in entrata e in uscita » scriveva il 21 aprile Rostenkowski « quantomeno, se l'approccio del Senato verrà adottato, si dovrà applicare una formula flessibile, per consentire che il principio della neutralità di bilancio riguardi l'esercizio finanziario 1989 e si applichi ad un triennio e non a ciascun anno ». D'altra parte, nel caso di programmi già in essere, la prospettiva di risparmi nel lungo periodo può indurre ad aumenti di spesa. E' appunto questa la giustificazione offerta nel caso dell'aumento di spesa per il programma di assistenza alle donne, all'infanzia e ai bambini (Programma Wic), che prevede assistenza alimentare alle donne in stato di gravidanza, ai neonati e ai bambini, e nel caso del programma Head Start, per l'assistenza ai bambini bisognosi in età prescolare e ai loro genitori. Entrambi i programmi, a detta dei loro sostenitori, permetteranno in futuro di economizzare parecchi dollari per ciascun dollaro investito in termini di ridotti costi sociali. Insieme ad altri programmi per cittadini a basso reddito, il programma Wic è stato approvato in un recénte


studio della Commissione per lo Sviluppo Economico, organo di ricerca dei rappresentanti degli imprenditori e degli insegnanti. Nonostante le pressioni gravanti sulla spesa discrezionale, gli stanziamenti per il Wic sono stati aumentati da $ 900 milioni nell'esercizio 1981 a $ 1,7 miliardi nel 1987, mentre quelli per l'Head Start sono passati da $ 814 milioni a $1,1 miliardi. Perché le iniziative dei lobbisti siano efficaci è ora necessario dimostrare la possibilità di realizzare tali risparmi nel lungo periodo. E' altresì necessario che le richieste di aumenti di spesa siano ridimensionate e riguardino pochi programmi ben selezionati. Oggigiorno gli elenchi di richieste straboccanti, spesso accettati -negli anni Settanta, allorché l'inflazione generava crescenti entrate federali, non vengono presi seriamente in considerazione. Rispetto al 1981, quando i primi tagli apportati da Reagan ridussero drasticamente il numero dei beneficiari dell'as• sistenza medica gratuita, il terreno perduto è stato in parte riguadagnato gra zie a richieste « mirate », concentrate in particolari settori. Nel caso delle donne in stato di gravidanza e dei bambini di età inferiore agli Otto anni, il programma di assistenza medica è stato ristrutturato in modo da coprire milioni di soggetti che prima del 1981 non avevano diritto a tale assistenza. «Quando si espongono le proprie tesi ai membri del Congresso è importante evidenziare in modo realistico le priorità », fa osservare Elleri Nissenbaum, direttore legislativo del Center on Budget and Policy Priorities. «Non ci si presenta con 25 programmi... ma piuttosto

con programmi mirati, efficaci e preventivi che pensiamo debbano corrispondere alle loro priorità ». Persino i più accaniti sostenitori di una politica di spesa ammettono che vi è un lato positivo in tutto ciò: dal momento che i programmi sono oggetto di un così attento scrutinio, gli sprechi sono più difficili da giustificare. La soppressione del programma di ripartizione generale delle entrate è dipesa dalla sua formula allocativa, in base alla quale anche le più ricche località - come Beverly Hills e Montgomery Country, ad esempio - ricevevano aiuti. Tuttavia troppo spesso le decisioni sui livelli di spesa dipendono da norme arbitrarie. I programmi discrezionali sono ripartiti fra 13 sottocornm.issioni per gli stanziamenti. E poiché ciascuna di esse riceve, di solito, all'incirca lo stesso aumento annuale, la vera competizione per l'aggiudicazione degli stanziamenti non è fra le sottocommissioni, ma al loro interno. Pertanto, anche se tutti i programmi che dipendono da una data sottocommissione meritano forti aumenti annuali, è sicuro che non tutti potranno ottenerli. Per converso, se all'interno di un'altra sottocommissione non vi è neppure un programma meritevole di aumento, non vi è dubbio che qualche programma fruirà ugualmente dell'aiuto.

STRATAGEMMI E TRUCCHI

In presenza di tutti questi ostacoli legali, morali e procedurali, la Casa Bianca, il Congresso e gli interessi privati che sperano di gestire la politica in un clima « fiscalizzato » sono ricorsi ad un certo numero di strategie. La più diret1 57


ta è quella di approvare leggi che non provochino un aumento del disavanzo, sia perché sono effettivamente neutrali, sia perché operazioni di ingegneria contabile permettono di farle apparire tali. In nome di un'effettiva neutralità sotto il profilo delle entrate, i sostenitori di progetti costosi cercano di finanziarli proponendo contropartite, sotto forma di aumenti della tassazione o di riduzioni della spesa. I progetti assistenziali, attualmente all'esame della Camera e del Senato prevedono che la copertura delle spese dovute ad un più vasto programma di addestramento professionale, di istruzione e di assistenza all'infanzia, avvenga mediante la concessione di maggiori poteri all'Internal Revenue Service per recuperare i crediti dovuti da mutuatari federali insolventj e mediante una graduale riduzione degli sgravi fiscali per l'assistenza ai minori nel caso di contribuenti ad elevato reddito. Per quanto riguarda i trucchi, che dire della risposta di Washington alla crisi delle tri/t institutions e degli istituti di credito agricolo? L'anno scorso i policy makers crearono un ente separato, il cui finanziamento non appare nel bilancio, in grado di reperire fondi a Wall Street per provvedere al salvataggio delle trift institutjons in difficoltà e di rimborsare il denaro tassando le tri/t institutjons in buone condizioni. Se gli stessi poteri fossero invece stati conferiti alla Federal Savings and Loan Insurance Corporation, il suo indebitamento sarebbe apparso nel bilancio, aggravandone il disavanzo. Analogamente, nel caso del programma di salvataggio degli istituti di credito a158

gricolo, approvato dal Congresso Io scorso dicembre, venne creata una società che raggruppava tutti i prestiti per l'edilizia rurale e vendeva tutti i titoli. Un programma del Senato fu respinto soprattutto perché nel 1988 avrebbe comportato una spesa di $ 2,5 miliardi. Invece, il piano appròvato non comporterà alcuna spesa nel 1988, una spesa di circa $ 200 milioni nel 1989 e di $ 870 milioni in un quinquennio. La teoria della neutralità di bilancio ha favorito l'emergere di strategie preoccupanti ed individualistiche. Ciascuna di esse rappresenta una minaccia per il principio di un bilancio federale unificato e, di conseguenza, potrebbe rendere ancor più difficile ridurre il disavanzo di bilancio nel corso dei prossimi anni. Una strategia, che figura spesso nei progetti di legge relativi all'assistenza sanitaria, prevede che determinate fonti di entrata atte a coprire l'aumento della spesa siano destinate esclusivamente a tale scopo. Ma la prassi di accantonare fondi con lo scopo preciso di coprire determinate spese, può interferire con il programma di riduzione del disavanzo: alle richieste di « condividere i sacrifici » i sostenitori di questi nuovi programmi potrebbero obiettare: « perché noi? » e sostenere che, dal momento che i programmi da essi proposti non contribuiscono al disavanzo, non si vede per quale ragione essi debbano essere colpiti da una riduzione degli sgravi fiscali o da un aumento dell'imposizione. L'autunno scorso, una proposta per l'eliminazione dal bilancio dei fondi dell'aviazione fu respinta di stretta misura dal. la Camera (197 voti contro 202) e so-


lo grazie all'opposizione di un Bud,get and Appropriations Committee molto attento ai problemi del disavanzo. I vari taggi politici di una tale politica non furono mai più evidenti dell'aprile scorso, allorché i senatori, nel discutere il bilancio per l'esercizio finanziario 1989, adottarono risoluzioni non vincolanti per eliminare dal bilancio i fondi delle autostrade e dell'aviazione, insieme con il servizio postale USA e gli enti di regolamentazione finanziaria. « Se continuassimo ancora per 10 anni a proporre e ad adottare norme autofinanziantisi; avremmo un settore pubblico molto diverso », osserva Robert D. Reischauer, senior fellow presso la Brookings Institution, in passato vice direttore del Cno. Il principio degli aècantonamenti delle entrate per un fine preciso comporta quantomeno un altro rischio: quello di avvantaggiare programmi con fonti di entrata prestabilite - come ad esempio quelli per l'assistenza agli anziani, finanziati con le imposte sul salraio - a scapito di altri. Aumentare tali imposte per destinarle agli stessi beneficiari sembra quasi naturale, ma, come osser.va Robert Greenstein, del Center on Budget and Policy Priorities, « è molto più difficile trovare programmi autofinanziantisi quando si tratta, ad esempio, di assistenza all'infanzia ».

IL TRASFERIMENTO DEGLI ONERI SU ALTRI

Dato che le politiche di spesa e della tassazione incontrano severe limitazioni, la regolamentazione è divenuta uno strumento di politica più attraente. Washing-

ton scarica oneri e responsabilità sulla comunità imprenditoriale, sui governi statali e su quelli locali, sia delegando alcune iniziative sia semplicemente facendo sì che essi divengano i destinatari naturali delle richieste dei sostenitori di determinati progetti. La comunità imprenditoriale rischia di venir sommersa da una valanga di mandati, ordini, deleghe. Un progetto di legge approvato nel 1986 prevede che i datori di lavoro continuino ad assicurare agli ex dipendenti e alle loro famiglie l'assistenza sanitaria per un periodo di 18-36 mesi dal cessato rapporto di lavoro. Le proposte di mandati in campi diversi' da quello dell'assistenza sanitaria as sumono le forme più svariate. Il progetto di legge sul commercio conteneva una disposizione che provocò un veto presidenziale (essa prevedeva che i datori di lavoro comunicassero ai dipendenti la chiusura degli impianti con un preavviso di 60 giorni). L'Education and Labour Committee della Camera ha approvato una legislazione che prevede 1' aumento del salario minimo. Anche a livello statale e locale si avverte il clima di ristrettezze, sia per commissione che per omissione. Parlando della normativa sui problemi dell'ambiente, un consulente della Camera ha osservato: « Da tempo alcuni incarichi vengono delegati ai comuni e agli stati, di solito ciò comportava l'assegnazione di una certa quantità di fondi, adesso il volume di tali fondi, già insufficiente, viene ancora ridotto ». I programmi assistenziali in corso di approvazione costringerebbero gli stati a fornire una certa copertura finanziaria 159


nel caso di famiglie composte di due genitori in base al programma di assistenza alle famiglie coi figli a carico. L'amministrazione Reagan propone un netto aumento dei contingenti di profughi accettati nel paese, senza peraltro prevedere un parallelo aumento degli aiuti federali; si tratta di un provvedimento che stati molto sensibili al problema, come ad esempio la California, considerano una minaccia per i propri programmi assistenziali. I governi statali e locali stanno già bari collando sotto il peso dei nuovi limiti che il governo federale ha posto alla loro capacità di raccogliere entrate. L'espansione delle imposte indirette causata dal deficit rende politicamente più difficile agli stati attingere a nuove fonti. L'introduzione di un'imposta nazionale sulle vendite, discussa come una possibilità da attuare una volta terminato il mandato di Reagan, incontrerebbe le stesse difficoltà. Nel corso degli anni Ottanta numerose norme fiscali federali hanno ridotto notevolmente i finanziamenti esentasse dei governi statali e locali e la Corte Suprema ha recentemente de•retato che l'esenzione fiscale a livello municipale è un privilegio, non un diritto. Dato che è probabile che i problemi finanziari del governo continuino, è prevedibile che i tentativi, a livello federale, di passare ad altri il problema, si intensifichino. Resta di vedere se la comunità 'imprenditoriale, ed i governi statali e locali, potranno distogliere Washington da un tale corso.

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RISALENDO AGLI ANNI SETTANTA

« Il Governo - ha dichiarato il Presidente - non può risolvere i •nostri problemi. Non può fissare i nostri obiettivi. Non può definire i nostri orizzonti. Il Governo non può eliminare la povertà o assicurare un'economia prospera, non può ridurre l'inflazione o salvare le nostre città ». No, non può, soprattutto adesso che l'attenzione del Governo è rivolta a risparmiare piuttosto che a spendere. Ma per quanto queste parole ben si adattino al clima di forte preoccupazione per il disavanzo degli anni Ottanta, non sono state pronunciate da Ronald Reagan, ma del suo predecessore, nel 1978. Esse rispecchiano quello che Arthur M. Schlesiriger Jr., nel suo libro The Cycles o! Amencan History ha definito « l'eccentrico tentativo di Jimmy. Carter di riportare il partito democratico ai tempi di Grove Cleveland ». Se è vero che i massicci disavanzi degli anni Ottanta hanno alimentato una precisa cultura, nondimeno le origini di tale cambiamento sono da ricercare più indietro nel tempo, quando l'idea di ciò che un governo potesse ragionevolmente esser chiamato a fare stava cambiando, e i disavanzi di bilancio perdevano credito come strumenti legittimi di politica fiscale. Le mere cifre possono spiegare solo in parte il nuovo clima. Certo, nella seconda metà degli anni Settanta i disavanzi di bilancio assunsero proporzioni maggiori che in passato, passando da $ 41,1 miliardi a $ 73,8 miliardi nel periodo 197-80. Prima di allora, occorre risalire alla seconda guerra mondiale per trovare un disavanzo di $ 30 miliardi.


Ma in realtà i disavanzi tendevano a diminuire per gran parte del mandato di Carter, sia in dollari, sia in percentuale al prodottò nazionale lordo. Il clima, però stava cambiando. La crisi finanziaria di New York City verso la metà degli anni Settanta è stata spesso citata come un primo sintomo dei problemi che sarebbero emersi successivamente a livello federale e la rivolta contro le tasse statali riflettevano l'ostilità nei confronti della politica del Big

Government. Nel suo programma presidenziale, Reagan incluse i disavanzi fra le afflizioni economiche del paese e di fronte al crescere dell'inflazione altri lo imitarono. A quel punto, l'inflazione era alquanto elevata - ricorda il già citato Robert Greenstein - e vi era un certo consenso fra gli economisti che seguivano la corrente a vedere nelle proporzioni assunte dal deficit la causa dell'inflazione». Verso la fine degli anni Settanta, il cambiamento era evidente. I lobbisti, che una volta davano quasi per scontati aumenti generali della spesa, ridimensionavano le loro richieste. Altri, che insistevano sulle loro posizioni, si trovarono ben presto esclusi dalla tendenza generale. In occasione di una seduta della Commissione bilancio della Camera, ricorda Wendell Belew, ex consigliere principale della commissione, un gruppo di coalizione sollecitò un programma di lavori pubblici che comportava una spesa di circa $ 40 miliardi e la relazione dei membri della commissione fu di pura incredulità. Considero quel momento la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. I membri della commissione commentava-

no fra loro « Questa gente non si ren de conto dell'atmosfera ». In occasione della stessa seduta, Marian Wright Edelman, presidente del Fondo per la difesa dell'infanzia, rinunciando a presentare un lungo elenco di richieste, puntò decisamente su alcune, tutte comprese nel bilancio di Carter e tutte « entro limiti ragionevoli » ed inoltre « mostrò di rendersi conto del clima di lotta al deficit, proponendo alcune economie. Si tratta dello stile che ha avuto più successo negli ultimi tempi ». Le amministrazioni Ford e Carter fecero anch'esse attenzione ai nuovi tempi. Nel 1975, il Presidente Ford mise in guardia contro « gli immensi disavanzi inflazionistici », annunciando che non avrebbe accettato nuovi programmi, eccezion fatta per il settore energetico. Durante il suo mandato, .durato due anni e mezzo, egli pose il veto a 66 progetti di legge, spesso invocando motivi connessi al disavanzo. Quattro anni dopo, allorché era in carica un nuovo Presidente, il messaggio cambiava solo nel tono: « Se gli anni Sessanta sembrano un periodo di espansione illimitata, gli anni Settanta devono essere considerati un periodo in cui sono necessari il contenimento della spesa e il consolidamento, un periodo in cui far funzionare i programmi degli anni Sessanta », osservava Stuart E. Eizenstat, consigliere principale di Carter per la politica interna, in un discorso del gennaio 1979. In risposta alle pressioni esercitate quell'anno dal senatore Edward M. Kenriedy, democratico, che presentò un programma di assistenza sanitaria nazionale per $ 29 miliardi all'anno, Carter offrì un piano più modesto che comportava 161


una spesa di $ 18 miliardi. «Eravamo già in una fase in cui non potevamo più fare quello che volevamo » ha osservato recentemente Eizenstat. I mercati finanziari costituiscono un fattore di limitazione. Quando, all'inizio del 1980, Carter inviò a Capito! Hill il suo bilancio per il 1981, che prevedeva un disavanzo, all'epoca sconvolgente, di $15,8 miliardi, il mercato obbligazionario ne fu scosso, provocando una impennata dei tassi di interesse. I consulenti della Casa Bianca e i leaders del Congresso si consultarono per tre settimane, elaborando provvedimenti di riduzione della spesa per ripristinare la fiducia. « I mercati finanziari letteralmente impazzirono - ricorda Darwin G. Johnson, ex capo del settore per l'analisi fiscale dell'Oftice of Management and Budget -. Si trattava di una effettiva mancanza di fiducia nel governo. Ma è difficile, considerando le cifre del disavanzo, dire che esse erano spropositate ». Sebbene i semi furono piantati alla fine degli anni Settanta, la cultura si sviluppò con i disavanzi emersi durante il mandato di Reagan. Nel 1981 gli sgravi fiscali e l'aumento della spesa per la difesa, insieme ad un imprevisto forte calo dell'inflazione, produssero un enorme umento del disavanzo, che giunse a $ 200 miliardi. Ben presto le accanite discussioni sulla tassazione e la spesa, che si riflettevano nelle risoluzioni di bilancio, divennero la norma fra i partiti politici e fra la Casa Bianca e il Congresso. Verso la metà degli anni Ottanta la spesa per la difesa si arrestò, dato che anche il Pentagono fu sottoposto ad un esame insolitamente attento nel .quadro 162

di una generale riduzione della sua spesa. 1.1 Balanced Budget Act del 1985, riconfermato nel 1987, rappresenta al contempo una svolta ed un punto di massima: non solo le norme per la riduzione del disavanzo divenivano più severe al fine di raggiungere un determinato obiettivo annuale, ma davano altresì la misura della spesa possente che il problema del disavanzo ha su tutta Washington.

COME DISTRICARSI ATTRAVERSO UN LABIRINTO

Di

REALTÀ FISCALI

Centinaia di privati, imprese e gruppi stanno aspettando che il Congresso risolva i difficili tentativi di approvare in tempo, cioè prima dell'inizio dell'anno fiscale, la legge finanziaria. A Washington sono tutti imprigionati nel nuovo labirinto di realtà fiscali. Un labirinto nel quale il principio morale e legale della neutralità sotto il profilo delle entrate ha fatto scattare una disperata ricerca di contropartite finanziarie da proporre nel caso di progetti che comportano una perdita di entrate e nel quale le stesse fonti di finanziamento vengono contese fra i legislatori che portano avanti idee differenti. Sono in gioco non solo migliaia di «re visioni tecniche » al Tax re/orm Act del 1986 (ad esempio, l'eliminazione degli errori tipografici) la cui assenza ha creato problemi per i contribuenti, ma anche i tentativi di prolungare la durata di disposizioni politicamente ben accette del codice di normativa fiscale che altrimenti dovrebbero decadere quest'anno, di far approvare sgravi fiscali eliminati dal bilancio 1987 su richiesta della Casa Bianca, di considerare propo-


ste incluse nell'esercizio finanziario 1989 del Presidente Reagan, di risolvere il problema del carburante diesel e di eliminare effetti indesiderati della normativa del 1986 che stanno ora diventando evidenti. Il presidente del Ways and Means Committee della Camera, Dan Rostenkowski, democratico, Illinois, •ha recentemente avvertito i membri della Commissione sui fatto che soddisfare tutti comporterebbe un costo di circa $ 14 miliardi in un triennio, somma che dovrebbe essere compensata interamente con altre modifiche fiscali o con riduzioni della spesa. Anchè se queste proposte fossero adottate, non è sicuro che Reagan accetterebbe gli aumenti dell'imposizione fiscale votati per assicurare la neutralità del progetto. Le prospettive che una legge di bilancio sia. adottata entro l'anno sono scarse. Pochi obietterebbero ad un provvedimento inteso soprattutto ad apportare correzioni tecniche, ma molti non lo lascerebbero passare senza volervi aggiungere le richieste alle quali tengono di più. Ma l'accettazione di queste ultime dipenderà più da come verranno finanziate che dalla loro popolarità o dai vantaggi che apporterebbero alla pòlitica fiscale del paese. Il problema emerse per la prima volta alla fine dell'anno scorso. Quando, il 19 ottobre, il mercato azionario crollò, praticamente garantendo che il Congresso avrebbe emanato un grosso pacchetto di provvedimenti per ridurre il disavanzo di bilancio allo scopo di calmare i mercati, il Ways and Means Committee aveva già adottato un aumento fiscale per $12 miliardi: $ 14 miliardi di aumenti delle tasse e $ 2 miliardi di concessioni comportanti una perdita di entrate che

i presidenti delle commissioni con potere di formulare la normativa fiscale spesso distribuiscono accuratamente per assicurarsi l'appoggio dei membri del Congresso. Quando il crollo del mercato azionario spinse i consulenti della Casa Bianca a negoziare con i leaders del Congresso, si raggiunsero accordi che prevedevano un aumento della tassazione per $ 9 miliardi nell'esercizio 1988 e di $ 14 miliardi nel 1989, ma ad una condizione: che non vi fossero concessioni... Rostenkowski non era soddisfatto, ma accettò. Nel corso di tali trattative, Rostenkowski ebbe anche uno scontro con la Casa Bianca riguardo ad una proposta di accelerare i pagamenti delle imposte societarie e considerarli come fondi destinati al perseguimento degli obiettivi di bilancio. La sua tesi era che, poiché il denaro sarebbe stato pagato in ogni caso, non si trattava di un'effettiva riduzione del disavanzo. Quando i negoziatori concordarono nel cambiare il siste ma di pagamento di quelle imposte in modo da incamerare subito metà degli introiti potenziali a breve termine, i legislatori pensarono che l'altra metà sarebbe stata attinta in futuro, quando il Congresso avrebbe provveduto ad approvare concessioni o a prorogare alcune di-. sposizioni giunte a scadenza. Tuttavia questa previsione, come pure altre, si rivelò poco fondata nell'anno in corso, di fronte alla ricerca affannosa di contropartite finanziarie da parte dei legislatori. Mentre i senatori degli stati agricoli presenti nella Commissione Finanze cercavano di ottenere una revoca della legge sul diesel che avrebbe avuto effetto dal 1° aprile, David Pryor, democratico, Ark., sostenne la necessità di isti163


tuire un codice dei diritti del contribuente, che anch'esso avrebbe comportato certi costi, presumibilmente perché l'Internal Revenue Service (IRs) avrebbe dovuto limitare i suoi sistemi esattoriali. Quale contropartita dell 'abrogazione della legge sul diesel e de.l costi del codice del contribuente, la Commissione Finanze optò per una riduzione dei crediti di imposta sui distillati, un aumento della cosiddetta imposta sugli « sprechi di carburante », per le auto che non rispettano gli standards legali per economizzare carburante, e la proroga di un anno di una legge che consente all'IRs di ridurre i rimborsi fiscali, nella misura in cui i privati e le imprese insolventi sono debitori delle agenzie federali. L'estensione dei poteri dell'IRs ha sollevato alcuni problemi. Un provvedimento di riforma assistenziale. adottato dalla Camera lo scorso anno doveva essere finanziato in parte prorogando per tre anni la legge sui rimborsi di cui sopra; ma adesso il progetto di legge della Commissione Finanze aspira a disporre della stessa fonte di, reddito. Dato che le preoccupazioni per la perdita di competitività degli Stati Uniti rappresentano un problema largamente condiviso, l'Amministrazione e molti mem-

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bri vogliono prorogare i crediti di imposta per la ricerca e lo sviluppo che dovrebbero scadere il 31 dicembre 1988 ed estendere gli sgravi fiscali per la ricerca e lo sviluppo alle imprese con reddito proveniente dall'estero. Altri legislatori sperano di prorogare la normativa sui crediti di imposta per favorire 1' assunzione di soggetti bisognosi, anch'essa destinata a scadere il 31 dicembre. Se il Congresso si dedicherà seriamente al problema della formulazione della normativa fiscale quest'anno è probabile che i risultati saranno ispirati al principio della neutralità, almeno secondo le previsioni del Joint Tax Committee. Se tale coscenziosità abbia un senso è questione opinabile. Secondo recenti stime, il Tax Re/orm Act del 1986, redatto tenendo ben presente il rispetto del principio della neutralità per un quinquennio, comporterà probabilmente un costo di $5 miliardi durante tale periodo, sebbene occorra tener conto del fatto che, in base alle proiezioni del Con gressional Budget Oflice, le entrate degli anni successivi compenseranno abbondantemente questa perdita. Come si vede, nonostante l'impegno dei tecnici del Congresso, la valutazione delle entrate rimane un affare complicato.


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